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Italian Pages 376 Year 2015
L’arme segreta Araldica e storia dell'arte
nel Medioevo (secoli XIII-XV) a cura di
Matteo Ferrari introduzione di
Alessandro Savorelli
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L’arme segreta Araldica e storia dell’arte nel Medioevo (secoli XIII-XV)
a cura di Matteo Ferrari con la collaborazione di Alessandro Savorelli e Laura Cirri
introduzione di Alessandro Savorelli
Le Lettere
Questo volume, nel suo nucleo principale, è il risultato delle giornate di studio L’arme segreta. Araldica e storia dell’arte nel Medioevo (secoli XIII-XV), tenutesi tra Firenze e Pisa il 25-26
novembre 2011, e organizzate dal Kunsthistorisches Institut in Florenz e dalla Scuola Normale Superiore di Pisa, sotto la direzione scientifica di Jan Simane (KHI, Firenze), Laura Cirri
(ATH), Maria Monica Donato e Alessandro Savorelli (SNS, Pisa). Si ringraziano quanti hanno partecipato a quell’incontro e contribuito alla sua realizzazione, ma non figurano tra gli autori di questo volume: Tiziana Barbavara di Gravellona, Fabio Beltram (SNS, Pisa), Luigi Borgia (ATH), Anette Creutzburg (KHI, Firenze), Vieri Favini (ATH), Francesca Fumi Cambi Gado, Riccardo Greco (SNS, Pisa), Lisa Hanstein (KHI, Firenze), Piero Marchi (Archivio di Stato, Firenze), Niccolò Orsini de Marzo, Renzo Ragghianti (SNS, Pisa), Jan Simane (KHI, Firenze). Un ringraziamento speciale va infine a Monia Manescalchi (SNS, Pisa), il cui aiuto è stato come sempre prezioso.
SCUOLA NORMALE SUPERIORE
Kunsthistorisches Institut in Florenz
Max Planck-Institut
Copyright © 2015 by Casa editrice Le Lettere — Firenze ISBN 978 88 6087 664 5
www.lelettere.it
Per Maria Monica Donato
Il cammino che porta ora alla pubblicazione di questo volume è iniziato nell'ormai lontano autunno 2010 quando Monica Donato accolse la proposta di Alessandro Savorelli di organizzare un convegno consacrato al tema del contributo portato dagli studi araldici alla conoscenza dell’arte medievale. Il convegno si tenne l'autunno seguente, in due gior nate, tra Firenze e Pisa, dopo una messa a punto in cui l'apporto scientifico di Monica fu determinante. Fedele al suo spirito curioso e attento al potenziale conoscitivo assicurato all’avanzamento della disciplina dalle scienze, anche a suo avviso, spesso a torto giudicate ausiliarie — note sono le sue escursioni nella paleografia, nell’epigrafia, nella numismatica... — Monica abbracciò con entusiasmo l'iniziativa, senza tuttavia celare qualche moti-
vo, del tutto giustificato, di apprensione. Da un lato, infatti, era la prima volta che una manifestazione scientifica dedicata all’araldica era accolta in modo ufficiale, in Italia, in sedi blasonate — è proprio il caso di dirlo — per la ricerca nel campo delle discipline umanistiche e, in particolare, della storia dell'arte. Parliamo di sedi, al plurale, perché la validazione scientifica del progetto da parte di Monica Donato certamente facilità l'associazione all’organizzazione del convegno del Kunsthistorisches Institut di Firenze, trovando nelle persone di Jan Simane e di Lisa Hanstein due interlocutori attenti e interessati; l'intervento loro e del loro istituto permise
allora di dare concretezza alla prima giornata, fiorentina, di quel convegno: iniziato sotto gli affreschi araldici di Palazzo Davanzati, proseguì nelle sale di Palazzo Grifoni, prima di trasferirsi alla Scuola Normale di Pisa, nel Palazzo della Carovana, un’altra sede carica di te-
stimonianze araldiche ora studiate da Laura Cirri (), che di quell’impresa fu ponte di collegamento tra le istituzioni coinvolte. Dall’altro Monica temeva per il livello scientifico degli interventi, consapevole del fatto che il diniego con cui l’araldica era stata da sempre trattata, forse più in Italia che altrove, da parte degli storici e degli storici dell’arte ne aveva consegnato lo studio ad appassionati “cultori della materia”, non sempre dotati della formazione e del piglio critico necessari a una riflessione solida e documentata. Non fu comunque difficile convincerla ad accogliere tra i partecipanti anche qualche esponente proveniente da questo mondo “non ufficiale” della ricerca, perché si voleva per l'appunto mostrare quanto gli appassionati più avveduti stavano dando all'avanzamento degli studi e portare così i risultati da loro conseguiti alla conoscenza degli “addetti ai lavori”. Sul versante opposto, Monica volle che fossero chiamati a contribuire anche storici dell’arte, giovani e meno giovani, che senza essersi mai dedicati specificatamente agli studi araldici, avevano incontrato e analizzato stemmi sugli oggetti che avevano studiato: manoscritti, campane, pitture murali.
Da questo incontro tra esperti del settore — con un deciso contributo del mondo francese che alla nouvelle héraldique ha dato i natali — e neofiti delle due discipline, già nei
mesi di preparazione del convegno e, poi, durante le sedute fiorentine e pisane nacque un vivace dialogo e uno scambio che abbiamo cercato di riprodurre nelle pagine di questo volume. Questo, infatti, non si presenta e non vuole essere una raccolta di atti di convegno. È stato piuttosto concepito come un volume miscellaneo che, da un lato, si alimenta di una buona parte delle relazioni presentate in occasione di quella felice assise, dall'altra si arricchisce di nuovi contributi di persone che a quel convegno avevano solo assistito 0 che, nei lunghi mesi di gestazione dell’opera, hanno cominciato o proseguito a lavorare sotto la direzione di Monica Donato anche su temi araldici: stimolati da lei a guardare in modo diverso e problematico quei segni da altri colleghi ignorati, hanno trovato in queste pagine il luogo ideale per esporre i risultati delle loro ricerche. Ci è dunque sembrato opportuno che questa raccolta si aprisse con il contributo che Monica Donato aveva preparato per il convegno e che il rapido decorso della malattia le ha impedito di rivedere e portare a termine per la pubblicazione. Il suo testo si presenta come una seconda introduzione, non metodologica ma già pienamente ancorata al tema
che qui si dibatte, quello delle informazioni che le “arme” possono fornire allo storico dell’arte: non tanto, o non soltanto, quali indicatori cronologici e di committenza, ma
spie capaci di illuminare il senso di quel proliferare di insegne che le città tardo medievali conobbero e, allo stesso modo, di trasmettere le impressioni e le reazioni che la loro visio-
ne suscitava. Per raggiungere questo obiettivo, Monica aveva deciso di coniugare l’analisi degli oggetti “araldici” — che della prima sezione del presente volume sono poi divenuti il tema — con quella degli scritti “sugli stemmi”, che nella loro interazione con le figure costituiscono la materia della seconda sezione del volume. Monica non guardò tanto ai trattati, che pure conosceva in modo approfondito, ma alle disposizioni normative, alle novelle e ai sermoni, quelle fonti insomma più fresche e spontanee che ci restituiscono, in modo più diretto, le reazioni suscitate da quel pullulare di insegne su quanti vivevano gli spazi delle città medievali. Abbiamo deciso di riproporre il suo testo così come ce l’ha lasciato, interrotto. Privo
di una conclusione, presenta ai lettori di questo volume un invito a proseguirne la lettura, passando in rassegna i contributi qui raccolti, e soprattutto a portare avanti le ricerche
lungo le piste qui tracciate. Alla memoria di Monica è naturalmente dedicato questo volume. I
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L'ARME SEGRETA. UN’INTRODUZIONE Alessandro Savorelli
Arme, arma (armi al plurale) era la dizione, fino in avanzata età moderna, di ciò
che poi si è cominciato a chiamare in Italia, con non felice grecismo, sterzzza. Il vocabolo greco, otéupa, ossia corona, di gusto classicista, è inequivocabile
sinonimo di una decorazione e quindi il distintivo di una gerarchia nobile: e non è un caso che sia stato adottato quando la nobiltà si era definitivamente conquistata all’interno dello Stato moderno un preciso status giuridico cui corrispondeva un complesso rituale iconico. Il vocabolo arcaico, arme 0 arma,
aveva invece il pregio di ricordare l’origine militare e funzionale della figura o delle figure dipinte su//o scudo del cavaliere medievale, uso che, nei modi della raffigurazione araldica, è attestato almeno dal XII secolo: e con tale curvatura semantica ha resistito nelle altre lingue europee (ares, armories, armas, coat of arms, Wappen). A partire da questo arcaismo linguistico, il lettore non avrà faticato a comprendere il gioco di parole che si cela nel titolo di questo volume. Gioco di parole a due livelli di senso, giacché a prima vista può sembrare si parli di uno stemma o arme “segreta”, indecifrata, per chi l’osservi, come se nascondesse qualcosa:
non esordiva forse il manuale del più famoso trattatista di araldica del Seicento, la Méthode du blason di Claude-Frangois Menestrier!, promettendo di svelare i «mystères les plus cachez» degli stemmi? Ma in realtà con quel gioco di parole si intende qui la formula corrente o modo di dire, comune a tutte le lingue, allusiva a un ordigno bellico che sorprende il nemico, ne frantuma le difese, scompigliandone i piani e forse lo costringe alla resa; o più quotidianamente, per traslato, a un marchingegno, un trovato, un espediente pratico o una risorsa personale, che ci semplifica un problema o ci risolve una situazione togliendoci d’imbarazzo. Fuor di metafora, lo storico e, in particolare, lo storico dell’arte sanno bene che
gli apparentemente oscuri segni dell’araldica possono diventare nel loro lavoro, se interpretati in modo corretto, un’“arma segreta”: in mancanza di altri elementi di riferimento (o incrociandoli), essi consentono di collocare nel tempo e nello spa-
! C.-F MENESTRIER, La méthode du blason, E. Michaillet, Paris 1734 (ed. or. 1688), p. 3.
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ALESSANDRO SAVORELLI
zio e inserire in un determinato contesto storico-culturale e di committenza documenti di vario tipo: codici, manoscritti, oggetti della cultura materiale e opere d’arte, edifici. A una grande quantità di manufatti l’araldica fornisce una sorta di «stato civile» — secondo la felice espressione di Michel Pastoureau — permettendo in prima istanza di individuare la committenza, gli artisti, i passaggi di proprietà, la datazione, la cronologia relativa: «studiare l’arte bassomedievale ignorando
l’araldica e le sue regole», egli avverte, «nonché i sistemi di valori sottesi alla 77255e en scène degli stemmi, è un esercizio impossibile, dato che l’araldica», nonostante
le grandi perdite subite nel tempo dal patrimonio iconografico, «costituisce il più grande insieme d’immagini profane che il medioevo occidentale ci abbia trasmesso», e perciò, per questo periodo, «lo storico, dell’arte, l'archeologo e l’iconologo è costretto a diventare anche un “araldista”»?. A questo livello l’araldica svolge ancora con diligenza il compito che cominciò ad esserle assegnato nel periodo del grande sviluppo e del rinnovamento delle scienze storiche, la seconda metà dell’Ottocento, quando fu coniata la
definizione di “scienza ausiliaria”, che avrebbe dovuto fissarne il posto, insieme ad altre discipline (l’epigrafia, la sfragistica, la numismatica, la cronologia, la genealogia, la diplomatica, spesso riunite in assetti curriculari universitari o in insegnamenti specialistici), nella gerarchia del sapere storico e filologico. Nella coscienza dello storico si avviava allora al tramonto ildiscredito che l’araldica si era procurata nei due secoli precedenti. Quando non solo non si era data uno statuto rigoroso, anzi, viceversa, a dispetto del fatto di essere coltivata da
onesti eruditi, dediti perlopiù a ricerche genealogiche (ma, non dimentichiamo che ne avevano parlato anche i primi studiosi della diplomatica, Du Cange, Mabillon) — aveva teso a costituirsi a patrimonio esclusivo della nobiltà di ancien régime: pretendendo i suoi esperti di riservarle un ruolo di “scienza”, e del più alto genere, perché, a loro dire, riservata a uomini eccellenti — i membri dell’aristocrazia —, dunque allo «splendore» (è ancora Menestrier che parla) «delle famiglie più distinte del mondo». Fino all'Ottocento inoltrato non ci si peritava di definire l’araldica, o di intitolarne i trattati, con termini non esattamente sobri: «teatro eroico», «nobilissima armorum scientia», «scienza eroica»,
«science de la noblesse». Magari a dispetto di quanti, precocemente, l’avevano ridicolizzata, a partire da Rabelais, il quale aveva denunciato «la tracotanza e la stupidaggine» dei cultori di araldica del suo tempo, apostrofandoli, in un crescendo di non del tutto immeritati oltraggi, come «perdigiorno», «boriosi cortigiani» e «facchini di nomi» (transporteurs de noms)*. 2 ? 1734 4
M. PASTOUREAU, L'art héraldique au Moyen Age, Seuil, Paris 2009, pp. 157-158. Cfr. C.-E MENESTRIER, La nouvelle méthode raisonnée du blason, Frères Bruyset, Lyon (ed. or. 1696), in particolare il capitolo Avertissement. F. RABELAIS, Gargantua e Pantagruele, I, cap. IX (I colori e la divisa di Gargantua).
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E tuttavia anche la moderna etichetta di “scienza ausiliaria”, che ancora oggi si ripete e che in parte corrisponde a una funzione oggettiva, appare sempre più inadeguata e riduttiva. È chiaro infatti che nelle sue applicazioni concrete, l’araldica, come un determinato sapere di tipo tecnico-filologico, non si distingue da ogni altra disciplina addetta alla decifrazione di un particolare linguaggio, scritto 0 iconico: nessuno direbbe oggi seriamente che la conoscenza di una lingua, utile alla lettura di un documento o di un’epigrafe, ne faccia, dal punto di vista del suo statuto epistemologico, una “scienza ausiliaria”. Nel caso dell’araldica ci troviamo davanti a fonti, che non solo sono dotate
di proprie strutture formali, ma che appaiono sempre più esse stesse un oggetto storico a sé stante e la disciplina che le studia non si restringe dunque più a una funzione ancillare nei confronti di altre scienze storiche, ma ambisce a conquistare una dimensione propria e a delinearne un adeguato statuto scientifico. L'impulso decisivo in questa direzione, invero relativamente recente, si deve
alla “scuola francese” e in primo luogo al suo principale rappresentante, il citato Michel Pastoureau, che ha imposto alla comunità degli storici un nuovo oggetto d’indagine, da lui definito nouvelle héraldigue. Non senza contrasti: egli ram-
menta infatti con ironia, come al tempo in cui si accingeva a presentare la sua tesi di laurea sul bestiario araldico medievale — agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso — la materia fosse ancora guardata con sospetto e anzi considerata, nell'ambiente accademico, «una disciplina spregevole». La svolta, da allora, ha coinciso un po’ ovunque (un po’ meno in Italia) non solo con un rinnovamento metodologico e con un aumento considerevole della saggistica e delle pubblicazioni di fonti e repertori filologicamente aggiornati, ma anche con una nuova organizzazione delle strutture accademiche e di ricerca. Lo studio dell’araldica ha fatto il suo ingresso nel corpo degli insegnamenti universitari di vari paesi, e ha dato luogo all’istituzione di gruppi o centri di ricerca che dedicano ad essa una parte della loro attività, promuovendo pubblicazioni, iniziative, consessi e occasioni di confronto internazionali tra gli studiosi (un paio di esempi: la Institucién “Fernando el Catélico” di Saragozza e il Centre d’Etudes Supérieures de Civilisation Médiévale dell’Università di Poitiers). Tutto ciò, fino a poco tempo fa, era demandato ai singoli e, inevitabilmente, esposto all’alea del dilettantismo e dell’improvvisazione o della subalternità rispetto a ricerche di tipo genealogico: si tratta insomma dell’acquisizione di uno statuto disciplinare coerente e dell’uscita da uno stato di minorità e dal cerchio chiuso di una tipologia di cultori, che — come diremo più avanti — aveva precise radici storiche. La storiografia ha dunque oggi largamente preso atto che la nouvelle héraldique guarda al fenomeno araldico con occhi diversi dal passato, ossia come a un segmento particolare di quei pervasivi sistemi di segni che attraversano la storia
iconica dell'Occidente, accompagnandone le manifestazioni artistiche. Che lo si
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noti o meno, l’araldica s’insinua nella cultura visiva europea, dalla selva dell’;7724-
gérie romanica e gotica, al barocco e al classicismo, fino all’esplosione di immagini della modernità, tra advertising e comunicazione grafica. Dal Medioevo alla fine dell’ancien régime, essa penetra ovunque in maniera più o meno vistosa, e ciò che
oggi potrebbe apparirci una superfetazione decorativa o enfatica, un elemento esteriore del costume e del gusto — nelle arti, nella cultura materiale, nell’abbigliamento, nella simbologia politica e così via — era ed era percepito in passato, come una componente essenziale della cultura visiva. Ogni cosa è pieno d'arme, come recita il titolo del saggio di Maria Monica Donato che segue: e questa pervasività non era solo un dato universalmente praticato, incoraggiato o passivamente accettato, ma produsse talvolta anticorpi e ostilità, fu osteggiata e combattuta, giacché i contemporanei coglievano assai meglio di eruditi e collezionisti il senso, i risvolti ideologici e le implicazioni ideali di una pratica non neutra e interconnessa con le forme della società e l'esibizione del potere e dei rapporti tra gli uomini. Un fenomeno storico e sociale, dunque, che interessa principalmente due campi di ricerca distinti, ma strettamente legati tra loro: iconologia e simbologia da un lato, e, dall’altro, la “storia delle mentalità” e la sfera della comunicazione sociale, non senza riflessi sulla storia delle istituzioni, delle classi sociali e dei ceti
dirigenti. Se si dovesse individuare un lontano precursore di questa moderna lettura del fenomeno, non esiteremmo a indicare Giambattista Vico, che pur tra molte ingenuità — pari alle proverbiali sue ardite etimologie — si sforzò di leggere l’araldica, polemizzando coi trattatisti dell’epoca, come Paolo Giovio ed Emanuele Tesauro, non come espressione della vanagloria cavalleresca di un Medioevo immaginato da «romanzieri», di cui la nobiltà d’ancien régime si atteggiava a diretta continuazione: ma più semplicemente, come uno speciale linguaggio:
una «lingua armata», scriveva, esempio dei tanti linguaggi «mutoli», propri dei parlari non articolati dell'umanità primitiva, che formano uno dei pilastri della dottrina della Scienza nuova. I contemporanei di Vico erano convinti che il sistema araldico fosse comune alle grandi civiltà antiche — ebrei, greci, romani -,
secondo un'ottica che avrebbe dominato a lungo nei manuali. Con intuizione da antropologo, Vico non esitò invece a paragonare le insegne araldiche ai «geroglifici» («capi d’animali, piante, fiori, frutte») usati dagli «americani», per «distinguere le famiglie, ch’è lo stesso uso appunto c’hanno l’armi gentilizie nel mondo nostro». E infine, con una impressionante vicinanza al linguaggio per
noi corrente, anticipò la tesi moderna che l’araldica, come ogni altro linguaggio iconico di segni e di immagini, è in primo luogo, esattamente come le lingue articolate, un sistema di comunicazione. Sia che l’usassero i nobili, in origine, per
? G.B. Vico, Opere, a cura di A. BATTISTINI, Mondadori, Milano 1990, I, pp. 602, 606607.
L’ARME SEGRETA, UN’INTRODUZIONE
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significare le loro «ragioni di signoria», sia che si conservasse «presso i popoli liberi in adunanza» e «appresso i monarchi» onde «comunicare nelle guerre, nell’allianze e ne’ commerzi»t. L’esatto contrario di un deposito di segreti: non uno strumento per occultare, ma per palesare informazioni. All’interno di questa ottica, si vanno oggi ridisegnando e spostando i confini dell’araldica all'intersezione con altre discipline, e innanzi tutto con la storia dell’arte, e in particolar modo di quella medievale, ai cui studiosi è rivolto questo libro, uno dei pochi — crediamo — espressamente e organicamente dedicato al tema del rapporto tra i due ambiti di studio. L'arte del Medioevo conserva con l’araldica il legame più stretto e intenso, non solo per la quantità e qualità delle immagini, ma perché i due aspetti sopra indicati, della mera funzione identificativa del segno e della trasmissione di messaggi culturali di vario ordine, vi sono più ampiamente rappresentati.
Vale la pena chiarire in che modo questo libro è stato pensato e costruito: uno sguardo al sommario potrebbe indurre il lettore a leggerlo come una semplice raccolta di ricerche speciali, di una serie di lumeggiature gettate sul vasto dominio dell’empiria, prive di un filo conduttore e nemmeno esemplificative di una materia tanto vasta e disomogenea. E si noterà subito, intanto, l’assenza di
una qualsiasi sezione preliminare di carattere metodologico. Tutto ciò risponde in realtà esattamente agli scopi che l’Armze segreta si è prefissa e, come vedremo di seguito, alla logica cui il volume ha inteso ispirarsi, offrendo l’occasione per riconsiderare il rapporto tra araldica e storia dell’arte da una diversa angolatura, ancora più precisa rispetto a quanto siamo andati dicendo, e sotto certi riguardi, a nostro avviso decisiva. Si è deliberatamente evitato un “discorso sul metodo” proprio perché lo si è ritenuto inutile e persino fuorviante. Non esiste un metodo che consenta di iniziare l’indagine su un determinato problema o un episodio in cui storia dell’arte e araldica siano coinvolte, che oltrepassi, da un lato, i comuni canoni euristici e filologici dell’accertamento storico e storico-artistico, e, dall’altro, dei fondamenti dell’araldica (os-
sia della sua struttura iconologica — le figure, le forme della loro composizione e lo speciale stile che le connota — delle sue “regole”, peraltro limitate, e delle sue varianti evolutive ed usi concreti nel tempo e nello spazio). Il dato araldico, in sé, non necessita che di essere decodificato, in base sì a una tecnica propria, ma senza alcuno statuto speciale, esattamente come ogni altro dato o reperto stori-
co. Questa duplice, distinta e generica griglia metodica è tutto quanto serve allo storico dell’arte nel momento in cui si trova ad affrontare un “caso araldico”. Il ricercatore e lo studioso si renderanno via via conto del fatto che un qualunque preambolo metodologico che si estendesse oltre questi confini rischierebbe, in
6 Ivi, II, pp. 1024, 1137-1138.
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questa materia, di costruire una gabbia destinata a orientare e a condizionare in misura più o meno pesante l’analisi e a costringere il dato empirico, variabile e spesso ribelle, in una rete di pregiudizi e artifici classificatori. Un metodo, anzi frammenti di un metodo, provvisori e falsificabili, sono in realtà non il presupposto, ma il risultato delle ricerche speciali, su casi concreti e circoscritti.
I motivi di ciò stanno anche nelle conoscenze ancora incomplete sul fenomeno araldico, e in particolar modo di quello delle origini, nel basso Medioevo tra XII e XIV secolo, e nella a tratti esasperante variabilità che la materia esibisce sotto ogni riguardo, a dispetto della sua creduta, presunta regolarità. Quest’ultimo è un equivoco o un pregiudizio e l’insidia, forse la principale, che lo storico dell’arte si trova dinnanzi, quando si rivolge alle competenze dello studioso di araldica, dunque a un “tecnico” (esattamente come fa col linguista, l’epigrafista, l’esperto di pigmenti e materiali): si tocca anzi qui un punto nevralgico del problema, sul quale è bene fare qualche chiarezza preliminare. Il presupposto di quanto abbiamo appena detto è che l’araldica sia concepita essenzialmente, essa stessa, come una disciplina “storica”: un presupposto che può sembrare banale, ma del quale invero si stenta a prendere piena consapevolezza e a trarne le debite conseguenze, innanzi tutto proprio da parte di qualche cultore della materia. Quando si parla di araldica (héraldique, beraldry, Heraldik etc.), si dovrebbe sempre tenere presente il fatto che questo termine, di conio relativamente moderno, designa intanto, molto ambiguamente, sia una disciplina storica, sia il suo oggetto, e cioè l’araldica come l’insieme delle sue manifestazioni nel tempo e nello spazio (stemmi, insegne, imprese etc.) e la “scienza” che lo studia. Nella lingua italiana (esattamente come abbiamo visto a proposito della parola sterzzza) questa ambiguità è ancora più grave, perché la parola non distingue ulteriormente, come avviene invece presso altre lingue, tra due aspetti connessi tra loro, interagenti, ma tutt'altro che univoci: e cioè tra l’araldica come disciplina
storica e l’araldica come l’insieme teorico delle sue regole, norme e “leggi” (insieme denominato blason, blazon in area franco-inglese, e Wappenkunde in tedesco). Il fenomeno dell’uso delle insegne araldiche nacque in forma relativamente spontanea, e non ancora del tutto chiarita, verso la metà del XII secolo. Un secolo dopo era già fissato in un “codice” — early blazon come lo chiamò Gerald J. Brault in un importante volume del 1997 — una sorta di grammatica che comprende colori e figure (in genere altamente stilizzate), e una sintassi, fatta di usi e regole: codice sorprendentemente omogeneo (e, contrariamente a quanto si crede a causa degli sviluppi successivi, in origine, minimale), rispettato in tutto il continente, pur con sfumature locali, e trasmesso senza deroghe sostanziali attraverso le generazioni”. Su questo codice, la cui presenza come tale distingue 7 Cfr. GJ. Brautr, Early Blazon. Heraldic terminology in the twelfth and thirteenth centuries with special reference to Athurian heraldry, Boydell Press, Woodbridge 1997. Ma
L'ARME SEGRETA. UN’INTRODUZIONE
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il sistema araldico europeo da ogni altro sistema emblematico, si esercitò tuttavia in due tappe successive l’azione (che oseremmo dire, imitando Rabelais, in parte “abusiva”) di gruppi di esperti e di tecnici, che gli diedero un assetto più complesso, pretendendo di trasformarlo via via in un “sapere”. Prima gli araldi, dal XIV secolo, da cui si è poi assunto il termine araldica, figure a mezza via tra ambasciatori, addetti al cerimoniale, arbitri sportivi (nei tornei) e custodi della
gerarchia nobiliare che si veniva delineando, legati istituzionalmente alle monarchie e alle corti europee. Quindi, soprattutto dal XVII secolo, quando ormai
da un paio di secoli abbondanti l’araldica non si usava più sul suo terreno d’origine, cioè i campi di battaglia, presero a discuterne trattatisti, a vario titolo, che produssero una sterminata e fortunata letteratura. L’influenza combinata della pratica degli araldi e della precettistica dei trattati, definita con buone ragioni da Pastoureau «desséchante», finì per consegnare all’età moderna una visione prevalentemente teorico-normativa della materia: un insieme autoreferenziale di regole convenzionali connesse con una gerarchia nobiliare d’ancien régime ormai istituzionalizzata, esposte per di più in un gergo iniziatico e complicate da minuzie e da un apparato del tutto nuovo di segni. Il semplice sistema originario ne uscì trasformato al punto da configurarsi quasi come una “seconda araldica”, un prodotto colto e intellettuale, distinto per aspetto e funzione sociale da quello delle origini, irriflesso e operativo. Quello che era in origine un semplice, pratico e versatile sistema iconico di identificazione, personale o collettiva, andò assumendo per suo scopo principale l’espressione della collocazione di un individuo o di una famiglia nella società e la rappresentazione della sua posizione politica, culturale e ideologica, e si appesantì di numerosi elementi allotri che ne resero col tempo sempre più difficile la lettura da parte del profano. Lungi dal rappresentare una sistemazione teoretica che si riteneva esaustiva e come sospesa in una fissità senza tempo, proprio quei “saperi” e i loro detentori — gli araldi e i trattatisti — costituiscono essi stessi un problema storico, poiché le funzioni che costoro andarono assumendo e le forme in cui inquadrarono la materia, sono esse stesse il risultato del mutare di condizioni sociali e culturali storicamente determinate e come tali vanno studiate: è un tema sul quale gli studiosi d’araldica più avvertiti hanno cominciano a riflettere®.
sull’essenzialità del linguaggio araldico originario si vedano anche M. PASTOUREAU, Traité
d'héraldique, Picard, Paris 1993? (ed. or. 1979), pp. 55-58, 100 e ss., e H. WALDNER, Die
ältesten Wappenbilder Eine internationale Ubersicht, Herold, Berlin 1992. 8 Cfr. C. BOUDREAU, L'héritage symbolique des hérauts d'armes. Dictionnaire encyclopédique de l'enseignement du blason ancien, XIW-XVI° siècle, Le Léopard d’or, Paris 2006; T. Hiurmann, Spätmittelalterliche Heroldskompendie. Referenzen adeliger Wissenskultur in Zeiten gesellschaftlichen Wandels (Frankreich und Burgund, 15. Jahrhundert) Zwischen
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Nonostante il rinnovamento degli studi araldici e il loro parziale adeguamento agli standard di una disciplina scientifica, rinnovamento come abbiamo osservato relativamente recente, la tenace resistenza della obsoleta impostazione, che aveva imposto la preminenza dell’aspetto teorico-normativo su quello storico, ha continuato a proiettare una lunga ombra (soprattutto in Italia), condizionando negativamente l’utilizzazione delle conoscenze tecnico-araldiche da parte di altri settori disciplinari. Lo storico della società e delle istituzioni, del costume, lo storico dell’arte che si rivolgano all’“esperto” di araldica attendendosene certezze, si trovano ancora oggi nella situazione di dover subire involontariamente l'egemonia di una lettura formalistica, tecnicistica e, nella sostanza, antistorica
del fenomeno araldico, e di restare perciò irretiti in una nuvola di astrazioni sovrammessa al tessuto vivo e alla concretezza variopinta, multiforme e talora eslege delle sue manifestazioni concrete. Con effetti, come si può intuire, filologicamente sospetti e, sul piano ermeneutico, destinati a produrre non di rado deduzioni incontrollate e infondate. Tutto ciò, inoltre, anche a causa della difficoltà
di selezionare una tradizione di studi coerente e di discernere in una bibliografia abnorme gli strumenti scientificamente attrezzati da una massa di approssimazioni e fantasie — purtroppo tutt'altro che minoritaria —, che continua a «far danni, talora con qualche successo editoriale, a detrimento dei lavori seri»?.
Non si legga questo, come un banale e generico richiamo alla prudenza filologica, al serio maneggio delle fonti e all’esercizio del senso critico, che potrebbe suonare ridondante e persino irritante per lo storico professionale. Queste precisazioni hanno in realtà tutt'altro senso e ben altre implicazioni sul rapporto che si è più sopra introdotto tra araldica e storia dell’arte. Certo, all’esperto di araldica, che assuma egli stesso un serio atteggiamento da storico, lo storico si rivolge chiedendo innanzitutto un filtro tecnico, una serie di conoscenze specialistiche: riconoscere delle figure, descriverle, compararle, cercarle nei repertori,
se esistono, o individuare le piste che possano portare a identificarle e ascriverle a un possessore, valutarne lo stile e riportarlo a un determinato ambito, studiarne e situarne nel tempo e nello spazio le varianti, escludere ipotesi logicamente o cronologicamente inconsistenti, stimare quanto nell’esecuzione di uno stem-
Heroldsamt und Adel, Oldenbourg, München 2011; M. METELO DE SEIxAS, Herdldica, re-
presentaçao do poder e memoria da nagao. O armorial autérquico de Inacio de Vilbena Bar. bosa, prefacié de T.C.P. pos Reis MIRANDA, Universidade Lusiada Editora, Lisboa 2011,
capp. 5-7; L. Cirri, Heraldry, Heralds and Politics in the Republic of Florence in the Late Middle Ages, in The Herald in Late Medieval Europe; ed. by K. STEVENSON, Boydell, Wood-
bridge 2009, pp. 133-144.
? PASTOUREAU, L'art héraldique au Moyen Age cit., p. 9. Proprio allo scopo di orientare il lettore non specialista, si è inserita in appendice a questo volume una bibliografia essenziale, di riferimento, mirata sulla produzione saggistica più recente e una panoramica sui progressi degli strumenti di consultazione informatizzati.
L'ARME SEGRETA. UN’INTRODUZIONE
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ma è dovuto a interventi soggettivi, arbitrari e casuali, e molte altre cose ancora. Lo storico tout court non è di regola nella posizione, senza questo filtro e senza queste competenze, di esercitare un agevole controllo su una massa di dati e di cognizioni assai estesa, e, soprattutto, insospettabilmente fluida e mobile. E proprio per sottolineare questo aspetto e per darne solo un’idea, isolando due exezzpla particolarmente complessi, che abbiamo inserito nella parte III di questo volume (Araldica. Un codice della comunicazione fluido, tra regole astratte
e funzioni sociali) i saggi di Laurent Hablot e di Miguel Metelo de Seixas concernenti la frastagliata vicenda storica delle armi dei Visconti e della casa reale del Portogallo: si tratta, beninteso, solo di due episodi di una casistica che si
potrebbe moltiplicare all'infinito, ma funzionali alla comprensione della plasticità e duttilità del codice araldico e della continua ristrutturazione che esso subì, soprattutto a partire dal XIV secolo, per adeguarsi a situazioni nuove. Già solo per espletare ricerche di questo genere appare evidente come un canone normativo-astratto si riveli insufficiente e come invece sia sempre più inevitabile ricorrere ad un approccio multidisciplinare ai documenti. E intanto su questo piano ci si rende conto che la funzione “strumentale” tende, insensibilmente, ad invertirsi. Lo studioso di araldica non può non imbattersi tra le sue fonti in oggetti d’arte, che formano anzi (insieme a oggetti d’uso quotidiano o di arti minori, come stoffe, ceramiche etc., ai sigilli e alle testimonianze letterarie e documentaristiche) una quota importante, anche solo sotto il profilo quantitativo, delle fonti primarie. Sono anzi fonti primarie allo stesso titolo di quelle specificamente araldiche come per esempio gli semmari: certamente stanno alla pari con gli stemmari cosiddetti “occasionali”, ossia redatti di prima mano e contemporaneamente a eventi particolari (feste, guerre, tornei etc.) e di quelli «istituzionali», ossia concernenti ordini o gruppi sociali; e sono addirittura fonti più dirette e attendibili degli stemmari “universali” o “narrativi”, compilazioni di araldi o eruditi sulla base di fatti primari, ma soggetti a imprecisioni e lacune di vario genere!°. Le fonti artistiche sono materiali primari anche perché, non sempre, ma in molti casi, restituiscono dati control-
lati direttamente dalla committenza o dal possessore di un determinato stemma. Arte dunque al servizio, a sua volta, dell’araldica. Ma detto questo non è detto ancora tutto: anzi non è detto l’essenziale. Col prevalere di un aspetto descrittivo-normativo, lo studio dell’araldica tendeva a chiudersi nel cerchio di una storia interna delle sue esibizioni, e, tacitamente, a
leggere i documenti iconografici e artistici in funzione di questo studio e in un certo senso come se si trattasse delle cangianti manifestazioni di norme atempo-
10 Per queste tipologie cfr. per esempio Les armoriaux médiévaux, sous la dir. de L. Hotrz, M. PasTOUREAU, H. Lovau, Le Léopard d’or, Paris 1997, pp. 12-13.
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rali di un codice o canone che significa qualcosa di per sé, estrapolato dai contesti e dalla sua pratica. Come cioè se i possessori di uno stemma — individuali o collettivi —, icommittenti di un’opera d’arte, gli artisti stessi e in ultima istanza gli stessi fruitori e osservatori non facessero che declinare o applicare in veste concreta un codice già dato. Ciò che è interessante, viceversa, è proprio l'opposto. Il codice araldico in astratto potrebbe persino non avere mai un’applicazione concreta, potrebbe sussistere in una sfera totalmente teorica: il linguaggio tecnico, relativamente standardizzato nei vari paesi e traducibile nelle varie lingue e tradizioni locali, è a tal punto formalizzato, che, come è noto, non solo una grossa parte delle testi-
monianze storiche è solo verbale e non iconica, ma l’araldista può comunicare a distanza senza l’ausilio di immagini, solo attraverso la descrizione rigorosa degli stemmi. E tuttavia, se tutto questo ha uno scopo pratico (ed è chiaro che gli stessi artisti o artigiani o disegnatori ricevevano informazioni di questo genere dalla committenza), il codice non ha mai vissuto di una vita propria, in una regione separata dall'esperienza sensibile, la quale sarebbe stata destinata solo a riprodurlo materialmente. Il codice è la “grammatica” di una lingua: che non si può confondere tuttavia, né privilegiare nei confronti della lingua “viva” dei “parlanti”. L’araldica è in realtà un sistema di segni stabile e codificato solo nei testi (e soprattutto nei testi tardi) e non negli usi: caso per caso, e ancor più quando si
analizzano corpora estesi di immagini — ci si rende facilmente conto di quanto variabile fosse quel codice e, esattamente come tutte le forme iconiche di comunicazione, di quanto mutasse (nell’aspetto e nella sostanza) a seconda dei luoghi, delle circostanze, dei tempi, delle intenzioni di chi lo usava, dell’abilità tecnica
dell’esecutore, dei materiali etc. Ciò che dà vita al codice, ne plasma lo stile in forma non stereotipa e lo dota di senso sono dunque le sue manifestazioni concrete, alle quali esso serve da veicolo, in quanto insieme di strutture iconiche e formali socialmente riconosciute: ma sono quelle manifestazioni che situano il codice in un contesto significante e significativo e in strategie comunicative che formano esse, e non lo strumento di cui si servono, ciò che interessa di più allo storico. La varietà degli articoli inseriti nell’ Arme segreta offre una prima, ampia campionatura di questo aspetto cangiante. È allora proprio la storia dell’arte, e di quella medievale in particolare, per mezzo delle immagini che essa tratta, a possedere la principale chiave d’accesso all’oggetto storico araldica — e con ciò siamo ritornati al problema dal quale abbiamo preso le mosse — e lo forma anzi e costituisce come tale: rinunciando in primo luogo a considerare i suoi segni come un elemento accessorio o esteriore della composizione artistica. La nouvelle héraldique non è, in fine, che il risultato e l’estensione dello studio,
come oggetto d’indagine autonomo, dei sistemi di segni che pionieri come Jurgis Baltrusaitis e Aby Warburg cominciarono a circoscrivere: porzione di lin-
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guaggi dell’immaginario che marcano oggetti, opere d’arte, architetture, come un segno di proprietà o d’identità, ma che comunicano anche all’osservatore identità, frammenti di mentalità e culture, ideologie, modi di porsi e atteggiarsi in pubblico di un soggetto, con la sua cultura, il suo grado di autostima, i suoi valori, ma anche le sue ossessioni e i suoi pregiudizi. Fuori e oltre l'ambito della pratica militare dov'erano sorti, i segni araldici assunsero molto presto una sfera più ampia di significati: i modelli iconografici e letterari s'impadronirono rapidamente dell’immagine — identitaria o “totemica” che fosse — della panoplia
cavalleresca e delle immagini disegnate sullo scudo, per conferir loro lo status di una «simbologia sociale ontologica, profilattica e apotropaica», che si estende all'insieme della società e ai non-combattenti. Le manifestazioni artistiche assumeranno via via in misura crescente in nuovi ambienti (le corti; la società
ecclesiastica, la città), già fra XII e XIII secolo e poi in maniera vistosa nell’arte del Trecento, la funzione di veicolo privilegiato di segni di carattere oramai più «simbolico che pratico»!!. A illustrare, attraverso un’ampia casistica e sotto diverse prospettive le potenzialità di questo approccio sono indirizzati i saggi compresi nelle prime due parti dell Are
segreta (I, Araldica e storia dell’arte. Inchieste e riletture e II, Araldica
e storia dell’arte. Tra testo e immagini). Si tratta in gran parte di lavori dedicati a episodi dell’arte italiana, tra Due e Quattrocento, ad un ambito storico-culturale
cioè molto particolare rispetto all’arte d'Oltralpe, giacché l’araldica classica (quella che nasce grosso modo originariamente, estendendosi poi a macchia d’olio su tutto il continente, in un foyer esteso tra Francia del Nord, Inghilterra, Paesi Bassi
e Germania occidentale) vi è contaminata e adattata in più modi a una realtà sociale diversa: le corti superstiti di una precoce destrutturazione e disintegrazione dell’assetto feudale, che non ha riscontri nel resto d'Europa, e, principalmente, il mondo urbano e comunale coi suoi diversi esiti, “repubblicani” e signorili. Proprio le caratteristiche del resto di questa provincia così singolare dell’araldica europea che è l’Italia, sono spesso considerate marginalmente nella letteratura internazionale!?. Quella provincia è invece straordinariamente ricca di indicazioni sulla storia del fenomeno araldico, poiché ne trasforma il codice, l’utilizza in sfere
e modi della comunicazione, piegandolo nelle forme di rituali distinte da quelle tradizionali, e chiarisce così come vi siano tante araldiche divise in aree — diciamo
!! Cfr. quanto osserva L. HABLOT, Entre pratique militaire et symbolique du pouvoir,
l'écu armorié au XII: siècle, in Estudos de Heräldica Medieval, coordenaçäo de M. DE Lurpes Rosa, M. METELO DE SerxAs, IEM-Universidade Lusiada Editora, Lisboa 2012,
pp. 143-165, dal quale sono tratte le citazioni. 2 Ma si veda ora per esempio, in controtendenza, l’ottimo lavoro sull’araldica comu-
nale italiana di C.F WEBER, Zeichen der Ordnung und des Aufrubrs. Heraldische Symbolik
in italienischen Stadtkommunen des Mittelalters, Bôhlau, K6ln-Weimar-Wien 2011.
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ALESSANDRO SAVORELLI
con un parziale anacronismo — nazionali, che articolano, su una base comune, una
presunta omogeneità e unità di un modello in energici tratti locali. I saggi compresi nell’ Are segreta mostrano come da un lato lo storico dell’arte può usare i segni araldici per situare un’opera in un contesto storico (si veda-
no i saggi di Francesca Soffientino, Antonio Conti, Giampaolo Ermini, Luca Tosi), come questo contesto stesso possa venirne all’occasione chiarito, proprio mediante la loro decifrazione, in misura tale da consentirne una comprensione più circostanziata, e talora, persino un’ipotesi complessiva di reinterpretazione,
quanto a intenti della committenza e dell'artista, sulla base di messaggi a prima vista meno evidenti. A una soglia di ulteriore complessità ermeneutica, si situano i casi in cui l’araldica del ceto nobile e cavalleresco s’estende dalla dimensione identificativa alla costruzione “colta” del mito, sia essa nelle corti signorili (si veda il saggio di Luisa Clotilde Gentile sugli affreschi del castello della Manta dei marchesi di Saluzzo), sia nella cronachistica comunale (come cronaca della battaglia di Montaperti di Giovanni di Francesco di Ventura, riletto da Alice
Cavinato), sia nella dimensione dell’immaginario, all’incrocio tra devotio e culto cavalleresco (come nel saggio di Marco Merlo sui dipinti fiorentini tratti dalla leggenda di San Maurizio). A monte di questi fenomeni già più mediati culturalmente, i saggi compresi nella seconda parte del volume trattano l’elaborazione teorica dello speciale linguaggio iconico dell’araldica (si veda il saggio di Carla Frova sul De insignis et armis di Bartolo da Sassoferrato) e aspetti della pratica di lunga data degli illustratori di testi: che fossero letterati, come Matthew Paris, o funzionari, dunque uomini pratici, come i compilatori degli archivi podestarili (analizzati rispettivamente da Allegra Iafrate e Ruth Wolff) o, ancora, gli esten-
sori di documenti epigrafici di cui parla Franco Benucci. Vengono infine episodi d’arte, tipici del mondo comunale, nei quali i segni araldici non sono, o non solo
solamente, semplici segni o marchi di appartenenza o di identificazione, ma sono reinterpretati sulla base della vita politica cittadina: ora come elemento della costruzione dell’identità civica (come negli oggetti descritti da Chiara Bernazzani), ora come strumenti diretti di comunicazione politica e di propaganda di ceti e gruppi di potere (si vedano, in questa dimensione specifica, i saggi di Matteo Ferrari sull’araldica pubblica e privata nei broletti lombardi, e, i casi di San Gimignano e della Sant'Orsola che salva Pisa delle acque e di alcune altre tavole del Museo di San Matteo a Pisa, illustrati da chi scrive e da Vittoria Camelliti), del
capitolo nobile di Brioude (Alvernia) qui studiato da Emmanuel de Boos. Confidiamo che lo storico dell’arte, che abbia la pazienza di seguire il percorso che abbiamo qui delineato per frammenti, possa giungere, riconsiderando il gioco di parole che dà il titolo al volume, a una conclusione per certi aspetti paradossale. A parti invertite, proprio lo storico dell’arte finisce per rendere l’arme meno segreta: non solo per lui, ma per gli stessi studiosi di araldica.
«OGNI COSA È PIENO D’ARME». UNO SGUARDO DALL'ESTERNO Maria Monica Donato
Inizio dagli sguardi, diversissimi, rivolti all’araldica da due fra i massimi storici
dell’arte del Novecento: Ernst Gombrich e Roberto Longhi. Ne I/ senso dell'ordine, Gombrich indaga le forme, le funzioni, la storia, il senso anche psicolo-
gico della profusione di pattern decorativi che da sempre accompagna la storia dell’uomo: al punto che, dice, non li vediamo più. A partire da una riflessione di Alois Riegl — «fissare le frontiere tra ornamento (decorazione) e simbolo è fra i compiti più ardui»! — il posto riservato da Gombrich all’araldica è preciso: «non vi è tradizione più adatta [di quella dell’araldica] a studiare quest’interazione tra segni e disegni»?. Quanto segue, di fronte a questo pubblico, forse fa sorridere, ma anche riflettere: «vi sono ancora (così Gombrich nel 1979) esperti dell’esozica dottrina araldica, che sopravvive dall’età della cavalleria. Lo studioso del pattern può invidiare la precisione con cui, in quest’antica tradizione, le configurazioni si possono denominare e descrivere: c'è la banda ondulata, merlata, frecciata, a coda di rondine, dentellata e scalinata, e così via». Dunque
il massimo rigore per la massima riconoscibilità (il segro)?; ma anche, date le infinite possibilità grafiche e compositive (il disegro) un posto certo nella sterminata storia della decorazione: sì che, per esempio, il disegnatore di carte natalizie sarà «erede degli antichi artigiani» che dovevano «sposare fra loro simboli dinastici o araldici, in una disposizione opportuna». Al compito degli antichi artigiani — ed artisti — pensava invece Roberto Longhi, rievocando l’estenuato, iperornato gotico di Lombardia. Il passo (la prima versione è del 1942) è lungo, compiaciuto e celebre e, pertanto, seleziono solo qualche passaggio: «l’aristocratica insolenza, il lusso sfrenato, la larvata miscre-
! E.H. GOMBRICH, I/ senso dell'ordine. Studio sulla psicologia dell’arte decorativa, Ei-
naudi, Torino 1984, p. 351 (ed. or. New York 1979); la citazione è tratta da A. RIEGL,
Stilfragen. Grundlegungen zu einer Geschichte der Ornamentik, Siemens, Berlin 1893. 2 GOMBRICH, I/ senso dell'ordine cit., p. 374.
> Ivi; p.374. 4 Ivi, p.373.
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denza» della corte si specchiano, fra l’altro, nelle onnipresenti «peripezie geroglifiche delle costellazioni araldiche». Non per nulla, quella che Longhi delinea è «la poetica “che i Melanesi accampa”»?: l’arte fiorita sotto l’insegna della vipera viscontea, crudele, sinuosa, e così ornamentale. La storia dell’arte ha fatto
e fa uso proficuo dell’araldica per scoprire date e committenze; mi è parso utile ricordare queste più generali attenzioni, proprio poiché qui vorremmo aprire un dialogo più vasto. E si potrebbe risalire, fino alle origini. In Vasari le arme, che registra da storico, che progetta e dipinge da artista, che osserva da uomo di corte e di città, raccontano molte storie: sono — certo — documenti; sono oggetti
da realizzare a regola d’arte perché si leggano e si conservino; sono strumento del potere e della ricchezza, e oggetto delle reazioni di chi sa leggerli come tali. Da questi sguardi autorevoli, diversi ma, come dire, non strumentali della sto-
ria dell’arte sull’araldica, vorrei ritenere tre punti: l'immensa incidenza dell’araldica nell’arte, in specie, medievale e protomoderna; la sua stratificata significatività: se ogni segno in sé, a un primo livello, significa, è una persona, una famiglia, un'istituzione, entro compagini monumentali e figurate veicola intenti diversi, afferma il possesso o la devozione, esibisce fasto o magari rigore, e quindi muove ricezioni diverse; la mutevole valenza decorativa, estetica che di norma riveste
il significato, e spesso ne è parte integrante. Li terrò sullo sfondo, questi punti, nel proporre qualche riflessione e qualche caso di studio su un terreno altro da quello in cui (cito Longhi l’ultima volta) «ogni veduta, ogni atto si rinserrano nel fasto [...] di un orizzonte privato»: ossia quello, per eccellenza pubblico e partecipato, delle città toscane fra tardo Medioevo e Rinascimento. Un mondo, questo, in cui il codice araldico, senza abdicare alla sua chia-
rezza, sorprende per forza inventiva, e pervasiva. Le fiere (para)araldiche, ad esempio, vi prendono vita anche alla lettera, con le lupe allevate in Palazzo Pubblico a Siena, o le famigliole di leoni di Palazzo Vecchio: e sono vivissime anche nel lessico, su più registri: se, in Purgatorio, Nino Visconti sanziona «la vipera che ’1 melanese accampa»”, negli anni caldi del conflitto fra Firenze e i Visconti, chi leggeva Sacchetti o Goro Dati poteva unirsi alle invettive contra la «maledetta serpe»* o «velenosa biscia»?. Questo, anche per dire che ognuno li descriveva, quei simboli, con animo e lessico propri: nel 1426, per un guelfo inguaribile come Niccolò da Uzzano l'aquila della Parte era, familiarmente, la
; i Dai Proposte per una critica d’arte, in «Paragone», 1 (1950), pp. 5-19: 17. id. 7 DANTE, Purg., VIII, 80. 8 F. SACCHETTI, I/ libro delle rime, in Opere, a cura di A. BORLENGHI, Rizzoli, Milano
1957, p.1005.
? Istoria di Goro Dati dall'anno MCCCLXXX
all'anno MCCCCV.
Nella Stamperia di Giuseppe Manni, Firenze 1735, p. 93.
Con annotazioni,
«OGNI COSA È PIENO D'ARME»
«rossa gallina»! — e mica parlando coi suoi consorti: in versi Vecchio. Quanto alla vitalità in immagine, capita che quei simboli tempo a nascere come tali che già prendono strade proprie: azzuffano. Una delle prime fonti sulla lupa come simbolo di
ZI
affissi a Palazzo non facciano in segnatamente, si Siena è la multa
comminata nel 1264 a un pittore Ventura, per aver dipinto «in certo palvese una
Lupa con un Leone che le stava sopra»!!. Queste zuffe in figura non si esauriscono all'indomani di Montaperti: Sacchetti narra che il fiorentino Buffalmacco, richiesto dal ghibellinissimo vescovo Tarlati (morto nel 1327) di dipingergli «nel suo palagio» aretino un’aquila su un leone morto, gli confeziona «un fiero e gran leone addosso a una sbranata aguglia» e se ne scappa dalla città!?; è una novella, ma le novelle di Sacchetti hanno radici robustissime nella realtà urbana. E nel 1427, a Siena, san Bernardino tuo-
na contro la protervia partigiana dei toscani: «quando si dipegne un’aquila addosso a uno lione — uh! Subito colui che tiene la parte a contrario, fra dipegnere per vendetta uno lione addosso a una aquila»!?. Provocazioni di strada, certo:
ma il codice è lo stesso con cui Dante sapeva d’esser inteso quando ammoniva «Carlo novello», cioè Carlo II d'Angiò, a temere gli artigli «che a più alto leon trasser lo vello»!f. Questi esempi tra lessico e immagine, simili e diversi, scalati nei secoli attestano 17 primis la vivace familiarità dei cittadini — pittori inclusi — con questa simbologia: l’araldica era nota e compresa. Lo era al punto che ad esempio — l’ha ben mostrato Alessandro Savorelli per il Villani Chigiano”, lo fa, in questo volume, Alice Cavinato per Niccolò Ventura — poteva offrirsi come chiave prima per la comprensione di complesse narrazioni figurate. Nel Chigiano le insegne dichiarano chi sono gli attori in scena. Nelle Cronache lucchesi del Sercambi l’uso si conferma e si articola. Il codice araldico fissa in immagine non solo un evento, ma un processo: basti l’espediente delle insegne piantate sulle mura e
10 Vita di Bartolomeo (di Niccolò di Taldo) Valori. Con documenti e note, a cura di P. Bi-
GAZZI, in «Archivio Storico Italiano», 4 (1843), pp. 233-300: 299. ! Trattasi di «un Ventura di Gualtieri, condannato nel 1264 a pagare trentacinque lire per aver dipinto in un palvese una Lupa con un Leone che le stava sopra, e con la branca percuotevala nella faccia, in modo che si vedeva uscirne il sangue»: G. MILANESI, Sulla storia dell’arte toscana. Scritti vari, L. Lazzeri, Siena 1873, p. 43.
12 SACCHETTI, I/ Trecentonovelle, in Opere cit., CLXI, p. 539. 13 BERNARDINO DA SIENA, Prediche volgari sul Campo di Siena. 1427, a cura di C. DELCORNO, Rusconi, Milano 1989, p. 659. 4 DANTE, Par, VI, 100.
5 A. SAVORELLI, L'araldica nel codice Chigiano: un ‘commento’ alla «Cronica» del Villani,
in Il Villani illustrato. Firenze e l’Italia medievale nelle 253 immagini del ms. Chigiano LVII 296 della Biblioteca Vaticana, a cura di C. FRUGONI, Le Lettere, Firenze 2005, pp. 53-58.
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MARIA MONICA DONATO
poi abbassate, segno dell’ascesa e della caduta dei domini. Ancora, Sercambi è così incline a valersi della comunicazione araldica che dà spazio a casi di inventiva, o invettiva estemporanea, simili a quelli che ricordavo sopra: nel 1392, racconta, Jacopo d’Appiano «fe dipignere a Pisa l’aquila col fuoco in bocca che si volgie verso Firenze chon una scritta sopra il capo la quale dicie o rimesse le penne»!$ — con tanto di documento figurato del “manifesto”. Ora, se l’araldica funziona, comunica, è perché la sua presenza sulla scena
urbana, specie dal Due-Trecento è — appunto - endemica. Cronache, novelle, inventari e una percentuale certo ridotta di sopravvivenze ce ne attestano la fortuna negli spazi pubblici, sacri, domestici, su ogni genere di manufatto; più difficile è farsi un’idea del ruolo chiave che, nell’operare di quel lessico, spettava a oggetti ormai, per lo più, imprendibili: bandiere, stendardi, gonfaloni, pennoni, armi. Le convenzioni del Sercambi, ad esempio, erano palmari per chi quelle insegne le vedeva scontrarsi o correre le città, sfilare in cortei, garrire sulle mura
mentre quelle dei vinti rovinavano — davvero — a terra. Eugenio Dupré, pioniere di questi studi, definiva l’araldica civica una disciplina degli stendardi: quella a cui noi storici dell’arte pensiamo è in primis monumentale, in grande o piccolo formato, o libraria”.
Ma anche a limitarsi alla dimensione “artistica”, misurare lo spazio visivo e semantico che spettava all’araldica impone, quanto meno, storicizzazioni radicali. Torniamo alle lupe. Siena pullula ancora di colonne sormontate da lupe scolpite; alcune di gran qualità, ai loro bei giorni svettanti ex plein ar, sono al sicuro in Palazzo Pubblico. Per inciso, chi le ha bene studiate di recente ne ha
rilevato la sfortuna storiografica, imputandola «alla seriale ripetitività del soggetto, di natura quasi araldica»!5. Una tradizione tarda, secentesca, vuole che la prima lupa su colonna fosse eretta, dopo Montaperti, davanti alla chiesa civica di San Cristoforo; e un torso di lupa di maturo Duecento è riemerso nella stessa piazza, nella muratura di Palazzo Tolomei. Le fonti erudite menzionano altri esempi duecenteschi, e di certo nel Trecento la lupa si consolida come emblema civico, raggiungendo il sacrato del Duomo: una conferma di come i simboli civici godano per tempo non solo di vasta popolarità, ma di vari privilegi mo18 G. SERCAMBI, Le illustrazioni delle Croniche nel codice Lucchese, a cura di O. BANTI, M.L. TestI CRISTIANI, Basile, Genova 1978, II, p. 96. !? E. DUPRÉ THESEIDER, Sugli stemmi delle città comunali italiane, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche, atti del convegno (Roma 1963), Olschki, Firenze 1966,
pp. 311-348: 324-325 (riedito in In., Mondo cittadino e movimenti ereticali nel Medio Evo, Pàtron, Bologna 1978, pp. 103-145). !8 S. COLUCCI, «Columna quae gestant in cacumine»: di alcune sculture senesi trascurate o dimenticate (secc. XIII-XVII), in Sacro e profano nel duomo di Siena: religiosità, tradizione classica e arte dalle origini all’epoca moderna. Leggere l’arte della Chiesa, a cura di M. LoRENZONI («Quaderni dell’opera», 10-12 [2006-2008]), Siena 2008, pp. 25-90: 27.
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numentali. Figure a tutto tondo, sopraelevate e libere da ogni lato, insomma “all'antica” e fatalmente soggette al sospetto di idolatria, nel basso Medioevo sono assolute eccezioni: da inorgoglire una cittadinanza, e da far perdere le staffe a un bastian contrario guelfo come il pittore Ventura o il suo committente. I casi di simboli civici precocemente “monumentalizzati” all'antica potrebbero moltiplicarsi, e così — al polo opposto della dignità figurativa — le occorrenze, dicevo, estemporanee: ma i diversi precoci destini della lupa senese bastano a ricordarci che l’assetto visivo orienta e moltiplica il senso, in sé chiarissimo, dei
simboli (segno e disegno, a dirla con Gombrich); e che quei simboli, oggi spesso inosservati, conoscevano un grado altissimo di evidenza ed efficacia visuale ed emotiva.
In questa prospettiva — quella del ruo/o simbolico, comunicante, sollecitante dei segni araldici — merita ragionare sulle fonti. Per queste prime note ho citato, di volo, versi, cronache, novelle, prediche. Sono fonti rilevanti, per l’araldica? Del merito del codice araldico non dicono nulla di nuovo; ma ne illuminano i
significati contestuali, in quanto pratica di forte rilevanza sociale: endemica sì, ma proprio per questo attentamente osservata. Le zuffe tra fiere araldiche, ad esempio, suscitano l'allarme di chi sorveglia l’etica pubblica e l’ordine sociale: il magistrato che multa il pittore, il predicatore che maledice le fazioni. Forme non solo di reazione, ma di controllo sull'uso delle insegne civiche — prese, evidentemente, assai sul serio —, sono note da fonti normative: come
la dettagliata provvisione che nel 1329, a Firenze, delimita i soggetti, le insegne e le combinazioni di insegne, che ai rectores e offitiales era permesso far dipingere o scolpire, disponendo l’obliterazione di quanto non vi rientrava!”; o la rubrica degli statuti perugini del 1342, che vieta agli ofitiali di far fare o portare in città, in qualsiasi forma, «alcuna ensegna d’aquila de qualcunche colore»??. Ed è soprattutto sull’araldica pubblica che informano — nel senso del ruolo sociale e “contestuale” che definivo prima - le fonti storiografiche: per questo è davvero benvenuto il libro recentissimo di uno storico, Christoph Weber sulla Hera/dische Symbolik in italienischen Stadkommunen des Mittelalters?!, che, mettendo a frutto in questa chiave un’ampia campionatura di fonti cronachistiche cittadine, ricostruisce il ruolo decisivo dell’araldica civica nella costruzione, prima ancora che nella comunicazione, degl’istituti comunali.
9 Il testo della provvisione è edito da G. DEGLI Azzi, La dimora di re Carlo, figliuolo di
re Roberto, a Firenze (1326-27), in «Archivio Storico Italiano», s. 5, 42 (1908), 252, pp. 4583, 258-305: 284-285, 292.
20 Statuto delComune e del Popolo diPerugia del 1342 in volgare, a cura di M.S. ELSHEIKH, Deputazione di storia patria per l'Umbria, Perugia 2000, I, p. 23. 2 C.F WegeR, Zeichen der Ordnung und des Aufrubrs. Heraldische Symbolik in Italienischen Stadtkommunen des Mittelalters, Bòhlau Verlag, K6ln-Weimar-Wien 2011.
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MARIA MONICA DONATO
Sull’uso civico-politico dell’araldica tornerò, su fonti visive, alla fine. Ora,
sul filo delle fonti che ho scelto di sondare — certo non primarie per l’araldica, e che spesso non descrivono una sola insegna — vorrei mettermi in traccia di altri usi eminentemente urbani delle insegne, in specie nello spazio sacro: degl’intenti che li muovevano e dell’attenzione che, anch'essi, suscitavano. Per mettere
in prospettiva queste note, del tutto provvisorie, merita citare le primissime righe del Bascapè-Del Piazzo: «per molto tempo il termine araldica» — diciamo noi: il termine arme — «ed altri ad esso connessi sono stati [...] recepiti come indicanti una manifestazione di semplice vanagloria»?. Tutto sarebbe iniziato con la Rivoluzione francese: come accennerò, la Rivoluzione francese c'entra, e
non poco, anche con i destini dell’araldica nell’arte; ma la questione della vanagloria è ben più antica, e muove all’origine da preoccupazioni di ordine sociale e religioso. «Come egli hanno tre soldi, vogliono le figlie dei gentiluomini [...] per moglie, e fanno arme e dicono “Io son de’cotali”»: così Boccaccio”. Ma a questa generica irritazione per il moltiplicarsi di armi private, viste come aspirazioni di pretenziosi arricchiti, si affianca presto una precisa tendenza a limitare gli spazi di esposizione delle insegne: in specie, nelle chiese. Il fenomeno incriminato è quello forse meglio noto alla storia dell’arte: le arme come certificazione di committenza, in vita o in sede testamentaria, di opere di muratura o di arredi
monumentali o liturgici. Con l’ampliarsi dei patronati privati, in specie in ambito mendicante, si profila una doppia tensione, di lunga durata: con le istituzioni comunali, che vedono loro tradizionali o potenziali spazi di rappresentanza contesi dalle famiglie, e con la stessa autorità ecclesiastica. Gli allarmi partivano dall’alto, certo non solo in Toscana. Così, nel 1357, le Costituzioni egidiane, in volgare,
ammonivano: «e se le arme d’alcune potestà, comunità o università o d’altri nobile fosseno sculpite o depincte in alcuno luogho ove fosse sculpite o depincte li arme della Ghiesa e de misere lo Papa, quell’altre non presumptuosamente ma reverentemente fieno allocate». A Firenze, dalla prima metà del Trecento si moltiplicano disposizioni che da parte ecclesiastica limitano l’esposizione di «arma seu insigna privata» nelle chiese (così nel puntiglioso documento che, nel 1390, fissa i limiti entro cui il cardinal Pietro Corsini può apporre il suo stemma 7? G.C. Bascapè, M. DEL Piazzo, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata medievale e moderna, Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma 1983, p. IX. 3. Boccaccio, Decameron, VIII, 7.
# Aegidianae Constitutiones. Cum additionibus carpensibus..., Venetiis 1588, p. 143
(recte 145): «Si arma alicuius communitatis, universitatis, vel nobilis sculperentur, vel de-
pingerentur in loco aliquo, vel circa, ubi essent sculpta, vel depicta arma Ecclesiae, et domini Papae illa non praesumptuose, sed reverenter locentur, et insignia, et arma Romanae Ecclesiae, et domini Papae, decentem praeminentiam super caetera habeant» (la traduzione italiana è in Costituzioni egidiane dell’anno 1357, a cura di P. SELLA, Loescher, Roma 1912)
«OGNI COSA È PIENO D’ARME»
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sull’altare che vuol erigere in cattedrale); e da parte comunale limitano il diritto, anche dei cavalieri, di fregiare le sepolture di insegne civiche. Ma l’apprensione suscitata dal dilagare delle insegne private nelle chiese vibra soprattutto nelle parole dei predicatori, e ancora in quel grande comunicatore, moralista laico, portavoce della cosa pubblica sacra e civile di Firenze che è il Sacchetti. L'omiletica colse presto la portata comunicativa del codice araldico: e si fa torto all’acume semiotico di Giordano da Pisa citando solo, da una predica del 1305 — Cuzus est imago haec —, i passi che ricordano i segni come notifica di proprietà: i marchi commerciali indicano il proprietario delle merci; e così «si segnano le case, il palagio del segno suo, cioè dell’arme sua, e negli scudi acciocché quell’immagine mostri di cui è la cosa». Così Dio ha impresso in noi la sua immagine, il suo segno, perché apparteniamo a lui, Ma qui-laraldica è ancora solo una prassi diffusa ed efficace — e borghese, per inciso, come quella dei marchi di commercio. A fine secolo, in una celebre lettera di Sacchetti al perugino lacopo di Conte le insegne private nelle chiese sono già parte integrante ed eminente della polemica contro una devozione di facciata, con toni, motivi,
temi che echeggeranno fino alla Controriforma. Sacchetti stigmatizza diverse pratiche devozionali e figurative che vede prender piede: fra le peggiori, il fatto che «in molte luogora in alto sopra Nostra Donna sono dipinti i cimieri de’ peccatori mondani, con versi falsi, mostrando quelli essere stati grandissimi valenti uomini al mondo»”. Ma l’affondo arriva nelle sue Sposizioni di Vangeli: «uno fa una dipintura in una chiesa, e adornarla con molti scudi de la sua arma [...] cerca il merito. Dove l’acquista? Nel mondo. E quivi ha la mercede. Non la può aver poi da Dio, perché non si può avere il merito nel mondo e in cielo a uno tratto. Ma guai ai viventi, che nessuno ci vive se non con vanagloria» — eccola,
infine, la vanagloria — «che non si fa una pianeta nel mondo che] prete, quando dice Messa con essa, non sia segnato con lo scudo dinanzi e drieto, come li fanti
che recano novelle»?8. L'attenzione dei predicatori ex professo non tarda: ma ai primi del nuovo secolo nella Regola del governo di cura familiare Giovanni Dominici si limita a raccomandare, a chi voglia praticare una donazione “santè”, cioè in ascondito,
2 Citato da P. SEILER, Kommunale Heraldik und die Visibilitàt politischer Ordnung:
Beobachtungen zu einem wenig beachteten Phänomen der Stadtästhetik von Florenz, 12501400, in La bellezza della città. Stadtrecht und Stadtgestaltung im Italien des Mittelalters und der Renaissance, hrsg. von M. StoLLEIS, R. WoLFF, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 2004,
pp. 205-240: 218.
2% Prediche del beato fra Giordano da Rivalto dell'Ordine dei predicatori, recitate in Firenze dal 1303 al 1306 ed ora per la prima volta pubblicate, a cura di D. MoRENI, Magheri,
Firenze 1831, II, p.310.
27 SACCHETTI, Dalle lettere, in Opere cit., p. 1115. 28 Ip., Sposizioni di Vangeli, in Opere cit., pp. 813-814.
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MARIA MONICA DONATO
l’improbabile opzione del rifacimento di vecchie chiese, lasciandovi rigorosamente le armi altrui: «così facendo l’arme d’altri» — non le tue — «aranno fama [...] la limosina tua sarà in ascondito; e il Padre Eterno, che vede in ascondito,
la ti renderar in cielo». Toccherà a Bernardino, a Firenze e a Siena, prendere di petto la questione. La sua invettiva contro le insegne, a tutto campo, meriterebbe uno studio a sé, così come tutta la sua concretissima, diramatissima dottrina
dei segni. Due sono le tipologie incriminate: quelle dei donatori vanagloriosi e — s'era intravisto per aquile e leoni — quelle dei facinorosi. «Coloro che fanno loro limosine, sì in fare cappelle, chi in fare calici, chi in fare paramenti, là dove
pongono l’armi loro [...] perché credi che ve le pongano? Non per altro se non perché si sappi chi l’ha fatte». La più spietata invettiva è sferrata nella predica XVI, quando ai segni terreni si oppone quello che il predicatore impugna: «Donne, mirate me col segno della croce»?!. Il suo segno, poi, sarà il trigramma, che non mancò di procurargli accuse di idolatria: proprio il peccato che il santo addossa ai seguaci delle insegne di parte — e ora cita l’aquila e il giglio: «perché ogni insegna che si porta nell’armi vostre, è il diavolo adorare»?. Per spaventare persino i pittori, non esita a sventolare le decretali: chi dà occasione di danno, è come se avesse fatto il dan-
no lui. «Non vedi quanto danno tu fai? Le migliaia di creature si perdono per tale insegna, e prima che la fa dipegnare, colui che la dipegne, chi la vede, chi la tiene, chi l’ama: tutti vanno a casa del diavolo»?. Ma il culmine della violenza
giunge quando le due tipologie nefaste si fondono, e le insegne di parte, quelle che i faziosi dipingono sulle loro porte e nelle loro case, «sempre portano nel cuore» irrompono in chiesa, con le loro tombe: «l’armi loro, co’ lo stendardo, e
so’ poste in alto, perché sia memoria di colui che è morto, com’egli ha seguito tale adorazione fino alla morte. Talvolta l’ho veduto insino a capo al crocifisso. Allora io ho detto: “O signore Idio, oh tu hai il diavolo sopra di te, il quale si può dire che ti piscia in capo!”»%1, Inutile dire che queste voci si levavano invano. Dopo l’affermazione, anche araldica, dei primi Medici in San Lorenzo basta ricordare, per i due massimi poli mendicanti, che negli anni Sessanta Castello Quaratesi, vedendosi negare il diritto di esporre le proprie armi sulla facciata in progetto per Santa Croce, ritira il finanziamento; e di lì a poco Giovanni Rucellai, forte dell'appoggio pro-
? G. DominICI, Regola del governo di cura familiare, a cura di D. SALVI, Garinei, Firenze 1860, p. 122.
3° BERNARDINO DA SIENA, Prediche volgari cit., p. 1204.
5 Ivi, p. 463. 32 Ivi, p. 464.
5 Ivi, p. 476. M Ivi, p. 475.
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gettuale e ideologico dell’Alberti, vede il suo nome campeggiare in gigantesche capitali romane sul prospetto di Santa Maria Novella, mentre la sua bella e avventurata divisa della vela sfolgora intarsiata lungo tutta la prima cornice. Così l’ostentazione araldica non poteva sfuggire alla furia di Savonarola contro la devozione dei tiepidi, che servono Cristo per avere gloria e fama, e ricadeva nella sconfessione di ogni forma di devozione non ordinata al culto interiore: come le feste patronali spese nei banchetti e nei giochi, «a fare — dice — girandole e spiritelli». «Se io dicessi: dammi cento ducati per dare a uno povero, tu non faresti; ma se io ti dico: spendine cento in una cappella qua in San Marco, tu ’l farai per mettervi l’arme tua e faraillo per tuo onore, non per onore di Dio». Un’ostentazione che sta sotto lo stesso segno — quella dell’indebita irruzione delle vanità nello spazio sacro — delle pitture blasfeme con le sante che portano sembianze di fanciulle fiorentine e «la Vergine Maria vestita come una meretrice». E ancora apostrofa gli artefici: «voi dipintori fate male, voi mettete la vanità nelle chiese. Voi fareste un gran bene a scancellarle, queste figure». «Guarda dunque per tutti li luoghi de’ conventi: [tutti gli troverai pieni d’arme di chi gli ha murati. Io alzo el capo là sopra quello uscio: io credo che vi sia un crucifisso, ed el v'è una arme; va’ più là, alza el capo: el v'è un’altra arme. Ogni cosa è pieno d’arme»]?...
35 G. SAVONAROLA, Prediche sopra Amos e Zaccaria, a cura di P. GHIGLIERI, Belardetti Editore, Roma 1971-1972, II, pp. 22-23, 24-25.
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an ale y Sur l’histoire de ce chapitre, voir P. CUBIZOLLES, Le noble chapitre de Saint-Julien-de-
Brioude, P. Cubizolles, Brioude 1980.
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EMMANUEL DE BOOS
nium auferret et sibi vendicaret»*. Il est probable que ces premières fortifications furent montées à la hâte; mais le doyen eut ensuite le temps de construire des défenses en pierre, capables de soutenir un siège. En effet, peu après, le comte d'Auvergne et le vicomte de Polignac, appelés par l’abbé et le prévòt, vinrent assiéger le doyenné, afin de ramener le doyen à la raison. Le bâtiment fut assez fort pour résister aux assauts, malgré l'importance des troupes des assaillants et les machines de guerre dont ils étaient équipés. Afin de réprimer les excès de toutes sortes commis à Brioude, le roi Louis VII envoya des commissaires; après de nombreuses tergiversations, le doyen prit peur et décida alors de remettre sa maison à l’un des envoyés royaux, nommé Cadurco, afin de la mettre sous la sauvegarde du roi. Mais les partisans de l’abbé et du prévôt, voyant le doyenné désormais sans défenseurs, se rassemblèrent et donnèrent l’assaut à l'édifice. Le doyenné fut alors pillé et les vainqueurs n’en laissèrent que des ruines’. Cette action vengeresse commise sur un bien placé “dans sa main”, permit au roi Louis VII d'intervenir en 1163 contre les comtes d'Auvergne.
Ensuite, pour plus d’un siècle, on ne dispose plus de documentation concernant le bâtiment du doyenné. En 1282, il est restitué au doyen — alors Gaucelin de La Garde — par la famille de Mercœur. L'acte de la convention le décrit alors ainsi: «Item, domum seu hospitium situm Brivate, contigue juxta hospitium abbatis, pro majori parte edificatum et pro parte dirutum, vocatum vulgariter decania, cum suis juribus et pertinenciis»®. Plus loin, le doyenné est situé avec plus de précision «domum seu hospitium vocatum vulgariter decania, situm Brivate, juxta hospitium abbatie contigue ab occidente, a meridie vico et oriente vico seu carrerie publice et a septentrionali cimiterio Beate Marie confrontatum seu juxtum, cum suis juribus et pertinentiis quantum etiam est edificatum vel dirutum»’. Les Mercœur prennent bien soin de préciser que le bâtiment est en mauvais état, par manque d’entretien, ou à cause d’un événement inconnu et
qu’il doit être reçu tel qu’il est. Puis, à partir de cet acte de 1282, on ne sait plus rien sur l’histoire du doyenné jusqu’à l’époque contemporaine. Les doyens cessèrent de résider dans l’hôtel attaché à leur fonction vers le milieu du XVII: siècle. À ce moment, cette maison massive et peu logeable ne correspondait plus aux canons de la mode architecturale du temps. Comme le faisaient les autres chanoines, les doyens se choisirent en ville des résidences
* A. DucHESNE, F. DUCHESNE, Series auctorum omnium qui de francorum historia et rebus
francicis, cum ecclesiasticis, tum secularibus scripserunt, sumptibus autoris, Luteciae, Parisiorum 1663, IV, p. 689; voir aussi p. 681.
*SIvi, prozi 6 ANE ms. lat. 273 AP 199, Liber viridis, c. 75. DIV TT.
BRIOUDE SEGRETA
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plus confortables et le doyenné proprement dit fut loué à usage d’habitation et, dès cette époque, divisé en plusieurs appartements. Les travaux effectués en vue de cette nouvelle affectation furent menés à moindres frais, au moyen de cloisonnages de bois, de briques et de terre. Le plafond de la grande salle fut alors entièrement recouvert d’un enduit de lait de chaux et de céruse, mais
demeura intact. Il semble que les fenétres actuelles datent de cette époque et il n'est plus possible de se faire une idée de l’aspect des ouvertures au Moyen Âge. Après 1789, le doyenné fut confisqué et vendu comme bien national, mais le changement de propriétaire n’affecta guère le bàtiment. Le doyenné appartient aujourd’hui à la ville de Brioude, qui de 1979 à 1980 fit réaliser des restaurations de manière à y installer une Bibliothèque municipale. En 1981, le plafond était restauré. La restauration du plafond a pu être critiquée: le décapage a parfois attaqué la couche picturale, qu’il a fallu ensuite raviver et repeindre, mais elle a pourtant l’avantage de nous présenter aujourd’hui une œuvre du Moyen Âge parfaitement lisible.
1. Le plafond du doyenné. Description d'ensemble La salle aux écus est une grande pièce de forme trapézoïdale mesurant au nord 7,10 m, à l’est 13,40 m, au sud 5,40 m et à l’ouest 12,30 m. Le mur sud, sur la
façade, est ouvert par deux hautes fenêtres ornées de balcons en fer forgé du XVIII siècle. Dans le mur ouest, sont percées deux portes; celle du sud donne
accès à une salle annexe, de forme carrée et celle du nord, sur un palier et un escalier. Enfin, dans le mur est se trouvent une porte à linteau de bois sur des assises de grès, ouvrant sur une petite pièce voûtée d’ogives et une fenêtre, plus petite que celles de la façade. La salle est couverte d’un vaste plafond, constitué de seize poutres prenant appui sur les murs (fig. 1). Elles sont reliées entre elles par des planches, épaisses et larges, placées perpendiculairement. Les poutres sont seulement peintes, mais les planches des entre-poutres ont reçu une décoration originale faite de bois découpé, puis peint. Dans la description qui en est ici donnée, les poutres et les entre-poutres ont été numérotés de I à XVI, du sud au nord; chaque armoirie a également reçu un numéro; chacune d’elles est décrite d’ouest en est. Toutes les poutres sont différentes: en longueur, du fait des dimensions irrégulières de la salle, mais également en largeur et en hauteur. Leur surface a été soigneusement égalisée et les deux angles inférieurs ont reçu une petite moulure en arrondi. La première (I) et la dernière (XVI) sont presque entièrement prises
dans le mur. Un chevêtre est enclavé à l’extrémité est des poutres VIT et X et supporte les deux poutres VIII et IX. Ce dispositif a été installé là à cause d’une cheminée qui a aujourd’hui disparu, mais dont le plafond a conservé les traces
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EMMANUEL DE BOOS
Fig. 1 Plafond peint armorié. Brioude (Haute-Loire), doyenné, salle au I° étage (vue générale depuis l'entrée en direction des fenêtres: poutres XIII, XII, XI, X, IX, VII, VII).
de suie. Il est probable que cette cheminée ait été ajoutée après la construction du plafond: non seulement le chevêtre ne porte pas de décor, mais il vient interrompre les motifs du plafond à cet endroit. Les deux faces latérales de chaque poutre sont décorées de rectangles armoriés, à l'exception des deux extrêmes, peintes seulement sur leur face externe. Les faces horizontales sont peintes d’une seule couleur, alternativement d’un rouge pâle et d’un gris-verdâtre assez foncé. Les rectangles armoriés sont au nombre de seize par face, mais cinq d’entre elles en comptent dix-sept: la poutre I, la face 2 de la poutre XIII, les deux faces de la poutre XV et la poutre XVI. La décoration est faite de séries d’armoiries, répétées tout au long de chaque pièce de bois. De la poutre I à la poutre VII, une série de deux écus est répétée huit fois; puis, de la poutre VIII à la poutre XII, face 1, c’est une série de quatre armoiries qui est reprise quatre fois. À partir de la poutre XII, face 2, et jusqu’à la fin les séries organisées disparaissent et, malgré quelques redites, les armoiries sont disposées sans ordre déterminé. Les entre-poutres ont des dimensions aussi hétérogènes que les poutres. Leur largeur varie de 0,57 m à 0,75 m. Le dernier a une forme trapézoïdale accentuée,
destinée à compenser les irrégularités du plan de la salle (voir planche XV), mais les autres sont à peu près rectangulaires. Les joints entre les planches et les poutres, ou entre elles et les murs, sont masqués à l’aide de motifs de bois
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Fig. 2 Plafond peint armorié, détail du décor de menuiserie des entre-poutres (entre-poutre I). Brioude (Haute-Loire), doyenné, salle au I° étage.
découpé, en forme de rinceaux, de feuillages, ou encore de petits animaux. Le fond du plafond est également décoré de motifs en bois découpé, de deux sortes: les entre-poutres I, III, IV, VI et VIII sont composées de huit compartiments (neuf pour le IV) contenant des animaux, le plus souvent fantastiques
(fig. 2), ou des motifs floraux, disposés en rosaces ou en arabesques, toutes différentes. Les entre-poutres II, V, VII et IX-XV sont divisées en trente-deux petits caissons par des motifs végétaux et de rinceaux, seize fois dans la longueur et deux fois dans la largeur, lesquels contiennent des ornements héraldiques, non pas en bois découpé, mais peints directement sur le fond. Il s’agit soit d’armoiries peintes sur un écu, soit de motifs à caractère héraldique et qui utilisent toute la surface du caisson (voir planches X, XV). La décoration de ce plafond est ainsi composée de deux éléments: d’une part de rectangles ou d’écus armoriés, d’autre part, d’animaux, souvent fantastiques, ou de motifs à caractère végétal plus ou moins stylisé. On remarque que, bien que commandé par un ecclésiastique, ce décor n’a rien de religieux. Il est du même type que les autres plafonds héraldiques que l’on connaît* et l’élé-
8 Voir, par exemple, les cas étudiés par MÉRINDOL, Les décors peints cit., passim où dans Plafonds peints médiévaux en Languedoc, actes du colloque (Capestang, Narbonne,
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EMMANUEL DE BOOS
ment principal est ici, précisément, l’héraldique. Non seulement elle couvre une grande partie des entre-poutres, mais elle constitue le seul décor des poutres. Les animaux et les rinceaux sont utilisés ici à la manière de ceux que l’on trouve dans les marges des manuscrits de cette époque, et leur présence n’a, semblet-il, rien de signifiant. Leur présence abondante apporte peut-être malgré tout une information: l'artiste chargé de préparer ce travail semble plus proche des enlumineurs que des peintres à fresques. L'essentiel du travail sur ce décor a été axé sur un élément principal: un rassemblement d’armoiries. Le peintre a choisi de représenter les armoiries, non pas sur les écus classiques, mais sur des rectangles qui lui permettaient de leur donner plus d’ampleur?. Cette disposition, très décorative, oblige néanmoins le spectateur a un effort de transposition: la disposition des rectangles sur les poutres pose des problèmes parfois difficiles à résoudre. Le support le plus commun des armoiries est l’écu, qui reprend la forme du bouclier utilisé par le chevalier au combat. Cette forme a évolué au cours des siècles, mais les lignes générales restent assez fixes: la plus grande dimension est dans la hauteur et la plus petite dans la largeur. Les figures stylisées qu’utilise l’héraldique se sont adaptées à cette forme verticale. Or, les rectangles qui divisent chaque poutre sont posés horizontalement, ce qui inverse le point de vue et les proportions habituels. Le peintre, pour des raisons pratiques, a parfois renversé certaines armoiries, ce
qui lui permettait de retrouver les proportions ordinaires d’un écu. La plupart du temps, on rétablit sans peine l’aplomb logique mais la difficulté vient des meubles qui changent de nature selon leur position; c’est le cas des pal(s) et des palés ou des fasce(s) et des fascés, selon qu'ils ont été ou non inclinés. Des éléments extérieurs peuvent aider à les distinguer. Le vair, notamment, dont les
cloches sont ordinairement verticales: lorsqu'on les voit couchées, c’est qu’on les a inclinées. Lorsque ces éléments manquent, l’incertitude demeure et seule l’identification — dans le meilleur des cas — permet de décider en faveur d’une solution ou d’une autre. On ne peut, en l’occurrence, qu’admirer l’extraordinaire souplesse de la représentation graphique des armoiries, qu’il est possible d’adapter à toutes sortes de supports sans pour autant les dénaturer!°. Il convient de noter
Lagrasse 2008), sous la dir. de M. BOURIN, P. BERNARDI, Presses universitaires de Perpignan, Perpignan 2009. ? Il n’a pas été possible de donner ici la description de chacune des armoiries peintes
sur le plafond. On trouvera pourtant cette liste dans DE BOOS, Le plafond armorié cit., annexe II.
!0 Le système héraldique européen semble le seul capable de s’adapter ainsi à toutes sortes de supports et de représentations graphiques: un lion, une fleur de lis, une étoile, quel que soit le nombre de ses rais, ou toute autre figure héraldique, conserve sa nature de
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aussi que si cette remarquable malléabilité a pu se développer, c’est bien que les réalisateurs des armoiries, les artistes, aussi bien que ceux qui les avaient sous
les yeux, les spectateurs, étaient capables de faire l’effort de transposition nécessaire pour rétablir l'aspect usuel de ce système emblématique. Il faut ensuite préciser que l'identification des armoiries anonymes est toujours une opération
aléatoire (voire périlleuse), qui ne doit jamais être considérée comme achevée, Bien souvent, il n’a été possible ici que d’émettre des hypothèses et, dans de nombreux cas, il n’a pu être avancé aucun nom. Bien que souvent imprécise, l’identification des armoiries peintes sur le plafond du doyenné permet d’en faire une étude poussée. Plus facilement qu'avec toute autre sorte de décor, il est possible de connaître le nom du commanditaire, de déduire une date relativement précise et d'émettre quelques idées sur ce qu'il représente. Dès l’abord, on constate que les armoiries qui constituent le décor sont de deux natures différentes. Les unes, peintes dans des rectangles d’assez grande dimension, courent le long des poutres. Les autres, sur les entrepoutres, sont, pour la plupart, représentées sur les écus classiques de la fin du XIII siècle, allongés et pointus. Elles sont de plus petite taille que les premières. Ces différences pourraient n’étre que formelle et ne pas avoir d’autre raison que décoratives. Pourtant, l’identification des armoiries de chacun des ensembles
renforce l’impression d’origine. En effet, les armoiries des poutres font penser, dans leur présentation, à celles d’un armorial, tel que ce type de document pouvait se présenter à la fin du XIII siècle!!, qui donnent d’abord les armes de grands personnages, puis celles de vassaux plus ou moins importants. Ici, après les armes impériales et royales, on trouve celles de princes ou de hauts barons, puis celles appartenant à des personnages de rang varié, originaires du Gévaudan, du Velay et d'Auvergne. Le tout forme un catalogue de cent vingtdeux écus différents. En revanche, les familles dont les armes figurent dans les entre-poutres sont bien moins nombreuses: on n’y compte que trente-quatre armoiries différentes. Toutes celles qui ont pu être identifiées appartiennent au même milieu social, celui de la moyenne noblesse, et sont originaires de la région de Brioude ou du Gévaudan. Deux familles se détachent de cet ensemble, en raison des multiples répétitions dont leurs armes sont l’objet: celles de La Garde et celle de Mercœur. Cette partie du décor a un aspect homogène, ramassé, presque intime, qui n'existe pas chez l’autre, plus ouverte.
quelque manière qu’on les représente; sur ce point — capital — voir, au moins, M. PasrouREAU, L'art héraldique au Moyen Age, Seuil, Paris 2009. !! Tels les rôles d’armes Bigot ou du tournoi de Compiègne, les armoriaux Wijnbergen, Le Breton, Vermandois, Chifflet-Prinet, ou encore les nombreux petits rôles anglais; voir, concernant ces derniers, A. WAGNER, A catalogue of English mediaeval rolls of arms, Oxford University Press, Oxford 1950.
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2. Le cycle héraldique des entre-poutres
La clé de ce décor est évidemment le nom de celui qui l’a commandé. Les armoiries d'argent au chef de gueules sont celles qui apparaissent le plus souvent sur le plafond du doyenné: elles sont répétées cinquante-cinq fois, quarante fois dans le seul décor des entre-poutres. Elles appartiennent à la famille de La Garde-Guérin, à laquelle appartenait Gaucelin de La Garde, doyen de Brioude à partir de 1280 ou 1281. Il est donc aisé d’en conclure que ce personnage est bien le commanditaire de l’œuvre. C’est autour de sa personne que se développe le décor des entre-poutres. Dans cette même partie du décor, un autre écu, d’or à quatre pals de gueules, est étroitement associé à celui du doyen Gaucelin!?. Il s’agit là des armes des vicomtes de Gévaudan, mais surtout de celles de l'évêché et du chapitre de Mende. Gaucelin de La Garde, avant d’appartenir à la hiérarchie du chapitre de Brioude, était membre de celui de la cathédrale de Mende, dès 1267; on
ignore s’il y exerça quelque charge, mais il y avait certainement conservé des liens, comme le montre la mission de conciliation dont il fut chargé à peu près à l’époque où fut réalisé le plafond, qui aboutit à la nomination de Guillaume Durand comme évêque de Mende en 1286. Il faut aussi voir là le rappel du comté d’origine du doyen et de sa famille, vassale du vicomte de Gévaudan. La connaissance imparfaite de la généalogie et des alliances de la maison de La Garde avant le XIV* siècle ne permet pas de savoir s’il existait un lien familial entre le doyen Gaucelin et les possesseurs des autres écus figurant dans les entre-poutres. Il est pourtant intéressant de noter la présence de plusieurs autres familles participant de l’organisation originale des seigneurs-pariers de La Garde-Guérin!. Là encore, pour la période qui nous occupe, les généalogies de ces familles sont trop lacunaires pour en apporter une preuve formelle, mais il est bien certain qu’une endogamie assez forte a du régner entre les différentes familles de ces seigneurs-pariers. Leurs armoiries semblent liées entre elles par l’usage des couleurs argent/azur (fig. 3), qui seraient ainsi le point commun personnifiant de manière symbolique ce pariage. Cette pratique correspond parfaitement à ce que l’on sait des usages héraldiques de cette période!*.
2 Voir plus particulièrement les entre-poutres II, V, IX. 3 Les Raymond, Altier, Hérail, Blau ou Naves...; voir C. PORÉE, Les statuts de la com-
munauté des seigneurs pariers de la Garde-Guérin (1238-1313), in «Bibliothèque de l'Ecole des chartes», 68 (1907), pp. 81-129; F. ANDRÉ, La Garde-Guérin et ses consuls, in «Bulletin de la société d'Agriculture, sciences et arts de la Lozère», 21 (1870), pp. 55-97: 61 et ss.: G. PAUL, Armorial Général du Velay, Honoré Champion, Paris 1912, p. 199; VICOMTE DE
LESCURE, Armorial du Gévaudan, André Badiou-Amant, Lyon 1929, pp. 498-500. M. PASTOUREAU, Traité d’héraldique, Picard, Paris 1979, p. 44.
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Fig.3 Plafond peint armorié, détail de l’entre-poutre XIII avec les armoiries du doyen Gaucelin de la Garde et de ses familiers. Brioude (Haute-Loire), doyenné, salle au I° étage.
Il faut remarquer aussi, dans cette partie du décor, que les armoiries des familles des autres chanoines de Brioude! sont presque absentes. On sent que là n’était pas le propos de Gaucelin de La Garde!*. Il serait donc vain de vouloir y trouver une sorte de Liber amicorum centré sur le chapitre. En revanche, on trouve abondamment (vingt-quatre fois) les armoiries de gueules à trois fasces de vair qui sont celles des barons de Mercœur et du prévôt Odilon. Leur présence peut surprendre: il est certain que les sentiments de Gaucelin de La Garde
5 Il existe plusieurs listes de chanoines de Brioude, qui souvent se copient entre elles. La plus complète est celle annexée à l'ouvrage de CUBIZOLLES, Le noble chapitre cit., grâce à laquelle on peut se faire une idée de l'effectif du chapitre dans les années 1280-1290. 16 Sur les vingt-six chanoines nommés comme témoins à la convention de 1282, seules les armoiries des familles de huit d’entre eux (marqués ici en italiques) sont peintes dans le décor: «[...] Chacun des chanoines là réunis, c’est à savoir messires Gaucelin de Montaigut, préchantre, Bernard de Rochefort, Hugues de Salhens, Astorg de Balsac, Guillaume d'Ally, Guillaume de Vèze, Astorg de Tailbac, Roland Sarrazin, Pons de Fonvico, Ebrard Sarrazin, Pierre de Paulhac, Antoine de Leotoing, Folcoys Pons d’Auzon, Girard d’Arlanc, Géraud de La Queuille, Guillaume Bompar, Pierre de Mothe, Bertrand de Laire, Pierre Radulphe, Dalmas Anhels, Pons de Saint-Géron, Armand de Brugeilles et Pons de Chalen-
con, puis après [...] messire Odilon de Mercœur, prévòt, [...], Pierre Paschier et Jean de Rochefort, chanoines de Brioude» (ANF, ms. lat. 273 AP 199 cit., c. 79).
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devaient être mélangés à l’égard du prévôt et de sa famille, puisqu'il n'avait pu entrer en possession de son doyenné qu'après un long procès et un acte de conciliation solennel. Néanmoins, la conciliation a eu lieu, ce qui aurait été im-
possible sans le bon vouloir des Mercœur. Le décor héraldique des entre-poutres évoque donc très probablement cet acte de 1282, qui consacre la restitution du doyenné au chapitre et à son possesseur légitime. Les armoiries contenues dans l’entre-poutre IX paraissent si-
gnificatives de cette volonté. On y voit alterner les écus de Mercœur avec les deux écus qui représentent le doyen, ses armes propres et celles du chapitre et de l’évêché de Mende. Il est bien difficile d'affirmer de façon sûre que cet évènement est l’objet même du décor des entre-poutres, mais il en est au moins un élément très important. En effet, le décor participe de la remise en état du doyenné, laquelle n’a pu être envisagée qu’une fois le bâtiment rendu à son possesseur légitime. On peut voir là, sans doute, l'expression de la satisfaction de ce dernier d’avoir pu emporter la palme sur la maison de Mercœur, dont l'influence sur le chapitre restait grande. Si l’on s'attache à une analyse plus complète de cette partie du plafond, on voit se développer ainsi le décor: l’entre-poutre II, qui fait alterner les seules armoiries d'argent au chef de gueules et d’or à trois pals de gueules, donne le nom du doyen Gaucelin de La Garde, à la façon d’un objet marqué des armes de son possesseur. Après deux entre-poutres sans armoiries, dont la fonction est d'isoler — et ainsi de mettre en relief — les armoiries de l’entre-poutre II, l’entrepoutre V pourrait être qualifié de généalogique. Il semble en effet qu'il faille voir là les armes de quelques familles alliées à celle de La Garde (Raymond, Altier, Hérail...). La répétition des armes du doyen et la dominante azur/argent de cet ensemble vient étayer cette hypothèse. Si l’entre-poutre IX célèbre, comme on l’a vu, la réconciliation entre le prévôt et le doyen, l’analyse des entre-poutres suivants (XI, XIII, XIV) est plus difficile à faire: les lacunes dans les identifications d’armoiries de cette partie nous empêchent de saisir la signification réelle de cette partie du décor, même si l’entre-poutre XIV semble lui aussi avoir un rapport étroit avec le doyen ou sa famille puisque ses armoiries y sont à nouveau fréquemment répétées. Même si une partie du programme nous échappe, on en perçoit néanmoins
les structures: l’entre-poutre IX, placé exactement au centre du plafond, est entouré de trois entre-poutres de chaque côté, axés sur la personne de Gaucelin. Rien ici n’a été placé au hasard. Peut-être des éléments nouveaux — héraldiques ou extérieurs aux armoiries — permettront-ils dans l’avenir de préciser les intentions du doyen?
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3. Le cycle héraldique des poutres
L'ensemble formé par les armoiries peintes sur les poutres a un aspect tout différent de celui des entre-poutres. Il s’agit d’un décor en continu, que des plages décoratives extra-héraldiques ne viennent pas interrompre. Les armoiries y sont peintes par séries, selon un schéma hiérarchique que l’on retrouve dans la plupart des décors héraldiques: la série est de deux armoiries sur les poutres de I à VII, puis de quatre sur les poutres de VIII à XIIa (tav. 1); à partir de là (poutres XIIb-XVI), les séries disparaissent, hormis sur la face b de la poutre XV, qui présente une série de quatre écus. Le fait que les armoiries soient ainsi présentées en groupes ne paraît pas avoir un but autre que hiérarchique. Le concepteur du
décor a simplement placé là les armoiries des personnages du rang le plus élevé, sur lesquelles il désirait mettre l'accent. Le but principal est essentiellement décoratif: ces répétitions contribuent à alléger l’ensemble, dont l’aspect trop varié aurait pu devenir écrasant et bigarré. L’œil du spectateur opère alors de manière presque automatique une sélection: les armoiries répétées le plus souvent sont celles des personnages importants, l’empereur, les rois et ducs, le comte d’Anjou, roi de Sicile, et son fils, le comte d'Auvergne et son cousin le dauphin d’Auvergne, accompagnées, comme un roi de sa cour ou un comte de ses vassaux, d’armes satellites, moins fréquemment citées, appartenant à des protagonistes de moindre envergure, tels les Beaudéduit, les Mourgues, les Villaret... Si, donc, on ne s’attarde pas sur ces répétitions, les armoiries peintes sur
les poutres constituent une liste qui semble proche de celles que l’on trouve contenues dans les armoriaux manuscrits de cette époque, tels le ròle d’armes Bigot, celui du tournoi de Compiègne, l’armorial Wijnbergen ou l’armorial Le Breton!”, pour ne citer que quelques exemples français. Comme nous le savons, un armorial est un rassemblement d’armoiries, qu’elles soient peintes ou blasonnées'!#; ceux que l’on connaît sont d’ordinaire réunis en un livre, mais, à la vérité, toute réunion d’un ensemble d’armoiries a vocation à former un
17 P. ADAM-EvEN, Ur armorial français du milieu du XIII siècle. Le rôle d'armes Bigot, 1254, in «Archives héraldiques suisses», 63 (1949), 1, pp. 15-22, 68-75, 115-121; E. DE BARTHÉLEMY, Le tournoi de Compiègne, qui eut lieu en présence du roi saint Louis au mois de juin 1238, Triqueneaux-Devienne, Saint-Quentin 1873; U. Barzini, E. pe B00s,
L'armorial Beyeren, un siècle et demi d'héraldigue médiévale (composé des rôles du tournoi de Compiègne, du tournoi de Mons, de l'expédition de Kuunre en Frise, du siège de Gorinchem, et des Trois Meilleurs), à paraître; P. ADAM-EvEN,
L. JÉQUIER, Un armorial français du
XIII: siècle: l’armorial Wijnbergen, in «Archives héraldiques suisses», 65 (1951), pp. 49-62, 101-110 et 66 (1952), pp. 28-36, 103-111; L'armorial Le Breton, éd. par E. DE BOOS et alii, Somogy-Groupe Malakoff-Centre historique des Archives nationales, Paris 2004. 18 C'est-à-dire décrites à l’aide des termes techniques formant la langue du blason. Voir E. pE Boos, Dictionnaire du blason, Le Léopard d’or, Paris 2001, p. 38 et passi.
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armorial, quel qu’en soit le support. Dans la France du nord, les armoriaux manuscrits sont fréquents mais les ensembles monumentaux rares. En revanche, les proportions sont inverses dans la France du sud'°: on y recense de nombreuses salles armoriées, mais le seul recueil à pouvoir être considéré comme un véritable armorial manuscrit méridional est l’armorial de Guillaume Revel’,
composé seulement au milieu du XV: siècle. Il semble donc bien que les salles armoriées aient joué dans la France du sud le même rôle que les armoriaux manuscrits dans la France du nord. Le décor de Brioude est une bonne illustration de ce fait. Le décor qu'ont reçu les poutres paraît bien pouvoir être considéré, au même titre que la frise du château de Revel ou la voûte peinte de La Diana à Montbrison?!, comme un véritable armorial (tav. 1, 2). Ces recueils appelés armoriaux était de deux types principaux: les armoriaux “occasionnels”, recensant les armoiries de personnages réunis pour une raison bien précise, un évènement marquant dont on
désirait perpétuer le souvenir et donc facilement datables; et les armoriaux dits “provinciaux”, qui donnaient les armes de nombreux personnages ou familles, classés par provinces ou marches et tendant à l’universalité. Les armoriaux manuscrits ont sur les décors armoriés un avantage indéniable, celui d'accompagner chaque armoirie du nom de son possesseur. Très rares sont en effet les décors où les armoiries soient ainsi nommées??. Le travail d'identification des armoiries de ces ensembles n’en est évidemment pas facilité et il reste en ce qui les concerne une part d'incertitude plus grande que pour les armoriaux proprement dits?. Le plafond de Brioude donne les armoiries de personnages possessionnés en !? E. DE Boos, Les décors héraldiques sont-ils des armoriaux?, in Les armoriaux médiévaux, actes du colloque (Paris 1994), sous la dir. de L. HoLrz, M. PASTOUREAU, H. LovAU, Le Léopard d’or, Paris 1997, pp. 281-290; voir aussi C. pe MÉRINDOL, Recueils d’armotries
et décors monumentaux peints et armoriés à la fin de l'époque médiévale, ivi, pp. 291-332. 2° E. DE Boos, L'armorial d'Auvergne, Bourbonois et Forestz de Guillaume Revel, Créer, Nonette 1998. 21 Sur le décor de Ravel, voir M. LaLoY, La frise héraldique de Ravel, in «Bulletin historique de l’Auvergne», 77 (1957), pp. 41-64, et EAD., La salle aux écus de Ravel, in «Archivum heraldicum», 72 (1958), pp. 26-30. Concernant le décor de la Diana, la documentation est ancienne et peu scientifique, et n’a guère été renouvelée depuis J. DELAROA, Les
blasons de La Diana, Imprimerie Regnier et Dourdet, Paris 1867, qui est surtout un album. Pour l’un comme pour l’autre, voir surtout, MÉRINDOL, Corpus des décors cit., n. 227 (La
Diana) et nn. 296-297 (Ravel). 7 Les décors armoriées où les armoiries sont accompagnées du nom de leur possesseur ne représentent guère que 4 à 6 % de ceux que je connais, et ceci dans l’Europe entière.
# Dans le présent article, pour des raisons d’espace, il n’a pas été possible de fournir une liste complète donnant l'identification des armoiries peintes dans le décor. Ces identifications figurent de manière plus détaillées dans l’annexe II de mon précédent article, déjà ancien (DE Boos, Le plafond armorié cit.), que j'espère pouvoir reprendre prochainement dans une version plus complète.
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Auvergne — tels les Courcelles du Breuil, Volpilhère, Bréon, Escot ou Du Broc, en Velay, comme les Polignac, Langeac, Artasse, Auzon, et en Gévaudan, ainsi
les Du Tournel, Borne, La Gorce, Montlaur, Barre — mais on y note aussi la présence inattendue de personnages étrangers à ces trois régions, tels les ducs de Bourgogne et de Lorraine, le comte de Bar, les évêques de Laon et de Beauvais, tous deux pairs de France, ou encore des membres des familles de Vendôme, de
Beaugency. C’est pourquoi il pourrait faire penser de prime abord à un armorial provincial, où les armoiries étrangères au Massif Central représenteraient la vocation à l’universalité de ce type de recueils. Mais en fait, on constate que tous les décors semblables à celui de Brioude sont proches des armoriaux occasionnels. Les commanditaires de tels ensembles désiraient toujours célébrer un évènement précis, auquel ils avaient pu participer, de près ou de loin, comme acteurs ou simples spectateurs. L'iconographie de l’ensemble des entre-poutres est trop structurée pour que le doyen ait laissé peindre sur les poutres des armoiries dont la réunion ne serait pas justifiée par un fait précis. Ici aussi, l’hypothèse d’un armorial du chapitre de Brioude a dû être écartée. On trouve certes les armes de nombreuses familles ayant compté parmi ses membres un chanoine de Brioude à cette époque, mais aussi celles de familles n'ayant aucun rapport avec le chapitre”. De plus, le nombre des armoiries citées dépasse de beaucoup l'effectif du chapitre à cette époque. En fait, les armes susceptibles de fournir la clé de ce décor ne sont pas tant celles que l’on s'attend à trouver là, celles des familles originaires du Massif Central, que celles qui forment écart. Les plus remarquables d’entre elles sont les armes d’un très haut personnage sans lien avec Brioude, Charles d'Anjou, roi de Sicile et celles de son fils, Charles, prince de Salerne. Il s’agit d’armes brisées d’une part, sur-brisées d’autre part appartenant à deux personnages bien précis. Les armes de ces deux princes sont placées en tête de liste, immédiatement après celles du roi et de l’empereur. Il semble donc qu’on puisse lier le décor du plafond de Brioude
2 Les maisons de Mercœur ou d’Apchier, les comtes et dauphins d'Auvergne, mais aussi les familles de Rochefort d’Ally, d’Auzon, de Montlaur, de Langeac, de Tailhac, d’Alègre, par exemple, sont connues pour avoir donné de nombreux chanoines au cha-
pitre de Brioude, et ceci dès le XII° siècle. 2 Les ducs de Bourgogne et de Lorraine, les comtes de Bar ou de Champagne n’ont eut que des contacts presque inexistants avec le chapitre. Il en va de même des Join-
ville, Beaugency, Châtillon Saint-Pol, Vendôme, qui appartiennent à d’autres contrées que le Massif Central. Beaucoup plus rares sont les familles de cette région qui, comme les Grimoard en Gévaudan, les Flotte en Auvergne, n’ont donné aucun de ses membres au
chapitre de Brioude.
‘26 Lesquels représentent ici plus leur fonction que leur personne propre, comme c'est
généralement le cas dans les armoriaux contemporains.
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à des faits en rapport avec la maison d'Anjou. Les armes du roi de Sicile sont ici celles de Charles, frère de saint Louis, mort en 1285. Le plafond a donc été édifié ou relate des faits survenus antérieurement à cette date. D'autre part, celui-ci n’a pu être peint qu'après 1281, le doyenné, en ruine, étant avant cette date entre les mains des Mercœur; peut-être même, compte tenu de la lenteur
des travaux de reconstruction peut-on légitimement reculer cette date jusqu’en 1283. Le laps de temps entre ces deux dates est donc fort court. Pendant cette période, le roi de Sicile se trouvait en Italie, en fâcheuse posture à la suite de la révolte des Siciliens, en 1282, connue sous le nom de Vépres siciliennes, sou-
tenue par Pierre III, roi d'Aragon, qui revendiquait la possession de la Sicile. En revanche, son fils Charles, prince de Salerne, se trouvait en France, où il
était venu solliciter la constitution d’une armée de renfort. La mission du prince de Salerne en France fut un succès d’autant plus grand que le pape Martin IV (Simon de Brion, 1281-1285) l’appuya en faisant de l’expédition prévue une croisade. Il excommunia Pierre III et offrit le trône d'Aragon au troisième fils de Philippe le Hardi, Charles, comte de Valois”. Le roi Philippe organisa lui aussi une expédition, la “croisade d'Aragon”, pour appuyer et soutenir son fils. Elle ne fut pas heureuse. L'armée que le prince de Salerne ramena à Naples nous est connue, au moins en partie, par une liste publiée par Henri Gourdon de Genouillac et le marquis de Piolenc?8. Les éditeurs ne précisent malheureusement pas leurs sources et il n’a pas été possible de retrouver l’origine de cette liste. Elle est constituée de nombreux chevaliers provençaux, accompagnés de personnages originaires de toutes les régions de France. Cette liste, augmentée par quelques informations complémentaires, permet de savoir qu’un certain nombre des personnages dont les armes sont peintes sur le plafond de Brioude ont effectué le voyage de Sicile. Ce sont celles du duc de Lorraine, de Guy de Chatillon-Saint-Pol, Raymond Flotte (?), Guy de Séverac, Itier de Brion, Odilon-Guérin du Tournel, Bouchard de Vendôme Lavardin, Humbert de Beaujeu Montpensier, connétable
de France, Adam de Bruyères (?), le comte de Bar. Le croisé le plus important, pour ce qui concerne le décor du plafond, fut le comte d'Auvergne et de Boulogne, Robert VI, qui prit une part active à la croisade et fut fait prisonnier en 7 Lequel se fit graver, en cette occasion, un magnifique sceau de majesté, qu'il n’utilisa que fort peu; voir Corpus des sceaux français du Moyen Age, III. Les sceaux des reines et des enfants de France, éd. M.-A. NreLEN, Archives Nationales, Paris 2011, pp. 189-190, nn. 90-90bis.
# Ces auteurs ont publié cette liste — qui reste bien imparfaite - dans H. GOURDON DE GENOUILLAC, MARQUIS DE PIOLENC, Nobiliaire du département des Bouches-du-Rhône. Histoire, généalogie, Dentu, Paris 1863, pp. 196-197. Cette référence m’a été communiquée
par monsieur Christian de Mérindol; qu’il soit ici remercié pour l’aide attentive qu’il m’a accordée à toutes les étapes de la réalisation de ce travail.
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1285 par le roi d'Aragon. Il est certain qu’il ne partit pas seul, mais emmena avec lui une partie de ses vassaux. Il n’est pas possible de préciser lesquels car, pour ce qui concerne l’Auvergne, cette expédition n’a pas fait l’objet d’une étude particulière. Mais il est probable qu’un certain nombre de chevaliers auvergnats dont les armes figurent dans le décor du doyenné aient suivi le comte, leur suzerain, en cette occasion.
L'expédition de Sicile semble donc bien être au centre de l’iconographie de cette partie du décor du doyenné, la plus abondante. Mais il est bien difficile de préciser davantage. On ne peut y voir un ròle complet de la croisade de Sicile: la proportion des armoiries auvergnates est trop forte par rapport aux armoiries étrangères au Massif Central. En revanche, il pourrait relater un passage de l’armée du prince de Salerne — ou d’une partie de celle-ci — en marche vers la Méditerranée, puisque la route la plus fréquentée alors passait par Brioude. Il est également possible qu’il s'agisse de la levée de l’ost des chevaliers des trois provinces en vue de l’expédition sicilienne, rassemblé à Brioude. On aimait, pour ce faire, choisir un point de ralliement proche d’un lieu saint, afin d’invoquer la protection de Dieu et du saint vénéré en l’endroit ainsi choisi. Une autre hypothèse nous rapproche de la personne du doyen Gaucelin de La Garde. Selon Lescure, il fut membre du conseil privé du roi?9; il ne précise
pas lequel, mais il dut plutôt exercer cette haute fonction à la fin de sa vie, sous Philippe le Bel. Gaucelin semble bien avoir ce “profil de légiste” qui plaisait à ce souverain. Auparavant, il a dû monter en grade à la faveur de missions diplomatiques, compatibles avec son état d’ecclésiastique. Peut-être, en ce cas, fut-il chargé de tractations entre les différents protagonistes du conflit? Cela expliquerait la présence des armes du roi de Castille et du roi de Navarre, de deux évêques et d’autres personnages n'ayant pas un rapport direct avec le conflit. Le décor du plafond aurait alors un lien direct avec le doyen, acteur modeste d’un grand événement international. En l’absence de documents apportant des preuves à ces hypothèses, il n’est malheureusement pas possible de préciser davantage.
4. Pour une datation du cycle héraldique de Brioude De nombreuses réalisations monumentales sont souvent difficiles à dater avec précision lorsqu'on ne dispose pas pour cela de documentation extérieure aux œuvres elles-mêmes, de registres comptables, de lettres ou de récits (annales
ou chroniques) les mentionnant. L'héraldique est en cela un très précieux auxi-
2 VICOMTE DE LESCURE, Arzzorial du Gévaudan, cit., p. 498.
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liaire: «les dates extrêmes du port d’un écu par un individu forment grâce aux brisures, aux règles de composition et aux combinaisons d’armes, une four-
chette beaucoup plus réduite que celle constituée par ses dates de vie et de mort»?°, Lorsqu’il s’agit d’un monument, ou d’un objet, portant les armes de plusieurs personnages comme c’est ici abondamment le cas, il est possible de comparer les dates que l’on connaît concernant chacun d’eux, afin d’obtenir une date résultante qui peut se révéler très précise’!. La date à laquelle Gaucelin de La Garde a fait faire le plafond de la grande salle de son doyenné se déduit facilement des paragraphes précédents. Il n’a pu être commandé qu'après 1282, après que les restes du bâtiment lui aient été restitués solennellement par la maison de Mercœur. D’autre part, il a été réalisé du vivant du roi de Sicile, mort en 1285, puisque ses armoiries figurent, en bonne place, dans ce décor. La fourchette de dates ainsi obtenue peut sans doute être réduite encore si l’on tient compte de la durée des travaux. Il s’agit d’un décor; il ne peut avoir été réalisé et peint qu’une fois les gros travaux de construction et de maçonnerie achevés, donc sans doute guère avant 1283. On obtient ainsi une date fort précise; elle est idéale et logique et il est possible, bien sûr, de la critiquer puisque le doyen aurait pu faire réaliser son décor en mémoire d’un événement passé dont il aurait été l’un des acteurs. L'insuccès de la croisade de Sicile et la cuisante défaite navale que l’amiral de Loria a imposé au prince de Salerne”?, permettent d’écarter cette hypothèse, qui aurait été beaucoup plus plausible en cas de victoire. Il ne faut pas oublier, lorsqu'on essaye de dater un monument ou un objet au moyen de l’héraldique, que celle-ci est un très précieux auxiliaire, dont il ne faut jamais négliger l'importance, mais qu’elle peut aussi être une source d’erreur, lorsqu'elle est utilisée avec un esprit trop mathématique ou systématique.
30 PASTOUREAU, Traité d’héraldique cit., pp. 247-248.
5 Ivi, p. 248.
? E. BALUZE, Histoire généalogique de la maison d'Auvergne, Antoine Dezallier, Paris 1708, IT, p. 108; sur l’épisode des Vépres siciliennes et ses suites, voir E. LÉONARD, Les Angevins de Naples, Presses universitaires de France, Paris 1954, pp. 138-160; Palerme, 1070-1492. Mosaique de peuples, nation rebelle: la naissance violente de l'identité sicilienne,
sous la dir. de H. Bresc, G. BRESC-BAUTIER, Autrement, Paris 1993; S. RUNCIMAN, Les Vépres siciliennes, Les Belles-Lettres, Paris 2008 (ed. or. Cambridge 1958).
CONTESTI IMPREVEDIBILI. CAVALIERI DI FRANCIA A SAN GIMIGNANO Alessandro Savorelli
L'identificazione di stemmi anonimi su dipinti, sculture, edifici e manufatti, è un
esercizio che lo storico dell’arte è costretto a praticare abbastanza spesso — magari contro voglia — poiché l’araldica è tra i pochi elementi in grado di fornire uno “stato civile”! ad un’opera (una datazione, una provenienza, una committenza). Ma l’insegna araldica non offre solo informazioni e non è solo un’apposizione di segni, destinati a indicare un elementare riferimento di possesso: è
parte integrante di un “contesto”, giacché, a causa della sua enorme diffusione e della stretta correlazione con la mentalità dell’epoca, fa trasparire intenzioni, allusioni (magari criptiche) e modi di presentarsi della committenza, della quale marca lo status e le aspirazioni. Questo aspetto è presente anche nell’arte “civile”, sia di committenza pubblica, sia privata, delle corti e dei Comuni italiani: i
messaggi inviati dall’araldica in questo ambito non sono sempre perspicui, anzi risultano talvolta irrimediabilmente problematici per la loro frammentarietà, ma possono rivelarsi significativi per la lettura di un’opera?. Nella maggior parte degli ambienti pubblici o in opere singole di committenza civile, di rado ci si trova in presenza di stemmi isolati, ma quasi sempre, invece, di gruppi o sequenze. Quest'ultima è una situazione oggettivamente vantaggiosa, anche se non sempre sufficiente per la decifrazione di un contesto: la presenza di stemmi multipli facilita in genere il compito dell’interprete, mentre un pezzo singolo o erratico lo complica, giacché resiste facilmente ad ogni tentativo di identificazione. Tra gli esempi di questa situazione potenzialmente favorevole ricorderemo l’episodio della cosiddetta Tavola Strozzi, conservata presso il museo di Capodimonte a Napoli: la molteplicità di insegne presenti
1 M. PASTOUREAU, Traité d’héraldique, Picard, Paris 1993? (ed. or. 1979), p. 278. 2 Tra gli studi più recenti, assai innovativi in questo senso, v. almeno: L.C. GENTILE, Rit
ed emblemi. Processi di rappresentazione del potere principesco in area subalpina (XIII-XVI
secc.), Zamorani, Torino 2008; C.F WEBER, Zeichen der Ordnung und des Aufrubrs. HeraldiWien sche Symbolik in italienischen Stadtkommunen des Mittelalters, Bôhlau, Kôln-Weimar2011.
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sul dipinto consenti a Vittorio Spinazzola di smentire la lettura datane da Benedetto Croce’; o quello assai recente degli affreschi del Broletto di Brescia, dove,
nonostante la grave lacuna nelle fonti dell’araldica antica di quel territorio, la possibilità di identificare alcuni stemmi si è rivelata sufficiente a dotare di senso l'insieme del ciclo*. Ma non sempre è così. Soprattutto per le testimonianze più antiche, fonti e strumenti si rivelano inadeguati: l'apparato araldico plurale di cicli molto arcaici, come gli affreschi del Palazzo della Ragione di Mantova, o del Palazzo vescovile di Pistoia (per non dire dei cicli di Palazzo Davanzati a Firenze, dove il confine tra ciò che è originario — del Trecento — e ciò che è frutto di ridipintura appare incerto), non ha consentito finora di formulare ipotesi valide. Lo stesso è accaduto per un ciclo più vicino nel tempo e ben altrimenti noto, come La leggenda della vera croce di Piero della Francesca ad Arezzo: vari interpreti, tentando di decifrarne l'apparato simbolico, hanno proposto soluzioni non basate su un impiego corretto dei fondamenti tecnici e storicoevolutivi del linguaggio araldico, e in definitiva sensazionalistiche o temerarie: qui, come altrove, la molteplicità degli stemmi, unita a difetti di metodo e di impostazione del problema, non ha favorito lo storico, anzi ha finito spesso per ingarbugliare la questione?. La decifrazione di simili contesti sconta alcune difficoltà tecniche oggettive, particolarmente evidenti per il periodo medievale e ancor più in Italia, dove le fonti araldiche primarie anteriori alla metà del XIII secolo sono rare, e i repertori perlopiù recenti, contengono informazioni dubbie o lacunose. Ma è da sottolineare innanzi tutto che, una volta acquisiti gli strumenti di base e verificata l’attendibilità ed esaustività delle fonti, un’astratta trattazione metodologica non può presiedere alla lettura di stemmi anonimi. Diventa invece fondamentale il confronto sul terreno concreto e sul singolo episodio. Diffidando delle insidie degli anacronismi che derivano dall’erronea, ma diffusa, percezione dell’araldica come di un sistema omogeneo e “senza tempo” di regole e usi, e impiegando con cautela il metodo comparativo è possibile raggiungere un equilibrio coerente tra dati storici e ipotesi di lettura dei segni, in grado di condurre
> Cfr. G. PANE, La Tavola Strozzi tra Napoli e Firenze, Grimaldi, Napoli 2009. 4 Su questo ciclo cfr. il testo di Matteo Ferrari compreso in questo volume, pp. 91-107. ? Sul caso pistoiese, v. N. RAUTY, L'antico palazzo dei vescoviaPistoia. I. Storia e restauro, Olschki, Firenze 1981. Quanto alle interpretazioni particolarmente estemporanee di A. CICINELLI et al., Matilde, Mantova e i Palazzi del Borgo. I ritrovati affreschi del Palazzo della Ragione e del Palazzetto dell’Abate, Sintesi, Mantova 1995, ne abbiamo discusso in A. SAVORELLI Piero della Francesca e l’ultima crociata. Araldica, storia e arte tra gotico e Rinascimento, Le Lettere, Firenze 1999, pp. 31-35; nello stesso testo (p. 89 e ss.) abbiamo affrontato anche la controversa questione del ciclo pierfrancescano, smentendo le varie letture, per lo più infondate, tentate da alcuni studiosi.
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ad una soluzione sufficientemente argomentata 0, se possibile, dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. Il caso che esporremo, quello del ciclo araldico della cosiddetta Sala di Dante del Palazzo del Popolo di San Gimignano, è in parte esemplificativo di questi problemi. Se esso conferma che l’adeguata lettura di una pluralità di insegne agevola il compito dell’interprete, viceversa, per la sua singolarità, e a motivo dell’apparente — solo tale, come vedremo — imprevedibilità del contesto, induce a stare in guardia nei confronti di deduzioni affrettate o in qualche modo precostituite e preordinate alla ricerca: cioè a non costruirsi attorno una gabbia dalla quale poi risulta difficile svincolarsi. Apparente imprevedibilità, ripetiamo, poiché il caso era apparso problematico solo a causa di presupposti fuorvianti e di una rudimentale ricognizione dei dati araldici. Una studiosa americana, Jean C. Campbell, per prima, si pose alcuni anni fa il problema della decorazione araldica della Sala di Dante, nel quadro di una analisi della pittura civile del palazzo pubblicof. Il restauro condotto negli ultimi anni consente oggi di poter tornare sul tema con maggior cognizione di causa. Come è noto la sala del consiglio del Palazzo del Popolo di San Gimignano è detta tradizionalmente Sala di Dante in ricordo dell’ambasceria tenutavi dal poeta nel maggio 1300 come rappresentante della lega guelfa: un dipinto del 1899, opera di Carlo Jozzi; ritrae la scena, immaginando l’ambiente come
poteva essere al tempo di quella missione diplomatica. Vi manca cioè la Maestà di Lippo Memmi nella parete sud, realizzata nel 1317, coprendo una vasta porzione degli affreschi precedenti con le notissime figurazioni allegoriche e le vivaci scene di caccia e di torneo. Gli stemmi sotto il soffitto raffigurati dallo Jozzi mostrano qualche fedeltà agli originali, a quanto emerge dal confronto con vecchie fotografie’. Il reperto araldico di maggior rilievo dell'ambiente — e assai enigmatico — è appunto la serie degli stemmi che occupa la cornice sotto il soffitto. Dal punto
6 Cfr.J.C. CAMPBELL, The game of courting and the art ofthe Commune of San Gimignano, 1290-1320, University Press, Princeton 1997.
? Carlo lozzi (1844-1929). Dall Accademia alla pittura di genere, a cura di F. CASPRINI, Centro Di, Firenze 2005, pp. 84-85, 133-144. 8 Accanto a esso compaiono altri stemmi raffigurati sugli scudi e sulle gualdrappe dei cavalieri negli affreschi sottostanti, quelli dipinti sul baldacchino della Maestà e nella cornice della medesima — ora compiutamente ricostruita da V. Favini, I/ pavese araldico-istituzionale del comune nella cornice della Maestà, in «Nobiltà», 15 (2008), 82, pp. 63-74, che vi ha correttamente identificato le insegne delle istituzioni politiche e quelle, del tutto inedite, delle “contrade”: una serie dunque di rigoroso impianto civile — e qualche esemplare erratico, sovrammesso alle pitture più antiche, che è da riferirisi a magistrati dell’epoca della dominazione fiorentina (come lo stemma Ricci visibile sulla parete orientale e il leone
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Fig. 1 Azzo DI MASETTO (?), Scene cavalleresche e omaggio a Carlo II d'Angiò, particolare. San Gimignano, Palazzo del Popolo, “Sala di Dante”, pareti nord ed est. di vista meramente quantitativo, la testimonianza è, se non un unicum, certo una
rarità nel panorama duecentesco. Serie superstiti così omogenee e organiche in un palazzo pubblico italiano nel XIII secolo sono molto rare: di regola, con poche eccezioni, cicli analoghi (politici, commemorativi, decorativi etc.) sono datati dal Trecento in avanti sia in Lombardia, sia nelle città dell’Italia centrale.
Colpisce inoltre a San Gimignano la qualità del lavoro: si tratta di scudi gotici di grandi dimensioni e di esecuzione tecnicamente e stilisticamente molto raffinata (fig. 1, tav. 3), un esempio insomma tra i più significativi di quegli “stemmari occasionali” inseriti in un ciclo decorativo, dei quali esistono cospicue testimonianze due-trecentesche in varie parti d'Europa, ma soprattutto tra Spagna, Francia, Svizzera e Germania?. bandato, di incerta attribuzione, su quella meridionale); altri frammenti araldici dispersi si trovano ai piani superiori.
? Cfr., sul tema, le messe a punto di E. DE Boos, Les décors héraldiques sont-ils des armoriaux?, in Les armoriaux médiévaux, actes du colloque (Paris 1994), sous la dir. de L. Hotrz, M. PASTOUREAU, H. Loyau, Le Léopard d’or, Paris 1997, pp. 281-289, e di C.
DE MÉRINDOL, Recueils d’armoiries et décors monumentaux peints et armoriés à la fin de l’époque médiévale, ivi, pp. 291-331; Ip., Images du royaume de France au Moyen âge. Décors monumentaux peints et armoriés: art et histoire, préface de M. PASTOUREAU, Conseil général du Gard, Pont-Saint-Esprit 2013.
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La cornice doveva contenere originariamente settantadue scudi (undici su ciascuno dei lati corti e venticinque su quelli lunghi della sala), ma tredici furono coperti dalla parte superiore della Maestà. I recenti restauri hanno eliminato alcune ridipinture abitrarie eseguite tra Otto e Novecento: il risultato è che oggi solo quarantasei scudi rimangono leggibili, in tutto o in parte, mentre in altri tredici il colore è caduto. La Campbell ha avuto il merito di puntare su un elemento decisivo per la datazione degli affreschi, proprio in base a un dettaglio araldico della scena raffigurato sulla parete est, ossia lo stemma — d’argento al capo d’azzurro — del podestà Bengo de’ Buondelmonti, in carica nel secondo semestre del 1289, posto ai piedi di un personaggio in atto di recare l’omaggio di un falcone a un sovrano angioino. Il quale non può essere, a quella data, che-Carlo II lo Zoppo, in procinto di essere incoronato re di Napoli (tav. 3). Questa datazione smentiva le ipotesi formulate in precedenza, secondo le quali la scena avrebbe raffigurato eventi diversi: ovvero un arbitrato del vescovo Scolaio Ardinghelli tra il Comune e i canonici della cattedrale avvenuto nel 1292. L’equivoco era stato generato da una erronea lettura degli strati di pittura appartenenti in realtà a periodi distinti!°. In altre circostanze la scena fu interpretata come un omaggio a Carlo I d'Angiò, e situata, dal punto di vista cronologico, a ridosso dell'impresa del 1266 — dunque ben prima che il palazzo fosse costruito ! — che aveva insediato la dinastia angioina sul trono di Napoli, ponendola a capo del guelfismo italiano. Per inciso, lo stemma del sovrano dipinto sul baldacchino del trono, appare di non buona qualità rispetto agli altri, e sembra interpolato in epoca posteriore.
Ulteriori analisi eseguite in fase di restauro hanno confermato la datazione fornita dalla Campbell, come argomentò Alessandro Bagnoli in due conferenze tenute nel 1992 a San Gimignano e nel 1999 a Pisa presso la Scuola Normale Superiore!!. Dal restauro e dall'esame condotto dal Bagnoli provengono però altre informazioni altrettanto decisive: è stato infatti possibile decifrare le legende (prima lacunose) apposte agli undici stemmi della cornice che sovrastano la scena dell’omaggio, che nemmeno la Campbell aveva potuto leggere del tutto. La serie comprende innanzi tutto gli stemmi di Firenze (città a capo della fazione guelfa di Toscana e principale alleato di San Gimignano) e di alcune monarchie
10 Come sostenne L. PecoRI, Storia della terra di San Gimignano, rist. anast. a cura di V. BARTOLONI, Comune di San Gimignano, San Gimignano 2006 (ed. or. Firenze 1853),
pp. 116-117. !! Cfr. quanto ne riferisce parzialmente Sabina Spannocchi, all’interno del volume La terra dei musei, a cura di T. Dern, Giunti, Firenze 2006, pp. 318-325, 344-353; Alessandro Bagnoli — che ringraziamo per averci cortesemente confermato tempo addietro i risultati
della sua indagine — attribuisce gli affreschi al pittore fiorentino Azzo di Masetto.
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europee (Aragona, Castiglia, Francia, Stato della Chiesa, Impero — scarsamente leggibile —, Inghilterra)!2. Accanto ad essi si trovano quelli di tre personaggi: il primo è uno dei più influenti amministratori e capi militari del fronte angioino, Guy de Montfort, conte di Nola (1244 ca.-1291/2 ca., «Dominus Comes
de Monforte») vicario di Carlo I in Toscana, morto in quel torno d’anni dopo esser stato prigioniero degli aragonesi di Sicilia; gli altri sono rispettivamente Amerigo di Narbona («Dominus Americus»: la legenda è chiara, ma lo stemma è lacunoso)! e Carlo Martello («Dominus Carolus Martellus»). Amerigo («Aimeric») di Narbona, fu capitano di guerra attribuito alla lega guelfa toscana da Carlo II nel 1289 e combatté a Campaldino!'. Carlo Martello, figlio del re Carlo II, era vicario regio a Napoli a partire dal 1290 e, dallo stesso anno, re
titolare d'Ungheria”. La scena, così precisa nella menzione dei personaggi della corte angioina, si colloca dunque nel periodo immediatamente successivo alla liberazione di Carlo II d’Angiò (fine 1288) dalla prigionia aragonese che durava dai tempi della guerra del Vespro. Carlo era entrato in Italia, dopo aver sostato a Parigi presso Filippo IV, diretto a Rieti, dove giunse alla fine di maggio per essere incoronato re di Napoli. Dopo aver soggiornato a Firenze dal 2 al 5 maggio, aveva mosso verso Siena lungo la via Francigena: è probabile che possa essersi fermato anche a San Gimignano, nel quadro delle relazioni con gli alleati toscani minori!°. Le
12 Lo stemma seguente, svanito, appariva nel disegno preparatorio dello Jozzi d’argento a tre sbarre d’azzurro, ma l'eliminazione della figura in fase di restauro fa supporre che si trattasse di una ridipintura. Del resto anche quello seguente, d’Inghilterra, risulta nella copia dello Jozzi del tutto diverso e dunque all’epoca la sequenza doveva essere parzialmente corrotta. 1 Anche in questo caso la versione dello Jozzi è apocrifa: uno stemma inquartato a quattro bisanti che recano lo stemma di Firenze. A meno che non si tratti di un’inedita arme occasionalmente attribuita al Narbona o da lui assunta al momento del suo incarico. 14 G. VILLANI, Nuova cronica, ed. critica a cura di G. PorrA, VIII, Guanda, Parma
1991, pp. 130-131.
5 Il suo stemma è quello degli Angiò-Napoli, con l’aggiunta di una banda d’argento caricata di tre martelli di nero: quella di San Gimignano è l’unica attestazione di questa insegna, precedente all’investitura del principe a re d'Ungheria nel 1292. Carlo II aveva sposato Maria d'Ungheria, figlia di Stefano II, e da questa unione era nato Carlo Martello: è a partire da questo momento che gli Angiò, con l’estinzione della casa degli Arpäd, avrebbero fatto valere le loro pretese su quel trono, dando inizio fra molti contrasti a una dominazione durata fino al 1403. Dante, come è noto, lo celebra, unico tra gli odiati an-
gioini, come la perduta speranza di un re giusto e virtuoso, nutrito di ideali cavallereschi e letterari a lui simpatetici (Par, VIII, 49-148). !6 Cfr. VILLANI, Nuova cronica cit., VIII, p. 225 e A. KIESEWETTER, Die Anjfänge der
Regierung Kònig Karls 2. von Anjou, 1278-1295. Das Künigreich Neapel, die Grafschaft Provence und der Mittelmeerraum zu Ausgang des XIII Jabrbunderts, Matthiesen, Husum 1999, pp. 193-196, che riprende un precedente studio (1997) sull’itinerario dei viaggi di
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cronache precisano che Carlo aveva con sé cosi «piccola compagnia di gente d’arme», che si rese necessaria la scorta dall’esercito fiorentino (ottocento ca-
valieri e tremila fanti) fino allo Stato della Chiesa, giacché si era saputo che «le masnade d’Arezzo s’apparecchiavano d’andare in sul contado di Siena per impedire o far vergogna al detto prenze»!”. Il Villani aggiunge che, accompagnato il principe ai confini della Toscana, i fiorentini gli chiesero «uno capitano di guerra» e che Carlo nominò appunto Amerigo di Narbona, il quale «venne a Firenze con sua compagnia, intorno di cento uomini a cavallo». Dino Compagni conferma che al seguito del Narbona erano «molti altri cavalieri atti ed esperti a guerra»! Gli eventi incalzavano e Firenze si apprestava al redde rationem con la ghibellina Arezzo, culminato l’11 giugno seguente nella battaglia di Campaldino, ove, in onore del capitano d’arme francese che prese parte allo scontro col suo reparto, l’esercito mosse al grido di «Nerbona cavaliere»? La data della battaglia precede di poco l’entrata in carica di Bengo de’ Buondelmonti come podestà di San Gimignano: è estremamente verosimile perciò che nel commissionare l’affresco il podestà fiorentino, membro di una di famiglia di tenace tradizione guelfa, abbia voluto celebrare il suggello dell’alleanza col re di Napoli — che egli aveva forse potuto vedere a Firenze col suo seguito — e al tempo stesso l’evento bellico che aveva coinvolto la stessa San Gimignano, per via del contingente d’armati inviato a Campaldino dal Comune. La presenza dello stemma del Narbona nella parete est accanto ai grandi della corte angioina ne è l’indizio determinante: dal momento che egli era giovane, non era un nome eccellente e non sembra aver ricoperto altre cariche di rilievo in precedenza, la presenza del suo stemma non si spiega se non col ruolo da lui assunto in Toscana e con la partecipazione alla battaglia?. Nell’analisi della Campbell, se il quadro storico è chiaro (la riaffermazione della supremazia guelfa in Toscana dopo la vittoria di Campaldino), il rapporto
Carlo IT. Un vecchio annalista era convinto che a Carlo II i sangimignanesi avessero replicato i «doni ed onori a lui condecenti» tributatigli a Firenze (G.V. Coppi, Annali memorie ed huomini illustri di Sangimignano ove si dimostrano le leghe e guerre delle repubbliche toscane, Bindi, Firenze 1695, pp. 150-151). Sulle vicende storiche di San Gimignano nel Duecento, cfr. E. Fiumi, Storia economica e sociale di San Gimignano, Olschki, Firenze 1961: D. BALESTRACCI, Breve storia di San Gimignano, Pacini Editore, Pisa 2007. 17 VILLANI, Nuova cronica cit., VIII, p. 130.
18 Ibid.
9 D, COMPAGNI, Cronica, ed. critica a cura di D. Capri, Istituto storico italiano per il Medioevo, Roma 2000, I, 7, p. 11. 20 VILLANI, Nuova cronica cit., VIII, p. 131.
2! CAMPBELL, The game of courting cit., pp. 66-68 non riconobbe lo stemma del Narbona, pur dilungandosi sul personaggio e sull’aura eroica che lo circondò per le sue imprese in Toscana, a partire dai versi dedicatigli da Giraut de Riquier.
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degli affreschi con esso rimane ipotetico: a suo avviso non c'è nessuna chiara evidenza che la scena dell’omaggio corrisponda a un episodio realmente avvenuto, né che le scene di combattimento sulle pareti alludano a Campaldino. Del resto, un’eventuale sosta del re a San Gimignano sarebbe avvenuta prima dell’entrata in carica del Buondelmonti, e perciò la scena dell’omaggio — se il personaggio davanti al re raffigura lo stesso Buodelmonti -, sarebbe comunque un’idealizzazione anacronistica”. Sui vari argomenti messi in campo dalla
Campbell su questi punti è facile concordare. Assai meno sui presupposti addotti, che cioè non sarebbe lecito «any attempt to narrow down the historical pretext of the imagery», dato che «for the late medieval audience, recent events would not have had the same authority as those that had already entered in the realm of cultural memory»: proprio «the inclusion of marvelous scenes» è volta a stabilire «a distance between contemporary circumstances»??. Queste ultime affermazioni, sulla base della pittura d’occasione presente nei palazzi pubblici dei Comuni italiani, appaiono in generale assai poco convincenti. Proprio la mancata decifrazione dei rimanenti stemmi della cornice divenne uno degli elementi decisivi della ulteriore lettura della Campbell, la quale giunse alla conclusione che fosse molto «difficile», anzi «impossibile» identificarli,
perché privi di «a coherent order or system that might make such identification possible in a more traditional feudal system». Le sue scarne ipotesi sull’identificazione degli stemmi, frutto di un’indagine non sistematica, sono invero destituite di fondamento dal punto di vista storico e araldico e basate di fatto solo sulla superficiale analogia di qualche stemma con quello di importanti famiglie toscane (due stemmi della parete nord? da lei ascritti ai Buondelmonti e ai Tolomei di Siena e un terzo, attribuito ai Chiarenti, una famiglia del contado
sangimignanese)?°. Si tratta di un modo assai pericoloso di procedere nell’interpretazione dei segni araldici, specie in quelli delle origini, data la frequente ricorrenza di figure simili o del tutto identiche. Questi limitati e dubbi sondaggi spinsero la Campbell — non si capisce con quanta consequenzialità, se l’identificazione era preliminarmente dichiarata «impossibile» — a ritenere che gli ulteriori trentasei stemmi, anonimi, appartenessero a «prominent Tuscan and specifically Sangimignanese magnates»?7. Una conclusione sorprendente. Poiché, se è ragionevole supporre che con l’e-
22 CAMPBELL, The game of courting cit., pp. 68, 74.
2 Ivi, pp. 73-75, 195.
Salvi bali © Inn. 30-40 (numerando da 1 a 46 gli stemmi anonimi leggibili, in senso antiorario da sud a nord, a partire da quello che segue lo stemma di Carlo Martello). 26 CAMPBELL, The game of courting cit., p. 77.
21 Ivi, pp. 45, 77.
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spressione «magnates» la studiosa intendesse riferirsi allo strato più elevato dell’aristocrazia comunale (che le leggi, varate a partire dal 1282 presso i regimi di Popolo in vari Comuni italiani cominciarono a denominare in quel modo), sarebbe bastato stilare un elenco di tali magnati — sangimignanesi, fiorentini e senesi (le due città nella cui orbita San Gimignano si destreggiava, e che fornivano gran parte dei suoi podestà “nobili”) — e confrontarne gli stemmi in uno dei tanti repertori esistenti, per verificare l'impossibile corrispondenza delle figure con quelle della cornice e dunque l’insostenibilità dell’assunto?8. Quest'ultimo è in realtà minato da un altro errore di metodo: nessun Comune toscano avrebbe esibito nel suo spazio pubblico, nel palazzo e nelle altre proprietà del Comune, le insegne araldiche non solo dei “magnati”, ma di nessun altro privato cittadino. Questa prassi fu talora anche formalizzata, e il motivo era chiaro: scongiurare che, anche simbolicamente, qualcuno intendesse assumere una posizione eminente o aspirare all’esercizio di una signoria??, La Campbell credette di poter sostenere la tesi dell’appartenenza degli stemmi a «local magnates» anche attraverso una contorta disquisizione sul loro aspetto, che paleserebbe sostanziali differenze rispetto all’araldica feudale europea classica: nella declinazione comunale lo strutturato sistema araldico evolverebbe in forma di una generica espressione di “nobiltà”, e questo sarebbe dimostrato proprio dalla scarsa attenzione con cui il pittore ha disegnato le figure degli scudi, trasformandole in «rather impressionistically conceived as eloquent pictorial metaphors»?°. Le argomentazioni con le quali la Campbell supportava anche questa conclusione sono inconsistenti: come sarà più chiaro in seguito, è vero esattamente il contrario, e cioè che il pittore, forse perché aveva a disposizione un modello o una descrizione molto accurata degli stemmi, li eseguì con notevole perizia. 28 I repertori di araldica fiorentina e senese sono così abbondanti che non vale la pena di citarli (per una messa a punto aggiornata delle liste dei “magnati” fiorentini, v. S. DiacCIATI, Popolani e magnati. Società e politica nella Firenze del Duecento, CISAM, Spoleto 2011); sulle famiglie sangimignanesi cfr. C. TALEI-FRANZESI, I/ libro d’oro di un Libero comune italiano dal sec. XIV (San Gimignano), Il Cenacolo, Firenze 1941, e ora C. TIBALDE-
scHI, Un inedito stemmario sangimignanese, in «Miscellanea Storica della Valdelsa», 110 (2004), pp. 115-133. 2° Le uniche insegne di privati tollerate erano quelle dei rettori forestieri (podestà e capitani del Popolo) e proprio perché tali. In ogni caso, questa pista sarebbe inesperibile: le liste dei magistrati forestieri degli anni Ottanta-Novanta del Duecento, reclutati a San Gimignano come altrove presso il ceto “nobile” delle città alleate, non forniscono infatti alcun adeguato riscontro (cfr. PECORI, Storza della Terra cit., p. 742 e ss.). Inoltre, come
accade di solito, gli stemmi dei rettori forestieri venivano apposti di volta in volta a fine mandato e senza una sequenza regolare, mentre l’omogeneità stilistica degli stemmi del fregio impone di riconoscervi una serie sincronica, deliberatamente costruita come tale. 30 CAMPBELL, The game of courting cit., p. 77.
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Tutte queste argomentazioni, apparentemente “scettiche”, erano in realtà funzionali, in positivo, alla tesi principale della Campbell, e cioè che le sce-
ne raffigurate non rappresenterebbero un evento storico come tale, ma la sua trasfigurazione “poetica”, ossia i festeggiamenti («an historic festival») che — in analogia a quanto avverrà a Firenze nel 1290, e in linea col costume dell’epoca, diffuso in molti centri comunali — sarebbero stati organizzati dopo la vittoria di Campaldino?!. L’ascrizione degli stemmi della cornice alla nobiltà locale e toscana in genere dà però, secondo la studiosa americana, una torsione tutta
particolare alla festa, giacché, diversamente da quanto avviene a Siena nel ciclo del Buon governo del Lorenzetti, a San Gimignano è questa nobiltà, con alla testa il podestà Buondelmonti (il cui stemma - sottolinea la Campbell — è in grande evidenza, non quello del Comune) a mettere in scena da protagonista l’evento. La ##agery della sala opera dunque «a mythologizing of S. Gimignano’s foundation as a Guelph state and a glorification of the Communes role in the Angevin Guelph conquest of Tuscany», trasformando contemporaneamente lo spazio pubblico in «a stage for a performance of private courtly ritual, centered around the ceremonial relationship between Charles of Anjou and the figure representig the podestà». Il Comune è in tal modo non un attore diretto, ma l’ospite di una performance di «young revelers» — dei “gaudenti” — la quale «emphasizes the two essentially feudal bases of power and nobility». Perciò il Comune stesso si accontentò «to imagine its sovereignty as a reflection of the nobility ideally embodied in the person of podestà», rinunciando fra l’altro a esporre le proprie insegne negli affreschi a favore di quelle del Buondelmonti??. La festa evocava al contempo «a world of chivalry and courtesy», come l’espressione ludica degli ideali cavallereschi della nobiltà sangimignanese — che come ovunque in Italia ne era certo imbevuta culturalmente — nell’ottica della vita mondana cantata da Folgòre, autentico deus ex machina della ricostruzione della Campbell: il quinto dei suoi sonetti Per l'armamento di un cavaliere, «on the chivalric virtue of allegrezza», ella concludeva, «is clearly an invocation to a festive court, like that depicted on the east wall». L'evento organizzato dalla nobiltà sangimignanese assomiglia dunque a quelli messi in scena dalle “brigate” nobili a Firenze come altrove, durante le feste cittadine, in occasione di particolari avvenimenti o addirittura durante le cerimonie dell’adouberzent dei cavalieri. E dunque insieme l’idealizzazione del dato storico e la compiaciuta autocelebrazione, nell’atmosfera elegante di una «courtly festivity», degli ideali cortesi di un’aristocrazia locale.
3 Jvi, p. 91. ‘2 Iviy pa 93, 3 Ivi, pp. 78-81.
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Alcuni dettagli di questa ricostruzione colgono probabilmente in parte nel segno, ma l’ipotesi di una festa con questi connotati non è suffragata dalla presunta presenza degli stemmi dei magnati cittadini e toscani. La spiegazione dei “misteriosi” stemmi della cornice va cercata infatti in tutt'altra direzione, pur
se anch'essa collegata con le celebrazioni per la vittoria di Campaldino e con la conferma del legame politico con Carlo II. La serie araldica allude e rinvia ad altri attori della vicenda: ossia non a nobili locali, ma proprio a quel ristretto gruppo di cavalieri francesi (la «piccola compagnia» di «cavalieri atti ed esperti a guerra» del Villani e del Compagni) che combatté a Campaldino agli ordini di Amerigo di Narbona e del suo balivo, Guglielmo di Durfort (perito nello scontro e sepolto a Firenze nel chiostro della Santissima Annunziata). Già all’epoca in cui scriveva la Campbell esistevano numerosi repertori in grado di dar conto di ciò, giacché la serie sangimignanese comprende sì stemmi con figure molto semplici (cioè con figure araldiche tra le più consuete e
diffuse) — e ciò ne rendeva in generale difficile l’identificazione - ma mostra anche qualche figura rara o inconsueta o particolari combinazioni di figure che è possibile isolare e riconoscere. Sono queste ultime — i classici “anelli deboli della catena” — che in contesti araldici multipli costituiscono sempre il punto di partenza e spesso l'elemento risolutivo. È sufficiente confrontare gli stemmi coi dati offerti dalle fonti francesi contemporanee per rendere agevole l’identificazione, se non di tutti i trentasei stemmi anonimi, almeno di una parte considerevole di essi, tale comunque, come vedremo subito, da non lasciare ombra di
dubbio sul carattere dell’insieme (fig. 2)?*. Sono immediatamente riconoscibili, tra quelli della sala, almeno quattro stemmi di notissime famiglie feudali: Chatillon (n. 2, di rosso, a 3 pali di vaio, al capo d’oro), una delle più rilevanti casate della Francia settentrionale divisa in molteplici rami (Saint-Pol, Blois, Penthièvre, Chartres etc.), titolare di innumerevoli feudi,
imparentata con dinastie sovrane, e i cui membri ricoprirono alte cariche politiche nel regno”; Chabot (n. 4, d’oro a tre pesci di rosso), tra le principali famiglie signorili del Poitou: le tre strane teste raffigurano lo chabot, un pesce di fiume (detto “botta”, “pesce rospo” o “bottatrice” o “scazzone”, simile al ghiozzo), inesistente E A
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3 I principali stemmari utili per la circostanza sono Bigot (1254 ca.), Le Breton (12921294 ca.), Chifflet-Prinet (1285-1298 ca.), Vermandois (1285-1300 ca.), Wijnbergen (1265-
1270 ca.). Gli stemmari Bigot, Chifflet-Prinet, Vermandois eWijnbergen (sulle prime edizioni dei quali cfr. M. PoporF, Bibliographie héraldique internationale séléctive, Le Léopard d’or, Paris 2003, p. 240 e ss.) sono agevolmente consultabili ora sul sito web: (cui ci riferirà qui di seguito con i rispettivi numeri d’ordine). Per lo stemmario Le Breton cfr. L'armorial Le Breton, éd. par E. DE Boos, Somogy-Groupe Malakoff-Centre historique des Archives nationales, Paris 2004. 3 Le Breton n. 77; Vermandois n. 949.
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Fig. 2 Stemmi Sully (1,4), Chabot (2,1), Chatillon (4,4) e dei conti del Poitou (5,2), in Paris, Archives Nationales, ms. AE I 25, no./MM 648, Armorial Le Breton, p. 44.
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nell’araldica italiana e rarissimo altrove (fig. 3)%; de L’Isle-Adam (n.20, d’ar gento, alla fascia di rosso, accompagnata da sette merlotti dello stesso, 4 e 3),
feudatari che avevano i loro domini tra Ile-de-France e Piccardia: i “merlotti” (#erlettes) sono una figura tipica della prima araldica classica, tra Francia settentrionale, Inghilterra e Fiandre, dove
costituisce il 15% degli stemmi con figure di animali, ma quasi inesistente in Italia”; Pressigny (n. 32, partito controfasciato di otto pezzi d’oro e d’azzurro; col capo palato del secondo e del primo; i cantoni del capo rispettivamente trincia-
to del primo e del secondo e tagliato del secondo e del primo; la punta partita del primo e del secondo. Sul tutto d’argento pieno), famiglia della Turenna, il cui stemma è assolutamente inconfondibile a causa della sua complessità strutturale: esso ha finito anzi per costituire un caso, ben noto agli studiosi d’araldica, per la complessa blasonatura e per le varianti di disegno nelle fonti, che divergono sensibilmente (fig. 4). Insieme ai due precedenti questo stemma è un vero e proprio apax, che trova ri-
scontro, in Europa, solo in quello dei Mortimer inglesi’. Questi primi casi, per la loro pre-
si;
Fig.3 Azzo DI MASETTO (?), Sterzzzza Chabot. San Gimignano, Palazzo del Popolo, “Sala di Dante”, parete ovest.
Fig.4 Azzo DI MASETTO (?), Stemma Pressigny. San Gimignano, Palazzo del Popolo, “Sala di Dante”, parete nord.
senza simultanea, l’estrema caratterizzazione delle figure, la loro rarità e l’im-
possibile sovrapposizione con qualunque altra famiglia italiana, costituiscono
36 Le Breton n. 660; Vermandois n. 486. Al secondo piano del palazzo, nella “camera del Podestà”, affrescata verso il primo decennio del XIV secolo da Memmo di Filippuccio, compare una serie di stemmi — perlopiù illeggibili — il primo dei quali riproduce ancora quello degli Chabot: il motivo di questa ripresa, data la frammentarietà delle immagini, meriterebbe un’indagine a parte. Potrebbe trattarsi solo del recupero in chiave immaginaria degli stemmi della sala del consiglio. Le Breton n. 189; Chifflet-Prinet n. 19; Wijnbergen n.9. 3 Bigot n. 24; Le Breton n. 705; Chifflet-Prinet n. 38; Wijnbergen n.511.
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ALESSANDRO SAVORELLI
la chiave di lettura dell’intera sequenza. Ma ci sono almeno altri sei stemmi con figure molto particolari, univocamente ascrivibili a una famiglia d'Oltralpe: conti di Forez (n. 1, di rosso al delfino d’oro); Mallet (n. 4, di rosso a tre fibbie d'oro); conti di Poitou, usato anche da Riccardo conte di Cornovaglia e del
Poitou, re dei Romani dal 1257 al 1272, figlio di Giovanni Senzaterra e nipote di Eleonora d'Aquitania, quindi dei visconti di Châtellerault (n. 27, d'argento, al leone di rosso, con la bordura di nero, caricata di [...] bisanti d’oro); Courtenay
(n. 43, d’oro, alle tre torte di rosso, con un lambello confinante di quattro pendenti d’azzurro, attraversante sul tutto); Sully (n. 42, d’azzurro, seminato di stelle d’oro,
al leone dello stesso, attraversante); De Braye (n. 42, d’argento, a due asce d'arme addossate di rosso, moventi dalla punta). Trascurando di soffermarci su altri diciassette stemmi più ambigui — senza possibilità di decidere, a causa dell’identità delle figure presenti nelle insegne di molte famiglie — alla fine solo nove stemmi rimangono adespoti??. Tra essi due, come si è detto (nn. 30 e 40, rispettivamente: di [...] alla fascia di [...],
accompagnata da quattro crescenti, due in capo e due in punta; d’argento, al capo d’azzurro), potrebbero appartenere a cavalieri francesi non identificabili, o anche alle famiglie dei Tolomei (Siena) e dei Buondelmonti (non è impossibile che il podestà possa aver voluto inserire il suo scudo nella serie come committente dell’opera), ma non sono sufficienti, contrariamente all’opinione della Campbell, ad assegnare l’intero ciclo all’area araldica toscana”. La cornice non contiene dunque una generica rassegna di insegne di vassalli 39 N. 3, d’argento, alla croce diminuita di rosso, accantonata da quattro aquilotti d'az-
zurro: Chevreuse, Marly (?); n. 5, inquartato d’oro e di rosso: le Bouteillier e Bouteillier (coppiere) di Senlis, de Hulluc (?); n. 6, fasciato di dieci pezzi d'argento e di nero: Rouilly, de Saint Amand (?); n. 17, d’argento, alla fascia centrata d’azzurro (2): de Clere (?); n. 19, d’oro, a tre scaglioni di nero (0 d’azzurro), uno sopra l’altro: de Levis, Mariscal de Mirepois,
Renaut le Sauvage (?); n. 23, d’oro, a tre pali di rosso: de Briey; n. 24, d’argento, a 3 torte di rosso: Lesglentier (?); n. 26, d’argento, alla banda di rosso: Cornu de Fontaines (?); n. 28, di [...], alla fascia diminuita di [...], attraversata da una banda di [...]: Vautorte (?); n. 29,
di rosso a tre gemelle in fascia d’oro: Nemours, signori di Nanteuil (?); n. 33, grembiato di dodici pezzi d’argento e di rosso: Beaumont, de Verny (?); n. 36, inquartato d’oro e d’azzurro: Le Bouteiller de Senlis, d’Auzon (?); n. 38, vaiato (2) d’oro e di nero: Visconti di Aumale, de Quarrais (?); n. 41, di rosso, alla banda d’oro: Conti di Chalon-Tonnerre, Maignelay, de
Manalt (?); n. 45, d’argento, allo scudetto di rosso: Fouilloy, Torsay, Patay, Choisy (?); n. 47, bandato di rosso e di vaio in punta: Longueval (?); n. 48, d’oro, alla banda d’azzurro: Trie (?). ‘° L’'identificazione preliminare delle famiglie potrà estendersi naturalmente, attraverso ricerche più mirate, in direzione di una più compiuta ricostruzione prosopografica, per attribuirli a singoli personaggi. Sembra di poter concludere in linea di massima per la provenienza del drappello di cavalieri incaricati a Parigi dal re Filippo IV di formare il seguito di Carlo IT da importanti famiglie del nord della Francia: la cornice della sala di San Gimignano è al momento la sola testimonianza utile all’individuazione dei membri di quel reparto armato.
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francesi, tale da configurare una sorta di mappa del regno (in analogia al pavese “europeo” della parete est), ma una scelta basata su un insieme “di fatto”, correlato ad una circostanza specifica e a persone determinate: uno stemmario di quelli che si chiamano “occasionali”, ossia redatti per uno scopo limitato, a seguito di un evento definito nel tempo e nello spazio, e certo presente visivamente (almeno mediante un’accurata descrizione) al pittore incaricato dell’opera“!, Si tratta perciò, diversamente da quanto ipotizzato dalla Campbell, proprio di «a coherent order or system». Il Comune non si è quindi limitato al ruolo di un ospite silente e discreto, come ritiene la Campbell, lasciando il campo all’esibizione araldica del podestà e dei suoi presunti amici nobili: lo stemma comunale non è presente come tale, ma in realtà tutta la cornice e i riquadri figurativi sono delimitati da una vistosa ed inequivocabile decorazione con elementi geometrici dipinta sistematicamente nei colori araldici sangimignanesi, rosso e giallo (tav. 4). L'attribuzione degli stemmi a cavalieri che appartenevano a famiglie tra le più potenti e illustri del regno di Francia, presenza a prima vista sorprendente e certo, a quanto sappiamo oggi, unica nel suo genere in Italia, conferma dunque definitivamente il contesto storico in cui fu dipinta non solo la parete est, ma l’intera sala: un manifesto della nuova costellazione geopolitica, l’«irreversibile» adesione al «campo guelfo-angioino e a Firenze», attraverso il ricordo dei combattenti di Campaldino, e forse, come vuole la Campbell, celebrato in un evento festivo. Ma induce a riconoscervi, diversamente da quanto ella riteneva,
un esempio di pittura civile e “politica” come accadeva in tanta pittura effimera e d’occasione nei palazzi pubblici dei Comuni italiani, che subì certo, in questo caso, il fascino della cavalleria d'Oltralpe, ma che non si può unilateralmente declinare nell'immagine del «game of courting» dei nobili revelers, ideali corpagnons di Folgòre.
#1 PASTOUREAU, Traité d’héraldique cit., pp. 223-224.
42 BALESTRACCI, Breve storia di San Gimignano cit., p. 66.
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LA DAMA, IL MILES E IL “VIANDANTE”: UNO STEMMA ANGIOINO NELLA “CAPPELLA” DEL CASTELLO DI LAGOPESOLE Francesca Soffientino
Nell’abside della chiesa dedicata alla Santissima Trinità del castello di Lago-
pesole, comunemente definita cappella, si conservano resti di intonaci dipinti portati alla luce dalla Soprintendenza di Matera. Le pitture sono state oggetto di studio a partire dagli anni Trenta del Novecento, ma la loro importanza nell’ambito del dibattito sull’origine sveva o angioina della cappella è un’acquisizione piuttosto recente. Cresswell Shearer ritenne di poterle ricondurre al periodo angioino; più tardi lo studioso locale Salvino Bruno riconosceva i soggetti raffigurati, «stemmi e figure di Santi», ma non avanzava alcuna ipotesi di datazione, mentre Giovanni Corbella si manteneva su un prudente «sec. XIII».
A metà degli anni Novanta del secolo scorso, Valentino Pace è stato il primo a proporre un’interpretazione dei lacerti di Lagopesole, in relazione al problema dell'origine della cappella: Nello spazio interno [della cappella] l’abside era decorata con affreschi, il cui pessimo stato di conservazione non permette una datazione certa. Per tale ragione non è quindi possibile risolvere il problema della controversa cronologia della cappella — di epoca fridericiana o angioina. La decodificazione di un’insegna su
* La stesura di questo articolo è stata possibile grazie all’aiuto di molti studiosi e non. Ringrazio quindi Emmauel De Boos, la prof.ssa Giulia Ammannati, il dott. Francesco Giancane, il prof. Fabrizio Crivello, la dott.ssa Gaia Ravalli, il Corpo Forestale dello Stato
nelle persone del vice com. Giovanni Carucci, vice com. Gianluca Li Pani, operai Giuseppina Lo Russo, Maria Romaniello, Donato Sinisi, il dott. Marcello Romano della Proloco di
Lagopesole e le gentilissime signore della cooperativa “Il Castello” (Donata Carriero, Vitina Genovese, Ninetta Romaniello, Giovanna Santoro). Questo breve intervento è dedicato
alla memoria della prof.ssa Maria Monica Donato, con cui ho discusso a lungo sui problemi sollevati da questi frammenti e che per prima mi propose di pubblicare queste righe. ! C. SHEARER, The Renaissance of Architecture in Southern Italy. A Study of Fredrick II Hohenstaufen and the Capua Triumphator Archway and Towers, Heffer, Cambridge 1935, p. 170; S. Bruno, Castelli di Basilicata, Montemurro Editori, Matera 1967, p. 76; G. CorBELLA, Lagopesole, in Guida d'Italia. Basilicata, Calabria, Touring Club Italiano, Milano
1980, p. 243.
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FRANCESCA SOFFIENTINO
uno scudo, dipinto e posto accanto a un soldato inginocchiato davanti a due santi, potrebbe offrire un indizio in tal senso?.
Recentemente Kai Kappel e Rosa Fiorillo hanno sottolineato l’importanza degli elementi araldici. Lo studioso tedesco ha interpretato la figura del soldato come quella di un crociato, leggendo di conseguenza le conchiglie come emblemi del pellegrinaggio in Terra Santa’, mentre la Fiorillo ha tentato di identificare l’insegna rappresentata. Dopo aver individuato tre figure di santi, ovvero Pietro,
Michele e una santa pellegrina alla sinistra dell’abside, la studiosa ha ritenuto di poter leggere lo stemma come quello di Adam Fourrier, soldato francese che negli anni Ottanta del XIII secolo risiedette a Lagopesole, e che forse era remotamente imparentato con Perronet Fourrier de Céligny, vescovo ginevrino
titolare delle insegne*. La raffigurazione è un Devotionsbild di qualità piuttosto scarsa. Le figure si dispongono ai lati di una stretta finestra, forse già presente ab antiquo: a destra si individuano ancora porzioni di una Vergine in trono con il Bambino, fiancheggiata a destra da san Pietro, di cui si identifica chiaramente l’attributo delle chiavi, e a sinistra da san Giovanni Battista, riconoscibile dalla tunica con i pili camelorum (tav. 5). Sull’altra porzione dell’abside, si conservano per intero le sinopie e alcune piccole porzioni di affresco di due santi: la lancia, i capelli fluenti, le ali spiegate e molto probabilmente una corazza loricata permettono di affermare con una certa sicurezza che il personaggio più a destra sia l’arcangelo Michele, assai frequentemente rappresentato nelle opere di carattere devozionale’. 2 V. Pace, Kunstdenkmäler in Italien. Ein Bildbandbuch, II Apulien Basilicata Kalabrien, hrsg. von R. Hoorz, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1994, p. 412: «Im In-
nenraum war die Apsis mit Fresken verziert, deren verlaRter Erhaltungszustand eine sichere Datierung nicht gestattet. Auf diese Weise kann demnach das Problem der strittigen Datierung der Kapelle — in friderizianische oder angiovinische Zeit — nicht gelòst werden. Einen Hinweis kônnte eventuell die Entschlüsselung eines Wappens auf einem gemalten Schild bieten, der sich neben einem vor Heiligenbildern niederknienden Ritter aufgestellt befindet». > K. KAPPEL, La cappella del castello di Lagopesole, in Cultura artistica, città e architettura nell'età federiciana, atti del convegno internazionale di studi (Caserta 1995), De Luca,
Roma 2000, pp. 259-277: 273; e, in precedenza, Ip., Die Burgkapelle von Lagopesole, in Kunst im Reich Kaiser Friedrichs II von Hohenstaufen, Akten des internationalen Kolloquiums (Bonn 1994), hrsg. von K. KAPPEL, D. KEMPER, A. KNAAK, Klinkhardt & Biermann, Miinchen-Berlin 1996, pp. 69-75: 70. 4 R. FroriLLo, Castel Lagopesole (PZ): l'ammodernamento angioino del castrum nor manno, in Archeologia dei castelli nell'Europa angioina (secoli XIII-XIV), atti del conve-
gno (Salerno-Fisciano 2008), All’Insegna del Giglio, Firenze 2011, pp. 26-30: 27-28; sulle vicende di questo personaggio si veda A. KIESEWETTER, Adam Fourrier, in DBI, XLIX, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1997, pp. 517-518. > M. Bacci, «Pro remedio animae». Immagini sacre e pratiche devozionali in Italia centrale (secoli XIII e XIV), Edizioni ETS, Pisa 2000, pp. 398, 408.
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L'identità del compagno, già interpretato come una figura femminile”, rimane ancora dubbia. La presenza di un cappuccio calato sulla fronte, uno scapolare e un bastone, piuttosto evidente nella parte inferiore del dipinto (fig. 1), sono infatti indizi molto vaghi; si potrebbe forse proporre il nome di san Benedetto, data la presenza di numerose fondazioni dipendenti dall’abbazia benedettina di Cava de’ Tirreni nel nord della Basilicata”. Di grande interesse è l’ultimo e più cospicuo lacerto, una striscia di into-
naco collocata al di sotto del gruppo con Maria e il Bambino (tav. 6). Sono infatti raffigurati due personaggi in atteggiamento devoto: sulla sinistra una
:
dama con i capelli raccolti, avvolti da
Fig. 1 Sinopia con santo (san Benedetto?).
fili di perle e fasciati da un velo tra-
Castel Lagopesole (Potenza) ò castello, chiesa della Santissima Trinità, abside.
sparente, mentre sulla destra compare un cavaliere con il capo coperto da un camaglio in maglia di ferro. Entrambi hanno le mani giunte e lo sguardo rivolto verso uno scudo di grandi dimensioni, recante probabilmente la loro insegna. Tale supposizione è rafforzata proprio dalle mani dei due devoti, che si sovrappongono all’emblema, come a indicarne l'appartenenza. L'atteggiamento orante, unito alla presenza di questo esplicito riferimento all’identità della famiglia, ancora situato al di fuori dello spazio occupato dai santi, conferma la natura devozionale della pittura. La postura dei due donatori, la preponderanza dello stemma nel campo pittorico, e, come si vedrà successivamente, l’esistenza di iscrizioni, permettono fin da subito di collocare l’opera nel XIII secolo, periodo in cui si consolidò una nuova forma di rappresentazione devozionale, quella degli Stifterwappen?. 6 FioRILLO, Castel Lagopesole cit., p. 27.
? H. HOUREN, Le istituzioni monastiche italo-greche e benedettine, in Storia della Basilicata, I. Il Medioevo, a cura di G. DE Rosa, A. CESTARO, Edizioni Laterza, Roma-Bari 2006,
pp. 355-386: 366-386.
8 BACCI, «Pro remedio.animae» cit., pp. 319-320, 322, 420. ? H. KeLLER, Die Entstehung des Bildnisses am Ende des Hochmittelalters, in «Ròmisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», 3 (1939), pp. 227, 356: 247-250; D. Kocs, Die Stifterdarstellung in der italienischen Malerei des 13.-15. Jahrhunderts, PhD, Universitàt von
Kéln, a.a. 1970-1971, dir. H. LADENDORF, T. DOHRN, pp. 8-9.
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FRANCESCA SOFFIENTINO
Lo stemma si presenta d’azzurro, alla croce d'argento caricata di cinque conchiglie di rosso (fig. 2); le stesse conchiglie ornano una striscia di tessuto
che attraversa il petto del soldato e gli cinge la vita. La composizione araldica è piuttosto semplice e diffusa, ma, in
seguito ad alcune ricerche, sembrerebbe possibile ricondurla alla famiglia piccarda dei Muidebled o Muideble. Furono signori di Margival, piccola località nei pressi di Soissons, e giunsero probabilmente in Italia al seguito di Carlo I d'Angiò (1266-1285). Il loro stemma compare a p. 28 dell’Arzzorial Le Breton (Parigi, Archives Nationales, ms. AE I 25, no./MM 648), accom-
n
cn
*
pagnato da una didascalia con il nome
Fig. 2 Stemma Muideble (2). Castel Lago-
di Raoul Muideble".
pesole (Potenza), castello, chiesa della San-
informazioni su questo personaggio,
tissima Trinità, abside.
Par
si
Non
abbiamo
ne
e quindi non è possibile affermare se fosse il capostipite della famiglia, un membro illustre oppure un individuo cronologicamente vicino al redattore dello stemmario. A p. 24 dello stesso manoscritto uno stemma identico è attribuito a un altro membro della famiglia, Gusellaume Mwie de Blé, su cui gli editori dell’armoriale non danno però notizie!!. La documentazione archivistica sembra rinforzare l’attribuzione dello stemma ai signori di Margival!?. Attraverso lo spoglio dei registri della cancelleria angioina è stato possibile ricostruire tre generazioni della famiglia Modioblado. Il capostipite, Guglielmo «dictus de Modio Blado», probabilmente la stessa persona citata nell’Armortal Le Breton, viene menzionato per la prima volta in un documento del 1267 come zles al seguito di Carlo I nella discesa in Italia”. 1 L'armorial Le Breton, éd. par E. DE Boos, Somogy-Groupe Malakoff-Centre historique des Archives nationales, Paris 2004, p. 84; ringrazio Emmanuel De Boos per la cortese segnalazione. !! L'armorial Le Breton cit., p. 80. !? Lo stemma di per sé può essere infatti attribuito a diverse famiglie: i francesi Boussies, di cui non si conosce pressoché nulla, gli svizzeri Céligny, come sostenuto da FIORILLO, Castel Lagopesole cit., p. 28, e gli inglesi Dane e Carbonnell: , p. 111. ? Si citano alcuni testi fondamentali — cui si rinvia per ulteriori informazioni bibliografiche — sulla figura di Carlo I d'Angiò conte di Provenza, e sulla presa del Regno di Sicilia:
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La sua ascesa è impressionante poiché in un documento del maggio 1268 è nominato capitano generale «a Faro citra usque ad fines Regni»!*. La carica era una delle più rilevanti nel Regno di Napoli, poiché il Muideble si trovava ad amministrare una regione molto ampia, corrispondente all’attuale Sicilia. Nei documenti successivi, viene costantemente nominato «Regni Siciliae Magister
lusticiarius» et «famulus» di Carlo; tuttavia la morte lo coglie tra il luglio e
l'ottobre del 1269 o 1270, tanto che Carlo è costretto a sostituirlo con un altro
fedelissimo, Guido di Montfort”. In un documento perduto e di incerta datazione (1269-1270), di cui si conosce solo un breve regesto, sono nominati anche la moglie Aquilina e i due figli, Matteo e Maria, mentre in un registro privo di indicazioni precise, ma databile tra il 1272 e il 1273, vengono menzionati i feudi del defunto, ovvero Miglionico (Matera), Tricarico (Matera) e Bellomontis®. Non è chiaro a quale località si riferisca quest’ultimo toponimo, peraltro elencato tra i beni del predecessore di Guglielmo, Guglielmo de Beaumont (nei documenti della cancelleria indicato come de Bellomonte), feudatario di un’ampia zona della Campania, facente capo a Caserta!”. Nonostante la localizzazione dei feudi possa apparire poco significativa, poiché si tratta di cittadine lontane da Lagopesole, occorre ricordare che, da una parte, il castello e le sue pertinenze già in epoca sveva e in seguito in età angioina erano possedimenti della corona e che, dall’altra, la signoria di Tricarico era piuttosto prestigiosa, poiché facente parte dei beni di diritto di Manfredi Lancia, figlio naturale di Federico II e re di Sicilia (1258-1266)'$.
Non è noto se il figlio Matteo abbia ricoperto cariche ufficiali, dato che la sua presenza è limitata a due soli documenti, in cui è indicato come «dominus Bellamontis» e di un casale «Alti Iohannis»!?. Legato in qualche maniera a Guglielmo — forse fu suo nipote — è poi Madio o Maio, «miles et dominus» di Miglionico, Grottole (Matera) e Bellomontis®. È molto probabile che Madio E. JORDAN, Les origines de la domination angevine en Italie, Il, Burt Franklin, New York 1960 (ed. or. Paris 1906), pp. 370-409, 420-614; P. HERDE, Carlo I d'Angiò, in DBI, XX, Isti-
tuto della Enciclopedia Italiana, Roma 1977, pp. 199-226; J. DUNBABIN, Charles I of Anjou: power, kingship and statemaking in thirteenth-century Europe, Longman, London 1998. 4 I registri della cancelleria angioina ricostruiti da Riccardo Filangeri con la collaborazione degli archivisti napoletani, I. 1265-1269, Accademia Pontaniana, Napoli 1950, I, n. 62, pu42,0 17; pi 149;
15 Ivi, Il 1265-1277, Napoli 1951, n. 376 p. 102, n. 544 p. 142, n. 573 p. 148. 6 Ivi, II, n. 55, p. 111; X, Napoli 1957, n. 77, pp. 281-282.
fai, Il 00376, p.402 18 Si veda ad esempio R. MORGHEN, I/ tramonto della potenza sveva in Italia 1250-1266, Tumminelli Editore, Milano-Roma 1936, p. 140.
9 I registri della cancelleria cit., XI. 1273-1276, Napoli 1959, n. 371, pp. 100-101;
XXVII. 1283-1285, 1/2, n. 277, pp. 45-46.
|
20 Ivi, XXIII. 1279-1280, Napoli 1971, n. 251, p. 250; XXIV. 1280-1281, Napoli 1976,
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sia stato l’ultimo rappresentante della famiglia Muideble; come ha notato Paul Durrieu, le famiglie francesi al seguito di Carlo I si sono estinte con una velocità tale che, nei primi anni di regno di re Roberto (1303-1343), i funzionari di corte erano per la maggior parte di origine italiana?".
Il quarto personaggio che emerge dallo spoglio, Andrea de Muideble, era forse imparentato con Guglielmo, ma non è ben chiaro in quale grado. Nei documenti dal 1266 al 1279/1280 viene citato come «miles» e Giustiziere della Terra di Bari??, In un regesto del 1273 è nominato in qualità di «iudex Magne Curie» e tra il 1277 e il 1279 è ambasciatore a Tunisi per conto di Carlo Il. Signore di Saracena (Cosenza) in Val di Crati, muore prima del 26 settembre 1279, poiché in un documento regestato che porta tale datazione viene dichiarato defunto; i suoi beni sono incamerati dal portolano di Calabria in attesa che i debiti da lui contratti fossero sanati?. Se la natura rilevante della famiglia, legata strettamente a Carlo I, unita alla
morte violenta e improvvisa dell’illustre capostipite e alla presenza di feudi in area lucana appaiono elementi sufficienti per attribuire lo stemma ai Muideble, i frammenti di iscrizione che sovrastano la testa della dama sembrano condurre in un’altra direzione. Le lettere oggi visibili, realizzate in un’incerta maiuscola gotica e tracciate con una pittura rossastra, dovevano costituire la parte con-
clusiva di un testo più ampio. È infatti possibile ipotizzare che la porzione di intonaco su cui sono dipinti i due oranti fosse di almeno 50-60 centimetri più lunga sul lato sinistro, finendo per coincidere con l'ampiezza del lacerto superiore, raffigurante Maria con il Bambino, san Pietro e san Giovanni Battista. L'iscrizione, forse vergata dallo stesso pittore (fig. 3), può essere letta come: [...] FAMULI ® TU[I] / [...] [G]INARDI ® DE / [...]??. La scrittura in generale è piuttosto incerta, sintomo di uno scrivente con una
cultura grafica modesta; trattandosi però di una scrittura offerta alla pubblica lettura e volta alla commemorazione di un atto devozionale, lo scrivente ha ar-
ricchito le lettere con tratti ornamentali. Il secondo rigo sembra aprirsi con un
n TMS 2! P. DURRIEU, Les archives angevins de Naples: étude sur les registres de roi Charles I”
(1265-1285), Thorin, Paris 1886-1887, I, p. 208, II, pp. 209, 220.
22 Ivi, II, n. 3, pp. 223-224; V. 1266-1272, Napoli 1953, n. 102, p. 235; VI. 1270-1271, Napoli 1954, n. 1841, p. 339.
5 Ivi, XI. 1273-1277, Napoli 1958, n. 31, p. 12, n. 167, p. 127; XIV, n. 118, pp. 20-21; XIX. 1277-1278, Napoli 1964, n. 22, pp. 9-10; XXIII, n. 286, p. 57. 2 Ringrazio per le seguenti osservazioni la prof.ssa Giulia Ammannati e il dott. Francesco Giancane. ? Poiché la porzione di intonaco su cui poggiava la raffigurazione dei due donatori poteva essere più ampia, come sopra sostenuto, si potrebbe ipotizzare che il patronimico fosse preceduto da altre parole.
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Fig. 3 Frammento di iscrizione dipinta. Castel Lagopesole (Potenza), castello, chiesa della Santissima Trinità, abside.
patronimico, la cui prima lettera visibile, sebbene di incerta lettura, è probabilmente una G di forma onciale, dalla caratteristica forma a chiocciola. Non è
possibile stabilire se questa fosse preceduta da un’altra lettera?t. Dal momento che il nome è espresso in genitivo, è possibile che si facesse allusione all’appartenenza dei famuli sopra citati. È inoltre importante ricordare che il termine famulus nel latino tardo ha il significato di vassallo, sia in ambito ecclesiastico che secolare?’. La correttezza dell’interpretazione di questo termine sembra poi confermata dalla stessa raffigurazione del #zles: il gesto di offrire le mani giunte accomuna infatti il cerimoniale religioso della preghiera a quello feudale della commendatio®. Del resto la posizione complessiva di personaggi in preghiera,
in ginocchio con le mani unite, si afferma nel XIII secolo e rimane in auge fino al Cinquecento, e rappresenta una tappa dell’evoluzione della gestualità
2% La supposizione più ovvia sarebbe, in tal caso, [Eglinardi. 27 C. pu FRESNE DU CANGE, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Akademische Druck-U. Verlagsanstalt, Graz 1954 (rist. anast. Niort 1883-1887), III, p.411. 28 BACCI, «Pro remedio animae» cit., pp. 406-407.
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FRANCESCA SOFFIENTINO
in ambito sacro. In origine i donatori erano raffigurati stanti e con i palmi sollevati, e successivamente, in seguito a una contaminazione con il rito orientale,
disposti proni ai piedi della o delle figure sacre, nel tipico atteggiamento della proskÿnesis. La posa del cavaliere e della dama di Lagopesole sono tratti tipici di quell’iconografia del donatore di matrice spiccatamente occidentale, che trova i primi esempi all’inizio del Duecento”. Altrettanto tipica della seconda metà del XIII secolo è la composizione della scena. I due personaggi, identificati dal loro stemma e dall’iscrizione, chiedono intercessione alla Vergine col Bambino,
accompagnata da alcuni santi. Lo stato di conservazione delle pitture non permette di affermare se uno di essi svolgesse un ruolo simile a quello del Fürbitter o mediatore, ovvero se introducesse alla Regina dei Cieli la coppia’. Nella genealogia che è stato possibile ricostruire dei Muideble non compaiono tuttavia personaggi di nome Eginardo o Ginardo. Un’indagine sulla figura di Adam Fourrier, che secondo la Fiorillo è il titolare dello stemma di Lagopesole in quanto avo del vescovo svizzero Perronet Fourrier de Céligny?!, non ha d’altra parte permesso di ottenere informazioni dirimenti: non è stato possibile individuare né una parentela con il religioso ginevrino né tantomeno la presenza di Adam nel castello intorno al 1280. Il nome di questo personaggio compare per la prima volta in un registro con documenti redatti tra il 1268 e 1269, in cui è menzionato come «miles». Di lì a poco è insignito del feudo di «Rinianum» (Rignano flaminio, Roma?) e di un «casale Ianulis»??. La sua natura di avventuriero è confermata dalla denuncia di Corrazzane, vedova residente a Boiano
(Campobasso), che vide i suoi beni più volte insidiati. Ciononostante, nel 1269 il Fourrier è insignito di numerosi territori per meriti nei confronti della corona: [...] terras Pontis Ferrarisii, Casaltoni, S. Lupi [...] in Iustitiaratu Principatus et Terre Beneventane, Bussi [Busso, Campobasso] et Carrachii [...] in Iustitiariatu Terre Laboris et Comitatus Molisii [...], Cerce Maioris [Cercemaggiore, Campo-
basso] et Celle [Cellarelle?, Campobasso] [...] in Iustitiariatu Capitanate, [...] et domos quas tenuit Rogerio de Busso, proditor in Boiano”.
Tra i suoi beni si segnalano anche i feudi di Francolise (Caserta), Cerreto (Cerreto Sannita?, Benevento), Saponara (Grumento Nova, Potenza) e Sarcone (Sarconi, Potenza), questi ultimi due recati in dote dalla moglie Tommasa di Saponara,
e infine la stessa Boiano”. L'ascesa del les è notevole, poiché in un registro che ? Kocks, Die Stifterdarstellung cit., pp. 16-18.
30 Ivi, pp. 22-29, 33-36.
}! FIORILLO, Castel Lagopesole cit., p. 28. I registri della cancelleria cit., II, n. 784, p. 205, n. 79, p. 255. Ivi, IV. 1266-1272, Napoli 1952, n. 993, p. 148; VI, n. 1709, PI9 25:
SM LL da N 4
Ivi, XIV, n. 147, p. 156; XIX, n. 497, p. 253, n. 109, p. 30; XXIV, n. 19, p. 4.
LA DAMA, IL MILES E IL “VIANDANTE”
pal
abbraccia gli anni 1274-1275 si ricorda che prima del 17 agosto — non è chiaro di quale anno — il Fourrier era stato nominato vice maresciallo del Regno, mentre tra il 1278-1279 è citato come vice giustiziere, carica che ricopriva
già da qualche tempo”. Le notizie su Adam Fourrier si interrompono dopo il triennio 1283-1285, periodo in cui viene ricordato come «capitaneo patrimonii S. Petri in Tuscia, mandatum
pro assecutione vassallorum baronie Montisviridis pro parte Altrude domina dicte baronie uxoris sue»? In un documento precedente, andato perduto ma di cui esiste il regesto, il Fourrier
sarebbe però stato dichiarato ormai
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defunto in data 7 febbraio, XI indizione, 1280 o 1281”, in evidente contrad-
SERRES n Fig. 4 Sterema Muideble (2), particolare
dizione con
a primo quartiere con iscrizione a sgraf-
la precedente
citazione.
Benché: l’XI indizione corrisponda in realtà al 1283, al di là dell’errore forse
Di 305 ORA ins ee SRE della santissima Irinita, abside.
chiesa
imputabile al redattore del testo o al suo editore moderno, si può comunque affermare che il 7 febbraio del 1283 Adam Fourrier non era più in vita. Non è invece chiara l’insegna del piccolo stemma graffito nell’estremità sottostante il lacerto con i due donatori, il cui capo sembrerebbe portare una croce. Ormai scomparsa la metà sinistra, è ancora possibile leggerne una striscia nella porzione destra; in alto compaiono alcune lettere a sgraffio, di difficile lettura. Un ultimo piccolo interrogativo connesso ai dipinti di Lagopesole sembra avere trovato una parziale risposta. Osservando nuovamente lo stemma forse appartenente alla famiglia Muideble, è possibile individuare nel quarto superiore sinistro un testo graffito tracciato forse con un chiodo o un altro strumento di fortuna (fig. 4). Non sembrano mancare porzioni di scrittura, cosa che permette di affermare che, al momento della realizzazione, la superficie dipinta si trovava in uno stato di conservazione simile a quello attuale. La stesura complessiva dell’arriccio è molto sottile, al punto che le lettere graffite lasciano intravedere
35 Ivi, XII. 1273-1276, Napoli 1959, n. 175, p. 60; XIX, n. 119, p. 270. 36 Ivi, XXVII, n. 448, p. 70. Slo vi, SALVI
A
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lo strato soggiacente di muratura. Non si evidenziano interruzioni o stacchi nella porzione occupata da due donatori, quindi è probabile che si tratti di un’unica giornata. Inoltre, lo scialbo della pittura duecentesca deve essere avvenuto in una data successiva a quella indicata dal graffito, vista la volontà dello scrivente di posizionare il suo testo all’interno dello stemma, rispettando il contorno sinistro dello scudo. Anche l’assenza di tracce di intonaco bianco all’interno dei solchi delle lettere sembra condurre in questa direzione. È stato possibile restituire il testo per intero: A(N)NO D(0)m(in)i M(ILLESIMO) CCCCC XI / FRANCISCO DE Ro / MANZA DE SASSA / ME SCRIPSIT. Come suggerito da Carlo Tedeschi, questo tipo di scrittura appartiene al genere dei graffiti di memoria, ovvero a quei testi redatti da un pubblico di scriventi molto eterogeneo, che intesero lasciare memoria in un dato anno o momento del proprio passaggio in un luogo specifico?8. La presenza di questo graffito si deve ricercare nella storia del borgo. La data incisa è il 1511, un periodo cruciale per le sorti del castello lucano. Nel 1416 Lagopesole era passato ai Caracciolo di Napoli e nel 1494 il borgo era stato abbandonato dalla quasi totalità dei suoi abitanti”; nel 1530 venne infine acquistato dai Doria. L’anno dell’iscrizione si colloca nel periodo di dominazione dei Caracciolo. Lo scrivente padroneggia discretamente la scrittura, e pur esprimendosi in volgare, ricorre alle formule tradizionali in latino Arzo Domini e me scripsit, laddove sente di dover dare una certa sacralità al testo. Ci ha inoltre lasciato il proprio nome, accompagnato da un cognome o da un toponimo. Il perché di questo gesto si può forse ricercare nella storia stessa del borgo nella prima metà del Cinquecento. Francesco de Romanza de Sassa potrebbe essersi trovato occasionalmente nel castello sulla via di una fiera, per esempio di quelle che si svolgevano ad Atella (Potenza), comune non molto distante da Lagopesole, oppure per svolgervi una qualche attività, chiamato quindi dai feudatari. Piuttosto interessante è il “cognome” dello scrivente, attualmente di difficile interpretazione. Il de Sassa potrebbe forse corrispondere a un toponimo; con questo appellativo, già a partire dal XIII secolo, si intendono per l’area lucana sia Sasso di Castalda (Potenza) sia le zone più antiche della città di Matera (Sasso Caveoso e Sasso Barisano). In particolare, la cittadina in provincia di Potenza ha mantenuto fino al Regio Decreto del 1863 la denominazione di Sasso”.
38 L. Miglio, C. TEDESCHI, Per lo studio dei graffiti medievali. Caratteri, categorie, esempi, in Storie di cultura scritta. Studi per Francesco Magistrale, a cura di P. FIORETTI, A. GERMANO, M.A. SICILIANI, Fondazione CISAM, Spoleto 2012, pp. 605-628: 614.
” A. PELLETTIERI, Borghi nuovi e centri scomparsi, in Storia della Basilicata cit., pp. 192228:210-211.
‘4° C. Marcato, Sasso di Castalda (PZ), in Dizionario di toponomastica, UTET, Torino
p.607. 1990,
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L'analisi delle evidenze pittoriche, araldiche e paleografiche permette di gettare quindi nuova luce sui resti dell’affresco devozionale di Lagopesole, un piccolo frammento che solleva numerosi problemi, a cominciare dalla corretta identificazione dello stemma. La carenza di documentazione non permette di avanzare ipotesi certe. Allo stato attuale della questione, l'attribuzione alla famiglia Muideble sembra la più convincente, poiché non è possibile provare con certezza la presunta parentela tra Adam Fourrier e il vescovo ginevrino Perronet Fourrier de Cèligny, come sostenuto dalla Fiorillo. Resta ancora di difficile interpretazione, poi, il nome che emerge dal secondo rigo dell’iscrizione dipinta, [glinardi,
sicuramente un patronimico ancora da identificare. In ogni caso, la dama e il soldato erano probabilmente francesi, giunti al seguito degli Angiò e farziliares di re Carlo I, tanto da poter essere ricordati nella chiesa del castello regio, ma non
è possibile affermare se si trattasse di Aquilina e Guglielmo Muideble. Questa ricerca ha tuttavia stabilito un punto fermo, ovvero l’origine angioina degli affreschi, aspetto non secondario nella querelle sulla datazione di questo ambiente‘! La presenza dei graffiti testimonia poi una certa vivacità nella frequentazione del castello, almeno fino al primo decennio del XVI secolo, e un certo interesse, suo
malgrado, proprio nei confronti dello stemma, in quanto supporto che eternò il passaggio a Lagopesole del misterioso Francesco de Romanza de Sassa.
41 Si vedano a tal proposito i seguenti testi (e le indicazioni bibliografiche in essi con-
tenute): M.E. AVAGNINA, Lagopesole, un problema di architettura federiciana, in Federico II e l'arte del Duecento italiano, atti della settimana di studio (Roma 1978), a cura di A.M. ROMANINI, Congedo editore, Galatina 1980, I, pp. 153-174; A. BORGHINI, Il castello di La-
gopesole: storia, architettura e leggende, Associazione Pro Loco di Castel Lagopesole, Castel Lagopesole 1994, p. 41; KAPPEL, La cappella del castello di Lagopesole cit., pp. 259-277; FioriLLo, Castel Lagopesole cit., pp. 27-30.
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L’ARALDICA APOCRIFA DI BRUNO. UN FRAMMENTO ENIGMATICO DELLA CULTURA CAVALLERESCA A FIRENZE Marco Merlo
Nella seconda cappella della navata destra della chiesa di Santa Maria Novella, sotto l’Adorazione dei pastori del Naldini, sono stati ritrovati nel 2010 alcuni affreschi trecenteschi identificati con quelli descritti da Vasari come opera di Bruno. Noto sodale di Buffalmacco, questi li avrebbe realizzati con l’aiuto del più celebre maestro, che gli prestò soccorso dal momento che «non aveva molto disegno né invenzione»!. Da poco restaurati, i dipinti sono stati attribuiti dalla critica allo stesso Bruno e datati tra il 1315 e il 13252. Vasari interpretava l’affresco, che ebbe modo di osservare ancora integro, come una rappresentazione del martirio della legione tebea di San Maurizio, episodio narrato da Jacopo da Varazze nella Legenda Aurea’. Secondo il racconto agiografico, l’imperatore Massimiano ordinò alla legione di Tebe, forte di seimilaseicentosessantasei uomini di fede cristiana comandati da Maurizio,
di piegare ogni resistenza contro Roma al di là delle Alpi. Il papa Marcellino, prima della partenza, esortò tuttavia i legionari a farsi uccidere piuttosto che violare i principi della loro fede. Valicate le Alpi, ad Agauno (luogo che nel XV secolo diverrà centrale per la diffusione del culto mauriziano in area sabauda), l’imperatore ordinò ai legionari di offrire sacrifici agli dei pagani. Maurizio e i suoi uomini però si rifiutarono, decisi a morire piuttosto di offendere il proprio Dio, offrendo così la propria vita ai rappresentanti dell’imperatore. A quel punto i soldati di Massimiano circondarono i tebani, coi quali Maurizio si ! G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori: nelle redazioni del 1550 e 1568, a cura di R. BETTARINI, P. BAROCCHI, II, Sansoni, Firenze 1967, p. 173. L'ulti-
ma memoria dell'affresco sembra quella tramandata dal Borghigiani: Firenze, Archivio di Santa Maria Novella, V. BORGHIGIANI, Cronica annalistica di SMN (1757-1761), III, p. 331.
2 Sull’interpretazione, l’analisi stilistica e la datazione dell’affresco v. i saggi contenuti in Santa Maria Novella. Gli.affreschi ritrovati, a cura di A. BisceGLIA, Mandragora, Firenze 2015 e, con particolare attenzione, quelli di Anna Bisceglia, Andrea De Marchi e Marco Merlo. 3 Jacopo DA VARAZZE, Legenda Aurea, a cura di A. VITALE BROVARONE, L. VITALE Bro-
VARONE, Einaudi, Torino 2007, pp. 776-780.
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MARCO MERLO
congratulò per aver osservato il comandamento di Gesù, che aveva ordinato a Pietro di rimettere la spada nel fodero‘, così come scritto nel Vangelo di Giovanni?, preferendo il martirio allo spargimento di sangue e rispettando il vincolo dell’obbedienza terrena all’imperatore. Prendendo la parola dopo il commosso discorso di Maurizio, il portastendardo Essuperio annunciò la decisione dei soldati di deporre le armi, perché la loro «innocenza» non fosse macchiata agli occhi del Cristof. A questa decisione i soldati dell’imperatore attaccarono gli uomini agli ordini di Maurizio e li trucidarono senza incontrare resistenza. La porzione di affresco oggi restaurata immortala proprio il momento in cui i martiri di Tebe, tutti ritratti con l’aureola, presero la decisione di non reagire e di andare incontro al martirio. Il cavaliere che apre la scena con la mano intima di arrestarsi ai compagni che lo seguono, spinti in avanti dal desiderio, come nella tradizione di Jacopo da Varazze, di ricevere il martirio. Immediatamente alla sue spalle, in primo piano, si scorge infatti un cavaliere nell’atto di arrestare il proprio cavallo, un attimo prima spronato per la carica. Dietro di lui è ben delineato un altro cavaliere nell’atto di rimettere, dopo averla sguainata, la sua
spada nel fodero: sguainare la spada avveniva tenendo le redini con la mano sinistra e afferrando con la destra l’impugnatura dell’arma; sguarnirla impegnava la mano destra, sempre stretta nell’impugnatura, mentre la sinistra doveva tenere il fodero per poterne centrare la fessura. Alle spalle di costoro vi è un altro gruppo di cavalieri in cerchio, che si abbracciano l’un l’altro: il commovente ultimo saluto tra compagni d’armi ormai decisi a intraprendere la strada del martirio. Dietro di loro, infine, vi è un cavaliere piangente, che si asciuga le lacrime attraverso i fori dell’elmo.
1. La committenza
Le notizie biografiche sul committente dell’opera di Santa Maria Novella, Guidone da Campi, sono scarse e per la maggior parte tramandate da fonti indirette’. La più importante rimane la citazione vasariana, che ci informa che Guidone era un comandante militare di alto livello della Repubblica fiorentina e che fu ritratto prima di morire, nel 1312, proprio da Bruno. Secondo la stessa fonte,
4 Ivi, p. 778. ? GIOVANNI, 18, II: «rimetti la tua spada nel fodero».
° JACOPO DA VARAZZE, Legenda Aurea cit., p. 778. 7 Come del resto sono scarse le notizie sulla famiglia da Campi: cfr. E. FAINI, Uorzini e famiglie nella Firenze consolare, pubblicazione on line (2009) in «Storia di Firenze. Il portale per la #1 della città», , pp. 1-56:
18.
L’ARALDICA APOCRIFA DI BRUNO
TA
una volta morto, il condottiero fu quindi raffigurato nei dipinti in Santa Maria Novella, inginocchiato ai piedi di una Vergine col Bambino in braccio, posto tra i santi Domenico e Agnese. Alle loro spalle si sarebbe quindi aperta la scena dei cavalieri tebani8. La conferma del ruolo svolto da Guidone nell'esercito fiorentino viene dalla lapide terragna di Guidone, copia dell'originale eseguita nel 1859 e collocata nel pavimento della chiesa in occasione dei restauri ultimati nel 1861°. La lastra fornisce come anno della morte il 1305, che sarà tuttavia da emendare, in base ad
altre fonti, in 1315'°, Al suo interno è anche presente uno stemma con un cervo rampante, che è però da ritenersi di fantasia, in quanto nel pavimento della chiesa sono collocate altre copie ottocentesche di lapidi, appartenenti a personaggi privi di rapporti con il nostro Guidone, in cui questa figura è costantemente ripetuta!!. Il nome del nostro personaggio si rinviene negli atti notarili rogati dal notaio Alberto detto Rossello figlio di Guidone da Campi, in particolare in un atto del 1316 Rossello segnala il padre come deceduto, mentre nell’atto datato al 1310, Guidone è segnalato come ancora vivente. Se ne deduce che la morte lo
colse tra il 1310 e il 1316/2. Sebbene nei documenti fiorentini, tra gli anni 1280 e 1314, il nome proprio Guidone ricorra con una certa frequenza” e il toponimo 8 VASARI, Le vite cit. p. 173. ? Interno della Chiesa di S. Maria Novella dopo i restauri fatti nel 1861, Tipografia e cartoleria di F Spiombi, Firenze 1861, pp. 1-15. Tra il 1841 e il 1854 furono compiuti altri lavori nella chiesa, durante i quali alcune lapidi furono traslate nel sepolcreto del chiostro verde: BNCE Repertorio delle tumulazioni nel nuovo sepolcreto nel chiostro verde, Sepoltuario Cirri, VIII. Tuttavia in questo manoscritto la lapide di Guidone non è menzionata e non compare nemmeno nell’elenco delle sepolture di Santa Maria Novella compilato da Ildefonso di San Luigi, che pure ricorda ben dieci personaggi originari di Campi (I. DI SAN Luici, Le delizie degli eruditi toscani, IX, Cambiagi, Firenze 1777, pp. 123-203). In aggiunta a questi Fineschi segnala la lapide di tale Ser Chello da Campi, di cui segnala la difficoltà di lettura dell’epigrafe dovuta al cattivo stato di conservazione, ma anche nel suo elenco non figura il nome di Guidone: V. FinescHI, Memorie sopra il cimitero antico della chiesa di Santa Maria Novella di Firenze, Stamperia di Francesco Moùke, Firenze 1787, p. 22. !0 L'iscrizione, in una gotica d’imitazione tipica del Gothic Revival fiorentino, recita: D
GuiponIs A Campi M TRIBUNI EXERCITUS C FLO À D MCCCV. Ma è molto probabile che la data sia determinata da un errore di lettura dell’originale, che già nella seconda metà del XVI secolo si presentava gravemente danneggiato. !! Probabilmente questo stemma fu usato per integrare tutti gli scudi non più leggibili. 2 ASFi, Diplomatico pergamene, 1310 Settembre 14, Vallombrosa, S. Maria d’Acquabella 70, c. 220v; ASFi, Diplomatico pergamene, 1316 Gennaio 12, Firenze, S. Maria Nuo-
va 32, c. 30v. V. M. MERLO, Le armi difensive nell'affresco di Bruno in Santa Maria Novella:
proposte di lettura e datazione, in Santa Maria Novella. Gli affreschi ritrovati cit.
5 Si vedano: Di SAN LuiGi, Le delizie cit.; Le consulte della Repubblica fiorentina dall'anno MCCLXXX al MCCXCVIII, a cura di A. GHERARDI, Sansoni, Firenze 1898; I consigli della Repubblica fiorentina (1301-1315), a cura di B. BARBADORO, Zanichelli, Bologna 1921-1930.
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Campi sia comune ad almeno tre località distinte!*, ben pochi dubbi restano sulla corrispondenza tra il committente del nostro dipinto e il personaggio nominato negli atti rogati dal notaio Alberto detto Rossello”. AI di sopra dell’affresco è poi dipinto lo stemma del committente defunto: un fasciato d’oro e d'azzurro. Quest’arme non compare in nessuna raccolta fiorenti-
na!, ma è invece ricordata in area padovana sia dal Crollalanza sia dallo Scorza. Il primo la attribuisce alla famiglia Campesi di Padova, di cui segnala soltanto un esponente che fu deputato del Comune nel XVIII secolo, ma non fornisce però indicazioni su dove l’arme comparisse!?. Sorge così il dubbio che Crollalanza avesse visto lo stemma fiorentino, o gli fosse stato segnalato, dato che durante i lavori di restauro terminati nel 1861 era effettivamente possibile osservarlo!*. Conoscendo il passo vasariano, scambiò forse l'appellativo Campese per il cognome del committente e ne ricercò le origini nell'omonima località sita nella valle del Canale di Brenta, celebre per il monastero di Santa Croce di Campese!?. Da Campese alcune famiglie si erano in effetti trasferite a Padova, assumendo il toponimo d’origine come cognome; una di queste ebbe poi nel corso del Seicento una modesta influenza nella politica cittadina, ma non utilizzò mai un fasciato d’oro e d’azzurro?. Scorza, probabilmente riprendendo la notizia del Crollalanza, attribuì lo stemma sempre ai Campesi di Padova, ma ritenne che questi fossero un ramo dei Campeggi di Milano?!. Inoltre segnalò l’arme di otto famiglie il cui cognome era Campi, ma solo una di queste era originaria di Padova e nessuna della Toscana??. !4 Oltre alla località Campi, tutt’oggi esistente, nei registri fiorentini compare il burgus Campi, nel distretto di Arezzo, e il castrum Campi Rubiani. Rispettivamente: I consigli della Repubblica fiorentina cit., II, pp. 572, 639, 645. 5 Cfr. MERLO, Le armi difensive cit. 18 Sono stati consultati il Sepoltuario della Chiesa e Convento di S. Maria Novella di Firenze (ASFi, Manoscritti, n. 812), copia dell’originale di Niccolò Sermartelli; il Sepoltuario Fiorentino di Stefano Rosselli (ASFi, Manoscritti, nn. 624-625); la versione on-line
della Raccolta Ceramelli Papiani, nel sito dell'Archivio di Stato di Firenze: . In nessuno di questi si trova l’arme di Guidone. Bisogna però segnalare che per tutto il XVII secolo e per gran parte del secolo successivo l’affresco fu coperto e, quindi, non visibile. !? G.B. CROLLALANZA, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte ed esistenti, Presso la direzione de Giornale araldico, Pisa 1886, p. 208. !8 Interno della Chiesa di S. Maria Novella cit., pp. 1-15. ? A. CHEMIN, Campese: storia del territorio, Grafiche SIZ, Verona 1995, pp. 23-25; Ip., Chiesa e monastero dell'invenzione della santa Croce di Campese, s.1. 2006, pp. 2-3; L. RoSTIROLA, Camposampiero: saggi storici, Rebellato, Padova 1972, pp. 51-123. 2° F. SCHROEDER, Repertorio genealogico delle famiglie confermate nobili e dei titolati nobili esistenti nelle Provincie Venete, Forni, Venezia 1830, pp. 190-191. °! A.M. Scorza, Enciclopedia araldica italiana, VII-44, Sampierdarena, Genova 1973,
p. 67. 2 Ivi, pp. 67-68.
L'ARALDICA APOCRIFA DI BRUNO
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L'identificazione dello stemma raffigurato nel nostro dipinto costituisce dunque ancora oggi un problema aperto?, tanto più che non sappiamo se la figura di Guidone, ritratto in armatura ad apertura dell’affresco, portava le sue armi araldiche e se queste trovavano corrispondenza nell’emblema rappresentato sopra il dipinto. L'unico dato certo è che lo stemma del committente non ha alcuna attinenza, sia per la forma sia per i colori, con quelli dei cavalieri raffigurati nell’affresco.
2. Gli stemmi dei cavalieri mauriziani di Santa Maria Novella
Nella parte di affresco conservata mancano i richiami tradizionali alla-simbologia mauriziana, mentre solo le aureole che incorniciano le teste dei cavalieri ne rivelano la santità. Questo non esclude naturalmente che altri elementi indicatori potessero essere presenti nelle porzioni del dipinto oggi perdute. E
d’altro canto bisognerà ricordare che, nonostante la fortuna del culto mauriziano nel tardo Medioevo#, una sua precisa simbologia si delineò solo alla metà del XV secolo, quando i Savoia se ne fecero promotori. In particolare la croce trifogliata comparve, inequivocabilmente legata al santo martire, per la prima volta solo sulla custodia della spada detta di san Maurizio, eseguita tra il 1434 e il 1438, oggi conservata nell’Armeria Reale di Torino”.
3 È stato ragionevolmente supposto che gran parte delle lacune documentarie di questo periodo possano essere conseguenza di fatti occorsi durante le violente lotte cittadine, come l’incendio dell’archivio del podestà occorso durante la cacciata del Duca d’Atene: A. DE VincenTIIs, Politica, memoria e oblio a Firenze nel XIV secolo. La tradizione documentaria della signoria del duca d’Atene, in «Archivio Storico Italiano», 161 (2003),
pp. 209-248; C. KLapiscH-ZuBER, Ritorno alla politica. I magnati fiorentini 1340-1440, Viella, Roma 2009, p. 80. Sui livelli di violenza raggiunti durante i tumulti nei Comuni italiani: A.A. SETTIA, I luoghi e le tecniche dello scontro, in Magnati e popolani nell'Italia comunale, atti del convegno (Pistoia 1995), Centro italiano di storia e storia dell’arte, Pi-
stoia 1997, pp. 81-115 (riedito in ID., Tecniche e spazi della guerra medievale, Viella, Roma 2006, pp. 133-165). 2 G.P. MAGGIONI, Santi in pace e in guerra nelle opere di Iacopo da Varazze, predicatore e arcivescovo, in Pace e guerra nel Basso Medioevo, atti del convegno internazionale (Todi 2003), Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2004, pp. 375-
393: 389-390.
2 Torino, Armeria Reale, inv. Q 12. È interessante osservare che Bertolotto ha visto
nel giglio azzurro sulla custodia, che fa da pendant alla figura del santo cavaliere, un’allusione alla Vergine, per il richiamo simbolico alla purezza del fiore e al colore generalmente attribuito alla Madonna; il priorato di Ripaglia, fondato da Amedeo VIII nel 1409, aveva in effetti la duplice dedicazione alla Vergine e a San Maurizio (C. BERTOLOTTO, Medioevo
e primo rinascimento, in L’Armeria Reale di Torino a cura di F. Mazzini, Bramante, Busto Arsizio 1982, pp. 59-71: 62). Lo stesso binomio Vergine-Maurizio era in origine presente
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Fig. 1 BRUNO, I/ martirio della Legione tebea, dettaglio. Firenze, chiesa di Santa Maria Novella.
Gravi cadute di colore non permettono la lettura della maggior parte degli stemmi portati dai cavalieri, che in origine dovevano essere presenti almeno su tutte le sopravvesti smanicate. Le insegne an-
cora perfettamente leggibili sono così solo cinque. La porzione di opera superstite è aperta dalla parte posteriore di un cavallo la cui gualdrappa scura (il colore originario non è più distinguibile) porta alla banda scaccata di rosso e d’argento (fig. 1). Di seguito troviamo il cavaliere che intima ai compagni di frenare i cavalli, vestito di una sopravveste con ur troncato, al primo di rosso al leone nascente d’oro, al secondo d’argento seminato di foglie di vite (fig. 1). Benché la posizione di questo wzles, in seconda linea e di tre quarti, non consenta una piena visione della gualdrappa del suo cavallo, possiamo essere certi che questa fosse rossa e riportasse la medesima arme che ritroviamo anche sugli spallacci di cuoio cotto. Nell’affresco questo elemento difensivo è a forma di mandorla e particolarmente ampio, come tipico della produzione toscana dell’inizio del Trecento: lo documentano le lastre terragne dei cavalieri sepolti in San Romano a Lucca e quella di Giovanni di Castruccio Castracane degli Antelminelli (+ 1343) in San Francesco a Pisa, con gli spallacci del cavaliere defunto ancora ornati del suo stemma. Il cavaliere con #/ leone nascente è uno dei pochi che indossa un elmo a staro, che nella Toscana di
inizio Trecento stava ormai perdendo la sua utilità pratica; sulle sue spalle ricade il manto rosso, ma una caduta d’intonaco, proprio sopra il capo, non consente di stabilire se l’elmo fosse dotato di cimiero,
come appare probabile, e quale forma quest’ultimo avesse. Alle sue spalle vi è invece un cavaliere con anche nell’affresco di Santa Maria Novella, dato che questo si apriva con la figura del committente inginocchiato ai piedi della Vergine con il Bambino: Vasari, Le vite cit., p. 173.
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un elmo con visiera rialzabile (fig. 2). Il modello è ancora piuttosto arcaico, ma già culmina in un cimiero crestato, che consente il sollevamento della
visiera: dotato solo di una funzione decorativa, come
si riscontra in altri
modelli toscani coevi’, non presenta nessuna attinenza con l’arme di rosso a tre losanghe vuote d’oro, col capo d’ermellino dipinta sugli spallacci di cuoio e sulla sopravveste (tav. 7). Il cavaliere in primo piano che frena il proprio cavallo ha la sopravveste e gli spallacci con un’arme d’argento alla banda
di rosso
(tav. 7), caricata
delle figure di tre leoni passanti. Dietro di lui vi è il cavaliere che rimette la spada nel fodero, vestito di sopravveste e spallacci a una banda d’azzurro caricata di tre bisanti dal; colore , ormai; 3 o indefinito, ma probabilmente in-ori-
si VÀ, Ne
i
Vi
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Fig-2 BRUNO, Il martirio della Legione ‘29: dettaglio del cavaliere con elmo a visiera mobile e cimiero crestato. Firenze, chiesa di Santa Maria Novella.
gine d’argento. Poco avanti ve n’è un altro con una sopravveste rossa dal disegno non più leggibile (fig. 3). Del penultimo cavaliere, quasi del tutto scomparso, si vede un piccolo frammento della sopravveste che pare fosse stellata, ma il cui colore è ormai indefinibile. Per il cavaliere che chiude la scena?” la caduta del colore impedisce la lettura delle insegne riportate sugli elementi difensivi del corpo; egli indossa però un elmo a staro con cimiero, l’unico dell’intero affresco ancora perfettamente conserva-
26 Progressivamente, in Italia, il vecchio elmo a staro fu sostituito da un nuovo tipo con
visiera rialzabile. Su quest’ultimo era impossibile collocare il tradizionale cimiero, poiché la visiera non si sarebbe alzata. Quindi fu ideato un modello, probabilmente metallico,
su cui apporre un cimiero che, nella Firenze della prima metà del Trecento, era crestato. Due versioni di questo cimiero, all’incirca coeve all’opera di Santa Maria Novella e molto simili tra loro, sono visibili sull’elmo di uno dei cavalieri del ciclo del Palazzo Pubblico
di San Gimignano (di cui parla Alessandro Savorelli in questo stesso volume) e su quello del cavaliere anonimo effigiato su una delle finestre su via della Vigna Vecchia del palazzo del Bargello a Firenze. Persa ogni funzioni simbolica, questi cimieri divennero un motivo esclusivamente decorativo: v. MERLO, Le armi difensive nell'affresco cit. 2? L’affresco originariamente continuava alle spalle del cavaliere, dove si osserva la mano di un altro rzi/es, che tuttavia, sulla base dei dati di restauro e dell’analisi oplologica, sembra frutto di una rimaneggiamento quattrocentesco.
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MARCO MERLO
to, formato da due teste di cigno che guardano da parti opposte e da un manto scuro che, come d’abitudine,
scende lungo la parte posteriore del casco (fig. 3). Gli stemmi portati dai nostri cavalieri non sono riconducibili a nessuna famiglia italiana, tantomeno fiorentina. La banda scaccata della gualdrappa del cavallo che apre la scena è comunque un motivo araldico piuttosto comune. Uno stemma quasi identico a quello dell’affresco si osserva in una miniatura del Villani chigiano (13501375) con Astolfo, re dei Longobardi, che, sconfitto dal franco Pipino, chie-
sero
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:
Fig. 3 BRUNO, I/ martirio della Legione ted lio del cavaliere con elmo astaro LOI RUN IEEE e cimiero alle due teste di cigno. Firenze,
chieda Mara Noella,
de perdono al papa??. In contrapposizione allo stemma apocrifo dei Fran-
chi, d’azzurro a tre gigli d’oro, quello Ì js
dei Longobardi è d’azzurro alla banda scaccata d’argento e di rosso. Se il pri-
mo evocava il regno di Francia, sulla base dell’antica tradizione che vedeva nei Franchi gli antenati dei francesi, il secondo potrebbe in qualche misura richiamare i principati tedeschi che, secondo la tradizione, discendevano da queste popolazioni germaniche. In effetti, poiché nel codice Chigi il medesimo scaccato è riferito anche ai Goti?9, possiamo sospettare che quest’arme, come quella attribuita ai Franchi, poteva evocare
un'idea di appartenenza etnica, ben decifrabile nel Trecento, ma per la quale oggi abbiamo perduto i riferimenti che la rendevano intellegibile?'. Altre e ancor più forti somiglianze si riscontrano però con l’araldica d’Oltralpe. Particolarmente interessante, a tal proposito, è lo stemma con le losanghe 28 Dietro questo w1les sembrerebbe esserci un altro cavaliere dotato di cimiero, ma
anche in questo caso un’ampia caduta di intonaco impedisce di avere una visione completa della figura. 2 BAV, ms. Chigi, LVIII 296, c. 39v. 3° Lo stesso scaccato è stato poi attribuito ai Normanni di Sicilia: v. A. SAVORELLI, L'a-
raldica del codice Chigiano: un ‘commento’ alla «Cronica» del Villani, in Il Villani illustrato. Firenze e l'Italia medievale nelle 253 immagini del ms. Chigiano L VIII 296 della Biblioteca Vaticana, a cura di C. FRUGONI, Le Lettere, Firenze 2006, pp. 53-58: 57. ?! Savorelli considera che queste armi fossero «in qualche modo verosimili per i contemporanei (ma apocrife per noi)»: ivi, pp. 56-57.
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vuote (74cles) e l’ermellino, che contraddistingue il cavaliere con l’elmo con visiera rialzabile. Nell’araldica fiorentina, ma più in generale in quella italiana del Trecento, le #acles sono una figura pressoché assente e anche l’ermellino ricorre con una certa rarità. Sono invece molto comuni nella Francia settentrionale,
nell’Inghilterra e nei Paesi Bassi. L’arme del cavaliere di Santa Maria Novella trova così suggestive analogie con quelle di alcune famiglie bretoni, quali i visconti Rohan. Questa famiglia, originaria della diocesi di Vannes (Morbihan, Bretagna), è documentata a partire dal 1008, e nel corso della sua storia ha stretto legami di parentela con molte delle famiglie più influenti di Francia e d'Europa”. La sua arme era di rosso a nove losanghe vuote d’oro. A seguito del matrimonio, celebrato nel 1307, tra Olivier II, nono visconte di Rohan, e Alice, figlia di Tebaldo de Ro-
chefort visconte di Donges, un’altra importante famiglia bretone, nacque il ramo Rohan-Rochefort, che aggiunse allo stemma originario un campo d’ermellino, emblema della Bretagna”. L’arme del cavaliere di Santa Maria Novella trova poi un’altra rilevante analogia col troncato, al primo di rosso a tre losanghe vuote d’oro, al secondo d’ermellino dei Bois-Boessel, altra famiglia bretone che ebbe tra i suoi esponenti, già nel Trecento, dei marescialli di Francia”. Il radicamento di stemmi simili nel regno di Francia è testimoniato anche dalla letteratura: al personaggio arturiano di Alibel de Logres, che compare nel Livre de Lancelot du Lac” e nel Livre d’'Artus*, viene attribuita l’arme partita, al primo d’azzurro a sei losanghe vuote d’argento e al secondo d’ermellino”. Le differenze tra quest'emblema e quello del cavaliere del ciclo mauriziano sono però importanti: l’arme di Alibel de Logres, come quella dei Rohan-Rochefort, è partita anziché troncata e l’azzurro sostituisce il rosso, mentre le losanghe vuote sono d’argento anziché d’oro; ma è interessante notare come ad Alibel sia attribuito anche
2 F-A. DE LA CHENAYE-DESsBOIS, J. BADIER, Dictionnaire de la noblesse, XVII, Schlesin-
ger, Paris 1872, pp. 467-547; G. SAFFROY, Bibliographie généalogique, héraldique et nobiliaire de la France des origines à nos jours: imprimés et manuscrits, III, Librairie G. Saffroy,
Paris 1974, pp. 674-677. In generale si veda G. MARTIN, Histoire et généalogie de la maison de Rohan, La Ricamarie, Lyon 1998. 3 B. YEURC'H, Noblesse de Bretagne, PUR, Paris 1999, p. 62. #4 G. LE BORGNE, Armorial breton, Julien Ferré, Rennes 1667, pp. 7-8. 5 The vulgate version of the Arthurian romances, ed. by O. SOMMER, III, The Carnegie
Inst. of Washington, Washington 1910, pp. 141-143, 153. 36 The vulgate version cit., VII, Washington 1913, p. 122.
3 ML. MERLET, Costumes des Chevaliers de la Table-Ronde, in «Mémoires de la Société archéologique d’Eure-et-Loir», 6 (1876), pp. 1-29: 26; L. JEFFERSON, Tournaments, Heraldry and the Knights of the Round Table. A Fifteenth-Century Armorial with Two Ac companying Texts, in «Arthurian Literature», 14 (1996), pp. 69-157: 151. Sui blasoni tra-
dizionalmente attribuiti ai cavalieri arturiani: M. PASTOUREAU, Armortal des chevaliers de
la Table Ronde. Etude sur l'héraldique imaginaire à la fin du Moyen Age, Le Léopard d’or, Paris 2006.
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il cimiero con testa di cigno che, in questa sede, richiama il cimiero dell’ultimo cavaliere dell’affresco, con le due teste di cigno”. Seguendo la pista arturiana, la banda rossa del cavaliere al centro della scena, pur essendo motivo molto comune, ci riporta alla copia parigina del Tristano di Rustichello da Pisa. Nelle miniature di questo manoscritto, che pare essere stato commissionato da Edoardo I d’Inghilterra all’inizio del XIV secolo??, Tristano è caratterizzato proprio dall’arme d’argento alla banda di rosso*°. Bisogna anche osservare che nella tradizione a Lancillotto è attribuito lo stemma d’argento a tre bande di rosso*, che trae spunto da un passo del Lancelot en prose, in cui la Dama della Dolorosa Guardia dona al cavaliere dapprima uno scudo d’argento alla banda di rosso, poi uno con due bande e infine uno con tre: ed è proprio la variante a una sola banda di rosso a essere frequentemente rappresentata”. A tale proposito si osserverà allora che nell’Italia meridionale la letteratura arturiana, con i riti e gli emblemi a essa legati, fu ulteriormente diffusa dalla presenza angioina*: Edoardo I ebbe modo di avvicinarsi all’epica romanzesca probabilmente proprio durante la sue permanenze in Sicilia, quando non era ancora re“, In questa realtà lo stemma d’argento alla banda rossa apparteneva a una famiglia del Cilento, i Capano. Documentata dall’inizio del XIII secolo, i suoi
esponenti ricoprirono ruoli istituzionali e militari di rilievo già durante il regno di Federico II. Il Ricca riporta che nel 1328, in tempi dunque pressoché coevi all’affresco fiorentino, Giacomo Capano fu nominato tesoriere dell’esercito del duca di Calabria nella guerra contro Ludovico di Baviera e, in quest'occasione, per i servigi resigli fu concesso d’inserire tre gigli d’oro all’interno della banda del proprio stemma”. A Firenze, invece, la famiglia Ciapi, un cui esponente fu priore nel 13914, possedeva uno stemma d’argento alla banda di rosso accompagnata
38 C. GAULLIER-Boucassas, Le Chevalier au Cygne à la fin du Moyen Age. Renouvellements, en vers et en prose, de l’épopée romanesque des origines de Godefroy de Bouillon, in «Cahiers de recherches médiévales et humanistes», 12 (2005), pp. 115-146. 39 Il romanzo arturiano di Rustichello da Pisa, a cura di F. CiGNI, Cassa di Risparmio, Pisa 1994, pp. 9-10. 40 BNF, ms. Fr. 1463, cc. 27v, 28r, 56r, 57r, 58r, 65r, 69v, 861, 87r. 4! PAsTOUREAU, Armorial des chevaliers cit., p. 141, n. 114.
4 G.J. BRAULT, Early Blazon: Heraldic Terminology in the Twelfth and Thirteenth Centuries, Clarendon Press, Oxford 1972, pp. 46-47.
% P. GRAVINA, La società feudale e la cultura cavalleresca nella Napoli angioina, da Carlo I a Roberto il saggio (1266-1343), in Medioevo in guerra, a cura di A. GAMBELLA, Drengo, Roma 2008, pp. 155-176. 44 Il romanzo arturiano cit., p. 9. % E. Ricca, La nobiltà del Regno delle Due Sicilie, IV, A. De Pascale, Napoli 1869, PAZZA
‘° A. MECATTI, Notizie istorico-genealogiche appartenenti alla nobiltà e cittadinanza fiorentina, III, Giovanni Di Simone, Napoli 1754, p. 283.
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da sei moschettature di ermellino poste in sbarra: l’arme si trovava su una lapide funeraria in Santa Maria Novella, oggi perduta ma documentata dal Fineschi”. Allo stato attuale delle ricerche, la lettura delle armi dipinte nell’affresco porta dunque a ipotizzare che queste fossero ispirate a un modello di area e cultura francese, reale o immaginario. Quest’ipotesi trova un altro possibile riscontro nell’affresco della Battaglia della Valdichiana, realizzato da Lippo Vanni nel Palazzo Pubblico di Siena". Il dipinto rappresenta la battaglia avvenuta nel 1363, in cui l’esercito senese riuscì a fermare, tra Torrita e Sinalunga, le razzie e
i saccheggi di una compagnia di ventura al soldo di Firenze, la Compagnia del Cappello o Cappelletto, sconfiggendola in campo aperto. Questa, pur guidata da comandanti italiani, era composta per la maggior parte da bretoni”: ed è proprio tra le fila dei mercenari rappresentati nel dipinto senese che si-scorge un cavaliere con l'elmo sormontato dalla testa di cigno e un altro con il cimiero con un leone nascente.
3. L'influenza del mito arturiano presso la cavalleria toscana Il rapporto tra icomportamenti cavallereschi e i modelli letterari delle Chansons de geste” e, soprattutto, dei cicli arturiani è argomento ormai noto. La letteratu-
ra descriveva la concretezza materiale: i cavalieri del mito erano un ritratto dei cavalieri reali ma, a loro volta, dalla letteratura quest'ultimi traevano modelli e stili di vita. Un’influenza reciproca e circolare tra la realtà e l’epica, che ha significativamente contribuito a plasmare la figura del cavaliere?!. A partire dalle copie dei romanzi di Chrétien de Troyes, l’araldica costruita appositamente per la rappresentazione dei personaggi arturiani — sempre secondo uno schema in cui la realtà materiale condiziona e, allo stesso tempo, viene condizionata dalla
fantasia — acquisterà nell’ethos cavalleresco un valore unico e imprescindibile, che legherà indissolubilmente i #zlites alle figure dei cavalieri della Tavola Ro-
47 FINESCHI, Merzorie sopra il cimitero cit., p. 111: si sarebbe trattato di Iacobi Nofri Ciapi. î Su quest'opera v. i saggi pubblicati nel numero monografico consacrato all’affresco
di «Torrita: Storia, Arte, Paesaggio», 4 (2013). 4 G. FRANCESCHINI, La prima Compagnia di Ventura italiana (La Compagnia del Cap-
pelletto e il conte Nicolò da Montefeltro), in «Bullettino Senese di Storia Patria», n.s., 12 (1941), 4, pp. 265-279. 50 A. VITALE BROVARONE, Letteratura e società nel mondo cavalleresco, in La storia. I
grandi problemi dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di N. TRANFAGLIA, M. Firpo, I, UTET, Torino 1992, pp. 701-732. 51 J. FLORI, Cavalieriecavalleria nel Medioevo, Einaudi, Torino 1999 (ed. or. Paris 1998), pp. 250-251.
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tonda”, La simbologia per loro ideata divenne così modello anche per la vita materiale, offrendo ai principi europei l’occasione di dare luogo a vere e proprie rievocazioni del mito”. In particolare, erano i tornei a fornire l'opportunità di vestire i panni dei cavalieri di Artù”. A titolo d'esempio, in onore del giovane Amedeo VI di Savoia, non ancora conte, fu organizzato a Chambery un torneo
nel quale la squadra sabauda si riunì intorno all'Ordine della Tavola Rotonda, i cui membri vestivano per l’appunto le armi dei cavalieri di Artù’. Lo stesso Edoardo I d'Inghilterra, fanatico dei miti cavallereschi e del ciclo bretone”,
portò il costume arturiano oltre i campi dei tornei, imponendo riti anche all’interno della vita politica di corte?8. Lodewijk van Velthen, chierico del Brabante alla corte del monarca inglese, narra che quando un vassallo di Edoardo denunciava al re il comportamento offensivo di un altro signore, il monarca esigeva che i cavalieri della sua corte vestissero i panni dei cavalieri di Artù, recando le loro insegne, e ne assumessero i nomi per vendicare il torto??. Anche in Italia il modello letterario, soprattutto quello legato alla figura di Tristano®9, riscosse enorme successo e assurse a stile di vita tra i #lites comunali
e tra quelli del Regno di Napoli®. In Toscana il cronista dei Gesta Florentinorum narra che, nel 1231, i senesi speravano di sconfiggere i fiorentini con l’ardore «tamquam Brittoni qui regem adhuc expectant dicuntur Arturum»®. Parlando
72 M. PASTOUREAU, Les armotries arthuriennes, in Les manuscrits de Chrétien de Troyes, sous la dir. de K. BusBy, T. Nixon, A. STONES, L. WALTERS, Rodopi, Amsterdam-Atlanta 1993 LL pp. 243-257:
3 L'influenza dei romanzi arturiani nella vita materiale dei wzlites determinò anche la scelta dei nomi di battesimo: M. PASTOUREAU, Tristan, Lancelot, Arthur: palmarès des noms de baptême, in Les Chevaliers, sous la dir. de P. CONTAMINE, Tallandier, Paris 2007, pp. 177-181.
# Una compenetrazione che durerà a lungo, fino al Cinquecento e oltre, quando nelle strategie militari il ruolo della cavalleria nobile diminuì rapidamente d’importanza e i milites provarono a tenere ancora in vita le loro tradizioni mettendo in scena tornei fastosi e magnifiche feste che sempre più si richiamavano a tradizioni letterarie, spesso antiche, per celebrare quella che ormai era considerata l’età dell’oro della cavalleria: M. KEEN, La cavalleria, Guida, Napoli 1986 (ed. or. New Haven-London 1984), p. 149 e ss. % MERLET, Coustumes des chevaliers cit., pp. 1-20. > F CORDERO DI PAMPANATO, I/ Conte Verde, Amedeo VI di Savoia, Chiaramonte, Collegno 2004, p. 166. © Il romanzo arturiano cit., p. 10.
° RS. Loomis, Edward I. Arthurian Enthusiast, in «Speculum», 28 (1953), pp. 114-127. ” M. PRESTWICH, Edward I, Yale University Press, London 1988, p. 121.
9 A. VITALE BROVARONE, La civiltà letteraria francese nei secoli medievali, in Storia della civiltà letteraria francese, a cura di L. Sozzi, I, Einaudi, Torino 1993, pp. 1-200: 158-159. 9 D. BRANCA, 1 romanzi italiani di Tristano e la Tavola Rotonda, Olschki, Firenze 1968.
% SANZANOMIS Iupicis, Gesta Florentinorum, ed. O. HartwIG, in Quellen und For. schungen zur Altesten Geschichte der Stadt Florenz, I, N.G. Elwert'sche Verlagsbuchhandlung, Marburg 1875, p. 138, nota 3.
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poi delle compagnie di cavalieri, già Boncompagno da Signa nel suo Cedrus, composto tra il 1194 e il 1203, segnalava come nei Comuni italiani fossero diffuse societates che fin dal nome si ispiravano ai cavalieri della Tavola Rotonda,
e che il fenomeno era particolarmente imponente in Toscana®. A Pisa, patria di Rustichello, nel 1237 compare per la prima volta la «Compagnia de Tavola ritonda»%. Questa ha sicuramente influenzato la prassi militare toscana, nonché le mode guerresche, in quanto fu una delle compagnie di cavalieri cittadini che servirono altri Comuni come stipendiari: nei registri della Biccherna di Siena,
nel giugno del 1230, si trova il pagamento di 35 lire e 14 soldi a Ghiandoni e Marignano, «capitaneis tabule rotonde de Pisis», come compenso per loro stessi e per altri ventiquattro membri della suddetta compagnia, per il servizio prestato per soli sette giorni. In quei mesi sono registrati a Siena un gran nu-
mero di spese militari, per il chiaro intento da parte del Comune di rinforzare la propria capacità militare nell’anno di maggiore sforzo bellico fino a quel momento affrontato. E tutto lascia pensare che la compagnia pisana fosse nota per le sue grandi potenzialità militari*. Si osserva quindi anche in Toscana un legame profondo tra l’ethos, la prassi cavalleresca e il ciclo arturiano. Il fenomeno sembra aver poi interessato in modo particolare Pisa. Del resto, questa città fu probabilmente quella che in Toscana più di altre ricoprì un ruolo fondamentale nella trasmissione di testi ispirati al ciclo bretone direttamente provenienti dalla Francia. In breve Pisa divenne anche un centro di produzione di romanzi e volgarizzamenti, con autori quali Rustichello e Guido da Pisa. Da qui la produzione di romanzi arturiani si irradiò nel resto della Toscana, probabilmente però perdendo in parte il contatto con la tradizione originaria francese, in favore di versioni nate dal mito locale. Ma nell'immaginario collettivo tali miti devono essere stati veicolati più dal comportamento quotidiano dei #ilites, ai quali si ispiravano, che dai romanzi e dai cantari. A Firenze però 8 BONCOPAGNO DA SIGNA, Cedrus, in Quellen und Eròrterungen zur Bayerischen Geschichte, IX, 1, a cura di L. ROCKINGER, Quelleneditionen, Monaco 1863, p. 122. 4 G. VOLPE, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa, Tip. Successori Fratelli Nistri, Firenze 1970, p. 414. Le “società”, o “compagnie”, di cavalieri cittadini erano organizzazioni
che raggruppavano i wilites delle famiglie più influenti della città, in alcuni casi reclutati all’interno di una medesima vicinia, scelti tra imembri con una maggiore esperienza militare. Infatti, la principale attività delle societates era la guerra, fonte di prestigio sociale e di ricchezza. Sull'argomento v. J.-C. MAIRE VIGUEUR, Cavalieri e cittadini. Guerra, conflitti e società nell'Italia comunale, il Mulino, Bologna 2004 (ed. or. Paris 2003), pp. 140-174.
6 I libri dell'entrata e dell'uscita della repubblica di Siena detti del Camarlingo e dei quattro provveditori della Biccherna. Libro terzo (anno 1230), Lazzeri, Siena 1915, p. 217. 6 MAIRE VIGUEUR, Cavalieri e cittadini cit., p. 149. 9 F CARDINI, Concetto di cavalleria e mentalità cavalleresca nei romanzi e nei cantari
fiorentini, in I ceti dirigenti nella Toscana tardo comunale, atti del convegno (Firenze 1980), Francesco Papafava Editore, Firenze 1983, pp. 157-192.
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riscossero maggiore successo i testi legati ai paladini di Carlo Magno, in quanto la tradizione guelfa vedeva in Costantino il capostipite dei re di Francia, a sua volta discendente dei troiani. Verso la fine del Trecento infatti, nel Cantare dei Cantari,
tutti coloro che preferivano la lettura della materia bretone rispetto alle Chanson de geste sono ironicamente indicati come «innamorati vecchi» e «cavalieri strani», e si possono rintracciare sarcastici commenti dei giullari nei confronti di chi voleva ascoltare le storie dei cavalieri di Artù®8, Tutto ciò non conferma l'ipotesi di un’influenza diretta del mito arturiano sull’opera in Santa Maria Novella, ma più in generale mostra una tendenza all’ispirazione ai modelli francesi in tutta l’aristocrazia fiorentina dell’epoca, tanto più che un afflusso di testi epico-cavellereschi francesi a Firenze, seppur sia stato ragionevolmente supposto in particolare per l’epoca di Carlo di Calabria, è argomento ancora non sondato dalla ricerca”,
4, Conclusioni
Nell’affresco di Bruno, uno degli aspetti di maggiore rilevanza, tale da colpire anche Vasari, è costituito dagli armamenti difensivi indossati dai cavalieri. Si trat-
ta dell’armamento di transizione di inizio Trecento, che costituì un'importante passo verso lo sviluppo dell'armatura propriamente detta. In questi nuovi modelli ebbero particolare rilevanza gli elmi, ma soprattutto gli elementi di cuoio cotto posti a protezione degli arti”°. Su questi ultimi, per la prima volta nella storia dell’armamento medievale, veniva dato grande spazio alla decorazione,
che presto iniziò a comprendere l’arme del committente. Nascevano in questo modo, all’interno dell’apparato guerresco, nuovi supporti per l'apposizione delle insegne araldiche. Firenze, dove questo nuovo apparato difensivo è documentato più precocemente rispetto al resto d'Europa, fu uno dei centri armieri più
all'avanguardia nella produzione di tali modelli, capace di grandi esportazioni in tutta Europa. Questo commercio ha significativamente concorso alla circola-
zione di modelli oplologici e, in un certa misura, araldici”!. Gli intensi rapporti politici e commerciali tra Firenze e gli Angioini, inoltre, favorirono una proliferazione di commissioni anche dal Sud d’Italia, dove Carlo di Calabria perseguì
8 Ip., L'acciar de’ cavalieri. Studi sulla cavalleria nel mondo toscano e italico (secc. XIIXV), Le Lettere, Firenze 1997, pp. 73-76.
2 ip 9 7 70 MERLO, Le armi difensive cit. 7 L.G. Boccia, L'armamento difensivo in Toscana dal Millecento al Trecento, in Civiltà delle arti minori in Toscana, atti del convegno (Arezzo 1971), Edam, Firenze 1973, pp. 193212 196490:
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una politica di protezionismo economico a favore degli armorari fiorentini”, Lo stesso Carlo commissionò a Firenze, oltre che intere forniture di armi per il suo esercito, bracciali, schinieri, cosciali e guanti in cuoio bollito con impressi fregi e raffigurazioni delle sue insegne personali (la cui natura non è però specificata nel documento di allogazione), foderati di velluto rosso e di seta verde”. Benché nella società fiorentina della prima metà del Trecento la legislazione tendesse a imbrigliare gli artisti nella rappresentazione dell’araldica negli spazi pubblici e civici”, sulla base delle attuali ricerche appare evidente che queste disposizioni non influirono in alcun modo nella realizzazione dell’affresco di
Santa Maria Novella. È comunque escluso che gli stemmi del ciclo mauriziano possano trarre ispirazione da un modello reale autoctono, fatta eccezione, ov-
viamente, per quello del committente di cui abbiamo detto sopra. Per-contro acquista maggiore probabilità che gli elementi araldici rappresentati nel dipinto in Santa Maria Novella fossero il risultato di un’emulazione, e non della precisa imitazione, di un modello francese immaginario, cioè veicolato dalla letteratura,
o reale, cioè osservato dai fiorentini nel quotidiano tra quei cavalieri francesi, rimasti per la maggior parte anonimi, che restarono in città”. Costoro, frequentandone da protagonisti non solo la vita politica ed economica, ma anche quella sociale’, lasciarono un segno indelebile tra i contemporanei”, come è stato per il più celebre Guglielmo di Durfort. 72 KR. DaviDSOHN, Forschungen zur dlteren Geschichte von Florenz, III, Mittler und Sohn, Berlin 1901, reg. 997, 1095, 1096. 3 DaviDsOHN, Forschungen cit., IV, 1908, reg. 21, p. 325.
7 Due consigli del capitano del Popolo, uno tenuto il 20 giugno 1329 e l’altro dieci giorni più tardi, proibirono la rappresentazione, in pittura, di stemmi nei palazzi pubblici, sulle porte urbiche, sulle lapidi e sulle statue. V. rispettivamente: G. DEGLI Azzi, La dimora di re Carlo, figliuolo di re Roberto, a Firenze (1326-’27), in «Archivio Storico Italiano», s. 5,
42 (1908), pp. 45-83, 258-305: 292, 284-285. Sull’influenza delle lotte tra magnati e popolani nell’araldica fiorentina della prima metà del Trecento v. M. PASTOUREAU, Stratégies hé-
raldiques et changements d'armoiries chez les magnats florentins du XIV: siècle, in «Annales. Économies, Sociétés, Civilisation», 43 (1988), 5, pp. 1241-1256: 1242, 1247, 1249-1250; KLAPISCH-ZUBER, Ritorno alla politica cit., pp. 183-184, 190, 199-200, 222-223, 406.
5 A titolo di esempio, dal marzo 1326 Carlo di Calabria soggiornò a Firenze con i mille cavalieri del suo seguito: DEGLI Azzi, La dimora di re Carlo cit., pp. 292-293. 7 Si vedano a tale proposito le investiture cavalleresche fatte durante i soggiorni fiorentini di Carlo d'Angiò: G. SALVEMINI, La dignità cavalleresca nel comune di Firenze, Ricci, Firenze 1896, pp. 148-150.
© Non ci sono giunte in tal senso significative testimonianze scritte, ma appare logico
credere che i #zlites francesi abbiano fatto sfoggio delle loro abilità di combattenti a cavallo in gare e tornei, probabilmente impressionando i fiorentini, in special modo le dame, in quella che è stata definita la «fiera della virilità», secondo l’antico costume cavalleresco (D. BALESTRACCI, La festa in armi. Giostre, tornei e giochi nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari
2001, pp. 70-75). Il già citato ciclo del Palazzo Pubblico di San Gimignano potrebbe per l’appunto ricordare uno di questi eventi.
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MARCO MERLO
Quello dipinto da Bruno sarebbe quindi un modello “apocrifo”, ispirato da un costume guerresco maturo, ma non direttamente derivato dalla letteratura epica. L’affresco, qui pubblicato per la prima volta, pone ancora molti punti interrogativi, non solo per quanto riguarda l’araldica. Solamente studi più approfonditi e interdisciplinari potranno tentare di fornire risposte più accurate. In questa sede si è pertanto voluto portare questa ritrovata pittura alla conoscenza di storici dell’arte e dell’araldica, in modo da fornire un punto di partenza per future ricerche.
STEMMI ESPOSTI. PRESENZE ARALDICHE NEI BROLETTI LOMBARDI Matteo Ferrari
Dalla metà del Duecento, con deciso anticipo sulle città centro-italiane,i Comu-
ni dell’Italia settentrionale affinarono l’uso politico dell'immagine: per celebrare i propri successi e infamare gli oppositori politici; per informare, ammonire, esortare i c/ves; per rappresentare i principi ispiratori del governo cittadino e
indicare i propri alleati od oppositori. L'intero ambito urbano fu allora teatro di un’inedita propaganda per immagini, che trovò nei palazzi pubblici un terreno d’elezione, per la loro funzione simbolica di rappresentanza e pratica di centro delle attività politiche, amministrative ed economiche! In un contesto politico assai fluido, i ceti dirigenti individuarono nell’araldica un valido strumento per dichiarare l’appartenenza politica del Comune, per contrassegnare le sedi degli organismi consiliari e degli uffici, per rivendicare i meriti maturati dall'aver promosso interventi di utilità pubblica. L’essenzialità del segno araldico e la sua riconoscibilità offrivano la garanzia di una corretta decodifica del messaggio. La raffigurazione di stemmi rispondeva così pienamente all’esigenza primaria delle magistrature cittadine di avvalersi di una produzione iconica chiara e immediata, che proprio per questo impiegava di frequente temi e immagini già radicate nell'esperienza visiva dei potenziali osservatori’. Dunque, l’esame delle testimonianze araldiche sopravvissute o anche solo documentate per via indiretta non offre solo un appiglio per individuare i promotori degli interventi monumentali e la loro cronologia, ma costituisce un passaggio obbligato verso una migliore conoscenza delle pratiche di rappresentazione e di celebrazione dei governi comunali, prima, e signorili, poi. ! Peri Comuni di area padana cfr. M. FERRARI, La propaganda per immagini nei cicli pittorici dei palazzi comunali lombardi (1200-1337): temi, funzioni, committenza, PhD, Scuola Normale Superiore, a.a. 2010-2011, rel. M.M. Donato. A Monica Donato, compianta ma-
estra che ha scritto pagine inarrivabili sull’uso politico dell'immagine da parte dei Comuni italiani, è dedicato questo contributo. 2 Così notava M.M. Donato, Testi, contesti, immagini politiche nel tardo Medioevo: esempi toscani. In margine a una discussione sul «Buon governo», in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», 19 (1994), pp. 305-341: 341.
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MATTEO FERRARI
L’esiguo numero di testimonianze materiali conservate e la loro difficile accessibilità, la carente documentazione fotografica e l'apparente reticenza delle fonti scritte hanno finora scoraggiato a indagare le presenze araldiche nelle sedi comunali lombarde}. Recenti ritrovamenti e un sistematico spoglio delle fonti documentarie e narrative consentono però oggi di affermare che queste furono rivestite di stemmi, isolati o associati in più complessi pavesi, in modo parago-
nabile a quanto avvenne, più tardi, nei palazzi civici di altre zone della penisola!. Le stesse fonti mettono in risalto che tra Lombardia, Emilia e Veneto l’araldica
assunse col tempo un ruolo sempre più decisivo nella comunicazione politica per immagini, al punto da divenire, in epoca ormai signorile, il vettore principale della propaganda delle autorità di governo. È probabile che figurazioni araldiche già comparissero sugli scudi che i cremonesi sottrassero ai milanesi sconfitti a Castelleone nel 1213, poi appesi nel palazzo comunale da poco ultimato?. Pur non sapendo con quanta costanza tali trofei erano esibiti nei palazzi civici, le testimonianze materiali indicano comunque che l’araldica divenne una presenza costante nelle sedi di governo già alla metà del Duecento, quando l’intero spazio urbano era ormai costellato dagli stemmi di potentati e di famiglie che si affacciavano dalle pareti delle loro residenze®. Nei palazzi pubblici l’araldica comparve in modo più sistematico con le prime pitture realizzate per decorare le lunghe pareti delle loro aule e facciate. Nei cicli più antichi, quelli di soggetto “cavalleresco” del Broletto di Novara e del Palazzo della Ragione di Mantova, l’araldica si direbbe però essenzialmente apocrifa, priva di intenti promozionali o politici evidenti. Gli stemmi compaiono, infatti, all’interno di ampie figurazioni realizzate anzitutto al fine di con3 Tale mancanza è in parte colmata da C.F WEBER, Zeichen der Ordnung und des Auf. rubrs. Heraldische Symbolik in Italienischen Stadtkommunen des Mittelalters, Bòhlau Verlag, Kôln-Weimar-Wien 2011, passirz.
4 Tali complessi sono stati già oggetto di studi specifici; ricordiamo, tra gli altri, Stewzzzi nel Museo nazionale del Bargello, a cura di F. Fumi CAMBI Gapo, SPES, Firenze 1993 e C. TIBALDESCHI, Gli stemmi dei vicari di Certaldo, Polistampa, Firenze 2009. Più in generale, sull’utilizzo dell’araldica ai fini della comunicazione politica v. F_FuMI CAMBI Gapo,
Stemmi ed emblemi nella decorazione degli edifici, in L'architettura civile in Toscana. Il Medioevo, a cura di A. RESTUCCI, Silvana, Cinisello Balsamo 1995, pp. 401-441 e WEBER,
Zeichen der Ordnung cit., passim. >? Chronica Pontificum et imperatorum mantuana, ed. G. WarTZ, in MGH,
Scriptores
XXIV, impensis Bibliopolii Hahniani, Hannoverae 1880, pp. 214-220: 218 e MAGISTER TOLOSANUS, Chronicon faventinum (AA. 20 a.C. 1236), ed. G. Rossini, CLVIII, Zanichelli,
Bologna 1936, p. 136. ° Come dimostra il grande stemma di aspetto arcaico visibile all’interno di un palazzo privato nel centro di Brescia; v. M. FERRARI, Les décors armoriés dans les palais privés de Lombardie: les princes et les familles notables, in Images de soi dans l'univers domestique
XIII-XVI° siècles, actes du colloque (Montpellier 2013), sous la dir. de P-O. Drrrmar, G. BARTHOLEYNS, in c.d.s.
STEMMI ESPOSTI. PRESENZE ARALDICHE NEI BROLETTI LOMBARDI
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ferire prestigio alle sedi istituzionali, traendo spunto da un repertorio tematico e iconografico da tempo in uso nell’ornamentazione dei palatia nobiliari, ma all’epoca ampiamente apprezzato anche dalla classe dirigente cittadina”. A Novara, un fregio con scene di duello e di scontri fra cavalieri e animali fantastici correva lungo l’intero perimetro esterno dell’edificio. Le scene erano concepite come episodi isolati, accostati su una base tipologica, e non come frammenti di un più ampio e organico racconto da leggersi in successione. Lo dimostra anche l’assenza di un banale espediente mnemotecnico quale la ripetizione delle insegne, che ci saremmo altrimenti attesi in una narrazione continua,
per collegare le scene e rendere riconoscibili i personaggi. Peraltro, l'esecuzione degli emblemi pare insicura e non sempre coerente. Solo eccezionalmente sono replicati sullo scudo e sull’elmo dei condottieri, che talvolta appaiono privi di segni distintivi, dal momento che il loro scudo, presentato al rovescio, mostra
solo la faccia interna. La mancanza d'interesse per la riconoscibilità e la visibilità del segno lascia pertanto supporre che agli stemmi non fosse riconosciuta alcuna funzione semantica, ma che si trattasse di figurazioni di fantasia, rispondenti all’uso convenzionale di attribuire un’arme a qualsivoglia personaggio (tanto più che qui si trattava di 772/tes duellanti). E, in effetti, le insegne sono composte da uno o due colori e costituite da figure geometriche semplici (un troncato, un ondato in sbarra, uno sbarrato, un controscaglionato), come tipico della fase arcaica dell’araldica, quando gli emblemi erano anzitutto concepiti per essere visti da lontano e dare perciò visibilità ai loro portatori*. Un simile repertorio, appena più variato, ritorna nel ciclo, sempre di soggetto cavalleresco, che correva nella parte alta delle pareti del salone del Palazzo della Ragione di Mantova (fig. 1). Realizzate sulla metà del Duecento, alla conclusione dei lavori edilizi e forse all’interno del cantiere diretto dal pittore parmense Grixopolo, le pitture sono conservate quasi esclusivamente sulle controfacciate dell’ampia aula’. In particolare, sul muro di fondo due gruppi di militi si direbbero impegnati nell’assalto di un castello, rappresentato al centro. La scena, poco più tardi coperta da due figurazioni di soggetto sacro di mano dello stesso Grixopolo, è stata interpretata come una rappresentazione di un episodio della prima crociata e, di conseguenza, collegata a un inesistente passato matildico del ? Sui due cicli v. FERRARI, La propaganda cit., pp. 31-65. 8 L’adiacente Palazzo dei paratici era ornato da un secondo fregio con scene guerresche, di cui si conserva un frammento con un cavaliere dotato di elmo e scudo fasciati d'argento e d’azzurro; cfr. FERRARI, La propaganda cit., p. 37. Sui dipinti novaresi v. anche G. Donato, Arte pubblica a Novara: dall'Arengo al Palazzo del Podestà, in Il Complesso Monumentale del Broletto di Novara e la nuova Galleria Giannoni, Celid, Torino 2011, pp. 39-61. ? Sul cantiere mantovano, v. M. FERRARI, Grixopolo al Palazzo della Ragione di Mantova,
in «Opera, Nomina, Historiae. Giornale di cultura artistica» , 2-3 (2010), pp. 43-90.
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Fig. 1 GrIxOPOLO (?), Assalto alla rocca, particolare. Mantova, Palazzo della Ragione, salone.
palazzo, sulla scorta anche di una superficiale lettura araldica: nel comunissimo stemma con la croce è stata individuata la prova della natura crociata dei militi, mentre l'insegna col giglio è stata ricondotta ai Lorena e, quindi, a Matilde e a Goffredo di Buglione (ma c’è chi vi ha pure visto un richiamo a Firenze)". È al contrario probabile che si tratti ancora di stemmi di fantasia, certo non funzionali a dichiarare l’orientamento politico del Comune!! — altrimenti piuttosto am!0 Cfr. A. CICINELLI et al., Matilde, Mantova e i Palazzi del Borgo. I ritrovati affreschi del
Palazzo della Ragione e del Palazzetto dell'Abate, Sintesi, Mantova 1995, pp. 98-99, 101, 128-135.
!! Come vorrebbe M. GARGIULO, Programmi politici dei palazzi comunali in Italia settentrionale, in Medioevo: la Chiesa e il Palazzo, atti del convegno (Parma 2005), a cura di A.C. QUINTAVALLE, Electa, Milano 2007, pp. 350-356: 350. Sospetti nei confronti di una da-
tazione alta del ciclo e della sua interpretazione in chiave crociata erano già stati formulati
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biguo, dividendosi tra un giglio guelfo e una blutfhane imperiale — né a rappresentare l’esercito cittadino impegnato in qualche gloriosa impresa, dato che non troviamo alcuna traccia dell’insegna crociata del Comune che pure, alla metà del Duecento, sarebbe dovuta comparire in una raffigurazione delle milizie locali”. Quasi si trattasse di cavalieri impegnati in un torneo, invece, tutti icombattenti si
presentano in una sorta di grande tenuta araldica, con l’insegna personale replicata sullo scudo, sull’elmo e talora persino sul vessillo; dove, come a Novara, la
faccia esterna dello scudo non è visibile, proprio l’elmo o il vessillo restituiscono lo stemma, sempre variato, del personaggio. Alla metà del Duecento, dunque, nella decorazione delle loro sedi le magistrature comunali non sembrano ancora intendere le figurazioni araldiche come un elemento portatore di significato, né sul piano descrittivo, né su quello ideologico. Gli stemmi erano piuttosto considerati come un elemento connaturato alla realtà che si voleva rappresentare. Solo pochi anni più tardi, però, lo scenario mutò sensibilmente. Nei cicli dipinti all’interno dei Broletti di Brescia e di Milano, gli stemmi furono infatti utilizzati nella loro originaria natura di elemento identificatore e divennero funzionali alla costruzione di una comunicazione ormai pienamente politica. Questo è evidente nel ciclo infamante commissionato attorno al 1280 dal
governo guelfo e di Popolo che reggeva Brescia (tav. 8). L'ampia figurazione, fortunosamente conservatasi per ampi tratti, fu concepita come una trascrizione
in figure di un registro di banditi in cui erano stati riportati inomi dei personaggi coinvolti, in momenti diversi, in azioni finalizzate all’appropriazione di beni e fonti di reddito appartenenti alla collettività!. Questa antologia di antagonisti del Comune si svolgeva sulla parte superiore delle pareti lunghe dell’aula. Dolenti e in catene, su registri sovrapposti, i personaggi si allontanano a cavallo
dalla città, rappresentata dal profilo di una porta urbica, rivelando così la loro da A. SAVORELLI, Piero della Francesca e l’ultima crociata. Araldica, storia e arte tra gotico e Rinascimento, Le Lettere, Firenze 1999, pp. 31-35.
2 L'ipotesi che fosse raffigurata la presa di Rivalta del 1114 era stata avanzata da A.
CALZONA, Grixopolus Parmensis al Palazzo della Ragione a Mantova e al Battistero di Parma, in A.C. QUINTAVALLE, Battistero di Parma. Il cielo e la terra, Università degli studi di
Parma-Centro di studi Medievali, Parma 1989, pp. 245-277: 264-266. Sull’origine vessilla-
re degli stemmi dei Comuni v. A. SAVORELLI, V. Favini, Segni di Toscana. Identità e territorio attraverso l'araldica dei comuni: storia e invenzione grafica (secoli XIII-XVII), Le Lettere,
Firenze 2006, p. 28; M. FERRARI, M. FoPPOLI, I/ bianco scaglione. Lo stemma del Comune di Ghedi nell’araldica civica lombarda delle origini, Città di Ghedi, Ghedi 2009, pp. 23-47; M. ForroLi, Stemmario bresciano. Gli stemmi dei Comuni della provincia di Brescia, Grafo,
Brescia 2011, pp. 9-12.
3 G. MILANI, Prima del Buongoverno: motivi politici e ideologia popolare nelle pitture
del Broletto di Brescia, in «Studi medievali», s. 3, 49 (2008), 1, pp. 19-85 e FERRARI, La
propaganda cit., pp. 94-128.
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condizione di banditi. La mutila iscrizione che corre nella parte sommitale della pittura informa che qui erano ritratti i «proditores» che avevano agito «contra patriam»; la borsa appesa alla catena, simbolo di avidità e più in generale dell’uso improprio della ricchezza, ne denunciava a sua volta le colpe, facendo leva su una simbologia di antica origine e all’epoca di facile comprensione“. Ogni cavaliere era individuato da un #tulus con il nome e dallo stemma dipinto sullo scudo portato a tracolla. Sebbene la mancanza di fonti così risalenti per l’araldica privata lombarda e l’estinzione di molte famiglie qui menzionate non consentano l’identificazione delle insegne, è certo che queste fossero reali e attendibili. Nelle pitture d’infamia la riconoscibilità dell’effigiato era infatti indispensabile perché la pena sortisse l’effetto desiderato di screditare pubblicamente la persona ritratta, privandola così dei diritti garantiti dalla cittadinanza. AI contrario, uno stemma di fantasia avrebbe generato confusione e indebolito l'efficacia della pena”. Nel caso bresciano, però, l’araldica non assicurava soltanto l’identificazione dei personaggi, sicuramente agevole per un pubblico che vantava una notevole dimestichezza con gli stemmi, ma forniva ai bresciani l'immediata percezione di quali casate erano state nel tempo coinvolte nelle lotte contro il Comune. Il confronto tra le iscrizioni e gli stemmi mostra infatti che i personaggi legati da vincoli parentali portavano anche la stessa insegna, evidentemente a quel tempo già trasmessa per via ereditaria. La reiterazione di alcuni stemmi avvisava cosi i cittadini della pericolosità di certe famiglie e legittimava le magistrature nell’adozione di misure preventive contro i lignaggi magnatizi ostili all’interesse della collettività!’ Negli anni Sessanta-Settanta del Duecento, anche i milanesi avevano decorato la parte alta del salone del Broletto Nuovo con un’altra fascia dipinta, corrente tra le finestre e le travi del tetto. Nella pittura, conservata per ampi tratti, è raffigurata una schiera di personaggi stanti e in armi, inseriti in gruppi variamente composti all’interno di riquadri contornati da semplici cornici nere (fig. 2). Le iscrizio-
!4 Sul tema della borsa v. G. MILANI, Avidité et trahison du bien commun. Une peinture infamante du XIII‘ siècle, in «Annales. HSS», 66 (2011), 3, pp. 705-739.
> Sulla pittura d’infamia d’obbligo è il rimando a G. ORTALLI, La peinture infamante du XIII au XVI° siècle. «...pingatur in Palatio...», Gérard Monfort, Paris 1994 (ed. or. Roma 1979), in particolare pp. 15-41. L'attendibilità delle insegne è peraltro confermata dall’unico stemma riconoscibile, appartenente ai ghibellini Federici; cfr. M. FERRARI, I «Ca-
valieri incatenati» del Broletto di Brescia. Un esempio duecentesco di araldica familiare, in «Archives héraldiques suisses» (2008), 2, pp. 181-212: 197-198. 5 Per esempio, alcuni personaggi appartenenti a due famiglie comitali originate dal ceppo degli Ugoni compaiono più volte associati a uno stemma — non altrimenti attestato — di nero (0 d'azzurro) ai tre bisanti d’oro (cinque volte) e da uno scaglionato d’argento e di rosso al capo-palo d’oro (due volte); cfr. FERRARI, I Cavalieri incatenati cit., pp. 201-204, 209-210 e MILANI, Prima del Buongoverno cit., pp. 38-40.
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Fig. 2 Schiere di armati con scudi ai colori di località del contado milanese. Milano, Palazzo del Broletto.
ni riportano ancora una volta i nomi degli armati, anticipati da un'indicazione geografica («de loco [...]»): una spia che rivela la derivazione della pittura da altre liste nominali, la cui natura è purtroppo ignota. In questi elenchi era infatti consuetudine che i nominativi fossero distinti sulla base delle ripartizioni amministrative o, nel caso di certe liste di banditi, del luogo di assegnazione al confino!”. I figuranti furono infine dotati di grandi scudi coperti da insegne che sembrano ribadire l'indicazione topografica espressa nell’iscrizione. Sulla parete meridionale si riconoscono gli stemmi di alcuni sestieri, perfettamente coincidenti con la descrizione fornita dalle fonti narrative contemporanee!8. Sopra 17 Sulle liste di banditi v. G. MILANI, L'esclusione dal Comune. Conflitti e bandi politicia Bologna e in altre città italiane tra XII e XIV secolo, Istituto storico italiano per il Medioevo, Roma 2003, pp. 169-186. 18 Cfr. BONVESIN DE LA Riva, Le meraviglie di Milano, a cura di P. CHiesa, Mondadori (Fondazione Lorenzo Valla), Milano 2009, p. 126, nota 22; la corrispondenza è stata rilevata da M.L. GavazzoLi TOMEA, Le pitture duecentesche ritrovate nel Broletto di Milano,
documenti di un nuovo volgare pittorico nell'Italia Padana, in «Arte medioevale», s. 2, 4 (1990), 1, pp. 55-69: 60.
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l’ingresso, altri armati portano stemmi parlanti probabilmente allusivi ai villaggi di Galliano e Corneno, centri molto piccoli e all’epoca sprovvisti di insegne, per i quali furono adottati gli stemmi dei feudatari della zona”. Il frammentario stato della pittura, la mancanza di iscrizioni “didascaliche” e la carente documentazione d’archivio ostacolano l’interpretazione del dipinto,
dai più letto come una celebrazione delle milizie cittadine o di alcune magistrature o, ancora, come una proiezione ideale del Comune rappresentato nella concordia e nell’ordine determinato dalla sua struttura topografica?°. In effetti, l’esercito comunale e molte magistrature erano formate sulla base di una cooptazione ripartita fra i centri amministrativi, ma mai nei modi e nei numeri
rivelati dalla nostra figurazione. La presenza di un personaggio in atteggiamento dolente ha fatto poi sorgere il sospetto, probabilmente fondato, che si possa trattare di una seconda figurazione infamante, forse legata alla pratica dei milanesi - documentata però alla metà del XII secolo — di annotare i nomi dei disertori al fine di perpetuarne l’ignominia?!. Qualunque fosse il significato del dipinto milanese, è per noi significativo che, a questa altezza cronologica, gli elementi araldici fossero impiegati nelle pitture di carattere documentario come un corrispettivo figurato delle iscrizioni, per dare evidenza alle informazioni necessarie all’interpretazione dell'immagine e al suo pieno funzionamento. L'efficacia di questi dispositivi è del resto dimostrata dalla loro longevità: gli stemmi dei traditori corredavano la pittura eseguita nel 1344 a Firenze sulla torre del Bargello per Gualtieri di Brienne e i suoi più diretti sostenitori’?, mentre a Venezia nel 1373 il comandante disertore Ludovico da
Santo Agottano fu dipinto «con un piè in suso» armato anche del suo cimiero?. Sul finire del Duecento, tuttavia, l’araldica nei Comuni settentrionali aveva
ormai assunto una valenza polisemica, elevata a strumento autonomo della comunicazione politica. Dall’ultimo quarto del secolo si moltiplicano le notizie di stemmi dipinti o scolpiti sugli edifici pubblici: insegne di enti impersonali (Comune, Popolo, potentati vari), ma anche private di funzionari. Ne abbiamo con-
1 Cfr. FERRARI, La propaganda cit., pp. 136-137. 2° Così D. BLUME, Zur Entstehung und Entwicklung einer politischen Bildersprache in den italienischen Kommunen, in Repräsentationen der mittelalterlichen Stadt, hrsg. von J. OBERSTE, Schnell & Steiner, Regensburg 2008, pp. 109-127: 110-113. 2! Cfr. FERRARI, La propaganda cit., p. 143 con bibliografia precedente. 2 V. da ultimo ID., «Avaro, traditore». Pittura d'infamia e tradizione figurativa del tradimento politico tra Lombardia e Toscana (1250-1350), in Images and Words in Exile. Avignon and Italy in the First Halfof the 14th Century, atti del convegno internazionale (FirenzeSS 2011), a cura di E. Brut, L. FENELLI, G. WoLF, Sismel-Edizioni del Galluzzo, in c.d.s. ? G. GATARI, B. GATARI, Cronaca carrarese, a cura di A. MEDIN, G. TOLOMEI, in RIS, XVII-1, Zanichelli, Bologna-Città di Castello 1911-1920, p. 119.
STEMMI ESPOSTI. PRESENZE ARALDICHE NEI BROLETTI LOMBARDI
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ferma, in negativo, dalla disposizione inserita nel 1290 negli statuti di Brescia che imponeva la rimozione o la cancellazione di tutte le insegne di rettori o di altre persone che si trovavano sul palazzo comunale, sulla torre civica, sulle porte cittadine; come sarà più tardi in altri Comuni di Popolo schierati sul fronte guelfo — Firenze e Gubbio tra i tanti — erano tollerati solo gli stemmi del Comune, del Popolo e degli Angiò”. Tra gli stemmi cancellati nell’occasione era forse quello recentemente rinvenuto nel portico occidentale, un troncato d’argento e d'azzurro al leone dell'uno nell'altro, il cui aspetto arcaico converrebbe a una datazione entro la fine del Duecento. La precoce ricorrenza di insegne di podestà e capitani del Popolo nelle sedi delle magistrature cittadine è poi confermata da documenti di area emiliana. Nel 1288, a Bologna, il pittore Paolo Avvocati fu pagato per aver dipinto due scudi «ad arma domini Capitanei» nel-Palazzo Nuovo, mentre nel 1300 si liquidò a Bartolomeo di Gerardino la dipintura di ben quattro scudi con lo stemma del podestà all’interno del Palazzo Vecchio”. Tali presenze, comunque non sistematiche, sono talora connesse all’avvio o al completamento di opere pubbliche (edifici, acquedotti, ponti, fontane...) da parte dell’amministrazione comunale. Come nel caso del Palazzo Nuovo di Parma che, concluso nel 1281-1282, fu subito marchiato con le insegne della società di Popolo, che qui aveva la sua sede, e con quelle del podestà (il bresciano Anselmo da Rodengo) e del capitano (il fiorentino Forese degli Adimari). O in quello del Palazzo del Consiglio di Padova, la cui ricostruzione fu salutata dall’apposizione di due epigrafi recanti l’una lo stemma del Comune, l’altra quella del podestà Fantone de’ Rossi’. E sempre associato allo stemma comunale era quello del podestà di Treviso, riprodotto sulla banderuola issata sull’alto della torre civica”.
24 ASBs, ASC 1044/4, Statuta communis civitatis Brixie, c. 134v.
3 V. rispettivamente F. Fiupini, G. ZUCCHINI, Miriatori e pittori aBologna. Documenti dei secoli XIII e XIV, Sansoni, Firenze 1947, pp. 258, 19.
2 Per Parma MCCCXXXVIII,
cfr. Chronicon
Parmense
ab anno
MXXXVIII
usque
ad annum
a cura di G. Bonazzi, in RIS, IX-9, Zanichelli, Città di Castello 1902,
p.39 e Annales parmenses maiores in Annales et notae parmenses et ferrarienses, ed. P. Jarré, in MGH, Scriptores, XVIII, Hannoverae 1863, pp. 664-790: 690; lo stemma di Fantone de’ Rossi sulla Tomba di Antenore è invece una copia del XVI secolo. Non ho potuto verificare la notizia, riferita dagli statuti bergamaschi del 1331, di una fontana pubblica ornata di «lapis talliatus in quo lapide talliato sunt insigna domini Filipi Tomati», identificato con Filippo d’Aste, podestà a Bergamo nel 1256, da G. Secco SuARDO, Il Palazzo della Ragione in Bergamo ed edifici ad esso adiacenti l'antica demolita basilica di Sant'Alessandro in Bergamo, Istituto italiano d’Arti grafiche, Bergamo 1901, p. 61. 2 «[...] reformatum fuit etc. quod per Commune Tarvisii de avere eiusdem Communis fieri debeat unum vexillum de ramo, in quo pingatur armatura Communis, et domini Potestatis presentis, quod reponatur super turrim Communis super una alta ferrea continue permansurum [...]»: G.B. VERCI Storia della Marca trivigiana, VII, Giacomo Storti, Venezia 1787, DCOCXXIII, 15 dicembre 1315, p. 90.
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Se gli stemmi del Comune, del Popolo o, altrove, di altre magistrature o
delle Arti indicavano chiaramente la proprietà dell'immobile, gli emblemi dei funzionari rispondevano alla pratica, già riscontrata nei Comuni delle origini, di rappresentare l'istituzione attraverso i suoi magistrati. Il nome e lo stemma del funzionario conferivano un marchio d’ufficialità alle opere pubbliche realizzate e rivendicavano all’autorità pubblica i meriti dell'operazione. Le insegne dei rettori, però, come quelle apposte sulle coperte dei registri, potevano forse
avere anche una funzione pratica: indicatori cronologici, sostituti figurati della ricorrente locuzione «in tempore domini potestatis/capitanei», utili anche alla rendicontazione amministrativa cui gli alti ufficiali erano sottoposti alla fine del loro mandato”. Ad ogni modo, negli anni a cavallo tra Due-Trecento, gli spazi pubblici dovevano essere ancora dominati in primo luogo dalle insegne di autorità politiche, locali o alleate. Richiami araldici all’autorità civica sono visibili a Cremona
e a Brescia. Nella prima, il portico del Palazzo di Cittanova, sede della Mercanzia, fu interamente dipinto a fasce alternate rosse e bianche, in modo da riprendere gli smalti dello stemma cittadino, nel modo che, sul finire del Trecento,
troviamo documentato anche per il Palazzo dei Notai di Bologna??. A Brescia, la lapide che commemorava la costruzione nel 1325 di una fontana pubblica fu corredata dagli scudi del Comune e del Popolo sottoposti al lambello degli Angiò, sovrani z# pectore della città guelfa, in perfetta rispondenza alla già ricordata normativa statutaria’. Del resto, sebbene non rimangano testimonianze in tale senso, non dubitiamo che anche i Comuni lombardi fossero soliti esibire la propria appartenenza al fronte imperiale o a quello guelfo, attraverso la dipintura delle insegne dell’imperatore o di quelle angioine: l'esposizione degli stemmi dei sovrani consentiva di rinsaldare la propria rete d’alleanze o di manifestare una sudditanza da cui si sperava di trarre giovamento. Numerose sono in tal senso le testimonianze
provenienti dai Comuni limitrofi, dove dipinture e cancellazioni si susseguivano, registrando a caldo ogni mutamento politico”. Le insegne gigliate della casa di Francia furono dipinte sul finire del Duecento nel Palazzo comunale di 28 Sull’araldica nei registri comunali v. il saggio di Ruth Wolff nel presente volume. 2° Il 13 novembre 1384 fu pagato il pittore «qui fecit voltas et pilastros novos versus plateam rubeos per totum et mesulas albas»: FILIPPINI, ZUCCHINI, Miniatori e pittori cit., p. 101. ?° Per l’individuazione degli stemmi cfr. FOPPOLI, Stemmario bresciano cit., pp. 35-36. Anche gli stemmi abrasi sull’esterno del Palazzo del Popolo — l’ala occidentale del complesso del Broletto, eretta attorno al 1280 — portavano forse le armi del Popolo e del Comune. ? Incerta è la natura del «vexillum imperatoris» (altrove definito «signum aquile») che i milanesi posero sul campanile della cattedrale dopo aver siglato la pace col Barbarossa nel 1158 «in signum fidelitatis»: O. MORENA, De rebus Laudensibus, ed. P. JAFFÈ, in MGH, XVIII, Impensis Bibliopolii Aulici Hahniani, Hannoverae 1863, p. 608.
STEMMI ESPOSTI. PRESENZE ARALDICHE NEI BROLETTI LOMBARDI
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Piacenza e vi rimasero fino al 1314, quando i ghibellini locali le rimpiazzarono con quelle di Matteo Visconti?. In un frangente di crescente conflittualità con Verona, i padovani approfittarono della discesa in Italia di Arrigo VII nel 1311 per riempire il palazzo civico di aquile, nella speranza di ingraziarsi un forte alleato conto l’espansionismo scaligero; non appena fu chiaro però che l’imperatore assecondava la politica dello scomodo vicino, le insegne imperiali furono prontamente eliminate e rimpiazzate dal crociato del Comune}, E ancora, liberatisi dal giogo visconteo e rientrati sotto l’autorità dei legati pontifici, nel 1360 i bolognesi cancellarono il «bison» di Giovanni e le «aguille» imperiali sparse sui palazzi pubblici e per la città, sostituendole con le insegne guelfe e della Chiesa, eliminate dieci anni prima dai Visconti; inoltre, per sancire il cambiamento di parte, restaurarono la malconcia statua di Bonifacio VIII sul Palazzo della
Biada, monumento simbolo del riconoscimento dell'autorità papale sulla città felsinea, che fu così «depicta cum armis ecclesie»”. Se le fonti scritte testimoniano dunque la proliferazione di figurazioni araldiche di enti impersonali negli edifici pubblici dei Comuni padani nel primo quarto del Trecento, i resti materiali evidenziano un graduale dissolvimento della diffidenza nei confronti dell’esibizione delle armi personali. Per i magistrati, prima, e per i signori, poi, l'esposizione degli stemmi familiari nelle sedi del potere offrì allora un’opportunità di promozione e l'occasione per rappresentare relazioni politiche e rapporti istituzionali. In area lombarda, i Visconti furono maestri nell’utilizzo martellante dell’araldica familiare, disseminando la terribile biscia in tutte le città sottomesse.
L’araldica dei nuovi signori investì soprattutto i luoghi simbolo del Comune, a partire dai palazzi in cui si riunivano i consigli e le magistrature comunali: lo stemma garantiva simbolicamente la presenza del dominus, ne affermava l’auto32 Chronica tria Placentina a Johanne Codagnello ab anonimo et a Guerino conscripta, ed. B. PALLASTRELLI, ex officina Petri Fiaccadorii, Parmae 1859, p. 385. 5 In breve, C.F WEBER, Formation of Identity and Appearance of North Italian Signoral Families in the Fourteenth Century, in The Medieval Household in Christian Europe, c. 850c. 1550: Managing Power, Wealth, and the Body, ed. by C. BEATTIE, A. MASLAKOVIC, S. REES JoNEs, Brepols, Turnhout 2003, pp. 53-77: 65-66. 3 Rispettivamente, F. GRAMELLINI, Le «Antichità di Bologna» di Bartolomeo della Pugliola, PhD, Università di Bologna, XX ciclo, a.a. 2008, rel. A. Fassò, p.38 e Annales mediolanenses ab anno MCCXXX usque ad annum MCCCCII, ed. L.A. MURATORI, in RIS, XVI, Mediolani 1730, coll. 642-839: 721-722, CXVI. 5 H. pe BURSELLIS, Cronica gestorum ac factorum memorabilium civitatis Bononie, a cura di A. SORBELLI, in RIS, XXIII, Zanichelli, Bologna-Città di Castello 1912-1929, p. 49,
ma anche GRAMELLINI, Le Antichità di Bologna cit., p. 43. Sulla scultura bolognese v. R. Pint, La statua di Bonifacio VIII, Manno da Siena e gli orefici a Bologna, in Le culture di
Bonifacio VIII, atti del convegno (Bologna 2004), Istituto storico italiano per il Medioevo,
Roma 2006, pp. 231-240, che non ricorda però il rinnovamento araldico.
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MATTEO FERRARI
rità sovrana e conferiva di conseguenza legittimità all’operato dei funzionari che operavano sotto le sue insegne. A Bergamo, uno stemma visconteo di grandi dimensioni è riaffiorato nella cosiddetta Sala dei Giuristi, posta all’ultimo piano del palazzetto eretto in addosso alla torre civica, a pochi passi dal palazzo comunale (tav. 9). L’emblema fu dipinto sulla muratura della torre, ma non è dato sapere se all’epoca della realizzazione questo fosse visibile dalla piazza, centro della vita politica della civitas, 0 si trovasse (ma è meno probabile) già all’interno dell’hospicio magno del Comune, dove dimoravano i rettori della città e si prendevano le decisioni. L'edificio, documentato già nel secondo Duecento, alla metà del XIV secolo fu infatti oggetto di un ampliamento, che purtroppo non è al momento quantificabile. Lo stemma presenta tre aquile nel capo — un espediente che esaltava l’appartenenza ghibellina della famiglia — ed è sormontato da un'iscrizione mutila”; perduta è anche la lettera sulla destra dello scudo che ci avrebbe consentito di identificare il Visconti qui rappresentato (resta solo, sull’altro lato, la D onciale per Dominus). L'iscrizione sembra però ricordare che il proprietario dello stemma, con buona probabilità da identificare con Bernabò Visconti, aveva patro-
cinato la ricostruzione di un tratto delle mura cittadine, verosimilmente quello che correva nei pressi del convento dei Francescani, sorto a fine Duecento sul colle di Sant'Eufemia. Sulla stessa altura, entro il 1336 Azzone Visconti aveva
portato a compimento la costruzione della fortificazione della Rocca, iniziata durante il brevissimo regno di Giovanni di Boemia (1331), e il conseguente riallestimento del tratto di mura che cingeva questo settore della città?8. All’indomani della conquista della città (1332), sotto il governo di Azzone o quello dei suoi immediati successori, la roccaforte e l’insegna svettante sulla torre civica partecipavano dunque a un medesimo progetto di imposizione simbolica della signoria milanese.
3 Cfr. G. PETRÔ, Dalla Piazza di San Vincenzo alla Piazza Nuova. I luoghi delle istituzioni tra l'età comunale e l’inizio della dominazione veneziana attraverso le carte dell'archivio notarile di Bergamo, Sestante edizioni, Bergamo 2008, pp. 45-61; P. ANGELINI, La Sala dei Giuristi, in F. Rossi et al., Accademia Carrara, V. Gli affreschi aPalazzo della Ragione, Mazzotta, Milano 1995, pp. 14-15 sostiene che il salone fu realizzato nel 1502. 37 [- - -Jes GHA[- - -]vicec[+ OMES +] / [--]Es POTESTA(s) [BER]GAMI FECIT FIERI HOC P[- - -JRE[N?JEGEL- - -] / [+ AQ +]UA(M) ET MURUM [C]IVITATIS [-4?-] FRATRES MINORES ET APUD co[+- -1/[-4?-]E DE [-]ACROTA. # G.M. LABAA, Bergamo, in Castra bergomensia. Castelli e architetture fortificate di Ber-
gamo e provincia, a cura di G. CoLmuto ZANELLA, F. CONTI, Provincia di Bergamo, Bergamo 2004, pp. 75-133: 92-93. Nei pressi del convento francescano sorgevano le case della potente famiglia Della Crotta (E. CALLIEROTTI, L'Ordine francescano in Bergamo [secc. XIII-
XIV], in Il Francescanesimo il Lombardia. Storia e arte, Silvana Editoriale, Cinisello Balsa-
mo 1983, pp. 93-100: 94), il cui nome è evocato nell'ultimo rigo dell’iscrizione.
STEMMI ESPOSTI. PRESENZE ARALDICHE NEI BROLETTI LOMBARDI
103
Del resto, fin dai primi anni della dominazione, lo stemma Visconti compariva spesso in associazione a
quello dei rappresentanti da loro inviati nelle città soggette, in composizioni ternarie che, in forma sintetica,
rappresentavano i legami istituzionali e di sudditanza tra il signore, i suoi emissari e la città sottoposta. Lo
stemma della famiglia dominante era sempre al centro, mentre ai suoi lati
e più in basso erano gli altri due, secondo uno schema piuttosto comune, che nella regione era impiegato almeno dagli anni della dominazione angioina. Lo lascia intendere lo scudo seminato di gigli, ancora visibile nel sottotetto dell’ala orientale del Palaz-
Fig.3 Stemma angioino. Cremona, Palazzo
zo comunale di Cremona,
comunale, sottotetto dell’ala orientale.
senz'altro
riconducibile agli Angiò per via del lambello (fig. 3). Lo stemma, forse risalente alla signoria di Roberto (1313-1316 o 1320-1322), era accostato a un fasciato rosso e argento del Comune, ormai quasi totalmente svanito, e a un terzo scudo, ora illeggibile, che poteva contenere l’insegna del podestà o del vicario regio”. La triade araldica è invece perfettamente riconoscibile nella cosiddetta polifora degli stemmi del Broletto di Brescia, fatta dipingere da Ramengo Casati durante la podesteria del 1343 o, più probabilmente, del 1355, anno in cui furono riformati gli statuti*. La stessa composizione era replicata anche nel salone del Palatium novum maius, tra gli archetti che sostengono un apparecchio murario posto nell’angolo nord-orientale dell'antica aula: un atto dall'alta valenza simbolica, dal momento che l’edificio ospitava i consigli cittadini, i tribunali e una copia degli statuti*!. La composizione suonava come un omaggio del funziona-
Gli stemmi, dipinti sulla parte est del sottotetto cremonese (compresi quelli richiamati più sotto) sono stati segnalati — ma non identificati - da G. VOLTINI, Le fasi della costruzione del palazzo e l'impianto medievale originario, in Il Palazzo Comunale di Cremona.
L'edificio, la storia delle istituzioni, le collezioni, a cura di A. FOGLIA, Banca Cremonese, Cremona 2006, pp. 59-119. 40 Il nome del Casati si ritrova in ASBs, ASC 1046, Statuta, cc. 133r-134r. 4! Cfr. M. FERRARI, Imagini araldiche di età viscontea. Alcune riflessioni su due stem-
mi inediti nel Broletto di Brescia, in «Annali queriniani», 7 (2006), pp. 99-114. I restauri
104
MATTEO FERRARI
rio ai signori milanesi e un riconoscimento del loro dominio sulla città, ma
rappresentava anche la natura potere che gli era stato delegato: circostanze particolari che certo consentivano
una deroga alla disposizione statutaria che, proprio nel 1355, aveva rinnova-
to l’eliminazione di qualsiasi arme dai palazzi cittadini, con la naturale eccezione di quella del signore Bernabò”. Tuttavia, non
possiamo
neppure
escludere che certe famiglie avessero maturato una strategia di promozione Fig. 4 Charta lapidaria e stemma Beccaria. Novara, Broletto, salone.
visiva attraverso l'esibizione delle loro insegne, in virtù della loro preminenza sociale o della prossimità alla corte milanese, verso cui in tal modo esibi-
vano peraltro la loro fedeltà. In questa direzione portano altre pitture conservate nel sottotetto del Palazzo comunale di Cremona. Lungo la parete orientale, quella rivolta verso la platea e la cattedrale, si trovano, infatti, resti di altri
stemmi viscontei di grandi dimensioni, ormai quasi del tutto svaniti. Uno di questi apparteneva a Luchino Visconti (+ 1349), come indica la L alla destra della biscia; più in basso, sulla sinistra, si nota una seconda insegna, nella quale
ci sembra di riconoscere i festoni di paglia intrecciata rossi e la sommità della casatorre distintivi dei Casati, forse appartenente a Guido o allo stesso Ramengo, podestà rispettivamente nel 1344-1345 e nel 1347-1348#. L’araldica fu impiegata quale mezzo di auto-rappresentazione anche dai Beccaria, famiglia in vista del primo Trecento lombardo e a lungo detentrice della
condotti nella primavera 2013 hanno restituito piena leggibilità dello stemma Casati e di quello del Comune di Brescia, rappresentati ai due lati della biscia viscontea. 4 ASBs, ASC 1046, Statuta, cc. 77v-78r. 4 Cfr. F. Arisio, Praetorum Cremonae series chronologica, Ricchini, Cremonae 1731,
pp. 18-19 e, per la prima podesteria di Ramengo, V. LEONI, Istituzioni del Comune di Cremona e definizione degli spazi pubblici tra Medioevo ed Età Moderna, in Il Palazzo Comunale di Cremona cit., pp. 131-169: 162, nota 110. Sulla famiglia e i personaggi qui menzionati v. G. SoLpI RONDININI, Casati, in DBI, XXI, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1978,
pp. 198-207: 201-203. Più avanti, un’altra biscia è seguita da uno stemma più piccolo d’argento al bue passante di nero, prossimo a quello dei De Buris nello Stemmario trivulziano, a cura di C. MaspoLI, Orsini de Marzo, Milano 2004, p. 58/h; Ottorino Burri fu podestà a Cremona nel 1343 e nel 1348, mentre Francesco lo fu nel 1354; cfr. ARISIO, Praetorum cit., pp. 18-19.
STEMMI ESPOSTI. PRESENZE ARALDICHE NEI BROLETTI LOMBARDI
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signoria su Pavia. Sulla parete di testa dell’aula del Broletto di Novara, una lunga iscrizione in maiuscola gotica è accostata al loro scudo vaiato d'oro e di rosso, qui sormontato da un capo d’impero (fig. 4). Diversi esponenti della casata pavese furono eletti alla podesteria della città piemontese, ma è probabile che lo stemma appartenga a quel Castellino, che ne fu podestà nel 1323-1324. Per quanto frammentaria, l’iscrizione sembra fare riferimento al [... C]o(MUN)E GAL[ATI], un borgo con il quale i novaresi avevano un contenzioso aperto, favo-
revolmente risolto proprio dall’arbitrato del Beccaria. L'iscrizione, che ha tutti i caratteri di una charta lapidaria, riportava forse il testo della storica sentenza, evidentemente avvertita come di grande importanza per il Comune, mentre lo stemma del funzionario rammentava l’autorità validante l'accordo e ne imponeva la presenza nell’aula destinata ai consigli comunali". Ancora più eclatante, perché non giustificata da particolari avvenimenti, è la figurazione di un secondo stemma Beccaria sulla parete di testa dell’aula del Broletto di Como, dove si trovavano probabilmente i seggi dei magistrati. Lo scudo sovrasta un'iscrizione latina in versi leonini, destinata a sollecitare i funzionari
comunali a un comportamento retto e rispettoso dell’interesse della collettività; le ultime righe dell’epigrafe rivelano la paternità dell’iniziativa e della soprastante insegna, facendo il nome di Beccario Beccaria, «legum doctor» e uomo politico di spicco, e riconducendo l’impresa alla sua podesteria del 1324-1325#. In questi anni la prassi dei rettori di apporre i propri stemmi nei palazzi civici si fece comunque più abituale. Nel Broletto comasco lo stemma del Beccaria era accostato da ur inquartato d’argento e d’oro, al crivello (?) cerchiato di rosso attraversante in cuore; l’anomalo accostamento dei due metalli lascia pensare a una corruzione o, piuttosto, a un mancato completamento dello stemma dei milanesi Crivelli, ben riconoscibile invece nel fregio che correva sulla parete opposta, alternato alle aquile imperiali‘. Non sappiamo se gli stemmi dei Beccaria
4 Anche i ricordati stemmi dipinti a Bologna nel 1288 sembrano da mettere in relazione con un'epigrafe, recante il testo dei privilegi acquisiti dal Comune sul ponte di Casalecchio, che lo stesso Paolo aveva provveduto a rubricare; cfr. supra.
4 FERRARI, La propaganda cit., p. 253 e C. TRAVI, La decorazione pittorica del Broletto di Como in età medioevale, in «Rivista archeologica dell'antica provincia e diocesi di Como»,
189 (2007), pp. 117-133: 121-122. Non è dato sapere se l’insegna della famiglia comparisse
nelle altre opere volute dal Beccaria nelle città in cui fu podestà, come la decorazione delle
sale del Palazzo del podestà di Milano e della campana destinata allo stesso Broletto mi-
lanese (1325-1326), sulle quali v. N. CRINITI, Beccaria (de Beccariis), Beccario, in DBI, VII,
Istituto dell’EnciclopediaTtaliana, Roma 1965, pp. 450-454. 4 Diversamente Travi, La decorazione pittorica cit., p. 121 sospetta che si tratti di una falsificazione ottocentesca. Un Bertola de Crivellis fu podestà di Como nel 1348; cfr. C. SANTORO, Gli offici del Comune di Milano e del dominio visconteo-sforzesco (1216-1515), Antonino Giuffrè, Milano 1968, p. 292.
106
MATTEO FERRARI
e dei Crivelli appartenessero a un più lungo insieme di insegne di funzionari. E chiaro però che queste furono presto cancellate sotto un nuovo intonaco, steso per raffigurare l’aquila imperiale e una seconda insegna che, nel profilo del nero omuncolo, si lascia riconoscere come viscontea e, dunque, da collocare dopo la
conquista di Como da parte di Azzone (1335). Una vera e propria parata di insegne di funzionari fu invece dipinta in avanzato Trecento nel Palazzo comunale di Cremona, sotto il portico al piano terreno. Sempre all’epoca di Luchino dovrebbe risalire lo stemma Visconti dipinto sul lato verso la piazza, accostato a uno scudo d’oro all'aquila di rosso (il colore è in più punti virato sul nero), nel cui capo dovevano comparire tre aquilette imperiali, secondo la soluzione impiegata a Bergamo dagli stessi Visconti per manifestare la loro partitanza politica. Lungo la galleria rivolta verso il cortile centrale del palazzo, in date più avanzate, le serie araldiche si facevano più lunghe e complesse. Nel portico sul lato orientale, come abbiamo già visto a Brescia e nel sottotetto dello stesso palazzo cremonese, le dimensioni e la posizione degli stemmi visualizzavano l’autorità giurisdizionale dei Visconti sulla città e il ruolo dei funzionari come loro legittimi rappresentanti: lo stemma visconteo, contornato da una bordura rossa, è accompagnato, sulla sinistra da quello Trivulzio (palato d’oro e di verde) e, crediamo, da un’insegna perduta; sulla destra dall’insegna dei Carcano (di rosso all’oca al naturale sormontata da un'ascia in capo) e dal fasciato del Comune di Cremona”. Altre tracce araldiche di funzionari viscontei, sicuramente quattrocentesche, si trovano poi lungo l’ala settentrionale del portico, le cui volte sono, come noto, coperte da una decorazione
emblematica realizzata durante la reggenza di Bona di Savoia (1476-1480). Nello stesso edificio, le serie araldiche “continuavano” poi all’interno, lungo una parete dell’attuale Sala dei Decurioni e nella Sala degli Alabardieri*?. # Poiché gli stemmi sembrano ascrivibili a Ambrogio Trivulzio, che fu podestà nel 1350, e a Francesco Carcano, che lo fu nel 1340-1341(Arisio, Praetorum cit., pp. 18-19), sospettiamo che la serie araldica, unitaria dal punto di vista compositivo e formale, sia stata composta o ridipinta in un secondo momento. 4 Cfr. M. Tanzi, A. Mosconi, Il Palazzo Comunale di Cremona e le sua collezioni d'arte, Electa, Milano 1981, p. 26.
‘Anche in questo caso gli stemmi, quasi tutti ormai illeggibili, furono eseguiti in un unico momento, tra la fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento, intercalando insegne di magistrati a emblemi cittadini; disposti a cadenza regolare e dipinti su uno strato
di scialbo, gli stemmi si corrispondono per dimensioni e forma, con la punta arrotondata e i bordi profilati di nero e di rosso. Da sinistra verso destra, dopo uno scudo non più leggibile, troviamo uno scaccato d’oro e di rosso (Adorni?); uno stemma d’argento al leone d'azzurro unghiato, un bandato d’argento e d'azzurro al capo d'Angiò (identico allo stemma Fissiraga visibile nell’adiacente Sala degli Alabardieri), un fasciato d’argento e di rosso (Cremona) e quindi altri tre stemmi molto rovinati (si riconosce il campo d’argento del primo e la bordura d'oro e di verde del secondo).
STEMMI ESPOSTI. PRESENZE ARALDICHE NEI BROLETTI LOMBARDI
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E anche il Broletto di Brescia mostra qualche traccia di un antico mosaico di stemmi, concentrato in apparenza nel portico occidentale del complesso: sovrapposto al già visto stemma col leone si trova infatti un grande scudo, di cui si conserva solo il fondo verde, mentre sull’arco del portale è un grembiato di otto pezze di rosso e d’argento, forse appartenente a una famiglia milanese del giro visconteo (Aliprandi, Bonici o Scarselli)?9, Essenziali e versatili, anche nelle città dell’Italia settentrionale le figurazioni araldiche si prestarono dunque, già nel Due-Trecento, a una campagna d’immagine funzionale alla trasmissione di messaggi di natura diversa, tra comunicazione politica e affermazione personale o familiare. Del resto, gli stemmi erano parte di un linguaggio di sicura accessibilità perché a tutti noto. Anche nelle città lombarde i privati cittadini conoscevano l’efficacia della comunicazione araldica e se ne servivano a loro volta, in modo avventizio, per esprimere le proprie “posizioni politiche”. Nella primavera del 1310, durante la campagna di Arrigo VII in Italia, Valerano, fratello dell’imperatore raggiunse Lodi scoprendo nella locanda di tale Giacomo Dardanone un’aquila dipinta tempo prima «imperiali reverentia». All’insaputa del proprietario qualcuno aveva però offeso l’insegna tracciando a carboncino un laccio attorno al collo del pennuto e sospendendolo a una forca. Il disegno fu interpretato come una prova della perfidia guelfa dell’ignaro Dardanone, che per questo finì ingiustamente in carcere cavandosela solo dietro il pagamento di una forte ammenda?!. Atti di questo tipo non erano certo isolati — si rammenterà la burla di Buffalmacco a Guido Tarlati nel racconto di Vasari — e ci aiutano a ricomporre la reale dimensione di un ambiente debordante d’insegne, sovente caricate di significati che andavano ben oltre l’antica funzione di elementi di identificazione, comun-
que destinati a incidere profondamente il paesaggio visivo urbano e delle sedi del potere.
50 Vedi ancora FERRARI, Imagini araldiche cit., pp. 106-107; il primo stemma fu peraltro sovradipinto a un precedente, ora illeggibile.
51 L'episodio è narrato in B. MORIGIA, Cronicon Modoetiense, ed. L.A. MURATORI, in RIS, XII, Mediolani 1728, col. 1101 e Historia Iobannis de Cermenate, a cura di L.A. FeR-
RAI, Tipografi del Senato, Roma 1889, pp. 71-72, che attribuisce la “modifica” a un servo al seguito degli ambasciatori della guelfa Cremona, che vi aveva soggiornato poco prima.
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LA CAMPANA DEL PALAZZO DEL POPOLO DI ORVIETO (1316) Giampaolo Ermini
Nel detto anno MCCCVIII [...] i grandi di Samminiato del Tedesco, come sono Malpigli e Mangiadori, per soperchi ricevuti dal popolo [...], overo perché ’1 popolo gli tenea corti, per modo che non poteano signoreggiare la terra a-lloro senno, sì s'accordaro insieme [...] e con armata mano combattero col popolo e sconfissongli [...] e tutti i loro ordini arsono, e la campana del popolo feciono sotterrare, e tennero poi il popolo in grande servaggio infino che le dette due case non ebbono discordia tra-lloro!.
Questo frammento dalla Nuova cronica di Giovanni Villani è un efficace esem-
pio dello scontro tra magnati e popolani nell’Italia centrosettentrionale tra Duecento e Trecento. A San Miniato la vittoria dei nobili coronò con la cassazione di due strumenti fondamentali per l'esercizio del potere, investiti anche di valore simbolico assoluto: il corpus normativo e la campana. Specialmente efficace risulta allora il brano in apertura di questo studio, perché evoca bene la necessità e l’alto significato identitario delle campane nella società e nella vita politica tardo medievali: seppellendone la campana, i «grandi» sanminiatesi inscenavano la morte emblematica della parte avversa, di cui sopprimevano - letteralmente — la voce. Le campane e il loro ruolo nelle dinamiche politiche dell’epoca sono appunto il tema del caso orvietano che qui si discute?.
! G. VILLANI, Nuova cronica, ed. critica a cura di G. PORTA, II, Guanda, Parma 1991,
p. 192. Il brano è ricordato anche in S. RAVEGGI, Appunti sulle forme di propaganda nel conflitto tra magnati e popolani, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, atti del convegno (Trieste 1993), a cura di P. CAMMAROSANO, École française de Rome, Roma 1994, pp. 469-489: 484.
2 Su funzioni e significati delle campane nella vita civile, militare e politica: R. BoRDONE, I/ “paesaggio sonoro” delle città italiane, in Ib., Memoria del tempo e comportamento cittadino nel medioevo italiano, Scriptorium, Torino 1997, pp. 113-133; P. PIRILLO, Campa-
ne. I limiti sonori dell'identità, in Magister Toscolus de Imola fonditore di campane, a cura
di G. Savini, La Mandragora, Imola 2005, pp. 81-93; A.A. SETTIA, “Quando con trombe e
110
GIAMPAOLO ERMINI
1. La campana del Popolo del 1316: note preliminari
Sulla torre del Moro di Orvieto si trovano due campane che battono le ore dell'orologio pubblico, secondo una sistemazione progettata nel 1876 da Paolo Zampi (tav. 10). La superiore, che reca lo stemma civico (inquartato: nel primo una croce rossa in campo d'argento; nel secondo un'aquila nera, coronata d'oro; nel terzo un leone rampante, tenente una spada d'argento con la zampa destra e le chiavi di san Pietro con la sinistra; nel quarto un’oca avente una palla nella zampa destra), è del 1843 e servì già a quella funzione dalla torre di Sant’ Andrea!. L’inferiore (tav. 11), in origine sulla torre del Palazzo del Popolo, è di dimensioni considerevoli (ben oltre il metro di diametro alla bocca) e ha sulla spalla questa iscrizione a rilievo): + MENTEM SANCTAM SPONTANEAM HONOREM DEO ET PATRIE LIBERATIONEM HEC FACTA ANNI DOMINI / MiLLEsimo CCCXVI DE MENSE DECENBRIS TEMPORE CAPITANEI PONCELLI DOMINI URSI DE FILIIS URSI VERBU KARO FATU ET. L’attacco e la chiusura sono due testi tipici del repertorio epigrafico campanario: il breve di sant Agata (Mentem sanctam spontaneam bonorem Deo et patriae liberationem) e una pericope dal Vangelo di Giovanni (Verbum caro factum est: Gv. 1, 14); ad essi erano attribuite facoltà apotropaiche e profilattiche e furo-
quando con campane!”: segnali militari nelle città dell’Italia comunale, in Dal fuoco all'aria. Tecniche, significati e prassi nell’uso delle campane dal Medioevo all’Età Moderna, a cura di FE. Repi, G. PETRELLA, Pacini, Pisa 2007, pp. 355-369; Ip., Codici sonori e nomi di campane
nelle città medievali italiane, in Del fondere campane. Dall’archeologia alla produzione, atti del convegno (Milano 2006), a cura di S. LusuARDI SIENA, E. NERI, All’Insegna del Giglio, Borgo San Lorenzo (Firenze) 2007, pp. 79-84; C. BERNAZZANI, La campana civica: tra signum, sbolo e celebrazione visiva, in «Opera Nomina Historiae», 2/3 (2010), pp. 287-
353 . ? La composizione dello stemma presenta, nelle diverse attestazioni figurative, alcune varianti. Lo statuto comunale vigente (tit. I., art. 2, 2) non lo descrive, rinviando al
«modello» approvato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri il 2 maggio 1929, che non sono riuscito a rintracciare in questa occasione. Si è pertanto deciso di adottare la descrizione fornita nel sito Araldicacivica (), che cita il decreto del 1929 e da esso si direbbe dipendere. Si deve almeno segnalare, tuttavia, che l’ordine della descrizione procede dalla sinistra reale. V. inoltre: G. Lauro, Historia e Pianta della Città d’Orvieto, presso Lodovico Grignani, Roma 1636, p. 7; L'arme di Orvieto. Esercizio accademico, Tosini, Orvieto 1844; Ephemerides
Urbevetanae (d’ora in poi: Eph. Urb.), a cura di L. FuMi, Lapi-Zanichelli, Città di CastelloBologna 1920-s.d., I, 1920, RIS, XV-6, p. 340, nota 6; infra.
4 G. MURATORE, P. LoratI, Paolo Zampi (1842-1914), Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto, Orvieto 2005, p. 62; R. GIORGETTI, Orologi da torre in Umbria, Gelli, s.l. 2008,
pp. 466, 468-470. V. anche Orvieto. Il Palazzo del popolo e i suoi restauri, numero monografico del «Bollettino dell’Istituto storico artistico orvietano», 40-41 (1984-1985, ma 1990),
a cura di A. SATOLLI, pp. 221-223. ? Sciolgo le abbreviazioni senza segnalarlo e ometto gli nterpuncta.
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til
Fig. 1 FONDITORI ORVIETANI (?), campana del Palazzo del Popolo, particolare con i sigilli delle Arti e col nome del capitano del Popolo Poncello Orsini. Orvieto, torre del Moro.
no così usati di frequente sui bronzi per contrastare gli spiriti maligni dell’aria e le tempeste che da loro si credevano provocate®. Tra i due brani sta la data della fattura: il dicembre del 1316, al tempo del capitano Poncello Orsini. Poco sotto l’iscrizione si trovano i sigilli delle venticinque Arti della città, allineati lungo la circonferenza (fig. 1). Della teoria fanno parte, riuniti in una sorta di “blocco”, anche l’arme Orsini, il sigillo del Popolo e un orso, consueto richiamo figurativo al nome della famiglia romana (fig. 2). Ai lati dello stemma Orsini stanno due sigilli a mandorla, i più piccoli della serie, ancora da identificare. Come già avvertì l’erudizione orvietana ottocentesca, i bolli sono una fonte preziosa per lo studio delle Arti e delle loro insegne’. Mi limito qui a notare
6 R. Favreau, Mentem
sanctam, spontaneam, honorem Deo et patriae liberationem.
Epigraphie et mentalité, in Clio et son regard. Mélanges d'histoire, d'histoire de l'art et d’archéologie offerts à Jacques Stiennon, a cura di R. LEJEUNE, J. DECKERS, Mardaga, Liegi 1982,
pp. 235-244; E. Le BLANT, Le premier chapitre de Saint Jean et la croyance à ses vertus secrètes, in «Revue archéologique», 25 (1894), pp. 8-13. ? T. PICCOLOMINI ADAMI, Guida storico-artistica della città di Orvieto, tipografia all’ins. di S. Bernardino, Siena 1883, pp. 353-354 (parla di «24 medaglie»); L. Fumi, Codice diplo-
matico della città d'Orvieto, Vieusseux, Firenze 1884, pp. s.n. e 737, nota 1 (con traduzione grafica “migliorativa” del sigillo del Popolo, v. infra); G. PARDI, Il governo dei signori Cinque in Orvieto, Tosini, Orvieto 1894, pp. 25-26 e tavv. I, II (con i rilievi, un po’ approssi-
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Fig. 2 FONDITORI ORVIETANI (?), campana del Palazzo del Popolo, particolare con lo stemma Orsini, il sigillo del Popolo e l’orso. Orvieto, torre del Moro.
che essi condividono lo stesso impianto morfologico: rotondi, con una legenda nella fascia esterna e il campo centrale riservato alla figurazione, che è “parlante” nella maggioranza dei casi. Le misure diverse indicano che le relative cere furono ottenute da tipari esistenti. Una scelta, questa, non solo economica, ma
che, accanto all’identità e alla proprietà, sanciva la piena autorità del signurz bronzeo8. Viceversa, è credibile che le matrici per lo stemma Orsini e l'orso furono fatte apposta. La disposizione del corredo epigrafico, sfragistico, araldico e decorativo non mostra singolarità sostanziali rispetto alla coeva produzione centroitaliana, dove l'apposizione di sigilli o stemmi al di sotto dell’iscrizione sulla spalla in squille
mativi, del corpus sfragistico e araldico, tranne i due sigilli a mandorla). In L. FUMI, Orvieto,
ed. an. Edicit, Foligno 2008 (ed. or. Istituto italiano d’Arti grafiche, Bergamo s.d.), p. 32 si trova un disegno del sigillo del Popolo, forse quello da cui fu tratta l'incisione del 1884 (ivi, pp. 118, 120 i rilievi già editi da Pardi). Particolari fotografici dei sigilli in: Szoria di Orvieto, II. Medioevo, a cura di G.M. DELLA FINA, C. FRATINI, Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto, Orvieto 2007, passim.
8 Una cronaca lascia intendere che l’identità/proprietà della campana del Popolo di Siena era espressa verbalmente sul bronzo: «E questa chanpana si chiami per l’avenire la chanpana del populo; e così si chiama ed è scritto el suo nome in essa chanpana» (Cronache senesi, a cura di A. Lisini, F IACOMETTI, Zanichelli, Bologna 1931, RIS, XV-6, p. 55).
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civiche e religiose è altrimenti nota. Bastino due esempi umbri, entrambi opera di fonditori orvietani: la campana del palazzo comunale di Sangemini, fusa nel 1318 da maestro Stefano?, e la campana maggiore di San Francesco a Trevi, fusa nel 1341 da maestro Giovanni, probabilmente un nipote di Stefano. La peculiarità rilevante della campana del 1316 risiede piuttosto nella presenza “corale” dei sigilli di tutte le Arti e del Popolo e nel loro accostamento alle insegne e alla memoria epigrafica di Poncello Orsini, una soluzione formale che affonda le radici nel contesto storico, istituzionale e politico e che fu ideata con chiare finalità promozionali.
2. Un antefatto: la campana del Comune del 1303 Tale soluzione ebbe però in Orvieto almeno un precedente significativo nella campana datata 1303 già sul campanile di Sant'Andrea, forse perduta, ma nota grazie alla Guida di Tommaso Piccolomini Adami!°. A dispetto della sede, si trattava di un signum del Comune, che qui aveva le sue campane fin dal 1223". La pertinenza civica è dimostrata dall’epigrafe, dall’apparato sfragistico e da un consiglio cittadino che parla espressamente di campana Comunis!. L'iscrizione, oltre a precisare come l’anno 1303 era il primo del pontificato di Benedetto XI, dichiarava che il podestà e il capitano del Popolo in carica erano, rispettivamente, Fortebraccio Guinizzelli da Pistoia e Paolo da Rieti. Il nome del papa data la composizione dell’epigrafe post 22 ottobre, giorno della sua elezione, mentre quelli dei magistrati permettono di circoscriverla al dicembre, il solo mese in cui le loro cariche si sovrapposero!. Le carte d’archivio ricordate sopra accertano a loro volta il compimento del getto entro il 30 dicembre, quando la campana risultava facta de novo. ? A. CAMPANA, Le iscrizioni medioevali di San Gemini, in San Gemini e Carsulae, Bestetti, Milano-Roma 1976, pp. 81-116: 106-107, scheda 10. Per Stefano (di Ventura): G. Er-
MINI, Giovan Battista Donati. Campana in bronzo, in Campane per la Cattedrale. Nuovi recuperi dai depositi del Museo dell’ Opera del duomo, catalogo della mostra (Orvieto 2011), a cura di L. ANDREANI, A. CANNISTRÀ, G. ERMINI, Opera del duomo di Orvieto, Orvieto
2011, pp. 41-49: 43-44.
10 PICCOLOMINI ADAMI, Guida cit., p. 353. W. VALENTINI, La insigne collegiata dei SS. Bartolomeo e Andrea di Orvieto. Documenti e note, tipografia degli Orfanelli, Orvieto 1920, pp. 201-202 sembra darla ancora per esistente. E. ROSATELLI, La insigne Collegiata dei SS. Bartolomeo e Andrea in Orvieto, in «Bollettino della Deputazione di storia patria per l'Umbria», 60 (1963), pp. 5-38: 31-32 la dice scomparsa. !! Fumi, Codice cit., p. 103, doc. CLX.
2 ASO, Riformagioni (d’ora in poi: Rif.) 73, cc. 92v, 93r. 5 G. Papi, Serie dei supremi magistrati e reggitori di Orvieto, in «Bollettino della Società umbra di storia patria», 1 (1895), pp. 337-415: 380.
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Piccolomini Adami registrò poi «sei Medaglie, della grandezza di 10 Centesimi» identificabili come i sigilli di altrettante Arti di cui erano impressi anche i nomi e che, secondo lui, sarebbero state le «Università che concorsero alla
spesa». La spiegazione a tale presenza, che il periegeta ripeté per la campana del 1316, è da respingere, stante la prova del pagamento da parte del Comune, Nondimeno, i sigilli non trovano ancora una spiegazione convincente. Il numero non pare collegabile a nulla di significativo, come invece sarebbe se fossero sette, coincidenti con i membri della magistratura di segno popolare che dal 1292 governava la città!. La completa attendibilità e l’origine della testimonianza sono d’altronde molto dubbie; sospetta, in particolare, è la seconda parte dell’epigrafe tràdita, che, oltre alla lista delle sei Arti in latino, riporta — in italiano moderno! — peso e misure della campana: se l'indicazione del peso, pur rara, è altrove attestata!f, la lingua e l’inusuale ragguaglio metrico paiono più verosimilmente provenire da una fonte scritta imprecisa o fraintesa!”. I motivi della rifusione nel 1303 non sono noti. La causa più probabile è la rottura della precedente campana, ragione per cui i documenti offrono un sostegno parlando di reparatio et actatio!8. Si deve però osservare come l’impresa cada in un passaggio delicato della storia cittadina, appena successivo alla
morte di Bonifacio VIII, papa che ebbe con Orvieto un rapporto lungo e alterno, incentrato sul possesso delle terre aldobrandesche.e della Val di Lago. Dal 1296, quando si giunse infine a posizioni di mutuo vantaggio, la città elesse più volte il pontefice suo podestà e capitano del Popolo — cariche che egli assolse nominando dei vicari!’ — e ne attuò un’eccezionale celebrazione monumentale e 14 V. nota 11. PICCOLOMINI ADAMI, Guida cit., p. 354.
> V. però S. ZINGARINI, Asserzblee e consigli politici orvietani dal 1289 al 1316, in «Rivista storica del Lazio», 4 (1996), pp. 29-60: 40. C’è una parziale corrispondenza con i Sette in carica nell’ultimo bimestre del 1303, di cui quattro appartenevano ad altrettante Arti rappresentate sulla campana (ASO, Rif. 73, c. 817). !6 Cfr. PICCOLOMINI ADAMI, Guida cit., p. 352. !? Altra possibilità è che i dati siano stati riportati su una rifusione posteriore. !8 ASO, Rif. 73, c. 92v. Si ha notizia della fattura di una campana del Comune anche nel 1307; vi lavorarono i maestri ca/derarii orvietani Ciuccio, Domenico e Angelo di Ventura (ASO, Rif. 76, cc. 7v-8r; cfr. L. RICCETTI, La città costruita. Lavori pubblici e immagine in Orvieto medievale, Le Lettere, Firenze 1992, p. 119). Per calderarius riferito ai fonditori:
G. ERMINI, Tre schede per ifonditori di campane a Orvieto nel primo Quattrocento, in «Bollettino dell’Istituto storico artistico orvietano», 61-64 (2005-2008, ma 2011), pp. 147-177: 148 e ss. Per Angelo di Ventura: Ip., Giovan Battista cit., p. 44. Le cronache riferiscono
inoltre della campana w2/0r di Sant’ Andrea fatta nel 1311 (Epb. Urb. cit., I, pp. 177, 349). ‘ PARDI, Serie cit., pp. 378-380; Fumi, Codice cit., p. 387, doc. DC. Per il rapporto tra Bonifacio VIII e Orvieto: Epb. Urb. cit., I, pp. 134-135, 164-174, 199-204, 327-339 (e note
relative); D. WaLEy, Pope Boniface VIII and the Commune of Orvieto, in «Transactions of the Royal Historical Society», 32 (1950), pp. 121-139; Ib., Orvieto medievale. Storia politica
di una città-stato italiana 1157-1334, Multigrafica, Roma 1985 (ed. or. 1952), pp. 89-108:
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araldica. Ancora vivo Bonifacio, tuttavia, gli orvietani tentarono d’approfittare della sua debolezza in seguito ai fatti anagnini per invadere il contado aldobrandesco, un atto che i documenti comunali addebitano specificamente al Popolo”. Alla morte, nell’ottobre del 1303, papa Caetani era podestà nominale di Orvieto; suo sostituto, appunto, Fortebraccio Guinizzelli. Il nuovo papa Benedetto XI fu eletto capitano del Popolo a partire dal primo dicembre dello stesso anno?! — surrogato da Paolo da Rieti — e podestà dal gennaio 130422. La campagna di decorazione pubblica che celebrava Bonifacio VIII fu così ricordata da Luca di Domenico Manenti circa un secolo dopo: «[...] la comunità de Orvieto fero dui imagine de marmo a sua memoria et li posero sopra porta Maiure et porta Postierla, et fu pinta la sua arme per tutte le case de la ciptà». La stessa fonte, dopo aver definito il decesso papale «gran danno» alla rupe, racconta però che l’anno seguente, 1304, «fu ordinato che in tutto lo stato de Orvieto sopre le porte et palazzi si debia pingere l’arme de la comunità de Orvieto». La seconda tornata di addobbo araldico pare collegabile alla morte del papa: essa servì forse a cancellare i pervasivi e quantomeno anacronistici stemmi Caetani
prodotti dalla prima e certo a riaffermare la sovranità del Comune sulla città e sul contado. Al momento non sussistono dati che consentano di ricondurre la fatP.-Y. LE seconde 165; L. Uomini
POGAM, De la «cité de dieu» au «palais du pape». Les résidences pontificales dans la moitié du XIII° siècle (1254-1304), Ecole française de Rome, Rome 2005, pp. 163RICCETTI, «Suas imagines marmoreas erigi fecit»: Bonifacio VIII e la Valdilago, in paesaggi storie. Studi di storia medievale per Giovanni Cherubini, a cura di D. Ba-
LESTRACCI ef al., Salvietti e Barabuffi, Siena 2012, I, pp. 203-223. 20 WALEY, Orvieto cit., pp. 101-102, 105-107, 117. ZINGARINI, Assemblee cit., p. 29. SEASOLRIE #9, €. 82r. 2 PARDI, Serre cit., p. 380 e nota 3.
3 Eph. Urb. cit., I, pp. 329-330, 339, 340. Gli Annales Urbevetani citano solo le due statue (ivi, p. 134). Il 4 aprile 1297, oltre ai simulacri, su proposta del capitano vicario di Bonifacio si ordinava la pittura delle armi papali sulla facciata del palazzo del Popolo «sumptibus Comunis»: ASO, Rif. 70/II, cc. 22r, 23v (cfr. Eph. Urb. cit., I, pp. 170, nota 3
e 330, nota 2, che ha però «papali» per Populi; RicceTTI, La città cit., p. 195, per il quale s’avvid «così una procedura che si ripeterà per tutti i futuri capitani del popolo»; un’edizione in LE POGAM, De la «cité cit., p. 167). Pochi giorni prima, il 28 marzo, Bonifacio era stato rieletto capitano, fatto collegabile alla realizzazione degli stemmi (cfr. A. PARAVICINI BaGLIANI, Bonifacio VIII, Einaudi, Torino 2003, p. 159). E probabile che i dipinti da fare accanto alle statue (ASO, Rif. 70/II, cc. 50r [edito in LE PoGAM, De la «cité cit., p. 167],
500, 51r) fossero degli stemmi. Non sono sicuro che quest’ultima discussione consiliare accerti che le pietre erano in lavorazione entro il 3 maggio (RICCETTI, «Suas imagines cit., p. 216), mentre prova l’avvenuta pittura del Palazzo del Capitano, nonché, dato il compenso di 80 lire, la sua relativa consistenza (PARAVICINI BAGLIANI, Bonifacio VIII cit., p. 159
lo riferisce a supposte figure succedanee del papa dipinte sulle porte urbiche). V. anche P-Y. LE Pogam, La lutte entre Boniface VIII et les Colonna par les armes symboliques, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 61 (2007), pp. 47-66. 24 V. anche l’interpretazione di RiccETTI, La città cit., p. 133. Quando nel 1398 Orvieto
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tura della campana — operazione, va detto, dispendiosa e complessa — alle ragioni di quella campagna di riconfigurazione araldico-istituzionale, ma, considerando la cronologia, il contesto storico e quanto si dirà sul bronzo del 1316, non si può escludere che l'impresa originasse da motivi di propaganda politica. Ciò che è sicuro, al netto degli elementi ignoti o incerti, è che il corredo epigrafico e iconografico registrava l’assetto istituzionale del Comune al dicembre 1303, anticipando in parte la soluzione approntata sulla campana del 1316, ma discostandosene per un aspetto cruciale: questa rappresentava tutte le componenti essenziali del potere comunale, quella avrebbe manifestato la propria esclusiva appartenenza popolare (sebbene, ci torneremo, alterata da un’interferenza determinante).
3. «[...] longo tempore fuit ad servitium laycorum»: la precedente campana del Popolo
Per capire meglio il significato dell'operazione del 1316 è fondamentale ricucire la storia della precedente campana del Popolo, la sua origine e la sua inusitata dismissione nel 1312. Fino a quell’anno, infatti, la torre del Palazzo del Popolo fu occupata da una campana il cui pregio era ulteriormente accresciuto dall’essere fatta col metallo del signum tolto nel 1251 alla chiesa di Santa Vittoria dell’indomita Acquapendente, un episodio trionfale rimasto vivo nella memoria collettiva”. Il 1251 fu anche l’anno d’esordio di un capitano del Popolo forestiero a Orvieto, indice della maturazione del processo formativo del gruppo locale e probabile riflesso sollecito del “primo Popolo” sorto a Firenze, capofila guelfa che ebbe con Orvieto un legame saldo. Non sappiamo se la presa del s1gr2772 acquesano e la sua conversione furono fatti concatenati, né se la rifusione fu contestuale alla conversione (ciò che potrebbe moltiplicare il valore dell’evento) o successiva. Due argomenti indiziari a favore della conversione immediata o prossima. Il primo: appena saliti al potere i popolani fiorentini «feciono fare una campana», Il secondo: il fatto che il Palazzo del Popolo di Orvieto fu costruito o completato nei primi anni Ottanta” non osta che il partito avesse già fu data a Bonifacio IX «da ogni fattione de la ciptà» si ordinò «che la comunità habia l’arme del papa in pittura o scultura sopre le porte de la ciptà, palazzi et castella et in ogni cosa sopre quella de la republica» (Eph. Urb. cit., I, pp. 406-407). # Epb. Urb. cit. I, p. 151; M. Rossi CAPONERI, I/ duomo e l'attività edilizia dei Signori Sette (1295-1313), in Il duomo di Orvieto, a cura di L. RiccETTI, Laterza, Roma-Bari 1988,
pp. 29-80: 79-80, doc. LIII. Luca Manenti pose il fatto nel 1249, parlando di più campane date alla chiesa di San Giovenale (Eph. Urb. cit., I, p. 300). 28 VILLANI, Nuova cronica cit., I, 1990, p. 328.
? L. Fumi, Il Palazzo del popolo in Orvieto, in «Archivio storico per le Marche e per l'Umbria», 4 (1888), pp. 518-555; Orvieto. Il Palazzo cit. p. 28 e ss.; RICCETTI, La città cit.,
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una sua campana; i popolani fiorentini montarono infatti la loro prima campana sulla torre del Leone e se a Orvieto la campana del Comune stava sulla torre di Sant'Andrea, nelle vicine Siena e Perugia i signa civici suonavano da torri private in affitto. Si consideri poi che non solo lo scontro con Acquapendente, data la carica, fu forse condotto dal capitano del Popolo, il milanese Ruffino da Mandello, ma anche che suo fratello Uberto fu quell’anno podestà di Firenze??, Non è una coincidenza fortuita. I due furono esponenti di spicco della fazione antisveva e la loro simultanea elezione a Orvieto e Firenze è una spia della speciale intesa tra le due città in quel momento. Una suggestione, infine, che merita segnalare: nel 1256 Ruffino fu podestà di Siena e due cronache collegano in qualche modo quella carica alla realizzazione della campana del giovane Popolo senese’!. Il 16 giugno 1312 il Comune orvietano deliberò il trasferimento della campana del Popolo al duomo, allora in costruzione. La mozione fu esposta in consiglio da uno dei Sette, il giudice Puccio di Pietro”. L'abbrivo all'iniziativa fu una petitio — di cui si riporta il testo, ma si tacciono i promotori — che chiedeva, essendo la campana fatta col metallo di quella già in Santa Vittoria, di cederla all'Opera del duomo, così che essa «que longo tempore fuit ad servitium laycorum stet in ecclesia Sancte Marie ad laudem et servitium omnipotentis Dei et dicte Virginis Marie matris eius et operis supradicti». La richiesta precisava che ciò potesse avvenire «statuto carta populi, ordinamento dicte civitatis vel alio iure quod in contrarium loqueretur non obstante». La clausola è frequente nelle p. 119. Luca Manenti cita proprio la costruzione del campanile tra i lavori del 1280 (Epb. Urb. cit., I, p.316).
28 Per Siena (tra gli esempi possibili): Libri dell'entrata e dell'uscita della Repubblica di Siena detti del camarlingo e dei quattro provveditori della Biccherna. Libro Settimo a. 124647, a cura della Direzione del R. Archivio di Stato di Siena, Lazzeri, Siena 1931, p. 50. Per
Perugia: M.R. SILVESTRELLI, L'edilizia pubblica del Comune di Perugia: dal «Palatium Comunis» al «Palatium novum Populi», in Società e istituzioni dell’Italia comunale: l'esempio di Perugia (secoli XII-XIV), atti del convegno (Perugia 1985), s.e., Perugia 1988, II, pp. 482604: 524, doc. 22, 544, doc. 69 e cfr. 560, doc. 113. 29 Parpi, Serie cit., p. 372, nota 2; WALEY, Orvieto cit., pp. 61-62; P. GRILLO, Mandello, Robaconte da e Mandello, Uberto da, in DBI, 68 (2007), pp. 571-573 e 573-574.
30 Nell’estate del 1251 le due città rinnovarono la lega antisenese del 1229 e del 1235: FuMI, Codice cit., pp. 198-199, docc. CCCX-CCCXII. 3! Seppure datando il fatto una al 1255, l’altra al 1256: Cronache senesi cit., p. 55; Cronica sanese di Andrea Dei, continuata da Agnolo di Tura, in RIS, XV, Ex Typographia Societatis Palatinae in Regia Curia, Milano 1729, col. 28. 3? Rossi CAPONERI, I/ duomo, pp. 43, 79-80, doc. LITI; G. ERMINI, Campane per la catte-
drale di Orvieto. Qualche nota per una storia da scrivere, in Campane per la Cattedrale cit., 49:30; 214
È 5 I] nome è qui «Puccius domini Mathei», ma deve essere un refuso (cfr. ASO, Rif/9, cc. 2207, 228r, 2317).
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delibere orvietane del tempo e trarne corollari frettolosi sarebbe scorretto, ma il suo impiego segnala perlomeno la delicatezza della materia. Il dibattito sulla dismissione sembra comunque essere stato minimo e la proposta passò sfiorando l’unanimità?. La domanda si richiamava a ragioni d’equi-
tà e di culto, ma doveva far leva anche sul prestigio indiscusso della destinazione”. Altro fattore persuasivo poterono essere i ripetuti problemi che campana e campanile ebbero almeno dal 1295 e ancora nel 1303 e 1307. Quali che furono il merito e il peso degli argomenti usati, l’atto è tanto inconsueto da risultare sospetto. Due fatti perugini aiutano a comprenderne l’eccezionalità. Nel 1256 il consiglio cittadino deliberò che la campana grossa del Comune fosse montata sul campanile del duomo al posto di una rotta, ma «remanendo semper dominium iusta comune Perusii» e suonando «sicut fuerit melius pro comuni»?”. Nel 1282, poi, pur di ottenere una proprietà immobiliare dal capitolo di San Lorenzo, il Comune accettò che la campana sulla torre del suo palazzo fosse messa sul campanile della chiesa, ma ne prese in cambio un’altra’. L'ingresso in Italia di Enrico VII interruppe fin dal 1310 un periodo di relativa stasi nello scontro locale tra guelfi e ghibellini, portando al riposizionamento di Orvieto sulla sponda guelfa e al consolidamento del potere della maggiore consorteria guelfa della città, i Monaldeschi. Sotto la pressione della minaccia imperiale nella primavera del 1312 furono decise una serie di misure tese a saldare il patto tra nobiltà guelfa e Popolo e a sedare i contrasti interni; tra le seconde è utile qui citare il veto di fare bandiere di partito, risalente al maggio. Sono del giugno/luglio altri provvedimenti d'emergenza che, tra le altre cose, consentivano un'applicazione sommaria della giustizia in una città ormai instabile??. Collocata contro questo sfondo — rammento che la decisione risale al 16 giugno — e alla luce di quanto sarebbe accaduto, la “donazione” si rivela una sagace manovra per mutilare un Popolo il cui potere era cresciuto esponenzialmente nei decenni trascorsi MARIN CC 22600277
© La proposta di collegare la donazione al duomo in quanto catalizzatore di consenso per il Comune è in L. RICCETTI, La «Loggia del Duomo» e i cantieri delle cattedrali: indirizzi di ricerca, in Il Duomo di Orvieto e le grandi cattedrali del Duecento, atti del convegno (Orvieto 1990), a cura di G. BARLOZZETTI, Nuova ERI, Torino 1995, pp. 273-356: 307. 3 RICCETTI, La città cit., pp. 120, 168, nota 305. Alle indicazioni d’archivio per il 1303
può essere aggiunto ASO, Rif. 73, cc. 18v (da cui in realtà la citazione in RiccETTI, La città cit., p. 120), 19r, 22r, 22v. V. anche Orvieto. Il Palazzo cit., pp. 34 (con un dubbio commento dei documenti), 218-219.
M.R. SILVESTRELLI, I/ castello di San Lorenzo, in Una città e la sua Cattedrale: il Duomo di Perugia, atti del convegno (Perugia 1988), a cura di M.L. CIANINI PIEROTTI, San Severo a Porta Sole, Perugia 1992, pp. 173-182: 176-177, 179-180, docc. III, IV.
38 SILVESTRELLI, L'edilizia cit., pp. 532-533, doc. 40. Il Comune versò anche del denaro. ? WALEY, Orvieto cit., pp. 105-109, 117-124. Cfr. J.-C. MAIRE VIGUEUR, Comuni e signorie in Umbria, Marche e Lazio, UTET, Torino 1987, pp. 182-183.
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(e il cui tintinnabulum, nel 1284, era stato usato per un tumulto antiguelfo)*, Mossa più sottile della clamorosa sepoltura ordinata dai magnati sanminiatesi, ma dal risultato identico. L'operazione non si limitò a questo.
4. La campana del Popolo del 1316: Poncello Orsini, le Arti, la propaganda
La lotta tra anti e filoimperiali si concluse a Orvieto con la disfatta ghibellina nell'agosto del 1313. La nobiltà guelfa sfruttò le condizioni favorevoli per annullare il governo popolare dei Sette sostituendolo con quello magnatizio dei Cinque”. Di pari passo scomparve la figura del capitano del Popolo, come pure i consigli del Popolo e delle Arti*?. Il regime dei Cinque ebbe breve durata, svanendo sullo scorcio del 1315 dopo i moti seguiti alla rotta patita dagli orvietani a Montefiascone. Al grido di «Vivat Populus!» la sollevazione avvenne il 13 dicembre. Il giorno seguente un’assemblea cittadina discuteva, e approvava all'unanimità, la formazione del Popolo guelfo a protezione di Orvieto e del suo territorio‘. Si trattò di una vera e propria ricostituzione. Opportune riforme cementarono il potere ritrovato:
fu ripristinato l’ufficio dei Sette (che per poco tempo convissero con i Cinque), nominato di nuovo un capitano del Popolo, l’orvietano Ranieri di Zaccaria, e creata la carica di capitano della guerra, affidata al romano Poncello Orsini. Con una tempestività che impressiona, il 15 ci si affrettò a discutere come «providere [...] super reattatione palatii et campane Populi» e dove trovare il
denaro per farlo: evidenze cristalline di una ristrutturazione politica e istituzionale, ma anche concreta e simbolica*. Il 16 si tornava a trattare di palazzo e campana”. L'edificio necessitava di lavori, in particolare alla copertura, perché il capitano e i Sette potessero abitarvi*. Le modalità di riattivazione del signum
40 Eph. Urb. cit., I, p. 185. 41 Walky, Orvieto cit., pp. 122-124, 127-129. 4 PARDI, I/ governo cit., pp. 11, 14; ZINGARINI, Asserzblee cit., pp. 50, 51, nota 144. # ASO, Rif. 83/XI, cc. 17v-19r. Le prime riforme furono esposte da Sceo di Vanni, un
Monaldeschi che in quel dicembre era nei Cinque. Lo stesso giorno si elessero i Sette, tutti membri delle Arti (ivi, c. 190). V. Eph. Urb. cit., I, pp. 179, 180 (qui con la data erronea 1316); PaRrpI, I/ governo cit., p. 25; M. ANTONELLI, Una ribellione contro il vicario del patri-
monio Bernardo di Coucy (1315-1317), in «Archivio della società romana di storia patria», 20 (1897), pp. 177-215; WaLEy, Orvieto cit., pp. 130-131.
#4 ASO, Rif. 83/XI, c. 20v. Non è chiaro se i lavori all'edificio si dovessero a sabotaggio o usura.
45 Ivi, c. 23r. Il 31 dicembre fu deciso di usare i soldi di una condanna e della vendita
dei beni di un omicida (ivi, cc. 440-457). 4 La coabitazione dei Sette con il capitano in questa fase è un dato rilevante.
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paiono essere state incerte nella fase iniziale e si dovette considerare l’opzione di un recupero della campana persa nel 1312; si chiedeva, infatti, «quod campana Populi expensis Comunis attetur et si opus fuerit de novo creetur». Furono poi inoltrate altre due mozioni dense di significato in questo contesto: il rifacimento «ad arma consueta» del sigillo del Popolo‘ e la formazione di una milizia suddivisa in quattro gruppi, ognuno guidato da un capitano «cum quatuor pennonibus ad arma Populi et partis guelfe»*. Risalgono a quel momento altre due basilari riforme: la nomina di una commissione per compilare una nuova Lira, che si diceva finalizzata alla raccolta del denaro per le spese da affrontare, e una revisione della Carta del Popolo, che era in corso di scrittura nel febbraio successivo”. La stessa urgenza di dotarsi di una propria squilla si coglie in una vicenda perugina del 1302, quando, creato il nuovo ufficio del defensor — da intendere probabilmente come defensor Populi e/o defensor civitatis — e venuto l’ufficiale da Roma, questi chiese di sistemare subito una campana sulla torre del Comune in pede platee”. E a Pisa, nel 1313, quel bisogno stringente da parte del Popolo trovò espressione in un’apposita rubrica del Breve: in attesa che ne fosse pronta una «grossa et sofficiente» per chiamare «le Compagne [z.e. compagnie] al palagio del populo» si decretò di spostare «la campana del carroccio, la quale è in del palagio delli Ansiani»”!. La decisione simultanea di rifare il sigillo è un dato notevole che permette di ribadire e ampliare concetti già toccati. I due manufatti costituivano, anche simbolicamente, parte dello strumentario essenziale per la legittimazione del Popolo e della sua azione in quanto soggetto pubblico, giuridico e politico. Ne è indizio la pur esigua lista dei beni del neonato Popolo di Siena, che già nel 1256 contava sigillo e campana”. E non a caso essi sono talora appaiati a denotare il controllo del potere o come trofeo. A Siena, nel 1368, i nobili in rivolta
assaltarono Palazzo Pubblico «ed ebbero la bachetta, e suggelli, e le campane»,
4? Ivi, c. 25r. La discussione è a c. 25», il voto, positivo, a c. 26v. Manno di Corrado
Monaldeschi sostenne la fattura del sigillo a carico del Comune a dispetto di eventuali disposizioni legislative. 48 Ivi, c. 28r (di data incerta). 4 Ivi, cc. 29r, 36r; ASO, Rif. 84/I, c. 58r.
°° MR. SILVESTRELLI, Dal castello di San Lorenzo alla «platea magna Comunis Perusit», in La piazza del duomo nella città medievale (nord e media Italia, secoli XII-XVI), atti della giornata di studio (Orvieto 1994), a cura di L. RiccETTI («Bollettino dell’Istituto storico ar-
tistico orvietano», 46-47 [1990-1991, ma 1997]), pp. 167-188: 176-177, 184, docc. 39, 40. ?! G. GARZELLA, Edilizia pubblica comunale in Toscana, in Magnati e popolani nell'Italia comunale, atti del convegno (Pistoia 1995), Centro italiano di studi di storia e d’arte, Pistoia 1997, pp. 293-310: 300-301, nota 32. 7? ASSI, Consiglio Generale 6, c. 63v.
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rovesciando il governo dei Dodici. Un altro rovescio agitò la città toscana nel 1384: gl’insorti entrarono di nuovo nella casa comunale «ed ebero e’ sugelli e le canpane a tutta loro ubidienza»??. Nel 1438 il folignate Corrado Trinci umiliò la sconfitta Spoleto sottraendole un corredo esemplare d’identità civica: i serrami delle porte urbiche, le catene, il vessillo del Comune, il sigillo priorale e il batac-
chio della campana maggiore”. La fattura della campana orvietana andò però a rilento, verosimilmente per carenza di soldi. Il bronzo è infatti datato dicembre 1316 e una delibera del 30 di quel mese stabiliva che, essendo debitore di due Monaldeschi — l’arciprete Monaldo e l’onnipresente Manno di Corrado, futuro signore della città —, il Comune non potesse spendere in alcunché prima di averli soddisfatti, tranne che per tre cose tanto rilevanti da meritare la deroga: la custodia di Bisenzio, la campana e i nunzi da inviare alla curia papale”. La fusione del signum è registrata negli Annales Urbevetani al 18 marzo 1317, quando «fuit colata campana populi in domibus dominorum Septem, ubi nunc est ecclesia Sancti Bernardi». Il contrasto con la data sul bronzo si deve forse a un plausibile scarto tra il completamento della forma e il getto del metallo. Più problematica l'indicazione del luogo, poiché la chiesa, situata ai piedi del palazzo del Popolo, pare già attestata nel 1314”. Nel frattempo, l’8 febbraio 1316 Poncello Orsini era stato eletto anche capitano del Popolo (ma al titolo s’aggiunse la significativa specifica del Comune), entrando in carica il primo aprile’. Solo alcuni giorni dopo, il 20 aprile, egli promosse una riforma sostanziale della Carta del Popolo, malgrado — lo ricordo — una nuova redazione fosse stata appena compiuta. Si tratta di ventinove articoli che rafforzavano il potere guelfo e popolare e il predominio sul Comune da parte del capitano??. Alcuni evidenziano una volta di più come l’esercizio e la tenuta del potere richiedessero una gestione attenta dei segnali pubblici, sonori
5 Cronache di Neri di Donato da Siena, in RIS, XV cit., col. 197; Cronache senesi cit., #10} ù 3 S. CECCARONI, Vessilli, sigilli e stemmi delle comunità medievali dell'Umbria cen-
tro-orientale, in «Bollettino della Deputazione di storia patria per l'Umbria», 80 (1983), pp. 43-88: 50. 5 ASO, Rif. 84/V, cc. 60v-61r. Il debito era di 500 fiorini d’oro. Bisenzio, il cui signore
era tra gli esuli ghibellini in lotta contro Orvieto, fu presa nel corso del 1316 (WaLey, Orvieto cit., p. 136).
3 Eph. Urb. cit., I, p. 180. Così Luca Manenti: «[...] et fu eletto detto tempo [1315] il signor Napuleoni Ursino capitano generali de la guerra, che feci rifare il tetto al palazzo del populo et la campana grossa de la iustitia con l’orso rilevato»: ivi, p. 356. 5 Eph. Urb. cit., I, p. 180, nota 5; PARDI, I/ governo cit., pp. 17-18. 58 ASO, Rif. 84/II, cc. 37v-38r. 59 Ivi, cc. 57r-61v. Cfr. WaLEY, Orvieto cit., pp. 137-138.
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e visivi. Ben cinque articoli trattavano dell’uso della campana del Popolo, stabilendo comportamenti, obblighi e divieti per artisti, popolari, nobili e ghibellini quando questa suonasse ad sturmum vel ad martellum in tempore rumoris, cioè in occasione di tumulti, Quanto ponderate fossero queste rubriche, Poncello — stando a una cronaca cinquecentesca — lo dimostrò nel 1322 facendo suonare «a sturma» il #ntinnabolo del Popolo in un tentativo ardito di prendere il controllo della città con l'appoggio di una sezione del gruppo popolare. Altri tre articoli riguardavano l’araldica pubblica: il primo decretava che ciascuna Arte avesse «unum vexillum vel bendonem cum illis armis» scelte dal capitano e dai Sette; il secondo creava i quattro gonfalonieri del Popolo, ciascuno dotato di un vessillo «ad arma Populi, tantum cum lilio et rastrello»; il terzo, istituen-
do la figura del vessillifero di giustizia, ordinava che costui disponesse di un «vexillum cum infrascriptis armis desingnatis in eo, silicet cum leone coronato cum clavibus et cum spata et cum lilio et rastrello et armis Populi»®. Il giglio e il rastrello sono interpretabili come un capo d'Angiò, segno guelfo che nel 1273 Carlo d'Angiò avrebbe concesso di porre «sopra l’aquila, insigna de la ciptà de Orvieto, a perpetua memoria per la vittoria hauta contro i gibellini»®. Alcuni articoli confluirono — integri o emendati e con selezioni che tradiscono le muta-
te condizioni politiche — nella cosiddetta Carta di Poncello, riferibile al 1321, e nella redazione del 13249. La nomina di Poncello a capitano del Popolo fu confermata l’8 luglio. Egli sembra essere stato ancora in carica quando, nel 1317, lasciò Orvieto in circostanze poco chiare”. L’accumulo degli uffici di capitano della guerra e del Popolo, la loro irrituale reiterazione e le riforme introdotte indicano la coesione — almeno iniziale — tra le Arti e l’Orsini, che riuscì ad accreditarsi come loro
campione. A ben guardare, però, rivelano in trama il tentativo del nobile romano d’insignorirsi della città attraverso il capitanato, secondo uno schema attuato 60 Si tratta degli articoli 5, 6 (ASO, Rif. 84/II, c. 570), 8 (ivi, c. 58r), 15 (ivi, c. 580) e 19 (ivi, c. 5%). 6! M. MONALDESCHI DELLA CERVARA, Comentari historici, ed. an. Forni, Bologna 1984
(ed. or. 1584), pp. 80v-81r. E notevole il ruolo del vessillo della Giustizia in quei fatti. 6 ASO, Rif. 84/II, cc. 577, 58r. © Epbh. Urb. cit., I, p. 314, dove si parla di «rastro d’oro». 4“ Almeno le cc. 10r-22r: L. ANDREANI, Un frammento di statuto del Comune di Orvieto
(1313-1315). Note a margine, in Studi in memoria di Leopoldo Sandri («Bollettino dell’Istituto storico artistico orvietano», 42-43 [1986-1987, ma 1991]), pp. 123-172: 125-126. M.G. Nico OTTAVIANI, La legislazione statutaria di Orvieto, in Storia di Orvieto cit.., pp..3540: 37 mantiene la data 1315. © Edita in FuMI, Codice cit., con la data 1323 (p. 732, ma cfr. p. 815). V. PARDI, Serie
cit., p. 355.
° ASO, Rif. 84/III, cc. 55v-56r. Con entrata in vigore da ottobre. 9 Eph. Urb. cit., I, p. 181; WALEY, Orvieto cit., p. 137 e ss., 147, nota 31.
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in altre realtà coeve®8. Un disegno perseguito una seconda volta, ancora senza fortuna, tra il 1321 e il 1322, quando Poncello fu richiamato da un Popolo che
dopo la sua partenza aveva di nuovo subìto una restrizione degli spazi d’azione politica”. La campana del 1316 può essere considerata il manifesto di quel tentativo fallito. Se le parole e le immagini ne affermano l'appartenenza al Popolo — così come gli articoli della Carta in modo simmetrico e contrario dettano le regole dell’obbedienza del Popolo alla campana, fissando un vincolo reciproco idealmente esclusivo —, è altrettanto vero che l’arme e l’emblema famigliare — più visibili e “custodi” del sigillo popolare —, nonché il nome, rendono preminente la presenza dell’Orsini. Il messaggio che la campana divulgava è che il capitano, quel capitano, era guida e tutore — defensor, verrebbe da dire-con un termine e un ruolo che hanno fortuna in questi decenni — del Popolo rinato e tornato al potere, fatti di cui la campana stessa era incarnazione. L’eterogeneo linguaggio sul bronzo componeva una “ago agens” ideata sotto il diretto controllo di Poncello al fine di entrare nel vivo della realtà per plasmarla e promuovere la supremazia del nobile romano all’interno di un quadro istituzionale che formalmente manteneva l'impianto comunale. La forza del messaggio era potenziata dal supporto, quella campana con cui il Popolo s’identificava e al cui suono doveva reagire con pronta obbedienza. L'incidenza dell’esposizione pubblica di certe immagini, araldiche o meno, e la loro crescente pericolosità per il mantenimento dei regimi comunali sono illustrate da alcune provvisioni tra fine Duecento e primo Trecento. Due esempi pescando in aree limitrofe a Orvieto. Lo Statutum Pupuli di Amelia del 1330 vietava la raffigurazione di «aliqua arma» nei palazzi pubblici”. Ancor più interessante un precedente perugino. Nell’agosto del 1296 il Comune pagava due pittori per il ritratto del trascorso podestà «cum uno scuto ad arma ipsius». A nemmeno un anno di distanza, nel giugno del 1297, si prendeva una decisione di segno opposto, ordinando che i soprastanti del Palazzo del Popolo facessero distruggere la figura del passato capitano e tutti gli stemmi o le immagini di podestà e capitani nei palazzi del Comune e del Popolo”!. 68 WaLEY, Orvieto cit., p. 135 e ss.; F ALLEGREZZA, Organizzazione del potere e dinamiche familiari. Gli Orsini dal Duecento agli inizi del Quattrocento, Istituto storico italiano
per il Medioevo, Roma 1998, pp. 72-74. 9 WaLEY,
Orvieto cit., pp. 140-146.
MONALDESCHI
DELLA CERVARA,
Corzentari cit.,
p. 80v avrebbe raccontato che Poncello fu allora «confermato per tre anni contra il solito» e che ad alcuni Monaldeschi «non piaceva tanta grandezza». Ancora nel 1329 pare che l'Orsini s'intromettesse nelle faccende orvietane: Eph. Urb. cit., I, p. 426. 70 Amelia e i suoi statuti medievali, atti della giornata di studio (Amelia 2001), a cura di E. MENESTO, Fondazione Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 2004, p. 270.
71 SILVESTRELLI, L'edilizia cit., pp. 572, doc. 149, 578, doc. 165.
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5. «Ad arma consueta»? Il rinnovamento del sigillo del Popolo (e del Comune) Il 17 dicembre 1315 fu dunque deliberato di rifare il sigillo del Popolo. Sulla campana esso consiste in una croce che ha nel primo cantone lo stemma d’Angiò e nel secondo quello della Chiesa. Nel 1283 era invece costituito da una croce «cum quatuor stellis circumstantibus», probabilmente una per quarto; aveva inoltre la legenda «SIGILL. PPLI CIVITATIS URBEVETAN.»??, laddove sulla campana ha SIGILLUM PoPuLI civiraris URBIS VETERIS. Assodata quindi una modifica tra 1283 e 1316, è possibile che essa coincida con il rifacimento deciso nel 1315, nonostante la precisazione che questo dovesse essere «ad arma consueta»? I due stemmi sono un’aperta dichiarazione di guelfismo, un’evidenza che rende poco verosimile una datazione tra l’ultimo decennio del Duecento e il successivo, dato l’equilibrio tra guelfi e ghibellini in quella fase, e che depone a favore di una cronologia post agosto 1313. Considerando però la subalternità, o meglio, l'annullamento del Popolo durante il governo dei Cinque, è concreta la possibilità che la nuova versione “guelfa” del sigillo rimonti a quella stagione e a quella decisione. Il documento del 1283 appena evocato rileva anche il sigillo del Comune, che aveva una «figura cuiusdam Aquile stantis super sculptura cuiusdam palatii inter duas turres». La descrizione corrisponde in parte al bollo comunale allegato a una carta del 1257 e raffigurante «quodam sassum et quadam civitas super eo sita et quedam aquila alis extensis stans super dicta civitate»”. Decisiva la testimonianza sulla legenda, nel 1257 il piano «Sigillum Comunis Urbevetanorum», nel 1283 il più noto e vivace leonino «URBS VETUS INSIGNIS AQUILE FIT COGNITA SIGNIS»”4. È così parimenti accertata una variazione del sigillo comunale. Se i due descrittori furono scrupolosi, la modifica fu notevole anche nel campo figurato: entrambi i sigilli sono “topografici”, ma se la versione più antica ritraeva Orvieto, civitas super saxo, nel suo tratto più saliente, si direbbe che la
recenziore avesse un più generico edificio palaziale delimitato da due torri (una cinta muraria?)?,
7 D.M. MANNI, Osservazioni istoriche sopra 1 sigilli antichi, stamperia Manni, Firenze 1739-1786, XII, pp. 86-87. Il sigillo era in cera rossa. 3° FUMI, Codice cit., p. 210, doc. CCCXXXIV. Era in cera verde. 7. MANNI, Osservazioni cit., p. 87. Era in cera verde. V. anche G.B. CERVELLINI, I leonini
delle città italiane, in «Studi medievali», 6 (1933), pp. 239-270: 263-264 (con una confusione con l’insegna di Todi); G.C. Bascapè, M. WELBER, Sigi/lografia. Il sigillo nella diplomatica, nel diritto, nella storia, nell'arte, Giuffrè, Milano 1969-1984, I, pp. 183-244, speciatim 191, 192, 221; G. Bascapè, Sigilli umbri del Medioevo, in Storia e arte in Umbria nell'età comunale, atti del VI convegno di Studi umbri (Gubbio 1968), Centro di Studi umbri, Perugia 1971, I, pp. 225-237: 228-229. © Fumi, Codice cit., s.n.p. contiene in traduzione grafica il primo testimone visivo dei
sigilli del Comune e del Popolo (fig. 3). Mentre il secondo deriva, con qualche infedeltà,
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SIGILLO DEL COMUNE
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SIGILLO DEL POPOLO
Fig.3 Restituzione grafica dei sigilli del Comune e del Popolo di Orvieto, in FUMI, Codice diplomatico cit., s.n.p.
Aquila e croce avrebbero occupato due sezioni nell’arme inquartata di Orvieto, il cui più antico esempio da me rintracciato è uno stemma lapideo nel Palazzo del Comune che direi dell'ultimo quarto del secolo XV. Il terzo elemento, il leone coronato che tiene le chiavi e la spada, nel 1316 — lo si ricorderà — era l'emblema del vessillo del gonfaloniere di giustizia. La quarta insegna, l’oca, simboleggia la città umbra nel pavimento del duomo di Siena, del 1373 circa”, e, «salvaticha», è figura di Orvieto in un testo d’origine forse senese databile alla metà del Quattrocento”.
dalla campana del 1316, il primo sembra combinare le descrizioni duecentesche ed elementi d’invenzione. Tra i dati incongrui o dubbi segnalo le due porte nella muraglia, assenti nelle descrizioni, e la coesistenza del s4x77 col verso leonino.
76 Oggi sostituita da ùna copia; l'originale si conserva nel Museo dell’Opera. Per le immagini: M. CACIORGNA, R. GUERRINI, I/ pavimento del duomo di Siena. L'arte della tarsia marmorea dal XIV al XIX secolo. Fonti e simbologia, Silvana, Milano 2004, figg. 40, 42. © I sonetti del Burchiello, a cura di M. ZACCARELLO, Einaudi, Torino 2004, pp. XXVII-
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I MONTEFELTRO NELL'ARALDICA MONUMENTALE TRECENTESCA DI PISA Antonio Conti
La casata dei Montefeltro, nel suo ramo principale, fu per secoli campione del partito imperiale tra le Marche, la Romagna e la Toscana e intrecciò la sua storia con quella di Pisa, baluardo ghibellino in una regione dominata da Firenze, almeno in tre distinti momenti!. Dapprima con Guido (morto nel 1298) cui vennero conferiti poteri straordinari di governo quale podestà e capitano del Popolo e di guerra, tra il novembre 1289 e il maggio 1292. A lui seguì fino al maggio successivo con identici poteri il cugino Galasso da Montefeltro (morto nel 1300) e, quindi, nuovamente Guido fino al mese di novembre?. Poi fu la volta del conte Federico (morto nel 1322), figlio di Guido, che fu podestà e
capitano generale del Comune e del Popolo dal marzo 13107; nel gennaio 1312 risulta podestà e capitano suo figlio Guido che verosimilmente mantenne la carica fino a marzo', a ridosso dell’arrivo di Enrico VII. Giunto il sovrano,
le istituzioni comunali si posero sotto la sua autorità ed egli provvide poi a nominare vicari regi in luogo del podestà e del capitano del Popolo: prima un Ubaldini e poi il conte Federico da Montefeltro, che mantenne l’incarico per cinque mesi a partire dal gennaio 1313’. Infine Nolfo da Montefeltro fu comandante delle milizie pisane nella vittoriosa campagna condotta tra il 1341 e il 1342 contro Firenze®.
! A. POLONI, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche in un Comune italiano: il Popolo a Pisa (1220-1330), ETS, Pisa 2004, pp. 162-168. 2 Breve Vetus seu Chronica Antianorum Civitatis Pisarum, , ad annum; G. FRANCESCHINI, I Montefeltro, Dall’Olio, Milano 1970, pp. 124-139. » Breve Vetus cit., ad annura; sulla presenza di Federico a Pisa e al seguito dell’imperatore v. FRANCESCHINI, I Montefeltro cit., pp. 187-192. 4 Il Breve vetus non riporta questa magistratura, ma Franceschini la documenta citando una lettera di Enrico VII: FRANCESCHINI, I Montefeltro cit., pp. 188, 198-199, nota 10. 5 Breve Vetus cit., ad annum, riferisce dal gennaio 1313; cfr. FRANCESCHINI, I Montefeltro cit., p. 189, che riferisce dal novembre 1312. 6 Ivi, pp. 237-238.
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Queste presenze a Pisa hanno lasciato tracce nella storiografia civile e militare della città e segni dei Montefeltro, tuttora visibili, in alcuni monumenti dell’antica Repubblica. Un’autorevole fonte, Pierantonio Paltroni, segretario tra i più fidati della casa comitale, ne dà notizia nelle prime pagine della biografia del duca Federico da Montefeltro, celebre discendente del podestà di Pisa, morto nel 14827. Paltroni ricorda che il conte Guido signoreggiò anco Pisa; e dopo lui il conte Federigo suo figliolo, come appare per lettere scolpite in quella maravigliosa scultura marmorea del pergamo de la chiesa maggiore de Pisa dove, descrivendo ’l tempo nel quale fo fatto detto lavoro, dice: «Tam dominante Pisis concordibus atque divisis Comite tunc dicto Montis Feretri Federico». Et appare ancho la loro arma scolpita in quello bello Oratorio de Sancta Maria sopra Arno et cossì a quilli digni bagni marmorey de Monte Pisano infra Pisa et Lucca et altri digni edifici che loro feceno fare.
Le affermazioni del biografo urbinate sono di evidente interesse perché, se confermate, consentirebbero di aggiungere dati di conoscenza alla storia, ancora in parte oscura, dell’oratorio della Spina. Dovremo allora innanzitutto chiederci se il Paltroni sia attendibile e quali possano essere state le sue fonti. Pierantonio Paltroni entrò giovane, nel 1434, nei ranghi della segreteria di Guidantonio da Montefeltro (morto nel 1443), presso la quale aveva già servito suo padre Andrea. Attento osservatore delle vicende del duca Federico e suo primo biografo ufficiale, costituì la fonte prima di informazioni per la maggior parte dei biografi successivi del duca. Paltroni narra gli avvenimenti coevi con precisione, mentre nel tracciare un profilo storico della casata si limita a fornire poche informazioni, tra cui quelle relative appunto alle presenze dei Montefeltro a Pisa. Tramite Paltroni queste scarne informazioni si radicano nella storiografia montefeltresca, soprattutto a partire da Giovanni Santi che, nel suo poema sulla vita del duca Federico, scrive: [...] el conte Federico, che Pisa dominò, como al presente veder se po’ soprano nel suo vico, nell’oratorio de Sancta Maria, ma ancor più largamente io dico nella
meravigliosa, sacra e pia opera del pergul, dentro al Domo santo, della qual certo io non credo sia più diligentia chi cercasse quanto el mondo gira [....]?.
7 Sull’originalità e attendibilità di questa parte dei Commentari v. P. PALTRONI, Cowmentari della vita et gesti dell’illustrissimo Federico Duca d'Urbino, a cura di W. TommasoLI, Accademia Raffaello, Urbino 1966, pp. 28-35.
8 Ivi, b. 41.
? G. SANTI, La vita e le gesta di Federico da Montefeltro duca d'Urbino, a cura di L. MrCHELINI Tocci, I, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1985, p. 60.
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AI pari del Santi, più recentemente altri autori, tra cui Antonio Lazzari! e Gino Franceschini", hanno ripreso le notizie su Pisa divulgate da Paltroni, ma nessuno di loro ne ha mai verificato la fondatezza. Se l'autorevolezza di Paltroni è sostanzialmente indiscutibile per le notizie sulla vita del duca, che egli raccolse di prima mano, non abbiamo alcuna infor-
mazione sulla natura e l'attendibilità delle fonti relative alle più antiche e dettagliate notizie pisane. Potrebbero essere state parte della tradizione della casa comitale®, potrebbero essere giunte all'orecchio del Paltroni da chi frequentò Pisa!, oppure essere state riferite da qualche pisano presente a Urbino!“. Ciò premesso, si tratta di verificare quale riscontro hanno le notizie fornite dal Paltroni nei superstiti monumenti trecenteschi di Pisa e quale impatto possono avere sulla storiografia artistica della città. In mancanza di una specifica documentazione ci baseremo sull’analisi araldica dei documenti monumentali che, in alcuni casi, può risultare decisiva per giungere a risultati attendibili”. 1. Il pergamo del Duomo e 1 Bagni di Monte Pisano Paltroni riferisce innanzitutto del pergamo del Duomo, realizzato da Giovanni Pisano entro il 1310, e dell’iscrizione che lo corredava: «Iam dominante Pisis
concordibus atque divisis / Comite tunc dico Montis Feretri Federico»! Que19 G. CoLucci, Antichità picene, XXI, dai torchi dell’autore, Fermo 1794, pp. 43-44. !! FRANCESCHINI, I Montefeltro cit., p. 188.
!2 Il richiamo alle gesta di quegli antenati è costante nell’opera di Dante e in quella del Saviozzo, v. Le rime del Codice Isoldiano (Bologn. Univ. 1739), a cura di L. FRATI, Roma-
gnoli Dell'Acqua, Bologna 1913, pp. 78-79. !3 Ricordiamo che Rengarda Malatesti (morta nel 1423), moglie del conte Guidantonio da Montefeltro, si curò al Bagno ad Acqua nei pressi di Monte Pisano; v. U. DA MONTECATINI, Tractatus de balneis, L.S. Olschki Editore, Firenze 1950, pp. 44, 48. Lo stesso Guidantonio
fu a Pisa nel 1429, lì rifugiatosi dopo la sfortunata battaglia di Lucca, sicuramente accompagnato da qualche segretario, futuro collega del Paltroni (FRANCESCHINI, I Montefeltro cit., p.393); erano intimi della corte urbinate i Brancaleoni di Monte della Casa che diedero a Pisa podestà e capitani del Popolo tra il 1320 e il 1356, i quali, ricoprendo tale ruolo, ebbero occasione di occuparsi della chiesa di Santa Maria della Spina: v. A. TARDUCCI, Piobbico e i Brancaleoni, Tipografia Balloni, Cagli 1897, p. 209; P. TRONCI, Merzorie istoriche della città di Pisa, Gio. Vincenzo Bonfigli, Livorno 1682, pp. 309, 312, 314, 317, 329, 336, 342, 343, 349, 354, 366; L. TANFANI, Della Chiesa di Santa Maria del Ponte Nuovo detta della Spina e dialcuni Uffici della Repubblica Pisana, V, Tipografia Nistri, Pisa 1871, pp. 157, 165, doc. I.
4 Come Raniero Gualandi «pisani sed Urbini residentis», ospite alla corte urbinate, che donò un codice al conte Guidantonio, v. C. STORNAJOLO, Codices Urbinates Latini, I, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 1902, p. 435, cod. n. 434. 5 A. SAVORELLI, Piero della Francesca e l’ultima crociata. Araldica, storia e arte tra gotico e Rinascimento, Le Lettere, Firenze 1999, p. 26.
16 PALTRONI, Commentari cit., p. 41.
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sta scritta, come noto, è andata perdu-
ta in seguito allo smembramento del pergamo dopo l’incendio del Duomo del 1595 ed è stata successivamente ricostruita sulla base di trascrizioni!”. E comunque significativo notare come l’iscrizione restituita («Jam dominan-
te Pisis concordibus, atque divisis / Comite tunc dico Montisfeltri Frederico») sia sostanzialmente
concorde
con il testo riportato dal biografo che, pertanto, deve essere ricordato come la più antica fonte a menzionare esplicitamente l'iscrizione e a riportarne un brano, e non il Vasari come ritenu-
Fig. 1 Epigrafe commemorativa con stemmi di Pisa e dei Montefeltro, 1311. San Giuliano Terme (Pi), Bagni di Pisa Palace & Spa,
edificio Bagni di Levante.
to fino ad oggi"*. A proposito dei Bagni di Monte Pisano (oggi San Giuliano Terme)! Paltroni scrive poi che «appare ancho la loro arma scolpita [...] a quilli digni bagni marmorey de Monte Pisano infra Pisa et Lucca». Questa affermazione
trova riscontro in una lastra di marmo attualmente murata nella parete di una grande sala dei Bagni di Levante dello stabilimento termale (fig. 1)?!. La lastra contiene l’iscrizione commemorativa dei lavori di ristrutturazione dei bagni, terminati nel luglio 1311, quando era podestà e capitano di Pisa Federico da Montefeltro. Sopra l’iscrizione, entro una decora-
zione trecentesca a foglie d’acanto, sono collocati due scudi che portano, l’uno, a destra?, un’arma “piena” (cioè monocroma), l’altro, a sinistra, un'arma bandata.
7 R.P. NoveLo, Scheda 1251, in Il Duomo di Pisa, a cura di A. PERONI, I. Saggi e schede, Panini, Modena 1995, p. 506.
8 Ip., I/ pergamo di Giovanni Pisano, in Il Duomo di Pisa cit., pp. 230-231. Sul pulpito pisano v. anche ID., Giovanni Pisano. Il pergamo di Pisa, Panini, Modena 2006.
ne.
!° Ringrazio Fedora Durante, responsabile della locale biblioteca, per la collaborazio2 PALTRONI, Commentari cit., p. 41. La notizia, ripresa da Paltroni, è riportata anche
da Lazzari: COLUCCI, Antichità picene cit., pp. 43-44. ?! Ringrazio Thomas Parenti, amministratore delegato della Bagni di Pisa Palace & Spa Tuscany, per la cortese collaborazione. 2 Nella descrizione delle armi e dei contesti araldici useremo i termini sinistra e destra secondo la consuetudine araldica, per cui destra è la sinistra dell’osservatore e viceversa.
I MONTEFELTRO NELL'ARALDICA MONUMENTALE TRECENTESCA DI PISA
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Non sembrerebbe sussistere alcun dubbio sul fatto che lo stemma bandato sia l'emblema dei Montefeltro e che si tratti dell’arma scolpita di cui scrisse Paltroni. Tale concordanza non è stata tuttavia accolta da Ottavio Banti?. A suo avviso l’iscrizione sarebbe infatti una copia realizzata nella seconda metà del Quattrocento”* sulla base di frammenti originali malamente ricomposti o di una minuta imprecisa realizzata prima della distruzione dell’originale?”, come darebbero ad intendere le irregolarità epigrafiche da lui riscontrate sul manufatto. Se queste osservazioni di Banti di carattere epigrafico sembrano convincenti, assai meno appaiono le argomentazioni araldiche e le conclusioni che l’hanno portato ad attribuire i due stemmi alla famiglia pisana dei Gualandi. Scrive Banti: Ci aspetteremmo che essi dovessero portare le insegne del Comune di Pisa o del conte di Montefeltro; invece quello di sinistra appare vuoto e alla palpazione presenta una superficie levigata ma incurvata in modo irregolare quasi fosse scavata, mentre alla fotografia opportunamente trattata, sembra portare tre “sbarre”; l’altro scudo, di destra, porta tre “bande” [...] è invece l’insegna della nobile famiglia pisana dei Gualandi che ebbe estesi possessi in questa zona di Monte Pisano, detta appunto per ciò, nei documenti dell’epoca Mons Gualandorum. Anche l’altro scudo ora non più sicuramente leggibile, probabilmente portava lo stemma dei Gualandi, nell’altra versione, pure attestata nel secolo XVT?,
Chi riconobbe l’arma dei Montefeltro nello scudo bandato fu invece, intorno
alla metà del Settecento, Antonio Cocchi che nel trattato Bagni di Pisa scrisse: «il destro è vuoto, ed il sinistro ha tre sbarre o fasce oblique scendenti da destra a sinistra, che sono le vecchie insegne della Famiglia Feltrense [...]»??. La completa attribuzione araldica giunse poi dal Da Morrona che descrisse: «[...] due stemmi, uno con pisana superficie, e l’altro con fasce oblique, l'antica insegna
della famiglia feltrense»?8. Come si è visto, questa attribuzione non è stata accolta dal Banti che confuta apertamente la lettura del Cocchi, ribadendo l’identificazione dello stemma dei 3 O. BANTI, Due casi di iscrizioni noviciae riguardanti il restauro del Bagno del Monte
Pisano (1312), in In., Scritti di storia, diplomatica ed epigrafia, a cura di S.P.P. SCALFATI, Pacini Editore, Pisa 1995, pp. 243-267 (già in «Studi Medievali», s. 3, 26 [1985], pp. 343363). L’autore ha usato i termini di destra e sinistra secondo l’uso comune e non araldico.
24 Ivi, p. 260. 25 Ivi, pp. 250-251, 257.
“dv; p+249. x ? A. CoccHI, Der Bagni di Pisa, trattato, Stamperia imperiale, Firenze 1750, pp. 359360, nota 2. 28 A. DA MORRONA, Pisa illustrata nelle arti del disegno, Giovanni Marenigh, Livorno
1812? (ed. or. Pisa 1787-1793), II, p. 511.
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Gualandi in luogo di quello dei Montefeltro??. Tale interpretazione gli fu suggerita dal Dizionario storico-blasonico del di Crollalanza? che blasona l’arma dei Gualandi d’argento a tre bande di rosso; alias d’oro a tre bande di nero’'; e quella dei Montefeltro inquartato; nel primo e quarto quarto bandato d'oro e d'azzurro; nel secondo e terzo quarto d’oro, all'aquila di nero coronata del campo”. Occorre rilevare che Banti non tenne conto del fatto che la descrizione offerta dal Crollalanza riguardava l’arma usata dai Montefeltro solo nel Quattrocento inoltrato”, tra l’altro in una versione con i quarti invertiti esistente solo in rarissimi esemplari nel Palazzo ducale di Urbino. L'arma utilizzata dai Montefeltro nei primi anni del Trecento era invece costituita da un semplice bandato d’azzurro e d’oro?*. Dunque, al contrario di quanto sostenuto da Banti, il Cocchi e il Da Morrona non sbagliarono nell'individuare nello scudo bandato l’arma del conte di Urbino. Banti, non nascondendo un certo imbarazzo”, giustificava la presenza delle insegne dei Gualandi ipotizzando che questi fossero stati artefici del rifacimento della lapide — peraltro conservata fin dal XVI secolo nella chiesa di San Bartolomeo, di cui avevano il patronato — distrutta in pezzi, attribuendosi così «il merito della conservazione del documento in essa inciso»*. Come si è detto gli stemmi scolpiti nella lapide sono due e per Ottavio Banti lo stemma di destra sarebbe stato abraso per cancellare uno stemma sbarrato che lo studioso attribuisce sempre ai Gualandi”. La teoria di Banti rende oscura anche la ragione per cui la mano vandalica abbia cancellato con tanta cura l’arma sbarrata dei Gualandi e non abbia scalfito l’arma bandata posta a pochi centimetri sulla stessa lapide attribuita alle medesima famiglia. L'ipotesi della damnatio memoriae potrebbe spiegarsi solo se nello scudo apparentemente vuoto fosse stata rappresentata un’arma particolarmente invisa agli autori della cancellazione?8, ma allora l’arma avrebbe dovuto essere molto diversa e non direttamente riconducibile a quella rimasta intatta. Se lo scalpello censore fu fiorentino, l’arma cancellata poteva essere
2? BANTI, Due cast cit., p. 249. 30 Ivi, nota 13. 3! G.B. DI CROLLALANZA, Dizionario storico blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, estinte e fiorenti, I, Direzione del Giornale Araldico, Pisa 1886, pp. 505-506. ui lp 163;
? Sull’inquartamento dell’arma dei Montefeltro v. A. Conti, L'araldica nei sigilli di da Montefeltro, in «Nobiltà», 17 (2010), 98, pp. 439-452. ve dla 5 BANTI, Due casi cit., p. 249.
36 Ivi, p. 250. 3 Ivi, p. 249.
38. Forse i fiorentini nel 1405, oppure tra il 1494 e il 1509 (?).
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quella dell’aquila o meno probabilmente quella con la croce, insomma un’insegna pubblica pisana che avrebbe in realtà costituito, con quella del Montefeltro, una coppia istituzionale (Comune e magistrato supremo) frequente nelle opere pubbliche e attestata a Pisa almeno in un’altra occasione nella lapide per la costruzione del ponte sul fiume Cecina a opera del conte di Donoratico nel 1340”, Nel caso di Pisa, ricca di una pluralità di insegne, occorre determinare quale arma poteva costituire, con quella del magistrato, la coppia istituzionale. Dall’analisi autoptica degli stemmi emerge una identica e chiara differenza tra la parte centrale degli scudi, porosa, e quella laterale più levigata, segno che non vi furono abrasioni volontarie di partizioni, pezze o figure araldiche, quali la croce o l’aquila‘°. Lo stemma scolpito in posizione d’onore (privo di figure, pezze o partizioni) non è dunque il risultato di un’azione di damnatio memoriae, ma la «pisana superficie» evocata dal Da Morrona, cioè lo scudo di rosso pieno impiegato dal Comune di Pisa fino alla conquista fiorentina del 1406*!. In conclusione, è chiaro che gli stemmi rappresentati nel rilievo di San Giuliano non riproducono l’arme dei Gualandi, ma indubbiamente la coppia istituzionale Comune di Pisa in regime repubblicano (di rosso pieno) e supremo magistrato (Federico da Montefeltro, bandato d’azzurro e d’oro). Tali osservazioni non mettono in discussione la possibilità, indicata da Banti, che l’epigrafe attualmente visibile sia frutto di un rifacimento quattrocentesco. In questo caso, tuttavia, dobbiamo credere che tale rifacimento sia molto fedele all'originale perduto, se non nelle componenti epigrafiche, almeno in quelle araldiche. 2. Santa Maria della Spina La terza testimonianza di Paltroni relativa alle presenze araldiche montefeltresche a Pisa riguarda Santa Maria della Spina: «Et appare ancho la loro arma scolpita in quello bello Oratorio de Sancta Maria sopra Arno [...]»*. A Pisa, 3° TANFANI, Della Chiesa cit., p. 35. 4° Questo conferma, tra l’altro, che all’epoca nello stemma dei Montefeltro non era ancora comparsa l’aquila sulla prima banda d’oro; il primo caso noto è nel sigillo di Speranza (morto nel 1340 ca.), v. A. Muzzi, B. TomaseLLO, A. Tori, Sigilli nel Museo nazionale del Bargello. II. Sigilli privati, SPES, Firenze 1989, II, pp. 258-259. 4! Questo stemma non ebbe sempre fortuna nella pubblicistica araldica: non se ne parla in L. PASSERINI, Gli stemmi dei comuni toscani al 1860, a cura di G.P. PAGNINI, Edizioni Polistampa, Firenze 1991, pp. 50-52; e nemmeno in F. TRIBOLATI, Gli stemmi pisani, in «Giornale Araldico genealogico-diplomatico», 2 (1874), pp. 3-4, note 2-3. Ottiene final-
mente il giusto rilievo in L. BORGIA, Introduzione allo studio dell’araldica civica italiana con particolare riferimento alla Toscana, in PASSERINI, Gli stemmi cit., pp. 97-98, ove viene citato un precedente studio di Aldo Ziggioto. 42 PALTRONI, Commentari cit., p. 41.
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Fig. 2 Pisa, chiesa di Santa Maria della Spina.
nel Medioevo, sulle sponde del fiume c’erano tre chiese dedicate a Santa Maria: quella del Ponte a Mare o di Degazia (edificata nel 1332), quella del Ponte Vecchio (edificata nel 1322) e quella del Ponte Nuovo (la cui data di edificazione
non è documentata“, ma pare poter essere il 1230)#. Quest'ultima, dopo la definitiva distruzione del ponte, avvenuta nel XV secolo, mutò il nome in Santa Maria della Spina dalla reliquia che custodiva fin dal 1333“. È dunque alla chiesa di Santa Maria della Spina che dobbiamo rivolgerci alla ricerca di una conferma all’affermazione del Paltroni, perché questa era l’unica chiesa intitolata alla Vergine esistente già al tempo della presenza a Pisa dei Montefeltro, e in particolar modo di Federico, evocato nella citata interpretazione di Giovanni Santi‘ al passo del nostro biografo. La facciata meridionale della chiesa (fig. 2), che un tempo ne costituiva il
4 TANFANI, Della Chiesa cit., pp. 21-24.
4 Ivi, p. 67
4 DA MORRONA, Pisa illustrata cit., p. 310. #6 M. BURRESI, Santa Maria della Spina in Pisa, Silvana, Cinisello Balsamo 1990, p. 23. 4° SANTI, La vita cit., p. 60.
I MONTEFELTRO NELL'ARALDICA MONUMENTALE TRECENTESCA DI PISA
13.3
Fig. 3 Stemmi medievali. Pisa, chiesa di Santa Maria della Spina, lato meridionale.
fronte principale in forma di loggiato, è caratterizzata da quattro archi e termina sulla destra nella parte absidale, per lungo tempo ritenuta erroneamente la più antica**. Qui si trova la serie degli stemmi scolpiti che originariamente costituiva il principale elemento decorativo dell’oratorio*. Partendo da sinistra, sul pilastro d’angolo con l’attuale facciata d’ingresso, troviamo un primo scudo bandato di sette pezzi (fig. 3a), poi nell’ordine, negli specchi tra gli archi centrali: uno scudo pieno (fig. 3b), uno con un’aquila coronata (fig. 3c), un altro bandato di sette pezzi (fig. 3d) e, infine, una croce patente, ritrinciata e pomata non inserita in uno scudo (fig. 3e). A proposito dell’edificazione della chiesa, il Da Morrona riportava opinioni discordanti, che la attribuivano ora alle famiglie dei Gualandi e degli Upezzinghi, ora ai Gualandi che l’avrebbero fatta costruire nel 1230 e al Senato pisano”; tuttavia non trovò riscontri nei documenti consultati, rilevando, anzi, che la
chiesa era stata solo sotto il patronato del Senato e del Comune di Pisa”. Riguardo agli stemmi asseriva poi che: Dove poi ravvisò qualcuno le armi gentilizie delle prefate due famiglie, noi non osserviamo in tutta la fabbrica. I soli quattro scudi di marmo scompartiti sono nella facciata meridionale. Uno è privo d’ogni minimo segno; due tutti divisati sono da fasce oblique indicanti lo stemma de’ Gualandi, ed il quarto contiene in tutto il campo un’aquila colla testa coronata di bassorilievo. Questa è appunto l’Arme di Pisa, qual si riscontra nelle medaglie, e nei sigilli quivi apposta in virtù del riferito dominio”.
Dunque per lo storico pisano gli Upezzinghi non erano presenti col loro stemma, ma i Gualandi sì, «forse [...] per aver essi ceduto il terreno [...], e per aver
48 DA MORRONA, Pisa illustrata cit., p. 310. # La soprastante galleria degli apostoli è successiva, realizzata a partire dal 1333, v. BURRESI, Santa Maria cit., p. 28. 50 Da MORRONA, Pisa illustrata cit., p. 310.
31 Ivi, pp. 311-312.
32 Ivi, pp. 312-313.
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Fig. 4 E. VAN LINT, La chiesa di Santa Maria della Spina, ante 1871.
contribuito all’erezione della fabbrica». Un coinvolgimento peraltro citato «dubbiosamente, e indistintamente»? dagli autori delle cronache pisane. La disordinata e incompleta descrizione del Da Morrona non deve far sorgere dubbi riguardo all’originale disposizione degli stemmi. Le fotografie eseguite da Van Lint poco prima dello spostamento della chiesa nel 1871, dimostrano infatti che quel radicale intervento lasciò inalterato l’ordine degli scudi” (fig. 4). Un secolo dopo le vicende storiche della chiesa sono state ripercorse da Leopoldo Tanfani sulla base di nuove ricerche d’archivio. Egli ha chiarito che l’ampliamento deliberato nel 1322 non consistette nell’edificazione ex novo della navata (costituita dalla parte dove sono gli stemmi) ma nel suo ampliamento verso il fiume”. Riguardo ai Gualandi e al loro coinvolgimento nell’edificazione
I
pl.
4 Ivi, p. 312. ? Gran parte del rivestimento in marmo è frutto della sostituzione avvenuta in seguito
allo spostamento della chiesa nel 1871, v. D. AnpOLFI, Santa Maria della Spina, in «Archi-
tetture pisane», 10-11 (2006), p. 86. Le fotografie del Van Lint dimostrano che gli scudi sono stati rifatti con perizia. L'unico stemma originale rimasto sulla facciata è quello con l’aquila, che peraltro è piuttosto singolare per la dimensione minuta del capo e la posizione araldicamente inusuale degli artigli. 36 TANFANI, Della Chiesa cit., pp. 67-68.
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dell’oratorio, con o senza l’intervento del Comune, Tanfani rilevava che l’attribuzione dei cronisti in effetti era basata
soltanto nel vedersi apposte al lato meridionale del tempio le armi del Comune e di quella antichissima famiglia. Le copiose memorie di questo oratorio da noi raccolte, dimostrano peraltro come sarebbe stato più conforme al vero il dire che la fondazione di esso è dovuta unicamente al Comune pisano, imperocchè a lui soltanto ne appartenne sempre il patronato”.
Anche Tanfani riconosceva dunque le armi dei Gualandi e, confermando la lettura del Da Morrona, riteneva che fossero state apposte sul fronte della chiesa «forse [...] in memoria del suo ampliamento, che si estese [...] fino alla loggia appartenente ai medesimi». Tanfani ribadiva tuttavia l’assenza di qualsiasi col-
legamento con la proprietà e il patronato del ponte Nuovo che spettava, invece, a diverse nobili famiglie pisane, primi fra tutti iGualandi”. Recentemente Mariagiulia Burresi ha meglio precisato la questione dell’ampliamento verso il fiume, già rilevato da Tanfani9, e ha chiarito che la parte primitiva dell’edificio doveva consistere in un semplice loggiato, quello appunto ove compaiono gli stemmi. La sua interpretazione dell’insieme araldico riprendeva tuttavia l’ipotesi già scartata tanto dal Da Morrona che dal Tanfani, cioè quella della presenza degli «stemmi delle famiglie pisane patrone del ponte Nuovo»®, indicando tra queste i Gualandi e gli Upezzinghi. Dunque la storiografia di Pisa ignora totalmente la presenza montefeltresca ricordata dal Paltroni. Occorre rilevare che non sappiamo se le fonti pisane e quella urbinate facciano riferimento all'osservazione di scudi colorati o già ridotti alle sole pezze scolpite. Se il numero di queste ultime può non essere tassativamente indicativo, gli smalti lo sono, e la totale diversità tra quelli dei Gualandi e quelli dei Montefeltro non avrebbe consentito alcuna confusione. Per giustificare la discrepanza tra le fonti pisane e quella urbinate, potremmo immaginare che agli occhi degli antichi cronisti pisani gli scudi si presentassero colorati e con smalti dei Gualandi (rosso-bianco), mentre qualche tempo dopo, agli occhi della fonte urbinate si presentassero ormai solo con le bande inducendo nell’errore dell’attribuzione ai Montefeltro. Tuttavia, per le ragioni già evoca-
27 Ivi, pp. 70-71. 38 vi, pi 71ynota! Li 5 Ma anche ai Gaetani, Duodi, Galli, Lanfreducci, Bellomi, Bocci e Gusmari. Ivi,
pp:53,76-17
60 BURRESI, Santa Maria cit., pp. 23-24. ct. gl, pa22: € Ivi pe25.
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te dal Tanfani® e alla luce di una osservazione squisitamente araldica dell’opera, che illustreremo, dobbiamo guardare con favore alla notizia giunta da Urbino della effettiva presenza dello stemma dei Montefeltro. Un fatto, questo, che per la presenza di due stemmi con bande, non contraddice la vulgata pisana ma la integra offrendo un elemento in più alla conoscenza storica della chiesa. Avendo a mente l’arma dei conti di Urbino, saremmo portati a cercare uno stemma semplicemente bardato, cioè composto da sei bande come quello visto ai Bagni di San Giuliano, ma con tutta evidenza nessuno di quelli scolpiti nella chiesa può essere semplicemente detto handato nell'accezione tecnica del linguaggio araldico. Tuttavia nella rappresentazione pratica degli stemmi (teoricamente definiti e standardizzati, com’era verosimilmente, ma non sicuramente,
quello dei Montefeltro di quegli anni) si osservano non rare eccezioni, particolarità, imprecisioni ed errori, con i quali l’interprete deve fare i conti. Così anche il numero delle bande può non essere rappresentato correttamente, talvolta per ragioni di spazio, talaltra per semplice imperizia esecutiva o per l’impiego di un modello impreciso. Tenendo conto di queste considerazioni e vista la precisione fino a ora riscontrata nelle testimonianze del Paltroni, ipotizziamo che almeno uno degli scudi bandati (pur di sette pezzi) possa essere quello dei Montefeltro. Alcuni degli stemmi riprodotti sull’esterno della chiesa della Spina coincidono con quelli noti della storia pisana. Lo scudo privo di figure è l’arma di rosso pieno, stemma del Comune di Pisa; la croce fu dapprima arma del Popolo e poi stemma principale dell’intera città, in seguito alla conquista fiorentina del 1406; lo scudo con l’aquila, in posizione centrale, potrebbe essere l’arma della città (presente soprattutto nelle miniature, nei sigilli” e nelle monete®), della parte ghibellina alla quale Pisa aderiva’, ma anche lo stemma vero e proprio dell’Impero. In base alle ragioni espresse dal Da Morrona e dal Tanfani, oltre a quelle fin qui riportate, si può escludere che quest’ultimo stemma possa essere degli Upezzinghi, mentre sono invece chiaramente gentilizi i due stemmi bandati.
& Ivi, pp. 70-71. % SAVORELLI, Piero della Francesca cit., pp. 21-27. ® M. PASTOUREAU, Traité d’héraldique, Picard, Paris 2003 (ed. or. 1979), p. 172. 6 G. DaLLI REGOLI, Minzatura pisana del Trecento, Neri Pozza Editore, Vicenza 1963,
pp. 75-81, 132-133,
9 Per esempio v. TANFANI, Della Chiesa cit., pp. 30-31. % Sempre nei periodi repubblicani e anche sotto il dominio di Enrico VII, v. Corpus Nummorum Italicorum, 11 (1929), p. 305 e ss.
® Nel 1393, ai tempi di Iacopo D’Appiano venne dipinta un’aquila presso la porta di San Marco «quale si volgea verso Firenza con fuoco in bocca, in similitudine di parte
ghibellina con scripta che dicea O’ rimesse le penne!»: G. SERCAMBI, Le Croniche, a cura di S. BONGI, Istituto storico italiano per il Medioevo, Roma 1892, I, p. 254.
I MONTEFELTRO NELL’ARALDICA MONUMENTALE TRECENTESCA DI PISA
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A nostro giudizio laquila non è qui rappresentata quale arma di Pisa, come invece afferma il Da Morrona”, ma costituisce una sorta di perno ideologico e politico, forse anche istituzionale, ma certamente araldico, che va valutato alla
luce della contemporanea presenza dell'arma comunale collocata accanto, in seconda posizione; mentre sul fianco opposto, in terza posizione, è collocato uno stemma che, con ogni probabilità, è quello del supremo magistrato (terna istituzionale) che, stando a quanto dichiarato dal Paltroni, deve essere Federico
da Montefeltro (tav. 12.1). Con ciò viene precisata l'epoca e il contesto storicopolitico che ci porta a delineare tre scenari, tre possibili letture della decorazione araldica: — Vigente il regime repubblicano con un Montefeltro supremo magistrato (marzo 1311"!-marzo 1312): c) adesione politica alla causa di Enrico VII; b) Comune; d) podestà; a) capitano; e) Popolo (tav. 12.II). È vero che sia Federico che Guido suo figlio assunsero cumulativamente le cariche di podestà e capitano”; ma avrebbe senso rappresentare separatamente le due cariche nella serie araldica? Se sì, con questa disposizione concentrica? Crediamo di no. — Sempre vigente il regime repubblicano con un Montefeltro supremo magistrato (marzo 1311”-marzo 1312): c) adesione politica alla causa di Enrico VII; a) podestà; b) Comune; d) capitano; e) Popolo (tav. 12.II). Come nell’ipotesi
precedente le due cariche sono rappresentate separatamente, ma abbinate in coppia: l’una a destra e l’altra a sinistra; tuttavia, diversamente da quanto qui rappresentato, aveva usualmente la precedenza l’insegna dell’istituzione perciò posta a destra. — Vigente il dominio imperiale, con Federico vicario (29 giugno 1312-24 agosto 1313): c) L'autorità sovrana, l’imperatore; b) il Comune; d) il vicario dell’imperatore che si inseriva nel quadro istituzionale al posto del podestà e del capitano del Popolo”; e) l'emblema del Popolo aggiunto successivamente o a chiusura, ma estraneo alla terna; a) possibile arma dei Gualandi, collocata in margine, fuori contesto, forse in altro momento, comunque estraneo alla terna istituzionale (tav. 12.III).
7 DA MORRONA, Pisa illustrata cit., pp.312-313.
7! I Montefeltro erano in carica dal marzo 1310, ma fu nel marzo 1311 che i rappresentanti del Comune offrirono solennemente a Enrico la sottomissione della città e del distretto; v. POLONI, Trasformazioni cit., p. 230.
72 Dalla rono a Pisa ma sempre 3. Vale
fine del Duecento fino ai primi anni del Trecento solo quando i Montefeltro fula città ebbe contemporaneamente le cariche di Podestà e Capitano del popoli, assunte congiuntamente dal Montefeltro, Breve vetus cit., ad annum. quanto detto nella nota precedente.
«Vicarii gieneralis pis. com. et pop. pro d. imperatore», v. Breve vetus cit., ad annum.
140
ANTONIO CONTI
Siamo propensi ad avvalorare quest’ultima ipotesi, apparentemente la più coerente. Perciò, stando alla fonte urbinate la terna centrale fu evidentemente
realizzata in onore di Enrico VII, che fece di Pisa il centro dell’azione politica e militare anti-guelfa. Confrontando questa notizia con la rappresentazione araldica conservata presso i Bagni di Pisa”, la presenza dell’arma con l’aquila rappresenta, a nostro giudizio, il mutamento di regime verificatosi col dominio di Enrico VII e con la sottoposizione di tutti i poteri civici a quello imperiale. La presenza dello scudo dei Montefeltro, quale arma del magistrato in qualità di vicario imperiale, colloca l'esecuzione della decorazione araldica, non all’arrivo di Enrico nel marzo del 1312 (quando era podestà e capitano Simone di Giovanni da Spoleto)”, ma al suo ritorno in città dopo l’incoronazione a Roma, nel
gennaio del 1313, quando era vicario Federico di Montefeltro. Dunque l’edificio potrebbe davvero essere stato inserito nel programma di abbellimento della città che sappiamo essere stato approntato per ricevere l’imperatore appena incoronato”.
Altre rappresentazioni araldiche pisane trecentesche confermano l’importanza e la costanza dell’ordine di disposizione gerarchica delle armi, a conferma della nostra ipotesi: la lapide dei Bagni di Pisa (armi Comune-Magistrato, 1312), quella del ponte sul fiume Cecina (armi Comune-Donoratico, 1340)?8 e gli stemmi sulle torri a Cagliari, dove l’arma piena di Pisa è preminente e centrale: sotto di essa è posta infatti quella del Comune di Castel di Castro, a sua volta affiancata, in posizione leggermente più bassa, dagli stemmi dei due castellani nominati dalla città dominante (1305-1309)??. Se l’originale rappresentazione araldica comprendeva solo la terna centrale, che ruolo avevano allora le due insegne estreme, lo scudo bandato a destra e la croce pisana a sinistra? L'inserimento di questi due stemmi risulta anomalo: lo scudo è di dimensioni ridotte e la croce non è posta in uno scudo. La ridotta disponibilità di spazio nell’organizzazione architettonica della facciata può for-
? Dove Pisa è sì qualificata città regia, ma non era ancora sottoposta al diretto dominio di Enrico VII. 7 [ra 7 «Quantunque i pisani fossero involti in gran pensieri, non di meno adornarono la lor città a migliore forma», così il Roncioni sull’arrivo di Enrico a Pisa come re dei Romani nel marzo 1312, v. R. RONCIONI, Delle istorie pisane, a cura di F. BONAINI, in «Archivio Storico
Italiano», 6 (1844), p. 673. Ricordiamo che il Comune aveva il patronato della chiesa, v. TANFANI, Della Chiesa cit., pp. 70-71. 78 TANFANI, Della Chiesa cit., p. 35. ? La torre di San Pancrazio oltre a una lapide per l’inizio dei lavori (1305) ha due ordini di stemmi indicanti la prosecuzione della costruzione nei due anni successivi. La torre dell'Elefante (iniziata nel 1306) ha invece ben quattro ordini di stemmi, .
I MONTEFELTRO NELL'ARALDICA MONUMENTALE TRECENTESCA DI PISA
141
se, ma non necessariamente, giustificare queste anomalie che possono essere
indizio dell’estraneità dal contesto araldico e storico della terna centrale. Potrebbero essere un’aggiunta posteriore. Così lo stemma di sette bande potrebbe essere quello dei Gualandi, certamente estraneo alla terna istituzionale. Se le considerazioni del Da Morrona e del Tanfani sono esatte e l'apposizione dell’arma dei Gualandi derivò dall’ampliamento deliberato nel 1322, lo stemma potrebbe essere stato collocato in quell'epoca (in pratica intorno al 1330)%, quindi diversi anni dopo la realizzazione della terna istituzionale. Per aver fornito il marmo necessario per la facciata della chiesa di Santa Caterina d'Alessandria i Gualandi ottennero il privilegio di inserirvi un’iscrizione8!, se come sostenuto dalle fonti pisane essi contribuirono all'ampliamento dell’oratorio della Spina potrebbero aver ottenuto un privilegio simile, di natura araldica, ma per l’appunto estraneo alla terna istituzionale e marginalmente collocato. Ma allora, perché non collocare l’arma dei nobili pisani sulla facciata occidentale ampliata? Forse semplicemente perché quella meridionale era la facciata monumentalizzata dell’edificio. Risulterebbero così coniugate le fonti pisane (Gualandi) con quella urbinate (Montefeltro), che del resto non sono tra loro alternative vista la presenza di due scudi con bande. Resta infine la croce pisana, ancor più anomala per essere in campo libero accanto a una serie di scudi. Questo emblema acquistò la preminenza sugli altri stemmi pubblici pisani dopo il 1406, ma era certamente usato ben prima di allora in contesti analoghi, cioè pubblici e ufficiali, come attesta la lapide a Pontedera del 1345*, Allora, se non era già presente come decorazione araldica, potrebbe essere stata aggiunta successivamente in occasione dei molti lavori di ampliamento o di radicale ristrutturazione o manutenzione compiuti pressoché costantemente dalla metà del Quattrocento fino a tutto il Seicento, anche con la
sostituzione di marmi”. In conclusione, ci pare di poter confermare, pur come ipotesi, che la testimonianza di Pierantonio Paltroni sia veritiera e che questa possa aggiungere un
dato in più alla storia dell’edificio e costituire la base per ulteriori indagini.
80 TANFANI, Della Chiesa cit., pp. 69-70. 8! TRONCI, Merzorie cit., p. 183. 82 V. FAVINI, A. SAVORELLI, Segni di Toscana. Identità e territorio attraverso l’araldica dei comuni: storia e invenzione grafica (secoli XIII-XVII), Le Lettere, Firenze 2006, tav. XIV.1.
8 TANFANI, Della Chiesa cit., pp. 83-98.
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LA SANT'ORSOLA CHE SALVA PISA DALLE ACQUE E ALTRI DIPINTI DEL TRECENTO PISANO Vittoria Camelliti
In questo saggio prenderò in esame quattro dipinti del tardo Trecento pisano molto diversi per tipologia e funzione ma tutti contraddistinti dalla presenza di stemmi il cui riconoscimento, congiuntamente all’analisi delle fonti e alla ricerca
d’archivio, si è rivelato determinante per ricostruirne il contesto di committenza. La prima opera in oggetto, che ha goduto di un rinnovato interesse critico negli ultimi anni, è una tavola di grande formato conservata nel Museo di San Matteo a Pisa, nota come Sant'Orsola che salva Pisa dalle acque! (tav. 13). Il dipinto è descritto da Vasari nella chiesa di San Paolo a Ripa d'Arno presso quello che lui stesso chiama «l’altare di Sant'Orsola». Nelle Vite l’opera è attribuita a Bruno di Giovanni, collaboratore di Buffalmacco, ed è citata come
esempio della gofferia, tipica degli uomini «sciocchi» di quel tempo, di fare uscire di bocca alle figure delle parole, scritte in lunghi cartigli?. Questa testimo-
* Desidero ringraziare gli amici e i colleghi che mi hanno aiutata con suggerimenti e consigli, in particolare Marco Collareta, Gigetta Dalli Regoli, Mauro Ronzani e Alessandro
Savorelli che hanno condiviso con me l’entusiasmo della ricerca e dai quali ho ricevuto generose indicazioni. Ringrazio inoltre la SBAPSAE di Pisa e Livorno, l’Ufficio per i Beni Culturali della Diocesi di Pisa e la Scuola Normale Superiore: in particolare Alba Maria Macripo’, Francesca Barsotti, Massimo Ferretti, Giandonato Tartarelli, oltre che Claudio
Barandoni, la ditta Arterestauro e la ditta Gaglio, che hanno eseguito preliminari indagini diagnostiche non invasive sul dipinto di Turino Vanni già in San Paolo a Ripa d’Arno a Pisa, attualmente chiusa per restauri. Ringrazio inoltre Antonino Caleca, Margherita Bay e Pierluigi Nieri per la disponibilità a discutere del dipinto della Sant'Orsola nel Museo di San Matteo; Maria Chiara Favilla della Fondazione Palazzo Blu di Pisa e Linda Pisani per le indicazioni riguardanti il Polittico di Agnano. ! Le riflessioni che seguono, pertinenti al dipinto della Sant'Orsola vengono pubblicate in questa sede con alcune precisazioni e aggiornamenti critici rispetto a quanto da me già
scritto nel saggio Devozione e conservazione. Culto dei santi e identità civica a Pisa in Municipalia. Storia della tutela, 1, Patrimonio artistico e identità cittadina: Pisa e Forlì (secc. XIVXVIII), a cura di D. La Monica, F. RizzoLI, ETS, Pisa 2012, pp. 39-58: 50-54.
2 G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, a cura di R. BETTARINI, P. BAROCCHI, II, Sansoni, Firenze 1967, p. 171.
144
VITTORIA CAMELLITI
nianza è senza dubbio preziosa poiché, al di là delle ragioni per le quali il dipinto viene ricordato, ci informa per la prima volta della sua esistenza, a distanza di circa due secoli dalla sua realizzazione?. Non si conosce però niente circa la collocazione originaria né le ragioni che portarono alla realizzazione di questo pannello, che si distingue senz'altro per il formato oltre che per le considerevoli dimensioni (3,58x1,88 m)*.
Il dipinto rappresenta Pisa, che ha qui le sembianze di una giovane donna coronata, la quale tende entrambe le mani verso sant’Orsola che la afferra per un braccio salvandola dalle acque. Sia Pisa che la santa hanno le vesti trapunte di aquile imperiali: quelle della personificazione della città di Pisa sono dipinte di nero, mentre quelle visibili sul manto della sant'Orsola sono punzonate direttamente sul fondo oro. Nell’afferrare Pisa la santa si sporge sulla riva appoggiandosi all’asta su cui veleggia lo stendardo del Popolo pisano (croce bianca su fondo rosso, visibilmente ridipinto) che è qui suo attributo insieme con lo strumento del martirio, una freccia con la punta rivolta verso il basso. In alto, nell’angolo a sinistra, è rappresentato
} Per la storia della chiesa e del monastero di San Paolo, v. F. PALIAGA, S. RENZONI,
con la collaborazione di F. BARSOTTI, Chiese di Pisa: guida alla conoscenza del patrimonio artistico, ETS, Pisa 2005, pp. 29-31. La tavola con la sant’Orsola viene citata in seguito da E BALDINUCCI, Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua, a cura di F. RANALLI, I, SPES, Firenze 1975, p. 197, che si limita a commentare la descrizione del Vasari senza
fornire precisazioni sulla sua collocazione. A. DA MORRONA, Pisa illustrata nelle arti del disegno, I, Francesco Pieraccini, Pisa 1787, p. 302 informa che ai suoi tempi la stessa non
si trovava più all’interno della chiesa. La tavola è documentata in seguito nella casa di commenda Pesciolini Veronesi e nella casa contigua alla canonica di San Paolo a Ripa d’Arno. 4 V. scheda OA, Soprintendenza di Pisa n. 09/00423160. La tavola è stata variamente attribuita a un artista vicino a Turino Vanni (O. SIRÉN, Maestri primitivi. Antichi dipinti nel Museo civico di Pisa, in «Rassegna d'Arte», 14 [1914], p. 225; R. VAN MARLE, The
development of the Italian School Painting, V, Nijhoff, The Hague, 1925, pp. 240-243), Andrea Vanni o Bartolo di Fredi (E. LAVAGNINO, Pittori pisani del XIV secolo, in «L'Arte»,
33 [1923], p. 72) quindi a un anonimo artista della seconda metà del Trecento (G. VIGNI, Pittura del Due e Trecento nel Museo di Pisa, Palumbo, Palermo 1950, pp. 100-201, nota
88). Il pittore è stato anche identificato con il “Maestro dell’Uriversitas Aurificum” (E. CARLI, Pittura pisana del Trecento, II, Martello, Milano 1961, pp. 72-73) e in seguito nominato come Maestro della sant’Orsola (E. CARLI, Il museo di Pisa, Cassa di Risparmio di
Pisa, Pisa 1974, pp. 82-83, nota 80; Ip., La pittura a Pisa dalle origini alla “bella maniera”, Pacini, Ospedaletto-Pisa 1994, pp. 101-102, tav. XXI). Per una datazione entro la prima metà del Trecento v.: A. CALECA, Introduzione, in Una guida d'eccezione. Vasari al Museo Nazionale di San Matteo, Pacini, Pisa 2011. Nello stesso fasc. la scheda di C. Bay, Bruno di Giovanni (?). Sant'Orsola salva Pisa dalle acque, s.n.p.; A. CALECA, Museo di San Matteo, dattiloscritto, Biblioteca della Soprintendenza di Pisa, 1978, p. 23; A.A. BELLINI PIETRI,
Catalogo del Museo Civico di Pisa, Tipografia Municipale, Pisa 1906, pp. 89-91, nota 39; B. POLLONI, Catalogo delle opere di pittura, modelli in gesso e altri oggetti riuniti nell'L. e R. Accademia di Belle Arti di Pisa, Tipografia Pieraccini, Pisa 1837, p. 35.
LA SANT'ORSOLA CHE SALVA PISA DALLE ACQUE
145
l’Eterno, colto nell’atto di stendere il braccio destro verso la santa: da que-
sto parte un fascio di raggi luminosi: un dettaglio che permette di interpretare l’intervento di sant'Orsola in favore di Pisa come esito di una precisa volontà divina. Il racconto è peraltro introdotto dalla figura di un angelo, rappresentato
a mezzo busto fuori da una nuvola, con il dito indice della mano sinistra teso
a indicare quanto sta accadendo; questi tiene un cartiglio con una iscrizione, oggi pressoché illeggibile e in parte ridipinta, «[APp]AruI[T] [oMNIB]us [VIDE]
NTI[Bus] NOM[EN] /... [ru]um ET LIB[ERAV]IT EO[S]», a cui corrisponde la fram-
mentaria frase di ringraziamento «MISERICORDIAM FECIT D(0M1)N(U)s C[UM] SERVA SUA / LAUDABO IPSUM IN ETE[RNU]M»”, che si legge invece ancora sul cartiglio riferito alla figura di Pisa. Assistono alla scena dieci sante coronate, ciascuna
qualificata dalla palma del martirio, in rappresentanza delle vergini della Passio. E opinione condivisa che l’opera sia stata commissionata a titolo di ringraziamento per lo scampato pericolo da un’alluvione dell'Arno, presumibilmente occorsa nel giorno in cui si festeggiava sant’Orsola, alla quale sarebbero stati così attribuiti i meriti dell’azione protettiva sulla città. Questa ipotesi, sostenuta ancora in tempi recenti’, appare tuttavia poco convincente. Si deve intanto
osservare che le immagini realizzate in occasione di calamità naturali (alluvioni, terremoti, pestilenze) prevedono di solito la rappresentazione della Vergine o di santi “specializzati”. È questo il caso di san Floriano di Lorch, venerato in alcune regioni italiane contro gli incendi o le inondazioni’; o di santi taumaturghi come Rocco, Sebastiano o Nicola da Tolentino invocati generalmente contro le pestilenze: si guardi, per citare proprio un esempio pisano, al dipinto ancora oggi conservato nella chiesa di San Nicola da Bari raffigurante, per l'appunto, san Nicola da Tolentino in veste di protettore di Pisa contro la peste. La celebrazione civica di santi diversi, che non appartengono al santorale cittadino, è invece solitamente legata ad avvenimenti di carattere politico: si pensi, per fare esempi toscani, al caso emblematico di sant’ Anna a Firenze, nominata tra
i santi patroni della città a seguito della cacciata del Duca d’Atene, avvenuta il 26 luglio del 1346, giorno in cui ricorreva la sua festa nel calendario liturgico; o al caso, del tutto particolare, di san Dionigi, festeggiato dai fiorentini come protettore nella ricorrenza del giorno della presa di Pisa (anche giorno della sua festa) il 9 ottobre 1406°.
5 CARLI, I/ museo di Pisa cit., p. 82. 6 CALECA, Introduzione cit.; Bay, Bruno di Giovanni cit. 7 V. CAMELLITI, I/ santo patrono e la città. Petronio e Floriano: due mostre, due modelli di santità, in «Sanctorum», 5 (2008), pp. 200-209. 8 CAMELLITI, Devozione e conservazione cit., pp. 35-58. ? M. FERRARI, scheda 48 (Andrea di Cione, Sant'Anna e la cacciata del Duca d’Atene), in Dal Giglio al David. Arte civica a Firenze fra Medioevo e Rinascimento, catalogo della
146
VITTORIA CAMELLITI
La Sant'Orsola del Museo di San Matteo si presta pertanto a un’interpretazione alternativa rispetto a quella tradizionalmente accettata; anche perché sembra difficile credere che i pisani abbiano commissionato un dipinto di questo tipo per onorare la santa festeggiata nel giorno di un’alluvione: un evento disastroso che, proprio perché ricordato dalle fonti, avrà avuto in ogni caso effetti negativi sulla città. A ben vedere le cronache di fine Trecento ricordano il giorno di sant’Orsola con riferimento a un avvenimento del tutto diverso: il 21 ottobre 1393 (stile pisano), proprio il giorno della festa della santa, Pisa fu teatro di un sanguinoso scontro tra fazioni che portò alla caduta del capitano pisano filofiorentino Pietro Gambacorta. Questi fu ucciso da Iacopo d’Appiano, membro di una ricca famiglia pisana di notai, nonché già Cancelliere degli Anziani durante il ventennio di dominio del Gambacorta!°. L’avvenimento è ricordato dal contemporaneo Ranieri Sardo il quale annota il giorno dell’accaduto, lunedì «dì di sancta Orsola»!!. La stessa notizia si legge anche nella cronaca conservata in un codice dell’Archivio di Stato di Pisa (ms. Roncioni 338), dove troviamo registrati sinteticamente gli estremi cronologici del governo di ser Jacopo sulla città: «e fue a dì 21 d'Ottobre lo dì della festa di santa Orsula 1393 [stile pisano] e visse sino a dì 4 di Settembre Anni Domini 1399 e durò lo suo Capitanatico e reggimento anni cinque e mesi 11 e dì 13»'°2. In una terza cronaca (ms. Roncioni 52, c. 2337), tramandata da un
codice della Biblioteca Universitaria di Pisa, il racconto si interrompe bruscamente, non prima però che l’anonimo redattore riesca ad annotare l’anno, il giorno e addirittura lora dell’accaduto: «In mille 1393 del mese d’Octobre addì 21 lo dì di sancta Ursula fue grandissimo romore in Pisa passato nona». Quanto detto fino a ora permette di interpretare il dipinto raffigurante Sant'Orsola che salva Pisa in chiave politica: l’opera potrebbe verosimilmente essere stata concepita con lo scopo di celebrare la santa che, festeggiata proprio in quel lunedì sanguinoso d’ottobre, sarebbe stata eletta a ideale protettrice di Iacopo d’Appiano, nominato non a caso pochi giorni dopo «capitano et difen-
mostra (Firenze 2013), a cura di M.M. Donato, D. PARENTI, Giunti, Firenze 2013, pp. 212ZIE
1 Si rimanda a O. BANTI, Iacopo d’Appiano e le origini della sua signoria in Pisa, Giardini, Pisa 1953, pp. 148-158. V. anche R. RoncionI, Delle famiglie pisane supplite ed annotate da F. Bonaini, Vallerini, Pisa 1975 (ed. or. 1844), pp. 847-848. !! R. SARDO, Cronaca di Pisa, a cura di O. BANTI, Istituto storico italiano per il Medioevo; Roma 1963, p. 252.
2 Cronica di Pisa. Dal ms. Roncioni 338 dell'Archivio di Stato di Pisa: edizione e commento, a cura di C. IANNELLA, Istituto storico italiano per il Medioevo, Roma 2005, p351. L'avvenimento è ricordato anche in G. SERCAMBI, Le Croniche, I, a cura di S. BonGI, Giusti,
Lueca.1892; pp: 291-292, COGLVI-CECCLIX. La parte finale della cronaca è edita in P. Silva, Questioni e ricerche di cronistica pisana, in «Archivio Muratoriano», 13 (1913), pp. 3-67: 32-37.
LA SANT'ORSOLA CHE SALVA PISA DALLE ACQUE
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sore del Comune e del populo di Pisa» al posto del Gambacorta. L'immagine avrebbe quindi una funzione propagandistica del nuovo “signore” della città, che da poco si era imposto sulla scena politica cittadina come rappresentante nonché garante della parte ghibellina, riscuotendo ampi consensi. La scelta di costruire una scena tanto sofisticata potrebbe poi trovare un riferimento letterario, come mi ha suggerito Marco Collareta, ovvero rispondere polemicamente ai famosi versi danteschi in cui il poeta fiorentino immagina che la Capraia e la Gorgona possano muoversi e far «siepe ad Arno in su la foce» in modo tale da sommergere la città!*. E, in effetti, idue speroni di roccia che si fronteggiano sbarrando i flutti dai quali è tratta in salvo la giovane donna, che impersona allegoricamente Pisa, potrebbero richiamare verosimilmente le due isole dell'arcipelago toscano. Escluderei in ogni caso che questo tableau, paragonabile per formato e dimensione a una parete affrescata, fosse in origine destinato all’altare di una chiesa quanto, piuttosto, a un ambiente di rappresentanza del potere comunale, forse all’interno di un edificio civico. Una conferma riguardo alla committenza del dipinto è fornita dal riconoscimento degli otto stemmi che decorano la cornice della tavola: uno dei rari esempi di cornice trecentesca di grande formato ancora oggi esistenti!. Di questi resta, in discrete condizioni, lo stemma mediano del lato superiore contenente l’aquila ghibellina, al quale corrisponde in basso, al centro del lato inferiore, uno stemma vuoto. Pressoché illeggibili gli stemmi collocati negli angoli in basso, così come l’ultimo in alto a destra. Più interessante ai fini di una ricerca araldica, per quanto eroso nella parte superiore, risulta lo stemma collocato nell’angolo in alto a sinistra, partito in due campi: l’uno dipinto interamente di rosso (il colore dell’arme della Repubblica pisana), l’altro a losanghe rosse, significativamente l’arme della famiglia pisana dei D’Appiano! (fig. 1). Gli stemmi mediani (su entrambi i lati della cornice) si presentano anche questi partiti, ma resta leggibile solo il cam-
14 DANTE, Inf, XXXIII, 79-84.
15 Si rimanda al fascicolo pertinente al restauro del dipinto, conservato presso l'Ufficio Catalogo della Soprintendenza di Pisa, Sezione Museo di San Matteo (Sant'Orsola che salva Pisa dalle acque). Tra 1961-1962 è documentato il «restauro pittorico del disegno geometrico sul bordo del quadro»; un secondo intervento (1985-1989) ha previsto la rimozione, il restauro e la ricollocazione della cornice originaria. Non ci sono dunque elementi utili per sostenere che la cornice non fosse fin dal principio destinata a questo dipinto: su quest’ultima ipotesi vedi BAY, Bruno di Giovanni cit.
!6 Un riscontro coevo nel manoscritto lucchese delle Cronache di Giovanni Sercambi:
Le illustrazioni delle Cronithe nel codice lucchese, a cura di O. BANTI, M.L. TESTI CRISTIANI,
Basile, Genova 1978. Sull’araldica degli Appiano v. anche L. BORGIA, Signori, Principi, Insegne Araldiche, in Il Potere e la Memoria. Piombino stato e città nell'età moderna, catalogo della mostra (Piombino 1995), a cura della Sovrintendenza archivistica per la Toscana, Edifir, Firenze 1995, pp. 23-47: 24.
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VITTORIA CAMELLITI
po sinistro interamente rosso, insieme
con una parte del campo destro, coronato da un capo con la croce pisana bianca su fondo rosso scuro (l’arme del Popolo pisano). In entrambi gli stemmi citati il campo destro risulta invece eroso, forse intenzionalmente.
È plausibile pensare, anche sulla base di ciò che resta visibile, che tutti i sei
stemmi laterali presentassero in origine la stessa combinazione araldica, con il vessillo rosso della Repubblica, quello crociato del Popolo e l’arme del Fig. 1 ANONIMO, Sant'Orsola che salva Pisa dalle acque, dettaglio dello stemma in alto a sinistra della cornice. Pisa, Museo Nazio-
nale di San Matteo.
neoeletto capitano e presunto commit-
tente, Iacopo d’Appiano (fig. 2). La datazione del dipinto della “Sant'Orsola” al tardo Trecento è sostenibile anche sulla base del confronto con altre opere pisane dello stesso periodo, quanto meno sul piano dei materiali e delle tecniche. Vale la pena di segnalare, ad esempio, il motivo della punzonatura delle aureole delle giovani
Vergini
che accompagnano
sant’ Orsola — un fiore inquadrato da quattro pallini — che si ritrova, pressoché identico, in un polittico di ambito di Turino Vanni o in un altro di Martino di Bartolomeo, entrambi al Museo
no a destra della cornice. Pisa, Museo Na-
di San Matteo (inv. 1639 e 4898). Si deve poi osservare che il motivo punzonato delle aquile di cui è trapunto il mantello della sant’Orsola si ritrova
zionale di San Matteo.
anche nella tavola firmata dal Gera,
Fig. 2 ANONIMO, Sant'Orsola che salva Pisa dalle acque, dettaglio dello stemma media-
raffigurante la Madonna con Bambino e le sante Maria Maddalena e Margherita, anch’essa al Museo di San Matteo (inv. 1610); quello delle aquile dipinte, che adorna la veste di Pisa, ricorre inve-
ce nel mantello di san Girolamo nel Polittico di Agnano, della Collezione della Cassa di Risparmio di Pisa, di cui avrò modo di parlare più avanti. Anche la stella a otto punte che si ripete serialmente nei diversi listelli che compongono la cornice si rintraccia con intento decorativo all’interno di dipinti
LA SANT'ORSOLA CHE SALVA PISA DALLE ACQUE
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pisani dello stesso periodo, tra cui ad esempio la tavola raffigurante la Madonna con Bambino, San Francesco e Sant'Antonio Abate del Museo di San Matteo, di mano dello stesso Gera (inv. 1607).
E di nuovo grazie alla presenza di uno stemma che possiamo ipotizzare la committenza civica di un secondo dipinto, eseguito a distanza di pochi anni dalla Sant'Orsola, nel maggio del 1397 (stile pisano), quando Iacopo d’Appiano era ancora capitano del Popolo. Si tratta della tavola d’altare firmata da Turino Vanni oggi priva della cornice originaria e custodita nella chiesa vallombrosana
di San Paolo a Ripa d’Arno, la stessa dove il Vasari vide la Sant'Orsola. Le testimonianze pertinenti a quest'opera sono però più tarde: non abbiamo infatti alcuna notizia del dipinto fino alla fine del Settecento, quando il Da Morrona, che lo vede già in San Paolo, ne ricorda la provenienza dalla soppressa chiesa di San Cassiano che sorgeva poco distante, dove oggi si trova lo slargo di Ponte Solferino dalla parte di mezzogiorno!”. Il dipinto rappresenta la Madonna col Bambino, i santi Ranieri, Torpé e altre due beate inginocchiate ai lati, identificate tradizionalmente come Bona (coronata di edera e recante il bastone del pellegrino) e Gherardesca (coronata di rose e recante invece un flabello). I due patroni principali, Ranieri e Torpé, impugnano entrambi un vessillo: Ranieri quello rosso con la croce bianca del Popolo; Torpé quello rosso della Repubblica. Le due insegne sono ripetute, alternate, nei campi dello stemma quadripartito che si vede in basso e su cui è possibile fare alcune osservazioni: colpisce infatti che non sia stato dipinto al centro della tavola, in posizione mediana tra le due beate; e c'è da chiedersi
quale sia la funzione del cespo erbaceo che lo affianca e che, per dimensioni e andamento, sembra ricordare il profilo di un secondo stemma. Viene pertanto il sospetto che in origine gli stemmi fossero due e che questo motivo erboso dai contorni tanto definiti possa essere un’integrazione successiva, finalizzata a cancellare il presunto secondo stemma. Un disegno di Giovan Battista Cavalcaselle, custodito presso la Biblioteca Marciana di Venezia, permette di verificare come alla fine dell Ottocento il dipinto si presentasse nella forma attuale (fig. 3)': troviamo infatti il solo stemma quadripartito collocato, come si vede oggi, in posizione eccentrica. Se davvero, dunque, l’opera ha subito sostanziali rimaneggiamenti, ciò è avvenuto sicuramente prima di questa data. Difficile tuttavia stabilire con certezza quando e perché ciò ebbe luogo. 17 A. DA MORRONA, Pifa illustrata nelle arti del disegno, II, Giovanni Marenigh, Livor-
no 1812, pp. 431-432. V. quindi R. Grassi, Descrizione storica e artistica di Pisa e de’ suoi contorni. Parte artistica, II, Ranieri Prosperi, Pisa 1838, p. 181. 18 BMV, Fondo Cavalcaselle, It. IV 2037 (=12278) Taccuino XI, cc. 27v-28r. Ringrazio
Donata Levi e Susy Marcon per le utili indicazioni.
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VITTORIA CAMELLITI
Fig. 3 GIOVAN BATTISTA CAVALCASELLE, La tavola di Turino Vanni, Madonna con Bambino,
i santi Ranieri, Torpé e due beate, nella chiesa di San Paolo a Ripa d'Arno a Pisa, disegno. Venezia, Biblioteca Marciana, Fondo Cavalcaselle, It. IV 2037 (= 12278), fasc. 11, c. 27v.
LA SANT'ORSOLA CHE SALVA PISA DALLE ACQUE
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Indagini conoscitive fino ad oggi condotte in collaborazione con la Scuola Normale Superiore, la SBAPSAE di Pisa e Livorno e la Diocesi di Pisa non hanno sfortunatamente fornito risposte certe a questi interrogativi. La riflettografia,
in particolare, non ha rivelato l’esistenza di uno stemma nascosto. Un’attenta osservazione della superficie pittorica, anche a luce radente, ha permesso comunque di confermare l’esistenza di numerose ridipinture e rimaneggiamenti; e la presenza di tracce di colore rosso, visibili anche a occhio nudo, rende credibile l'ipotesi che un primo stemma fosse stato concepito inizialmente al centro del dipinto. La questione è difficile da risolvere, quanto intrigante. Il 1397, anno di esecuzione del dipinto, fu infatti anche il penultimo anno di capitanato di Iacopo d’Appiano (7 1 settembre 1398), a cui seguì la breve signoria del figlio Gherardo che, già nel febbraio del 1399, cedette Pisa a Gian Galeazzo Viscon-
ti”. Sappiamo che Gherardo, una volta divenuto signore di Pisa, depose gli Anziani e si stabilì presso il loro palazzo, sede del governo e simbolo della libertà comunale: con la dominazione viscontea le magistrature e gli ordinamenti del Comune aboliti pochi mesi prima vennero invece restaurati. Le modifiche che interessarono gli stemmi nel dipinto di Turino potrebbero dunque a ragione collocarsi in questo breve arco di tempo: e la damnatio memoriae potrebbe, presumibilmente, riguardare proprio l’insegna dei D’Appiano. Non è chiaro comunque quale fosse la destinazione originaria dell’opera, anche se la presenza dello stemma civico, se effettivamente trecentesco, porta a
credere che la stessa si trovasse originariamente su un altare o in una cappella di pertinenza comunale. Tale destinazione può essere suggerita anche dall’iscrizione che si legge sul cartiglio sorretto dal Cristo bambino, «RATIONE CU(N)CTA GUBERNO»: un richiamo diretto a Cristo come guida per il governo della città. La scelta di questa frase potrebbe dunque non essere casuale, anche se si deve ricordare che la stessa iscrizione si legge nel cartiglio del Cristo bambino in una seconda opera di Turino proveniente da Pisa ma della quale non conosciamo la collocazione originaria: la Madonna, firmata ma non datata, oggi al Louvre e citata da Ranieri Grassi tra le opere portate da Pisa a Parigi all’inizio dell’Ottocento, quando si trovava ancora nel convento della chiesa di San Silvestro?°.
Le ultime due opere pisane che prenderò in esame, diversamente dalle prime due, non avevano in origine una destinazione civica, ma si presentano come due
esempi diversi di committenza privata.
La prima è una tavola di dimensioni contenute nota per la prima volta dalla tarda descrizione di Ranieri Grassi, che la vide nel 1832 nella Sala della Depu-
1 BANTI, Iacopo d'Appiano cit., pp. 259-287. 20 Grassi, Descrizione storica e artistica cit., p. 204.
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tazione dell’allora Accademia di Belle Arti, ricordando che era stata donata da
Giuseppe de Crescenzi?!, Il dipinto, firmato da tale Getto di Jacopo e datato 1391, rappresenta sei santi: Ludovico, Bartolomeo, Tommaso d'Aquino, Gu-
glielmo di Malavalle, Giovanni Battista e Giovanni Evangelista. Nella cimasa invece troviamo l'Annunciazione e l'Eterno (tav. 14). Quest'opera, insolita e complessa almeno da un punto di vista iconografico, contiene numerosi elementi che permettono di ricostruire il contesto di committenza e di individuare le ragioni che portarono alla sua esecuzione. Il dato più rilevante è rappresentato
dagli stemmi che si trovano rispettivamente negli angoli in basso della tavola e in alto, ai lati della cimasa: stemmi che, in tempi recenti, è stato possibile identi-
ficare con quelli di due famiglie pisane, iDel Testa e iDa Caprona??. Lo stemma dei Del Testa si ripete due volte (in basso a sinistra di chi guarda e ancora in alto dallo stesso lato nella cimasa) ed è troncato di rosso e d’argento, a tre pampini del primo nel secondo, disposti2e 1. Che si tratti proprio dello stemma dei Del Testa è attestato da un dipinto trecentesco che si vede ancora oggi sulla parete di un palazzo pisano sul Lungarno dalla parte di San Martino in Kinzica, un tempo appartenente a questa famiglia, in seguito passato ai Lanfranchi e oggi sede del Museo della Grafica??. Se ne trovano però copie moderne anche in diverse carte dell'Archivio di Stato (fondo del Testa)? e nell'Archivio Capitolare di Pisa”. Lo stemma dei Da Caprona, in basso a destra, è troncato: nel primo d’oro,
al castello d’argento, torricellato di due pezzi merlati alla guelfa del medesimo e chiuso di nero, sormontato da un'aquila del medesimo; nel secondo di rosso pieno. Si tratta di una variante per la quale non è stato possibile ancora rintracciare altri testimoni. I Da Caprona di norma adottavano infatti un più semplice troncato: nel primo d'oro, al castello d’argento, torricellato di un pezzo del medesimo, sini-
strato da un'aquila di nero; nel secondo di rosso pieno, come si ricava, ad esempio, da un disegno custodito nell’Archivio di Stato di Pisa che rappresenta lo stemma apposto nel 1348 sulla sepoltura di Lapo da Caprona, ancora esistente in epoca moderna nella chiesa di San Torpé a Pisa*. Il quarto stemma, sempre nella cimasa a destra, risulta dalla somma dei due precedenti stemmi (fig. 4): una scelta che, come è evidente, intende indicare esplicitamente un’unione tra
21 Ivi, p. 208. 2 Gli stemmi sono stati identificati da L. PIsANI, Cecco di Pietro a Palazzo Blu. Dal polittico di Agnano al San Giovanni Battista di recente acquisizione, in Cecco di Pietro e i fondi oro di Palazzo Blu, catalogo della mostra (Pisa 2011), a cura di Eap., Giunti, Firenze
2011, pp. 8-22: 10-11.
2 A. PANAJIA, I palazzi di Pisa nel manoscritto di Girolamo Camici Roncioni, ETS, Pisa
2004, p. 158.
24 ASPi, Del Testa XXVIII, busta 126.
? ACPi, ms. C 189. Pubblicato in PISANI, Cecco di Pietro cit., p. 10. 2 ASPi, Del Testa XXVIII, busta 126, foglio doppio non numerato.
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le due famiglie e che perd, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è riferita propriamente a un ma-
trimonio. Per capire le ragioni che portarono alla realizzazione di questo dipinto è necessario tornare ai sei santi
che vi sono rappresentati: ciascuno di loro richiama infatti onomasticamente personaggi realmente esistiti e appar-
tenenti a entrambe le famiglie. Il primo santo a sinistra, san Ludovico da Tolosa, appare in riferimento al presunto committente del dipinto, Ludovico del Testa: si osservi
al riguardo il dettaglio estremamente sofisticato del manto trapunto dei pampini dello stemma di famiglia, una soluzione figurativa che offre una variante significativa, e per questo assai nobilitante, al tema del mantello tra-
hs
Fig. 4
Cu
SE
Gerto DI Iacopo, I santi Ludovico,
Bartolomeo, Tommaso d'Aquino, Guglielmo di Malavalle, Giovanni Battista e Giovanni
Evangelista, l’Annunciazione e l'Eterno, dettaglio dello stemma Da Caprona-Del Testa. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo.
punto di gigli angioini tipico del santo francescano. Anche la corona ai piedi di san Ludovico, abituale attributo del santo rinunciatario al trono, qui invece affianca quasi decorativamente lo stemma dei Del Testa”. Affidandosi all’albero genealogico della famiglia, di cui esistono diversi esemplari nel fondo omonimo dell'Archivio di Stato di Pisa, è possibile verificare che il padre di Ludovico si chiamava Bartolomeo?8: e non a caso accanto a san Ludovico compare san Bartolomeo. Diverse fonti attestano che Ludovico aveva sposato Costanza da Caprona, spesso citata come Tancia o Teucca e, grazie a un documento rinvenuto e segnalatomi da Mauro Ronzani,
sappiamo che il padre di Costanza si chiamava Gugliemo: e, come si può vedere, anche san Guglielmo è puntualmente rappresentato??. Il padre di Guglielmo si chiamava Nino, ovvero Giovannino, qui rappre-
27 V. ad esempio la tavola del così detto Maestro di San Martino alla Palma, oggi custodita a Milano: Pinacoteca di Brera: dipinti, a cura di L. ARRIGONI, V. MADERNA, Electa,
Milano 2010, p. 562. 28 ASPi, Del Testa XXVII. 2, 13. 29 Ibid. Nel documento di elezione del rettore di Santa Maria di Castello di Vecchiano,
del 16 febbraio 1422 (AAPi, Atti Beneficiali 7, cc. 199r-2010) fra gli elettori che in qualche modo erano stati coinvolti risulta «domina Teccia relicta Ludovici quondam Bartholomei Del Testa et filia quondam et heres Guillelmi quondam domini Nini de Caprona».
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sentato da san Giovanni Evangelista; il fratello di Guglielmo e zio di Costanza, morto senza eredi, si chiamava invece Giovanni: omonimo qui del san Giovanni Battista’? Ludovico e Costanza avevano avuto un unico figlio, Tommaso’': rappresen-
tato nel dipinto dal santo domenicano con il libro aperto raggiato e con il giglio. Il santo, per quanto sia stato confuso spesso con Domenico, è senz’altro meglio identificabile con Tommaso d'Aquino. È vero, san Domenico è rappresentato sia con il giglio che con il libro aperto nel più noto dipinto di Francesco Traini, conservato nel Museo di San Matteo, ma il libro non è raggiato come invece accade in genere nelle immagini che ritraggono san Tommaso d'Aquino”. D'altra parte l’identificazione del santo in tal senso non è una novità. Giovanni Rosini per primo, descrivendo il dipinto nel 1840, lo interpretava come la Disputa di san Tommaso sul mistero dell Incarnazione di Cristo: «Vedesi — diceva il Rosini — il santo in mezzo in atto di favellare; e perché l'argomento ne apparisca chiaro il pittore immaginò di effigiarvi superiormente l’Annunciazione»? Oltre alla rappresentazione dell’Annunciazione e dell’Incarnazione di Cristo nella cimasa, il dipinto nasconde comunque un altro indizio; i versi che si leggono nel libro aperto tenuto dal santo domenicano — DI(C)SIT/ DOM/INUS/ DOMINO/ MEO/ SEDE/A DEC/STRIS/ MEIS — sono l'incipit del salmo 110, citato nel Vangelo di Matteo (Mr. 22, 41-46) per richiamare la natura divina del Cristo e cantato o recitato sempre nei vespri dopo l’ufficio dell’ Annunciazione, dell’Incarnazione e della Natività di Cristo”.
3° Nino del fu Manno da Caprona il 13 giugno del 1352 riceve in prestito 200 libre da Lapo da San Casciano (ASPi, Diplomatico Ospedali, 1352 giugno 13, citato in Studi in Onore di Amintore Fanfani, II, Giuffrè, Milano 1962, p. 250). Nell’estimo di Pisa del 1409
risulta abitante nel quartiere di San Giusto al Parlascio una tale Fiorina, moglie di Giovanni di Nino da Caprona; cfr. M. Fanucci LovrrcH, M. Luzzati, L’estimo di Pisa nell'anno
del concilio (1409): introduzione, trascrizione e repertorio computerizzato, Pacini, Pisa 1986, p. 75, nota 692. 3! ASPi, Del Testa XXVII. 2 (nuova 0013). Nel 1409 (FanuccI LovITCH, LUZZATI, L’e-
stimo di Pisa cit., p. 122, nota 1542) nel quartiere di San Martino (proprio dove c’era il palazzo dei del Testa) risulta un Tommaso di Ludovico del Testa che risiede con gli zii Nicholao e Jacopo, figli di Bartolomeo del Testa. La madre Costanza, indicata come Monna Teucca del fu di Lodovico del Testa, non risiede in San Martino bensì in San Simone al Parlascio (dove risiedevano i suoi parenti Da Caprona). 3 Cfr. ad esempio il San Domenico del Traini (Pisa, Museo di San Matteo, Polittico di San Domenico, inv. nn. 1608-1609) con il San Tommaso d'Aquino di Lippo Memmi (Pisa, Santa Caterina).
? G. Rosini, Storia della pittura italiana esposta coi monumenti, I, Niccolò Capurro, Pisa 1848, p. 181. * Laudi mariane ovvero Rime in onore della Vergine santissima de’ piu insigni poeti di tutti i secoli della letteratura italiana, a cura di F MARTELLO, G. Cataneo, Napoli 1852, p. 157. Si ricorda poi la pratica, documentata in età moderna, da parte delle levatrici di attaccare al collo della partoriente un foglietto in carta vergine arrotolato, con all’interno
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Come ho anticipato all’inizio, il dipinto non fu realizzato in occasione del matrimonio di Ludovico e Costanza; e si può arrivare facilmente a questa conclusione consultando il catasto di Pisa del 1428, in base al quale Tommaso del Testa risulta avere quarantatre anni e abitare nel suo palazzo nel quartiere di Kinzica con la moglie, cinque figli e Tancia, la madre che, all’epoca, aveva settantasei anni”. Nel 1391, anno in cui fu realizzato il dipinto, Tommaso aveva quindi cinque anni e Tancia ne aveva trentotto.
La centralità della figura di san Tommaso, così come la rilevanza attribuita al tema dell’Incarnazione, permettono a mio avviso di interpretare il dipinto con riferimento alla nascita di Tommaso: l’unico figlio della coppia, tanto desiderato e arrivato insperatamente dopo molti anni. Il dipinto avrebbe pertanto un valore votivo, in quanto l’erede era sopravvissuto ai suoi primi cinque anni di vita in un periodo storico in cui il tasso di mortalità infantile era altissimo, prestandosi nello
stesso tempo a celebrare l’unione delle due famiglie. Significativamente non c’è alcun esplicito riferimento a Costanza, la madre di Tommaso. Le due famiglie sono rappresentate infatti da santi che richiamano la discendenza maschile. Riepilogando: a sinistra troviamo i santi omonimi dei tre Del Testa (il padre, Ludovico,
il nonno Bartolomeo, il nipote Tommaso); a destra invece quelli dei tre Capronesi (il padre di Costanza, Guglielmo, lo zio Giovanni e il nonno Nino). Colpisce che dalla parte della famiglia della madre di Tommaso compaiano i santi omonimi dei fratelli Guglielmo e Giovanni: esponenti dei due rami della famiglia originati da Nino. E questo accade probabilmente perché Giovanni non aveva eredi e Tommaso, figlio dell’unica nipote, era anche l’unico erede della famiglia. Se questa interpretazione offre una chiave per ricostruire il contesto di committenza e per capire le ragioni che portarono a realizzare il dipinto secondo queste modalità, resta ancora in sospeso il problema della sua collocazione originaria: verosimilmente un altare secondario (viste le dimensioni contenute dell’opera) di cui entrambe le famiglie o anche solo la famiglia di Tommaso, i Del Testa, possedevano il patronato. La questione è difficile e necessita senza dubbio di ulteriori ricerche d’archivio. Negli ultimi anni, com'è noto, quest'opera ha goduto di un rinnovato interesse critico perché troviamo rappresentato, pare per la prima vol-
ta, san Guglielmo di Malavalle, un santo eremita vissuto per un breve periodo in una spelonca nei pressi del Monte Pisano prima di recarsi a Castiglione della Pescaia dove morì e fu infine sepolto”. Come hanno giustamente osservato Fabio
scritto il salmo Dixit Dominus Domino meo, fino al Tecum. AI riguardo v. C. PANCINO, I/
bambino e l’acqua sporca: storia dell'assistenza al parto dalle mammane alle ostetriche (secoli
XVI-XIX), Franco Angeli, Milano 1984, p.31. 35 Il catasto di Pisa del 1428-29, a cura di B. Casini, Giardini, Pisa 1964, p. 53, nota 237.
3» M. Corsi, Guglielmo da Malavalle: culto e iconografia nel Quattrocento, in «Iconographica», 3 (2004), pp. 100-109.
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Figara e Cecilia Tannella, l’esecuzione del dipinto si colloca qualche anno dopo l’arrivo delle reliquie del santo a Pisa, in occasione della pestilenza del 1383: un evento sponsorizzato interamente dal Comune e dal quale derivò, come si comprende, un accrescimento della devozione popolare”. Come mi sembra però dimostri la ricostruzione proposta in questa sede, la presenza di san Guglielmo nel dipinto è legata principalmente al fatto che uno dei Da Caprona si chiamava, per l’appunto, Guglielmo. Non è ovvio quindi che l’opera fosse destinata a un altare o qualsivoglia oratorio dedicato al santo in quegli anni’, C'è infine un ulteriore dettaglio iconografico, un altro indizio: senza dubbio un nodo ancora da sciogliere. Si tratta di un piccolo Agnus Dei rappresentato inusitatamente fuori contesto; non compare infatti come attributo di san Giovanni Battista, ma è dipinto
di piccole dimensioni nell’angolo in alto a sinistra della tavola, proprio sopra il san Giovanni Evangelista. Escluderei un richiamo all'Arte della Lana, non solo perché i Da Caprona erano nobili e ricchi latifondisti, ma anche perché il sigillo dell’Arte della Lana a Pisa prevedeva la rappresentazione dell’ Agnus Dei affiancato all’aquila. C'è allora da chiedersi se l’agnello con il vessillo crociato, attributo frequente del Battista, intendesse richiamare una data, il 24 giugno (giorno in cui si festeggia, per l'appunto questo santo), piuttosto che una confraternita, uno specifico altare intitolato al santo o il sacramento del battesimo.
Lo stemma dei Del Testa si trova ripetuto per ben tre volte anche nel polittico attribuito a Cecco di Pietro, oggi di proprietà della Fondazione della Cassa di Risparmio di Pisa e custodito a Palazzo Blu, destinato originariamente all’altare della chiesa degli Olivetani di San Girolamo di Agnano, poco distante da Pisa (fig. 5). Il riconoscimento degli stemmi ha permesso di mettere in discussione, in tempi recenti, la tradizionale identificazione del committente dell’opera con l'arcivescovo Giovanni Scarlatti, fondatore nel 1360 del convento agnanese?. L'impegno della famiglia pisana dei Del Testa non è però solo documentato dalla presenza dell’insegna, ma si basa anche sulla notizia, riportata pure da
Ringrazio Cecilia Iannella per avermi messo a disposizione il testo ancora provvisorio della relazione Consenso devozionale e culti civici nella Pisa trecentesca, presentata in occasione delle giornate di studio Cieli e terre della Toscana medievale. I Santi nell'età dei Comuni. Fonti e metodi per una storia culturale del territorio (Firenze 2007). #8 G. SAINATI, Diario Sacro Pisano, Siena, Tip. S. Bernardino, 1886, p. 25, pur senza fornire indicazioni cronologiche, ricorda che la confraternita di San Guglielmo aveva un
oratorio nell'attuale piazza Santa Caterina, e che ai suoi tempi (1898) possedeva una reliquia del santo condotta da Castiglione della Pescaia a Pisa nel 1594. * La scoperta è stata pubblicata da L. PisaNI, Nuove proposte per il politico di Agnano di Cecco di Pietro, in «Predella», 1 (2010), pp. 21-30; v. anche Eap., Cecco di Pietro a Palazzo Blu cit., pp. 10-11. Per l'ipotesi tradizionale vedi I/ polittico di Agnano: Cecco di Pietro e la pittura pisana del ’300, a cura di R.P. CrarpI, A. CALECA, M. BURRESI, Pacini, Pisa 1986.
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Paolo Tronci nelle sue Memorte, di un
lascito di centocinquanta fiorini d’oro per la dotazione dell’altare maggiore elargito da Bartolomeo del Testa nel 1374. Per quanto non sia stato possi-
bile fino ad ora trovare il documento originario che attesta l'avvenuta donazione, la notizia (recepita già dalle Historiae Olivetanae dell'abate perugino Secondo Lancillotti)*' di un coinvolgimento di questo esponente della nobile famiglia pisana, trova una conferma in diverse carte rintracciabili tra l'Archivio di Stato di Pisa, nel fondo
Del Testa, e l’Archivio di Stato di Firenze, dov'è confluita gran parte della Daniels
aperrinehreralt
doll
“ Fig: ? CECCO DI Pietro, Polittico di Agna-
da, FEE dello stemma del Testa. Pisa, alazzo
U.
vento dopo le soppressioni di Pietro Leopoldo. Il documento più antico finora rinvenuto risale al 20 luglio 1586. Si tratta di un inventario dei beni del monastero redatto dall’allora abate Raffaello Sacchetti da Fiorenza. Questi; nel descrivere la chiesa, «piccola ma assai decora-
ta», ricorda tre altari (o cappelle) e la tribuna, tutti eretti per iniziativa di privati. Quest'ultima, ovvero l’altare maggiore, era stata edificata «da quelli del Testa gentili domini pisani» e in essa «si trova[va] una tavola di pittura antica con la Madonna con figliolo in collo in mezzo a S. Girolamo e S. Benedetto con altri santi secondo la volontà e devozione del fondatore». Tra Seicento e Settecento il nome di Bartolomeo del Testa ricorre più volte, con riferimento al mese di ottobre, nei libri degli obblighi del Monastero di San Girolamo di Agnano. In quello del 1711 è ricordata esplicitamente una messa da farsi «per l’anima di Bartolomeo di ser Benedetto Testa che fondò l’altare maggiore di questa chiesa e l’ha dotato con la dote di 250 fiorini d’oro nell’anno 1374 de i quali nel 1379 a 3 novembre si sono comprate una casa con chiostro e 40 pezzi di terra poco discosti dal Monastero come in atti di Ser Nocho Notaro di Ser Bonincontri notaro di Lavaiano nelli detti giorno et anno»”.
4 P. TRoNCI, Memorie istoriche della città di Pisa, G. Vincenzo Bonfigli, Livorno 1682, p. 24. 41 S. LANCILLOTTI, Historiae Olivetanae, II, Venezia 1623, p. 138. Citato da PISANI, Nuove Proposte cit., p. 29, nota 26.
2 ASFi, Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo 2591, n. 13, cc. 1r-1v.
43 ASFi, ivi, 2644, 150, cc. 1, 24, 26; 152, c. 6.
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Viene precisato altresi che «Questo benefattore non ci ha imposta obbligazione alcuna di messa e perciò questa di celebrarla ogni anno una messa in perpetuo se la sono addossata li nostri antichi monaci per gratitudine». La stessa notizia è riportata puntualmente all’interno di un fascicolo che si trova nel fondo Del Testa dell'Archivio di Stato di Pisa. L'anonimo redattore rende anche conto delle trasformazioni occorse nella chiesa degli Olivetani di Agnano in epoca moderna, a cominciare dall'anno 1621, quando don Innocenzo Ulivieri fece rifare il tetto e gli altari della chiesa «et a quello dell’altare maggiore fecevi alzare un gran ciborio intagliato di legno», che venne dorato solo in seguito per cura di don Angelo Maria de Medici da Firenze. A quella data il polittico doveva essere stato spostato dalla sua collocazione originaria sull’altare maggiore poiché viene ricordato che «la Tavola che prima vi era è quella che di presente esiste sopra la Porta della Chiesa, di dentro alla medesima»”. Tra le informazioni aggiuntive troviamo la notizia degli stemmi dei Del Testa che adornavano l’altare, corredata perfino da un disegno*. È omessa però la descrizione dei due scudi contraddistinti entrambi dalla sigla SA che, come si vede ancora, si alternano agli stemmi dei Del Testa all’interno del polittico. Ed è probabile che ciò avvenga perché si trattava di elementi di difficile interpretazione, per i quali non esiste ancora oggi un riscontro fondato: sembra in ogni caso da escludere la proposta di leggere in ciascuno scudo rispettivamente le sigle SC e AR, tradizionalmente accettata per agevolare l’identificazione con il nome dell’arcivescovo Scarlatti, già presunto committente del dipinto‘.
#4 Ibid: % .ASPi, Fondo Del Testa 126, fasc. 3, c. 8r 46 Ivi, c. 6v.
* Ibid, 1? Ivi, c. 8r.: «Voglio aggiungere a queste memorie che convenientemente mi è necessi-
tato copiare che le tre armi gentilizie che si trovano nel detto Altar Maggiore alla chiesa di Agnano, una superiormente in capo all’altare e le altre due lateralmente, sono tutte della Casa Del Testa ed eccone qui il disegno [...]». Ÿ RP. CiarpI, Un polittico e il suo doppio: le vicende storiche del dipinto di Agnano, in
Ip., A. CALECA, M. BURRESI, I/ Polittico di Agnano. Cecco di Pietro e la pittura pisana del ’300, Pacini, Pisa 1986, pp. 9-46: 9.
«UN AVELLO DI BIANCO MARMO CON LA SUA NATURAL EFFIGIE INTAGLIATA»: IL MONUMENTO FUNEBRE DI BIANCA DI SAVOIA Luca Tosi
Milano, 18 termidoro del V anno repubblicano (5 agosto 1797). Uno degli ispettori di zona si vede recapitare dal dicastero centrale di polizia una particolare denuncia: Ci fu riferito che esistono due armi gentilizie nella Piazza Borromea, lo stemma della Città colla corona sulla Porta Vercellina e due altre armi gentilizie assai grandi in una chiesa fuori della detta Porta. Vi abilitiamo a farle tosto levare come cose anticostituzionali, e di scandalo perfino de’ forastieri!.
A oltre un anno di distanza dall’editto giacobino che intimava l’eliminazione di tutti gli emblemi esistenti in città — emanato poche settimane dopo l’ingresso di Napoleone in territorio lombardo (maggio 1796) — i simboli scampati alla capillare azione distruttiva sono ancora segnalati alle autorità competenti. «Dove non arrivavano i municipalisti, erano gli scalmanati che si divertivano a grattare gli stemmi dai muri e a deturpare opere d’arte insigni a brutali colpi di scalpello»?. Edifici pubblici e privati, civili e sacri, non vengono risparmiati: e la massima parte del patrimonio araldico, stratificatosi nei secoli, è così raschiato,
ridipinto o preso a martellate. A salvarsi sono gli stemmi nascosti dalle famiglie nobili o dagli amatori d’arte, quelli su lapidi e sepolcri rimasti nei luoghi sop-
! ASCMi e BTMi, Fondo Località Milanesi, cart. 228, fasc. 4, Dazio di Porta Vercellina. 2 P. MEZZANOTTE, G.C. BASCAPÉ, Milano nell'arte e nella storia. Storia edilizia di Milano. Guida sistematica della città, E. Bestetti, Milano 1948, p. 81.
> Significativi episodi della situazione pavese sono riportati da S. ZATTI, Arti figurative a Pavia in età francese: un patrimonio depauperato, in «Annali di storia pavese», 20
(1991), pp. 57-70: 58-59; interessante è anche l’esperienza dell’architetto Leopoldo Pollach, incaricato invano da Alberico Barbiano di Belgiojoso «di coprire tutte le insegne gentilizie poste sulle sue proprietà immobiliari», la cui distruzione arrecò «danni estetici agli edifici, in particolare alle residenze di Milano e di Belgiojoso». A lui fu inoltre assegnata la «rimozione dei sepolcri, dei blasoni e delle lapidi posti nelle varie cappelle di iuspadronato della famiglia Belgiojoso»: E. BiaNcHI, La committenza e le collezioni
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pressi prima della calata dei francesi (inaccessibili in quanto chiusi ai fedeli o destinati a nuovo uso) o, in casi meno fortunati, gli esemplari rimossi e smontati da tombe, altari, chiostri e pavimenti dai marmorini, interessati a reimpiegarne i marmi o a venderli, qualche tempo dopo, come pezzi da collezione. È il caso di numerosi scudi che, nel primo quarto dell’Ottocento, riappaiono intatti a Cernusco sul Naviglio (Milano), nel giardino del nobile di Viareggio Ambrogio Uboldo (1785-1865), entro una sorta di riambientazione medievale*; come di altri (diversi per epoca, dimensioni e stile) acquistati negli anni VentiTrenta del XIX secolo dall’avvocato Giovanni Battista Traversi (1766-1854) per
il «Castello gottico» del proprio complesso di Desio, in Brianza. Si tratta di stemmi delle famiglie Carcano, Anguissola, Sacchi, Mandelli e Tosi (scolpiti a tutto tondo o incisi su lastre lapidee)?, di un enorme scudo tardocinquecentesco con le insegne del governatore spagnolo (forse proveniente dalla fronte di un palazzo milanese)* e di una lastra in marmo rosato con due emblemi racchiudenti croce e biscione (fig. 1, tav. 15). Pelagio Palagi (1775-1860), progettista del maniero romantico e “curatore” della raccolta scultorea — comprendente numerose statue e bassorilievi d’età gotica e moderna — destina questo rilievo, di forma rettangolare, alla base di una nicchia a tre spazi occupati da altrettante statue trecentesche di santi. La facciata rivolta verso il parco all’inglese è infatti un patchwork continuo di opere autentiche e in stile, che concorrono a formare una tessitura medievaleggiante pressoché uniforme: l'inserimento dell’opera antica (allora non ancora apprezzata e valorizzata per il suo intrinseco valore storico-artistico) diventa così funzionale al progetto di dare credibilità al finto castello ottocentesco, così come gli sfarzosi blasoni presenti rievocano una romanzesca epoca di corti, cavalieri e principesse. Il revival romantico si serve di tali materiali in maniera disinvolta, priva di d’arte di Alberico XII Barbiano di Belgiojoso d'Este, in «Archivio Storico Lombardo»,
128 (2002), 8, pp. 379-405: 388.
4 S. Coppa, Ambrogio Uboldo collezionista e la sua villa di Cernusco sul Naviglio. Precisazioni e nuovi documenti, in «Arte Lombarda», 55-57 (1980), pp. 296-305; G. REINA, G. Roccuti, Gli stemmi della Villa Uboldo a Cernusco sul Naviglio, in Atti del XIII Convivio della Società Italiana di Studi Araldici, Società italiana di studi araldici, Torino 1996,
pp. 203-240. La ricca collezione, di proprietà dell'Azienda Ospedaliera Ospedale di Circolo di Melegnano, è stata quasi interamente spoliata per un furto avvenuto nel dicembre 2000: L. Tosi, I/ portale di Santa Maria di Piazza in Palazzo Leardi, in Il portale di Santa Maria di Piazza a Casale Monferrato e la scultura del Rinascimento tra Piemonte e Lombardia, catalogo della mostra (Casale Monferrato 2009), a cura di G. AGosni, J. StoPPA, M. TANZI, Officina Libraria, Milano 2009, pp. 51-59: 55, figg. 11-12. ? Oggi in collezione privata: L. Tos1, I marmi di Desio, tesi di perfezionamento, Università degli Studi di Milano, a.a. 2008-2009 rel. G. AGOSTI, pp. 75-100, nn. 43-59. ° L. Tosi, Su alcuni marmi della collezione Traversi di Desio, in «Prospettiva», 138 (2010), pp. 68-76: 73, n.9, fig. 11.
IL MONUMENTO
FUNEBRE DI BIANCA DLSAVOIA
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Fig. 1 SCULTORE LOMBARDO, lastra frontale del sepolcro di Bianca di Savoia, 1388-1390 circa. Desio, collezione privata.
coscienza critica”: diventano meri elementi decorativi, repertori iconografici da saccheggiare per agghindare le case della borghesia emergente o le traboccanti scenografie goticheggianti delle opere liriche8. Stemmi, completamente inventati, si ritrovano sulle volte della sala da pranzo della vicina villa dei Traversi (ridisegnata da Palagi una quindicina di anni dopo la torre neogotica), dipinti da Luigi Scrosati (1814-1869) e bottega?: uno di esso ritrae un solitario biscione, ridotto a innocuo vermicello, ormai incapace di intimorire qualcuno. Inevitabilmente, anche nell’edificio neogotico del parco il riferimento costante è alla corte dei Visconti e degli Sforza (rimandando forse all’antico castello, di fondazione viscontea, presente un tempo nelle immediate vicinanze), testimoniato da una sequela di dodici tondi recanti i profili dei signori di Milano e delle loro mogli: in parte repliche di originali quattrocenteschi, in parte scolpiti ex-novo, probabilmente dalla bottega di Pompeo Marchesi!°. A tale progetto di fondo concorre anche il già citato pannello con i due stemmi in marmo di Candoglia: privo d’iscrizioni e semplice tassello del puzzle decorativo, non desta particolari ? Per una trattazione approfondita sull’argomento v. il fondamentale Arti e storia nel Medioevo, IV. Il Medioevo al passato e al presente, a cura di E. CASTELNUOVO, G. SERGI, Einaudi, Torino 2004. 8 MEZZANOTTE, BASCAPÉ, Milano nell'arte cit., pp. 116-119. ? L'artista affresca l’ambiente in stile neorinascimentale tra il 1845 e il 1846: v. P. ZATTI,
Luigi Scrosati e la decorazione d'interni in Lombardia nei decenni pre-unitari, in Lo studiolo del collezionista restaurato. Il Gabinetto dantesco del Museo Poldi Pezzoli, a cura di L.M.
Gatti MICHERO, Museo Poldi Pezzoli, Milano 2002, pp. 78-93: 83, figg. a p. 81; L. Tosi, Pelagio Palagi a Desio. Un problema critico, tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Parma, a.a. 2004-2005 rel. V. STRUKELJ, pp. 378-396. !0 Tosi, I marmi cit., pp. 53-70, nn. 32-40.
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attenzioni da parte di cronisti e compilatori di guide; e anche a inizio Novecento, quando Diego Sant'Ambrogio studia la collezione desiana (passata ai Tittoni per via ereditaria), dedica al frammento solo un paio di righe, avvicinandolo con prudenza al sepolcro balduccesco di Beatrice d'Este - madre di Azzone Visconti — già in San Francesco Grande a Milano!!. La proposta non è però raccolta da Costantino Baroni, che mezzo secolo dopo lo esclude — in quanto poco significativo e non funzionale al progetto museografico che stava concependo — dalla selezione di materiali già Traversi utili all’accrescimento delle Civiche Raccolte d’Arte del Castello Sforzesco, lasciandolo così a Desio.
A un’osservazione poco attenta il rilievo desta perplessità sia per il discreto stato conservativo (salvo una frattura obliqua lungo il margine superiore destro e un diffuso dilavamento delle superfici) che per il segno grafico che lo caratterizza (tav. 15): pulitissimo, lineare, pienamente leggibile e privo di qualsiasi sbavatura. Al centro del riquadro è scolpita una testa leonina, affiancata da due identici scudi con la serpe della dinastia a sinistra, unita alla croce a destra: un abbinamento privo di confronti nel nutrito panorama araldico locale che sembra suggerire — ancora una volta — un’invenzione ottocentesca, che condensa in uno spazio ristretto i classici emblemi della città di Milano. Non casualmente ritroveremo questo particolare stemma nel Novecento, quando Luca Beltrami (1854-1933) lo adotterà, come nuovo vessillo municipale, in alcune pertinenze
del Castello Sforzesco (ad esempio sopra il portale della Scuola d’Arti Applicate, attuale accesso alla Sala studio della Civica Raccolta delle Stampe Achille
Bertarelli!?), luogo per eccellenza del recupero della memoria e dei simboli della storia milanese; e pochi anni dopo “l’accoppiamento giudizioso” croce-vipera abbandonerà l’angusto spazio dello scudo per trasferirsi, con gli stemmi in posizioni invertite, nel marchio della nascente casa automobilistica Alfa Romeo. Diverso è invece il caso dell’emblema sulla lastra Traversi, che una corretta
lettura araldica permette di identificare inequivocabilmente con quello adottato da Bianca di Savoia (1336-1387)! dopo il matrimonio celebrato, nel settembre
!! D. SANT'AMBROGIO, Marri e lapidi di Milano nella Villa Antona Traversi di Desio, in
«Archivio Storico Lombardo», 27 (1900), pp. 127-145: 135. ? Ma anche nel disegno acquarellato che Ernesto Rusca propone nel 1905 per la copertina di una guida — mai realizzata — dei Musei civici del Castello Sforzesco: Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli di Milano, Pubblicità m. 94. 5 D. MURATORE, Bianca di Savota e le sue nozze con Galeazzo II Visconti, in «Archivio
Storico Lombardo», 34 (1907), 13, pp. 5-104. Lo stemma adorna buona parte dei vivaci decori floreali presenti nelle pagine del Libro d'ore di Bianca di Savoia (oggi a BSM, Cod. Clm 23215); v. F MANZARI, Influenze internazionali e apporti lombardi nel Libro d'ore di Bianca di Savoia. Il ruolo della committenza e la funzione del miniatore nell'introduzione di una nuova tipologia libraria in Lombardia, in Medioevo. Arte Lombarda, atti del convegno (Parma 2001), a cura di A.C. QUINTAVALLE, Electa, Milano 2004, pp. 156-169.
IL MONUMENTO
FUNEBRE DI BIANCA DI SAVOIA
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1350, con il co-signore di Milano Galeazzo II Visconti (1320 ca.-1378): è dunque la croce sabauda (e non quella meneghina) a convivere con la serpe viscontea. Lo scioglimento del blasone e la tipologia del frammento permettono così di ipotizzare un’originaria appartenenza del rilievo al monumento funerario della nobile, del quale doveva costituire il pannello frontale. Bianca di Savoia dispone di essere inumata a Pavia, vestita con l’abito delle clarisse, entro «un
avello di bianco marmo con la sua natural effigie intagliata»!‘, da porsi nel coro interno della chiesa conventuale da lei stessa fondata. Denominato Santa Chiara “la Reale” in suo onore (e per distinguerlo dall’omonimo monastero di cappuccine francescane già esistente in città), il complesso sorgeva nei pressi di San Francesco, verso il quale era rivolta la facciata: l’oratorio, dedicato alla Vergine Annunciata — molto venerata dalla benefattrice — aveva una zona riservata alle monache, separata dalla parte pubblica della chiesa; divisa in tre navate, presentava un orientamento est-ovest e un ricco cor-
redo decorativo, costituito da affreschi sulle pareti, altari marmorei e sepolture nobiliari!. Ma la vita religiosa dell’edificio viene traumaticamente interrotta nell’estate 1782, quando un decreto dell’arciduca d'Austria Giuseppe II ne impone la soppressione e la requisizione di tutti i beni, affidati al Collegio Ghislieri”. Allontanate le suore e spogliato di ogni arredo!, il cenobio viene riaperto al
1 S. BREVENTANO, Istoria della antichità, nobiltà, et delle cose notabili della città di Pavia, Hieronimo Bartoli, Pavia 1570, p. 95r. C. DaLL’ACQUA, Bianca Visconti di Savoja in
Pavia e l'insigne monastero di Santa Chiara la Reale di sua fondazione. Cenni storici con documenti editi ed inediti, Fratelli Fusi, Pavia 1893, p. 57; P. CARPANELLI, Lettere istoriche riguardanti la città di Pavia dalla metà del secolo XIV al cominciare del XVI, in Manuale della provincia di Pavia per l’anno 1857, Eredi Bizzoni, Pavia 1857, pp. 1-63: 26, nota 1; C.
MAGENTA, I Visconti e gli Sforza nel castello di Pavia e loro attinenze con la Certosa e la storia cittadina, I, Ulrico Hoepli, Milano 1883, p. 179.
5 «In medio dic)te ecc(lesi)e est simulacrum marmoreum album et pulcrum supra sepulcrum ad perpetuam memoriam IlI(ustrissi)Ìme ducisse no(m)i(n)e Blanca Co(m)itisse virtutum et Ducisse Sabaudie d(ic)ti mon(as)t(er)ii fundatricis sub solum honorifice ellatum»: cfr. ASDPv, Fondo I Cartella 58, Santa Clara. Monastero detto di Santa Chiara, fasc. 1b, Visite pastorali-inventari, Relazione della visita pastorale del 9 febbraio 1569. 16 DaLL'ACQUA, Bianca Visconti di Savoja cit., pp. 44-47; R. MAIOCCHI, Le Chiese di Pavia. Notizie, I, Emi, Pavia 1903, pp. 121-128.
17 DaLL'ACQUA, Bianca Visconti di Savoja cit., pp. 63-64. La chiusura risale al giorno 8 agosto 1782, in esecuzione del cesareo regio dispaccio del 9 febbraio 1782. Cfr. M. TaccoLINI, Per il pubblico bene. La soppressione di monasteri e conventi nella Lombardia austriaca del secondo Settecento, Bulzoni, Roma 2000, p. 88.
18 Nell’atto di vendita4la chiesa risulta essere completamente disadorna, forse svuotata subito dopo la soppressione; cfr.: ASPv, cart. 15377, citato da M. ALBERTINI OTTOLENGHI, in
Arte in Lombardia tra Gotico e Rinascimento, catalogo della mostra (Milano 1988), Fabbri, Milano 1988, pp. 226-229, scheda n. 63; S. BANDERA BISTOLETTI, in La pittura a Pavia dal Romanico al Settecento, Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, Milano 1988, pp. 61-62.
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culto poco dopo, per essere assegnato alle benedettine sfrattate dal convento di San Martino del Liano: vi rimarranno soltanto una quindicina d’anni, fino alla definitiva sconsacrazione decretata, nel marzo 1799, dal nuovo governo cisalpino. L'intero complesso finisce all’asta e nel 1803 viene aggiudicato, per 27.706 lire, a Giuseppe Villa di Milano!”, «malavveduto compratore [che] diede per pochi denari a uno scarpellino milanese l’arca [di Bianca di Savoia] che abbian detto, e non si sa più»?°: potrebbe trattarsi della stessa famiglia o bottega di marmorini che, nei decenni successivi, cede la lastra marmorea a Giovanni Battista Traversi (in un momento compreso tra 1827 e 1837) e, più tardi, il presunto
gisant della nobile al Museo Archeologico di Brera. Attribuita da recenti studi a Giacomo da Campione?!, quest’ultima opera è esposta nella terza sala del Museo d'Arte Antica del Castello Sforzesco di Milano (inv. 1077): ma diversamente da quanto sostenuto in passato, i documenti relativi alla sua acquisizione tacciono a proposito di una provenienza diretta da Santa
Chiara di Pavia, rendendo meno certa l’identificazione dell’effigiata con la madre di Gian Galeazzo Visconti? Entrata a far parte delle collezioni pubbliche nel 1843, la scultura è ritenuta da Giulio Carotti il probabile elemento apicale del monumento funebre della sovrana: una proposta che, diversamente da tutta la critica che se ne è poi occupata, viene rigettata da Diego Sant Ambrogio”.
!? E. GIARDINI, Memorie topografiche dei cambiamenti avvenuti e delle opere state eseguite nella R. Città di Pavia sul fine del secolo XVIII e nel principio del XIX infino all'anno MDCCCXXX, Stamperia Fusi e C., Pavia 1830, pp. 61, 131, nota 124; DALL’ACQUA, Bianca
Visconti di Savoja cit., p. 67. Dell’intero complesso monastico sopravvive soltanto il chiostro, frammentato in diverse unità abitative: M.T. MAZZILLI SAVINI, I/ monastero di Santa Clara in Pavia. Un monumento, tre architetture, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 12. 2° CARPANELLI, Lettere istoriche cit., p.26, nota 1. Il monumento funerario non viene
comunque menzionato nell’Inventario de’ Sagri Aredi, e Mobili del soppresso Mon.[astelro delle Minori Conventuali Francescane di Santa Chiara di Pavia del 1781: in marmo è indicato soltanto (al n. 110 dell’elenco, nella Stanza del capitolo) «Un altare [...] con sua ancona finita co’ suoi rami indorati con due Comunicatoj il tutto di marmo» valutato seicento lire: ASMi, Amministrazione del Fondo di Religione, Monasteri, Pavia, Santa Chiara, francesca-
ne, cart. 2492, Istromento di rilascio fatto dal Regio Economato Generale alla Congregazione dell’Imperiale Regio Collegio Ghislieri di Pavia dell Economica Amministrazione del Vacante del soppresso Monastero delle Monache di Santa Chiara la Reale con obbligo di tenere Registro, e Conto separato, di supplire i pesi, e di conservare a libera disposizione di S.A.R. i residui liberi da impiegarsi negli oggetti voluti da Sua Maestà per la pubblica Istruzione, 17 dicembre 1781. 2! L. CAVAZZINI, I/ crepuscolo della scultura medievale in Lombardia, Olschki, Firenze
2004, pp. 12-13, 116, figg. 12-13, 15.
Per un approfondimento sul dibattito critico e la bibliografia completa v. L. Tosi, in
Museo d'Arte Antica del Castello Sforzesco. Scultura lapidea, I, a cura di M.T. FrorIO, G.A.
VERGANI, Electa, Milano 2012, pp. 301-303, n. 302, fig. 302. © G. CAROTTI, La probabile figura tombale di Bianca di Savoia (ora trasportata nel Mu-
seo Archeologico di Milano), in «L'Illustrazione Italiana», 53 (1905), p. 643; D. SANT'AM-
IL MONUMENTO FUNEBRE DI BIANCA DI SAVOIA
Se per la statua in abito monacale persiste ancora qualche dubbio — dovuto alla mancanza di sicuri appoggi documentari — gli stemmi sembrano confermare l’appartenenza del rilievo Traversi alla cassa sepolcrale della Savoia- Visconti: il vescovo Durini, infatti,
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li vede e descrive durante la sua visita alla chiesa delle monache nel 175724. Un secondo pannello scolpito, di forma quadrata, è stato rintracciato tra i materiali non esposti del Museo d'Arte Antica del Castello Sforzesco
Fig.2 SCULTORE LOMBARDO, pannello late-
degli elementi laterali della cassa? ini
199) cree ES Janet AnticaRoc del Castello Sforzesco,
di Milano
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rale del sepolcro di Bianca di Savoia, 1388-
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(in deposito presso Palazzo Marino).
(89x104x8 cm) e marmo impiegato coincidono infatti, per altezza e spessore, con quelle del pezzo già a Desio (mi-
surante 88x198x8 cm). Entro una cornice modanata degradante è ricavato, nella pietra rosata di Candoglia, un singolo scudo bipartito con la vipera viscontea (che stringe tra le fauci il consueto ingollato di profilo) e la croce sabauda, resa a rilievo. Sono inoltre evidenti tracce delle modanature che proseguivano su entrambi i fianchi del pannello laterale: il sarcofago era dunque isolato, scolpito su tutte e quattro le facce e probabilmente sostenuto da colonnette, tipologicamente affine a quello, pressoché coevo, destinato a ospitare il corpo di Regina della Scala (morta nel 1384), moglie di Bernabò Visconti e cognata della stessa
BROGIO, Recenti scoperte artistiche, in «Lega Lombarda», 5 (1906), p. 3; ID., Ancora della
dispersa tomba di Bianca di Savoja del 1387, in «Lega Lombarda», 54 (1906), p. 4. 24 ASDPv, Fondo I Cartella 58, Santa Clara. Monastero detto di Santa Chiara, fasc. 1b,
Visite pastorali-inventari, Relazione della visita pastorale del 26 febbraio 1757: «In medio d(ict)e eccl(es)ie interioris est lapidem sepulcri ex marmore albo cum stemmate (dominorum) Vicecomitum Mediolani ducu(m). Et in angulo d(ict)e eccl(es)ie parum longe a d(ict)o altari in angulo est mausoleu(m) marmoreu(m) in formam urne cum armis dict(is) d.d. [dominorum] Vicecomitum M(edio)l(a)ni ducu(m) circum circa, et cum statua mar-
morea iacente desuper, in quo dicitur adesse cadaver g(uonda)m sereniss(im)e ducisse Blance Marie fundatricis d(ict)i monasterii». 25 Si ignorano provenienza, circostanze e data dell’acquisizione del pezzo (inv. 901): la menzione nell’Inventario Vicenzi (c. 114, n. 901, in ACRAMI) porta però ad ascriverne
l'ingresso nel patrimonio municipale a una data precedente alla fine del terzo decennio del Novecento. Il rilievo è attualmente depositato in un atrio di passaggio in Palazzo Marino a Milano: cfr. Tosi, in Museo d'Arte Antica cit., pp. 303-304, n. 303, fig. 303.
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Bianca, Semplicemente sbozzato sul lato posteriore, il sarcofago della nobile veronese presenta sui lati brevi una croce gemmata a rilievo e una tamponatura
d’età successiva, mentre sul fronte sono scolpiti, entro riquadri, una Engelpietà affiancata dalle figure a mezzobusto degli evangelisti Giovanni e Luca. Lampanti sono le differenze tra gli apparati iconografici dei due sarcofagi, con quello pavese che, rinunciando a ogni elemento antropomorfo e narrativo (almeno per
i frammenti a noi noti)?”, affida ai soli stemmi, inframezzati da una testa leonina
d’ascendenza classica, il compito d’ingentilire la nuda pietra. Una sintesi che rimanda piuttosto a esemplari più antichi, come la tomba di Olrico Scaccabarozzi della fine del XIII secolo — già in San Francesco Grande a Milano («v'è una croce nel mezzo, e due insegne gentilizie ai lati»)? — o il sarcofago del vescovo Rogerio Caccia nel Duomo di Piacenza, risalente alla metà del Trecento?0. L’impossibilità di conoscere l’originaria articolazione del monumento funerario di Bianca di Savoia non consente comunque di escludere che altre parti perdute lo completassero, come dimostra il solenne apparato architettonico e statuario a corredo della tomba del cardinale Guglielmo Longhi (morto nel 1319) in Santa Maria Maggiore a Bergamo’!, dove il fronte della cassa presenta 26 Realizzato per la chiesa di San Giovanni in Conca, è anch’esso conservato nel Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco (inv. 858). Il tradizionale accostamento tra l’arca e Regina della Scala è stato recentemente messo in discussione da VERGANI, in Museo d'Arte Antica cit., pp. 291-295, n. 298, fig. 298, partendo da alcuni dubbi sollevati tempo prima da Francesca Tasso e Maria Letizia Casati (in I Maestri Campionesi. La scultura del 300 in Lombardia, a cura di D. PESCARMONA, cd-rom, Campione d’Italia 2000, n. 67).
2? Anche l’altro pannello laterale recava forse il motivo dello scudo sabaudo-visconteo. 28 Secondo E. Gatti, Sulle origini araldiche della Biscia Viscontea, in «Archivio Storico
Lombardo», 46 (1919), 3, pp. 363-381: 380, nota 2: «Clemente IV è il primo papa (+ 1268) che sulla sua tomba in Viterbo ha lo stemma gentilizio: Marino Morosini (+ 1253) è il primo doge di Venezia che ha lo stemma sul sepolcro. Già gli stemmi gentilizi erano comparsi sul sepolcro di Martino Della Torre (+ 1263) che è a Chiaravalle presso Milano». 2? G. GIULINI, Merzorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della Città, e
Campagna di Milano ne’ secoli bassi, VIII, Bianchi, Milano 1760, pp. 495-497, fig. a p. 495. «L'arca sepolcrale», perduta, risaliva al 1280 circa. La sua immagine ci è nota soltanto grazie all’incisione pubblicata da Giulini, che riferisce inoltre come la tomba, già ai suoi tempi, non si trovasse più nel grande edificio francescano danneggiato da crolli, quanto «in un piccolo Cortile vicino al refettorio di quel Convento». 0 G. GUERRINI, La scultura nel Duecento e nel Trecento, in Storia di Piacenza. Dalla
signoria viscontea al principato farnesiano (1313-1545), III, Tip.Le.Co., Piacenza 1997, pp. 721-745: 737, fig. 249. Ancora più arcaicizzante è il sarcofago, scolpito da un artefice
locale, del successore Pietro da Cocconate, morto nel 1372 (ivi, fig. 250). Per la tipologia dei sarcofagi v. P. SEILER, La trasformazione gotica della magnificenza signorile. Committenza viscontea e scaligera nei monumenti sepolcrali dal tardo Duecento alla metà del Trecento, in Il Gotico europeo in Italia, a cura di V. Pace, M. BAGNOLI, Electa, Napoli 1994, pp. 119-140. 3! Realizzato per la locale chiesa di San Francesco, fu traslato nel 1839 nell’attuale collocazione. Cfr. I. Capurso, E. NAPIONE, L'arca del cardinale Guglielmo Longhi aBergamo e
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Fig.3 LORENZO CATTANEO, Fronte della chiesa di Santa Chiara a Pavia, inchiostro su carta, 1629. ASPv, Notarile, cart. 8063, istromento del 9 gennaio 1629.
l’Agnus Dei al centro, affiancato dagli stemmi della famiglia Longhi (di ... al leone linguato e lampassato di ..., alla banda di ... attraversante sul tutto). Lo scudo con la biscia e la croce non sembra un semplice elemento accessorio, ma assume nella chiesa pavese di Santa Chiara un ruolo da protagonista, presentandosi al fedele come “marchio di fabbrica” e rimando alla figura della fondatrice, trovando posto anche in facciata («nelle cui alli [sic] vi sono ancora due armi ducali con sopra il Bissone in campo bianco, et la Croce bianca in campo rosso con sopra la corona ducale») (fig. 3)??; non deve per questo sorprendere il grande spazio riservatogli dallo scultore nella sepoltura. la scultura lombarda del primo Trecento: nuove proposte, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di lettere e filosofia», s. 4, 9 (2004), 1, pp. 103-138.
32 Il disegno è tratto dall’istromento rogato dal notaio Lorenzo Cattaneo in data 9 gennaio 1629 (ASPv, Notarile cart. 8063), documento menzionato da ALBERTINI OTTOLENGHI,
in Arte in Lombardia cit., p. 226 e da BANDERA BISTOLETTI, in La pittura a Pavia cit., p. 62.
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Le ingenti manomissioni e distruzioni del patrimonio storico-artistico di Pavia impediscono di proporre confronti e ipotesi ricostruttive più puntuali: entro la vicina chiesa di San Francesco erano presenti illustri sepolture, come quella d’Isabella di Valois, moglie di Gian Galeazzo Visconti (figlio di Bianca), che dal 1372 giaceva — assieme al figlio Carlo — presso l’altare maggiore; oltre ad essa, secondo una tradizione non confermata, le tombe tardotrecentesche
del marchese e signore di Saluzzo Manfredo V, della sposa Eleonora di Savoia, della figlia Maria e del nipote Filippo Galeazzo”; e chissà che il sepolcro della nuora Isabella possa aver fatto da modello o ispirazione per il sontuoso «avello di bianco marmo» destinato a Santa Chiara.
? G. RoBOLINI, Notizie appartenenti alla storia della sua patria, V, Fusi, Pavia 1834,
pp. 57-58; R. MAIOCCHI, Le Chiese di Pavia. Notizie, II, EMI, Pavia 1903, pp. 50, 71. Nel 1509 la salma di Isabella fu trasferita alla Certosa di Pavia e inumata assieme al marito, morto nel 1402: C. MAGENTA, La Certosa di Pavia, Fratelli Bocca, Milano 1897, p. 136.
«IO SO CHE SOPRA DETTE CAMPANNE VI È L’ARMA DELLA CITTÀ»: LE CAMPANE DELLA CATTEDRALE DI LODI Chiara Bernazzani
Nelle imprese artistiche e nei manufatti più vari, a partire dal Medioevo, il linguaggio araldico ha dato vita con il suo “sistema di segni” ad una comunicazione immediata e densa di contenuti: committenza e pubblico erano in grado di cogliere il valore di contrassegno simbolico e giuridico di questo linguaggio visivo, la cui presenza trasformava alcune opere in veicoli di specifici messaggi. Tra le classi di manufatti sui quali la presenza di stemmi riveste un ruolo tutt’altro che secondario figurano le campane, rimaste per lungo tempo ai margini degli studi storico-artistici a causa del loro statuto di oggetti funzionali, sebbene realizzati da artefici di elevato profilo tecnico e artistico!. Che alle campane spettasse il dominio della sfera sonora è dimostrato da innumerevoli fonti letterarie, cronachistiche e statutarie medievali e moderne ricche
di attestazioni sull'importanza del loro suono nelle realtà urbane e nel contado. La presenza di insegne e figure araldiche sui bronzi aggiunge un’inaspettata peculiarità visiva a oggetti destinati a una scarsa quando non nulla visibilità, generando complesse dinamiche di comunicazione che non escludono un rafforzamento “rappresentativo” della committenza. Sulle campane la disposizione, la struttura e il contenuto di epigrafi e figure tendono a rispondere a uno “schema”, già definito nel XIV secolo, che rafforza l’espressione visiva dell’ufficialità prescindendo dalla sua effettiva fruibilità. La campana che memorie e documenti chiamano la Vecchia?, datata 1447 e * Ringrazio Cecilia Cametti per i sopralluoghi nei depositi del Museo Civico di Lodi e la costante disponibilità; Sara Fava dell'Archivio Storico Comunale di Lodi e Giovanni Vanini per i preziosi suggerimenti fornitimi nella ricerca documentaria.
! Si veda il contributo di Giampaolo Ermini contenuto in questo stesso volume. 2 Le otto campane dell’attuale concerto sono del 1977. La data di fusione della Vecchia, riportata correttamente dalle fonti più antiche, è stata in più occasioni pubblicata erroneamente come 1442: Notiziario, in «Archivio Storico Lodigiano», 2 (1954), pp. 143145: 144; A. CARETTA, L. SAMARATI, Lodi. Profilo di storia comunale, Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, Lodi 1958, tav. XLIX; A. CARETTA, I/ nostro campanile, estratto
da «Il Bollettino. Rassegna del Comune di Lodi», 4 (1960), s.n.p.; A. CARETTA, A. DEGANI,
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in origine sul campanile della cattedrale di Lodi’, è la più antica tra quelle giunte fino a noi che un tempo costituivano il corredo campanario della chiesa (tav. 16). Si tratterebbe infatti dell’unico bronzo sopravvissuto all'incendio della torre nel 1522 ed è proprio in relazione a questo episodio che lo troviamo menzionato nella maggior parte della storiografia locale dalla metà del Seicento in avanti. Stando alle fonti (in particolare a Defendente Lodi, cui tutte mostrano di rifarsi)‘ il fuoco, appiccato per non lasciar scampo ai lodigiani rifugiatisi sul campanile nella città in stato d’assedio, avrebbe raggiunto e distrutto il castello campanario liquefacendo i bronzi ad eccezione della Vecchia?. Non sono mancate letture critiche del racconto$, la cui veridicità non è dimostrabile come non lo è la notizia secondo
cui, dopo l’incendio, la Vecchia e le nuove campane fatte fondere per ripristinare il corredo della cattedrale sarebbero state temporaneamente collocate su di un castello posto sul «volto» della chiesa, con gravi danni alla statica dell’edificio”. Il bronzo8 reca entro la fascia intorno alla calotta un’epigrafe con la sottoA. Novasconi, La Cattedrale di Lodi, Banca Mutua Popolare Agricola di Lodi, Lodi 1966, p. 33; G.C. ScIoLLA, Lodi. Museo Civico, Calderini, Bologna 1977, p. 48. Il Museo Civico
di Lodi, alle cui collezioni la Vecchia appartiene, è attualmente chiuso per un intervento di ristrutturazione e riqualificazione degli spazi destinati al nuovo allestimento. 3} Erronea la denominazione Bassana riferitale da G. AGNELLI, Lodi ed il suo Territorio nella storia, nella geografia e nell'arte, Lodigraf, Lodi 1917, p. 34.
4 D. Loni, Chiese della città e dei sobborghi di Lodi, in «Archivio Storico per la città e comuni del circondario di Lodi», 11 (1892), 2, pp. 65-100: 92. ? Biblioteca Laudense, G.A. Porro, Vite der Vescovi di Lodi, ms. XXIV A61/62, c. 4177; Biblioteca Laudense, ms. XXVIII B8/B9, B9, G.M. MANFREDI, Racconti bistorici della nostra
città di Lodi (...), p. 145; A. CISERI, Giardino istorico lodigiano o sia istoria sacro-profana della città di Lodi, e suo distretto (...), Giuseppe Marelli, Milano 1732, pp. 19-20; G.B. MoLossi,
Memorie d'alcuni uomini illustri della città di Lodi con una preliminare dissertazione dell'antica Lodi (...), Regia Stamperia de’ Socj Antonio Palavicini e Pietro Vercellini, Lodi 1776, p. 130; B. MARTANI, Lodi nelle sue antichità e cose d’arte, Wilmant, Lodi 1876, pp. 4-5. ° CARETTA, I/ nostro campanile cit., parla di «leggenda», ritenendo impossibile che un
incendio appiccato alla base della torre abbia fuso le campane e poco probabile che i bronzi, anziché sottratti come preda bellica, siano stati lasciati liquefare. Le truppe imperiali avrebbero a suo avviso divelto le campane trasportabili, lasciando ir loco la Vecchia forse perché troppo pesante, mentre il campanile, non distrutto, sarebbe stato poco dopo riedificato su progetto di Callisto Piazza. Dall'analisi delle murature risulta tuttavia credibile che la torre abbia subito danni prima della ricostruzione cinquecentesca (da collocarsi tra il 1539 e il 1555), entro la quale fu mantenuta parte della struttura antica (CARETTA, DEGANI, NOVASCONI, La Cattedrale cit., pp. 205-206). 7 Lopi, Chiese della città e dei sobborghi di Lodi cit., p. 92; MARTANI, Lodi nelle sue antichità cit., p. 6; G. AGNELLI, Il campanile del Duomo, in «Archivio Storico per la città e comuni del circondario di Lodi», 17 (1898), 4, pp. 153-159: 153-154. $ La campana, che misura 116 cm di altezza e 103 cm di diametro alla base, ha una
capigliera a sei maniglie decorate a spina di pesce e raccordate a un anello centrale. Fatta eccezione per una crepa nella fascia terminale del profilo e una piccola sbeccatura del labbro, è molto ben conservata.
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scrizione dell’artefice, un breve passo scritturale e la data di fusione: PETRUS ANTONIUS DE AST ME FECIT VOX D(0M1)NI SUP(ER) AQ(UA)s MCCCCXLVIP. L’espressione abbreviata DE AST può essere interpretata come indicazione della provenienza astigiana dell’artefice, inserendosi così in una delle più tradizionali tipologie di “firma” dell’epigrafia campanaria: il nome del fonditore accompagnato da quello della città d’origine (preferibilmente con l’ablativo di provenienza) seguiti dal 7e fecit, nella formula dell’“oggetto parlante”. All’epoca della fusione della campana la città di Asti era inclusa nei domini viscontei, essendo passata a Filippo Maria Visconti dopo la sconfitta di Carlo d'Orléans ad Azincourt nel 1415. Non sorprende dunque che il committente — Filippo Maria Visconti, in qualità di signore di Lodi — si fosse rivolto all’ambiente artistico di quella città o a un artefice astigiano trasferitosi in terra lombarda, tanto più considerando la tradizionale itineranza dei fonditori di campane, dovuta sia alla natura del lavoro sia alla perizia richiesta, non sempre soddisfatta dal panorama artistico locale. «Vox Domini super aquas» è invece il terzo verso del salmo XVIII che trasferito sul bronzo crea una perfetta sovrapposizione tra la «vox Domini» citata nel salmo e il suono della campana, non di rado chiamata così nelle iscrizioni e in genere senza una precisa citazione scritturale. Sotto l’iscrizione una fascia più ampia racchiude un medaglione con l’arma ducale viscontea tra le iniziali F e M di Filippo Maria Visconti, morto proprio nel 1447!° (tav. 17). Non si tratta dell’unico stemma presente sulla campana: sul corpo figura anche, in dimensioni pari a quasi due terzi dell'altezza del ma? Un motivo a rosetta con croce greca raggiata centrale (simile a un ostensorio) retta da un piedistallo con due volatili ai lati è replicato nove volte come elemento di divisione tra le parole. La più antica trascrizione tradita figura in una delle due carte del Liber Diversorum del 1571 che raccolgono, come specifica il titolo, Le iscrittioni delle campane de Lodi che sono sopra il Campanille della chiesa maggiore (ASCLo, Archivio Municipale, Libro dei diversi s.3, 265, c. 148v): «Sopra la Campana vecchia sono queste lettere Petrus Ant(oniu)s de Ast me fecit vox D(omi)ni super aquas 1447 con l’arma del Duca et con l’arma della Co(mun)ita». 10 Biblioteca Laudense, ms. XXVIII A31, G.G. FAGNANI, Libro di memorie, c. 4v: «Nel
1447 terminò la linea de Visconti Duchi di Milano con la morte di Filippo Maria senza figli, morto alli 13 d’Agosto, e quest'anno medesimo morente egli si fabricò la campana del Duomo detta la Vecchia su della quale si vede impressa l’arma di casa Visconti». Una trascrizione dell’epigrafe con la menzione del corredo araldico della Vecchia (e delle altre campane antiche della cattedrale) compare in Del campanile e del campanone del Duomo, in «Archivio storico per la città e i comuni del circondario e della diocesi di Lodi», 39 (1920), 1, pp. 2535: 34 e prima ancora in Iscrizioni poste sulle campane della Cattedrale di Lodi, in «Archivio storico per la città e i comuni del circondario e della diocesi di Lodi», 10 (1891), 2, pp. 93-94: 94, pubblicazione delle citate pagine del Liber diversorum. Il più completo contributo sull’argomento resta L. SALAMINA, Campane del Duomo, in «Archivio storico per la città e iComuni del Circondario e della Diocesi di Lodi», 56 (1937), 1, pp. 206-210 (da cui apprendiamo che la Vecchia, con nota fa diesis, si ruppe nel 1934 dopo un uso continuo durato cinque secoli).
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nufatto, il grande scudo crociato della città di Lodi (tav. 16)!!. Le tecniche di
realizzazione dei due stemmi sono diverse: l’arme cittadina fu tracciata a graffito sulla forma della campana prima della sua cottura, mentre il medaglione fu ottenuto, tramite il processo di fusione a cera persa, da un modello in cera ricavato da matrice e risulta più rilevato nonostante le dimensioni di molto inferiori. La prima tecnica, poco attestata in area emiliana e lombarda (stando agli esemplari conservati) e più frequente in quella veneta e friulana!?, dona allo stemma una monumentalità paragonabile a quella delle armi scaligere sulle campane trecentesche oggi al Museo di Castelvecchio a Verona!, confermandosi adatto a raffigurazioni (anche araldiche) cui si intende concedere particolare spicco dimensionale sul manufatto!*. La seconda è invece la tecnica più diffusa nella realizzazione degli apparati decorativi campanari, non solo per le immagini sacre!” ma anche — quel che qui interessa — per le impressioni da sigilli e da bolli, non rare sulle campane e dotate di valenza ufficializzante. Gli stemmi ottenuti da matrice hanno in genere
!! Un documento del 3 agosto 1684 rogato dal notaio Antonio Bonelli riporta le iscrizioni delle campane della cattedrale (trascritte durante un sopralluogo finalizzato a fornire un supporto documentario alla disputa che opponeva vescovo e governo cittadino intorno al loro suono; cfr. infra). Per la Vecchia si legge: «La 2a campana chiamata la Vecchia tiene impresse in un solo giro nella parte super(io)re li seg(uen)ti caratteri in gottico con alcuni mazzi di fiori framezzanti e qui delineati cioè Vox * DNI * Sup. Nos * M.CCCXLVII PETRUS ANTONIUS DE * AST * ME * FECIT *. Immediatam(en)te sotto alle d(ette)e parole vi sono cioè l’Imagine della B.V. M(ari)a col Bambino Gesù sul braccio sinistro, la (Imagine) del Sig(no)re della Pietà e la (Imagine) di S. Bassano, l’arma della Città di su descritta che copre la 4a parte della Campana, con l’arma delli duchi di Milano composta di due aquile e due serpi che tengono in bocca un mezzo corpo humano, e da un lato di quell’arma è un f, e dall’altro un m pure di carattere gottico» (ASCLo, Notaio Antonio M. Bonelli 46. E-48. B, 1677-1722, R.1 73 filze, s.n.c.). La descrizione è accompagnata da una trascrizione
mimetica dell’epigrafe che rendiamo con asterischi laddove sulla carta compare un motivo vegetale ad imitazione degli elementi decorativi inseriti nell’iscrizione. 2 C. SOMEDA DE Marco, Campane antiche della Venezia Giulia, Doretti, Udine 1961;
M.L. Bottazzi, Fonditori di campane: dalla bottega medievale alla produzione industriale nell'ambiente artistico del Rinascimento veneziano, in L'industria artistica del bronzo del Rinascimento a Venezia e nell'Italia settentrionale, atti del convegno internazionale di studi (Venezia 2007), a cura di M. CERIANA, V. Avery, Scripta, Verona 2008, pp. 363-374. Fonditori di campane a Verona dal XI al XX secolo, a cura di L. FRANZONI, Cortella Industria Poligrafica, Verona 1979, pp. 28-40. !4 Si veda il caso della Lucardina del Museo Civico Medievale di Bologna, datata 1447,
sul quale rimandiamo a C. BERNAZZANI, La campana civica: tra signum, simbolo e celebrazione visiva, in «Opera, Nomina, Historiae. Giornale di cultura artistica» , 2-3 (2010), pp. 287-392: 336-338. ‘’ Impressioni da matrice sono pure le due formelle con l’Imago Pietatis e la Vergine con Bambino sotto edicole cuspidate entro la fascia ospitante l’emblema visconteo e quella con San Bassiano, di altezza doppia rispetto alle altre due e meno rilevata, disposta per metà entro la suddetta fascia e per metà su parte del corpo campanario.
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dimensioni medio-piccole e sono non di rado associati agli spazi scrittori, quasi a sanzionare le epigrafi nel “segno” dell’autorità committente!. In un significativo accostamento araldico figurano dunque sul bronzo lodigiano due emblemi d’autorità, che celebrano il potere di un signore che formalmente garantiva alla città — anche sul piano visivo — una sua autonomia, permettendo la sopravvivenza delle istituzioni comunali, per quanto trasformate!”, e intervenendo nelle istituzioni locali con discrezione!#, Trattandosi di
una campana della cattedrale, lo stemma della Communitas era un modo per visualizzare, oltre verosimilmente al concorso della municipalità nelle spese di fusione (aspetto su cui insisteranno i documenti atti a dimostrare il diritto della municipalità di usufruire dei bronzi della cattedrale in piena autonomia), la dimensione anche laica in cui la campana era calata. Le fonti attestano infatti per Lodi l’uso plurisecolare delle campane della maggiore chiesa cittadina per segnali di pertinenza civica!?. Non sarà un caso se tutti i bronzi cinque e seicenteschi della cattedrale recavano, come vedremo, l’arme crociata lodigiana o la
menzione epigrafica della città. Sulla Vecchia la memoria cittadina si accompagna però all’esibizione dell’emblema di Filippo Maria, che aveva riaffermato la propria autorità su quasi tutto il nucleo lombardo della disgregata compagine territoriale viscontea presentandosi come duca legittimo. La differenza nella tecnica di realizzazione dei due stemmi potrebbe anche nascere da un intento programmatico: l’arme della città ha priorità dimensionale ma ridotto impatto visivo, come a riconoscere una realtà istituzionale senza esaltarla troppo; il medaglione con lo stemma del signore reca invece con sé, per la forma e il forte aggetto, un’eco del potere sanzionante dei sigilli, rafforzata dalla componente celebrativa delle due iniziali che lo inquadrano”. Ne risulta
16 Per un esempio veronese (datato 1488) cfr. BERNAZZANI, La campana civica cit., p. 345. !7 A. GAMBERINI, E. SOMAINI, L'età dei Visconti e degli Sforza (1277-1535), Skira, Milano CONLEpSo7E
1a R. Musso, Le istituzioni ducali dello ‘Stato di Genova’ durante la signoria di Filippo Maria Visconti (1421-1435), in L'età dei Visconti. Il dominio di Milano tra XIII e XV secolo, a cura di L. Chiappa Mauri, L. DE ANGELIS CAPPABIANCA, P. MAINONI, La Storia, Milano 1993, pp. 65-111: 75. Sui rapporti tra città e dominus nel passaggio tra la tarda età comunale e l’affermazione di nuovi modelli istituzionali vedi M. VALLERANI, Introduzione. Tecniche
di potere nel tardo medioevo, in Tecniche di potere nel tardo medioevo. Regimi comunali e signorie in Italia, a cura di Ip., Viella, Roma 2010, pp. 7-24 e R. Rao, Le signorie dell’Italia nord-occidentale fra istituzioni comunali e società (1280 ca.-1330 ca.), ivi, pp. 53-88: 85.
1 Un altro esempio di plurisecolare impiego delle campane della cattedrale al servizio delle autorità cittadine (con conseguenti contrasti) è offerto da Crema; cfr. C. BERNAZZANI, Il campanile e le campane del Duomo: brevi cenni storici documentari, in La Cattedrale di Crema. Assetti originari e opere disperse, Scalpendi, Milano 2012, pp. 155-166: 158-160. 20 Un esempio pressoché coevo di bronzo con una decorazione improntata alla celebrazione signorile (in questo caso esclusiva) è quello di una campana dell’abbazia di Santa
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Fig. 1 Campana della cattedrale di Lodi (detta Vecchia), 1447, dettaglio dell’iscrizione. Lodi, Museo Civico, depositi.
una preminenza della componente signorile, potenziata da un virtuosismo nella realizzazione dell’iscrizione senza pari nei manufatti campanari coevi
da noi studiati. Guardando le lettere che compongono l’epigrafe si scorge infatti, Fig.2 Campana della cattedrale di Lodi
insieme a raffinati motivi fogliati, un
(detta Vecchia) 144iadentali zione. Lodi, Museo Civico, depositi.
sorprendente repertorio di uccelli dix à : ; inequivocabile gusto cortese, che richiama alcune raffigurazioni dei tarocchi e delle carte venatorie (tra tutti il celebre Hofiagdspiel del Kunsthistorisches Museum di Vienna, datato 1440-1445)?!,
o brani di decorazione parietale e delle miniature pervase dal gusto tardogotico per le rappresentazioni di cacce, di volatili e di piumaglie. Le I sono affiancate da quattro uccelli affusolati che sembrano falconi (e che impreziosiscono ripetutamente il fondo dello spazio epigrafico accanto ad altre lettere e alla base dei motivi a rosetta che separano le parole); le O di Antonius e di vox racchiudono l'elegante profilo di un airone; la F di fecit una civetta; gli spazi vuoti di L, P,Q,
D, C e N ospitano robusti falconi dei quali si rappresentano anche l’occhio e il becco semiaperto (fig. 1), mentre originalissime appaiono la S composta da due mostri anguiformi con teste di volatile e la T il cui risvolto termina in un uccello appeso a testa in giù (fig. 2). Volatili compaiono inaspettatamente anche nelle
Maria della Neve a Torrechiara, presso Parma, datata 1475: nel suo spazio epigrafico figura, accanto agli emblemi dei Rossi e di Bianca Pellegrini d’Arluno, il monogramma con le iniziali intrecciate di Pier Maria Rossi, presente anche nella decorazione del vicino castello di Torrechiara, dimora del signore; cfr. A. MORDACCI, Una campana di Antonio da Ramiano
(1475), in L'abbazia benedettina di Santa Maria della Neve a Torrechiara, Grafiche Step Editrice, Parma 2009, pp. 147-151. 2! H. RÔTIGEN, Das Ambraser Hoffagdspiel, in «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien», 57 (1961), pp. 39-68.
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figurazioni dell I#ago Pietatis (alla destra di Cristo) e della Vergine con Bambino (dove un uccello è posato sulla mano del piccolo Gesù e un altro trova posto ai piedi di Maria)”, Un'incredibile raffinatezza, espressa con gusto da miniatore in dettagli epigrafici che trasformano maiuscole gotiche di elegante profilo? in iniziali miniate popolate di figure; traendo vita dal rapporto tra pieni e vuoti, tra fondo e lettera, esse testimoniano l’elevatissima statura artistica del fonditore e il suo aggiornamento stilistico. Sorprende il fatto che un simile apparato si trovi su di una campana destinata non alla dimora del signore o a un edificio religioso sottoposto al patronato di famiglia, ma alla cattedrale di una delle città del suo dominio. Si trattava quasi certamente della campana maggiore, a giudicare dalle dimensioni e dal fatto che nei documenti sei e settecenteschi viene menzionata come «seconda campana»? o
«campana mezzana»” dopo la realizzazione di una nuova campana maggiore nel 1523, rifusa come vedremo nel 1622. Un documento del 1683 sul quale ritorneremo testimonia che fino a cinque anni prima essa veniva suonata tutti i giorni, tranne i festivi, per fornire i segnali alla scuola che aveva sede nell’Ospedale Maggiore, e che ancora lo era in occasione delle prediche vespertine tenute nei sabati di Quaresima nella chiesa dell’Incoronata; essa era suonata sempre «per ordine della Città»?°. Non essendo sino a ora emerse notizie sulle campane che affiancavano la Vecchia prima del 1522 non sappiamo se il fonditore Pietro Antonio avesse realizzato più di un bronzo per il campanile. Di fronte a un manufatto tanto raffinato e inusuale nelle scelte decorative viene da chiedersi se l’impiego di matrici così ricercate fosse ricorrente nella produzione di questo artefice o se fosse invece richiesto dal Visconti: sono interrogativi cui solo la sopravvivenza di altri manufatti di Pietro Antonio e il loro studio potranno eventualmente dare risposta. Stando alle ricerche sino a ora condotte questa campana è l’unica recante lo stemma del ducato visconteo giunta sino a noi. Vincenzo Forcella ricorda un
2 Per ragioni di spazio non si sono purtroppo potute riprodurre queste immagini.
3 Sebbene correttamente intese dagli autori delle trascrizioni del Liber Diversorum e del documento Bonelli, le lettere dell’iscrizione dovettero apparire incomprensibili a chi, negli atti di una disputa su cui ritorneremo (cfr. infra) datati 1683, scrive: «Sopra la Campana detta la Vecchia vi è l’arma Visconti con quella della Città di Lodi et vi sono parole Greche»: ASCLo, Archivio Municipale, Culto 216, fasc. 2, c. 74v. 24 ASCLo, Notaio Antonio M. Bonelli cit., s.n.c.
2 La Vecchia viene così indicata in una perizia dell'ingegnere Bartolomeo Olcelli del
24 febbraio 1783 (ASCLo, Archivio Municipale, Culto 217, c. 54v). Da un documento del
1827 in cui si stabilisce l'assegnazione degli orologi della cattedrale e di San Francesco (definiti «di ragione Comunale») ad Antonio Donati per la manutenzione apprendiamo che
la Vecchia non era coinvolta nel funzionamento dell’orologio, di cui si descrivono i segnali
dati dalla campana maggiore, dalla Cecona, dalla Bassana e dalla Defenda. 2 ASCLo, Archivio Municipale, Culto 216, fasc. 2, cc. 9r-10r.
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solo bronzo con lo stemma visconteo del biscione ingollante un moro, che in realtà vi compariva in qualità di insegna sforzesca (è noto che gli Sforza adottarono le armi dei loro predecessori per affermare una continuità che legittimasse la loro posizione alla guida del ducato). Si tratta della campana maggiore di Santa Maria delle Grazie,
realizzata nel 1499 da Girolamo Busca; definita dal Forcella «non [...] un semplice instrumento, ma un vero monumento d’arte»”, venne rifusa nel
1722 quando fu predisposto un nuovo concerto. Il suo apparato iconografico comprendeva un’effigie della VergiFig.3 Campana della cattedrale di Lodi (detta Renghera o Arenga), 1552, partico-
xe con il Bambino, un Sant Ambrogio stante con lo staffile, lo stemma della
Es AE
città di Milano (posto sotto l’immagine del santo patrono), il sigillo ovale del
NE
LL Lodi, Biblio
convento domenicano, un Sar Domenico e, sotto quest'ultimo, l’arme visconteo-
sforzesca entro uno scudo?8. Un altro bronzo sul quale si affiancavano dunque gli stemmi di più autorità: la città, il signore e l’istituzione religiosa cui apparteneva il manufatto, che per rappresentarsi sceglieva il linguaggio ufficiale della sfragistica. Anche gli altri due bronzi antichi della cattedrale giunti fino a noi, entrambi fusi dopo la ricostruzione cinquecentesca del campanile, sono rilevanti dal punto di vista araldico: su di essi è celebrata la sola «Comunitas», committente delle fusioni. La Renghera o Arenga”?, realizzata al tempo del vescovo Giovanni Simonetta nel 1552 e oggi nel cortile della Biblioteca Laudense’° (fig. 3), rivela,
77 V. FORCELLA, Iscrizioni delle chiese e degli altri edifici di Milano dal secolo VII ai giorni nostri, XI, Tip. Bortolotti di G. Prato, Milano 1892, p. 22.
28 Ivisp,21.
? ASCLo, Archivio Municipale, Libro dei diversi cit., c. 149r: «Sopra la Renghera Intinabuli huius sonus Iustitiam clamantis Co(m)unitas Lauden(sis) 1552 con l’arma della co(mun)ita» (pubblicato in Iscrizioni poste sulle campane cit., p. 94); ASCLo, Notaio Antonio M. Bonelli, cit., carta non numerata: «La settima Campana chiamata la Renga, Campana della giustizia si leggono impresse in la parte superiore nil primo giro le seg(uen)ti parole cioè Intinabuli huius sonus iustitia(m) clamantis nel (second)o giro Comunitas Laudenis MDLII ed in q(ues)to stesso secondo giro vi è impressa l’arma dilla Città». 7 SALAMINA, Campane del Duomo cit., p. 34, nota 1, la dice collocata «su piccola torre» e utilizzata per chiamare i canonici al coro; ai tempi della pubblicazione di CARETTA, DEGA-
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nel nome assegnatole dalla comunità, dai documenti e prima ancora nell’iscrizione, la sua funzione civica: [T]INTINABULI HUIUS SONUS IUSTICIAM CLAMANTIS / COMMUNIBUS LAUDEN(S)Is MDLIN!. Si tratta di un inequivocabile riferimento all’esercizio della funzione giudiziaria da parte del governo cittadino e alla pratica di suonare la campana quando si conducevano a supplizio i condannati”, Non per nulla l’unico elemento iconografico è lo scudo della città, inserito nella porzione inferiore dell'iscrizione tra il ricordo epigrafico della «Comunitas» e la data. La campana del 1584 chiamata dalle fonti Bassaza” (fig. 4) e oggi all’ingresso della cattedrale? presenta un’epigrafe in cui le autorità cittadine sono ricordate in veste di committenti: SONET VOX TUA IN AURIBUS MEIS CURA ET IMPEN(SIS) M(AGNIFI)CAE COMUN(ITA)TIS LAUDAE ANNO 1584. Entro la fascia sottol’iscrizione
compaiono lo scudo della città e tre formelle con Sar Bassiano (da cui probabilmente deriva il nome popolare della campana, forse benedetta nel nome del patrono) tra le iniziali S e B, la Crocifissione e la Vergine con il Bambino. Si è accennato al fatto che tutte le campane della cattedrale lodigiana recassero l’arme cittadina e/o la menzione epigrafica della Communitas o Respublica Laudensis, aspetto segnalato per la sua peculiarità dagli autori che si occuparono di questi bronzi”. La presenza di un costante richiamo alle autorità laiche
NI, NOVASCONI, La Cattedrale di Lodi cit., p. 41, era invece conservata al Museo Civico (nel
quale venne lasciata in deposito nel 1954 insieme alla Vecchia). ì! Osservando l’iscrizione, di rozza fattura, si notano le conseguenze di un difetto nel fissaggio degli stampi in cera delle lettere (disposti sulla forma della campana nella fase di preparazione precedente alla fusione): la N di LAUDEN(S)IS è scivolata verso il basso senza staccarsi, mentre la T iniziale di [T]INTINABULI è caduta e andata persa, probabilmente durante la fase di cottura della forma. La campana, che misura 58 cm di altezza e 54,5 cm
di diametro alla base, ha una capigliera a sei maniglie decorate da un motivo mediano a cordone e raccordate a un anello centrale. La calotta venne forata in un tempo non precisabile per inserire due viti di sostegno a un nuovo battaglio; una crepa percorre la fascia terminale del profilo, mentre il labbro presenta alcune sbeccature. 32 SALAMINA, Campane del Duomo cit., p. 210. La campana era la settima del concerto. 3 Ibid., segnala la «sagoma elegante» della campana e la nota si bemolle; ASCLo, Notaio Antonio M. Bonelli cit., carta non numerata: «La quinta Campana chiamata la Bassana tiene impresse in un giro solo nella parte super(ior)e le seguenti parole additate da una mano cioè Sonet vox tua in auribus meis cura et impen(sis) M(agnifi)cae Comun(it)atis
Laud(ensis) anno 1584. Seguono immediatam(en)te in un istesso giro le SS. Imagini del SS.mo Crocefisso della B.V. M(ari)a della Concez(io)ne e di S. Bassano con le le(tter)e S da
un lato, e B dall’altro, e finalmente vi è l’arma della Città».
54 Retta da un sostegno in ferro, la campana, che misura 93 cm di altezza e 79 cm di diametro alla base e ha una capigliera a sei maniglie scanalate raccordate a un anello centrale, è molto ben conservata e reca solo alcune sbeccature presso il labbro.
» Del campanile e del campanone del Duomo cit., p. 35; SALAMINA, Campane del Duomo
Cit; px210;
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Fig. 4 Campana della cattedrale di Lodi (detta Bassana), 1584, particolare con lo stemma e la menzione epigrafica della committenza della città. Lodi, cattedrale di Santa Maria Assunta, atrio d’ingresso.
è documentata sia nel Liber Diversorum che nel documento notarile Bonelli,
menzionati a proposito delle epigrafi sin qui esaminate’: in entrambe le raccolte di trascrizioni infatti, e con maggior precisione nella seconda, sono descritti anche gli apparati decorativi e l’«arma della Città» o «della Co(mun)ita» appare regolarmente registrata. Oltre alla Vecchia, alla Renga e alla Bassana, il corredo campanario comprendeva, ancora nel 1937’: la campana maggiore, la prima a
36 Cfr, supra note 91 37 Il corredo campanario documentato nel Liber Diversorum (e da una copia delle iscrizioni in esso registrate conservata in ASCLo, Archivio Municipale, Culto 216, fasc. 5, c. 1#-v)
comprendeva manufatti sostituiti da quelli fusi nel 1584 e nel secolo successivo: oltre alla Vecchia, alla Renga e alla campana maggiore nella sua prima fusione si trovavano sulla torre un’altra «campana vecchia» datata 1522 (anch’essa con «l’arma della Comunità»: ASCLo, Archivio Municipale, Libro dei diversi cit., c. 148v), una «campana nova» datata 1554 con il ricordo epigrafico del vescovo Simonetta e la formula «CIVIUM LAUDEN(SIUM) CURA AERE ECCL(ES)IE» (ivi, c. 149r), la «Chiochona» del 1557 con l’arme cittadina e la menzione
«RESPUB(LICAE) LAUDEN(SIS)» (10:4.) e infine la «campana della nona» datata 1561, pure con l’arme della città (4bid.). Tutte le iscrizioni sono pubblicate in Iscrizioni poste sulle campane
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essere realizzata dopo l’incendio del 1522 e la cui epigrafe del 1523 (preservata nelle rifusioni che si susseguirono nel 1622 e nel 1920) ricordava il drammatico evento?8; la Cecona (o Chieccona) del 1584”, probabilmente fusa in concomitanza con la Bassana vista la data e l’identica formula epigrafica in memoria della committenza; la Defenda e la Violina, entrambe del 1613% e recanti lo stemma della città ripetuto due volte‘". La presenza su queste campane di menzioni di altre autorità e di altre armi (gli stemmi e i nomi di Girolamo Sansone e Michelangelo Seghizzi sulle campane maggiori del 1523 e del 1622, il ricordo epigrafico di Giovanni Simonetta sulla campana nuova del 1554, quello di Ludovico Taverna sulla Cecona del 1584 e dello stesso e di Paolo V sulla Defenda e sulla Violina) appare più tradizionale rispetto al caso della Vecchia, trattandosi delle armi dei vescovi in carica e del pontefice, dunque di una memoria dell’autorità ecclesiastica. Con la fine della dinastia sforzesca nel 1535 e la devoluzione delle terre del ducato all'Impero di Carlo V, aveva avuto inizio la dominazione spagnola. Mutate le circostanze storiche, anche l’apparato araldico dei nuovi bronzi rispecchia un diverso clima: ora è il solo stemma cittadino a visualizzare l’autorità laica, senza che vi sia accostato
quello dei rappresentanti del governo spagnolo (che di fatto rispettarono l’antico ordinamento municipale delle città); nuovo spazio è lasciato allora alla componente ecclesiastica, che con la municipalità condivideva di fatto spesso contendendolo l’impiego delle campane della cattedrale. Laddove infine si appongono
cit., pp. 93-94. La Chiocona (detta anche come si è visto Chieccona o Cecona) dimostra come in caso di rifusione il nome delle campane si trasmettesse dal manufatto più antico a quello che lo sostituiva. 58 È la campana più spesso menzionata dalle fonti insieme alla Vecchia per il suo legame con gli eventi del 1522 (ASCLo, Archivio Municipale, Libro der diversi cit., c. 1480,
pubblicato in Iscrizioni poste sulle campane cit., p. 93; ASCLo, Notaio Antonio M. Bonelli cit., s.n.c.; Biblioteca Laudense, ms. XXIV A34, D. Lopi, Vite dei Vescovi di Lodi, c. 412; Lopi, Chiese della città e dei sobborghi di Lodi cit., p. 92; CisERI, Giardino istorico lodigiano cit., p. 20; MoLossI, Memorie d’alcuni uomini cit., p. 130; AGNELLI, Il campanile del Duomo cit., p. 153; Del campanile e del campanone del Duomo cit., pp. 29-33; SALAMINA, Campane del Duomo cit., pp. 207-209; L. SAMARATI, I vescovi di Lodi, Pierre, Milano 1964, p. 206; CARETTA, DEGANI, NovasconI, La Cattedrale cit., p. 45. 3 ASCLo, Notaio Antonio M. Bonelli cit., s.n.c.; SALAMINA, Campane del Duomo cit. 209: i 4° Le due campane sono erroneamente datate 1616 e 1617 in CARETTA, DEGANI, Nova-
ScONI, La Cattedrale cit., p. 44. 4! SALAMINA, Campane: del Duomo cit., pp. 209-210 registra per la Defenda la data di fusione 1612, ma si tratta probabilmente di un errore dal momento che l’accurato documento Bonelli riporta la data 1613 (ASCLo, Notaio Antonio M. Bonelli cit., carta non nu-
merata). Essendo la Violina datata 1613 è inoltre più verosimile pensare che in quell’anno venissero commissionate due campane anziché una ad un solo anno di distanza dall’altra.
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CHIARA BERNAZZANI
i nomi delle singole autorità cittadine (come avviene per i decurioni menzionati sulle campane maggiori del 1523 e del 1622) non figurano stemmi personali*?. È utile infine ricordare i contrasti che opposero autorità ecclesiastica e laica intorno al suono delle campane della cattedrale, significativi nell’ottica di un “approccio araldico” alla questione. In questo contesto emergono infatti spesso la visibilità degli stemmi, la diffusa consapevolezza della loro esistenza sulle campane e il peso documentario (e legale) a essi assegnato in sede di dibattimento sui diritti alla priorità d’uso delle campane da parte della municipalità. L'Archivio Storico Comunale conserva un’imponente serie di scritture relative a questa controversia datate tra 1683 e 1686: intendendo la città servirsi delle campane della cattedrale in piena libertà, viene approntata una serie di motivazioni a suo favore (dall’elezione e pagamento del campanaro — entrambi spettanti al governo cittadino — ai plurisecolari impieghi laici dei bronzi, che proverebbero il loro pieno possesso da parte della città), adducendo, come esempio di legislazione in materia, alcuni documenti copiati presso gli archivi di Pavia**. Ad essi la parte ecclesiastica risponde con altrettante argomentazioni, fino alla definizione, tra 1685 e 1686 con la mediazione del cardinal Mellini, di
una concordia promossa dal conte Carlo Borromeo. Dai documenti emerge come le iscrizioni campanarie fossero considerate
una delle fonti primarie da cui ricavare dati utili per definire le legittime sfere di competenza delle autorità‘: ci si incarica di trascriverle*’ poiché esse testimoniano «delle spese delle quali per l’antichità loro non vi è altra notizia, che quella (che) si scorge dall'iscrizione delle med(esim)e che fa prova concludente per la Città»*8, Gli stemmi cittadini e il ricordo epigrafico della «Communitas» diventano quindi argomento a sostegno del diritto della città a un’autonomia nel loro impiego. Esplicita è la testimonianza di Francesco Tarenzi, figlio del campanaro Domenico, nel corso del dibattimento su quanto verificatosi nel 1683 (quando i canonici impedirono al campanaro di suonare per la liberazione di Vienna dall'assedio turco opponendosi all’ordine da lui ricevuto dal governo cittadino). Le sue parole non lasciano dubbi sulla visibilità dei segni araldici ed epigrafici sulle campane e colpiscono per l’attenzione rivolta alla Vecchia:
#2 Cfr. supra nota 10. 4. ASCLo, Archivio Municipale, Culto 216, fasc. 1. 4. ASCLo, Archivio Municipale, Culto 216, fasc. 2, 5. # ASCLo, Archivio Municipale, Culto 216, fasc. 5, cc. 140-160.
% Ivi, cc. 210r-v, 211r. L'indicazione a fondo pagina sul prossimo invio di una trascrizione delle iscrizioni campanarie — la carta è datata 29 agosto 1684 — va senz’altro messa in relazione con il documento Bonelli, del 3 agosto dello stesso anno. 4 ASCLo, Notaio Antonio M. Bonelli cit. 4. ASCLo, Archivio Municipale, Culto 216, fasc. 5, c. 216r.
LE CAMPANE DELLA CATTEDRALE DI LODI
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Io so che sopra dette Campanne vi è l’arma della Città, perché esse Campan(n)e le vedo tutti i giorni, et tutte l’hore per così dire, et sopra il Campannone vi è l’arma della Città, et quella di Monsignor Seghizi, et sopra le altre Campanne vi è solamente l’arma della Città ecetuata una che è la Campanna Vecchia, quale solo
ha l’arma Visconti, et tanto sopra il Campanone quanto sopra le altre Campanne vi sono le inscritioni di parole, come pure vi sono sopra detta Campanna Vecchia, ma sopra questa si stentano ad intendere. [...] Sì so leggere, et anche un puoco di scrivere. [...] Le ho lette le sodette inscrittioni molte volte per essere quasi sempre su detto Campanile ma non mi raccordo adesso precisamente di che tenore siano solo che sul Campanone vi sono nominati quelli che lo hanno fatto fare, e se mal non mi racordo sono Baldone, Bonone, Pontirolo, e Baratieri Decurioni di quel
tempo, et se vorano che ne faci una copia di dette Inscrittioni, la farò, et la porterò se V.S. comanda”.
Altri passi degli atti conservano testimonianze della familiarità che aveva chi lavorava intorno alle campane con iscrizioni e stemmi”. Si coglie così meglio il peso riconosciuto a «inscriptiones» e «effigies» dal documento Bonelli”, mentre il «si vede» impiegato dal Fagnani per riferirsi all’arme viscontea sulla Vecchia? non apparirà un verbo fuori luogo: non era solo in occasione della cerimonia di benedizione, quando le campane si trovavano al centro dell’attenzione della comunità, che si prendeva coscienza del loro apparato araldico ed epigrafico. Erano aspetti noti, dunque inevitabilmente ripresi in sede di contrasti, ancora nell'Ottocento, quando Chiesa e Municipio continuarono a rimbalzarsi la responsabilità delle spese di manutenzione delle campane appellandosi a competenze e usi”). Forte affinità con le testimonianze dei campanari seicenteschi si coglie in un discorso giuridico raccolto dal Lodi? e citato dal sindaco Giovanni Zanoncelli in un opuscolo a stampa del 1863. L'argomento degli stemmi cittadini sulle campa# ASCLo, Archivio Municipale, Culto 216, fasc. 2, cc. 18v-19v. Sorprendente la cor-
rettezza nell’identità dei committenti del campanone, che era allora quello rifuso nel 1622: «EXPENSIS FABRICAE PRAEFECTIS Bassiano BOLDONO UGOLOTTO Bonomo SEPTIMIO PONTEROLO BASSIANO BARATERIO FUIT RESTAURATA MDCXXII M(ENSE) APR(ILI)»: ASCLo, Notaio Antonio M. Bonelli cit., carta non numerata. 50 ASCLo, Archivio Municipale, Culto 216, fasc. 2, cc. 29v-30r, 73v-75r. 51 ASCLo, Notaio Antonio M. Bonelli cit., s.n.c.
3 Cfr. supra nota 10. ui
3 ASCLo, Archivio Municipale, Culto 271, fasc. 67. Sono documenti datati dal 1831
al 1833 relativi ai lavori di riparazione al castello delle campane; da essi emerge come non fosse mai stata chiarita la divisione delle competenze in materia di spese per le campane.
54 Biblioteca Laudense, ms. XXIV A38, D. LopI, Controversia circa le campane della
Cattedrale di Lodi (...). Il manoscritto consta di tre sezioni dedicate a questioni di interesse pubblico e relative diatribe giurisdizionali: la terza riguarda la controversia sorta tra il vescovo e la città intorno all’uso delle campane negli anni Venti del Seicento.
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CHIARA BERNAZZANI
ne è riportato con intento opposto a quello dei documenti del 1683-1686. Difendendo il Municipio nel suo rifiuto di accollarsi le spese di riparazione, Zanoncelli sostiene che la presenza degli stemmi e il concorso di spesa da parte dell’autorità laica nella realizzazione delle antiche campane non valgono a sottrarle dalla sfera ecclesiastica, ma sono semplicemente affermazione della memoria di benefattori: E veramente cosa hanno a fare i laici con l’uso delle campane, mentre queste sono della militia Celeste Trombe Divine [...]. Né si dica che nel nostro caso le regole addotte possino patire eccezione col fondamento, che i signori Decurioni abbino edificato a spese pubbliche il campanile, fabbricato e rifabbricato le campane, e perciò si siino riservati l’uso delle medemme e questo si argomenti dalle insegne della città impresse sopra le dette campane [...] le insegne non provano nelle cose ecclesiastiche, né dominio, né jus patronato, non considerandosi che per una semplice memoria de’ benefattori che appunto non pretendono altro che memoria delle loro buone operazioni, anzi molte volte spontaneamente gli stessi ecclesiastici per indurre una santa emulazione tra laici, con tali insegne sogliono incitare li benefattori come si vede praticato quotidianamente nelle iscrizioni in marmo: nelle lampadi, nelle pianite, vasi sacri, ecc. [...]?.
Il caso lodigiano mostra dunque come l’importanza degli stemmi sulle campane fosse stata per secoli riconosciuta e condivisa, al punto da venire citata nelle controversie tra autorità: da componenti ufficializzanti dell'apparato decorativo a prove di valore documentario o a semplici memorie della committenza, esse non furono mai ignorate, ribadendo una volta di più l’importanza dell’inaspettata dimensione visiva delle campane.
” ASCLo, Archivio Municipale, Culto 271, fasc. 91, Documenti riguardanti la questione sorta tra il Municipio della città di Lodi e la Fabbriceria della Cattedrale sulla competenza passiva a sostenere il restauro delle campane, Lodi 1863, pp. 14-15.
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ARALDICA E STORIA DELL'ARTE. TRA TESTO E IMMAGINI -
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n.251, 16 Cfr. B.G. KoHL, Paduan Elite under Francesco Novello da Carrara (1390-1405). A
selected prosopography, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», 77 (1997), pp. 206-258: 228-232. Meno certa pare invece la consanguineità con i precedenti del Baptista è Bullo, massaro della Fraglia dei pittori nel 1573, documentato dall’iscrizione della sepoltura collettiva della corporazione esistente un tempo in San Luca (cfr. Tomasini, Urbis Patavinae inscriptiones cit., p. 382 n. 215; SALOMONIO, Urbis Patavinae inscriptiones cit., p. 477 n. 3). 17 Padova, Biblioteca Civica, ms. BP 149.2, G. LAZARA, Miscellanea di cose che riguardano Padova. II, xx11, c. 152r (il manoscritto si data alla metà del XVII secolo).
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FRANCO BENUCCI
spondente all’immagine effettivamente riscontrabile sul frammento epigrafico qui in esame (fig. 1) di quanto non sia la riproduzione facsimilare presente nel Catalogo manoscritto di Moschetti e Cordenons (fig. 2), dove, come si
è detto, l’animale ha piuttosto fattezze leonine e sembra reggere un piatto!*: poiché Lazara non fornisce nessuna indicazione cromatica, pare opportu-
no riportare anche la versione dello stemma registrata nel circa coevo ma-
noscritto Sterzzzi padovani, dove cane e “mazza” sono rappresentati intera-
Fig.4Stemma Bulgi, in Padova, Biblioteca Civica, ms. BP 2105, Stemi padovani,
ea
mente di rosso, in modo più confacente alla consuetudine araldica di non caricare “metallo su metallo”! (fig. 4). À
À
3
È
4
Riconosciuta così, per via araldica,
la famiglia cui probabilmente apparteneva il nostro ragister Franciscus q. Henrici, è quanto meno suggestivo iden-
tificare il testo del manufatto in esame con quello incompiutamente riportato nelle sillogi di Tomasini e Salomonio, integrando entrambi come sopra indicato. Tale identificazione pare ancor più verosimile alla luce del fatto che, secondo una parte della tradizione prosopografica cittadina, Bulgi era l’antico cognome della famiglia Scoini («Nobiles de Scovinis, familia olim de Bulgis dicta»,
«Scoini, qui & de Bulgis»?; «Li Scovini, che già si dissero Bulgi, anticamente trassero la loro origine da Abano, villa del Padovano, et derivano da gente non molto nobile ma opulenta, e grassa. [...] Altri dicono non essere altrimenti li parenti della famiglia dei Bulgi, ma discendere da un marescalco di Padova della
contrà di S. Soffia, oriundo già della villa di Bruzene, di stirpe rusticana»?'): lo stesso Salomonio segnala infatti la presenza in Santa Caterina di una «antiqua sepultura in qua vix legitur ...S Scou...... de Bulg... ......... M:GGGZLeMegZeche
!8 Puramente speculative sarebbero le possibili ipotesi che l’oggetto retto dal cane dovesse essere in origine piuttosto una bulla — borchia, globetto o medaglione — allusiva al cognome, o che il cane stesso potesse eventualmente essere inteso come un bouledogue. !° Cfr. Padova, Biblioteca Civica, ms. BP 2105, Stemmi padovani, c. 36r n. 447 (datato
al XVII secolo).
20 SALOMONIO, Urbis Patavinae inscriptiones cit., pp. 300 nota, 622 sub vocem.
2! BERTOLDO, Cronica della origine cit., pp. 51-52. 2 SALOMONIO, Urbis Patavinae inscriptiones cit., p. 300 n. 6.
DA UN UOMO A UNA PIETRA E VICEVERSA
203
trascrive subito dopo l’epigrafe di magister Franciscus ed eredi suggerendo così l’ipotesi che si fosse trattato di due tombe dello stesso casato, poste in origine presso l’altare “di sua ragione”. Scioglieremo quindi interamente la nostra iscrizione nel modo che segue, includendovi (a prescindere dall’apparente mancanza di scudo) la blasonatura dell’arma familiare che sembra più probabile: [Sepulcrum? malgistri Francis[ci] [de? Bulgi’]s quondam Henrici et s[uorum?] [heredum?]. (arma: [d'argento] al cane rampante [di rosso] linguato e recante nella branca anteriore destra una mazza [dello stesso]) [M CCC LxxI]
L'integrazione testuale proposta implica naturalmente che il frammento di iscrizione pervenutoci corrisponda a circa un quarto della superficie complessiva dell’originaria lastra tombale, che nella nostra ipotesi doveva avere andamento verticale e misurare circa 120x70 cm, costituendo la parte centrale (ma non centrata) della sua metà superiore. Viene allora naturale interrogarsi circa le cause e la possibile occasione di tale riduzione, tenendo conto del fatto che la risega inferiore del nostro frammento non è affatto accidentale, ma presenta invece una intenzionale e accurata finitura architettonica (fig. 5), come se la lastra fosse stata inizialmente tagliata in due nel senso della larghezza e lavorata poi al margine dei blocchi di circa 60x70 cm così ottenuti, per ricavarne due elementi decorativi da utilizzare, separatamente e con la faccia iscritta verso l’alto, quali basi, inserite in una muratura, di simmetrici pilastri o lesene (ovvero, affiancati e con la faccia iscritta verso il basso, come gradino, largo circa 140 cm, d’altare o di am-
pio portale). Impossibile stabilire qui se la duplice frattura in senso subverticale del blocco parzialmente pervenutoci sia avvenuta in corso d’opera, mandando così delusa l'intenzione di riuso architettonico della pietra e determinandone la destinazione agli scarti o a una mera funzione di riempimento sottopavimentale, ovvero in una successiva
fase di rimozione del blocco dalla sua sede: quello che appare certo è che la faccia iscritta e scolpita non mostra
alcun segno di particolare usura da calpestio e presenta invece tracce evidenti di incrostazioni di malta, come se essa fosse stata precocemente pro-
Fig. 5 Frammento di lastra tombale, profilo inferiore. Padova, Musei Civici, collezio-
ne Lapidario, inv. 324.
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FRANCO BENUCCI
tetta da una collocazione, in opera o entro struttura muraria o fondativa, che non lasciandola a vista ha permesso la buona conservazione del rilievo. Se la nostra ipotesi di identificazione dell’epigrafe coglie nel segno e la pietra in esame proviene quindi effettivamente da Santa Caterina, appare fortemente probabile che l'occasione che ne determinò la divisione in due blocchi e la rilavorazione architettonica sia stata costituita dalla lunga fase di ristrutturazione della chiesa — di fatto una sua totale e progressiva ricostruzione, ricca di imprevisti strutturali ed economici — trascinatasi dal 1641 al 1685 (e per quanto riguarda la sistemazione degli altari fino al 1697)? Ciò implicherebbe naturalmente che la pietra, vista e trascritta ancora ix situ da Tomasini (la cui silloge epigrafica fu edita nel 1649: inspiegata resta però l’incompleta trascrizione della seconda riga, forse già coperta da impalcature o da strutture d’arredo non facilmente amovibili) ma, nell’ipotesi, non più visibile né esistente nella sua interezza ai tempi di Salomonio (la cui opera uscì a stampa nell’autunno del 1701, con imprimatur dei Refformatori dello Studio di Padova del 30 maggio 1700 e nulla osta del ministro generale dell'Ordine dei predicatori già del 5 luglio 1699), sia stata da quest’ultimo solo ricopiata con pochi adattamenti grafici dall’opera del predecessore: una prassi del resto non occasionale per il dotto domenicano, ed esplicitamente dichiarata fin dal frontespizio del suo volume (Urbis patavinæ inscriptiones sacra, et prophanæ a magistro Jacobo Salomonio ord. pred. collectæ [...] quibus accedunt vulgata anno M.DC.XLIX. à Jacobo Philippo Tomasino episcopo Æmontensis). Ignote sono anche la data e le modalità del rinvenimento della pietra e del suo passaggio al museo, certo anteriori al rifacimento del pavimento della chiesa di Santa Caterina, avvenuto nel 19332: se fosse verificato che la frattura del
blocco avvenne già in fase di rilavorazione così che i singoli frammenti furono destinati al riempimento pavimentale, si potrebbe tuttavia ulteriormente ipotizzare che occasione propizia (e cronologicamente confacente) per la riesumazione del frammento pervenutoci sia stata la sistemazione del quinto altare della chiesa, quello «della Beata Vergine Addolorata che era della Chiesa di S. Paolo Apostolo delle ex Terese» in Stramaggiore (via Dante), acquistato e murato (primo della parete sinistra) dal vicario don Antonio Bisacco nel 1844, quando le civiche raccolte d’arte e antichità, non ancora ufficialmente denominate Mu-
2 Cfr. S. ZAGGIA, L'architettura nella chiesa di Santa Caterina, in Giuseppe Tartini e la
chiesa di Santa Caterina a Padova, a cura di V. TERRIBILE WIEL MARIN, G. ZAMPIERI, Grafiche
Turato, Padova 1999, pp. 81-95: 89-95; M. DE VINCENTI, Gli altari e le sculture della chiesa diSanta Caterina, ivi, pp. 139-162: 141-154. 24 Cfr. ZAGGIA, L'architettura nella chiesa di Santa Caterina cit., p. 95 nota 33. ? Cfr. ivi, p. 94; DE VINCENTI, Gli altari e le sculture della chiesa di Santa Caterina cit. PPS MISA
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seo, muovevano i loro primi passi, alla vigilia dell’attribuzione ad Andrea Gloria dell’incarico di Cancellista dell’Archivio Civico Antico, titolo che solo nel 1853
sarebbe divenuto di Direttore e nel 1858 convertito in quello di Direttore della Civica Biblio-Pinacoteca e del Museo’.
2% Cfr. A. GLORIA, Del Museo Civico di Padova. Cenni storici con l'elenco dei donatori e
con quello degli oggetti più scelti, Minerva, Padova 1880, pp. 9, 11, 17.
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VISUALIZZAZIONI GIURIDICHE IN PIETRA E SU PERGAMENA. GLI STEMMI DEI PODESTÀ DI FIRENZE Ruth Wolff
In quello che fu il Palazzo del podestà di Firenze, l’attuale Museo del Bargello, è conservato uno straordinario fondo di stemmi scultorei di podestà, datato tra il XIV e l’inizio del XVI secolo'. Sempre in questa città, presso l'Archivio di Stato, è custodito il più grande fondo di registri giudiziari in Italia, prodotti sotto rettori forestieri?, che comprende circa dodicimila volumi, di cui circa un
quarto danneggiato dall’alluvione del fiume Arno del 1966. La maggior parte degli atti giudiziari sono contenuti nelle loro rilegature originali, coperte in pergamena, decorate con disegni e miniature di stemmi e schizzi con soggetti vari.
Presso questo stesso archivio si sono inoltre conservati documenti in pergamena dall'anno 1048, riutilizzati nei secoli successivi come coperte di registri giudiziari, delle quali circa quattrocento sono decorate con stemmi, disegni e schizzi vari*. Altri fondi paragonabili al Fondo Podestà di Firenze, molto meno ampi ma più antichi, sono conservati in altre città come, ad esempio, a Perugia? e a
* Ringrazio Vincenzo Colli per le sue preziose indicazioni e per la sua disponibilità durante molti anni di fruttuosa collaborazione. ! Cfr. A. CEccHI, Dr alcuni stemmi e delle antiche residenze dei Capitani del Popolo di Firenze, in «Archivio Storico Italiano», 148 (1990), pp. 277-288 e Stemmi nel Museo Nazionale del Bargello, a cura di F Fumi CAMBI GADO, SPES, Firenze 1993.
? Per i fondi giudiziari fiorentini del periodo repubblicano conservati nell'Archivio di Stato di Firenze, cfr. Guida generale degli Archivi di Stato italiani, II, Roma 1983, pp. 59-63 (); A. Zorzi, Pluralismo giudiziario e documentazione: il caso di Firenze in età comunale, in Pratiques sociales et politiques judiciaires dans les villes de l'Occident à la fin du Moyen Age, actes du colloque (Avignon 2001), sous la dir. de J. CHIFFOLEAU, C. GAUVARD, A. Zorzi, École française de Rome, Rome 2007, pp. 125-187: 174-181. > G. BIScIONI, I/ materiale documentario danneggiato dall'alluvione del 1966: situazione,
problemi e prospettive, in «Rassegna degli archivi di stato», 47 (1987), 2/3, pp. 429-436. 4 ASFi, Adespote (coperte di libri). Ulteriori coperte sono disperse in altri fondi dell'Archivio di Stato di Firenze. 5 V. GIORGETTI, Podestà, capitani del popolo e loro ufficiali a Perugia (1195-1500), CISAM, Spoleto 1993; C. Curini, S. BALZANI, Podestà e capitani del Popolo a Perugia e di Perugia (1199-1350), in I podestà dell’Italia comunale, I. Reclutamento e circolazione degli
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Bologna®. Claudio Cerretelli ha quindi pubblicato nel 1992 gli stemmi dei podestà di Prato miniati sulle coperte dei libri-registri di questa città con illustrazioni fotografiche dei soli stemmi, ma senza mostrarle per intero”. Le coperte fiorentine e quelle di altre città italiane, considerate finora soltanto in maniera sporadica8, sono attualmente oggetto di studio dal punto di vista storico-artistico?. Sia gli stemmi scolpiti che quelli disegnati e miniati sugli atti giudiziari, si trovavano originariamente nel medesimo edificio fiorentino, il Palazzo del podestà: i primi affissi a partire da circa il 1329 alle pareti del cortile'!°, mentre gli atti giudiziari erano conservati nella Camera actorum
Comunis
Florentiae, che
già nel XIII secolo fungeva da archivio centrale del Comune; qui, ad esempio, erano conservati anche gli statuti cittadini e tutti gli strumenti di misura!!.
ufficiali forestieri (fine XII sec.-metà XIV sec.), a cura di J.-C. MAIRE-VIGUEUR, École française de Rome/Istituto storico italiano per il Medioevo, Roma 2000, pp. 693-739; A. BARTOLI LANGELI, Codice diplomatico del comune di Perugia. Periodo consolare e podestarile (11391254), I (1139-1237), in Fonti per la storia dell'Umbria, 15, Deputazione di storia patria per l'Umbria, Perugia 1983; II (1237-1254), in Font per la storia dell'Umbria, 17, Perugia 1985; III (Indici), in Fonti per la storia dell'Umbria, 19, Perugia 1991. 6 M. VALLERANI, I disegni dei notai, in Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna, catalogo della mostra (Bologna 2000), a cura di M. MEDICA, Venezia 2000, pp. 75-83; Ib.
Ufficiali forestieri a Bologna (1200-1326), in Ipodestà dell’Italia comunale cit., pp. 289-309. ? C. CERRETELLI, Gli stemmi dei rettori forestieri, in Leoni vermigli e candidi liocorni, a cura di A. PASQUINI, in «Quaderni del Museo civico», Italia Grafiche, Prato 1992, pp. 67-
69 (ringrazio Matteo Ferrari per avermi indicato questa pubblicazione); v. anche C. CRISTI, I rettori forestieri a Prato dal 1193 al 1350 ed i loro stemmi, in Prato. Storia di una città, Comune di Prato, Firenze 1991, pp. 727-735, dove sono pubblicati trentasei stemmi del XIII-XIV secolo. V. anche A. SAVORELLI, Prato e la sua immagine araldica, in «Bollettino Roncioniano», 3 (2003), pp. 65-73.
8 Coluccio Salutati e Firenze. Ideologia e formazione dello Stato, catalogo della mostra (Firenze 2008-2009), a cura di R. CARDINI, P. Viti, Pagliai, Firenze 2008, pp. 48-50, 269,
tavv. 35-36. ? R. WOLFF, scheda 16 (Liber inquisitionum, Santi di ser Ciucco di Città di Castello [?]), in Dal Giglio al David. Arte civica a Firenze fra Medioëvo e Rinascimento, catalogo della mostra (Firenze 2013), a cura di M.M. Donato, D. PARENTI, Giunti, Firenze 2013, p. 142 e ss.; EAD., scheda 19 (Liber prosecutionum), ivi, p. 150 e ss.; EAD., scheda 32 (Coperta di un libro delle cause civili), ivi, p. 172 e ss. !0 Vedi sotto, p. 210. !! Perla camera Comunis cfr. A. GHERARDI, L'antica camera del Comune di Firenze e un quaderno d'uscita de'suoi camarlinghi dell’anno 1303, in «Archivio Storico Italiano», s. 4,
16 (1885), pp. 313-361; L. TANZINI, I/ pià antico ordinamento della Camera del Comune di
Firenze: le “Provissioni Canonizzate” del 1289, in «Annali di Storia di Firenze», 1 (2006),
pp. 139-179. Un provvedimento del 3 dicembre 1347 delibera la somma di 50 libbre per
la riparazione della camera actorum Comunis Florentiae (cfr. J.W. GAYE, A.V. REUMONT,
Carteggio inedito d'artisti dei secoli XIV, XV, XVI, G. Molini, Firenze 1839, p. 498, appendice II: «MCCCXIVIII, 3 Decbr. Libr. 50 f. p. pro reparanda camera actorum comunis
flor., in qua acta et libri dicti comunis custodiuntur»). Per l'archivio del Comune custodito
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La Camera dunque era «una sorta di depositario della fides publica del Comune», Gli stemmi dei podestà nel cortile del Palazzo del Bargello sono stati pubblicati in modo esemplare da Francesca Fumi Cambi Gado nel 1993. La studiosa riferisce che la documentazione originale si è conservata in maniera quasi completa presso l'Archivio di Stato di Firenze, completata per l’identificazione degli stemmi da «alcuni libri dei fondi appartenenti alle Carte Strozziane»!; si tratta di un libro autografo in due parti di Carlo Tommaso Strozzi (1587-1670)"4, nel quale questo erudito ha disegnato e colorato di propria mano gli stemmi dei podestà e dei capitani del Popolo, impiegando come modello gli scudi originali riportati sulle coperte del Trecento, del Quattrocento e dell’inizio del Cinquecento, secondo uno stile araldico in linea con il suo tempo. Strozzi si limitò agli
scudi e non riprodusse le epigrafi, gli elmi e i cimieri. Un altro volume, conservato sempre nel fondo delle Carte Strozziane, di cui Fumi Cambi Gado non fa menzione, contiene gli schizzi degli stemmi del podestà eseguiti dallo Strozzi e colorati solo in seguito!. Soltanto sulla parete meridionale del cortile del Bargello si è conservata la gran parte degli stemmi originali, mentre molte delle armi poste sui restanti lati del cortile sono copie, i cui originali furono trasferiti sulle pareti al di sotto delle arcate. Si sono preservati soltanto 134 stemmi dei podestà a fronte dei complessivi 803 funzionari di cui siamo a conoscenza grazie ai registri giudiziari dell’ Archivio di Stato di Firenze, che coprirono questa carica nel periodo che va dal 1343 al 1502 e le cui armi sono raffigurate per la gran parte proprio sulle coperte dei libri giudiziari. nella Camera v. F KLEIN, Costruzione dello stato e costruzione di archivio: ordinamenti delle scritture della repubblica fiorentina a metà Quattrocento, in «Reti Medievali», 9 (2008),
pp. 7-10 (); Statuti del Comune di Firenze nell'Archivio di Stato. Tradizione archivistica e ordinamenti, a cura di G. Biscione, Ministero per i beni
culturali
e ambientali, Roma
2009, pp. 133-187
(). Statuti della repubblica fiorentina, a cura di R. CAGGESE, nuova edizione a cura di G. PINTO, F. SALVESTRINI, A. ZORZI, P. GUALTIERI, Olschki, Firenze 1999, II. Statuto del Podestà dell’anno 1325, liber quartus, XXXII,
p. 301: «De stateris et mensuris habendis et diriçandis. Cum quibus mensuris adequentur et fiant omnes mensure civitatis et comitatus cum quibus fiat emptio et vendictio. Et ne aliqui fraus vel deceptio fiat aut diminutio vel augmentum, stent et ponantur dicte mensure in duobus vel tribus locis ad minus in civitate Florentie, scilicet in camera Communis Florentie et alibi, ubis magis videbitur convenire ipsis viris super victualibus vel dominis
Prioribus et Vexillifero iustitiae. Et cum aliis menuris non fiat emptio vel venditio nisi sint adequate cum predicitis». 12 BIScIONE, Statuti del comune di Firenze cit., p. 147. 3 Fumi CAMBI GADO, Sterzzzi cit., p. XII. 14 ASFi, Carte Strozziane III, s. IV, t. I-II, C.T. Strozzi, Nomi cognomi e arme degli of
fiziali forestieri della Città di Firenze, cioè da Podestà, de Capitani, del popolo, dell’esecutore degli ordini di giustizia, e de Giudici dell'appello, sec. XVII. 15 ASFi, Carte Strozziane III, s. IV bis.
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Secondo Giovanni Villani, il primo podestà di Firenze Gualfredotto Grasselli da Milano, risiedeva nel 1207 nel palazzo vescovile, l'allora sede del tri-
bunale civile!6. I successivi podestà abitarono in residenze private, impiegate dal Comune come curie!. Il giorno dell’assunzione della carica lo stemma del podestà doveva essere dipinto sul palazzo in cui egli avrebbe risieduto!*. Con l'edificazione di una sede propria del Palazzo del podestà o Palazzo del Comune, che nel 1260 era già abitabile!’, un segno di quel tipo all’esterno dell’edificio
era superfluo. Tuttavia anche a Firenze, come in tanti altri Comuni toscani, gli
stemmi del podestà erano affissi all’esterno del palazzo?°. Ma nel 1329, con la fine della signoria del duca di Calabria, il Comune decretò che in futuro nessun podestà, capitano del Popolo, o altri titolari di una carica comunale potessero affiggere sculture o stemmi al suo alloggio, alla sua casa o palazzo o a una delle porte della città, e che tutti gli stemmi preesistenti fossero rimossi a spese del Comune?!. Da quel momento in poi, tali stemmi furono ammessi soltanto all’interno del Palazzo del podestà??, del Palazzo del Comune (o della Signo-
16 G. VILLANI, Nuova cronica, a cura di G. PORTA, I, Guanda, Parma 1991, pp. 259-260.
Per la storia del Bargello cfr. B. PAoLOZZI STROZZI, I/ Palazzo del Podestà. Sei secoli di storia (1250-1850), in La storia del Bargello, a cura di Eab., C. DANTI, Silvana, Cinisello Balsamo
2004, con ulteriore bibliografia. 7 G.B. Uccetti, Il Palazzo del Potestà. Illustrazione storica, Tipografia delle Murate, Firenze 1865, p. 36 e ss. Nel 1239, per esempio, il podestà risiedeva nelle case dei Soldanieri, nel 1259 nelle case dei Galigai, nel 1250 nelle case degli Abati.
!8 Elenchi nominativi dei podestà del comune di Firenze e dei capitani del popolo in carica dal 1343 al 1502. Indice degli Inventari nn. 25-30, a cura di S. GINANNESCHI, L. VALGIMOGLI, R.M. ZACCARIA, Archivio di Stato di Firenze, Firenze 2002, p. 4.
!? Anno in cui Guido Novello vicario del re Manfredi risiedeva nel Palazzo del podestà come podestà, cfr. ViLLANI, Nuova cronica cit., II, p. 431; UccELLI, I/ Palazzo del Potestà cit., p. 39; L. PASSERINI, Curiosità storico-artistiche fiorentine, Tipografie delle Murate, Firenze 1866, p. 8.
2° Vedi per esempio il Palazzo di San Giovanni Valdarno: L. BORGIA, Gli stemmi del Palazzo di Arnolfo di San Giovanni Valdarno, Cantini, Firenze 1986. 21 W. GAYE, A.V. REUMONT, Carteggio inedito d'artisti dei secoli XIV. XV. XVI, G. Mo-
lini, Firenze 1839, p. 473 e ss., Appendice II: «Provisum fuit — quod nullus rector vel offitialis populi vel comunis flor. pingat, vel pingi seu fieri fatiat seu permictat in palatio, domo seu hospitio, in quo moraretur pro comuni predicto pro eius offitio exercendo [...] aliquam picturam seu sculpturam alicuius ymaginis vel armorum in muro, lapide vel pariete [...]». Per l’araldica comunale di Firenze cfr. P. SEILER, Kommunale Heraldik und die Visibilitàt politischer Ordnung: Beobachtungen zu einem wenig beachteten Phänomen der Stadtästhetik von Florenz, 1250-1400, in La bellezza della città. Stadtrecht und Stadtgestaltung im Italien des Mittelalters und der Renaissance, hrsg. von M. STOLLEIS, R. WoLFF, Max
Niemeyer Verlag, Tübingen 2004, pp. 205-240: 219. ? Il cortile non era l’unico posto all’interno del Palazzo in cui si inserivano gli stemmi: nel 1346 il pittore Pieruzo dipingeva gli stemmi del podestà Dondaccio dei Malvicini da Fontana «in scuto pilastri» nella sala grande del Palazzo: L. PassERINI, Del Pretorio di Firenze,
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ria), di chiese o di tribunali. Furono escluse le rappresentazioni di Cristo, della Madonna e dei santi, così come gli stemmi della Chiesa, dei papi, degli Angiò e del monarca francese: proprio quelli che si possono osservare sopra il portale meridionale e quello settentrionale del Palazzo del podestà. Nel suo aspetto esteriore, quindi, l’edificio dall'anno 1329 in poi si presentò soltanto come Palazzo del Comune e dei suoi più importanti alleati. I magistrati forestieri e i loro stemmi furono qui visualizzati solo in senso negativo, cioè in pitture infamanti, se questi avevano ecceduto o abusato del potere??. In casi eccezionali, la facciata del palazzo diventava anche il prospetto dell’esecuzione stessa della pena inflitta dal podestà?*. Così dall’anno 1329 in poi il palazzo nel suo aspetto esteriore corrispose ad una delle sue funzioni più importanti, ovvero la custodia di tutta la documentazione scritta «prodotta dal Comune stesso nell’esercizio delle sue attività», e rappresentò l’unità e la sovranità del Comune?. La legislazione cittadina regolava con precisione le condizioni a cui sottostava la carica del podestà. Notoriamente questo funzionario doveva essere un “forestiero” per garantire l’imparzialità nell’applicazione della legge. Questo valeva altrettanto per la sua farzzlia, la quale conformemente allo statuto fiorentino del 1325 comprendeva undici giudici, trenta notai, tre cavalieri, dodici Jouhaud, Firenze 1865, p. 25; W. PaaTz, Zur Baugeschichte des Palazzo del Podestà in Florenz, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», 3 (1932), pp. 288-321: 319. 3 UcceLLI, I/ Palazzo del Potestà cit., pp. 164-176; G. ORTALLI, «... pingatur in Palatio ...». La pittura infamante nei secoli XIII-XIV, Jouvence, Roma 1979, passim; S. EDGERTON, Pictures and Punishment. Art and Criminal Prosecution during the Florentine Renaissance,
Cornell University Press, Ithaca-London 1985, p. 59 e ss.; M. CONTI, Delitti e castighi. Itinerari nella Firenze dei crimini e della giustizia tra il XIII e il XVIII secolo, Centro Di, Firenze 2008, p. 61 e ss.
24 Si veda la tavola del Museo Stibbert dall’inizio del Cinquecento (inv. n. 16719), con la scena dell’impiccagione di Antonio di Giovanni Rinaldeschi dove è rappresentata la facciata settentrionale priva di ogni stemma. Il portale della facciata settentrionale qui è sormontato soltanto dalla Croce del Popolo, la porta aperta fa intravedere il cortile del palazzo con il vessillo del podestà Monaldo de’ Fascioli: Fumi CAMBI GADO, scheda 133, in EAD., Stemmi cit., p. 107; per la tavola cfr. W. CONNELL, G. CONSTABLE, Sacrilege and redemption in Renaissance Florence: the case of Antonio Rinaldeschi, CRRS - U of Toronto, Toronto 2005; M. FERRARI, scheda 38 (Anonimo fiorentino, Storie di Antonio di Giovanni
Rinaldeschi), in Dal Giglio al David cit., pp. 188-191. 2 BISCIONE, Statuti del comune di Firenze cit., p. 184. 2% A. ZORzI, I rettori di Firenze. Reclutamento, flussi, scambi (1193-1313), in I podestà
dell’Italia cit., I, pp. 453-594, passim; ID., L'amministrazione della giustizia penale nella Repubblica fiorentina — aspetti e problemi, Olschki, Firenze 1988; ID., Giustizia e società a
Firenze in età comunale: spunti per una prima riflessione, in Istituzioni giudiziarie e aspetti della criminalità nella Firenze tardo medievale, a cura di ID., numero monografico di «Ricerche storiche», 18 (1988), pp. 449-495; M. SBRICCOLI, “Vidi communiter observari”.
L’emersione di un ordine penale pubblico nelle città italiane del secolo XIII, in «Quaderni fiorentini», 27 (1998), pp. 231-268.
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donzelli, sessanta berrovieri e diciotto cavalli”; nel 1344 il numero dei notai
aumentò addirittura a trentatre#. Al principio, la durata dell'incarico del podestà a Firenze era di un anno, mentre dal 1292, quando le sue funzioni si concentrarono sempre di più nelle sole materie giudiziarie e di polizia, fu ridotta alla metà??. Egli era responsabile tanto per la giustizia civile quanto per quella penale, e i suoi giudici e notai dovevano perfino avvicendarsi ogni tre mesi. Il culmine della cerimonia di insediamento era rappresentata, come ha mostrato Christoph Dartmann, dal giuramento sul codice statutario della città, ad statutum clausum, cioè sigillato’. Come espresso da Giuseppe Biscione: «i podestà s’impegnavano, in pratica, a osservare gli statuti qualunque fosse il loro contenuto»?! e lo stesso valeva per i notai e per l’intera farzilia del podestà”. I registri giudiziari, prodotti sotto questa autorità dovevano invece essere
aperti, cioè conservati non sigillati nella camera actorum, per essere consultabili e su richiesta riproducibili in copia”. Lo Statuto del 1325 stabiliva che lo stesso
27 Statuti della repubblica fiorentina cit., I. Statuto del podestà dell’anno 1325, liber primus, pp. 11-12, per i notai p. 11: «[...] triginta notarios inter omnes eius notarios, de quibus deputentur quatuor pro quolibet iudice malleficiorum, scilicet duo in quolibet sextu ad malleficia, et alii ad alia officia, ut moris est, secundum formam capitolorum, qui non sint de civitate vel districtu Florentie et qui non fuerint cum Potestate vel Capitaneo aut Executore Ordinamentorum iustitie a quinque annis circa». Per le famiglie e i salari del
podestà cfr. ZORZI, I rettori cit., pp. 464-470. 28 ASFi, Provvisioni, Registri 32, cc. 145r-v (26 marzo 1344). 2? ZORZI, I rettori cit., p. 460.
3° C. DARTMANN, Schrift im Ritual. Der Amtseid des Podestà auf den geschlossenen Stadtstatutencodex der italienischen Stadtkommune, in «Zeitschrift für Historische Forschung»,
31 (2004), pp. 169-204. Dartmann si basa soprattutto su GIOVANNI DA VITERBO, Liber de regimine civitatum, a cura di G. SALVEMINI, Società Tipografica Azzoguidi, Bologna 1901, pp. 215-280, e sulla sua descrizione dell’adventus del podestà. 3! BISCIONE, Statuti del comune di Firenze cit., p. 473.
32 Statuti della repubblica fiorentina cit., I. Statuto del Podestà 1325, liber primus, rubr. I, p. 12: «Et iuret etiam ipse et eius familia tota et berrovarii ad statutum clausum Communis Florentie [observare]». Statuti della repubblica fiorentina cit., I. Statuto del Capitano del Popolo degli anni 1322-25, Liber secundus, rubr. V, p. 83: «Statutum est quod domini priores et vexillifer
possint et debeant elevare curias et auferre acta domino Potestati et domino Capitaneo et Executori ordinamentorum iustitie et Iudici appellationum et cuilibet eorum per quindecim dies, ante exitum eorumdem; et etiam quandocumque eis Prioribus et vexillifero visum fuerit, de consilio et voluntate capitudinum XIIcim maiorem artium; que acta non
sigillentur set apud cameram teneantur aperta, et.de eis custodes actorum camere dare teneantur copiam cuique petenti etiam immediate post ablationem ipsorum actorum; et quod priores et vexillifer iustitie, post introitum successoris infra quintam diem, debeant ipsa acta ipsi successori assignare, ipseque successor ea teneantur recipere ac super eis
procedere ut tenetur et debet. Salvo quod, si dicti offitiales, tempore quo auferentur acta, haberent aliquem processum quem facerent ex forma ordinamentorum iustitie, qui non
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Palazzo del podestà doveva essere aperto e accessibile, e che chiunque poteva accedere alla stanza del principale magistrato per difendere il proprio diritto al suo cospetto’. Già nel 1293 gli Ordinamenti di Giustizia dispongono che nel cortile del Bargello «sotto la loggia sia posta una cassetta per le denunzie segrete contro coloro (i magnati, in particolare) che contravvenissero agli ordinamenti stessi». Anche l'interno del palazzo era quindi accessibile e il podestà doveva essere presente. Alla conclusione del suo mandato egli era rappresentato dallo stemma che perpetuava la validità delle sentenze emesse durante il suo incarico. Questo ordinamento giuridico, che trovava la sua visualizzazione in aperture e chiusure di libri e codici, fu stravolto tra il 1342 e il 1343 dal dominio tirannico
di Gualtieri di Brienne. Il 26 luglio 1343 la resistenza contro il suo assolutismo si concretizzò in un'insurrezione armata. Il Palazzo del podestà fu espugnato e i codici conservati nella camera actorum Comunis Florentie furono bruciati. I libri giudiziari, che ora sono custoditi presso l'Archivio di Stato di Firenze, hanno inizio perciò soltanto dal 1343, ma nonostante la perdita dei libri anteriori a questo anno rappresentano il più grande fondo di registri giudiziari conservatosi in Italia”. esset expeditus, debeat ex originalibus actis accipere copiam exempli, et sibi servent pro expediendo tali processu». Cfr. anche BISCIONE, Statuti del comune di Firenze cit., p. 138. 34 Statuti della repubblica fiorentina cit., II. Statuto del Podestà, liber primus, p. 9: «Et quod Potestas teneatur et debeat singulis diebus, exceptis diebus pascatum resurrexionis, pentecostem, nativitatis Christi et omnium sanctorum, dominicis sancte Marie semper vir-
ginis, duodecim apostolorum, et veneris sancti, portam clausti palatii Communis Florentie, in quo moratur pro ipso Comuni pro suo exercendo officium (sic), tenere apertam ita quod
unicuique liber et expeditus possit patere introitus et egressus»; Statuto del Podestà, liber tertius, LXXII, p. 209: «Quod quilibet possit intrare in cameram et solarium domini potestatis pro ponendo iua sua coram eo». 3 ASFI, Statuti del Comune, 1, c. 11r; 18 gennaio 1293, cfr. Mostra documentaria e ico-
nografica del Palazzo del Podestà (Bargello), catalogo della mostra (Firenze 1963), Archivio di Stato di Firenze, Tipografia Giuntina, Firenze 1963, p. 21. 36 VILLANI, Nuova Cronica cit., III, p. 334: «[...] assalirono combattendo il palagio
della podestà, ov’era mesere Baglione da Perugia podestà per lo duca, il quale né egli né sua famiglia si misono a risistenza, ma con grande paura e pericolo si fuggì a guarentigia in casa gli Albizi, che ’l ricolsono; e-cchi di sua famiglia si fuggì in Santa Croce; e rubato il palagio d’ogni loro arnesi infino alle finestre e panche del Comune; e ogni atto e scritture vi furono prese e arse, e rotta la carcere della Volognana, e scapolati i prigioni; e poi ruppono la camera del Comune, e di quella tratti tutti i libri ov’erano scritti gli sbanditi e rubelli
e condannati, e arsi tutti [...]». Cfr. FE KLEIN, Tribunali civili e criminali, in L'Archivio di Stato di Firenze, a cura di R. Manno ToLu, Nardini, Fiesole 1995, pp. 107-113: 107; ZORZI, Giustizia e società cit., p. 452; A. DE VINCENTIS, Memorie bruciate. Conflitti, documenti, oblio nelle città italiane del tardomedioevo, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il
Medio Evo e Archivio muratoriano», 106 (2004), pp. 167-198. 7 A. ZORzi, La trasformazione di un quadro politico. Ricerche su politica e giustizia a Firenze dal comune allo Stato territoriale, University Press, Firenze 2008, p. 30; vedi anche
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Nel 1346, a Firenze, una serie di provvisioni regolamentò le modalità della conservazione dei libri giudiziari e le mansioni affidate ai notai, che da allora in poi furono assegnati a un quartiere, e dopo un trimestre trasferiti a un altro, non più dal podestà, ma dagli stessi priori. L'11 aprile 1346 il Comune stabilì che ogni notaio che amministrava il diritto penale doveva tenere due libri di carta, «ben coperti di pergamena e ben rilegati» («duos libros bambaginos bene cupertos de carta membrana, bene ligatos»)?*, mentre il 14 novembre dello stesso anno fu deliberata l'assegnazione di cinque libri per ogni notaio per registrare le accuse, le inquisizioni, le querele, le testimonianze, le sentenze e le prosecuzioni
di inchiesta??, Le coperte dei libri-registro hanno varia composizione. Il loro comune denominatore sono gli stemmi dei podestà: presenti in un gran numero di casi, sono accompagnati da un’intestazione che indica il contenuto del libro, rivelando la tipologia degli atti processuali. Per lo più l’intestazione riporta anche il notaio che ha rogato il libro, qualche volta indicandone soltanto il nome (liber mei notarij) accompagnato da un monumentale sig777 notarile‘. Colli e Vallerani accentuano l’importanza del ruolo svolto dai notai itineranti nel processo di standardizzazione del diritto processuale e nell’espansione del sistema giudiziario comunale, che ha fatto del processo podestarile «il perno della giustizia pubblica». La trasformazione della struttura dell'iter processuale, sia civile che penale, nel corso della seconda metà del Duecento, caratterizzata da una riduzione delle fasi orali e un aumento delle registrazioni scritte, ha fatto in modo che i notai divenissero i «veri protagonisti del processo». L'uso di questi ultimi J.-C. MAIRE VIGUEUR, Forme di governo e forme documentarie nella città comunale, in Fran-
cesco d'Assisi. Documenti e archivi. Codici e biblioteche. Miniature, Electa, Milano 1982, pp. 58-64; A. BARTOLI LANGELI, La documentazione degli Stati italiani nei secoli XIII-XV: forme, organizzazione e personale, in Culture et idéologie dans la genèse de l'État moderne, actes de la table ronde (Rome 1984), École française de Rome, Rome 1985, pp. 35-55. 8 ASFi, Provvisioni, 11 aprile 1346.
9° Ibid.: «[...] quinque libros cartarum bombicinarum; unum, videlicet, pro scribendo accusationes et processus qui fient circa ipsas accusationes, alium pro scribendo denuptiationes rectorum, et alium pro scribendis dictis et attestationibus testium ad defensam, et
alium ad offensam; et alium librum pro scribendis prosectionibus». * Si veda, per esempio, la coperta, ASFi, Adespote (coperte di libri), 14 gennaio 1310, con il monumentale segno notarile del notai Franciscus de Bon. 4! M. VALLERANI, La giustizia pubblica medievale, il Mulino, Bologna 2005, p. 32; V. COLLI, Acta civilia in curia potestatis: Firenze 1344. Aspetti procedurali nel quadro di giurisdizioni concorrenti, in Praxis der Gerichtsbarkeit in europdischen Städten des Spätmittelalters, hrsg. von F.-J. ARLINGHAUS, I. BAUMGARTNER, V. COLLI, S. LEPSIUS, T. WETZSTEIN,
Klostermann, Frankfurt am Main 2006, pp. 271-304: 281.
% M. VALLERANI, Modelli processuali e riti sociali nelle città comunali, in Riti e rituali nelle società medievali, a cura di J. CHiFFOLEAU, L. MARTINES, A. PARAVICINI BAGLIANI, Cen-
tro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1994, pp. 115-140: 136-137.
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di indicare i registri come di loro appartenenza, quasi quali “autori” dei libri, non era quindi un atto di presunzione. I primi libri giudiziari conservati nel Fondo podestà furono scritti sotto Giovanni marchese del Monte Santa Maria‘, il quale fu il primo podestà di Firenze dopo la cacciata del Duca di Atene, nominato l’8 agosto 1343 per la durata di sei mesi e riconfermato nella carica nel maggio dell’anno successivo per una pari durata. Dei suoi due mandati si sono conservati circa sessanta registri giu-
diziari con altrettante miniature del suo stemma sulle coperte. Il libro-registro Podestà 11 per esempio documenta le «inquisitiones» del marchese Giovanni dal 15 novembre 1343 al 21 gennaio 1344 nel quartiere di Santo Spirito. Sulla
coperta in alto, nell’intestazione, il notaio ser Santi di ser Ciucco di Città di
Castello si presenta come l’estensore di questo libro delle inquisizioni-di questo quartiere («Liber inquisitionum ser Santi ser Ciucchi de civitate Castelli notarii de quarterio Santi Spiritus»). Al di sotto sono dipinti lo stemma della casata di Giovanni e sul lato sinistro l'insegna del quartiere, che una provvisione della Balia dell’11 agosto 1343 aveva fissato in uno «scudo a campo azzurro avente una colomba bianca con raggi d’oro». Podestà 40 è il libro del notaio Ugolino di Ser Vanni di Ser Ugolino da Pozzo «comitatus Aretii et nunc de castro Foiani», con l’illustrazione dello stesso stemma; al di sopra deve esserci stata l'insegna del quartiere di Santa Croce raffigurante la croce d’oro in campo azzurro, oggi molto danneggiata (tav. 20). Il terzo esempio, con un titolo quasi illeggibile, è il Liber del notaio Pietrobono di Ser Jacopo di San Giorgio da Bologna (Podestà 41), con l’insegna del quartiere di Santa Croce raffigurata in alto (fig. 1). I tre libri sono stati quindi scritti da tre diversi notai provenienti da altrettanti località. Anche le raffigurazioni degli stemmi evidenziano tre diverse mani, come si vede nella resa dei gigli, delle zampe, della coda e della criniera del leone. Un altro esempio di miniatura dello stesso stemma proviene quindi dal fondo Adespote (coperte di libri) dell'Archivio di Stato di Firenze, sul verso di un documento dell’11 novembre 1284. La copertina si mostra di per sé interes-
43 U. BARBERI, I marchesi Bourbon del Monte S. Maria di Petrella e di Sorbello. Notizie
storico-genealogiche sulla casa fino ai giorni nostri, Tipografia Unione Arti Grafiche, Città di Castello 1943, pp. 125-126. 4 Per lo stesso stemma dei marchesi del Monte Santa Maria — partito: nel primo d'azzurro, seminato di gigli d’oro, alla banda d'argento attraversante, caricata di tre martelli di nero, posti nel senso della pezza; nel secondo d'argento, al leone d'azzurro; col lambello di cinque pendenti di rosso, attraversate sul tutto — riprodotto su due Biccherne senesi del 1321 e del 1331 (rispettivamente ASSi, 1321, gennaio-giugno, n. 12 e 1331, gennaio-giugno?, BNE, Ms. italien, 1668), cfr. WOLFF, scheda 16 cit., p. 142.
5 Ivi, p. 143.
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46 I capitoli del comune di Firenze. Inventario e regesto, a cura di C. Guasti, Cellini, Firenze 1866, p. 57; ASFi, Statuti, 13, II, rubr. 3, Statuti del Capitano del 1355.
216
RUTH WOLFF
sante, perché contiene alcuni piccoli disegni: un’occhialuta figura maschile dal capo pelato, il cui busto ha la forma di scudo e un busto virile di profilo con la “cappa”; qui la miniatura si sovrappone a una parte del segno notarile disegnato. Un ulteriore esempio dal Fondo Adespote (coperte di libri), con lo stemma di un altro podestà potrebbe fornire una possibile chiave di lettura. Il verso di un documento del 21 gennaio 1321 riporta la data 1358 (1359 stile moderno). Il titolo che l’accompagna, «Liber acusationum mei Franceschini Spiciarii de Papia notarii curie communis Florentie in quarterio Sancte Crucis pro secundis tribus messibus [sic!] regiminis domini potestatis Florentie ad Fig. 1 Coperta del registro del notaio Pietrobono di Ser Jacopo di San Giorgio da Bologna, scritto sotto il Podestà Giovanni
malleficia deputati», menziona il pode-
stà ma non lo nomina espressamente. Lo stemma dipinto sotto è tuttavia Marchese del Monte Santa Maria, 1343. identificabile con quello di «Ticius sive ASFi, Podestà 41. Tedicius Bartholomei de Flisco de Ianua comes Lavanie», podestà di Firenze dal 1358 al 1359. La sua miniatura non si sovrappone al titolo del libro né al segno notarile e alla firma del notaio. Data, titolo, stemma, firma e segno notarile sono piuttosto coordinati tra loro: al centro,
al di sotto del titolo, sono dipinti in colonna lo stemma e poi il segno notarile, sempre al centro sotto la punta dello scudo. Osservando attentamente si nota però che lo stemma è realizzato sopra il disegno di uno scudo più piccolo e fra il titolo del libro e il segno notarile resta un po’ più spazio. Probabilmente il notaio Franceschino degli Spiciari da Pavia ha ideato l'impostazione grafica dell’intera coperta e non ha quindi disegnato soltanto la data, il titolo e il suo proprio segno notarile, ma anche lo stemma del podestà stesso, che fu miniato in seguito. L'ipotesi è confermata dall’osservazione di un ulteriore documento del Fondo Adespote (coperte di libri), del 1° ottobre 1230 (tav. 21). Il verso mostra un insieme di stemmi disegnati: in alto l’aquila con il drago della parte guelfa fiorentina, sotto due scudetti a mandorla con le armi del Popolo e della città di Firenze e nel mezzo uno scudo con l’aquila, tutti e tre uniti da una catena. A destra e a sinistra, ai lati dello stemma centrale, sono disegnati due altri scudetti
con un leone rampante, anch'essi uniti l’un l’altro da una catena. Sul bordo in-
VISUALIZZAZIONI GIURIDICHE IN PIETRA E SU PERGAMENA
217
feriore della coperta si pud leggere la firma del notaio con il suo segno notarile nel mezzo: «Signum Mey Ludovici condam domini Amedey del Grassellis de Mutina». Si riconosce molto chiaramente che lo stemma centrale è dipinto sul disegno di un identico stemma, un po’ più piccolo. La cro-
ce del segno notarile termina col suo braccio
verticale
superiore
precisa-
mente sulla punta dello stemma disegnato al centro. Questo è chiaramente parte dell’insieme degli stemmi disegnati perché è altrettanto incatenato agli scudetti con i leoni. In questi ultimi si trovano inoltre indicazioni in volgare per la miniatura del disegno: in margine agli scudi si legge «el capo doro»; nel corpo del leone di destra «tuto [sic!] rosso», così come nel corpo di sinistra. Queste indicazio-
Fig.2 Coperta del Liber prosecutionum del notaio Thome Ruberii de Cammereno,
lettere, sono
Podestà 145.
i, poco egibil, composte di poche |Mo della medesima
Mano
Pole ace diBus
che ha eseguito la firma del notaio. E quindi molto probabile che il notaio Ludovico da Modena abbia egli stesso disegnato gli stemmi sulla coperta. Le indicazioni per la miniatura potrebbero essere rivolte a un miniatore oppure costituire un promemoria per il notaio stesso in quanto miniatore.
I notai nei loro libri-registro seguivano modelli uniformi nella rappresentazione linguistica delle verità processuali, cosi come risulta costante, anche per formato e materiale, la composizione dei registri scritti di loro pugno. Tuttavia le loro scritture individuali — personalizzate, pur entro i limiti di uno stile grafico cancelleresco — costituivano la garanzia di autenticità del prodotto della loro attività scrittoria. In altre parole: l'autenticità degli atti registrati era comprovata dall’autografia del notaio, così come l’individuale segno notarile disegnato liberamente a mano all’inizio e alla fine del registro, e in molti casi anche sulla coperta, rimandava al notaio quale garante dell’autenticità. Un evidente esempiodi una scrittura individuale è il libro dal Fondo Podestà 145, scritto dal notaio Thome Ruberii de Cammereno (fig. 2) sotto il podestà Francesco di Brunamonte della Serra da Gubbio, come è ben visibile sulla
pagina introduttiva con il vivacissimo disegno del segno notarile di Tommaso
RUTH WOLFF
la cui scrittura non è particolarmente in :
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ordinata (fig. 3): Tommaso impiega qui un dettaglio del suo segno nota-
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micamente incorniciato e anche qui
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appare il “fiocco” del notaio Tommaso (fig. 4). Sulla coperta manca il suo segno notarile, ma la scrittura ci consente indubbiamente di rilevare che il notaio ha redatto di proprio pugno anche l’intestazione del libro. Il libroregistro di Tommaso da Camerino è dunque il suo libro in un doppio senso: per quanto riguarda la rappresentazione linguistica del contenuto, ma anche relativamente alla realizzazione Fig.3 Pagina introduttiva del Liber proformale della scrittura e del sistema secutionum di Tommaso da Camerino con grafico individuale all’interno del liil suo segno notarile. ASFi, Podestà 145, bro e nell’intestazione sulla coperta. GIR Altrettanto differenti che le scritture dei notai, le loro competenze grafiche e il layout delle coperte, sono gli stilemi degli stemmi, nonché la loro qualità artistica. Il fondo fiorentino comprende coperte con stemmi disegnati con semplicità — per esempio il Fondo Adespote (coperte di libri), 20 maggio 1301 — ma anche esemplari dalle pretese artistiche, come sul verso di Fondo Adespote (coperte di libri), 1293. Qui è disegnata e miniata non soltanto l’arme del magistrato forestiero in uno scudo, ma anche l’elmo con i cercini, i lambrecchini e il cimiero in forma di teschio con cappello e piuma, incorniciato dalle insegne dei quartieri di Santa Croce e di Santo Spirito. Sopra il teschio un “capo d’Angiò” (d’azzurro, carico di tre gigli d’oro, ordi nati in fascia, e alternati tra i quattro pendenti di un lambello di rosso) collega tra loro le insegne dei due quartieri. Lo stemma, scaglionato d’argento e d’azzurro, è quello di Ugolino di Bisaccione dei conti di Piagnano, podestà di Firenze tra il 1423 e il 1424. L'intestazione in alto della coperta — «Liber mei Federici causarum civilum pro secundis tribus mensibus» — sta a indicare che il libro faceva parte degli atti civili ed era stato scritto dal notaio Federico durante il secondo trimestre dell’ufficio del podestà. Anche in questo caso l’intestazione, così come le insegne dipinte al di sotto e lo stemma sono coordinate l’una all’altra e occupano quasi l’intera larghezza della coperta. Tra le singole parole dell’intestaziolino be pet p de To
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VISUALIZZAZIONI GIURIDICHE IN PIETRA E SU PERGAMENA
ne sono poi inseriti dei fiori e anche lo stemma miniato lascia trasparire un disegno sottostante, come nell’elmo e nella piuma posta accanto al teschio. Probabilmente anche qui lo stesso notaio ha realizzato l’intera copertina disegnando di propria mano lo stemma.
Di fronte all’individualità del /ayout delle coperte e alla grande differenza stilistica degli stemmi si pone la quei È ; i stione se la realizzazione in proprio; del disegno fosse considerata anche » ve come requisito della sua autenticità. ; Lo stemma
Ugolino di tato su uno dei podestà L'originale,
dello stesso podestà
Bisaccione è rappresendei rilievi con gli stemmi nel cortile del Bargello. in pessimo stato di con-
servazione, si trova nell’arcata della parete sud, mentre la copia, realizzata nel 1916, è collocata nella parete est.
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ÈPANIGALE a Fig. 4 Pagina del Liber prosecutionum di Tommaso da Camerino. ASFi, Podestà 145,
del cortile sopra al capitello di uno dei © 14” pilastri dell’arcata‘”. L'immagine presenta due volte lo scudo di Ugolino, con due diversi cimieri, con a sinistra (di chi guarda) una testa e un collo di toro e,
a destra, un teschio coronato da un cappello a piuma. Al di sopra sono scolpiti tre scudetti a mandorla: quello del Popolo, quello della città e quello della parte guelfa. Anche le due lastre sepolcrali della famiglia dei Conti di Piagnano nella chiesa di Sant'Agostino di Piandimeleto mostrano il loro stemma con il capo d'Angiò, al pari dei rilievi con i cimieri del cortile del Bargello*. Fumi Cambi Gado riconobbe in questo, così come in altri stemmi del cortile, «l'ispirazione
allo stile Gotico Internazionale». Lo stesso può essere detto per lo stemma di Ugolino di Bisaccione posto sulla coperta. La concordanza tra lo stemma mi-
4. Fumi Cami GADO, Sterzzzi cit., pp. XIX e 48, n. 55.
4 W. TOMMASOLI, Signorie rinascimentali e tarda feudalità, in Il Montefeltro, a cura di G. ALLEGRETTI, EV. LOMBARDI, I. Ambiente storia, arte nelle alte valli del Folgia e del
Conca, Comunità Montana del Montefeltro, Casteldelci 1995, pp. 155-173: 161; A. CONTI, Osservazioni sull’araldica degli Oliva, conti di Piagnano, signori di Piandimeleto, in Lunano e Piandimeleto nel Montefeltro: ricerca e restauri, a cura di W. MonaccHI, STIBU, Urbania 2004, p. 85; G. Murano, I conti di Piagnano, podestà e capitani del Popolo di Firenze: fonti archivistiche, ivi, pp. 61-81: 69.
220
RUTH WOLFF
niato disegnato sulla coperta e lo stemma in pietra del cortile fa supporre che i notai itineranti, redattori degli atti dei processi, giocassero un ruolo centrale anche nella mediazione con le botteghe degli scultori. Giacomo Bascapé ha sottolineato il ruolo fondamentale dei notai nel formarsi e nell’evolversi della terminologia araldica in Italia, che ancora oggi richiederebbe un'analisi dettagliata‘’, ma ovviamente il contributo dei notai alla trasmissione di modelli araldici non si limitava a rappresentazioni linguistiche di stemmi, elmi, e cimieri, ma comprendeva anche immagini da loro stessi disegnate e miniate.
PPC.) Bascapè, M. DeL Prazzo, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata, medie-
vale e moderna, Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma 1999 (ed. or 1983), p. 26 nota 8. i
LA RIFLESSIONE DEL GIURISTA: BARTOLO DA SASSOFERRATO SU “INSEGNE E ARMI” Carla Frova
Opera di uno dei massimi giuristi del Trecento, Bartolo da Sassoferrato (13141357), il trattato De insignits et armis esemplifica pienamente l’impegno con il quale gli intellettuali di scuola, nella fase matura dello sviluppo universitario, si applicarono a rispondere agli stimoli proposti loro dalla società, dalla politica, dall'economia del loro tempo, con l'ambizione di fare della propria dottrina uno strumento per interpretare e regolare i molteplici aspetti della realtà nella quale si trovavano immersi. Osserva Diego Quaglioni, uno dei massimi studiosi contemporanei di Bartolo, sulla scia di Walter Ullmann: il giurista ha i suoi occhi e i suoi occhiali, ha i suoi strumenti di misurazione del mondo, il suo armamentario tecnico, cioè specifico e specialistico [...] ma è pur vero che il giurista medievale non aveva (o per meglio dire non aveva ancora) i corpore iuris i limiti invalicabili di un proprio universo culturale»: alla sua riflessione era infatti consentito di «assumere, in piena coscienza creativa, i fatti nuovi a fonte reale del proprio discorso e a momento di effettività dell’edificio in costruzione!.
E davvero di “fatti nuovi” parlano le pagine che Bartolo (e forse colui che ha rivisto e completato l’opera dopo la sua morte) ha scritto, avendo sotto gli occhi la città di Perugia del pieno Trecento: insegne e armi sono infatti un nuovo
* Dedico queste pagine agli studenti che hanno lavorato con me sul De insignzis nel corso di storia medievale 2008/2009 presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” di Roma; sono debitrice in particolare a Stefania Muzii per gli accenni al rapporto del trattato con la filosofia tomistica. Avverto che la bibliografia è aggiornata al 2012. ! D. QUAGLIONI, Civilis sapientia. Dottrine giuridiche e dottrine politiche fra medioevo ed età moderna. Saggi per la storia del pensiero giuridico moderno, Maggioli Editori, Rimini 1989, pp. 8-9, che rimanda a W. ULLMANN, Historical Jurisprudence, Historical Politology and the History of the Middle Ages, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche, Olschki, Firenze 1966, pp. 195-244 (rist. in ID., Jurisprudence in the Middle Ages. Collected Studies, Variorum Reprints, London 1980).
222
CARLA FROVA
sistema di segni per una società nuova, quella che caratterizza le città comunali italiane sotto i governi di Popolo?. 1. La fortuna del trattato
L’utilizzazione in sede storiografica di questa importante testimonianza della cultura giuridica trecentesca è complicata da varie circostanze. Una prima difficoltà è costituita dall’incertezza sulla paternità delle singole parti: rimasto interrotto nel 1357 alla morte di Bartolo, il De insigniis fu completato dal genero Nicola Alessandri, anch’egli maestro di diritto a Perugia, che probabilmente vi intervenne anche con correzioni, e forse con aggiunte?. Altro elemento da considerare è la vastità della tradizione (che annovera più di cento manoscritti e numerose edizioni antiche) e la sua contraddittorietà: come in generale tutta l’eredità bartoliana, anche questo trattato è stato nel tempo oggetto di adattamenti, contaminazioni, riduzioni, interpolazioni*. La varia fortuna dell’opera, ? Ritengo superfluo rimandare alla bibliografia generale su questa fase della storia di Perugia. Segnalo invece, senza pretesa di completezza, alcuni lavori che suggeriscono utili spunti di riflessione sulle forme e i significati della cultura figurativa nel contesto cittadino negli ultimi secoli del Medioevo: Carte che ridono: immagini di vita politica, sociale ed economica nei documenti miniati e decorati dell’Archivio di Stato di Perugia, secoli XIII-XVIII,
catalogo della mostra (Perugia 1984-1985), a cura di C. CuTINI, Editoriale umbra, Perugia 1987; Il palazzo dei Priori di Perugia, a cura di FF. MANCINI, Quattroemme, Perugia 1997;
Per buono stato de la citade. Le matricole delle arti a Perugia, catalogo della mostra (Perugia 2001), a cura di M. RONCETTI, Volumnia, Perugia 2001; Perugino il divin pittore, a cura di V. GARIBALDI, EF. MANCINI, Silvana, Cinisello Balsamo 2004; Arnolfo di Cambio. Una rinascita nell Umbria medievale, a cura di V. GARIBALDI, B. Toscano, Silvana, Cinisello Balsamo 2005; Canto e colore. I corali di San Domenico di Perugia nella Biblioteca comunale
Augusta (XIII-XIV sec.), catalogo della mostra (Perugia 2006), a cura di C. PARMEGGIANI, Volumnia, Perugia 2006; “Entra puro, move securo”. Il portale del Palazzo dei priori di Perugia, a cura di V. GARIBALDI, Quattroemme, Perugia 2006.
? V. il colophon dell’incunabolo stampato a Roma, prima del 27 ottobre 1483 da Sisto Riessinger (e Giorgio Herolt?), a cura di Rufinus de Gabloneda (ISTC ib00230500): «explicit tractatus de insigniis et armis compositus a Bartholo de Saxoferrato cive Perusino quem Nicolaus Alexandri eius gener post mortem Bartholi octavo die Ianuarii publicavit». Il problema è stato affrontato nell’introduzione alla prima, e relativamente recente, edizione critica del trattato, che, anche per tutti gli altri aspetti, resta il principale punto di riferimento delle considerazioni che svolgeremo: O. CAVALLAR, S. DEGENRING, J. KIRSHNER,
A Grammar of Signs. Bartolo da Sassoferrato's Tract on Insignia and Coats of Arms, Robbins Collection University of California, Berkeley 1994. Più recentemente v. S. LEPSIUS, Der Richter und die Zeugen. Eine Untersuchung anhand des Tractatus Testimoniorum des Bartolus von Sassoferrato, mit Edition, Klostermann, Frankfurt am Main 2003. Nelle note
seguenti l’indicazione De insigniis rinvierà al testo del trattato nell’edizione del 1994. ‘ Sulla diffusione, restano sempre validi i riferimenti a B. PARADISI, La diffusione europea del pensiero di Bartolo e le esigenze attuali della sua conoscenza, in Bartolo da Sassofer-
LA RIFLESSIONE DEL GIURISTA: BARTOLO DA SASSOFERRATO
223
infine, ha depositato su di essa tradizioni esegetiche e curiosità storiografiche diverse e, per di più, spesso non comunicanti. La vicenda postuma del De insigniis è stata ricostruita in modo sintetico ma esauriente nella prefazione dell’edizione curata nel 1994 da Cavallar, Degenring e Kirshner?, una svolta negli studi su quest'opera di Bartolo, che fino ad allora non aveva avuto un'edizione critica. A distanza di meno di un secolo dalla pubblicazione, avvenuta nel 1358, il De insigniis subisce il violento attacco di Lorenzo Valla. AI di là di motivi più puntuali di polemica, per l’umanista è l'occasione per denunciare la debolezza epistemologica della scientia iuris e ridicolizzarne la pretesa di farsi norma della convivenza sociale. Non condivisa da tutti, la critica di Valla troverà però eco nella letteratura del Cinquecento (è attraverso Valla che Rabelais leggerà Bartolo, prendendo posizione contro la sua teoria dei colori)f. e Ma l’aspetto più evidente della fortuna del De insignzis è la sua appropriazione da parte della trattatistica araldica, effetto e causa al tempo stesso della radicale dislocazione che quest'opera conobbe rispetto al contesto originario: dall’orizzonte della città comunale italiana a quello delle corti europee; dal latino del diritto universitario ai volgari della cultura aristocratica (una parte notevole della sua fortuna, come si sa, passa attraverso le traduzioni). Questi pas-
saggi hanno sottoposto il testo originario a letture molto selettive e soprattutto ne hanno accentuato il carattere normativo, per quanto riguarda non solo gli aspetti giuridici dell’uso dell’arme, ma più ancora quelli relativi all'esecuzione degli stemmi, tema sviluppato nella seconda parte del trattato sotto il titolo qualiter [scilicet: insignia et arma] sint portanda et pingenda. Si deve aggiungere che la vicenda attraverso la quale Bartolo diventa una auctoritas per l’araldica è molto complessa: ha giustamente attirato l’attenzione degli studiosi la ripresa di alcune parti del trattato (tra cui quella sui colori) nel Songe du Vergier, scritto
rato. Studi e documenti per il VI Centenario, a cura di D. SEGOLONI, Giuffrè, Milano 1962,
pp. 395-472 e, per aree specifiche, a W. ULLMANN, Bartolus and English Jurisprudence, ivi, pp. 47-49; E. Casamassima, Codices operum Bartoli a Saxoferrato recensiti, I. Iter Germanicum, Olschki, Firenze 1971; A. Garcia y GARCcÎA, Codices operum Bartoli a Saxoferrato
recensiti, II. Iter Hispanicum, Olschki, Firenze 1973. 5 Cfr. A Grammar of Signs cit., cui si rinvia per la bibliografia anteriore. Tra gli studi apparsi successivamente, cfr.: J.D. RODRIGUEZ VELASCO, El Tractatus de insigniis et armis de Bartolo y su influencia en Europa (con la ediciôn de una traducciôn castellana cuatrocentista), in «Emblemata», 2 (1996), pp. 35-70. 6 Cfr.: M. RecoLIOSI, L’Epistola contra Bartolum de/ Valla, in Filologia umanistica. Per Gianvito Resta, a cura di V. FERA, G. FerRAÙ, II, Antenore, Padova 1997, pp. 1501-1571 (con l'edizione dello scritto dell’Epistola); G. Rossi, Valla e il diritto: l’Epistola contra Bar-
tolum e le Elegantiae. Percorsi di ricerca e proposte interpretative, in Pubblicare il Valla, a cura di M. REGOLIOSI, Polistampa, Firenze 2008, pp. 507-599. V. anche: A Grammar of Signs cit., pp. 3-5 e Appendix 5, pp. 179-200, dove si pubblica anche una traduzione inglese della lettera di Valla.
224
CARLA FROVA
che potremmo classificare sommariamente come appartenente al genere della letteratura “politica” sullo sfondo della guerra dei Cent'anni. Benché parte del lascito di un autore che ha dominato la scena della cultura giuridica in età moderna (con giudizi contrastanti), il De #nsignits non ha avuto altrettanto successo presso gli studiosi di diritto, salva ovviamente la doverosa menzione nel contesto complessivo dell’eredità bartoliana. Un’isolata attenzione, come vedremo, ha dedicato a esso la germanistica tardottocentesca®. In epoca recente C'è stato un certo aumento d’interesse, favorito ovviamente, nell’ulti-
mo quindicennio, dalla disponibilità della citata edizione critica. Gli storici del diritto, per restare a loro, lo hanno letto nel quadro dell’in-
dagine sui processi di strutturazione del gruppo dei giuristi in un vero e proprio ceto sociale che caratterizzarono gli ultimi secoli del Medioevo, e sull’aspirazione alla nobiltà che lo anima (penso anzitutto ai bellissimi contributi di Ennio Cortese)?. Per altro verso, e in misura quantitativamente rilevante, il De insigniis ha interessato gli storici della letteratura italiana, che sul tema della nobiltà lo hanno messo a confronto con le riflessioni di Dante nel Convivio a commento della canzone Le dolci rime". Occorre però dire che leggere il tratta? Per il testo del trattato, v.: Somnium Viridarii, a cura di M. ScHNERB-Lièvre, CNRS,
Paris 1993, con ampia introduzione. Della ricca bibliografia, analizzano in particolare la dipendenza da Bartolo D. QUAGLIONI, Somnium Viridarii, I CXXXIV: una fonte, un errore, alcune varianti, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano», 91 (1984), pp. 441-451; M. SCHNERB-LIÈVRE, G. GIORDANENGO, Le Songe du
Vergier et le Traité des dignités de Bartole, sources des chapitres sur la noblesse, in «Romania», 437-438 (1989), pp. 181-232; D. QUAGLIONI, La tipologia del Somnium nell’ambito del dibattito tra Scisma e concilio, in Conciliarismo, stati nazionali, crisi dell'umanesimo,
atti del convegno (Todi 1988), CISAM, Spoleto 1990, pp. 97-117 (rist. con aggiornamenti in Ip., Civilis sapientia cit., pp. 145-167, nota 1); In., La Vergine e il diavolo. Letteratura e diritto, in «Laboratoire italien», 5 (2005), pp. 39-45. 8 V. infra nota 30. ? E. CORTESE, Intorno agli antichi iudices toscani e alla formazione di un ceto medievale, in Scritti in memoria di Domenico Barillaro, Giuffrè, Milano 1982, pp. 3-38, rist. in ID., Scritti, a cura di I. BrroccHi, U. PETRONIO, I, Fondazione CISAM, Spoleto 1999, pp. 747782; In., Legisti, canonisti e feudisti: la formazione di un ceto medievale, in Università e
società nei secoli XII-XVI, atti del convegno (Pistoia 1979), Centro italiano di studi di storia e d’arte, Pistoia 1982, pp. 195-281, rielaborato e ampliato in In., 1/ Rinascimento giuridico medievale, Bulzoni, Roma 1992; M. AscHERI, La nobiltà medievale nella glossa e in Bartolo da Sassoferrato, in ID., Diritto medievale e moderno. Problemi del processo, della cultura
e delle fonti giuridiche, Maggioli, Rimini 1991, pp. 55-80; P. GiLLi, La noblesse du droit. Débats et controverses sur la culture juridique et le rôle des juristes dans l'Italie médiévale (XII°-X° siècles), Champion, Paris 2003, pp. 69-125. !© V. recentemente P. Borsa, Sub nomine nobilitatis: Dante e Bartolo da Sassoferrato, in Studi dedicati a Gennaro Barbarisi, a cura di C. BERRA, M. MARI, CUEM, Milano 2007,
pp. 59-121, con ampi riferimenti alla bibliografia precedente. Per gli sviluppi del tema in un contesto più propriamente di storia politico-sociale v. G. CASTELNUOVO, L'identità poli-
LA RIFLESSIONE DEL GIURISTA: BARTOLO DA SASSOFERRATO
225
to nel contesto del dialogo tra Bartolo e Dante sul tema della nobiltà lo espone a fraintendimenti e rischia di lasciarne in ombra proprio gli aspetti che qui più ci interessano. Si deve perciò, a mio avviso, staccare il De insigniis dall’accostamento con un’altra opera di Bartolo, quella che sotto il titolo De dignitatibus (il più diffuso, ma ne sono attestati anche altri) raccoglie una repetitio, frutto del suo insegnamento perugino, sull’omonimo titolo del Codice giustinianeo, I. Si ut proponitis (C.12.1.1): in essa, dando straordinaria prova di libertà intellettuale, il giurista si esibiva nel commento a un testo poetico, appunto la canzone dantesca Le dolci rime. Reso quasi obbligato da molta letteratura d’interesse araldico, cui, l'abbiamo visto, è in parte notevole legata la fortuna del nostro trattato, l'accostamento fra De insigniis e De dignitatibus è la causa principale della tendenza a leggere il primo come un discorso normativo sugli stemmi in quanto “segni di nobiltà”. Bisognerebbe ora dirigere lo sguardo verso altri settori disciplinari (consapevole, e al tempo stesso così poco preoccupato, delle “frontiere tra saperi”, Bartolo è per sua natura predisposto ad alimentare l’interesse di lettori che muovono dalle più diverse esperienze di ricerca). Non parlerò dell’attenzione che il De insigniis ha suscitato presso gli storici dell’arte, a partire da Baxandall!!, o in studi recenti che si propongono di analizzare le intersezioni tra sistema delle immagini e sistema della legge, tra la normatività dei linguaggi visivi e quella dei sistemi giuridici’. Riferimenti al trattato di Bartolo non mancano peraltro negli studi di storia sociale del pieno e tardo Medioevo. Per il mio punto di vista, questo appare anzi il settore di ricerca più promettente. Più che ai lavori relativi alla cavalleria in ambito di corte, che fanno riferimento non tanto all'originale quanto alla pro-
tica delle nobiltà cittadine, in R. BORDONE, G. CASTELNUOVO, G.M. VARANINI, Le aristocrazie
dai signori rurali al patriziato, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 197-243. !! M. BAXANDALL, Giotto and the Orators. Humanist Observers of Painting in Italy and the Discovery of Pictorial Composition 1350-1450, Oxford University Press, Oxford 1971 (trad. it. Giotto e gli umanisti. Gli umanisti osservatori della pittura in Italia e la scoperta della composizione pittorica 1350-1450, Jaca Book, Milano 1994, p. 157) analizza la critica del
Valla presentandola come una critica della teoria percettiva di Bartolo. A suo avviso Valla avrebbe scombinato tutta la gerarchia medievale dei colori e i suoi simbolismi: in realtà la scolastica, e lo stesso Bartolo, non è interessata unicamente alle possibilità di sviluppi simbolici del discorso sul colore, mentre d’altra parte Valla non si limita a contestare le gerarchie fra i colori, ma mette in discussione i fondamenti stessi della teoria, appellandosi, secondo uno schema familiare agli umanisti, al senso comune. 2 V. ad esempio la parte dedicata a “immagini e diritto romano” in C. Douzinas, L. NEAD, Law and Image: the Autority of Art and Aesthetics of Law, The University of Chicago Press, Chicago 1999, oppure anche (perché molto interessanti nel De insigniis sono i punti in cui si sfrutta l'analogia tra pittura e scrittura, cfr. infra nota 32) M. MADERO, Tabula
picta. La peinture et l'écriture dans le droit médiéval, EHESS, Paris 2004.
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CARLA FROVA
duzione successiva a Bartolo che a lui si richiama e si ispira!, penso ai numerosi studi che in tempi recenti, con un prevalente taglio di storia sociale, hanno rivolto l’attenzione ai linguaggi delle culture cittadine nel pieno e tardo Medioevo, dando grande rilievo ai codici di comunicazione visiva. Nel suo lavoro su magnati e Popolo a Firenze, Christiane Klapisch-Zuber dedica un intero capitolo, sotto il titolo Une politique des signes, a una vicenda centrale per la nostra storia, l’uso delle armi (e del nome) nella politica antimagnatizia del Popolo fiorentino fra Trecento e Quattrocento!*.
Come mostra la storia della fortuna del De insigniis, gli occhi dell’araldista, dello storico dell’arte, dello storico del diritto, e infine dello storico “generale”
(per attualizzare la metafora di Ullmann che ho citata all’inizio) possono tutti ricavare da queste pagine motivi specifici di interesse. Per quanto mi riguarda, mi propongo di leggere il trattato in due, convergenti, direzioni: da un lato come segno dell’attenzione che le società urbane del pieno Medioevo, specificamente nelle città comunali italiane, mostrano per la codificazione dei linguaggi visivi in quanto espressione dell’identità di singoli e di gruppi; dall’altro come testimonianza del contributo che all'impresa di normalizzazione di quei linguaggi fornirono i maestri di diritto, forti della loro dottrina e dell’eminenza sociale che
proprio in quel contesto andavano conquistando.
2. Funzioni e regole del linguaggio degli stemmi nel De insigniis
Il primo interesse, quello per la codificazione dei linguaggi visivi, è presente in modo diverso nelle due parti del trattato. La prima parte (capp. 1-12) insiste sulla capacità che le armi, così come i marchi di fabbrica, hanno di identificare e 5 A.A. SCAGLIONE, Knight at Court: Courtliness, Chivalry and Courtesy, University of California Press, Los Angeles-Oxford 1991, pp. 178-179, 223, 284, 384 nota 32. 14 C. KLAPISCH-ZUBER, Retour à la cité. Les magnats de Florence 1340-1440, EHESS, Paris
2006 (trad. it. Ritorro alla politica. I magnati fiorentini 1340-1440, Viella, Roma 2009); cfr. V. GROEBNER, Zu einigen Parametern der Sichtbarmachung städtischer Ordnung im späteren Mittelalter, in La ville et le droit au Moyen Age, a cura di P. MoNNET, O.G. OEXLE, Vandenhoeck
& Ruprecht, Gôttingen 2003, pp. 133-153: 144, dove, a proposito del trattato di Bartolo, si osserva che esso «ist nicht als blofe juristische Formalisierung heraldischer Kategorien zu verstehen, sondern als zentraler Text zur städtischen Zeichenpraxis als Ordnungspolitik». In tema di dialogo interdisciplinare, è interessante osservare come temi analoghi (anche se non specificamente quello di cui ci stiamo occupando) siano contemporaneamente affrontati dalla ricerca storico-sociale e dalla ricerca storico-artistica: v. R. WOLFF, Grabmäler, Platzgestaltung und Stadtstatuten, in La bellezza della città. Stadtrecht und Stadtgestaltung im Italien des Mittelalters und der Renaissance, hrsg. von M. STOLLEIS, R. WOLFF, Niemeyer, Tübingen
2004, pp. 303-342; Medialitàt der Prozession. Medialité de la procession, hersg. von K. GvozDEVA, H.R. VELTEN, Universitàtsverlag Carl Winter, Heidelberg 2011.
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di ordinare gerarchicamente il corpo sociale. È questo il fondamento sulla base del quale Bartolo propone di risolvere i principali problemi giuridici che il tema gli suggerisce: per chi è lecito portare un’arme? è ammissibile che due persone ne portino una uguale? come e da chi ne è autorizzato l’uso? come ne avviene la trasmissione da un individuo a un altro!? Si è già accennato, a proposito dell’accostamento in qualche misura fuorviante del De insigniis al De dignitatibus, che il primo non è propriamente un discorso sulla nobiltà. Il contesto storico che fa da sfondo alla riflessione bartoliana, interessato da complessi e talora tumultuosi fenomeni di ridefinizione delle gerarchie sociali (a partire dai processi di nobilitazione che riguardano proprio il ceto cui Bartolo stesso appartiene, quello dei “dottori”) fa sì che la sua riflessione sui segni di identità resti largamente aperta: non a caso essa include, accanto alle armi, i marchi di fabbrica, e non esclude l’uso delle armi
da parte dei populares!9, anche se poi l’ansia che anima il giurista lo predisporrà a essere riferimento per una trattatistica dal carattere E certo evidente il proposito del giurista
di regolamentazione della materia chiamato in causa come punto di normativo sempre più accentuato. di fissare punti di riferimento nor-
mativi per una materia che, nel momento in cui scrive, è ancora poco regolata
e in qualche misura fluida. Di fatto, egli sviluppa il suo progetto all'insegna di un atteggiamento pragmatico, che gli consente di dare la giusta attenzione alla varietà delle soluzioni che gli sono presentate da pratiche sociali talora contraddittorie. Uno dei modi con cui egli riesce a comprendere nel suo sistema la molteplicità delle specie di fatto è il ricorso alla categoria della consuetudine che, come sappiamo, ha rilievo normativo anche per il diritto classico, sia pure
a un livello inferiore rispetto alla /ex. Così, dopo aver discusso se l’arme possa passare per via ereditaria ai bastardi e agli spurii, conclude: «sono dell'opinione che non possa»; ma si preoccupa di aggiungere: «Il contrario, tuttavia, si osserva
in Tuscia per consuetudine, alla quale è bene attenersi»!?.
5 Cfr. De insigniïs cit., pp. 109-114: i principali problemi giuridici sono discussi nella forma di vere e proprie quaestiones: «quaero, unus portat certa arma vel insignia, alius
vult portare eadem, an liceat vel prohiberi possit?» (cap. 5, p. 110); «quaero, quid relevet habere ista arma ex consensu principis?» (cap. 9, p. 112); «quaero qualiter ista arma seu
insignia transeant ad successores» (cap. 10, p. 112); «posset quaeri, an bastardi vel spurii possunt uti illis signis» (cap. 11, pp. 112-113). ies]y19.é4p:193;.p..109, 7 L'argomento è trattato nella già citata quaestio «posset quaeri, an bastardi vel spurii possunt uti illis signis» (cap. 11, pp. 112-113) (v. sopra, n. 15), che così conclude: «et videtur quod non, quia non sunt de familia seu agnatione, ut 1. pronuntiatio, ff. De verborum significatione (D.50.16.195). Contrarium tamen servatur in Tuscia de consuetudine, cui standum est». La traduzione dei passi di Bartolo in italiano è mia. Una traduzione italiana del trattato è offerta in B. DA SASSOFERRATO, De insigniis et armis, a cura di M. CIGNONI,
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CARLA FROVA
In ogni caso, nella ricerca di appoggi autoritativi che possano dare ordine a una materia ancora cosi contraddittoria e mal definita, Bartolo dà un grande rilievo all’intervento dell’imperatore, e in subordine di altra autorità pubblica, come istanza legittimante. Occorre partire dalla constatazione che egli non ritiene illegittima la pratica messa in atto da coloro che si attribuiscono armi e insegne di propria iniziativa, così come accade per il nome!5. Per argomentare le due affermazioni Bartolo riesce a trarre fuori dal suo bagaglio di giurista dotto allegazioni dal corpus giustinianeo (Codice e Digesto)!?, ma è evidente che il suggerimento gli viene da pratiche ben attestate nella società del suo tempo: pensiamo per esempio alla perfetta coerenza dei signa costituiti dall’arme e dal nome nelle vicende di popolarizzazione dei magnati fiorentini?°. Dunque, proprio a partire dall’uso, cui egli è impegnato a dare fondamento con richiami alla lex, Bartolo non esclude la possibilità che qualcuno si attribuisca un’arme di propria iniziativa; al tempo stesso egli è convinto che le armi ottenute per concessione di un principe abbiano un valore speciale?!. E ciò per una serie di motivi: perché questa modalità di acquisizione dell’arme conferisce maggiore nobiltà, perché risolve i problemi relativi alla liceità di portare questi siga, perché permette di dar soluzione ai conflitti che possono sorgere tra gli utilizzatori, perché infine fissa priorità e stabilisce precedenze in modo chiaro e indiscutibile. Come si vede, un punto cruciale per le successive riletture del trattato, che accentueranno enormemente il valore normativo sia del principio affermato, sia delle argomentazioni addotte per sostenerlo. A corollario di quanto appena detto, è importante ricordare che, sul tema della concessione dell’arme da parte dell’imperatore, il trattato ingloba un racconto di sapore autobiografico. Esso, com'è tipico della scrittura bartoliana, appare perfettamente integrato nella costruzione dottrinale: è un exerzplurz che, proprio perché derivato dall’esperienza personale dell’autore, conferisce a essa la massima efficacia argomentativa e persuasiva. Si tratta dell’episodio della con-
Pagnini, Firenze 1998, lavoro criticato da O. CAVALLAR, “Ne ultra scarpas”. Un cultore d'a-
raldica fuorilegge, in «Ius commune», 28 (2001), pp. 297-311; una traduzione inglese è in A Grammar of Signs cit. pp. 145-161 e Appendix 3. !8 Non sfuggirà l’importanza dell’analogia che Bartolo stabilisce tra nome e arme come segni di identità: «così come i nomi sono stati escogitati per identificare le persone, allo stesso modo sono state create queste insegne»: De insigniïs cit., cap. 4, p. 110; cfr., A Grammar of Signs cit., pp. 52-53: dove si richiamano anche altri luoghi bartoliani nei quali è trattata la questione dei nomi. ! In particolare C.7.14.10 sulla funzione identificativa dei nomi; inevitabilmente mol-
to meno puntuale l’allegazione introdotta a proposito della funzione identificativa degli stemmi (D.1.8.8). 20 KLAPISCH-ZUBER, Retour cit.
2! De insigniis cit., cap. 9, p. 112.
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cessione da parte di Carlo IV, a Bartolo e ai suoi discendenti, di «portare un leone rosso con due code in campo d’oro»2. Naturalmente non è indifferente che questo sia un fatto vero (come a lungo si è creduto), o una posteriore invenzione
del revisore, Nicola Alessandri, come ora appare più probabile”. L'episodio, anche se da attribuirsi a una finzione della generazione successiva a Bartolo, resta
comunque una testimonianza eloquente della capacità dei doctores universitari di confermare per il loro ceto i tratti della nobiltà, senza trascurare nessuno dei segni di autorappresentazione che offriva loro il sempre più raffinato sistema di codici comunicativi in via di elaborazione da parte della cultura cittadina (e in questa prospettiva potremmo ricordare la normativa suntuaria, pervasivo strumento di regolamentazione degli stili di vita “apparenti”, alla quale i giuristi diedero un loro contributo). Tralascio, fra molto altro, il problema dell’assenza nel De insigniis di un
accenno esplicito alla concessione delle armi da parte di un’autorità cittadina (mentre il trattato è ovviamente ricco di osservazioni sull’araldica comunale,
sulla presenza di riferimenti alla dominante negli stemmi delle città soggette, sull’uso da parte degli ufficiali dell’arme della città di cui sono al servizio etc.). I curatori della più recente edizione del trattato osservano che la capacità di legittimare l’uso di un’arme da parte di singoli individui è implicita nel concetto bartoliano di città come organismo dotato della pienezza dei poteri di governo («civitas sibi princeps»)?. La seconda parte dello scritto (capp. 13-31), quella che i più attribuiscono a Nicola Alessandri, tratta de insigniis et armis in quanto manufatti, ed è tutta dedicata a fissare regole operative per la loro esecuzione, principalmente stabilendo la gerarchia delle posizioni nell’organizzazione spaziale dell’arme. Nello sviluppo del discorso sono compresenti due schemi di dspositio della materia.
22 Jyi.icap.- 3, pel09:
3 Alla questione dedica ampio spazio A Grammar of Signs cit., pp. 18-25; più recentemente ripercorre il dibattito F. TREGGIARI, Le ossa di Bartolo. Contributo alla storia della tradizione giuridica perugina, Deputazione di storia patria per l'Umbria, Perugia 2009. In genere la notizia della concessione dell’arme a Bartolo da parte dell’imperatore è data per buona dalla letteratura araldica specifica: v. A. ZELENKA, Heraldische Bemerkungen, in Kaiser Karl IV. Staatsmann und Mäzen, Prestel, München 1978-1979, pp. 312-317: 316.
2 Cfr. J.D. RODRIGUEZ VELASCO, Order and Chivalry. Knighthood and Chivalry in Late Medieval Castile, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2010, pp. 115-116, rilevando come nel De dignitatibus e nel De insigniis Bartolo esprima con precisione un progetto che attiene alle più intime aspirazioni degli intellettuali universitari: il desiderio di superare i limiti delle possibilità offerte loro dalla funzione consulente per essere integrati nei circuiti del potere effettivo; per far questo il giurista deve penetrare entro i confini di un ordo, quello della nobiltà, perché è in questo spazio che si esercita il controllo del potere oggettivo (pratiche e teorie). 5 A Grammar of Signs cit., pp. 47-49.
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Da un lato l’esposizione segue la casistica dei supporti sui quali può trovar posto l’arme, che intende presentare in maniera esauriente: sono elencati nell’ordine bandiere e drappelle, vesti, sigilli, scudi, coperte dei cavalli, coperte da letto, e supporti immobili (ovvero pareti, soffitti, pavimenti). Un criterio di ordinamento che potremmo definire di carattere “pratico”. Con questo si interseca un altro criterio, che potremmo dire di carattere “dottrinale”, fondato su una distinzione
derivata dalla dottrina dei segni: è utilizzata la distinzione tra segni che fanno riferimento a realtà naturali («signa quae signant aliquam rem preexistentem»), esemplificati soprattutto da immagini di animali, e segni espressamente definiti come “semplici” («signa simplicia»): in questo caso colori e forme geometri-
che. Il primo criterio dà all’autore l'opportunità di ancorare l’impresa di codificazione alle circostanze concrete nelle quali le immagini araldiche sono utilizzate e fruite: risulta obbligatorio, per fissare le regole dell’esecuzione, stabilire se l’arme trova posto su un oggetto fermo o in movimento, su un supporto opaco 0 trasparente, e quale sia il punto di vista dell’osservatore (tutto questo, tra l’altro, offre al lettore una testimonianza vivissima di quanto gli stemmi fossero diffusi nella vita delle città italiane trecentesche, mettendo in risalto la pervasività e la versatilità del loro linguaggio). Il criterio che abbiamo definito “dottrinale” implica la messa in campo, da parte dell’autore, di alcuni problemi teorici particolarmente complessi e dibattuti, come il rapporto tra ratura e ars, la natura fisica del colore e della luce, la qualità razionale dell’operare per artem.
3. I De insigniis come prodotto di cultura scolastica Per ritrovare nel De insigniis i tratti di una raffinata cultura scolastica (giuridica in primis ma anche filosofica e teologica), si può partire dalla constatazione che il ragionamento di Bartolo si applica nella quasi totalità a fattispecie non contemplate nei testi degli auctores antichi: lo farà notare nel Cinquecento Andrea Alciato, che cita l’opera come De insignibus et armis, con evidente correzione della grammatica di Bartolo, del quale peraltro è un lettore non malevolo. Dice Alciato che né Bartolo, né del resto Valla potevano trarre materia dai classici,
dato che le insegne non erano in uso presso gli antichi e sono state introdotte solo recentemente come segni di nobiltà?. L'impegno argomentativo che questa circostanza richiede a Bartolo è evidente in più punti: si veda per esempio il 26 De insigniis cit., cap. 13, p. 114.
7 A. ALCIATUS, Parergon iuris libri VII posteriores, apud Sebastianum Gryphium, Lugduni 1544, lib. V, cap. 13, p. 29, dove si afferma «neutrum ipsorum [né Bartolo né Valla] habere quod ex veteribus autoribus hac de re in medium adducant. Nec enim arbitror insignium horum usum apud eos fuisse [...]».
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luogo in cui il trattato discute le gerarchie che si stabiliscono fra gli oggetti in conseguenza della loro posizione all’interno dello stemma. L'autore si preoccupa di indicare, a seconda delle diverse partizioni, quale sia la parte più nobile dello scudo, nella quale dovrà quindi essere collocata la nobilior res. Nel caso di partizioni orizzontali, la posizione più nobile è quella più in alto; nel caso di partizioni verticali la posizione più nobile (si considerano stemmi apposti su una bandiera) è quella vicino all’asta; nel caso di partizioni trasversali, la posizione più nobile è quella in alto verso l’asta?8. Il principio posto a fondamento del discorso è che «nobilior res debet preferri et in nobiliori loco poni», argomentato con il rinvio a D.1.12.1, C.1.40.5 e C.12.3.1, cui si aggiunge, a dimostrazione
che la posizione superiore è più nobile dell’inferiore e posteriore, D.50.3.2. Il confronto con il contesto da cui sono tratte le allegazioni mostra come i libri legales non possano in questo caso che offrire un appoggio molto generico”. La stessa osservazione muoverà a Bartolo nel tardo Ottocento Felix Hauptmann, uno dei cultori di araldica che si fecero editori del De insigniis; anche se in questo caso l’intenzione è ben diversa da quella di Alciato: lo studioso tedesco intende censurare, in quanto fallace, il proposito di mettere sotto l'autorità del diritto romano istituti che rientrano nella competenza del diritto germanico”, E tuttavia proprio la pretesa di fondarsi sulla dottrina antica fa del trattato, più evidentemente nella prima, un po’ meno nella seconda parte, un prodotto
28 De insigniis cit., cap. 23, pp. 116-117.
2° Le tre prime allegazioni riguardano l’ufficio del prefetto della città, del rettore della provincia e dei consoli; l’ultima l'ordine con cui debbono essere registrati i nomi nell’albo dei Decurioni. Soprattutto l’ultimo esempio mostra bene come il ricosrso all’auctoritas giustinianea sia ben poco pertinente allo scopo, che l’autore sta qui perseguendo, di stabilire regole per la comunicazione visiva affidata ai segni araldici; anche se per incidens si può notare la perfetta consonanza tra il principio generale qui presupposto e quello che, come abbiamo già rilevato, guida Bartolo in alcuni passaggi decisivi del trattato, e che in ogni caso egli ha a cuore di ribadire: il collegamento all’autorità imperiale costituisce sempre un titolo indiscutibile di preminenza. 30 F HAuPTMANN, Das Wappenrecht. Historische und dogmatische Darstellung der im Wappenwesen geltenden Rechtssätze. Ein Beitrag zum deutschen Privatrecht, P. Hauptmann, Bonn 1896. Per l’edizione del trattato: B. DA SASSOFERRATO, Tractatus de insignits
et armis, mit Hinzufiigung einer Übersetzung und der Citate, hrsg. von F. HAUPTMANN, P. Hauptmann, Bonn 1883. In direzione ancora diversa Giovanni Rossi sottolinea che la difficoltà che Bartolo sperimenta nel ricorso al diritto classico non lo distoglie assolutamente dalla volontà di rifarsi alla sua auctoritas, ma semmai lo indirizza a utilizzare la forma del trattato, più idonea di quanto non sia la lectura a «sviluppare la riflessione intorno a materie che esulano da quelle disciplinate dal diritto romano e che si connotano, peraltro, come tecnicamente complesse e prive di una esauriente disciplina positiva (non solo romanistica, ma anche consuetudinaria o statutaria)»: G. Rossi, Bartolo da Sassoferrato alle origini della
moderna trattatistica giuridica: note di lettura sul “Liber Minoricarum”, in «Studi umanistici
piceni», 32 (2012), pp. 15-44: 19.
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CARLA FROVA
pienamente scolastico. Scolastica è, infatti, l’organizzazione formale del discor-
so, scolastico soprattutto il procedimento dell’argomentazione, saldamente fondato sulle allegazioni delle auctoritates, alla luce delle quali trovano significato anche i rimandi (pure presenti) alla consuetudine e ai casus de facto emergentes. Il patrimonio culturale che sta alle spalle della costruzione bartoliana mostra alcune caratteristiche. Anzitutto è interdisciplinare: vi sono rappresentati non solo i libri legales e ovviamente la canonistica, ma anche testi di teologia e di filosofia (in particolare di fisica naturale, specialmente per quanto attiene alla teoria della visione). D'altra parte, benché aperto a questa pluralità di riferimenti, l’autore è attento a metterli in ordine secondo una gerarchia che privilegia, senza esitazioni, le auctoritates della scientia iuris. Che si tratti di nobiltà, di teoria dei segni, di fisica della visione, di tecniche manifatturiere; che si faccia ricorso al Digesto, ad Aristotele, a Tommaso, alla Bibbia; che si raccolgano le provocazio-
ni che vengono dalla contemporaneità, tutto è filtrato dallo sguardo del giurista. A proposito delle letture di Bartolo, occorre del resto domandarsi, per tutto quanto non appartiene al bagaglio specializzato di un maestro di diritto, quanto gli derivi da una lettura diretta dei testi delle diverse discipline, e quanto non gli pervenga attraverso mediazioni di vario tipo. Quando parliamo di bagaglio non specializzato pensiamo alla presenza nel trattato di alcuni contenuti propri della cultura teologica (per argomentare l'eccellenza dell’oro, rappresentazione della luce, il riferimento al racconto della trasfigurazione nel Vangelo di Matteo — questo è uno dei punti sui quali Valla lo ridicolizza nel modo più feroce); oppure all’affacciarsi di temi riferibili alle discipline filosofiche: come i già ricordati accenni alla teoria dei segni, o ancora a vulgatissimi luoghi di Aristotele nella rilettura tomista. Un esempio: allo scopo di dare indicazioni circa il modo in cui le armi debbano essere dipinte “razionalmente”, il trattato si richiama al principio che la razionalità di un’operazione si deve valutare rispetto al fine al quale essa è ordinata: un principio troppo largamente diffuso nella cultura scolastica del tempo perché si possa indicarne con certezza la derivazione da una fonte specifica, anche se il pensiero corre ai luoghi in cui Tommaso lo applica proprio all’operare degli artifices’?. A maggior ragione il problema si presenta per il principio della fisica aristotelica ars imitatur naturam, familiare, com'è
3! De insigniis cit., cap. 30, p. 117. 7 Ivi, cap. 29, pp. 118-119. Cfr. in particolare Summa Theologiae I, 91, 3: «Quilibet [...] artifex intendit suo operi dispositionem optimam inducere, non simpliciter, sed per comparationem ad finem»: U. Eco, Arte e bellezza nell'estetica medievale, Bompiani, Milano 1987, p. 118. È questo uno dei punti in cui il trattato sviluppa l’analogia tra pittura e scrittura, introducendo il famoso giudizio sull’irrazionalità della scrittura degli ebrei, che procede da destra a sinistra; v. A Grammar of Signs cit., pp. 26-29, anche in relazione al problema della conoscenza dell’ebraico da parte di Bartolo.
LA RIFLESSIONE DEL GIURISTA: BARTOLO DA SASSOFERRATO
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ben noto, anche a Dante”: naturalmente con l’integrazione tomista in quantum potest?*, esso è alla base di tutto il ragionamento di Bartolo (o del suo continua-
tore) sul modo di raffigurare gli animali nelle armi”. Nella misura in cui possa trovare risposta la domanda sul modo con cui Bartolo viene in contatto con questi contenuti non strettamente giuridici, il De insigniis potrebbe non limitarsi a restituirci la sola prospettiva del giurista; potrebbe, sia pure indirettamente, indicarci anche quali fossero le risorse della cultura diffusa cui la società del tempo faceva ricorso per risolvere i problemi che sono oggetto del trattato. Si può aggiungere, prima di chiudere, che gli spunti di analisi proposti consentono di trovare una certa coerenza nell’insieme del lavoro, sfumando il problema della doppia paternità, che da altri punti di vista ha un grande rilievo”, Per gli aspetti che qui ci hanno interessato, le riflessioni sviluppate nella prima e nella seconda parte del De insigniis si collocano perfettamente, infatti, in una stessa realtà socio-politica e in una stessa cultura. Caratterizzati da profili intellettuali diversi, quanto agli interessi specifici e quanto al valore del loro impegno di studiosi e di maestri, Bartolo e Nicola Alessandri possono, infatti,
ritenersi, dal punto di vista socioculturale, espressione di un unico ambiente: si situano nel contesto sociale e politico della stessa grande città comunale, appartengono allo stesso ceto di dottori attivi sulle cattedre universitarie ma anche nelle professioni e negli uffici, condividono gli interessi e i metodi delle discipline giuridiche quali si sono venuti definendo nella fase matura dello sviluppo universitario. Una fase che, come abbiamo cercato di mostrare, vede i giuristi di scuola attivamente impegnati a risolvere i problemi che pone loro la realtà contemporanea.
3 Cfr. DANTE, Inf., XI, 3. Tommaso D'AQUINO, 5 Deinsignits cit., cap. portante notare che, dopo
vv. 97-105. Expositio libri Posteriorum Analiticorum, I, 1, 5. 14, pp. 114-115. Per il metodo argomentativo di Bartolo, è imaver riportato in maniera cursoria il principio tomista, egli suf-
fraga la sua affermazione con tre allegazioni del Digesto: D.1.7.15.3, D.1.7.16 e D.1.5.14: luoghi in cui l’adesione alla natura compare come punto di riferimento per l’agire umano, ma in circostanze che nulla hanno a che fare con l’operare artistico (ad esempio in D.1.7.16, a proposito dell’adozione: «Adoptio [...] in his personis locum habet, in quibus in etiam natura potest habere»). 36 Rinviando un’ultima volta a A Grammar of Signs cit., pp. 29-40, segnalo che qui il caso del De insigniis è affrontato nel quadro più ampio della pubblicazione postuma di varie opere bartoliane.
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STEMMI A SIENA E A MONTAPERTI: I MANOSCRITTI DI NICCOLO DI GIOVANNI DI FRANCESCO DI VENTURA Alice Cavinato
Il manoscritto A.IV.5 della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena contiene una cronaca figurata della battaglia di Montaperti, interamente di mano del copista e illustratore Niccolò di Giovanni di Francesco di Ventura, che lascia la data — 1443 — e la sua “firma” a conclusione del lavoro!. Nelle illustrazioni che accompagnano il testo manoscritto la presenza di elementi araldici è molto insistita e significativa nella costruzione dell'immagine. Le vignette di questo codice, noto in ambito senese, offrono pertanto lo spunto per osservare l’uso del linguaggio araldico in un contesto narrativo, per così dire “in azione”. Le trentanove illustrazioni, che si trovano nel bas de page e occupano ciascuna una carta, in alcuni casi due, sono realizzate a penna e colorate vivacemente
ad acquarello, e il loro dispiegarsi sulle carte segue con precisione il contenuto del testo, illustrandone i momenti significativi nel rispetto anche dei dettagli più minuti. In un simile contesto figurativo, come vedremo, l’araldica ha un ruolo fondamentale: in primo luogo, per consentire una corretta lettura delle illustrazioni e, in seconda battuta, per fornire, eventualmente, allo studioso qualche
spunto di riflessione utile a ricostruire la storia del codice e l’origine di questo racconto figurato. In questo manoscritto l’uso dell’araldica interessa in primo luogo gli sten-
* Desidero esprimere il mio più profondo e affettuoso ringraziamento a Maria Monica
Donato, per aver promosso e seguito i miei studi sul codice de La sconfitta di Monte Aperto, e per avermi incentivato a sviluppare la riflessione sull’impiego dell’araldica all’interno del suo apparato illustrativo. Un grazie particolare va inoltre ad Alessandro Savorelli e a Matteo Ferrari, per la loro totale disponibilità e i preziosi suggerimenti. ! Questo codice è molto conosciuto, sia per essere una delle poche fonti narrative superstiti sulla battaglia, benché tarda, sia per il suo ricco corredo illustrativo; nonostante ciò, non ha mai goduto di studi specifici. L'analisi di questa così singolare testimonianza, sia per quanto riguarda il testo che il corredo di vignette narrative, è stata da me trattata in: La sconfitta di Monte Aperto di Niccolò di Giovanni di Francesco di Ventura. Per l'edizione
di una cronaca illustrata senese del Quattrocento, tesi di laurea, Università di Pisa, a.a. 20092010, rel. M. Ciccuro, M.M. Donato.
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ALICE CAVINATO
dardi da battaglia, che servono a identificare gli eserciti in campo e le loro componenti; essi rispondono sia a un’istanza di verosimiglianza — tali stendardi venivano effettivamente usati nelle campagne militari — sia alla necessità di identificare senza possibilità di equivoco i soggetti delle illustrazioni. Le insegne non hanno dunque alcuna funzione celebrativa, ma sono indispensabili per la corretta lettura delle vignette e per comprendere lo svolgimento dell’azione?. I casi analoghi più noti sono rappresentati dalle versioni illustrate della Cronica di Giovanni Villani e delle Croniche di Giovanni Sercambi?. In queste cronache la frequenza di illustrazioni relative a campagne militari, trasferimenti di eserciti e cambi di regime è altissima, e gli emblemi raffigurati su vessilli, armature e scudi permettono al lettore di distinguere, anche in assenza di didascalie, le forze in
campo, i vincitori e gli sconfitti, oltre che i mutamenti di governo*. La prima vignetta del codice, a carta 1r, ne fornisce immediatamente un esempio (fig. 1): vediamo l’esercito guelfo-fiorentino in marcia per portare soccorso a Montalcino assediata; i soldati innalzano stendardi con il simbolo della
città di Firenze, il giglio, e quello della parte guelfa, l’aquila rossa che ghermisce un drago verde. Gli stessi stemmi compaiono sugli stendardi che pendono dalle ceramelle, e anche il cimiero del capitano, raffigurato in primo piano con in mano il bastone del comando, è costituito dal giglio rosso di Firenze. La presenza delle insegne, dunque, semplifica la lettura dell'immagine, come sul campo di battaglia l’uso dell’araldica aiutava i cavalieri a localizzare amici e nemici e a seguire gli eventi. A questo sistema di segni, però, sono affidati anche contenuti ideologici: si noti che in questa vignetta sono raffigurate unicamente le insegne della città di Firenze, nonostante il testo elenchi dettagliatamente anche i contingenti delle città alleate, le cui armi compariranno in una vignetta successiva. Trattandosi dell’illustrazione di apertura, è evidente la volontà di sottolineare il rapporto di inimicizia diretta e mortale tra Siena e Firenze; del resto in tutto il testo i guelfi sono chiamati semplicemente fiorentini.
? Sul ruolo dell’araldica nelle cronache illustrate tardomedievali v. A. SAVORELLI, L'a-
raldica del codice Chigiano: un ‘commento’ alla Cronica del Villani, in Il Villani illustrato. Firenze e l'Italia medievale nelle 253 immagini del ms. Chigiano L VIII 296 della Biblioteca Vaticana, a cura di C. FRUGONI, Le Lettere, Firenze 2005, pp. 53-58: 56. ? Rispettivamente BAV, ms. Chigi L VIII 296; ASLu, Biblioteca manoscritti 107. Per le illustrazioni contenute in questi due codici v.: I/ Villani illustrato cit.; Le illustrazioni delle Croniche nel codice Lucchese, a cura di O. BANTI, M.L. TESTI CRISTIANI, Basile, Genova 1978; * Memorabile, in questo senso, la vignetta a c. 44 del codice delle Croniche di Sercambi,
che illustra il soggetto «Come Luccha perdeo sua libertà e gli stati che mutò»: le insegne dei successivi signori di Lucca vengono raffigurate issate sulle mura cittadine, e poi, una dopo
l’altra, immediatamente abbattute: SERCAMBI, Le illustrazioni delle Croniche cit., p. 15.
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Fig. 1 NICCOLÒ DI GIOVANNI, L'esercito fiorentino in marcia per recare aiuti a Montalcino, in Siena, BCI, ms. A.IV.5, c. 1r.
Le insegne che permettono di individuare, a prima vista, l’esercito fiorentino compaiono anche ogniqualvolta è raffigurato l'accampamento, che i guelfi stabiliscono presso Montaperti: ne vediamo due esempi alla carta 97, dove si distinguono chiaramente l’arme della città e quella della parte guelfa, poste sulla sommità delle tende, e alla carta 10r, dove, oltre al solito giglio, riconosciamo
anche la bandiera scaccata di Pistoia. Ma il caso più interessante è quello della carta 16r, in cui è raffigurato un momento cruciale dello scontro: il conte d’Arras, uno dei cavalieri tedeschi del contingente inviato a Siena da Manfredi, uccide in duello il capitano dell’esercito guelfo; incoraggiati dall’inaspettato esito dello scontro, i senesi si impadroniscono delle bandiere dei contingenti avversari, provocandone il definitivo sbandamento (tav. 22).
Issate sulla sommità delle tende sono raffigurate questa volta non solo le insegne fiorentine — vediamo a sinistra quella della parte guelfa, la quarta insegna è quella del Popolo, forse c’era anche uno stendardo con il giglio ora non più leggibile a causa della caduta del margine — ma anche quelle dei contingenti alleati, da sinistra a destra: Lucca, San Miniato, Prato, Pistoia, Arezzo, Colle
val d’Elsa — e un’ultima insegna, che, sebbene parzialmente coperta, può essere identificata come quella degli Orsini. I soldati senesi afferrano gli stendardi per
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ALICE CAVINATO
abbatterli, mentre, in primo piano, si svolge il confronto decisivo tra il comandante dell’esercito guelfo e il conte d’Arras. È degno di nota il fatto che in queste illustrazioni siano raffigurati esclusivamente gli stemmi propri degli schieramenti in campo, e non quelli degli individui. Vi sono le armi delle città, dei terzi e delle fazioni, non quelle personali dei cavalieri, che pure sono citati nel testo e ricoprono un ruolo narrativo di una certa importanza. Tra questi sono il vicario imperiale conte Giordano d'Agliano, il suo siniscalco conte d'Arras, Arrigo da Stimbergo e il nipote Gualtieri, Pepo Visconti da Campiglia, i due cugini Ildibrandino da Santa Fiora e Ildibrandino da Pitigliano, rispettivamente XI e XII conte degli Aldobrandeschÿ. Gli scudi imbracciati dai combattenti nelle scene di battaglia alle carte 140-157,
poi, non portano alcuna insegna, ma solamente una generica decorazione a raggio di carbonchio; anche le sopravvesti e i cimieri sono quasi sempre privi di una decorazione araldica riconoscibilef. Anche l’esercito senese esibisce gli stendardi che identificano le compagnie di cui è composto. Le principali sono tre, una per ogni terzo cittadino: San Martino, Città e Camollia. Sono visibili chiaramente alla carta 10v, dove l’esercito
senese è raffigurato mentre marcia in direzione dell’accampamento avversario (fig. 2). Si riconoscono, da sinistra a destra, lo stendardo del terzo di San Martino, con l’immagine del santo a cavallo in campo rosso, quello del terzo di Città, di rosso alla croce d’argento con uno scudo alla balzana senese nel secondo, e lo stendardo con la balzana, emblema della città di Siena; un vessillo bianco di di-
mensioni evidentemente maggiori, indicato nel testo come il gonfalone bianco di Camollia, viene issato sul carroccio. Tale insegna ha nel racconto uno speciale ruolo simbolico: è infatti paragonata al manto che la Vergine stende sulla città di Siena per proteggerla dai suoi nemici. Si dice infatti che «il gonfaloniere reale di Camollia [...] appresentava lo mantello de la nostra Madre Vergine Maria che era tutto bianco e candido netto e puro». Per comprendere l’importanza
> Come vedremo, una delle insegne identificabili è probabilmente da intendersi come quella del contingente di Ildibrandino da Pitigliano: non compare, però, sullo scudo del personaggio, a c. 15r, bensì solo tra gli stendardi di c. 16r. Rientra dunque anch'esso nell’uso già descritto, cioè quello di individuare le componenti dell’esercito, piuttosto che di segnalare l'identità di un combattente nobile. ° Fanno eccezione il cimiero del capitano dei fiorentini, che però, riproducendo il giglio rosso, non identifica l’individuo, ma il suo ruolo di comandante dell’esercito cittadino, e la
gualdrappa del cavallo di uno dei cavalieri tedeschi; messer Gualtieri, descritta nel testo a c. 13r: «era covortato tutto di zendato vermiglio, aracamata di draghi verdi con razi d’oro». Poiché, però, questo personaggio non è attestato dalle fonti, è probabile che si tratti di un’insegna di fantasia, inventata piuttosto per esaltare l’alto rango del personaggio, che per la sua funzione araldica. Per il testo v. CAVINATO, La sconfitta di Monte Aperto cit., p. 192.
? Questa frase doveva trovarsi a c. 6r del codice, ora mancante; è possibile tuttavia
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Fig. 2 NICCOLÒ DI GIOVANNI, L'esercito senese in marcia con il carroccio verso il campo nemico, in Siena, BCI, ms. A.IV.5, cc. 10v-11r.
di questo punto, si ricordi che nella storia è particolarmente enfatizzato l’intervento della Vergine a fianco dei senesi, che le si erano votati con una cerimonia solenne la vigilia della battaglia: nella notte che precedette lo scontro, per un misterioso prodigio, il cielo diventò completamente bianco, e questo fu interpretato dai senesi, appunto, come il segno che la Madonna aveva steso su di loro il proprio manto salvifico. Per questa ragione, lo stendardo bianco ha una posizione di assoluta preminenza nelle illustrazioni del testo, rispetto a quelli degli altri terzi e persino alla balzana, e, ogni volta che nel racconto vi si fa riferimento, si specifica questa somiglianza con il manto della Vergine. Il narratore a un certo punto inserisce persino una digressione in cui rac-
conta dove questo stendardo era conservato in tempo di pace, vale a dire nella sagrestia dell'Ospedale di Santa Maria della Scala, in un cassone utilizzato anche come urna per le elezioni dei magistrati cittadini, a riprova dello speciale significato civico rivestito da questa insegnaÿ. -
ricostruirne con ragionevole approssimazione il contenuto, grazie ad alcuni apografi del XVI secolo, tuttora conservati. Cfr. ivi, pp. 140-145. 8 BCI, ms. A.IV.5, c. 18r e ss.: «I quali arboli e caroccio sono nel Duomo di Siena,
cioè quelli arboli sono alle colone della tribuna dinanzi al coro, verso l’altare magiore, e
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ALICE CAVINATO
La menzione dello stendardo di Camollia, oltre a costituire un valido esem-
pio di come, in una cronaca cittadina come questa, l’araldica possa andare ben
oltre la sua funzione concreta di sistema di segni a uso bellico, e caricarsi importanti significati simbolici, ci permette di introdurre un problema che guarda, nello specifico, questo manoscritto: alcune insegne raffigurate nelle gnette sono anacronistiche, non corrispondono cioè a quelle in uso all’epoca
di rividi
Montaperti, ma riflettono la situazione trecentesca?.
È il caso appunto del gonfalone del terzo di Camollia, che nel testo si dice fosse di dimensioni maggiori degli altri stendardi e fosse issato sul carroccio; il cronista confonde qui in realtà due stendardi differenti, a causa del loro uguale colore. Il trecentesco gonfalone maestro del terzo di Camollia era in effetti bianco, con due scudi con le armi del Popolo e del Comune; ma rappresentava solo il terzo omonimo ed era di dimensioni analoghe a quelle degli altri stendardi dei terzi, tale da poter essere portato da un vessillifero a cavallo. Il gonfalone bianco di cui si parla nel testo, già attestato nel Duecento, era invece di dimensioni enormi, confezionato appositamente per essere issato sul carroccio, e non
rappresentava in particolare il terzo di Camollia; era completamente bianco e sormontato dal cosiddetto “bandellone”, una striscia di tessuto con la scritta SENA VETUS CIVITAS VIRGINIS, ALPHA ET OMEGA, PRINCIPIUM ET FINIS!°,
Nella cronaca si verifica quindi una sovrapposizione tra il gonfalone del carroccio, in uso dall’epoca di Montaperti, e quello del terzo di Camollia, attestato dal Trecento, che però non ha mai avuto una speciale preminenza rispetto a quelli degli altri due terzi. Per l’epoca, la stessa dicitura di “gonfaloni dei terzi” è peraltro anacronistica, in quanto all’epoca di Montaperti non esistevano
1 caroccio està nell’Uopera Sancte Marie, e Ilo stendardo tutto bianco istà nella sagrestia dell’ospedale Sancte Marie, nel cassone dove si tiene la cassetta du’ sono inbossolati e’ si-
gnori di Siena e altri offitiali. E ogni volta che vi si va per la cassetta per trare il nuovo offitio si si ispiega, e mostrasi el detto gonfalone a quelli che ’l non sanno come egli è el gonfalone che ssi dè a’ Fiorentini la sconfitta a Monte Aperto, e vittoria a’ Sanesi, e questo si fa a perpetua mimoria delle dette cose» (CAVINATO, La sconfitta di Monte Aperto cit., p. 202). Una parte almeno del gonfalone fu effettivamente conservata nella sagrestia dell Ospedale per almeno cinque secoli, prima di andare perduto nel Settecento: Cronache senesi, a cura di A. Lisini, F. IACOMETTI, in RIS, XV-6, Zanichelli, Bologna 1931, p. 215; G. Mazzini, “Ad boc ut exercitus sit magnus et honorabilis pro Comuni”. L'esercito senese nel sabato sanguinoso
di Montaperti, in Alla ricerca di Montaperti. Mito, fonti documentarie e storiografia, a cura di E. PELLEGRINI, Betti, Siena 2009, p. 200. ? Qualche caso di stemma anacronistico, dovuto a un’esigenza di semplificazione, si
riscontra anche nella Nuova Cronica del Villani, come ad esempio, i gigli d’oro in campo azzurro usati come emblema di Carlo Magno e del suo esercito: SAVORELLI, L'araldica del codice Chigiano cit., p. 57; Il Villani illustrato cit., p. 103. '° Cronache senesi cit., p. 65; Mazzini, “Ad hoc ut exercitus sit magnus et honorabilis pro Comuni” cit., pp. 199-200.
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Fig. 3 NICCOLÒ DI GIOVANNI, L'esercito senese esce dalla città e stabilisce il campo sul poggio delle Ropole, in Siena, BCI, ms. A.IV.5, cc. 7v-8r.
ancora i gonfalonieri maestri dei terzi, che guidavano l’intero contingente, ma i gonfalonieri dei cavalieri e dei fanti per ciascun terzo!!. Un anacronismo macroscopico interessa inoltre lo stendardo del contingente inviato da Manfredi di Svevia. Questa insegna, a differenza di quelle dei terzi, è nominata, ma non descritta nel testo; compare però più volte nelle vignette, riservandoci una sorpresa. In luogo dell’aquila nera in campo argento, lo stemma usato dagli Svevi come sovrani di Sicilia', troviamo un partito: nel primo alla igli d’oro. Si tratta in croce di Gerusalemme; e nel secondo d’azzurro seminato di 818
effetti dell’arme del sovrano regnante nell’Italia meridionale, ma non di quello sul trono all’epoca della battaglia, bensì di quello che governò nel secolo successivo: Roberto d'Angiò. L'insegna è raffigurata con coerenza, sempre uguale, alle carte 7r, 8r, 9r, 10v, 197, e tale incongruenza non sembra dare il minimo fastidio
all’illustratore (fig. 3).
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!? Questo stemma è appunto attribuito a Manfredi e ai suoi contingenti nelle vignette del codice Chigiano del Villani: I/ Villani illustrato cit., pp. 138, 149.
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ALICE CAVINATO
Possiamo rilevare qualcosa di analogo, anche se molto meno evidente, a carta 16r, dove, come abbiamo già visto, sono raffigurati gli stendardi dei vari contingenti dell'esercito guelfo (tav. 22). Il quinto stemma da sinistra è quello di Prato (di rosso seminato di gigli d’oro); nonostante la cursorietà della realizzazione parrebbe di riconoscere il capo d'Angiò, che fu aggiunto stabilmente soltanto nel 1313, quando la città si pose sotto la protezione di Roberto”. Anche gli stendardi di Colle val d’Elsa e Arezzo riflettono una situazione politica più recente rispetto all’epoca di Montaperti. L'emblema (di rosso, alla croce d’oro) apparteneva in origine al Popolo di Arezzo e, come abbiamo già visto nel caso di Firenze, per un certo periodo venne usato in associazione con
quello del Comune (d’argento, al cavallo di nero), in quanto rappresentava la parte dominante, Quando la città entrò nell’orbita fiorentina, con la vendita nel 1337 da parte di Piero Tarlati, gli aretini furono presumibilmente costretti a usare soltanto questo stemma: l’illustrazione del nostro codice testimonierebbe dunque questa fase, che si prolungò per tutto il Quattrocento!. Analogamente, lo stemma di Colle, con la croce del Popolo fiorentino alla testa di cavallo infrenato — probabilmente con il freno legato al giglio fiorentino — è attestato in sigilli trecenteschi e rende evidente la dipendenza politica di Colle da Firenze!°. L'ultimo stendardo a destra del gruppo, quasi totalmente coperto da quello di Colle, non è d’immediata interpretazione. Con un piccolo sforzo d’immaginazione, però, possiamo leggervi un bandato d’argento e di rosso, col capo d’argento caricato di una rosa di rosso: lo stemma degli Orsini. Ora, questa famiglia non risulta coinvolta in alcun modo nello scontro di Montaperti: come mai, dunque, compare questa insegna? La risposta è ancora una volta da ricercarsi in un anacronismo: lo stendardo si riferisce certamente al contingente condotto da Ildibrandino Rosso da Pitigliano, XII conte degli Aldobrandeschi («conte Aldobrandino» nel testo), la cui contea passò definitivamente, per via matri-
! Gli stemmi dei comuni toscani al 1860, a cura di G.P. PAGNINI, Polistampa, Firenze
1991, p. 53; C. CERRETELLI, Sui pittori di stemmi e scudiccioli, in Leoni vermigli e candidi liocorni, a cura di A. PASQUINI («Quaderni del Museo civico», 1), Italia grafiche, Prato
1992, p. 115. Per l'inquadramento storico v. S. RAVEGGI, Protagonisti e antagonisti nel libero Comune, in Prato. Storia di una città, III/1. Ascesa e declino del centro medievale (dal Mille al 1494), a cura di G. CHERUBINI, Le Monnier, Firenze 1991, pp. 613-736: 620-621. 4 L. BORGIA, Introduzione allo studio dell'araldica civica italiana con particolare riferi-
mento dg Toscana, in Gli stemmi dei comuni toscani cit., pp. 81-117: 97. 5 Ibid.
!6 Gli stemmi dei comuni toscani cit., p. 32; Sigilli nel Museo nazionale del Bargello, III.
Sigilli civili, a cura di A. Muzzi, B. TOMASELLO, A. Tori, SPES, Firenze 1990, p. 21; V. FaviNI, A. SAVORELLI, Segni di Toscana. Identità e territorio attraverso l'araldica dei comuni: storia
e invenzione grafica (secoli XIIT-XVII), Le Lettere, Firenze 2006, p. 64.
STEMMI A SIENA E A MONTAPERTI
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moniale, agli Orsini nel Trecento. Sua nipote, infatti, Anastasia, sposò Romano di Gentile Orsini nel 1293. Lo stemma qui raffigurato si riferisce pertanto a un contesto politico non duecentesco, ma del secolo successivo. Per un complesso di ragioni emerse dallo studio del testo e delle illustrazioni, è ragionevole ipotizzare che il codice di cui parliamo sia stato copiato integralmente, compreso l’apparato illustrativo, da un esemplare più antico, databile plausibilmente alla seconda metà del Trecento o ai primi anni del Quattrocento: anche i dati emersi dall'analisi delle insegne araldiche, pur con le dovute cautele, sembrano essere compatibili con questa ricostruzione. La segnaletica militare non è, d’altronde, l’unico contesto in cui in questo ma-
noscritto compaiono degli stemmi: essi hanno un ruolo fondamentale anche nella rappresentazione della città, dove si svolgono alcuni dei momenti chiave della vicenda. Una delle porte di Siena è raffigurata nell'immagine di carta 257, che rappresenta il ritorno dell'esercito senese da una spedizione punitiva contro alcuni castelli controllati dai fiorentini. Nel timpano al di sopra dell’arco d’ingresso troviamo la lupa con i due gemelli, sovrastata da uno scudo campito a balzana; quest’ultimo è rappresentato anche a carta 22v, dipinto sul rivestimento murario della fonte Becci. La vignetta che si trova alle carte 18v e 19r, che raffigura il rientro trionfale dei senesi all’indomani della battaglia, ci offre, invece, una singolare testimonianza di
una pratica denigratoria attuata dai vincitori nei confronti dell'esercito sconfitto: in testa al corteo è condotto un asino, in groppa al quale è seduto, con il volto rivolto verso la coda dell'animale, uno degli ambasciatori dell’esercito avversario, colpevole di aver proposto ai senesi un wltizzatum inaccettabile. Alla coda dell’asino sono legati alcuni stendardi, in modo che siano trascinati a terra: oggi le insegne non sono più leggibili a causa dei danni materiali subìti dal codice, ma il testo ci dice che si trattava dei vessilli degli odiati fiorentini: Quan[do gionsono] in Siena, in prima a tutti and[ava uno] di quelli inbasciadori fiorentini [i] quale] era venuto in Siena a domandarlre tante cose] inique, e l’altro era stato mort[o rella battaglia]; questo era in su l’asino [volto a] Ilitroso, cioè il volto vers[o la coda, le ma)ni legate dietro, ed era[ro le bandiere e] Ilo stendardo del comu-
no [di Firenze vollte alla coda dell’asino [e strascinate] per terra”. 17 CAVINATO, La sconfitta di Monte Aperto cit., p. 203. Il testo, in questo punto come in
molti altri, è gravemente lacunoso, a causa della perdita di parte consistente dei margini laterali; si sono quindi resenecessarie numerose integrazioni (cfr. supra, nota 7). A questo
scopo mi sono servita di alcune copie del codice realizzate nel Cinquecento e nel Settecen-
to, quando questi danni non si erano ancora verificati, e, in particolare, del ms. A.VI.15 della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, di mano dello speziale senese Armenio di Ulivieri Vanni (datato al 1584), e del ms. A.IV.6 della stessa biblioteca, di mano scono-
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Degni di nota, infine, sono gli emblemi delle principali autorità politiche cittadine e sovranazionali che ornano il baldacchino sotto il quale è portata in processione l’immagine della Vergine, prima della battaglia, per impetrarne il favore (c. 57) e, dopo la vittoria, in segno di ringraziamento (c. 21v). Queste vignette testimoniano dunque la larga presenza dell’araldica nell'ambiente urbano, sia nelle decorazioni murali, sia in manufatti creati appositamente per ricorrenze o eventi solenni. La maggior parte delle armi raffigurate sul baldacchino sono facilmente riconoscibili e rappresentano appunto il potere religioso e civile (tav. 23): la balzana, lo stemma del capitano del Popolo, lo stemma della Chiesa, quello imperiale, ancora una volta quello angioino (solo a c. 210). Anche in questa serie riconosciamo alcuni anacronismi: oltre al già citato stemma angioino, l'emblema d’azzurro alla banda d’argento, con in capo la tiara papale appartiene a Gabriele Condulmer, vescovo di Siena per alcuni mesi nel 1408, poi eletto papa nel 1431 con il nome di Eugenio IV'8. Lo stemma, da intendersi presumibilmente come quello del papa regnante, potrebbe essere stato presente nell’antigrafo, che in questo caso bisognerebbe quindi datare agli anni Trenta del Quattrocento; oppure potrebbe essere un intervento di Niccolò. In effetti, questo papa, che era stato anche vescovo di Siena, doveva essere una figura importante per il nostro copista: dopo la sottoscrizione, infatti, Niccolò aggiunge un breve paragrafo in cui ricorda una visita di Eugenio IV a Siena, avvenuta proprio nel 1443. Entrambe queste ipotesi, in ogni caso, presentano degli aspetti problematici e necessitano di ulteriori verifiche: una datazione del supposto antigrafo al quarto decennio del Quattrocento sembra essere contraddetta dalle caratteristiche del
costume e degli armamenti indossati dai personaggi, decisamente più arcaiche. D'altro canto, è poco probabile che Niccolò sia intervenuto di sua iniziativa, modificando il suo modello per inserire lo stemma del papa regnante. Ancora più misterioso appare lo stemma vescovile, d’azzurro alla croce d’oro accantonata nel terzo e nel quarto da due stelle a otto punte dello stesso, al capo d’azzurro alla mitra con fibulae d’argento. Esso non appartiene ad alcuno dei vescovi di Siena, ma risulta repertoriato nella raccolta Ceramelli Papiani sotto il nome Venturi, o di Ventura, da Siena (la descrizione però è priva di indicazioni
relative ai colori)!?. Il quadro è ulteriormente complicato dal fatto che esiste an-
sciuta dei primi anni del Settecento. Tali integrazioni sono poste tra parentesi quadre e ulteriormente evidenziate adottando il corsivo, per segnalare che si tratta di ricostruzioni elaborate grazie ad apografi e, come tali, suscettibili di discostarsi più o meno sensibilmente dalla lezione originale. Per i criteri con cui sono state selezionate queste copie e integrate le lacune cfr. CAVINATO, La sconfitta di Monte Aperto cit., pp. 124-144.
5 G.C. Bascapè, M. DEL Piazzo, Insegne e simboli: araldica pubblica e privata medieva-
le e moderna, Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma 1999 (ed. or. 1983), p. 326.
!° ASFi, Raccolta Ceramelli Papiani, fasc. 7180.
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che un'attestazione di uno stemma molto simile, tracciato a penna, in una sede molto particolare. Quarant'anni prima di realizzare il codice della Sconfitta di Monte Aperto, Niccolò copiò e sottoscrisse un manoscritto contenente la Storia di Troia, il volgarizzamento di Filippo Ceffi dell’Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne, anch'esso illustrato?°. A carta 1v di questo codice si trova un ritratto a piena pagina e a colori di Niccolò, accompagnato da sottoscrizioni in volgare e in latino e da testi di varia natura; a fianco del cartiglio che la figura tiene in mano, si vede uno scudo, tracciato a penna, la cui blasonatura è molto
simile a quella che stiamo analizzando: alla croce accantonata in capo da due stelle a otto punte, senza indicazioni di colore (fig. 4). La posizione dello scudo, così vicino all’autoritratto, sembrerebbe indicare che sia da intendere proprio come arme di Niccolò?!. Questa ricostruzione ha però ancora molti punti oscuri: bisognerebbe chiarire se questo stemma sia stato inventato da Niccolò, se ne esistano altre attestazioni — esso non corrisponde ad alcuna delle insegne relative alle diverse famiglie Venturi di Siena repertoriate dal Cittadini e dall’Aurieri —, perché compaia in due forme diverse e soprattutto perché, nelle vignette di carte 5r e 210, sia attribuito al vescovo; non è totalmente da escludere neppure l’ipotesi che quello accanto all’autoritratto sia di altra mano. Nonostante rimangano ancora aperte numerose questioni, le illustrazioni de’ La sconfitta di Monteaperto offrono un chiaro esempio dei molteplici significati che un sistema di segni araldici poteva assumere in un racconto per immagini. Oltre alla semplice funzione pratica di identificare individui, città, compagnie militari, poteri religiosi e civili, le insegne si caricano di valori simbolici. Prima
2 Il codice è attualmente conservato presso la Biblioteca Comunale di Siena con la segnatura I.VII.12. Sulle sottoscrizioni, molto particolari, contenute in questo codice, e su questo autoritratto, si veda A. CAVINATO, «Nicolò di Giovanni da Siena à fatto questo libro di sua propia mano e di sua spontana volontà»: note su due manoscritti illustrati senesi del Quattrocento e le loro sottoscrizioni, in «Opera, Nomina, Historiae. Giornale di cultura artistica» , 2/3 (2010), pp. 219-262. 21 C’è un altro interessante caso, in ambito senese, di stemma familiare inventato da
un artista di modesto livello: il pittore Giovanni di Bindino da Travale, che all’inizio del Quattrocento trascrive e illustra una cronaca politica senese composta dal padre, anch'egli pittore, inserisce nella decorazione del codice anche un emblema certamente di invenzione. Lo stemma, d’argento, seminato di coppie di pannocchie addossate e recise di rosso, al bastone di rosso posto in fascia, sormontato da una lettera B di rosso, è raffigurato tre volte con caratteristiche sempre coerenti. La cronaca di Bindino da Travale è conservata presso ASSi, ms. D 153; su questo v. A. Cavinato, scheda n. G.29, in Da Jacopo della Quercia a Donatello. Le arti a Siena nel primo Rinascimento, catalogo della mostra (Siena 2010), a cura di M. SelpeL, Motta, Milano 2010, pp. 578-579 e EaD., «Scrive Giovanni secondo che Bindino pone». Su una cronaca figurata senese e i suoi autori, in «Opera, Nomina, Historiae.
Giornale di cultura artistica» , 7 (2012), pp. 113-154.
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tra tutte quella issata sul carroccio, per eccellenza l’oggetto attorno a cui la comunità si compatta nel momento del pericolo: proprio l’identificazione dello stendardo del carroccio con il manto salvifico della Madonna è uno dei fattori chiave nell’ideologia civica senese, che, come è noto, si fonda su un rapporto privilegiato con la Vergine, chiamata dopo Montaperti a essere sovrana della città. L'uso di insegne apocrife, immaginarie o anacronistiche, inoltre, illustra bene la prassi di molta produzione araldica, che spesso complica e rischia di fuorviare le indagini; come abbiamo visto, però, anche da tali “errori” si possono trarre informazioni sul contesto cronologico in cui un'immagine è stata ideata. Di uno stemma, con ogni probabilità mai realmente esistito, si servì for-
se anche il copista e illustratore per lasciare memoria di sé, pur essendo un semplice pizzicaiuolo e modesto artista, di lignaggio non certo aristocratico: il linguaggio araldico, quindi, grazie proprio al suo uso intenso nel contesto della civiltà comunale, diventa così familiare da poter essere adottato da cittadini di
qualunque estrazione sociale.
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NEL GIARDINO DI VALERANO. ARALDICA REALE E IMMAGINARIA NEGLI AFFRESCHI DEL CASTELLO DELLA MANTA Luisa Clotilde Gentile
«La più bella anticaglia di tutto il Piemonte»!: così Valerio Saluzzo della Manta nel 1587 definiva la sala di rappresentanza del suo castello, fatta affrescare intorno al 1420 dall’avo Valerano, bastardo del marchese Tommaso III di Saluzzo.
L'«anticaglia» è uno dei luoghi più suggestivi e noti del Gotico internazionale. Su una parete della sala — ribattezzata “baronale” in tempi moderni — figurano i Nove Prodi e le Nove Eroine (tavv. 24 e 25), paradigma di ogni virtù cavalleresca e omaggio di Valerano all’opera letteraria del padre, il Livre du chevalier errant; sull’altra è la Fontana di giovinezza, altro tema caro alla letteratura francese medievale. Tra queste due raffigurazioni di realtà effimere, si trova un Cristo in croce. Sullo sfondo, negli alberelli intercalati alle figure dei Prodi o sul camino
e negli animali esotici negli sguanci delle finestre, è evocato il luogo ideale del verziere, dell’hortus conclusus, e del serraglio. In questo contesto, l’araldica e l’emblematica, onnipresenti, non danno tanto un termine di datazione degli affreschi, né servono a identificare la committenza che è nota anche attraver-
so altre fonti, ma fanno parte del significato stesso del ciclo, lo “inscatolano” in una cornice, contribuiscono alla dialettica tra svelamento e nascondimento,
immaginario e reale.
1. Contesto storico, autore e datazione
Per l’attuale importante, la tutela del di reggenza,
Piemonte occidentale e per il marchesato di Saluzzo vi è una data il 1416. In quell’anno muore il marchese Tommaso III, affidando figlio minorenne Ludovico I e il governo dello Stato a un consiglio guidato dalla moglie Margherita di Roussy e composto da auto-
! BRTo, Miscellanea Saluzzo 657, V. SALUZZO DELLA MANTA, Libro delle formali caccie,
ms. (copia), pp. 343-359. La pubblicazione delle riproduzioni fotografiche degli affreschi è stata gentilmente autorizzata dal FAI (Fondo per l'Ambiente Italiano - www.fondoambiente.it), proprietario dell’edificio.
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revoli personaggi: tra questi il figlio illegittimo Valerano “il Burdo” (“bardotto”, riferito alla nascita “ibrida”)?. La situazione non è delle più felici: da tre anni ormai il piccolo marchesato deve prestare l'omaggio vassallatico ad Amedeo VIII di Savoia, il quale nello stesso anno viene creato duca dall'imperatore; due anni dopo - alla scomparsa dei cugini Acaia, altri tradizionali nemici dei Saluzzo — Amedeo estenderà il proprio dominio diretto sul Piemonte. Valerano è un politico abile e prudente. A lui nel 1419 Margherita di Roussy, in punto di morte, affiderà interamente la reggenza del marchesato, che il Burdo manterrà per altri cinque anni. Sempre nel 1416, infine, per lascito testamentario di Tommaso III il paese e il castello di Manta entrano in possesso di Valerano, che negli anni immediatamente successivi si affretta a dare alla sua nuova residenza un aspetto consono al suo nuovo ruolo di reggente. Gli affreschi della sala baronale nascono in questo contesto politico e culturale, e rivestono anche una funzione legittimante, in quanto omaggio alla figura di Tommaso III, dal quale Valerano aveva temporaneamente ereditato il potere. Dai tempi di Federico II (1357-1396), avo di Valerano e padre di Tommaso, i marchesi, per difendere gli interessi politici del loro staterello contro le pretese dei Savoia}, avevano fatto ricorso al re di Francia; la dinastia aveva tessuto
Oltralpe legami familiari, politici e ideali. Nei lunghi soggiorni a Parigi, Tommaso III si era infatti nutrito della cultura sviluppatasi alla corte di Carlo V e di Carlo VI; e al ritorno in patria aveva portato con sé una serie di oggetti di lusso, veri e propri status symbol che dichiaravano la sua francofilia e la sua partecipazione alla cultura cavalleresca*. Un’adesione tanto più profonda quanto più inarrestabile era il declino politico del marchesato. Gli affreschi della Manta, nati da questo contesto, sono al centro di un paradosso: dinanzi a un ciclo così straordinario, si è sviluppata a partire dai primi del Novecento una ridda di attribuzioni che non ha condotto ad alcun nome certo. Due le linee sulle quali si mossero gli storici dell’arte: la prima in ordine di tempo riconduceva l’opera al Gotico internazionale francese (in specie a Jacques Iverny) e proponeva una datazione compresa tra gli anni 1411-1430;
? Per il contributo più recente su Valerano di Saluzzo, v. L. PROVERO, L'onore di un bastardo: Valerano di Saluzzo e il governo del marchesato, in Ludovico I marchese di Saluzzo. Un principe tra Francia e Italia (1416-1475), atti del convegno (Saluzzo 2003), a cura di R. COMBA, Società per gli studi storici, archeologici e artistici della Provincia di Cuneo, Cuneo
2003, pp. 73-85.
? A. BARBERO, La Dipendenza politica del marchesato di Saluzzo nei confronti delle potenze vicine al tempo di Ludovico I, in Ludovico I cit., pp. 191-206: 191-192. 4 L'elenco, comprendente un orologio, un mappamondo di bronzo e argento, sculture, codici miniati e una spina della Corona di spine donata dal re di Francia, si trova in G. DELLA CHIESA, Cronaca di Saluzzo, a cura di C. MuLETTI, in HPM, Scriptores, III, Tipografia regia, Torino 1848, col. 1038.
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la seconda, affermatasi nella seconda metà del Novecento, propendeva per gli anni Quaranta del XV secolo e associava in vario modo gli affreschi al pittore torinese Giacomo Jaquerio, una delle figure più importanti del Gotico piemontese. L'ipotesi Jaquerio non è più sostenibile da molto tempo, e la critica attuale, forte dei contributi di Giovanni Romano e Riccardo Passoni pubblicati negli ultimi due grandi volumi collettivi sugli affreschi (ormai del lontano 1992), parla prudentemente di un anonimo Maestro della Manta’; nonostante ciò, la vulgata su questo ciclo si mostra ferma non di rado ad ipotesi superate. Il pittore era aiutato da un’équipe che intervenne in modo evidente sulla parete della Fontana di giovinezza, vivace ma meno accurata nei particolari e nelle forme rispetto a quella dei Prodi e delle Eroine, e meno visibile in quanto in controluce. La datazione dell’opera non supera gli anni Venti del Quattrocento: oltre alle circostanze del passaggio del castello nelle mani di Valerano, lo suggeriscono le sontuose vesti e le acconciature dei personaggi raffigurati, oggetto di interessanti studi di storia della modaf.
2. La gabbia emblematica: camino, zoccolo, soffitto
Tutta la sala baronale è come ingabbiata in modo manifesto dalle insegne del padrone di casa, che ritroveremo in particolari volutamente nascosti, visibili
solo a uno sguardo attento. Il significato complessivo degli affreschi è più chiaro quando si tenga presente che l’entrata originaria non era l’attuale, accanto al camino, ma era situata sul lato opposto. D’infilata attraverso la porta, agli occhi dell’ospite s’imponeva il biglietto da visita di Valerano (fig. 1): le sue armi col motto personale, che ne dichiaravavo l'appartenenza alla dinastia dei marchesi di Saluzzo e alla cultura internazionale dei principi, e la sua funzione di guida del marchesato a fianco del piccolo Ludovico I. Lo scudo d’argento, al capo d’azzurro è quello della dinastia, al quale Valerano, in quanto figlio illegittimo, aggiungeva una brisura, ossia un elemento di differenziazione: uno scaglione di rosso. Sopra lo scudo è un elmo sormontato 5 R. PassonI, Nuovi studi sul Maestro della Manta, in La sala baronale del castello della Manta, a cura di G. Romano, Olivetti, Milano 1992, pp. 37-60; Ip., La fortuna critica mo-
derna degli affreschi della sala baronale, in Le arti alla Manta. Il castello e l'antica parrocchiale, a cura di G. CARITÀ, Galatea, Torino 1992, pp. 83-93; E. RAGUSA, Fortuna degli affreschi della Manta, in La sala baronale cit., pp. 73-80; G. Romano, Per un eroe senza nome: il Maestro della Manta, ivi, pp. 1-8. 6 Cfr. C. RosoTTI, «Clemenzia adorna di damasco azzurro, le maniche foderate di zibelli-
n0...». Moda e costume negli affreschi della sala baronale, in Le arti alla Manta cit., pp. 163173, e Passoni, Nuovi studi cit., pp. 37-46.
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dall’aquila, cimiero dei Saluzzo, che ricordava anche la diretta dipendenza (ormai teorica) della dinastia dall’Impero. Un elemento legittimante, su cui i Saluzzo e i cronisti al loro servizio avrebbero costruito delle leggende genealogiche, circa una parentela della casata con gli imperatori della casa di Sassonia”. Il richiamo araldico all'Impero serviva da rivendicazione di pari dignità rispetto a vicini ingombranti come il duca di Savoia, che in nome dell'Impero stesso avanzavano le proprie pretese egemoniche sul marchesato. Alla base del cimiero è una corona costituita da un cerchio d’oro gemmato,
Fig. 1 Camino con le armi e il motto di Valerano di Saluzzo, signore della Manta. Man-
ta (Cinto) Castello della Manta:
insegna principesca
che ricorda l’alta funzione di Valerano a fianco del fratellastro Ludovico I. Ai lati dello scudo, che è posto so-
pra una “mantellina” coi colori araldici di Val (bi )è
i Valerano (bianco, azzurro, rosso), è ripetuto il motto personale del Burdo: Leit, che sarebbe un imperativo corrotto del verbo tedesco /erten, guidare. Una recente rilettura di Lea Debernardi riconduce invece il motto al verbo /eiden, soffrire, in relazione alla Passione di Cristo (evocata nella sala anche dall’affresco
con la Crocifissione). Nel primo caso si avrebbe un ulteriore riferimento al ruolo
di guida del marchesato, nel secondo al mondo devozionale di Valerano e dei Saluzzo. Anche Ludovico I porterà un motto nella stessa lingua (Noch, ancora), così come i Visconti e gli Este. Quella dei motti personali, spesso associati a una figura nel costituire un’ “impresa”, era una vera e propria moda sviluppatasi nelle corti dal XIV secolo in poi, in Francia come nei principati e nelle signorie della pianura padana (i Visconti ne contavano a decine): tali segni si prestavano meglio di uno stemma a indicare aspirazioni personali, valori, pretese politiche
7 L.C. GENTILE, Araldica saluzzese. Il Medioevo; Società per gli studi storici della Provincia di Cuneo, Cuneo 2004, pp. 28-32, 50. # Per il Lezt, il Noch eloro interpretazioni cfr. ivi, pp. 102-106. Cfr. L. DEBERNARDI, I/ ci-
clo quattrocentesco del castello della Manta. Considerazioni sull'interpretazione iconografica, nuove acquisizioni, in ««Opera, Nomina, Historiae. Giornale di cultura artistica» , in c.d.s.
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dei singoli. Presso i Saluzzo, sono attestati a partire almeno da Tommaso III, e
vanno visti come spie di una precisa appartenenza culturale’.
Associato al Let, vuoi come impresa vuoi come elemento decorativo, è l’a-
grifoglio o meglio, come evidenziato da Lea Debernardi, il biancospino, sempre da porre in relazione con la Passione: sotto forma di alberello, spicca dietro lo scudo, sul camino; ramoscelli avvolti da un cartiglio con il Lei? ornano le tavolette del soffitto della sala, mentre il solo motto è alternato a unicorni sullo
zoccolo, pesantemente restaurato nell'Ottocento. Sui due elementi dell’impresa si dilungò il nipote di Valerano, Valerio, autore di un Libro delle formali caccie intriso di erudizione manierista!°. Valerio leggeva l'emblema dell’avo, tutto sommato ancora semplice nella struttura e nel messaggio originario, complicandone l’interpretazione: il suo filtro risiede in una letteratura sulle imprese ormai permeata di allegorismi e concettismi, che si era sviluppata a partire dagli Emblemata di Alciato (anni Trenta del Cinquecento).
3. Valerano, Clemenzia, i Prodie le Eroine
Restiamo nel campo delle insegne “conclamate”, scivolando però dal reale all’immaginario. A destra del camino inizia la raffigurazione di uno dei miti più suggestivi della società aristocratica dell'autunno del Medioevo: la parata dei nove Prodi e delle nove Eroine (tavv. 24 e 25), figure paradigmatiche dell’etica cavalleresca e del buon governo. La sequenza è scandita da alberelli di essenze diverse, che separano i vari personaggi su un prato fiorito, e dai quali pendono gli scudi araldici di ciascuno. Il termine di riferimento più vicino per quest’im-
* Per un inquadramento più completo del fenomeno, cfr. L. HABLOT, La devise, mise en signe du prince, mise en scène du pouvoir. Les devises et l’emblématique des princes en France et en Europe à la fin du Moyen Age, PhD, Université de Poitiers 2001, dir. M. AURELL, M. PASTOUREAU, in corso di stampa e il sito internet Devise curato dallo stesso Laurent Hablot (); v. anche: M. PASTOUREAU, «Arma senescunt, insignia florescunt». Notes sur les origines de l'emblème, in Studi in onore di Leopoldo Sandri, III, Ministero per i Beni Culturali, Roma 1983, pp. 699-706; ID., L'erblématique princière à la fin du Moyen Age. Essai de lexique et de typologie, in Héraldique et emblématique de la Maison de Savoie (XI-XVI secc.), a cura di B. ANDENMATTEN, A. PARAVICINI BAGLIANI, A. VADON, Université de Lausanne, Lausanne 1994, pp. 11-43. Indica-
zioni bibliografiche per l’Italia settentrionale in L.C. GENTILE, Reti ed emblemi. Processi di rappresentazione del potere principesco in area subalpina (XIII-XIV secc.), Zamorani, Torino 2008, pp. 202-212.
}
10 Cfr. supra, nota 1; sulla cultura dell’autore cfr. L. PIovanO, La Sphinge di Valerio di Saluzzo della Manta. Un manoscritto illustrato della Biblioteca Reale di Torino per Margherita di Valois, in «Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della Provincia di Cuneo», 102 (1990), pp. 5-24.
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paginazione del discorso è nell’arazzeria, ma, come vedremo oltre, il tema del
verziere non è puramente decorativo. Ogni eroe è individuato, in basso, da versi francesi, che ne cantano le gesta e lo collocano cronologicamente rispetto alla nascita di Cristo, e infine dal proprio nome. I Prodi sono divisi per triadi, corrispondenti ciascuna alle tre fasi della storia così come le concepiva il Medioevo: tre pagani (Ettore, Alessandro Magno, Giulio Cesare); tre ebrei (Giosuè, Davide, Giuda Maccabeo); tre cristiani (Artù,
Carlo Magno, Goffredo di Buglione). Seguono le Eroine, in questo caso tratte tutte dalla mitologia o dalla storia classica (altrove compaiono anche figure bibliche): Delfile, madre dell’eroe Diomede; le amazzoni Sinope e Ippolita; Semiramide, regina d’Assiria; Etiope conquistatrice dell’India; Lampeto, regina delle Amazzoni; Tamiris regina degli Sciti; Teuca regina degli Illiri; infine Pentesilea, altra regina delle Amazzoni uccisa da Achille. Il tema dei Nove Prodi!! era comparso nella letteratura cavalleresca francese all’inizio del XIV secolo con i Vœux du Paon di Jacques de Longuyon (1312 ca.), e aveva incontrato un’enorme fortuna Oltralpe, soprattutto in area parigina, irradiandosi poi nel resto d'Europa e divenendo caro alle arti applicate, prima tra tutte l’arazzeria. L'aggiunta delle Nove Eroine, dai nomi più instabili e non divise per triadi, è più tarda: approdò alla letteratura con Jean Le Fèvre, che tra il 1373 e il 1396 compose un Livre de Leesce in difesa del genere femminile, e con il poeta Eustache Deschamps!. Ora, i Prodi e le Eroine comparivano nel romanzo Le chevalier errant, composto da Tommaso III di Saluzzo, il padre di Valerano, a cavallo tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, pro-
babilmente durante uno dei soggiorni parigini del marchese!. L’opera, a carattere allegorico e autobiografico, narrava le vicende di un cavaliere — Tommaso stesso — alla ricerca della Conoscenza. Nelle sue varie peripezie, questi giunge !! H. SCHRÔDER, Der Topos der Nine Worthies in der Literatur und bildenden Kunst, Vandenhoeck & Reprecht, Gôttingen 1971; R.L. Wyss, Die neun Helden. Eine ikonographische Studie, in «Zeitschrift für Schweizerische Archäologie und Kunstgeschichte», 17
(1957), pp. 73-106.
!2 A. MACMILLAN, Men's Weapons, Women's War: the Nine Female Worthies, 1400-1640, in «Mediaevalia», 5 (1979), pp. 113-139; bibliografia recente in N. CIVEL, Les armoiries des Neuf Preuses, in Marqueurs d'identité dans la littérature médiévale (XII:-XV siècles), actes du colloque (Poitiers 2011), sous la dir. C. GrrseA, L. HaBLOT, R. RADULESCU, Brepols, Turnhout
2014, pp. 117-127.
5 Tommaso III pi SALUZZO, I/ Libro del Cavaliere Errante (BNF ms. fr 12559), a cura di
M. Piccat, Araba Fenice, Boves 2008; R. FAJEN, Die Lanze und die Feder. Untersuchungen
zum Livre du Chevalier errant von Thomas III von Saluzzo, Reichert, Wiesbaden 2003: i
contributi riuniti in Immagini e miti nello Chevalier errant di Tommaso III di Saluzzo, atti
del convegno (Torino 2008), a cura di R. ComBa, M. Piccat, in «Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della Provincia di Cuneo», 139 (2008), 2, in
particolare a pp. 8-131.
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al palazzo di madama Fortuna, e gli vengono presentati i nove Prodi e le nove Eroine: alcuni di essi sono ormai precipitati dai loro seggi, monito della caducità delle glorie di questo mondo. Del romanzo si conservano due esemplari, l’uno alla Biblioteca Nazionale di Parigi, l’altro alla Biblioteca Nazionale di Torino. Prodi ed Eroine compaiono in due celebri, magnifiche miniature del primo codice, che però non sono la fonte diretta degli affreschi!*: in qualità di committente Valerano di Saluzzo, pur rendendo omaggio alla cultura del padre, mostrò una sua autonoma competenza letteraria e iconografica. L'araldica dei Prodi e delle Eroine, inclusa la sua esemplificazione mantese, ha attirato l’attenzione di vari studiosi che hanno lavorato in modo indipendente gli uni dagli altri: c'è da auspicare in futuro maggiori contatti, in questo come in altri campi, tra i due versanti delle Alpi. Nel 1992 chi scrive aveva avuto modo di trattare dell’argomento con specifico riguardo alla Manta; tre anni dopo Nicolas Civel, in Francia, vi dedicò la sua tesi di laurea, attingendo in modo ben
più sistematico agli stemmari medievali della Biblioteca Nazionale di Francia e di altre biblioteche di questo stesso paese, e recentemente ha approfondito il discorso sulle insegne delle Eroine!. Da poco Noélle-Christine Rebichon, partendo dall’araldica, ha pubblicato delle interessanti considerazioni sull’altro ciclo piemontese dei Nove Prodi sopravvissuto, quello di Villa Castelnuovo in Canavese (1430-1440 ca.), attribuito a Giacomino d’Ivrea!f, Per sintetizzare l'evoluzione del fenomeno, intorno al 1330-1340 comincia-
no a comparire le prime blasonature collettive delle insegne dei Prodi, alcune delle quali (penso ad Artù o Alessandro) avevano già vita autonoma con i loro personaggi: i primi esempi di insegne immaginarie — come rilevato da Gerard Brault e Michel Pastoureau, o ancora dai partecipanti al convegno tenutosi a 14 BNTo, ms. lat. vol. VI, Tommaso III pI SALUZZO, Le livre du Chevalier errant, BNF,
ms. fr. 12559, c. 125r-v per le miniature con i Prodi e le Eroine. Sul rapporto tra gli affreschi e le loro fonti iconografiche e letterarie vedi, da ultimo, L. DEBERNARDI, Note sulla
tradizione manoscritta del Livre du Chevalier errant e sulle fonti dei tituli negli affreschi della Manta, in «Opera, Nomina, Historiae. Giornale di cultura artistica» , 4 (2011), pp. 67-132. Per le illustrazioni di questo codice, cfr. F. BOUCHET, L'iconographie du Chevalier errant de Thomas de Saluces, Brepols, Turnhout 2014. 5 N. CIvEL, Les Neuf Preux et leurs armotries: un cas d’héraldique imaginaire, mémoire de maîtrise, Université Paris X-Nanterre 1995; Ip., Les armoiries des Neuf Preuses cit.; L.C. GENTILE, L'Immaginario araldico nelle armi dei Prodi e delle Eroine, in Le Arti alla Manta cit., pp. 103-127 (emendato delle argomentazioni erronee per la datazione degli affreschi su base
araldica, e ripreso in parte in EAD., Araldica saluzzese cit., p. 92 e ss.). 16 N.-C. REBICHON, Le cycle des Neuf Preux au château de Castelnuovo (Piémont), in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen Age», 122 (2010), 1, pp. 173-188; sugli affreschi,
cfr. Il ciclo gotico di Villa Castelnuovo: intervento di salvataggio e valorizzazione, Nautilus,
Torino 2006.
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i
Poitiers nel 2011
LUISA CLOTILDE GENTILE
sulla letteratura medievale e sui segni d’identità!'’ — compaiono
in Benoît de Saint-Maure e nei romanzi francesi del 1155-1170, e nei roman-
zi della generazione successiva a Chrétien de Troyes divengono costanti per uno stesso personaggio. Gli scudi dei Prodi, sostenuti da tutta una tradizione letteraria e figurativa! (più debole per le Eroine), completano con le loro figure spesso allusive la costruzione dei personaggi. Interessante notare come nel XV secolo siano ormai sviluppati “canoni” araldici diversi, di cui troviamo attestazione a pochi decenni di distanza anche nelle residenze dell’alta aristocrazia subalpina, seppure in realtà politiche differenti: mentre i Prodi della Manta seguono quello più diffuso, appoggiato a un’iconografia francese che passa anche attraverso la miniatura dello Chevalier errant parigino, i Prodi poco più tardi di Villa Castelnuovo fanno riferimento a un altro canone, sensibilmente differente,
di cui Noélle-Christine Rebichon ha trovato testimonianza in alcuni stemmari di area lorenese!?. Ma esemplifichiamo il discorso tornando alla Manta: Ettore ha nel proprio scudo un leopardo in trono — segno del suo destino regale — tenente una spada, in allusione al duello con Achille? un leone armato di alabarda in trono evoca
la regalità e la prodezza di Alessandro; le tre corone di Artù?! (re di Bretagna, Scozia e Inghilterra, lo dicono i versi in francese sotto la sua figura: «roy de Bertagne, d’Escosa e d’Anglatere»,) e i tre troni dello scudo di Semiramide, probabilmente costruito per calco di quello di Artù, parlano da soli. L'aquila bicipite del Sacro Romano Impero indica Giulio Cesare, nel quale la cultura medievale vedeva il primo imperatore romano («de Rome enperere et roy»); unita ai gigli di Francia, essa fregia lo stemma e la veste di Carlo Magno («emperaire e nee de France»), a ricordare la traslazione del potere imperiale; Davide ha come insegna l’arpa, suo attributo iconografico, con la quale secondo la tradizione 7 G.J. BRAULT, Early blazon. Heraldic Terminology in the Twelth and Thirteenth Century, Clarendon Press, Oxford 1972; una panoramica bibliografica è in M. PASTOUREAU, Figures et couleurs, Le Léopard d’or, Paris 1986; In., L'hermine et la sinople: études d’héraldique médiévale, Le Léopard d’or, Paris 1982; Ip., Armorial des chevaliers de la Table
Ronde. Étude sur l'héraldique imaginaire à la fin du Moyen Age, Le Léopard d’or, Paris 2006; e, da ultimo, Marqueurs d'identité cit. !8 Per la quale rimando ai testi citati alle note 11, 15, 16 e alla rassegna bibliografica di PASTOUREAU, Armorial des chevaliers cit. 7 REBICHON, Le cycle des Neuf Preux cit., p. 181 e ss. Tracce di un terzo ciclo di Prodi
ed Eroine, con le loro insegne, sono negli affreschi del castello di Issogne in Val d'Aosta (fine XV-inizio XVI secolo); v. B. ORLANDONI, Architettura in Valle d'Aosta, Il Quattrocento, II, Priuli e Verlucca, Ivrea 1996, p. 212. 2° Sulle insegne di Ettore v. anche, oltre alle indicazioni reperibili nei testi indicati sopra, RS. Loomis, The Heraldry of Hector or Confusion Worse Confounded, in «Speculum»,
92 (1967), 1, pp. 32-55.
2! PASTOUREAU, Armorial des chevaliers cit., pp. 25-29, 102 e relativa bibliografia.
NEL GIARDINO DI VALERANO
234
biblica placava le ire di Saul invasato (Samuele 16, 14-23) e accompagnava il canto dei Salmi; Goffredo di Buglione ha le insegne effettive — ma posteriori alla sua morte — del regno di Gerusalemme. Negli scudi di alcune Eroine si ripete un elemento (di rosso, a tre mezzi leopardi d’oro) che evoca «la terre de Femenie», il regno delle Amazzoni, come si evince facilmente dalla lettura dei versi che le accompagnano sia alla Manta, sia nei codici dello Chevalier errant, e la cui tradizione è stata ben ricostruita da Marco Piccat e Lea Debernardi22. La trasposizione del linguaggio araldico dal reale all’immaginario non ne altera i meccanismi: lo scudetto del regno delle Amazzoni viene impiegato in analogia agli ampliamenti d’arma dell’araldica reale, o dell’uso di assumere parte delle insegne di un’autorità superiore che si vuole omaggiare. Ciò non toglie che vi siano altri meccanismi specifici che presiedono alla costruzione di uno stemma: quando si vuole identificare un individuo esistito in epoca prearaldica, gli si può attribuire uno scudo reale e attuale, come nel caso di Giulio Cesare. Le implicazioni ideali che ciò comportava per la costruzione della catena della translatio Imperii sono evidenti nello scudo di Carlomagno?” (partito dell'Impero e di Francia). Altro fenomeno è la forte tendenza a invertire le insegne, riscontrabile soprattutto tra Giosuè e Giuda Maccabeo, palese se si confrontano gli affreschi col codice di Parigi. Probabilmente il modello iconografico era costante, l’ordine dei versi e dei nomi no, e ciò diviene macroscopico quando si passa alle Eroine, non sostenute da una tradizione consolidata come quella dei Prodi. Così nella miniatura compare un’eroina che non troviamo negli affreschi e viceversa, con l’immaginabile scompiglio nell’ordine delle insegne: lo scudo di Semiramide, con i tre troni, passa alla Manta a Etiope, la cui iconografia risponde però a quella della regina di Babilonia (Etiope è un hapax nato alla Manta dal fraintendimento delle strofe relative a Semiramide). Ancora, lo scudo di Menalippe, o Melanippe — che Nicolas Civel ci dice parlante: il cigno ha il piumaggio bianco, ma la carne nera (dal greco mé/aros, cioè nero)? — è correttamene attribuito all’eroina nella miniatura di Parigi, passa a Semiramide alla Manta, e nel Perit armorial equestre de la Toison d'Or (Lille, 1435-1440 ca.) finisce a Pentesilea. Cosa significava per Valerano e i suoi contemporanei questa fastosa para-
ta eroica? Entra qui in funzione l’emblematica, in quanto chiave possibile del
2 M, PiccaT, Le scritte in volgare della Fontana di giovinezza, dei Prodi e delle Eroine, in Le arti alla Manta cit., pp. 175-207; DEBERNARDI, Note sulla tradizione cit. 3 Sulle quali cfr. anche P. ADAM-EvEN, L. CAROLUS-BARRÉ, Les armes de Charlemagne dans la littérature et l’iconographie médiévales, in Mémorial d'un voyage d'études de la Société Nationale des Antiquaires de France en Rhénanie, Palais du Louvre, Paris 1953, pp. 289-308. 2 Civel, Les armoiries des Neuf Preuses cit. Per Semiramide-Etiope cfr. DEBERNARDI,
Note sulla tradizione cit., pp. 87-89.
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LUISA CLOTILDE GENTILE
|
Fig. 2 I prodi Ettore (ritraente Valerano di Saluzzo) e Alessandro Magno. Manta (Cuneo), Castello della Manta.
disvelamento. Il padrone di casa volle essere raffigurato nelle vesti del primo eroe, Ettore di Troia (fig. 2). Sulle sue vesti si ripete il motto Lei? insieme ai colori azzurro, bianco e rosso dei Saluzzo-Manta; alle sue spalle, il biancospino.
NEL GIARDINO DI VALERANO
259
L'intenso realismo dei tratti di Ettore restituisce un ritratto di Valerano: il restauro ha messo in luce come il pittore dedicasse a questo volto, a differenza di quelli degli altri personaggi, una giornata intera di lavoro. La sovrapposizione di Valerano con il primo dei Prodi tramite un emblema, è meccanismo già presente nello Chevalier errant: nel codice parigino Tommaso III si identificava nella figura del Cavaliere, tramite la sua impresa dipinta sulla giornea?. Non solo: alla Manta lo scudo di Ettore si discosta dalla tradizione (rispettata invece nel codice) che gli attribuisce un leone, sostituito nel nostro caso da un leopardo al naturale. Una scelta voluta e non uno scambio, perché, mentre il leopardo araldico — del quale Michel Pastoureau ha evidenziato la potenziale valenza negativa, soprattutto in campo immaginario — differisce dal leone essenzialmente per la posizione della testa, alla Manta abbiamo un leopardo vero e proprio, una sorta di gattone col suo bel mantello a chiazze”. I bestiari medievali permettono di riconoscervi un richiamo alla nascita di Valerano, che come tanti altri bastar-
di principeschi esibiva fieramente la propria origine nello stemma e nel proprio nomignolo, “Burdo”. Così nelle Etyrzologzae di Isidoro di Siviglia: Leopardus ex adulterio leaenae et pardi nascitur, et tertiam originem efficit: sicut et Plinius in Naturali Historia dicit, leonem cum parda, aut pardum cum leaene concumbere, et ex utroque coitu degeneres partus creari, ut mulus et burdo??.
L'ultima delle Eroine, Pentesilea, in parte perduta, impersonava la moglie di Valerano, Clemenzia Provana (fig. 3): sulle sue vesti porta i medesimi elementi araldici della giornea di Ettore, e con le mani tiene una cintura dalla quale pendono dei grappoli d’uva, tratti dalle armi dei Provana?8. Questo ornamento fu in passato oggetto di un equivoco, che mostra come l’interpretazione iconologica ed emblematica di opere d’arte possa anche imboccare strade fuorvianti, se non condotta con adeguate cognizioni. Valerano e Pentesilea avevano ricevuto nel 1411 dal re di Francia Carlo VI il collare dell’ Ordine della Ginestra”, un 3 Il riconoscimento era già in BRTo, Miscellanea Saluzzo 657, cit. Sull'argomento si è soffermato anche D. Arasse, Portrait, mémoire familiale et liturgie dynastique: ValeranoHector au château de Manta, in Il ritratto e la memoria. Materiali, a cura di A. GENTILI, I,
Bulzoni, Roma 1989, pp. 93-112. 26 PASTOUREAU, Figures et couleurs cit., p. 162. 27 Isiporo DI SIVIGLIA, Etymologies, éd. J. ANDRÉ, Le Belles Lettres, Paris 1986, XII, 2, binpa9H
n Figura araldica dei Provana era la vite fruttata, il cui ceppo si dice in piemontese e in
latino medievale provana, in francese medievale provein.
29 D, MULETTI, Memorie storico-diplomatiche appartenenti alla città ed ai marchesi di Saluzzo, IV, Tipografia Lobetti-Bodoni, Saluzzo 1830, p. 370; L. HABLOT, L'ordre de la Cosse de genét de Charles VI: mise en scène d'une devise royale, in «Revue française d’héraldique et de sigillographie», 119-120 (1999-2000), pp. 131-148: 141.
LUISA CLOTILDE GENTILE
ordine dinastico in senso molto lato,
che sanciva comunque l’appartenenza a un mondo cortese e politico francofilo. Memore
dell’evento,
Valerio
della Manta alla fine del Cinquecento identificò il collare nella cintura di Pentesilea, che pure non reca la minima traccia dei baccelli di ginestra che avrebbero dovuto comporla. Segno, tra l’altro, di come gli intellet-
tuali manieristi, pur con il loro interesse per le imprese, non avessero più gli strumenti per capire buona parte
dei codici emblematici di un secolo e mezzo prima. Ad ogni buon conto lo scivolone iconografico di Valerio venne acriticamente copiato dagli scrittori successivi per giungere ancora alla vulgata dei giorni nostri. In base a meccanismi analoghi, in epoca moderna — almeno dall’Ottocento — si è voluto che anche gli altri personaggi raffigurassero dei marchesi urfia “iron frange
tro mine TRla Ain;not atm
:
di Saluzzo con le loro consorti, ma si-
mili identificazioni, peraltro molto instabili, non poggiano su alcun elemento concreto. Ciò non significa che il realismo dei volti, in qualche caso, non celi un ritratto eseguito per fama: così la figura di Giulio Cesare (fig. 4), che
Fig. 3 L’eroina Pentesilea (ritraente Clemenzia Provana, moglie di Valerano di Saluzzo). Manta (Cuneo), Castello della Manta.
porta le insegne dell'Impero, potrebbe costituire un omaggio a chi sedeva allora sul trono imperiale, Sigismondo di Lussemburgo re dei Romani, che nel secondo decennio del Quattrocen-
to era stato ripetutamente in Italia settentrionale e del quale erano note le lunghe chiome e la barba candida che caratterizzano Cesare alla Manta?0,
?© L'accostamento, suggerito inizialmente da Guido Gentile, trova riscontro nella rassegna iconografica di V. COLLING-KERG, L'iconographie de l'empereur Sigismond de Luxem-
NEL GIARDINO DI VALERANO
261
Inserirsi nella serie dei Prodi e delle Eroine — magari insieme al re dei Romani — non era un semplice ammiccamento al visitatore. Il tema, non di-
versamente dal mito umanistico degli Uomini illustri?!, aveva un significato etico: esso corrispondeva a un’imma-
gine di potere lungimirante che Tommaso III aveva fatto propria nello Chevalier errant. E Valerano si poneva nel solco tracciato dal padre, esibendo peraltro la stessa devozione per la cultura della corte di Francia. Certo, l’autocelebrazione
trovava
un limite nella sottolineatura dell’effimero: insita nel tema sin dalla sua comparsa, essa era palese nello Chevalier errant, dove i Prodi erano in parte già precipitati dai loro seggi, e il protagonista giungeva infine al castello di dama Conoscenza, per mettersi sulla via della grazia e della saggezza; alla Manta, più direttamente, un Cristo in croce separa i due sogni raffiguratii sulle pareti lunghe della sala: la gloria umana e la giovinezza eterna.
Fig. 4 Il prode Giulio Cesare (probabile ri,y4tto dell’imperatore Sigismondo). Manta (Cuneo), Castello della Manta.
4. La Fontana di Giovinezza e il Serraglio Di fronte alla parete coi Prodi e le Eroine è raffigurato un altro mito del tardo Medioevo, quello della Fontana di giovinezza, che ha la virtù di ringiovanire i vecchi che in essa si immergono e ne bevono l’acqua, restituisce verginità e bellezza alle dame, preserva dalle malattie. Il motivo si era fatto largo nella letteratura bourg en Italie (1368-1437), in Le rêve italien de la Maison de Luxembourg aux XIV et
XV siècles, sous la dir. V. COLLING-KERG, Amitiés Italo-Luxemburgeoises, Esch-sur-Alzette
1998, pp. 189-226; v. in particolare il tarocco di Bonifacio Bembo (1440 ca.). 31 M.M. Donato, Gli eroi romani tra storia ed exemplum. I primi cicli umanistici di
Uomini Famosi, in Memoria dell’antico nell'arte italiana, II. I generi e i temi ritrovati, a cura di S. SETTIS, Einaudi, Torino 1985, pp. 95-152.
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LUISA CLOTILDE GENTILE
intorno al XII secolo (in quello successivo compare nel Fabliaus de Coquaigne), e a inizio Trecento se ne trovano esempi figurativi in miniature e oggetti suntuari”?.
Come per i Prodi e le Eroine, anche per la Fontana di giovinezza è stato rintracciato un nucleo tematico, e alla lontana iconografico, connesso con la persona di Tommaso III: una miniatura di un codice del Roman de Fauvel®, databile alla
prima metà del Trecento e ora conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi. Il marchese lo aveva portato a Saluzzo dalla capitale francese, insieme al codice dello Chevalier errant, tra gli altri oggetti che testimoniavano la sua inguaribile francofilia. Ai bordi della scena centrale si assiste a episodi grotteschi, mentre nella vasca regna un soffuso erotismo: nel bacino superiore — ornato di uno scudo simbolico con un cuore trafitto da due frecce — sono due amanti, mentre dalla
sommità della guglia un Amore di pietra scaglia i suoi dardi sugli astanti. Uno scudo alludente al Regno d'Amore (un cuore alato e coronato) compare già nelle miniature di entrambi i codici che ci hanno tramandato lo Chevalier errant,
quello di Parigi e quello di Torino; è un topos che tornerà nella seconda metà del secolo nel Livre du cœur d'amour épris di Renato d'Angiò? e che sopravvive ai giorni nostri in contesti molto più pop.
Torna il richiamo alla contemporaneità: a destra della fonte la satira cede il passo a una raffinata sequenza di vita cortese. Una comitiva di cavalieri e dame ringiovaniti si accinge con cani e falconi a una partita di caccia, lo sport aristocratico per eccellenza. La cavalcata si chiude alla sinistra del camino, con un
gruppo di araldi e musici di corte che aprono la strada verso il bosco. Uno di essi suona una tromba con l’aquila dell'Impero sulla drappella, omaggio al supremo potere imperiale dal quale i Saluzzo avevano preteso di dipendere direttamente, contro l’espansionismo dei vicini Savoia; peraltro un potere lontano, mentre più concreta e vicina era la protezione della Francia. Elemento di raccordo tra la Fontana e i Prodi è il verziere che racchiude l'insieme: anche qui Valerano si inserisce, tramite segni che possono essere colti solo dallo spettatore attento. Lo sguancio di una finestra ospita un leone e un giovane cervo, che mostra la ricrescita delle corna, a indicare che si è in primavera (fig. 5). Felini e cervidi popolavano i serragli dei principi europei del tempo come veri e propri status symbol: sappiamo ad esempio che il doge di Genova
3 Cfr. A. Rapp, Der Jungbrunnen in Literatur und bildender Kunst des Mittelalters, Juris, Zürich 1976; PiCCAT, Le scritte in volgare cit. p. 175 e ss. ? M.L. MENEGHETTI, Il manoscritto francese 146 della Bibliothèque Nationale di Parigi,
Tommaso di Saluzzo e gli affreschi della Manta, in La sala baronale cit., pp. 61-72.
3. Cfr. BNTo, ms. L.V. 6, Tommaso III pI SALUZZO, Le livre du Chevalier errant, c. 54v e BNE ms. fr. 12559, c. 44; OBV, cod. Vindob. 2597, RENÉ D’ANJou, Livre du coeur d'amour
épris, passim (il personaggio Coeur porta uno scudo d’azzurro, a un cuore di rosso alato d'oro).
NEL GIARDINO DI VALERANO
263
aveva donato al principe Ludovico d’Acaia, contemporaneo di Tommaso III di Saluzzo, un leopardo intrattabile, che Ludovico rifilò prontamente in dono al cugino Amedeo VIII di Savoia”. Ora, proprio come in un ser-
raglio, il cervo porta un collare ornato con scudi a losanga alternati, di Valerano e dei marchesi di Saluzzo. Il leone e il cervo, entrambi animali regali,
convivono pacificamente nello stesso giardino come in una profezia messianica’°. Non escluderei che il leone,
che fissa lo spettatore come fosse a guardia del verziere, richiami l’animale araldico della reggente Margherita di Roucy (viva o morta che fosse al tempo dell’esecuzione degli affreschi, poco importa): nell’allegoria politica tardomedievale, il verziere e il giardino evocavano generalmente il paese, intrecciandosi con l’hortus conclusus del Cantico dei Cantici (4,12-5,1). Così
Fig.5 Cervo recante sul collare le armi di Va-
come succedeva negli apparati effime-
Jergno di Saluzzo. Manta (Cuneo), Castello
ri delle joyeuses entrées, le cerimonie della Manta. con cui il principe prendeva possesso di una città facendovi il proprio solenne ingresso, o nel titolo del Songe du vergier, dialogo sui rapporti tra il potere secolare e quello ecclesiastico, composto alla corte di Carlo V di Francia”. Ancora una volta, l’araldica introduce più piani di lettura entro un programma iconografico organico, che non è solo fuga nell'immaginario, ma esprime un ideale di vita e di buon governo.
5 M. BRUCHET, Le château de Ripaille, Delagrave, Paris 1907, pp. 161, 163. % Isaia 11, 6-7 e ss.; Isaia 65, 25; Osea 2, 20. Per ilsimbolismo medievale del cervo, cfr.
M. PASTOUREAU, Une histoire symbolique du Moyen Age, Seuil, Paris 2004, p. 75. 37 R. KipLING, Enter the King. Theatre, Liturgy and Ritual in the Medieval Civic Triumph, Oxford University Press, Oxford 1998, p. 250 e ss. (esempi piemontesi in GENTILE,
Riti ed emblemi cit., pp. 48, 56); Le songe du vergier, éd. M. SCHNERB-LIÈVRE, CNRS, Paris 1982.
264
LUISA CLOTILDE GENTILE
Insegne dei Prodi e delle Eroine a confronto BNE ms. fr. 12599, c. 125r-v Ettore
Affreschi della Manta
Di rosso, al leone coronato d'oro, assiso |Di rosso, al leopardo al naturale, codarin un
trono
d'argento,
tenente
con
le do, assiso in un trono d’oro, tenente con
zampe anteriori una spada dello stesso, |la zampa destra una spada d'argento, manicata d'oro e foderata di nero. tenente
d’oro, con la sinistra il fodero i nero. Di rosso, al leone d'oro, assiso in un
un'ascia dello stesso, manicata del cam-
trono dello stesso, tenente un’alabarda
al leone d’argento,
e
Alessandro
Di rosso,
Giulio Cesare
d’argento, manicata d’oro. po. D'oro, all'aquila bicipite di nero, rostra-
Giosuè Davide
D'argento, al drago spiegato di verde D'azzurro, all’arpa d'oro.
Giuda Maccabeo
D'argento, al corvo sorante di nero.
Carlo Magno
Partito, al primo dell’ Impero (v. Giulio
3,
ta, linguata, armata e coronata di rosso.
Artù
D'azzurro, a tre corone d'oro.
Cesare), al secondo di Francia antica
=
arpa rivoltata) Di verde, al drago spiegato d'oro.
licmmeman birre zi cea n! (zl secondo di Francia moderna, d’azzur-
(d’azzurro, seminato di gigli d’oro), i ro a tre gigli d'oro)
due punti semipartiti.
Goffredo di Buglione Delfile Sinope
D'argento, alla croce potenziata, accan- |= tonata da quattro crocette, il tutto d’oro. |(crocette piane) D'argento, al grifone di verde. Di rosso, a tre busti muliebri di carnagione, vestiti e coronati d'oro (regno delle Amazzoni).
Ippolita
D'oro, al leone troncato d’azzurro e di
rosso, linguato dello stesso, reggente lo (lievi varianti) scudetto del regno delle Amazzoni. Semiramide Melanippe
D'azzurro, a tre troni d'oro.
Come Melanippe nel ms. (lievi varianti) Di nero, al cigno d'argento, imbecca- |Inesistente to d’oro e piotato del campo,
tenente
col becco uno scudetto del regno delle Amazzoni.
Etiope Lampeto
Come Semiramide nel ms. Partito, al primo del regno delle Amaz- |Partito, al primo del regno delle Amazzoni, al secondo fasciato innestato di|zoni, al secondo fasciato innestato, d'o-
otto pezzi, d’azzurro e d'oro; i due punti |ro e d’azzurro.
semipartiti
Tamari Teuca
Di rosso, a tre mezzi leopardi d'oro. D'argento, all'aquila di nero, rostrata e |= armata d'oro, posta in banda.
Pentesilea
(lievi varianti)
D'azzurro, alla banda di rosso, carica di
tre busti muliebri di carnagione, vestiti e coronati d’oro (regno delle Amazzoni);
accompagnata da sei campanelli d'oro, tre per parte, nel verso della pezza.
Nota: Il simbolo =, dove inserito, indica la corrispondenza della blasonatura con quella inserita nella colonna precedente.
ARALDICA. UN CODICE DELLA COMUNICAZIONE TRA REGOLE ASTRATTE E FUNZIONI SOCIALI
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LA MÉMOIRE HÉRALDIQUE DES VISCONTI DANS LA FRANCE DU XV: SIÈCLE Laurent Hablot
Un certain nombre de réalisations artistiques armoriées de la fin du Moyen Age nous livrent encore d’intéressants témoignages des pratiques héraldiques de ce temps. L'identification et l'interprétation de ces représentations armoriales sont indispensables à une bonne compréhension de ces sources visuelles dont la juste analyse héraldique échappe hélas souvent encore aux historiens de l’art. Cette capacité d'interprétation est la valeur ajoutée de l’héraldiste. Aujourd’hui, et compte tenu de la dynamique de la réflexion scientifique en la matière, cet apport ne peut plus se limiter à la seule identification des armoiries mais doit, en outre, réinscrire ces démonstrations héraldiques dans leurs fonc-
tions sémiologiques, politiques, sociales et religieuses. C’est ce que je me propose de faire ici à travers l'exposé de plusieurs exemples de combinaisons héraldiques produites dans la France du XV: siècle portant notamment sur un corpus de représentations d’armoiries du dernier Moyen Âge intégrant le Biscione des Visconti!. Si certaines de ces armoiries sont bien connues, telles celles de
Louis XII, l'appropriation des armes Visconti par près d’une dizaine de familles françaises contemporaines pose en revanche question et mérite d’être expliquée et commentée. Ces combinaisons armoriales, de formes variées, résultent sou-
vent d’un choix délibéré de la part de leurs utilisateurs plus que d’un système de transmission bien établi. Les usages héraldiques, alors en pleine évolution, qui ! Depuis le Moyen Âge , la guivre Visconti fait couler beaucoup d’encre, notamment sur le problème de son origine: reprise des figurations paléochrétiennes du Cetus de Jonas (A. BLANCHET, Notes sur la guivre de Milan, Cogliati, Milano 1908, pp. 11-12)? armoirie
parlante inspirée par l’homophonie entre leur fief d’Angera et le terme latin désignant le serpent arguis (M. PASTOUREAU, L'Art héraldique, Seuil, Paris 2011, p. 145)? figure symbolique et légendaire (BLANCHET, Notes cit., pp. 5-10, P. ZANINETTA, I/ potere raffigurato. Simbolo, mito e propaganda nell’ascesa della signoria viscontea, Franco Angeli, Milano 2013 et L. HABLOT, Valentine Visconti ou le venin de la biscia, dans Les Vénéneuses. Figures d'empoisonneuses de l'Antiquité à nos jours, éd. par L. Bobiou, M. Soria, PUR, Rennes
2015, pp. 179-194).
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LAURENT HABLOT
permettent ce discours demandent eux-aussi à être étudiés pour saisir la portée exacte de ces représentations.
Je traiterai donc d’abord de ce point technique avant de revenir sur divers exemples précis du dossier qui nous retient. 1. Une nouvelle héraldique à la fin du Moyen Age: les combinaisons d'armoiries Les combinaisons d’armoiries sont apparues quelques décennies seulement après la naissance du système héraldique. Associant différentes armoiries — d’ordinaire deux — sur un seul écu au moyen d’une partition — le plus souvent un parti ou un écartelé —, elles servent parfois de brisure mais visent surtout à qualifier le statut du porteur en matière de droit successoral, notamment dans le cas d’une union avec une héritière. Michel Nassiet a souligné l'existence dans ce cas d’un véritable système?, exprimant, selon la formule retenue et l’ordre
des quartiers, les statuts respectifs des époux et leur relation hiérarchique (hypergamique, homogamique ou hypogamique). Les récents articles de Jean-Luc
Chassel ont quand à eux démontré la conscience et l’exaltation de la lignée maternelle dans l’aristocratie médiévale, fréquemment mise en scène au moyen de l’onomastique et de l’héraldique?, comme on le voit dans les armes de Castille et Léon, celles des fils de Louis VII et de Blanche de Castille, ou encore celles
d’Edouard III d'Angleterre. Aux côtés de ces démonstrations héraldiques, quasi juridiques, existent également, dès la fin du XII siècle, des combinaisons “affectives”. Elles unissent sur l’écu d’un seul ses armes jointes à celles d’un compère, frère d’armes, par-
rain en chevalerie, saint patron, modèle chevaleresque littéraire, suzerain, patron politique etc. (fig. 1). Ces pratiques d’associations d’armoiries dans un seul écu contribuent également à organiser hiérarchiquement cette surface et à classer les différents quar-
? M. Nassiet, Signes de parenté signes de seigneurie: un système idéologique, in «Mémoires de la Société d’histoire et d'archéologie de Bretagne», 67 (1991), pp. 175-232; Ip. Alliance et filiation dans l'héraldique des XIV et XV siècles, in «Revue française d’héraldique et de sigillographie», 64 (1994), pp. 9-30; Ip., La monographie familiale à la fin du Moyen Age: quelques problématiques d'histoire de la parenté, in Le médiéviste et la monographie familiale: sources, méthodes et problématiques, éd. par M. AURELL, Brepols, Turnhout 2004, pp. 67-78. Voir également Ip., Les combinaisons d'armotries par les personnes privées. Les brisures de bâtardise, Family History, Canterbury 1995. ? J.-L. CHassez, Parenté, alliance et patrimoine: l'emblématique de Jeanne de Châtillon, comtesse d'Alençon et de Chartres (+ 1292), dans Droit, usages et coutumes héraldiques, actes du colloque (Verviers 2009), à paraître et ID., Le nom et les armes: la matrilinéarité dans la
parenté aristocratique du second Moyen Age, in «Droit et cultures», 64 (2012), 2, pp. 117-148.
LA MÉMOIRE HÉRALDIQUE DES VISCONTI
tiers armoriés dans l’espace. Ces combinaisons favorisent évidemment le coin en haut à dextre (à gauche, donc à la droite du porteur de l’écu)* et le centre du champ (abôme), ainsi que la dernière strate de superposition en partant du fond, dite sur le tout. Il est donc admis au milieu du XIII siècle, temps de la stabilisation des usages héraldiques, que les combinaisons d’armoiries révèlent des identités multiples sur lesquelles on souhaite attirer l’attention et que seule une connaissance de détail de l’individu pourra permettre d’expliciter. Sans
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AL OR RC RE DA XII° siècle. Paris, Archives Nationales,
2265 (1211).
jamais devenir une norme durant les XIIIS-XIVE siècles, ces armes combinées coexistent aux côtés des armes pleines ou brisées (les combinaisons font d’ailleurs parfois fonction de brisure) et contribuent à la polysémie du système héraldique en matière de distinction de l’individu, au sein du groupe familial en particulier, et aristocratique en général. L'ensemble de ces formules = armes pleines, brisées ou combinées — entre dans le jeu de démonstration et de concurrence de représentation des individus même si, au sein de la haute noblesse, des familles régnantes et des princes du sang ces combinaisons restent longtemps signifiantes d’un point de vue juridique. Edouard III revendique effectivement le trône de France en ajoutant les lis à ses léopards en 1337. Une rupture importante en la matière se produit dans la seconde moitié du XV siècle. L'héraldique du roi René d’Anjou en offre un exemple pertinent si tant est qu’elle ne soit pas le modèle même de ces nouveaux usages héraldiques? (tav. 26). A la fin du XV: siècle, une bonne partie de la haute et moyenne noblesse de l'Ouest de la France imitera ce modèle, pour le plus grand bonheur de la guivre!
4 Voir L. HABLOT, Aux origines de la dextre héraldique. Ecu armorié et latéralisation au Moyen Age, in «Cahiers de civilisation médiévale», 56 (2013), 3, pp. 281-294. 3 Sur l’emblématique de René d’Anjou voir, en dernier lieu, C. DE MÉRINDOL, Arzotries et emblèmes dans les livres et chartes du roi René et de ses proches: le rôle de Barthélémy d'Eyck, in Splendeurs de l'enluminure. Le roi René et les livres, catalogue de l’exposition (Angers 2009-2010), Actes Sud, Angers 2009, pp. 153-166 et L. HABLOT, Mise en signe du livre, mise en scène du pouvoir Armoiries et devises dans les manuscrits de René d'Anjou, ivi, pp. 167-177.
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2. Les Orléans et l'héritage Visconti
Les premières manifestations transalpines de la guivre sont naturellement liées aux alliances entre la maison de Valois et la famille Visconti. La première union qui rassemble ces deux maisons est, en 1360, celle de Jean-Galéas Visconti
et d'Isabelle de Valois, fille de Jean le Bon. Les motifs de cette “mésalliance” - Jean Galéas n’est alors qu’un “modeste” seigneur italien — sont d’ordre économique: la dot étant censée payer une part de la formidable rançon de trois millions d’écus d’or réclamée par Edouard III au roi de France vaincu à Poitiers en 1356. Comme toutes les dames du temps, Isabelle de Valois a très certainement déjà porté les armes parties de son époux et de son père et donc Visconti/ France, bien qu’il n’en existe, à ma connaissance, aucune attestation.
C’est principalement le mariage de Louis d'Orléans et de Valentine Visconti, en 1389, qui fonde les échanges héraldiques entres les deux états. Ce mariage a, jusque récemment, retenu l'attention des historiens pour plusieurs raisons. D’abord l’enjeu politique lié au rang d’héritier putatif du frère cadet de Charles VI”, qui reste entre 1380 et 1397 son principal successeur. Ensuite la politique extraterritoriale française à la fin du XIV* siècle qui est déterminante. Charles V et son conseil n’envisagent pas de constituer un apanage en faveur de Louis mais plutôt de le marier à une princesse héritière dont la dot étendra la domination française sur l’Europe, en même temps qu’elle éviterait de fragmenter encore le domaine royal en coûteux apanages. Les projets d’alliance avec la première maison d’Anjou et son patrimoine provençal, hongrois et napolitain échouent pourtant à plusieurs reprises. Enfin, le statut particulier de Valentine. À défaut d’un prestigieux mais hypothétique mariage angevin, le conseil royal se tourne vers l'Italie et les cousins Visconti. Isabelle, la sœur de Charles V, est morte en 1372. Elle a donné au seigneur de Pavie et comte de Vertus, quatre
enfants dont seule Valentine demeure vivante en 1385. Son père en revanche vient de s'imposer à la tête de la seigneurie de Milan et d’une grande partie de la Lombardie au détriment de son oncle Bernabò, grand-père de la reine Isabeau de Bavière. Valentine, lointaine cousine née d’un obscur tyran italien, devient © M. Faucon, Le mariage de louis d'Orléans et de Valentine Visconti. La domination française dans le Milanais. 1387-1450, Imprimerie nationale, Paris 1882; A. MARCHANDISSE, Milan, les Visconti, l'union de Valentine et de Louis d'Orléans, vus par Froissart et par les
auteurs contemporains, in Autour du XV? siècle. Journée d'étude en l'honneur d’Alberto Vàrvaro (Liège 2004), éd. par P. MorENO, G. PaLumBO, Bibliothèque de la Faculté de Philosophie et Lettres de l’Université de Liège, Genève 2008, pp. 93-116. 7 Voir F. AUTRAND, Charles VI. La folie du roi, Fayard, Paris 1986.
* Ce mariage entre Charles VI et la petite-fille de Bernabò Visconti est perçu comme une menace par Jean Galéas; cfr. E. JARRY, Actes additionnels au contrat de mariage de Louis d'Orléans et de Valentine Visconti, in «Bibliothèque de l’école des chartes», 62 (1901), pp. 25-51.
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désormais un très beau parti. Elle est d’abord proposée pour Louis d'Anjou puis finalement pour Louis d'Orléans. Le contrat stipule en dot le comté de Vertus — qui ferait ainsi retour à la couronne —, le comté d’Asti sans hommage, une somme de 450000 florins et surtout, à défaut d’héritier mâle, la totalité des
seigneuries détenues par Jean Galéas. Hélas pour Louis, Jean Galéas a épousé en secondes noces en 1380, sous la contrainte de son oncle, sa cousine Catherine Visconti, fille de Bernabò. La grossesse annoncée de Catherine Visconti en 1388 remet en cause les modalités du contrat et disproportionne à nouveau les statuts des fiancés. Pourtant l'intérêt de la possession d’Asti bientôt couplé avec la conquête de Naples par Louis II d'Anjou (1387) en vue d’une action militaire contre la papauté romaine — la fameuse voie de fait? — rend viable ce projet d’union et permet d'oublier les mirages lombards de Louis et de ses parents. L'émancipation politique de Charles VI et la politique de son conseil permettent enfin leur union en août 1389. Malheureusement pour les ambitions de Louis, le second mariage de Jean Galéas lui assure effectivement une descendance légitime avec la naissance de Jean Marie (13881412) et de Philippe Marie (1392-1447). De ces alliances franco-italiennes datent pourtant les premiers échanges héraldiques ou emblématiques. Ainsi, parmi les arguments de la négociation d’une alliance franco-milanaise en vue du rétablissement de Clément VII sur le siège romain, discutée dans les années 1392-1393, f-
gure l’octroi au seigneur de Milan d’une concession des armes de France (sans brisure) à porter écartelées aux siennes en signe de protection du roi!°. En mai 1393, après quelques atermoiements, de nouveaux accords sont proposés à Jean Galéas,
dans lesquels la concession est modifiée, puisque les armes de France octroyées sont désormais brisées d’une bordure endentée de gueules et d’argent!!. Cette concession est à nouveau amendée fin janvier 1394 par Charles VI qui accorde à Jean Galéas Visconti le droit de porter, lui et ses héritiers, leurs armes écartelées à celles de France brisées d’une double bordure de gueules et d’argent!. Cette dernière concession — qui précède de peu celle accordée au seigneur de Milan par
? In., La «Voie de fait» et l'alliance franco-milanaise (1386-1395), in «Bibliothèque de l’école des chartes», 53 (1892), pp. 213-253, 505-570. 10 Ivi, p. 249, article 8 des propositions détaillées dans ID., La vie politique de Louis de France, duc d'Orléans: 1372-1407, Picard, Paris 1889, p. 419 et ss.
1! Jarry, La «Vote de fait» cit., p. 510. On notera que cette brisure, bientôt abandonnée au profit de la double bordure d’argent et de gueules, sera finalement concédée à Niccolò III d’Este par Charles VII en 1431. 2 ANF, JJ 145, c. 197, 27 janvier 1394 puis confirmée par une lettre patente du 29 janvier 1395 (ANF JJ 147, c. 68) cités parJ.MEURGEY DE TUPIGNY, Une concession des armes de
France aux Visconti en 1395, in «Nouvelle revue héraldique, historique et archéologique»,
10 (1934). En tous cas l’accord des oncles et frères du roi semble avoir été nécessaire pour obtenir cette concession cfr. JARRY, La «Voie de fait» cit., p. 518.
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LAURENT HABLOT
l’empereur Wenceslas, avec le titre ducal — écartelé aux 1 et 4 de France à la double bordure de gueules et d'argent et au 2 et 3 Visconti (tav. 27), figure notamment sur la patente de concession! le sceau du duc, ses manuscrits, et est encore déployée à l’occasion des funérailles du prince en 1402". Dans cette composition les lis prennent hiérarchiquement le pas sur la guivre. Ces identités héraldiques multiples de Jean Galéas Visconti sont mises en scène sur divers supports, le plus souvent par l’intermédiaire de bannières qui renvoient à la reconnaissance impériale du titre ducal ou des cimiers multiples portés par le prince et ses enfants. Valentine, Jean Marie et Philippe Marie prolongent occasionnellement l’usage de ces armes pour revendiquer leur appartenance au sang de France et de saint Louis”. Valentine Visconti, après son union avec Louis, porte naturellement les armes parties Orléans/Visconti ou écartelées Orléans/contre-écartelé Vertus/
Visconti telles que l’on peut encore les retrouver sur certains de ses manuscrits!° ou reconnaitre dans ses comptes — comme sur une aiguière en forme de guivre
vomissant un enfant, une nef sur roue avec figurines portant des bannières aux armes des époux — ou, encore dans la description comptable d’une litière à ses armes et devises!?, Après la mort de Valentine, la guivre Visconti fait son apparition dans l’héraldique dynastique des Orléans avec la crise de succession ouverte par la mort de Philippe Marie en 1447, Charles d'Orléans, rentré de captivité en 1440, 13 ANF, JJ 145, c. 197r, 27 janvier 1394 puis confirmée par une lettre patente du 29 janvier 1395 (ANF JJ 147, c. 687). 4° Voir par exemple son exemplaire de Nicolas de Lyre, Postilla litteralis in biblia (BNE, ms. Lat. 364, c. 1), ses Heures par Giovannino de’ Grassi (BNCF, ms. Banco rari 397 et
Landau Finaly, ms. 22); son missel peint par Anovelo da Imbonate (BCSAMi, ms. Latin 6, c. 8): cfr. E.W. KIrscH, Five illuminated manuscripts of Giangaleazzo Visconti, University Park, London 1991. Pour le sceau, cfr. Confédération et alliance entre Charles VI et Jean Galéas Visconti.
31 aout 1395, ANF, Musée de l’histoire de France, armoire de Fer AE/
III/15. La bannière aux armes écartelées Vertus/Visconti est également mise en scène lors des funérailles de Jean-Galéas: Ordo funeris Johannis Galeatii vicecomitis ducis mediolani peracti anno MCCCII, ed. L.A. MuratORI, RIS, Typographia societatis palatinae in regiae curia, Mediolani 1730, XIX, coll. 1026-1036. 5 C. MASPOLI, Arme e imprese viscontee sforzesche Ms. Trivulziano n. 1390, in «Archives héraldiques suisses», 110 (1996), 2, pp. 132-158 et 111 (1997), 1, pp. 27-37.
‘è H. Bovet, L'apparition de Jean de Meun, BNF, ms. Fr. 811, c. 1. Sur l’interprétation symbolique de ces armes dans la crise politique dont est victime Valentine Visconti voir HABLOT, Valentine Visconti ou le venin de la biscia cit. !? U. ROBERT, Colart de Laon, documents inédits, in «Nouvelles archives de l’art français», 8 (1880-1881), pp. 12-23: «pour avoir peint une lictière et un curre [...] armoiées des armes poinçonnées, c’est assavoir la moitié des armes dudit seigneur et l’autre partie
des armes du sire de Milan, conte de Vertuz, lesquelles sont escartelées de France et de une
guivre», 7 novembre 1394.
8 Sur les sceaux des deux cadets dès 1448, L. Douër D'Arco, Collection de sceaux, I, Paris 1863, n. 857; ADLA, sceau n. 363 et sur le sceau de Charles, ADLA, sceau n. 562.
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confiné dans un rôle relativement secondaire, revendique fermement l'héritage milanais et l’expose en écartelant ses armes à celles des Visconti dans un classique discours héraldique d’héritier (fig. 2). L'usage de cet écartelé par le duc ou sa seconde épouse Marie de Clèves!, pas systématique mais tout de méme relativement fréquent, a laissé un nombre conséquent d’occurrences et de témoignages dont la récurrence souligne le poids tant juridique que mémoriel?, C’est à ce titre d’ailleurs que Charles entreprend une expédition vers le milanais en 1447 qui lui permet de rassoir son autorité sur Asti, même
si il échoue
devant Milan et Francesco Sforza. L'usage de cette combinaison Orléans/Visconti,
toutefois
s’il se rencontre,
beaucoup
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moins
est
fréquent
Se Fe Acor )
gouléme
(i 1467) — et chez sa sœur
Marguerite,
comtesse
2 Charles d'Orléans en habit de chevater de la Toison d’or, 1468, in Paris, Biblio-
d’Etampes?!.
thèque de l’Arsenal, ms. 4790, Arzzorial de
a Tosson d’or, c. 86r.
!? Charles avait épousé en 1406 sa cousine Isabelle de France (+ 1409), veuve de Richard II (+ 1399), puis, en 1440, la nièce de Philippe le Bon, Marie de Clèves ($ 1487). Les armes Visconti figurent par exemple sur son manuscrit conservé à Carpentras, BM, ms. 375, c. 2. Voir aussi ses sceaux, DOUËT D'ARCO, Collection de sceaux cit., I, nn. 950 (1447), 950 (1481).
2° On retrouve Charles d'Orléans associé à ces armes dans l’Arzzorzal de la Toison d'or (La Hague, KB, ms. 76 E 10, p. 40), dans l’Armorial Le Breton (L'Armorial Le Breton, éd.
par E. DE Boos, Somogy, Paris 2004, p. 8), parmi les malades de «l’Hòpital d'Amour» dans le Livre du Cuer d'Amour espris (BNF, ms. Fr. 24399, c. 91, après 1480). Voir aussi les manuscrits des collections ducales portant les armes Visconti dans G. Ouy, La librairie des frères captifs: les manuscrits de Charles d'Orléans et Jean d'Angoulême, Brepols, Turnhout 2007.
21 Sur le célèbre livre d’heures de celle-ci (BNF, ms. Lat. 1156B), la princesse affiche des armes parties de Bretagne et d'Orléans. Visconti ne s’y retrouve jamais. La guivre se retrouve en revanche dans le décor des manuscrits de Charles et de Jean, mais il est souvent difficile d'établir avec précision le destinataire et la date exacte du décor. Voir Ouy, La librairie des frères captifs cit., passim.
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LAURENT HABLOT
Leurs enfants respectifs feront en revanche un important usage de la combinaison Orléans/Visconti. En héritant des droits de son père Charles en 1465, Louis II d'Orléans (le futur Louis XII),
reprend à son compte les prétentions des Orléans sur le milanais et son discours héraldique. Concrètement, son action militaire se réalise dans l’expédition de 1494-1495 puis dans l’expédition et l’occupation de la ville lombarde de 1499-1513. Comme son père, Louis écartèle ses armes à celles des
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Visconti et exploite largement la figure De
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munication par l’image, plus particulièrement après son avènement en 1498.
L’écartelé Orléans/Visconti se retrouve notamment sur des sceaux produits par le prince dès les années 1480: sur son sceau armorial ante susceptum de 1482 et sur le grand sceau équestre de 1486, où le duc associe à sa titulature d'Orléans, de Valois et de Blois, le duché de Milan et les seigneuries de Pavie, de Beaumont et d’Asti?2. Ce sceau témoigne de l’usage ambigue de la guivre que Louis XII établit. En grande tenue héraldique, il porte les armes Orléans/Visconti sur sa cotte, son écu et la housse de sa monture. Son cimier
combine, en une formule inédite, la guivre Visconti et le lis carré des princes capétiens qui semble ici perforer la guivre?. Sur la croupe du cheval, la devise du porc-épic renvoie à la fois au Camail du sceau équestre de son père et à sa devise, héritée de Louis I d'Orléans. L'animal, bien connu pour dominer les
serpents, est figuré en arrêt, les pics dressés, et semble menacer directement la guivre du second quartier des armes de la housse (fig. 3)?4. Le troisième sceau armorial de Louis XII prolonge cette association héraldique entre les lis et 2 M. DALAS, Les sceaux des rois et de régence, Archives Nationales, Paris 1991, nn. 214 (écartelé Orléans/Visconti avec titres de duc d'Orléans, de Milan et de Valois), 215. Cette
composition n’est pas sans rappeler le cimier de Pietro Farnese sur lequel le renard de Pise est percé par le lis de Florence (ou des Farnese). # Ce cimier se retrouve dans l’Armorial de Conrad Grünenberg, éd. par M. POPOFF, I,
Milano 2011, tav. XLIV: le duc d'Orléans y est associé au duc de Bretagne (Arthur III) et porte les seules armes au lambel mais le cimier figure une guivre engoulant entremélée dans un lis carré. 24 DALAS, Les sceaux des rois cit., n. 215 et contre sceau armorial aux armes écartelées
tenues par un archange.
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la guivre”. La revendication héraldique du duché de Milan datait toutefois de 1477, quand sur les monnaies frappées pour le comté d’Asti les guivres se mélaient déjà aux lis chargés du lambel d'Orléans et au titre de duc de Milan*, Devenu roi de France, et conquérant du milanais, Louis XII associe ses armes
pleines de roi de France et la couronne fleuronnée de lis à cette combinaison héraldique?. Mais il y ajoute encore la titulature milanaise, la figure de la guivre et quelques devises Visconti autrefois concédées par les empereurs: le velo (ou capitergium) et le piumai, désormais surmontées du lis. Il n'empêche que la guivre conserve, dans son exploitation emblématique, une réelle ambivalence: elle est
souvent, sur les représentations officielles ou lors des spectacles d’entrées, la victime préférée des pics du porc épic?8. Elle n’en reste pas moins souvent le noble insigne des droits du prince sur le beau et prospère duché”, comme le prouve la permanence de l’écartelé France/Visconti sur les sceaux produits par Louis XII pour le milanais (1506)? Son épouse, sainte Jeanne de France (+ 1505) — fille de Louis XI — reprend naturellement les armes parties de son époux (Orléans/ Visconti) et de son père (France) comme le confirment notamment ses sceaux?!. Dès avant la mort de Louis XII en 1515, dès qu’il apparu que le roi n’aurait pas d’héritier mâle, François, petit-fils de Jean d’Orléans-Angouléme, accapare le nom d'Orléans”? et revendique lui-aussi l'héritage milanais en qualité d’arrière © Ivi, n. 216.
26 Voir le Brssone et les testons émis par Louis XII, sur .
7 Ibid. 2 Voir le dernier tableau de l’entrée parisienne de 1498 devant la Chambre des comptes qui soutient financièrement les projets de reconquête du milanais. Les armes de France soutenues par deux cerfs volants et surmontant un porc-épic sont accostées de deux guivres enlaçant des lis et accompagnées de deux écus aux armes Visconti: une sentence précise que le porc-épic projette ses épines sur ses ennemis et mord ceux qu’il a manqué.
Voir N. HOCHNER, Le Trône vacant du roi Louis XII. Significations politiques de la mise en scène royale en Milanais, in Louis XII en Milanais, actes du colloque (Tours 1998), éd. par P. CONTAMINE,J.GUILLAUME, Champion, Paris 2003, pp. 227-244 et R.W. SCHELLER, Ensigns of Authority: French Royal Symbolism in the Age of Louis XII, in «Simiolus: Netherlands Quarterly for the History of Art», 13 (1983), 2, pp. 75-141. 2? Voir le folio de dédicace de l’exemplaire des Remèdes de Fortune de Pétrarque peint pour Louis XII (BNF, ms. Fr. 225, c. Av°) où figurent de part et d’autres des armes du roi (avec porcs-épics, collier de l’ordre et couronne fermée), les armes parties France/ Jérusalem et écartelées d’Empire/Visconti. Louis XII n’a d’ailleurs aucun droit à ces armes impériales concédées à Philippe-Marie, mais elles s'accordent au discours général de la page où les armes royales sont couronnées de la couronne fermée impériale. 30 DaLas, Les sceaux des rois cit., nn. 230, 230 bis, 231. 3! M.-A. NIELEN, Les sceaux des reines et des enfants de France, Archives de France, Paris 2011, nn. 176, 176bis (1487 et 1489).
2 A.-M. LECOOQ, François I imaginaire: symbolique et politique à l'aube de la Renais-
sance française, Macula, Paris 1987, p. 184.
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LAURENT HABLOT
petit-fils de Valentine Visconti. A son tour? il écartèle ses armes Angoulême — le lambel d'Orléans surbrisé d’un croissant de gueules — à celle du duché milanais. Cette composition, déjà portée occasionnellement par son père, se retrouve sur divers manuscrits peints par Robinet Testard pour Louise de Savoie’, mère de François, et sur le sceau de celle-ci daté de 1499 présentant un parti, au premier coupé d'Orléans et de Milan et au second de Savoie. François de Valois fait figurer ces armes en 1514 sur des jetons et des manuscrits? avant de les employer, comme son prédécesseur, dans la production d’images politiques, elles aussi ambivalentes”. Ainsi, lors du spectacle de l’entrée de Lyon en juillet 1515, un étendard à la salamandre porte les vers: Maximus est regnum mundi salamandrius beros, Angue qui curvo lilia juncta gerit (c’est-à-dire: c’est le plus grand des rois du monde, le héros à la salamandre qui porte les lis unis au serpent onduleux). Le «jardin de Milan», allégorie du Paradis installée sur la place du Change, est signalé par un écu aux armes Visconti, mais les monstres qui le gardent sont l’ours de Berne et la guivre de Ludovic le More. François I”, devenu roi, prend à nouveau les armes pour conduire la conquéte du milanais accomplie à l’issue de la victoire de Marignan. En 1522, la défaite de la Bicoque signe pourtant la fin définitive de l’occupation française, ce qui n’empéche pas le titre de duc d'Orléans et les droits héraldiques et honoraires afférents de se transmettre aux héritiers de François I. C’est le cas de son fils Charles II, duc d’Orléans ($ 1545), mais on retrouve encore ces armes écartelées Orléans/
Visconti attachées au duché au milieu du XVII siècle?8. # Son père Charles d'Angoulême (+ 1496) semble avoir lui aussi porté l’écartelé Angoulême/Visconti. Il ne serait pas non plus impossible que la devise de la salamandre, le célèbre emblème du roi François I°, entretienne quelque rapport avec la guivre Visconti; cfr. LECOQ, François I°cit., p. 40 et M. HOLBAN, De la guivre des Visconti à la salamandre de
François I”, in «Archivelor», 3 (1939), pp. 3-16. # Sur son exemplaire du De casibus virorum illustrium de Boccace (BNF, ms. Fr. 231,
c. 1), les armes parties Angoulême (sans croissant sur le lambel) et Savoie apparaissent le plus souvent. Toutefois on retrouve un parti, coupé d’Orléans/Visconti et de Savoie dans des détails comme les vitraux au folio 1. Ces armes se retrouvent sur une autre œuvre de Testard peinte pour ce prince vers 1496: le Livre des échecs amoureux moralisés d'Evrard de Conty (BNE, ms. Fr. 143, c. 198v) où le fronton du portail porte ces armoiries Orléans/ Visconti/Savoie. ? LecoQ, Frangoîs I°cit., p. 49 et A. ERLANDE-BRANDENBURG, Les tapisseries de François
d'Angoulême, in «Bulletin de la société de l’histoire de l’art français» (1973), pp. 19-31. 36 BNE ms. Fr. 231 et BNF, ms. Fr. 1892. 7 LEcoQ, François I° cit., pp. 50-52, 183-185, 188.
7 En témoigne un jeton produit pour la chambre des comptes de Blois sous le règne
de Louis XIII qui porte, au droit, les armes accolées de France et de Navarre et, au revers, les armes écartelées Orléans/Visconti (présenté sur le site de la société CGB , sous la cote Lt 27, chambre des comptes de Blois).
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Alors qu’elle signalait pour les souverains un véritable manifeste politique, annonçant une reconquête par les armes, une “emprise” au sens propre, la guivre apparaissait simultanément dans les armes composites de plusieurs
seigneurs français. Ces utilisations conjointes d’un même signe armorial perturbent partiellement notre analyse des fonctions du discours héraldique à la fin du Moyen Age.
3. La guivre, outil de distinction sociale?
Dès le milieu du XV siècle en effet, les combinaisons d’armoiries se multiplient et permettent aux grands, puis à de plus modestes seigneurs, de signaler la qualité de leur parenté plus que de prétendre à quelques droits politiques. Cette “mode compensatoire”, que l’on avait vu développée par les Laval pour s’assortir au rang et au discours héraldique du prestigieux roi René ou par certains des Amboise”, est bien une des caractéristiques des usages héraldiques français du tournant du XV siècle. Dans le cas de la guivre, la mémoire héraldique des Visconti transparaît ainsi chez les Orléans, hors des revendications de la branche aînée, chez plusieurs cadets de la troisième génération. On l’a déjà constaté pour Charles d’Angouléme mais c’est également le cas de sa cousine Marie de Bretagne (+ 1477), fille de Marguerite d'Orléans et de Richard de Bretagne, comte d’Etampes. Par jeu de succession, son frère devient le duc de Bretagne François II (t 1488). Les fouilles du couvent de la Madeleine à Orléans, institution dont elle fut abbesse,
ont permis la découverte récente de son cercueil de plomb qui porte une curieuse combinaison héraldique associant en un parti les armes de son père (Bretagne) d’hermine plain — sans la brisure d’Etampes (une bordure engrélée de gueules) — et parti des armes de sa mère: un coupé d’Orléans et de Visconti, armoiries qui se retrouvent sur plusieurs de ses sceaux‘°. Ses sœurs, également
en religion, ont probablement utilisé les mêmes armoiries".
39 Sur le sujet voir mon L’emblématique des Amboise, entre Moyen Âge et Renaissance, in Georges d’Amboise, une figure plurielle de la Renaissance, actes du colloque (Liège 2010), dir. L. FAGNART, J. DUMONT, Rennes, PUR 2013, pp. 31-47.
4 Voir E EYGUN, Sigéllographie du Poitou jusqu'en 1515. Étude d'histoire provinciale sur les institutions, les arts et la civilisation d'après les sceaux, Siège de la Société des Antiquaires de l'Ouest, Poitiers 1938, n. 1577 et G. DEMAY, Inventaire des sceaux de la collection Clairambault à la Bibliothèque nationale, II, Imprimerie nationale, Paris 1886, n. 3704:
sceau ogival daté de 1462 et représentant l’abbesse en pied avec un sceau aux armes parti au 1 d'hermines, au 2 coupé Orléans/ Visconti.
41 Il faudrait pour cela dépouiller l’ensemble des témoignages héraldiques des enfants de Richard d’Etampes et de Marguerite d'Orléans: Marie (+ 1477), abbesse de Fontevraud,
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S’il ne semble pas que François II de Bretagne ait jamais fait usage, comme sa sœur, des armes de sa mère et de sa grand-mère, son propre fils naturel, François d’Avaugour, comte de Vertus, porte à son tour un écartelé Bretagne et contre-écar-
telé Orléans/ Visconti, Avaugour (d'argent au chef de gueules) brochant. En dehors de la légitime transmission à François I° et à son fils Charles d’Orléans, la guivre réapparaît occasionnellement dans la famille des Angoulême et de leurs alliés. On la retrouve par exemple dans les armes de Charles de Coëtivy, seigneur de Taillebourg (+ vers 1460)2. Ce fils d'Olivier de Coëtivy, frère du célèbre amiral Prigent, considère sans doute que ses simples armes fascé d'or et de sable de six pièces traduisent mal l'importance de son rang et de son sang. Il est en effet le fils de Marie-Marguerite de Valois, fille naturelle de Charles VIT et d'Agnès Sorel (qui portait France un filet en bande d'argent). Il épouse par ailleurs Jeanne d'Angoulême (+ 1520), fille de Jean d'Orléans, comte d’Angoulême, et de Marguerite de Rohan. Cette dernière est donc la propre tante de François Ie qui l’a créée duchesse de Valois en 1516. La combinaison complète des armes de Charles de Coëtivy — en l’occurrence plutôt celles de son épouse ou de sa fille, fait donc apparaître au 1 un coupé des armes Coëtivy et des armes brisées de sa mère et au 2 un coupé des armes d'Angoulême et de Milan. De cette union ne naîtra qu’une seule fille, Louise (+ 1533), épouse de Charles de La Trémoille, prince de Talmont, tombé sur le champ de bataille de Marignan, et qui porte à son tour la guivre du droit de sa femme”. Plus curieusement, cette prétention à la parenté Visconti traduite par l’adoption de la guivre va se retrouver dans un groupe familial très influent dans l’ouest du royaume au tournant du XV* siècle: les Rohan et notamment leurs branches cadettes, Montauban et Rohan-Guéménée*. L'origine même cette manifestation héraldique fait virtuellement de ces grands seigneurs des concurrents directs des Montfort, des Orléans et même du roi de France.
En 1411 en effet, Isabeau de Bavière encourage l’union d’un de ses fidèles bretons, son chancelier Guillaume de Montauban (+ 1432), un des héros du combat des Trente, et d’une ses cousines, Bonne Visconti ( 1469), petite-fille
Isabeau ( 1438), Catherine (+ après 1476), mariée en 1438 à Guillaume VII de Chalon (+ 1475), prince d'Orange, François II (+ 1488), duc de Bretagne, un fils anonyme (1436), Marguerite (7 avant 1466) et Madeleine (+ 1461). 4° L'Armorial Le Breton cit., p. 118, notice 861 à la p. 222.
# Cette combinaison se retrouve sur le tombeau de Louis II de La Trémoille: L. VisSiÈRE, Les signes et le visage. Étude sur les représentations de Louis II de la Trémoille, in «Journal des Savants» (2009), 2, pp. 211-282. # Les Montauban sont une branche cadette issue de la maison de Rohan. Ils portent de gueules à neuf macles d'or (Rohan) au lambel d'argent. Les Rohan-Guéméné sont issus de Charles de Rohan (f 1438), fils de Jean I°, vicomte de Rohan, et de Jeanne d’EvreuxNavarre. Ils portent une combinaison des armes d’Evreux/Navarre avec Rohan sur le tout.
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comme elle de Bernabò Visconti, et fille de son second fils Carlo et, donc, aînée
de la branche familiale évincée du trône milanais par Jean Galéas et ses héritiers. Son époux Guillaume adopte dès lors un écartelé Montauban/Visconti“. Il s’agit sans doute alors pour Guillaume de Montauban, proche de la reine et du parti Bourguignon, de s’opposer aux Orléans, désormais représentés par le fils de Louis, Charles”. On retrouve ces armes Montauban/Visconti portées par plusieurs de ses dix enfants: Béatrix de Montauban (+ 1451), qui les transmet aux Espinay, comme nous allons le voir; Arthur de Montauban (+ 1479), archevêque de Bordeaux; Jean de Montauban (+ 1466)*, amiral de France, qui les transmet aux Rohan-Gié (voir infra); Marie de Montauban qui les transmet aux Malet de Graville/Balzac (voir infra). Béatrix de Montauban, épouse Richard d’Espinay ( vers 1450), chambellan du duc de Bretagne François I°, Les armes à la guivre ornent-déjà les Heures de ce dernier”. Elles sont reprises par plusieurs de leurs enfants: Jean d’Es-
# Le fils aîné de Bernabò, Ludovico (* 1404), avait épousé sa cousine Yolande, fille de Galéas II, sans postérité. Carlo (© 1403) et son épouse Béatrix d’Armagnac avaient eu pour fille Bonne Visconti. Leur sceur aînée Caterina avait épousé son cousin Jean Galéas. Quand aux cadettes, Viridis avait épousé Léopold III d’Autriche; Valentine, Pierre II de Chypre et Tadea, Etienne III de Bavière, donnant naissance à Isabeau future reine de France.
4 Cfr. D.H. MoRICE, Mérzotres pour servir de preuves à l’histotre ecclésiastique et civile de Bretagne, III, Charles Osmont, Paris 1746, col. 331 et, pour le contrat de mariage, . 4 Jean sans Peur conduira également une politique d’opposition à l’égard des Montfort, jusqu’alors soutenu par son père Philippe le Hardi. Il rachètera notamment les droits des Penthièvre sur le duché. 4 Paris, Bibliothèque de l’Arsenal, ms. 187, c. 12v: ses armes y sont un écartelé Montauban/Armagnac (?), Visconti brochant sur le tout posé sur une croix archiépiscopale. # Ces armes à la guivre se retrouvent dans son Livre du corps de policie (New York, Public Library, ms. Spencer, coll. 17, c. 127, vers 1450). Jean de Montauban épousa Anne de Keranrais (ft 1499), dont on conserve deux livres d’heures (BNF, ms. Lat. 18026 et
Rennes, Bibliothèque municipale, ms. 1834). Attaché à la cour du roi de France, Jean de Montauban fut conseiller puis chambellan de Charles VII. Nommé maréchal en 1417 à la place de son frère Arthur, il deviendra sous Louis XI, grand maitre des Eaux et des Foréts et amiral de France (1461), puis ambassadeur en Castille. Il fut inhumé au couvent des
Carmes à Dol. 50 «Messire Richard d’Espinay, chevalier, fils aîné de Robert second et de Marguerite
de La Courbe, succeda à sondit père et fut chevalier de grand mérite, [...] et après, scavoir le 13 septembre 1435, son père vivant encore, il éspousa en secondes nopces Beatrix de Montauban fille de desfunct messire Guillaume sire de Montauban et de Landal et de Bonne Visconte fille aisnée et héritière par la mort de ses frères et soeur de la maison des ducs de Milan, si son héritage n’eust point été usurpé sur elle»: A. pu PAZ, Histoire généalogique de plusieurs maisons illustres de Bretagne, Nicolas Buon, Rennes 1619, p. 289.
5! Rennes, Bibliothèque municipale, ms. 0033 (vers 1440). Cfr. J.-L. DEUFIC, Le livre
d'Heures de Richard d’Espinay, in «Pecia. Le livre et l'écrit», 7 (2009), pp. 105-120: 109.
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Fig. 4 Armes Coétivy et Rohan, in Paris, Archives Nationales, ms. AE T'25,.No.RER 648, Armorial Le Breton, p. 62.
pinay, évêque de Mirepoix, commanditaire d’un manuscrit célèbre: le Terrier de Marcoussis’?; André d’Espinay (+ 1500), cardinal et évêque d’Arles, de Bordeaux et de Lyon? et Guy III d’Espinay”. La fille unique de Jean, Marie de Montauban (* 1477), dangereuse criminelle et nymphomane, épouse en 1443, Louis de Rohan-Guéménée (+ 1457) qu’elle empoisonnera en 1457 avant de mourir elle-même en cellule d’isolement en 1477. Ses fils, Louis II de Rohan-Gueménée (+ 1508) et Pierre (+ 1513), le cé-
lèbre maréchal de Gié, n’en revendiquent pas moins sa prestigieuse ascendance en intégrant la guivre Visconti dans leurs armories, posée sur le tout (fig. 4)”. Cet
32 S. PAGENOT, Le Terrier de Marcoussis, un manuscrit profane commandé par l'évêque Jean d’Espinayà la fin du XV siècle, in L'artiste et le clerc, la commande artistique des grands ecclésiastiques à la fin du Moyen Âge (XIV-XVT siècles), éd. par F JOUBERT, Presses de l'Université Paris-Sorbonne, Paris 2006, pp. 389-411. 9 Ses armes étaient visibles sur un vitrail et sur son tombeau aux Célestins à Paris (a 1 et 4 d'argent au lion coupé de gueules et de sinople, au 2 et 3 de gueules à 9 macles d'or au lambel à quatre pendants d'argent [Montauban] et sur le tout Visconti), connu par une gravure de Lenoir en 1867, citée dans E. HAMON, Une capitale flamboyante. La création monumentale à Paris autour de 1500, Picard, Paris 2011, p. 74.
4 Le manuscrit de Rennes, Bibliothèque municipale, ms. 33, c. 1, porte les armes de Guy III d’Espinay (+ 1551), époux de Louise de Goulaine en 1528: écartelé Epinay, Goulaine, Rohan, Estouteville, sur le tout Visconti. % Pierre de Rohan (t 1513), seigneur de Gié, comte de Marle, Porcien et Bar-sur-Aube
porte les armes des Montauban (Rohan au lambel d'argent). Après 1503, il adopte ur
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usage est prolongé par le fils du maréchal de Gié, Charles de Rohan (+ 1528)5 qui ajoute la guivre à ses quartiers Navarre, Evreux et Montauban. Enfin, au XVI: siècle, les armes Visconti réapparaissent encore chez certains descendants de Marie de Montauban, épouse de Jean Malet de Graville (+ 1482): les Malet d’abord puis les Balzac après l’union de leur fils, l'amiral Louis Malet de Graville (f 1516), avec Marie de Balzac d’Entraigues puis les d'Humières. Quand, au XIX° siècle, Honoré de Balzac, usurpera l'identité de cette cé-
lèbre famille, il se composera des armoiries intégrant elles-aussi la guivre des Visconti, avant de l’abandonner quelques années plus tard°?.
4. Quelques pistes d'interprétation De façon évidente, il ne s’agit en aucun cas pour les Montauban, les Rohan-Gié, les Coëtivy, les La Trémoille ou les d’Epinay de prétendre à la domination politique sur Milan au même titre que les ducs d'Orléans bientôt rois de France. Ces pratiques héraldiques relèvent à la fois d’une mode emblématique, d’un discours politique et peut-être avant tout d’une nouvelle logique de représentation aristocratique.
A l'évidence, ces combinaisons s’inspirent l’une l’autre et procèdent d’une mode plus ou moins locale qui rassemble un groupe familial géographiquement cohérent — la France de l'Ouest — et socialement à peu près homogène - l'élite de la moyenne noblesse attachée à quelques grands lignages, pourvue d’offices, intégrée à la familiarité du souverain. Ces pratiques révèlent une fois encore la souplesse du Blason qui, des princes aux plus modestes seigneurs, permet de poser de véritables choix afin de répondre à des besoins de représentation spécifiques, qu'ils soient d’ordre social ou politique. En revanche, pour prendre toute la mesure de ces démonstrations, il faudrait établir en négatif la liste de tous ceux qui auraient pu porter la guivre et ne l’ont pas fait! Il faudrait éga-
contre-écartelé au 1 et 4 écartelé Navarre/Evreux, au 2 et 3 Rohan, un lambel brochant sur les quartiers, Visconti brochant sur le tout. Les armes de Pierre de Gié se retrouvent dans l'Armorial Le Breton (cfr. L’Armorial Le Breton cit., p. 118, notice 862 à la p. 222) et sur
les relevés des vitraux de l’église prieurale de Sainte-Croix-du-Verger, réalisés par Roger de Gaignières; v. H. BOUCHOT, Inventaire des dessins exécutés pour Roger de Gaignières et conservés aux départements des estampes et des manuscrits, Plon, Paris 1890, n. 813.
56 Ses armes, associées à celles de sa seconde épouse, Jeanne de Sanseverino, sont notamment figurées sur une tapisserie conservée à Angers; cfr. A. ERLANDE-BRANDENBURG,
À propos d'une exposition. La tapisserie de chœur des anges porteurs des instruments de la Passion, dans la chapelle du château d'Angers, in «Journal des savants» (1974), 1, pp. 62-69. 51 Y. LOSKOUTOFF, L'héraldique d'Honoré de Balzac, in «L'année balzacienne», 18 (1997), pp. 33-70.
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lement comparer l’usage des armes de Milan à celui, presque similaire à cette période, d’autres quartiers du même type: armes de France, de Jérusalem ou de Bretagne, par exemple. Le discours de ces “combinaisons généalogiques” doit par ailleurs être lu en regard des autres modes d'associations d’armoiries telles que les concessions et augmentations ou les armes d’alliance. En terme de blason, le partage des armoiries Visconti se fait en effet selon des modalités différentes et probablement signifiantes: des écartelés, le plus souvent employés par des prétendants (Visconti, Orléans, Montauban), des écusson sur le tout, chez des seigneurs en quête de reconnaissance (Espinay, Rohan-Gié, Goulaine, Balzac), des quartiers (Coétivy, Rohan-Gié). Dans une certaine mesure, ces combinaisons à la guivre soutiennent un
discours d’ordre politique. Ainsi les tensions de la guerre entre armagnacs et bourguignons sont peut-être encore présentes dans les armes de Guillaume de Montauban. La combinaison des Rohan-Gié s'inscrit sans doute dans le positionnement de cette famille dans la crise de succession bretonne des années 1480-1490. De façon plus générale, l’usage héraldique de la guivre établit pour ces familles, à cette période, un lien visible avec le souverain qui les porte lui aussi sur ses armes. Là encore, on ne manque pas d’être surpris de l’apparente facilité avec laquelle de nombreuses familles partagent avec leur roi les lis et la guivre. Notons qu’à la même époque, en Angleterre, l’usage indu des armoiries royales entraîne l’exécution du duc de Surrey?8! Enfin, ces choix héraldiques s’inscrivent clairement dans une logique de proclamation du rang et de surenchère armoriale qui caractérise la représentation aristocratique d’une noblesse en train de redéfinir son rôle dans le paysage socio-politique du temps. Ils intègrent notamment très clairement la dimension matrilinéaire du lignage, longtemps ignorée mais progressivement assimilée dans les signes d’identité des élites. Aujourd’hui bien connu pour l'Allemagne centrale depuis les travaux de Joseph Morsel??, ce processus de valorisation de la parenté maternelle, devenu constitutif de l'identité noble au début du XV: siècle, semble également se produire à l’ouest de l’Europe. Car c’est bien de cette visibilité de l’ascendance matrilinéaire qu'il s’agit ici. Révélé par le ?8 Voir PR. MooRE, The heraldic Charge against the Earl of Surrey, in «The English historical Review», 116 (2001), 467, pp. 557-583.
°9 J. MORSEL, La noblesse dans la mort. Sociogenèse funéraire du groupe nobiliaire en Franconie (XIV-XVI° s.), in Autour des morts. Mémoire et identité, actes du colloque (Rouen 1998), dir. par O. DUMOULIN, F. THELAMON, Publications de l’Université de Rouen, Rouen 2001, pp. 387-408.
°° Ce constat coïncide avec les diverses analyses de Michel Nassiet sur l’héraldique bretonne de la fin du XV: siècle-début du XVI: siècle; voir M. Nassiet, No et blason. Un
discours de la filiation et de l'alliance (XIW-XVIII siècle), in «L'Homme», 34 (1994), 129, pp. 5-30.
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dossier-des armes à la guivre, la question mériterait d’être étendue à d’autres exemplesf!. Ces combinaisons héraldiques n’en témoignent pas moins du prestige acquis par la guivre milanaise dans l’héraldique européenne de la fin du Moyen Âge et de la première Renaissance. Comptée parmi les figures mythiques des armoiries souveraines, elle engoule de part et d’autre des Alpes ou plutôt, fidèle à son probable prototype iconographique, elle recrache son Jonas sauvé des eaux pour signifier l’éternel salut du sang Visconti.
61 Les armoiries des Amboise, des La Trémoille ou des Thouars offrent de beaux
exemples pour traiter de la question. Sur les Amboise voir mon article L'emblématique des Amboise cit., pp. 31-47; sur les La Trémoille voir L. VISSIERE, «Sars poinct sortir hors de l’orniere». Louis II de La Trémoille (1460-1525), Honoré Champion, Paris 2008.
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ART ET HÉRALDIQUE AU SERVICE DE LA REPRÉSENTATION DU POUVOIR SOUS JEAN II DE PORTUGAL (1481-1495) Miguel Metelo de Seixas
Les armoiries portées par Jean II au début de son règne, entre les années 1481 et 1485, sont documentées par plusieurs sources, parmi lesquelles se trouve une première version du sceau aux armes royales, qui reprennent la forme déjà adoptée par le roi Édouard I (1433-1438), avec les pointes de la croix de l’ordre d’Avis incorporées dans la bordure de gueules, entre les châteaux qui seuls la chargeaient auparavant! Puis on la retrouve dans le procès-verbal de la première assemblée de Cortes de ce règne, convoquée en 1482 et destinée à devenir un instrument de renforcement du pouvoir royal face aux grands seigneurs ecclésiastiques et laïcs’: d’où l'importance symbolique de l’enluminure qui débute ce document, comprenant les armoiries et la devise royales inscrites dans les lettres DOM, abréviation de Dominus (fig. 1). Là aussi, les armoiries royales sont
figurées selon le modèle adopté par Édouard I et Alphonse V, qui furent les deux prédécesseurs immédiats de Jean II, avec les pointes de la croix fleurdelisée de l’ordre d’Avis sur la bordure. Mais les armes royales portugaises changèrent en 1485. Les chroniqueurs Rui de Pina et Garcia de Resende racontent que Jean II réunit le conseil royal dans la ville de Beja pour discuter la frappe de nouvelles monnaies et la réforme des armoiries royales. La première transformation des armoiries royales se reportait à l’exclusion de la croix de l’ordre d’Avis, comme témoigne Rui de Pina: Le premier changement que le roi fit fut de retirer dudit écu la croix verte de l’ordre d’Avis, qui y avait été incorporée par grande erreur, comme si elle faisait partie d’armes substantielles; parce que le roi Jean 1° son aïeul, avant de prendre le
! ANTT, Gavetas, ms. 2, n° 44 (daté de 1484). Voir aussi Luzes e Sombras em D. Jodo II, Arquivos Nacionais/Torre do Tombo, Lisboa 1995, pp. 22, 23, 54. Je tiens à remercier Laurent Hablot pour la révision de ce texte et pour les nombreuses références bibliogra-
phiques qu’il m’a fournies. 2 Livro das cortes primeiras feitas per bo muy alto e muy poderoso Senhor El rey Dom
Joham segundo, ANTT, Cortes, ms. 3, n° 5. Cfr. Luzes e Sombras cit., p. 21.
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MIGUEL METELO DE SEIXAS
titre de roi des royaumes de Portugal et Algarves par autorité apostolique, avait été maître d’Avis: et après qu'il fut roi il voulut, par dévotion pour cet ordre, placer l’écu de Portugal sur la croix verte, avec les pointes de celleci hors de l’écu, de façon à ce qu’elle ne parût pas de son essence [...]. Et ensuite par négligence, et peu de
connaissances
des peintres et offi-
ciers, elle fut incorporée dans l’écu; et pour corriger cet inconvénient qui
ressemblait à nuisance et dégradation d’armes, le roi ordonna qu’on l’enlève complètement’. fées ripensa Reda
Le second chroniqueur complète le texte de Pina. Il établit ainsi une relation directe entre le changement des armoiries et la volonté de frapper une nouvelle monnaie: «À Beja, le Roi réunit son conseil au sujet des monnaies qu’il devait émettre, pour lesquelles sséndastidis chi met 2 il innova et ordonna quelques choses pour le Royal écu de ses armes» et il corrigea les erreurs qui provenaient
de la «négligence et faible avis des Rois d’armes»{. Sur le retrait de la croix d’Avis, les
deux chroniqueurs présentent donc un point de vue cohérent, centré sur
Fig. 1 Enluminure du Livro das Cortes. Lisboa, Arquivo Nacional da Torre do Tombo.
la question de l’essence ou substance des armoiries du royaume, auxquelles cette croix, insigne d’un ordre mili-
taire, paraissait en effet étrangère. Ces auteurs nous fournissent aussi quelques renseignements complémentaires sur la culture héraldique de la cour portugaise. Nous apprenons ainsi que la notion de ?_R. DE PINA, Cronicas, Lello & Irmâo, Porto 1977, p. 933. Les traductions de chro-
niques et d’autres sources ou textes en portugais sont toutes de ma responsabilité.
4 G. DE RESENDE, Cronica de D. Joao II e Miscelânea, Imprensa Nacional-Casa da Moe-
da, Lisboa 1991, pp. 88-89.
ART ET HÉRALDIQUE AU SERVICE DE LA REPRÉSENTATION DU POUVOIR
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dégradation d’armoiries circulait déjà au Portugal à cette époque: dans ce cas, il s’agit soit de la superposition de la croix de sinople sur la bordure de gueules, qui constituait une infraction à la loi des émaux, soit de l'impossible construction géométrique d’une croix qui se superpose à la bordure sans charger le champ de l’écu. En plus, les chroniques nous renseignent que la responsabilité de l’erreur commise fut attribuée aux artistes et aux officiers d’armes (plus spécifiquement même, les rois d'armes). En 1485 les armoiries royales subirent une seconde transformation: le redressement des écussons latéraux. Rui de Pina explique les raisons de ce changement: Parce que pour les cinq écussons du centre de l’écu, qui forment la croix, les deux des flancs gisaient terrassés, avec leurs pointes dirigées vers la croix, ce qui était contraire à la droite règle du blason et semblait signifier quelque grande diminution ou défaite subie sur le champ de bataille; ce qui n’était point; et le Roi, pour éviter tout soupçon et infirmité, ordonna de poser tous les écussons droits, avec leurs pointes vers le bas, comme ils devaient se présenter dûment et naturellement,
et c’est ainsi qu'ils se présentent désormais”.
Le chroniqueur porte donc son attention sur la question de la correction héraldique: il attribue au roi et à son conseil l’idée qu’un observateur des armoiries royales aurait pu penser que la position couchée des écussons latéraux était le signe d’une diminution®. Il s'agissait donc de revenir à la normalité du blason, pour assurer une lecture indéniable des armes royales comme pleines et immaculées. En revanche, comme l’a signalé le comte de Tovar, il existe une autre source sur la réforme des armoiries royales accomplie en 1485: les mémoires laissés par Alvaro Lopes de Chaves, secrétaire particulier des rois Alphonse V et Jean II et notaire public général du royaume’. Ce mémorialiste possédait une connaissance intime des affaires du gouvernement et il nous fournit un point de vue singulièrement proche des mécanismes de prise de décisions politiques comme l'était la réforme des armoiries. Le secrétaire royal commence par établir une
5 Pina, Crénicas cit., p. 933; RESENDE, Crénica de D. Jodo cit., p. 89 se montre à cet égard plus laconique. 6 Sur la question des diminutions héraldiques, cfr. L. HABLOT, «Sens dessubz dessous». Le Blason de la trahison au Moyen Age, in La trahison au Moyen Age. De la monstruosité au crime politique (W-XV siècle), actes du colloque (Lyon 2008), sous la dir. de M. BILLORE, M. SORIA, Presses universitàires de Rennes, Rennes 2009, pp. 331-347.
? C. pe Tovar, As memérias de Alvaro Lopes, secretàrio de el-rei D. Joao II, in «Estudos
Histéricos», 1 (1961), pp. 153-171. Sur l’auteur et le codex, voir A.L. DE CHAVES, Livro de
Apontamentos (1438-1489), Imprensa Nacional-Casa da Moeda, Lisboa 1983, pp. 13-34.
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MIGUEL METELO DE SEIXAS
‘ relation entre la réforme des armoiries et la décision d’adopter le titre de seigneur de Guinée, prise elle aussi le 25 mars 1485 à Beja. Nous apprenons que
cette dernière affaire fut discutée au conseil, qui considéra mais finalement déclina l’hypothèse de prendre le titre de roi de Guinée. Dans son récit Lopes de Chaves raconte que: En cette méme année [1485], le Roi détermina de corriger les armes du Royaume, au sujet desquelles il y avait déjà trois ans que l’on réunissait de grands conseils, où j'étais présent à cause de quelques connaissances que j'avais en la matière du blason, avec conseil du roi d’armes et aide des premières Cortes qu’il convoqua après
la mort du Roi son père; et alors quelques députés lui témoignèrent qu’il devait le faire et il y eut là-dessus maints commentaires en faveur et contre; et en conclusion il fut décidé de retirer la croix verte d’Avis que feu le Roi Jean son bisaieul avait placé dans les armes, et de redresser les deux écussons des flancs afin que tous les
cinq écussons se présentassent droits, et ainsi fut fait?.
L'auteur du récit fut donc témoin direct du processus de réforme des armoiries royales, ce qui, selon lui-même, se devait à ses connaissances d’héraldique; nous pouvons donc observer, derechef, la place désormais importante que ce genre de savoir occupait à la cour. Mais surtout, Lopes de Chaves nous apprend que la décision prise en 1485 représentait le terminus d’un débat qui s'était prolongé sur trois ans; et que, à l’origine, l'affaire avait été présentée par quelques députés lors des premières Cortes du règne de Jean II, convoquées en 1482. Le secrétaire révèle ensuite une autre partie des discussions desdits conseils: Et en outre ils étaient d’avis que le roi devrait prendre des armoiries d'outre-mer à cause du titre [royal] de Guinée, et le roi décida qu’il ne porterait que le titre de seigneur de Guinée sans armoiries de Guinée ni d'outre-mer, et que cela ne se
ferait que s’il passait outre et prenait quelque autre lieu, parce qu’il serait alors plus honnête d’en prendre les armoiries avec le titre correspondant’.
Ce projet d’incorporation des armoiries correspondantes au «royaume» de Guinée démontre une tentative d'adapter la symbolique royale portugaise à l’expansion d’outremer. L'opération s’avéra toutefois difficile dans la mesure où il n'existait aucun emblème héraldique représentatif des nouveaux territoires sur lesquels s’étendait l’autorité des rois de Portugal (on désignait alors par Guinée l’ensemble de la côte occidentale africaine connue au-delà du royaume de Fès
ou Maroc), de même que le royaume de Guinée était plutôt une projection portugaise qu’une effective réalité politique locale. Il aurait donc fallu procéder à la
8 Ivi, pp. 257-258. 9 Ivi, p. 258.
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création d’armoiries identifiant ces conquêtes d’outremer. Ce qui fut effectivement fait, mais un peu plus tard et avec des objectifs fort différents, plutôt liés à la conversion des potentats locaux!°. Cependant, en 1485 le roi décida de ne pas créer ce genre d’héraldique et, par conséquent, de ne pas incorporer dans ses armoiries l'expression des domaines d’outremer. Le texte du mémorialiste nous permet de percevoir quelques bases pour cette décision: comme il n’existait ni armoiries ni titre royal de Guinée, il fallait attendre la conquête d’un royaume dont le titre et les armes pourraient alors être “honnêtement” incorporés au sein de l'expression titulaire et héraldique de la monarchie portugaise. L'auteur ne nous révèle pas quels auraient pu être ces autres territoires, mais il n’est point difficile de songer aux trois royaumes qui, à cette époque, hantaient les rêves de croisade et de chevalerie des rois de Portugal: celui de Fès, où se concentraient les efforts de guerre menés par la Couronne depuis Jean I et Alphonse V, et où Jean II, alors encore simple prince héritier, avait lui-même reçu son adoubement; celui de Jérusalem, dont la reconquête continuerait longtemps à constituer l'objectif par excellence des croisades; et celui de l’Inde, où se plagait le mythe de l’existence d’une chrétienté éloignée de l'Occident médiéval mais prête à se ranger à ses côtés pour combattre les ennemis de la foi, ainsi pris à rebours. Ces trois royaumes possédaient déjà des armoiries (réelles pour Jérusalem, imaginaires pour les deux autres) que le roi de Portugal aurait pu en tout honneur — et toute gloire — incorporer aux siennes. On comprend mieux, ainsi, les raisons qui purent pousser Jean II à ne pas
s’abaisser à créer et adopter ex mchrlo le titre et les armoiries de roi de Guinée. D'autant plus que, pour le cas portugais, les légendes explicatives des armoiries s’inséraient presque toutes dans le cadre idéologique de la Reconquête et se rattachaient aux principes d’appropriation et de christianisation des insignes des ennemis de la foi, cela aussi bien pour les armoiries royales que pour celles de la vieille noblesse!!.Il s’agissait, en résumé, de garder fidélité aux procédures
0 En effet, Jean II arma chevalier Bemoim, «prince noir» ramené du «royaume de Gelof» situé dans le golfe de Guinée, et lui attribua en cette occasion des armoiries; Ma-
nuel I, à son tour, envoya une lettre de concession d’armoiries au roi du Congo, converti sous le nom significatif d’Alphonse I. Cfr. M. DE LURDES Rosa, Ve/bos, novos e imutäveis
sagrados... Um olhar antropologico sobre formas «religiosas» de percepçäo e interpretaçäo da conquista africana (1415-1521), in «Lusitana Sacra», 18 (2006), pp. 19-36; et M.M. DE SEIxAS, As armas do rei do Congo, dans Os Descobrimentos e a Expansäo Portuguesa no Mundo,
Universidade Lusfada, Lisboa 1996, pp. 317-346. !! Cfr. M.M. pe Serxas;].A. PORTUGAL, À sombra dos principes. A herdldica dos Sousas
no mosteiro de Santa Maria da Vitoria da Batalba, in Da Investigaçäo à Comunicaçäo nos
Monumentos. A capela dos Sousas no Mosteiro da Batalha (Batalha 2012), sous la dir. de P. REDOL, S.A. Gomes, Municipio de Batalha, Batalha 2012, pp. 27-63.
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“honnêtes”, c’est-à-dire correspondant à des pratiques dûment établies par la tradition et par le code d'honneur, reconnues au sein d’un système de valeurs communes aux royaumes chrétiens d'Occident. On peut donc observer, une fois de plus, le poids que les dimensions religieuse et chevaleresque eurent sur la décision finale de Jean II à l’égard de la réforme de ses armoiries, dont le fondement relevait de ce qui était honnête, c’est-à-dire juste. Indépendamment des circonstances qui permettent de l’expliquer, la décision prise en 1485 marqua de façon indélébile le futur des armoiries royales portugaises. Celles-ci se dissocièrent d’une logique territoriale qu’elles auraient bien pu prendre, à l’instar de la plupart des monarchies européennes, dont les souverains conjuguaient dans le même écu les emblèmes de leurs diverses possessions. Plus qu’un ensemble de territoires placés sous l’autorité d’une dynastie, les armes de Portugal représentaient la Couronne, entité abstraite dotée de
continuité historique, catalyseur politique et administratif de la communauté, institution et lieu où se tissaient les liens fondamentaux qui unissaient cette même communauté autour de la figure du roi. Ces liens, il faut bien le dire, correspondaient à une conscience collective d'appartenance à cette même com-
munauté, où tous les sujets du roi, certes de façon inégale, s’inséraient. Dans ce sens, les armoiries de Portugal prirent de bonne heure un sens qui, débordant le champ dynastique, se rattacha simultanément aux notions de pays, de nation et d’État!?, Ce qui explique leur exceptionnelle immuabilité: hormis les variations de style et d’ornements extérieurs, elles demeurèrent jusqu’au début du XIX siècle, puis, après l’intervalle de 1816-1826 (correspondant à l’éphémère création du Royaume-Uni de Portugal, Brésil et Algarves), elles furent reprises jusqu’à nos jours, ayant été maintenues même par le régime républicain. Quelles applications eut la réforme de 1485? Pour Jean II, la décision — qui avait été si longue à prendre — devait être suivie de mesures concrètes. Les armoiries royales réformées possédaient certes une existence abstraite (leur blason) mais, pour être utilisées comme instrument d’autoreprésentation et de communication efficace, elles devaient être activées sous forme de manifesta-
tions matérielles. Quelques exemples nous aideront à comprendre comment ce passage de l’abstrait au concret fonctionna sous l’emprise de Jean II. Une des premières applications des nouvelles armoiries dut concerner le sceau royal. Le sceau antérieur, avec les armes encore chargées de la croix de l’ordre
2 Cfr. M.M. DE SEIXAS, Dinastia, instituiçäo, territério: a simbolica estatal portuguesa e as armas do Reino Unido de Portugal, Brasil e Algarves, in A Guerra Peninsular. Perspectivas Multidisciplinares, Fundaçäo Calouste Gulbenkian, Lisboa 2008, pp. 611-643. Pour établir une comparaison avec le reste de l’Europe, voir la synthèse de M. PASTOUREAU, L'Etat et son image emblématique, in Ib., Figures et couleurs. Etudes sur la symbolique et la sensibilité médiévales, Léopard d’or, Paris 1986, pp. 61-70.
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d'Avis, dut être corrigé sur le champ. Citons un des exemplaires plus connus par son apposition sur un document fondamental: celui, de plomb, qui authentifie le traité de division du monde signé avec les Rois Catholiques à Tordesillas!. Le sceau de Jean II est sobre. Au centre, l’écu aux armoiries réformées est simplement surmonté d’une couronne royale ouverte; autour, la légende identifie le roi, désigné par son nom suivi du titre défini en 1485: roi de Portugal et des Algarves d’en-deçà et d’au-delà la mer, seigneur de Guinée. Remarquons que la conjugaison écu-couronne fournissait l’image même du titre royal, dans la mesure où la couronne représentait de façon générique la dignité royale, alors que l’écu précisait que celle-ci s’appliquait au Portugal (et à ses conquêtes). Dans ce sens, l’ensemble écu-couronne formait la transposition visuelle du titre de roi de Portugal; mais il constituait aussi une sorte de portrait abstrait du roi, corres-
pondant donc à l’idée de pérennité de l'institution royale: «l’adjonction d’une couronne ou d’un heaume aux représentations d’écus en fait véritablement une personnification allégorique de leur détenteur»!*, Dans sa simplicité soignée, le sceau se révélait un objet fonctionnel au service de l’image du roi. Mais la réforme de 1485, rappelons-le, se liait à la volonté de Jean II de frapper monnaie. Ce désir se justifiait d’autant plus que le ius monetae était une attribution typique du pouvoir souverain, notamment au Portugal, où ce droit avait depuis toujours été exercé exclusivement par le roi. Jean II, voulant mar-
quer symboliquement son avènement, émit alors trois monnaies d’or: l’espadim (rapière), le cruzado (croisé) et le justo (juste), qui portaient les armoiries royales selon le modèle défini en 1485, répétant donc l’ensemble de l’image gravée sur le sceau royal. À propos de la figuration des armoiries royales sur ces monnaies, Alvaro Lopes de Chaves transcrit une lettre adressée à ce sujet par Jean II à un certain Vasco Gonçalves, monnayeur, par laquelle le roi lui ordonne que: Les matrices devront être de cette manière que vous verrez ci-jointe, à savoir, la
croix Ôtée, de façon à ce que les quinois demeurent avec la bordure et sans croix, et les châteaux disposés symétriquement sans être ni plus ni moins nombreux que ceux qui accompagnent ladite bordure!.
5 O Testamento de Adäo, Arquivos Nacionais/Torre do Tombo, Lisboa 1994, p. 249.
4 L. HABLOT, Emblématique et discours allégorique à la fin du Moyen Age, in L'Allé-
gorie dans l’art au Moyen Âge: formes et fonctions, héritages, créations, mutations, actes du
colloque (Paris 2010), sous la dir. de C. HECK, Brepols, Tournhout 2011, pp. 307-320: 307. 5 MM. DE SEIxAS, As armas e a empresa do rei D. Joào II. Subsidios para o estudo da berdldica e da emblemdtica nas artes decorativas portuguesas, in As Artes Decorativas e a Expansäo Portuguesa. Imagindrio e Viagem, actas do céloquio (Lisboa 2008), coord. de LM. GopinHo MENDONGA, A.P. REBELO Correa, Centro Cientifico e Cultural de Macau,
Lisboa 2010, pp. 46-82: 79. 16 CHAVES, Livro de Apontamentos cit., p. 87.
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On peut en déduire l’attention que le souverain porta directement à la configuration de cette émission monétaire: la lettre était accompagnée d’un modèle que le graveur devait suivre de près. Notons au passage, encore une fois, l’idée de correction héraldique sous-jacente: l’artisan doit transposer sur la monnaie, en toute fidélité, l’image définie par le roi. Il s’agit, en quelque sort, d’un étalon. Ayant connaissance du goût de Jean II pour toutes les questions attachées au dessin technique (surtout dans ses applications militaires et urbanistiques!’), on ne doit pas exclure l'hypothèse d’une intervention directe du monarque dans la définition graphique transmise au monnayeur. Quoiqu'il en soit, la préoccupation de Jean II se justifiait, dans la mesure où, par la voie des monnaies émises
depuis 1485, le message de l’héraldique royale renouvelée trouvait un #7edium d’une diffusion sans pareil, à la portée de milliers d’observateurs/utilisateurs aussi bien à l’intérieur qu’à l’extérieur des frontières du royaume. Ces monnaies furent donc des instruments privilégiés de propagande de la Couronne. Mais elles contenaient aussi d’autres images, porteuses d’un message plus personnel. L’espadim reprenait une typologie créée par Alphonse V, liée à la légende dite de l’épée (ou de la tour et l'épée): il existait dans la ville de Fès une haute tour au sommet de laquelle était fichée une épée que personne ne réussissait à retirer de la pierre; le jour viendrait où un roi chrétien atteindrait cette tour et parviendrait à dégainer l’épée: ce roi conquerrait alors l’ensemble du royaume, qu’il convertirait à la foi chrétienne, et partirait è.la conquête de la Terre Sainte. Si cette légende assume distinctement sa filiation arthurienne, elle n’en demeure pas moins pareillement ancrée sur le mythe fondateur de la monarchie portugaise, c’est-à-dire le miracle d’Ourique, selon lequel le Christ aurait attribué au fondateur du royaume et à ses successeurs la mission de reconquérir les territoires détenus par les musulmans. Nous avons déjà observé comment la dynastie d’Avis prolongea ce principe outremer: elle maintint ainsi une cohérence
téléologique qui fournit la base pour une interprétation globale de l’histoire du royaume, telle qu’elle apparait de façon explicite dans le discours d’allégeance que Jean II envoya au pape Innocent VIII en cette même année 1485!°. Le
choix de reproduire l’espadim d’Alphonse V révélait ainsi, chez Jean II, la volonté d’affirmer la continuité de l’épopée entreprise par son père, par la maison d’Avis, par la dynastie royale depuis ses débuts.
7 PA. Cip, A Torre de S. Sebastiäo de Caparica e a arquitectura militar do tempo de D. Jodo II, Colibri, Lisboa 2008, pp. 46-70. 8 MM. DE SEIXAS, Urz enigma arturiano-ouriquense: o espadim de D. Afonso V, in Actas do Encontro sobre o Enigma, Fundaçäo das Casas de Fronteira e Alorna, Lisboa 1999, pp. 1-7. ! Oraçäo de Obediéncia ao Sumo Pontifice Inocéncio VIII dita por Vasco Fernandes de Lucena em 1485, ed. M. DE ALBUQUERQUE, INAPA, Lisboa 1988.
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Les deux autres monnaies d’or viennent compléter ce message. Sur le cruzado l'accent est mis sur l’idéal de croisade, représenté par la croix simple. Un parallélisme évident s’établit entre celle-ci et les armoiries royales, qui, selon une légende, auraient été données par Christ lui-même à Alphonse I lors de sa veillée d'armes précédant la bataille d’Ourique: les cinq écussons posés en croix rappelleraient les cinq plaies du Sauveur, alors que les trente besants d’argent feraient référence aux deniers de la Rédemption?°. Cette interprétation est explicitement présente dans le discours tenu par Vasco Fernandes de Lucena devant le pape Innocent VIII. Glosant le thème numérologique, Lucena exclame: Sur les champs d’Ourique [...] il combattit victorieusement contre cinq rois très puissants; en cette bataille, [...] par cinq fois les lances des Barbares brisèrent son écu [...]. En conséquence de cette singulière et glorieuse victoire, il distingua les insignes et armes des rois de Portugal avec cinq écus, chacun d’eux semé de cinq deniers [...]. Or, ces écus posés en très-sainte croix et les cinq deniers posés eux aussi à la façon d’une croix, que pourraient-ils signifier sinon les trente monnaies d’argent, prix du sang de Jésus Christ, pour lesquelles l’horrible Judas le livra aux Juifs??!
Et, sur cette base, l’orateur fournit un aperçu de l’histoire du Portugal où les personnages et les faits s’inscrivent tous dans la même perspective téléologique: Alphonse IV et la bataille de Salado; Jean I et la prise de Ceuta; les conquêtes marocaines d’Alphonse V; les voyages atlantiques promus par l’infant Henri; et, finalement, la continuité de tout cet effort par Jean II, par rapport auquel il conclut avec le psaume «Et il dominera de mer jusque mer, et depuis le fleuve jusqu'aux confins du tour de la terre». Finalement, le justo constitue une monnaie innovatrice pour l’iconographie royale portugaise, car le revers présente la figure du roi assis sur un tròne surmonté d’une frise fleurdelisée, couronné, revétu d’armure et manteau, te-
nant dans sa main gauche un sceptre et dans la droite une épée. Autour du roi s'inscrit la légende «+ IVSTVS.VT.PALMA.FLOREBIT», sur laquelle nous aurons l’occasion de revenir. Ce portrait stylisé correspond évidemment à un modèle commun aux autres souverains chrétiens de l’époque: il rompt pourtant avec la tradition portugaise, qui insistait sur la représentation du roi comme chevalier (ou du moins comme guerrier). Là aussi, l'accent est donc mis sur la nature de la fonction royale qui, sans abandonner son caractère militaire, est investie 2 La bibliographie sur les origines et la mythologie des armes de Portugal est vaste; ctr. M.M. pE Serxas, Bibliografia de heréldica medieval portuguesa, in Estudos de Heräldica Medieval, coord. de M. DE LURDES Rosa, M. METELO DE SEIXAS, Instituto de Estudos Medievais/
Centro Lusfada de Estudos Genealégicos e Heräldicos, Lisboa 2012, pp. 557-562. 2! Oraçäo de Obediéncia cit., p. 20.
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d’une mission supérieure, liée à un autre genre de dignité et à l’idée de pouvoir souverain et de justice. Les trois monnaies frappées par Jean II en 1485 traduisent tout un pro-
gramme de gouvernement aussi bien qu’un effort suivi de propagande autour de quelques thèmes majeurs: la justice comme première et suprême fonction royale; la continuité de la conquête marocaine et de l'expansion au long de la côte africaine; l’idéal de croisade. Si le sceau et les monnaies fournissaient des
media particulièrement importants pour la diffusion de la nouvelle héraldique royale, nous n’en devons par pour autant penser que celle-ci se restreignait à ce genre de support matériel. Sans prétendre dresser un inventaire ou une typologie exhaustive, examinons quelques autres cas particulièrement significatifs pour observer sous quelles formes le message héraldique du roi fut transmis. Commençons par l’enluminure qui ouvre le Livro dos Copos, cartulaire réalisé pour la réformation de l’ordre militaire de Santiago da Espada (tav. 28). Comme l’a démontré Adäo da Fonseca, ce document revêt une importance particulière dans l’histoire de la monarchie portugaise. Après les graves troubles que le royaume connut en 1484, Jean II voulut réunir autour de lui toutes les forces qui soutenaient la monarchie, à commencer par cet ordre militaire dont il avait été gouverneur??. Les ordres militaires jouaient un rôle considérable au sein de l'équilibre de la société portugaise. Tout au long du XV siècle, la Couronne travailla à profiter de leurs ressources, aussi bien à cause de leurs forteresses, qui permettaient d’assurer le contrôle militaire d’une partie du royaume, qu’en raison de leurs revenus substantiels, canalisés par les rois de Portugal comme investissement pour les conquêtes d’outremer et comme monnaie de récompense pour les services rendus à la Couronne. Or, l’enluminure du folio d'ouverture de ce cartulaire, instrument concret de réforme de l’ordre et de sa
soumission à l’autorité royale, exhibe le portrait du roi. Jean II est figuré debout, couronné, vêtu d’un large manteau, tenant dans la main droite une épée haute
recouverte de sa gaine (pouvoir immanent ou allusion discrète à la mainmise du roi sur l’ordre de Santiago da Espada, soit de l’épée); posé sur un socle devant lui, un écu à ses armoiries, qu’il tient de la main gauche, alors que le pommeau de l’épée s’appuie sur le chef du bouclier. L’écu, aux proportions exagérées par rapport au corps, couvre entièrement la moitié inférieure de celui-ci. C’est comme si l’écu formait un deuxième corps du roi: non pas son corps personnel, charnel et corruptible, mais son corps abstrait, mystique et immuable. Peut-être sommes-nous en présence d’une image destinée à transmettre visuellement la doctrine des deux corps du roi; et quelle meilleure manière de représenter celleci que par le portrait abstrait du roi superposé à son portrait figuratif?
2 L.A. DA FONSECA, D. Jodo II, Circulo de Leitores, Lisboa 2005, pp. 214-215.
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Mais les documents avaient une portée restreinte: comme instruments de communication, leur impact était limité par les circonstances de leur circulation, visibilité et conservation. En revanche, les pierres armoriées, elles, étaient
visibles par tous, surtout lorsqu'elles ornaient les façades des bâtiments; il va sans dire que leur conservation causait moins de soucis; et leur immobilité pouvait être compensée par leur multiplication. Aussi Jean II en fit-t-il tailler en profusion, même si beaucoup furent ensuite déplacées ou substituées. Où les plaça-t-il? Sur les constructions qui se rattachaient, d’une façon ou d’une autre, à l'exercice du pouvoir royal. Sur les palais royaux, bien entendu. Mais aussi sur tout genre de constructions militaires, particulièrement les châteaux-forts et les enceintes fortifiées. Deux cas se présentent comme exemplaires par leur rôle stratégique et leur projection symbolique. D’abord, le château de Saint-Sébastien de Caparica, première application du modèle de forteresse maritime développé par les Italiens au XV* siècle, puis exporté outremer par les Portugais mêmes; ce château, formant le point central de la défense navale de Lisbonne,
fut ensuite complété sur l’autre rive de l'embouchure du Tage par la tour de Saint-Vincent de Belém??. Ensuite, le château de Saint-Georges da Mina, que le roi fit ériger en plein golfe de Guinée comme base de la suprématie exclusive de la Couronne sur la côte occidentale africaine. Plus en général, Jean II,
souvent en relations difficiles avec les Rois Catholiques, promut de nombreuses constructions et réparations de forteresses au long de la frontière du royaume, parsemant celles-ci de pierres aux armoiries royales: pour définir visuellement l'autorité suprême exercée sur ces constructions”, mais aussi pour prendre
possession, en quelque sorte, de l’espace environnant. Plus qu’une ligne imaginaire, difficile à tracer lorsqu'il n’y avait pas de repères naturels évidents, et vaine lorsque ceux-ci existaient, la frontière s’exprimait aux yeux de tous par la
3 Cip, A Torre de S. Sebastiao cit., pp. 159-178. 2 Le château fut entièrement bâti au Portugal, puis transporté par navire pierre par pierre et rebâti sur son emplacement définitif. Œuvre grandiose, le château assura son objectif de gardien de l'exclusivité de la navigation et implantation portugaise le long des littoraux du golfe de Guinée. Diogo de Azambuja, nommé responsable pour la construction et le gouvernement du château, reçut en récompense une augmentation d’armes, écartelant les armoiries familiales avec un château; cfr. M.M. DE SEixAS, J.B. GALVAO-TELLES, Herdldica no concelho de Fronteira, Universidade Lusfada, Lisboa 2002, pp. 189-209. % Ainsi, lorsqu’un alcaide (gouverneur) plagait ses armoiries sur le donjon ou l’entrée d’un château, il prenait soin de les surmonter toujours de celles du roi; sur les enceintes fortifiées, en particulier sur les portes, les communes en faisaient de même, cfr. M.M. DE
Serxas, J.B. GALVAO-TELLES, A pedra de armas do pago dos alcaides-mores de Obidos: uma
membria berdldica, in Actas do Il Congresso Internacional Casa Nobre — Un patrimonio para o futuro (Arcos de Valdevez 2008), Câmara Municipal de Arcos de Valdevez, Arcos de Valdevez 2011, pp. 125-174.
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* présence, d’une part et d’autre, de manifestations lithiques de souveraineté, à l’image de bornages armoriés. Cette propriété de l’héraldique comme instrument d’appropriation de l’espace est encore plus évidente dans le cas des padrôes, ces colonnes de pierre transportées dans la cale des navires pour être ensuite dressées sur les points stratégiques des côtes découvertes par les navigateurs au service de la Couronne. Parfois garnies d’une croix à leur sommet, ces colonnes présentaient une sorte de chapiteau carré sur lequel s’inscrivaient les armoiries royales, dans la formule de l’écu couronné. Leur érection équivalait à un acte de prise de possession du nouveau territoire au nom du roi. De même, leur présence sur toute sorte de points stratégiques (hauteurs d’îles, embouchures de fleuves, baies ou rades importantes etc.) permettait d’y définir visuellement, aux yeux de tout observateur, l'exercice de la souveraineté portugaise. Cette fonction d’appropriation de l’espace s’exerçait aussi de forme abstraite: sur les cartes réalisées par les soins du roi de Portugal (qui étaient elles mêmes des instruments de navigation et de contrôle des territoires découverts), les territoires placés sous son autorité nominale étaient ornés de drapeaux aux insignes portugaises, gé-
néralement sous la forme simplifiée des guinois. Ainsi se construisait, sur ces instruments de production et d’accumulation du savoir, l’image graphique d’un empire à l’étendue chaque fois plus vaste. Notons, finalement, un curieux cas extrême: en 1494, le traité de Tordesillas prévoyait que la ligne de démarcation entre les sphères d’influence des Couronnes portugaise et castillane serait effectivement signalée, de pôle à pôle, au moyen de «tours et signaux» qui devraient porter les armoiries respectives; inutile de préciser que cette mesure ne put être accomplie?f, On trouvait aussi des pierres armoriées sur une série d’édifices civils, comme ceux qui étaient liés à l’administration locale: sur les hôtels de ville ou mairies (paços do concelho), la présence des armes de Portugal rappelait la soumission politique des municipalités à l'autorité souveraine. C’est pourquoi, d’ailleurs, la position relative des armoiries royales et municipales s’envisageait toujours de façon à signaler la prééminence des premières?. Il en allait de même pour la plupart des constructions d'utilité publique — ponts, fontaines, aqueducs, chaussées, enceintes, dépôts d’armements, greniers etc. — et pour les espaces ou objets qui signalaient l’entrée dans l’espace communal - soit sur les portes de la
O p. 244.
Testamento de Adäo, Arquivos Nacionais de Lisboa/Torre do Tombo, Lisboa 1994,
2? Cette pratique se maintint jusqu’à la fin de l'Ancien Régime et même, parfois, jusqu’à
la fin de la monarchie en 1910; cfr. M.M. DE Serxas, À berdldica em Portugal no século XIX:
sob o signo da renovaçäo, in «Anälise Social», 47 (2012), 202, pp. 56-91.
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ville, soit sur des bornes, Une fois de plus, l’héraldique se trouvait donc au service de la définition du territoire et de l'appropriation symbolique de l’espace. Les lieux de justice se prêtaient eux aussi à la présence privilégiée des armoiries du Portugal, ce qui semble d’autant plus naturel que la justice était placée au cœur même de la fonction royale. On peut le voir sur la façade de la prison d'Évora?, et, plus encore, sur les nombreux piloris qui signalaient les lieux consacrés à l’application de la justice; là aussi, la présence des armes royales se révélait obligatoire, signifiant que le pouvoir judiciaire suprême appartenait toujours au roi et que toute justice était rendue en son nom. Au cas où
le monarque déléguait le pouvoir de rendre justice, le pilori ajoutait aux armes royales les insignes de la personne ou institution qui bénéficiait de cette grâce: ordres militaires, municipalités, grands seigneurs ecclésiastiques ou laïcs, même
d’autres membres de la dynastie (fût-ce la reine!), tous se plagaient sous l’égide visuelle de la Couronne. Ainsi, sur le pilori d’Obidos, ville dont la juridiction appartenait à Léonor épouse de Jean II, une couronne encercle le haut de la colonne et surmonte d’un côté les armes de Portugal et de l’autre la devise de la reine: façon subtile de signaler que, même si le couple était lié par mariage et partageait la dignité royale, le pouvoir judiciaire appartenait génériquement et en permanence au roi (les armoiries étant l'emblème stabilisé de la monarchie), et dans ce cas spécifique et à titre temporaire à cette reine-là (la devise étant l'emblème personnel de Léonor)*. La justice est à l’époque autant un concept qu’une pratique. Elle désignait toute activité par laquelle le roi veillait sur son peuple, assurant le bien commun et ce que nous pourrions désigner de bien-être et équilibre social. Ainsi, une des créations majeures du règne de Jean II fut la construction de l’hôpital de Tous-lesSaints à Lisbonne, œuvre qui exprimait la munificence royale portée au plus haut degré. La longue façade de cet immense bâtiment, qui occupait le côté le plus grand du Rossio, la place centrale de la ville, était décorée d’une pierre armoriée semblable à celle de la prison d’Évora?!. Les préoccupations utilitaires et symboliques se joignaient ici à la volonté de créer un urbanisme digne de la principale
28 À Lisbonne, par exemple, Jean II ordonna de placer des bornes près de l’embouchure du fleuve, de façon à signaler les limites où s’exergait l’autorité municipale; il ne s’agissait pas seulement d’une forme d’affirmation politique et symbolique, mais aussi d’une mesure fiscale; voir Cip, A Torre de S. Sebastiäo cit., pp. 174-175.
2 J.PA. Lima, Armas de Portugal. Origem. Evoluçao. Significado, Ediçôes INAPA, Lis-
boa 1998, p. 91.
30 M.M. pe SErxas, J.B. GaLvAo-TELLES, As insignias do pelourinho de Obidos. Subsidios para a compreensäo da emblémätica da rainba D. Leonor, in Casa Perfeitissima. 500 Anos da
fundaçäo do Monasteiro da Madre de Deus, coord. de A. VARELA, Museu Nacional do Azulejo, Lisboa 2009, pp. 23-38.
3! Lima, Arras de Portugal cit., pp. 91-152.
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ville du royaume, siège habituel de la cour et haut lieu permanent de la plupart des institutions de la Couronne. Dans ce genre d’action, le roi était d’ailleurs secondé par sa femme. La reine Léonor fonda elle aussi un hôpital à Caldas da Rainha et fut la créatrice des Miséricordes, qui depuis le XVI: et jusqu’au XIX° siècle devinrent les institutions d’entre-aide sociale les plus répandues au Portugal. Finalement, les armes royales ne pouvaient manquer d’être présentes dans les espaces sacrés. Dès le XIII: siècle, les armoiries prirent une place spéciale dans les espaces ecclésiaux, spécialement dans les chapelles funéraires, selon un phénomène complexe que Laurent Hablot a désigné sous le terme d’«héraldisation de l’espace sacré»??. Cette réalité était souvent complétée en contrepoint par la création de légendes héraldiques qui venaient, à leur tour, promouvoir une sacralisation des armoiries. L'écu armorié du combattant était lui même passé de simple objet militaire à une réalité plus abstraite de représentation du pouvoir et de dénominateur commun parmi ceux qui prétendaient partager un
certain code spirituel et comportemental?#. Pour les armes de Portugal, leur connotation sacrée était si bien établie que leur présence dans l’espace ecclésial allait de soi: la nouvelle dynastie y excella même, comme à la nécropole royale du monastère de Batalha, où l’héraldique se retrouve partout. Jean II et son épouse ne manquèrent pas de faire poser leurs armoiries sur les églises qu'ils créèrent ou réformèrent, surtout celles qui se rattachaient directement aux lieux du pouvoir, comme Saint-François d’Évora près du palais royal de cette ville, ou à la munificence des souverains, comme Notre-Dame-du-Peuple liée à l'hôpital de Caldas da Rainha. Celle-ci présente, selon Custédio Vieira da Silva, la première manifestation d’une héraldique royale qui n’hésite pas à occuper la pierre de touche de l’arc triomphal, pénétrant ainsi au sein méme de l’espace sacré. Poussant aussi loin que possible l’interpénétration des deux mondes, l’héraldique royale cherche en quelque sorte à se fondre dans le message religieux: l’image du Calvaire jaillissant des armoiries royales portugaises, dominant toute la nef du haut de l’arc triomphal, atteint un paroxysme assez audacieux. Plus que nulle part ailleurs, les armes de Portugal placées en ces lieux-clefs fournissent au pouvoir royal un instrument visuel de sacralisation.
32 L. HABLOT, L'héraldisation du sacré aux XII-XIII: siècles. Une mise en scène de la religiosité chevaleresque?, in Chevalerie et christianisme aux XIE et XIII: siècles, actes du colloque (Poitiers 2010), sous la dir. de M. AURELL, C. GIRBEA, Presses universitaires de Rennes, Rennes 2011, pp. 211-233. ? L. HABLOT, Entre pratique militaire et symbolique du pouvoir, l’écu armorié au XII
siècle, in Estudos de Herdldica Medieval cit., pp. 143-165. 2 J.C.V. DA SILVA, A importäncia da Genealogia e da Herdldica na representaçäo artistica manuelina, in O Fascinio do Fim. Viagens pelo final da Idade Média, Livros Horizonte,
Lisboa 1997, pp. 131-151: 138.
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La doctrine des deux corps du roi s’en trouve renforcée par une dimension mystique qui n’était pas forcément la sienne à l’origine. Mais si les armoiries royales, chargées d’une dimension mystique, pouvaient facilement exprimer l'enjeu eschatologique de la monarchie et la doctrine des deux corps du roi, elles avaient toutefois quelque difficulté à transmettre un discours allégorique et politique plus élaboré ou personnel. Ce rôle complémentaire fut joué par un autre genre d’emblématique qui, dès la fin du XIV: siècle, fut mis au service de l’autoreprésentation et de la propagande princière: les devises. Correspondant à «une nouvelle mode emblématique en parfaite syntonie avec la culture artistique, littéraire, religieuse, politique et courtoise de ses utilisateurs»”, les devises formèrent un système emblématique parallèle à l’héraldique, dont elles se détachèrent, entre autre, par leur souplesse, leur plasticité plus diversifiée et attrayante, leur rattachement potentiellement plus aisé et intensif envers d’autres codes culturels. Elles excellèrent surtout comme expression métaphorique des vertus du prince et d’allégorie de son gouvernement. La devise de Jean IT, quant à elle, eut à subir sa notoriété posthume: elle fut associée à la projection historiographique de ce monarque, présenté comme prince exemplaire de la Renaissance, fondateur de la monarchie portugaise moderne ou même de l’État centralisé, en opposition avec les principes religieux et politiques d’un monde moyenâgeux qui s’éteignait à la fin du XV siècle. Un “prince parfait”, donc, dans le sens qu’il aurait, en véritable précurseur ou visionnaire, fait basculer le Portugal dans un nouvel âge. Les limites de cette projection historiographique ont déjà été nettement signalées’, l’interprétation de la devise de ce prince, en revanche, s’est maintenue généralement fidèle à cette même image historiographique traditionnelle’. Depuis le XVIII‘ siècle, en effet, l'interprétation de la devise royale s’était ancrée, avec quelques variations, sur la figure du pélican et sur le mot «Pela lei e pela grei» (par la loi et par le peuple): on avait vite fait d’associer l’une et l’autre à une métaphore du roi prêt à se sacrifier pour son peuple, au nom du principe suprême de la loi s’élevant au-dessus de tous les particularismes. D'un point de vue heuristique, il suffirait de consulter les sources iconographiques disponibles pour constater que l’emblématique de Jean II fut beaucoup plus complexe, alors que les sources textuelles fournissent elles aussi d’intéressants
renseignements
complémentaires.
Peut-étre est-on parti d’un
préjugé qui a égaré la recherche depuis le début: celui de l’existence uniforme 33 36 57 devise
HABLOT, Emblématique et discours allégorique cit., p. 308. | FONSECA, D. Jodo II cit., pp. 8-19. Cfr. SEIXAS, As armas cit., pp. 46-82 même pour une bibliographie complète sur la de Jean II.
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et univoque de la devise du roi. Or les devises sont par définition changeantes et polysémiques. Aussi n’y a-t-il point une devise de Jean II mais un ensemble d’emblèmes variés, plus ou moins constants et interchangeables, utilisés par le roi au cours de sa vie (et même appliqués, après sa mort, par sa veuve). Au même titre que les armoiries, voire à plus forte raison, les devises doivent donc être examinées non seulement comme des créations abstraites, mais aussi en
tant que manifestations concrètes, dont le sens peut changer selon les circonstances de leur exhibition. D’où les limites d’une analyse symbolique écartée du contexte culturel dans lequel ces emblèmes sont produits, exposés, observés, interprétés, reproduits. Les sources textuelles sur la devise de Jean II n’abondent guère. Les chroniqueurs royaux n’en fournissent que de brefs commentaires. Le plus circonstancié provient de la plume de Rui de Pina, qui nous témoigne que: Le Roi étant encore Prince prit pour devise, en honneur de sa femme la Princesse,
un Pélican, oiseau répandant le sang de sa poitrine pour entretenir et élever ses fils, qu’il garde dans son nid. Et elle lui plut tellement qu’il n’en changea point après être devenu Roi; et il prit avec elle un mot correspondant à la pieuse mort du Pélican qui disait: Par ta loi et par ton peuple”.
Le chroniqueur nous apprend donc que la devise fut adoptée par Jean IT avant son avènement et en honneur de sa femme. Cette dernière information a souvent été dédaignée par les historiens, qui y ont vu une mièvrerie de courtisan. Retenons que Pina rapproche le sens de la devise de son caractère christologique, sans vraiment le nommer, lorsqu'il parle de la «pieuse mort» du pélican, et que Jean II fut très attaché à sa devise, au point de ne pas vouloir la changer après son avènement. La datation de Pina est confirmée par Damiao de Gäis, qui signale l’existence d’un roi d’armes Pélican, au service de Jean II lorsqu'il était prince héritier, envoyé en 1476 auprès du duc François II de Bretagne”. Un peu plus loin, quand il décrit les célèbres fêtes données lors du mariage du prince héritier Alphonse avec l’infante Isabel d'Aragon, Pina donne un aperçu de la décoration de la grande place de Lisbonne, où avaient eu lieu les joutes: Et lundi premier jour de l’octave on mit une toile sur la place, qui était couverte par-dessus de fines étoffes, sur de grands màts, et avec une infinitude de drapeaux
royaux. Et la toile était couverte de fines étoffes vertes et violettes, qui étaient les
38 PINA, Crônicas cit., p. 933.
? JPA. Lima, Oficiais de Armas em Portugal nos Séculos XIV e XV, in Genealogica & Heraldica. Actas do 17.° Congresso Internacional das Ciéncias Genealôgica e Herdldica (Lisboa 1986), Instituto Português de Heräldica, Lisboa 1989, pp. 309-344: 338.
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couleurs du roi, toute remplie de part et d’autre de Pélicans dorés, brodés sur la toile, ce qui semblait fort bien“.
Nous apprenons donc les couleurs de la devise de Jean II: sur fond vert et violet (sa livrée), un pélican d’or. Notons au passage l’usage des tissus comme instruments d’expression de la devise et des armoiries royales, avec un impact visuel basé certes sur leur chromatisme mais aussi sur leur répétition et leur échelle. Quant à Resende, plus vague, il fournit seulement une indication générique: Et [le roi] ordonna maintes choses de grand profit, et bon gouvernement de ses Royaumes, par où il montrait le grand amour qu’il avait pour ses peuples, bien conforme au Pélican, qu’il avait pour devise“!.
Ce texte a été glosé dans le but de démontrer un lien de cause à effet entre l'adoption du pélican et l'expression du lien d'amour entre le roi et son peuple, et donc comme allégorie de son bon gouvernement. Mais la formulation de Resende est tout juste comparative: il nous dit simplement que l’amour que le roi portait à ses sujets ressemblait à la devise du pélican; il faut comprendre, avec prudence, que le chroniqueur rapproche le sentiment du roi envers son peuple et le symbolisme du pélican, sans déclarer que l’un avait été adopté comme expression de l’autre. Placée ainsi sur une durée d’une vingtaine d’années (entre 1476, date de la notice sur le roi d’armes, et 1495, date de la mort de Jean II), associée à sa
femme, dotée de couleurs, largement utilisée lors des plus importantes fétes du règne, la devise du roi maintient une liaison repérable mais peu explicite envers une dimension christologique. L'analyse des sources patrimoniales nous fournit d’importants éléments, absents des sources textuelles. Examinons les deux exemplaires les plus éloignés l’un de l’autre du point de vue chronologique. L’enluminure du Livro das Cortes (fig. 1) expose le pélican représenté tout seul, ce qui confirme ce que Pina affirmait: la devise doit être ici figurée sous sa forme originelle, la plus simple, étant constituée seulement par cet oiseau. Remarquons que l’artiste a voulu souligner l’importance du sang; tout le dessin est colorié en grisaille et en or, sauf les gouttes de sang, d’un rouge vif. Connaissant l’importance de ce document comme expression du pacte que Jean II voulut établir avec les représentants du peuple, il est impossible de ne pas lui attribuer une nette valeur allégorique de la relation que le roi prétend établir avec ses sujets. Plusieurs exemplaires postérieurs reprennent cette typologie réduite au simple pélican, comme les pierres armoriées de l’église de Saint-François
40 RESENDE, Crônica de D. Jodo cit., p. 177. AIDE. XXI.
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d’Évora ou du monastère de la Mère de Dieu, à Lisbonne.
Sur l’enlumi-
nure de la chronique écrite par Rui de Pina, le pélican est effectivement
accompagné par le mot «Por Tva LEI E Por Tva GRE», tel qu'il est décrit par ce même chroniqueur“. Jusqu'ici, tout semble confirmer les paroles des chroniqueurs. À l’autre extrémité chronologique, toutefois, le médaillon de Girolamo
della Robbia commandé par la reineveuve Léonor pour l’église de la Mère Fig. 2 GIROLAMO (ou ANDREA) DELLA ROBBIA, médaillon avec la devise de Jean II. Libsoa, Museu
Nacional
de Arte Antiga,
inv. 682 Esc (de l’église de Madre de Deus).
de Dieu, à Lisbonne
(fig. 2)*, nous
montre le même thème du pélican, mais avec d’autres éléments: le nid est posé sur un palmier fleuri et fruité auquel est attachée une phylactère portant la légende «IVSTVS VT PALMA FLOREBIT ET». Deux nouveaux éléments se présentent donc ici: le palmier et cet autre mot, différent de celui qui est attribué par le chroniqueur. Quelle origine peuvent-ils avoir? Sur l’enluminure du Livro dos Copos (tav. 28), on remarquera que Jean II
est placé sous un palmier, dont le tronc est formé par l’épée tenue par le roi; les feuilles et les fruits du palmier forment une espèce de dais qui surplombe la lettre O, dans laquelle est inscrit le nom de Dieu de l’invocation initiale du document («em nome de deos»). Le même végétal se retrouve aussi sur l’anneau sigillaire du roi (fig. 3): celui-ci est représenté vêtu d’une toge et couronné, tenant en sa main droite un soleil et en sa main gauche un rameau de palme. Quant au Fig. 3 Anneau sigillaire de Jean II. Lisboa, Museu Nacional de Arte Antiga.
mot, on le retrouve sur l’une des monnaies émises en 1485, le justo: une légende
4° Il faut remarquer que cette enluminure ne date pas du règne deJean II, mais de celui de son successeur Manuel I. Par ailleurs, les couleurs du roi y sont mal représentées, ce qui a déjà été l’objet d’une explication; cfr. SEIxAS, As armas cit., p. 18. 4 Cfr. Stemmi robbiani in Italia e nel mondo. Per un catalogo araldico, storico e artistico, a cura di R. DIoNIGI, Edizioni Polistampa, Firenze 2014, p. 210.
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identique encadre l’image du roi en majesté, associant donc la dignité ou l'office royal à l’exercice suprême de la justice. En résumé, les sources patrimoniales nous révèlent que la devise de Jean II se composa de plusieurs éléments interchangeables: au thème nucléaire du pélican, il joignit deux mots («Por Tva LEI E Por TvA GREI» et «IVSTVS VT PALMA
FLOREBIT») et l’image du palmier. Cela nous fournit une image plus complexe de la devise royale, rattachée depuis 1485 à l’idée centrale de justice. Or, ces renseignements permettent de mieux encadrer l’ensemble de cette emblématique princière et de lui attribuer un sens plus complexe. Il s’agit de chercher à identifier, d’abord, les possibles sources contemporaines où on pourrait trouver une explication conjointe de cet ensemble d’emblèmes, pour essayer d’en dégager un sens collectif. Or, l’un des bestiaires les plus répandus, en circulation à l’époque, était De Avibus dont la première copie attestée au Portugal date de 1184 et sa première version en langue vernaculaire du XIV siècle, sous le titre de Livro das Aves (livre des oiseaux). Ce texte connut un succès considérable et surtout, et c’est bien là ce qui nous intéresse,
il s'agissait d’une source disponible et incomparable que les responsables pour les choix emblématiques du prince avaient à leur disposition. Le Livro das Aves consacre de longues gloses au palmier, partant de quatre citations bibliques: «Je multiplierai mes jours, comme le palmier», «Ta stature ressemble à celle du palmier», «Le juste fleurira comme le palmier» et «Je monterai sur le palmier
et j'en cueillerai les fruits». Ces gloses tracent un parallèle entre le palmier et le juste, qui par sa maintenance du droit chemin peut obtenir le royaume des cieux. Dans ce sens, «le palmier est le Christ, fruit du Salut» et «l’espoir du Salut est dans le bois de la croix [...] La palme orne la main du vainqueur, et le juste, procédant selon le bien, a dans sa main la palme de la victoire». Quant au pélican, la même source lui dédie une seule glose, autour du thème «Je suis devenu comme le pélican dans le désert»: l’auteur explique la dimension christologique du pélican, pris comme symbole eucharistique, puis il ajoute que, au sens moral, ce même oiseau représente le juste, «capable de créer un désert au sein de la cité, parce qu’il se conserve étranger au péché, dans la mesure où sa nature humaine le lui permet»**. Ainsi, le Livro das Aves nous fournit de façon évidente toutes les clés pour une compréhension intégrée des divers éléments de la devise de Jean IT. Il nous permet de comprendre les liens qui pouvaient alors être établis entre le pélican 44 Livro das Aves, ed. M.I. REBELO GONÇALVES, Ediçôes Colibri, Lisboa 1999, p. 32.
5 Ivi, pp. 85-87.
4 Ivi, p. 101. Cfr. R. CORDONNIER, B. VAN DEN ABEELE, Un palmier, sept fleurs et sept oiseaux. La Palma contemplationis et ses témoins illustrés, in «Reinardus», 23 (2010-201 1)
pp. 65-103.
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et le palmier comme symbole du chemin que le juste devait parcourir pour arriver au Christ. D'où le choix du mot «Por tva lei e por tva grei»: il ne peut y avoir de salut que par la loi du Christ et au sein de son peuple. La notion de justice, noyau irréductible ou essence même du pouvoir royal par délégation divine, est donc au centre de toute cette construction symbolique: aussi sur son anneau sigillaire même le roi porte-t-il la palme dans une main et le soleil de justice dans l’autre. Quant aux couleurs de la devise royale, nous ne connaissons pas de textes interprétatifs dont la circulation puisse étre prouvée au Portugal de cette époque. Cependant, il est possible d’établir une association intéressante avec un texte théorique qui connut un remarquable succès dans les milieux de cour du XV siècle: le célèbre Blason des Couleurs!?. Ce texte mentionne le vert et le violet (ou pourpre) à deux reprises. Ces couleurs regoivent d’abord une explication séparée: la première, associée aux arbres, aux feuilles et aux fruits, représente la jeunesse et la joie, alors que la deuxième symbolise directement le Christ en tant que Roi des cieux ou Roi des rois; l’auteur, toutefois, rajoute que la juxtaposition de ces deux couleurs signifie la «joie d'amour». Dans une autre partie du traité, l’auteur rapproche encore une fois ces deux couleurs, associant la première à l’amour de Dieu, et la seconde au juste hommage qui doit être prêté aux «pères spirituels, rois, princes, gouverneurs et hommes de justice»*. Ces interprétations s’encadrent parfaitement dans le sens proposé pour la devise de Jean IT: le vert s’associe au palmier et le violet au pélican; tous deux représentent la joie de l’amour du Christ. Notons au passage l’insistance sur la notion de la pourpre comme couleur de la royauté christique et, par extension, comme expression de l'hommage (on n’ose pas dire dévotion) dû aux rois qui cherchent à suivre le modèle du Roi des rois. Revenons toutefois à l’explication de la devise du pélican fournie par Rui de Pina, qui affirmait que Jean II l’avait adoptée en honneur de la reine Léonor. Celle-ci avait elle aussi une devise: un filet de pêche. Cet emblème a déjà été interprété comme symbole du Royaume des cieux”. Plusieurs manifestations monumentales du filet de pêche, liées à une dimension sacrée, viennent confirmer cette interprétation: outre les nombreuses pierres armoriées du monastère # T. HizTMANN, La paternité littéraire des hérauts d'armes et les textes héraldiques. Héraut Sicille et le Blason des couleurs en armes, in Estudos de Herdldica Medieval cit., pp. 59-83. 4 SiciLLE, I/ Blasone dei colori. Il simbolismo del colore nella cavalleria medievale, a
cura di M. DE Papi, Il cerchio, Rimini 2000, pp. 36-38. Calvi pal
°° H. DE AVELAR, L. FERROS, As Empresas dos Principes da Casa de Avis, in Os Descobri-
mentos Portugueses e a Europa do Renascimento, III, Presidência do Conselho de Ministros, Lisboa 1983, pp. 227-245.
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de Madre de Deus, on retrouve la devise de Léonor sur les anciens fonts baptismaux de ce même lieu, mais aussi sur son livre d’heures, où le filet de pêche est
figuré sur le drap qui orne son prie-Dieu, sur les dalmatiques données à l’église de Notre-Dame-du-Peuple - dont on comprendra mieux, à présent, l’invocation inusitée, directement liée au mot de la devise de Jean II -, ou sur le magnifique reliquaire ayant appartenu à la reine’! (tav. 29). On saisit alors toute la portée du filet de pêche, qui se rattache intimement à la devise du pélican et du palmier portée par le roi. Ensemble, elles forment une sorte de phrase emblématique: c’est seulement par limitation du Christ que le juste peut atteindre le Salut et accéder au Royaume des cieux”2. Cette interprétation est confirmée par les enluminures de la bulle de concession de privilèges au monastère de Madre de Deus: la vignette initiale, représentant le Christ au moment de sa résurrection, est accompagnée d’écus à la devise du filet de pêche”. On conclut que le chroniqueur savait bien ce qu'il disait lorsqu'il rapprochait les devises des deux époux: seulement, il fallait disposer d’une clé symbolique pour comprendre son allusion. La reine devait d’ailleurs apprécier particulièrement cet univers de correspondances symboliques, si caractéristique de son époque et de son milieu: elle commanda l’édition du Boosco Deleitoso, œuvre allégorique proche du courant de la devotio moderna, où «il est curieux d’observer comme les attributs de
justice et de gouvernement, dans le sens plus large de ces expressions, nous apparaissent associés à presque toutes les vertus». Cette complémentarité des devises du couple royal permet de comprendre la fréquence de leur représentation conjointe, surtout dans l’église de Madre de Deus, où la reine-veuve se cloîtra
pour chercher elle aussi son salut personnel. Ce fut pour cette même église que la reine commanda les superbes médaillons de Della Robbia qui, à l’origine, comprenaient la représentation des armoiries royales aussi bien que des devises du couple; le tabernacle lui-même présentait un pélican, simultanément image du Christ et de l’eucharistie, bien sûr, mais aussi répétition de l'emblème du roi, déjà présent sur la façade de l’église et les parois du cloître. L'image symbolique du roi se greffait ainsi sur le lieu de la transsubstantiation divine: quelle 51 L'ensemble des manifestations de la devise de la reine Léonor et leur signification ont été étudiées dans SEIXAS, GALVAO-TELLES, As insignias cit., pp. 23-38. 5 Une explication apocryphe a plus tard été greffée sur la devise de la reine Léonor, considérée comme une allusion à la mort tragique de son fils unique, le prince Alphonse.
Cette légende, imprégnée d’éléments pathétiques, connut un succès remarquable au XIX“ siècle; cfr. ibidem. : 3 VARELA, Casa Perfeitissima cit., pp. 288-291. 5 FS.A. DE AZEVEDO, Achegas para o estudo dos vestudrios simbélicos das virtudes no «Boosco Deleitoso». Seu presumivel parentesco com a heräldica quatrocentista portuguesa, in «Armas e Troféus», s. 2, 3 (1961), pp. 299-305: 301.
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meilleure facon d’exposer l’idée que le roi, en sa condition conjointe de corps charnel et corps mystique, se rapprochait du Christ, lui-même modèle suprême de telle dualité? L’ambiguîté du symbole partagé aidait sans doute à exprimer visuellement ce rapprochement audacieux, enraciné dans la théologie politique de l’époque, sans avoir à l’énoncer: la sacralisation du pouvoir royal atteignait son faîte. Cette idée se rapproche intimement de l'interprétation christologique des armoiries royales, courante à l’époque: données par Christ lors de la bataille d’Ourique, elles représentent la mission attribuée à la monarchie portugaise. Les devises de Jean II et Léonor, quant à elles, précisent le rôle du couple royal comme incarnation d’un pouvoir d’origine divine (rappelons que la reine, cousine germaine de son époux, appartient à une branche cadette de la dynastie d’Avis): c’est à eux qu’il appartient de promouvoir l’accomplissement de la prophétie divine, de donner corps au pacte scellé à Ourique. Le roi doit porter le Christ à ses sujets, afin de préparer la parousie qui transformera son peuple en peuple élu; ce messianisme royal fut alors commun à l’ensemble des monarchies occidentales, car «l'attribution au roi d’une mission salvatrice allait de pair avec la considération de la communauté de ses sujets comme un nouveau peuple élu à caractère biblique»”. D’où le choix du mot «Por tva lei e por tva grei», impliquant une dimension eschatologique de la mission royale. Cette idée-clef permet aussi de comprendre quelques commandes artistiques du couple. Le roi affichait une préférence prononcée pour le thème du Christ crucifié: Resende, lorsqu'il décrit la mort de Jean II, dit que celui-ci «ordonna de défaire la chambre et d’armer un autel avec la croix et un retable de Notre Seigneur Jésus Christ crucifié, et Notre-Dame et Saint Jean»; nous avons déjà vu comme cette même image était présente sur l’arc triomphal de l’église de Notre-Dame-du-Peuple, en liaison singulière avec les armes de Portugal. La reine, quant à elle, prisait le tableau dit «Vue de Jérusalem», qui était en fait une représentation de la Passion du Christ figurée dans la Ville sainte (avec la reine agenouillée en prière), c’est-à-dire une figuration de la Jérusalem céleste”. Mais ces peintures avaient une circulation limitée; par contre, le couple royal commanda l’édition du premier incunable à gravures imprimé au Portugal, le De Vita Christi de Ludolf de Saxe. Cet ouvrage est orné d’une image remarquable du Calvaire avec Marie et saint Jean: des mains du Christ coulent deux filets de sang que deux anges recueillent dans des calices; dans une vignette inférieure, le roi et la reine sont représentés agenouillés en adoration, accompagnés d’autres ? l'aube 56 77
A.Y. HARAN, Le lys et le globe. Messianisme politique et rêve impérial en France à des temps modernes, Editions Champ Vallon, Mayenne 2000, p. 15. RESENDE, Cronica de D. Jodo cit., p. 281. VARELA, Casa Perfeitissima cit., pp. 216-220.
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membres de la dynastie; puis, au long de l’incunable, d’autres gravures aux
devises du couple renforcent cette liaison entre texte sacré et image princière, établissant ainsi une nette émulation envers le Roi des rois. Le message christologique de la royauté est repris textuellement et visuellement par Pedro de Gracia Dei dans son traité d’héraldique Blason General de todas las insignias del Universo, dédié à Jean II et imprimé à Badajoz en 1489. Dans sa dédicace, l’auteur apostrophe le roi en termes significatifs: Sérénissime prince haut très-puissant césarien roi juste: par la grâce de Dieu Dom Jean le second. Vainqueur jamais vaincu: héritier en Occident des royaumes de Portugal et Algarves, et outremer seigneur de Guinée dans les terres de Lybie, gouverneur du trident de Neptune, découvreur de beaucoup d'îles et terres perdues [...], porte-étendard de notre religion sacrée [...] portant en croix cinq plaies prix de vie et données comme vêtement célestiel [...] roi des sept couronnes”.
Ce traité présente trois gravures des armoiries de Portugal, chacune avec un cimier différent: le dragon traditionnel; le pélican, devise du prince; et l'Agnus Dei (fig. 4). Sur cette dernière représentation, la couronne royale s’entrelace avec la couronne d’épines, fournissant une image éloquente de la dimension christologique de la royauté portugaise. Ce rapprochement entre couronne royale et couronne d’épines avait d’ailleurs été créé par saint Louis comme instrument de propagande de la royauté française, à la suite de l’acquisition qu’il fit de la relique de cette même couronne, pour laquelle il érigea la Sainte-Chapelle de Paris”. L'image de Gracia Dei va toutefois plus loin dans l’expression visuelle de cette symbiose entre royauté divine et humaine. De même, le reliquaire de la reine Léonor (tav. 29) condense le message christologique des devises et armoiries royales®®: en syntonie avec les références allégoriques du Bosco Deleitoso, le reliquaire s’érige comme une cité d’or et de pierreries, image de la Jérusalem céleste ornée de deux exemplaires de la devise du filet de pêche; au centre, la relique de l’épine est surmontée d’une couronne royale, puis d’un morceau de la Sainte-Croix, puis, au sommet, de l’écu parti aux doubles armoiries de Por-
tugal, insigne de l’union dynastique représentée par le couple Jean IT-Léonor. Car, en effet, la communion symbolique entre les devises de Jean II et Léonor, et de celles-ci avec les armoiries royales, ne doit pas être considérée comme une exception au sein de la dynastie d'Avis. Bien au contraire: depuis ses dé58 P De Gracia Det, Blason General y Nobleza del Universo, Unién de Bibliéfilos Extremefios, Badajoz 1993 (ed. or. Madrid 1882, d’après Badajoz 1489), p. 1.
59 C. MERCURI, Saint Louis et la couronne d'épines. Histoire d'une relique à la Sainte-Cha-
pelle, Ed. Riveneuve, Paris 2011; voir aussi le résumé Eap., Stat inter spinas lilium: /e lys de France et la couronne d’épines, in «Le Moyen Age», 110 (2004), 2, pp. 497-512. 60 VARELA, Casa Perfeitissima cit., pp. 245-248.
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buts, cette lignée prit soin de projeter une véritable image coordonnée, qui insistait sur son caractère providen-
tialiste, son exemplarité morale, sa valeur intellectuelle et son unité dynastique‘!. La maison d’Avis eut la capacité d’organiser une culture visuelle cohérente, dont la création échut à
Édouard I et qui fut ensuite reprise et glosée par tous ses successeurs®.
Il ne s’agissait donc pas seulement de faire correspondre entre elles les devises des époux, ce qui était habituel à l’époque, mais d’inscrire toutes les devises des membres de la dynastie dans un méme cadre symbolique. L'analyse de cette réalité en amont de Jean II serait trop longue à tracer ici; Fig. 4 Gravure des armoiries de Jean II, in
mais signalons que, en aval, il est im-
PEDRO DE Gracia Del, Blason General de
possible de ne pas penser à la conti-
todas lasinsignias del Universo, Union de Bibliéfilos Extremefios, Badajoz 1993 (ed. or. Badajoz 1489),p.1.
—nuité fournie à la devise royale par ses AE 3 successeurs, aussi bien du point de
vue de sa succession généalogique que monarchique. En effet, comme son unique héritier légitime, le prince Alphonse, mourut sans descendance, le sang de Jean II ne se perpétua que par la voie de son bâtard Georges, duc de Coimbra, qui prit le pélican comme cimier de ses armes et le transmit à ses descendants, les ducs d’Aveiro. Dans ce contexte, la
devise royale prenait un sens purement lignager. Quant à sa perpétuation plus symbolique, la succession à la Couronne fut assurée par Manuel I (son cousin
©! FONSECA, D. Jodo II cit., pp. 234-244. Il existe aussi un rapprochement à établir avec l’image du prince comme défenseur de la justice et de la paix telle qu’elle fut amplement cultivée à la cour des ducs de Bourgogne Philippe le Bon et Charles le Téméraire, qui entretenaient des liens très serrés avec la dynastie d'Avis. Cfr. C. REYNAUD, Mythes, cultures et
sociétés XIII°-XV siècles, Le Léopard d’or, Paris 1995, pp. 233-250. 6. Cfr. M.M. DE SErxas, J.B. GaLvAo-TELLES, Elementos de uma cultura dindstica e vi sual: os sinais herdldicos e emblemäticos do rei D. Duarte, in D. Duarte e a sua época: arte, cultura, poder e espiritualidade, actas do coléquio (Torre do Tombo 2012), coord. de M.M.
DE SEIXAS, C.F. BARREIRA, Lisboa 2014, pp. 257-283. Notons au passage qu'Édouard I est l’ascendant royal direct des deux plus importantes branches légitimes de la dynastie d'Avis: le tronc ainé (dont la descendance légitime s'éteint en 1495) et la maison de Viseu, d’où
sont issus la reine Léonor et son frère le futur roi Manuel I.
ART ET HÉRALDIQUE AU SERVICE DE LA REPRÉSENTATION DU POUVOIR
309
et beau-frère), à qui Jean II avait auparavant donné la devise de la sphère armillaire, emblème de la monarchie universelle qui se plaçait bien, ainsi, dans la continuité des devises du pélican et du filet de pêche‘. Pour conclure, observons que lorsque l’héraldique est comprise comme phénomène d’autoreprésentation mais aussi de communication, chacune des manifestations plastiques de ses signes revêt une valeur propre, due aux circonstances caractéristiques de son émission et de sa réception ou, en d’autres termes, de son transmetteur, de ses destinataires ou observateurs et de ses véhicules. Ainsi, l'architecture, la peinture, l’enluminure, la sigillographie, la numis-
matique, l’orfèvrerie, la sculpture, la céramique et la glyptique peuvent contribuer à une meilleure compréhension des armoiries et des devises de Jean II, inséparables, de ce point de vue, de celles de son épouse la reine Léonor; toutes ces devises, en contrepartie, éclairent parfois de façon éblouissante le sens de certaines œuvres artistiques, graphiques ou littéraires. Ensemble, art et héraldique, utilisées comme forme de propagande personnelle et dynastique, permettent de mieux saisir le projet politique de Jean II et les enjeux doctrinaires inhérents à la construction du discours politique de la Couronne portugaise aux confins du Moyen Àge.
& La sphère armillaire fut donc conçue par Jean II et attribuée à Manuel tout de suite après l’assassinat de son frère aîné Diogo, duc de Viseu. Pour la bibliographie sur cette devise, voir Serxas, GALVAO-TELLES, À pedra de armas cit., pp. 144-149. La sphère armillaire, qui connut un succès extraordinaire et devint l'emblème des possessions d’outremer avant de former les armoiries du royaume du Brésil, n’a jamais été analysée dans la perspective ci-dessus énoncée de sa relation avec les autres devises de la dynastie d’Avis, en particulier celles du couple Jean II-Léonor.
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Tav. 1 Brioude (Haute-Loire), doyenné, plafond peint de la salle au I‘ étage: poutre XIII (Dauphin d'Auvergne; Mercœur; La Tour; Alègre), poutre XIV (Dauphin d'Auvergne: La Garde; Canillac; La Roche-en-Régnier; partie de Rochebaron), poutre XV (Brezons; Apchon; La Garde [brisé]; Poitiers [brisé]; non id. [Baffie?]; Chaslus-Lembron).
Tav. 2 Brioude (Haute-Loire), doyenné, plafond peint de la salle au I° étage: poutre X (Villaret; Escot de Cournon; s. de Gondole; Rodez [brisé]; Châteauneuf de Randon-Rodez
[ante 1290]), poutre XI (vicomtes de Murat; Chalencon; Montlaur; Polignac), poutre XII (non id.; Murat d’Allagnat; Rochefort d’Ally; Tailhac), poutre XIII (Mercœur; La Tour;
Montaigut; Peyre; évêché de Clermont; Mercœur; Joigny).
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Tav. 3. Azzo DI MASETTO (?), Orzaggio del podestà Bengo de’ Buondelmonti a Carlo Il d’Angiò. San Gimignano, Palazzo del Popolo, “Sala di Dante”, parete est.
Tav. 4 Azzo DI MASETTO (?), Sterzzza del regno di Francia. San Gimignano, Palazzo del Popolo, “Sala di Dante”, parete est.
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Tav. 5 Castel Lagopesole (Potenza), castello, chiesa della Santissima Trinità. Dettaglio dell’abside con frammenti di dipinti medievali (Madonna in trono col Bambino, san Pietro e san Giovanni Battista).
Tav. 6 Dipinto devozionale con stemma. Castel Lagopesole (Potenza), castello, chiesa della Santissima Trinità, abside.
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Tav. 7 BRUNO, I/ martirio della Legione tebea, dettaglio. Firenze, chiesa di Santa Maria Novella.
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Tav. 8 Cavalieri incatenati, particolare. Brescia, Broletto, sottotetto dell’ala meridionale.
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Tav. 9 Stemma Visconti (Bernabò?). Bergamo, Sala dei Giuristi. In basso, a sinistra: Tav. 10 Orvieto, veduta con la torre di Maurizio (a destra) e la torre del Moro (sullo sfondo). In basso, a destra: Tav. 11 FONDITORI ORVIETANI (?), campana
del Palazzo del Popolo. Orvieto, torre del Moro.
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Tav. 12 Proposte di ricostruzione delle serie araldiche poste sul lato meridionale della chiesa di Santa Maria della Spina a Pisa. DRE
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Tav. 13 1 ANONIMO, Sant’Ha San Matteo.
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che salva Pisa dalle acque. Pisa, Museo
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I AAA, ine ce: “nana I Tav. 14 GETTO DI Iacopo, I santi Ludovico, Bartolomeo, Tommaso d'Aquino, Guglielmo di Malavalle, Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, l'Annunciazione e l'Eterno. Pisa, Museo Nazionale di San Matteo.
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Tav. 15 SCULTORE LOMBARDO, lastra frontale del sepolcro di Bianca di Savoia, 1388-1390 circa. Desio, collezione privata.
Tav. 16 Campana della cattedrale di Lodi
Tav. 17 Campana della cattedrale di Lodi
(detta Vecchia), 1447. Lodi, Museo Civico,
(detta Vecchia), 1447, dettaglio con l’im-
depositi.
presa ducale dei Visconti. Lodi, Museo Civico, depositi.
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In alto: Tav. 18 M. Paris, “Stemmario”, in London, British Library, ms. Cotton Nero D I, c. 1/0r-v.
In basso: Tav. 19 Frammento di lastra tombale, XIV secolo. Padova, Musei Civici, collezione Lapidario, inv. 324.
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Tav. 20 Coperta del libro del notaio Ugolino di Ser Vanni di Ser Ugolino da Pozzo,
scritto sotto il podestà Giovanni Marchese del Monte Santa Maria, 1343. ASFi, Podestà 40.
Tav. 21 Verso di una coperta di un libro giudiziario. ASFi, Adespote (coperte di libri)
1 ottobre 1230.
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Tav. 22 NICCOLÒ DI GIOVANNI, Sortita del conte d'Arras che uccide il capitano dei Fiorentini; i Senesi si impadroniscono dei gonfaloni degli avversari, in Siena, BCI, ms. A.IV.5, c. 16r. moi
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Tav. 23 NICCOLÒ DI GIOVANNI, Processione con l'immagine della Madonna, in Siena, BOL ms. A.IV5, cdr.
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Tav. 25 Le nove Eroine, 1416-1420 circa. Manta (Cuneo), Castello.
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Tav. 26 BARTHÉLEMY D’EycK (attr.), Arzzes du roi René d'Anjou, vers 1410, in London, British Library, ms. Edgerton 1070, Livre d'heures de René d'Anjou, c. 4v.