Il libro nel mondo antico: archeologia e storia (secoli VII a.C.-IV d.C.) / [1a edizione.] 9788829013319


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Il libro nel mondo antico: archeologia e storia (secoli VII a.C.-IV d.C.) / [1a edizione.]
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Nel corso dei secoli i Greci e i Romani. come altre civiltà del Mediterraneo e del Vicino Oriente, hanno utilizzato suppo11i diversi per condividere e tramandare testi, informazioni, memorie: tavolette di legno, laminette metalliche. frammenti ceramici, soprattutto strisce e fogli di pergamena e di papiro, uniti tra loro in varie forme. Il volume ricostruisce le tappe principali della riscoperta di questi materiali scrittori. dalla fine del XVIII secolo fino ai ritrovamenti più recenti. ne illustra caratteristiche e modalità di impiego, ne indaga la genesi e le evoluzioni. alla luce delle trasformazioni più generali delle società di cui erano il prodotto. Grazie a una combinazione di fonti letterarie e reperti archeologici, questo studio delinea un affresco inedito e avvincente della storia della cultura scritta antica tra Oriente e Occidente. dall'età arcaica alle soglie del Medioevo. dalla nascita del rotolo all'avvento del codice, il diretto antenato del libro odierno.

Frecce· 341

Lucio Del Corso

Il libro nel mondo antico Archeologia e storia (secoli VII a. C.-w d. C.)

Carocci editore

@ Frecce

A Laura

ristampa, marzo 2.02.3 edizione, marzo 2.02.2. © copyright 2.02.2. by Carocci editore S.p.A., Roma 11 11

Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino Finito di scampare nel marzo 2.02.3 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)

ruproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Siamo su: www.carocci.it www.facebook.com/ caroccicdi tor e www.instagram.com/ caroccicdi core

Indice

I.

2..

3.

Premessa

II

La Charta Borgiana e la riscoperta dei libri dei Greci e dei Romani

IS

Un incontro singolare e le sue conseguenze

IS

Gli eruditi del Settecento e i rotoli di Ercolano

18

Niels Schow e l'edizione della Charta

2.6

Dall'Egitto ali' Occidente

30

Le conseguenze del disordine

40

1v1aterialie supporti: dalle tavolette alla pergamena

4S

Le lacune delle fonti e un paradosso papirologico

4S

Le tavolette cerate

49

Oro, piombo e altri metalli

64

Gli òstraka

69

Pelli conciate e pergamena

7S

Il papiro e la manifattura del rotolo

81

Alle origini del libro

81

La fabbricazione del papiro

89

8 4.

5.

IL LIBRO NEL MONDO ANTICO

Dal rotolo "commerciale"al rotolo "librario"

99

Il lavoro di copia

99

Gli strumenti

102.

Il supporco e la disposizione del testo

108

La cura del libro

114

Gli spazi per la conservazione

12.0

Formati e standard editoriali del rocolo di papiro

12.7

La "protostoria"

12.7

L'età ellenistica e imperiale Standard editoriali e tipologie testuali 6.

Paratesto e organizzazione testuale nei rocoli letterari

145

Il pararesco nei primi libri greci

145

Il "titolo" finale

156

Titoli iniziali e ricoli di sezione

160

Segni e punteggiatura in età ellenistica e romana Forme e paratesti del rotolo latino

7.

Libri eruditi, libri illustrati, libri informali

177

Semplificare resti complessi

177

Fantasmi eruditi

181

Segni, schemi e tabelle per medici e astronomi Libri illustrati Libri di studio Libri informali

INDICE

8.

9

Dal rocolo al codice

:z.13

Il quadernetto di Ermesione

:z.13

I codici più antichi nelle città egiziane

:z.16

Dimensioni, organizzazione dello spazio scritto, scritture

:z.:z.:z.

La pluricescualicà del codice

:z.3:z.

Le evoluzioni del paratesto

:z.37

Roma e le origini del codice

:z.39

L'affermazione del codice

:z.45

Noce

:z.59

Bibliografia

:z.77

Indice dei nomi

309

Indice delle testimonianze scritte

315

Premessa

Questo lavoro si basa su alcune idee di fondo - definirle presupposti teorici sarebbe troppo ardito - non necessariamente condivise da quanti si sono occupati, negli ultimi decenni, della storia della cultura scritta antica. La prima è la convinzione che in qualsiasi libro - manoscritto o a stampa - tra forma e contenuto si venga a instaurare un rapporto biunivoco, le cui polarità sono dettate dalla struttura del sistema comunicativo entro cui la sua realizzazione si inserisce. In altri termini, le caratteristiche materiali dei supporti librari sono influenzate dal loro contenuto e al tempo stesso incidono su aspetti significativi dei testi cui sono destinati, sia sotto il profilo delle modalità di fruizione sia sotto quello più propriamente letterario (l'estetica callimachea e catulliana, che prevede una corrispondenza di fondo tra aspetto del libro e natura dei versi composti, rispecchia in realtà un paradigma valido più in generale). Il contenuto di un libro o di un documento è parte della sua essenza: ricostruzioni papirologiche, "bibliologia", codicologia e paleografia non possono essere disgiunte, nelle loro fondamenta concettuali, dalle problematiche più squisitamente filologiche, e la storia dei testi a sua volta non può essere pienamente ricostruita senza un esame delle pratiche concrete della loro produzione e dei vettori che ne consentivano la circolazione e trasmissione (uno dei paradigmi della "filologia materiale", che anche opere di codicologia "militante" non possono trascurare: Maniaci, 2.002.a,pp. 17-8). La seconda idea è strettamente connessa alla prima, ma per enuclearla compiutamente sarebbe necessaria una formulazione rigorosa che non è nelle corde di questo volume. In breve, negli studi sulle pratiche culturali antiche è molto radicata l'idea che alcune trasformazioni epocali siano la conseguenza diretta di innovazioni tecnologiche: così, per fare solo un esempio, tra i motivi addotti per giustificare la sostituzione del rotolo di papiro con il codice di pergamena viene spesso considerato come un ele-

Il

IL LIBRO NEL MONDO ANTICO

memo fondamentale la (presuma) maggiore "praticità" di quesc'ulcimo, più resistente, più capiente e dunque tout court"migliore" da un punto di vista materiale. In realtà, per comprendere in chiave storica determinaci cambiamenti delle morfologie culturali, e in particolare le evoluzioni dei supporciscrittori e delle loro modalità di utilizzo, occorrerebbe forse ragionare secondo una logica inversa: dovremmo prendere in considerazione, cioè, l'idea che a determinare il cambiamento, o anche solcanto la predilezione per tipologie specifiche di libri e documenti, siano soprattutto le caratteristiche intrinseche del sistema di comunicazione nel suo complesso, non l'ascraccadisponibilità di un materiale o di una tecnologia. I Romani usavano timbri e scampi per riprodurre "in serie~ a scopo commerciale, parole o sigle su oggetti di varia natura: anfore, laterizi, persino forme di pane. Se una tecnica simile non è stara mai sviluppata ulteriormente per realizzarepiù velocemente copie conformi di cesti più ampi è soprattutto perché questa esigenza, nonostante il numero dei lettori in determinaci periodi non fossedel rutto esiguo, non era avvertita come pressante, in una società in cui la lettura era comunque quasi sempre abbinata a elementi "performativi" e si svolgeva spesso in contesti collettivi (per tacere della grande disponibilità di manodopera schiavile, che all'occorrenza poteva rendere abbastanza agevolela molciplicazione di copie). Se rutto questo è fondaco, lo studio della cultura scritta antica - in ambito privato o pubblico ed "esposto" - non può essere affrontato senza riflettere sulla natura polisemantica degli oggetti indagaci, la cui pluralità dimensionale (testuale, grafica e materiale) segue e riflette il campo di tensioni più generali della società di cui erano espressione, nel solco di una prospettiva già da tempo lucidamente tracciata nei lavori di studiosi quali Guglielmo Cavallo, Roger Charcier e Armando Pecrucci. Delineare un'archeologia e una scoria dei supporci scrittori e librari usaci dai Greci e dai Romani, come da qualsiasi altra popolazione, significa dunque non solrancoindagare l'aspetto esterno dei reperti, ma restituirne la funzione primaria, nell'ambito delle pratiche culturali e dei contesti ai quali erano legaci,aprendo la strada a una comprensione migliore delle dinamiche secondo le quali si è evoluta la produzione e trasmissione di memorie e conoscenzenell'antichità, e dei percorsi, raramente lineari, che ne hanno permessola conservazione,almeno parziale, sino ai giorni nostri. Due altre avvertenzesi impongono come doverose. La prima è di natura comenuciscica.Il saggioè incenerato sui supporci librari usaci, in una lunga fase della loro storia, dai Greci e dai Romani, e adottaci in tutta la vasta

PREMESSA

area soggetta alla loro influenza, politica e culturale. Rispetto a un caglio così specifico, l'utilizzo nel cicolo di un'espressione come "mondo antico" (ricorrente peraltro in molte altre opere sullo stesso argomento) potrebbe sembrare un vezzo eurocentrico datato quanto inattuale: la categoria di "antichità" è molco più ampia, e non si esaurisce cerco con le civiltà fiorite in una parte specifica del Mediterraneo. La decisione di conservare questa etichetta convenzionale nasce sopraccuccodalla volontà di porre l'accento sulla natura dinamica della cultura libraria di matrice ellenistico-romana: a un esame accento, i reperti sericei a essa legaci appaiono costantemente come il punto di arrivo di un processo di ibridazione, selezione, mescolanza di elementi mutuaci da civiltà diverse, e forse anche per questo, nel corso della loro scoria, hanno mostrato un'incredibile duccilicà, che ha consentito persino a gruppi fieri della propria alterità culturale di riadattarli a esigenze diverse da quelle per cui erano stati concepiti. I libri dei Greci e dei Romani, in questa prospettiva, sono paradigmaticamente "antichi" per la loro intrinseca "pluralità". Una seconda avvertenza è di tipo più squisitamente erudito. Per quanto la bibliografia citata possa apparire ampia, si è scelto di limitare i rimandi per lo più a lavori complessivi, riducendo i rinvii a scudi specifici su singoli papiri o reperti in generale; similmente, sono stati omessi quasi del cucco i riferimenti ai principali database informatici (Trismegiscos, Leuven Database of Ancient Books, Mercens-Pack 1 e Papyri.info, oltre ai "cataloghi" delle principali collezioni, come Oxyrhynchus Papyri Online, e PSI-online): tutte queste risorse, a ogni modo, sono state ampiamente sfruttate, e grazie a loro il lettore potrà reperire aggiornamenti bibliografici continui e cospicui su (quasi) cucci i reperti menzionaci nel volume. Per la citazione dei materiali papirologici sono state seguite le convenzioni della Checklist ofEditions of Greek, Latin, Demo tic, and Coptic Papyri, Ostraca, and Tablets, consultabile online all'indirizzo hccp:/ /www.papyri. info/ docs/ checklisc.

Ringraziamenti La scrittura di questo saggio si è protratta per un periodo molto più lungo di quello originariamente immaginato. Sono grato ad Anna Casalino e Gianluca Mori per aver avuto la pazienza di attenderlo, e prima ancora di avermi invitato a scriverlo. Per la raccolta delle fonti e dei materiali discussi ho potuto approfittare di diverse visite presso

IL LIBRO NEL MONDO

ANTICO

il Cenrer forche Study of Ancient Documents della Oxford University, rese possibili in parre anche da ungrant della Loeb Classica}Library Foundation. La cortesia e la disponibilità di Amin Benaissa,Alan Bowman, Daniela Colomo, Nick Gonis, Peter Parsons e Maggy Sasanow hanno contribuito a rendere queste occasioni particolarmente piacevoli e fruttuose. L'elaborazione dei capitoli centrali è avvenuta presso il Seeger Center for Hellenic Studies della Princeton University, di cui per un periodo ho avuto il privilegio di essere nominato jèllow. Per questa occasione, ringrazio profondamente Dimitri Gondicas, direttore del Cenrer, e tutto il suo staff. e ancora alrre amiche e amici con cui, a Princeton e New York, ho potuto discutere di tematiche connesse a vario titolo con papiri e cultura scritta nell'Egitto greco-romano: Roger Bagnali,RaffaellaCribiore, AnneMarie Luijendijk, Andrew Monson. L'ultima stesura, infine, è avvenuta a Roma, ed è stata possibile solo grazie alla lungimiranza della direzione e del personale dell'American Academy in Romee dell'École française de Rome, che malgradola pandemia hanno facto di tutto per continuare a rendere accessibili le loro biblioteche anche a studiosi esterni. Molte persone, in corso d'opera, mi hanno fornito il loro aiuto a vario titolo. Riletture accurate, di tutto il libro o di sue parei, sono state effettuate da Guglielmo Cavallo, Giuseppe G. Del Corso, Chiara Meccariello, Tonino Pecere, Antonio Ricciardetto, Filippo Ronconi, che con le loro segnalazioni mi hanno consentito di evitare errori (ferma restando la mia responsabilità per tutti quelli residui) e arricchire le pagine di materiali e suggestioni; Bruna Andreoni mi ha aiutato ad allestire l'apparato iconografico,realizzando anche il disegno della figura 49; Daniele Bianconi, Paolo Fioretti e Cosimo Paravano mi hanno fornito innumerevoli spunti di riflessione. Sarebbe stato arduo, inoltre, completare il lavoro senza l'intervento rapido ed efficacedi Giuseppe Ettorre, e poi di Antonietta D'Alessio, Carlo Garufi, Vincenzo Russoe delle persone che lavorano con loro. A tutti loro sono estremamente grato, e ringrazio,per il supporto continuo, la mia famiglia tutta. Ma è soprattuccoverso Laura Lulli che ho un debito di gratitudine, scientifico e non solo. Questo libro è dedicato a lei.

I

La Charta Borgiana e la riscoperta dei libri dei Greci e dei Romani

Un incontro singolare e le sue conseguenze Nel 1778 - mentre la speranza nei lumi della ragione penetrava arrancando anche negli angoli più bui dell'Europa dell'Ancien Régime e spingeva gli uomini a farsi domande sul passato e sul futuro che prima sarebbero apparse ben poco sensate - ebbe luogo, tra le dolci colline di Velletri, un incontro destinato a giocare un ruolo non secondario in quel processo di ricostruzione della storia antica così caratteristico della cultura occidentale. I protagonisti di questo incontro - di cui conosciamo pochi dettagli, ma assai significativi - furono un ignoto mercante di ritorno dall'Egitto e il monsignore - di lì a qualche anno cardinale - Stefano Borgia, potente segretario della congregazione PropagandaFide, uomo di lettere e noto collezionista di stravaganze antiche. Il mercante, conoscendo le smanie antiquarie del prelato, aveva pensato di recargli in dono un oggetto singolare, acquistato per poche monete da un gruppo di contadini arabi nel villaggio di Gizah, nei pressi del Cairo: si trattava di un lungo foglio arrotolato su sé stesso, alto più di un palmo e fatto di una sorta di carta rugosa e giallastra, su cui si intravedevano colonne e colonne fitte di segni misteriosi, tracciati in una scrittura arruffata e sottile, dall'aspetto incomprensibile. Secondo quanto riferito dal mercante, i contadini di Gizah avevano trovato lo strano rotolo in una cassa di sicomoro, rinvenuta scavando tra le rovine di uno degli innumerevoli edifici antichi che affioravano nella distesa di sabbia era il loro villaggio e l'oasi di Saqqara; e in quella cassa erano contenuti, in realtà, non uno solo, ma decine e decine di rocoli (forse cinquanta!), cucci fitti di scrittura. I contadini avevano insistito con il mercante perché li acquistasse tutti, ma questi aveva preferito di no, confidando poco sul valore commerciale di una merce simile. Il racconto si chiude con un particolare che a secoli di distanza non ha mancato di suscitare più di un rimpianto,

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ma che all'epoca doveva sembrare semplicemente una testimonianza ulteriore dell'eccentricità di un popolo ancora "poco civilizzato": fallita la trattativa, i contadini diedero fuoco ai rotoli portati con sé per aspirarne avidamentel'odore, che trovavano oltremodo gradevole. È difficileche la descrizione di un comportamento così singolare fosse soltanto un'invenzione del mercante (Capasso, 2.015,pp. 93-5). Altri viaggiatori,che negli stessi anni avevano attraversato l'Egitto e il Medio Oriente per soddisfare,spesso, un bisogno più di avventure poeticamente esoticheche di guadagni concreti, riferiscono episodi non dissimili. La storia di un altro rogo viene raccontata, in particolare, da un personaggio illustre e attendibile, apprezzato era gli altri anche da Giacomo Leopardi: il conce Conscancin-Françoisde Chassebcruf de Volney, filosofo, storico, orientalistae soprattutto viandante perennemente inquieto, amante di rovine e deserti. Volneytrascorse più di tre anni, dalla fine del 1782.al 1785, a errare era l'Egitto e la Siria per impiegare nel migliore dei modi - com'egli stesso ebbe modo di scrivere - un'eredità ricevuta inaspettatamente, e raccolsele memorie di quel periodo in un'opera preziosa, il Voyageen che rappresentò per i suoi contemporanei uno dei primi Égypteet 5_yrie, tentativi di descrizioneanalitica e scientificamente fondata di quelle terre, e costituisceoggi una fonte di primaria importanza per ricostruire la storia dell'esplorazionemoderna dell'Egitto (Volney, 182.2.).La sezione dedicata all'archeologiadel paese (cap. XIV), dopo capitoli di rigorosa esposizione geograficae storico-politica, restituisce tutta la fascinazione ipnotica che il conce doveva avvertire passeggiando tra i resti di città e templi «che non avevano mai subito le devastazioni dei barbari» e giacevano intatti, circondacidal deserto; ma il compiacimento estetico viene ben presto soppiantato dalla denuncia politica, di fronte all'incuria mostrata da un governo straniero e lontano - all'epoca l'Egitto era parte dell'impero ottomano - verso un patrimonio inestimabile, al punto che l'autore giunge ad auspicareun drastico cambiamento di regime, una rivoluzione vera e propria: «Se l'Egitto appartenesse a una nazione amante delle belle arti, qui si potrebbero trovare, per la conoscenza dell'antichità, risorse che altrove non esistono più; forse sarebbe possibile persino scoprire dei libri». E a riprova di questo riferisce una storia - ritenuta del rutto attendibile ascoltata da alcri occidentali ad Acri: « Tre anni fa furono dissotterrati, vicino Damiecca[sul Delta del Nilo], più di cento volumi scritti in una lingua sconosciuta;ma furono subito bruciati, per decisione degli sceicchi del Cairo» (ivi, pp. 2.32.-3)'.

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Un episodio come quello descritto dal mercante a Stefano Borgia non era dunque un fatto inaudito, ma questa volta almeno uno di quegli strani rotoli era riuscito a sfuggire alle fiamme. Il prelato dovette inruire subito lo straordinario interesse di quell'oggetto. Borgia aveva mostrato sin dall'infanzia una straordinaria passione per le civiltà del passato e una propensione naturale all'apprendimento delle lingue antiche, tanto da essere accolto tra i membri dell'Accademia etrusca di Cortona a soli diciannove anni. La scelta di intraprendere la carriera ecclesiastica, in linea con una tradizione ben radicata nella famiglia - lo zio era arcivescovo di Fermo e soprattutto i Borgia di Velletri erano pur sempre imparentati, per quanto alla lontana, con i più noti Borgia di Valencia, dalle cui fila erano provenuti un papa, il famigerato Alessandro VI, e un generale dell'ordine dei Gesuiti, Francesco, poi fatto addirittura santo-, si era accompagnata all'assunzione di responsabilità politiche sempre più gravose, che avevano ridotto a ben poco il tempo a disposizione per lo studio. La congregazione di cui era segretario, a ogni modo, aveva il compito di organizzare l'attività missionaria della Chiesa e questo gli consentiva di entrare in contatto con viaggiatori diretti a ogni angolo del globo, che non esitavano - anche in conseguenza delle sue reiterate richieste - a procurargli antichità esotiche di ogni genere (Buzi, 2.009, p. 19 ). Sfruttando la rete di relazioni così acquisita, il futuro cardinale era riuscito ad allestire, nel suo palazzo di Velletri, una collezione di singolare bellezza, in cui coesistevano armoniosamente tele rinascimentali, globi celesti mamelucchi, idoletti indù, e poi statue, rilievi e bronzetti greci, etruschi e romani e molto altro ancora, al punto da suscitare l'entusiasmo di un visitatore illustre come Goethe, che ne fornisce una descrizione stupefatta nel suo Viaggio in Italia (Neapel, 2.2. Februar 1787; Germano, Nocca, 2.001). In questa passione per le antichità Borgia mostrava un gusto particolare per le testimonianze scritte. Nel corso dei decenni la sua collezione sarebbe arrivata a comprendere decine di iscrizioni, in varie lingue italiche, e innumerevoli manoscritti, eterogenei per contenuto, forma e materiale - dalla pergamena alle foglie di palma-, provenienti da paesi disparati, come Islanda, Palestina, Etiopia, India, Giappone, Messico: al cardinale apparteneva uno dei pochissimi manoscritti aztechi sfuggiti alle fiamme dei conquistadores e allo zelo purificatore dei missionari, il calendario rituale noto come Codex Borgia (Biblioteca Apostolica Vaticana, Borg. mess. 1). Ma il suo interesse pili forte era per i testi provenienti dalla terra del Nilo. Borgia aveva studiato il copto, la lingua dei cristiani d'Egitto, ed

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era in costante ricerca di testimonianze scritte provenienti da quel paese. Nello stesso anno del!'acquisizione del rotolo proveniente dall'Egitto, il prelato era entrato in possesso di centinaia di fogli di manoscritti copti, grazie a un missionario che dallo sperduto insediamento monastico di Naqada, a oltre cento chilometri a sud di Assyuc, si era addentrato nelle rovine di un monastero sepolto dalla sabbia a Deir el-Abyad, in pieno deserto, oltre l'antica Karnak (Buzi, 2009, pp. 106-7 ). Questi frammenti, nmavia, erano per lo più in pergamena, e in forma di codice: avevano cioè, malgrado l'antichità, un aspetto piuctosro simile al libro odierno, fatto di fogli scritti su entrambe le facciate, legaci era di loro e protetti da una copertina. Il manoscritto portato dal mercante non rispecchiava affatto questo modello. Il cestoera greco antico, per quanto vergato in forme inconsuete e difficilia leggersi,ma il modo in cui era disposro sulla superficie scrittoria non uovava raffronto con nessuno dei libri e documenti noti al futuro cardinale. Il materialedi cui era fatto, invece, per quanto raro, non era del cucco sconosciuto: Borgia forse intuì subito che il rocolo era fabbricato con quella che i dotti suoi contemporanei definivano charta papyracea, "carta di papiro~ all'epoca ancora poco nota era gli appassionaci di antichità, ma menzionata nelle fonti antiche così spesso da suscitare non poca curiosità negli specialisti.

Gli eruditi del Settecento e i rotoli di Ercolano A partire dai primi anni del Seccecenco,lo studio delle testimonianze sericee greche e latine aveva conosciuto un forte impulso, sulla scia di quella fascinazioneper l'amico che avrebbe porcaro, incorno alla metà del secolo, all'esplosionedel Neoclassicismo, canto da spingere studiosi e antiquari a organizzare raccolte organiche dei materiali disponibili e ad articolare in trattaci le conoscenze necessarie per affrontarne consapevolmente lo studio; ma la documentazione raccolta presentava lacune e zone d'ombra troppo estese.Grazie all'esplorazione di città ed edifici antichi erano riemerse iscrizioni riferibili in pratica a ogni periodo della storia antica, e le ricerchein archivi e in biblioteche dimenticate, spesso annesse a conventi o monasteri,avevanoconsentito di individuare innumerevoli documenti e manoscritti,i più amichi dei quali erano sericeiin latino e risalivano a poco dopo la caduta dell'impero d'Occidente. Alcuni di questi - per lo più pro-

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dotti in cancellerie imperiali o papali nell'alto medioevo - erano vergati su un materiale che gli eruditi avevano da tempo identificato, appunto, come chartapapyracea,o chartaAegyptiaca.Mancavano del tutto, invece, tracce dirette dei libri (e dei documenti) in greco, di quelle bybloi cui così spesso facevano riferimento autori come Platone, Plutarco, Diogene Laerzio, Luciano; e al tempo stesso non era chiaro nemmeno quale fosse l'aspetto dei volumina che tanto piacevano a poeti come Catullo, Orazio o Marziale, per citarne solo alcuni. Non c'è da stupirsi, dunque, che la questione fosse diventata fonte di discussioni accese tra gli eruditi. Una breve menzione relativa al papiro e agli usi documentari e librari che si immaginavano connessi a questo materiale si può leggere già nel trattato De re diplomatica di Jean Mabillon (1632.-1707),specialmente in relazione ai documenti dei re merovingi preservati nelle abbazie francesi, che fino al VII secolo d.C. erano scritti proprio su papiro (Mabillon, 1681,p. 40 ). Tuttavia, il primo tentativo di mettere in relazione in maniera compiuta il papiro con le caratteristiche dei libri greci più antichi si ritrova nell'opera di un altro pioniere degli scudi sulla storia della cultura scritta, il monaco benedettino Bernard de Montfaucon (1655-1741),che gettò le basi per affrontare in modo scientificamente avveduto l'analisi dell'evoluzione della scrittura greca (Mondrain, 2.012.).Nell'incisione sul controfrontespizio della suaPalaeographiaGraeca,pubblicata nel 1708, compaiono figure abbigliate da filosofi antichi, con barbe e stretti mantelli, intenti a leggere e scrivere su supporti di vario genere, come pietre, assi di legno, piccole tavolette cerate e ben più corposi codici (FIG. 1). Ma il personaggio al centro dell'immagine, in primo piano, tiene in grembo proprio un rotolo di papiro, per quanto di dimensioni ben poco realistiche. L'autore dell' illustrazione, in questa immaginifica ricostruzione delle pratiche intellettuali di età classica, si era ispirato, probabilmente, alle molte scene di scrittura e di lettura raffigurate sui sarcofagi di età romana, anche se per lui non era possibile associare a esse un'idea concreta di come fosse fatto l'oggettolibro in Grecia o a Roma 1 • In linea con questa premessa iconografica, Montfaucon si dilunga, nella trattazione, su ognuno di questi supporti e materiali, cercando di delinearne la storia e le modalità concrete di utilizzo nel mondo antico, sia pur senza un'organizzazione sistematica delle informazioni'. Questo sforzo ricostruttivo viene condotto affiancando la lettura di fonti greche e latine (spesso recuperate attingendo a serbatoi di erudizione tardoanrichi o me-

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Bemard de Montfaucon, Palaeographia Graeca,Parisiis Pubblico dominio

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1708,

ANTICO

controfroncespizio

-

dievali,come Cassiodoro e Eustazio di Tessalonica) alla descrizione di reperti librari antichi, presenti in archivi, biblioteche o più eterogenee raccolte private. Ma di fronte alle testimonianze relative alla papyrus Aegyptiaca e alle tipologie librarie che gli antichi sapevano confezionare con essa - bybloie volumina, in particolare - i tentativi di ricostruzione dell'erudito si arrestano bruscamente. Così, ad esempio, dopo aver analizzato una serie di passi da Plinio, Cassiodoro e Isidoro di Siviglia per ricostruire somma-

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riamente il processo di fabbricazione del papiro, Montfaucon così mette in guardia il suo lettore: «tuttavia, sopravvivono ormai i resti, oltremodo sottili e consunti, di un solo libro di papiro scritto in greco, conservato presso la biblioteca di San Martino di Tours» (Momfaucon, 1708, p. 15)4 • All'erudito, nonostante le discettazioni terminologiche e le divagazio• ni iconografiche, sembra sfuggire l'idea stessa che per un lungo periodo i libri dei Greci e dei Romani avevano avuto una forma diversa da quella del codice. Questo emerge in modo evidente nel capitolo 4 del libro I (De no• minibus etforma librorum exteriuset interiusspectata,"Sui nomi e l'aspetto esterno e interno dei libri"), in cui l'autore afferma: «I Greci già molti se• coli fa fabbricavano i libri quasi nel modo odierno» (Montfaucon, 1708, p. 26), e cioè in forma di codice; del rotolo, invece, non si fa alcuna men• zione. Montfaucon, qualche anno più tardi, ritornò su questi problemi dedicando alla chartapapyraceae ai libri con essa realizzati una memoria, pro• nunciara nel 1720 ma pubblicata diversi anni più cardi (Montfaucon, 1729; Mondrain, 2012, pp. 315-6). L'opera è concepita, a differenza della Palaeo• graphia, come una prolusione retoricamente costruita, e in quanto cale non manca di approssimazioni e sfoggi di erudizione fini a sé stessi, secondo un gusto ben diffuso in certi ambienti accademici dell'epoca. E tuttavia, die• ero la costruzione involuta delle argomentazioni, si nascondono intuizioni sorprendenti, come uno degli assunti da cui trae origine il ragionamento di Montfaucon: il papier égyptienviene considerato una delle invenzioni più imporranti della scoria dell'umanità, perché a questo materiale erano affi• dare la parola di Dio e la lerreracura dei Greci (Moncfaucon, 1729, p. 592). Ma ancora una volta, l'erudito, privo di un'idea chiara di come fossero farti i rocoli antichi, può indicare ai suoi lettori, a guisa di esempio, solo pochi brandelli di papiro, originariamente in forma di codice e per lo più quasi illeggibiJis. Qualche anno dopo la pubblicazione delle opere di Monrfaucon, lo studio delle fasi più antiche della produzione scritta greca e romana fece un ulreriore passo in avanti, ad opera di un altro grande pioniere degli studi sulla cultura scritta, il marchese di Verona Scipione Maffei (1675• 1755), già creatore della prima raccolta sistematica di iscrizioni greche e latine. Nella sua Istoria diplomatica,pubblicata a Mantova nel 1727, il pro• blema della forma dei supporti scrittori antichi e quello della diffusione e delle modalità di fabbricazione della chartapapyracearisultano centrali e a essi viene dedicato largo spazio (Ma.ffei, 1727, pp. 54-79). Per illustra• re meglio le caratteristiche di questo strano materiale, alla trattazione

l2.

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generale- basata soprattutto su un'accurata disamina delle informazioni fornite dalla Storia natumle di Plinio il Vecchio - l'autore fa seguire un'appendicecontenente la descrizione e trascrizione di tutti i papiri di cui era venuto a conoscenza. Si trattava essenzialmente di documenti latini, il più antico dei quali risaliva al v secolo d.C., e dunque ben lontani da quelli familiari agli autori classici. La distanza cronologica era fonti letterarie impiegateed evidenze materiali disponibili ripropone dunque la stessaasimmetriariscontrata nelle altre opere di questa prima fase sugli studi eruditi sui libri amichi, finendo con il limitare la porcata dei risultati conseguiti.L'appendice, tuttavia, conferisce all'opera uno specifico valore metodologico,destinato a durare nei secoli: Maffei è il primo a creare un corpusdi documenti su papiro, intuendo che testi di questo genere, cripticie spessopoco significativi se considerati singolarmente, una volta giustappostil'uno all'altro in una serie strutturata riuscivano a chiarificarsi a vicenda,permettendo di cogliere in modo tangibile l'evoluzione di dinamiche sociali e pratiche culturali altrimenti incomprensibili. In questo modo, lo studio di formule notarili, abbreviazioni, convenzioni diplomatichecominciavaad affrancarsi dalla mera antiquaria o dall 'aneddotica per acquisire un senso e uno spessore storico, ma per raggiungere pienamenteil risultato auspicato sarebbe stato necessario un campionario adeguato di materiali scritti, di cui negli anni in cui scriveva Maffei non c'era ancora traccia. Gli scudi inaugurati da Montfaucon e da Maffei avrebbero potuto poggiaresu basi documentarie ben più salde già qualche decennio prima dell'arrivoa Velletridel rocolo donato al cardinale Borgia, se fosse stata tempestivamenteresa nota una scoperta archeologica sensazionale, rimasta a tutt'oggi unica nel suo genere. Nel 1752. alcuni operai impegnati nello scavodelle rovine di Ercolano, un'amica città della Campania completamente coperta dai fanghi lavici sprigionati dal Vesuvio nella famigerata eruzionedel 79 d.C., penetrarono, mediante stretti cunicoli, all'interno di una riccadomuspatrizia ubicata appena al di fuori dell'abitato, e qui trovarono, assiemea statue di bronzo e di marmo e arredi preziosi, centinaia di oggetti carbonizzati di forma vagamente cilindrica, conservati soprattutto in un ambiente che era stato dotato di scansie lignee, disposte in file ordinate e adorne di cornici: i resti di una biblioteca e dei libri che conteneva, ormai quasi illeggibili,appartenuti al patrizio romano proprietario della villa e consistenti in opere letterarie scritte in greco. I responsabili dello scavonon compresero subito il valore di quegli oggetti e in un pri-

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mo momento lasciarono che fossero distrutti dagli operai 6 ; ma una volta realizzata 1'importanza della scoperta, decisero di tenerla socco stretto riserbo e di procedere all'esplorazione completa della struttura nel segreto più assoluto e con la maggiore rapidità possibile. I lavori furono interrotti tuttavia dopo appena due anni: la presenza nel soccosuolo di sacche di gas esplosivi rendeva escremamence pericolose indagini ulteriori. I rotoli così trovati, intanto, erano stati inviati, assieme agli altri tesori di Ercolano, nelle fastose sale della reggia che il re di Napoli Carlo 111, appassionato di antichità, aveva fatto erigere a Portici, nei pressi di Ercolano ( Capasso, 1991, pp. 29-39; Longo Auricchio et al, 2020, pp. 21-38). Lo studio dei libri della villa cominciò subito dopo, ma si rivelò oltremodo complesso: anche soltanto aprire i rocoli senza distruggerli era un' impresa più difficile del previsto. Con essa si cimentarono, con alterni risultati, i personaggi più diversi, dal principe Raimondo di Sangro - rampollo di una famiglia che pretendeva di discendere da Carlo Magno in persona, e dedico a singolari esperimenti alchemici - al padre scolopio Piaggio, specialista in miniature e manoscritti antichi presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. Questi, in particolare, già nel 1755riuscì a fabbricare un macchinario che, sfruttando un complesso sistema di ingranaggi e gancetti, garantiva uno svolgimento, poco traumatico ma molto lento, dei rocoli in condizioni di conservazione non troppo precarie: la cosiddetta "Macchina del Piaggio': che fa ancora bella mostra di sé nei saloni monumentali della Biblioteca Nazionale di Napoli (ivi, pp. 53-64). La notizia del rinvenimento, tuttavia, cominciò a filtrare anche al di fuori della cerchia di accademici ai quali re Carlo aveva affidato il compito di studiare le antichità di Ercolano. Nel 1756, il dotto grecista Giacomo Martorelli - ammirato per la sua erudizione già dal Metastasio, che lo definì !"'oracolo del nostro secolo" - diede alla scampa, a Napoli, un poderoso e alquanto singolare craccaco, il De regia theca calamaria, in cui, prendendo spunto dalla descrizione di un bizzarro calamaio istoriato con scene figurate custodito nel museo di Portici, vengono fornice al lettore lunghissime digressioni antiquarie sulle tecniche e i supporti scrittori impiegaci dalle origini delle civiltà classiche al cardo impero, accostando testimonianze per lo più irrelate, anche se non senza una cerca originalità. Il primo capitolo dell'opera, dopo oltre duecento pagine di introduzioni, prolegomena e additamenta ai prolegomena, è dedicato ali'« aspetto dei libri» (de librorum figura) di Ebrei, Greci e Romani, e proprio qui si può leggere la prima menzione pubblica delle scoperte di Ercolano: «io sces-

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so ho visto e ho toccato più di sessanta libelli avvolti su loro stessi, tutti p.1piracei,di cui ben pochi intatti, sia pur ammaccati, gli altri divisi in fo1mmenciniper colpa della negligenza e della cattiveria delle azioni di chi li ha scavaci» {Marcorelli,1756, p. 2.72.). Martorelli non fornisce ulteriori dettagli sull'aspetto dei rocoli, sul loro contenuto o sulle modalità del rinvenimento {aldi là dellapointe polemica contro gli operai al lavoro sulla villa, e implicitamente contro i loro supervisori); le sue notazioni sui rocoli ercolanesipassarono per lo più inosservate, annegate com'erano tra sproloqui eruditi di ogni sorta. Le scarne indicazioni fornite, però, furono sufficientia suscitarel'ira della coree, per effetto della quale allo studioso, nonostante la stima di Metastasio, fu negata l'ammissione all'Accademia ercolanese,che il sovrano aveva voluto creare proprio per studiare e tutelare i rinvenimentieffettuati nella città romana. A dare risalto alla notizia della scoperta dei libri di Ercolano fu soprattutto un altro intellettuale, destinato a incidere sulla cultura europea molto di più di :Martorelli:l'abate tedesco Johann Joachim Winckelmann, il principale teorico dell'estetica neoclassica. \X'inckelmannvisitò Napoli e le più importanti città antiche della Campania a più riprese, tra il 1758 e il 1762, rimanendo incantato soprattutto da Pompei ed Ercolano, e dai reperti lì rinvenuti. Spinto dunque dalla volontà di trasmettere il senso dell'importanza delle scoperte effettuate nei due centri vesuvianianche al di fuori delle cerchie accademiche, decise di affidarele sue osservazioni a due trattatelli in forma di lettera - non privi di un cerco astio polemico contro i responsabili degli scavi su quei siti - apparsi nel 1762. e nel 1764, prima in tedesco, poi in francese e in italiano (riediti come Winckelmann, 1993). Lo scritto di Winckelmann, proprio perché destinato a un pubblico non erudito, è animato da un'efficacia descrittiva e una capacità di sintesi piuttosto rare nel variegato mondo della trattatistica antiquaria settecentesca. Lo studioso tedesco non si limita a celebrare 1'incanto estetico di antichità e rovine pompeiane ed ercolanesi, ma fornisce al lettore indicazioni topografiche precise, descrizioni architettoniche essenziali e comprensibili e, soprattutto, si sforza di inserire ogni reperto nel suo contesto originario. Le pagine dedicate agli strani rotoli rinvenuti a Ercolano non fanno eccezione. Lo studioso tedesco, indignato per la lentezza con cui procedevano gli scudi su quei reperti, decise di violare ogni vincolo di riservatezzafornendo una descrizione del luogo e delle modalità del loro rinvenimento: a tutt'oggi le sue pagine costituiscono una fonte prima-

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ria per chiunque voglia ricostruire le fasi originarie di quella scoperta. Winckelmann fu il primo a svelare al mondo che a Ercolano era stata dissotterata una vera e propria biblioteca, con tanto di scaffali (distrutti tuttavia al momento dello scavo) e nicchie concepite per libri di forma completamente diversa da quella contemporanea'; e, per eccitare ancora di più la curiosità dei suoi lettori, aggiunse una descrizione particolareggiata di quegli strani supporti scrittori, illustrandone l'aspetto esterno e soffermandosi sulle caratteristiche della loro scrittura, unica fino a quel momento, senza dimenticare di corredare il tutto con misurazioni precise. Ma nell'opera non c'è traccia di trascrizioni o riproduzioni di sorta, né vengono fornite indicazioni sul contenuto dei rotoli. Anche Winckelmann dovette pagare un prezzo per aver infranto il segreto ercolanese più gelosamente custodito: l'attendibilità scientifica della sua opera fu messa in dubbio in articoli e trattatelli velenosamente polemici, tra cui spicca un pamphlet apparso a Napoli nel 1765, con il titolo Giudizio dell'opera dell'abbate Winckelmann intorno alle scoverte di Ercolano contenuto in una lettera, apparso anonimo, ma da riferire all'abate lVlatteo Zarrillo, conservatore del Museo di Capodimonte e Accademico Ercolanese; e come si può facilmente immaginare, anche a Winckelmann, nonostante la fama, fu negata la possibilità di studiare i testi e anche solo di avvicinarsi ulteriormente agli scavi dell'area vesuviana (Longo Auricchio et al, 2.02.0, pp. 69-78). Dopo il grande archeologo tedesco altri eruditi provarono a mettere in relazione le scoperte della villa di Ercolano con le pratiche librarie antiche. Un erudito ravennate, Antonio Zirardini, era venuto a conoscenza dei rotoli ercolanesi nel 1777, un anno prima dell'arrivo della Charta Borgiana in Italia, e dedicò alla forma dei libri antichi tutto il primo capitolo (Del .frequente uso che del papiro sifece per iscrivere libri o opere voluminose) di un suo trattato, le Exercitationes in Monumenta Papyracea, che tuttavia non riuscì mai a pubblicare 8• Per avere un'idea più precisa del contenuto e dell'aspetto dei libri carbonizzati e "cristallizzati" dal Vesuvio, il mondo delle lettere avrebbe dovuto attendere fino al 1793 (cfr. in.fra,p. 2.8). E dunque, per tornare alla scena da cui siamo partiti, al momento dell'incontro tra il mercante e l'alto prelato di Velletri i rotoli di Ercolano erano ancora un mistero, un'incognita dai contorni indefiniti per chiunque non fosse ammesso alle grazie della corte di Napoli, e perciò non potevano aiutare a capire che cosa fosse l'oggetto proveniente dall'Egitto, e soprattutto che cosa contenesse.

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Niels Schowe l'edizione della Charta Il rotolo portato in dono a Borgia aveva dunque un valore che un profano non sarebbe mai riuscito a immaginare: non si trattava di una semplice curiosità archeologica,ma di un vero e proprio tramite verso una dimensione della vita degli antichi che fino ad allora era rimasta quasi irraggiungibile, nonostante gli sforzi degli eruditi. Ma per acquisire questa consapevolezza del passato occorreva innanzi cuccocomprendere che cosa c'era scritto su quel papiro: un compito difficile,anche se non cale da scoraggiare il prelato. Borgia amava circondarsi, oltre che di antichità, di studiosi. Impegnando una parte non esigua del patrimonio di famiglia, era divenuto il protettore e il mecenate di innumerevoli giovani filologi, cultori delle lingue classichee orientali, che si erano raccolti attorno a lui fino a formare un vero e proprio cenacolo erudico. Molti di loro provenivano dal Nord dell'Europa, in particolare dalla Danimarca, e si erano formati per lo più in Germania, a Goccingen, presso la scuola austera di Heyne, editore di Pindaro, Tibullo ed Epiccecoe grande riorganizzatore della biblioteca della sua università (Donadoni, 1983; Buzi, 2.009, pp. 16-2.2.e 45-68; Capasso, 2.015).Fu a questa cerchia che Borgia si rivolse, da subito, per arrivare a una corretta interpretazione del cesto, e le sue aspettative non furono deluse, anche se un'edizione vera e propria apparve soltanto nel 1788, a dieci anni dall'arrivo del reperto nel palazzo-museo di Velletri. A compiere l'impresa fu Niels Schow, un giovane studioso danese fresco di laurea, giunco a Roma animato da quella passione preromantica per rovine e resti antichi che spingeva, in quegli anni, molci rampolli di buona famiglia ad avventurarsi, finiti gli scudi, in scomodi viaggi verso le propaggini più meridionali del continente. Schow - introdotto alla cerchia di Borgia da un suo amico, lo specialista di copto Georg Zoega - impiegò poco meno di un anno per dare alle stampe l'edizione del cesto (Schow, 1788), che chiamò, in ossequio al suo possessore, Charta Borgiana (sB I 512.4, ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli; FIG. 2.). I risultati di questo lavoro furono del tutto inattesi (e forse in parte deludenti, agli occhi degli altri membri della cerchia): il papiro non conteneva un cesto letterario, ma un documento, e cioè un elenco di abitami di un villaggio del Fayyum, Pcolemais Hormou, impegnati nei lavori di manutenzione delle dighe di Tebcynis, un alcro villaggio della regione. Rileggendo l'opera di Schow, a più di due secoli di distanza, si ha l' impressione di trovarsi di fronte a un capolavoro della lecceracura ancichisci-

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Il rotolo di Iperide (P.Lond. Lit. 1,:?.)- © The Bricish Libr:iry Bo::ird(Pap. 10S)

no di solito vergati tmnsversa charta, in un'unica ampia colonna, scritta contro le fibre e parallelamente al laro più corro del rocolo (T urner, 1994,

PP·33-4 e 47-9). Ali'interno delle colonne la scrittura era continua: le parole non erano divise tra di loro e mancavano, di norma, spiriti e accenti, "inventati" nel corso dell'età ellenistica, ma divenuti di uso corrente solo a partire dall'età bizantina. Gli apparati paratescuali concepiti per rendere più comprensibile il testo e fornire a1lettore le informazioni essenziali sull'opera contenuta nel rotolo erano schematici e limitati, come si vedrà meglio in seguito (cfr. CAP. 6): il titolo dell'opera e il nome dell'autore erano indicati di norma alla fine, al termine dell'ultima colonna o accanto a essa, ma talvolra questa informazione veniva inserita anche prima dell'inizio del cesto, in uno spazio apposito; a1di là di questo, lo scriba si limitava ad anno care all'interno della colonna o sul margine pochi segni essenziali, come la paragraphos, un breve tratto orizzontale usato per suddividere passaggi specifici del cesto (come le battute pronunciate da due personaggi in un'opera teatrale) o, in generale, per segnalarne le articolazioni (FIG. 2.2). 11cesco si configurava, dunque, come un blocco omogeneo e simmetrico, e il regolo e la barra menzionaci negli epigrammi venivano usati

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III

(anche) per far sì che le selides fossero accostate nel modo corretto. Nel libro ideale le selides avevano la stessa altezza e un numero identico di righe ed erano separate da uno spazio tendenzialmente costante. Inoltre, la prima e l'ultima riga di ogni colonna dovevano essere alla stessa altezza, come se fossero comprese tra due rettrici parallele, così da lasciare al di sopra e al di sotto una "fascia" non scritta costante, che di solito era compresa fra i 3 e i 5 cm, per i rotoli di qualità normale, ma poteva arrivare anche a 7 o 8 cm per prodotti di lusso (Johnson, 2004, pp. 130-41). I margini non avevano solo una funzione estetica: il loro ruolo era anche difendere l'integrità del testo, in considerazione del fatto che le estremità erano tra le parti del rotolo più esposte a usura. Anche l'altezza delle righe (e dello spazio interlineare) doveva essere preferibilmente costante, mentre non era necessario che lo fosse la hmghezza: nei testi poetici, in particolare, questa dipendeva strettamente da quella dei versi (nel caso di esametri, pentametri e dei metri usati per le parti dialogate della commedia, ogni verso corrispondeva a un rigo, di lunghezza diversa a seconda del numero di sillabe; per i metri lirici, invece, la disposizione era più complessa e si basava essenzialmente su una suddivisione in cola, le cellule ritmiche fondamentali di cui i versi constavano; Turner, 1987, p. 12). Proprio per questo, il margine sinistro delle colonne veniva allineato in maniera attenta e poteva essere perpendicolare ai bordi del rotolo oppure lievemente inclinato verso destra, a seconda delle scelte del copista e della sua abilità (Johnson, 2004, p. 100 ), mentre il margine destro poteva presentarsi anche "a bandiera". Di questo lavoro di "progettazione librarià' nei rotoli superstiti restano poche tracce. Le rettrici su cui poggiavano le righe e su cui si basava l'allineamento delle colonne non erano quasi mai tracciate effettivamente. Solo in pochissimi reperti superstiti se ne intravedono alcune, come in un rotolo da Ossirinco contenente orazioni di Eschine (P.Oxy. LX 4033 + 4034, 11-111 sec. d.C.), e del resto gli epigrammi di dedica dei materiali scrittori menzionano una "rondella di piombo" intinta di inchiostro, funzionale a delimitare il margine delle colonne di scritmra 8, usata assieme a un righello (il «regoletto», kakònisma dell'epigramma di Fania, altrove chiamato semplicemente kanon ) 9 • In casi ancora più rari, il testo veniva racchiuso all'interno di cornici, che contribuiscono, al di là del valore decorativo, a caratterizzarne la natura. È quello che vediamo nel cosiddetto Livre d'écolie1· ("Libro dello studente"; P.Cair. inv. JdÉ 65455), un vero e proprio "manuale" per maestri di scuola della prima età tolemaica, in cui

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Parcicolare dal Livre d't!colier(P.Cair inv. JdÉ 65455). © Egypcian Museum. Cairo

ogni colonna propone un tipo diverso di esercizio, in ordine crescente di difficoltà (dalla divisione in sillabe di singole parole alla lettura di passi di autori come Omero o Euripide), ed è racchiusa era cornici policrome, funzionali a rendere più agevole il compico di individuare i materiali didattici di cui l'insegnante aveva bisogno (Pordomingo, 2010, pp. 40-50; 2013, pp. 191-204; Meccariello, 2020; FIG. 23); oppure, secoli dopo, in alcuni libri magici, formule particolari possono essere circondate da cornici speciali, come l' Uroboros, il serpente che si morde la coda, simbolo della natura ciclica delle cose, così da ai mare l'aspirante mago/ a a individuare la peculiarità dell'incantesimo racchiuso al.I'interno' 0 . Nella maggior parte dei casi non si avvertiva il bisogno di "sovrastrutture" così barocche e spesso seguire l'andamento delle fibre rappresentava di per sé un buon metodo per mantenere le righe parallele. Gli scribi, per facilitarsi il lavoro, si limitavano ad apporre dei puntini, che segnalavano l'altezza da cui cominciare a scrivere e a cui fermarsi, e aiutavano a mantenere l'allineamento del margine sinistro (Johnson, 2004, pp. 91-8). La pratica di apporre "punti guida" è attestata già in libri risalenti alla prima età ellenistica (come il Lachete da Gurob, P.Pecr. II 50), ma risulta meglio documentata per l'età romana. L'altezza e la posizione dei punti venivano calcolate prima di cominciare a scrivere, e non sono rari i casi in cui lo scriba si accorgeva di aver sbagliato a pianificare gli spazi rispetto al testo da copiare: così, la mano che ha allestito uno dei più bei rocoli su-

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Un rocolo con le Storie di Erodoco (P.O.xy. XLVIIl Sociecy / lmaging Papyri Projecc, Oxford Universicy 24

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3376). © Egypc Exploracion

perstiti delle Storie di Erodoto, sempre da Ossirinco (P.Oxy. XLVIII 3376, III sec. d.C.), traccia un reticolo di punti guida (uno ogni cinque righi) per garantire una buona disposizione delle colonne, ma a partire all'incirca da metà del libro trascritto (il secondo) è costretta a non rispettare più l'incelaiacura originaria, perché le colonne si trovano a cadere sistematicamente in punti diversi rispetto a quanto pianificato in origine (FIG. 2.4). Per tracciare questi punti, è possibile che lo scrivente si aiutasse con il righello, ma non abbiamo chiare indicazioni in tal senso.

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All'omogeneità "formale" si univa una sostanziale uniformità di contenuti. Urotolo era concepito per ospitare una sola opera (una tragedia o una commedia, un dialogo filosofico, un'orazione ...) o una sezione significativa e coerente di essa (un "canto" di un poema, o un "libro" di un'opera storica o di un trattato in prosa). I reperti superstiti mostrano, già dalla prima età eHenistica,una tendenza ad accorpare o suddividere materiali testuali coerenti anche al di fuori di questa convenzione. Così, "libri" particolarmente lunghi potevano essere suddivisi in due tomoi, o, al contrario, opere brevi di uno stesso autore venivano talvolta accorpate insieme (dr. infi-a, CAP. s), ma sempre salvaguardando la coerenza contenutistica del rocolo così ottenuto. Una parziale eccezione era rappresentata da un "genere editoriale" singolare, che si diffonde dalla metà del III secolo a.C.: i "rocoli antologici~ in cui escerci tracci da opere di autori diversi, e talvolta da diversi generi letterari, venivano "cuciti" insieme su base solo latamente tematica; ma le antologie su papiro giunte sino a noi rientrano spesso ne!J'ambico di una produzione libraria "informale" che seguiva altre regole e un'estetica diversa (cfr. infra, pp. 209-u).

La cura del libro li rotolo così ottenuto era un supporto omogeneo, concepico per rispondere nel modo migliore alle esigenze di conservazione e trasmissione dei cesti all'interno di sistemi letterari basati su principi di produzione e fruizione molto diversi dai nostri, e sopratrucco molto più resistente di quanto non si possa immaginare: gli aucori antichi, greci e latini, non mostrano mai stupore, quando si trovano davanti a libri vecchi di secoli, e persino gli abitanti delle periferie dell'Egitto tendono a conservare, nelle proprie piccole "biblioteche" privare, prodotti librari molto più antichi dei tempi in cui vivevano. Ma anche i rocoli migliori avevano vulnerabilità e punti deboli, al di là del fuoco e deH'acqua, acerrimi nemici dei libri di ogni forma e ogni età (Puglia, 1997). Topi, vermi, tarme e altri inserti venivano naturalmente attratti da una sostanza vegetale come il papiro e diventavano facilmente ghiotti di libri. Muffe e funghi rischiavano di aggredirne la superficie in ogni momento. li continuo svolgimento ne usurava le fibre, che per di più con il tempo tendevano a seccarsi, rendendo più facile il rischio di rotture accidentali. E se per errore un rocolo veniva appoggiato in un punto sbagliaco e finiva

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accidentalmente sotto un oggetto troppo pesante, lo schiacciamento rischiava di deformarlo in modo irreparabile. Per ovviare a questi pericoli, i bibliogmphoi avevano poche risorse a disposizione. Alcuni rimedi erano di tipo, per così dire, strutturale. Nei rocoli più eleganti la presenza di margini ampi era anche un modo per difendere le estremità delle colonne. Nella parte finale, dopo il "blocco titolo" (cfr. infi,z, pp. 156-9), si poteva aggiungere un ampio spazio bianco (agmphon), per evitare che strappi accidentali compromettessero l'integrità dell'opera trascritta. Per lo stesso motivo, all'inizio si poteva aggiungere un protokollon, una protezione molto semplice che consisteva in un "foglio" di papiro aggiunto al kollema iniziale ma con le fibre orientate in direzione opposta; il protokollon diventava così una sorta di "copertina" che proteggeva il rocolo in tutta la sua altezza. Contro gli agenti esterni, invece, le armi disponibili scarseggiavano. Un rimedio popolare era trattare i rocoli con olio di cedro, che si riteneva potesse difendere il papiro dalle aggressioni degli insetti e sicuramente conferiva lucentezza all'inchiostro. Il suo impiego viene ricordato in più di un'occasione da Plinio il Vecchio e da Luciano, che menziona inoltre, con funzione analoga, anche quello del croco (Adv. ind. 16; Puglia, 1 997, pp. 84-5). Un'altra risorsa era l'aggiunta ai rocoli di quello che i Greci chiamavano omphalos (umbilims per i Romani): un bastoncino usato come perno attorno al quale svolgere e riavvolgere il libro, una sorta di "anima" pii1 solida e resistente, aggiunta nell'intercapedine che si creava al centro del rotolo una volta richiuso, la cui funzione primaria, più che renderne pii1 agevole la consultazione, era ridurre i danni potenziali da schiacciamento ed evitare l'accumulo di sporcizia. Normalmente gli umbilici erano di legno o di osso, ma i bibliomani più esaltaci per impreziosire i loro volumi potevano arrivare a commissionarne esemplari in materiali preziosi come l'oro (Luc., Adv. ind. 7 ). A Ercolano, inoltre, accanto al modello consueto "a bastoncino•: sono stati trovati anche più economici umbilici "a capsula': adibiti alla stessa funzione ma simili più a "tappi" da usare in coppia, trasferibili con facilità da un libro all'altro (Capasso, 1995, pp. 73-98; Johnson, 2009, pp. 263-4). I rotoli, infine, anche all'interno delle teche o nicchie in cui erano riposti, potevano essere ulteriormente protetti riponendoli in sacchetti, fatti di tessuti pii1 o meno pregiati, dalla pergamena color porpora, gradita canto a Marziale (x, 93, 4) quanto al collezionista ignorante preso in giro da Luciano (Adv. ind. 7 ), alla più semplice mussola che proteggeva

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>splendido rotolo dei Parteni di Alcmane (P.Paris 71, I sec. d.C.), deposto ra le gambe di una mummia sepolta nei pressi della piramide di Saqqara (Egger, 1863, p. 159); e anche il rotolo del giovane sepolto sotto la Odòs Olgas era protetto da un sacchetto di cuoio (Karamanou, 2016, p. 52). Tutte queste "strategiedifensive" venivano portate a termine in vari momenti della vira del libro: alcune, come l'ampiezza dei margini, erano pianificate al momento della sua progettazione; l'aggiunta di accorgimenti come ilprotòkollon e I' omphalòs poteva avvenire, invece, in qualsiasi momento, e probabilmente era ripetuta a più riprese, come il trattamento con olii pregiati. Bibliofili incalliti e intellecruali fuori dagli schemi erano orgogliosi di svolgere da soli queste attività: secondo una versione alternativa di un noto aneddoto, persino Diogene, il più famoso dei filosofi cinici, amava trascorrere il proprio tempo a restaurare i suoi rotoli, e sarebbe stato immerso proprio in quella attività quando il re Alessandro Magno si recò da lui per incontrarlo". I collezionisti più indaffarati preferivano, in ogni caso, lasciar fare a specialisti di fiducia, come i glutinatores menzionati in una lettera di Cicerone ad Attico (.Att. IV, 4-a) e prima ancora da Lucilio (fr.798 Krenkelt. Accanto al supporto, anche il resto in esso contenuto poteva ricevere in momenti diversi "cure" filologiche, più o meno avvedute, da parte di "professionisti" o degli stessi lettori e possessori dei libri ( al di là di casi irrecuperabili, come il bibliomane lucianeo, incapace persino di intendere i versi più banali). Alcuni copisti professionali erano capaci di garantire una certa sorveglianza della qualità del resto trascritto e correggere errori oppure omissioni, badando al tempo stesso, quando era troppo tardi per ricorrere a un colpo di spugna, a non guastare l'aspetto della colonna mediante semplici accorgimenti: ad esempio, segnalare le cancellature non con freghi grossolani ma con puntini leggeri o trattini, talvolta solo al di sotto o al di sopra delle lettere da espungere, o inserire al di sopra del rigo le lettere mancanti, in grafie più minute 11• In alcuni casi si poteva giocare anche con il tipo di scrittura utilizzata: lo scriba che ha vergato il P.Oxy. x 1234 (II sec. d.C.), una lussuosa raccolta di poesie di Alceo, oltre a correggere molti piccoli errori ortografici evitando di lasciare tracce vistose, si preoccupa di rimediare a una svista più grossolana - l'omissione di un verso proprio all'inizio di un carme - riscrivendo la parte errata in una scrittura di tipo diverso, inclinata a destra, e in corpo lievemente minore, salvaguardando, così, l'aspetto complessivo della tormentata colonna. Non sempre i copisti erano all'altezza di questo compito, e spesso, an-

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che in rocoli sontuosi socco il profilo grafico e materiale, gli errori non visti erano molti di pii1 di quelli individuaci: nell'unico frammento papiraceo superstite della Psephoph01-ù1 di Claudio Tolomeo (PL II/33, II-III sec. d.C.; Acerbi, Del Corso, 2014) - un complesso craccato in cui venivano descritti i Klmones, le tavole astronomiche realizzate dall'astronomo stesso - lo scriba, capace di eseguire una versione particolarmente calligrafica di una scrittura elegante come la "maiuscola rotonda" (Cavallo, 2008, pp. 95-8), commette ere errori in dieci righe, e ne corregge solo uno. Per questo la "cura del cesto" cominciava soprattutto dopo che la trascrizione si era conclusa e poteva continuare per tutta la vita del libro. Atelier librari ben quotaci e particolarmente attrezzaci potevano avvalersi di correccori specializzaci (diorthotai, anche se con questo termine nelle fonti sono indicaci sopractucco studiosi veri e propri, "filologi" capaci di emendare i cesti), che rileggevano e correggevano i rocoli appena trascritti per garantire la qualità testuale del prodotto. Le tracce del loro lavoro, per quanto labili, si individuano ancora in alcuni dei libri superstiti. Il lussuoso rocolo dell'Iliade crovaco in una comba di Hawara, adagiato come un prezioso cuscino socco la cesta di quella che in vita ne era la probabile proprietaria, risulta revisionato sistematicamente da un correccore che aggiunse, al di socco del colophonfinale, una semplice nota per segnalare di aver effettuato il lavoro: ÒL(),da intendersi come (libro) "correcco",oppure "ho corretto" (P.Haw., pp. 24-8; Schironi, 2010, n. 28); qualche decennio più tardi la stessa sigla si ritrova nel cicolo finale di un altro rocolo omerico, P.Ross. Georg. I 4 (Iliade, III sec. d.C.; ivi, n. 41). A professionisti incaricati di un compito di questo tipo, inoltre, potrebbero essere attribuite alcune correzioni realizzate, in prodotti librari di boccega, da mani dotate di alta educazione grafica ma diverse da quella dello scriba principale (si pensi ad esempio a un rocolo della Contro Ctesifòntedi Eschine, il P.Oxy. XXIV 2404, n sec. d.C.). E cuccavia,al di là della difficoltà a identificare la paternità della correzione, su questi "revisori di libri" ricade ancor di più l'aura di indeterminatezza che avvolge cuccele figure addette alla produzione di libri nel mondo greco-romano. I grandi intellettuali, specialmente in età romana, potevano contare su assistenti e scribi specializzaci nei compiti più diversi, che li coadiuvavano nell'allestimento di qualsiasi progetto librario volessero porcare a compimento, sia che si trattasse di pubblicare i propri sericei sia che, al contrario, sentissero il bisogno di avere una nuova edizione di opere del passato (Pecere, 2010, pp. 187-92 e passim). Ma il pii1 delle volte si assumevano in prima persona

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l'onere della correzione del resto definitivo. Galeno, ad esempio, racconta di aver farro allestire moire edizioni personali di autori "classici", in cui si era occupato in prima persona della fase di correzione (eptZnÒrthosis) delle parole sbagliare «a causa della scrittura» dei copisti (De ind. 13), una formulazione che ricorda i libm1·iorum menda tanto temuti da Cicerone (cfr. ad esempioAtt. XIII, 23, 2). A un livello inferiore, la cura del testo era spesso garantita dagli sforzi dei lettori. I rocoli provenienti dall'Egitto sono cosrellari di correzioni, annotazioni esplicative, talvolta lezioni alternative tratte da altre copie. Nei rotoli informali, realizzati al di fuori del circuiro ufficiale di produzione libraria da mani non specializzare nella trascrizione di resti letterari, è frequente imbattersi in correzioni sostanziali, apposte senza badare all'estetica ma cercando solo di rendere il resro comprensibile. I lettori, in ogni caso, non esitavano a intervenire anche su rocoli di migliore qualità. Alcuni papiri della prima età tolemaica mostrano già i segni tangibili delle attenzioni editoriali di )errori insoddisfatti: il rotolo palinsesto dell'Odissea da Medinet Ghoran (P.Sorb. inv. 2245) mostra già innumerevoli correzioni, aggiunte da due mani, sostanzialmente contemporanee al resto, che non si limitano a rimediare alle pecche del copista distratto, ma in più punti aggiungono nelle interlinee e nei margini lezioni alternative, frutto evidentemente della collazione con una seconda copia, diversa dall'antigrafo (Maltomini, Pernigorri, 1999 ). Questo papiro era un prodotto di mediocre qualità, forse realizzato localmente nelle nuove periferie in cui si erano insediati i coloni sotto l'impulso delle poli riche della corona: non stupisce, dunque, che i lettori-correttori non abbiano esitato a intervenire pesantemente sul rotolo con le proprie scritture, corsiveggianti e prive di pretese. I lettori, a ogni modo, non esitavano a ritoccare anche rotoli ben più pregiati, senza curarsi della resa estetica finale. Molti rocoli da Ossirinco contenenti resti poetici, complessi anche solo per il dialetto in cui erano scritti, mostrano questo tipo di atteggiamento. L'Alceo P.Oxy. XXI 2295 (1 sec. d.C.; FIG. 25), già in parre corretto dallo scriba principale, viene rimaneggiato da almeno altre cinque mani, che non esitano a cancellare parole sbagliare o proporre varianti, a volte riferendosi all'autorità di due studiosi popolari a Ossirinco, Apione e Nicanore, e in più costellano il testo di appunti disordinati, nei margini e negli spazi interlineari. Su basi paleografiche, due almeno di questi lettori-correttori vanno riferiti al II o al 11-111 secolo d.C.: l'arco degli interventi, dunque, si sussegue per quasi un secolo dopo la trascrizione

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Un rocolo di Alceo con annotazioni (P.Oxy. et)' / Imaging Pap)'ri Project, Oxford Universit)' 2.5

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2.2.95).© Eg)'pt Explor,uion Soci-

del rocolo. E considerazioni analoghe si potrebbero fare per centinaia di prodotti librari, più o meno eleganti, più o meno affidabili socco il profilo testuale. La cura del cesto era una preoccupazione che investiva i lettori più ancora di bibliographoi e bibliopolai, anche se non sempre i primi risultavano dotaci delle competenze (e delle energie) necessarie per porcare a compimento un controllo "filologico" sistematico. Nel rapporto con il cesto il lettore non si limitava alla correzione ma inseriva talora elementi aggiuntivi volei a facilitare la lettura (spiriti, accenti, segni diacritici) o noce di commento, a volte frutto di riflessione erudita, più spesso funzionali a chiarire passi complessi (McNamee, 2.007 ). La stratificazione di questi interventi, come si è accennato nel caso del P.Oxy. XXI 2.2.95, poteva protrarsi per generazioni di leccori. ln alcuni casi possiamo persino fare delle ipotesi sulla loro cultura o sulla loro professione: la mano che ha aggiunto a un rocolo della Repubblica di Platone, P.Oxy. xv 1808 (n sec. d.C.), correzioni e noce di commento era probabilmente quella di un insegnante (cfr. infra, p. 2.04), ma in altri casi

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annotazioni e interventi sono il frutto di lettori pili inesperti, da identificare forse con studenti, com 'è stato proposto, ad esempio, per roroli contenenti lirica corale, come P.Oxy. XVIII 1165 (Alceo, II sec. d.C.) o P.0:.\1'·v 841 (Pindaro, Pea11i,II sec. d.C.; McNamee, 2007, pp. 25-6); e non dovevano mancare, ovviamente, annotatori/correttori al di fuori del sistema scolastico e privi di velleità intellettuali, ma animaci solo da interesse o passione per la letteratura di un passaro consideraro parte essenziale del proprio retroterra culturale. Ma pur non esitando a intervenire di proprio pugno anche su libri preziosi o scritti molro prima della loro nascita, nessuno di questi individui sente mai il bisogno di aggiungere notazioni personali o elementi che rimandassero al contesro in cui le operazioni di "cura" testuale e di lettura si erano svolte; solo in margine a passi, considerati particolarmente interessanti, troviamo a volte l'annotazione di due lettere, XP•da sciogliere in chreston (o una forma analoga), "utile~ Come gli scribi, anche i lettori, nel mondo antico, preferivano l'anonimato.

Gli spazi per la conservazione Le fonti indirette e l'esame dei rotoli superstiti lasciano intravedere, dunque, il fascino e la complessità di tutte le operazioni, materiali e incellectuali, che ruotavano attorno al rotolo. Per aggiungere consistenza a questo scenario dobbiamo provare a soffermarci su un altro aspetto ancora: quali erano gli spazi entro cui si verificavaquesto intreccio di pratiche, e in generale dov'erano conservati i libri? Per secoli, nell'Atene periclea come nella Roma imperiale, passando attraverso cittadine e villaggi dell'Egitto, le fonti lasciano intravedere un elemento comune di fondo: la separazione tra spazi per la conservazione e spazi per tutte le forme di fruizione. Nel mondo greco-romano non esistevano ambienti specifici per la lettura, lo studio o la cura materiale dei libri. Come mostrano una pluralità di testimonianze iconografiche, le prime raccolte di libri, nell'Atene classica, erano racchiuse in cassette, non troppo dissimili dagli eleganti cofanetti in cui le dame della buona società riponevano la biancheria migliore. L'uso di cassette e cofanetti è ben attestato anche nei secoli successivi: in cassette di legno, ad esempio, era conservata parte dei rocoli della Villa dei Papiri di Ercolano (Longo Auricchio et al., 2020, pp. 53-9), e al contenuto di un oggetto analogo, forse, si riferi-

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I 2.1

sce un'etichetta di pergamena trovata ad Antinoupolis (P.Ant. I 2.1). In età romana, tuttavia, il contenitore di libri più diffuso era la capsa,di forma cilindrica e spesso dorata di una tracolla, che ne consentiva pit1 agevolmente il trasporto. In Egirco è attestata un'altra possibilità, probabilmente diffusa, al di fuori delle élite, anche in altre regioni: lasciare i papiri in una giara, senza badare troppo a separare rotoli letterari (quando c'erano) da documenti. In una giara, ad esempio, erano conservati i libri e i "'archivio" privaco di Tolomeo figlio di Glaucia, katochos(una sorca di adoracore con obbligo di dimora) del dio Serapide nel tempio di Menfi verso la metà del II secolo a.C. (cfr. supm, pp. 34-5). Le raccolte di libri più consistenti erano ospitate invece in stanze apposite dotate di nicchie ricavare nei muri, scaffalature o armadi. Ambienti di quesco tipo rappresentavano il cuore delle grandi biblioteche antiche sin dall'età ellenistica, ma si trattava di locali adibiti di farro a semplici magazzini, privi di particolari attenzioni architettoniche e dunque di solico trascurati dalle fonti. La descrizione relativamente dettagliata che Scrabone (xvu, 1, 8) fornisce del leggendario Museo di Alessandria - fondaco all'inizio della monarchia - non parla del deposito dei libri, in cui erano custodite decine di migliaia di rotoli: il geografo menziona un porticato, un'esedra, dove i dotti discutevano e si azzuffavano, e una sala grande (un oikos) in cui avvenivano ricevimenti e pranzi ufficiali. Nessuna indicazione viene fornica, invece, sulle modalità di accesso alla collezione di libri, sulla loro collocazione, sui luoghi in cui venivano letti (Fraser, 1972., pp. 312.-35; Coqueugnioc, 2.013, pp. 71-4). Della biblioteca di Alessandria non abbiamo evidenze archeologiche, ma individuare le stanze dei libri è complesso anche quando si dispone di resti architettonici da esaminare. È quello che vediamo, ad esempio, con la grande rivale di Alessandria, Pergamo. Secondo la ricostruzione tradizionale - accolta ancora dalla maggior parte degli specialisti (Blanck, 2.008, pp. 2.53-7 ), ma messa in dubbio da alcuni per la sua natura indiziaria (status quaestionis in Coqueugnioc, 2.013, pp. 12.3-31) - la biblioteca sarebbe stata ospitata in un complesso formato da quattro stanze di grandi dimensioni e alcuni ambienti minori, "di servizio", cui si accedeva mediante un grande porticato accanto al tempio di Atena Polias. La stanza più grande conteneva un enorme podio, su cui forse si ergevano le statue di scrittori e poeti: è possibile che fosse una sala da banchetto, analoga a quella alessandrina, ma ancora una volta non sono mancate altre interpretazioni; gli altri ambienti risultano invece del rntco privi di elementi

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che consentano anche solo di ipotizzarne la funzione, e lo stesso si può dire per le stanze più piccole: non sappiamo se i libri fossero sul retro o, viceversa,se fossero esibiti accanto alla stanza con il podio. L'unica specificità architettonica caratteristica, se si accetta l'identificazione, è il nesso con il porticato. E una situazione analoga si ritrova, su scala più ridotta, nel palazzo di Ai .Khanum,dove l'ambiente che conteneva i rotoli era una semplice stanza lunga e stretta, ubicata nei pressi della tesoreria del palazzo e adiacente a un peristilio ( ivi, pp. 69-70 ). La situazione si fa più articolata nel mondo romano (Fedeli, 1997; Nicholls, 2013;Houscon, 2014; Palombi, 2014; Cavallo, 2019, pp. 109-16; Campbell, Pryce, 2020, pp. 53-76,con splendide foto). Nel corso dell'età repubblicana, a partire dalle prime conquiste in Oriente, la città era stara inondata di pregiaci rocoli greci, provenienti dalle biblioteche di personaggi più o meno celebri, trasferire in blocco nell'Urbe, alla stregua di altri oggetti preziosi e opere d'arte, come preda spettante ai vincitori: in questo modo Lucio Emilio Paolo, dopo la vittoriosa battaglia di Pidna (168 a.C.) porrò a Roma i libri di Perseo, re di Macedonia; Silla, dopo aver saccheggiato Arene nell'86 a.C., si impadronì della straordinaria collezione di Apellicone di Teo, che comprendeva anche buona parre della biblioteca appartenuta ad Aristotele; Lucio Licinio Lucullo, olcre ad aver incrodocco a Roma, di ritorno dalle sue spedizioni in Asia, la pianta del ciliegio - un merito che gli fu riconosciuto anche da un critico severo dell'imperialismo come Bercold Brecht - porrò con sé i libri del re del Ponto Mitridate, uno dei peggiori nemici dei Romani, e l'elenco porrebbe facilmente continuare. Accanto ai libri viene introdotto nella cultura romana il modello ellenistico della biblioteca-deposito circondata da porticati, ma incastonandolo nel)' archi ceccura delle eleganti domus patrizie. Nei pressi del tablino o accanto al peristilio - il cortile colonnato interno della casa romana - trovano la loro collocazione armadi, scaffali e stipi colmi di rocoli, talvolca raffinacamence incagliati o incastonaci d'avorio (una moda destinata a durare ancora ai tempi di Seneca, che comunque la disapprovava: Dia/. IX, 9, 6). L'allestimento di una biblioteca, basata in primis su un nucleo di cesti greci, diventa così un modo per far sfoggio di cultura e generosità, e propiziare al tempo stesso la creazione di cerchie incellectuali e il rinsaldamento di vincoli di amicizia (utili anche in chiave politica): Lucullo, ad esempio, dispose i rocoli provenienti dall'Asia nella sua villa di Tuscolo, entro ambienti volutamente ispiraci alla biblioteca di Alessandria, così da poter ospitare,

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socco i suoi portici ombrosi, pensatori greci e latini, con cui discutere di filosofia, e da mostrare un vero spessore intellettuale ad amici e colleghi, con cui affrontare più delicate questioni politiche; e non è un caso che in questa villa sia ambientato uno dei trattati filosofici più importanti di Cicerone, il De finibus (Fedeli, 1997, p. 33). Gli spazi dedicati ai libri, nel giro di pochi decenni, si allargano e diventano sempre pili lussuosi, con l'aggiunta di statue e quadri. Cicerone, ad esempio, parla spesso, nel suo epistolario, degli acquisti facciper abbellire il "ginnasio" (ivi, pp. 34-8) e la biblioteca della sua villa di Tuscolo, rigorosamente in linea con la funzione delle stanze: guai a collocare accanto a libri, ad esempio, un gruppo di Baccanti al posto di un corteggio di Muse, come pure uno dei suoi fornitori una volta provò a proporgli (ad fam. VII 2.3; Papini, 2.010, p. 133). Le biblioteche private dei Romani altolocati diventano così qualcosa di diverso dal modello originario: da spazio di conservazione a sala di ostentazione, non necessariamente funzionale al perseguimento di obiettivi culturali ben precisi e spesso contenente quantità enormi di rocoli ammucchiati senza una pianificazione precisa e senza la spinta di una vera consapevolezza intellettuale. Il fenomeno è particolarmente evidente in età imperiale. Per Vitruvio, il grande teorico dell'architettura romana, una casa dotata, oltre che di ambienti adeguatamente eleganti, di una biblioteca e di una pinacoteca era un requisito fondamentale per chi voleva avere successo nella carriera politica (vI 8, 2.). Non a caso il simbolo degli arrampicatori sociali di età imperiale, il Trimalcione del Satyricon, non esita a vantarsi di avere nella sua dimora non una soltanto, ma ben tre biblioteche. E Seneca, nella sua prospettiva scoicheggiante, guarda con aristocratico disprezzo a questo modo di intendere il libro, accomunando i rotoli raccolti dai Tolomei nella biblioteca di Alessandria a quelli stipati inutilmente nelle case dei suoi contemporanei. «Ad Alessandria bruciarono quarantamila libri», scrive nel!' opuscolo Sulla tmnquillità dell'animo. «Qualcuno potrebbe lodarli come segno tangibile di opulenza regia[ ...]. Quella non fu né eleganza né cura, ma piuttosto una studiata lussuria, e anzi studiata proprio no, perché avevano acquistato quei libri non per lo studio, ma per l'ostentazione». E continua, più oltre: Come si può scusare un uomo che si procura librerie di avorio e legno di cedro, raccoglie le:opere di autori ignoti o screditaci, sbadiglia in mezzo a migliaia di rotoli, e che poi dei suoi volumi apprezza soprattutto le estremità e il titolo?[ ...]

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Ormai la biblioteca si è trasformata in un orpello decorativo della casa, tra la sala da bagno e la sauna (Dr,il IX, 9, S·i ).

La finalità politica e propagandistica risulta ancora più evidente dal modo in cui erano concepite le biblioteche pubbliche. Il primo a pensare di dotare l'Urbe di una biblioteca pubblica, contenente libri greci e libri latini, fu Cesare, nell'ambito del progetto di rinnovamento urbanistico concepito all'indomani della sua presa del potere, e destinato a rimanere in larga parte incompiuto. La struttura che il dittatore aveva immaginato non vide mai la luce, ma la sua idea fu recepita prima da un suo seguace, Asinio Pollione, e poi dal suo erede, Orcaviano Augusto, che edificò una grandiosa biblioteca nei pressi del tempio di Apollo sul Palatino. Questo edificio era dorato di un porticato, in ossequio alla nobile tradizione ellenistica, ma la sua struttura presentava un'innovazione fondamentale rispetto al vecchio modello: i libri, qui, secondo un mutamento che si era già imposto in alcune domus patrizie, erano collocati non in un deposito separato, ma in due ambienti, all'interno di nicchie raggiungibili mediante un podio (Palombi, 2014, pp. 100-5). Queste sale erano adibire a una pluralità di accivirà sociali, di cui la consultazione dei volumi era solo una parre; al loro interno era possibile incontrare amici, con cui discutere di argomenti più o meno letterari, e, secondo quanto riferito dalle fonti, potevano svolgersi conferenze, letture pubbliche, o talvolta eventi più squisitamente politici: l'imperatore le usava, ad esempio, per ricevere ambascerie o persino per ospitare in occasioni particolari le riunioni del Senato. Augusto fondò una seconda biblioteca nella porticus Octaviae, concepita secondo criteri analoghi. Dopo di lui l'apertura alla cittadinanza di spazi di questo tipo, profondamente diversi per funzione e struttura dai modelli ellenistici, divenne un intervento quasi obbligato per ogni nuovo regnante. E questa nuova tipologia architettonica non rimase limitata all'Urbe, ma si diffuse in tutto l'impero, anche nelle regioni orientali. Esempi illustri ne furono la biblioteca di Celso a Efeso (Houston, 2014, pp. 189-94), o quella fondata da Adriano nella nuovaagora di Arene, all' interno di un complesso monumentale adibito a una pluralità di funzioni, che comprendeva, oltre a una grande sala, in cui i libri erano custoditi entro nicchie ricavare nelle pareti, anche ambienti con gradinare, identificati con auditoria per lo svolgimento di lezioni, conferenze, performance oratorie e poetiche (Corcella, Monaco, Nuzzo, 2013).

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L'esaltazione monumentale degli spazi dedicati ai libri si accompagnò, soprattutto nella prima fase, a un notevole incremento del personale specializzato dedicato alla cura dei rotoli. La biblioteca palatina e quella della porticus Octaviae, ad esempio, potevano contare, oltre che sulle competenze di grammatici di alto livello incaricati di organizzare i fondi librari posseduti (le fonti parlano per la prima di un certo Pompeo Macer, seguito ben presto dal più noto Igino, per la seconda di un altro studioso, Gaio Melisso), di un vero e proprio staff, composto per lo più da individui di condizione servile (le iscrizioni parlano in questo caso di schiavi a bybliothece), addetto a mantenere i libri nelle migliori condizioni possibili (Houston, 2.014, pp. 2.17-52). Ma venuto a mancare il fondatore, questi sforzi rischiavano di diventare sempre più sporadici, fino a interrompersi. In questo caso i libri, ammucchiati in stanze sfarzose e in decadenza, si riducevano a un ornamento fragile, di cui era facile dimenticarsi e destinato a soccombere agli attacchi delle muffe e dell'umidità, come accadeva persino, a quanto racconta Galeno, ai rotoli delle collezioni imperiali 14 •

s Formati e standard editoriali del rotolo di papiro

Le coordinate di massima finora descritte, a partire dalla prima disposizione e ripartizione del cesto fino agli sforzi per proteggerlo e correggerlo, regolano la produzione libraria su rocolo per tutto l'arco della sua scoria. Da rilevare è invece la varietà dei formaci, che si evolvono, nel corso dei secoli, sulla base delle trasformazioni intercorse nel sistema dei generi letterari e nella composizione sociale del pubblico dei lettori. Ricostruire questo aspetto, partendo dalle testimonianze papiracee superstiti, è possibile solo a grandi linee, e con molte approssimazioni.

La "protostoria" Nella prima fase della sua esistenza il rocolo doveva caratterizzarsi per una notevole flessibilità di dimensioni e formaci. Il papiro dalla Odòs Olgas, l'unico testimone papiraceo superstite riferibile al v secolo a.C., è troppo frammentario per restituire indicazioni "bibliologiche" coerenti. La varietà di formaci tipica della prima produzione libraria greca, tuttavia, risulta evidente dalla documentazione risalente a un'epoca immediatamente successiva. Essa emerge, ad esempio, dai due testimoni più illustri della produzione libraria del IV secolo a.C., il "papiro di Derveni" (P.Derveni; FIG. 26), contenente un'opera in cui erano commentati versi attribuiti al mitico Orfeo, e il "papiro di Timoteo" (P.Berol. inv. 9875; FIG. 27 ), l'unico testimone dei Persiani,un ditirambo di Timoteo di Mileco (446-357 a.C.). Non sappiamo dove siano stati prodotti i due rocoli. In considerazione di alcune peculiarità linguistiche si è pensato che il primo fosse stato trascritto nell'Areica (Lulli, 2011, p. 103) e il secondo in una polis microasiacica (Wilamowitz-Moellendorff, 1903, pp. 8-10), ma non disponiamo di elementi sicuri per stabilirlo. Entrambi, in ogni caso, provengono da con-

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26 P.Derveni, col. xx (montaggio G. Parassoglou e K. Tsanr anoglou). © Archaeological Museum ofThessaloni.ki / Olschki edicore

cesti funerari: il primo è stato rinvenuro in una necropoli pres o Derveni (da cui il nome), a nord di Salonicco, destinata ad accogliere le spoglie di membri dell'alca società macedone a cavallo tra il regno di Filippo II e quello del figlio Alessandro Magno; il secondo proviene invece da una più umile romba nei pressi di Abusir, in Egirro, confusa in mezzo a centinaia di alcre sepolture di genre di condizioni più o meno modeste. Ed entrambi risulrano scritti nello stesso arco cronologico, i decenni immediatamente precedenti 1'età di Alessandro Magno, senza tuttavia che sia possibile stabilire quale dei due reperti sia il più antico. Ma le differenze nelJ 'aspecco dei due rocoli sono notevoli. Diversa è la scrittura: elegante e regolare nel papiro di Derveni, ricca di disomogeneità e meno posata nel Timoteo. Diverse risultano, inolcre, le loro caratteristiche materiali. La parte superstite del rocolo "orfico" era lunga complessivamente olcre ere metri e alca circa 17 cm, con colonne di non più di trenta righe ciascuna (P.Derveni, pp. 4-8; l'opera originaria doveva occupare comunque uno spazio maggiore, e non possiamo escludere che fosse trascritta su più rocoli). Il testo è disposto sulla superficie scritto-

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2.7 Il "papiro di Timoteo" (P.Berol. inv. 9875). © Scaacliche Museen zu Berlin, Agypcisches Museum und Papyrussammlung

ria in modo relativamente complesso: gli esametri attribuiti a Orfeo sono distinti dal commento mediante paragraphoi e lo scriba, in più, si sforza, anche per le sezioni in prosa, di far coincidere costantemente fine di rigo e fine di parola, un accorgimento funzionale a rendere la lettura pili agevole, destinato a scomparire nei secoli successivi. Le condizioni di conservazione del rotolo di Abusir sono migliori e consentono di intravederne la fisionomia libraria in modo più chiaro, mostrando un'impostazione del tutto diversa rispetto a quella del rocolo di Derveni. Attualmente il rotolo è diviso in pili parti, per esigenze di conservazione, ma in origine era sostanzialmente integro (con l'eccezione della sezione iniziale, frammentaria) e misurava poco più di un metro (ur cm); era stato concepito, dunque, per contenere soltanto il ditirambo di Timoteo. li testo era ripartito solo su sei colonne, alce ciascuna 18,5 cm, ma comprendenti un numero diverso di righe, perché lo spazio interlineare non è mai costante; anche la loro larghezza varia molto, oscillando tra r S,S e 2.4 cm: lo scriba trascrive i versi senza badare alla loro suddivisione in cola, ma cercando al più di far coincidere ciascuna riga con un'unità metrica ampia (kata stichon), anche se a volte non viene rispercaco nemmeno questo criterio, al punto che una stessa parola è spezzata tra un rigo

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e l'altro (Hordern, 2002, pp. 65-73), così da rendere la comprensione del dettato poetico - di per sé non semplicissimo - ancor più complessa; solo le "macrosezioni" del componimento sono separare da segni diacritici (patàgtaphoi e una coronide; cfr. in_fi"a, pp. 152-4). Non siamo in grado di definire quale fosse il "pubblico" per il quale i due rocoli furono concepiti: il papiro di Derveni, gettato sulla pira funebre del defunto presso la cui romba fu rinvenuto (e sopravvissuto in parte solo grazie a un singolare processo chimico che ne ha consentito la semicarbonizzazione), è staro messo in relazione con pratiche rimali e culti orfici (Piano, 2016, pp. 26-8 e 353-4), mentre il rorolo di Timoteo è staro ora considerato il prezioso bene di un cantore originario dell'Asia Minore (Turner, 2004, p. 6), ora semplicemente come uno dei libri della comunità greca insediata a Menfi sin dal VI secolo a.C. (van Minnen, 1996). Al di là degli aspetti "tecnici", le differenze smmurali dei due rocoli lasciano intravedere la coesistenza di modalità di lettura e fruizione delle opere letterarie diverse e fluide, all'interno di un sistema dei generi in cui i cesti erano concepiti spesso in vista di occasioni o performance specifiche, e le caratteristiche materiali dei libri che li contenevano di volta in volca si conformavano a queste esigenze, piurtosro che rendere a soddisfare le esigenze di un pubblico astratto di !errori. Così, per molci generi poetici, la lunghezza di una composizione rifletteva la durata dell'esecuzione, e, una volca terminata l'occasione per cui il cesto era stato concepito, le modalità della sua "pubblicazione" erano varie e al di fuori di qualsiasi regola editoriale. I libri destinati ad accogliere opere nate ali' interno di un simile sistema comunicativo non potevano che avere formaci diversi. A un alcro estremo, le fonti superstiti inducono a credere che una scrurcurale disomogeneità caratterizzasse anche i supporti librari destinati a tramandare tipologie testuali, come craccacie dialoghi filosofici, svincolare da parametri esecutivi prefissaci e i cui autori, anzi, si proponevano scientemente il loro superamento, in nome di una libertà di speculazione che non doveva essere influenzata nemmeno dallo scorrere del tempo. Secondo una scarna nocizia di Diogene Laerzio, Platone pubblicò i suoi dialoghi suddividendoli in tetralogie, "gruppi di quattro': come avveniva anche per le tragedie (Diog. Laer., III, 56-57). Non sappiamo quali riflessi, socco il profilo librario, potesse avere questo modo di raggruppare le opere nella prima fase di circolazione editoriale del corpus,ma in queste tetralogie coesistevano dialoghi brevi e opere di notevole estensione, e questo lascia intravedere una loro originaria destinazione a "contenitori cescuali" di dimensioni molco diverse.

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La disomogeneità dell'assetto librario dei testi filosofici di età classica riaffiora ogni volta che Diogene si cimenta con l'impresa di ricostruire l 'elenco delle opere di pensatori vissuti in quel periodo. Ad alcuni discepoli di Socrate, ad esempio, viene attribuita una cospicua produzione di dialoghi, evidentemente di breve estensione, dotaci tutti di un proprio titolo ma raccolti in una sola biblos: quella con le opere di Cricone ne avrebbe contenuti diciassette (Diog. Laer. II, 121), quella di Simmia ventitré (11,124), e addirittura trentatré quella del ciabattino Simone, anche se il catalogo in questo caso contiene evidenti errori (II 122; Gigante, 2.002, p. 486, nota 310). Al contrario, i trattaci di un pensatore più profondo e radicale come Antistene, capostipite della scuola cinica, erano ripartici in tomoi, all'interno dei quali, cuccavia,alcune opere risultano ulteriormente suddivise in bibloi (v1, 15). Ancora una volta, al di là dei fraintendimenti in cui Diogene - e prima ancora le sue fonti - potevano essere incappaci, dietro la varietà editoriale intravediamo un sistema di produzione libraria ancora privo di punti di riferimento e standard condivisi. La stessa impressione è avvalorata da ulteriori elementi, desumibili da alcri accenni nelle fonti letterarie all'aspetto dei libri o dalle raffigurazioni iconografiche. Platone, per restare in ambito filosofico, fornisce molti spumi di riflessione. Il rotolo con il discorso di Lisia sull'amore, che Fedro, nel dialogo di cui è protagonista, dice di leggere e rileggere, è così piccolo da essere tenuto nella mano sinistra sotto il mantello (Phaedr.228d); e cale doveva essere anche quello contenente uno strampalato encomio del sale «per l'uso che se ne può fare», menzionato da uno dei protagonisti dd Simposio, il sofista Erissimaco (177c). Al contrario, il rocolo che si immagina custodisse il resoconto delle lunghe discussioni era Socrate e Teececo, menzionato ali' inizio del dialogo che dal secondo prende il nome, doveva essere necessariamente molto più grande (Theaet.143a-e), come del resto quello con le teorie di Anassagora (Phaed.97c), o quello cui era affidata l'esposizione della dottrina di Parmenide, che Platone immagina fosse stato letto da Zenone di fronte a un pubblico di eccezione, tra cui spiccava naturalmente anche Socrate (Pann. 127c). Altre testimonianze ricordano libri contenenti i generi letterari più diversi, ma spesso, come si è già detto più volce, sono avare di dettagli sul loro aspetto: così, non abbiamo indicazioni su come fossero i libri di Orfeo, Omero, Cherilo ed Epicarmo che, nel Lino di Alessi (un commediografo del IV secolo a.C.), vengono mostrati a un impacciato Eracle (fr. 140 K.-A.), né sul biblion da cui il Venditore di Oracoli trae foschi presagi negli Uccellidi Aristofane (vv. 959-991).

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Possiamo solo immaginare che si trattasse di oggetti facilmente riconoscibili per il pubblico riunito a teatro. Allo stesso modo, non sappiamo come fossero fatti i libri di Euridemo, un giovinetto di belle speranze vissuto nell'Atene postpericlea che, racconta Senofonte, aveva usato i denari di famiglia per procurarsi «moire opere l~111mm,1ta]di quelli che sono definiti sapienti» e soprammo un'edizione completa di «tutti i versi di Omero» (J\1em.IV, 2, 8-u). Ma possiamo essere certi che accanto a libri così impegnativi i suoi coetanei amassero anche rocoli con testi pit1 frivoli e di piccolo formato, come quello su cui circolava la raccolta di canzoncine simposiali (skolia) tramandata interamente da Ateneo nella monumentale raccolta di curiosità letterarie che porta il nome di Sofisti ,z b,znchetto (xv, 694c-695f; c,11wi11a convivalia 884-908 Page). E libri di tutti i formati sono dipinti durame il v secolo a.C. dai ceramografi attici: alcuni sono così piccoli da risultare alti quanto una mano, e sono comodamente appoggiati sulle ginocchia di Muse ingioiellate o donne dalle fattezze più terrene, intente ad ascoltare con trasporro il proprio amaro'; altri sono molto più alti e vengono impugnati saldamente a due mani, da lettori umani o mitologici>. Di fronte a evidenze così eterogenee pare rischioso formulare supposizioni generali, come ad esempio l'idea che i primi rocoli fossero complessivamente più piccoli (Canfora, 19956, pp. u-2) o al contrario molro più lunghi rispetto a quelli impiegati nei secoli successivi (come ipotizzaro agli albori degli scudi sui rocoli librari amichi da Birt, 1882, pp. 486-90). L'unica costante è l'assenza di standard, conseguenza del ruolo specifico ricoperto dal rotolo come mezzo privilegiato per preservare l'integrità di un'opera letteraria e, solo secondariamente e di riflesso, come strumento per la sua fruizione e trasmissione.

L'età ellenistica e imperiale L'eterogeneità dei formati si ritrova ancora nei materiali della prima età ellenistica, sia pur nell'ambito di coordinate generali che appaiono via via più stabili. Nei primi decenni del III secolo a.C., come mostrano i dati raccolti da Alain Blanchard (1993), l'altezza dei rocoli letterari oscillava da 13 a 35 cm, con una propensione per i formaci "mediani" (17 o 22 cm); da questo conseguivano sensibili variazioni nel numero di righe per colonna, nell'am-

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piezza dei margini e, in generale, nel rapporto tra superficie scritta e superficie totale disponibile. Ancor più fluida risulta la lunghezza dei rotoli, anche se si prendono in esame "contenitori librari" destinaci ad accogliere cesti appartenenti a uno stesso genere letterario. Così, se consideriamo i rotoli con poesia scenica, era i reperti riferibili ai primi decenni del III secolo a.C. una tragedia euripidea come l'Antiope (perduta nella tradizione medievale) poteva essere racchiusa in un rocolo lungo almeno 3,5 metri, alto poco più di 20 cm, con fitte colonne di quasi 40 righe, larghe poco più di 8 cm (P.Petr. I 1-2.; Blanchard, 1993, pp. 2.6 e 38); o diversamente poteva snodarsi per olcre 8 metri, con colonne meno alce ma più larghe, come nel rocolo parigino dell'Eretteo (P.Sorb. inv. 2.32.8,alto 12.,5cm, con colonne di 20-23 righe, larghe 12.,5cm; ivi, pp. 2.4 e 38). Particolarmente difficile a ricondursi entro convenzioni librarie dai contorni de.finiti è la poesia omerica, ben rappresentata, nella prima metà del secolo, da libri eleganti ma di piccolo formato' e da rocoli più grandi e disordinaci, di dimensioni quasi doppie pur contenendo un numero analogo di versi4 • Oscillazioni di alcra natura si individuano, invece, nei formaci dei libri destinaci a contenere testi in prosa. Poiché queste opere - specialmente nel caso della filosofia - avevano un'estensione molco variabile, non stupisce che sin dalle origini i papiri che le contenevano avessero caratteristiche molto diverse. Per i rocoli contenenti i dialoghi di Platone, ad esempio, la lunghezza ricostruibile va dai 4,2 metri del P.Pecr. II 50 - il più amico testimone del Lachete, opera di un copista piuttosto raffinato - agli olcre 16 metri del Sofista contenuto in P.Hib. II 2.2.8,di poco posteriore. L'altezza dei due rotoli risulta a ogni modo identica (26 cm), anche se il Lachete aveva un numero di righe per colonna più ampio (32. contro le 2.3-2.6del P.Hib. II 22.8). Ma in alcri casi cesti di analoga ampiezza risultano trascritti in libri di formato completamente diverso. Il P.Heid. I 2.06 conteneva il primo libro dei lvlemorabili di Senofonte, di lunghezza non dissimile dal Lachete: ma questo rotolo, vergato non molci anni dopo da una mano altrettanto accurata, era pitt alto (34 cm) e comprendeva colonne di 55 righe (ivi, p. 39 ): un vero e proprio primato. Con colonne di questa dimensione, la sua lunghezza doveva essere di circa 2. metri, la metà del rocolo del Lachete. In tutti questi libri in prosa, tuttavia, si coglie, sin dai primi decenni del III secolo a.C., un elemento destinato a rimanere costante per tutta l'età ellenistica: la larghezza della colonna (includendo lo spazio intercolunnare) è compresa di solito tra i 7 e gli 8 cm, mai di più e raramente di meno.

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:i.8 Upiù amico rocolo del Fedone di Plarone (P.Perr. 1 5-8). Da P.Perr. I,

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In questa varierà di formati apparentemente priva di criteri stringenti, emergono a tratti delle caratteristiche tipiche, che rimandano a modelli librari accomunaci da una stessa "estetica': per riprendere una terminologia cara a \Villiam Johnson (2004), e legaci a periodi ben definiti. Alctmi dei rocoli più pregevoli della prima età ellenistica presentano una scrittura ben distinguibile, caratterizzata da tratti sottili e una studiata alternanza di lettere ogivali, alce e strette (omicron, epsilon, theta, sigma), e lettere rettangolari, artificialmente allargare sul rigo (my, ny, omega). Gli esempi più accurati di questa scrittura si ritrovano in rocoli diversi per contenuto e dimensioni - come ad esempio !'Antiope P.Pecr. II 49 (c), il Lachete P.Perr. II 50 o ilFedone P.Pecr. I 5-8, cucci trovaci a Gurob (FIG. 28) - ma accomunati da un accorgimento di impaginazione immediatamente distinguibile: le lettere sono molto piccole (la loro alrezza è di appena 2-3 mm) e

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le righe risultano separate da spazi più ampi delle dimensioni delle lettere (I' interlinea raggiunge i 5 mm). Questo modo di disporre la scrittura si ritrova in papiri rinvenuti in parei molto discanti del mondo ellenizzato: dal palazzo di Diodoco ad Ai Khanum fino alla Villa dei Papiri di Ercolano, dove probabilmente erano confluici libri scritti in Grecia o in Asia Minore più di tre secoli prima, oltre che in testimonianze greco-egizie, spesso estratte da cartonnage di mummia e rinvenute in località periferiche del FayumS.Non sappiamo quale sia stato il punto di origine di questa "moda" libraria: forse Alessandria, forse la stessa Atene, che per i primi secoli deve aver svolto un ruolo fondamentale nella definizione degli standard estetici dei rocoli librari. Si trattava, in ogni caso, di un tratto distintivo dei libri di alto livello qualitativo, prodotti per un'élite accomunata da una forte omogeneità di pratiche culturali ma ormai diffusa in uno spazio geografico ampio, e all'interno di strutture statali diverse e spesso in conflitto. Nel corso dei secoli successivi i formati dei libri tendono a diventare più stabili. Per il periodo compreso era la metà del I secolo a.C. e i primi decenni del I d.C., alcuni rocoli appartenenti alla biblioteca della Villa dei Papiri di Ercolano mostrano bene quali fossero le caratteristiche di libri di bottega di alto livello contenenti cesti in prosa. Gli scribi cui venne affidata la trascrizione definitiva di lunghe opere del filosofo Filodemo, come il trattato Sulla musica (P.Herc. 1497) o il IV libro Sulla retorica (P.Herc. 1423; FIG. 29 ), rispettano analoghe convenzioni, che ritornano con poche variazioni in altri papiri coevi trovati nella Villa. Stando alle indicazioni di Guglielmo Cavallo, la loro altezza oscilla era 19-20 cm e 23-24 cm, con una prevalenza di un valore "medio" di 21-22 cm; le colonne sono appena più strette rispetto a quelle dei secoli precedenti, con una larghezza media di 5-6 cm e un intercolunnio di 1-1,2 cm (anche se nei rocoli non filodemei può essere ancora più ampio e raggiungere i 2,5 cm: P.Herc. 908/I390), e comprendono di solito 30-34 righe (e comunque mai più di 40 o meno di 25): in questo modo il rapporto era spazio scritto e spazio non scritto tende a rimanere sempre costante, così che la superficie scritta occupa dai 3/ 4 ai 4/ 5 dello spazio disponibile (Cavallo, 1983, pp. 14-9). La lunghezza complessiva dei rocoli si aggira era i 10 e i 15 metri, così da offrire al lettore libri maneggiabili senza troppe difficolcà6 • Nella stessa biblioteca esistevano rocoli molto più lunghi (il P.Herc. 1428, contenente il trattato Sulla pietà, arrivava a toccare i 23 metri: Johnson, 2004, p. 148); la tendenza degli scribi professionali, tuttavia, era quella di ridurne la dimensione, se possibile, suddividendo in due tomi la parte dell'opera trascritta, come

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2.9 Un rocolo ercolanese della Recorica di Filodemo (P.Hm:. 14-2.3). ~. Biblioteca Nazionale di Napoli \"ircorio Emanuele 111. Su concc:ssione \liC. Di\·icco di riproduzione:

si verifica nel caso del IV libro della Retoric,1 a quanto testimonia la sottoscrizione del .., già menzionato P.Herc. q2-3- Del resto, il desiderio di evitare rotoli di lunghc:zza c:ccessiva,in quc:sto periodo, giunge persino a influenzare le scelte: compositi\·e degli autori: lo storico Diodoro Siculo, vissuto nel I sc:coloa.C., insiste in più punti sulla necc:ssirà di rispettare la spnmetrù1, la "giusta proporzione" espositi\·a delle sezioni in cui la sua opera era distinta (ad esempio cfr. Diod. Sic., r, 8, 10), al punto raie da dividere in due: parti (mere) il I libro. «per via della sua lunghezza» (di,z to mèghetos; Diod. Sic.. I, +1, 10; Canfora, 19956, p. 12.;Ronconi, 2.02.1a,pp. 77-8). Secoli dopo, Galeno fa riterimemo alla nc:cessirà di «dividere in due» alcuni rotoli particolarmente lunghi (meg1zloi), che contenevano sillogi di parole attiche: che: avc:varicavato dalle: letture: di opere in prosa (De ind. 2.8): uno sforzo erudito di non poco conto, soprav-vissuto per puro caso al terribile incendio del 192..in cui c:raandata in fumo buona parte dèi libri raccolti a Roma dal medico, ma di cui i sc:coli successi\·i non hanno serbato traccia. Ampliando lo sguardo alla piena ed imperiale e considerando la documentazione greco-egizia, i formati testimoniati sono più vari, ma sempre. nd caso ddb produzione libraria formalizzata, entro coordinate ben

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identificabili, come mostrano i dari raccolti e analizzati da William A. Johnson in un censimento incenerato su reperti provenienti da Ossirinco;. La maggior parre dei rocoli sono alti tra 25 e 33 cm, ma è ben attestato anche un formato inferiore (20-25 cm), mentre rari sono gli esempi al di fuori di questa forbice. Per i resti in prosa la larghezza delle colonne è analoga a quella degli esempi ercolanesi (5,5-6,5 cm) fino alla prima età severiana, ma nel III e IV secolo si afferma una propensione per una larghezza maggiore (i valori pit'.1rappresentati sono compresi tra 6,5 e 7,5 cm, con punte superiori ai 10 cm) 8 ; lievemente maggiore risulta anche lo spazio intercolonnare (di solito 1,5-2 cm). Nei resti in poesia, invece, le colonne mostrano dimensioni ancora pili uniformi: u-13 cm per gli esametri, e poco meno, 8-10 cm, per i trimetri; gli intercolunni (calcolati partendo dalla fine del verso più lungo della colonna precedente) risultano inoltre mediamente pit1 ampi e sono compresi era 2 e 4 cm, anche se in alcune copie particolarmente lussuose arrivano a superare i 6 cm (Johnson, 2.004, pp. 100-19 ). Non mancano eccezioni, talvolta scientemente perseguire dagli artigiani responsabili dell'allestimento dei rotoli per conseguire effetti specifici. In manoscritti di fattura media, realizzati da scribi di professione ma senza troppe pretese, il resto poteva essere distribuito in colonne molto alce e molto larghe, così da sfruttare il più possibile la superficie scrittoria e risparmiare sul costo del materiale. È quello che vediamo, ad esempio, in un rotolo con il Fedoneplatonico (P.Oxy. XVIII 2181, 11-111sec. d.C.) e in un altro contenente (almeno) l'orazione di Demosrene Contro lvlidia (P.Oxy. LVI 3848, III sec. d.C.), in cui peraltro l'orazione è scritta sul verso di un documento. Al contrario, un libro di poesia scritto in forme eleganti poteva essere così piccolo da occupare poco pit1 di una striscia di papiro, come un'antologia di epigrammi amorosi ora a Berlino, alca appena 5 cm, al punto che, secondo il grande filologo tedesco Ulrich von WilamowirzMoellendorff, una dama dell'alca società avrebbe potuto facilmente nasconderla sorto la vesre 9 • Un parametro difficile da giudicare è invece la lunghezza dei rocoli. La maggior parre dei materiali ricostruiti daJohnson oscilla tra 3 e 12 metri (con una propensione per la fascia 7-12 metri), ma con numerose eccezioni. Le condizioni di conservazione e la mancanza, in molti casi, di indicazioni sticometriche impongono tuttavia cautela, qu~ndo si considerano testimoni abnormi. Un frammento da Ossirinco vergato in un'elaborata scrittura dell'età degli Anronini (P.Oxy. XLIV 3156 + P.Oxy. LII 3669) apparteneva a un rotolo di lusso del Gorgiadi Platone che, stando alle dimen-

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sioni delle colonne superstiti, avrebbe dovuto essere lungo almeno 26 m. finali non ci permette di stabilire se questa Ma la mancanza dei kollem,1t,1 raffinata biblosnon fosse suddivisa in due tomoi, come già visco nel caso di alcuni rocoli da Ercolano. In altri casi, invece, si è potuto stabilire che opere brevi di uno stesso autore erano accorpare fino a raggiungere dimensioni compatibili con il formato più usuale: almeno due rocoli ossirinchici, ad esempio, contenevano un piccolo corpusdi orazioni di Demostene, comprendente i discorsi su Olinto, la Pacee almeno una Filippica'0 ; in altri, similmente, erano ritmici due o più dialoghi platonici, come il J,.;fenone e il 1vfenmeno,oppure i due lppit1e l'Eutidemo"; e frammenti di rocoli contenenti opere circolami socco il nome di Esiodo o canti del!' Iliade e dell'Odissealasciano presupporre che lo stesso fenomeno si verificasse anche per cesti poetici'!. Per quanto la lunghezza fosse il parametro più facilmente modificabile, dal momento che incollare o ritagliare spezzoni di papiro non erano operazioni complesse, gli esempi addotti mostrano come nella percezione di scribi e lettori il rocolo fosse ormai un oggetto fornito di caratteristiche materiali sue proprie, che non dovevano variare in funzione dell'opera trascritta, ma che anzi imponevano 1'accorpamento di opere originariamente autonome, concepite per circostanze diverse e destinate a una circolazione del tutto indipendente.

Standard editoriali e tipologie testuali Tutte queste sequenze di misure non sono una semplice curiosità antiquaria. Per quanto sia difficile ricostruirne le evoluzioni diacroniche e stabilire corrispondenze stringenti tra caratteristiche materiali dei libri-rocoli e tipologie testuali (Johnson, 2004, pp. 152-5), esse riflettono comunque dinamiche storico-culturali di cui riusciamo a intravedere almeno i contorni. Al centro di tutte le evoluzioni vi sono i mutamenti intercorsi, dall'età ellenistica, nella rete di rapporti tra aurore, pubblico e libro, al quale era ormai riconosciuto un duplice statuto. Già agli inizi del III secolo a.C. il sistema dei generi ereditato dalla civiltà delle poleis viene completamente scardinato, sotto il profilo sia della produzione, sia della ricezione dei testi. li nesso tra occasioni e composizione letteraria si fa meno stringente, e parallelamente la fruizione dei testi si svincola dalla performance, anche se le pratiche di lettura mantengono inalterata una dimensione collettiva. In un mondo mobile e insicuro, in

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cui spostamenti e migrazioni erano fatti consueti e la cultura greca si era irradiata ben oltre gli orizzonti delle poleis tradizionali, i nuovi resti, prodotti spesso da letterari apolidi e sradicati, non dovevano necessariamente rivolgersi a una comunità coesa e dai contorni ben definibili, ma erano concepiti anche con la consapevolezza di poter raggiungere un pubblico di generici lettori, lontani dall'autore e a lui ignori. Il rotolo librario era diventato così un elemento ancora pit'.1centrale nella fruizione dei resti letterari: anzi, le opere di Omero ed Esiodo, dei poeti lirici di Lesbo, Ceo o Tebe, dei tragediografi e commediografi ateniesi, di filosofi, storici e oratori nari nelle più diverse città della Grecia e dell'Asia minore erano parte indispensabile del bagaglio culturale {e dei passatempi intellettuali) dei membri di una élite ellenizzata sparsa in uno spazio immenso, che abbracciava tutto il bacino del Mediterraneo e arrivava fino alle sponde dell'Indo; anche se le pratiche di fruizione, è bene ribadirlo, continuarono ad avere componenti aurali e performative fino all'età bizantina avanzata, solo il libro e la lettura potevano consentire di entrare in contatto con resti composti entro coordinare geografiche e temporali così distanti da quelle in cui veniva a trovarsi il pubblico. Questa consapevolezza del ruolo del libro per la salvaguardia e la fruizione continua dei resti del passato trova espressione anche in poesia: della splendida Dorica, da tempo ridotta in polvere, assieme alle vesti profumate con cui avvolgeva il suo amato Carasso, «restano ancora, e resteranno, le limpide colonne dell'amabile canto di Saffo», scrive il poeta Posiddipo, al.ludendo proprio a rotoli fatti del papiro più pregiato (Ausrin-Bastianini 122.; Bing, 2009, p. 190). Contestualmente, nella percezione degli autori il libro in forma di rotolo non è pit'.1un mero oggetto funzionale a fissare lo stadio definitivo di un'opera e tutelarne la proprietà intellermale, ma il punto di partenza e di arrivo delle creazioni poetiche e letterarie, delle riflessioni filosofiche e scientifiche, e dunque il simbolo della loro essenza. «L'anima, già esercitata sui libri, altra messe raccoglie», scrive ancora Posidippo {Austin-Bastianini 137, vv. 3-4), alludendo alla necessità di un vero e proprio approccio librario alla creazione poetica: senza aver lecco molto, in sostanza, non è possibile scrivere buoni versi, secondo un'idea dell'attività letteraria completamente diversa da quella testimoniata ancora da Platone nel IV secolo a.C. Per Callimaco i versi melodiosi trovano sempre forma concreta nel rotolo o nella tavoletta, e Teocrito arriva a creare metafore ancora più ardire, paragonando l'arrivo di un libro contenente le sue opere all'ingresso in casa di un corteggio di Grazie (Id. 16, vv. 5-12.). E se Omero, oggetto in età ellenistica di

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veri e propri onori divini'', viene celebrato, da un ignoto epigrammacisca del III secolo a.C., non come semplice "cantore': ma per aver scritto 1'Iliade e l'Odissea (sH 9ì9, \'. 5), persino le Muse sono costrette a fare i conci con la materialità del libro e combattere contro un nuovo, infido nemico: il verme "mangiacolonnen(selidefagos),come spiega un altro epigrammacisca vissuto più di un secolo dopo, Eveno (AP IX 251; Bing, 1988, pp. 10-48). Il rocolo - aperro in posizione di lettura o chiuso e brandito in pugno quasi come un'arma - diventa così uno degli elementi iconografici più facilmente imellegibili nelle raffigurazioni di chiunque voglia qualificarsi come inrellercuale, militante o dilettante: un libro accomuna la placida serenità di chi ha trovaro la pace interiore, a quanto si vede nel ritracco del filosofo .Metrodoro, il successore di Epicuro, realizzato poco dopo la sua morte (2n a.C.), la concentrazione di chi sta commentando un cesto complesso, come in un bronzecco da Montorio raffigurante forse un filologo, sempre degli inizi del III secolo a.C., o lo sforzo del poeta in cerca di ispirazione, come il commediografo Menandro, immaginato, in un rilievo del II secolo a.C., all'interno del suo studiolo, in cui campeggia un tavolino su cui sono adagiate maschere teatrali e un rocolo, lasciato a penzolare, aperto, in un angolo' 4 • Una volta penetrato nel sistema delle immagini, il rotolo continuerà ad avere quesco valore simbolico fino alle soglie del medioevo, persino dopo essere staro affiancato (e poi soppiantato) dalla nuova forma libraria del codice (cfr. CAP. 8). L'affermarsi di formati di riferimento, soggecci a variazioni ma capaci comunque di influenzare anche l'organizzazione dei contenuti dei rocoli, catalizzando accorpamenti o imponendo cesure surrettizie in cesti particolarmente lunghi, appare dunque come il segno e la conseguenza dello sviluppo della dimensione libraria nella produzione e circolazione dei testi, ed è un faccore di cui non si può non tener conto nello sforzo di ricostruire le modalità di trasmissione delle letterature classiche. I riflessi sulle caratteristiche fisiche del rocolo riconducibili alla dialettica era contenuto e contenitore librario si possono individuare a una pluralità di livelli. Già i poeti alessandrini teorizzarono un nesso era forme poetiche e forme librarie: i versi eleganti e scilisticameme elaboraci che amavano intessere dovevano trovare un corrispettivo materiale in libri alcreccamo eleganti e di formato diverso rispetto a quelli usati per altri generi letterari, come sintetizzato nell'adagio callimacheo mega biblion, mega kakòn. In ecà romana, a quanto lascia intravedere la documentazione superstite, il nesso forma-concenuco era diventato un elemento condiviso da gran par-

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ce dei lettori e ne influenzava le scelte. Autori molto letti, quali Euripide o soprattutto Omero, uno dei pilastri del sistema educativo, circolavano spesso in rocoli realizzati da scribi di professione, e talvolta in libri di lusso, come !'"Omero Hawara" o quello di Bankes, che tanto scalpore aveva fatto al momento del suo arrivo a Londra (cfr. supra, pp. 117 e 36; Cavallo, Del Corso, 2.012., pp. 46-51). L'idea che libri eleganti di grandi autori potessero finire era le mani di leccori indegni poteva anche destare scandalo tra i puristi. Il cinico Demetrio, racconta Luciano, preferì strappare in pezzi un « libro bellissimo» contenente le Baccanti di Euripide piuccosco che lasciare che il proprietario, un uomo assai ignorante, continuasse a leggerlo (Luc., lnd. 42.; Cavallo, 2007, p. 570 ). A un altro estremo, testi tecnici, manuali di riferimento (per le macerie più varie: dalla grammatica, alla medicina, fino persino alla lotta), o semplicemente opere narrative destinate al puro intrattenimento potevano essere trascritti in rocoli "economici", vergaci da mani professionali ma senza cura calligrafica, in cui il cesco era disposto in colonne fitte di scrittura, così da occupare tutta la superficie disponibile, con una conseguente riduzione dei costi. A Ossirinco, ad esempio, caratteristiche materiali di questo tipo accomunano una delle poche copie superstiti del Romanzo di Nino - la scoria dell'amore era il leggendario re Assiro e la cugina Semiramide (PSI XIII 1305; metà del I sec. d.C.) -, alto 2.7 cm ma provvisto di colonne in cui erano affastellate almeno 50 righe, altre opere di narrativa, come la Vìt,1di Esopo P.Oxy. XLVII 3331 + LIII 372.0 (m sec. d.C.; scritto sul verso), alto 32 cm e con colonne di quasi 60 righe, e opere di riferimento per scudi avanzati, dai commentari ai poemi omerici (P.Ox,'. LIII 3710, commento a Od. XX; alro 24 cm e dotaco di colonne di oltre 50 righe; II d.C.) ai manuali di avviamento allo studio della retorica, come P.Thomas 15 (11 sec. d.C.), alto 25,5 cm e provvisco di colonne di almeno 57 righe (Del Corso, 20106, pp. 247-54). Al di là del formato, un elemento fondamentale per caratterizzare questa categoria di prodotti librari era la scrittura: i libri economici erano vergati sopratrutco in grafie "di seconda qualità", che costituivano una categoria ben chiara agli antichi, al punto che il costo della loro esecuzione è puntualmente quantificaco nell'Editto dei prezzi di Diocleziano, accanto a quello di altri servizi "di copia", dalla trascrizione di libri eleganti a quella di documenti in grafie veloci1S. L'esistenza di libri professionali di basso livello qualitativo e poco costosi mostra l'esistenza di un pubblico di lettori culturalmente e socialmente stratificaco, composto non soltanto da membri delle élite cit-

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radine, ma anche da individui sufficientemente abbienti da aver potuto raggiungereun certo livello di isrruzione, abicuati a essere in contatto con la scricrura, e inreressari a passarempi lecrerari non rroppo impegnativi, in cui pareva rientrare anche la lerrnra di cesti di evasione, "di consumo", affidati, appunto, a libri di scarso pregio. Le trasformazioni intercorse si avvertono bene anche nelle fonti letterarie. Aristotele, in un passo della Politica (vm, 7, 7, 1342 a), pensando a quanti si recavano a teatro ad Atene, distingueva un pubblico "colco" (pepaidemnenos) e un pubblico "rozzo" (phortikos), e la stessa bipartizione affiora anche in al ere sue opere (Rhet. III, 7, 7, 1408a; Mascromarco, 1997). Gli incelleccuali di età romana, invece, rracceggianoun quadro più articolato. Scrabone, ad esempio, ha ben chiara l'esistenza di un pubblico scracificacodi lettori e distingue al loro interno non solo incolti ed eruditi, ma anche individui "mediamente istruiti" (pepaideumenoi metrios), amanti di cesti non troppo complicaci e ricchi anche di spumi fantastici e avventurosi: una fascia di veri e propri "lettori comuni", appartenenti «alla media plebs 1·omana e a categorie medie o medio-alce della società urbana di provincia» ( Cavallo, 20 07, spec. pp. 567-73). Molti dei rocoli di papiro rinvenuti in Egicco appartenevano con ogni probabilità a individui di questa estrazione, che conservavano nelle proprie dimore piccole raccolte disorganiche di cesti, spesso limitate a pochi libri "utili" e necessari trasmessi anche per diverse generazioni, prima di essere buttati via, e a cui solo raramente si aggiungeva qualche opera più particolare e lontana dai gusci mainstream. I ceneri del Fayum hanno restituito più di un esempio di raccolte di questo tipo. Emblematico è il caso di Socrate, un modesto agente del fisco vissuto incorno alla metà del II secolo nella placida Karanis, scelta, in età romana, come buen retiro da molti veterani dell'esercito desiderosi di trascorrere una vecchiaia serena. Socrate e la sua famiglia disponevano di una collezione di libri che comprendeva manuali grammaticali (P.Mich. inv. 4693 + 4711a), qualche canto dell'Iliade (P.Mich. XVIII 759), commedie di Menandro (era cui l'Arbitrato, P.Cair. Mich. II 3) e letture di pura evasione come i cosiddetti Acta Alexandrinorum (gli "Atti degli abitanti di Alessandria": una sorca di raccolta di documenti fittizi, come lettere diplomatiche e resoconti giudiziari, incenerata sul tema dello scontro era Alessandrini e Romani; P.Mich. inv. 4800 ); ma è probabile che il nostro esattore avesse una cultura ancora più profonda, tanto da conoscere un poeta doctus come Callimaco così bene da citarlo, in maniera velata, anche nella compilazione delle

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~o Un rotolo con una commedia adespota (PSI x 1176). © Biblioteca Medicea Laurenziana. Su concessione Mie. Divieto di riproduzione

noiose lisce di contribuenti che doveva trascrivere per svolgere le proprie poco gradevoli funzioni professionali (Scrassi Zaccaria, 1991; van Minnen, 1994, pp. 2.32.-4; P.Cair. Mich. II, pp. IX-LXV; Luiselli, 2.016). Socrate non era il solo funzionario a essere animato da interessi nei confronti della letteratura dei secoli precedenti. Anche se spesso non riusciamo a ricongiungere i libri ai loro possessori, la documentazione grecoegizia ha restituito molti esempi di individui abituati a usare la scrittura per lavoro o per altre incombenze che a un cerco punto si abbandonano a divagazioni letterarie, appuntano versi, si scambiano battute o frecciatine usando citazioni da Omero o altri grandi autori. Su un ostrakon proveniente da Elefantina (BGU VI 1470, II sec. a.C.) leggiamo l'abbozzo di una petizione, scritta da un soldato, che a un cerco punto si interrompe, forse non sapendo come proseguire, e scrive versi dell'Odissea, quasi in preda a una reminiscenza scolastica (non troppo vivida, a giudicare dagli errori). Secoli dopo, versi omerici sono citati da Timeo, dipendente del ricco Aurelio Appiano, in margine a una lettera scritta al collega Eronino per sollecitarlo a sbrigarsi a fare il suo lavoro (P.Flor. II 2.59; Fournet, 2.012., pp. 141-2.). E sono tanti i rocoli letterari su cui troviamo probationes calami, "prove di penna': appunti e scarabocchi da parte di mani abituate a scrivere documenti: Epagato, amministratore dei poderi di Lucio Bellieno Gemello,

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riempie di appunti l'agmphon successivo al titolo di un rocolo con il II libro dell'Iliade (P.Lond. Lir. 6, I sec. d.C.; Azzarello, 2008); un altro rotolo più o meno contemporaneo, contenente una commedia di amore ignoro, reca sul versoe sui margini appunti e scarabocchi di almeno altre due mani, una delle quali scrive a ripetizione la stessa formula, "nell'anno sesto di Nerone Claudio Cesare': cercando di acquistare maggiore fluidità ma finendo solo con lo spumare il calamo (PSI x u76; FIG. 30 ). A volte alcuni di questi lettori, non particolarmente eruditi, ma animati da curiosità per la letteratura del passato, trascrivevano di proprio pugno (forse costretti dalle circostanze) le opere che leggevano o passi di esse, realizzando libri informali, sorto il profilo materiale, ma che hanno consentito la salvaguardia di molti resti destinati alrrimenci a un sicuro oblio (cfr. injit1, pp. 209-11). Le lente evoluzioni materiali conosciute dal rocolo, la stratificazione dei formati, le modifiche nell'aspetto e nella disposizione del testo possono essere messe in relazione - come si è visto - con un incrocio di fattori: le evoluzioni nella composizione sociale del pubblico dei lettori, i cambiamenti nel sistema di produzione, ricezione e trasmissione dei testi letterari, le trasformazioni nel ruolo e nello sramro del libro. Questa stessa sovrapposizione di elementi funge da caralizzarore anche nella definizione e poi nelle trasformazioni del sistema paratescuale impiegare per i cesti letterari rrascrirri sui rocoli di papiro.

6 Paratesto e organizzazione testuale nei rocoli letterari

Il paratesto nei primi libri greci Il libro in forma di rocolo era srruccuraco per rispondere a esigenze di fruizione dei te5ti diverse da quelle di oggi e rispecchiava, dunque, un'estetica lontana da quella a noi più familiare'. La distanza era la cultura del libro amica e la nostra emerge proprio quando si prendono in considerazione le "soglie" di accesso al resto, le « intermediazioni era il cesto e il lettore» elaborate con la funzione di « introdurre il cesto, di contornarlo o anche di concluderlo», per riprendere le parole di Paolo Fioretti (2015, p. 178): in una parola, tutti quei dispositivi che Gérard Genette ha per primo indicato come "paratesto" ( Genette, 1989). Il libro a noi familiare è dotato di innumerevoli apparati volei a caratterizzare il contenitore e qualificarne il resto trasmesso a vari livelli: un ticolo esterno, collocaco in varie posizioni (sulla costa, sulla copertina e poi ancora sul frontespizio); descrizioni sintetiche e analitiche del contenuto (gli indici), concepite anche per individuare con maggiore facilità passi specifici dell'opera; informazioni sul prezzo e sul luogo e data di scampa ... Anche le immagini in copertina sono un veicolo di informazioni exrracescuali e contribuiscono a definire il rapporto era libro e leccore. Nel rocolo di papiro l'accesso al cesto avveniva secondo altri percorsi, che prevedevano un sistema paracescuale più limitato, ma omogeneo e basato, come si è visto, su alcuni elementi di fondo condivisi in cucco il mondo ellenizzato e stabilici, per alcune linee essenziali, già durame l'età classica, anche se, nel corso dei secoli, non sono mancate evoluzioni, per aspetti non secondari, legate alla necessità di rifunzionalizzare il libro sulla base delle caratteristiche del cesto trascritto o delle esigenze specifiche di nuove categorie di lettori. Anche socco il profilo delle caratteristiche paracescuali è possibile indi-

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viduare nella scoria del rotolo librario due macroperiodi, il cui spartiacque - rucc'alrro che rigido, come qualsiasi scansione introdotta per meglio definire processi scorico-culmrali necessariamente ambigui - è rappresentato dalla trasformazione del sistema letterario avvenuta in età ellenistica: una prima fase in cui il paratesto appare strettamente legato al genere letterario crascricro,come emerge da un esame dei rocoli superstiti più antichi e di alcune evidenze indirette, e una seconda fase in cui, parallelamente alla riduzione dei formaci entro standard più omogenei, anche gli apparati paracesruali di\•entano un corredo uniforme aggiunto al libro in quanto raie e per agevolare la fruizione dei cesti in esso crascricci. La necessità di identificare il contenuto di un libro accomuna da sempre i !errori, oggi come nell'anrichicà. Di indicazioni contenutistiche erano doraci anche i rocoli di papiro, ma nella prima fase la loro apposizione non seguiva regole omogenee. Titoli esterni, aggiunti in maniera cale da essere visibili anche quando il rocolo era chiuso, erano presemi già in età classica, come mostrano testimonianze indirette di vario genere. A titoli di questo tipo (chiamaci, letteralmente, epigràmmata) fa riferimento un curioso frammento del commediografo Alessi (fr. 140 K.-A.), in cui vediamo il possente Eracle intento a scegliere un libro dalla biblioteca del suo maestro, il centauro Lino; e a catturare facilmente l'attenzione del semidio è un rocolo dal titolo piuttosto evocativo: «L'arte del cuoco» (vv. 9-10; Castelli, 2014; 2.020, pp. 296-9 ). Prima ancora, annotazioni paragonabili a ti coli esterni sono visibili su alcuni dei rocoli effigiaci su vasi a figure rosse di produzione ateniese. U rocolo in mano alla poetessa Saffo, su un celebre vaso realizzato tra il 440 e il 430 a.C. ', ha sui bordi arrotolaci l' indicazione del suo contenuto: epeapteroenta, "parole alare", per indicare evidentemente una silloge di versi capaci di « volare dritti alla comprensione del lettore/ ascoltatore» (Caroli, 2.007, pp. 87-9 ); un altro, dipinto dal celebre Onesimos, reca il titolo di un poema perduto, calvolca attribuito dagli antichi a Esiodo: Cheironeia,"La scoria di Chirone", con riferimento al dotto centauro che sarebbe staro precettore di Achillei. Non sappiamo, al di là delle esigenze "sceniche" di sketch teatrali o scenette vascolari, quanto fossero comuni queste indicazioni esterne. Oltre che di esse, i rocoli potevano essere dotati di titoli interni, collocati in uno spazio bianco dopo l'ultima colonna. Nei rocoli di IV e III secolo a.C. indicazioni di questo tipo sono accescace, ma in modo discontinuo. I libri poetici, ad esempio, ne sono generalmente privi: di titolo finale non sono provvisti né il rocolo di Timoteo, di cui sopravvive l'ampio àgraphon fì-

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li rocolo parigino dei Sicioni di Menandro (P.Sorb. inv. 72 + 2272 + 2273). © Lemes

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nale, né alcuno dei pii\ antichi rocoli del!' Iliade e dell'Odissea (nei casi in cui la parte finale è ancora preservata; Schironi, 2010, pp. 35-6). I titoli più antichi provengono tutti da rocoli contenenti cesti teatrali. L'unica copia dei Sicioni di Menandro (P.Sorb. inv. 72 + 21.72 + 2273), proveniente da una mummia trovata daJouguec nel Fayum, reca alla fine l'indicazione del nome dell'autore, seguito dal cicolo e dal numero dei versi di cui l'opera constava; il rocolo è stato sericeo probabilmente nella seconda metà del III secolo a.C., ma il titolo quasi certamente è la copia fedele di un'indicazione più antica, sericea a ridosso degli anni in cui il commediografo era attivo (Blanchard, 2009, pp. CXIV-CXV; FIG. 31). Similmente, di titolo finale è dotata l'unica copia dell'Achille di Sofocle (il Giovane?), custodita a metà del 111 sec. a.C.; West, 1999): Oxford (Sackler Library inv. 89Bh9-33,

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la tragedia era scritta sul versodel rotolo, mentre sull'altro lato figurava una raccolta di componimenti poetici, con tanto di notazioni musicali, che però, a differenza della tragedia, non presentano alcun titolo. Quello che colpisce, negli esempi addotti e in altri che si porrebbero aggiungere, è che lapresenza o l'assenza di un'indicazione contenutistica così importante non sembra un elemento connesso alla qualità del libro, ma piuttosto alle caratteristiche del resto trasmesso, e che dunque i "titoli" non appaiono come un elemento librario, ma come il portato di determinati generi letterari. Questa impressione si fa più marcata se si considerano alcune testimonianze indirette ancora più antiche. I letterati di età classica non seguono mai criteri omogenei per citare le opere di altri autori. Per alcuni generi le citazioni risultano in massima parre precise e uniformi. Ancora una volta, tragedie e commedie sono spesso identificate mediante un titolo preciso: Aristofane, ad esempio, ricorda con il loro titolo una commedia del rivale Eupoli, il .iHarikàs,accanto a un suo successo del passato, i Cavalieri(Nub., 553-554;Maehler, 2.012,p. 2.41); pochi decenni dopo Aristotele nella Poeticaè estremamente preciso nel citare tragedie di autori a noi noti o meno noti, da Sofocle - da cui il filosofo attinge esempi a piene mani, traendoli da tragedie superstiti, come l 'Edipo re (Poet.11, 2.,1452.a)e l'Antigone (14, 19, 1454a), o perdute quali la Tyro (16, 1,1454b) - a suoi colleghi "minori": Agacone (9, 7, 14516), Asridamante (Alcmeone,14, 13,14536), Telegono (Ulissejèrito, q, 13, 14536) ecc. I titoli con cui queste opere erano note al pubblico risalivano, evidentemente, a quelli presentati dall 'aurore al magistrato ateniese competente (l'arconte eponimo) all'inizio della procedura per l'ammissione alfestiv,zl durante il quale le opere teatrali dovevano essere messe in scena (il "proagone"); in seguito venivano conservati in elenchi ufficiali costantemente aggiornati, al punro che a secoli di distanza era ancora possibile citarli con precisione in iscrizioni che volevano offrire agli spettatori un catalogo completo di tutte le opere portare in scena ad Atene sin dalle origini degli agoni teatrali (le cosiddette Didaskaliai e le Liste dei poeti vincitori, affisse in un edificio esagonale nell' ago,tia partire dalla fine del III secolo a.C.). I libri che contenevano tali opere, dunque, dovevano recare necessariamente l' indicazione del titolo e dell 'aurore 4 • Similmente, il bisogno di designare le opere contenute in modo univoco doveva caratterizzare già i libri prodotti nell'entourage di alcuni filosofi, almeno a partire dal IV secolo a.C. Sulla base di indicazioni desumibili da copie molto amiche trovate a Ercolano, possiamo ipotizzare che la prima

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edizione delle opere di Epicuro fosse dotata non solo di titoli finali veri e propri, in cui erano fornici gli elementi essenziali per identificare il trattato, ma anche dell'indicazione della data {mediante il nome dell'arconte in carica) in cui il rocolo era stato pubblicato dall'autore\ Tuttavia questa pratica doveva riguardare anche altre scuole. I dialoghi di Platone, ad esempio, sono indicati con un titolo preciso, e non con perifrasi, sin dalle prime fasi della loro circolazione. A ti coli, peraltro identici a quelli trasmessi dalla tradizione medievale, fa riferimento lo stesso autore quando deve citare sue opere precedenti: è quello che vediamo, ad esempio, in un passo dd Politico (2846) in cui viene citato un altro dialogo, il Sofista. E i titoli delle opere del maestro sono citati con precisione anche da Aristotele {la Repubblica, ad esempio, viene così chiamata sia nella Politica, II, 1, 2., 1261a, che nella Rt'torica, III, 4, 3, 14066) 6 ; è plausibile, dunque, che questi dementi paracescuali figurassero già nei primi rocoli cui le opere platoniche erano state affidate. Opere appartenenti ad altri generi letterari, invece, risultano prive di indicazioni altrettanto precise. Per quanto riguarda la prosa, molte opere di namra oratoria o storiografica sono indicate con un ventaglio di espressioni generiche, tra cui le più frequenti sono sj,ggrmnma, syggmphè (lo "scritto") e pmgmateia (la "trattazione"), e termini analoghi compaiono anche ali' interno del corpus ippocratico {.Marganne, 2007 ); solo raramente troviamo qualche espressione più pregnante, come, nel caso celebre di Erodoto, istorie, la "ricerca". Questa indicazione di massima era accompagnata dal nome dell 'aucore in genitivo, senza traccia di suddivisioni in libri ( Castelli, 2017, p. 9 ). È plausibile che la genericità e l'eterogeneità delle indicazioni riflettano un assetto paratescuale diverso da quello operato nelle epoche successive e più fluido. Ancor più complesso risulta il caso della poesia. Erodoto e i suoi contemporanei, ad esempio, non conoscono la suddivisione in libri del cesto dell'Jfit1de e dell'Odissea comune a partire dall'età ellenistica, e in alcuni casi indicano sezioni narrative coerenti con pericopi descrittive che corrispondono a episodi destinaci in seguito a essere divisi era due librF; e ancora Aristotele - tra i primi a dedicare scudi specialistici al cesto dell'Iliade e del!' Odissea - non fa mai riferimento a una suddivisione in libri dei poemi, anche quando ne discute passi specifici~. Le fonti non consentono di ricostruire quando si sia affermata la divisione in libri e il modo canonico di indicarli, mediante lettere maiuscole e minuscole dell'alfabeto greco: gli smdiosi associano questa innovazione a momenti diversi della scoria

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del resto, immaginando che sia stara introdotta ora ndl 'Arene di Pisistrato, ora ad Alessandria, da qualcuno dei membri del :Museo (Haslam, 1997, p. 58). Ma i papiri riportano indicazioni pararesruali di questo tipo, in modo sisremarico,solo dalla fine dell 'erà ellenistica (\X'esr, 1967, pp. I 8-2.5; Schironi, 2.010, pp. 37-8), mostrando in modo rangibile i riflessi dell 'originaria confusione editoriale per un lungo arco cronologico. I problemi pratici che i primi libri di Omero ponevano trovano ancora spazio nelle riflessioni degli studiosi di età romana, che descrivono i roroli più antichi dell'Iliadee dell'Odisseacome oggetti molto diversi da quelli loro consueti, difficili a leggersi proprio per la peculiarità del loro corredo pararescuale, strano anche in considerazione dell'assenza dei riroli. Un ignoro grammatico, sunteggiato in miscellanee di erà bizantina ( i cosiddetti Anecdotum 1/énetttm e Anecdotttm Rommwm), ricorda così a chi era in procinto di dedicarsi allo studio di Omero la necessità di impratichirsi del modo in cui erano farre le copie più antiche della sua opera: « bisogna sapere che le rapsodie di Omero erano cantare dagli antichi in serie, ed erano distinte solo da una coronide e da nienr'alrro» 9 • Testimonianze di questo genere, che nascono da un rimaneggiamento di materiali eruditi desumi da fonti ellenistiche, mostrano bene la difficoltà di studiosi vissuti in epoche posteriori a relazionarsi con le forme librarie più amiche in cui 1'eposera circolaro. Altrettanto flurruanri e imprecise risultano le indicazioni relative alla poesia lirica. Erodoto (1, 2~) ci informa che Arione, poeta corinzio del VI secolo a.C., era staro il primo a comporre ditirambi e «dare un nome» a quei versi: non è chiaro se si tratti di un riferimento all'uso di titoli per i singoli componimenti o semplicemente alla credenza (erronea) che Ariane fosse staro l'inventore del termine "ditirambo': con cui il genere letterario era indicato. In ogni caso, l'impiego di "nomi" per designare composizioni specifiche è attestato anche per autori precedenti, come Archiloco, del quale una delle elegie più celebri era nota ancora in età romana come Il naufragio (Lulli, 2.019, pp. 84-5). Questi nomi. tuttavia, non avevano una consistenza "libraria" né uno statuto raie da consentire loro di restare saldamente abbinaci all'opera che designavano nel corso del processo di trasmissione del testo. Al contrario, il loro destino era sbiadire sempre più ed essere relegati all'interno del grande calderone dell'erudizione. Non a caso, nei papiri che ne hanno trasmesso alcuni esempi non coscicuiscono mai un paratesto, ma piuttosto una semplice nota marginale. È quello che vediamo in una delle più antiche antologie liriche giunte fino a noi, un

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ISI

foglio di papiro trovato sull'isola di Elefantina su cui due mani coeve hanno trascritto ere canzoncine sirnposiali (skolia) e un invito a bere in versi elegiaci (P.Berol. inv. 13270). Qui gli skolia, per distinguerli dall'elegia, sono dorati di titoli appuntati in alto a sinistra, uno sotto l'altro: Le lv/use, La Afemoria (il terzo invece non è ancora chiaro). A secoli di distanza, una situazione analoga riappare in un libro raffinato e assai imporrante per la scoria della letteratura greca, il papiro londinese contenente gli Epinici e i Ditimmbi di Bacchilide (P.Lond. Lit. 46, II sec. d.C.). Il rocolo presenta titoli che rimandano al contenuto (ad esempio Gli Antenoridi ovvero La rivendicazione di Elena, per il dit. 1; Teseoovvero I giovani, per il dir. 3, e così via) o al destinatario dei carmi e all'occasione della loro esecuzione (nel caso degli epinici), ma questi, più che costituire un paratesto originario, vengono appuntati da altre due mani, in grafie corsiveggianti, per lo pii1 sul margine sinistro (solo nel caso del dir. 1 l'indicazione è sul margine superiore). Al di là di indicazioni di questo genere, i componimenti poetici venivano indicati semplicemente con il loro incipit; anche Callimaco citava così le opere schedate nelle sue Tavole delle persone eminenti in ogni b1m1ct1del sapere e di quello che scrissero, note più sinteticamente come Tavole (Pinakes): una sterminata opera bio-bibiografica (oltre 120 libri!) che costituì uno dei pila.stri su cui si basava l'organizzazione della Biblioteca di Alessandria (cfr. infi,1, p. 182). Tutto questo lascia intravedere un'eterogeneità editoriale che rifletteva l'eterogeneità dei contesti di produzione e ricezione delle opere affidate al libro: le informazioni relative al contenuto del rotolo diventavano elementi paratescuali se erano originariamente connessi con le modalità di fruizione del testo, così che opere nate in funzione di occasioni specifiche e soggette a un iter consolidato già precedente alla loro diffusione pubblica. come le opere teatrali, venivano dotate da subito di un titolo librario, mentre componimenti svincolaci da dinamiche di questo tipo non ne erano necessariamente provvisti, anche una volta inseriti all'interno di un rocolo. Le interminabili discussioni degli eruditi amichi sulla paternità delle opere che leggevano sono anche una delle conseguenze naturali di un'ambiguità strutturale dei primi libri greci. Considerazioni analoghe si possono fare quando si esamina l'evoluzione delle modalità di suddivisione del resto. Il meccanismo di separazione di sezioni testuali mediante l'aggiunta di segni sul margine, la principale "strategia paracescuale" del rocolo di papiro, era già presence nei libri pre-ellenistici. Il segno più caratteristico,

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la paràgraphos,veniva sicuramenre impiegato a scopi distintivi nella produzione libraria di età classica, dal momento che compare, con analoga funzione, anche in iscrizioni di v o V-IV secolo a.C. (Del Corso, 2002, pp. 184-5) ed è menzionato (ralvolra nella forma pamgmphè) da autori quali Isocrate («ragazzo, leggi qui, cominciando dalla paragmphos», scrive nell'Antidosis), Iperide, Aristotele, che esorta gli aspiranti oratori a diffidare dei segni e badare allo stile, per chiudere bene un discorso: «chiara deve essere la fine non grazie al copista o alla pamgraphè, ma grazie al ritmo»'

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Nei libri superstiti risalenti al IV o agli inizi del III secolo a.C. parÌlgraphoi dovute alla mano del copista principale sono ben attestate, anche se, ancora una volta, il loro impiego appare diftèrenziaro a seconda del genere del resto trascritto, così da risulrare sistematico nel caso di poesia teatrale e opere filosofiche e molro più erratico per altre tipologie letterarie. Così, nel papiro di Derveni una par/1gmphos sul margine sinistro separa gli esametri di Orfèo dal loro commento, e lo stesso segno viene usato con sistematicità per dividere le battute dei protagonisti nelle copie più amiche dei dialoghi di Platone (come il Fedone P.Petr. I 5-8, inizi del III sec. a.C.; cfr. supra, FIG. 28) e di opere teatrali (P.Strasb. inv. gr. 2342-4, di poco posteriore; Coles, 1974, pp. 38-58; Huys, 1986). In molti altri casi, invece, il suo impiego è del tutto asistematico e risulta funzionale al più a indicare l'alternanza tra macrosezioni testuali, come vediamo nel papiro di Timoteo e sopraccutco nei rocoli omerici degli inizi del III secolo a.C., in cui, nonostante la presenza di dialoghi, e una successione di scene e avvenimenti non sempre agevoli a seguirsi senza un aiuto per districarsi nello sviluppo della narrazione, il segno ricorre raramente (Del Corso, 2.017, pp. 7-10 ), e talvolta solo per indicare la transizione era un "canto" e quello successivoall'interno dello stesso rocolo (Schironi, 2010, pp. 25-30 ). A partire dal IV secolo a.C. il corredo di segni impiegato per la trascrizione di testi complessi sembra ampliarsi. Una laminetta di piombo risalente all'incirca al 375 a.C., trovata nel cimitero ateniese del Ceramico (SEG XLVIII 354-356), contiene il testo di una triplice maledizione, scritta su ere colonne, come se si trattasse di un foglietto di papiro, e con l'utilizzo di segni tipici della scrittura dei libri, tra cui spicca una normale paràgraphos e un elemento paratescuale più elaborato, una sorca di freccia con due puntini, : -), peraltro soggetta a molteplici variami (Turner, 1987, p. 12), l'asteriskos (•), oltre ad altri segni doraci di un vero e proprio valore critico-rescuale, e talvolta derivaci da convenzioni stabilire all'interno del Museo di Alessandria (cfr. infi"tl,pp. 182-3). A parre casi specifici - come la separazione delle battute nei dialoghi filosofici o nei resti teatrali - questo corredo paracesmale di base risulta apposto in maniera arbitraria e idiosincratica: in alcuni rocoli poteva rispecchiare quanto il copista trovava nell'antigrafo, ma non c'è motivo di ritenere che avesse rapporti con immaginari "originali d'autore", che peraltro, nelle complesse dinamiche delle prime fasi di circolazione dei resti greci, non è detto fossero all'inizio della successiva catena di trascrizioni. Lettori particolarmente colti ed esigenti (nonché doraci dei mezzi economici appropriaci) seguivano personalmente la realizzazione di edizioni in cui questi elementi paracescuali fossero inseriti nel punto giusto, ma sul-

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la base di una lettura personale del modello. «Avevo deciso di fare una mia edizione», dice Galeno, «senza mettere non una parola in pii1 o in meno, e nemmeno una p,11itgr11phos semplice o doppia di troppo o una coronide che non fosse nel punto giusto ali' interno dei rocoli» 08 • Queste edizioni erano tutte «in bella copia» (eis kntharim èdaphos), al momento in cui andarono perdute nel terribile incendio del 192. Gli individui in grado di allestire edizioni "personalizzate" erano tuttavia pochi, anche se tra di essi, oltre a Galeno, possiamo annoverare molte personalità in vista della "scena culturale" ellenistica e imperiale, e probabilmente molti clienti facoltosi delle più eleganti botteghe librarie delle grandi "capitali culturali" del Mediterraneo ellenizzato. Tuttavia, anche !errori meno sofisticati erano abituati a integrare il corredo pararescuale dei propri libri, aggiungendo segni diacritici per marcare cesure, rendere più agevole la lettura, segnalare passi interessanti (a questo scopo, sin dal!'età ellenistica veniva usato un segno in forma di X,forse abbreviazione di chrestòn,"utile"). Le aggiunte più frequenti al corredo pararescuale "primario" riguardavano, a ogni modo, la punteggiatura, che veniva spesso integrata dai lettori sulla base della propria esperienza e della familiarità che avevano o erano in grado di acquisire con il testo. I segni più comuni avevano la funzione di aiutare a intendere gli esatti confini delle parole evitando potenziali confusioni ingenerate dalla scriptiocontinua. Tra di essi figurano, secondo la denominazione usata dai grammatici amichi, la diastolè (o hypodiastolè), simile per forma a una virgola odierna e usata per indicare la fine di una parola, e lo hyphèn, una sorca di "arco" apposto al di sotto di due sillabe per indicare che appartenevano a una stessa parola e non dovevano essere lette come parte di due diversi vocaboli. Altre volte l'aggiunta di stigmai sopra, sotto o a metà del rigo riflette non tanto il bisogno di com prendere il significato letterale di un testo, ma il desiderio di valorizzarne la componente sonora e retorica nell'ambito di pratiche di lettura nettamente orientate in senso performativo. Questa interconnessione, già formulata da Aristotele per quanto nell'ambito di una civiltà del libro meno articolata (cfr. supra, pp. 154-5),è un riflesso del ruolo fondamentale che la voce aveva in ogni forma di fruizione della letteratura, singola o collettiva, fino all'età bizantina. Il piacere estetico offerto da un testo risiedeva anche nella possibilità di guscarne appieno la sonorità: non a caso la grammatica attribuita a Dionisio Trace, forse uno dei più influenti e diffusi trattati amichi sull'argomento, co-

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minciava proprio con una sezione in cui venivano fornite indicazioni su come valorizzare questa componente a seconda dei diversi generi letterari (Del Corso, 2005, pp. 23-4). Molti dei segni apposti dai lettori antichi sui loro libri nascono come tentativo di rispondere a questa esigenza. Ma si trattava, ancora una volta, di paratesti occasionali, frutto di un rapporto dinamico con il testo, non di prescrizioni "autoriali" tramandate di copia in copia. La punteggiatura dipendeva, in ultima analisi, dai lettori. Nel corso dei secoli, alcuni grammatici provarono a elaborare sistemi pii'.1 normativi, per garantire insieme la comprensibilità e la corretta interpretazione ''performativa" di alcuni testi particolarmente significativi. Un certo Nicanore, vissuto ad Alessandria d'Egitto in età antonina, scrisse interminabili trattati Sulla punteggiatura di Omero e Sulla punteggiatura di Callimaco (di cui qualche eco si può individuare in scolii molto posteriori), oltre che un'opera Sulla punteggiatura in generale, e arrivò a concepire un sistema di otto segni, ciascuno dotaco di un valore sintattico e di una "durata", come le pause in uno spartico. Non sappiamo se Nicanore riuscì ad allestire un'edizione anche di un solo libro omerico seguendo il suo cervellotico sistema. I papiri superstiti non ne hanno restituito traccia, e i suoi sforzi intellettuali non vennero apprezzati universalmente nemmeno dagli altri eruditi suoi colleghi, che coniarono per lui il velenoso nomignolo stigmaias, da intendersi al tempo stesso come "il punteggiato", per i troppi segni che amava apporre, e "il tacuaco",come uno schiavo qualsiasi (Tsantsanoglou, 20076, pp. 1332-3). I lettori potevano intervenire a un livello ancor più specifico, aggiungendo indicazioni sulla corretta pronuncia di determinate parole (specialmente nel caso di opere poetiche): spiriti, accenti e segni di quantità. Questi segni, la cui corretta modalità di apposizione rappresenta oggi una delle prime astrusità da assimilare per chi voglia cimentarsi con l'apprendimento del greco antico, entrarono a far parte del corredo paratescuale dei rocoli papiracei solo a partire dall'età ellenistica avanzata19• La loro forma originaria era analoga a quella impiegata nel corso del medioevo bizantino. La differenza principale riguardava gli spiriti, che per tutto il periodo greco-romano furono soltanto di forma angolare (.; per lo spirito dolce e f--per quello aspro). Nella trattatistica grammaticale più tarda la loro introduzione viene attribuita talvolta all'opera di un grande grammatico alessandrino, Aristofane di Bisanzio, ma le fonti non sono univoche (Pfeiffer, 1968, pp. 179-180; Tsantsanoglou, 2007a, p. 1324) e, se fosse davvero così, si tratterebbe forse dell'unico caso in cui l'erudizione ellenistica

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sia riuscita a incidere concretamente sulle convenzioni librarie. La loro progressiva diffusione, in ogni caso, andò di pari passo con il radicarsi di un'istruzione basata sulla gmm11Mtiki:alessandrina, e le modalità della loro notazione erano oggetto di prescrizioni ben precise nella trattatistica specializzata, che spiegava quali sillabe accentare e quali no, ammonendo spesso a non esagerare con segni inucili ( «per non appesantire i libri, questo non va fatto», scrive un compilatore tardoancico, GG III I, 1,10 Lentz) 10 • I lettori di solito si attenevano a questo principio: le annotazioni prosodiche o di pronuncia si limitano di solito a singole parole. Non mancano, però, esempi di segno opposco. L"'Omero di Bankes" è costellato di accenti e spiri ci, aggiunti nmi da una stessa mano, e lo stesso si può vedere su rocoli contenenti opere meno popolari, dal Czt,zlogo di Esiodo (P.Oxy. XXIII 2355, I-II sec. d.C.) ai Pt1rtenidi Alcrnane (P.Oxy. XXIV 2387, I sec. d.C.). L'aggiunta sistematica di questi segni è traccia, dunque, di una lettura attenta e intensiva, effèttuara da un lettore istruito, non da principianti o studenti alle prime armi.

Forme e paratesti del rocolo latino Il modello librario finora descritto era caratterizzato da pochi elementi strutturali di per sé facilmente assimilabili e adattabili a ogni genere di cesto, e anche per questo ebbe un notevole successo, al punto da essere adottato, con opportune modifiche, da altre popolazioni con cui i Greci entrarono in contatto. Questo si verificò, in particolare, in Icalia, a partire dall'alto arcaismo, con la prima fase di espansione coloniale ellenica. In questo periodo, ad esempio, gli Etruschi assimilarono dai Greci non solo la scrittura alfabetica, ma anche l'uso di alcuni supporci scrittori caratteristici, che si affiancarono da subito ad alcri materiali: tra di essi spiccano i due pilastri del sistema di produzione libraria e documentaria greca, le tavolette cerate (cfr. supra,pp. 53-4) e il rocolo di papiro, di cui abbiamo però solo immagini, le più amiche delle quali risalgono alla prima età ellenistica: si pensi, innanzi tutto, al noto sarcofago di Laris Pulenas, un ex magistrato ritratto morbidamente adagiato sul suo triclinio mortuario, con uno sguardo fiero e un rocolo in grembo, su cui viene aggiunta un'iscrizione relativa alla scoria della sua famiglia (CIE 5430; Belfìore, 2ou); e rocoli, per lo più chiusi, compaiono tra le mani di alcuni dei defunti effigiati sulle urne volterrane 3'. Indizi più labili, ma comunque significativi, spingono a

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credere che le pratiche librarie greche fossero penetrate, in qualche misura, anche in ambito italico: testi epigrafici di contenuto sacrale come la tavola di Agnone (ve 147), redatta nel III secolo a.C., mostrano la presenza di uno dei segni più tipici della produzione libraria greca, la paràgraphos, impiegata proprio per distinguere sezioni diverse. È tuttavia a Roma che il contatto con le tradizioni letterarie greche determinerà gli esiti più significativi, anche socco il profilo librario. Nel mondo romano, in origine, venivano impiegaci, per la conservazione di testi complessi, una pluralità di supporci, secondo una logica funzionale diversa da quella tipica del mondo greco (fondamentale Cavallo, 2019, pp. 75-125). Tavolette di legno imbiancate o cerate, o semplicemente ricavate da corteccia d'albero, venivano utilizzate indifferentemente per custodire gli acta deliberati dalle diverse magistracure o le "memorie" (commentarii) delle attività svolte da magistrati o collegi sacerdotali, come gli annales pontijìcum (Ammirati, 2013); queste tavolette di vario formato erano raccolte insieme in forma di polittici oppure congiunte a soffietto (Ulpiano, Dig. 32, 52, pr., secondo l'interpretazione di Cavallo, 2019, p. 87 ). In altri casi si utilizzavano libri a soffietto facci di lino, del cuccoestranei alla cultura greca ma ben attestaci nel mondo etrusco: questo supporto era usato, ad esempio, per gli elenchi ufficiali dei magistrati, custoditi a partire dal 344 a.C. nel tempio di Giunone Moneta (ma compilaci anche prima di quella data), e, secoli dopo, continuò a essere in auge, forse come vezzo arcaizzante (ivi, p. 89), per raccogliere le efemeridi degli imperatori; e su lino erano scritti probabilmente testi di contenuto sacrale, come i libri contenenti la "legge recondita dei pontefici" oppure i commentarii degli aùguri, i sacerdoti capaci di predire il futuro interpretando i moti degli uccelli. Non sembrano attestate, dunque, differenze tra testi letterari e documenti, o tra testi in fieri e stesure definitive: il rapporto tra contenuto e contenitore segue altre logiche, che la perdita completa della documentazione originale rende difficile esplicitare, e altre tradizioni. In questo sistema è facile riconoscere influenze etrusche, come nel caso eclatante dei libri lintei, ma le fonti lasciano intravedere, sin dalle origini, interazioni, per quanto pili marginali, anche con il mondo greco. Plutarco, ad esempio, racconta che, da bambini, Romolo e Remo furono inviaci da Numitore presso la vicina Gabi per scudiare le lettere greche (Rom., 6, 2), ed è interessante notare che proprio da Gabi (pill precisamente dalla necropoli di Osteria dell'Osa, che su quel centro gravitava) provenga una delle più

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antiche iscrizionigreche finora rinvenute, un graffito apposto su un vasetto da assegnareagli inizi dell'vm secolo a.C. (La Regina, 1989-90; Boffa, 2015)Ancora, i leggendari libri di Numa, ritrovati nella tomba del re secoli dopo la sua morte, avrebbero compreso testi in latino e in greco 1'. Simili interferenze, tuttavia, rimasero a lungo a un livello superficiale. Quel che più interessa notare è che, per secoli, nel sistema originario dei supporti scrittori romani il papiro non aveva un ruolo: non è escluso che i Romani fossero a conoscenza della sua esistenza, ma di certo, per diversi secoli, non sembrano averne bisogno e preferiscono, anzi, affidare ad altri materiali i propri testi più importami. Il rotolo di papiro diventa una componente centrale della vira culturale romana solo dalla metà del III secolo a.C., con la nascita di una letteratura latina basata sul confronto con i generi letterari greci e, in seguito, con l'arrivo nell'Urbe dicospicue raccolte librarie ellenistiche, frutto dei bottini di guerra ottenuti con la conquista di parti sempre più ampie del Mediterraneo orientale. La centralità del nuovo ruolo assumo dal libro in forma di rotolo, vero e proprio simbolo di questa nuova cultura letteraria intrisa di ellenismo, è chiara, dalle fonti, prima ancora di arrivare al piacere quasi tattile espresso da Catullo per il rotolo che conteneva la raccolta delle sue poesie (1, vv. 1-2, «libricino elegante, fatto or ora e appena levigato con l'arida pomice»). Nonostante le molte indicazioni - i letterati latini tendono a essere più generosi, rispetto ai colleghi greci, di informazioni sulle modalità concrete di allestimento delle proprie opere - sfuggono, tuttavia, le caratteristiche materiali dei testimoni diretti di questo processo e di questa nuova stagione culturale: il naufragio quasi complero della prima produzione libraria latina rende qualsiasi tentativo di ricostruzione ancor più aleatorio di quanto si verifica sul versante greco. Alcuni particolari riscontrabili nei pochi reperti superstiti, tuttavia, lasciano intravedere una realtà libraria stratificata e raffinata, che a tratti si limita a riprendere il modello artigianale greco, a tratti lo rielabora, fondendolo con alcuni elementi fondami delle proprie tradizioni scrittorie. Il libe,·più amico giunto fino a noi non proviene dal raffinato tablino di una casa patrizia, ma dai cumuli di rifiuti che circondavano i bastioni del forte di Primis, l'odierna Q~r Ibrim, in Nubia (Anderson, Parson, Nisbet, 1979; Capasso, 2003). Primis fu la sede di una guarnigione romana sin dall'età augustea, anche se già verso la fine del r secolo d.C. tornò sotto il controllo meroitico. Gli scavi qui condotti dall' Egypt Exploration Sociecy,era il 1964 e il 1979, hanno contribuito a ricostruire in modo de-

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cisivo la storia dell'occupazione romana del sito, portando alla luce anche centinaia di papiri, in greco e in latino. Tra di essi, il più significativo è un frammento di un rocolo scritto con cura calligrafica e accuratamente impaginato, su cui è possibile leggere gli unici versi superstiti delle elegie dedicate a Licoride da uno sfortunato autore apprezzato anche da Virgilio, Cornelio Gallo. Questi. prima ancora che poeta, fu un importante uomo politico: a lui Ottaviano affidò la riorganizzazione dell'Egitto dopo la sconfitta di Antonio e Cleopatra (31 a.C.), conferendogli il titolo di prefetto d'Egitto; dopo pochi anni, tuttavia, Gallo divenne inviso all'imperatore e nel 26 a.C. si suicidò, dopo esser stato condannato all'esilio, alla confisca dei beni e alla dt1mnatio memoriae. La parabola di Gallo consente di inserire l'unico testimone della sua attività poetica in un arco cronologico ben preciso, se si considera che le elegie per Licoride furono pubblicare incorno al 45-44 a.C. (Gagliardi, 2009) e, al tempo stesso, che è molto difficile che copie dell'opera venissero realizzate dopo la danmatio: il rotolo, dunque, va assegnato ai primi anni dell'età augustea. L'unica possibilità a nostra disposizione di ricostruire l'aspetto dei rocoli poetici di Catullo o Virgilio passa dunque attraverso un libro gettato via, poco tempo dopo il momento in cui era stato allestito, da un militare costretto a svolgere il suo servizio in uno dei punti più remoti del mondo romano. Non è possibile stabilire dove sia stato scritto il rotolo: certamente non a Primis, dove l'occupazione romana era appena cominciata, ai tempi di Gallo, e probabilmente non in Egitto. Come in altri casi analoghi, l'origine del rocolo andrebbe ricercata nel luogo di provenienza del soldato che lo aveva con sé: forse l'Italia, forse addirittura Roma. Passando alle caratteristiche del papiro, colpiscono alcune evidenti differenze rispetto al modello greco. Anche se il cesto è sempre disposto su colonne contigue, il rapporto era spazio scritto e spazio bianco è diverso. Nel rocolo di Gallo le righe arrivano a misurare fino a 13,5cm, e ogni colonna consta di circa 14 righe, con ampi spazi interlineari e margini, per un'altezza complessiva originaria di circa 2.0 cm (ipotizzando un margine inferiore pari a quello superiore). Le colonne, dunque, hanno forma tendenzialmente quadrata, a differenza di quanto accade nei rocoli greci, dove di norma sono inscrivibili in un rettangolo, con la base molto inferiore ali' altezza. Ancora più evidenti sono le differenze sotto il profilo della leggibilità. La scrittura non è continua: ogni parola è separata da quella successiva mediante un punto a metà del rigo (interpzmctmn); i versi sono nettamente separati tra loro ( il pemamemro, in particolare, è in rientranza

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rispetto ali 'esametro: una disposizione quasi mai impiegata nei resti poetici greci, su papiro o su pietra); inoltre, la lettera iniziale di ogni distico è volutamente ingrandita rispetto alle alrre. Pm!tgraphoi molto viscose, aggiunte sul margine sinistro e sul margine destro della colonna, segnalano in modo eclatante la successione di ciascun componimento. In quesco rotolo, insomma, la disomogeneità viene esaltata in funzione dell' intelligibilirà del tesro e trasformata in fattore estetico: niente di più lontano dalla ricerca di omogeneità tipica dei migliori rocoli librari greci ( cfr. infi-a, pp. 108-14). A rendere diverso l'aspetto di questo libro rispetto ai modelli calligrafici ellenici contribuisce in modo sostanzi.1le, infine, la scrittura. La maiuscola calligrafica sapientemente usata dallo scriba (la "capitale rustica": Cavallo, 2008, pp. 150-6; Fioretti, 2.0 q.b) è caratterizzata da un uso sistematico del chiaroscuro: i tratti obliqui delle lettere, in altri termini, risultano più spessi, quelli verticali più sottili, mentre quelli orizzontali hanno uno spessore medio. Per ottenere questi effetti, era necessario utilizzare uno strumento scrirrorio dalla puma ragliata, non il calamo a punta rigida e sottile tipicamente greco. La stessa estetica di fondo si individua anche in frammenti posteriori. Forme eleganti al servizio della leggibilità si ritrovano nell'unico rotolo trovato a Ercolano che abbia restituito un resto poetico !arino, il P.Herc. 817, contenente un poema in esametri sulla battaglia di Azio (il Carmen de bello Actiaco), e databile dunque rra il 31 a.C. (data della battaglia) e l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C. (Ammirati, 2.015, pp. 30-2.). Anche qui ritroviamo la stessa accuratezza nella distinzione delle parole mediante interpuncta, cui si aggiunge un alrro segno caratteristico: l' apex, una sorra di accento aggiunto al di sopra delle vocali lunghe; inoltre, sul margine destro lo scriba annota segni in forma di slash (/), per indicare pause più o meno forti nell'andamento del resto. Analogo, inoltre, è l'aspetto dell'impaginazione: la perdita dei margini rende impossibile stabilire l'altezza originaria del rotolo, ma le colonne erano molto più larghe rispetto alla media dei modelli greci, dal momento che ognuna di esse misura all'incirca 19-20 cm. Gli stessi criteri si ritrovano anche nei libri contenenti opere in prosa, come mostra un altro papiro ercolanese, il P.Herc. 1067, su cui si può leggere un frammento dell'opera storica di Seneca il Vecchio (Piano, 2017; 2.020), da assegnare al periodo compreso era la fine del I secolo a.C. e gli inizi del I d.C. Nonostante la scarsa leggibilità dei frammenti superstiti, è stato possibile stabilire alcuni elementi di fondo: il rocolo era lungo al-

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meno 13 m e conteneva colonne sostanzialmente quadrate, alce non più di 2.3 cm e larghe all'incirca 20; anche qui lo scriba si preoccupa di distinguere le parole con interprmcta e apices e di far coincidere fine di rigo e fine di parola; dovevano essere presenti, inoltre, altri accorgimenti paracescualivolti ad aiutare il lettore a seguire l'andamento del discorso, dal momento che alcune righe risultano in rientranza (Piano, 2.020, pp. 33-7 ). Considerazioni non dissimili valgono anche per uno dei primi testimoni della seconda orazione Contro Vérre, P.Iand. v 9or, databile era l'età augustea e l'età Aavia. Il rocolo in origine era alto non meno di 40 cm e lungo era 22 e 27 metri; si trattava di un libro « forse poco comodo da adoperare», ma fornito di un sistema paratesmale « funzionale alla natura retorica del testo», grazie proprio alla presenza di segni ( nella forma di tratti obliqui di diversa lunghezza) per indicare le pause di lettura, apici su determinate vocali lunghe e poi ancora spazi e interprmcta tra le parole e indicazioni della ripartizione in capitula (Fioretti, 2016, pp. 2-10 ). Una varietà paratescuale maggiore, rispetto al mondo greco, si intravede del resto anche in altri rocoli. Il più amico testimone di un cesto scenico latino, il P.Hamb. II 167 (contenente forse una commedia di Afranio; I sec. d.C.), oltre all'uso consueto di apices e interprmcta, ricorre all'inchiostro rosso per segnalare, ali'interno di ciascun rigo, il nome del personaggio che parla ed eventuali altre indicazioni sceniche: una prassi lontanissima dalle convenzioni greche. Da questi rotoli sparsi tra l'Italia e l'Egitto sembra emergere dunque un modello librario coscientemente perseguito, improntato a esigenze di chiarezza e leggibilità e al tempo stesso basato su una gestione dello spazio scritto poco economica e a tratti quasi pomposa, che richiedeva decine di metri di papiro per trascrivere cesti anche relativamente brevi (e che forse determinava una sistematica divisione delle opere in più comi?). Non sappiamo quali fossero le origini di questa diversa estetica. Alcuni studiosi hanno paragonato le dimensioni delle colonne di papiro in questi primi rocoli alle dimensioni delle tavolette scrittorie, e hanno messo in relazione la scelta del formato quadrato con la precoce diffusione di polittici di tavolette e, in generale, di supporci scrittori in forma di codice, attestati nel mondo romano sin da età molto antica (Ammirati, 2015, pp. 33-6). Non si può escludere, inoltre, che la disposizione del cesto nascesse dalla volontà di riprodurre su papiro assetti tipici dei libri lintei già in ambito etrusco: l'unico esempio superstite, il cesco riportato sulla cosiddetta "mummia di Zagabria" (Belfiore, 2.010), mostra proprio una successione di colonne quadrate, larghe, in cui le parole sono separate da interprmcta

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e il margine sinistro (il resto è scritto in senso sinistrorso), peraltro, è a bandiera, per evitare divisione di parole era un rigo e il successivo. I versi di Gallo da Qa$r Ibrim o il Seneca (padre) di Ercolano sembrano quasi una trasposizione su papiro di questa tipologia di layout. La produzione libraria latina, a ogni modo, mostra ben presto una maggiore stratificazione.A partire dalla fine del I secolo d.C. sono ben arrestati libri in buone scritture librarie (varianti meno calligrafiche della "capitale rustica") e in formacipii1 ridotti, sia pur sempre rispettando il tradizionale la)'Ott!"quadrato" {P.Oxy.VI 871, 1-11 sec. d.C.)B. Parallelamente, la documentazione greco-egizia mostra, con il passare del tempo, una tendenza a ridurre l'uso di strategie di distinzione delle parole, che scompaiono in età imperiale più avanzata, e ad abbandonare il formato quadrato in funzione di uno rercangolare analogo a quello usato nei rotoli greci. In un rocolo delle Ecloghe di Virgilio trovato a Narmourhis, assegnato alla fine del I secolo d.C., gli interprmcta sono assenti e il layout è meno sovrabbondante di quello degli altri rotoli finora descritti, anche se ciascuna colonna misurava comunque 15-16cm circa {P.Narm. inv. 66.362; Gallazzi, 1982; Ammirati, 2010, pp. 41-2; Scappariccio, 2013, pp. 165-6). L'assenza di interprmcta si ritrova anche in due dei principali testimoni della circolazione di Sallustio in Egitto, riferiti al II secolo d.C.: P.Ryl. III 473 + P.Oxy. inv. 68 6B.20/L {rn-13)a(Storie; Funari, 2008, pp. 117-51),dove la colonna, ampia 12 cm e con più di 20 righe, assume un formato rettangolare, e P.Ryl. I 42 (Bellum Iugurtinum; ivi, pp. 63-72), troppo esiguo per considerazioni bibliologiche. Altri rotoli ancora mostrano una vera e propria mistione di elementi latini ed elementi greci. Il caso più interessante è forse un rotolo della collezione fiorentina, il PSI VII 743, contenente una singolare traslitterazione in caratteri latini di un testo greco, una versione della storia dell'incontro tra Alessandro Magno e i gimnosofisti, coraggiosi saggi indiani dediti a una vita di ascesi e meditazione. Questo aneddoto, volto a esaltare l'importanza della saggezza in ogni avversità e anche di fronte a manifestazioni arrogami del potere, era piuttosto popolare in ambito greco, anche con scopi didattici (Stramaglia, 1996, pp. u3-9 ). La scelta di traslitterarne una versione in caratteri latini testimonia sicuramente una situazione di osmosi culturale, che si riflette sull'aspetto complessivo del reperto: le colonne, infarti, hanno un'impostazione rettangolare, "alla greca", e di tipo greco è il calamo impiegato per scrivere il testo, ma al tempo stesso si ritrovano elementi tipicamente latini come interpuncta e apices. È possibile che questo singolare progetto librario sia stato concepito per consentire a Romani era-

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piantati in Egitto di leggere con più facilità cesti letterari greci elementari; ma non possiamo escludere, a priori, nemmeno il contrario, ossia che il cesto servisse a individui abituati a usare il greco per conseguire una migliore familiarità con la scrittura latina, che era pur sempre il veicolo mediante il quale veniva espressa la lingua dei dominatori. Turri questi frammenti, a ogni modo, sono la testimonianza di un processo di assimilazione inversa, di cui il rotolo latino-greco dei gimnosofisci rappresenta un esempio eclatante. Con il consolidamento della cultura letteraria latina, la sua proiezione in uno scenario "globale" e il conseguente aumento del numero dei lettori, non più limitato ai membri della raffinata élite dell'Urbe, la domanda di libri latini aumentò anche nelle zone periferiche dell'impero, senza che potesse essere soddisfatta semplicemente imporrando rotoli dall 'Icalia; per questo, proprio come i libra.riiromani erano in grado di offrire ai propri clienti libri greci e libri latini, anche botteghe librarie di province grecofone si attrezzarono per allestire copie delle opere nella lingua dei dominatori, a volte rispettando le caratteristiche dei modelli, a volte sovrapponendo a essi le proprie convenzioni. Questa mescolanza di pratiche ed elementi culturali diventerà particolarmente rilevante nei secoli più avanzati dell'impero, e sarà una delle componenti di fondo di uno dei processi più significativi nella scoria delle modalità di trasmissione del sapere: l'affermazione di un ulteriore supporto librario, il codice (cfr. CAP. 8).

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Proprio come si è visco nel caso dei formaci, anche dopo il consolidamento di standard per il corredo paratescuale e la gestione dello spazio scritto dei rocoli letterari, questi elementi strutturali non erano applicaci in modo "scarico" e astratto, ma parevano essere in una cerca misura riadattaci per rispondere meglio alla natura del cesto cràdico e venire incontro, così, alle esigenze dei lettori. Anche se i prodromi di questi fenomeni si colgono già nel corso dell'età ellenistica, essi diventano più evidenti nel corso dell'età romana, quando il mercato librario si rivela aperto ad accogliere soluzioni adatte a un pubblico, oltre che più largo, particolarmente articolato per estrazione sociale e culturale.

Semplificare testi complessi Lettori non eruditi, ma comunque dediti a passatempi letterari, potevano avere a loro disposizione edizioni in cui il sistema dei segni e persino il !,~)'outerano concepiti per semplificare il dettato del cesto e rendere pit1 agevole la lettura, anche violando l'ideale di omogeneità alla base dell'estetica del rocolo di bottega. Testi di intrattenimento, sia pur di alto livello, circolavano talvolta in libri di questo tipo: per citare un caso di particolare interesse, l'unica copia superstite del Romanzo di lolao (P.Oxy. XLII 3010) - un singolare esempio di racconto in prosa e in versi definito anche il "Satyricongreco" per le sue affinità con il più celebre romanzo latino attribuito a Petronio - è impaginata con colonne "modulari': concepite per segnalare in modo chiaro le parti prosastiche e le parti poetiche, ed è dotata di un apparato paracescuale fatto di paràgraphoi,diplài obelismenai,spazi bianchi, volto a rendere più chiaro l'andamento dei periodi e aumentare, così, la leggibilità complessiva del rotolo (Del Corso, 20106, pp. 255-6). Talvolta persino copie eleganti dei poemi di Omero potevano essere do-

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35 Ucommentario berlinese al 7èewo di Platone (BKT 11,pp. 3-51). © Sraatliche ;'\luseen zu Berlin,AgypcischesMusc:urnund Papyrussammlung

care di aiuti paracescuali per i lettori. Nell '"Omero di Bankes" lo scriba, olcre ad apporre i segni più consueti, distingue i discorsi diretti dai versi attribuici alla voce narrante, annotando, sul margine della colonna, il nome dellape,.:wna loquens, che nel caso del poeta si limita alla sigla 1ro(1YJT~ç), il «po(eca)»; in aggiunta, ciascuna sezione narrativa, all'interno del libro, è contraddistinta da un segno apposito, sempre sul margine. Accorgimenti simili potevano essere seguici anche per libri "di bottega" destinaci a un pubblico di specialisti, o comunque a lettori interessati a testi specifici.

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Uno specifico layout, oltre a un utilizzo dei segni più sistematico del solicontraddistingue alcune raccolte di brevi pezzi retorici (progymnasmata) particolarmente articolate e frutto di vera e propria pianificazione libraria, da un rotolo ellenistico contenente encomi per figure mitologiche (P.ìv1il.Vogl. III 123 + P.CtYBR inv. 4573, metà del III sec. a.C.; Pordomingo, 2007; De Kreij, 2018) sino a prodotti di età imperiale come un'antologia di massime e aneddoti di personaggi famosi (chriae), impiegati come base per sviluppare manipolazioni logico-grammaticali e retoriche, divisa tra Ann Arbor e Oslo (P.Mich. inv. 25 + P..Mich. inv. 61 + P.Oslo III 177, I-II sec. d.C.; l'origine di bottega del rocolo emerge dalla scrittura impiegata, elegantemente chiaroscurata). Passando a un ambito diverso, il commento al Teeteto di Platone restituito dal rocolo di Berlino BKT II, pp. 3-51 (II sec. d.C.; CPF III, 9; FIG. 35), prodotta a sua volta entro un atelier di buon livello a giudicare dalla scrittura, è impaginata in colonne omogenee e regolari, ma i passi platonici sono ben separati dalle riflessioni esegetiche mediante segni appositi (diplai e paragraphoi). E accorgimenti del genere si individuano anche in un cerro numero di libri "di bottega" contenenti testi medici. PSI III 252, scritto tra II e III secolo d.C. (in "stile severo": Cavallo, 2008, pp. 105-16; FIG. 36), contiene un trattato sulle basi della medicina redatto in forma di "catechismo": la trattazione, cioè, si snoda come una serie di domande e risposte, molto articolate. Un procedimento di questo tipo era correlato con la formazione dei futuri medici, ai quali nell'Egitto romano era richiesta di sostenere un vero e proprio "esame di verifica" per continuare a esercitare la professione (dokin1,1Sia),e si ritrova non a caso in una pluralità di papiri di argomento medico, spesso di tipo informale; si trattava, inoltre, di un modo di organizzare le informazioni tipico di altri testi connessi con materie studiate a scuola (molti "catechismi" riguardano l'Iliade e l'Odissea, e in almeno un caso disponiamo di un "catechismo aritmetico": PSI VII 763, III sec. a.C.). Il rotolo fiorentino, tuttavia, è il frutto di un'abile mano professionale e mostra una pianificazione libraria specifica,che prevede l'utilizzo di rientranze, paragraphoi e altri segni per separare domande e risposte, e per seguire lo snodarsi della risposta stessa. Reperti di questo tipo mostrano l'esistenza di un pubblico di lettori segmentato e articolato in una pluralità di categorie, in funzione delle cui esigenze - di studio, lavoro o semplicemente intrattenimento - potevano essere sviluppate soluzioni librarie apposite. La pluralità delle scritture impiegate, le differenze contenutistiche, le specificità locali rendono difficile to,

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36 Un testo medico (PSI lii 252). © Biblioreca Medicea Laurenziana. Su concessione Mie. Diviero di riproduzione

ricostruire il loro sviluppo e metterlo in relazione con le evoluzioni della società. L'unica linea di fondo - tutta da verificare - sembra individuarsi in una corrispondenza tra il proliferare di soluzioni librarie e testuali specifiche e lo sviluppo delle città e di stili di vita urbani, con tutta la loro complessa rete di relazioni ed esigenze comunicative: nell'Egitto postfaraonico momenti di questo cipo si verificano soprattutto al culmine dello splendore della monarchia tolemaica, dalla metà del III secolo a.C. fino agli inizi di quello successivo, e, molto dopo, nell'età dei Severi, quando il governo romano promuoverà lo sviluppo dei centri urbani e consentirà l'istituzione generalizzata di "consigli cittadini" (boulai) in ogni capitale distrettuale, con la nascita di un "ceto buleucico" - composto essenzial-

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mente dai membri delle famiglie più ricche, da cui venivano scelti i consiglieri (buleuci) - i cui esponenti dovranno non solo acquisire nozioni pratiche, per gestire gli incarichi affidati loro e partecipare alla vita del consiglio, ma in generale irrobustire la propria formazione culturale, e dunque leggere di pili e procurarsi pili libri. Al di là di questo, l'identità sociale dei proprietari di rocoli così specifici resta problematica. In alcuni casi si trattava di "lettori comuni", o "deboli", proprio come quelli cui erano destinati libri o manuali "tecnici" ed edizioni di poco pregio (cfr. supra, p. 142). In altri casi, tuttavia, libri dotaci di segni o layout peculiari rispondevano alle necessità e ai gusti di destinatari ben diversi: eruditi, specialisti o ricchi dilettanti desiderosi di approfondire le proprie conoscenze ed entrare in contatto con le forme più alce del sapere ellenico. Delle edizioni realizzate per venire incontro alle loro esigenze di studio e di lettura sopravvive ben poco: parte dei rocoli della Villa di Ercolano e un numero nel complesso esiguo di frammenti dall'Egitto. Nessuna di queste imprese editoriali, anche se connessa con committenze di altissimo profilo, fu in grado di modificare le dinamiche concrete di produzione libraria antica, né di influenzare in modo determinante le forme di trasmissione dei cesti. Ma l'impacco di questi libri sull'immaginario antico (e moderno) fu comunque cale da lasciare traccia in cucci i secoli successivi, e suscitare ancora oggi l'interesse degli scudiosi.

Fantasmi eruditi Le fonti letterarie hanno restituito accenni e testimonianze estese sulla realizzazione, a partire almeno dal 111 secolo a.C., di progetti editoriali ed edizioni "speciali': elaborate nell'ambito di cerchie intelleccuali per lo più sotto l'egida di istituzioni o mecenati, caratterizzate non solo da una cura cescualefuori dalla norma, ma sopraccuccodall'impiego di un corredo paracescualespecifico, concepito per fornire ai lettori in modo sintetico una serie di informazioni filologiche e contenutistiche. Le più celebri, ma non le uniche, erano sicuramente le edizioni dei grandi autori "classici"della lecceracura greca facce allestire, all'interno del Museo di Alessandria, da eredotti che furono anche alla guida della Biblioteca a esso contigua: Zenodoco, Ariscarco e Aristofane di Bisanzio. Le caraccerisciche di questi libri possono solo essere immaginate, incrociando testimonianze molto più tarde con qualche elemento desunto da

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frammenti di rotoli concepiti in modo analogo. Le istanze culturali alla base dell'impresa sono state lungamente esaminate e dibattute e, anche se molti aspetti restano ancora oscuri, possiamo provare almeno a immaginarne il contorno. Ali'inizio del III secolo a.C. giunsero ad Alessandria libri da ogni angolo del mondo greco, per arricchire la grandiosa Biblioteca voluta da Tolomeo I per ribadire le fondamenta saldamente elleniche del suo potere: secondo l 'aurore anonimo della Lettera di Aristea il suo nucleo originario constava di 200.000 rotoli, che in breve sarebbero divenuti 500.000, e di centinaia di migliaia di libri parlano anche tutte le fonti più tarde, daAulo Gellio al bizantino Giovanni Tzetzes, passando per Ammiano Marcellino, che confondeva tra loro, però, la Biblioteca voluta da Tolomeo con quella del Serapeo (Fraser, 1972, pp. 320-35; Bagnall, 2002). Altre testimonianze insistono sulla qualità dei libri: ad Alessandria, ad esempio, secondo una notizia riferita da Galeno (In Hipp. Epidem. comment. lib. III, :>,,.'VIIa, 607.5-17 Kiihn = pp. 79.23-80.6 Wenkebach), Tolomeo II avrebbe fatto arrivare anche l'edizione ufficiale dei tragici greci allestita ad Atene per volere di Licurgo, di cui avrebbe restituito alla polis attica soltanto una copia. Nessuna cifra è degna di fede: il nucleo originario dei libri di Alessandria comprendeva forse appena un decimo dei tesori librari favoleggiaci nei racconci più cardi, ma si trattava comunque di una raccolta enorme, superiore a qualsiasi altra collezione libraria precedente. E ogni aneddoto relativo all'acquisizione di libri dotati di una speciale auraticicà va accolco quantomeno con il beneficio del dubbio, anche se la frequenza con cui i testimoni amichi insistono su questi particolari è un chiaro segno della pluralità di fondi confluici nella Biblioteca. Per rendere fruibile questo patrimonio librario furono indispensabili sforzi catalogici del tutto inediti, nel mondo greco, che occuparono le menti di incelletcuali di alto profilo per decenni: secondo le fonti, un elenco delle opere disponibili, organizzato per generi letterari e autori, sarebbe stato redatto dal poeta Callimaco sotto il regno di Tolomeo II, decenni dopo la fondazione della Biblioteca, e avrebbe occupato 120 libri (i Pìnakes:Fraser, 1972, pp. 452-4; Bagnall, 2002, p. 356). La produzione di edizioni "alessandrine" cominciò solo dopo che questa prima fase di acquisizione ed esplorazione dei libri raccolti era giunca a compimento. La constatazione della presenza di una pluralità di copie di una stessa opera, spesso piene di discrepanze, il bisogno di raggruppare in successioni rigorose e improntate a criteri unitari componimenti di uno stesso autore altrimenti sparsi e disarticolati, la volontà di raccogliere

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in modo organico le riflessioni critiche nate attorno a quelle opere furono tutti fattori che portarono alla scelta di produrre edizioni (ekdoseis) nuove e finalmente accendibili. Le fonti informano che Zenodoco per primo propose un'edizione completa di Omero, seguito da Aristofane di Bisanzio, che, oltre che di un nuovo cesto di Omero, si occupò dei poeti lirici (Pindaro in primis) e dei tragici, e successivamente da Aristarco di Samocracia, cui la tradizione attribuisce ancora un'edizione dell'Iliade e dell'Odissea (Schironi, 2018; Montana, 2020, pp. 142-217). Ciascuno dei ere grammatikoi seguì una prospettiva propria nell'approccio ai cesti e privilegiò criteri specifici, che i filologi moderni da secoli provano a ricostruire partendo dalle testimonianze erudite più disparate (e soprattutto dai corpora scoliascici bizantini). Socco il profilo librario, tuttavia, queste edizioni alessandrine rispondevano ad alcuni criteri di fondo unitari. Il primo era un utilizzo largo di una "grammatica di segni" funzionali a informare il lettore delle difficolcà cescuali di un determinato passo, avvertirlo della presenza di interventi effettuati dall'editore, alcuni dei quali drastici come l'eliminazione di inceri versi, infine sottolineare alcune caratteristiche stilistiche salienti. La spiegazione degli interventi e delle osservazioni, inolcre, non era fornica in calce al cesto: Aristarco affidò una discussione più ampia dei passi esaminaci e una giustificazione sistematica delle sue scelte ecdotiche ad appositi rocoli di commento (indicaci ora come hypomnèmata, ora più genericamente come syggràmmata). I segni impiegaci coincidevano in una cerca misura con segni già impiegaci della produzione libraria precedente, ma i ere editori ne attribuirono ad alcuni un valore specifico e ne aggiunsero altri, prima non accescaci(Schironi, 2018, pp. 49-62). Così, sappiamo che nei libri curati da Zenodoco l' obelos era impiegato per indicare versi sospetti, ma non consideraci necessariamente da espungere, mentre in quelli allestiti socco la supervisione di Aristarco lo stesso valore era attribuito a un segno formato da un asteriskos unico a un obelos (:F.-); Aristofane di Bisanzio, dal canto suo, avrebbe introdotto il sigma (C) e l'antisigma (J), per delimitare versi consecutivi di contenuto identico, e quest'ultimo segno sarebbe stato poi ripreso da Aristarco, ma per indicare versi collocati in posizioni erronee. E non mancavano segni usaci per segnalare polemiche era colleghi (cui gli antichi dedicavano tirate appassionate non meno dei moderni): sempre Ariscarco avrebbe rifunzionalizzaco la diplè periestigmene ( >:) - che abbiamo incontrato già sulla "triplice defixio" dal Ceramico con valore provocacoriamen-

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ce magico - per indicare passi sui quali voleva esprimere disaccordo con predecessoricome Zenodoco o contemporanei come Cratere di Mallo, bibliotecario di Pergamo e sostenitore di un'impostazione critica per molti aspetti diametralmente opposta a quella alessandrina. Un'edizione alessandrina, così, si presentava al lettore come un'eccentrica costellazione di segni, per decifrare i quali era necessaria una preparazione specifica. In questi rocoli vi era solo un altro elemento notevole, socco il profilo librario: l'adozione sistematica della colometria per i versi lirici, canto per le edizioni di poeti corali, come Pindaro, quanto per le parti (originariamente) cantate delle opere teatrali. La colometria consisteva, in sostanza, nella scomposizione dei versi lirici nelle loro cellule costitutive fondamentali (i cola), che erano disposte ciascuna su un rigo a sé stante. In questo modo veniva offerta al lettore una sorca di visualizzazione della "partitura ritmica" (per riprendere un'espressione di Luigi Enrico Rossi) del brano o della sezione lirica. Non sappiamo invece se ad Alessandria fossero giunte, assieme ai cesti e ai ritmi, anche le melodie delle composizioni liriche così attentamente studiate. Il grande filologo Wilamowitz-Moellendorff riteneva che i dotti del Museo, pur avendo cesti completi di parole e musica, fossero del cuccodisinteressati a quest'ultima, contribuendo a determinarne l'oblio; altri hanno pensato che le colometrie stabilite ad Alessandria si basassero su vere e proprie "partiture", risalenti in ultima analisi a edizioni ateniesi, come quella "ufficiale"di Licurgo (Napolicano, 2016, pp. 314-6, per un punto sulla scoria degli scudi). Ma non abbiamo alcuna indicazione che queste edizioni contenessero davvero la musica originale, canto più che, a prescindere dalla difficoltà di individuare la data di introduzione di tecniche di notazione dei suoni, l'oralità giocava un ruolo determinante nell'istruzione dei cori teatrali, così da rendere meno pressante la necessità di basarsi su "spartici': E tuttavia, all'inizio dell'età ellenistica la musica avevagià assunto forme librarie (Prauscello, 2006). Cartonnages di mummie trovacinella chom hanno restituito diversi frammenti di canti lirici da tragedie con relativa notazione musicale, risalenti già alla prima età ellenistica: in alcuni casi si trattava sicuramente di antologie (P.Leid. inv. P 510; Pohlmann, West, 2001, n. 4; metà del 111 sec. a.C.), ma in altri non si può escludere che le parei musicate provenissero da rocoli contenenti l'incero dramma (Sackler Library inv. 89Bl31, 33 = Pohlmann, West, 2001, n. S, III-II sec. a.C.). In tutti questi cesti il sistema è sempre uguale: i versi li-

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37 Un papiro con notazioni musicali (P.Vindob. inv. G 2.315).© Osrerreichische Narionalbibliothek

rici sono scritti continuativamente, senza distinzioni colomecriche,e le notazioni musicali, limitate di facto a un insieme di lettere e simboli non sempre di univoca interpretazione, sono apposte in una linea parallela al di sopra delle sillabe; in alcuni papiri, a ogni modo (P.Vindob.inv. G 2315; Pohlmann, West, 2001, n. 3; Prauscello, 2006, pp. 127-43; III-II sec. a.C.; FIG. 37 ), segni specifici sono aggiunti anche nelle righe del cesto, per lo più per fornire indicazioni ritmiche. I grammatici alessandrini, dunque, disponevano, in potenza, di un ampio novero di melodie da aggiungere alle loro edizioni, alcune delle quali tramandare da cesti così antichi da essere quantomeno il riflesso dell'accompagnamento musicale originale (un'idea avanzata decisamente anche per P.Vindob. inv. G 2315: Pohlmann, West, 2001, p. 14): se ad Alessandria non nacque una "filologia della musica" si ha I' impressione che questo fu dovuto soprattutto a una rimozione consapevole. Al di là di gusci e problemi musicali, i grammatici di Alessandrianon furono i soli a dedicarsi a programmi edicoriali frutto di ricerche specifiche e caratterizzaci dall'impiego di segni che a esse rimandavano. Esperienze intelleccuali analoghe presero ben presto l'avvio anche in ambito

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filosofico. Come si è visco, i testi dei filosofi dovevano necessariamente esserecaratterizzati sin dall'inizio dalla presenza di un corredo paratesmale specifico, funzionale ad accompagnare il lettore attraverso gli snodi di resti particolarmente densi e complessi. In erà ellenistica questo aspetto fu probabilmente enfatizzato all'interno di alcune scuole particolarmente ben organizzare, allo scopo di garantire la corretta trasmissione di ogni sfumatura concettuale del pensiero del Maestro fondatore e degli scolarchi successivi.Diogene Laerzio (rn, 66) e un trattatista anonimo, di cui sopravviveun frammento in un papiro fiorentino (PSI xv 1488), ci informano dell'esistenza di copie delle opere di Platone, realizzare all'interno dell'Accademia, in cui il testo del filosofo era stato dorato di un sistema pararestuale del tutto originale, basato sull'impiego simultaneo di segni volti a richiamare l'attenzione del lettore su problemi di tipo filologico (lezioni alternative, parole da espungere, passi sospetti), questioni stilistiche e infine elementi propriamente dottrinali. Questi rocoli erano così imporranti, per chi volesse comprendere il pensiero di Platone, che era possibile consultarli solo a pagamento (cfr. almeno Gigante, 1986, pp. 64-71; 1998; Cavallo, wo5, pp. 132.-4; Dorandi, 2.007, pp. 104-5; CPF I, 1.. -, pp. 613-5).Non sappiamo se la realizzazione di un progetto editoriale così ambizioso debba essere collocata subito dopo la morte del filosofo o in un periodo posteriore (che comunque non andrebbe oltre il III secolo a.C., se la fonte di Diogene Laerzio dovesse essere identificata, come proposto da più parti, con Antigono di Carisro, un aurore di biografie di filosofi vissuto proprio in quel periodo); non sappiamo, quindi, se i libri platonici siano stari un modello per le successive edizioni alessandrine o se piuttosto i filosofi-filologiresponsabili della loro realizzazione si siano ispiraci al lavoro dei dotti del Museo. Dietro le vicende dei libri "speciali" allestiti da filologi, filosofi e medici, ormai quasi avvolti per noi nella leggenda, riusciamo a intravedere un filo conduttore che rimanda a una costante significativa, nella storia del libro greco. Le fonti superstiti mostrano l'esistenza di un fenomeno analogo, cominciato agli inizi del III secolo a.C. (o alla fine del 1v) e parallelo alla formazione di istituzioni, pubbliche o privare, esplicitamente vorace alla salvaguardia di un tipo specifico di sapere: la creazione di edizioni e programmi librari caratterizzati da sussidi pararesruali specifici - per quanto talora simili e comunque apposti secondo le stesse logiche e senza comportare stravolgimenti nella struttura di base del rotolo - finalizzati ad approcci al resto e strategie di lettura diverse, dalle sottigliezze analitiche

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dell'interprete dei testi poetici alla necessità di astrazione del pensatore immerso nella metafisica, o al bisogno di sintesi del terapeuta. Di questi libri non resta ormai nulla. Le tracce delle attività di ricerca ed esegesi condotta dai milieux entro cui furono sviluppati sono apprezzabili, con molti limiti, grazie a riferimenti in opere successive,tramandate dal medioevo bizantino, e spesso dopo il filtro di sintesi e parafrasi bizantine, talvolta ulteriormente compendiate sotto forma di catene scoliasciche (si pensi in particolare ai frucci dell'attività dei grammatici alessandrini). Ma sotto il profilo della scoria editoriale di quelle opere, delle caratteristiche materiali della produzione libraria e dunque delle dinamiche concrete di trasmissione dei cesti, queste iniziative ebbero un impatto ridotto. Si trattava infatti di esperienze limitate a cerchie intellettuali di altissimo profilo, al di fuori delle quali libri di quel tipo ebbero una diffusione assai scarsa, e comunque non cale da incidere in modo significativosulle abitudini di studio della maggior parte dei lettori, anche colei, e sulla cultura libraria dell'epoca nel suo complesso. La documentazione papiracea superstite ne rappresenta, ancora una volta, una prova. I "libri filosofici" superstiti presentano talvolta un layout peculiare (cfr. supra, pp. 154-5) e possono contenere annotazioni, frutto di un lavorio intellettuale profondo e continuo sul cesto, che in alcuni casi mostrano persino l'impiego di abbreviazioni specifiche': ma non presentano mai un sistema di diacritici paragonabile a quello descritto da Diogene Laerzio. Considerazioni analoghe si possono svolgere anche a proposito dei libri che riflettevano più da vicino i risultati degli scudi dei grammatici alessandrini (Schironi, 2012, pp. 91-100). Tra gli innumerevoli rotoli, più o meno frammentari, che attestano un lavorio critico, esegeticoe testuale, sui "classici" del patrimonio letterario greco, un gruppo più esiguo - qualche decina - mostra la presenza di diacritici speciali, per lo più aggiunti da mano diversa da quello dello scriba principale, talora esteriormente identici ad alcune delle "invenzioni" alessandrine, tanto che gli studiosi, non a caso, parlano di papiri dotati di "segni alessandrini".Il più antico, P.Tebt. I 4 (Iliade n), risalente al n secolo a.C., reca addirittura due tipici particolari aristarchei, l 'asteriskos con obelòse l 'antisigma. Ma questi segni hanno un valore diverso rispetto a quello aristarcheo, e così strettamente legato ai percorsi di studio dell'annotatore da risultare ormai non del tutto chiaro. Più in generale, nessuno dei papiri finora rinvenuti è dotato di un sistema di segni del tutto corrispondente a quello utilizzato da uno dei grammatici alessandrini. Quello che i papiri mostrano è semplicemente

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la diffusione trasversale di un atteggiamento nei confronti del libro e di una pratica di studio, basata su un repertorio di simboli in larga parre già atrestaro prima della fondazione del Museo e comune, in ogni caso, anche a esperienze intellettuali diverse dall'analisi filologico-grammaticale. Anche la colometria, così caratteristica delle edizioni prodotte sotto l'egida dei dotti del Museo, non era un'invenzione alessandrina, né di per sé un unicum, ma si trattava, al contrario, di un criterio di impaginazione seguito già precedentemente: un frammento del Cresfonte di Euripide scritto agli inizi del III secolo a.C. mostra già la presenza di questo modo di disporre i versi (P.Mich. inv. 6973), ben prima che il resto del tragediografo ricevessecure editoriali ad Alessandria (Lu Hsu, 2014a; 2014b). Nella prima età ellenistica, tuttavia, questa pratica continua ancora a coesisterecon quella, arrestata già dal rotolo di Timoteo, della disposizione _ dei versi su lunghe linee continue, che scompare del rutto, a giudicare dalle testimonianze superstiti, a partire dalla fine del II secolo a.C. Almeno sotto questo profilo, dunque, le edizioni alessandrine hanno forse contribuito all'affermarsi di una prassi ediroriale comunque più razionale e di più facile gestione sorto il profilo librario (incolonnare cellule ritmiche brevi è senza dubbio più agevole che giustapporre lunghe sequenze sillabiche di estensione completamente diversa). È difficile, tuttavia, stabilire se davvero,come sostengono alcuni studiosi (D'Alessio, 1997 ), le successioni colomerriche stabilire nelle edizioni alessandrine siano giunte, secondo canali sfuggenti e ancora da ricostruire, fino a Bisanzio, per essere adottare nei manoscritti dei poeti scenici e lirici da cui dipendono, in larga misura, anche le edizioni odierne. Al di là di questo, dei libri prodotti sotto l'egida dei dotti del Museo resta soprattutto l'alone. I syggrammata e le riflessioni letterarie e criticotestuali in essi contenuti ebbero sicuramente una qualche circolazione anche al di fuori della torre d'avorio in cui i grammatici erano rinchiusi, dal momento che - dopo una serie di compilazioni e riduzioni di cui non riusciamo ancora a immaginare nemmeno il profilo - echi di loro si possono cogliere ancora nelle sillogi scoliasriche bizantine. Le edizioni vere e proprie, tuttavia, non ebbero alcuna influenza sugli standard di produzione libraria: non si trattava semplicemente di libri concepiti per garantire la circolazione dei resti di grandi autori, ma di strumenti mediante i quali venivano veicolaci i risultati degli studi condotti da grandi intellettuali in un'istituzione chiusa al mondo esterno e volutamente ripiegata su sé stessa. Accedere alla grande Biblioteca era difficile: Diodoro Siculo, che

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verso la metà del I secolo a.C. soggiornò a lungo in Egitto e ad Alessandria per svolgere ricerche sulla scoria del paese, non se ne servì (Canfora, 1986, pp. 67-73), ma si limitò a consulcare i rocoli conservati in una biblioteca secondaria, quella del Serapeo, fondata decenni dopo la prima, probabilmente da uno dei successori di Tolomeo 11, e dorata di un patrimonio librario inferiore, per quanto consistente, tanto da esserechiamata, come ricorda ancora nel IV secolo d.C. il vescovo Epifanio, la "biblioteca figlia" (Sui pesi e le misure, 11 =PG 43, col. 256B; McKenzie, Gibson, Reyes, 2004, pp. 99-100; Coqueugnioc, 2013, pp. 74-6). I libri deigrammatikoi, cuccavia,trovarono comunque il modo per uscire dai loro scaffali. Alcuni bibliofili di alcissimoprofilo si vantavano di possedere edizioni alessandrine: il solito Galeno, ad esempio, rimpiange amaramente, in un lungo elenco di capolavori bruciaci, la perdita di « [rocoli] Aristarchei, che sono due Omeri», e cioè, probabilmente, di una copia. dell'edizione dell'Iliade e dell'Odissea realizzata da Aristarco (De ind. 13). E una cerca loro circolazione, sempre presso i vertici dell'erudizione antica, è adombrata inoltre dalla presenza, in compilazioni grammaticalidi età tardoantica, di brevi descrizioni del valore dei segni che vi erano impiegaci, accompagnate da frasi generiche sull'importanza del loro studio, pur con l'aggiunta che apparati di quel genere erano pur sempre caratteristici solo di libri "vecchi" (palaià) 1 • Ma le élite ristrette incidono solo marginalmente sui meccanismi complessivi di trasmissione del sapere, e i libri che producono, per quanto straordinari, finiscono con l'assumere l'alone di leggende, o più ancora di fantasmi. Nella scoria del libro greco, tuttavia, sono esistite innovazioni incrodocce come conseguenza di ricerche in origine specialistiche, ma capacidi diffondersi largamente, radicarsi in seno alla società e generare, in questo modo, meccanismi di trasmissione testuale capaci di superare la carda antichità. È quello che possiamo vedere, in particolare, nel caso di libri concepiti come strumento per studiare le malattie e di altri, dedicaci alla comprensione dei fenomeni celesti e dell'influenza degli astri sulle vicedei mortali.

Segni, schemi e tabelle per medici e astronomi I testi medici richiedevano molta attenzione, da parte sia dei lettori che di chi li trascriveva. Ad esempio, le quantità degli ingredienti necessariper ottenere farmaci, cataplasmi e rimedi assortiti (per quanto di efficaciarutta da

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dimostrare ...) andavano registrare e trascritte con precisione, canto più in quanto spesso erano espresse in unità di misura diverse da quelle usate nella vira di rutti i giorni, per annotare le quali servivano simboli e abbreviazioni noce solo agli intenditori; e alrrercanta precisione andava accordata alla descrizione di sintomi e decorsi di malattie più o meno perniciose, per i quali anche il lessico risultava intricato. Non bisogna stupirsi, dunque, che i fraintendimenti o le alterazioni di questi dari così sensibili fossero all'ordine del giorno, specialmente quando le prescrizioni e le osservazioni originarie erano sintetizzate direttamente da medici (o aspiranti cali) operanti in realtà molto periferiche e poco abituati a usare la penna in modo rigoroso. I papiri hanno restituito molti esempi di queste compilazioni personali, sericee spesso in grafie sgraziate e frettolose, in cui materiali riferibili a medici famosi, spesso corrotti o gravemente alterati, coesistono con ricette e osservazioni nate in ambiti completamente diversi. ?\fa i medici di più alto profilo, che avevano avuto l 'opportunirà

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    38 Un craccacomedico con i clJtmzcrereJ(PSI II 116). © Biblioteca Medicea Laurenziana. Su concessione Mie. Divieto di riproduzione

    Al di là di ogni altra considerazione, le indicazioni di Galeno mostrano chiaramente come per secoli la circolazione delle opere di Ippocrate fu affidata, oltre che a rocoli organizzaci nel modo più consueto, a edizioni "speciali",corredate da un apparato paracestuale concepito ad hoc e che rifletteva il lavoro critico di uno o più studiosi: libri così importanti da essereoggetto di dibattito per almeno cinque secoli. Questo genere di edizioni, tuttavia, non restò confinato entro le biblioteche di pochi specialisti. A oltre un secolo dall'epoca di Galeno, a Ossirinco c'erano ancora copie di Epidemie III provviste di characteres,per quanto meno accurate di quanto il medico pergameno avrebbe voluto. Ne è un esempio PSI II 116 (CPF 1.2:,pp. 144-S;Jouanna, 2016, PP· CLII-CLVII; FIG. 38), copia su rotolo di mediocre fattura, come mostra la mano che l'ha vergara, sicura e professionale ma non calligrafica, scritta verso la fine del III secolo d.C. e rinvenuta a Ossirinco. Il frammento superstite contiene il resoconto di tristi casi di fanciulle morte a causa di infezioni contratte dopo il parco o dopo un aborto. I characteressono qui impiegati come riepilogo sintetico degli elementi clinici salienti, e per enfatizzare la loro visibilità il copista ne segnala la presenza annotando in margine una

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    diple. Delle due sequenze chiaramente visibili, tuttavia, la seconda (col. 11, r. 7) contiene almeno un palese errore, e cioè omette l'indicazione clinicamente più rilevante, la morte della paziente (ivi, p. CLVII): un particolare rriscemence ironico, a prima vista, ma rivelatore della difficoltà di condurre in porro imprese editoriali così complesse (e una riprova della fondatezza degli inviti di Galeno a cercare di studiare assieme a maestri titolati e capaci era l'altro di leggere bene i libri di riferimento, per quanto trovarne di adeguaci non dovesse essere sempre agevole in aree periferiche). Ed è forse proprio per questa larga diffusione che questo genere di edizioni continuò a esistere, giungendo a Bisanzio e sopravvivendo ai "secoli oscuri": chllmcteres, infatti, sono presenti nei manoscritti medievali più importanti di Epidemie III (ad esempio il Vat. gr. 276, del XII secolo), anche se in forme disomogenee. Intravediamo dietro di loro uno o più recuperi cardoamichi del testo di Ippocrate, ma i luoghi da cui queste copie provenivano e le vicende che avevano porcaco alla loro riscoperta bizantina sono destinaci a rimanere oscuri. Anche lo studio di altre discipline scientifiche, dalla matematica all'astronomia, con tutte le sue implicazioni astrologiche, comportò lo sviluppo di "strumenti librari" appositi, alcuni dei quali riuscirono a imporsi come modello anche per i secoli successivi. Elemento comune a questa tipologia di libri era la presenza di diagrammi o illustrazioni, che non costituivano un semplice corredo ornamentale, ma rappresentavano parte integrante del cesto. Partendo da notizie erudite di erà rardoamica, è possibile ipotizzare che libri scientifici illustracifossero stati prodotti già in età classica: in particolare, gli Elementi di Ippocrate di Chio, un matematico vissuto nel v secolo a.C., per noi oscuro ma che per primo tentò di fornire una sistematizzazione delle conoscenze geometriche, erano forse già doraci di figure esplicative, cui gli specialisti facevano riferimento ancora a secoli di distanza (Blanck, 2008, p. 144, con bibliografia precedente; una presentazione critica delle fonti sull'opera di Ippocrate, socco il profilo della scoria della matematica, in H0yrup, 2019 ). Viene spontaneo domandarsi se dietro il libro di Ippocrate ci possano essere modelli elaboraci in altre parti del Mediterraneo o se piuttosto si craccasse di un'"invenzione" del cucco autonoma. La presenza di figure direttamente correlare al cesto era infatti una caratteristica di molti libri contenenti resti matematici e geometrici prodotti in età faraonica (De Young, 2009; in generale, lmhausen, 2016), come possiamo vedere in due celebri rocoli: il "Papiro di 1'1osca" (xn dinastia, ca. 1850 a.C.; Scruve, 1930) e il "Papiro

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    Rhind" (rrascrirro soccola xv dinastia, ca. 1650 a.C., ma dipendente da un originale più antico, forse della XII dinastia; Robins, Shuce, 1987 ). Non porremo mai arrivare a sapere con certezza se un qualche greco in età classica avessemai posato gli occhi su libri di questo tipo, e in generale è ancora dibattuto il problema dell'influenza egizia sulla prima fase di elaborazione del pensiero geometrico e matematico in ambito ellenico (per quanto strette analogie si possono postulare per alcune componenti pratiche, come il modo di effettuare calcoli frazionari: Knorr, 1982; Friberg, 2005, pp. 105-268); si può solo ribadire una volca di più che 1'Asia Minore, sin da ben prima dell'età classica, rappresentò sicuramente un crocevia formidabile, in cui influssi e tradizioni culturali provenienti da parei diverse del .Mediterraneo potevano facilmente sedimentarsi. Più di un secolo dopo Ippocrate di Chio, Euclide, che per un periodo almeno operò proprio alla coree di Tolomeo I, ad Alessandria, dove sicuramente ebbe modo di confrontarsi con le tradizioni egiziane precedenti, mise a punto una nuova sintesi, destinata a imporsi come fondamento della geometria per secoli, in cui le figure giocavano un ruolo essenziale. I disegni erano inseriti all' inrerno delle colonne, così da rendere inequivocabile per il leccore la corrispondenza era parole e immagini, anche se per queste ulcime lo spazio disponibile risulcava inevitabilmente molto ristretto. Proprio in quanco indissolubilmente correlaci al cesto, la loro presenza, sostanzialmente in forme sempre uguali, caratterizza tutta la scoria testuale degli Elementi, dai primi testimoni papiracei, non numerosi ma provenienti da parei diverse dell' Egicco e comunque dislocaci in un ampio lasso cronologico (Dorandi, 1994, al cui elenco si può aggiungere ora P.Oxy.LXXXII 5299), fino a tutta la tradizione bizantina, in cui peraltro le limitazioni imposte dall'impaginazione a più colonne erano ormai venute a mancare. Sulla scia degli Elementi, diagrammi e figure diventarono una componente molto imporrante di resti e libri di contenuto matematico (Soldati, 2006, pp. 132-3). Di un corredo illustrativo erano doraci, ad esempio, il rocolo ercolanese del trattato Sulla geometria di Demetrio Lacone (P.Herc. 1061, II-I sec. a.C.), o, in modo meno sistematico, le sezioni incenerate su passi di tipo più specificamente matematico nel Commento ,1' Teetetoanonimo restituito da BKT II, pp. 3-51. E ancora, figure si ritrovano in raccolte di problemi geometrici potenzialmente mili anche a fini pratici (MPER N.S. xv 172-179, II sec. d.C.) o in escerci realizzaci privatamente per finalità di studio e apprendimento, come 0.Berol. inv. 11999, un coccio rosso scuro appartenente a una serie di ostraka trovati a Elefancina nd

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    temenos ( il "recinto") del tempio del dio Khnum, vergati rutti verso la metà del III secolo a.e. da un individuo alle prese con teoremi discussi anche nei libri XIII e XIV degli Elementi i. La presenza di illustrazioni caratterizzava anche alcune tipologie di libri destinati a opere contenenti la descrizione di fenomeni celesti o più semplicemente resoconti di osservazioni astronomiche, finalizzare al computo del tempo o alla redazione di oroscopi. È quello che vediamo, ad esempio, in uno dei pii'.1antichi libri astronomici superstiti, restituito da un papiro della fine del III secolo a.e. trovato nel Serapeo di Menfi ed erroneamente attribuito al grande Eudosso da uno dei suoi lettori (P.Paris r): qui alla trattazione sono intercalate vere e proprie vignette colorare, ricavate all'interno delle colonne, mediante le quali sono visivamente mostrati, anche se in modo piuttosto rudimentale, la forma delle costellazioni e i segni zodiacali su cui il testo di volta in volta si incenera. In questi libri, nmavia, i dari numerici, relativi alle coordinate dei corpi celesti presi in considerazione, venivano annotati l'uno di seguito all'altro senza particolari indicatori della loro funzione, ed erano distinguibili solo grazie agli apici che li sormontavano: è questo il modo in cui sono riportati, ad esempio, in un altro reperto librario molto antico, il P.Hib. r 27 (inizi del III secolo a.C.), contenente un trattato anonimo scritto, come leggiamo nel prologo, dopo che l'autore aveva soggiornato cinque anni nella città egizia di Sais per imparare il modo vero per usare lo gnomone, uno degli strumenti principali usati nell'antichità per seguire il moro dei corpi celesti (col. II, rr. 19-28). Questo modo di trasmettere i dari delle osservazioni restò invariato per diversi secoli. Un cambiamento sostanziale si verificò, tuttavia, alla metà del II secolo d.e., con la pubblicazione delle Tavolefacili di Claudio Tolomeo. L'opera conteneva un'impressionante raccolta di «dati relativi alle grandezze astronomiche rilevanti per la determinazione [...] delle posizioni dei corpi celesti (Sole, Luna e i cinque pianeti) e dei fenomeni a esse correlati, in particolare le eclissi» (Acerbi, Del Corso, lor 4, p. 42). Questa mole di informazioni era esposta, per la prima volta, senza alcun sussidio testuale, senza cornici narrative per i lettori o almeno "istruzioni operative", ma solo mediante 1'impiego di tabelle, contraddistinte da "titoli correnti", in cui, su colonne diverse, venivano elencati i valori assunti dai parametri necessari per calcolare la posizione d~i pianeti. Il risultato era una successione di numeri e simboli, inquadrad all'interno di linee rosse accuratamente tracciate, che si snodavano per decine di metri: per contenere tutte le Tavole dovevano occorrere almeno 30 metri di papiro,

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    39 Le T.wolediTolomeo in un papiro di Ossirinco (P.Oxy. tion Sociecy / lmaging Papyri Projecc, Oxford Universicy

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    forse suddivisi era più rocoli (Jones, 1999, voi. I, p. 160 ). Nonostante la loro concezione del cuccoinnovaciva, socco il profilo concettuale in primo luogo, ma anche "estetico" e librario, le Ttwoleconobbero un successo duraturo. La loro influenza fu cale che nel giro di qualche decennio la forma tabulare divenne il modello fondamentale per la presentazione dei dati astronomici, inaugurando una tradizione destinata a permanere nei secoli. E colpisce che libri così complessi e impegnativi da realizzare abbiano conosciuto una diffusione immediata e quasi capillare: da una città periferica come Ossirinco, ad esempio, provengono orco copie diverse dell'opera, la più antica delle quali è un rocolo elegante risalente al III secolo d.C. (P.Oxy. LXI 4167; ivi, pp. 160-2.; FIG. 39).

    Libri illustrati Tavole astronomiche e figure geometriche non erano l'unico tipo di illustrazione presence nel libro in forma di rocolo. Sempre in ambito scientifico, a partire dal IV secolo a.C. cominciarono a essererealizzacicraccaci,di argomento zoologico e botanico, in cui il cesto era accompagnato da figure (Singer, 192.7; Marganne, Israsse, 2.001; Marganne, 2.004, pp. 35-58). Sussidi visivi erano presenti già nella Storia degli animali

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    di Aristotele: qui almeno in un punto, la descrizione della cova della seppia (v, 18, ssoa), si fa un riferimento esplicito a un disegno evidentemente inserito nel resto, in cui gli elementi salienti erano contraddistinti da lettere, e citazioni indirette posteriori spingono a credere che immagini analoghe figurassero lungo tutta la trattazione (Blanck, loo8, p. 146). Ed è possibile, piìi in generale, che tutte le opere aristoteliche di contenuto "biologico" fossero corredate da (sporadici) diagrammi (Lazaris, lo17, pp. 77-8). Ma di tutto questo, nelle fasi rardoantiche e medievali della tradizione manoscritta, sembra essersi perduta ogni traccia. Nel corso dell'età ellenistica, la produzione di simili trattati illustrati conobbe una diffusione maggiore e raggiunse punte di virtuosismo notevole. Libri di questo tipo - attribuiti a figure che per noi sono ormai poco più di un nome: Crareua (specialista in veleni alla corte di Mitridate v1...), Dionisio, Metrodoro ecc. - erano ben noti a Plinio il Vecchio, che nmavia ne cri ricava le caratteristiche: [Questi autori] dipinsero infatti le immagini delle erbe e sotto ne descrissero gli effetti . .\fa le immagini sono fallaci per l'uso di così ranci colori, soprattutto per la volonc.\ di imitare la natura, e la scarsa diligenza dei copisti peggiora molto la loro qualità. Inoltre, è insufficiente dipingere solo uno degli aspetti che hanno, dal momento che mutano l'aspetto a ogni stagione (Nat. hist. xxv, 8).

    A suo avviso, dunque, meglio puntare sul rigore delle descrizioni. Le difficoltà lamentare da Plinio sicuramente rappresentavano un freno alla diffusione di questo genere di libri, ma non scoraggiarono i tentativi. Esistevano, ad esempio, edizioni illustrate di due poemetti didascalici di Nicandro (111-11 sec. a.C.), i Theriaka e gliAlexipharmaka, in cui erano puntigliosamente descritti, in esametri ridondanti di erudizione letteraria, gli effetti di veleni e i relativi antidoti (Marganne, Iscasse,lOOI, pp. 6-7): Tertulliano, uno scritcore cristiano vissuto nel 11-111 secolo d.C., ne fa ancora menzione (per il modo in cui erano disegnati i terribili scorpioni) ed è possibile che una di queste copie antiche abbia offerto il modello per le miniature del codice di Parigi Suppi. gr. 247, realizzato a Costantinopoli nel x secolo (Lazaris, 2017, p. 101). Erbari illustrati, di valore testuale e figurativo inferiore, circolavano, comunque, anche nelle città più piccole dell'Egitto greco-romano. I sacerdoti del tempio di Sobek a Tebtynis, ad esempio, annoveravano, tra i rotoli della loro biblioteca, una copia di un trattato sulla proprietà delle erbe, forse del II secolo d.C., corredato da illustrazioni variopinte e viscose, anche se non propriamente raffinare

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    (P.Tebt.n 697 + P.Tebt. Tait 39-41; Ryholr, 2013). Si rracrava, probabilmente, di un prodotto locale, realizzato ali' interno di botteghe prive di personale specializzacoe concepico per una circolazione limitata. Questa tradizione minore, locale e destinata a non generare meccanismi di trasmissione cesruale,continuò fino a tutta la carda antichi rà. I frammenti del primo erbario su codice, trovati ad Aminoupolis (P.Johnson + P.Ant. III 214, IV o v sec. d.C.), sono una buona dimostrazione della goffaggine e al tempo stesso degli sforzi degli artigiani chiamati a cimentarsi con l'impresa di dare consistenza iconografica a entità vegetali ormai immaginarie, prive di qualsiasirapporto con il mondo naturale e proiettate invece in una dimensione fantastica e magica, destinata, nel corso del medioevo, a imporsi su altri modelli di interpretazione del mondo circosrante-4. Per altre tipologie di opere scientifiche, invece, non si diffuse la pratica di affiancare tesco e immagini. Ad esempio, non abbiamo testimonianze dirette di libri di anacomia provvisti di corredo illustrativo, anche se si è supposco che le miniature visibili in alcuni codici bizantini siano ispirarea modelli di età ellenistico-romana, come nel caso del manoscrirco Laurenziano Plur. 74.7 (x secolo), contenente una collezione di trattari di argomento chirurgico (Concina, 2002, pp. 187-8; Bernabò, 2.010). Esistevano, inoltre, raccolte di ''tavole" volte a illustrare aspetti specifici: già Ariscotele, ad esempio, avrebbe curato la realizzazione di sette libri di Schizzi anatomici, cui lo stesso filosofo fa riferimento in altre sue opere (Hist. anim. 3, sua) e che constavano probabilmente soltanto di disegni (Lazaris, 2017, p. 77 ). Ma di quest'opera conosciamo, di facto, poco più che il titolo. Similmente, privi di illustrazioni erano, di solito, i trattati geografici. Carte geografiche vennero naturalmente elaborate, nel mondo greco, sin dall'età arcaica: i primi esperimenti in questa direzione vengono attribuiti già a figure come Anassimandro (vu sec. a.C.) ed Ecaceo di Mileco (v1 sec. a.C.). Ma secondo le descrizioni fornice dalle fonti si cracrava di ptnakes a sé stanti, slegati da un resto. Le considerazioni geografiche e scientifiche che si accompagnavano alla realizzazione delle carte circolavano su supporti librari diversi rispetto alle carte stesse. A secoli di distanza, uno schema analogo si riproponeva anche nella principale opera cartografica antica, la Geografia di Claudio Tolomeo. L'opera consta di fatto di tre sezioni, ripartire in orco libri: un vero e proprio trattato di cartografia (libro 1), una sorca di elenco delle coordinate dei principali luoghi dell'ecumene (libri II-VII) e infine una raccolta di pinakes, preceduti

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    da una brevissima introduzione. Le carte, dunque, erano contenute in un rotolo apposito\ L'unica eccezione a questa consuetudine concettuale e libraria sembra rappresentata da uno dei più contestati reperti papiracei mai resi noti, il cosiddetto "Papiro di Arcemidoro" (ed. in Gallazzi, Kramer, Settis, 2008), più volte alla ribalta delle cronache nel corso dell'ultimo decennio. Sul lato perfibrale del rocolo, di sontuose dimensioni e scritto da una mano con pochi paralleli nella produzione grafica greco-egizia, troviamo infatti un testo geografico, contenente una descrizione della Spagna che mostra punti di contatto con le testimonianze relative al modo in cui quelle regioni erano descritte nei Gheographoi'tmena di Artemidoro, fiorito attorno al 100 a.C.: forse si trattava proprio di parte di quell'opera perduta (come suggerito dagli editori), forse di una raccolta di escerti di argomento geografico (D'Alessio, 2009). Il cesto è corredato da un'ampia carta geografica, inserita in un ampio spazio lasciato libero tra due colonne: un duplice unimm, se si considera che le illustrazioni nel rocolo erano normalmente inserite all'interno delle colonne (Small, 2.010; Valerio, 2012). Queste rappresentazioni cartografiche sono basate su parametri molto diversi da quelli attuali e risultano notevolmente deformate nel senso della lunghezza (secondo modalità di raffigurazione dello spazio tipiche della cartografia antica); inoltre, sono prive dell'indicazione delle coordinate di partenza e di una "legenda", che consenta di interpretare i simboli di cui sono costellate. Il risultato di cucco questo è che, a oggi, non è chiaro quale sia il territorio rappresentato: poiché il cesto descrive le due province in cui la Spagna romana era divisa, la conclusione pil1 naturale è che anche le carte siano relative a questi territori, ma la difficoltà di far quadrare tutti i parametri ha portato ad avanzare anche ipotesi differenti (ad esempio Carrez-Maracray, 2.019, pensa a una rappresentazione del Delta del Nilo in età tolemaica). La complessità e il fascino perverso del rocolo non si limitano a questo. Il testo, infatti, si interrompe all'improvviso, prima della fine dello spazio disponibile; e era l 'ulcima colonna e quella precedente c'è un ampio spazio vuoto, come se il copista avesse calcolato lo spazio per il disegno di altre carte che però non vennero mai realizzate. Forse - come suggerito dai primi editori - un errore aveva irrimediabilmente compromesso il progetto librario, che venne così lasciato incompleto? li rocolo, tuttavia, fu riutilizzato per scopi completamente diversi. li verso venne impiegato per disegnare una teoria di animali esotici e immaginari, ciascuno isolato dall'altro

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    Un grifone dal "papiro di Arcernidoro ~ (P.Arcernidoro). Da Sebastiani, Cavalieri ( 2.02.0, tav. 2.7) 40

    come in immaginarie vignette, e talora accompagnato da una didascalia esplicativa (FIG. 40 ): la più lunga sequenza figurata restituita da un papiro greco, che rimanda direccamence ali' immaginario visivo ellenistico, così come cescimoniacoda altre opere quali il mosaico con scene nilotiche collocato nel tempio della Fortuna Primigenia di Palestrina. Ma non è tutto. In un altro momento ancora anche gli spazi bianchi inutilizzacisul rectofurono impiegaci, da una mano ulteriore, per schizzi di parti anatomiche. Gli editori, per descrivere queste ere diverse fasi, hanno parlato di "erevice"del papiro e hanno immaginato che il rocolo, concepito come lussuosa "edizione illustrata': fosse staro utilizzato, quindi, come catalogo (forse di una bottega di mosaicisti) e infine come "blocco di schizzi", da parre di un "apprendista" disegnatore. L'esame sempre più approfondito dei particolari del reperto, tuttavia, ha messo in crisi qualsiasi tentativo di sintesi, di spiegazione complessiva della scoria di questo libro straordinario: persino la successione delle parti testuali è oggetto di dibaccico, mettendo in serio dubbio l'identificazione originaria con Arcemidoro. Sul rocolo grava però un'ombra molto più cupa: quella del falso. Un filologo del calibro di Luciano Canfora, dopo un esame delle aporie e delle difficoltà testuali offerte dal papiro, è giunco alla conclusione che il reper-

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    co altro non sia se non un falso realizzato nel XIX secolo da Costantino Simonidis, trafficante di manoscritti, avventuriero e conclamato truffatore, che disseminò in tutta Europa i suoi finti reperti librari straordinari (tra cui un Vangelo scritto quindici anni dopo l'Ascensione ...). L'ipotesi, che consentirebbe naturalmente di spiegare con facilità anche le peculiarità "librarie" e la presenza dei diversi disegni, ha trovato numerosi sostenitori, tra studiosi di varie discipline, e ha preso piede anche per la presenza di alcuni elementi apparentemente contraddittori nelle informazioni fornite sulle modalità con cui il rocolo sarebbe giunco in Europa dall'Egitto. La polemica scientifica è stata affiancata, dunque, da indagini giudiziarie coordinate dal procuratore di Torino Armando Spacaro, al termine delle quali il papiro è stato dichiarato falso. La verità giudiziaria, a ogni modo, è cosa diversa e ben distinta dalle cappe del dibattito intellettuale. Gli scudi sul papiro proseguono ancora, e gli assertori della sua autenticità non sembrano ancora scoraggiati dalle decisioni della magistratura. Le sfide che il reperto pone, e il suo fascino, sono ancora intatti, sia che rappresenti l'opera di un falsario geniale - da annoverare tra i più grandi maestri nel suo campo - sia che si tratti invece di un libro unico nel suo genere e paradossale: un progetto librario fallito, ma rifunzionalizzato per accogliere la più straordinaria collezione di disegni trasmessa dal mondo ancico6• Molto meno diffusa era invece la pratica di aggiungere ai rocoli librari illustrazioni meramente decorative (Horsfall, 1983). Rocoli illustrati di questo tipo, paragonaci talvolta ai codici miniaci di età medievale, talvolta agli odierni fumerei, sono arrestati essenzialmente a partire dall'età romana. Illustrazioni figurano talora in rocoli destinaci a contenere letteratura "di consumo" e di puro intrattenimento. È possibile che immagini esplicative fossero aggiunte al celebre "manuale d'amore" scritto da Filenide, attiva nella prima età ellenistica, e ad altri "classici" dell'erotismo, come le opere di una poetessa posteriore, Elefantide, i cui "libricini impudichi" erano ben noti a Marziale (che conosceva comunque versi in cui erano descritte figurae Venerisben pili intricate: 1\fart. XII, 43) e ad altri autori di età imperiale: ma di queste obscenaetabellae, capaci di stuzzicare la fantasia di uomini e donne, come ricorda l'anonimo amore dei Priapea (4), non restano ormai tracce concrete (De Martino, 1996, pp. 318-lS). Vignette policrome, in ogni caso, potevano accompagnare il testo di romanzi d'avventura, come vediamo in un papiro conservato a Parigi, nella Bibliothèque nacionale de France (Suppi. gr. 1294, forse I-II sec. d.C.; Weiczmann, 1947, P· 51), o testi pii1 raffinati, ma pervasi da una piacevole vena umoristica,

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    come il poemetto eroicomico in cui era narrata la contesa tra Eracle e il gryllos(come a dire il "buffone"), restimiro da due rocoli quasi contemporanei, P.Koln IV 179 (fine del II sec. d.C.) e P.Oxy. XXII 2.331 (nI sec. d.C.). Nei frammenti superstiti alle fatiche del semidio fanno da contraltare le ben poco esaltanti imprese di un ometto assai meno nerboruto (Srramaglia, 2.007, pp. 618-2.7 ): così, mentre Eracle strangola il leone di Nemea con le sue «potenti mani», il gryllossi vanta di prendere «lo sfuggente camaleonte» e soffocarlo «senza nemmeno che se ne accorgesse», e, successivamente, al racconto della lotta con il toro di Creta viene orgogliosamente opposta la messa a terra di un animale altrettanto cornuto, ma meno periglioso... la chiocciola. In entrambi i rotoli ogni momento della scoria è accompagnato da vignette: appena schizzare, seppur non prive di una loro efficacia didascalica, nel frammento da Ossirinco, più elaborate nel rocolo di Colonia. Questi rotoli riflettono dinamiche di produzione diverse e mostrano, di conseguenza, un diverso livello qualitativo. Nel papiro di Parigi e in quello di Colonia l'illustrazione è affidata a specialisti, che, pur a distanza di secoli, si attengono a criteri analoghi: le scene sono inserire all'interno di uno spazio bianco lasciaro dal copista principale all'interno delle colonne; il colore viene usato in modo sommario, senza sfumature; le figure umane sono rappresentate con una certa proprietà, anche di scorcio e di profilo. In entrambi i casi, inoltre, la scrittura usata è una libraria professionale di buon livello (per il papiro di Colonia, addirittura una "maiuscola biblica"; Orsini, 2.005, pp. 72.-3). Nel papiro di Ossirinco, invece, i disegni risultano più sommari ancora, e potrebbero essere dovuti alla stessa mano che ha vergato il resto, peraltro più abituata a copiare documenti che resti letterari. Non sappiamo, tuttavia, se il corredo illustrativo di questi rotoli prevedesse un numero prefissato di scene e se riecheggiasse dunque - con maggiore o minore fedeltà - un ciclo di illustrazioni che corredava gli esemplari originali dei resti cui era affiancato; non sappiamo, dunque, se la fortuna effimera delle opere trasmesse da papiri di questo tipo fosse legata anche alla scelta di una forma libro inconsueta. A partire dal II secolo cominciano a essere attestate, inoltre, copie illustrate di opere letterarie "classiche". Le commedie di Menandro, ad esempio, si prestavano bene ad accogliere disegni dei loro personaggi principali, o delle scenette più caratteristiche: è quello che vediamo, ad esempio, in PSI VII 847 (ma la sfortuna si è accanita proprio sull'unica vignetta superstite, di cui resta solo una gamba) e in P.Oxy. XXXII 2.652. e 2.653 (proba-

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    .p Un'Iliade iJluscrata (P.Oxy. Papyri Projecc, Oxford University

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    bilmente parte di uno stesso manoscritto, a giudicare almeno dalle affinità del tracco delle figure, piuccosco elementari, e forse da ricongiungere a un terzo frammento, P.Oxy. II 211, che ha restituito invece una cinquantina di versi della commedia, corredaci dall'aggiunta, da parte di un'altra mano, di brevi notazioni sceniche e saltuariamente dell'attribuzione di una battuta a questo o a quel personaggio). E anche gli appassionaci di Omero potevano cercare libri in cui le loro fantasie trovassero un riscontro iconografico, come vediamo ad esempio su P.Oxy. XLII 3001, una lussuosa "ancologia" di passi dell'Iliade (FIG. 41). Anche in questo genere di rocoli vediamo le stesse oscillazioni dei libri illustraci "di consumo": prodotti realizzaci in botteghe in cui operavano anche illustratori specializzaci ( P.Oxy. 3001 e PSI 847) coesistono con rocoli dalle caratteristiche meno elaborate (P.Oxy. 2652.e 2653).

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    Come molti altri aspetti della produzione libraria antica, la realizzazione di libri illustracinon seguivastandard rigidi; la presenza di illustrazioni, inoltre, non era di per s~ un faccoreessenziale per incrementare il "valore" di una copia, a differenza di quanto avverrà con i codici miniaci medievali, né uno scrumenco impiegato per fornire indicazioni "paratescuali" aggiuntive (a differenza, ad esempio, dei ritratti di Virgilio sui codici tardoantichi): le figure,per Io più, erano un optional asistematico, un modo per attirare la curiosità di "lettori comuni", non necessariamente eruditi ma abbastanza istruiti da apprezzare passatempi letterari, e per rendere più invitanti i libri loro destinaci. Proprio per questo, sarebbe errato associare la presenza di illustrazioni all'intento di realizzare prodotti finalizzaci alla scuola o comunque a pratiche di insegnamento.

    Libri di studio Le attività didattiche, in ogni caso, richiedevano a qualsiasi livello l 'ucilizzo di libri. Sin dai primi passi del loro curriculum di scudi gli studenti dovevano imparare a memoria passi tracci dai poemi omerici e da altri "classici" della letteratura dei secoli precedenti, trascrivere versi o passi in prosa di contenuto moraleggiante, redigere liste di vocaboli del tutto estranei alla lingua di ogni giorno (Cribiore, 2001, pp. 160-84). Gli insegnanti, dunque, avevano bisogno di testi da cui trarre i materiali adeguaci, effettuando una propria scelta su edizioni complete oppure basandosi, più semplicemente, su compilazioni e antologie preesistenti. Ai livelli superiori il bisogno di libri era ancora maggiore: lo studio della grammatica e poi della rerorica richiedeva una familiarità con determinati autori che si poteva raggiungere solo grazie ai libri (Del Corso, 2.010a). Nella maggior parre dei casi i rocoli usati da docenti o studenti non avevano caratteristiche particolari: il requisito essenziale era che contenessero i testi necessari allo svolgimento del "programma". Questi libri, soprattutto nel caso dei livelli scolastici superiori, potevano ricevere annotazioni di vario genere, che riflettevano il percorso di apprendimento del lettore o, in alternativa, la traccia su cui basarsi per la lezione da svolgere "in classe': Una copia del libro VIII della Repubblica di Platone rinvenuta a Ossirinco (P.Oxy. xv 1808, II-III sec. d.C.) reca, ad esempio, sui margini e attorno alle colonne, notazioni di vario genere, che vanno da semplici informazioni di base ad appunti per fornire spiegazioni articolare di pas-

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    saggi com plessi (dal modo giusto per calcolare la radice quadrata di 50 alla definizione del misterioso "numero perfetto"): la natura degli appunti si concilia bene con l'ipotesi di una copia annotata da un insegnante in vista di una synantignosis,una "lettura collettiva" con commento, del passo. Esistevano, in ogni caso, anche strumenti più specifici. A un primo livello troviamo i commenti, talora concepiti come una sorca di parafrasi rinforzata da spiegazioni lessicali, talora più ambiziosi e volti ad aiutare il lettore a comprendere tutti i problemi contenutistici del cesto analizzato. Nel mondo greco e romano, prima dell'avvento del codice, il commenco - a esclusione delle annotazioni aggiunte direttamente dai lettori - era affidato, con pochissime eccezioni, a un supporto diverso rispetto a quello che conteneva il cesto commentato. Anche i capolavori esegetici realizzaci dai dotti alessandrini, come si è accennato, erano affidaci a rocoli discinti, che accompagnavano le edizioni da loro preparate (e calvolcaspiegavano il motivo delle scelte filologiche effettuare): ma di questi cesti sono sopravvissute soltanto menzioni circoscritte. Alcuni esempi di commenti eruditi sono stati rescinlici, invece, dai papiri greco-egizi: si trattava, per lo più, di compilazioni scarsamente originali, anche se ricche di informazioni non prive di interesse, redatte, a uso privato, da anonimi eruditi locali che erano riuscici ad accedere a una raccolta di libri più fornica della media, o a una copia di un cesto specialistico di buon livello. Per l'allestimenco di questi libri, nella maggioranza dei casi venivano impiegate scritture minute, veloci, a volte difficili a leggersi: si trattava, dunque, di "libri informali" (cfr. inji"ll, pp. 209-u). Le colonne, proprio per questo, potevano avere dimensioni molto ampie e margini irregolari: uno dei pit'.1amichi commenti superstiti, un rocolo da Ossirinco relativo al II libro del!' Ilùule (P.OÀ--y. v111 1086, I sec. a.C.), ha colonne larghe più di 15 cm, comprendenti ognuna quaranta righe fitte di scrittura. L'unico principio di fondo rispettaco era salvaguardare la distinzione era la pericope commentata e il commento, ma gli strumenti paracescuali impiegaci potevano variare molto: nel P.Oxy.VIII 1086 le parole omeriche sono discinte mediante uno spazio bianco, talvolta rinforzato da una panìgraphos;in altri casi, invece, possiamo trovare un sistema di rientranze e paragraphoi marginali, come in P.Oxv. LXXI 4820 (u sec. d.C.), un commento specialistico al III libro dcli' Odissea. A volte anche in provincia era possibile mettere le mani su lavori esegetici preziosi: da una casa di Hermoupolis, ad esempio, proviene l'unica copia superstite di un'opera esegetica com-

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    posta ad Alessandria, il commento di Didimo Calcentero alle orazioni di Demosrene, contenuta in un rotolo del II-III secolo d.C. trascritto quasi certamente da uno dei suoi lettori, che prova a rispettare le convenzioni estetiche dei rotoli di bottega senza avere, tuttavia, l'esperienza calligrafica di un professionista nell'allestimento di libri (BKT 1, pp. 4-72). A ogni modo, non tutti i commenti superstiti sono il frurco di sforzi individuali. Alcuni rotoli con resti esegetici sono stati allestiti sicuramente all'interno di botteghe librarie, secondo gli stessi cri ceri estetici rigorosi dei rocoli letterari "normali": il proprietario del rocolo di Didimo possedeva probabilmente anche un commento al Teeteto di Platone (BKT II, pp. 3-51;cfr. supm, FIG. 35), scritto in una maiuscola elegantemente arrotondata da una mano attenta a lasciare ampi margini e ampi spazi rra una colonna e l'altra. È difficile immaginare che prodotti di livello formale così elevaro fossero stari concepiti per le attività didattiche di ogni giorno; evidentemente, i commenti potevano interessare un pubblico più ampio, che oltre a studenti e insegnanti comprendeva anche una fascia di generici appassionati della letteratura antica, colei ma non necessariamente eruditi. Olcre a commenti strutturaci, sono arrestati anche sussidi alla comprensione delle opere letterarie, realizzare per rispondere a esigenze più specifiche. La maggior parte di questi materiali esegetici ruota acromo ai poemi omerici, ma anche altri generi letterari, come la poesia scenica o i trattari filosofici,ricevevano molta attenzione. Lo strumento più semplice erano i "glossari"(tradizionalmente indicaci come scholiaminora; n'1ontana, 2011 ): elenchi di parole o brevi espressioni accompagnati da una loro spiegazione, a volte concisa, a volce più discesa e con l'aggiunta di notazioni mitologiche e latamente contenutistiche. Il glossario poteva riguardare un aurore o un genere nel suo complesso oppure, più frequentemente, un'opera specifica (un libro dell'Iliade, ad esempio, o una commedia di Aristofane). Nel primo caso i termini erano organizzaci per lo più in ordine alfabetico, come negli odierni dizionari (ad esempio P.Bodl. inv. Gr. class. e. 44, da mettere in relazione con il lessico omerico attribuito ad Apollonio Sofista; II sec. d.C.). In alternativa, la successione dei lemmi rifletteva lo snodarsi del testo dell'opera delucidata, come vediamo in una pluralità di reperti XLV 3238, glossario a Il. I e II; en(P.Oxy. XLV 3237, glossario a Il. I; P.0>..--y. trambi III sec. d.C.). Lemma e glossa erano di solito inseriti in una scessacolonna, in cui erano separaci solo da un esiguo spazio bianco (P.Oxy. 3237 ); se la pericope da commentare era troppo lunga, la glossa veniva sericea al di socco, in rientranza (P.Oxy. 3238). Prodotti di questo tipo erano con-

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    Un glossario ali' Iliade (P.Oxy. XXIV 2.405). © Egypr Explorarion Society / lmaging Papyri Project, Oxford University

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    sulcabili solo se accompagnati da una copia del cesto cui si riferivano. Non stupisce, dunque, che in molti casi possano essere stati copiaci dalla mano dei loro leccori-consumacori. È era questo tipo di libri d'uso che porrebbero celarsi rocoli effettivamente usaci all'interno di un contesto scolastico: un minuzioso glossario al libro I dell'Iliade come P.Oxy. XXIV 2405 (II-III sec. d.C.) potrebbe essere proprio, per le sue caratteristiche paleografiche, una sorca di "libro di cesto",come sosteneva già il suo primo editore, John Barns (P.Oxy. XXIV, p. 132; FIG. 42). I glossari non erano l'unico strumento per comprendere meglio le opere principali della letteratura greca. Sin dalla carda età ellenistica, la necessità di conoscere in maniera articolata la trama e le coordinate micologiche di opere complesse ha portato all'elaborazione di sinossi e riassunti più o meno schematici, talvolta corredaci da indicazioni sugli antefatti e i presupposti della scoria, parafrasi semplificate, o vere e proprie trasposizioni in prosa di opere in versi. A volte in uno stesso rocolo erano riuniti sussidi esegetici diversi,disposti in maniera cale da essere facilmente distinguibili: in un papiro da Ossirinco concepito con chiare finalità didattiche (P.Oxy.LVI 3829) troviamo prima una serie di indicazioni genealogiche sui personaggi dell'Iliade, esposte in forma "cacechiscica" («Chi sono i consiglieri di Etcore?Polidamance e Antenore. Chi gli araldi? Eideo e Eumede», e così via),

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    poi Janarrazione degli antefatti della guerra, infine una presentazione del I libro del poema, introdotta dal suo verso iniziale. Questi materiali, interessanti sopraccuccosoccoil profilo storico-culcurale, contengono in alcuni casi informazioni imporrami anche da un punto di vista filologico. La nostra conoscenza della scruccuradi molte opere perduce di Callimaco dipende interamente dai "riassumi" contenuti in un rocolo crovaco a Tebcynis (P.Mil. Vogl. I 18, II sec. d.C.), all'interno di un deposito (la "cantina dei papiri") dov'era ammassato assieme a molti altri papiri, era cui diversi cesti letterari, per essere usato probabilmente per accendere il fuoco ( Gal lazzi, 1990 ). Non bisogna credere, cuccavia,che prodotti di questo tipo fossero utilizzacisolo ali' interno della scuola: i poemi omerici avevano una diffusione ampia, in seno alla società, e più in generale il pubblico dei lettori era variegato e socialmente scracificaco,e non privo di individui interessaci a mantenere una buona familiarità con Omero e gli al cri "classici" apprezzaci per la prima volca durame gli scudi, o persino incuriositi da opere fuori dai canoni scolastici, pur senza avere le competenze filologiche necessarie per apprezzarli in pieno. La documentazione papiracea ha rescicuico, infine, anche un altro ge· nere di cesti, concepiti per esigenze di studio ma non necessariamente usaci direttamente nella scuola: veri e propri "manuali': in cui erano condensaci i concenuci di discipline specialistiche. Gli esempi più co· muni sono compilazioni di concenuco grammaticale e retorico, come P.Thomas 15 (cfr. supra, p. 141) o l'anonima "tecnica retorica" sericea a Ossirinco sul retro di un collage di documenti dell'età di Caracalla (P.Oxy. LXXII 4855), ma non mancano macerie meno comuni, dalla medicina (PSI III 252, IHII sec. d.C.) all'astrologia (PSI XII 1289, 111 sec. d.C.) e alla magia (PSI VI 728, IIHV sec. d.C.), per arrivare persino alla locca libera (P.Oxy. III 466 e LXXIX 5204, entrambi II sec. d.C.). Un elemento comune a cucciquesti cesti è la scruccura, concepita per conciliare la facilità nell'individuazione della successione dei diversi snodi del cesco, mediante i consueti artifici paracescuali, con la necessità di risparmiare sui cosci di produzione del libro, "riciclando" rocoli già sericei in precedenza o comunque realizzando colonne molco ampie e fiere di scrittura (cfr. supra, pp. 141-3). È possibile che, anche in questo caso, alcuni dei papiri sopra descritti appartenessero a insegnanti di professione. Ma se si considera il rilievo dato alla viva voce del maestro nella scuola ellenistica e romana, l'impressione è che questi libri servissero soprattutto "in assenza" di scuola: che si trattasse, cioè, di rocoli scritti per consentire di apprendere determinate conoscenze

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    specifiche anche senza seguire cicli istituzionali di lezioni e in mancanza di un insegnante. Imparare a costruire retoricamente un discorso era importante, e conoscere meglio la natura delle malattie poteva risultare sicuramente utile: ma non tutti, soprattutto al di fuori delle città pilt grandi, avevano l'opportunità di imparare a farlo socco la guida di un retore o un medico. Un libro, in questi casi, poteva rivelarsi una risposta più semplice e più economica, anche se non necessariamente altrettanto adeguata.

    Libri informali Le pregevoli edizioni realizzate sotto la supervisione dei dotti del Museo o i più comuni rocoli trascritti da scrivani sottopagaci in centri periferici come Ossirinco condividevano, al di là della cura formale e filologica, una stessa estetica, basata su semplici criteri di massima, di cui il principale era la ripartizione omogenea del cesto sulla superficie scrittoria, come si è vista a più riprese. La preoccupazione di rendere il contenute più chiaro e leggibile poteva portare a derogare a una geometrizzazione troppo rigorosa, e per alcune tipologie testuali particolari, come i glossari, era inevitabile impiegare un layout strutturalmente diverso. Ma al di là di questo, gli artigiani che allestivano per mestiere rocoli contenenti cesti letterari sapevano bene quali fossero le coordinate grafiche da rispettare. La documentazione papiracea, tuttavia, ha restituito una notevole quantità di papiri letterari dall'aspetto molto diverso: le scritture impiegate sono veloci, poco eleganti e spesso di difficile lettura; le colonne risultano irregolari, per dimensioni e margini; i supporti sono spesso il frutto del reimpiego di materiale scrittorio già usato in precedenza; persino i dispositivi paratestuali impiegaci possono variare, abbracciando una gamma di soluzioni più ampia e flessibile. Questa produzione libraria, in considerazione della sua natura poco irregimentata, può essere definita "informale". Al di là dell'estetica, la sua importanza nella scoria dei testi e della cultura scritta greco-romana è centrale: in seno alla produzione libraria recuperata nell'Egitto poscfaraonico la percentuale dei rotoli "informali" è molto alca e per alcuni periodi, specialmente in ceneri minori, risulta persino superiore a quella dei rocoli "formali". Rocoli informali rappresentano, in certi casi, i testimoni unici di opere fondamentali ma altrimenti perdute: la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele - o comunque all'interno della sua scuola (Rhodes, 2016, pp. xv-xvi) -

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    Particolare dal rocolo londinese della Costituzione degli At,w,·si (P.Lond. Lit. 108). Aristotle 011 the Comtitution ofArhens: Facsimrle ofR1pyrw CXXXI in the British Afttmmr, London 1891 43

    Da

    è srara resriruira da quattro rocoli (P.Lond. Lit. 108, fine del I sec. d.C.; Del Corso, 2008; 2018; FIG. 43), ricavati da registri contabili scritti qualche anno prima; su di essi si alternano quattro mani, che impiegano grafie minute e corsive, ricche di abbreviazioni, e non esitano a giustapporre colonne larghissime a colonne più strette, senza preoccuparsi della regolarità di margini e intercolunni, e senza esitare a cancellare con vistose croci parti di resto inutili: niente di più lontano dalla sobria geometria dell"'Omero Hawara~ Rocoli di questo tipo possono rappresentare, inoltre, i testimoni più amichi di opere restituite anche da manoscritti bizantini: l'unica attestazione della Retoricaad Alessandro,un trattato molto lecco ancora in erà romana, quando circolava sotto il nome di Aristotele, è proprio un papiro vergato da una mano più a suo agio con documenti e cesti burocratici che con la trascrizione di opere letterarie (P.Hib. 1 26, III sec. a.C.). Infine, informali sono molte raccolte antologiche di cesti in versi e/o in prosa, a volce trascritte per essere lecre durame i pasti o nel corso dei successivisimposi (Pordomingo, 2013, pp. 155-80 ): una curiosa selezione di delicate canzoncine e barzellette sconce, probabilmente messa insieme proprio a questi fini, è stata restituita da due fogli di papiro scritti a Kerkeosiris, ma trovati all'interno di una mummia di coccodrillo offerta in dono al sanruario di Sobek - il dio coccodrillo, appunto - di Tebcynis (P.Tebc. I I e 2, 11-1sec. a.C.).

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    LIBRI INFORMALI

    2.I I

    L'origine di questi libri informali è da ricercare sempre nel bisogno specifico di un lettore, o di un gruppo di lettori: in alcuni casi si trattava della volontà di realizzare un prodotto librario funzionale a un intrattenimento immediato, non necessariamente di alto livello culturale, come nel caso delle antologie da Tebtynis; altre volte poteva essere il bisogno di copiare un'opera necessaria per il proprio corso di scudi: alcuni dei glossari omerici sopra descritti hanno tutti i requisiti per rientrare in questa categoria. In molti casi, tuttavia, la scelta di trascrivere un 'opera articolata - si pensi alla Costituzione degli Ateniesi - senza avere la giusta formazione professionale (e sobbarcandosi una fatica normalmente sostenuta da personale di un rango sociale piuttosto basso) doveva rappresentare l'unico modo per procurarsi cestiche non era possibile reperire mediante altri canali. Specialmente lontano dai ceneri culturali maggiori, trovare un copista di professione e una "libreria" ben fornica doveva rivelarsi spesso un'impresa complessa, anche per individui doraci di mezzi finanziari adeguaci. Una forma importante di circolazione libraria era rappresentata dunque da scambi privaci, che coinvolgevano soprattutto i membri dell'élite locale, formata da funzionari ed ex funzionari in pensione, soldati a riposo diventati piccoli possidenti terrieri, amministratori, commercianti arricchici. Le prime notizie di una circolazione libraria parallela di questo tipo si possono individuare già alla metà del 111 secolo a.C. in documenti dell'archivio di Zenone (P.Cair. Zen. IV 59588; Del Corso, 2018, pp. 49-50 ), e risalgono quindi all 'ecà di prima formazione della nuova società coloniale insediata dai Tolomei nelle periferie del loro regno. Chi si trovava ad avere accesso a un cesto nuovo era quasi coscretco, in simili circostanze, a provvedere in prima persona alla trascrizione dei rocoli così generosamente ottenuti in prestito, basandosi su competenze grafiche per lo pit1 finalizzate alla conduzione di affari e attività quotidiane, e coinvolgendo magari alcuni degli amici con i quali era solito condividere i passatempi letterari, secondo una tradizione di fruizione collettiva dei cesti risalente almeno all'età classica (sia pur riportata ora a un contesto completamente diverso). Possiamo solo immaginare che cosa potesse significare, per questi Greci sradicaci e giunti a vivere era il deserto e l'ombra di piramidi millenarie, leggere - senza necessariamente comprenderli fino in fondo - scorie e versi intrisi della luna che splendeva su isole discanti dell'Egeo, di un mare che poteva assumere il colore del vino, del ricordo di eroi morti per difendere la propria libertà da orde straniere. E riconoscere quanto grande sia il debito che abbiamo verso il loro testardo desiderio di tramandare i resti da cui dipendeva la loro identità culturale.

    8

    Dal rotolo al codice

    Il quadernetto di Ermesione Nel corso del IV secolo la vita in Egitto proseguiva - per rubare un pezzetto del verso di un grande poeta - con millenario passo di talpa, tra l'attesa delle benefiche inondazioni del Nilo, l'ansia per il pagamento delle tasse, e tutte le normali contraddizioni della vita quotidiana (Bagnall, 1993). Le catastrofi che si susseguivano altrove - i Goti che premevano sul Danubio, ad esempio, e la morte dell'imperatore Valente in Tracia, ad Adrianopoli (378), mentre cercava di bloccarli - erano lontane. I grandi sconvolgimenti erano avvenuti prima. La "crisi del III secolo" si era avvertita anche lungo il Nilo, nonostante effimeri tentativi di riforma come quelli di Filippo l'Arabo (al potere tra il 244 e il 249 ), e con la crisi non erano mancate rivolte e inevitabili repressioni. Tra il 296 e il 297 ci fu anche un usurpatore, un certo Lucio Domizio Domiziano dai natali oscuri, che riuscì a guadagnarsi le simpatie popolari da Qifr fino al Delta, e specialmente ad Alessandria. Diocleziano dovette intervenire di persona, con la sua consueta durezza, per riportare il paese sotto l'autorità di Roma, e, dopo aver risolto il problema contingente al prezzo di un assedio di otto mesi della capitale, decise, per evitare il ripetersi di situazioni incresciose, di non limitarsi alla normale ricetta, a base di esecuzioni di massa e umiliazioni pubbliche (la città fu anche privata del diritto di battere moneta), ma di cambiare dalle fondamenta l'assetto del paese. Il territorio fu reso più sicuro, al prezzo di qualche trattativa (e un contributo annuale) con genti irrequiete come i Nobati e i Blemmi, sempre pronti a compiere scorrerie nelle terre fertili lungo il Nilo, e cingendo di mura città e punti strategici: a nord di Memphis fu eretto il forte di Babylon, in un'area oggi al centro del quartiere copto del Cairo, ed è forse in questo periodo che anche Antinoupolis, sul medio

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    corso del Nilo, venne protetta con imponenti bastioni, oggi quasi cancellati dalla sabbia e dall'incuria (Spanu, 2.014). L'amministrazione, inoltre, venne completamente riorganizzata. L'Egitto, fino a quel momento "possedimento imperiale", retto da un prefetto di rango equestre nominaro direttamente dal!' imperatore, venne suddiviso in province ( ere al momento della riforma, ma fino a serre nei secoli successivi), destinate a essere governare secondo le regole in vigore in tutto il resto del!' impero, e dunque con l'istituzione di una nuova rete di funzionari. Il paese, così, non era più una terra a sé sranre rispetto al resto del!' impero. quale invece appariva, qualche secolo prima, a uno storico del calibro di Tacito (.dmi. 2, 59, 3). Era questo il mondo rinnovato in cui visse Ermesione, abitante, almeno per un periodo, di Antinoupolis. Di lui e della sua famiglia conosciamo diversi dettagli. Incorno al 385, infarti, Ermesione avvertì la necessità di raccogliere insieme una serie di resti che molti per secoli, in Egitto e non solo, consideravano della massima importanza: gli oroscopi relativi a lui stesso e ad altre persone, probabilmente parenti o amici, il più recente dei quali menziona una bambina di nome Nesria alias Apollonia, nata appunto il 9 aprile ,85 (PSI I 2+c; Neugenauer, van Hoesen, 1959, n. 385;quadro complessivo degli oroscopi ivi, p. 66; FIG. 44). Un oroscopo antico non era una semplice anticipazione di che cosa sarebbe potuto accadere in un futuro prossimo, ma un intarsio di coordinare astronomiche registrare al momento della nascita, che si pensava avrebbero influenzato in maniera decisiva il corso della vira di un individuo e la cui analisi consentiva all'astrologo di formulare previsioni di lungo periodo. Conservarne una copia poteva rivelarsi, dunque, molto utile, e in questo modo ancora oggi possiamo sapere che Ermesione, nato il 338 d.C. nella notte rra il 28 e il 29 del mese di Choiak (per noi tra il 24 e il 25 dicembre!), dovette fare sempre i comi con Giove in Pesci, Ì\farre e Mercurio in Capricorno e malauguratamente Venere in Scorpione, una posizione decisamente non ottimale (PSI I 23a; ivi, n. 338). Ermesione trascrive gli oroscopi in una scrittura ordinata e chiara, segnalando bene i valori numerici da prendere in considerazione, così da renderli facilmente leggibili. Oltre agli oroscopi, Ermesione annota anche altri appunti e cesti di varia indole, tra cui due serie di conci (PSI VIII 959 e 960 ), una delle quali relativa a importami acquisti di olio, e soprattutto una lunga e dettagliata tavola di moltiplicazioni (PSI VIII 958). Tutti questi cesti, per quanto ben distinti l'uno dall'altro, risultano giustapposti senza una pianificazione, ma sulla base delle diverse esigenze del

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    2.15

    -H Il uquadernetto" di Ermesione (rs1 I 2.4). © Biblioteca Medicea Laurenziana. Su concessione Mie. Divieto di riproduzione

    loro proprietario ( impegnato in affari di un cerco peso, a giudicare dalle transazioni registrate nei suoi appunti; e forse la tabella di moltiplicazioni era stata copiata anche per tenere la mente allenata per i conci con cui quotidianamente aveva a che fare). Per raccoglierli insieme, Ermesione non ricorre a "schede" discinte, ma utilizza quello che potremmo definire un "quadernetto", composto di tre fogli di papiro piegaci (uno peraltro ritagliato da un altro documento, scritto in precedenza da una mano diversa: PSI I 41) e inseriti l'uno nell'altro, così da avere a disposizione dodici facciate (Del Corso, 2.019a,pp. 2.83-4):un approccio alla gestione dello spazio scrittorio molto lontano da quello proprio del rocolo. L'umile quadernetto di Ermesione, scritto in un momento di assestamento dopo trasformazioni profonde per l'Egitto, appare così uno dei tanti tasselli da considerare nella ricostruzione di un processo cruciale nella scoria delle modalità di conservazione delle informazioni e della era-

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    smissione dei resti nel mondo antico: il passaggio dal rotolo al codice, la tipologia di libro impiegato ancora oggi, basata non su una striscia continua di materiale scrittorio su cui il resto fosse ripartito in colonne, ma, appunto, su una serie di fogli di dimensioni analoghe, piegati, uniti e raccolti insieme in vari modi, su cui la scrittura poteva essere disposta "a tutta pagina" o su un numero limitato di colonne, ma sempre sfruttandone in successione entrambe le facce'. La scelta di Ermesione obbediva ad abitudini scrittorie ormai consolidare. Negli anni in cui avverrì il bisogno di raccogliere insieme annotazioni su affari di una certa importanza e movimenti celesti che avevano determinato il futuro della sua famiglia, il codice era divenuto da poco il supporto scrittorio dominante per la conservazione di resti complessi, anche se il rocolo era ancora lungi dall'uscire di scena: nel corso del IV secolo più del 60% dei libri prodotti in Egitto aveva ormai questo formato, e la percentuale sarebbe salita a circa il 75% nei due secoli successivi, mentre su rotolo risulta vergato circa il 13% dei testi letterari assegnati al IV secolo, per ridursi al 3% nel ve ad appena il 2,5% nel VI'. La storia del codice, tuttavia, era cominciata già da tempo, in tutto l'impero romano, anche se è soprattutto grazie ai reperti provenienti dall'Egitto che possiamo ricostruirne le prime fasi.

    I codici più antichi nelle città egiziane Nella città di Ermesione, Antinoupolis, le attestazioni pit1 antiche del supporto risalgono a circa due secoli prima dell'allestimento del quadernetto, e si possono collocare in un arco temporale che va dagli ultimi decenni della dinastia degli Antonini al regno dei Severi. I reperti finora pubblicati sono poco più di venti, ma anche in un corpus numericamente così esiguo è possibile individuare già una notevole varierà di formati, scritture, tipologie testuali. Da Antinoupolis provengono almeno due esempi di questo supporto risalenti già al II secolo d.C.: uno conteneva un'opera poetica in esametri, non identificata e di cui è difficile precisare la natura (P.Ant. III 117 ), l'altro è invece uno dei più antichi testimoni dei Salmi finora rinvenuti (P.Anr. I 7). Del primo di questi due codici non è possibile ricostruire le dimensioni, mentre il secondo doveva avere un formato piuttosto ridocco, con una larghezza di poco inferiore a 15 cm e un'altezza di poco più di

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    meno di un tascabile odierno. Entrambi sono realizzaci, in ogni caso, a partire da fogli di papiro di buona qualità, e le mani che li hanno vergati, anche se prive di un tirocinio calligrafico vero e proprio, si mostrano capaci comunque di garantire regolarità e persino una certa armonia alla scrittura. Sono mani informali, dunque, ma che si sforzano di conferire formalità alla propria grafia. Nei decenni successivi per la fabbricazione dei fogli viene affiancata al papiro, con sempre maggiore frequenza, la pergamena, prima relegata a un ruolo pii'.1marginale (cfr. supra, pp. 75-9 ), e le tipologie testuali trascritte diventano più variegate. Il codice si afferma, innanzi tutto, come il "serbatoio" privilegiato per raccogliere tutte le espressioni letterarie legate alla religione cristiana. Nel III secolo circolavano ad Antinoupolis codici papiracei con i libri sapienziali del Vecchio Testamento (P.Ant. I 8 + III 210 e I 9) e codici di pergamena con opere teologiche di aurore ancora non idenrificaro (P.Ant. III 112); e il supporto poteva essere ucilizzaro anche per brevi pericopi, come nel caso di P.Ant. II 54, un codicetro papiraceo, quadrato, di appena s cm, su cui la mano di un devoto aveva trascritro il Padre Nostro, assieme presumibilmente ad altre preghiere o altri estratti dal Vangelo di N1atreo, forse allo scopo di realizzare una sorra di filatterio da porcare sempre con sé, forse nell'ambito di meno esoteriche attività scolastiche (de Haro Sanchez, Carlig, 2015, pp. 80-1)\ Nello stesso periodo il supporto veniva largamente impiegaro per resti con finalità pratiche, in particolare di tipo medico. Agli inizi del III secolo d.C. può essere assegnato, ad esempio, un frammento di codice papiraceo contenente un trattato in cui erano elencati una serie di singolari rimedi da usare nelle situazioni più disparate, rinvenuto in un kom poco a ovest della "Necropoli Nord" della città (PSI Ant. inv. NN 16-12-2013; Del Corso, Pintaudi, 2015, pp. 8-10 ). Qualche decennio più tardi, intorno alla metà del secolo, una mano fluida ma poco regolare trascriveva su un codice di pergamena (PSI Ant. inv. 320 A; ivi, pp. 10-7) una raccolta di ricette di grandi medici del passato ( come i celebri Temisone e Neileo, inventore peraltro di un sistema di trazione delle fratture noto ancora a Oribasio), forse usata, in qualche momento della sua "vita libraria'', nella chiesa ubicata ali' interno della "Necropoli Nord", dove potevano trovarsi le reliquie di Colluco, il santo patrono della città (Grossmann, 2014); e sempre su questo tipo di supporto sono vergati trattati medici come P.Ant. III 133, dai cui magri frammenti si intravede qualche scampolo di trattato anatomico (Andorlini, 1993, p. 504), e P.Ant. I 28, contenente i Pronosticie gli Ajòri10:

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    smi di Ippocrate, posteriore di qualche decennio ( Cavallo, 2005, p. 186; il codice tuttavia è assegnato al v sec. d.C. in CPF 1.2•, pp. 77-82). Molti di questi primi codici, a ogni modo, contengono opere riferibili alla tradizione letteraria "alta': Come sempre nella storia della cultura greca, l'autore più rappresentato è Omero: al II-III secolo sono assegnati i frammenti di tre codici dell'Iliade - due su papiro (P.Anc. III 162 e 163)e uno su pergamena (PSI inv.Ant N74, Kòm 1,11.12.1974;i'vlinuroli, 2017b e di un altro dell'Odissea(P.Ant. III 177,papiraceo), ma le attestazioni si fanno sempre più numerose già nd III secolo, quando a codici papiracei vengono affidati, oltre a ulteriori copie dell'Iliade (P.Ant. III 158 e 159), anche glossari omerici (P.Anr. II 70). Nel III e nd III-IV secolo d.C. su codice di papiro vengono trascritte anche opere di altri autori, da Esiodo (P.Anr. III II8; Meliadò, 2.003) a Callimaco (P.Ant. III u,), senza tralasciare la filosofia (P.Ant. III 181,unico testimone papiraceo del lvlinosse pseudoplaconico); i cultori delle belle lettere non disdegnavano di leggere in questa veste libraria commedie ormai dimenticate, forse di Nlenandro (P.Am. I 15;Perrone, 2009, p. 132)o di altri autori (P.Ant. III 122), tragedie poco note (P.Ant. I 16; TrGF II F 675) e poemi e poemetti di argomento mitologico non più identificabili (P.Ant. I 17, un'interessante variazione su temi iliadici: Miguélez Cavero, 2008, pp. 45-6), su cui talvolta compaiono appunti non privi di un cerro interesse antiquario, come in margine a P.Ant. III 120, dove troviamo il rinvio a qualcosa discusso un tempo da un Antimaco, presumibilmente Antimaco di Colofone (1v sc::c.a.C.). Non meno ricco è il complesso di autori e testi affidati a codici pergamenacei, che spaziano ancora una volta tra poesia e prosa, tra capolavori e opere minori. Per il III secolo troviamo rappresentati Pindaro (P.Ant. II 76 + III 212)e ancora Menandro (P.Lips. inv. 613; Auscin, 1973, n. 177), Tucidide (P.Ant. I 25)\ Isocrate (P.Ant. II 84), Demostene (P.Ant. I 27; assegnato al II-III in Sardone, 2021,p. 136) e il meno letto Dinarco (P.Ant. II 62 + 81; FIG.

    45).

    Antinoupolis non era certo un caso isolato nel panorama egiziano. Una sovrapposizione di papiro e pergamena, formalità e informalità, testi d'uso e autori della tradizione classica, letteratura pagana e cristiana si ritrova, tra II e IV secolo, anche nei codici rinvenuti in altre località egiziane. Sulla sponda del Nilo opposta a quella della città di Ancinoo sorgeva Hermopolis, una città di origine greca ancora più antica, in cui la diffusione di una cultura letteraria articolata e trasversale è ben arcescara dai resti di una copiosa produzione libraria (Manfredi, 1992). Anche qui tracce

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    -Vi Un codice di Dinarco (P.Ant. Projecc, Oxford Universicy

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    II

    62.). © Egypc Exploracion Sociecy I Imaging Papyri

    tangibili di un uso del codice per la trascrizione di cesti complessi, pagani e cristiani, si colgono già nel II secolo, per poi divenire molto più corpose durante il III; e ancora una volta l'impiego di papiro o pergamena, per questo tipo di supporto, appare sostanzialmente simultaneo (anche se, in questa fase iniziale il primo materiale è attestato molto di più del secondo: 15 reperti contro 4, secondo il LDAB). Al II o al II-III secolo vengono riferiti i più antichi manoscritti cristiani: un codice di papiro recante il Pastore di Erma (P.Iand. I 4), variamente datato all'età anconina o severiana (Carlini, 1992.; Crisci, 2.005, p. 121), e altri due di pergamena, contenenti l'uno almeno i Vangeli di Matteo e Luca (un codice disperso era Firenze e Berlino: PSI I 2. + II 12.4 e P.Berol. inv. u863)5, il secondo un'opera teologica in cui venivano citaci passi del Vecchio Testamento (BKT IX 22.); al III secolo, invece, viene riferito un ulteriore testimone su papiro, contenente un trattato in cui un autore ignoto (si è pensato anche a Origene) forniva un'articolata interpretazione allegorica della Genesi (P.Giss. Univ. II 17; Junod, 1991). Nello stesso lasso di tempo, in ogni caso, il supporto era impiegato per un ventaglio ancora più ampio di opere "pagane". Tra la fine del II secolo e gli inizi del III codici di papiro risultano già usati

    22.0

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    )er accogliere la grandiosità della prosa di Tucidide (P.Berol. inv. 13236; \lfcNamee,2007, pp. 444-5; II-III sec. d.C.) e Demostene (BKT IX 185, n-m sec. d.C.; BKT IX 71 + P.Berol. inv. 13233,inizi del III d.C.), la leggerezza del Romanzo di Leucippe e Clitojònte (P.Schubart 30 ), la potenza espressivadi Omero, attestato almeno da PSI I 13 e da un manoscritto ben più singolare, P.Lond. Lit. 5 (cfr. infi"ll,pp. 235-6 e 238-9), non trovato ad Hermopolis ma comunque proveniente, con ogni probabilità, dal distretto amministrativo di cui la città era al centro. Prima di approdare alla Brirish Library di Londra, dov'è oggi conservato, il codice apparteneva alla collezione di Anchony C. Harris, console inglese ad Alessandria e grande collezionista di papiri e antichità egizie assortite (Hamernik, 2010), dalle cui indicazioni, non sempre lineari, si può desumere che il manoscritto fossestato trovato, qualche anno prima del 1850, in un centro del medio Egitto, forse Manfalour, forse un piccolo villaggio a sud di Mallawi, al-Maabde, dove peraltro i viaggiatori del XIX secolo potevano ammirare un pozzo sepolcrale in cui mummie di uomini e di coccodrilli, con i loro corredi, erano sotterrate insieme (Nongbri, 2017). Per le opere "classiche" non era certo disdegnata la pergamena, adottata ad esempio per i codici che contenevano pièces teatrali come il 1vlisantropo di .Menandro (Bodleian Library inv. Gr. class. g. 50; Austin, 1973, n. 125) e i Cretesi di Euripide (BKT v.2, pp. 73-9), quest 'ulcimo assegnato dai primi editori addirittura al I secolo d.C., anche se ora viene comunemente accettata una datazione posteriore, alla seconda metà del II (Turner, 1977, pp. 41-2) o agli inizi del III secolo d.C. (Cavallo, 2008, p. 108). Le tendenze finora riscontrate diventano ancor più emblematiche se prendiamo in considerazione, infine, la sterminata documentazione restituita dalla ciccà di Ossirinco. Qualche dato numerico preliminare aiuta a comprendere la portata dei fenomeni in ateo. Dalla città del Pescedal-naso-aguzzo provengono, per il II e il III secolo, i frammenti di quasi 2.400 libri, di cui oltre il 90% in forma di rocolo; i codici sono appena 151,soprattutto in papiro. Per il IV secolo sono documentaci, invece, non oltre 166 reperti librari, di cui poco più della metà (almeno 84, senza considerare frammenti di cui non è facilmente precisabile la natura libraria) in forma di codice, mentre nel v secolo, a fronte di un ulceriore calo delle evidenze disponibili (nel LDAB sono censiti solo 86 reperti), la quantità di codici superal'8o% (70 reperti sicuri). Al di là del dato quantitativo, i frammenti superstiti si rivelano di notevole interesse sopraccucco a livello qualitativo. I codici più amichi, va-

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    2.2.1

    riamente databili nel corso del II secolo e cucci papiracei, comprendono le più diverse tradizioni letterarie. Alcuni sono concepiti per opere tecLXI 4199, altri per traniche, come l'almanacco astronomico in P.0:,...-y. mandare autori classici, quali Omero (West, 2.001,p. 12.6,p132.5),Pindaro (PSI II 147), Menandro (P.O:x.")'. LX 402.2.).Una parte significativa, infine, tramanda cesti cristiani: da Ossirinco provengono, in particolare, alcuni dei testimoni pili antichi del Vangelo di Marco (P.Oxy. L 352.3e LXIV 4404 e 4405), da riferire ai decenni centrali del secolo, ma non mancano cesti più rari, come l'apocrifo Vangelo di Pietro (P.Oxy. LX 4009) 6 • Con il III secolo al papiro viene sporadicamente affiancata la pergamena7 , ma soprattucco si assiste a un infittirsi della platea di cesti e autori affidaci al codice. Dei besc-seller dell'antichità, l'Iliade e l'Odissea, sono accescace,in particolare, almeno 18 copie in questo formato (con una netta prevalenza del primo poema sul secondo: 12.papiri contro 6), alcune delle quali di buona qualità, altre più dozzinali (P.Cair. inv. JdÉ 472.68; ì'v1ironczuk,2.011,pp. 34-7 ). Ma il codice risulta impiegato per un ventaglio di opere molto più ampio. Per la poesia le opere attestate spaziano dai versi immaginifici di Pindaro (PSI II 146; Tibilecci, 2.016,pp. 302.-9)alle raffinae 2.2.16)e Teocrito (P.Oxy. L 3551),sentezze di Callimaco (P.Oxy. XIX 2.2.11 za tralasciare l'astrusità planetologica di una "gloria locale" come Anubione, un poeta-astrologo nato in Egitto ma non particolarmente apprezzato negli altri territori dell'impero (P.Oxy. LXVI 4503; Schubert, 2.015).Tra le opere in prosa la vibrante piacevolezza degli oratori attici (P.Oxy. LX 4049, Eschine) coesiste con l'intricata perentorietà della craccaciscicaretorica (P.Oxy.LIII 3708) o astronomica (P.Oxy. LXV 4476), anche se, curiosamente, alcri generi letterari di indole più squisitamente tecnica sono testimoniati, su codice, per un periodo di poco posceriore 8• In ambito filosofico l'edificio concettuale di Platone (P..Mil. Vogl. I 10) coesiste con le speculazioni teologiche di Filone d'Alessandria (P.Oxy. IX 1173+ XI 1356+ XVIII 2.158+ PSI XI 12.07 + P.Haun. I 8). E oltre a questa galassia testuale dallepagine dei primi codici ossirinchici riemerge un arcipelago di Vangeli, canonici o apocrifi, come il Vangelo di Maria (P.Ryl. 111 463; P.Oxy. L 352.5) e il Vangelo di Tommaso (P.Oxy. I 1), accanto a molti altri frammenti non identificaci, dal cosiddetto "Vangelo Egercon" (P.Egercon inv. 2 + P.Koln VI 255) alt' atipica narrazione restituita da P.Oxy. LXXVI 5072.,in cui la scena più facilmente ricostruibile vede Gesù alle prese con un demone (quadro complessivo in Charlesworth, 2.016,pp. 4-6, per i Vangeli canonici, e 2.5-7,per quelli apocrifi).

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    Il quadernetto di Ermesione, dunque, per tornare al reperto da cui siamo partiti, può vantare un folto gruppo di antecedenti assai illustri, accomunaci tutti da un solo elemento di fondo: l'eterogeneità dei contenuti, delle dimensioni, della gestione dello spazio grafico, delle scritture impiegate.

    Dimensioni, organizzazione dello spazio scritto, scritture Le vestigia dei codici egiziani più antichi appaiono, a provare a considerarle nel loro complesso, come i frammenti colorati all'interno di un caleidoscopio librario, capace ancora di restituire immagini suggestive (nonostante le molce ammaccature). L'analisi dei materiali superstiti consente, innanzi tutto, di desumere elementi preziosi sulle modalità concrete di fabbricazione dei codici, per le quali disporremmo, alcrimenti, solo di indicazioni esigue e generiche (una panoramica aggiornata in Nongbri, 2018, pp. 2.0-7 ). Nel caso di manoscritti papiracei, i fogli erano quasi sicuramente ricavati con un raglio verticale da rocoli "commerciali", facendo attenzione a evirare che le ko/leseisoriginarie venissero a coincidere con piegature o altri punti particolarmente vulnerabili per via della loro posizione (Turner, 1977, pp. 43-54). In un codice papiraceo, dunque, si alternavano, proprio in quanto ricavate da un rocolo, pagine con fibre orizzontali, su cui il calamo scorreva meglio, e pagine con fibre verticali, potenzialmente più accidentate, con una conseguenza di non poco conto sotto il profilo codicologico: il recto del manoscritto (convenzionalmente, la pagina destra ad apertura di libro) non coincideva necessariamente con il lato migliore su cui scrivere, ma in compenso il materiale scrittorio era sfruttato immediatamente su entrambi i lari (Turner, 1994). Più complesso, in mancanza di indicazioni dirette, risulta ricostruire le modalità di preparazione dei fogli di pergamena 9 . Le fonti più antiche in proposito (le "ricette") sono di provenienza occidentale e risalgono cuccea un periodo molto successivo a quello in esame, ma possiamo immaginare che il procedimento nei secoli precedenti non fosse molto diverso. «Metri [la pelle] nella calce», leggiamo in una ricetta in latino dell'v1n secolo, «e che resti lì per tre giorni. Tendila su un telaio e raschiala da entrambe le parei con un raschietto e lascia che si secchi» (da un manoscritto delJa Biblioteca Capitolare di Lucca, ms. 490, f. 219v; Gullick, 1991). Altre re-

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    stimonianze, più tarde ancora, si differenziano per particolari di maggiore o minor rilievo, come il numero di giorni in cui le pelli venivano lasciate nella calce, le modalità di depilazione e la forma del telaio (prima rettangolare, poi circolare), ma il nucleo del procedimento descritto è sempre lo stesso,ed è plausibile immaginare, dunque, che cale fosse rimasto sin dall' inizio: dopo lo sgrassamenco e la radicale rasatura dei peli e degli strati pit1 esterni, fino all'auspicabile eliminazione anche dei bulbi peliferi, si passava a un'altra fase, in cui la pelle veniva resa il più possibile, evitando tuttavia strappi e smagliature, e ritagliata fino ad assumere la forma e le dimensioni desiderare. L'abilità degli artigiani scava nel rendere i fogli sottili e chiari, riducendo la differenza era il lato esterno, più ruvido per la presenza del pelame (il "laco pelo" dei codicologi), e quello interno, di per sé più liscio (il "lato carne"). Non sappiamo con precisione che tipo di animali fossero impiegaci: anche se in passato alcuni studiosi hanno immaginaco, senza fondamento, che gli artigiani egiziani adoperassero anche specie piuctosco esotiche come le antilopi, a fornire il materiale grezzo destinato a essere pazientemente lavorato erano essenzialmente ovini e bovini, con una predilezione per gli esemplari più giovani, da cui era più facile ricavare fogli sottili e ben levigati, su cui il calamo potesse scorrere senza incontrare asperità. A ogni modo, per approntare la pergamena necessaria per un codice intero potevano servire anche diversi animali: secondo un calcolo di Roberc Nlarichal. per fabbricare 48 pagine sarebbe stata necessaria la pelle di un montone e mezzo (Nlarichal, 199·0 ), ma già per il III secolo è facile trovare manoscritti pergamenacei di consistenza molto maggiore (cfr. in.fi-a,pp. 226-7 ), con un costo complessivo difficile a calcolarsi, ma comunque non esiguo. La scelta del materiale da impiegare aveva dei riflessi, com'è naturale aspettarsi, sulle dimensioni finali e sull'aspetto complessivo dei manoscritti, ma questa componente, fino almeno al IV secolo d.C., non risulta così determinante da consentire di elaborare suddivisioni tipologiche ben definite. L'aspetto che più colpisce, a un esame complessivo della documentazione, è forse proprio la difficoltà a individuare standard, non arbitrariamente calati dall'alto, relativi ai formati e al rapporto tra superficie destinata alla scrittura (lo specchio scrittorio), margini bianchi e, in generale, ampiezzadella pagina: un compito reso ancora più arduo dalle condizioni di conservazione dei reperti, che solo in una minoranza di casi consentono di giungere a ricostruzioni "codicologiche,, appropriate.

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    Un primo tentativo (a oggi l'unico veramente sistematico) di razionalizzazione del "disordine tipologico" restituito dai reperti più antichi si deve a Eric G. Turner, che nella sua opera dedicata ai codici greci più antichi (Turner, 1977), basata sull'analisi di un c01pus di più di un migliaio di manoscritti databili era II e IX secolo, suddivide il campione preso in esame in undici gruppi, ognuno composto da manoscritti omogenei per materiale (papiro o pergamena) e caratterizzato da uno stesso rapporco era larghezza e altezza della pagina. Da quesco sforzo classificatorio non sembrano emergere cascami socco il profilo della datazione o del contenuto: un singolo gruppo arriva a comprendere codici concepiti per cesti cristiani o pagani, sericei nel!' arco di diversi secoli, e oscillanti anche per quanto riguarda l'alcezza o la larghezza della pagina (cfr. le osservazioni di Maniaci, 2.0026, pp. 75-8, e Agaci, 2009, pp. 143-4; sull'importanza storicoculcuraledei risultaci di Turner, Cavallo, 2013a, pp. 196-7 ). Se focalizziamo l'attenzione, dunque, sui manoscritti attribuici alla prima fase di diffusione del supporto, le casistiche di Turner sembrano così sfumate da risultare ben poco applicabili. In linea di massima, la documentazione superstite lascia già intravedere l'esistenza di due tendenze, destinate a consolidarsi nel corso dei secoli (Maniaci, 20026, pp. 75-94). I codici faccidi papiro sono per lo più oblunghi, con pagine alce e screcce in cui il rapporto era base e altezza risulta compreso di solito era 0,7 e 0,5; il codice di pergamena, al contrario, privilegia un formato quadraco o moderatamente oblungo (con un rapporto per lo più di 0,7-0,8). Male dimensioni assoluceaccescacedai manoscritti appaiono molco variabili, e il loro variare risulcacondizionato solo in parte dal materiale scelto, al punto da rendere normali oscillazioni e sovrapposizioni. Particolarmente mutevoli risultano i formaci dei codici papiracei. A Ossirinco - dove pure la maggior parte dei codici di papiro sembra concepita per rispettare un rapporto era base e altezza poco distante da o,6 - il Vangelo di Matteo P.Oxy. XXXIV 2683 (FIG. 46) presentava pagine ampie circa 7 x II cm, a quanto si può giudicare partendo dalle dimensioni della colonna superstite, mentre il codice di Pindaro PSI n 147, considerando anche i margini, misurava almeno ere volte canto (21/23 x 31/,2 cm; ricostruzione di Del Corso in Crisci, Degni, 2002, s.v.). Nella regione di Hermopolis l'Omero su codice "di Harris" (P.Lond. Lit. 5) mostra pagine forcemence allungate (13 x 29,5 cm, con un rapporto di 0,44), e forma non troppo diversa doveva aveva anche il Demoscene BKT IX 71 (specchio scrittorio ampio 15 x 24 cm; i margini non sono conservaci), mentre la

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    46 Codice del Vangelo di Matteo (P.Oxy. X.XXIV 2683). © Egypc Exploracion Society / lmaging Papyri Projecc, Oxford Univcrsicy

    maggioranza degli altri codici dal sito presentavano pagine alce 20 cm o poco più e una forma oblunga meno pronunciata (cfr. ad esempio PSI I 13, con uno spazio scritto di 10 x 18 cm: Arnesano in ivi, s.v.). È forse era i manoscritti di Ancinoupolis, tuttavia, che è possibile individuare lo spettro più ricco di soluzioni librarie. Qui i codici papiracei di formato più ampio, cucci fortemente oblunghi, arrivano a superare ampiamente i 30 cm di altezza: il codice dei Proverbi P.Ant. I 9, ad esempio, presentava in origine pagine larghe almeno 18 cm e alce più del doppio, se si considera che la colonna scrittoria era alca circa 35 cm e i margini sono perduri. Al di là di questo estremo, sono accescaciuna pluralità di altri formaci. Alcuni codici presentano un'altezza complessiva compresa era 25 e 30 cm e un formato meno marcatamente oblungo: è il caso, ad esempio, dell'Iliade P.Anc. III 158 (16,5 x 25 cm, ma senza margini) e dell'alcro manoscritto dei Proverbi P.Ant. I 8 (16 x 2.4 cm, considerando i margini: Aland, 1976, p. 23, n. 06). Ma non mancano manoscritti tendenzialmente quadraci e di dimensioni minori: un'altra Iliade, P.Anc. III 159,misurava forse in origine circa 16 x 18 cm o poco pii'.1,e per scopi specifici - si è visco - venivano confezionaci codici di papiro "in miniatura" (cfr. supra, p. 2.17). Pili omogenei si mostrano, invece, i codici di pergamena. I reperti più antichi sono in media più piccoli rispetto ai codici di papiro, con pagine

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    non più ampie di lo cm '0 ; al contrario i codici "in miniatura" arrivavano a misurare, come nel caso dei codici di papiro, meno di 10 cm per lato (il Panegirico di Isocrate P.Ant. II 84, ad esempio, aveva pagine che non raggiungevano 8 cm per lato); e tra questi due estremi sono attestati formati intermedi di ogni tipo, perfettamente quadrati o appena oblunghi". A questo ampio ventaglio di dimensioni corrisponde una consistenza originaria altrettanto variabile. Un codice di grande formato poteva ridursi a un blocchetto di fogli: P.Lond. Lit. 5 ad esempio, giunto a noi nella sua interezza, consta di 36 pagine, poco pii1 di quelle del quadernetto di Ermesione. Per altri codici, di formato medio, è attestata una consistenza maggiore: le pagine ancora leggibili di P.Am. I 27 recano la numerazione 50-51,e sicuramente il codice. in cui erano riuniti pii1 discorsi di Demostene (cfr. infi"ll, p. 234), doveva contenerne diverse decine ancora; il Filone da Ossirinco, invece, ne aveva certamente quasi 300, dal momento che i frammenti in Laurenziana corrispondevano alle pagine 280-289 (Degni in Crisci, Degni, 2002, s.v.); e una consistenza altrettanto corposa si riscontra anche in materiali rinvenuti presso centri minori (P.Beatty II, trovato a Afrih, aveva più di 193pagine). Particolarmente variabili risultano, infine, anche i codicetti di piccole dimensioni, che potevano comprendere pochi fogli, come P.Ant. II 54, o arrivare a centinaia di pagine: di un manoscritto cristiano come P.Ant. I 12 (FIG. 47) - assegnato dai primi editori al III secolo anche se non mancano proposte di una datazione più bassa'! - restano le pagine 164 e 165,ed è dunque presumibile che in origine fossero più di 200; allo stesso modo P.Oxy. LXXXIV 5420 doveva arrivare almeno a 215pagine, per contenere i versi pagani delle Argonautiche di Apollonio. La natura frammentaria della documentazione rende molto difficile ricostruire le evoluzioni delle modalità di fascicolazione, ossia di raccolta e accostamento dei fogli, un problema centrale nell'assetto del libro in forma di codice (Turner, 1977, pp. 55-71; Irigoin, 1998, pp. 1-7; Maniaci, 2002a, pp. 73-94; Nongbri, 2018, pp. 27-36). In generale, nel corso della tarda antichità e in particolare dal IV secolo la struttura fascicolare più comune, in manoscritti sia in papiro che in pergamena, si basava su quaternioni, un raggruppamento di quattro bifogli (ossia 4 fogli piegati a metà), per un totale complessivo di 16 pagine, o in alternativa quinioni (5 bifogli, 20 pagine). Nei secoli precedenti, tuttavia, è ben attestata una pluralità di procedimenti, talvolta antitetici tra loro e destinati comunque a divenire in seguito sempre più rari fino a scomparire.

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    Codice del Vangelo di Giovanni (P.Ant. lmaging Papyri Projcct, Oxford Univcrsity

    .p

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    I 1l).

    © Egypt Exploracion Society /

    Il modello più semplice, e meglio documentato, era quello del codice composto da un solo fascicolo, definito "codice a fascicolo unico", o omnione, in cui erano riuniti cucci i bifogli del manoscritto (Boudalis, 1018, pp. 35-41); a un estremo opposto, sono arrestati manoscritti composti da fascicoli ciascuno di un solo bifoglio, definiti variamente come "unioni", "monioni", "singolioni" (Maniaci, 1001a, p. 79). Ma non mancavano soluzioni intermedie: codici composti da ternioni (3 bifogli, 12pagine), come P.Bodm. 45 + 46 + 47 + 17 (Carlini, 1975; Buzi, 2015, pp. 49-50) o da combinazioni di fascicoli di diversa natura: senioni e quinioni, quacernioni e ternioni... (Nongbri, 2018, pp. 28-9; Boudalis, 2018,pp. 45-8). Nella composizione materiale di un codice una costante che pare largamente seguita riguardava il modo di riunire i fogli di papiro. Nei codici fatti con questo materiale - a differenza di quello che accadeva nel rocolo la prima pagina di ciascun fascicolo, quella più esterna, tende quasi sempre ad avere fibre verticali. Al momento si conoscono pochissime eccezioni a questa pratica, era cui in particolare il Filone da Ossirinco (cfr. supra, p. 111; FIG. 48) e un altro manoscritto dello stesso aurore, trovato a Qifc, in una nicchia all'interno del muro di una casa, e assegnato al II-III secolo d.C. (Paris. Suppi. gr. u20; cfr. in/hz, p. 231). Al di là di questo, l'ordinamento dei fogli nel fascicolo poteva variare: sono attestati codici in cui,

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    48 Frammenro fiorenrino di un codice di Filone (PSI XI Laurenziana. Su concessione :-.1ic.Divieto di riproduzione

    12.07 ).

    © Biblioteca Medicea

    dopo la prima, si alternano pagine con fibre disposte sempre nello stesso verso,in modo caleche il lettore, ad apertura di libro, si trovasse di fronte a una superficie scrittoria il più possibile omogenea, oppure codici con una sistematica alternanza era pagine con fibre orizzontali e pagine con fibre verticali (Turner, 1977, pp. 66-8). Nel codice di pergamena, al contrario, forse anche in considerazione del colore potenzialmente molto diverso che i due lati della pelle assumevano dopo essere stati trattati, l'omogeneità tra le facce viene persegui ca con attenzione ancora pili scrupolosa: nella realizzazionedel manoscritto si badava a fare in modo che, ad apertura di libro, le pagine affiancate presentassero entrambe il "lato carne" o il "lato pelo".Questo sistema di organizzazione del fascicolo viene comunemente indicato come "regola di Gregory", dal nome di Caspar René Gregory, il filologo che per primo la individuò, alla fine dell'Ottocento, come una costante nei manoscritti pergamenacei. Nei secoli successivi a questa accortezza se ne aggiunse un'altra, e cioè l'attenzione a far cominciare ogni fascicolocon lo stesso lato: il "lato carne" nell'Oriente bizantino e il "lato pelo" nell'Occidente latino (Agati, 2.009, pp. 153-4). Nel corso degli ultimi decenni non sono mancati tentativi di ricondurre entro un ordine filogenetico le pratiche artigianali sottese alle diverse tipologie di fascicolazione attestate. Jean lrigoin, ad esempio, ha provato a supporre, in termini adeguatamente sfumati, che il primo sistema di raccolta dei fogli, sviluppato in funzione del codice fatto di papiro, fosse quello a fascicolo unico, seguito poi, per rispondere al bisogno di realizzare manoscritti con un numero di pagine sempre maggiore, dal sistema a "fascicolosemplice",il quale a sua volca avrebbe dato vita a quello a fascicoli "regolari':composti da un numero fisso di pagine (lrigoin, 1998, pp. 2.-3). Ma allo stato attuale la documentazione disponibile non consente di suffragare appieno nessuna ipotesi. Le diverse articolazioni fascicolari non

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    sembrano riconducibili entro una successione cronologica determinata e si ritrovano talvolta in manoscritti allestiti all'interno di uno stesso milieu o comunque conservati (e dunque, almeno in un certo periodo, letti) insieme. È quello che vediamo, ad esempio, nel nucleo più antico dei codici della Fondazione Bodmer, trovati in un centro imprecisato dell'Alto Egitto (Akhmim? Dishna?) nel corso di uno dei tanti scavi clandestini che hanno segnato la storia dell'esplorazione archeologica del paese, e custoditi originariamente all'interno di una "bibliotecà', appartenente forse a un monastero (si è pensato in particolare al monastero di Phbòou, il primo a essere fondato da Pacomio: Robinson, 2ou, pp. 130-50), forse a una scuola, o a un ricco individuo di buona cultura, o a un gruppo di persone accomunate da un legame religioso semimonastico (le diverse ipotesi sono vagliate in Fournet, 2015,pp. 15-20;Mihalyk6, 2019,pp. u2-5). Qui tra i reperti librari assegnati alla metà del III secolo d.C. o al m-IV d.C. troviamo sia codici a fascicolo unico, come P.Bodm. 24, comprendente in origine 41 bifogli ( Orsini, 2015, pp. 62-3), sia codici dotati di un'organizzazione più complessa, quale ad esempio il già citato P.Bodm. 45 + 46 + 47 + 27, contenente una miscellanea di testi che andava dal Vecchio Testamento a Tucidide. Per riunire insieme i fogli esistevano diverse strategie. Un sistema consueto, come documentano anche soltanto i fori spesso visibili sui frammenti superstiti, era quello della cucitura (Nongbri, 2018,pp. 29-34; Boudalis, 2018, pp. 45-96). Nel caso di codici a fascicolo singolo, era sufficiente far passare, con un ago, uno o più fili (di cuoio, papiro o altre fibre vegetali) attraverso i fogli, in corrispondenza della loro piegatura centrale (ad esempio, è quello che possiamo ricostruire nel caso di P.Lond. Lit. 5). Per i codici a fascicolazione complessa l'operazione doveva essere più articolata: era necessario che il filo entrasse e uscisse da ciascun fascicolo, fino a congiungerli saldamente l'uno all'altro senza intralciare l'apertura delle pagine. Per un periodo appena posteriore (gli inizi del IV secolo) sono già documentate due tecniche diverse per raggiungere l'obiettivo, basate l'una sull'impiego di un filo singolo, fatto passare attraverso i fascicoli per tutta la lunghezza del manoscritto, l'altra su due fili distinti, uno nella parte superiore, l'altro in basso: questi procedimenti sono assimilabili alla cucitura "a catenella': comune nei codici delle epoche successive, ma non siamo in grado di stabilire il momento della loro introduzione (FIG. 49 ). Cucire, tuttavia, non era una regola. Codici disligati, "senza cucitura': erano spesso utilizzaci per trascrivere appunti o documenti. Nella zona di

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    Modalità di legatura dei fascicoli di un codice. Disegno di B. Andreoni

    Panopolis, ad esempio, i figli di un cerco Besa trascrissero parte della propria documentazione fiscale (anni 339-45) su un fascicolo composto di fogli sciolti, ottenuti incollando l'una sull 'alcra le facciate già sericee di documenti amministrativi emessi qualche anno prima ( 298 e 300) dallo stratego del discrecco(P.Panop. Beacty); e di fogli sciolti, peraltro a loro volta ricavaciin parre da documenti precedenti, era facto anche, decenni dopo, il quadernetto di Ermesione. Ma almeno fino a cucco il III secolo disligati potevano essere anche codici contenenti corpora testuali ben alcrimenri articolari, e concepiti per essere conservaci a lungo: è quello che vediamo ancora nella miscellanea Bodmer P.Bodm. 45 + 46 + 47 + 27 (Buzi, 2015, p. 54), ma questo manoscritto non era cerco l'unico del suo genere. In ogni caso, indipendentemente dalla loro organizzazione, già nel III secolo i fogli venivano spesso ulceriormence racchiusi, sfruccando vari sistemi, era piacei di legatura, di cuoio o legno, a volce abbelliti da decorazioni: un piatto ligneo della collezione Chescer Beacty, assegnato al III o al IV secolo e usato per un codice oblungo ormai perduto, era rivestito di pelle e impreziosito da tarsie d'avorio con palmette, applicate in alto e in basso (van Regemorcer, 1958; Boudalis, 2018, p. 70). I piacei erano abirualmence fornici di un dorso foderato di un "cartone" ottenuto incollando

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    l'uno sull'alcro pezzi di fogli di papiro, che a volte erano ricavaci persino da manoscritti più antichi (Luiselli, 2003), contenenti gli autori più vari: per "foderare" il codice di Filone da Qift, ad esempio, erano state usate le pagine di una copia del Vangelo di Luca sericea nella seconda metà del II secolo d.C., che rappresenta dunque uno dei primi testimoni dell'opera giunti fino a noi (van Haelst, 1976, n. 403) 11• Questa consuetudine sarà porcata avanti per secoli, fino all'alto medioevo e olcre ancora. A una cale fluidità di formati e dimensioni fa in parte da contraltare una maggiore omogeneità socco il profilo dell'organizzazione dello spazio scritto. Fino a cucco il III secolo i codici papiracei presentano preferibilmente una sola colonna per pagina. Le eccezioni non mancano: il Vangelo di Luca "estratto" dalla legatura del Filone da Qift, ad esempio, era sericeo su due alce colonne, che constavano di poco meno di 40 righi. La presenza di due colonne per pagina è invece più comune nei codici pergamenacei (cfr. ad esempio il Tucidide P.Anc. r 25, il Demoscene P.Ant. I 27 o il Vecchio Testamento P.Oxy. VII 1007 ). Come nel rocolo, la scriptio è continua e la presenza di spiriti e accenti si deve principalmente alle mani dei lettori (che talvolta non esitano a rendere queste aggiunte particolarmente visibili, come si riscontra nel Tucidide P.Ant. I 25, dove viene usato un inchiostro rossiccio). Un elemento di novità si può vedere, a ogni modo, sui codici cristiani, che presentano da subito forme di abbreviazioni peculiari per esprimere una serie di "nomi sacri" (nomina sacra), come quelli di Dio, di Cristo, dello Spirito Santo, di Gerusalemme: della parola venivano sericee soltanto la prima e l'ultima lettera, oppure la prima, la seconda e l'ulcima, che erano sormontate da un tracco orizzontale, per indicare immediatamente al lettore la loro importanza religiosa in un modo diverso da qualsiasi convenzione scrittoria non cristiana (Paap, 1959; Charlesworch, 2006). Socco un profilo squisitamente paleografico, i codici greci più antichi non mostrano peculiarità che li distinguano dalla contemporanea produzione su rocolo, ma presentano un analogo ventaglio di scritture formali o informali (Crisci, 2003a, pp. 94-112; per i libri cristiani, 2008, pp. 63-93). A differenza di quanto troppo spesso ripecuco, in seno alla documentazione superstite è possibile imbattersi già in questa prima fase in libri copiati da mani esperte, che eseguono talora scritture normative o di impostazione calligrafica: alcuni dei Vangeli più amichi di Ossirinco sono vergati in maiuscole posate, talvolta decorate con apici ornamentali (P.Oxy. LXIV 4404; ivi, pp. 71-2), e per il II-III secolo sono ben accescaci

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    so Un codice ddl'Iliade(PSI x 1169). © Biblioteca Medicea Laurenziana. Su concessione Mie. Oiviecodi riproduzione

    manoscritti pagani in forme più o meno accurate di "stile severo•: come il codice dei Cretesida Hermopolis ( «il primo codice calligrafico di pergamena»: Cavallo, 2013a, p. 297; 2008, pp. 108-9) o l'Iliade da Ossirinco PSI x 1169 (FIG. 50 ). La maggior parte di questi prodotti librari, tuttavia, viene eseguita da mani informali, che cercano di riadattare scritture burocratiche rendendole più facilmente leggibili (P.Oxy. LXIV 4405; P.Ant. I 7 e III 117), ma che in casi specifici non esitano a impiegare forme del cucco corsive (P.Schubart 30 ). In alcuni codici, inoltre, troviamo anche la coesistenza di mani di impostazione diversa: in P.Lond. Lit. 5, ad esempio, a pagine vergate in uno "stile severo" di buon livello seguono sezioni in una grafiapiù rapida, sgraziata e corsiveggiante.

    La pluricesrualicàdel codice È tuttavia sul versante dei contenuti e della loro organizzazione che si individuano le differenze più sostanziali tra rocolo e codice. I primi codici si mostrano da subito funzionali ad accorpare insieme parti di una stessa opera che in precedenza circolavano su supporti diversi,

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    oppure opere diverse, o addirittura cesti del cucco eterogenei. Si trattava dunque di oggetti librari strutturalmente pluricescuali e tendenzialmente poliaucoriali, ossia concepiti per contenere cesti diversi, eventualmente riferibili a più autori e non necessariamente trascritti in un arco temporale unitario. La pluricestualicà e la poliaucorialicà non nascono cerco con il codice. Il libro in forma di rocolo poteva già contenere miscellanee di cesti di varia natura: per limitarci all'ambito letterario, sin dalla prima età ellenistica sono attestate, su questo supporto, antologie poetiche, forse destinate alla scuola o a letture era amici (Pordomingo, 2013), raccolte di cesti, magari da leggere a simposio, in cui erano mescolaci poesia leggera e prosa oscena (P.Tebc. I I e 2), florilegi di massime moraleggianti (P.Hib. I 17 ); e non mancano casi di rocoli contenenti più libri di Omero (Schironi, 2010, pp. 11-4), o, per quanto rarissime, opere compiute di autori diversi: uno stesso rocolo, sericeo da due mani diverse, raccoglieva ad esempio le lettere aceribui ce a Demoscene (P.Lond. Lit. 130) e l'orazione Contro Filippide di lperide (P.Lond. Lit. 134). Il codice, tuttavia, da subito amplifica e rende sistematica questa componente. A un livello macroscopico, è grazie a questo supporto che si consolida e diviene sempre più consueta la pratica di realizzare miscellanee effettive, caratterizzate cioè, nell'accezione del termine ben illustrata da Filippo Ronconi, dall'accorpamento di «almeno due cesti di autori diversi e non accomunaci da una tradizione congiunta cale da renderne scontato, nella percezione del lettore, l'affiancamento in uno stesso contenitore» (Ronconi, 2007, p. 9 )' 4 • Un accostamento di escerti corposi dal Vecchio Testamento e da uno storico come Tucidide, ad esempio, sarebbe stato difficilmente giustificabile in un rocolo: le due selezioni testuali sarebbero state gestite meglio su due supporci discinti, anche in considerazione, banalmente, dello sviluppo lineare che ognuna avrebbe richiesto. In un codice, invece, questo abbinamento era facilmente tollerabile e addirittura agevole, come vediamo nel già più volte menzionato P.Bodm. 45 + 46 + 47 + 27. Prodotti librari di questo tipo nascevano, quindi, per rispondere a necessità personali o per assecondare fattori di gusto particolari, spesso insondabili, al di là della possibilità di collegarne alcuni con milieux ben definiti. Spostandoci su un piano più generale, il codice favorisce da subito un processo di aggregazione siscemacica dei cesti in corpora o corpuscoli sulla base di coordinate culturali dettate da esigenze di fondo: riunire insieme

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    IL LIBRO NEL MONDO

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    le opere più popolari, o più studiare a scuola, di un aurore, ad esempio, oppure gli strumenti eruditi che servivano per comprendere resti di un cerro tipo, o affrontare lo studio di argomenti specifici. In uno stesso codice si rrovavano agevolmente a coesistere, così, selezioni di opere, in prosa o in versi, concepire in origine per rocoli diversi ma che in questo modo venivano avvertire come parre di un tessuto continuo. In alcuni casi il processo di aggregazione sembra anticipare scelte ben arrestare dai manoscritti bizantini dei secoli successivi. Così, in P.Ant. I 2.8troviamo raccolti almeno due trattati ippocratici, il Prognosticoe gli Ajòrismi,che figurano in stretta connessione ancora nei loro testimoni bizantini principali, anche se più di frequente in ordine inverso rispetto al codice antinoita (come ad esempio nel Mare. gr. 2.69 e nel Paris. Suppl. gr. 446, entrambi del x secolo, e ancora nel Var. gr. 2.76, dell'xI-XII secolo). Similmente, possiamo ipotizzare che il P.Ant. r 2.7 (Sardone, 2.02.1, pp. 134-45) accogliesse una silloge di opere di Demostene già strutturata secondo criteri analoghi a quelli seguiti per tutto il medioeYo.Le opere dell'oratore erano state divise, sin dall'antichità ( in parre già dai Pinakesdi Callimaco), in macroraggruppamenti, a seconda della loro tipologia retorica - discorsi destinati all'assemblea, discorsi pubblici (demosioilogoi),come appunto quello Sulla corona, discorsi giudiziari e questo ordinamento viene seguito anche nei manoscritti bizantini, sia pur in diverse combinazioni che riflettono, evidentemente, una pluralità di scelte editoriali operate già nel corso della tarda antichità ( Canfora, 1995a,pp. 164-7 e 172.-8;Cavallo, 2.002.,pp. 106-12.). Il codice di Antinoe offre un indizio prezioso in questa direzione. L'unico foglio superstite, contenente alcuni paragrafi dell'orazione Per la corona, corrispondeva alle pagine 50 e 51 del manoscritto, e sulla base delle sue dimensioni si può agevolmente desumere che la parte precedente del discorso non occupasse più di 12. pagine (P.Ant. r, p. 64). L'opera, dunque, era preceduta da materiali testuali distinti, che si snodavano per 38 pagine: uno spazio perfettamente adatto a contenere un altro discorso dell'oratore, più breve, come quello ControAndrozione, che figura all'inizio della sezione contenente i demosioilogoiin almeno due dei principali codici medievali dell'oratore (Monac. gr. 485, IX sec.; Mare. gr. 416, metà del x sec.). Arigore non si può escludere, tuttavia, che il codice contenesse una selezione di discorsi di Demostene ordinati secondo criteri completamente diversi, o che fosse una miscellanea in senso proprio. Non mancano, infatti, esempi di codici costruiti, sotto il profilo con-

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    cenuciscico, sulla base di logiche alternative rispetto a quelle cescimoniace dalla tradizione manoscritta di età medievale. I due codici di III secolo delle opere di Filone si discostano molto, nell'organizzazione testuale, dai manoscritti bizantini, che rispecchiano per lo più le scelte alla base dell'edizione delle opere dell'autore fatta a Cesarea nel IV secolo d.C. (Royse, 1980 ). E anche i cesti cristiani risultano talvolta riuniti secondo criteri peculiari, non necessariamente identici, però, a quelli seguici nei manoscritti dei secoli successivi'S. Un altro codice papiraceo di Antinoe, P.Anc. I 12, ha rescicuico una parre della Seconda lettera attribuita a Giovanni, vergara, stando alla numerazione superstite, sulle pagine 164 e 165 del manoscritto; considerando le loro dimensioni, i fogli precedenti non potevano contenere una raccolta integrale delle epistole neotestamentarie: troppi per le sole Lettere cattoliche (cui appartiene la lettera restituita dal papiro), troppo pochi per accogliere anche le lettere pastorali o quelle di Paolo. Il codice doveva contenere, dunque, una silloge di sericeiaccorpaci insieme secondo logiche diverse da quelle usare nell'edizione canonica del Nuovo Testamento: forse un corpus di sericei attribuici a Giovanni, forse una raccolta più eterogenea ancora (P.Ant. I, pp. 24-5). In seno a questa messe di materiali librari, cuccavia,sono sopraccucco l'Iliade e l'Odissea a mostrarsi oggetto di operazioni di selezione e accorpamento con materiali anche molto diversi era loro (Orsini, 2003; Ciampi, 2019 ). All'interno di un codice era normale che fosse trascritta una selezione di canti molto ampia. P.Ant. III 158,ad esempio, includeva sicuramente i libri VIII-XVI dell'Iliade, ma la sua consistenza complessiva poteva essere ancora maggiore. È possibile che sul codice fosse trascritto cuccoil poema, o che i frammenti superstiti rappresentino i resti di un'edizione in 2 comi, ciascuno di 12 libri, o in 3 comi di 8 libri: cuccesoluzioni editoriali accescace in altri codici, coevi o di poco posceriori' 6 • Un codice omerico poteva aspirare a essere ancora più onnicomprensivo. Il poeta Marziale, vissuto nella seconda metà del I secolo d.C., menziona già un manoscritto in cui «l'Iliade e la scoria di Ulisse, ostile al regno di Priamo, giacciono nascoste era molte pagine di pergamena» (xiv, 184), e non possiamo escludere che codici di questo tipo circolassero in Egitto, per quanto al momento non ne siano stare individuare attestazioni. In alternativa, passi di Omero potevano mescolarsi a contenuti più eterogenei. P.Lond. Lit. 5, ad esempio, presenta una singolare unione era Iliade, le regole della grammatica e imprecisate contingenze economiche (ivi, pp. 101-4). Sul recto codicologico di ciascun foglio, infarti, una pri-

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    ma copia, in "stile severo",una selezione di versi comprendente metà del II libro del poema (con l'esclusione del "catalogo delle navi": una sezione celeberrima ma forse noiosa per un lettore poco avvezzo alle sottigliezze delle genealogie mitologiche), il III libro e la parre iniziale del IV, prima di interrompersi. In un momento successivo una seconda mano, in una grafia decisamente più corsiva, aggiunge un altro cesto, un breve trattato accribuicoa un grammatico della prima età imperiale, Trifone, che viene crascriccosulla parte sinistra dei primi ere fogli, ma in senso inverso, ossia ruotandoli di 180 gradi, così da rendere impossibile qualsiasi confusione era le due opere. In un terzo momento, infine, una mano ancora ulteriore approfitta di un alrro spazio bianco, in corrispondenza della parte posteriore del quinto foglio, per aggiungere una serie di comi. Non siamo in grado di spiegare la peculiare disposizione dei versi omerici. Forse chi ha allestito per primo il codice pensava di lasciare uno spazio ampio per apporre successivamente annotazioni, glosse o altro materiale esegetico, poi però non più aggiunti; simili prodotti librari, tuttavia, non sono di farro mai arrestati, almeno per un periodo così alto. Un'analogia per questa pratica viene suggerita da un passo dell 'Institretio oratoria di Quintiliano, dove si raccomanda di usare, per la composizione di un discorso, ravolerre o membmnae, da intendere ancora una volta come quadernetti di pergamena, badando a lasciare pagine prive di seri etura di fronte a quelle scritte, per poter fare liberamente aggiunte (Quine. x 3, 31-32.; Capasso, 2.005, pp. 114-5). Questo parallelo, a ogni modo, non è del mero calzante: nel passo in questione il retore romano si preoccupa di fornire ai suoi lettori indicazioni pratiche sul modo migliore per comporre un discorso nuovo, non per affrontare lo studio di un "classico" della letteratura. In ogni caso, la scelta di impiegare alcune pagine rimaste bianche per cestilegacia contingenze ben al di fuori dell'orbi ca omerica e di unire insieme letteratura e strumenti eruditi (almeno la grammatica di Trifone), è il segno della grande duttilità del nuovo conrenirore librario, concepito sin dai suoi esordi come un deposito di testualità eterogenea, tipologicamente ben diverso dal rocolo, in cui l'omogeneità rappresentava un criterio di organizzazione essenziale. Questa capacità del codice di catalizzare accostamenti e accorpamenti testuali poco praticati su rocolo (e meno praticabili) aprirà la strada, nel giro di pochi decenni, a una rivoluzione degli assetti editoriali dei testi letterari, che rimescolerà in modo sostanziale le fila delle loro millenarie modalità di trasmissione e getterà le basi per altri processi di selezione, conservazione e perdita delle opere letterarie greche e latine.

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    Le evoluzioni del paratesto La diffusione sempre maggiore del codice si accompagna a un riassettodegli elementi paracestuali fino a quel momento impiegati nella produzione libraria (Cavallo, 2017, pp. 349-55). Le indicazioni sticometriche, concepire per cesti disposti su più colonne parallele, scompaiono e sono sostituire, come si è già accennato, dalla numerazione delle pagine, aggiunta indifferentemente in alto o in basso, oppure, talora, dalla numerazione dei fascicoli; in entrambi i casi si trattava di annotazioni apposte per lo pii1 dalla mano che avevaallestito il codice, e finalizzate a rendere più agevole il controllo della corretta successione delle sequenze testuali. Per la suddivisione interna dei cesti continua a essere in auge il sistema di segni tradizionale, in cui l'onnipresente paragmphos rivestiva un ruolo essenziale, ma si riscontra al tempo stesso una propensione per l'introduzione di soluzioni nuove, dettate da esigenze particolari. In P.Ant. I 8, uno dei codici dei Proverbi da Antinoe, viene impiegato, ad esempio, un segno apposito - una sorta di parentesi conda prolungata da una p,migmphos: )- - per indicare le parole appartenenti a uno stesso stichos ma trascritte supm lineam per motivi di spazio, e un espediente analogo si ritrova, qualche decennio dopo, in un manoscritto dell'Ecclesiastico conservato a Dublino (P.BeaccyVI u). Inoltre, da subito risultano largamente impiegaci tutti quegli accorgimenti, desunti per lo più dalle pratiche documentarie, funzionali a rendere più chiara al lettore la segmentazione del resto. Per restare sempre in ambito cristiano, in entrambi i codici antinoiri dei Proverbi l'espressione finale di ogni pericope è spostata al centro del rigo, per mostrare chiaramente il passaggio da una meditazione a un'altra. Nel codice ippocratico da Antinoe (P.Am. I 28) l'inizio di una nuova proposizione viene segnalato, più semplicemente,da uno spazio bianco, ma nella sezione degli Ajòrismi troviamo anche, lungo il margine sinistro, titoletti esplicativi (aggiunti dalla stessa mano che ha trascritto il cesto). Similmente, nella raccolta di ricette dalla Necropoli Nord viene adottato un sistema di rientranze del margine (èisthesis ed èkthesis) e di titoletti, per suddividere i mirabili rimedi proposti sulla base della loro tipologia e del nome dell'inventore (ad esempio "cataplasmadi Neileo"; "altro cataplasma"). È il sistema della titolatura, più in generale, a conoscere i cambiamenti pit1 rilevanti. Nei codici più antichi, nonostante la spiccata plurirescualità,

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    la successionedelle diverse opere ha comunque l'aspetto di un continuum: gli scribi non avvertono quasi mai il bisogno di far coincidere l'inizio di un'opera diversa con l'inizio di una nuova pagina. Tuttavia, il titolo iniziale, prima elemento accessorio, acquisisce, inevitabilmente, un rilievo maggiore che nel rocolo, ed è concepico per fornire al lettore, tanto quanto il titolo finale, indicazioni precise sul tesco sotcostante e sul suo aurore. A ribadirne l'importanza pratica, queste indicazioni sono distinte mediante espedienti grafici diversi: sono isolare in un ampio agraphon, presentano modulo ingrandito, sono spesso rinforzate da elementi distintivi, come le paragraphoi (P.Ant. I 28) o inserire all'interno di cornicette decorative (P.Ant. I 8). In alcuni casi il ricolo iniziale era accompagnato da veri e propri "titoli correnti': un accorgimento mai usato nel rocolo: in P.Ryl.I 53 (Schironi, 2010, n. 47), un codice pergamenaceo di ottima qualità contenente in origine rutta l'Odissea in circa 200 pagine, ogni libro era introdotto dall'indicazione del suo numero, in posizione centrale a guisa di ticolo, ma questa informazione era ribadita ulteriormente sul margine superiore di ogni pagina destra (e talvolta anche su quella sinistra, se utile per evitare confusioni), così che il lettore potesse individuare più agevolmente la sezione che stava consultando. A tutto questo si accompagna una ridefinizione del ruolo del titolo finale, che poteva trovarsi a ricoprire una doppia funzione: fornire indicazioni su una sezione specifica e, come nella tradizione libraria su rocolo, offrire una panoramica di tutco il contenuto del supporto. Nei codici contenenti più libri di una stessa opera questo ruolo poteva essere assolco aggiungendo, nell'ultima pagina, informazioni che negli altri titoli erano omessi: così, per restare a P.Ryl. I 53, solo nel titolo dell'ultimo libro il numerale, 24, è preceduto dall'indicazione Odysseias, "dell 'Odissea~ Ma altri manoscritti omerici mostrano soluzioni diverse, da cui traspare la difficoltà a conciliare l'impostazione libraria tradizionale con la necessità di adattare le informazioni contenutistiche al supporto usato. In P.Lond. Lit. 5 al termine di ogni libro dell'Iliade troviamo, dopo una coronide, una titolatura circondata da trattini ornamentali, con la formula telos echei, "ha (qui) termine" seguita dal numero del libro e dall'indicazione lliados ("dell'Iliade"). Nel colophon relativo al II libro, a questa dicitura segue l'indicazione di tutti i libri che originariamente dovevano essere trascritti nel codice (i primi 6); ma dal III libro questa informazione scompare, e qualche pagina dopo, copiati i primi 40 versi del IV libro, la trascrizione del poema si interrompe del tutto. In ogni tirolacura, inol-

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    tre, sono aggiunti il numero dei versi complessivamente copiati e il numero di versi della singola pagina. La discrepanza era la prima indicazione e il contenuto complessivo del codice spinge a credere che il colophondel II libro riflettesse un modello che in seguito il copista ha preferito disattendere, aggiornando conseguentemente la formulazione impiegata. Ma in tal caso l'oscillazione dei titoli si accompagnerebbe a una sorca di ambiguità paratesruale: il copista si troverebbe a giustapporre, peraltro commettendo errori, informazioni relative a sezioni specifiche con elementi contenutistici complessivi, creando così dei titoli ibridi, disorientanti per il lettore' 7• Difficoltà di questo tipo non potevano essere superate se non andando oltre l'impostazione del rotolo e sviluppando strategie apposite per indicare, in maniera analitica, il contenuto complessivo del libro, partendo dalle specificità delle sue caratteristiche materiali (la suddivisione del resto in pagine). Tutto questo si verificherà compiutamente, tuttavia, solo dal IV secolo, quando il codice erediterà a pieno titolo il ruolo, prima rivestito dal rotolo, di supporto di riferimento per la trasmissione e conservazione di testi complessi.

    Roma e le origini del codice La documentazione egiziana consente dunque di ricostruire una fase relativamente lunga - quasi due secoli - in cui il codice appare come un supporto duttile, disponibile in materiali diversi, stabile nelle sue forme essenziali ma eterogeneo nei formati e assemblato secondo una pluralità di tecniche. Questa serie di apparenti opposizioni deriva da un'ambiguità di fondo: prima del IV secolo in molte regioni orientali il codice, per quanto già impiegato con una certa frequenza, non rivestiva un ruolo ben definito ali' interno dei meccanismi di produzione e conservazione dei testi, ma era impiegato per esigenze scrittorie molteplici, e in parte opposte, che potevano spaziare dalla semplice annotazione di informazioni contingenti, peraltro destinate ad accrescersi nel tempo, fino alla "sistematizzazione"di corporatestuali organici. L'indeterminatezza delle funzioni del codice si riflette anche nel lessico usato per indicarlo. Per nma la tarda antichità non esiste, in ambito ellenico, un termine univoco per questo supporto, ma per designarlo vengono impiegate una pluralità di parole o perifrasi. Alcune erano semplice-

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    mente un'estensione a un diverso oggetto librario di espressioni già usate in precedenza per indicare supporti scritti, come teuchos, deltos (destinato ad avere grande fortuna in età bizantina), o somtition, quest'ultimo (alla lettera "corpuscolo") talmente diafano sotto il profilo semantico da poter essere usato indifferentemente, nel lessico dei papiri ellenistici, per uno schiavo (PSI VI 602) o per la rata di un mutuo (P.Eleph. 14), ma secoli dopo impiegato nientemeno che dall' imperarore Costantino per indicare le quaranta copie della Bibbia richieste a Eusebio (cfr. infi-a, pp. 2.48-9; Atsalos, 2001, pp. 106-28). In altri casi venivano estesi a questo supporto termini usati già per i polittici di tavolette, come p)'ktis, connesso con p)'ktion, usato in questa accezione già da Galeno (De comp. med. sec. !oc., Ktihn XII, p. 423.q). E per i codici di pergamena si ricorreva spesso alla metonimia, usando vocaboli che propriamente indicavano la "pelle", quali diphthemi (cfr. supra, pp. 76-7) o derma, o in alternativa membranai, un prestito dal latino membranae, che in una prima fase doveva riferirsi forse soprattutto a quadernetti di pergamena. In un testamento del 134 troviamo già, a ogni modo, la parola kodikillos, forse per indicare un fascicoletro di pergamena (P.Oxy.xxxvm 2857, r. 22, significativamente in un elenco di supporti scritrori che comprendeva anche tavolette,pinakides, e papiro, chm·tes); e i compendi superstiti delle opere di Erodiano - un grammatico del II secolo - menzionano la parola codix, glossaro come sinonimo di pinakidion, la tavoletta (van Haelst, 1989, p. 17). Ma è solo dall'età bizantina che quesro termine verrà usaro per indicare il codice vero e proprio, sia nella sfera documentaria che in senso più generale. Codix era la trasposizione meccanica del latino codex, la cui scoria era di gran lunga più antica. Seneca ricorda che già apud antiquos (in un periodo precedente l'età imperiale, dunque), le raccolte di documenti trascritti su più tavole legate insieme venivano chiamare caudex, e questa pratica sarebbe all'origine del cognomen di uno dei politici che si erano distinti ali' inizio della prima guerra punica, Appio Claudio Caudex, console nel 264 a.C. (Seneca, de brev. 13; ivi, pp. 15-6). Ed è possibile che la notizia risalisse, prima ancora, a Varrone, che collocava in un momento indeterminato del passato romano l'uso di codici formati da più tavolette: «gli antichi chiamavano codex un gruppo di più tavolette riunire insieme», leggiamo in un passo di una sua opera citato da Nonio Marcello, un grammatico di età tardoantica (De compendiosa doctrina lib. xx, ed. Lindsay, 111, p. 858; Cavallo, 2019, pp. 84-5). Al di là della sua componente aneddotica, la notizia senecana contribui-

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    sce a delineare la giusta prospettiva entro cui ricercare l'origine del codice: non il mondo ellenizzato, ma la Roma repubblicana. La culcura grafica romana, come si è visco,si basava tradizionalmente su una pluralità di supporci eterogenei, impiegaci secondo modalità estranee alla logica del rocolo di matrice ellenistica, che si afferma progressivamente tra gli ambienti intellettuali dell'Urbe solo dopo la conquista della Magna Grecia e dopo di parei sempre più ampie del Mediterraneo orientale {cfr. supm, pp. 168-70). La possibilità di disporre sempre più agevolmente di papiro, la diffusione delle pratiche testuali legate al rocolo, soprattutto nella produzione di opere letterarie, non cancellò tuttavia la presenza di un tessuto diffuso di contenitori testuali fatti di pezzi di lino ripiegati a soffietto, di scorze d'albero, di foglie, di tavolette dalle fogge più disparate, cerate o imbiancare, raccolce insieme in polittici sgangheraci ed eterogenei. Catone, attivo in un'epoca in cui Roma era entrata profondamente in contatto con la cultura letteraria ellenistica, conservava nel suo archivio domestico copie dei propri discorsi vergare non su rocoli di papiro, ma su codici di tavolette legate insieme, come desumiamo da un passo dell'orazione Sulle mie spese ricordato da Frontone {pp. 90, u-91, 10 van den Houc; Pecere, 2010, pp. 10-3). E ancora all'epoca di Ulpiano, il giurista memore di Alessandro Severo, le biblioteche privare di Roma erano colme di oggetti di questo tipo {Spallone, 2008). A Roma, inoltre, era abituale, almeno in cerci ambienti, l'impiego di papiro e pergamena, del rocolo e del codice. Orazio e Quintiliano conoscono cerco rotoli papiracei ma usano al tempo stesso "taccuini" di pergamena {Hor., Sat. 2, 3, 1-2 eArs poetica, vv. 386-390; Quine. X, 3, 31;Cavallo, 2019, p. 85). Per il poeta Persio era normale che gli studenti avesseroa propria disposizione sia papiro che pergamena, oltre alle tavolette (3, 10-u; cfr. supra, p. 77). Ma è soprattutto Marziale a offrire un'immagine vivida della coesistenza dei due materiali e dei due supporti (Robercs, Skeat, 1983, pp. 24-8; Pecere, 2010, pp. 88-94). Nei suoi versi il papiro, in forma di rocolo, e le membranae, pergamene riunite in codici, appaiono entrambi abitualmente usati per la trascrizione di opere letterarie. Al primo sono destinare spesso edizioni di lusso, preziose o anche solo pretenziose: la copia allestita dal poeta per Partenio, segretario di Domiziano (v, 6) o quella disponibile presso la bottega di Atrecro, levigata con la pomice e avvolta da una custodia rivestita di porpora (purpuraque cultum), per un prezzo di cinque denarii (1, u7); ancora, è il rocolo il supporto più consono ai versi di Silio Italico, «degni della coga latina» (vn, 63), o, a un livello ben di-

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    verso, ai componimenti di un padrone di casa che voglia ergersi a letterato di fronte ai suoi invitati a cena (v, 78). Ma il codice, già a questo livello cronologico, non è presentato alla stregua di un brogliaccio, quanto piuttosto come un supporto librario evoluto e funzionale, adatto, per dimensioni e qualità, a esigenze di lettura diversificate e a un pubblico socialmente stratificato, comprendente anche fasce di lettori non appartenenti ai ceti pili abbienti, e al tempo stesso non privo di una sua raffinatezza. Negli apophoret11 - una raccolta di distici concepiti come immaginari "bigliettini" di accompagnamento per doni da scambiare durante i Saturnali, le feste di fine dicembre - diversi componimenti alludono a codici pergamenacei, contenenti componimenti di grandi autori latini e persino greci. Alcuni si presentano come una mole di fogli: un codice di Ovidio, ad esempio (xiv, 192), oppure quello, già menzionato, che conteneva l' Ilit1de e I' Odisse11insieme. Un manoscritto di Virgilio, invece, può apparire piccolo, rispetto alla grandezza del poeta, ma è comunque impreziosito dalla presenza di un ritratto dell'autore sulla prima pagina (xiv, 186). E piccolo è, di fatto, anche il codice, di pergamena, che il poeta stesso sceglie come supporto sentimentalmente privilegiato per condensare, in brevibus t,1bellis (1.2), «pagine corte», i propri versi, lascivi ma onesti (1,+), con una sorta di metapoetico riadattamento del paradigma callimacheo (poi fatto proprio da Candio e dai neòteroi), in cui il rocolo non è più raffinato libellum ma, di fatto, mega biblion per poesia magniloquente. Marziale tratteggia un quadro vivido dei pregi materiali del codice rispetto al rocolo, quasi a voler opporre una tradizione libraria romana alla consolidata prassi greca: più piccolo e compatto. al punto da poter essere facilmente portato in viaggio; più maneggevole e pili facile da leggersi, anche con una mano soltanto; nel complesso, quindi, più economico, rispetto al rocolo (1, 2; 1, 117; XIV, 188). Sarebbe riduttivo guardare ai libri qui descritti come a un esperimento sflll-born, visionario ma isolato nella società contemporanea all'autore (Robercs, Skeat, 1983, p. 29). Al contrario, questi epigrammi, indipendentemente dalla valenza letteraria profonda da attribuire loro nell'ottica più generale della poetica marzialiana (ricostruita con diverse sfumature da Pecere, 2010, pp. 90-2 e, ad esempio, Blake, 2014), presuppongono che per i loro lettori il codice fosse un oggetto librario familiare tanto quanto il rocolo, al di là degli usi a cui era adibito (Harnett, 2017, pp. 20+-II ). L'orizzonte librario definito dalle testimonianze letterarie trova una sua conferma, del resto, nei pochissimi esempi superstiti di codici latini

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    precedenti il IV secolo, in cui vediamo concentrate le diverse istanze cui alludono Orazio, Persio o Marziale. L'esempio piì1 antico, da Ossirinco, è un frammento di un foglio di pergamena di piccolo formato, contenente il cesto di un'opera storica altrimenti ignota Sulle guerre macedoni, che alcuni hanno riferito alle Storie di Filippo di Pompeo Trogo (P.Oxy. I 30; Funari, 2.008, n. 3, pp. 45-78). La sua scrittura, definita un «mélange di elementi capitali e corsivi» (Ammiraci, 2.015, p. 44), trova punti di contatto con quella di documenti o cesti letterari su papiro rinvenuti in altri siti egiziani, come il rocolo delle Verrine P.land. v 9or; anche in questo prodotto si ritrovano, inolcre, alcri elementi tipici dei libri latini (cfr. supm, pp. 171-2.): gli interprmcta, per distinguere era di loro le parole, e il margine destro studiatamente irregolare, così da privilegiare la scansione del eesco rispetto all'omogeneità del layout. La datazione del codice, anche se non sono mancate proposte più basse, non va riferita a olrre il I-II secolo d.C.: è possibile, dunque, che il manoscritto fosse stato porraco in Egitto da un romano che rivestiva incarichi militari o civili, ma che il suo luogo di origine fosse un centro occidentale, o forse la stessa Roma ( Cavallo, Fioretti, 2.014, p. 47 ). I codici latini di età imperiale, come intravediamo dagli schizzi poetici di Marziale, potevano raggiungere anche un livello qualitativo più alto. A un periodo posteriore di qualche decennio rispetto al P.0"'-1'·I 30 va riferito il testimone pii'.1amico delle Notti Attiche di Gellio, un codice pergamenaceo, ora nella Biblioteca Vaticana (Pal. lac. 2.4, f[ 72., 79, 80, 82.-85, 87-99. 102.-121, 129-176; CLA I 74; Fioretti, 2016, pp. 16-2.9), vergato non oltre l'età severiana in una città dell'Occidente. Il manoscritto è sopravvissuto in parte solo perché molto tempo dopo, nel VII o nell'vm secolo, alcune sue pagine furono reimpiegate, assieme a quelle di altri orto codici latini amichi e di un codice greco, per trascrivere diversi libri del Vecchio Testamento; non sappiamo, cuccavia,dove avvenne l'allestimento del palinsesto (un elemento che aiuterebbe a comprendere meglio anche la scoria dei man~riali "cannibalizzaci" per realizzarlo): forse nell'abbazia benedettina di Lorsch, nella valle del Reno (Bischoff, 1974, pp. 104-5), dove il manoscritto rimase per secoli, forse in un centro dell'Italia meridionale (Lowe. 1972., p. 486). Il codice di Gdlio era arcicolaco in quinioni. Ogni pagina comprendeva due colonne. ciascuna di 13 righe piuttosto coree e alce (le lettere sono alce quasi I cm), con ampi margini e ampi spazi interlineari: con queste dimensioni. per contenere turca l'opera, sarebbero occorsi quasi 2500 fo-

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    gli, divisi in circa 2.50 fascicoli. Per trascrivere il resto venne impiegata una "capitale rustica",vergara «da una i:nano espertissima in modo preciso e rigoroso» (Cavallo, Fioretti, 2.014, p. 35); conosciamo anche il nome dello scriba che lo trascrisse: Corea, che si firma in una sottoscrizione apposta in origine al centro di una pagina, ora solo a stento visibile in un margine dell'arcuale f. 173v/I72.r. Si rrarcava, dunque, di «un'edizione monumentale di notevole pregio, prodotta da una bottega di altissimo livello professionale per una committenza facoltosa» (Fioretti, 2.016, p. 22). Ma il codice, probabilmente, non fu mai ultimato. L'opera di Gellio conteneva infatti ampie citazioni di cesti greci, che nei fogli superstiti risultano non trascritte: al loro posto ci sono degli spazi vuoti, destinati evidentemente a essere riempiti, in un secondo momento, da un copista diverso, specializzato in quel tipo di scrittura, che però, non sappiamo per quale morivo, non ebbe mai modo di intervenire. Il suo valore estetico, in ogni caso, doveva esserecosì impressionante da garantirne comunque la sopravvivenza per secoli, prima di essere destinato al reimpiego. Il Gellio non è l'unico esempio superstite di quest'amica produzione romana di codici di ottima qualità libraria. Allo stesso periodo del Pal. lat. 2.4 è stata riferita la scriptio inferior di un altro palinsesto vaticano, il Reg. lar. 2077 (CLA I 115; Pellegrin, 1978, pp. 499-502.), allestito nell'ultimo quarto del VI secolo usando un manoscritto che conteneva in origine almeno la seconda orazione Contro Verre di Cicerone' 8• Per quanto meno sontuoso del Gellio, il codice di Cicerone era vergato in una capi raie rustica comunque frutto della mano di un copista esperto, e il testo era disposto su due colonne per pagina (ciascuna di 21 righe), e abbellito da accorgimenti quali l'uso di iniziali ingrandite. Anche questo codice, inoltre, aveva una struttura fascicolare articolata e condivideva con quello di Gellio un particolare significativo: la prima e l'ultima pagina di ciascun fascicolo si aprivano e chiudevano con un foglio bianco, la cui funzione era quella di proteggere la parte interna, un elemento che si può spiegare bene solo se in entrambi i manoscritti i fascicoli erano concepiti per rimanere sciolti, senza legatura. Una simile pratica - attestata anche in ambito greco, come si è visto - si ritrova, nella produzione latina, anche per i secoli successivi: a fascicoli sciolti e dorati di una pagina iniziale bianca erano probabilmente il codice di Nepoce donato da un Probo all'imperatore Teodosio II, ricordato in un carme di dubbia interpretazione dell'Anthologia Latina (Pecere, 2015, pp. 131-5) e, dopo ancora, il codice parigino con i carmi di Prudenzio (Par. lar. 8084; CLA v 57ia; inizi VI sec.). L'assenza di legatura non era

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    dunque frucco di arretratezza, ma di una scelta ben precisa, forse dettata dalla volontà di trasferire nella dimensione del codice espedienti concepiti per la protezione di cesti ali' interno di un rocolo, come gli àgrapha iniziali e finali (Fioretti, 2.016, pp. 2.3-4). Questa suggestiva convergenza tra allusioni letterarie e reperti superstiti spinge a proiettare il codice in una prospettiva temporale più ampia di quanto il solo esame dei materiali librari provenienti dall'Egitto lasci intravedere, e di collocarne le prime fasi di sviluppo nel cuore dell'Occidente, a Roma. Qui evidentemente, già prima dell'età severiana e forse anche di quella anconina, il codice si era configurato come un contenitore testuale perfezionato sotto il profilo materiale, e caratterizzato da un'organizzazione strutturale al tempo stesso articolata e flessibile, cale da renderlo adatto a veicolare tipologie testuali diverse, che spaziavano da documenti, pastiche e appunti alla buona fino a copie di opere letterarie alla moda, e rispondere così a esigenze diverse - annotare testi in fieri e conservare opere nella loro forma definitiva -, con una sovrapposizione di piani ben discinti nelle tradizioni scrittorie di ascendenza greca, dov'era più netta la distinzione era supporci funzionali a una testualità compiuta e definitiva (in primis il rocolo) e supporci per annotazioni o stesure provvisorie. Le edizioni "da viaggio" descritte da Marziale con malcelato orgoglio, i quadernetti di Persio e le colonne ampie dei manoscritti di Gellio e Cicerone appaiono così come le componenti di un processo nell'ambito del quale l 'escecica ellenistica del rocolo, del "libro bello': si era progressivamente integrata con l'eterogeneità che caratterizzava sin dalle origini le pratiche scrittorie latine, e che in ambito documentario non era mai venuta meno.

    L'affermazione del codice Il codice, dunque, proprio come il rocolo, non è un'invenzione realizzata in un singolo momento, ma il punto di arrivo di un processo diffuso, frutto di un'osmosi coscance era Occidente e Oriente. Le fasi iniziali di questo processo, con la trasformazione di polittici irregolari in fascicoli fatti di materiali accuratamente lavorati per accogliere facilmente un'ampia tipologia di testi scritti a inchiostro, sono inattingibili. Possiamo solo desumere che questa innovazione ebbe inizio a Roma, e che già in età augustea, presumibilmente, doveva aver preso piede. E non

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    è possibile ricostruirne appieno nemmeno le tappe successive di diffusione, e in particolare le modalità mediante le quali il nuovo supporro, e le pratiche di scrirmra a esso correlare, si affermarono nella parre orientale dell'impero, largamente permeata di cultura greca. Non dobbiamo pensare, in ogni caso, che l'affermazione del codice letterario abbia seguito un andamento omogeneo. Nel favorirne la diffusione ebbero sicuramente un ruolo le diverse dinamiche della romanizzazione, e del processo più generale di trasformazione e ibridazione degli stili di vita nei territori entrati a far parre dell'impero. Alcuni fattori locali, inoltre, dovettero incidere nel determinare tendenze specifiche, soprattutto per quanto riguarda la scelta del materiale: è facile immaginare, ad esempio, che in un paese come l'Egitto, dove il papiro era molto comune, codici di pergamena stentassero più che altrove a imporsi, negli usi scrittori quotidiani, e che la pergamena invece fosse recepita molto più facilmente in cerri ambienti microasiatici (si pensi ancora ai riferimenti di Galeno a diphthemrcon raccolte di ricette provenienti proprio da Pergamo), e soprattutto nelle province occidentali. Sotto questo profilo, pretendere di ribaltare, senza filtri adeguati, su una prospettiva generale le tendenze ricostruibili dalla sola documentazione greco-egizia rischia di rivelarsi falsante; e dovremmo anche chiederci se alcune tendenze che appaiono "localistiche" non riflettano in realtà un andamento normale in ::tlrre zone dell'impero: ad esempio, la maggior frequenza con cui ad Anrinoupolis si incontrano codici di pergamena potrebbe riflettere un più forre legame, rispetto ad altre città, con regioni o ceneri in cui il materiale, erano più ampiamente diffusi, quali la Palestina, o anche Roma e l'Italia in generale. Se queste considerazioni hanno un fondamento, è inevitabile restringere il rilievo di alcuni elementi, di matrice "tecnologica", ancora largamente presi in considerazione per spiegare il morivo del!' affermarsi del codice sul rotolo (cfr. ad esempio Harnett, 2017, per quanto corredato da raffinare analisi statistiche, o Boudalis, 2018, p. 6). In particolare, sarebbe ridurtivo soffermarsi troppo sull'eventuale maggiore economicità del codice. Al di là della frequenza e della facilità con cui i rotoli venivano riutilizzati, e del fatto che per realizzare un codice in pergamena poteva rendersi indispensabile scuoiare molti animali, con un costo non cerro esiguo, i primi codici, alla luce degli scudi più recenti, non lasciano trasparire necessariamente uno sforzo per risparmiare sul materiale scrittorio: il Gellio vaticano, anzi, era un manoscritto "d'apparato", in cui la monumenralirà della scrittura era esalrara dalla presenza di ampi margini bianchi, e, come notato da

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    Theodor Skear, molti codici papiracei dei Vangeli mostrano un'impaginazione cale che il resto in essi contenuto sarebbe potuto essere copiato anche su un rocolo senza usare una quantità maggiore di materiale scrittorio (Skear, 1995, p. 9l). Anche sotto il profilo della maneggevolezza, il codice non rappresentava sempre una scelta migliore di un rocolo: un manoscritto di centinaia di pagine, di ampio formato e legato all'interno di pesanti piatti di cuoio o legno, comportava comunque un cerro impaccio, per un lettore non del tutto motivato. Allo stesso modo, andrebbe valutata in termini più misurati anche l'incidenza di un altro fattore di indole pratica spesso invocato, ossia la possibilità di ritrovare più facilmente un passo all'interno di un'opera. se si considera che i codici più antichi non mostrano alcun paratesto specifico volto a rispondere a questa esigenza (un argomento considerato invece centrale, ad esempio, in Harris, 1991b). Come sintetizzato da Cavallo con la consueta efficacia, tutte queste appaiono come «motivazioni che hanno potuto giocare soltanto un ruolo complementare ora più ora meno importante» (Cavallo, l004b, p. 83; cfr. anche Roberts, Skeac, 1987, pp. 45-53). Dietro il meccanismo che determinò l'affermarsi del codice vanno ricercate motivazioni più profonde e meno appariscenti, frutto di un intreccio di fattori di ordine sroricoculcurale e sociale. Un primo elemento da prendere in considerazione è il ruolo giocato dalle prime comunità cristiane, che adottarono subito il codice come supporto d'elezione per i propri resti dottrinali, al livello basilare dei fedeli di pi11umile estrazione fino a giungere agli intellettuali più raffinati' 9 • I reperti egiziani mostrano con notevole efficacia l'ampiezza del fenomeno. Per il II e III secolo disponiamo già di almeno 1ol codici cristiani, mentre i rotoli sono appena 27 (oltre a un certo numero di frammenti di tipologia libraria incerta), tra cui il più antico è un piccolo frustulo contenente un resto patristico non identificato, in una maiuscola studiatamente arrotondata dei primi decenni del II d.C. (PSI XI 1200 bis). Una diffusione così subitanea ha indotto alcuni studiosi a cercare una causa immediata e univoca del fenomeno. Si è pensato, così, che le prime comunità cristiane fossero state influenzate, nella predilezione accordata al supporto, da un singolo libro particolarmente autorevole: secondo Colin Robercs e Theodor Skeac, ad esempio, la scelta potrebbe essere stata dettata dal facto che Marco avrebbe scritto il suo Vangelo su un codice di pergamena (Roberts, Skeat, 1983, pp. 54-61); Harry Gamble ha prdèriro pensare, invece, aUa prima edizione delle epistole di Paolo (Gamble, 1995,pp. 58-66). l\,[a è possibile,

    IL LIBRO NEL MONDO ANTICO

    piuttosto, che la scelta fosse il portato delle dinamiche stesse con cui si era formato il nucleo più antico degli scritti cristiani, nel passaggio da una fase originale di tradizione aurale a una prima fissazione in « forme di notazione scritta inevitabilmente parziali e discontinue [... ] che non si fa fatica a immaginare trascritti su supporti scrittori quali il notebook, ovvero il blocco di fogli di papiro o pergamena ripiegati a formare un piccolo fascicolo» (Crisci, 2005, p. 104). Il codice "romano", adatto a recepire al tempo stesso, come si è accennato, testualità compiuta e in fieri, rappresentava la tipologia libraria più adeguata per un corpus di scritti di quesco tipo, fluidi sotto il profilo formale ma contenutisticamente ben compiuti, anche solo per la loro natura di parola rivelata. E la rransnazionalità delle comunità cristiane ne poté garantire da subito un'adozione e una circolazione omogenea, a cavallo tra Roma, Alessandria e l'Oriente. La preferenza accordata a questa forma libraria rifletteva anche caratteristiche intrinseche delle pratiche culturali delle comunità cristiane: «la forma "a pagine"», ha osservato Cavallo, « si prestava meglio a una lettura ripetitiva e di riferimento», come quella connessa con testi sacri ( Cavallo, 1989, p. 72.9 ). La sua scelta si ammantò da subito, così, di una sorta di colori cura ideologica: il codice venne avvertito, dai primi cristiani, come uno dei simboli della propria cultura, basata su valori diversi da quelli pagani (Cavallo, 2010, pp. 11-2). Al tempo stesso, gli intelletcuali cristiani seppero da subito valorizzare al massimo le caratteristiche di questo supporto anche per diffondere strumenti testuali concepiti per raggiungere una migliore comprensione delle Scritture o per renderne più agevole lo studio, a ogni livello. Origene (185-254), che operò tra Alessandria e Cesarea, sfruttò appieno il formato del codice per realizzare un progetto filologico e dottrinale ambizioso e visionario: gli Hexapla, un'edizione della Bibbia in cui erano affiancati, in colonne parallele, l'originale ebraico, una sua traslitterazione in greco e quindi le traduzioni di Aquila, Simmaco, dei Settanta e di Teodozione, così che il lettore potesse avere di fronte agli occhi cucci i diversi modi in cui la parola di Dio era stata espressa e interpretata (Grafcon, Williams, 2011, pp. 29-132). Gli Hexapla occupavano almeno 40 codici di 800 pagine ciascuno; la loro realizzazione comportò uno sforzo editoriale immenso, reso possibile solo dalla generosità di Ambrogio, ricco protettore di Origene a Cesarea, che mise a sua disposizione le risorse finanziarie per allestire un'équipe di copia vera e propria, che comprendeva, secondo la testimonianza di Eusebio, «più di sette tachigrafi che si alternavano a ore

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    stabilite e un numero non inferiore di copisti, come di ragazze esperte in calligrafia» (Eus., Hist. ecci.VI 2.3, 1-2, trad. F. Migliore; Crisci, 2.008, pp. 61-3). Al di là della loro importanza filologica e dottrinale, gli Hexapla ebbero sicuramente anche il merito di mostrare la raffinatezza e la complessità che la produzione libraria cristiana aveva raggiunto. E nonostante l'opera fosse troppo impegnativa per essere largamente copiata, codici allestiti secondo una logica esaplare, ossia affiancando cesti diversi della Bibbia su più colonne, continuarono a essere prodotti, in una pluralità di ceneri orientali, fino almeno agli inizi del x secolo, come mostra un palinsesto custodito a Milano, presso la Biblioteca Ambrosiana (O 39 sup.), la cui scriptioinferi01·contiene una sezione dei Salmi concepita proprio secondo questo criterio. Nei decenni seguenti i successori di Origene, a Cesarea, continuarono a conciliare ricerche testuali e innovazioni editoriali, per mettere a disposizione dei cristiani un armamentario esegetico sempre più raffinato, contribuendo alla progressiva stabilizzazione della forma del codice come unico formato librario adatto alle Scritture. L'innovazione principale furono i kanones,le tavole di concordanza, introdotti da Eusebio (265-340), vescovo di Cesarea e consigliere dell'imperatore Costantino, in un momento in cui il Cristianesimo si apprestava ormai a diventare la religione piìt diffusa dell'impero (Grafton, \Villiams, 2.001, pp. 175-2.2.4). I kanones erano un apparato paratescuale concepito per consentire, mediante un sistema di rinvii, di confrontare un passo di un Vangelo con la versione presentata dagli altri ere. Per sortire questo effetto, Eusebio aveva suddiviso i Vangeli in brevi sezioni numerate (dalle 355 di Matteo alle 2.32.di Giovanni, il Vangelo più breve); le diverse sezioni, quindi, erano elencate in dieci tavole iniziali, che fornivano le concordanze era passi paralleli in cucci i Vangeli, e passi che si ritrovavano solo in tre o in due di essi; una tavola conclusiva conteneva un elenco di passi privi di paralleli. Nelle edizioni dei Vangeli corredate dalle tavole ogni passo viene dotato del numero con cui era stato contraddistinto da Eusebio e di quello del pinax in cui era elencato, così da renderne agevole l'individuazione. L'aggiunta di questo strumento paracesruale, frutto di ricerche specifiche ma pensato per un pubblico di lettori trasversale per istruzione ed estrazione, contribuì a rendere il codice cristiano uno strumento universale ed ecumenico, capace di riadattarsi per accogliere cesti in cuccele lingue in cui la parola di Dio sarebbe stata tradotta nel corso dei secoli.

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    Ma rutto questo non si accompagnò, nemmeno in ambito cristiano, a una rinuncia al rotolo o al suo materiale più tipico, il papiro. Al contrario, questo supporto, nel corso di cutto IV secolo e più sporadicamente era V e VII, continuò a essere usato, soprattutto per opere patristiche e cesti dottrinali più ambiziosi sotto il profilo letterario (Crisci, 2005, pp. 107-13). Del resto, ancora Girolamo ricorda che, da giovane, si era svuotato le tasche per comprare, ad Alessandria, gli scritti di Origene, contenuti in ch,1rtae, presumibilmente rotoli di papiro (ep. LXXXIV 3; Cavallo, 20046, p. 119). E questa coesistenza tra i due supporti, nella prima fase della produzione libraria cristiana, traspare anche dalle testimonianze iconografiche. In un sarcofago trovato a Roma, nella chiesa di Sanc'Agnese fuori le Mura, e databile agli anni intorno al 370 d.C. Cristo viene raffigurato nei panni di un maestro, con in mano un codice aperto, e accanto, per terra, una capsa piena di rotoli di papiro, aggiunta come segno cangi bile della sua sapienza (Zanker, 1997, pp. 336-9, fig. 198), e giustificabile solo all'interno di un sistema culrurale in cui i supporti librari non avevano un valore idencitario esclusivo. Ancora secoli dopo, sui mosaici voluti da Giustiniano per decorare l'interno della cattedrale di San Virale, a Ravenna, Cristo, troneggiante sulla sfera azzurra del mondo, impugna un rocolo, accuratamente sigillato, e i santi e i profeti effigiati sulle navate e le lunette stringono indifferentemente era le mani rotoli o codici. Persino gli evangelisti potevano essere raffigurati mentre scrivevano, magari sotto dettatura di un angelo (FIG. 51), su rotoli di papiro, come in una miniatura del grande codice purpureo dei Vangeli a Rossano, realizzata nel VI secolo riprendendo schemi iconografici più amichi (ivi, pp. 362-5, fig. 214; Speciale, 2018-19). La scelta dei cristiani, dunque, ebbe un impatto fondamentale, ma, da sola, non sembra bastare a render ragione di un processo che richiederebbe una spiegazione storica di carattere più generale. Il superamento del rotolo e del sistema librario su di esso incenerato va legato ai rivolgimenti profondi che, nel corso della tarda ancichicà, cambiarono profondamente la fisionomia sociale del]' impero, cui si accompagnò un fenomeno definito da Samo Mazzarino "democratizzazione della cultura" (Mazzarino, 1974, pp. 74-98). A partire già dall'età dei Severi, e fino ad arrivare al riassetto voluto da Diocleziano, una parre sempre più larga dei ceci urbani medi o abbienti era stata chiamata ad avere un ruolo nei meccanismi amministrativi che regolavano il funzionamento dell'impero. In un mondo dominato dalla retorica - incesa come capacità di esprimere i concetti nelle forme giuste -

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    51 L'evangelista Marco in una miniatura del CodexpurpureusRossm,emis(c. 2..pr). © Museo Diocesano e del Codex di Rossano. Su concessione Mie. Divieto di riproduzione

    partecipare alla macchina amministrativa, anche nei suoi livelli inferiori, richiedeva l'acquisizione non solo di un saldo alfabetismo, ma anche di alcune competenze letterarie di base; persino un funzionario addetto a incarichi di scarso rilievo doveva probabilmente avere qualche familiarità con esercizi "per principiami': che in molte zone potevano essereacquisiti anche presso modesti grammatici: non a caso, per la tarda antichità, si è parlato di un processo di littérarisation di parte importante della produzione documentaria (una formula coniata da Fournet, 2004, a partire dal caso specifico della petizione). Tutto questo determinò un incremento della produzione libraria (studiare anche solo le basi della retorica era impossibile, senza una consuetudine con alcune opere "classiche"come i poemi omerici o i discorsi di Isocrate), nell'ambito del quale si verificò anche, in modo più circoscritto, un aumento della richiesta di opere di

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    carattere tecnico, strumenrali all'apprendimento di materie particolari, destinate a individui chiamati a servirsi della scrittura per lo svolgimento delle proprie mansioni ma dotati di un currirnlum di studi parziale. Un simile processo contribuì a determinare un superamento del1'«essenza aristocratica della cultura classica», per riprendere ancora un'espressione di Mazzarino (ivi, p. 83), che aveva nel "sistema del rotolo" il suo corrispettivo materiale. Per lo spettro ampio delle nuove esigenze, diversamente connotate, il codice "romano" costituiva una risposta altrettanto funzionale, con il vantaggio di un'intrinseca maggiore versatilità. Ed è singolare che la nuova forma libraria finì con il rappresentare un elemento unificante anche nel momento in cui Oriente e Occidente cominciarono a percorrere, proprio sotto il profilo delle dinamiche culturali, percorsi sempre più divergenti (Cavallo, 2002, pp. 31-+7). La percezione di questa diversa prospettiva, nella produzione libraria, si affermò diffusamente nel corso del IV secolo. Intorno al 330 l'imperatore Costantino decise di incrementare la dotazione libraria delle chiese della sua nuova capitale, Costantinopoli; a questo scopo scrisse una lettera a Eusebio, per ordinargli di curare l 'allestimento di cinquanta Bibbie, in forma di codice, usando la migliore pergamena e scegliendo i copisti più esperti, così da produrre, in tempi rapidi, copie al tempo stesso eleganti, facilmente leggibili e maneggevoli (in greco eumetakomista, lett. "ben trasportabili"; Eus., Vita Const., IV, 36-n ). Costantino chiese libri di nuova concezione, in cui l'eleganza monumentale, indispensabile per qualsiasi prodotto frutto di una richiesta imperiale, si declinasse in forme consone a una religione che nel libro aveva il suo fondamento, e che di libri aveva bisogno per i suoi rituali quotidiani (Ronconi, 202xa, pp. 135-9). Anche se la maggior parte dei codici amichi di Costantinopoli è ormai perduta, riusciamo comunque a intravedere come dovessero esser fatti i libri presentati all'imperatore. Due codici biblici, assegnaci ai decenni centrali del IV secolo, mostrano infatti un incredibile livello di perfezione formale, che traspare dalla scrittura in cui sono vergati, una maiuscola biblica nitida ed elegantissima, dalla qualità della pergamena, dall'attenzione alla mise en page: il codice Vaticano della Bibbia e il codice Sinaitico, custodito nel monastero di Santa Caterina del Sinai fino al 1844, quando Konstantin von Tischendorf ne portò via la quasi totalità delle pagine superstiti, contribuendo a una dispersione dei fascicoli del manoscritto era la British Library, a Londra, e altre biblioteche, 0 (FIG. 52).

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    2 Una pagina dal codice Sinaicico (Bricish Library, Add MS 43725). Tue Bricish Library 3oard - Pubblico dominio

    \Jon conosciamo il luogo in cui i due manoscritti siano stati copiaci: era le 'arie possibilità si è pensaro all'Egitto e alla Palestina, e Skeac ha suppoco addirittura che entrambi appartenessero proprio al lotto delle Bibbie ·ealizzace per Costantino (Skeac, 1999). Anche se questa ipotesi è lungi lall 'essere dimostrata, ed è probabilmente da relegare a mera suggestione cfr. da ulcirno Orsini, lo19, pp. 75-6), i due codici si qualificano come 1 frucco di una committenza libraria di alrissimo livello. Il Sinaicico, in >articolare, colpisce per il suo aspetto imponente. Accualmence ne so>ravvivono 400 fogli, di formaro ampio e quasi perfeccamence quadrato circa 38 x 34 cm), regolarmente raggruppaci in quacernioni. In origine, uccavia, dovevano essere quasi il doppio, così da contenere cucco il Vec:hio Testamento, nella traduzione dei Settanta, e il Nuovo Testamento, :on l'aggiunta di due opere successivamente escluse dal canone cristiano,

    2.54

    IL LIBRO NEL MONDO

    ANTICO

    l'Epistola di Bttrn,zba e il Pastore di Ermtl. Per la sua fabbricazione furono impiegate, secondo un calcolo attendibile, le pelli di almeno 365 animali (capre, forse, o montoni). Il lavoro di trascrizione fu suddiviso tra un gruppo di scribi (gli studiosi sono incerti se distinguere tre o quattro mani: cfr. Milne, Skeat, 1938; Jongkind, 2.013; Bacovici, 2.017) di notevole abilità, che scelsero di disporre il testo su + colonne per pagina, ognuna di 48 righe: in questo modo, il lettore veniva a trovarsi di fronte a una vera e propria trasposizione del la_youtdel rocolo su un formato librario diverso e pit1 monumentale ancora. i\fa la volontà di superare le forme tradizionali del libro e proiettarle in un orizzonte diverso emerge ancora di pit1 da un esame degli elementi distintivi e del sistema paratestuale. Nel Sinaitico non si ritrovano pm-dgmphoi o altri segni di ascendenza ellenistica. A1 lettore, tuttavia, viene garantita la possibilità di orientarsi nella successione di narrazioni, riflessioni, immagini in cui si dipanava la parola del Signore, mediante un raffinato mix di vacai e iniziali in èisthesis (senza alterare troppo l'armonia delle colonne), che rappresenta a sua volta il riadattamento, in un contesto grafico di estrema eleganza, di espedienti usati, in precedenza, soprattutto in prodotti librari informali, o addirittura in ambito documentario (cfr. supra, pp. 2.09-11); a volte, inoltre (specialmente nei Salmi), sono usate, allo stesso scopo, anche rubricature distintive. Mani ulteriori, in un arco cronologico difficile a precisarsi, hanno aggiunto, oltre ad annotazioni varie, segni specifici, come riflesso di attività di studio e collazione sistematica del testo; ma anche questi appaiono come rielaborazioni dei diacritici impiegati dai grammatici ellenistici, quasi a voler marcare visivamente la specificità di pratiche di studio tipicamente cristiane. Lo sforzo di superamento della tradizione emerge, ancora, dalle titolazioni. I fogli iniziali e quelli finali sono ormai perduti: non sappiamo dunque se ci fossero titoli complessivi, o un colophon. Nella parte superstite, a ogni modo, è ben visibile un sistema articolato di titoli interni, aggiunto a ogni libro del Vecchio e Nuovo Testamento. La posizione preminente è rivestita dai titoli finali, che risultano impostati secondo una logica del tutto sovrapponibile a quella del rotolo: sono infatti preceduti da una coronide, che si prolunga a volte fino a trasformarsi in una sorta di cornice, e vengono "amplificati" da un ridondante agraphon finale. Oltre a essi troviamo, tuttavia, anche titoli iniziali, aggiunti in modulo più piccolo al di sopra della prima colonna di ogni libro, e titoli correnti, ripetuti sul margine superiore del recto di ciascun foglio.

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    Gli scribi che hanno allestito il codice preferirono contare i fascicoli, piuttosto che le pagine, ma aggiunsero diligentemente anche la numerazione prevista dalle tavole di concordanza eusebiane, fino alla sezione 106 (Luca, 9, 61). Il Sinaitico appare così come il segno tangibile della diffusione di una nuova estetica del libro, alternativa a quella del rocolo e perfettamente funzionale a nuove pratiche di lettura, nuovi lettori, nuove esigenze culturali, frutto di trasformazioni profonde nei meccanismi di produzione, fruizione e circolazione dei cesti letterari. Nel giro di pochi decenni testi e memorie prima affidati al rocolo cominciarono a essere trasferiti su questo nuovo formato, e i loro contenitori originari furono sempre più frequentemente gettati via: così Girolamo, nel riferire gli sforzi di Acacio ed Euzoio per riportare al passato splendore la grande collezione di libri che Panfilo aveva allestito presso la chiesa di Cesarea, afferma che quella biblioteca fu finalmente "rinnovata in pergamena" (Ep.34.1, ed. Hilberg, p. l6o; cfr. anche De vir. ili. 113,ed. Richardson, p. 51; Grafton, Williams, 2011,pp. 209-10). Il cambiamento del paradigma librario incise profondamente sulle modalità di trasmissione dei "classici" greci e latini, determinando aggregazioni di materiali in origine separaci, alterando la fisionomia di generi letterari concepiti entro coordinate ormai lontane, imponendo rigidi meccanismi di selezione prima impensati. Una "resistenza pagana•: portata avanti in forme diverse, ma sempre come nostalgica battaglia di retroguardia, da esponenti dell'aristocrazia senaroria in Occidente come in Oriente, si tradusse anche in sforzi concreti per dotare le grandi opere del passato di forme librarie adeguate, imponenti graficamente e corrette sotto il profilo testuale. Il codice della Pharsalia di Lucano ora smembrato era Napoli e Vienna (CLA III 39l), riutilizzato a Bobbio nell'v111 secolo per copiare testi patristici e grammaticali, è uno dei primi esempi di questo tentativo, che proseguirà con costanza per tutto il v secolo, a opera di personaggi provenienti dagentes illustri come Quinto Aurelio Simmaco (Cavallo, 20046). Ma accanto a queste imprese editoriali riusciamo a intravedere, nel dipanarsi della tarda antichità, la sopravvivenza, nonostante la progressiva contrazione del pubblico di lettori, di un circuito informale di circolazione libraria cui erano destinate anche copie di opere sempre più ai margini della cultura ufficiale. Così, in un angolo dell'Egitto un gruppo di persone, legate forse da vincoli di amicizia o di studio, si ingegnava per sottrarre all'oblio alcune commedie di lvlenandro, un commediografo destinato comunque a essere

    IL LIBRO NEL MONDO

    53 Un frammcnco di un codice cardoancico di .Menandro (P.Koln Koln, Papyrussammlung

    ANTICO

    vm 331). © Univcrsicac

    dimenticato nel giro di qualche secolo. Il codice a cui affidarono i loro sforzi (P.Bodm. 4 + 25 + 26 + P.Koln vm 331; cfr. FIG. 53)si rivela molco basilare, socco il profilo strutturale (i 32 bifogli superstiti sono organizzati a fascicolo unico), e poco accurato sotto il profilo grafico, ma le mani che si alternano nella trascrizione mostrano di collaborare strettamente l'una con l'altra (Orsini, 2015, pp. 64-5), cercano di rimediare a errori particolarmente evidenti, aggiungono segni per indicare chiaramente l' alternanza delle battute e identificare i diversi personaggi. Il paratesto superstite si limita a titoli finali inseriti in colophon circondati da goffe cornici, senza le tradizionali indicazioni sticometriche. Non sappiamo quale fosse l'origine dell'antigrafo (degli antigrafi?) del manoscritto, né entro quale milieu collocare il suo allestimento e la sua fruizione {resistenza pagana? assimilazione "cristianà' dei cesti del passato? genuina curiosità erudita scevra da sovrastrutture ideologiche?). Codici di questo tipo, a ogni modo, contribuirono in modo determinante alla

    DAL ROTOLO

    AL CODICE

    2.57

    sopravvivenza dei sogni poetici del passato, nonostante il disinteresse delle nuove istituzioni starali. Il Menandro della collezione Bodmer appare intriso, così, di un valore simbolico non inferiore a quello del Sinaicico. In cuccie due si avverte il sentore della fine dell'antichità, e dell'inizio di un modo nuovo di conservare la memoria.

    Note

    I

    La Charta Borgiana e la riscoperta dei libri dei Greci e dei Romani 1. Racconci su papiri e libri antichi ridotti in cenere da incolti contadini egiziani perdurano ancora agli inizi del xx secolo, trasformandosi alla fine in una sorta di topos in cui affiorano tracce di un mix di emocentrismo e nostalgia del colonialismo, che tende a vedere ogni scoperta di nuovi tesori testuali come un "salvataggio": Nongbri ( 2018, pp. 116-7), a proposito della scoperta di una serie di importanti papiri biblici (P.Beatty ), che secondo la testimonianza di Arthur Boak, direttore degli scavi americani a Karanis, sarebbero gli unici frammenti superstiti di una collezione più ampia, data alle fiamme dai locali. 2.. Lo stesso atteggiamento si può cogliere in altre opere d'arte in cui l'amore provava a immaginare come fossero fatti i libri antichi: si pensi ad esempio al Rimztto di filosofo emico dipinto da Luca Giordano (1634-1705). 3. Le indicazioni sui supporti epigrafici, ad esempio, sono fornire in parte nel libro r, in parte nel II, mentre le informazioni sulle modalità di utilizzo della cbart,zpapyracea sono divise tra il capitolo I e il capi colo 2. del libro r. +- Uniw tamen libri Ptzpyrei Graece so-ipti ,zdmodum tenues et exesae reliquiae supersunt in Bibliotheca sancti lvlartini Turonensis (al problema della fabbricazione della papyms Aegyptiaca è dedicata tutta la prima parte del capitolo 2. del libro I, pp. 1+-7). L'erudito fa riferimento ai frammenti di un codice papiraceo databile al VI-VII secolo, contenente sermoni attribuiti a Efrem il Siro, ora custodito presso la Bibliothèque nationale de France, con la segnatura Suppl. gr. 1379,come comunicato durante il XXIX Congresso internazionale di papirologia (tenutosi a Lecce, il 18 luglio-3 agosto 2.019) da Gabriel Nocchi Macedo, che ne sta curando l'edizione. 5. In particolare, in Moncfaucon (1719, pp. 599-600), si fa cenno a un antico codice di papiro concenence i Vangeli custodito presso il tesoro di San Marco, già scarsamente leggibile nel XVIII secolo. La sua menzione mostra bene quanto poco familiare fosse il papiro agli eruditi del Settecento. Dopo lvioncfaucon, il manoscritto venne esaminato da Scipione Maffei (1717, p. 79), che giunse a una conclusione del tutto

    2.60

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    diversa: il materiale scrittorio, proprio in quanto deteriorato dall'umidità (sic!), non poteva essere papiro (il codice era infatti «guasto dunque inreramenre [... ] e insieme conglutinato dall'umido: il che non a,·viene al papiro»). ma un qualche tipo di carta e la sua età, dunque, doveva essere molto più recente. E tuttavia nessuno dei due aveva ragione. Il manoscritto, infatti, può essere identificato con un codice descritto, qualche decennio dopo la visita di Monrfaucon, da Iacopo Morelli, custode e poi direttore della Biblioteca :Marciana dal 1778 alla sua morte, nel 1819 (carte Morelli, mss. riserva 73, cc. 188r-2.oovnuova numerazione): un evangeliario latino in semionciale, di cui a Venezia è conservata solo una parte, ormai del tutto deteriorata, mentre un'altra parte, meglio conservata, è custodita a Cividale del Friuli (:Museo Archeologico Nazionale, cod. Cividale CXXXVIII; CLA m 2.8;; VI sec. d.C.). i\1a questo amico cimelio, così venerabile da essere talvolta portato in processione come una reliquia contro la pesce, è in realtà in pergamena (per la sua storia cfr. Scalon, Pani, 1998, pp. +-6 e 358-64). 6. Non è chiaro quanti siano i rotoli distrutti: secondo Capasso (1991, p. 68), andarono perduti tra 30 e 50 rocoli; cfr. anche Longo Auricchio et al. ( 2.02.0,pp. 54-5). 7. Nella Prima lettem (§§ J05-116,ora \X'inckdmann, 1993, pp. 11+-9) \X'inckelmann contesta, inolcre, molte teorie manifestamente infondate avanzate da eruditi suoi contemporanei, come Martorelli o Alessio Simmaco j\1azzocchi, uno dei primi membri dell'Accademia Ercolanese, con i quali pure aveva rapporti di stima: ad esempio l'idea che presso i Greci non esistessero libri in forma di rotolo(!) o che i rocoli di Ercolano contenessero in realtà soltanto documenti, o addirittura che fra di essi figurassero cesti in lingua osca o sabina. 8. Devo queste indicazioni a Nikola Bellucci, che ha individuato la copia originale dell'opera nella Biblioteca Apostolica Vaticana e ne sta curando l'edizione; cfr. intanto Bellucci (2.019). 9. Di questa serie, indicata come collectioprior, furono pubblicati, tra il 1793 e il 1855, 11 volumi, in cui è possibile leggere la prima edizione di 19 papiri; sulle prime vicende editoriali dei rotoli ercolanesi cfr. Longo Auricchio et al (2.02.0,pp. 75-98). 10. È singolare che nella sua prima edizione il rocolo fosse definito todex Aegyptiacus (Lewis, 1832.):nei primi decenni del XIX secolo anche i filologi non avevano ancora chiara la distinzione tra i due supporti. 11. Un punto di partenza per ricostruire le fila di queste vicende intricare e appassionate si può leggere in sintesi magistrali come quelle di Turner (2.002., pp. 37-60); Cuvigny (2.009); Parsons (2.019,pp. 2.9-58). 12.. Un ruolo pionieristico fu svolto, in questo campo, dai francesi, che sin dal 1880 si dorarono di un punto di riferimento "sul campo", l'lnsticute français d'archéologie orientale (IFAO; Vercoutter, 1981); nei decenni successivi scesero in campo, in forme diverse, anche inglesi, con l'Egypt Exploration Fund (Turner, 2.007; Parsons, 2.019), e tedeschi, prima con il Deucsches Papyruskartell (Martin, 2.007 ), una sorta di "associazione" di istituti di ricerca tedeschi specificamente orientata all'acquisizione di papiri, nata nel 1902.-03per impulso di Ulrich von \Vilamowitz-Moellendorf,

    NOTE

    poi ( 1907) con la creazione di un onnicomprensivo Deutsche lnstitut fiir agyptische Altertumskunde, affiliato nel 192.9 con il Deutsches Archaologisches lmtitut (Polz, Dreyer, 2.007 ). L'Italia, infine, si dotò nel 1908 di una Società italiana per la ricerca dei papiri, diventata nel 192.8Istituto papirologico "G. Vitelli" (Bastianini, Casanova, 2.009). 13. È significativo che di tutte le campagne condotte da Grenfell e Hunt non soprav-

    viva nessuna indicazione topografica precisa; per la sola Ossirinco possiamo contare su una pianta "di servizio", con l'indicazione appena visibile di qualche struttura antica ( «edge of ruins»; «corinthian capicals») e qualche elemento topografico significativo per motivi insondabili ( «palm» ), e di un'alcra più dettagliata, realizzata nel 1908 da Bernhard Vernon Darbshire, su cui sono segnalacipunti ben precisi, contraddistinti con un numero, ma senza una legenda che possa consentire di identificarli (Coles, 2.007, rispettivamente figg. 1.8 e 1.9; cfr. anche Ciampi, 2.009). 14. Gruppi cospicui di materiali testuali ancora inediti sono stati rinvenuti, per fare solo alcuni esempi, negli scavi di Tebcynis (Gallazzi, 2.018,pp. 156-60), Antinoupolis (Pintaudi, 2.017), Narmouchis (Bresciani, 1999-2.000), e dei pmesidi.i del Deserto orientale (Cuvigny, 2.003); e l'elenco porrebbe agevolmente prolungarsi. 2

    Nlateriali e supporti: dalle tavolette alla pergamena 1. Nozze di Enlil e Sud-Nini!: Civil (1983); Pminaro (1994, pp. 33-4, citazione del passo a p. 33), ETCSL (Elecrronic Text Corpus of Sumerian Licerature), 1.2..2.;inno B a Lipir-Ishtar: ivi, p. 34, ETCSL, 2..5.5-2.;Elogiodell'artedell,1scritttmz:ivi, pp. 34-5; Hurowirz (2.000). 2.. Bresciani (1969, pp. 151-7, citazioni rispettivamente pp. 152.e 156). 3. Bricish Museum, inv. EA9994; Lichrheim (1976, pp. 168-75); cfr. Bresciani (1969, pp. 300-2.3). 4. Menzionata almeno nella ravolerca Nbn. 42.9 di Sippar: MacGinnis {2.002.,p. 2.18). 5. Jeffery (1990, pp. 2.36-7 [Kyme 18)); Guarducci {1967, pp. 2.2.8-9,n. 7)- entrambe considerano il reperto come un'importazione da Cuma. L'iscrizione superstite sulla tavoletta può essere dunque considerata come l'alfaberario più antico sia greco che etrusco. 6. Tavolette cerate di varia foggia sono relarivamenre ben attestate nell'iconografia funeraria; alcuni esempi si possono vedere in urne cinerarie da Volterra, quali quelle al Museo Guarnacci, inv. 49 e 12.6 {Cristofani, 1977, rispettivamente: nn. 64 e 163). 7. Atene, Museo Nazionale, inv. 4470; il catalogo del Museo identifica con una cavolecca l'oggetto proteso al defunto solo in modo dubitativo, ma il suo aspetto rende la proposta molco plausibile. 8. Achens, Acropolis Museum inv. 144, 146, 62.9. Cfr. Payne, Macl·worrh-Young (1950, p. 47, pi. 118.1); Hurwic (1999, p. 58). Solo la statua Acro. 144 ha ancora le mani

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    integre, con la tavoletta chiaramente distinguibile: negli altri casi la sua presenza va integrata, anche se in modo del mero verosimile. 9. T,imùzi: Raubicschek (1949, pp. 10-12.,n. 6); Keesling (2.003, pp. 180-5): katalogheis: Sickinger (1999, p. 56): chmmologor:Shapiro (2.001, pp. 6-8): bibliagraphoi: Caroli (2.011),cui si rimanda, più in generale, per una rassegna completa di cucce le attribuzioni finora proposte. 10. Le conseguenze della scarsa affezione di Eracle verso lo scudio sono plasticamente raffigurate dai ceramografi attici, che calvolcadipingono il semidio mentre è intento a seminare il panico nella sua classe, arrivando persino a percuotere Lino, il suo malcapitato maestro: è quello che vediamo, ad esempio, su una kylix a figure rosse da Vulci, dipinta incorno al 480 a.C. (ora a Monaco, Ancikensammlungen 2.646; Beazley, 1963, p. 437, n. 12.8),ma il morivo si ritrova, declinato in varie forme, in un numero più ampio di reperti (documentazione in Beck, 1975, nn. 2.6-2.9). 11. Herod. VII, 2.39,3 (=Degni. 1998, n. 41). 12.. Herod. VIII, 135,3 ( = Degni, 1998, n. 42.). 13. lsocr. 17, 2.0-2.6(= Degni, 1998, nn. 61-3); Demosch. 45 (Collfm Leoch.), 12.-13 (=Degni, 1998, n. 31). 14. Depositare le accuse: Ariscoc.,.,Jth.resp.48, 4-5 (=Degni, 1998, n. 13); registrare testimonianze rese in tribunale: Demosch. 46 (xxx), 11(= Degni, 1998, n. 34); Anciph. 1, 10. 15. Ariscoph., Nub. 18-2.4( = Degni, 1998, n. 7 ). 16. Debitori pubblici: Ariscoc.,.,/th. resp.47, 2.-4(= Degni, 1998, nn. 11-12.):cavalieri: Ariscoc., Ath. resp.49, 2. ( = Degni, 1998, n. 13); efebi: Ariscoc., Ath. resp.53, 4 ( = Degni, 1998, n. 16); membri del!' ekklesia:Demosch. 44 ( ContraLeoch.), 35-41 ( = Degni, 1998, nn. 2.7-2.9 ). La pratica di annotare su cavoleccagli elenchi dei vinci cori agli agoni e dei caduti in baccaglia (successivamente esposti anche epigraficamente) si può dedurre da una pluralità di cescimonianze: Del Corso (2.002.),pp. 180-1. 17. IG I' 476, rr. 2.89-2.91.Nell'iscrizione viene usato il termine antigraphon, da intendersi, appunto, con il valore specifico di "copia ufficiale", come ad esempio già in Arisc., Pol v, 1309a. 18. Gli esempi più amichi risalgono già alla metà del III secolo a.C., come le tavolette da Diospolis un tempo della collezione Anascasy, SB I 1178,3937 e 3938, ma il supporto è impiegato anche nei secoli successivi (sa xvm 13910, 116 a.C.). Cfr. in generale Vandorpe (2.009). 19. Quattro tavolette: T.Borély inv. 1564-1567(m-Iv sec. d.C.; Cribiore, 1996, n. 389) e T.Varie 43-50 (fine VI sec. d.C.; Cribiore, 1996, n. 407 ); otto tavolette: P.Kellis IV 96 (il "Kellis Agriculcural Account Book": Bagnall, 1997); nove cavolecte: Bodl. Greek Inscr. 3018 (dall'Oasi Maggiore; Parsons, 1971); dieci tavolette: T.Varie 51-70 {Cribiore, 1996, n. 408) e T.Berol. inv. 14000 {Cribiore, 1996, n. 404); 2.0. Nel corpuseterogeneo di tavolette custodite nella Biblioteca Apostolica Vaticana il legno più diffuso risulta il tasso, seguito dal pioppo, ma è attestato anche l'impiego di cipresso, castagno e faggio: T.Varie, pp. 2.04-6.

    NOTE

    21. Riferimenti in Whicc:horne {1994, p. 277). Anche l'Isocrate P.Kellis lii 35 era composto da otto cavolecce di acacia e una nona ricavata da un altro albero, probabilmente un salice; le prime occo cavolecce,inoltre, erano ricoperte di gomma arabica, mentre: la nona di gesso bianco: \Vorp, Rijksbaron {1997,pp. 11-6). 22. La "House 2" nella pianta in Bagnali (1997, fig. 2, e cfr. anche pp. 8-11;Worp, Rijksbaron (1997, pp. 23-4). 23. Il polittico con registrazioni contabili è scacoscritto era il 361e il 364 oppure tra il 376 e:il 379 (Bagnali, 1997, p. 14); poichc: la mano che lo ha vergato ha forti somiglianze ( e forse coincide) con una di quelle che ha trascritto l'Isocrate, anche questo secondo polittico va assegnato allo stesso periodo. Non è possibile stabilire il momento dell'abbandono della "House 2", ma i documenti più cardi in essa rinvenuta non sono databili oltre: il 383-384 (ibid.). In tal caso, i due codici avrebbero avuto un utilizzo di circa un decennio, prima di essere presi in considerazione per un eventuale reimpiego, che però, per motivi che non conosciamo, non ebbe luogo: un arco temporale molto breve se si considera che libri (formali e informali) potevano essere conservati anche a distanza di secoli. 24. Molti reperti di questo tipo sono stati rinvenuti, ad esempio, ad Antinoupolis: si pensi alle tavolette: al Louvre, inv. AF 11931 e AF 6713 (Boyaval, 1971,n. II, pp. 60-1, e III, p. 61), a PSI XVI 1617 e a quella edita in Del Corso, Pintaudi (2017,n. 2, pp. 546-9), tutte rift:ribili al v o VI secolo d.C. Esercizi scolastici avanzaci,di varia indole:,si possono leggere su molti reperti, come ad esempio nel "quaderno" di Papnoucis (fine VI sec. d.C.; T.Varie 43-50). 25. Pluc., Q}taest. conv. v, 675b (l'erudito si affida all'autorità di un accidografo dd calibro di Polcmone d'Ilio per corroborare il suo racconto: C. 1-liiller,FHG, III p. 12.3, n. 27); cfr. Cape! Badino (2.014). 2.6. Per il ve il IV secolo a.C. gruppi particolarmente interessanti di defissioni sono stati rinvenuti nel cimi cero ateniese del Ceramico e in diverse località della Sicilia, era cui spicca la città di Selinunte; cfr. Jordan (1985; 2000a), con Gager (1992.)e, per i cesti da Selinunte, Beccarini (2005). Per le defissioni latine cfr. Urbanova (2.018). 27. Ne è dimostrazione la presenza di segni tipici della scrittura su papiro come la coronide (cfr. infitZ,pp. 152-3). Edizione dell'archivio in Costabile (1992.);cfr. Boffo (1995, pp. 121-3). 28. Tra le attestazioni più antiche si segnala l' òstrakondi Khirbet Qeiyafa (1100-1000 a.C.), contenente una serie di indicazioni moraleggianti per chi fosse responsabile dell'amminimazione della giustizia: Misgav, Garfinkel, Ganor (2.009); Achenbach (2012). Nei secoli successivi il supporto viene impiegato per un ampio spettro di cesti di natura documentaria, era cui lettere, liste di nomi, ricevute, oltre che per scopi didattici, a quanto mostrano le testimonianze superstiti, era cui spiccano gli oltre cento ostmka rinvenuti a Samaria (rx-vm sec. a.C.), e gruppi minori di testi provenienti da vari siti della Palestina; cfr. almeno Lemaire (1977; 2012.);Noegel (2.006). 29. La pratica di scrivere su òstmkon è accescaca,in ambito fenicio, sin da prima ddl'ecà ellenistica; olcre ad alcuni rinvenimenti egiziani (Driver, 1976, P· 108) si

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    segnalano i testi trovati negli anni Novanta del xx secolo in un palazzo adibito a funzioni amministrative nell'isola di Cipro, assegnati al V-IV secolo a.C.: Hadjicosti (1995; 1997). 30. Testi magico-sacrali: SEG XXX 975-976, discussi in Bravo (2.000-01, pp. 149-62.); una lettera, relativa a un'ispezione a luoghi sacri fatta per ordine di un magistrato, si può leggere:in SEG XLII 710, su cui cfr. Bravo (ivi, pp. 162.-4;2.ou, p. u9; riproduzione in Vinogradov, Rusjaeva, 1998, Taf X, 2.c). ;1. Lang (1990, nn. 110, 308, ;u, 468, 652.-653;fine vi-fine V sec. a.C.): il n. 468 è stato realizzato da un pittore professionista che ha lasciato consolidare in forno la vernice, mentre gli altri sono vergati da mani informali. 32.. Tra i vari esempi di messaggi cfr. ad esempio Lang ( 1976, B1 e 82., V sec. a.C.); liste di nomi si possono leggere ivi, 025, VI sec. a.C., e C32.,IV sec. a.C.; un.1lista di oggetti di notevole interesse, infine, è in ivi, B14, in cui viene menzionato un rotolo di papiro (v-1vsec. a.C.; Caroli, 2.016). 33. Elenchi di soldati: O.Claud. Il 309-356 (vigiles) e 388-408; consegne:: O.Claud. Il 304-308, O.Krok. I 117 e O.Flor. 2.4 e 2.6 (relativi alle attività della cohors I August,z Praetoria Lusitianomm Equitata, di stanza a Comrapollinis Maior); parole d'ordine: O.Krok. 12.1-12.8. I testi da Mons Claudianus e gli O.Fior. sono riferiti alla metà del Il secolo d.C. (O.Claud. II 304-308 più precisamente alla primavera del 150 d.C.), mentre quelli da Krokodilo a qualche decennio prima. Quadro generale in Maxfield (2003). 34. Una selezione di lettere private, scritte da soldati o da persone che gravitavano attorno ai forti, si può leggere in O.Claud. I, Il e IV ( cfr. in particolare O.Claud. IV, 848863, II sec. d.C.) e in O.Krok. I (11 sec. d.C.); quadro complessivo in Fournet (2003, pp. 468-500 ). A Krokodilo, inoltre, su ostraka circolava parte significativa della corrispondenza del crmztor, il "comandante" del forte (O.Krok. I 64-81; età antonina) e il supporto era impiegato anche per copie di documenti quali le circolari inviate dal "prefetto del deserto" al "comandante" (O.Krok. 1 41-59, circolari di Arrorio Priscilla. 109 d.C.) e per redigere elenchi della corrispondenza ufficiale in ingresso nel forte (O.Krok. I 1-4, 108 d.C.), che in ogni caso era affidata soprattutto al papiro e a tavolette cerate (se bisogna così intendere il termine diplomata; O.Krok. 1, p. 12). 35. Ad esempio, è possibile leggere chriae su O.Claud. 11 413 (età di Adriano o Antonino Pio) e SB I 5730 ( CPF 11.2,CHR 10, I sec. d.C.), e sempre a un ostrakon è affidato il più amico svolgimento di una gnome: O.Berai. inv. 12138(111sec. a.C.; Fernandez Delgado, Pordomingo, 2010 ). 36. PSI XIII 1300 (inizi Il scc. a.C.), contenente Sapph., fr. 2 v. Si è pensato che l' òstrakonpotesse essere stato scritto sotto dettatura da uno studente (Burzacchini, 2.007, pp. 90-3), ma pare poco probabile che per un esercizio come la dettatura fosse impiegato un testo in dialetto eolico; la mano dello scrivente, inoltre, non lascia trasparirealcun elemento "scolastico". 37. Materiali preparatori in vista della redazione di antologie sono ben testimoniati per un periodo che va dagli inizi del III secolo a.C. fino all'età imperiale avanzata; tra

    NOTE

    2.65

    i v.ui esempi si possono ricordare almeno CPR XXXIII(seconda metà del m sec. a.C.) e P.Oxy. LIV 372.4 (1 sec. d.C.). 38. I cesti letterari ritèribili all'archivio sono P.Berol. inv. 12.309-12.3ne 12.318-12.319; cfr. Clarysse (1983, p. +8); Del Corso (2.02.0, pp. +6-7); la silloge è considerata invece di natura scolastica in Pordomingo (2.013, pp. 40-1). 39. P.Berol. 12.309 = Suppi. Hell 975; Pap. Fior. XXI, pp. 2.59-65. 40. Diod. Sic. 11, 32., 4 = FrGrHist C 688 F 5, rr. 12.-2.0;Del Corso (2.003, pp. 9-n). 41. 1èuchos nel significato di "rocolo" è attestato anche nellaLettem di Aristea (179); cfr. Georgoudi (1988, pp. 2.42.-3). 42.. Crisci (1996, pp. 162.-70). I cesti letterari sono editi in Rapin, Hadot, Cavallo (1987); sul frammento pergamenaceo cfr. inoltre Nocchi Macedo (2.018, pp. 335-7), mentre sul papiro filosofico cfr. da ultimo Lerner (2.003) e CPF 11, 1··, pp. 3-13. Attualmente dalla Battriana sono noci 2.7 ostmka greci, tutti provenienti dal palazzo di Ai Khanum: Rapin (1983, pp. 319-+7). 43. Si tratta dei cesti 4Q119, 4Q12.1, 4Q12.2. e 4Q12.6; Nocchi .Macedo(2.018,pp. 337-40). 44. lvi, p. ,37. Non a caso, un libro del Vecchio Testamento (i Profeti Minori) è trasericeo anche in 8 Hevx11gr, l'unico altro frammento di rocolo letterario greco su pergamena proveniente dalla Palestina, più precisamente dalla "Grotta degli Orrori" di Nahar Hevel; anche in questo caso, il dato è tanto più significativo se si pensa che nelle grotte del sito sono stati rinvenuti finora almeno alcri 55 cesti greci, di natura documentaria, tutti su papiro. 45. I materiali di provenienza egiziana sono discussi in Nocchi Macedo (ivi, pp. 32.7-33); su P.Anc. 1 2.6 cfr. Del Corso (2.015, pp. 7-9). 46. Si tratta in particolare di P.Dura 3 (glossario a Il 1v, Il sec. d.C.; Bellucci,2.013)e 10 (Diatèssaron di Taziano, 11-111sec. d.C.). P.Dura 3 viene definito «possibly a roll» in Nocchi Macedo (2018, p. 334), mentre P.Dura 10 è considerato codice in Crisci (1996, p. 335), rocolo in Charlesworch (2016, p. 26) e rocolo o codice in Nocchi Macedo (2.018, p. 335).

    3

    Il papiro e la manifattura del rocolo 1. Si tratta in particolare di documenti dalla necropoli di Saqqara, risalenti agli inizi dell'occupazione macedone: un biglietto con alcuni conci (ss XIV 11963) e una sorca di cartello, affisso per impedire l'accesso a un'area sacra, per ordine diretto di Peucesta, generale macedone in quel momento al comando dell'esercito in Egitto (ss XIV 11942.). Entrambi questi testi si possono riferire al periodo immediatamente successivo all'arrivo dei Macedoni (331 a.C.). Il primo documento recante una data esplicita è un concracco di matrimonio rinvenuto a Elefantina e stipulato nel 310 a.C. (P.Elcph. 1). 2.. P.Mur. 17, un papiro trovato nel Deserto di Giudea, ere volte palinsesto: cfr. Milik (1961, pp. 93-5); in generale, Driver (1976, pp. 79 ss.).

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    3. La testimonianza più spesso citata rdati\'a all'impiego di rocoli di papiro da parte degli Assiri è data dagli affreschi di Til-Barsib: Pricchard (195+, nn. 2.35,367, 2.36); Del Corso (2.003, p. 2.0). 4. Significativo, ad esempio, un frustulo rin\'enuto a Malta, in località Tal Vircu, contenente un'invocazione alla dea Ishcar (Gouder, Rocco, 1975). 5. Figure del genere sono ben attestate, invece, nel Vicino Oriente. In un cesto sumerico noto come E11merk,11·e 1/signore di Amtt,1, ad esempio, l'invenzione della scricrura su tavolette d'argilla viene attribuita al re di Uruk, che desiderava tramettere al \'icino "signore di Aracea"messaggi privi delle inevitabili storpiature associate a forme di trasmissione orale (Pettinato, 1994, p. 39). 6. Oltre a P.Tebt. m.1 709, l'unica altra fonte è rappresentata da SB XII 11078 (incorno al 100 a.C.): Lewis (1973; 1974, pp. 123-7 ). Sulle produzioni locali "clandestine" cfr. in particolare P.Tebt. III.I 709, r. 14 (con le indicazioni in Lewis, 1974, p. 12.6). 7. Sulla tecnica di sfilettamento e di costituzione delle philpae cfr. le diverse ricostruzioni di Hendriks (1980; 1984); Lewis (1989, pp. 193-4); Capasso (2005, pp. 71-83); Dorandi (2017, pp. 84-7 ). 8. L'erudito, invece, non prende in considerazione un altro parametro, e cioè l'altezza del rocolo, un particolare che ha sollevato molte perplessità: Johnson ( 1993). 9. P.Oxy. XXIV 2.42.3, r. 2.6; registrazioni di acquisto di carne alle rr. 3 (1 dracma e mezzo), 18 (1 dracma e I obolo), 27 (1 dracma, 2.1oboli e un quarto).

    4

    Dal rocolo "commerciale" al rocolo "librario" 1. li termine, tuttavia, può indicare anche uno scriba specializzato nella redazione in bella scrittura di documenti pubblici: cfr. ad esempio Cic., Phil. 2., 8 e 10, 5;

    leg. III, 48.

    Cfr. RE XIX, 2, s.v. Phanias 4. 3. Strumenti per rendere la superficie del rocolo più levigata sono attestati anche per l'Egitto faraonico: si craccavadi pesrelli dalla superficie ampia e piatta, facci di legno o avorio, attestati sin dal Medio Regno (Pinarello, 2.015, pp. 78-9 ). 4. La "maison GD 59" (quartiere Skandhana) di Delo ha restituito olcre 5.000 si2.

    gilli, apposti originariamente su documenti sericei su papiro, probabilmente tra il 128-127 e il 69 a.C.: Boussat (1988, con indicazione di altri rinvenimenti analoghi alle pp. 307-8). A Seleucia sul Tigri scavi italiani hanno porcaro alla luce un archivio ufficiale, bruciato nc:ll'ulcimo quarto del 11 secolo a.C., che, a giudicare dai sigilli rinvenuti, comprendeva olcre 24.000 testi, in origine di natura fiscale (lnvernizzi, 1972; 1973-74; 2.003). Per un periodo più cardo, disponiamo della bibliotheke di Mendes, odierna Thmouis, da cui provengono centinaia di rotoli, per lo più carbonizzati, con registrazioni fiscali e cacascali (Blouin, 2014, pp. 37-70). S· Philochor., FGrHist 328 F 2.19;la notizia ritornava anche nella vita del poeta scritta da Satiro: cfr. P.Oxy. IX u76, fr. 39, col. IX.

    NOTE

    6. Così sono raffigurati ad esempio, gli scribi effigiati nei rilievi dalla Mastaba di Akheceps (2.400 a.C.), da Saqqara, ora conservati al Louvre (Ziegler, 1993). 7. Un leggio compare ndla parte superiore del rilievo ellenistico che raffiguraiJpoeta ~-fenandro intento a comporre, al di sopra di un tavolino su cui fanno bella mostra di sé due maschere teatrali e un rotolino (cfr. infi-a, p. 140); un leggio «di legno d'abete» viene ricordato da Marziale, XIV 84 ( Ca passo, 2.005, p. 96); e infine, è possibile che un leggio sia presente anche in un celebre rilievo scolastico di età imperiale, concepito per adornare un monumento funerario da Noviomago (Trier, Rheinisches Landesmuseum. inv. N.M 180 ). Qui troviamo sulla scena quattro personaggi: un maestro, intento a spiegare, due studenti che lo ascoltano, con lo sguardo fisso su rocoli di papiro, e un terzo studente, in piedi in un angolo, che evidencemenceè appena arrivato, in ritardo, e saluta imbarazzato. La scena è ricca di dettagli realistici, dagli schienali delle sedie alle calzature, e non sorprende individuarne uno relativo anche alle condizioni di lettura: lo studente alla destra del maestro non regge direttamente con le due mani il rotolo, ma può avvalersi, per tenerlo fermo, di un supporto, di cui si vede ormai solo il margine sinistro, e che prevedeva una sorca di bordo rialzato, forse per evitare che il corpo del volumen potesse scivolare (qualcosa del genere si trova dd resto anche sul leggio del rilievo di Menandro). La mano sinistra del ragazzo non tocca direccamente il rocolo, ma il supporto su cui è aperto; la destra, purtroppo, è caduta via, con tutta la seconda parte del rotolo: non sappiamo dunque quale fosse la posizione esatta di lettura (inquadramento archeologico del rilievo in Schwinden, 1992. e Franchi Viceré, 2.006; per l'esegesi della scena nell'ambito delle pratiche scolastiche antiche, fondamentale Scramaglia, 2.010, p. 118). 8. Ad esempio, Filippo di Tessalonica, AP VI 62., 1 parla, letteralmente, di un «pezzetto di piombo arrotondato [kykloterèmòlibon],segnalatore del margine delle colonne». 9. Il righello compare in tutta la "serie" di epigrammi dedicatori di materiali scrittori, AP VI 62.-68. Un uso complementare della "rondella di piombo" e del righello viene ricordato dagli epigrammacisti più cardi, abituati a scrivereormai su codice, come Damocaride (età di Giustiniano; .AP VI 63) e Paolo Silenziario (morto nel 580;.dPVI 64-66). 10. Una strategia distintiva ben visibile, ad esempio, nel lungo "libro magico•PGMVII= P.Lond. I 12.1( caratterizzato, peraltro, da un utilizzo molto attfnto di segni distintivi: Martin Hernandez, 2.015). 11. Ps.-Diog., Ep. XXXIII I Hc:rcher (Puglia, 1997, pp. 86-7). 12.. Dorandi (1983); Puglia ( 1997, pp. 99-105), che insiste sulla mancanza di una distinzione vera e propria craglutinatores e librarii. 13. Turner (1987, p. 16); tra i vari esempi si pensi a P.Oxy. XVIII 2.161(Eschilo, Diktyoulkoi, I I sec. d.C.; cancellature segnalate da tratti obliqui al di sopra delle lettere da espungere); P.Oxy. IX 1174 (Sofocle, Jchneut,ie,II sec. d.C.; cancellature mediante puntini); P.Oxy. XXIV 2.387 (Alcmane, Pm·teni, I sec. a.C.-1.sec. d.C.; lettere mancanti aggiunte mpm lineam tra puntini); P.Oxy. xv 1789 (Alceo, I sec. d.C.; lettere aggiunte mpm lineam tra puntini).

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    14. Gal., de ind. 19. Una lacuna impedisce di individuare la biblioteca descritra dal medico: forse quella nella villa imperiale di Anzio (Houston, 2014, p. 2.48), forse un'altra, sica a Roma {Coardli, 2012, pp. 469-70 pensa alla scrurrura nei pressi della chiesa di Santa Maria Antiqua, era il foro e la domus T,berùma).

    s Formaci e standard editoriali del rocolo di papiro 1. Cfr. ad esempio un frammento di pisside al ì\foseo Nazionale di Arene, inv. 19636 {Beazley, 1971,p. 479, n. 91bis; Del Corso, 2003, p. 77 e tav. 6c), e un'altra pisside, di una collezione privata, della metà del IV secolo (Trendall, 1967, p. 695; Del Corso, 2.003,pp. 67-8 e tav. 6a). 2.. Ad esempio nell'k>•dria a Londra, British ì\.[useum Ei90 (Beazley, 1963, p. 611, n. 36; Od Corso, :1.003,p. 65 e ca,·.3e). 3. P.Sorb. I 4, alto 12,5cm con colonne di 24 righe, larghe 8 cm. Se in origine il rotolo avesse contenuto Il. XI e XII {1319versi), sarebbe stato lungo almeno 4,40 metri {Blanchard, 1993,p. 38). Sul problema dell'accorpamento di più libri omerici in uno stesso rotolo cfr. almeno Lameere {1960, pp. 34-53); \X1est {1967, pp. 18-2.5);Schironi {2010, pp. 41-4); Cavallo, Del Corso {2012, pp. 35-8). 4. È il caso di un altro rocolo della Sorbona {inv. 2.245), alto 17 cm e con colonne larghe 18 cm {compreso l'intercolunnio). ll papiro conteneva quasi certamente Od. IX e X, e, stando ancora una volta a Blanchard (1993, p. 38), avrebbe raggiunto i 9 metri di lunghezza. 5. Per Ai Khanum cfr. il testo filosofico in CPF II, 1··, pp. 3-13(cfr. supm. p. 78); per Ercolano significativo risulta soprattutto il P.Herc. 1413 (Epicuro, Sulla natum); cfr. Del Corso (2.015,pp. 9-10). 6. Entro questo raggio può essere ricondotta anche la lunghezza di rotoli recentemente ricoscruici, filodemei, come il P.Herc. 142.7 (Ret01ù,1, libro I; 15 metri; cfr. Nicolardi, 2018, p. 84), o non filodemei, come il P.Herc. 1149/993 (Epicuro, Sulla natura, libro II; 10-11metri; Leone, 2.012.,pp. 2.93-4). 7. Johnson (2.004), da cui sono desunte le considerazioni successive. In particolare, i dati sull'altezza dei rocoli sono desunti dalla tabella 3.6 e discussi alle pp. 141-3; per la larghezza delle colonne cfr. tabella 3.1 e pp. 101-13,mentre per la lunghezza dei rotoli cfr. tabella 3.7 e pp. 143-52.. 8. Cfr. ad esempio l'Euclide P.Oxy. I 2.9 (111-1v sec. d.C.), con colonne larghe 11,75 cm, o P.Oxy. LII 3667, contenente lo pseudoplatonico Alcibiade Il, di cui si sono calcolate colonne larghe 10,1cm (Johnson, 2.004, p. 172.,tabella 3.1). 9. BKT v.1, p. 75, n. VII 1 {con la frase menzionata) = v.2, p. 146, n. XXII 6. 10. P.Oxy. XV 1810 (1-11 sec. d.C.; De Robercis, :1.015,n. 2.): Olintiache 1-111, Filippica I, Sulla pace; P.Oxy. LXII 4314 + LXX 4764 (1-11 sec. d.C.; ivi, n. 3): OlintùlChe I-III; Filippica I. Cfr. ivi, pp. 2.5-7.

    NOTE

    1,. A quanto si può desumere dall'inventario di libri SB XXIV 15875= Otranto (1999, n. 16);Johnson (2004, p. 144). 12. Per Esiodo cfr. ad esempio P.Oxy. XLV 3llo ( Opere e Smdo ), e per Omero P.Oxy. XLVII 3323 (Iliade xv e xvi) e >,..-V1819( Odissea x e xn). Cfr. ivi, pp. 144-5. 13. Secondo una notizia risalente ad Eratostene (fr. 35P.) Tolomeo IV (ll1-w5 a.C.) gli Hist. xm, ll). avrebbe dedicato un tempio e riti processionali (cfr. anche Aelian., 1+. Su tutto questo, fondamentale Zanker (1997,pp. I06-68; più precisamente, per il ritratto di Mecrodoro cfr. p. 140, per il bronzetto da Montorio pp. 144-5 e infine sul rilievo di Menandro pp. 152-4). 15. Ed. de pret. 7, +o (la scrittura di seconda qualità è definicasequem scriptum I deutem gmphè). Turnt:r (1987, pp., e 2.3).

    va,:

    6 Paratesto e organizzazione

    testuale nei rocoli letterari

    1. Cfr. almeno Caroli (2007); Schironi (l010); Del Mastro (w14); Fioretti (2015); Most (l02.1); e i saggi raccolri in Fredouille et al (1997); Arcari, Del Mastro, Nicolardi (2017). 2. Atene,Arch. Mus. inv. 12.60;Beazley (1963,p. 1060, n. 145);Caroli (wo7, pp. 87-9). 3. Berlino, Staatl. Mus. inv. F 23ll; Beazley (1963, p. 329, n. 134); Caroli {2007, pp. 85-6). +· Cfr. almeno Sommerstein (2010, pp. 11-2.9)e Castelli (wlO, pp. 100-15).Turco questo, a ogni modo, non comportò un'assoluta coerenza nel percorso di trasmissiont: dei testi teatrali. Al di là di disomogeneità riscontrabili nei titoli di drammi giunti fino a noi attraverso la tradizione manoscritta medievale {come nel caso del!'Ippolito di Euripide, indicato ora come Ippolito incoronato ora semplicemente come Ippolito: ivi, pp. 130-8, con altri casi analoghi), l'elemento più rilevante è il "doppio titolo",con cui gli eruditi antichi indicano talvolca tragedie o commedie oggi per lo più perdute, come, ad esempio, frigi ovvero Il riscatto di Ettore, di Eschilo (TrGFm, pp. 364-70, F 163-2.72.), oppure Drammi ovvero Niobe di Aristofane, indicata anche come Dmmmi ovvero Il centauro (PCG m, 1, pp. 158-9, frr. 278-98), e calvolcaforse anche solo come Drammi (PCG 111, 2.,pp. 167-9, frr. 299-304). Le origini del fenomeno possono essere scace molceplici, da revisioni e riscriccure da parte degli autori dopo la messa in scena (Mureddu, Nieddu, 2015; Castelli, 102.0, pp. 1+0-4) a sovrapposizioni era notizie relative a drammi diversi o, in generale, perturbazioni nella trasmissione dei cesti la cui natura è di difficile ricostruzione. 5. Copia di queste sottoscrizioni si sono conservate nei P.Herc. u48, 1151e 1479/I417; Del :Mastro (2014, p. 35). 6. Cfr. \Vescerink (1981). Per alcuni dialoghi, a ogni modo, è attestato un doppio titolo, cht: secondo alcuni risalirebbe all'edizione allestita da Trasillo di Mende (1scc. a.C.), che per primo adottò il sistema delle tetralogie: cfr. Mansfeld {1994, pp. 71-+).

    270

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    7. Ad esempio, Erodoto II, 116cica //. \'I 2.89-2.92. affermando che i versi provengono dall'aristia di Diomede, ma questo episodio tradizionalmente viene facto coincidere con il libro\': Haslam (1997, p. 58). 8. Cfr. Poet. 15,10, 145+b: «la scena di Achille disarmato» (secondo il cesto stabilito da Gallavocci,1974). 9. Mare. gr. 483, f. 46v, secondo il cesto in Dindorf (1875, p. XL\'); Del Corso (2.017, p. 9, nota 38). 10. Isocr., Antid. 59, 5 (Turner, 2.004, p. 7 ); Hyper., p. 2.3 Blass, Jensen; Arisc., Rhet.III, 8, 6, 1409a. 11. Una coronide in forma di uccello, in particolare, è visibile sulla tabella 2.3( Coscabile, 1992.,pp. 2.74-5). 12.. 11filosofo fa riferimento alla difficoltà, in parcicolare, di di,1st1x,1i,··mettere la punteggiarura" all'opera (sj-ggmmma) di Eradico; cfr. almeno Tsancsanoglou (2.0076, p. 13,0). 13. Fioretti (2.015,pp. 184-5) mette giustamente in discussione la validità del concetto stesso di "titolo" per i libri in forma di rocolo, preferendo adoperare l'espressione, più corretta, di imcriptio libraria. Pur condividendo pienamente le osservazioni dell'autore, nella trattazione si ucilizzera ugualmente la parola "titolo" solo per amore di semplicità. 14. Le ragioni di questa peculiarità sono dibacrute: cfr. Schironi (2.010, pp. 2.2.-3); Castelli (2.017). 15. L'indicazione del numero cotale degli stichoi ~ quasi sistematica nei rocoli ercolanesi che conservano il "blocco titolo" finale mentre è meno frequente nei reperti greco-egizi. Si è suggerito che questo riflettesse pratiche librarie strutturalmente diverse: il computo sticometrico, in particolare, sarebbe tipico della produzione libraria di origine attica, cui i rocoli ercolanesi erano collegaci anche in virtù del loro contenuto, mentre la mancanza di questa indicazione nei rocoli greco-egizi rispecchierebbe una consuetudine di origine alessandrina: Obbink (1996, p. 63). Al di là dell'inevitabile deformazione ottica dovuta alla diversa distribuzione dei materiali (i papiri di Ercolano rappresentano un gruppo molto più com pacco, socco il profilo concenuciscico e cronologico, rispetto ai reperti greco-egizi), pare difficile attribuire a differenze culturali aspecci così specifici del lavoro artigianale di allestimento del libro. 16. Scriptura optima: Edictum Diodetiani de pretiis, vn, 39; scriptum libelli vel tabularum (la scrittura «di citazione o dei documenti legali», nella traduzione di Giacchero, 1974, p. 2.78,da intendere chiaramente come scrittura corsiva): Edictum Diocletiani de pretiis, VII, 41. 17. Cfr. tuttavia le indicazioni in Del Mastro (2.012.,pp. 46-7 ). 18. Una casistica completa di cuccele indicazioni concenutiscichc che potevano essere apposte all'inizio o all'esterno del rocolo è fornica da Caroli (2.007 ). 19. Casi sicuri: P.Herc. 2.2.2., 2.53,1008, 1457, 1583,1677, 1786, secondo le indicazioni di Del Mastro (2.014,p. 10).

    NOTE

    2.71

    2.0. Questi titoli sono definiti kata ton krotaphon, "lungo la parte esterna"; il termine frotaphos in riferimento al rotolo di papiro si ritrova in Sud,zx:2.478(anche se il lessicografo alJudeva probabilmente a rotoli contenenti testi documentari) cd è possibile indicasse «il retro o verso del rocolo nella sua parte iniziale o finale, a seconda che il papiro sia stato avvolto da destra a sinistra[ ...] o da sinistra a destra»: Menci (1997, pp. 4-5); cfr. Caroli (2.007, pp. 2.3-4). 2.1. Ricognizione delle attestazioni in Bastianini (1995,pp. 2.5-7)e Caroli (2.007,pp. 2.4-8). 2.2.. Esempi di sillybt1: P.Oxy. II 301, XXI\' 2.396,xxv 2.433,tutti assegnati al II secolo d.C.; cfr. Turner ( 1987, pp. 6-8). Per una discussione complessivasul termine e sulla sua ortografia oscillante e per uno studio analitico dei reperti superstiti si rimanda a Caroli (2.007, pp. 2.8-52.). 2.3. P.Strasb. W'G 2.340 (Bastianini, 2.001,p. 115); P.Hib. I 17. 24. Tebtynis, 11-111 secolo d.C.; Pordomingo (2.007,pp. 437-42): Fernandez Delgado, Pordomingo (2.008); Colomo (2.013,pp. 31-49). 2.5. Cfr. ad esempio P.Petr. II 49 (b) (m sec. a.C.), e, per un periodo posteriore, PSI II 151+ P.Mil. Vogl. VI 260 (m sec. d.C.): in entrambi i casi i numerali sono aggiunti da una mano diversa da quella del copista. 2.6. Elenco completo delle attestazioni (dieci rotoli con il computo finale delle colonne, tre o sei con l'indicazione del numero dei kollemata) in Del Mastro (2.014, pp. 29-30). 27. È possibile che il copista del rotolo abbia riprodotto la forma che la coronide a,•eva nel suo antigrafo, che in tal caso potremmo immaginare risalisseall'età tolemaica: Lulli (2009, pp. 150-1). 2.8. De ind. 14. Intendo qui {>~i,ta(1-hema) al posto del tradito XP~i,ta-ra (chrbnata), con Garofalo, Lami (2.012.,p. 14). 2.9. Tra le attestazioni papircee più antiche si segnalano P.Bagnall 37 (antologia di epigrammi, metà del II sec. a.C.) e P.Oxy. xv 1790 {Ibico, II-I sec. a.C.). 30. Su tutto questo cfr. Mazzucchi (1979); Turner, Parsons {1987,p. 11); Tsamsanoglou (2.007a, p. 132.3). 31. È quello che possiamo vedere, ad esempio, sull'urna inv. 78 del musco Guarnacci (Cristofani, 1977, n. 98) e forse anche su quella inv. 58 {ivi, n. 66, dove l'oggetto viene interpretato però come una tavoletta). 32.. Tito Livio, XL, 2.9,basandosi sulla testimonianza di ValerioAnziate, parla di sette libri relativi al diritto pontificale e altri sette in greco, di contenuto filosofico:secondo Plutarco (Numa, 22.), invece, che rimanda a sua volta ad Anziate, ilcorp11savrebbe compreso dodici «libri pontificali» e dodici libri filosofici in greco. Cfr. Manfredini, Piccirilli (1980, pp. 32.7-9,ad Plut.,Numa 2.2.): Willi {1998). 33. La datazione del rotolo è oggetto di dibattito, per via della presenza, sul vmo, di un testo in una corsiva greca assegnata da Grenfell e Hunt a un periodo molto posteriore, il v secolo d.C.; cfr. Ammirati {2.010,p. 38).

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    7

    Libri eruditi, libri illustrati, libri informali 1. Un esempio per tutti: P.Ox·y.xv 1808 (Platone, Repubblrn1, II-III sc:c.d.C.), su cui cfr. Del Corso (2.010a,pp. 88-90, forse copia utilizzata da un insegnante prima di una lezione incentrata proprio su quel passo del dialogo). 2.. Mare. gr. 483, f. +6v (Anecdotum Venetum ), in Dindorf (1875, p. XLIII); Dd Corso (2.017,pp. 9-10). 3. O.Berol. inv. 11999, 12.002.,12.007,12.008, 12.609,12.611,pubblicati in i\fau, Miiller (1960 ). Cfr., in generale sugli ostmka letterari tolemaici da Elefantina, Esposito (2.014). 4. Il livello qualitativo del PJohnson non è indicativo, naturalmente, di quello di meta la produzione: di libri illustrati di età tardoancica. Esisteva, al contrario, Ùn filone di alta committenza, nelle cui miniarure troviamo echi della migliore tradizione pirrorica di età ellenistico-imperiale: si pensi anche solranto, per restare nell'ambito degli erbari, alle splendide miniature: del "Dioscoride di Vic:nna",codice commissionato da Giuliana Anicia attorno al 512.d.C. (Vindob. Med. gr. 1). 5. Massimo Planude, sotto la cui guida fu realizzato uno dei testimoni medievali principali dell'opera, il Vaticano Urb. gr. 82., racconta che l'antigrafo utilizzato era privo delle carte geografiche, che lui fece disc:gnare appositamente sulla base delle indicazioni di Tolomeo. L'assenza delle carte è un'ulteriore dimostrazione della loro circolazione originaria su un supporto librario a sé stante (Lazaris, 2.017,p. 75). 6. La bibliografia relativa al papiro è impressionante. Per la resi della falsificazione cfr. almeno Canfora (2.008; 2.013)e Condello (2.011;2.018).Sull'autenticità del papiro cfr. invece i saggi in Gallazzi, Kramer, Settis (2.009; 2.012.)e Adornato (2.016), oltre a Parsons (2.009) e Elsner (2.02.0).Le indagini condotte da Spataro si sono concluse: con una richiesta di archiviazione per sopraggiunta prescrizione; durante il loro svolgimento non sono state disposre nuove consulenze, anche in considerazione dei relativi costi. La procura ha reso conto del proprio operaro, oltre che con gli atti dovuti, in un comunicato stampa del 10 dicembre 2.018,ripubblicaro sulla rivista "Quaderni di Storia", 44, 2.019,pp. 2.69-73;la notizia ha avuto ampia coperrura e rilievo su molri giornali (cfr. ad esempio Ottavia Giustetti in "la Repubblica", 3 gennaio 2.019,p. v1). Di recente, in ogni caso, il papiro, trasportato presso l'Istituto centrale per la patologia degli archivi e del libro, è stato oggetto di nuove analisi strumentali e di un nuovo restauro, documentati in Sebastiani, Cavalieri (2.02.0),dove però il problema dell'autenticità del reperto non è mai esplicitamente trattato.

    8 Dal rotolo al codice 1. La storia bibliografica di un argomento così complesso è oltremodo stratificata. Una presentazione sintetica delle diverse posizioni emerse nel corso di un dibattito ormai secolare si può trovare nelle principali sintesi sulla storia del libro antico e

    NOTE

    173

    in tutti i manuali di papirologia: cfr. ad esempio Capasso (2005, pp. 113-21);Agaci (2009, pp. 135-41);Johnson (2009, pp. 265-7); Cursi (2016, pp. 97-108). Punti di riferimento indispensabili vanno consideraci ancora Robercs, Skeac (1983); Blanchard ( 1989); Skeac ( 1994; 1997 ); infine Cavallo (20046 ), cui spetta il merito di aver enucleato l'importanza centrale del rapporto era produzione libraria e pubblico per spiegare le cause dell'affermazione del codice, e Cavallo (2010). 2. Le considerazioni statistiche sulla consistenza della produzione libraria cardoancica in Egicco, qui come altrove, si basano sul campione censito nel Leuven Database of Ancienc Books (LDAB, ultime queries effettuare nella primavera del 2021). Per una presentazione complessiva dei libri superstiti cfr. Cavallo (2002, pp. 31-47 e 85-175, per un periodo più ampio di quello qui esaminato) e, in particolare per i libri cristiani, Crisci (2.003a; 2.005); Bagnali (2008); Nongbri (2018). 3. Codicetti di papiro di questo tipo sono ben actescaci,in ambito scolastico, per i secoli successivi: cfr. ad esempio MPER N.S. IV 24 (Cribiore, 1996,n. 403; IV-V sec. d.C.) e P.Bouriant 1 (CPF 11.2,CHR 3, VI sec. d.C.). 4. Sul LDAB il codice è attribuito alla metà del 1v secolo, sulla base di una comunicazione per littems di Pasquale Orsini. 5. Charlesworch (2016, pp. 75-8), che assegna tuttavia il reperto al IV secolo d.C.; una datazione agli inizi del III viene sostenuta in Cavallo et ,zl.(1998, n. 14, E. Crisci), mentre al II-III pensano piuttosto Orsini, Clarysse (2.012,pp. 458 e 472.). 6. Darazione alla prima metà del IV d.C. in LDAB (Pasquale Orsini per littmzs ). 7. Per il III secolo d.C. la pergamena appare ancora, a Ossirinco, una scelta decisamente singolare. Su 101codici assegnari a quel secolo solo 4 sono pergamenacei, e cioè i P.Oxy. VII 1007, XI 1351(seconda metà del secolo: Orsini, 2005, p. 2.53),xv 182.8e LXXXIV 5420; di questi, inoltre, i primi tre contengono cesti cristiani (libri dell'Antico Tesramenco in P.Oxy. 1007 e 1351,e il Pt1st01·edi Erma in P.Oxy. 1828),mentre l'ultimo è impiegato per un'opera "pagana" come le Argonautiche di Apollonio Rodio. 8. Il più anrico codice pergamenaceo conrenenre una raccolca di ricette, P.Ox-y.LXXX 52.51,risale a non prima del III-IV d.C. 9. Le indicazioni fondamentali sulle modalità di manifattura della pergamena dalla carda anrichicà a cucco il medioevo si possono ritrovare in una pluralità di sintesi: Maniaci (2002a, pp. 40-4); Agaci (2009, pp. 64-75) Cursi (2016, pp. 108-u); per una descrizione particolareggiata sotto il profilo artigianale, per quanto incenerata su un periodo posteriore, cfr., inoltre, Goccscher (1993). 10. Tra gli esempi figurano, da Anrinoupolis, il Demoscene P.Anc. I 27 (ca. 18x 2.3cm) o l'Omero dal kom 1 (ca. 15,5x 18 cm: Minucoli, 2017b, p. 528), e, da Ossirinco, l'Antico Tescamenro P.Oxy. VII 1007 ( ca. 20 x 20 cm, se si considera che, senza margini, ogni colonna di scrirrura era alca 16,5cm e le due colonne leggibili su ciascuna pagina, affiancate, sono larghe 16,2.cm). 11. Ad esempio, le pagine del Tucidide P.Ant. I 2.5 misuravano u-12. x 14-15cm, menrre lo specchio scrittorio di P.Anr. 11 76 (Pindaro, Olimpiche) è stato srimaro in

    IL LIBRO NEL MONDO

    ANTICO

    circa 11,6 x 12.cm. Similmente, le Epistole di Giovanni P.Ant. I 12. misuravano circa 8,8 x 9,9 cm e l'Apollonio Rodio P.Oxy. LXXXIV 542.0 10 x 10 cm. 12.. III secolo: P.Ant. I, p. 2.4; 1v o forse inizi v secolo: Cavallo {2.005, p. 187); V secolo: Orsini, Clarysse {2.012.,p. 453). 13. Allo stesso codice sono stati riferiti anche i frammenti P.ì\·fagdalen Greek 17 {Thiede, 1995) e P.Monts. Roca IV 48, contenenti il Vangelo di Matteo; cfr. Skeat {1995), nonostante i dubbi di Thiede (1995, p. 13; che per,1ltro alle pp. 15-9, riferisce le parti superstiti del codice, in modo del tutto implausibile. alla seconda metà del I secolo d.C.). Cfr. Crisci (2.005, pp. 118-9 ); Nongbri (2.018. pp. 2.51-68). 14. Nel corso degli ultimi anni sono state avanzate definizioni diverse per indicare i codici contenenti una pluralità di testi, partendo dalle indicazioni di Petrucci {1986; 2.004), che per primo ha introdotto la categoria di codici miscellanei, suddivisi ulteriormente tra miscellanei organici e disorganici, a seconda che presentino o meno unitarietà di argomento. Marilena Maniaci, in particolare, ha proposto una tassonomia più articolata, in cui il codice viene definito "monoblocco" o "pluriblocco", sotto il profilo materiale, e "monotesruale" o "pluritesruale", da un punto di vista contenutistico, con mtte le possibili combinazioni (Maniaci, 2.004; Andrist, Canarr, Maniaci, 2.013). Sulla terminologia finora elaborata e, in generale, sulle questioni di metodo a essa sottese cfr. Ronconi {2.007, pp. 7-,2.). 15. Il problema della nascita e dell'affermazione del canone cristiano è ancora oggetto di un dibattito acceso: per una visione complessiva cfr. almeno Gamble (2.002.). 16. Ad esempio, stando a Orsini (2.003), P.Ryl. r 53 {m sec. d.C.; pergamena) e P.Amh. II 2.3 (III-IV sec. d.C.; pergamena) contenevano l'intera Odissea;P.Koln I 44 (visec.d.C.; papiraceo) era parte di un'edizione in due comi e PSIxrv 1381 {v1sec. d.C.; papiraceo) mostra infine una suddivisione dell'opera in tre comi. 17. L'oscillazione nelle formule di titolazione è discussa anche in Ciampi (2.019, pp. 102.-3), che però suggerisce una spiegazione alternativa: l'aggiunta dd riferimento ai libri A e f-Z sarebbe dovuta a una mano diversa e sarebbe dunque «lo scarabocchio di un lettore». L'affermazione viene giustificata sulla base di lievi differenze paleografiche tra le lettere, relative in particolare all'inclinazione dell'asse; tuttavia, almeno sulla base delle immagini digitali disponibili sul sito della British Library, oltre che delle tavole pubblicate in Schironi (2.010, pp. 169-71), inchiostro, tracciati e forma delle lettere sembrano lasciare aperta la questione, e più in generale il colophonmostra un'impostazione grafica unitaria, con il margine sinistro ben allineato; se pure dovesse trattarsi di una seconda mano, più che di uno scarabocchio si tratterebbe di un qualche tipo di integrazione consapevole dell'informazione fornita. 18. Per la retrodatazione della scriptioinferior cfr. almeno Cavallo, Fioretti (2.014, p. 35) e Fioretti (2.016, p. 2.4); analogie tra le scritture del Gellio e delle Verrine già notate in Pratesi (1992., p. 173), ma senza la drastica proposta di retrodatazione di Cavallo e Fioretti. 19. Il ruolo dei primi cristiani nella diffusione del codice è giustamente messo in rilievo, con diverse prospettive, in tutti gli scudi sulla più antica produzione libraria

    NOTE

    l75

    cristiana. Oltre agli studi menzionati nella nota 1,cfr. Gamble (1995); Crisci (2.005); Bagnall (2.008); Luijendijk (2.008, spec. pp. 144-51). 2.0. Il codice Vaticano ha segnatura Vat. gr. 12.09;il Sinaitico è diviso tra la British Library(Add MS 4372.5;duevolumidistinti),la Universitatsbibliochekdi Lipsia{gr. 1), la Rossijskaia Nacional 'naja Bibliotheka di San Pietroburgo (Petropol. gr. 2.59+ gr. 2.+ O. 156 + gr. 843) e il monastero di Santa Caterina del Sinai (NE Mf 1). Entrambi i manoscritti sono interamente digitalizzati e le riproduzioni sono consultabili rispettivamente attraverso il sito internet della Biblioteca Vaticana (https:/ /spotlight.vatlib.it/ it/ overview / catalog/Vat_gr_12.09) e quello della British Library (https://www.bl.uk/ collection-items/codex-sinaiticus). In seno alla sterminata bibliografia sui due manoscritti, mi limito a segnalare, per una presentazione delle loro caratteristiche paleografiche, Cavallo ( 1967, pp. 52.-5,Vaticano, e 56-64, Sinaitico ), e, per gli aspetti codicologici, Andrist (2.015); presentazione complessiva del codice Vaticano, inoltre, in Andrist (2.009 ), mentre per il Sinaitico si può partire da Parker (2.010)eJongkind (2.013).

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