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Italian Pages 188 [174] Year 2020
Indice
I.
2.
3.
4.
Introduzione
II
Gli interlocutori
17
L'equilibrio carolingio
17
L'età dei poteri locali
20
Chiese, città e regni nel Basso Medioevo
23
Vendere e comprare
27
Un mercato della terra?
27
Grandi e piccoli possessori
30
Scambi fondiari e relazioni sociali
32
Donazioni e vendite alle chiese
34
Cooperare
39
Spazi dell'azione collettiva
40
I dissodamenti
43
Alpeggi e transumanza
45
Infrastrutture e coltivazioni
47
Delimitare
53
Identità multiple
53
8
5.
6.
7.
CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
La formazione dei villaggi
55
Fisco, istituzioni e differenze sociali Territori, pertinenze e confini
59 62
Contrattare
69
Azioni e forme documentarie
70
Le parole dei sudditi
73
Sottomissione, reciprocità, consuetudine Risorse e prdievo
75 78
Chiedere giustizia
85
I placiti carolingi
86
Liberi e servi
89
I mediatori
91
Prìncipi, re e città
93
Spazi di azione contadina
95
Litigare
99
La violenza signorile I pericoli della guerra
Le liti contadine
8.
9.
99 102
Faide e assemblee
105 108
Servire il signore
Ili
Carriere all'ombra dd signore
III
Testimoniare per i potenti
114
Pregare
121
Culti locali
121
INDICE
IO.
II.
12..
9
Chiese e parrocchie
123
Le funzioni dei parroci
126
Cimiteri
128
Processioni, confraternite ed eresie
131
Costruire
137
Le chiese
137
I castelli
139
Villenove e villefranche
143
Ribellarsi
149
Resistenza e rivolta
149
Le rivolte nell'Alto Medioevo
1;0
Il Trecento
152
Nuovi orizzonti politici
1;5
Il Quattrocento
1;8
Contesti e obiettivi
160
Le azioni, i loro tempi e i loro limiti
163
Forme della politica
163
Una cronologia dell'azione contadina
16;
Bibliografia
169
Indice dei nomi e dei luoghi
183
Introduzione
Questo volume tratta di Contadini e potere nel Medioevo, un titolo che richiede qualche chiarimento. Prima di tutto il tema non è "contadini e potenti~ il libro non si concentra esclusivamente sul confronto tra la società rurale e l'aristocrazia egemone; questo aspetto sarà presente e a tratti dominante, ma la prospettiva vuole essere più ampia, dato che cercherò di mostrare in tutte le sue articolazioni l'azione politica contadina, la capacità della società rurale non nobile di esercitare forme di potere e più in generale di intervenire sui funzionamenti della società. I contadini si confrontano in modo più o meno conflittuale con i potenti, ma litigano e si accordano anche con i propri vicini, costruiscono solidarietà, creano reti di relazioni, acquisiscono potere sulla società locale. Il libro si oppone quindi a un'immagine della società contadina come puro oggetto passivo delle politiche di città, signori e prìncipi, e al contempo vuole mostrare come la politica della società rurale non si esaurisca nel confronto con i potenti, ma si esprima anche in una varietà di azioni interne al mondo contadino. Ma introdurre l'idea di politica contadina, e quindi di una reciprocità tra le azioni dei potenti e quelle degli umili, non significa certo perdere di vista la fondamentale e strutturale inferiorità dei ceti rurali. Per gran parte dell'età medievale ogni statistica è discutibile, ma è abbastanza credibile ritenere che i contadini rappresentassero una percentuale dell'ordine del 90% della popolazione (probabilmente di più nei primi secoli del Medioevo, certo di meno nel Tardo Medioevo nelle aree più urbanizzate). Questa grande maggioranza della popolazione è stabilmente in condizioni di inferiorità rispetto agli altri gruppi sociali: inferiorità economica nei confronti delle aristocrazie, delle grandi chiese e delle famiglie cittadine, che possiedono gran parte delle terre date ai contadini da lavorare; inferiorità politica perché, pur nei profondi mutamenti che in questi secoli si attuano nelle forme di governo, i contadini sono sempre ai margini della società politica e di norma sottoposti al potere altrui;
12,
CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
e inferiorità culturale, tra un analfabetismo dominante (per quanto non assoluto) e un'ampia esclusione da tutti i circuiti di formazione scolastica. L'inferiorità contadina nel Medioevo è quindi un dato di realtà, ma anche un elemento fondamentale delle ideologie dominanti: dai nobili altomedievali alle città comunali italiane, dai vescovi carolingi alle corti regie del Trecento, ciò che accomuna le ideologie prevalenti in questi contesti diversissimi è l'idea che i contadini siano inferiori, a tratti subumani, e che debbano essere protetti ed eventualmente civilizzati, ma che in ogni caso qualunque loro azione politica (o ancora peggio, armata) sia illecita. Cosl l'aristocrazia del IX e x secolo massacra i contadini che prendono le armi, anche se lo fanno per difendersi dalle incursioni normanne; nel Basso Medioevo le città italiane creano nuovi villaggi in cui far trasferire gruppi di contadini per ragioni economiche e politiche, ma anche perché ritengono che questo sia un passaggio per la civilizzazione delle popolazioni rurali, che cosl saranno finalmente associate alla città e alla sua cultura; i re e le corti del Tardo Medioevo guardano ai contadini in rivolta non solo con timore, ma con la netta sensazione di essere di fronte a un' inconcepibile inversione dei ruoli, in cui contadini in armi cercano di imporre le proprie decisioni ai nobili. Tutto ciò probabilmente non è sorprendente. Il dato interessante e non scontato è che, pur partendo da queste condizioni di strutturale inferiorità, i gruppi contadini sono in grado di agire su un piano pienamente politico. Lo stesso termine "contadini" merita poi una definizione, che non è univoca negli scritti di chi si è occupato di storia rurale: per alcuni il termine va riservato a chi coltiva terra altrui presa in affitto, altri lo applicano a chi vive del proprio lavoro sui campi e non ha altre fonti di reddito (ad esempio chi possiede terra, ma non abbastanza da darla ad altri in affitto). Queste e altre definizioni selettive hanno buoni fondamenti nei meccanismi economici del mondo rurale, e non c'è dubbio che siano assai diverse le condizioni di un uomo che ha un po' di terra da coltivare solo perché la prende in affitto, rispetto a quelle di uno che ne possiede così tanta da non poterla coltivare tutta, e quindi la dà in affitto ad altri. Tuttavia, per leggere un dato sfuggente come spesso è l'azione politica a questi livelli, appare più adeguata una nozione assai larga di "contadini", a comprendere l'intera società rurale non nobile, tutti coloro che vivono della terra e che hanno con essa un rapporto diretto, come braccianti, affittuari, piccoli e medi proprietari. Certo è importante (quando è possibile) precisare la specifica condizione sociale ed economica delle persone, e senza dubbio
INTRODUZIONE
13
chi agisce politicamente è in larga misura parte dell'élite locale, dei gruppi relativamente più ricchi e più importanti. Ma una definizione di contadini ampia e inclusiva ci consentirà di cogliere meglio l'articolazione dell 'azione politica nelle campagne. Fin qui abbiamo parlato al maschile, di "contadini~ e cosi sarà in linea di massima nel resto del volume perché, nella condizione di inferiorità in cui vengono tenute le donne nel Medioevo, il mondo contadino non fa certo eccezione; è assai ridotto il loro coinvolgimento nelle azioni di rilevanza politica e ancora più limitata la loro visibilità nelle fonti scritte. Le donne compaiono quasi sempre al seguito degli uomini di famiglia (padri, mariti, fratelli) e acquisiscono qualche quota di potere soprattutto nelle fasi di transizione tra le generazioni, e in particolare nei momenti di vedovanza, quando una donna assume la tutela dei propri figli minori. Per una regina, la vedovanza diventa un'occasione per esercitare un grande potere, in sostituzione del marito e del figlio; per una contadina è un potere all' interno dei quadri familiari, è la possibilità di compiere scelte patrimoniali importanti, ma certo non diventa una fase di azione propriamente politica. Infine, ultima definizione necessaria, si parla di contadini e non di comunità contadine o di villaggi. La cooperazione e i processi di costruzione e delimitazione delle comunità hanno sicuramente un grande peso nell' azione politica contadina e trovano quindi ampio spazio nel libro; ma le azioni politiche sono più articolate e complesse, sono azioni collettive ma anche individuali, di singole persone o di gruppi parentali. Si agisce per consolidare la propria comunità o per dividerla, per cooperare con i propri vicini o per diventare più ricchi e potenti di loro; e anche quando si agisce collettivamente, il quadro di riferimento può essere il villaggio, ma anche una piccola borgata o un'intera valle alpina. Ragionare solo in termini di comunità di villaggio ci farebbe perdere di vista molti aspetti e implicazioni della politica contadina. Il quadro cronologico e geografico che il volume prende in considerazione è ampio, e include gran parte dell'Europa occidentale tra IX e xv secolo. Dal punto di vista territoriale, possiamo dire che dall'Italia il libro si allarga all'Europa: il centro è senza dubbio l'Italia, e più precisamente quello che a partire dai Carolingi era il Regno d'Italia, ovvero la parte centro-settentrionale della penisola; ma da qui il discorso si allarga a comprendere l'Europa occidentale, dalla penisola iberica alla Germania e all'Inghilterra. Fenomeni diversi hanno maggiore o minore visibilità nelle varie parti d'Europa, e di fatto il libro segue questa visibilità. Le comunità
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CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
catalane del x secolo, i giuramenti collettivi dei sudditi nella Germania tardomedievale, la grande rivolta contadina inglese del 1381: sono altrettanti contesti in cui uno specifico conflitto o un nucleo di documenti particolarmente ricco rende visibili meccanismi e tensioni che, in modo meno evidente, ritroviamo in altre regioni e altri periodi. I casi che presenterò nei vari capitoli sono esempi molto chiari e ben documentati di processi ampiamente diffusi, non per dire che la società contadina era uguale in tutta Europa, ma per mostrare come alcune tendenze si possano ritrovare a centinaia di chilometri e centinaia di anni di distanza. Quello che qui non è possibile fare è una sintesi puntuale, che dia conto regione per regione delle varianti, cosl da creare modelli diversi per le varie regioni d'Europa e proporre una comparazione sistematica; non è possibile perché richiederebbe centinaia e centinaia di pagine, e soprattutto perché gli studi dedicati a questi temi sono troppo discontinui e diseguali: tante ricerche sulle comunità di villaggio o sulle rivolte, pochi o pochissimi su altri temi, come ad esempio il rapporto tra contadini e regno in età carolingia. La cronologia ha un punto di inizio abbastanza netto e un punto finale probabilmente ovvio. L'inizio è la creazione dell'Impero carolingio, tra VIII e IX secolo, che segnò una serie di mutamenti di grande rilievo, con una diretta e profonda incidenza sulla vita delle campagne. Due in particolare sono gli aspetti che pesarono sulla vita contadina: da un lato la costruzione di un apparato di governo che esprimeva la volontà di tutelare gli inermi, e quindi di tenere aperti i canali di comunicazione tra il regno e l'insieme dei sudditi liberi; dall'altro la solidarietà strutturale tra il regno e l'aristocrazia, che poté così ampliare in modo esponenziale i propri patrimoni e la propria capacità di pressione e controllo sui contadini. Due processi che ebbero quindi un impatto opposto sulla vita contadina, con un sistema di garanzie offerto dal regno, che però al contempo promosse una crescita del dominio aristocratico. Più specifica dell'area italiana è una netta polarizzazione attorno alle città, da cui la società rurale dipendeva sotto molti punti di vista. La fine - pur con qualche affondo occasionale fino al XVIII secolo - è costituita dalla più ovvia scansione cronologica, quella tra Medioevo ed età moderna, nel xv secolo. Molte cose cambiarono in Europa, dagli orizzonti geografici e commerciali (con l'apertura delle rotte atlantiche) fino all'unità religiosa, che sarà poi definitivamente superata con la Riforma luterana; ma questa frattura è assai sfuggente nella vita contadina, una
INTRODUZIONE
1;
realtà in cui le inerzie e gli equilibri di lungo periodo non impedirono il mutamento. ma sicuramente ne rallentarono i ritmi. Tuttavia la scelta del xv secolo come punto d'arrivo non è semplicemente un modo per adeguarsi alle periodizzazioni più comuni, ma deriva da un effettivo e profondo mutamento di contesto: il consolidamento delle monarchie nazionali (in Francia e Inghilterra) e degli Stati regionali (in Germania e Italia); i mutamenti strutturali nelle guerre e nelle modalità di reclutamento e combattimento, ovvero il principale capitolo di spesa per cui i regni tardomedievali dovevano gravare sui propri sudditi per via fiscale; i profondi assestamenti demografici che si susseguirono dal XIV secolo in avanti, a ridefinire il rapporto tra uomini e risorse agrarie. Se le azioni contadine non mutarono radicalmente, i contesti in cui si inserivano erano diversi, e ci impongono quindi prospettive di analisi in parte differenti. Muovendosi in un quadro cronologico cosl ampio, un libro di questo genere corre due rischi, l'immobilismo e l'evoluzionismo, ovvero da un lato l'immagine di una società contadina priva di mutamenti, con funzionamenti che si ripropongono più o meno analoghi nei diversi periodi, e dall'altro un'idea di lineare progresso dalla sottomissione alla libertà. Nessuna di queste due immagini funziona, e se il mutamento segue ritmi talvolta lenti, è però innegabile e non lineare: le comunità catalane sono molto più autonome era IX ex secolo che nel XII; le élite contadine dell'Italia carolingia sanno muoversi su orizzonti politici ampi e arrivare fino alla corte regia, cosa che nell'xI secolo non potranno neppure sognare; nel Duecento l'esplosione delle villenove offrirà a molti gruppi contadini la possibilità di scegliere non solo dove vivere, ma anche chi avere come signore (e questo in età carolingia non era pensabile). Sono esempi pescati qua e là, che mostrano come le opportunità politiche per i contadini cambiano in modo radicale, lungo un percorso che non è né lineare né evoluzionistico. La struttura del libro nasce dal tentativo di dare conto di questa complessità e di questi mutamenti. Il primo capitolo delinea una cronologia di riferimento, costruita non sulle azioni politiche dei contadini, ma sui loro interlocutori: è una brevissima sintesi delle principali trasformazioni delle strutture di potere in Europa dal IX al xv secolo, per mostrare con chi hanno a che fare i contadini, quali sono i gruppi egemoni e le strutture istituzionali con cui possono confrontarsi, da cui trovare appoggio o contro cui resistere. Questo capitolo va così a costituire la cornice cronologica in cui si inseriscono i capitoli seguenti, dedicati ognuno a una
16
CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
diversa azione contadina, alcune di natura palesemente politica, altre di natura apparentemente diversa, ma di cui possiamo cogliere importanti implicazioni politiche. La trattazione un po' frammentata, con numerosi brevi capitoli, ha un preciso intento espositivo e serve a mostrare la varietà e la complessità della politica contadina, fatta di molte azioni diverse; i capitoli brevi permettono di metterle in maggiore evidenza, senza accorparle in capitoli più ampi e complessi. Ogni capitolo copre - nella misura in cui è possibile -1' intero arco cronologico dal IX al xv secolo, senza necessariamente seguire una linea del tempo: il filo conduttore è costituito dalle forme e dall'impatto delle diverse azioni, per le quali spesso non è possibile tracciare una linea evolutiva lungo l'intero arco cronologico, ma piuttosto mettere in risalto momenti di particolare visibilità. L'ultimo capitolo tenta di ricomporre il quadro cronologico: le diverse azioni presentate via via lungo il libro saranno qui collocate all'interno della linea di evoluzione delineata nel capitolo 1; così, quella che inizialmente era una cronologia fondata sugli interlocutori dei contadini, diventa una proposta di cronologia delle azioni politiche contadine. Ali' interno dei singoli capitoli sono inseriti solo i rimandi bibliografici più specifici, relativi a singole vicende narrate nel testo. In fondo al volume, in apertura della Bibliografia, sono suggeriti, capitolo per capitolo, alcuni studi che possono servire come approfondimenti sui singoli temi.
Avvertenza Le traduzioni dei testi per i quali non è fornita un'edizione italiana sono a cura dcli'autore.
I
Gli interlocutori
L'equilibrio carolingio Con chi avevano a che fare i contadini? Questa è la prima questione da valutare per leggere la loro azione politica. È un'azione interna al mondo rurale e un confronto con i potenti, ma questa nozione di "potenti~ volutamente generica, deve essere via via precisata per le diverse fasi dell'età medievale. Questo capitolo parlerà quindi assai poco di contadini, per delineare invece un breve quadro dell'evoluzione dei poteri tra IX e xv secolo, in modo da presentare il contesto e gli interlocutori con cui i contadini hanno a che fare. Punto di partenza è l'Impero carolingio, che si affermò in larga parte dell'Europa occidentale alla fine dell' VIII secolo (momento chiave fu I' incoronazione imperiale di Carlo Magno nel giorno di Natale dell'8oo}. Possiamo partire da qui perché la struttura di potere carolingia stimolò la creazione di sistemi documentari nuovi, che diedero una maggiore visibilità alla condizione dei contadini e agli spazi della loro azione: gli inventari di terre e uomini redatti dai grandi proprietari (i cosiddetti "polittici") ci offrono immagini analitiche - per quanto non sempre di facile interpretazione - dell'organizzazione dei lavoratori all'interno delle grandi aziende agrarie (le curtes); al contempo i sovrani del IX secolo promulgarono nuove leggi, che non ci permettono di cogliere nel concreto la condizione sociogiuridica dei contadini, ma certo ci offrono un'immagine chiara dell'ideologia regia nei loro confronti, della volontà di conservare un rapporto diretto tra il regno e i pauperes, i gruppi più deboli e inermi della società; e infine abbiamo i placiti, gli atti di una giustizia regia a cui spesso vediamo accedere gruppi di contadini in conflitto con i potenti vicini. Non è però solo una questione di fonti che rendono visibili dei funzionamenti antichi: la costituzione dell'Impero fu un momento di ride-
18
CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
fìnizione profonda degli assetti di potere in larga parte d'Europa, tale da incidere pesantemente sulle condizioni dei gruppi sociali più umili. Prima di tutto, com'è ovvio, l'Impero carolingio era enorme, di dimensioni che nessuna dominazione aveva raggiunto in Europa occidentale dopo l'Impero romano. Il dato è importante: larga parte d'Europa, dalla Bretagna all'Umbria e da Barcellona fino alla Sassonia, per alcuni decenni fu guidata da un sistema di potere coerente, con grandi aristocratici fedeli all'imperatore che si muovevano sull'intero territorio imperiale, portando con sé forme di governo e modelli di gestione fondiaria. L'Impero non era certo un mondo omogeneo, troppo profonde erano le differenze interne a uno spazio così ampio (e neppure l'Impero romano era mai stato un mondo perfettamente omogeneo per cultura, lingua o religione); ma certo era l'ambito di dominazione di una dinastia regia e di un'aristocrazia che a questa dinastia faceva capo, con norme, procedure e un personale politico che circolavano in larga parte dell'Europa occidentale. Di più: alcuni funzionamenti propri del mondo carolingio tesero poi a espandersi al di là dei confini dell'Impero, quando il consolidarsi di un regno unitario inglese (nel x secolo) e l'ampliarsi dei regni cristiani spagnoli ai danni della dominazione araba (soprattutto dall 'XI secolo) si tradussero in una ripresa di modelli politici ed economici franchi. L'impatto dell'Impero ebbe quindi un respiro pienamente europeo, con un'incidenza importante sulle forme di vita e sulle opportunità di azione della società contadina. Le leggi carolinge esprimono un'ideologia di fondo basata sulla tutela dei pauperes, sul loro rapporto diretto con il re e su un ideale di giustizia aperta a tutti. Ma nella prassi politica carolingia emerge un altro principio di fondo, in parte contraddittorio.: il potere imperiale si fondava prima di tutto sul legame con l'aristocrazia, che fosse laica o religiosa, a comprendere sia le grandi dinastie sia le ricchissime chiese (abbazie e sedi vescovili), in genere guidate da membri di questi stessi gruppi familiari aristocratici. Quello tra regno e aristocrazia era un legame strutturale e necessario, senza il quale il potere regio non poteva esistere, e si tradusse in interventi ben precisi sia nelle leggi sia nella prassi quotidiana del governo: grandi redistribuzioni di terre e di risorse favorirono l'arricchimento delle aristocrazie; le norme, pur tutelando i liberi, erano molto attente a garantire i patrimoni, i diritti e le prerogative di chiese e aristocratici laici; e la giustizia, per quanto aperta ai più deboli, nella maggior parte dei casi aveva come esito una difesa dei potenti.
GLI INTERLOCUTORI
L'apertura di canali di comunicazione politica tra il regno e gli strati inferiori della societ~ si pose quindi nel quadro di un consolidamento delle ricchezze e del potere aristocratico, che il regno promosse e sostenne. Se quindi in età carolingia vediamo gruppi di contadini impegnati - talvolta efficacemente - a difendere i propri diritti e la propria libertà, nel complesso «il secolo carolingio fu un'età infelice per l'autonomia contadina», con un chiaro e inarrestabile sviluppo del dominio aristocratico (Wickham, 2014, p. 596). L'enorme espansione territoriale attuata da Carlo Magno aveva trasferito sotto il controllo regio una massa enorme di risorse, che Carlo e i suoi successori usarono come potente strumento per garantirsi la fedeltà dei potenti, tramite una massiccia opera di redistribuzione che si rivelò pienamente efficace: per un aristocratico dei primi decenni del IX secolo, il modo migliore per diventare ricco e potente era stare vicino al re, servirlo, assumere incarichi di governo a suo nome e ottenere cosl una quota importante di quella massa di terre, chiese e uomini che il re concedeva ai propri fedeli. Potenza regia e potenza aristocratica non erano contrapposte e nel quadro dell'Impero crebbe la pressione aristocratica sul lavoro contadino; le stesse curtes erano prima di tutto un efficace strumento per intensificare questa pressione, per aumentare la capacità aristocratica di prelevare censi e giornate lavorative ai contadini. Al contempo - soprattutto in Italia - la creazione dell'Impero comportò un'altra linea di tendenza importante, con una crescente polarizzazione della società attorno ai centri urbani. Lungo l'Alto Medioevo le città non avevano perso la propria funzione di centri organizzativi del territorio, ereditata dal sistema di governo imperiale romano e accentuata da un'organizzazione ecclesiastica che ruotava attorno ai vescovi. Questa centralità si accentuò in età carolingia: le città erano le sedi dei conti, i grandi ufficiali inviati a governare i territori dell'Impero; ed erano sempre sedi dei vescovi, il cui potere di controllo si consolidò nel quadro di una strutturale solidarietà tra regno e chiese, per cui i vescovi agivano come coadiutori del regno. Questa polarizzazione della società italiana attorno alle città ebbe un'indubbia efficacia nel condizionare forme di vita e orizzonti politici della popolazione contadina, che in misura crescente dovette fare riferimento ai poteri cittadini per diverse funzioni (giustizia, mercato, culto ecc.). Ricchezza aristocratica, centralità delle chiese, polarizzazione attorno alle città: queste caratteristiche, tipiche di tutto l'Alto Medioevo, subirono una chiara accelerazione in età carolingia, determinando nuovi equilibri e
2.0
CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
funzionamenti di potere che incisero pesantemente sui secoli successivi. L'Impero carolingio è quindi un buon punto di partenza per una lettura complessiva delle azioni politiche contadine nel Medioevo.
L'età dei poteri locali Così il x e l'x1 secolo vanno letti prima di tutto come rielaborazione dell'eredità carolingia, non solo all'interno dei territori che avevano fatto parte dell'Impero, ma anche nelle aree vicine, profondamente influenzate dai modelli imperiali: regioni come il Sud Italia, la Spagna, il regno inglese e la Scandinavia erano alla periferia o all'estrema periferia del sistema di potere carolingio, ma non ne erano estranee. Seguiamo quindi le evoluzioni dell'età postcarolingia non per presentare un quadro pieno ed esaustivo dei funzionamenti del potere nel x e XI secolo, ma per mettere in evidenza gli aspetti che in modo piu netto incisero sulle opportunità di azione politica della società contadina. L'arricchimento delle grandi dinastie e delle chiese, che aveva subito una netta accelerazione in età carolingia, proseguì nei decenni successivi; ma ciò che davvero cambiò non fu solo l'entità dei patrimoni, ma la loro distribuzione e il legame tra questa ricchezza e il potere regio. Nel pieno dell'età carolingia, le famiglie piu ricche avevano terre disperse in molte regioni d'Europa: agivano al servizio dei carolingi in tutto l'Impero e acquisivano terre e risorse nelle sue diverse parti. Non è sorprendente a questa data trovare un grande aristocratico che abbia terre disperse dal Belgio al Friuli, o dall'Alsazia alla Slovenia. Dalla fine del IX secolo questo equilibrio mutò, progressivamente ma con grande evidenza. La divisione dell'Impero carolingio in regni distinti (d'Italia, dei Franchi occidentali, dei Franchi orientali, di Borgogna) non implicò certo un crollo immediato del potere regio, poiché i singoli re, ali' interno del proprio dominio, avevano poteri per molti versi simili a quelli che aveva avuto Carlo Magno all'inizio del secolo. Ma mutò il rapporto tra nobili e re: i re controllavano territori più piccoli e avevano quindi meno risorse da distribuire e, soprattutto, risorse raccolte in un territorio più ridotto; al contempo questi re, spesso in concorrenza o in guerra tra di loro, avevano maggiore bisogno del sostegno dell'aristocrazia militare. Si definì quindi un nuovo equilibrio, in cui le famiglie aristocratiche avevano un potere contrattuale sempre maggiore nei confronti del
GLI INTERLOCUTORI
2.1
re e potevano chiedere e ottenere le terre che più erano funzionali ai loro progetti di potenziamento. Perciò i patrimoni aristocratici tendevano a concentrarsi in regioni più ristrette: non si ridussero i patrimoni, ma si ridusse la loro dispersione, con una tendenziale convergenza di ricchezza e potere, per cui singoli aristocratici concentravano sia la propria azione politica sia la propria ricchezza in ambiti territoriali più definiti. Via via il profilo politico di un aristocratico fu definito sempre più dalle sue terre, dalle sue clientele e dai suoi legami matrimoniali, mentre ebbe un peso minore il legame con il regno. Nessun potente del x secolo poteva pensare di fare a meno del re, ignorarne la presenza, la ricchezza e il potere; ma nessuno dipendeva in modo esclusivo dalla benevolenza regia, che divenne invece un'integrazione importante di un potere costruito su base locale (grazie alle terre, ai castelli e alle reti relazionali). L'indebolimento del potere di controllo regio lasciò spazio anche a una nuova mobilità militare: gruppi diversi, da nord, da sud e da est, noti come Normanni, Saraceni e Ungari, dalla fine del IX secolo attuarono saccheggi e incursioni sempre più profonde sulle coste europee e negli entroterra della Francia, della Germania e dell'Italia. A queste nuove minacce militari, i regni in linea generale faticarono a rispondere e le esigenze di difesa passarono nelle mani dei potenti locali. Indebolimento regio, arricchimento aristocratico, concentrazione regionale dell'azione politica delle dinastie, insicurezza militare, difesa in mano ai potenti locali: tutto ciò fu premessa e fondamento per il grande mutamento che si attuò nel x e soprattutto nell'xI secolo, con lo sviluppo di poteri signorili locali del tutto svincolati da un controllo regio. Fu un processo lento e molto diverso da regione a regione, ma in linea di massima possiamo individuare l'xI secolo come l'ampia fase in cui questi nuovi modelli di potere si realizzarono nel modo più intenso. Fu una trasformazione profonda dei funzionamenti del potere e, per quel che qui più ci interessa, fu un mutamento radicale degli orizzonti politici della società contadina: il potere regio, indebolito, perse la capacità di entrare in contatto diretto con gli strati più deboli della società e di proporsi come efficace istanza di giustizia per quei gruppi di contadini che cercavano di difendersi dalla pressione signorile. In linea generale, i contadini dell'x1 secolo avevano a che fare quasi esclusivamente con i potenti vicini, quelli che concedevano loro le terre da coltivare, li proteggevano nei loro castelli e quindi li controllavano direttamente. Nella maggior parte dei contesti
2,2,
CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
europei, non esisteva in questa fase un'istanza di potere superiore a cui i contadini potessero appellarsi contro i propri signori; e non a caso si tratta di una fase di particolare invisibilità dell'azione politica contadina, che fatica a lasciare traccia nelle fonti scritte di cui disponiamo. Non dobbiamo pensare a un singolo signore che dal suo castello esercitasse un controllo assoluto sul villaggio. Nella maggior parte dei casi erano presenti diversi potenti, laici ed ecclesiastici che, grazie ai patrimoni fondiari, alle clientele e ai castelli, si spartivano il dominio sui contadini di un singolo villaggio. Questa pluralità di poteri costituiva una piccola ma non irrilevante opportunità per i sudditi: un uomo che prendeva terra in affitto da due signori diversi e che trovava protezione nel castello di un altro ancora, poteva in qualche caso sfruttare la concorrenza tra i diversi potenti, usare la protezione di uno come tutela contro le richieste di un altro. Inoltre il villaggio non era certo isolato e il quadro socioeconomico regionale incideva in modo pesante sulle dinamiche politiche locali, condizionate dalle reti economiche in cui il villaggio era inserito: è da tempo superata un'immagine dell'aristocrazia signorile come una forza puramente predatrice e di sfruttamento, e si è dimostrato che in molti casi i signori erano attivi in prima persona nella commercializzazione dei prodotti. Lo sfruttamento signorile dei contadini era forte, ovviamente, ma l'economia signorile era più complessa del semplice prelievo e consumo diretto dei prodotti agrari. Lo stile di vita, le reti relazionali aristocratiche e i nessi con il mondo cittadino portavano i signori ad agire su diversi piani economici, a vendere e comprare sui mercati cittadini, intercettando le opportunità offerte dall'ampliamento delle reti commerciali. Questo aveva un'incidenza rilevante sulle dinamiche economiche e politiche locali, e in particolare sulle contrattazioni connesse al prelievo signorile: il signore voleva ottenere dai suoi contadini non solo i prodotti che avrebbe consumato direttamente, ma anche quelli più redditizi perché più richiesti sui mercati cittadini (cfr. CAP. 5). Se i poteri signorili erano pienamente autonomi, perdette rilievo la distinzione tra servi e liberi. I servi dell'Alto Medioevo erano proprietà dei potenti, che potevano normalmente comprarli e venderli, anche se la mano d'opera servile non aveva certo l'importanza economica che aveva avuto nelle villae di età romana; dal punto di vista politico e giuridico, un'ulteriore differenza fondamentale tra servi e liberi era costituita dal diritto di questi ultimi ad accedere alla giustizia regia, da cui erano invece esclusi i servi. Proprio questo diritto a essere tutelati dal regno è ciò che spesso
r GLI INTERLOCUTORI
gruppi di contadini rivendicarono davanti ai tribunali regi nel IX secolo, contro le pressioni signorili per asservirli. Con l'attenuarsi del potere regio e del suo controllo sulla società locale, questa possibilità divenne del tutto teorica: nessun contadino libero poteva pensare di andare davanti a un tribunale regio per difendere il proprio stato giuridico, perché tali tribunali non c'erano più, e in ogni caso non avrebbero avuto la forza per imporre ai potenti il rispetto delle loro sentenze. Se quindi già in età carolingia la distinzione tra liberi e servi era variabile e a tratti sfuggente, nel periodo successivo perdette di fatto importanza: nessuno era veramente "libero~ perché nessuno poteva entrare in diretta ed efficace comunicazione con il potere regio.
Chiese, città e regni nel Basso Medioevo Un processo diverso, lungo l'x1 secolo, fu la Riforma della Chiesa, il profondo rinnovamento dell'organizzazione ecclesiastica, con il suo progressivo svincolo dalle forme di controllo laico e il suo convergere attorno a un potere papale che assunse una fisionomia monarchica. Fu un cambiamento che coinvolse prima di tutto i vertici della società, dal papa ali' imperatore, dai vescovi alle maggiori dinastie aristocratiche; ma ebbe un riflesso importante anche nel ridefinire gli orizzonti comunitari della società contadina, dato che la Riforma si espresse anche in una crescente attenzione per la cura delle anime dei fedeli, con un maggiore controllo vescovile sulle chiese locali. Si consolidò quindi la funzione delle chiese di villaggio, quelle che attraverso un lungo processo di trasformazioni diverranno le attuali parrocchie, e questa evoluzione ebbe un grande impatto sulle azioni politiche contadine: le chiese di villaggio ebbero infatti una funzione centrale nell'articolare l'identità collettiva nelle campagne e i sacerdoti locali, posti sotto un più saldo controllo vescovile, divennero dei mediatori efficaci tra il villaggio e la città. Questa mediazione clericale ebbe grandissimo rilievo in tutti i contesti europei bassomedievali, ma acquisì connotati specifici in ambito italiano, perché qui il collegamento tra città e campagna nel Basso Medioevo assunse implicazioni diverse. In Italia le città, dalla fine dell'x1 secolo, non erano solo centri commerciali e sedi dei vescovi, ma poteri politici pienamente autonomi: i comuni cittadini avviarono presto una pesante azione politica nel territorio circostante, per imporre il proprio controllo
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sui villaggi del contado. L'affermazione dei comuni cittadini come potere egemone sulle campagne ovviamente non cancellò i poteri signorili locali, che rimasero vitali ed efficaci lungo tutto il Basso Medioevo; ma complicò il quadro politico dei singoli villaggi: i contadini avevano sempre a che fare con il signore (o meglio, con i diversi signori che a vario titolo erano attivi e potenti all'interno del villaggio), ma al contempo si trovavano a confrontarsi con il potere della città. Questa novità rappresentò per i contadini un peso, ma anche un'opportunità: un peso, perché la fiscalità cittadina spesso non andò a sostituire, ma a sovrapporsi al prelievo signorile, ed era una fiscalità molto gravosa, dato che in linea generale il fisco comunale pesava sulle campagne più che sulla città; ma anche un'opportunità, perché il comune cittadino poté rappresentare ciò che da tempo mancava, o~ro un interlocutore politico alto, in grado di imporre forme di coercizione s~ signori e a cui quindi le comunità contadine potevano sperare di appoggiarsi per difendersi. Non ci fu una sistematica politica dei comuni contro i signori, anche perché le grandi famiglie cittadine e quelle signorili erano solidali e spesso strettamente intrecciate; ma indubbiamente il moltiplicarsi dei poteri attivi nel singolo villaggio offrì nuove possibilità di azione ai contadini. Il comune cittadino in queste forme e con questa amplissima autonomia fu una peculiarità dell'Italia dd XII e XIII secolo, ma va inserito nel più ampio contesto di un generale processo di ricomposizione dei poteri che nel XII secolo - in modo discontinuo e con fortissime varianti e tendenze contrastanti - si avviò in larga parte d'Europa: i poteri signorili che nell'x1 secolo erano pienamente autonomi, in seguito si raccolsero attorno ai prìncipi territoriali e ai re, il cui potere mutò lentamente, con una capacità via via più forte di sottomettere l'aristocrazia e di creare legami e forme di comunicazione politica diretta con le comunità locali. Il legame tra il regno e la società rurale ebbe essenzialmente tre espressioni, sul piano fiscale, militare e giudiziario: la capacità di re e prìncipi di imporre tasse alle comunità in mano signorile, l'imposizione di servizi militari più o meno regolari a tutti i sudditi del regno e la creazione di apparati giudiziari regi in grado di intervenire efficacemente nelle contese locali, tra diverse comunità o tra comunità e signori. Anche in questo contesto, come attorno ai comuni cittadini italiani, non si attuò una sostituzione, ma una sovrapposizione di poteri: i funzionari regi non cancellarono i poteri signorili locali, ma li affiancarono, in un rapporto di collaborazione o spesso di concorrenza, e anche qui l'affermarsi di poteri di ampio respiro
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territoriale fu per i contadini sia un peso sia un'opportunità, da cui seppero a tratti ottenere qualche vantaggio. Un generale processo di ricomposizione del potere si delineò quindi a partire dal XII e XIII secolo, con un salto di qualità importante a partire dal Trecento, da diversi punti di vista. Si consolidarono prima di tutto gli apparati regi e la loro capacità di agire sul piano fiscale, esigenza fondamentale per i regni in un secolo in cui l'intensità degli scontri militari (e prima di tutto la Guerra dei Cent'anni che oppose i re di Francia e d'Inghilterra) premette in modo pesantissimo sulle finanze regie. Efficace pressione fiscale, quindi, che però non poté essere attuata senza forme di contrattazione e di compromesso con le diverse forze politiche attive nel territorio del regno. Non è casuale che proprio nel XIV secolo abbiano assunto un peso crescente le assemblee, che con nomi diversi ritroviamo in molti contesti politici europei (il Parlamento in Inghilterra, gli Stati generali in Francia, le Cortes nei regni spagnoli, le Diete nei principati tedeschi). Il potere regio e principesco era nel complesso in crescita, ma in nessun modo possiamo pensare a questi poteri come a monarchie assolute: il re era piuttosto il centro efficace di un sistema complesso di mediazioni, trattative e compromessi di cui - ed è il punto che qui più ci interessa - le comunità rurali potevano essere parte attiva, sfruttando a proprio favore la pluralità di poteri, che spesso erano in conflitto tra di loro. Le comunità potevano fare un uso strategico di questa pluralità di giurisdizioni, cercando via via l'appoggio del potere a loro più utile: il principe contro il signore, il signore contro la città, la giustizia regia contro il principe e cosi via. La stessa pluralità di giurisdizioni, in un contesto di complessiva ricomposizione dei poteri, si ritrova in ambito italiano, dove il dominio comunale sul contado venne assorbito in strutture statali di maggiore ampiezza: le signorie cittadine prima, e soprattutto gli Stati regionali poi, che andarono a definire quadri territoriali più ampi, per quanto sempre piuttosto instabili. Questo provocò una complessa stratificazione dei poteri attivi nelle campagne: il principe territoriale, le città riunite sotto il suo dominio, i signori locali sottomessi ma non cancellati dall'egemonia cittadina e principesca. Anche in questo contesto la pluralità di poteri offri alla società contadina la possibilità di agire strategicamente, sfruttando la concorrenza tra le diverse dominazioni per ottenere piccoli vantaggi politici e fiscali e consolidare margini di autonomia. Questo era possibile a patto di disporre di mediatori efficaci, membri della comunità che - per com-
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petenze personali o reti sociali - fossero in grado di muoversi consapevolmente nella rete dei poteri in cui la comunità era inquadrata e così trovare le vie giuste per inoltrare una supplica al principe, chiedere l'appoggio di una famiglia cittadina politicamente ben inserita a corte, o capire quali potevano essere gli obiettivi di signori, città e prìncipi. Questa funzione di mediare tra comunità locale e poteri alti divenne quindi uno snodo chiave delle dinamiche politiche interne alla comunità di villaggio: chi era in grado di mettere efficacemente in comunicazione sistemi politici diversi (le comunità e i poteri regionali) assumeva un'importanza peculiare agli occhi dd villaggio, e diventava una figura chiave nd consentire alla comunità di agire politicamente con qualche speranza di successo.
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Un mercato della terra? La terra è ovviamente la prima risorsa del mondo contadino: prima per importanza economica, perché da qui deriva in massima parte il sostentamento delle persone; ma prima anche per visibilità nella documentazione. In una società come quella medievale, ad alfabetizzazione debole, la scrittura è un fatto eccezionale, che si mette in campo per poche ragioni, e soprattutto per registrare i diritti e i possessi più importanti; al contempo solo le chiese hanno la cultura, la struttura istituzionale e la continuità per garantire una conservazione nel tempo delle scritture. Perciò fino a tutto l'x1 secolo le fonti giunte fino a noi sono soprattutto atti destinati a certificare il possesso di una terra da parte di una chiesa: possono essere donazioni, vendite, permute o diplomi di conferma, ma in ogni caso sono documenti conservati da una chiesa, relativi alla terra e destinati a certificarne il possesso. Questo non significa che la società laica e il mondo contadino siano ai nostri occhi invisibili, ma li vediamo attraverso un sistema di filtri e mediazioni di cui dobbiamo tenere sempre conto. Possiamo vedere il patrimonio fondiario dei laici se e quando vengono a contatto con una chiesa, le donano delle terre, fanno testamento a suo favore o - ed è il caso più interessante - trasferiscono a una chiesa tutti i propri beni e il proprio archivio: in quest'ultimo caso possiamo risalire ai decenni precedenti e leggere l'insieme delle operazioni fondiarie e delle reti relazionali della famiglia, talvolta su una spanna cronologica ampia, di due o tre generazioni. La crescita sia della produzione sia della conservazione di documenti a partire dal XII secolo (in quella che è stata definita una "rivoluzione documentaria") rende molto più visibile l'azione laica, con la comparsa di innumerevoli tipi di scritture: registri e catasti, corrispondenze e verbali di consigli comunali ecc. Ma la terra, il suo possesso e la sua gestione restano
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sempre necessariamente al centro delle attenzioni contadine e quindi al centro della documentazione prodotta in ambito rurale. Già questa premessa sarebbe sufficiente per spiegare perché la politica contadina nel Medioevo debba essere letta prima di tutto a partire dalla terra, dato che gli scambi fondiari sono le azioni sociali che meglio possiamo leggere nelle campagne lungo tutto il Medioevo. Ma c'è di più, non è solo un fatto documentario: gli scambi fondiari sono in effetti una buona via per leggere le reti relazionali, perché la terra è centrale nel mondo contadino da molti punti di vista. È fondamentale dal punto di vista economico, come base per il sostentamento, e su questo si innestano altri valori, per cui la terra (il singolo campo o l'insieme delle terre controllate da una famiglia) diventa un elemento di identificazione forte per la persona e per la famiglia. È un rapporto profondamente diverso da quello che nella nostra cultura si instaura tra persona e patrimonio: non si tratta semplicemente di una famiglia che possiede e coltiva una terra e vive grazie a essa, ma quei campi sono la terra della famiglia, sono uno degli elementi che la identificano e la collocano all'interno della comunità. Perciò le transazioni fondiarie non possono essere lette in un'ottica puramente economica e, senza negarne il valore concreto, dobbiamo sempre tenere presente che si tratta di un bene fondamentale per la sopravvivenza ma anche per l'identità sociale del singolo. Nella nostra società, per vendere una casa ci rivolgiamo spesso a un'agenzia, per cedere la casa a un perfetto sconosciuto al miglior prezzo possibile; un prezzo che quindi si forma sulla base di una logica di domanda-offerta e delle esigenze personali e indipendenti dei due contraenti (la fretta di monetizzare il patrimonio, l'urgenza di acquisire una casa, il gusto personale per un certo quartiere o un certo tipo di immobile ecc.); ciò che invece non ha peso, nella maggior parte dei casi, sono le relazioni personali tra venditore e compratore. Non è cosl nella società rurale medievale, una società in cui non si cede la terra a cuor leggero o semplicemente per ottenere il miglior prezzo possibile, e non la si cede a un estraneo, ma all'interno di un sistema di relazioni sociali. Lo scambio fondiario rende visibile e costruisce la rete relazionale: si attua in linea di massima con le persone a cui si è legati, con i parenti, i vicini o con i potenti a cui si è in qualche modo sottomessi, e quindi rende visibile la rete relazionale del singolo; oppure si scambia terra con persone ed enti con cui si vuole creare un legame di solidarietà, e in questi casi lo scambio fondiario serve a costruire la rete sociale. Visibilità o costruzione della rete sociale, ma in ogni caso il pas-
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saggio di proprietà di una terra non può essere considerato dal punto di vista puramente economico. Possiamo allora leggere gli scambi di terra all'interno del villaggio come un "mercato della terra"? La nozione di mercato rischia di essere fuorviante: se la terra è una merce, è però ricca di implicazioni che vanno bel al di là del suo valore economico e produttivo; ma l'idea di mercato è al contempo utile per ricordarci che si tratta di un sistema di scambio articolato, con molti protagonisti attivi. Non si tratta allora di cercare una risposta semplice a una domanda secca (esiste o no il mercato della terra?), ed è invece opportuno dire che «la terra è un bene che viene comprato e venduto, ma la sua natura specifica e i valori che le sono associati ne modificano il significato mercantile, ne fanno - quando è merce - una merce particolare» (Delille, Levi, 1987b, p. 352). Cosl le logiche di formazione del prezzo sono complesse, a tratti sfuggenti, e vanno ben al di là di pure valutazioni economiche. Vediamo due esempi delle possibili configurazioni sociali che portano a definire il prezzo di una terra: - una vedova in difficoltà economiche vende la terra che non riesce più a coltivare, per appianare i propri debiti; per far ciò si rivolge a parenti, amici o vicini, in qualche modo solidali con lei, e questa solidarietà si esprime nella loro scelta non solo di acquistare la terra, ma di pagarla più di quel che varrebbe, per dare alla vedova un aiuto supplementare; - un uomo cede una terra a un monastero: è una vendita, perché l'uomo non può permettersi di donare la terra senza contropartita; ma sa che cedere la terra ai monaci potrà portargli benefici spirituali (le preghiere per la sua anima) e sociali (la solidarietà di un ente religioso localmente potente); perciò vende a un prezzo particolarmente basso, con un atto che formalmente è una vendita, ma nei fatti è una via di mezzo tra una vendita e una donazione. Il sistema complessivo delle transazioni compiute da una famiglia ci rivela le sue esigenze e le sue strategie economiche, ma delinea anche la mappa delle sue relazioni sociali, un quadro in cui la netta distinzione tra vendita e donazione spesso non è adeguata a comprendere queste transazioni, che devono invece essere lette integrando la dimensione economica con le implicazioni relazionali. Ovviamente non è l'unico tipo di scambio economico con rilievo sociale: possiamo attribuire implicazioni analoghe al mercato matrimoniale e al sistema del credito locale (il credito tra contadini, ma anche le forme di prestito concesse dai signori ai propri uomini). Ma ai nostri occhi il grande vantaggio degli scambi di terra è
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la loro alta visibilità documentaria fin dai primi secoli del Medioevo, che ci consente di leggere le implicazioni di questi atti in termini relazionali e politici con un'ampiezza e una sistematicità molto maggiori di quanto avvenga per altre azioni economiche.
Grandi e piccoli possessori Per comprendere le implicazioni degli scambi fondiari, dobbiamo considerare la complessiva distribuzione del possesso all'interno del villaggio, che può dare vita a equilibri diversissimi: ad esempio, tra IX e x secolo, nel villaggio di Palaiseau, nei pressi di Parigi, le terre sono pressoché tutte nelle mani dell'abbazia di Saint-Germain-des-Prés, mentre a Ruffiac, in Bretagna, il grande possesso signorile ha un peso minimo, con terre distribuite tra molti piccoli e medi proprietari. Questa diversa distribuzione ha forti implicazioni sul piano dei circuiti economici ma anche dell'autonomia contadina, dato che in un villaggio come Palaiseau chiunque voglia sopravvivere deve ottenere terra in affitto dall'abbazia, e rutta la dinamica economica e sociale è polarizzata attorno a essa, mentre a Ruffiac la dinamica è più complessa, molti contadini possono vivere sulla base della terra di loro proprietà, o hanno comunque un articolato sistema di scelte, tante persone da cui ottenere terra da coltivare (Wickham, 2.014, pp. 2.18-2.5). In generale, la distribuzione del possesso fondiario è il primo indicatore dei margini di autonomia contadina: tanto maggiore è la concentrazione delle terre in poche mani signorili, tanto minore sarà l'autonomia contadina, sul piano economico e più latamente politico. La distribuzione della proprietà delle terre all'interno di un singolo villaggio condiziona quindi pesantemente i sistemi relazionali, ma anche la produzione e le scelte colturali: in linea generale, possiamo dire che il grande proprietario non si limita a prelevare una quota di ciò che viene prodotto sulle sue terre, ma impone che su tali terre sia coltivato ciò che vuole prelevare, ciò che è funzionale alle sue esigenze. La produzione è quindi organizzata prima di cucco in base allo stile di vita delle élite, ai loro consumi e alla loro volontà e capacità di orientare verso il mercato una quota più o meno rilevante dei prodotti. Un segnale importante in questo senso è costituito dalle forti specializzazioni produttive locali, come l'allevamento bovino sulle Alpi, la viticoltura in collina o gli ulivi sui grandi laghi. Queste specializzazioni hanno senso solo per villaggi che siano solida-
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mente integrati in una rete di scambi, in cui fare confluire le eccedenze dei propri prodotti e da cui ottenere ciò che non si produce localmente (come nel caso di un villaggio alpino che mandi verso la pianura i propri formaggi per ottenere vino e cereali); la specializzazione deriva dall'apertura, mentre un villaggio isolato tenderà alla policoltura, a produrre sul posto tutto ciò che serve alla comunità. L'integrazione del villaggio in un'ampia rete commerciale raramente è gestita dai contadini, ed è per lo più nelle mani di nobili e chiese, che sono in grado di accumulare quote rilevanti di prodotto per indirizzarle verso i mercati cittadini. Saranno quindi questi potenti, la loro capacità di prelievo e le loro scelte commerciali a orientare la produzione locale in senso più o meno specializzato. Il grande possesso signorile va a condizionare anche i ritmi della vita rurale. Il tempo contadino è prima di tutto ciclico, basato sul succedersi delle stagioni che determina il variare dei lavori e della loro intensità, come è illustrato dai Cicli dei mesi, le opere pittoriche e scultoree che ritroviamo in molti edifici medievali. Le richieste del signore intervengono pesantemente su questo ritmo, perché il singolo contadino deve organizzare il proprio lavoro per mantenersi, ma anche per rispondere alle richieste signorili. Ad esempio, nel Basso Medioevo (come anche nei secoli successivi) troviamo spesso la ricorrenza di San Martino (11 novembre) come data di riscossione dei censi in moneta. Questo è coerente con i ritmi agrari: dopo il raccolto, i contadini sono in grado di monetizzare i prodotti e quindi di pagare censi in denaro; ma è chiaro che il fatto di accedere al mercato e vendere una quota del prodotto in questo caso non è una scelta ma un obbligo per i contadini, che devono procurarsi il denaro per pagare i censi. Di più: San Martino è una data vicina ai raccolti, un momento dell'anno in cui i cereali sono in linea di massima abbondanti e quindi il prezzo è basso. Dal punto di vista contadino, potrebbe essere una strategia migliore accumulare una quota del prodotto come riserva di sicurezza, per poi metterla eventualmente in vendita mesi dopo, quando la carenza di grano in circolazione determinerà un prezzo più alto; ma la coercizione signorile impone di versare a novembre i censi in denaro e quindi di vendere prima del tempo. I contadini non hanno perciò la possibilità di accumulare del grano che avrebbe costituito sia una garanzia di sussistenza nei mesi invernali, sia eventualmente una possibilità di aumentare il proprio reddito vendendo il prodotto nei momenti di maggiore carenza (Demade, 2.007). Questo condizionamento sulle produzioni, sui sistemi economici locali e sui ritmi di lavoro ha un'incidenza diversa in base all'identità e alla
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collocazione dei grandi proprietari: abbiamo visto come sia diverso vivere in un villaggio con un possesso fondiario frammentato e distribuito, o invece in uno in cui le terre sono tutte di un solo signore; ma è anche molto diverso un villaggio in cui il maggiore proprietario vive nel grande castello vicino, da uno in cui larga parte delle terre è in mano a un grande proprietario estraneo, che vive a decine di chilometri. Alcuni contesti - l'Italia centro-settentrionale, le Fiandre, alcune zone della Francia - sono caratterizzati da città particolarmente ricche e popolose, in grado di affermare già nell'Alto Medioevo una dominazione economica sulle campagne circostanti, con una forte concentrazione del possesso fondiario nelle mani di famiglie e chiese cittadine; a partire dal XII secolo in Italia questo predominio economico si tradusse in un vero e proprio controllo politico sul contado da parte dei comuni cittadini. Perciò in molti casi la produzione delle campagne era condizionata prima di tutto dalle esigenze della società cittadina: esigenze di consumo e di commercializzazione, e poi via via esigenze fiscali, con la tassazione dei comuni cittadini che andò a gravare sulle popolazioni rurali più che sugli abitanti delle città. I grandi proprietari insediati in città erano nei çomplesso estranei alla società di villaggio e alle sue specifiche dinamiche, e dal loro punto di vista il patrimonio fondiario era una risorsa propriamente economica, la garanzia di poter mantenere il proprio stile di vita aristocratico, necessario a sua volta per rimanere pienamente parte dell'élite cittadina.
Scambi fondiari e relazioni sociali La distribuzione del possesso e la circolazione delle terre definiscono quindi il principale quadro di condizionamento e di elaborazione del-· le strutture sociali e delle reti di solidarietà all'interno del villaggio. In questo quadro le élite contadine si muovono con consapevolezza e con prospettive strategiche. Vediamo due esempi, tratti da contesti piuttosto diversi. Nel piccolo villaggio di Campori, in Garfagnana, un medio possessore, Gundualdo, tra 740 e 784 realizzò una serie di acquisti di terre all'interno dd villaggio, al punto da divenire uno dei maggiori proprietari fondiari locali e da assumere quindi una posizione dominante sul piano economico; grazie a questa ricchezza fondò una chiesa, che gli eredi trasferirono poi al vescovo, conservandone però il controllo a lungo, fino allametàddxsecolo (di-. Wickham, 1997, pp. 51-62.).
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Nell'area di Liébana, nel Nord della Spagna, nei primi decenni del x secolo vediamo agire una coppia - Bagaudano e Faquilona - le cui origini sono ignote, ma che nel giro di pochi decenni realizzò un'articolata trama di scambi di terra con altri abitanti del villaggio. I due riuscirono cosl a consolidare il proprio patrimonio, ma anche ad arrivare ai vertici della società locale, con un'ascesa che venne sancita dal matrimonio della figlia con un esponente dell'élite locale e dalla nomina del figlio ad abate del locale monastero di San Martin, ente a cui la coppia donò gran parte dei propri beni (insieme con molte carte del proprio archivio, che cosl si sono conservate fino a noi). Fu un'ascesa condotta prima di tutto tramite scambi di terra (e patti matrimoniali), resa possibile anche dalla flessibilità del mercato fondiario, dalla scarsa polarizzazione del possesso (non c'erano grandi proprietari dominanti nel villaggio) e da strutture comunitarie poco definite, al cui interno le gerarchie erano più flessibili (cfr. Portass, 2.017, pp. 66-79 ).
Gundualdo e Bagaudano sono distanti un secolo e mezzo e parecchie centinaia di chilometri, e le differenze tra i due casi non possono essere sottovalutate: ad esempio, nd caso lucchese ha un peso rilevante il vescovo, che assume il controllo sulla chiesa locale, nd contesto di una maggiore forza delle città italiane rispetto al resto d'Europa. Ma concentriamoci sui dati comuni: in entrambi i casi vediamo dei medi possessori che, operando all'interno della società di un piccolo villaggio con una serie di acquisizioni e scambi di terra, diventano membri dell'élite locale. In entrambi i casi inoltre l'azione dd singolo o della coppia non può esaurirsi sul piano economico e fondiario: se la terra consente di costruire la condizione d'élite, a sanzionarla e a renderla pienamente visibile intervengono la fondazione di una chiesa, un patto matrimoniale, una carriera monastica. Infine, un dato per noi fondamentale è che queste e altre vicende familiari ci sono note solo nella misura in cui si legano a una chiesa o a un monastero, soprattutto quando qualcuno trasferisce loro tutti i propri possessi e il proprio archivio, rendendoci visibili le transazioni condotte tra laici nei decenni precedenti. Sono casi molto specifici, ma ci mostrano due dati fondamentali: la terra e il suo scambio sono le basi indispensabili per compiere un'ascesa all'interno della società di villaggio, basi che devono sempre essere integrate da dementi di diversa natura, che sanciscano sul piano politico, simbolico o cerimoniale la nuova condizione sociale. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, con pesi diversi delle varie componenti che vanno a dare vita a un'eminenza sociale locale: servizi per il signore, controllo di chiese, capacità di agire violentemente ecc.; discuteremo di queste diverse azioni nei
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prossimi capitoli. Ma il dato di fondo - ovvero il fatto che il fondamento di qualunque azione politica è nel possesso della terra e nel suo scambio è comune a tutte le vicende che possiamo seguire. Per attuare questa politica, fondata sulla pregnanza sociale degli scambi fondiari, il singolo deve basarsi su una buona conoscenza delle coordinate sociali del villaggio, e non è quindi casuale che - nelle due vicende che abbiamo visto, e in molti altri casi - la politica fondiaria di una famiglia dell'élite contadina si concentri su un territorio ridotto, lo spazio di un villaggio o di pochi insediamenti. Si agisce mossi da intenti politici e di ascesa sociale, rispetto a cui le dimensioni propriamente economiche sono strumentali; perciò si deve operare in un contesto sociale conosciuto e controllabile.
Donazioni e vendite alle chiese Come abbiamo ricordato all'inizio del capitolo, gli scambi fondiari sono documentati prima di tutto attraverso gli archivi delle chiese: è un dato pressoché assoluto per l'Alto Medioevo, quando canoniche, episcopati e monasteri sono i soli enti che producono e conservano in modo regolare la documentazione scritta; ma resta un elemento di rilievo nei secoli successivi, quando la larga diffusione di una documentazione privata laica va ad affiancare, non a sostituire la massiccia produzione documentaria delle chiese. Certo, le scritture dei laici sono la novità che colpisce gli storici quando osservano l'evoluzione delle strutture archivistiche e documentarie; mà le chiese - tutte le diverse chiese - continuano a essere i maggiori proprietari fondiari. I processi che portano alla formazione di questi patrimoni meritano quindi una breve riflessione, dato che costituiscono la più articolata, intensa e documentata rete di scambi fondiari, dotata di caratteristiche in parte specifiche, che la distinguono dagli scambi fondiari tra laici. Gli archivi dei monasteri e delle chiese sono affollati di atti di donazione e di vendita con cui laici di diverso livello sociale cedono la propria terra in favore dei religiosi. Ma la distinzione tra donazione e vendita, così chiara ai nostri occhi, non è del tutto adeguata a comprendere la natura di questi atti, che registrano una realtà più sfumata e complessa. Prima di tutto alcuni atti, pur avendo la forma giuridica della donazione o della vendita, nella sostanza sono realtà intermedie: donazioni in cui la chiesa,
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dopo avere ricevuto una terra, contraccambia il donatore con una somma in denaro; oppure vendite in cui il prezzo è straordinariamente basso rispetto a quelli attestati nello stesso villaggio negli stessi decenni. Sono atti che comprendono sia un elemento di donazione sia un contraccambio economico, e il notaio ha di volta in volta scelto la forma documentaria più adeguata. Una lettura strettamente economica non ci permetterebbe di capire questi atti: dobbiamo invece porci in una più ampia prospettiva di scambio tra laici e chiese, uno scambio di cui la componente economica (innegabile) è appunto solo una componente. Chi dona terre a un monastero o a una chiesa otterrà talvolta un vantaggio economico, una somma più o meno rilevante e più o meno adeguata al valore della terra. Ma valore e prezzo sono due cose ben diverse: il prezzo eventualmente pagato dalla chiesa non corrisponde al valore della terra, perché lo scambio è fatto di molti altri elementi. Dobbiamo tenere presente che in tutte le società il dono non è mai un atto unilaterale, ma è sempre parte di uno scambio sociale: un dono prevede sempre un controdono, l'attivazione di una reciprocità tra le due parti. Lo scambio può coinvolgere beni materiali di natura diversa, ma spesso può essere tra risorse materiali e immateriali; e proprio questo piano è indispensabile per comprendere le azioni e le implicazioni che ruotano attorno ai doni fatti a una chiesa, con i loro valori spirituali e relazionali. Il piano spirituale deve sempre essere tenuto presente e posto in primo piano quando ragioniamo sulle cessioni di terre alle chiese, poiché il primo scopo per cui i laici compiono queste donazioni è sempre quello di ottenere le preghiere dei monaci e dei chierici che, grazie alla loro vita santa, garantiranno la salvezza eterna di chi, vivendo nel mondo, si è macchiato di colpe. Le terre servono a esprimere la propria devozione e a salvare la propria anima, ed è in questo contesto che possiamo cogliere una differenza importante tra la nostra cultura e quella altomedievale. Se attualmente si tende a vedere nella ricchezza della Chiesa una colpa, un venir meno alla sua missione, per gran parte del Medioevo la ricchezza di una chiesa era prova della sua santità, perché certificava in modo concreto e visibile che molti laici si erano affidati alle sue preghiere per salvare la propria anima, e testimoniava quindi la sua fama di santità; una chiesa ricca era agli occhi di tutti una chiesa santa. Solo a partire dal Duecento, con gli ordini mendicanti, troverà spazio un modello di religiosità povera, un ideale di più netto distacco dal mondo materiale.
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Le donazioni e le vendite alle chiese hanno però ovviamente anche un importante valore relazionale, che possiamo vedere seguendo una vicenda specifica, per provare poi a coglierne le implicazioni di valore generale. Negli anni Trenta del XII secolo i monaci cistercensi fondarono l'abbazia di Staffarda nella pianura poco a nord di Saluzzo. Nei decenni successivi l'abbazia attuò un grande consolidamento del patrimonio, grazie a decine di donazioni che seguirono una logica sociale ben precisa: la dotazione iniziale fu opera dei marchesi di Saluzzo, con ampie donazioni; a queste seguirono atti analoghi di dinastie signorili legate vassallaticamente ai marchesi; dall'inizio del Duecento furono attive famiglie di un livello inferiore - piccoli aristocratici o membri dell'élite contadina - di cui spesso cogliamo legami clientelari con i marchesi e i signori locali. Ma nei decenni centrali del secolo assistiamo a due mutamenti importanti: prima di tutto le donazioni lasciarono spazio alle vendite, e aumentò quindi l'impegno finanziario dei monaci per acquisire le terre; al contempo iniziarono tensioni e liti con le comunità contadine, che contestarono il controllo monastico su alcune aree poste ai con.fini tra diversi villaggi (cfr. Provero, 1004).
Donare terre a una chiesa vuol dire creare un legame di solidarietà con questo ente, ovvero con un grande o grandissimo proprietario fondiario, e quindi entrare a far parte della sua rete di amici e clienti. In questo caso c'è un aspetto in più, perché donare terre a Staffarda significa anche manifestare la propria fedeltà al principe che ha contribuito alla nascita dell 'abbazia: non è una chiesa privata, non è sotto il controllo dei marchesi, ma è a tutti evidente che Staffarda è un centro simbolico e cerimoniale del marchesato. In altri termini, donare a Staffarda è un gesto utile per legarsi alla stessa abbazia, ma anche per far pienamente parte della società politica del marchesato, e per questo tra i benefattori di Staffarda troviamo sia i signori di castello sia i cavalieri che ruotano attorno al potere dei Saluzzo. La pratica di beneficiare l'abbazia di Staffarda scende quindi la scala sociale lungo le linee della fedeltà politica, dai marchesi ai signori, ai cavalieri, all'élite contadina. Ma nei decenni centrali del Duecento questo processo si interrompe: da un lato i monaci, per acquisire nuove terre, devono pagare cifre crescenti; dall'altro si aprono delle liti con alcune comunità contadine. Evidentemente la componente immateriale dello scambio (le preghiere dei monaci e la rete relazionale di cui fanno parte} non è più sufficiente a indurre un ampio flusso di donazioni, e possiamo attribuire il mutamento a due fattori: da un lato una trasformazione nella sensibilità religiosa diffusa, in cui trovano sempre più spazio le nuove esperienze
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degli ordini mendicanti (francescani e domenicani), che attirano la devozione laica allontanandola dai cistercensi; dall'altro lato la grande ricchezza dei monaci è divenuta probabilmente eccessiva, invadente rispetto alle esigenze delle comunità locali. Andamenti di questo genere - con una fase di intense donazioni, un accumulo di patrimonio in mano monastica e un successivo attenuarsi dei flussi - sono comuni, tanto che le relazioni tra comunità e chiese possono spesso essere lette come un susseguirsi di cicli di donazioni: una chiesa si afferma all'interno di un villaggio, attira donazioni grazie alla propria santità e alla sua efficacia come centro rdazionale, fino a che l'accumulo di patrimonio è tale da porla in posizione dominante rispetto alla comunità. Questa posizione potrebbe minacciare le forme di autonomia economica della società contadina, che quindi allenta o interrompe la serie di donazioni per non dare ulteriore forza alla chiesa. Nel caso di Staffarda (e spesso delle abbazie cistercensi) si introduce un ulteriore elemento: il patrimonio abbaziale si concentra in larga misura in aree incolte, poste ai margini tra i diversi villaggi. L'incolto non è uno spazio abbandonato e improduttivo, svolge sempre una funzione fondamentale nell'economia contadina (per la caccia, l'allevamento, il rifornimento di legna ecc.); ma è soprattutto nel Duecento che la crescita demografica porta le comunità a interessarsi maggiormente a questi spazi più lontani dagli insediamenti, ed è in questo contesto che la presenza cistercense è vista in alcuni casi come un problema, quando le ampie e compatte terre dei monaci diventano un impedimento all'espansione degli spazi produttivi di comunità in crescita. Ma per comprendere queste tensioni occorre ragionare complessivamente sullo sfruttamento degli incolti comuni e quindi sulle forme di cooperazione contadina: dobbiamo passare dai beni individuali ai beni collettivi, e questo è l'oggetto del prossimo capitolo.
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Per riflettere sulla cooperazione contadina è necessario prima di tutto delineare alcuni processi di lungo periodo. Ogni economia agraria unisce cooperazione e lavoro individuale, ma l'equilibrio tra queste due componenti muta moltissimo nel tempo e nello spazio, ed è una chiave preziosa per comprendere i funzionamenti profondi di una società rurale. In linea molto generale, possiamo dire che nel Medioevo la proprietà delle terre coltivate è in larga parte individuale - di potenti signori o di semplici contadini proprietari delle terre che coltivano - ma una serie di attività si articola in forme di cooperazione più o meno allargata. Nel Basso Medioevo questa cooperazione prende forma all'interno delle comunità contadine organizzate e strutturate, ma la solidarietà e il lavoro collettivo sono ben più antichi dei comuni rurali. L'azione contadina collettiva concerne prima di tutto lo sfruttamento dei beni comuni, e in particolare degli incolti, ovvero soprattutto i boschi e i pascoli. Dobbiamo chiarire che "incolto" non significa affatto "improduttivo": l'incolto è parte integrante del sistema di produzione agraria, una produzione meno intensa rispetto ai coltivi, ma indispensabile sul piano alimentare e del rifornimento di alcune materie prime. Dal bosco si trae il legno (materia prima sia per costruire le case sia per riscaldarle) e gli incolti sono la principale fonte di proteine, grazie alla caccia, alla pesca e soprattutto all'allevamento, di bovini e ovini, ma anche di maiali: questi ultimi erano animali assai diversi da quelli che conosciamo oggi, probabilmente più vicini ai cinghiali, ed erano allevati allo stato brado nei boschi, dove potevano trovare tutto il nutrimento necessario. Ed è proprio l'allevamento a dare vita alle più ampie e diffuse forme di cooperazione contadina. Non pensiamo alla stalla o alla porcilaia individuale, in cui la singola famiglia mantiene le bestie grazie ai propri prati o ai sottoprodotti delle coltivazioni; gli animali sono in genere di proprietà individuale, ma la loro gestione è in linea di massima collettiva: sono raccolti in mandrie e
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greggi di villaggio e affidati a un singolo pastore che li porta a pascolare negli spazi comuni. Questa pratica è ancora più evidente nei molti casi in cui - come vedremo tra poco - i pascoli non sono nelle immediate vicinanze delle case e impongono quindi agli animali e ai loro mandriani piccoli o grandi trasferimenti. Agire collettivamente e condividere delle risorse implica l'esistenza di norme, che possono essere scritte o orali, ma sono comunque note e accettate da tutti coloro che prendono parte a questa condivisione. Così tutte le azioni compiute su un incolto collettivo implicano un processo di organizzazione comunitaria, quanto meno per definire chi ha diritto a fare legna in un certo bosco e chi no, se può abbattere gli alberi o deve limitarsi a raccogliere i rami caduti, quanti maiali può far pascolare e secondo quale calendario e così via. Sono regole emanate da una collettività, che si pone come custode della consuetudine e della norma; e al contempo sono forme di delimitazione dei beni collettivi e della stessa comunità, poiché si definisce quali sono i beni condivisi e chi ha diritto a usarli (e questi processi di delimitazione li vedremo meglio nel capitolo seguente).
Spazi dell'azione collettiva Tutto ciò delinea processi molto generali, di lungo periodo, che però hanno assunto forme e incidenze diverse da luogo a luogo e di secolo in secolo. Per comprendere queste varianti dobbiamo prima di tutto leggere la distribuzione nello spazio di insediamenti, coltivi e incolti, dato che lo spazio fisico in cui 1' azione contadina si inserisce è espressione delle reti di solidarietà e di cooperazione di cui il singolo è parte. La distanza tra le case contadine e le terre è inversamente proporzionale all'intensità del lavoro che esse richiedono: su un orto bisogna lavorare tutti i giorni, su un campo a cereali si lavora con grande intensità ma in pochi periodi dell'anno, sui pascoli si mandano le mucche e le pecore, spesso accompagnate da un mandriano che si prende cura di tutti gli animali del villaggio, mentre il singolo contadino ci va più sporadicamente. Perciò attorno al villaggio possiamo immaginare dei cerchi concentrici, con gli orti a ridosso delle case, i campi attorno all'insediamento, mentre più all'esterno ci sono i prati e poi il bosco. È un'immagine realistica, coerente con le più concrete esigenze di organizzazione del lavoro; ma è anche un'immagine grossolana e un po' fal-
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sante, pev é si basa su due presupposti che si realizzano solo in alcuni casi: c tutta la popolazione contadina sia raccolta in villaggi, e che a ogni vili ·o corrisponda una quota di beni incolti collettivi a cui hanno accesso tutti gli abitanti del villaggio e soltanto loro. Dobbiamo considerare che l'età medievale è sl un mondo di villaggi, ma c'è sempre una quota importante di persone che vive in case sparse o piccole borgate; l'ampiezza di questa quota e il più o meno efficace coordinamento delle case sparse attorno ai villaggi determina forme di sfruttamento molto diverse degli incolti. Anche dal punto di vista del rapporto tra insediamenti e beni collettivi dobbiamo sfumare il quadro, che appare molto diversificato e complesso; vediamo tre esempi, assai lontani nel tempo. Nell' 82.4 la grande abbazia di Nonantola, non lontano da Modena, si trovò ad affrontare in giudizio gli uomini di Flexum, che rivendicavano i propri diritti d'uso su un'ampia fascia incolta, di antica pertinenza regia, nella bassa pianura reggiana. I contadini furono sconfitti e bastonati per la loro insolenza, ma questo ci sorprende fino a un certo punto, poiché il regno era solidale con l'aristocrazia e le grandi chiese, e solo in qualche caso la sua giustizia accoglieva le istanze dei contadini nei confronti dei potenti (cfi-. CAP. 6). Qui è più interessante notare il fatto che Flexum non era affatto un villaggio, ma un'ampia area lungo il Po, in cui uomini dispersi in diversi nuclei insediativi - probabilmente numerosi, sicuramente piccoli - si raccoglievano nella comune fruizione degli incolti. Non a caso, gli uomini di Flexum sono definiti consortes (a indicare coloro che condividono un possesso o un diritto), non vicini (ovvero coloro che abitano nello stesso insediamento; cfr. Lazzari, 2.012.). Nel u53 i consoli di Milano sentenziarono in una lite che opponeva gli uomini di Velate (nei pressi di Varese) alla chiesa di Santa Maria al Monte, posta sulle alture a pochi chilometri dal villaggio. Oggetto della lite erano i boschi posti sul monte, in prossimità della chiesa, su cui rivendicavano diritti d'uso sia gli uomini di Velate, sia la chiesa di Santa Maria, sia infine gruppi di uomini che abitavano sul monte, non lontano dalla chiesa e dai boschi contesi. Questi uomini non avevano costituito una comunità a parte né esprimevano alcuna forma di rappresentanza stabile, ma erano - o rivendicavano di essere - titolari di specifici diritti d'uso sui boschi e su alcuni prati. E la sentenza ci elenca questi usi, contesi tra i diversi gruppi: l'abbattimento di alberi per la costruzione della chiesa e delle case da essa dipendenti; la raccolta dei rami caduti per fare il fuoco; il pascolo dei bovini sui prati e dei maiali nei boschi (soprattutto in quello chiamato Cerreto, ovvero querceto, terreno ideale per il nutrimento dei suini); la raccolta delle castagne; lo sfalcio dei prati (Atti del comune di Milano, pp. 44-6).
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Il terzo caso ci porta molto avanti nd tempo, al di là dd Medioevo, proprio per mostrare come alcuni equilibri e funzionamenti possano avere lunga o lunghissima durata. Nd 1735 il comune di Croce Mosso (ora in provincia di Biella) chiese alla giustizia sabauda che venissero divisi gli alpeggi in quota che i diversi insediamenti della Valle Mosso condividevano. La richiesta non ebbe esito perché non si trovò un accordo su come potessero essere divisi, ma è un momento che ci rivela con chiarezza alcuni funzionamenti economici di questa valle. Divisa dal punto di vista amministrativo in quattro comuni, la valle si articolava in effetti in una cinquantina di cantoni, piccoli insediamenti a base parentale che rappresentavano le vere unità fondamentali della società locale, i principali punti di riferimento per l' appartenenza e l'identità della popolazione. Una valle, quattro comuni, cinquanta cantoni e un solo unico grande alpeggio in quota, a cui accedevano tutti gli uomini della valle {cfr. Torre, 2.on, pp. 187-2.08).
Un ampio e disperso gruppo di uomini che condivide lo sfruttamento di un'area paludosa già spettante al re; un villaggio che per accedere agli incolti deve confrontarsi ed entrare in concorrenza con una grande chiesa; una valle frammentata dal punto di vista insediativo e amministrativo, ma che condivide un'ampia area di alpeggi in quota. Quando la documentazione ci permette di vedere la realtà più in dettaglio, spesso si rivela ben più complessa e diversificata di qualunque modello. In generale, da questi e molti altri casi, appare evidente come gli incolti non siano solo uno spazio di cooperazione, ma anche un campo antagonistico, un luogo e un sistema di risorse attorno a cui i conflitti si addensano. Sono liti tra diverse comunità, che si contendono boschi e pascoli, attraverso atti di delimitazione dei rispettivi territori (cfr. CAP. 4); ma sono anche conflitti tra segmenti di una stessa comunità, al cui interno borgate o anche nuclei parentali rivendicano peculiari diritti d'uso su un determinato bosco. una palude, un fiume pescoso. E infine, liti tra potenti e comunità contadine: i signori che tentano di privatizzare gli incolti, opposti ai contadini che cercano di salvaguardare i propri diritti d'uso, fondamentali per garantire la loro stessa sopravvivenza. È importante sottolinearlo: le risorse che i contadini traggono dagli incolti non sono un'aggiunta marginale, tale da arrotondare il loro reddito o integrare la loro alimentazione, ma elementi costitutivi, fondamentali e indispensabili alla loro sopravvivenza, sia dal punto di vista alimentare (carne, latte, castagne ecc.) sia da quello delle attrezzature dementari (casa,
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riscaldamento, attrezzi agricoli ecc.). Per gli aristocratici non è certo questione di sopravvivenza, ma di mantenere redditi adeguati al proprio stile di vita e per questo il tentativo di impadronirsi degli incolti è spesso una premessa per trasformarli in coltivi, che sono più produttivi e più redditizi. In pratica il bosco è necessario ai contadini per sopravvivere, ma i coltivi garantiscono più prodotti (e quindi un maggiore reddito) ai signori. Tuttavia non possiamo leggere queste dinamiche come una semplice e costante contrapposizione tra contadini che difendono i boschi e signori che privilegiano i campi coltivati, anche perché i boschi hanno per i nobili forti implicazioni simboliche, connesse ai valori della caccia. La caccia non serve ai nobili né per procurarsi carne da mangiare (i resti di animali dimostrano che si cibavano per lo più di bestie da allevamento), né per addestrarsi alla guerra (dato che le armi, le protezioni e i gesti sono profondamente diversi). Piuttosto la caccia, e in specifico la caccia con i cani, è un modo per affermare con piena evidenza il proprio controllo sullo spazio, in particolare sui larghi spazi incolti che fin dall'Alto Medioevo assumono il nome di "foreste~ Boschi e foreste non sono la stessa cosa: il bosco è uno spazio incolto, fitto di alberi, a cui le comunità contadine possono accedere per tutti gli usi che abbiamo visto; la foresta è una zona riservata alla caccia dei re (a partire dal VII secolo) o dei nobili (dal x secolo), un'area prevalentemente boschiva, ma connotata più da un elemento giuridico (il diritto esclusivo dei nobili a cacciare) che da un fatto fisico ed ecologico (l'incolto). Se la caccia è uno strumento per affermare la propria nobiltà, la costituzione delle foreste è una via per imporre un controllo sullo spazio e la propria superiorità nei confronti della popolazione contadina. Mutare i boschi in foreste (ovvero, trasformare gli incolti contadini in spazi riservati alla caccia dei nobili) è quindi una via per strutturare lo spazio come espressione della dominazione aristocratica. Dal punto di vista delle comunità contadine, il danno può essere pesante: per loro la caccia è un' importante e talvolta necessaria via per integrare la propria alimentazione, ed essere totalmente esclusi da ampi settori dd territorio costituisce un danno importante.
I dissodamenti Questa pratica di affermazione dd dominio aristocratico attraverso la costituzione delle foreste si può leggere bene in diversi contesti lungo il
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Medioevo, ma tra XII e XIII secolo le pressioni aristocratiche sugli incolti cambiano natura e finalità, ed è in questa fase che possiamo cogliere con evidenza la spinta signorile a privatizzare e dissodare gli incolti. Siamo in un contesto di intensa crescita demografica, il che implica la pressione sia di gruppi di contadini alla ricerca di terre da coltivare, sia dell'ampia popolazione urbana, che deve procurarsi quantità crescenti di prodotti (acquistandoli dalle campagne, o comprando le terre, così da garantirsi una regolare fornitura diretta). In questo quadro, impadronirsi degli incolti è spesso la premessa per dissodarli e metterli a coltura, in modo che la maggiore produttività possa rispondere alla maggiore domanda. Questo può avvenire in modi diversi, con l'espansione dell'area coltivata di un singolo villaggio o con la fondazione di nuovi villaggi (le cosiddette "villenove"); e diversi sono gli attori di queste trasformazioni, che possono essere promosse dai signori, dai re, dalle città comunali, ma anche dalle stesse comunità contadine (cfr. CAP. 10 ). I gruppi contadini sono parte attiva del mutamento e sfruttano le opportunità offerte dai grandi dissodamenti in atto, intervenendo sia nell'ampliamento dei campi dei singoli villaggi sia nella fondazione di nuovi insediamenti. Dissodare un bosco è un atto di grande efficacia per rivendicare il controllo di un'area: se una comunità si limita a fare legna o a portare le proprie bestie al pascolo, è certo un modo per rivendicare i propri diritti su quello spazio, ma sono atti che possono essere facilmente contrastati da altre comunità concorrenti, semplicemente compiendo le stesse azioni. In pratica, gli uomini del villaggio x tagliano alberi in un bosco, ma la settimana dopo gli uomini di y fanno lo stesso, ed entrambi i gruppi avranno così affermato pubblicamente che quel bosco spetta alla propria comunità. Ma se si procede a un dissodamento e si trasforma un bosco in campi coltivati, il segno lasciato sul terreno sarà evidente, permanente e irripetibile: qualunque cosa succeda, saranno stati gli uomini del villaggio x ad avere trasformato quel bosco in un coltivo (cfr. CAP. 4). Vediamo quindi comunità attive nel promuovere i dissodamenti, ma al contempo molte comunità si trovano a difendere almeno in parte i propri incolti e a definire norme che limitino i dissodamenti. Tra XII e XIII secolo si moltiplicano gli statuti locali e gli accordi con i signori in cui le comunità agiscono per regolare i dissodamenti e imporre forme di tutela sugli incolti: è la testimonianza più chiara del fatto che prati e boschi sono una risorsa indispensabile e i dissodamenti, pur aumentando la produttività delle terre, mettono a rischio l'equilibrio su cui si regge l'economia con-
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tadina. Il disboscamento è infatti una pratica che intensifica le capacità produttive di un territorio, ma ne riduce la varietà, in favore di prodotti ( i cereali, prima di tutto) che sono sl ricchi di calorie, ma che di fatto rischiano di impoverire la dieta contadina, mentre si riducono le risorse che possono derivare da boschi e pascoli e che hanno una funzione fondamentale nella vita e nell'alimentazione. Quella che nella nostra cultura può sembrare l'alimentazione tradizionale contadina - assai povera di proteine e ricca di cereali e di castagne (e poi, in età moderna, di polenta) - è un esito di lungo periodo di queste trasformazioni bassomedievali: anche nell'Alto Medioevo i contadini erano poveri (ed erano pauperes, ovvero deboli e inermi), ma dal punto di vista alimentare avevano qualche vantaggio rispetto ai loro discendenti degli ultimi secoli del Medioevo, perché l'abbondanza di incolti garantiva loro un apporto proteico maggiore.
Alpeggi e transumanza Fin qui abbiamo ragionato principalmente sugli incolti vicini ai villaggi, i prati e i boschi che circondano le case e che i contadini possono raggiungere più o meno rapidamente, comunque all'interno degli spostamenti quotidiani. Ma gli esempi presentati prima, e soprattutto quello relativo alla Valle Mosso, nel Biellese, rimandano anche a un'altra dimensione, gli incolti più lontani e in particolare gli alpeggi, ovvero i pascoli stagionali ad alta quota. Sono posti molto più in alto dei villaggi e spesso a diversi chilometri, e uomini e animali si muovono quindi lungo un ritmo stagionale, con la salita alpeggio a inizio estate e il ritorno a settembre. È la cosiddetta "transumanza", tuttora praticata in molti contesti montani, che garantisce agli animali un nutrimento diverso e più ricco nei mesi estivi. Ma dal punto di vista della politica contadina, la transumanza implica azioni diverse e più complesse rispetto allo sfruttamento degli incolti posti nei pressi del villaggio. Nelle valli montane i villaggi sono posti in genere a quote medio-basse, gli alpeggi ovviamente in alto. Non è raro quindi il modello che abbiamo visto per il Biellese, con diverse comunità che condividono o si spartiscono gli alpeggi: condividono, ovvero identificano un'ampia zona in quota destinata agli alpeggi di tutte le comunità della valle; oppure si spartiscono, attribuendo a ogni villaggio un alpeggio definito, che però - per forza di cose - è lontano dal villaggio e non confina direttamente con lo spazio
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agrario della comunità. Entrambi i modelli rendono necessaria la definizione di una serie di regole concordate e condivise dai diversi villaggi, implicano cioè una forma di cooperazione a livello sovralocale, a comprendere l'intera valle, per regolare pascolo e transito degli animali. Questo non significa che nasca una comunità di valle tale da offuscare le singole comunità di villaggio: piuttosto si definisce una serie di aspetti specifici come appunto gli alpeggi, ma può anche essere il controllo delle acque o la tutela delle strade - per i quali i diversi villaggi istituiscono una forma di cooperazione allargata. Per alcune cose si ragiona a livello di valle, per altre a livello di villaggio (e per altre ancora a livello di singola borgata), senza che questi diversi quadri di cooperazione debbano entrare in conflitto. Diverso il caso della transumanza a lungo raggio, quando greggi e mandrie di pianura si spostano in estate verso la montagna, talvolta a decine o anche centinaia di chilometri di distanza. Non cambia il modello di allevamento, ma muta in modo importante l'azione politica, che vede protagoniste le comunità di pianura da cui le mandrie partono, quelle di montagna dove vanno a pascolare e anche quelle attraversate dagli animali in transito. Tutte queste comunità sono a vario titolo coinvolte nella transumanza, tutte possono trarne dei vantaggi (il nutrimento dei propri animali da un lato, i pagamenti dei diritti di pascolo o di passaggio dall' altro). La transumanza rende quindi necessarie azioni politiche su diversi livelli: all'interno della comunità, per costituire le mandrie che, riunendo gli animali di diversi proprietari, saranno affidate collettivamente ai mandriani incaricati di portarle all'alpeggio; tra le diverse comunità di una valle, che condividono gli alpeggi e un sistema di norme che ne consente lo sfruttamento; tra comunità di pianura e di montagna, per regolare gli spostamenti su lunghe distanze e il connesso sistema di doveri, permessi e pagamenti. È una modalità di gestione dell'allevamento, ma è anche un' azione propriamente politica, se consideriamo la capacità di queste società di attivare contatti e accordi a lunga distanza, per condurre un'azione tendente a garantirsi le migliori opportunità di pascolo in quota, o a sfruttare la propria posizione. Non è però un'azione pienamente libera e autonoma delle comunità contadine: questo movimento a lunga distanza attira l'attenzione degli Stati regionali, che colgono un'importante possibilità di prelievo. A partire dalla metà dd Trecento, la città di Siena impose il proprio controllo sulla Toscana meridionale e la Maremma, un'arca ricca di incolti {paludi, macchie
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e boschi), ·debolmente popolata e in via di progressivo, ulteriore spopolamento in seguito alle crisi demografiche trecentesche. Sfruttando l'assenza di forti poteri e comunità in grado di opporsi, e di fronte a una specifica difficoltà finanziaria della città, i senesi costituirono la Dogana dei Paschi, incaricata di imporre un pesante sistema fiscale sulle greggi condotte sugli ampi pascoli maremmani, prelevando sia diritti di passaggio sia diritti di pascolo. Sostenuta da una dura politica di espropri, la Dogana assunse il controllo di un ampio sistema di terre incolte, danneggiando pesantemente le comunità locali, che si videro ridurre lo spazio destinato al pascolo degli animali da lavoro, a vantaggio del pascolo dei transumanti. Questa politica e il forte squilibrio di potere tra la città dominante e gli attori politici locali portarono a una serie di conB.itti, al cui interno le comunità locali tentarono di difendere i propri spazi e i propri confini, e in particolare quei settori di incolto che non erano stati assorbiti dalla Dogana (cfr. Cristoferi, 2.017 ).
La transumanza è una forma di allevamento in cui la mobilità degli animali suscita un'intensa mobilità di risorse, che attirano l'attenzione fiscale dei poteri dominanti; la distribuzione di queste risorse è una mappa precisa degli equilibri politici regionali, che nel caso di Siena appaiono totalmente sbilanciati a favore della città. L'azione delle comunità qui non può essere uno sfruttamento della transumanza, ma una difesa da essa: non si opera per trarre i massimi benefici finanziari dai pastori (perché questi benefici vanno alla Dogana senese), ma solo per difendere uno spazio vitale per la comunità.
Infrastrutture e coltivazioni Lo sfruttamento e la gestione degli incolti non costituiscono tuttavia il solo ambito in cui possiamo leggere forme di cooperazione contadina. Nei villaggi bassomedievali alcune infrastrutture di trasformazione (soprattutto mulini e forni) sono gestite in modi in parte analoghi agli incolti, in una ricorrente tensione tra la comunità che vuole conservarne il controllo e i signori interessati al potenziale propriamente economico di infrastrutture indispensabili per la produzione contadina. I mulini in particolare sono attrezzature ad alta complessità tecnologica, che richiedono competenze e investimenti per la costruzione e l'uso. Figura chiave è quindi il mugnaio: dotato delle capacità tecniche per gestire il mulino, ricopre una funzione centrale per l'economia e per la stessa sussistenza della popolazione del villaggio, una funzione che spesso si tramanda di padre in figlio (e non
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11 rnNn, m, I cognomi più diffusi in Europa, troviamo tuttora quelli che rhmmdano al mestiere di mugnaio: Molinari, Mounier, Miller, Miiller e cosi via). Il ruolo sociale del mugnaio cambia molto se il mulino è signorile (e in questo caso il mugnaio è un efficace agente del prelievo signorile) o comunitario; ma in ogni caso si tratta di una funzione specializzata e redditizia, una delle vie attraverso le quali un uomo del villaggio può porsi in una condizione di superiorità rispetto ai vicini. È una superiorità di competenza e di risorse, e al contempo è un ruolo dalle grandi potenzialità relazionali, perché tutti devono passare dal mulino e avere a che fare con il mugnaio. Il mulino è quindi uno dei nodi della socialità di villaggio, insieme alla chiesa e all'osteria (o alla birreria nel Nord Europa): qui circolano le notizie e le idee, qui si intreccia quella trama di parole e informazioni che costituisce il gossip di villaggio, la conoscenza minuta della vita dei propri vicini, che è il fondamento di tutte le forme di solidarietà e di con.Ritto all'interno del villaggio. L'attenzione e l'azione delle comunità si osserva anche nella gestione di altre infrastrutture, come i canali di irrigazione e le strade. Non è qui la sede per ricostruire in dettaglio le dinamiche economiche che ruotano attorno a queste infrastrutture: l'elemento centrale - dal punto di vista della capacità contadina di agire sul piano politico - è che le comunità rurali operano attivamente per garantirsi le attrezzature necessarie per la propria produzione, e da qui si innesca una dinamica di cooperazione necessaria all'interno del villaggio o di concorrenza e contrattazione nei confronti dei signori. Un caso anomalo è rappresentato da una struttura che non è della comunità, ma è utile e a tratti preziosa per la sua stessa sopravvivenza, ovvero il castello signorile: la stessa costruzione del castello in molti casi è presa in carico almeno in parte dalla comunità, ma anche in seguito i lavori di manutenzione (fossati, mura, porte ecc.) e i turni di guardia coinvolgono collettivamente la popolazione del villaggio. Qui la cooperazione non si traduce in una concorrenza nei confronti del signore, ma piuttosto in un servizio al signore e questi interventi sono oggetto di contrattazione; ma scavare i fossati del castello non è la stessa cosa, ad esempio, che andare ad arare i campi signorili: il castello risponde a una fondamentale esigenza di sicurezza, è di fatto il centro dello scambio politico tra signore e sudditi, tra la protezione offerta dal potente e i censi e i servizi versati dai contadini, all'interno di quel rapporto che è fatto certo di violenze, di conflitti e di contrattazioni spesso dure, ma anche di collaborazione. Non è quindi
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sorprendente se i servizi al castello sono gli atti per cui le comunità sono in linea generale più disponibili di fronte alle richieste (o imposizioni) dei signori (cfr. anche CAPP. 5 e 10). Anche i lavori sui coltivi possono implicare importanti elementi di cooperazione, ma per leggere questi processi dobbiamo concentrarci sugli ultimi secoli del Medioevo, quando l'evoluzione demografica ed economica suggerì forme di organizzazione del lavoro agricolo divergenti, che in contesti diversi portarono a un incremento o a una riduzione della cooperazione. Tutta l'Europa negli ultimi secoli del Medioevo fu travolta da massicci fenomeni demografici: prima una crescita della popolazione, che si avviò già tra X e XI secolo, per divenire impetuosa nei secoli seguenti e culminare a inizio Trecento; poi un rapido declino, dovuto a sovrappopolamento e carestie, fino alla profonda rottura della Peste Nera, che alla metà del secolo sterminò circa un terzo della popolazione. Il rapporto tra uomini, risorse e terre da coltivare cambiò quindi profondamente, prima con un affollamento di uomini rispetto alle risorse disponibili, poi con un violento e rapido riequilibrio, fino a momenti di vera e propria carenza di mano d'opera. Al contempo, il Basso Medioevo è anche segnato dall'apertura di rotte commerciali nuove, con una maggiore integrazione tra regioni lontane; questo fece sì che la produzione nelle campagne fosse condizionata da esigenze diverse: il sostentamento contadino, il prelievo signorile, il rifornimento delle città vicine, ma anche le prospettive commerciali a lunga distanza. In pratica, l'integrazione commerciale di aree lontane favorì la specializzazione produttiva: come abbiamo visto nel capitolo precedente, c'è sempre un nesso diretto tra specializzazione produttiva e inserimento nelle reti commerciali, che può diventare ancora più rilevante quando queste reti sono ad ampio raggio, tanto che, ad esempio, le richieste delle manifatture tessili italiane poterono condizionare il rapporto tra coltivi e pascoli in Inghilterra, dove si diede uno spazio crescente all'allevamento ovino e alla produzione di lana, redditizia grazie alla domanda di mercati posti a migliaia di chilometri di distanza. In questo contesto vanno lette le trasformazioni delle forme di organizzazione produttiva nelle campagne, fortemente condizionate sia dal quadro demografico sia dall'ampliamento delle reti di scambio. Vediamo tre modelli con implicazioni profondamente diverse dal punto di vista dell'azione contadina. La rotazione è l'alternanza, su un singolo campo, di anno in anno, tra la coltivazione di cereali e l'allevamento (sul campo lasciato a maggese),
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in modo da permettere alla terra di rigenerarsi, grazie alla concimazione garantita dal bestiame; una forma più complessa è la cosiddetta "rotazione triennale': in cui su ogni terra si alternano cereali primaverili, cereali autunnali e maggese. Sono tecniche che garantiscono una maggiore fertilità delle terre e una migliore gestione della mano d'opera della singola famiglia contadina. Una forma specifica e comunitaria di rotazione triennale è l 'assolement, che si diffonde in molte regioni francesi nel Basso Medioevo: l'intero territorio di villaggio viene diviso in tre grandi settori, composto ognuno da molte parcelle di terre di proprietà di singole famiglie, e su questi tre settori si alternano di anno in anno le colture, destinando un settore ai cereali primaverili, uno ai cereali autunnali e uno al maggese e al pascolo. Se quindi la proprietà della terra resta individuale, le scelte colturali, i tempi e molti lavori sono coordinati a livello collettivo e la comunità esercita una notevole coercizione nei confronti del singolo contadino (Leturcq, 2.004, pp. 50-6). L' openfield si diffonde in Inghilterra nel Tardo Medioevo. Il nome deriva dalla morfologia dei campi e dall'assenza di recinzioni che dividano i diversi settori del territorio di villaggio; ma questa è solo l'espressione più evidente di una vera e propria organizzazione sociale ed economica, tanto che è più corretto parlare di openfield system, per porre l'accento non sulla forma dei campi, ma sul sistema economico da cui questa forma deriva. In linea generale, le terre del villaggio sono divise in strisce, coltivate o lasciate a pascolo; le terre, in massima parte di proprietà signorile, sono affidate a contadini affittuari, che ricevono diverse strisce in diversi settori del territorio; i singoli campi non sono però delimitati e recintati, in modo che non ci sia nessun ostacolo allo spostamento delle greggi di pecore, che si muovono sui pascoli e sui campi lasciati periodicamente incolti, nel quadro della rotazione. È evidente come al centro del sistema sia l'allevamento ovino, posto sotto il controllo signorile e destinato alla produzione della pregiata lana che viene commerciata in tutta Europa. È quindi un sistema produttivo modellato principalmente sulle esigenze del signore e sulle sue opportunità di commercializzazione, rispetto alle quali le possibilità di scelta del singolo contadino appaiono assai limitate (Hilton, 1984). Nella Toscana tardomedievale si afferma il modello contrattuale della mezzadria: un grande proprietario (in genere un cittadino) affitta un podere a un contadino, con l'accordo di dividere a metà (di qui "mezzadria") sia le spese vive sia i raccolti. L'accordo spesso non è affatto paritario come potrebbe sembrare, e le clausole contrattuali tendono a favorire il proprie-
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rario e la sua capacità di indirizzare i prodotti verso i mercati cittadini. Dal punto di vista della cooperazione contadina, il dato più interessante è la morfologia e la distribuzione delle terre concesse: se nell'Alto Medioevo la casa di un contadino era di norma inserita in un villaggio e le sue terre erano distribuite in diverse parti del territorio circostante, nel contratto di mezzadria ciò che viene affittato è un podere, ovvero una casa isolata, circondata da tutte le terre che a essa fanno capo. È un modello dettato da esigenze di razionalizzazione, di un più diretto rapporto tra il contadino e le terre affidategli; ma la mezzadria ha anche la conseguenza di indebolire i legami comunitari, dato che diventano pressoché irrilevanti le forme di cooperazione e di condivisione dei beni (Rao, 2.015, pp. 2.13 ss.). Sono tre modelli molto diversi, ma tutti e tre ci mostrano come la distribuzione delle case e dei campi possa essere diretta espressione dei modelli economici e di organizzazione comunitaria. L' assolement ci mostra una comunità coesa e chiaramente delimitata, in grado di definire delle norme di cui diviene depositaria e garante, grazie a una forza di coercizione sufficiente a farle rispettare dai propri membri. Anche l' openfield system rivela quello che potremmo definire un rapporto collettivo con lo spazio agrario, al cui interno è debole la separazione tra le terre affidate ai diversi contadini; ma l'elemento costitutivo è qui rappresentato piuttosto dal signore, che distribuisce le terre e condiziona tutta l'attività agraria alle proprie esigenze connesse all'allevamento e ai suoi grandi profitti. Infine la mezzadria, in cui la comunità scompare come struttura di cooperazione contadina: restano molti punti di riferimento comunitari (ad esempio le parrocchie; cfr. CAP. 9), ma l'azione economica contadina si articola in una prospettiva individuale e familiare, in cui il singolo contadino si confronta con il proprietario più che con la comunità.
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Identità multiple L'elaborazione di un'identità collettiva si compie prima di tutto attraverso processi di opposizione, ovvero distinguendosi e contrapponendosi alle collettività vicine; al contempo si innescano processi di delimitazione, si tracciano i confini della comunità nella società e nel territorio. Si identifica quindi chi fa parte della collettività e chi no, individuando degli indicatori adeguati (chi possiede terre nel villaggio, chi è stato battezzato nella parrocchia, chi paga le tasse ecc.), e al contempo si delimita lo spazio di questa comunità, l'insieme dei luoghi e delle risorse su cui rivendica diritti. Le due dimensioni - delimitazione della comunità e del territorio - sono strettamente connesse e interdipendenti: la formazione della comunità induce gli abitanti a definire i propri spazi, ma è proprio il fatto di agire collettivamente su determinati spazi a costituire la solidarietà comunitaria. Le comunità rurali hanno ovviamente un livello di elaborazione ideologica e politica molto più basso ed elementare dei comuni cittadini, e per leggerne l'identità collettiva e i suoi limiti non possiamo cercare testi teorici o narrazioni in cui gli orizzonti politici comunitari siano enunciati con chiarezza e consapevolezza. Dobbiamo invece partire dalle azioni, dai momenti in cui si opera collettivamente, perché sono queste azioni a definire la collettività e i suoi limiti. Le azioni e non la struttura insediativa: ovvero non possiamo dare per scontato che 1'esistenza di un villaggio implichi una comunità di villaggio. Quando ad esempio si contrattano le corvées dovute a un signore o si gestisce collettivamente un bosco o i diritti di pesca in un lago, la collettività non nasce dall'insediamento, ma dalle azioni, dalle risorse e dai rapporti di dipendenza: nel primo caso sarà formata dai dipendenti del signore, ovunque abitino; nel secondo e nel terzo da tutti coloro che - sia pure residenti in nuclei insediativi diversi - si
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alf:u:dano su quel bosco o su quel lago. In nessuno di questi casi la collettività corrisponde agli abitanti di un villaggio; eppure non c'è alcun dubbio che queste siano azioni collettive di grande rilievo per gli uomini che vi partecipano, azioni che fanno di queste persone una comunità, più o meno stabile. Questo ci aiuta a comprendere che sarebbe sbagliato ragionare sulla base di una piena equiparazione tra villaggio e comunità: le azioni collettive si possono articolare su orizzonti e in quadri territoriali molto vari e le diverse forme comunitarie non sono alternative, ma in molti casi convivono in modo non conflittuale. Nella Valtellina tardomedievale, il quadro amministrativo di riferimento era il comune di Bormio, che comprendeva un vasto territorio montano. Al suo interno erano comprese diverse valli e gli abitanti di ogni valle si coordinavano per le azioni e gli interessi comuni. Ma a loro volta le valli comprendevano molte contrade, piccoli insediamenti che si organizzavano per gestire beni comuni, costruire chiese e cimiteri. Un singolo si trovava quindi a far parte del comune di Bormio, ma anche della Valfurva e della contrada di Teregua. Ma se la solidarietà interna a una contrada era quella tra vicini, tra persone che abitavano nello stesso piccolo insediamento, si poteva essere vicini anche in altri modi: vicini di pascolo, di alpeggio, di bosco, perché in molti casi un uomo portava i propri animali al pascolo vicino a persone che abitavano in altre contrade, in altri villaggi. Con tutti questi vicini si poteva e si doveva cooperare. In sostanza, un valtellinese del XIV e xv secolo poteva identificarsi con quattro-cinque comunità (vicini di pascolo, vicini di casa, abitanti della stessa valle, membri del comune di Bormio), diverse per dimensioni, per rilevanza e soprattutto perché servivano a gestire questioni ben distinte (il rapporto con il principe, la ripartizione fiscale, la gestione della chiesa locale, l'uso degli incolti ecc.; cfr. Della Misericordia, 2.006).
Ci troviamo di fronte ad appartenenze comunitarie multiple e non esclusive, che possono benissimo convivere e sono strettamente connesse alle specifiche azioni compiute (diverse comunità per diverse azioni). L'identità comunitaria non è un dato stabile e definito, ma un discorso sempre aperto e mutevole, continuamente costruito e ridefinito: così, ad esempio, se una famiglia di una vallata alpina rinuncia a dedicarsi all'allevamento, per concentrarsi sull'artigianato o sul commercio di legname, per queste persone il vicinato di alpeggio perderà importanza, mentre resteranno del tutto attive altre solidarietà (di contrada, di valle ecc.). La coesistenza di diverse collettività che insistono sugli stessi spazi nasce quindi dalla varietà delle azioni politiche ed economiche della socie-
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tà contadina: contrattare con il signore, sfruttare un bosco o costruire la chiesa locale sono atti che definiscono configurazioni sociali via via diverse. Queste identità non corrispondono alle articolazioni insediative, ma spesso si agganciano a specifici luoghi o edifici: può essere una chiesa o un cimitero (cfr. CAP. 9 ), ma anche una piazza, un'area di mercato, un albero monumentale sotto cui ci si riunisce in assemblea. Se i confini di una comunità sono continuamente messi in discussione e ridefiniti, il suo centro simbolico spesso è evidente e stabile.
La formazione dei villaggi Il continuo processo di formazione delle identità comunitarie attraverso le azioni è un dato di lungo periodo, ma possiamo individuare alcune linee di evoluzione e scansioni cronologiche. Dal punto di vista insediativo, il modello del villaggio - abitazioni raggruppate in piccoli nuclei, con poche case disperse - è nel complesso prevalente fin dall'Alto Medioevo, ma abbiamo visto che l'esistenza dei villaggi non implica di per sé l'esistenza delle comunità di villaggio. Possiamo leggere le dinamiche politiche locali soprattutto a partire dall'età carolingia, quando il ricorso di gruppi contadini alla giustizia regia per cercare la protezione contro i vicini potenti (cfr. CAP. 6) rende visibili alcune specifiche dinamiche e tensioni, e soprattutto alcuni elementi che fondano e definiscono le collettività. In età carolingia i gruppi contadini manifestano fondamenti diversi della propria solidarietà: spesso si richiamano a un luogo, a quello che presumibilmente è un nucleo insediativo e assume valore identitaria (e si definiscono homines de, che non necessariamente significa "tutti gli uomini di"); ma vediamo emergere solidarietà di tipo parentale e soprattutto forme di coordinamento che vanno al di là del singolo insediamento. Nel capitolo precedente abbiamo visto il caso degli uomini di Flexum - un'area ampia, che comprendeva diversi insediamenti - che nell'82.4 si erano opposti all'abbazia di Nonantola per difendere i propri diritti d'uso su un vasto incolto vicino al Po. Vediamo un altro caso, non lontano nel tempo. Gli uomini della Valle Trita (negli Appennini abruzzesi) seppero opporsi a lungo ed efficacemente alle pressioni dell'abbazia di San Vincenzo al Volturno (il conAitto è attestato in una serie di liti dal 779 ali' 872.). Il dato eh.e qui più ci interessa
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è la composizione di quesca colletcività, così atciva ed efficace sul piano giudiziario
e politico: erano uomini provenienti da diversi villaggi della valle, che si coordinarono non solo per respingere alcune richieste dell'abate, ma anche per cercare di difendere le proprie ragioni di fronte alla giustizia regia (cfr. Wickham, 1982.).
In un caso (Flexum) uomini uniti dalla condivisione di beni incolti posti lungo il Po, nell'altro (Valle Trita) persone di diversi villaggi raccolti in una valle montana; comune ai due casi è il confronto con grandi abbazie, detentrici di immensi patrimoni che coinvolgono questi e altri villaggi. Di fronte a signori fondiari che agiscono su ampia scala, questa può divenire anche la scala d'azione dei contadini, che sono in grado di coordinarsi attraverso diversi insediamenti, sulla base di interessi comuni e della comune dipendenza dall'abbazia. Se il singolo villaggio ha un certo rilievo identitario (e spesso l'individuo è identificato con il villaggio in cui abita), non per questo è necessariamente il quadro organizzativo dell'azione politica. I gruppi che agiscono collettivamente in giustizia non sono mai tutti gli uomini di un villaggio, ed esprimono invece solidarietà costruite attorno a legami parentali, alla comune dipendenza da un signore, alla comune fruizione di un incolto. Talvolta sono una parte del villaggio, talvolta sono gruppi che raccolgono persone di molti insediamenti diversi: sono forme di solidarietà che segmentano o superano il quadro di villaggio. Abbiamo cosl visto ai due estremi cronologici (nelle liti di età carolingia e nel caso della Valtellina tardomedievale) come l'identità collettiva nelle campagne sia una realtà fluida e manipolabile, rispetto alla quale il riferimento al singolo villaggio è un'opzione sempre aperta e possibile, ma mai obbligata. Questo non deve però indurci a leggere questi secoli come sostanzialmente immutabili, con una serie di opzioni comunitarie sempre parimenti disponibili alla società contadina: a partire dai secoli centrali del Medioevo leggiamo in tutta Europa un mutamento che porta a una maggiore rilevanza dei villaggi come quadri di riferimento dell'identità e dell'azione contadina. Su questo processo dobbiamo soffermarcL Il x e l'xr secolo sono complessivamente segnati, in larga parte d'Europa, dalla rielaborazione dei modelli di potere carolingi verso una crescente autonomia delle aristocrazie e delle chiese: la dinamica politica si sposta via via in sede locale, il coordinamento regio perde rilievo e le comunità contadine si trovano a confrontarsi esclusivamente con i potenti locali, senza una reale possibilità di fare ricorso alla giustizia regia. È un genera-
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le spostamento degli equilibri politici, con un indebolimento del potere regio e dei suoi rappresentanti e un peso crescente delle dinamiche e delle solidarietà locali (signorie, clientele, comunità cittadine e rurali, parrocchie), che si attua con tempi e forme diverse, ma connota complessivamente i territori già compresi nell'Impero. Questo consolidamento delle solidarietà locali si traduce anche in un maggiore peso dei villaggi, che si affermano come il principale quadro di riferimento dell'azione politica contadina; non diventano (e non saranno mai) un quadro unico e obbligato, ma indubbiamente nel XII e XIII secolo i villaggi e i loro territori hanno un peso molto maggiore che in età carolingia, come quadri della politica contadina. Questa crescita di rilievo politico dei villaggi implica un'accentuata tensione attorno alla loro delimitazione: chi fa parte della comunità di villaggio? Chi può fruire dei suoi beni comuni? Chi deve sottomettersi agli stessi obblighi fiscali? Apparentemente la risposta è semplice ed è coerente con il linguaggio delle fonti: fa parte della comunità chi abita nel villaggio. Cosl la definizione di "abitante" ricorre spesso negli atti di franchigia, a indicare i destinatari della concessione signorile, o a designare chi potrà disporre di specifici diritti, come ad esempio nei casi in cui si stabilisce che i concessionari di terre signorili potranno cedere le terre solo agli abitanti dello stesso villaggio. Ma il preciso significato di questo termine e le sue implicazioni non sono del tutto evidenti e sono oggetto di specifiche tensioni. Vediamo due esempi piuttosto vicini nel tempo e nello spazio. Nel n89, di fronte al vescovo di Tortona, una lite oppose i consoli dd villaggio di Bagnolo ai Bonacossa, «già abitanti di Bagnolo, ora di Medassino». I Bonacossa sostenevano di avere il diritto di far legna nel bosco di Bagnolo come avevano coloro che abitavano a Bagnolo, perché i loro antenati ne erano stati investiti in quanto abitanti; i consoli risposero che tale diritto era stato concesso dalla chiesa di Tortona solo agli abitanti di Bagnolo, non ad altri. La tesi dei consoli fu vincente: il vescovo vietò ai Bonacossa di far legna in questo bosco fino a che avessero continuato ad abitare fuori Bagnolo. E sentenze simili si ripeterono negli anni successivi per casi analoghi. Nei primi decenni del Duecento una complessa lite contrappose i canonici di Casale Monferrato e i signori di Torcello, per il controllo del vicino villaggio di Rolasco; in questa lite fu coinvolta tra gli altri una famiglia contadina di Rolasco, i Crescenti, che nella fase più dura degli scontri si erano allontanati dal proprio villaggio, probabilmente per timore che i signori si rivalessero violentemente contro
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di loro; ma questo allontanamento poteva componare di fatto la loro esclusione dalla comunità e dai circuiti sociali locali, e più precisamente la perdita dei loro diritti sui beni comuni. Perciò, quando si raccolsero deposizioni per la lite tra i canonici e i Torcello, gli stessi Crescenti approfittarono della testimonianza per descrivere al giudice le cause del trasferimento e la natura giuridica del loro vivere altrove: in specifico, l'intento dei Crescenti era quello di dimostrare che non si erano allontanati per scdta e soprattutto che, se pure erano altrove, tuttavia non abitavano altrove. Così Milone Crescenti dichiarò che i figli erano stati arrestati in Prarolo, ma che erano li per aiutarlo e «non abitavano lì stabilmente»; e così anche un canonico, solidale con i Crescenti, dichiarò che «non stavano Il a titolo di abitazione, perché non avevano un'abitazione, dato che erano stati espulsi dalla loro casa» (per entrambe le vicende, cfr. Provero, 2.012., pp. 2.51-3 e 434 ss.).
Da queste due vicende emerge con forza l'idea che il fatto di abitare in uno specifico luogo sia importante e ricco di implicazioni, come è pienamente esplicitato nel caso di Bagnolo: chi abita in un villaggio ha diritto di usare i beni comuni, chi non vi abita no. Perciò si lotta per vedere riconosciuta la propria condizione di abitante, come è il caso dei Crescenti a Rolasco, o si tenta - in genere senza successo - di vedersi riconosciuti questi diritti d'uso anche a prescindere da un'effettiva residenza nel villaggio, come avviene a Bagnolo. E proprio il caso di Bagnolo ci mostra che essere abitanti non è un diritto acquisito o la conseguenza dello status dei propri antenati, ma un'azione, una pratica; non sempre però è chiaro di che cosa sia fatta questa pratica, ovvero che cosa specificamente distingua un abitante da uno che non lo è. Certo, per rivendicare questa condizione è necessario possedere (o comunque avere a disposizione) una casa e delle terre, ma questo di per sé non è sufficiente, perché si possono avere case e terre in diversi villaggi; ha sicuramente rilievo la quotidianità, il fatto di essere fisicamente presenti nel villaggio giorno dopo giorno (ed è da qui che nasce il timore dei Crescenti, che non possono restare nel villaggio di Rolasco, ma vogliono conservare la propria condizione di abitanti); ha infine un peso determinante la pubblica fama, quella conoscenza diretta della condizione individuale che tutti gli abitanti del villaggio hanno: in comunità così piccole tutti conoscono il passato, il presente, i possessi e gli obblighi dei propri vicini, non è possibile sostenere di abitare in un villaggio se gli al~ri abitanti lo negano. Le tensioni relative all'appartenenza comunitaria subiscono una chiara accentuazione tra XII e XIII secolo, in parallelo ai mutamenti demografici e insediativi in atto: è una fase di crescita demografica e quindi di
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accentuata pressione sulle risorse, a cui la società rurale risponde in generale con un consolidamento dei quadri comunitari e con una maggior attenzione a riservare l'accesso agli incolti a chi effettivamente fa parte degli abitanti del villaggio. Lungo il Duecento si definiscono meglio le istituzioni locali, ma è soprattutto un fatto di più netta delimitazione della comunità e di una generale tendenza a un più preciso incasellamento dei singoli nei quadri comunitari, istituzionali e territoriali. Il processo è ancora più evidente nei momenti di creazione di nuovi villaggi (le villenove; c&. CAP. 10), per cui chi si trasferisce in una villanova dovrà compiere la scelta di abitare nel nuovo villaggio, rinunciando ai diritti che aveva nella vecchia residenza. Una chiara delimitazione del villaggio e dei suoi abitanti può essere anche un'esigenza dei signori, nel tentativo di definire quadri di potere più chiari e controllabili, ma qui è soprattutto importante sottolineare la doppia azione politica contadina, ad opera dei singoli e delle comunità. Dal punto di vista del singolo, definire il proprio status come abitante di un villaggio è fondamentale per affermare e difendere le proprie prerogative, e soprattutto i diritti d'uso sui beni comuni. Dal punto di vista delle comunità, si tratta essenzialmente di un meccanismo di delimitazione e di esclusione, una via per conservare l'equilibrio tra la popolazione del villaggio e le sue risorse.
Fisco, istituzioni e differenze sociali I processi di delimitazione e definizione delle comunità sono quindi strettamente connessi alle risorse collettive e alla loro fruizione, ma questo non deve nascondere una serie di altri fattori che condizionano questi processi e che possiamo ricondurre a tre ambiti: la pressione fiscale, i modelli istituzionali e le articolazioni sociali interne alle comunità. Vedremo invece nel capitolo 9 le importanti implicazioni delle chiese come fattori di costruzione della comunità.
Fisco
In tutta Europa dal XIII secolo in poi si consolidano i sistemi di prelievo fiscale, in mano ai re, ai prlncipi e alle città comunali; ricompare soprattutto
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I'i 111 p< i sta di retta, basata sui patrimoni, una forma di prelievo che era pres-
srn:hé assente fin dal tardo Impero romano (mentre erano sempre rimaste vive le imposizioni indirette, ovvero i prelievi compiuti sulle operazioni economiche, come ad esempio i pedaggi sulle merci di passaggio). Questa evoluzione ha un duplice impatto sulle società rurali: prima di tutto economico, perché le imposte vanno a gravare soprattutto sul mondo delle campagne, mentre i cittadini fruiscono in genere di forti esenzioni e privilegi: e poi istituzionale, perché le comunità rurali diventano i quadri organizzativi del prelievo. Prìncipi e città comunali non hanno un apparato burocratico così forte da poter mandare agenti del fisco in ogni villaggio, e si appoggiano quindi sulle singole comunità e sulle loro istituzioni, rendendole responsabili in solido del pagamento delle imposte e lasciando a loro il compito di ripartirle tra gli abitanti. In pratica, il principe stabilisce (o contratta con la comunità) la somma dovuta dal singolo villaggio e non si occupa poi di prelevare casa per casa, famiglia per famiglia, ma lascia che sia la comunità locale a definire i meccanismi di ripartizione e a procedere al prelievo. Anche per questo agli occhi della comunità diventa sempre più importante chiarire chi abita in un villaggio e deve perciò partecipare alle imposizioni fiscali. La pressione fiscale e la tensione sui beni collettivi convergono quindi a far crescere di importanza le comunità di villaggio e i loro limiti. Ma se consideriamo i meccanismi di inclusione ed esclusione, notiamo che le risorse comuni e le tasse possono condizionare il processo in direzioni opposte. Nel caso di Bagnolo, è evidente come la comunità cerchi di escludere, di negare il diritto di accesso ai boschi a chi è uscito dal villaggio; ma di fronte alla pressione fiscale dello Stato, altri villaggi saranno invece ben contenti di accogliere nuovi abitanti, di includere nella comunità persone che possano condividere i carichi fiscali, soprattutto nei contesti in cui i beni collettivi sono ridotti. È il caso dei villaggi di alcune aree della pianura lombarda nel Quattrocento, dove le terre sono in massima parte private e dove quindi c •è in fondo poco da condividere in termini di risorse, ma è necessario ripartire una pressione fiscale crescente. Qui le comunità sono ovviamente ben disposte ad accogliere al proprio interno chiunque voglia trasferirvisi, perché ogni nuovo abitante va ad alleggerire il carico fiscale individuale, senza ridurre in modo significativo le risorse disponibili (Del Tredici, 2013, pp. 166-8).
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Istituzioni Lo Stato - che sia un regno, un principato o una città comunale - cerca nelle comunità di villaggio un interlocutore affidabile e riconoscibile, tramite il quale agire sulla società locale e soprattutto prdevare le tasse. Questi poteri hanno quindi la precisa esigenza di arrivare a una migliore e più omogenea definizione istituzionale delle comunità: re e principi non sono fautori di solide autonomie comunali, a cui anzi guardano con diffidenza, come un potere dinastico può guardare all'instabilità propria delle cariche elettive; ma comunità ben definite e riconoscibili sono uno strumento necessario per un principe che voglia semplificare il confronto con le società locali, ritrovare da un luogo all'altro le stesse cariche, le stesse funzioni e possibilmente le stesse norme. I modelli istituzionali circolano in ogni contesto, ed è naturale che una comunità tenda a riprendere i moddli e le forme organizzative che funzionano bene nelle comunità vicine; questo si vede negli statuti comunali, che spesso vengono copiati da quelli di altri villaggi, con pochi indispensabili adattamenti (cfr. CAP. s). Questa tendenza generale viene però ulteriormente accentuata quando i comuni sono inseriti in un quadro statale unitario, che promuove questa omogeneità. Il processo di delimitazione ddle comunità diventa quindi un processo di definizione istituzionale, in cui si precisano e si regolano i funzionamenti e le competenze: assemblee, consoli, una casa comunale, un piccolo archivio.
Differenze sociali Ddimitare una comunità significa affermare la sua diversità rispetto a ciò che sta fuori (le comunità vicine, essenzialmente), esaltando quindi l'omogeneità interna, sintetizzata in quell'espressione breve ed efficace con cui i componenti ddla comunità sono indicati in molti atti, homines de, gli uomini di un certo villaggio, senza distinzioni e senza sfumature. Per leggere la società di villaggio dobbiamo però evitare in ogni modo l'immagine di una collettività di uguali, che condividono paritariamente (e pacificamente) oneri e diritti. Il villaggio è un mondo di conflitti e di differenze spesso di grande rilievo: differenze sul piano insediativo, perché U villaggio raramente è un nucleo unico e compatto, spesso riunisce borgate e case sparse; differenze sul piano economico, tra chi è proprietario dellt terre che coltiva, chi le prende in affitto e chi invece non ha nulla, se non
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la propria forza lavoro, da offrire come salariato a chi è più ricco; e infine differenze da un punto di vista propriamente giuridico, nella distinzione fondamentale tra gli homines e i milites, ovvero tra le persone comuni e i cavalieri. Lungo il Basso Medioevo, questi cavalieri formano una piccola aristocrazia di campagna, che spesso sul piano economico non è molto diversa dai più ricchi proprietari fondiari non nobili; ma il fatto di essere cavalieri li pone in una posizione peculiare nei confronti sia del mondo esterno sia della comunità di villaggio: verso l'esterno i cavalieri fanno parte di una rete di legami (vassallatici e matrimoniali) che li unisce alle famiglie più potenti della regione: nel villaggio godono di una serie di privilegi ed esenzioni. Questi vantaggi si fondano sull'idea che gli specifici compiti militari dei cavalieri {centrali negli eserciti bassomedievali) debbano essere ricompensati con l'esenzione da alcuni carichi fiscali e con un accesso privilegiato ai beni collettivi {ad esempio, potranno mandare i propri uomini a pescare in corsi d'acqua preclusi agli altri, oppure iniziare a raccogliere le castagne due giorni prima dei vicini ecc.). Omogeneità economica e differenza giuridica: da qui deriva una certa difficoltà a definire la condizione dei cavalieri che vivono nel villaggio ma non sono in tutto e per tutto membri della comunità come gli altri. Il processo di delimitazione della comunità deve fare i conti con queste differenze, e può portare a tracciare confini all'interno stesso del villaggio. In linea molto generale - ma è davvero solo una linea di tendenza - nel Nord Europa sembra prevalere l'idea che i cavalieri non facciano parte della comunità anche se vivono nel villaggio, mentre nelle aree più meridionali prevale 1' idea opposta, per cui i cavalieri sono parte della comunità, ne condividono risorse e obblighi, ma con forme e privilegi che devono essere via via definiti e regolamentati.
Territori, pertinenze e confini Non esiste un'idea astratta di comunità, che prescinda dall'azione collettiva: è prima di tutto l'esigenza di agire su uno spazio condiviso che rende necessaria l'elaborazione di forme comunitarie, forme che tuttavia diventano a loro volta un quadro condizionante dcli' azione collettiva. Ad esempio, per costruire e gestire un mulino ci si può organizzare in tante forme diverse (a livello di borgata, di villaggio, di valle ecc.), ma nei conte-
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sti in cui la comunità di villaggio è una realtà solida e organizzata, già attiva per gestire i pascoli o la manutenzione della chiesa, sarà questo il primo suggerimento, verrà spontaneo usare il villaggio come quadro istituzionale per gestire il mulino. È sempre una scelta, ma usare come quadro organizzativo le forme comunitarie già attive a livello locale è la scelta più ovvia. Azioni e forme comunitarie si condizionano quindi a vicenda, e lo stesso possiamo dire per comunità e territorio: una comunità proietta la propria azione nello spazio, sulle aree dove sono poste le risorse a cui attinge e dove si muovono i suoi membri; e al contempo è proprio il fatto di agire in uno spazio e di condividere lo sfruttamento di alcune risorse che porta individui e famiglie a pensarsi come comunità. Se la cooperazione nasce prima di tutto sul piano economico, è su questo stesso piano che possiamo cogliere le basi del processo di delimitazione del territorio comunitario: lo spazio di una comunità è lo spazio delle risorse a cui essa accede. È uno spazio molto diversificato, tra case, orti, coltivi, prati, boschi ecc.; e anche l'azione della comunità sul territorio ha livelli diversi di intensità, legati agli spostamenti di uomini e animali: gli uomini sono quotidianamente sugli orti, spesso sui campi, più episodicamente su prati e boschi; qui invece troviamo regolarmente gli animali al pascolo, che sono in larga misura esclusi dall'area delle case e degli orti, e solo stagionalmente si spostano sui pascoli d'altura, accompagnati da un gruppo ristretto di mandriani. L'insieme di queste azioni e di questi spostamenti delinea uno spazio comunitario diversificato e complesso. Per cogliere i processi di delimitazione di questo territorio comunitario, dobbiamo compiere un salto culturale, entrare nelle categorie mentali che sono alla base del rapporto tra uomini e spazio nelle campagne medievali. Nella nostra cultura, il territorio di una comunità o di una nazione è delimitato da un confine, una linea netta e definita con precisione, che distingue due spazi mutuamente esclusivi: da una parte è Francia, dall'altra Italia. E in linea di massima si pensa che lo spazio collettivo debba essere continuo e coeso, per cui ci sembra una curiosa anomalia un caso come Campione d'Italia, comune italiano completamente circondato dal territorio svizzero. Se però ci spostiamo a livello locale, ad analizzare i territori e i confini dei comuni, ci accorgiamo che realtà di questo tipo sono tuttora molto frequenti: piccole o grandi aree che dipendono da un comune ma sono separate dal resto del territorio comunale, quelle che vengono definite isole amministrative.
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Questi casi ci appaiono come residuali e anomali, in contrasto con la nostra cultura politica fondata su un'idea di confine lineare e di territori coerenti e unitari. Nel pieno Medioevo constatiamo però una realtà e una cultura diverse, in cui lo spazio comunitario non deve essere per foria un'area coesa, continua e ben delimitabile. Lo abbiamo visto in alcuni esempi del capitolo precedente, mostrando come gli alpeggi siano spesso lontani dal villaggio e non contigui alle altre risorse della comunità. Vediamo ora un esempio piuttosto diverso, lontano dalle aree alpine. Negli anni Quaranta del Duecento i comuni di Alba e Asti avviarono una forte pressione politica sull'area attorno a Bra, villaggio che passò socco il controllo astigiano. Nd 12.47 Uberto, membro della famiglia signorile di Bra, presentò una serie di deposizioni per dimosuare che la borgata di Alzabecco non era parte del territorio di Bra, ma era un «luogo a sé stante», dotato di «territorio e giurisdizione propri». L'azione di Uberto è chiara: voleva salvare un suo nucleo di potere dall'affermazione cittadina, cercando di dimostrare che Alzabecco non poteva essere considerato parte di Bra e quindi non doveva essere compreso nella sottomissione di quest'ultimo villaggio ad Asci Definire il piccolo villaggio come una comunità a sé implicava definirne anche uno spazio di azione, un territorio; ma questo non comportava affatto l'identificazione di una linea di confine netta né di uno spazio coeso e di pertinenza esclusiva di Alzabecco. Vediamo anzi come per alcune zone i testimoni possano affermare che vi agissero contemporaneamente gli uomini di Alzabecco, di Bra e di Pocapaglia (altro villaggio vicino), e che tutti costoro avevano compiuto dei dissodamenti, ovvero l'atto che più di tutti (come abbiamo sottolineato nd capitolo precedente) era visto come un'affermazione forte e permanente dd controllo comunitario su una zona. Nelle parole dei testimoni, le terre sono «miste», i territori «si tengono insieme» (cfr. Provero, 2012, pp. ;24-38).
Casi come questo ci suggeriscono una diversa idea di spazio della comunità, da concepire come insieme delle risorse a cui la collettività ha accesso, ovunque esse siano. Perde cosl rilievo la nozione di confine inteso come una linea che distingua in modo preciso e netto un territorio comunale da un altro, e la definizione di un distretto comunale coeso e unitario non è una priorità di queste comunità. L'idea di pertinenza (che permette di definire lo spazio comunitario come l'insieme delle risorse a cui il villaggio accede) prevale su quella di confine (che delimita questo spazio con una linea netta, senza ambiguità e senza intrecci territoriali). Se confrontiamo i casi duecenteschi con la nostra cultura attuale, potremmo pensare a un'evoluzione dei modelli culturali dall'idea di pertinenza a quella di·
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confine. Ma fa documentazione tra Tardo Medioevo ed età moderna ci mostra come l'idea di pertinenza sia a lungo centrale nella cultura delle società rurali. Nel
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una lunga lite confinaria tra Campli e Civitella del Tronto (Teramo)
fu sottoposta al giudizio degli inviati del re Ferdinando d'Aragona. I giudici regi fissarono a più riprese una linea di confine tra i due villaggi, ma le loro decisioni erano sempre in contraddizione con le dichiarazioni dei rappresentanti delle comunità, che descrivevano una vita quotidiana in cui l'uso di acque, campi, pascoli e boschi era pienamente intrecciato. Per arrivare a una sentenza che chiudesse effettivamente la lite, si dovette tracciare sl una linea di confine, ma deliberare anche un uso condiviso di alcune fonti, degli incolti destinati alla caccia e di alcuni terreni (cfr. Marchetti, 2,001, pp. 8 ss.). Tra 1688 e 1739, sull'Appenino ligure, una lunga lite oppose Codorso e Strepeto, o meglio la Repubblica di Genova e il Ducato di Parma, a cui i due villaggi facevano rispettivamente capo; il confine tra i due villaggi assunse quindi particolare importanza e visibilità perché coincideva con il confine tra due Stati. Entrambi gli Stati inviarono sul terreno i propri ufficiali e cartografi, per compiere due azioni strettamente connesse: raccogliere deposizioni per sostenere le proprie ragioni e disegnare delle carte che rappresentassero la realtà e le proprie pretese. Ma proprio dal confronto tra deposizioni e mappe, ci rendiamo conto di una divaricazione fondamentale, non perché le mappe contraddicano le deposizioni, ma piuttosto perché cartografi e testimoni esprimevano due culture diverse: i cartografi si basavano su princlpi geometrici, cercavano sul terreno i termini (le pietre confinarie) e i punti di riferimento che permettessero di tracciare una linea di separazione tra i due territori; i testimoni parlavano invece di una pluralità di luoghi e di atti, soprattutto dei ronchi (i dissodamenti) compiuti dagli uomini dei due villaggi al di qua e al di là della linea di confine. I testimoni non cercavano la linea e non ragionavano in termini di confine, ma di specifici luoghi in cui le due comunità avevano operato. E la conclusione dei cartografi genovesi fu che di fatto era impossibile tradurre coerentemente le deposizioni dei testimoni in un'astrazione geometrica (cfr. Raggio, 2,001). I villaggi di Piovà Massaia e Cerreto (Asti) sono due nuclei insediativi sviluppatisi nel Basso Medioevo all'interno del distretto ecclesiastico della pieve di Mairate: due villaggi diversi e due comunità distinte, ma un unico territorio, un «finaggio promiscuo» in cui i possessi degli abitanti di Piovà e Cerreto erano strettamente intrecciati. Lungo tutta l'età moderna, ognuno registrava le proprie terre nel catasto della comunità cui apparteneva, e qui pagava le casse; ma era impossibile tracciare un confine, e nessuno provò mai a farlo. Bisogna arrivare al xx secolo perché la questione diventi oggetto di lite: nel 192,8 il regime fascista unì i due villaggi in
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un solo comune, e poi nel 1947 - e qui nacque il vero problema - i due comuni furono separati e ricostituiti «con la circoscrizione preesistente» al decreto fa. scista. Ma di fatto queste due circoscrizioni distinte non esistevano, non erano mai esistite: da qui una lunga lite che, passando attraverso la Regione Piemonte, il TAR e il Consiglio di Stato, si è prolungata fino ai primi anni del XXI secolo (cfr. Bordone, 2.006, in particolare pp. 1 e 6 per le due citazioni).
Di nuovo ci siamo spostati avanti nel tempo, ben oltre il Medioevo, per mostrare come non ci sia una chiara tendenza verso una concezione lineare e geometrica dei territori e dei confini. Il caso abruzzese ci ha mostrato come la pratica quotidiana sfuggisse a definizioni semplici e nette; la divisione tra i villaggi di Codorso e Strepeto assume una visibilità e una rilevanza eccezionali perché qui corre il confine tra Genova e Parma, e questo porta all'intervento diretto dei cartografi inviati dai due Stati e al confronto tra due culture molto diverse; infine il caso astigiano ha messo in luce non solo la lunghissima durata di questa cultura territoriale basata sull'idea di pertinenza, ma anche la concreta possibilità di una convivenza secolare tra due comunità senza una definizione di veri e propri confini, che anche in questo caso diventano un'urgenza in seguito all'intervento (di fatto destabilizzante) dello Stato. In diversi casi le esigenze politiche sollecitano un intervento prettamente tecnico, ma questo porta alla luce la profonda distanza tra la cultura cartografica e quella delle pratiche; e questa cultura delle pratiche appare del tutto attiva e anzi dominante nella società rurale ben al di là del Medioevo. "Cultura delle pratiche" significa anche che le liti per delimitare il territorio - liti tra le diverse comunità o tra i signori che le controllano - si compiono prima di tutto attraverso le pratiche d'uso delle risorse, che si riflettono poi nelle deposizioni: si fa legna nel bosco o si portano le mandrie al pascolo per fruire di queste risorse, ma anche per affermare che questo bosco e questo pascolo spettano alla propria comunità. Non si compiono questi atti di nascosto, anzi si cerca di farlo pubblicamente, in modo che tutti possano vederli: sono atti di possesso che servono a rivendicare il proprio buon diritto su questi luoghi, e sono tanto più efficaci se sono pubblici e se non sono contestati dalla controparte. Ma questa rivendicazione comunitaria sul territorio può assumere anche forme propriamente cerimoniali: così ad esempio nel Tardo Medioevo inglese sono ben attestate le processioni, guidate dal prete locale e dal suo altare portatile, che percorrevano i confini del villaggio per riaffermarne
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il controllo. Nel territorio di Pisa, all'inizio del XII secolo, i confini contesi di un villaggio erano stati affermati con processioni solenni guidate dall'arcivescovo; alle processioni venivano portati anche i bambini, che proprio sui confini venivano picchiati, in modo che si ricordassero sempre del cerimoniale, delle pietre confinarie, dei luoghi in cui erano state poste: il cerimoniale serviva ad affermare davanti a tutti il possesso comunitario di un'area, ma anche a preparare dei buoni testimoni, qualcuno che negli anni e nei decenni successivi fosse pronto a testimoniare in modo adeguato davanti a un giudice. Pratiche d'uso e cerimoniali sono azioni pienamente coerenti e hanno lo stesso valore di affermazione pubblica e simbolica dei diritti della comunità: portare le mucche al pascolo e compiere una processione funzionano come atti di rivendicazione proprio perché sono azioni pubbliche, compiute di fronte agli uomini delle altre comunità. Se questi atti non vengono pubblicamente contestati, diverranno una prova, un fatto che i testimoni potranno ricordare nelle proprie deposizioni nelle liti future.
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Contrattare in modo efficace con i potenti è possibile soprattutto se la collettività agisce in modo sufficientemente coeso e stabile ed è riconosciuta dai propri interlocutori. Perciò, se molti capitoli di questo libro si estendono su una cronologia lunga, qui il discorso si fa più specifico: è solo a partire dal consolidamento delle comunità locali, tra XI e XII secolo, che possiamo trovare atti di contrattazione. Il potere signorile è sempre, in qualche misura, negoziato con i sudditi: certo non c'è nessuna democrazia e nessuna parità, ma non è neppure il conte Dracula, non è un potere assoluto e violento di fronte al quale i sudditi non hanno alcuna scelta se non la piena sottomissione. È il dominio di un potente su persone molto più deboli, che però sono in grado di esercitare una resistenza silenziosa e quotidiana, fino a rendere faticoso l'esercizio di questo potere e soprattutto il prelievo di quanto il signore richiede. Sono le armi dei deboli - occultare una parte del raccolto o evitare qualche servizio sui campi del signore, sperando che si dimentichi di richiederlo - che solo in qualche caso possono dare vita a una resistenza aperta o violenta (cfr. CAP. u). Queste forme di resistenza hanno un'indubbia efficacia, dato che non sono pochi i casi in cui un potente porta in giudizio dei contadini perché per anni o decenni gli hanno rifiutato un pagamento, a testimoniare con la massima evidenza come la capacità coercitiva dei signori possa trovare un ostacolo efficace e a tratti insuperabile nella resistenza passiva dei contadini. Le sentenze sono spesso favorevoli ai signori, che però talvolta ci hanno messo anni per portare i propri sudditi in giudizio, dopo che altre forme di coercizione hanno fallito. La resistenza contadina è quindi abbastanza efficace da suggerire ai signori di accettare la contrattazione, per definire accordi che possano garantire uno stabile e non troppo conflittuale esercizio del potere. L'idea di contrattare con i propri sudditi è una prospettiva normale.
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Nel 1118 I' abate di Citeaux inviò il monaco Rainerio come nuovo abate del Monte Amiata, nella Toscana meridionale, indirizzandogli una lunga lettera di istruzioni, a partire dai passaggi che avrebbe dovuto compiere alla corte papale, per ottenere le lettere che gli avrebbero consentito di assumere in pieno i suoi nuovi poterL Quando poi fosse giunto al!'abbazia, avrebbe dovuto farsi consegnare tutti i rendiconti dei possessi, dei redditi e delle fedeltà, trattare con rispetto e cautela i vicini potenti e infine, «con gli uomini del castello dell'Abbazia, di Montelaterone e di Montepinzutolo usate parole blande e buone, in modo che non vi ingannino riguardo a qualche promessa, perché sono sagaci e sottili» (Kurze, 1989, pp. 409-14).
I contadini non sono solo un gruppo su cui imporsi, ma persone da blandire, con cui trattare, di cui temere astuzia e sottigliezza: l'elemento forse più significativo di questa lettera sta proprio nell'idea che negoziare con i sudditi sia un fatto normale e previsto; si può individuare una strategia specifica, adatta a uomini particolarmente «sagaci e sottili», ma non è in discussione l'idea che essi siano attori politici con cui fare i conti. È una linea di tendenza che si afferma in tutta l'Europa di tradizione carolingia nel Basso Medioevo, ma che ha un impatto superiore nell'Europa mediterranea e soprattutto in Italia, dove comunità di villaggio più solide e organizzate esprimono una maggiore capacità di resistenza e di contrattazione, tradotta in numerosissimi documenti che definiscono i rapporti tra signore e comunità.
Azioni e forme documentarie La contrattazione tra potenti e contadini assume forme documentarie molto diverse, e da questo dobbiamo partire per tenere presenti sia questa varietà, densa di significati, sia il dato di fondo comune, ovvero il continuo processo di costruzione della norma locale, ad opera dei signori e dei loro dipendenti. Il modello documentario più noto, quello che più facilmente può venire alla mente, è la franchigia, un atto con cui un signore esenta una comunità da alcune imposizioni (e perciò la rende "franca", libera), in un testo che si presenta di norma come un atto unilaterale, in cui il signore è il solo ad agire, con una libera e spontanea concessione. Ma i documenti che possono definire un sistema locale di norme possono essere molto diversi: accordi tra il signore e i sudditi, atti in cui un gruppo di sudditi dichiara quali siano le consuetudini locali che poi il signore rico-
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nosce e conferma, liti che si concludono con un giudizio arbitrale (per la dimensione propriamente giudiziaria del confronto tra signori e sudditi, cfr. CAP. 6). La forma testuale di un documento non riflette direttamente la realtà, ma non prescinde da essa; ovvero: non possiamo ritenere che un atto di franchigia sia una spontanea concessione signorile, né che in altri casi i sudditi possano dichiarare in piena libertà le proprie consuetudini, di fronte a un potente del tutto passivo, che si limita a ratificare quanto dichiarato. In genere quindi, per un singolo atto non possiamo dire con certezza in che misura registri la realtà e in che misura ne sia una narrazione; ma la varietà di forme documentarie e testuali riflette la varietà di azioni politiche e cerimoniali possibili e legittime. Si poteva arrivare a definire la norma tramite una concessione, una lite, una dichiarazione collettiva, e ognuna di queste azioni poteva essere lecitamente trascritta in un documento. Si tratta sempre di un'interazione tra le diverse parti, ma la scelta di una forma documentaria è comunque segno di uno specifico equilibrio, della volontà di rappresentare la norma come esito di una concessione, di una lite o di una memoria della consuetudine locale. È necessario chiarire che le franchigie sono atti profondamente diversi dagli statuti comunali: gli statuti sono testi ampi e articolati, emanati dal signore ma più spesso dalla comunità, in cui si punta a regolare l'intera vita associata del villaggio (dal punto di vista delle istituzioni comunitarie, della polizia campestre, della manutenzione delle infrastrutture collettive ecc.); le franchigie sono invece atti di contrattazione, in cui signori e sudditi convergono a definire alcune specifiche questioni. La differenza quindi è duplice: le franchigie non vogliono regolare la vita associata della comunità, ma i suoi rapporti con il signore, e anzi in genere intervengono su alcuni aspetti specifici di questo rapporto; inoltre le franchigie sono espressione diretta della contrattazione, mentre gli statuti nascono da un'elaborazione interna alla comunità, spesso approvata e ratificata dal signore. Tra franchigie e statuti non possiamo porre una distinzione troppo netta, ma è importante osservare qui due azioni politiche profondamente diverse: da un lato la contrattazione, spesso concentrata su alcuni aspetti specifici e indotta da una serie di problemi congiunturali; dall'altro un'idea di regolamentazione generale e complessiva della società, in cui la dimensione della contrattazione con il signore passa in secondo piano. Questa diversa azione ci permette di comprendere meglio una carat-
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teristica nella formazione del testo di statuti e franchigie: nel caso degli statuti le esigenze permanenti di un singolo villaggio sono spesso del tutto analoghe a quelle di altri insediamenti della stessa regione, per cui la compilazione di uno statuto si può compiere ricalcando il testo di un altro villaggio, con gli adattamenti che appaiono di volta in volta indispensabili, per poi conservarsi a lungo, con pochi mutamenti; le franchigie, nascendo dalla congiuntura e dalla contrattazione, sono più eterogenee, più spesso sono costruite ad hoc, per la singola comunità in uno specifico momento. Eppure anche nel caso delle franchigie riscontriamo una circolazione di modelli testuali, con schemi che si ripetono in villaggi diversi, talvolta anche piuttosto distanti (è il caso ad esempio della carta di Beaumont-en-Argonne, che tra XIII e XIV secolo diventa il modello per decine di franchigie dal Lussemburgo alla Champagne; Bourin, Durand, 1984, p. no). Non si tratta però di una semplice circolazione di testi redatti con particolare cura e quindi ripresi da altri villaggi: nel caso delle franchigie le linee di diffusione dei modelli seguono l'azione di grandi dinastie signorili e principesche. Non è quindi una libera imitazione di modelli testuali, ma il riproporsi - a distanze talvolta grandi nel tempo e nello spazio - di azioni politiche signorili affini, che si riflettono nelle analogie testuali. Si delinea quindi un ventaglio di possibilità, tutte ben attestate e reali, al cui interno si situano i singoli casi. Certo, è probabile che il documento distorca la realtà, riflettendo soprattutto la volontà signorile, tanto che ad esempio una norma definita tramite una lunga e conflittuale contrattazione può essere poi registrata come una libera concessione di un signore ai propri amati sudditi: il signore ha sicuramente un controllo molto più forte sulla produzione dei documenti (pensiamo soprattutto ai casi in cui il signore è un abate o un vescovo), ed è coerente con l'ideologia aristocratica la volontà di affermare che la norma possa essere creata o modificata dal signore, non contrattata. Non sorprende quindi che il potente, benché debba negoziare con i sudditi alcune forme del proprio potere, voglia poi presentare queste norme come una libera concessione, rivendicando il proprio pieno e indiscusso potere (potere di prelevare, ma anche potere di esentare i propri sudditi). La "franchigia" in senso stretto è una libera concessione di un signore, che rivendica il pieno potere di creare e modificare le norme; mal'azione politica che dà vita ali' atto è invece, in genere, una negoziazione che in molti documenti emerge esplicitamente.
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Le parole dei sudditi Vediamo un caso per certi versi estremo, di alta visibilità dell'azione comunitaria. In molte regioni di lingua tedesca, tra le attuali Germania e Svizzera, nel Basso Medioevo le comunità locali vengono regolarmente riunite in assemblee (dette Weisungen) convocate dal signore o più spesso Jai suoi agenti; qui alcuni tra i contadini assumono l'incarico di dichiarare pubblicamente le consuetudini locali, soprattutto per quel che riguarda i rapporti tra signore e dipendenti; le consuetudini vengono poi registrate in documenti chiamati Weistumer. L'assemblea appare quasi come una forma di inversione cerimoniale ddla quotidianità della signoria, perché in queste occasioni il signore attribuisce ai sudditi il potere di dichiarare la norma, riconoscendo l'idea che la consuetudine sia nelle mani della comunità o dell'assemblea. Il gioco è però più complesso: prima di tutto dobbiamo notare che l'assemblea è convocata e in larga misura controllata dal signore, e quindi la consuetudine e la sua ratifica non nascono dalla libera azione contadina, ma piuttosto dall'interazione tra signore e sudditi. Un'assemblea spontanea, che non si riunisse attorno agli agenti signorili, non avrebbe il potere di dichiarare legittimamente quale sia la consuetudine locale: il potere non è ddl'assemblea in sé e per sé, ma dell'assemblea riunita attorno al signore. Inoltre, in assemblea non parlano tutti, ma solo alcuni uomini della comunità. Come sono stati scelti? A che scopo e a vantaggio di chi parlano? Il caso dei Weistumer (e le domande che ne derivano) è rilevante anche perché è meno eccezionale di quanto potrebbe sembrare: in molti altri contesti i documenti registrano che l'accordo tra signore e sudditi nasce da una dichiarazione preliminare di alcuni rappresentanti ddla comunità; ma il rapporto tra la dichiarazione della comunità e l'accordo finale può essere molto vario. Nel 12.59 il vescovo di Losanna si presentò nel villaggio di Avenches, convocò gli abitanti, che riconobbero tutti i diritti che il vescovo aveva in quanto signore del villaggio. Ricordarono che, quando veniva eletto un nuovo vescovo, questi si recava al villaggio e tutti gli abitanti dovevano giurargli fedeltà, impegnandosi a rispettare tutti i suoi diritti; il vescovo a sua volta doveva giurare di rispettare tutti i diritti degli uomini del villaggio; il sindaco era tenuto a offrire il primo pranzo, gli abitanti quello successivo; il documento prosegue poi con un analitico elenco dei pagamenti e dei servizi che i sudditi dovevano al vescovo (Sources du droit, pp. 590 ss.).
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Monrcpinzutolo (nella Toscana meridionale) era uno dei villaggi su cui l'abate di ( :tre.mx aveva messo in guardia il nuovo abate del Monte Amiata, nella lettera che abbiamo visto all'inizio del capitolo. Pochi anni dopo, nel 1240, abate e comunità giunsero a un accordo, che ha lasciato però una traccia documentaria interessante. Disponiamo infatti di due atti notarili, con contenuti sensibilmente diversi, per quanto non opposti: un primo atto sembra formalmente un accordo, ma in effetti è una bozza proposta dalla comunità; il secondo (più favorevole all'abbazia) è l'accordo effettivo, nato da una contrattazione rispetto alla quale la proposta dei sudditi aveva costituito probabilmente un punto di partenza (cfr. Huertas, 2.018). Nel 1438 l'abate di Lérins concedette un'ampia franchigia agli abitanti del villaggio di Mougins (nell'entroterra di Canncs). Il documento è organizzato in brevi capitoli, ognuno dei quali è costituito da una richiesta degli uomini e una risposta dell'abate. Questa struttura tesmale non è una costruzione retorica, ma sembra riflettere un effettivo andamento dialettico della contrattazione, come si vede dalla tipologia di risposte dell'abate: in qualche caso accetta, in altri accetta dichiarando di volersi attenere alla consuemdine, in altri rifiuta, per non vedere danneggiate le proprie entrate ( Chartes de.franchises, pp. 2.3-8).
Se ci fermiamo al testo dei documenti, il vescovo di Losanna si limita a confermare quanto viene dichiarato dagli uomini di Avenches, prendendo atto delle loro parole, e ritroviamo formule analoghe in altre franchigie concesse dai vescovi di Losanna; ma è assai poco probabile che un potere di questo livello fosse disposto a prendere passivamente atto della memoria locale. È molto più verosimile che, senza lasciare traccia esplicita nel testo, le cose siano andate in modo non molto diverso dagli altri due casi: Montepinzutolo, dove le dichiarazioni e le richieste dei sudditi hanno costituito il punto di partenza su cui basare la contrattazione che porta all'effettiva scrittura delle norme; o Mougins, dove l'atto registra analiticamente il botta e risposta tra sudditi e signore, articolato punto per punto. Il dato fondamentale è che in tutti i casi la comunità non è un oggetto passivo delle imposizioni e concessioni signorili, ma è depositaria di una serie di istanze di cui il signore dovrà tenere conto, sia pure in un rapporto di forze decisamente sbilanciato a suo favore. Nel caso di Avenches si fa un passo in più perché il documento, che definisce e ratifica le forme del potere signorile, riconosce anche apertamente sia il controllo comunitario sulla norma consuetudinaria sia gli obblighi del signore a tutelare e rispettare questi diritti. La funzione delle testimonianze contadine nel definire i sistemi locali di dipendenza emerge peraltro anche in documenti piuttosto diversi,
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i cosiddetti manorial custumals del Basso Medioevo inglese: dichiarazioni collettive che registrano i redditi signorili villaggio per villaggio. È un contesto in cui non ci sono vere e proprie franchigie, atti che avrebbero implicato da parte del signore del manor il riconoscimento della condizione libera dei propri coloni, cosa che i signori non sono disposti a fare. I custumals sono invece atti pienamente signorili, a cui una parte della società contadina risponde attivamente, dichiarando pubblicamente i censi, le condizioni e gli obblighi dei coloni. Non quindi una contrattazione collettiva degli obblighi comunitari, ma una certificazione degli obblighi individuali; ma anche qui l'atto nasce dalle dichiarazioni di un piccolo gruppo di testimoni, che assumono il compito di parlare al signore e - con le proprie parole - certificare gli obblighi dei propri vicini (Birrell, 2.014). Franchigie che nascono da dichiarazioni contadine, Weistumer, manorial custumals: sono diversi i documenti in cui le parole dei sudditi contribuiscono a definire le forme della dipendenza. Hanno quindi un valore più generale le domande che abbiamo posto prima a proposito degli uomini che parlano all'interno dei Wéisungen: come sono stati scelti? A che scopo e a vantaggio di chi parlano? Ma per rispondere in modo adeguato e leggere con chiarezza queste azioni contadine, bisogna comprendere più complessivamente le funzioni delle franchigie e degli altri atti destinati a registrare le norme locali.
Sottomissione, reciprocità, consuetudine La prima funzione di tutti questi atti è sempre quella di riaffermare la sottomissione dei contadini. Qualunque sia lo specifico contenuto normativo, l'atto conferma la configurazione politica locale, fondata sull'opposizione tra il signore e i sudditi. Spesso l'atto prevede un giuramento di fedeltà al signore, ma anche quando quest'obbligo non c'è, la sottomissione dei sudditi è riaffermata dal fatto stesso di stipulare un atto in cui si definiscono e si ratificano le norme che regolano prelievi e servizi. Può sembrare poco, ma diventa molto in tutti i contesti - e sono numerosi - in cui su un villaggio convergono diversi poteri concorrenti di signori, principi e città: il signore ha bisogno di consolidare e garantire la propria base di potere, e lo potrà fare con accordi di varia natura con i poteri concorrenti, ma anche con atti in cui la comunità locale riconosce la propria dipendenza. Questo è un primo aspetto su cui il signore ha bisogno dei suoi sudditi, e d'altro
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canto i membri della comunità di villaggio conoscono benissimo questa sovrapposizione e concorrenza di poteri e sanno fare un uso strategico del proprio potere contrattuale, condizionando la propria piena sottomissione a piccole o grandi concessioni signorili. Qui si coglie la seconda, importante funzione degli accordi e delle franchigie, quella di consentire alle comunità contadine di costruire una reciprocità, affermare sul piano cerimoniale e testuale che il rapporto con il signore non è fatto solo di obbedienza e di sottomissione, ma di obblighi reciproci. La linea di azione delle comunità contadine non è mai quella di negare i propri doveri, linea che sarebbe peraltro insostenibile, ma di collegarli agli obblighi del signore, ovvero prima di tutto al suo dovere di proteggerli sul piano militare, politico e giudiziario. Le norme contenute nelle franchigie creano una serie di obblighi reciproci di signori e sudditi, e la nozione di reciprocità assume sovente (ad esempio neifoeros spagnoli) una piena evidenza anche nei preamboli dei documenti, i testi che esprimono le motivazioni ideali alla base della concessione delle franchigie, spesso connessa ali' amore reciproco tra signore e dipendenti, al dovere del signore di beneficiare i propri sudditi, alla volontà di ricompensare il loro fedele servizio. È l'immagine di una dominazione consensuale, che rappresenta ovviamente una forte distorsione rispetto alla forza concreta dell'imposizione signorile, ma è un dato importante soprattutto se consideriamo che questa retorica non è fine a sé stessa, ma introduce a un sistema di norme che impongono obblighi e vincoli ai sudditi ma anche al signore. Gli atti di franchigia servono inoltre alle comunità per costruire una consuetudine. Il principale timore dei contadini è sempre l'incertezza: i cattivi raccolti, le carestie, le inondazioni, ma anche le violenze signorili, i prelievi inattesi, le guerre. Una società che spesso vive al limite della sussistenza ha bisogno di garanzie, e se contro le carestie e le inondazioni la protezione può arrivare da Dio, contro le eccessive pretese signorili una protezione può arrivare dagli stessi signori, che negli atti di franchigia si impegnano a non chiedere più di quanto stabilito. È una protezione senz'altro imperfetta, perché spesso la comunità fatica a trovare un giudice, un potere superiore che possa imporre al signore locale di rispettare gli impegni presi (cfr. CAP. 6); ma una quota di sicurezza è comunque offerta da questi atti, in cui la reciprocità degli obblighi garantisce al signore i prelievi e ai contadini un limite a questi stessi prelievi. La tensione fondamentale è chiara: la pressione comunitaria per una regolamentazione degli obblighi si scontra con il desiderio signorile di im-
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porre servizi a volontà, senza limiti; chi è in posizione di debolezza cerca le garanzie, ed è questa spesso la condizione dei contadini. Ma anche il signore può vedere il proprio potere minacciato, ed è perciò disponibile ad arrivare a un accordo e a un documento scritto, che gli assicuri una serie di prelievi forse inferiori a quanto potrebbe ottenere con la forza, ma garantiti proprio dal consenso dei sudditi. La precisa definizione dei censi e delle prestazioni d'opera limita le prevaricazioni del signore e la possibilità di pretendere più di quanto analiticamente elencato, ma limita anche le possibilità di resistenza dei contadini, i tentativi di eludere o negare i propri doveri. La redazione scritta dei doveri reciproci non impedisce futuri mutamenti del prelievo, ma pone un riferimento forte e ineliminabile, che non potrà essere ignorato e da cui ripartirà ogni contrattazione. Se gli atti pongono sempre in grande evidenza l'idea di consuetudine e si presentano spesso come conferma di norme antiche, il confronto tra i diversi atti relativi a una stessa località ci rivela che la norma cambia, la consuetudine non è affatto immobile. Gli accordi e le franchigie non si limitano a registrare l'esistente, ma creano la norma, un'operazione in cui la consuetudine ha un peso fortissimo, ma non è un quadro normativo definito una volta per tutte, a cui ci si possa semplicemente richiamare. La consuetudine si crea e si manipola, e di questo le comunità sono perfettamente coscienti, come vediamo nei documenti che vengono scritti per impedire che un atto diventi consuetudine. Nel 12.80 il conte Tommaso di Savoia chiese agli uomini di Pinerolo di prestare servizio nel suo esercito impegnato nell'assedio di Cavorctto, nei pressi di Torino; gli uomini di Pinerolo si presentarono al ponte sul Po, presso Moncalieri, con vessillo e bandiere, ma restarono sul lato sinistro del fiume, dalla parte di Pinerolo. Solo due rappresentanti del comune attraversarono il fiume e si recarono al campo dei Savoia, dichiarando che gli uomini di Pinerolo non erano tenuti a combattere per i Savoia oltre il Po e oltre la Dora Riparia, e anche al di qua dei due fiumi erano tenuti solo a otto giorni di servizio armato all'anno, servizio che in quell'anno avevano già assolto; perciò «solo per buona volontà, e non per dovere» erano intenzionati ad attraversare il Po e a servire il conte nell'assedio di Cavoretto. Il conte riconobbe tutto ciò e solo così ottenne - presumibilmente - l'intervento degli armati pinerolesi (cfr. Provero, 2.012., pp. 60 ss.).
Si tratta qui di una questione assai specifica, ma il meccanismo è molto chiaro: il potere di prelievo signorile ha dei limiti e il timore della comunità è che il superamento occasionale ed eccezionale di questi limiti diventi
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consuetudine, ovvero che i prossimi anni il conte di Savoia tomi a chiedere prestazioni militari superiori al dovuto. Un prelievo non contestato diventa precedente, un precedente diventa consuetudine, ed è perciò fondamentale per gli uomini di Pinerolo contestare questo prelievo. Compiono quindi il servizio, ma ne contestano la legittimità: affermano pubblicamente, fanno riconoscere al conte e infine fanno registrare dal notaio che compiono il servizio per amore del proprio signore, non perché obbligati. In questo modo il conte non potrà usare il servizio come un precedente per chiedere interventi analoghi nei prossimi anni. Una pratica politica e documentaria di questo tipo - si impone un prelievo o un servizio straordinario, ma si registrala sua eccezionalità, riconoscendo che non può valere come precedente - è ben attestata in altri contesti, e dimostra nel modo più chiaro come tutti gli attori politici siano pienamente consapevoli della possibilità di plasmare la consuetudine.
Risorse e prelievo Sottomissione, reciprocità, consuetudine: attorno a queste tre nozioni chiave si articola una contrattazione che contiene elementi vantaggiosi per entrambe le parti in causa. Dal punto di vista contadino, l'importanza delle franchigie e le aspettative riposte in esse dalla società locale sono testimoniate con grande evidenza dallo sforzo economico di cui il villaggio è spesso disposto a farsi carico per ottenere le concessioni signorili. Molte franchigie prevedono un pagamento una tantum da parte della comunità, che per sostenere questa spesa è pronta a vendere beni comuni o a prendere in prestito la somma necessaria. L'indebitamento non deve essere visto come segno di debolezza o di disperazione della comunità, ma della sua forza e progettualità, e anche della sua credibilità: come in qualunque contesto, anche qui nessuno presta denaro a chi non è economicamente solido e credibile. Se i comuni rurali ottengono in prestito somme rilevanti, in genere da grandi famiglie cittadine, è il segno indubbio che il loro patrimonio e la loro stabilità istituzionale erano garanzie sufficienti per i creditori; al contempo, la scelta di indebitarsi mostra l'importanza che la comunità attribuisce alla franchigia e la convinzione che l'accordo sia una scelta strategica, onerosa a breve termine ma vantaggiosa sui tempi lunghi, quando l'esborso sarà via via ripagato dai vantaggi fiscali. La dimensione economica è centrale per comprendere la formazione del-
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le franchigie, e in particolare un tema dominante è quasi sempre il prelievo signorile, che rappresenta la sostanza stessa del rapporto di sottomissione. Alla base troviamo un'ovvia tensione tra i sudditi che cercano di limitare il prelievo e i signori che puntano ad ampliarlo, ma a questo si aggiungono altre istanze contadine, per la regolarità e la prevedibilità del prelievo. In una società dominata dall'incertezza, queste istanze sono fondamentali per i sudditi e possono trovare ascolto nel mondo signorile, che vede nella sicurezza del prelievo - regolare, non contestato - un valore aggiunto, per il quale si è pronti a sacrificare una parte del reddito. Queste tendenze di base, che ritroviamo in molte realtà in tutta Europa, sono però condizionate d:1 contesti, congiunture e orientamenti signorili molto diversi. Ad esempio, le opportunità offerte dalla rete commerciale e il maggiore o minore impegno dei signori nella commercializzazione dei prodotti possono orientare pesantemente i sistemi di prelievo. Le opportunità commerciali possono indurre un signore a privilegiare i censi in natura (per accumulare prodotti che ritiene di poter vendere vantaggiosamente) e spesso possono orientarlo verso ben specifici prodotti, grazie alle loro potenzialità commerciali. Abbiamo visto nel capitolo 3 come il commercio internazionale della lana inglese abbia stimolato lo sviluppo dell' open.jield system, un'organizzazione dei campi finalizzata a rendere più agevole e redditizio l'allevamento di pecore. Lo stesso avviene per il prelievo: il signore non si limita a prelevare una quota più o meno pesante dei prodotti, ma tramite il prelievo può imporre alla comunità di sviluppare specifiche produzioni per le loro potenzialità commerciali. Un ulteriore elemento di tensione relativo al prelievo è connesso alla ripartizione dei carichi fiscali all'interno della comunità. Una quota dei pagamenti al signore è costituita dai censi, ovvero i versamenti individuali direttamente connessi alla terra signorile data da coltivare ai singoli contadini, censi che sono definiti sulla base dell'ampiezza della terra, della sua tipologia, di consuetudini locali e di contrattazioni individuali; più complessa è la ripartizione di quei pagamenti dovuti collettivamente non per la terra, ma per la protezione militare e il controllo giurisdizionale esercitati dal signore. Vari nomi indicano queste imposte: spesso troviamo ilfodro e I' albergaria (che in origine erano le imposte dovute rispettivamente per il nutrimento e l'ospitalità dell'esercito regio), in molti casi compare la taglia (un'imposta propriamente signorile), ma i nomi diversi non sono segni di una reale e sostanziale diversità di prelievo. Si tratta sempre di imposte prelevate sull'insieme dei sudditi, che rendono molto ai signori e pesano
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molto sui contadini. È più difficile capire su chi pesi effettivamente questo prelievo signorile, ovvero come siano ripartite le imposte all'interno della comunità. Nessun potere signorile ha le capacità burocratiche per dare vita a una forma di catasto, un rilevamento sistematico dei patrimoni di ogni singola famiglia, come si svilupperà nel Tardo Medioevo nei regni europei e nelle grandi città comunali italiane. D'altronde la società di villaggio è un mondo ristretto e a forte controllo sociale, in cui tutti conoscono tutti e sono ben note le ricchezze di ogni abitante. Per questo, se pure non è possibile calibrare con precisione il prelievo sulle ricchezze individuali, qualche forma di proporzionalità è alla portata di questi poteri. In qualche caso le franchigie stabiliscono un'effettiva proporzionalità dcli' imposta, definita sulla base di ampi scaglioni patrimoniali: così ad esempio a Cuneo nel 1259 si impongono tre pagamenti distinti per chi ha un patrimonio inferiore a 100 lire, per chi è tra 100 e 300 lire e per chi ha un patrimonio superiore (Provero, 2012, p. m ). Ma questo avviene quando il borgo di Cuneo viene sottoposto alla signoria dei conti d'Angiò, un potere principesco, direttamente legato ai re di Francia e in grado di affermare il proprio potere anche su centri urbani, grazie a un apparato burocratico e docwnentario su larga scala: non è un normale signore che si confronta con un piccolo villaggio, ma un principe che agisce su una delle tante comunità da lui dominate, un borgo peraltro in rapida crescita politica e demografica. Contesti di questo genere sono quelli in cui vediamo l'elaborazione di forme di prelievo più articolate, complesse e - appunto - basate su un principio di proporzionalità che lega l'imposta al patrimonio; nelle signorie minori - inferiori per ampiezza, per apparato, per capacità amministrative - non troviamo in genere segni di una valutazione dei patrimoni e di una proporzionalità dell'imposta. Una forma di attenzione alla ricchezza familiare si trova su un aspetto specifico, assai concreto, ovvero i servizi che i contadini devono prestare sulle terre del signore, che talvolta vengono ripartiti sulla base del possesso o meno di una coppia di buoi: è una distinzione che esprime un'esigenza molto pratica del signore, per lavori -1 'aratura prima di tutto - per i quali deve far intervenire chi può fornire la forza di trazione animale; ma di fatto questa distinzione riflette anche una distinzione economica, escludendo dall'obbligo di servizio le fasce più povere. Nel complesso però la proporzionalità dell'imposta è relativamente poco importante per il signore, che cerca di ottenere un reddito il più
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possibile abbondante e regolare, ma anche tecnicamente fattibile, ovvero con procedure di accertamento e riscossione che siano alla portata del suo apparato di governo, in genere rudimentale; al contempo la società di villaggio non è tutta uguale agli occhi del signore, che in molti casi punta a legare a sé i gruppi dominanti locali, a cui concede quindi benefici, privilegi e talvolta un sistema particolarmente vantaggioso di ripartizione del prelievo. È la dinamica che emerge nei casi in cui il signore attribuisce alla comunità di villaggio il compito di ripartire il carico fiscale. Concretamente, si tratta delle franchigie - ben attestate soprattutto nell'Europa meridionale - in cui un signore esenta la comunità da una o più imposte, sostituendole con un pagamento fisso in moneta. Non riusciamo a comprendere se questa trasformazione implichi anche un alleggerimento dei carichi, ovvero se il pagamento dovuto ogni anno dalla comunità sia inferiore a quanto complessivamente dovuto dalle singole famiglie. Alcuni dati sono però chiari, a partire dal fatto che questa trasformazione porta elementi di stabilità e di sicurezza, che costituiscono un vantaggio prima di tutto per i signori, che ottengono anche una semplificazione dell'esercizio del loro potere, poiché scaricano sulla comunità i compiti di ripartizione e di prelievo dell'imposta, che dovrà poi essere versata al signore. Stabilità e sicurezza sono però sicuramente funzionali anche alle esigenze della società contadina, per la quale il principale timore è sempre rappresentato dall'incertezza del futuro. Non a caso i sudditi spesso accettano di pagare una rilevante somma una tantum per garantirsi il diritto a sostituire alcune imposte con un pagamento annuo fisso. Ci troviamo quindi di fronte a nuove responsabilità della comunità di villaggio, su un aspetto delicato come la ripartizione del prelievo. Il compito non è da poco, se ripensiamo alla varietà di condizioni sociali ed economiche interne al villaggio: scegliere un ripartizione delle imposte per fuochi (ogni casa/famiglia versa la stessa quota, a prescindere dal suo patrimonio) è una soluzione molto semplice e facilmente gestibile, ma anche una scelta molto ingiusta, perché va a pesare in modo massiccio sulle famiglie più povere (a parità di pagamento, si tratta ovviamente di un carico molto più pesante per chi ha meno risorse). Ripartire il carico in modo proporzionale al patrimonio sarebbe però difficile e soprattutto andrebbe contro gli interessi delle famiglie più ricche, quelle che dominano la comunità dal suo interno. Non cogliamo i dettagli delle tensioni interne alle comunità attorno alla ripartizione dei carichi fiscali, ma certo in questi villag-
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gi socialmente complessi, con forti diseguaglianze economiche e politiche, dominati da un'élite di medi proprietari fondiari, appare difficile pensare a una ripartizione fondata su princìpi di equità e di sostegno agli strati sociali più deboli: l'élite rurale domina la comunità, gestisce la contrattazione con il signore, dispone delle risorse per anticipare i pagamenti e dei legami sociali con le famiglie cittadine in grado di prestare le somme necessarie ecc. Possiamo senz'altro ritenere che questa élite abbia sistematicamente orientato a proprio favore i meccanismi della ripartizione fiscale. Se queste tensioni sono intuibili ma non facili da leggere nei loro effettivi sviluppi, la trasformazione dd prelievo in un pagamento collettivo fisso ha un preciso impatto sul consolidamento delle comunità, che assumono non solo il compito di ripartire e prelevare l'imposta, ma anche il controllo delle esenzioni. Non è casuale il fatto che franchigie di questo tipo spesso comprendano una precisa definizione di chi all'interno della comunità è esentato dal pagamento {i cavalieri, i vassalli dd signore, singole persone per ragioni che ci restano ignote). Il motivo è chiaro, ed è esplicitato in alcune franchigie: la comunità, nel momento in cui si assume il compito di ripartire il prelievo, vuole essere certa dei propri limiti, di chi è compreso o non è compreso tra i tassabili; e al contempo vuole evitare che in futuro il signore possa esentare qualche altro gruppo, atto che imporrebbe una ridefinizione e un appesantimento dei carichi fiscali individuali. Per avere il controllo della ripartizione, è necessario il controllo dell'esenzione: così il consolidamento istituzionale della comunità, che assume nuovi e pesanti compiti fiscali, si accompagna a un consolidamento dei suoi confini sociali {cfr. CAP. 4). Franchigie, accordi e liti hanno quindi un insieme complesso di funzioni politiche: riaffermare la dipendenza contadina, regolare l'esercizio del potere signorile, costruire una reciprocità diseguale tra signore e sudditi, modellare la consuetudine. Tutto ciò va a costituire il contesto in cui dobbiamo porre le azioni dei piccoli gruppi di sudditi che nella contrattazione assumono ruoli speciali, di rappresentanza della comunità: in tutte le transazioni le comunità sono necessariamente rappresentate da un gruppo ristretto, che parla e contratta con il signore; nei Weisungen e in altri momenti assembleari abbiamo visto che alcuni membri della comunità assumono un compito più specifico, quello di dichiarare di fronte al signore e all'assemblea le consuetudini locali. Si tratta di parlare con il signore per definire le forme del suo potere, ma per conto di chi parlano, chi stanno servendo? La comunità o lo stesso signore?
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Una risposta netta sarebbe fuorviante. Per un abitante del villaggio, assumersi il compito di rappresentare la comunità di fronte al signore, per condurre la trattativa o proclamare le consuetudini locali, è una scelta e un atto politico in cui convergono diverse finalità strettamente connesse, per quanto possano sembrare contraddittorie: orientare la contrattazione in una direzione favorevole ai propri interessi, guadagnarsi meriti agli occhi dei vicini, costruirsi una posizione di eminenza rispetto al resto della comunità, servire il signore. Le parole pubbliche pesano: possono determinare gli equilibri politici e i meccanismi di prelievo a livello locale, e possono d'altro canto mutare la posizione di chi parla, rispetto sia al signore sia ai suoi vicini. E al contempo queste parole non sono libere: i vicini, il signore e i suoi agenti ascoltano e controllano attentamente le parole pronunciate in assemblea, e perciò chi parla deve muoversi in un delicato equilibrio, se vuole che le sue parole portino a un compromesso accettabile e siano quindi un servizio utile e meritevole agli occhi sia del signore sia della comunità. Il momento della contrattazione diventa quindi anche una trasformazione delle gerarchie interne alla comunità: può avvenire perché nell'atto si confermano o si definiscono posizioni di privilegio sul piano fiscale o dell'accesso ai beni comuni; e anche perché chi riesce ad agire come rappresentante della comunità consolida o crea una posizione di superiorità nei confronti dei vicini e - spesso - di vicinanza o collaborazione con il signore (cfr. CAP. 8). Perciò, se di fatto non è possibile vedere nel dettaglio come vengono scelti di volta in volta i portavoce della comunità, senza dubbio si tratta prima di tutto di un'opportunità per gli stessi portavoce, un passo all'interno di un percorso di costruzione della loro eminenza nei confronti dei vicini Al fianco della ricchezza fondiaria e dei legami clientelari con il signore, il fatto di parlare a nome della comunità è un segno del ruolo sociale del singolo, della sua appartenenza all 'élite locale. Esiste però un altro contesto in cui i singoli assumono il compito di parlare a nome ddla comunità, i momenti in cui il confronto con il signore o con le comunità vicine si traduce in una lite, in un'azione giudiziaria collettiva. Su questo dobbiamo ora soffermarci.
6 Chiedere giustizia
Nel capitolo precedente abbiamo visto che le forme di esercizio del potere signorile sulla comunità locale nascono spesso da un compromesso, dalla definizione di un punto di possibile equilibrio tra la forza del potente e la capacità di resistenza dei contadini. Ma quando l'accordo non si trova, il confronto può prendere una via diversa, nell'intervento di un'istanza superiore di giustizia. Tuttavia l'accesso dei contadini a una giustizia superiore contro i potenti locali segue una cronologia profondamente diversa dalla contrattazione: per contrattare è necessaria una comunità sufficientemente definita, riconosciuta e stabile; per chiedere giustizia serve un potere superiore efficace e concretamente raggiungibile per i contadini. Tra XI e XII secolo il processo di consolidamento delle comunità di villaggio è prima di tutto una reazione alla debolezza del potere regio e alla conseguente esigenza di trovare in sede locale i quadri organizzativi della vita associata (quadri che corrispondono ai poteri signorili e appunto alle comunità); se quindi è in grado di confrontarsi efficacemente con i poteri signorili locali, questa società di villaggio non ha forti referenti più in alto, poteri con cui dialogare e da chiamare in causa per trovare difesa dalle oppressioni signorili. È invece un percorso possibile prima e dopo: prima, l'Impero carolingio si era rivelato un potere efficace e disponibile ad ascoltare le istanze dei gruppi sociali inferiori, che non erano ancora organizzati in comunità strutturate e stabili; dopo, a partire soprattutto dal XIII secolo, principati, regni e comuni cittadini diventano concretamente e capillarmente attivi nelle campagne, offrendo ai contadini un'opportunità nuova. L'elemento discriminante per attivare questi meccanismi di giustizia non è quindi la strutturazione locale delle comunità, ma piuttosto il contesto più generale, l'esistenza o meno di poteri superiori in grado di limitare l'egemonia aristocratica. Vedremo quindi questi due periodi separatamente, prima l'età carolingia, poi gli ultimi secoli del Medioevo: sono le due fasi in cui i gruppi con-
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tadini hanno potuto accedere a un potere interessato ad ascoltare le loro denunce e in qualche caso disposto anche a dar loro ragione; ma sono due periodi ben lontani tra loro, con apparati e procedure di giustizia molto diversi. Il dato comune è che in questi contesti non è utile ragionare in termini di "amministrazione della giustizia", una definizione che farebbe pensare a un apparato stabile, dotato di procedure definite e detentore del monopolio dell'azione giudiziaria; si preferisce invece parlare di "risoluzione dei conflitti~ un'espressione che pone al centro le liti e l'azione delle parti coinvolte, che possono avviare procedure di risoluzione diverse - dalla faida all'accordo, all'arbitrato - rispetto alle quali l'accesso al tribunale regio o principesco è un'opzione, possibile ma non obbligatoria. La forza di un principe o di una città dominante si manifesta nella capacità di imporre il proprio tribunale come principale sede di risoluzione dei conflitti, così da farne uno strumento di controllo sociale (oltre che un'importante fonte di entrate). In altri termini, il processo non corrisponde alla lite: il processo è parte della lite, e la lite a sua volta è parte di una ben più articolata interazione sociale tra i gruppi in conflitto.
I placiti carolingi Punto di partenza deve quindi essere l'età carolingia, da considerare sia nelle prassi di governo regio sia nelle ideologie che guidano queste prassi. Le leggi emanate dagli imperatori carolingi (i capitolari) manifestano in modo ricorrente l'attenzione alla tutela dei pauperes liberi homines: è importante qui citare la formula latina, perché pauperes non indica propriamente i poveri (in senso strettamente economico), ma piuttosto i deboli, gli inermi. Ciò che i capitolari esprimono è quindi la volontà regia di tutelare i liberi inermi di fronte ai potenti, e più in generale di conservare un legame diretto con i liberi, che consenta un'efficace comunicazione politica tra il re e l'insieme dei sudditi. Una seconda tensione - per certi versi opposta - emerge in modo regolare nei capitolari, ovvero la condanna delle azioni politiche collettive, dei giuramenti e soprattutto della violenza ad opera dei pauperes. Così ad esempio nell' 805 un capitolare impone di porre sotto processo chiunque abbia partecipato a «cospirazioni», distinguendo le pene imposte ai liberi da quelle destinate ai servi; nell'82.1 si condannano i giuramenti collettivi (coniurationes) a cui hanno dato vita gruppi di servi nelle Fiandre e
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nelle regioni vicine e così via (Provero, 2.019, p. 511 ). Molte sono le incertezze nel leggere queste norme ed è difficile trarne un'immagine concreta e realistica delle azioni compiute da questi liberi, né è facile comprendere a quali specifici gruppi si riferiscano le norme e quindi - per quel che più ci interessa - in che misura si possano vedere qui riferimenti a gruppi contadini. Ma il ricorrere di queste condanne fa emergere un nodo di tensioni reali per il potere regio, forme di azione collettiva (con valenza politica) da parte di persone di basso livello sociale, in alcuni casi poste ai limiti tra libertà e servitù. Ed è evidente il fastidio dei sovrani nei confronti di queste azioni, soprattutto quando implicano interventi armati o giuramenti collettivi: gli strati inferiori della società non devono impadronirsi di strumenti (le armi, il giuramento) propri dell'aristocrazia e del regno. Nel complesso, i testi normativi carolingi esprimono una volontà regia di tutela nei confronti dei pauperes, ma anche l'idea che sia illegittima qualunque loro azione politica e armata che non sia al servizio del re: azioni di questo tipo sono di per sé indebite e inopportune. I pauperes devono essere difesi, ma non devono difendersi, la loro tutela deve passare sia dalle leggi emanate dal re sia dal suo apparato giudiziario, a cui essi devono avere pieno accesso. E di questi orientamenti ideologici troviamo chiari riscontri nella prassi, ovvero nei placiti, le grandi assemblee giudiziarie di età carolingia. I placiti dell'vm e IX secolo ci consentono di cogliere, sia pur sporadicamente, l'azione di gruppi contadini che chiamano in giudizio le grandi chiese (sia abbazie sia sedi vescovili) o sono da esse accusati: il nodo centrale di queste tensioni è costituito sempre dalle forme della loro sottomissione e dai limiti della loro libertà. Abbiamo già visto (cfr. CAPP. 3 e 4) i casi di Flexum e della Valle Trita, con gruppi contadini che si oppongono in tribunale a vicini potenti; un altro caso ci permette di cogliere alcuni elementi della procedura di queste corti.
In un momento incerto, tra il 774 e 1'800, un gruppo di uomini di Oziate (luogo che non possiamo identificare) si presentò in giudizio per rivendicare 1a propria libertà rispetto alle richieste dell'abate di Novalesa (in Valle di Susa), e lo fece presentando una carta di libertà concessa loro da tal Dionisio; tuttavia Unnone (figlio di Dionisio) e i monaci di Novalesa (a cui Unnone aveva donato i propri beni) riuscirono a negare la validità di quella concessione, dimostrando con testimoni che per trent'anni era rimasta senza effetto e aveva quindi perso valore. Anni dopo (tral'8oo e 1'814) altri uomini dello stesso villaggio si recarono fino al palazzo regio di Pavia, con un'istanza simile, che venne però respinta dai monaci
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semplicemente presentando la sentenza precedente. Infine, nell'827 (ed è l'atto che ci racconta tutta la vicenda) alcuni uomini di Oziate si presentarono di fronte al conte Bosone, messo imperiale, nella corte ducale di Torino, per denunciare ancora una volta che l'abate di Novalesa cercava ingiustamente di ridurli in condizione servile. Il rappresentante di Novalesa chiese un rinvio e, quando la corte si riunl nuovamente, respinse le accuse, sia ricordando la donazione di Unnone sia soprattutto esibendo le due sentenze precedenti (Placiti, voi. I, pp. 114-8, doc. 37 ).
Nella documentazione che ci è pervenuta, i contadini sono quasi sempre sconfitti, ma questo è dovuto a due elementi strutturali: da un lato la fondamentale solidarietà che unisce il re ai potenti e che orienta a loro favore le decisioni della giustizia regia; dall'altro la conservazione documentaria. In effetti nell'Alto Medioevo solo le grandi chiese hanno la cultura, le capacità e la stabilità nel tempo per conservare a lungo i documenti nel proprio archivio, e ovviamente sono interessate a conservare solo gli atti e le sentenze a loro favorevoli, che diventano strumenti di prova per future liti. L'abbiamo visto proprio nel caso di Novalesa: nel primo giudizio i contadini di Oziate presentano un documento, che l'abbazia riesce a far annullare grazie a dei testimoni; ma nel secondo e nel terzo processo è l'archivio a garantire ali' abate gli strumenti per vincere. Di tutto ciò, di questi documenti portati in giudizio dalle due parti, ci è rimasta solo l'ultima sentenza, l'atto che chiude la vicenda e che quindi più di tutti è utile per Novalesa ed è perciò conservato nell'archivio monastico. Qui si coglie una differenza profonda e strutturale tra contadini e potenti, nella diversa capacità di uso dello scritto: non è che gli strati inferiori non conoscano il potere dello scritto, ma non hanno le capacità di conservarlo, manipolarlo e in qualche caso falsificarlo, come invece sanno fare le chiese. L'elemento più interessante non è però l'esito delle liti, ma il fatto che esse vengano aperte e portate davanti ai tribunali regi: gruppi rurali non aristocratici non solo hanno la concreta ed effettiva possibilità di accedere alla giustizia regia, ma la ritengono sufficientemente credibile ed equa da affrontare i costi e le difficoltà che un placito comporta, nella convinzione che una sentenza favorevole sia possibile. Proprio gli uomini di Oziate sono un caso chiarissimo, dato che vanno a Pavia e a Torino, si presentano alla corte regia e ai suoi messi: compiono una serie di azioni da ogni punto di vista impegnative, evidentemente perché ci credono, ritengono possibile ottenere una sentenza favorevole. Come abbiamo visto (cfr. CAP. 4), gli attori di queste iniziative giudiziarie in età carolingia non sono comunità di villaggio coese e definite,
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ma gruppi che esprimono solidarietà fondate su legami parentali, sulla dipendenza dallo stesso signore, sulla comune fruizione di un incolto, che talvolta riunisce uomini appartenenti a diversi nuclei insediativi. A questa debole definizione comunitaria si connette un altro elemento caratteristico dei placiti carolingi, ovvero il fatto che in genere i gruppi contadini non agiscono in tribunale tramite rappresentanti, ma con l'intervento diretto di tutti gli uomini coinvolti, elencati analiticamente o identificati con ampie definizioni collettive più o meno generiche ( «quegli uomini» ecc.). È certo assai probabile che, nel concreto sviluppo della lite, si identificassero dei rappresentanti o quantomeno dei portavoce; ma è importante notare come questo non lasci traccia documentaria: questi gruppi non formano comunità sufficientemente strutturate, stabili e riconosciute da poter essere rappresentate in giudizio da un delegato; i singoli sono totalmente responsabili, e come tali devono agire in giudizio.
Liberi e servi Al centro di questi placiti è costantemente la questione della libertà contadina. Le nozioni di libertà e servitù nell'Alto Medioevo sono sempre sfuggenti, prima di tutto perché la nostra guida migliore è il lessico usato nei documenti, che però è spesso ambiguo e apparentemente contraddittorio. Ad esempio, nel 768-769 tal Hildrich dona all'abbazia di Mondsee (in Austria) «due miei servi apicultori, di cui uno è libero e l'altro servo, mentre le loro mogli sono entrambe serve (ancilltte)»; oppure nel 1062. una donazione all'abbazia di Cluny (in Borgogna) comprende il villaggio di Berzé «con i servi e le serve che vivono su quel patrimonio, siano essi liberi o siano servi» (per entrambi gli esempi: Boutruche, 1971-74, vol. I, p. 309 ). I redattori di questi documenti sanno benissimo di che cosa stanno parlando, ma non sembrano disporre di un lessico abbastanza ricco di sfumature: possiamo forse pensare che «servi» qui significhi sia "contadini dipendenti" sia "schiavi~ ovvero possa indicare sia chi si limita a coltivare la terra del signore sia chi è in tutto e per tutto una sua proprietà. E quindi, nel caso di Mondsee, il primo apicultore sarebbe un dipendente del signore, il secondo uno schiavo. Il lessico servile copre una varietà piuttosto ampia di condizioni di dipendenza e appare difficile comprendere di volta in volta a quale forma di sottomissione e di dipendenza facciano riferimento i singoli documenti. Quando gli uomini di Oziate accusano
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l'abate di Novalesa di volerli «ridurre in servitù» (in servitio replegare; Placiti, voi. I, p. 115, doc. 37 ), che cosa intendono esattamente, a quali imposizioni vogliono sottrarsi? La risposta breve è che non lo sappiamo; la risposta lunga richiede di articolare un po' il discorso. Se il lessico appare poco specifico e gli stessi termini (servus, ancilla) sono usati per indicare condizioni diverse, questo è un riflesso di una cultura che tende a porre poca attenzione alle differenze interne al grande mondo dei contadini dipendenti. Ogni cultura crea attente distinzioni e un lessico articolato e complesso per le questioni importanti, per gli oggetti centrali nella propria vita; visti dall'alto della società, i contadini dipendenti sono un mondo irrilevante, per i quali non serve articolare una classificazione complessa. Tuttavia questo atteggiamento culturale si scontra con l'esigenza fondamentale del regno carolingio di tenere vivi e attivi i collegamenti con i liberi, e per far questo ovviamente il regno deve essere in grado di distinguere chi è libero e chi non lo è. Si sviluppa così una dinamica a tre attori: i potenti, che in linea generale vogliono ridurre l'insieme dei contadini dipendenti a un mondo non libero, pienamente sottomesso alle richieste di censi, imposte e prestazioni di lavoro; il mondo contadino, che cerca di difendere quote di libertà, considerate probabilmente un presupposto necessario per salvaguardare la propria condizione socioeconomica; e il regno, pienamente solidale con i potenti, ma anche attento a conservare un collegamento con i pauperes liberi, gli strati inferiori della società libera. In questa tensione, i giudici che guidano i placiti si muovono con molta flessibilità, e sembrano modellare di volta in volta le categorie di libertà e servitù; e se le denunce contadine si fondano in molti casi su una richiesta di libertà che sembra piuttosto generica, la lite spesso si concentra più in specifico sulla libenà del tempo lavorativo, ovvero sul carico di corvées imposte ai dipendenti. È un tema chiave, sia per i potenti, che vogliono sfruttare le grandi riserve padronali delle aziende curtensi, sia per i contadini dipendenti, a cui le giornate di lavoro da compiere sulle terre padronali sottraggono forze necessarie per la stessa sussistenza familiare, e per questo sono impegnati a difendere non una generica libertà, ma l'esenzione dai carichi di lavoro più pesanti (o che prendono più tempo). È una tensione generale, come si vede nell'editto emanato da Carlo il Calvo a Pitres nell'862., in cui si riafferma l'obbligo per i coloni insediati su terre del re o delle chiese a prestare la propria opera anche per i lavori più pesanti (West,
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2018, p. 237 ); ma la stessa tensione si ritrova in contesti più specifici: ad esempio, nell'882 alcuni contadini del Lago di Como cercano di liberarsi dalla corvée della raccolta delle olive imposta loro dal monastero di Sant'Ambrogio di Milano, corvée che appare esplicitamente e direttamente connessa al fatto che questi uomini fossero in precedenza servi imperiali (Provero, 2019, pp. 514 e 523; cfr. CAP. 8). Da questo punto di vista, essere servi o liberi implica una differenza chiara e concreta, ovvero il fatto di essere sottoposti o no a carichi di lavoro particolari (e probabilmente molto pesanti). Si vuole essere dichiarati liberi per non essere sottoposti a questi lavori più pesanti, e si vuole sfuggire queste corvées anche perché marchiano in modo chiaro e indelebile l'individuo come servo. La libertà in effetti ha un valore anche a prescindere dagli obblighi lavorativi, poiché essere liberi significa essere protetti dal re, avere il diritto ad accedere alla sua giustizia. Non è cosa da poco, è un diritto per cui vale la pena di lottare, e si crea quindi un corto circuito, in cui si accede alla giustizia regia per vedere riconosciuto e certificato il proprio stato giuridico libero e quindi, appunto, il proprio diritto ad accedere alla giustizia regia. Nei casi che possiamo seguire, questo diritto viene in genere negato, ma già abbiamo visto che la netta prevalenza di sentenze in favore dei potenti non significa che la giustizia regia non fosse credibile o non proteggesse i deboli.
I mediatori Il tema della richiesta di giustizia rimanda direttamente e necessariamente a quello dei mediatori. Chiedere giustizia non significa solo andare in tribunale, ma presentare richieste e suppliche, ovvero mettersi in comunicazione con il mondo più ampio e i poteri alti. Sono necessari mediatori che attivino e rendano possibili questi meccanismi di comunicazione politica.
In un placito tenuto a Risana (nell'attuale Slovenia) nell'804, una serie di città e comunità dell'Istria contestarono, di fronte ai giudici regi, le estorsioni e le violenze commesse ai loro danni dai vescovi e soprattutto dal duca Giovanni, contrapponendo la situazione di quegli anni a un'idilliaca forma di vita sotto il precedente dominio bizantino. I giudici decisero di scegliere 172. homines capitaneos (potremmo tradurre con "uomini principali") tratti dalle singole città e dai
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singoli villaggi per ottenere le loro deposizioni sui beni delle chiese, sulla giustizia del re, sulle violenze subite e sulle consuetudini del popolo di questa regione. Tra le molte contestazioni che le comunità istriane mossero al governo ducale, unariguardava in specifico la comunicazione tra i sudditi e il regno. Il duca infatti - nel racconto dei testimoni - invitava le popolazioni a raccogliere i donativi destinati all'imperatore, impegnandosi a farsi accompagnare da un delegato delle comunità (un missus de populo) al momento di portare queste imposte all'imperatore; ma in seguito il duca aveva dichiarato: «Non è il caso che veniate, farò io da intercessore per voi presso l'imperatore» (Placiti, voi. I, pp. 50-6, doc. 17 ).
La questione della mediazione entra quindi due volte in gioco in questo placito. Prima di tutto nella scelta di chi dovrà parlare con i giudici: quella che formalmente è una selezione di testimoni per un'inchiesta è di fatto qualcosa di ben diverso, è una delega da parte delle comunità ad alcuni maggiorenti a farsi portavoce delle loro istanze di fronte alla giustizia regia, di queste vere e proprie denunce nei confronti dei vescovi e del duca. Peraltro lo stesso termine con cui queste persone sono indicate (capitanei), pur nella sua genericità, è un importante riconoscimento della loro eminenza sociale, che sembra essere un connotato fondamentale per garantire il loro diritto a parlare a nome delle comunità. In secondo luogo, la comunicazione politica tra le società locali e il regno rientra in gioco come uno degli oggetti del conflitto, poiché una specifica ed esplicita accusa nei confronti del duca è quella di avere sottratto alle élite locali la capacità di comunicare direttamente con il regno, imponendo la propria mediazione. Questo è un punto chiave: l'affermazione di un dominio aristocratico sulla società rurale si concreta non solo in una serie di tensioni relative ai prelievi di matrice pubblica di cui chiese e aristocratici si appropriano, ma anche in un conflitto per controllare i processi di comunicazione politica tra il regno e la società locale. È una lotta tra liberi e potenti, con i primi che vogliono conservare la capacità di scegliere i propri mediatori dall'interno della società, e i secondi che cercano di imporsi come unica via di mediazione verso il regno: le comunità vogliono che sia il proprio missus a rappresentarle di fronte all'imperatore, il duca vuole invece impadronirsi di questa mediazione, essere lui a intercedere per le comunità. La procedura di inchiesta, al di là dei suoi concreti ed effettivi risultati, è una riaffermazione del diritto dei sudditi a scegliere al proprio interno, tra i gruppi dominanti nelle singole comunità, chi dovrà essere loro portavoce. Sul periodo medio-lungo questa linea è perdente. Il contraddittorio
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equilibrio carolingio tra potenziamento dell'aristocrazia al seguito del regno e tutela regia nei confronti dei più deboli si scioglie nei secoli seguenti in una dominante capacità aristocratica di imporsi come unica via di mediazione tra i sudditi e il sovrano. Lungo il x e XI secolo possiamo individuare una linea di declino della capacità di coordinamento e coercizione dei re nei confronti dell'aristocrazia, al cui interno la scomparsa dei placiti lungo l'xI secolo non è ovviamente frutto di una casuale cattiva conservazione documentaria, ma l'espressione più evidente di un'incapacità regia di controllare la società e i suoi conflitti. Il dato non è generalizzabile: ad esempio, nella Catalogna del x secolo abbiamo casi di accesso {talvolta vincente) alla giustizia regia da parte di gruppi contadini contro potenti locali {Bonnassie, 1990, pp. 139 e 197 ss.); ma la linea di tendenza è nel complesso chiara per l'insieme dell'Europa di tradizione carolingia. Scompare quindi la possibilità concreta ed efficace delle comunità rurali di accedere alla giustizia regia e i contadini sono privati di ogni controllo sulla mediazione verso il regno; in altri termini, si interrompe la comunicazione politica tra regno e società non nobile e il filtro dei poteri locali diventa ineliminabile. Questo non significa ovviamente che sia un mondo senza giustizia, privo di strumenti per risolvere i conflitti: le liti interne alla società contadina trovano risoluzione localmente, nelle assemblee di villaggio o nelle corti signorili {cfr. CAP. 7); i conflitti tra i signori si risolvono con la violenza, con gli accordi, con la mediazione degli amici e dei signori più potenti; ciò che manca è una via credibile ed efficace per risolvere le tensioni tra signori e contadini, le cui forme di resistenza si concentrano sulla capacità di condurre una contrattazione - difficile e diseguale - con il potente. Non è un caso se proprio nel corso dell'xI secolo, nel quadro di una generale localizzazione di tutte le forme di vita associata e di azione politica, si vanno definendo le prime comunità di villaggio organizzate {cfr. CAP. 4).
Prìncipi, re e città Un lento, controverso e profondissimo mutamento si attua a partire dal XII secolo, con processi di ricomposizione del potere che coinvolgono in forme diverse tutta Europa: attorno ai re, ai prìncipi e alle maggiori città si definiscono quadri territoriali più ampi e coesi. Queste dominazioni regionali non vanno certo a cancellare i poteri signorili, che continuano a
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essere la principale struttura di potere locale ndle campagne lungo tutto il Basso Medioevo e gran parte dell'età moderna. Si attua invece un coordinamento di questi poteri, per cui i signori vedono ridursi i propri spazi di autonomia e devono cedere quote di giurisdizione ai maggiori poteri regionali: le differenze sono fortissime da zona a zona, e soprattutto è importante distinguere i processi che in gran parte d'Europa sono condotti dalle dinastie regie e principesche da quelli che in Italia ruotano attorno alle maggiori città comunali. Ma queste differenze non devono nascondere la fondamentale omogeneità dd processo di coordinamento dei poteri locali attorno a dominazioni di respiro più ampio. Queste trasformazioni nelle strutture dd potere aprono nuove opportunità per la società contadina, che di nuovo ha la possibilità di cercare un collegamento con poteri superiori e di chiamarli in causa per ottenere giustizia e protezione nei confronti dei potenti locali. Prima delle specifiche e concrete istanze dei contadini ( il prelievo, la disponibilità delle terre ecc.), è proprio la possibilità o meno di fare ricorso alla giustizia regia o principesca a costituire un ricorrente fattore di tensioni in molti contesti europei. Così ad esempio nell'Inghilterra del XII e XIII secolo la Common Law ofVilleinage è l'insieme delle norme e delle procedure sulla base delle quali i tribunali regi decidono della condizione legale dei coloni, un sistema di norme a cui quindi i contadini vogliono fare ricorso come forma di tutela. Pochi riescono ad accedere alla giustizia regia e pochissimi arrivano a questi tribunali con un sostegno legale adeguato {gli avvocati, come sempre, sono costosi). Ma in questi rari casi i coloni sono in grado di porre seri problemi legali ai propri signori (Hyams, 1980). Nello stesso periodo in Catalogna si afferma una forma di sottomissione (o più precisamente, di autodedizione) di singoli contadini a un signore, la cosiddetta remensa (termine che a rigore indica la somma che il contadino deve pagare per riscattarsi dalla sottomissione); è una vera e propria perdita di libertà, sancita per iscritto nelle consuetudini con la formula dello ius maletractandi (letteralmente, il diritto di trattare male). Sotto questo nome, le consuetudini indicano il sistema di norme che definisce gli ampi diritti dei signori sui propri contadini (in termini di prelievo, servizi di lavoro, limiti alla mobilità personale), e in particolare l'esclusione di questi uomini dal diritto ad accedere ai tribunali regi. Non sono contadini economicamente miseri, dato che li vediamo disporre di piccoli e medi patrimoni e spesso sono in grado di riscattarsi pagando la remensa; e il potere signorile su di loro non è assoluto, ma regolato e limitato dalla redazione
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di norme scritte. Ma è importante notare come l'affermazione di un potere personale forte, che pone i sottoposti in una condizione al limite tra libertà e servitù, passi prima di tutto dalla loro esclusione dall'accesso ai tribunali regi (Orti Gost, 2015; Freedman, 1991).
Spazi di azione contadina In molti contesti diversi, i gruppi contadini appaiono consapevoli delle nuove opportunità che si aprono alla loro azione e sono in grado di sfruttarle, facendo un uso strategico della molteplicità di giurisdizioni che convergono su di loro. È un'azione profondamente diversa dalle contrattazioni che abbiamo visto nel capitolo precedente, ma le finalità sono simili: ridefinire equilibri e assetti locali del potere, sfruttando in questo caso la capacità coercitiva dei poteri superiori per limitare la libertà d'azione dei signori. È una politica che non si può condurre ingenuamente, richiede conoscenze e relazioni. Vediamo un caso tardo e per certi aspetti estremo, ma particolarmente significativo, che ci permette di cogliere alcuni dati fondamentali. Nel 1444 gli uomini di Pecetto (presso Valenza Po) inviarono una supplica al duca Filippo Maria Visconti per denunciare le richieste indebite dei Mandelli, signori del luogo, e chiedere che fossero privati del feudo. Sicuramente la denuncia degli uomini di Pecetto si pone in una fase di tensione: signori e sudditi denunciarono violenze reciproche, reali o minacciate. Ma per comprendere questa lite dobbiamo considerare una serie di dati di contesto: i Mandelli avevano perso il controllo di Pecetto a inizio Quattrocento e lo avevano riacquisito solo una ventina d'anni prima della lite; al contempo Ottone Mandelli nel 1444 aveva appena ereditato la signoria e - diversamente dal padre - era mal inserito alla corte ducale, da cui non riusciva a ottenere il rinnovo dell'investitura; infine sono anni in cui gli editti ducali si concentravano proprio sulla volontà di ostacolare i poteri signorili esercitati senza fi-eni e senza tutele per i sudditi. Gli uomini chiamarono quindi in causa la giustizia ducale, e lo fecero in un momento tutt'altro che casuale: la signoria dei Mandelli era tutto sommato recente e poco radicata, Ottone era debole, non riusciva a interagire efficacemente con la corte e probabilmente i Visconti gli volevano anche far pagare alcuni contrabbandi e scorrettezze del padre. La denuncia non nasce quindi tanto dall'oppressione da parte dei signori - che probabilmente erano oppressivi più o meno sempre - ma dalla loro congiunturale debolezza a corte, all'incrocio tra la loro specifica vicenda familiare e un orientamento generale del duca: la debolezza dei Mandelli fu un'opportunità
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per gli uomini di Pecetto, ed è interessante notare che in questo villaggio, posto a un'ottantina di chilometri da Milano, i leader della comunità fossero in grado sia di rendersi conto della debolezza di Ottone Mandelli a corte sia di approfittarne, fino a ottenere una sentenza a proprio favore (cfr. Cengarle, :z.oos ).
La vicenda di Pecetto e dei Mandelli ci permette di cogliere alcuni elementi fondamentali che ritroviamo in tanti altri casi di comunità che chiamano in giudizio i propri signori. Si vede bene come il potere del principe offra ai contadini nuove opportunità, ma senza nessun automatismo: il principe è spesso solidale con i signori locali, a lui legati da rapporti di fedeltà; anzi, in alcune fasi è evidente che la cultura politica dei prìncipi è profondamente ostile alle comunità, alla loro struttura repubblicana e apparentemente democratica. Ma in contesti e momenti specifici le opportunità ci sono, per chi sa sfruttarle: bisogna saper prendere l'iniziativa, essere pronti ad agire anche violentemente e soprattutto saper attivare un canale di comunicazione efficace con i centri del potere, in modo da essere informati su quel che succede a corte ed essere in grado di far arrivare le proprie richieste agli occhi giusti. In questo caso è particolarmente evidente che la conoscenza è una straordinaria risorsa politica: gli uomini di Pecetto riescono a leggere bene la realtà di corte (la debolezza dei Mandelli, gli orientamenti del duca) e su questo basano la loro efficace azione giudiziaria. In questo consiste l'uso strategico della molteplicità di giurisdizioni: saper leggere la realtà e la congiuntura e sapersi muovere tra diversi poteri, anche molto lontani dal villaggio. Questo è possibile quando la comunità dispone di risorse per assicurarsi buoni avvocati, di una leadership efficace e soprattutto di mediatori per raggiungere il potere centrale. La mediazione tra realtà diverse è sempre una funzione politica nodale: una delle chiavi per comprendere le tensioni nelle campagne bassomedievali è la lotta politica tra i signori e l'élite contadina per controllare la mediazione tra società locale e potere centrale. La crescita degli Stati regionali comprime indubbiamente i poteri signorili e offre grandi opportunità alle comunità, ma anche a quei signori che sanno porsi come mediatori: il potere signorile è stabile soprattutto quando può offrire ai sudditi un'efficace protezione nei confronti delle richieste del re o del principe, ovvero quando agisce come tramite tra realtà lontane. In genere i giudici sono in città e spesso i contadini sono estranei alla società urbana e probabilmente intimiditi di fronte ai giudici, mentre i signo-
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ri e i grandi proprietari in molti casi sono essi stessi dei cittadini e hanno ben altra consuetudine con questi ambienti (e ben altre risorse da spendere nelle liti). Che sia Parigi, capitale del regno più accentrato dell'Europa tardomedievale, o Firenze, repubblica che a inizio Quattrocento domina quasi sull'intera Toscana, la capitale è un posto in cui per i contadini è assai difficile muoversi. Ma non è sempre così, in alcuni contesti la comunità riesce ad agire efficacemente in città o a corte: l'abbiamo visto nel caso degli uomini di Pecetto, che possono approfittare di una congiuntura infelice dei loro signori, ma possiamo ritrovarlo in contesti diversi. A Lucca nel Trecento era attiva la Curia dei foretani, un tribunale destinato a giudicare le liti tra proprietari e contadini: operava con procedure rapide, costruite apposta per favorire i proprietari, che erano esponenti dell'élite cittadina in grado di muoversi con sicurezza nei tribunali lucchesi. Eppure le sentenze non sono sistematicamente a favore dei proprietari, come potremmo aspettarci, e questo è dovuto proprio ai meccanismi della mediazione tra città e villaggi, e in particolare al ruolo e ai comportamenti dei consoli rurali. Visti dalla città, i consoli dei singoli villaggi sembravano degli ufficiali comunali, incaricati di governare le campagne per conto di Lucca; ma all'interno delle singole comunità i consoli agivano in un'ottica assai diversa, impegnati a guidare e difendere i propri vicini. Figure pienamente di mediazione, quindi, che nel contesto delle singole liti spesso si trovavano ad appoggiare i contadini, negando ai proprietari le testimonianze necessarie per vincere la causa. Un altro meccanismo di mediazione favorevole ai contadini, sul piano culturale, era poi rappresentato dal diffuso notariato rurale: i numerosi notai di villaggio erano vicini e consiglieri dei contadini, in grado di offi:ire loro le competenze e le conoscenze necessarie a muoversi nei tribunali cittadini (cfr. Osheim, 1989).
Il contatto con i poteri principeschi si attua grazie ai mediatori, ma anche tramite un linguaggio adeguato. Quando i contadini si rivolgono alla giustizia del principe o della città dominante, presentano documenti che sono sia delle denunce sia delle suppliche, con cui si prega il principe di volgere il suo potere e la sua giustizia a proteggere i sudditi. E come avviene in tutte le suppliche, il linguaggio deve adeguarsi al destinatario: esaltare il suo potere di protezione e di pace e soprattutto mettere al centro della richiesta i diritti del principe, violati dal cattivo comportamento dd signore. Si vede bene nelle denunce presentate da comunità catalane nel XII secolo, che comprendono ampie narrazioni delle violenze che i contadini hanno sublto ad opera degli aristocratici. Sono «voci tormentate», come le ha definite Thomas Bisson (199 8), ma sono anche atti politici destinati a chia-
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mare in causa il re, e quindi sono attentamente costruite per sottolineare che la violenza dei nobili danneggia il suo potere. Non a caso le denunce insistono nel definire i contadini «i tuoi uomini», richiamando la diretta dipendenza dei liberi dal potere regio e il dovere del regno di proteggerli. Dobbiamo quindi leggere queste liti come una sistematica opposizione della società contadina al sistema di potere signorile? No, è piuttosto una contestazione dei comportamenti di specifici signori: non si mette in discussione la signoria, ma i cattivi signori; e la cancellazione del sistema di potere signorile non è nell'orizzonte mentale della società contadina. Si contestano pratiche e prelievi messi in campo da parte di signori che per qualche motivo sono abbastanza deboli da poter essere efficacemente sfidati in tribunale. E se il caso di Pecetta è estremo, perché i sudditi chiedono la cancellazione dell'investitura ducale ai Mandelli, ha in comune con altre vicende un'idea di signoria giusta: le richieste contadine comprendono sempre una riduzione del prelievo e delle violenze signorili, ma a questo si affianca la richiesta di una signoria che dia ai sudditi qualcosa in cambio delle ricchezze che ne trae, e soprattutto che li protegga dalle richieste dello Stato (fisco, servizi militari, prestazioni di lavoro ecc.) e dalle violenze degli altri potenti. Ciò che emerge in alcune denunce e suppliche contadine è un'idea di reciprocità, di uno scambio tra signore e sudditi: niente di paritario, ovviamente, ma neppure un potere che si limiti a togliere tutto il possibile ai suoi sudditi, senza dar loro niente. E qui si vede bene come gli orizzonti ideali su cui queste denunce si fondano siano in larga misura simili a quelli che abbiamo visto negli atti di contrattazione (cfr. CAP. 5).
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Nel capitolo precedente abbiamo visto come le comunità rurali possano accedere - in alcune fasi e in specifici contesti - a corti di giustizia che hanno la forza e l'interesse di giudicare ed eventualmente condannare i comportamenti dei potenti. Ma la conflittualità nelle campagne medievali ovviamente non si limita alle liti tra signori e sudditi, e se tralasciamo qui i conflitti tra potenti, dobbiamo invece concentrarci su quelli interni alla società contadina. Il villaggio non è mai uno spazio pacificato e l'intensa cooperazione implica sempre un'intensa conffittualità. D'altronde, molte delle azioni politiche che abbiamo visto fin qui non ci hanno mostrato comunità coese, compatte e solidali, ma una società che si segmenta e si ricompone in continuazione, con gruppi, famiglie e individui che agiscono per distinguersi dal resto della comunità.
La violenza signorile Per leggere le liti nel mondo contadino, il punto di partenza deve essere la diffusa violenza che segna le campagne medievali, soprattutto per mano signorile. Non è mai facile capire fino in fondo quanto pesasse davvero la violenza aristocratica: le nostre fonti principali sono le denunce da parte dei sudditi o delle chiese, testi che tendono ovviamente a esaltare i danni che i nobili hanno provocato alle persone, ai beni e agli animali. Non sono probabilmente testi che inventano la realtà, ma isolano i gesti violenti dd nemico per dipingerli come atti immotivati e insensati: se gli armati al servizio di una dinastia aristocratica si scontrano con quelli al servizio di un'abbazia, quest'ultima descriverà lo scontro come un attacco violento e immotivato ai danni dei suoi uomini, tralasciando la parte da loro svolta nello scontro. Trasformano quindi una violenza reciproca in una violenza unilaterale e ingiustificata. Tuttavia alcune narrazioni colpiscono il lettore.
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Poco dopo il ro8o gli uomini di Casciavola denunciarono ai consoli della vicina città di Pisa i comportamenti dei Lambardi di San Casciano, impegnati ad affermare il proprio potere signorile sul villaggio: «I San Casciano iniziarono a derubarci delle nostre cose, non secondo l'uso o secondo un accordo e neppure per nostra volontà [... ].Inseguito, quando ogni potere pubblico perse efficacia e la stessa giustizia mori e spari dalla nostra terra, essi iniziarono a prendere con la forza le nostre cose, a irriderci, ad assalire le nostre spose mentre giacevano nd loro letto in preda alle doglie colpendole con bastoni, a togliere dalle nostre case tutti i nostri beni, a malmenare i nostri figli e gettarli tra lo sterco e il fango, a portare via gli animali dalle nostre abitazioni, a devastare i nostri campi, gli orti e gli uliveti, rubandone i frutti, a prendere con la forza tutte quelle cose con le quali noi e i nostri figli dovevamo vivere» (cfr. Fiore, 2.017, p. 2.41, anche per la citazione).
È una narrazione attentamente costruita: alle spalle degli uomini di Casciavola possiamo intuire l'azione dei cittadini e dei giurisperiti pisani, che
li guidano a comporre una denuncia il più efficace possibile, che dia ai pisani l'opportunità di intervenire nel villaggio; ma, come abbiamo visco,
è improbabile che la querela inventi le violenze e in ogni caso - se il cono della denuncia può apparire affranco - gli atti violenti dei San Casciano hanno ben precisi orientamenti e limiti, e proprio questo rende più credibile un cesto che non presenta i signori come dei sadici che colpiscono a caso, ma come dei potenti che indirizzano la propria violenza lungo precise linee di comportamento. Non è una violenza estrema dal punto di vista fisico, nessuno viene ucciso o ferito gravemente; è però una violenza fatta di umiliazioni, con i bambini gettaci nel fango e ancora di più le donne percosse durante il parto; e soprattutto è una violenza che vuole portare via i beni dei contadini. Dire - come fanno i casciavolesi - che i signori «iniziarono a derubarci delle nostre cose, non secondo l'uso o secondo un accordo e neppure per nostra volontà», più che un facto è un'interpretazione. Ciò che qui viene descritto è un prelievo, forzato e violento quanto si vuole, ma pur sempre un prelievo, ed è probabilmente questa la tesi sostenuta dai signori (le cui posizioni purtroppo non ci sono giunte): i contadini si rifiutavano di versare una serie di censi dovuti e i signori sono andati a prenderli, con le buone o con le cattive. La narrazione dei casciavolesi è quindi un tentativo per negare la legittimità del prelievo signorile, che non è sostenuto, a quanto dicono i contadini, né dalla consuetudine né dal loro consenso. Spesso è difficile ricostruire in dettaglio le singole vicende, ma il quadro generale ci mostra un uso diffuso e consapevole della forza: consapevole,
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perché la violenza non è lo sfogo incontrollato di nobili che si annoiano e se la prendono con i contadini inermi; o meglio, talvolta sicuramente lo è, ma è più importante comprendere le funzioni politiche di questa violenza, come strumento per affermare e consolidare il potere signorile. Il signore non punta a uccidere o a ferire gravemente i contadini, che sono utili fintanto che sono abili al lavoro; l'obiettivo è invece riaffermare i ruoli sociali, sottolineare con la massima evidenza che i sudditi sono inferiori, che i loro stessi corpi sono a disposizione dd signore (e lo sono fin da prima di nascere, sembrano dire i signori di San Casciano che percuotono le partorienti). La violenza è un linguaggio, il che non vuol certo dire che non sia reale e dolorosa, ma è strumentale a obiettivi pienamente politici, e lo vediamo meglio se ne consideriamo la cronologia e i ritmi perché, se la violenza è un dato permanente, alcune fasi e alcuni contesti sono probabilmente più violenti: le fasi di formazione di un potere signorile, le transizioni più ddicate, le liti tra diversi signori per il controllo su un villaggio. In tutti i contesti in cui un potere è messo in discussione, il signore può trovare nuova forza affermando pubblicamente il proprio pieno controllo sui contadini, ed è soprattutto in questi momenti che un signore va sulla piazza dd villaggio a picchiare i contadini senza che le vittime siano in grado di contestare le sue azioni, un fatto che certifica agli occhi della comunità che essi sono effettivamente suoi dipendenti. È un uso strategico della violenza: si agisce brutalmente per intimidire i contadini e per mostrare a tutti che lo si può fare impunemente. Per questo è importante farlo in pubblico ed è importante l'eventuale reazione della parte colpita: chi subisce la violenza senza reagire riconosce che questa violenza è lecita, che il rapporto di forza tra signore e contadino è tale per cui quest'ultimo non è in grado di opporsi. In generale, un'azione condotta in pubblico e non contestata ha valore di prova, sia agli occhi della società locale (che si convince delle buone ragioni di chi agisce) sia in un futuro possibile processo, al cui interno le azioni e le reazioni potranno essere ricordate e fatte valere come valide argomentazioni legali. Picchiare i contadini di nascosto, nelle loro case, sarebbe servito come punizione, ma non sarebbe stato un efficace messaggio politico alla comunità. Le forme di resistenza e di contestazione alla violenza signorile possono arrivare - più che dai sudditi - da signori concorrenti: cosl. abbiamo molti documenti di denuncia in cui i monaci di un'abbazia, rivolgendosi al vescovo locale o alla corte regia, narrano di aristocratici vicini che con la violenza si sono imposti su contadini che dipendono dall'abbazia. All'a-
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bate e ai suoi monaci probabilmente importa assai poco dd benessere dei contadini e delle botte che hanno ricevuto: ma queste botte sono atti di potere, sono azioni con cui i nobili affermano di essere signori di quei contadini, e questo per l'abate non è accettabile. Questo allora è lo scopo della denuncia: non permettere che i signori laici possano affermare di avere picchiato impunemente questi contadini; li hanno picchiati, certo, ma la legittimità della loro azione è stata pubblicamente contestata, forse non dai contadini, ma certo dall'abate, tramite la denuncia.
I pericoli della guerra L'efficacia della violenza come strumento per rivendicare pubblicamente il potere su un villaggio è tanto maggiore quanto più la violenza e le armi sono prerogative esclusive dell'aristocrazia: quanto più i contadini sono inermi, tanto più efficacemente il fatto di picchiare in pubblico sarà una manifestazione di potere. Cosl nel 1244, quando nobili e comunità della Baviera si riuniscono a stipulare una pace territoriale - un insieme di norme condivise, destinate a regolare la vita associata - si afferma il divieto per i contadini di portare armi e al contempo una serie di limiti al loro abbigliamento (Rosener, 1987, p. 115). Possono sembrare due norme totalmente diverse, ma sono espressione della stessa linea di fondo, tendente a impedire ai contadini di impadronirsi dei simboli dello status aristocratico: i contadini sono e devono essere inferiori ai nobili, e quindi non possono vestirsi come loro né portare armi. Norme come queste ovviamente non impediscono gli atti di violenza tra contadini, che sono un dato di fondo che possiamo dare per scontato. Il punto è però capire in che misura possano avere un significato politico (come ha la violenza dei nobili nei loro confronti). Una dimensione pienamente politica è quella delle rivolte, momenti di esplosione di una violenza collettiva contro i potenti (cfr. CAP. u ); molto più difficile è coglierne sviluppi e implicazioni nella quotidianità, all'interno dei villaggi. L'azione violenta dei contadini è visibile a tratti, in momenti e contesti diversi, come emergenze sporadiche di una trama di comportamenti quotidiani che per lo più sfuggono alla nostra osservazione. Una consuetudine alla violenza deriva dalla guerra, che in questi secoli è un fenomeno ricorrente, ma con implicazioni particolari. Nel Medioevo ci sono tante guerre e pochissime battaglie: le battaglie sono quei rari mo-
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menti in cui due eserciti, guidati dai propri capi, si affrontano in campo aperto, in uno scontro destinato a essere risolutivo, a decidere chi ha ragione e chi torto, chi ha vinto e chi ha perso; le guerre sono un succedersi continuo di piccoli e medi episodi di violenza, saccheggi, furti di bestiame e di cavalli, talvolta abbattimento di vigne o di alberi. È una violenza destinata soprattutto a impadronirsi dei beni del nemico (i raccolti o gli animali), talvolta a distruggere i loro stessi strumenti di produzione (I'abbattimento delle vigne, danno gravissimo, che richiede anni di lavoro per rimediare); i morti e i feriti ci sono, ma possiamo considerarli un danno collaterale. I contadini conoscono bene questa guerra endemica, il ricorrente passaggio dei cavalieri a picchiare e saccheggiare: sono i guerrieri nemici, che passano a far bottino, ma anche gli eserciti amici, che si nutrono impadronendosi dei prodotti delle terre che attraversano. La paura della guerra è propria dei contadini, i cui beni e persone sono pressoché senza protezione, diversamente dai cittadini che - dentro le mura - si possono considerare ben più al sicuro dalle scorrerie e dalle cavalcate. Subiscono quindi la violenza della guerra, ma vi partecipano anche, all'interno delle armate del signore. Dall'XI secolo in poi si è andata sempre più accentuando la differenza tra i cavalieri e i fanti: è una differenza sociale, tra aristocratici e rustici, ma è prima di tutto una differenza di forza militare. Il nobile, addestrato fin da bambino a combattere a cavallo, è un guerriero d'élite, molto più efficace e pericoloso di un fante, e in questi secoli la guerra diventa sempre più uno scontro tra cavalieri. Questo non significa però che i rustici - male armati e per niente addestrati - siano esclusi dai combattimenti, perché i cavalieri sono forti ma sono pochi, e sono davvero efficaci se affiancati da un numero ben nutrito di fanti in appoggio. Tra i fanti ritroviamo i contadini, che seguono il proprio signore nelle spedizioni a breve e talvolta a lungo raggio, soprattutto quando il signore è un principe potente: così, in una raccolta di testimonianze del 1287, gli uomini di Villardora, in bassa Valle di Susa, ricordano come siano andati al seguito del conte di Savoia a combattere a Torino e nel suo circondario, ma anche nelle colline del Monferrato, nella pianura cuneese e fino a Briançon, oltre il Colle del Monginevro. Sembra emergere una punta di orgoglio, di chi può dimostrare di essere uscito dal proprio villaggio, di aver visto il mondo. Per queste spedizioni, è centrale la questione dei tempi: i contadini non possono allontanarsi a lungo dalle proprie terre, ne va della produzione
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e quindi della loro stessa sopravvivenza. Per questo le franchigie spesso regolano con attenzione i limiti geografici e temporali dell'impegno militare dei rustici al seguito del signore: così ad esempio, restando nella stessa zona, a Susa nel 1245 si stabilisce che la comunità dovrà servire il conte nella cavalcata, a cui dovrà essere inviato un uomo per ogni casa, per quindici giorni all'anno, nell'area compresa tra i monti e il Po, con l'esclusione dei periodi della vendemmia e delle messi (per i due casi valsusini: Provero, 2012, pp. 59 e 217 ). E abbiamo visto l'attenzione con cui i sudditi curano il rispetto di questi limiti nel caso degli uomini di Pinerolo, che accettano di aiutare il conte di Savoia in un assedio solo dopo avere ottenuto garanzie che questo servizio non sarà usato come precedente per future ulteriori richieste (cfr. CAP. s). Profondamente diverso il discorso relativo ai servizi di guardia al castello, o meglio: è un discorso che in genere non compare nelle franchigie, non è oggetto di contrattazione tra signori e sudditi. Le spedizioni allontanano i contadini dalla propria terra e dal proprio lavoro, per azioni che giovano per lo più al signore; le guardie al castello invece sono al servizio del signore ma anche della comunità, sono la sostanza di quello scambio tra protezione e servizi che ruota attorno al castello. E in effetti sono numerosi i documenti in cui la comunità si accorda con il signore per costruire il castello (cfr. CAP. 10 ): tra le tante e pesanti corvées che il signore impone ai contadini, i lavori di costruzione, manutenzione e guardia del castello sono i servizi più accettabili e quasi graditi, da cui la comunità trae il vantaggio più diretto. Tra spedizioni, cavalcate e servizi al castello, i contadini prendono confidenza con le armi e con il combattimento, un'attività a cui non possono ovviamente addestrarsi nei normali tempi lavorativi, diversamente dai cavalieri, la cui ricchezza garantisce la possibilità di dedicarsi a tempo pieno, 6.n da bambini, alla difficile arte di combattere a cavallo. I contadini non diventano dei professionisti o dei guerrieri d'élite, ma le armi entrano pienamente a far parte del loro mondo. La violenza è quindi presente nell'orizzonte quotidiano di un contadino medievale, nella guerra, nella società, ma anche in famiglia. Era normale e anzi necessario che i mariti picchiassero le mogli: in diverse consuetudini locali di area tedesca e francese, vediamo che le norme non solo riaffermano il diritto del marito a punire la moglie, ma lo presentano come un suo preciso dovere. Il marito è tenuto a sorvegliare, punire e picchiare la moglie, e in caso contrario diventa oggetto di scherno, di disonore, di
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rituali degradanti (ad esempio, è portato in giro per il villaggio a cavallo di un asino; Rosener, 1987, pp. 223 ss.). Questa violenza quotidiana può rivoltarsi anche contro i signori, non solo nelle grandi e rare ribellioni (cfr. CAP. 11), ma in azioni piccole e probabilmente ben più frequenti. Ad esempio a Cerea, presso Verona, le pressioni della famiglia signorile dei San Bonifacio inducono i sudditi, ali' inizio del XII secolo, a una reazione violenta, fino a cacciare con le armi il signore e i suoi fedeli (Fiore, 2017, p. 246). Ma si va anche oltre, si arriva a uccidere il signore, come si riscontra in contesti molto diversi, dalle Fiandre del XII secolo alla Galizia del xv secolo: omicidi premeditati e progettati, che avvengono in pubblico, spesso in chiese affollate. Possiamo leggerli come rivolte, tentativi di abbattere il regime signorile? Probabilmente no, il significato sembra invece essere la contestazione delle cattive azioni di un cattivo signore; si agisce contro un signore, non contro il sistema signorile. Commettere l'omicidio in pubblico, spesso in chiesa, è un modo per rivendicare la sua legittimità: non si uccide di nascosto, come farebbe un criminale, ma davanti alla comunità, come chi esegue una sentenza.
Le liti contadine Violenza sistematica dei signori sui sudditi, violenza episodica dei sudditi nei confronti dei signori. Ma se ci spostiamo all'interno della società rurale, ai conflitti "orizzontali9 che contrappongono gruppi contadini, abbiamo visto (cfr. CAPP. 3 e 4) come lo spazio agrario, gli incolti e la loro delimitazione siano sempre questioni centrali nell'azione politica delle comunità e spesso siano causa di lunghi conflitti tra i diversi villaggi. Se proviamo però a scendere più nel dettaglio, nelle liti che contrappongono individui e famiglie all'interno dei villaggi, il terreno si fa sfuggente e diventa difficile ricostruire i conflitti. A tutti i livelli politici e sociali, noi non vediamo direttamente le liti, ma i tentativi per risolverle; sembra una differenza da poco, ma è fondamentale per comprendere perché certe liti sono abbastanza leggibili e altre sono pressoché assenti dalle fonti. Se una lite lascia o non lascia traccia documentaria dipende prima di tutto dalle parti coinvolte, perché i documenti delle chiese e delle città sono ben più numerosi e meglio conservati di quelli delle famiglie e delle comunità contadine. Ma è determinante anche il tribunale o l'arbitro a cui la lite è stata affidata: i comuni cittadini italiani o la corte pontificia prevedono
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procedure in cui i documenti si affollano, tra denunce, inchieste, appelli, sentenze ecc.; il tribunale di un signore rurale è certo efficace nell'imporre con la forza (e con pene corporali talvolta pesanti, ai nostri occhi) il rispetto delle sue sentenze, ma produce ben pochi scritti (e le famiglie contadine non hanno né la cultura né la continuità per trasmettere questi scritti fino ai nostri archivi). Per questo capita spesso di vedere la conflittualità contadina attraverso la città e i suoi tribunali, ed è il sistema giudiziario e archivistico dei comuni a mostrarci la violenza spicciola di cui sono fatte le liti contadine. Così ad esempio è il tribunale veneziano di Torcello a documentare una lite avvenuta nei pressi della città, sull'isola di Mazzorbo, nel 12.90. Pietro Glugiense, che viveva presso il monastero di Santa Eufemia di Mazzorbo, testimoniò sulla rissa avuta con Pietro Pollano. Dichiarò che lui e Tommasino Glugicnsc avevano preso l'incarico di lavorare un campo di Pietro Pollano e un giorno il proprietario era venuto sul campo e aveva cominciato a dire: «Perché non avete terminato il lavoro sul mio campo?», al che Glugiense aveva risposto: «Non possiamo fare di più, anch'io preferirci finire oggi piuttosto che domani». Pollano cominciò allora a dire volgarità (rusticitatem) e Glugiense rispose: «Non ho mai visto un uomo sanguigno come voi, perché noi facciamo del nostro meglio e voi non smettete di dirci cose cattive e volgarità». Sentito questo, Pollano gli disse: «Schifoso contadino di merda», prese un forcone da letame e glielo tirò addosso. Glugicnse lo schivò, lo raccolse e lo tirò a sua volta contro Pollano. Allora Pollano ordinò a due suoi servi: «Prendetelo e picchiatelo». I due servi presero una zappa e una pietra e lo stesso Pollano iniziò a tirare pietre; Glugiense li tenne lontani con un forcone urlando: «Non avvicinatevi, non ho niente a che fare con voi». E mentre fuggiva era giunto sul posto il giudice e li aveva separati ( cfr. Cammarosano, 1991, pp. 169 ss., anche per le citazioni).
Questa violenza minuta che connota le liti contadine non è certo sorprendente né propria solo di questo periodo; occorre però fare un passo in più, leggere le implicazioni di queste liti e della loro risoluzione, vedere in che misura incidano sulla vita sociale e sui sistemi locali di potere. Le liti interne alla società contadina si concentrano soprattutto sulle terre e sui diritti connessi {censi, eredità, confini ecc.), dato che la terra è la risorsa principale, quella per cui è più importante lottare e conservare i documenti. Si va in giudizio spesso davanti al signore, ma sempre davanti ai propri vicini: dobbiamo infatti tenere presente che lo scopo del signore, quando giudica le liti tra i suoi sudditi, è certo quello di incassare le multe, ma anche di tenere sotto controllo la società, impedire che i conflitti sfocino
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in una violenza senza &eni, e per questo è importante che il suo gluJl:t.lu sia affiancato e sostenuto dalla comunità. La forza coercitiva del signore, fondata prima di tutto sulle armi, trova così sostegno in una diversi\ lthl efficace forza comunitaria, la capacità dei vicini di condizionare i com11nrtamenti individuali. Il singolo accetterà più facilmente la sentenza se: 111rà sostenuta, olue che dalle armi dd signore, dalla spinta dei propri vlc:lnl, che collettivamente operano per la pace sociale, ovvero per tenere la con• flittualità sotto conuollo. La violenza di questa giustizia e il profondo intreccio tra dimensioni diverse (le multe pagate al signore, il risarcimento alla vittima, il marchio di pubblica infamia imposto al colpevole) si possono cogliere attravcr110 un caso specifico. Nel 12.76 il priore di Novalesa {in Valle di Susa) vide contestato dal giudice SII· baudo di Susa il proprio diritto a giudicare i reati (maleficia), e per riaffermarlo raccolse una serie di deposizioni che ci presentano gli atti di giustizia compiuti dal priori nei decenni precedenti. Il quadro generale delineato dai testimoni è quello di un'azione giudiziaria ricca di punizioni corporali: frustate, mutilazioni, impic• cagioni, rispetto a cui la prigionia è una premessa {si viene incarcerati prima del giudizio) e le multe sono una variante minore. Dalla punizione fisica si poteva infatti scampare pagando: è il caso di Stefano Bemerio, catturato per avere ucciso un uomo, che però sfuggì alla pena di morte grazie al denaro che versò ai monaci; o di Anselmo Trivelli, che fu bendato e condotto alle forche e rimase a lungo sulla scala, ma alla fine si riscattò pagando. Solo in pochi casi viene direttamente comminata una multa, in genere per atti di violenza spicciola e risse. La pena più pesante è certo l'esecuzione di Guglielmo Martina. impiccato a un pero nei pressi della fonte di Novalesa perché era un ladro. Fu un atto eccezionale, e per questo ben ricordato dai testimoni, ma non ebbe per tutti lo stesso significato, poiché a essere incaricati di eseguire la pena furono proprio coloro che avevano subìto il furto. La condanna assunse così un significato diverso: certo, atto di giustizia di un signore, ma anche vendetta di chi da questo reato era stato danneggiato. In un'altra occasione, Giovanni de Molarlo era stato catturato con il complice Rostagno per un furto di capre, ma il destino dei due fu molto diverso: mentre Rostagno se la cavò perché non aveva mai compiuto altri furti, a Giovanni fu mmcato un piede, e proprio a Rostagno fu ordinato di amputare il piede al proprio complice. L'amputazione rese Giovanni inabile all'azione e al contempo era 1111 marchio d'infamia che rendeva a tutti visibile la sua colpa; ma l'esecuzione della pena andò anche a distruggere le forme di solidarietà su cui lo stesso Giovanni po• teva contare, perché appare quanto meno improbabile una sua futura complldrà con chi - sia pure obbligato - gli aveva amputato un piede. Questo non fu per11I-
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tro 1' unico marchio infamante: i servitori di Novalesa avevano marchiato a fuoco suUa fronte due ladri, e avevano minacciato di tagliare l'orecchio a un altro (che aveva evitato l'amputazione pagando una multa). E ancora: Lanfredo, che aveva rubato un alveare, fu prima frustato, poi trascinato nudo per il paese di Venaus con un alveare in testa, mentre due streghe erano state portate nude per il villaggio di Novalesa, per poi essere espulse dalla terra del monastero (cfr. Provero, 2.018).
Pena, risarcimento, infamia, esclusione: molti elementi diversi convergono in questi atti; le esigenze di giustizia del signore e della comunità non sono né opposte né completamente distinte, e in questo quadro non è sorprendente che le liti tra i membri della società di villaggio siano spesso risolte all'interno di assemblee, che però - per le ragioni che abbiamo visto - emergono in modo sporadico nelle fonti. Un caso rilevante è rappresentato dalla Galizia del x secolo, che introduce un elemento in più, un superamento degli orizzonti del singolo villaggio: qui le liti per le terre vengono giudicate da assemblee che raccolgono piccoli proprietari fondiari provenienti sia dal villaggio sia da un'area più ampia, da insediamenti distanti anche decine di chilometri. Se pure non possiamo cogliere tutte le implicazioni, tutte le ragioni per cui ogni individuo è presente a quelle assemblee, le liti hanno sicuramente un'ampiezza e un'incidenza non puramente locali, e per risolverle non viene chiamata la collettività degli abitanti di un villaggio, ma un'assemblea ad hoc, costituita apposta e - dobbiamo ritenere - modellata sui protagonisti e sugli sviluppi della singola lite. In altri termini, non si fa ricorso a un'istituzione esistente, ma si modella 1' istituzione sulle esigenze specifiche, sulla base di una procedura condivisa (Davies, 2016).
Faide e assemblee Un contesto estremo è l'Islanda prima del 1262, l'anno in cui fu sottoposta al potere dei re di Norvegia. È estremo da diversi punti di vista: prima di tutto per la posizione e il clima, ovviamente; poi, di conseguenza, per la struttura economica, che si fonda in minima parte su agricoltura e pesca, e in larga misura sull'allevamento ovino, che fornisce agli islandesi sia gli alimenti fondamentali sia la materia prima per vestirsi; ed estremo infine per la struttura politica, priva di un regno e con una debole gerarchizzazione sociale. Non c'è un regno che possa delegare quote locali dd proprio potere, né una corte centrale da cui gli aristocratici possano trarre prestigio
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o a cui i litiganti possano far ricorso per avere giustizia: la società si organizza attorno a figure eminenti, dei capi che si tramandano per via ereditaria il proprio prestigio, fondato prima di tutto sulla capacità di guidare le assemblee. L'Islanda non è un caso esemplare o tipico, ma proprio la sua eccezionalità ne fa una specie di esperimento di laboratorio, che ci offre la possibilità di vedere come si gestiscono i conflitti in una società stanziale a debole egemonia aristocratica, illuminata soprattutto da fonti molto particolari, le saghe: sono lunghe narrazioni di imprese e conflitti, che hanno trovato redazione scritta a partire dal XIII secolo, ma sembrano riflettere in larga misura i funzionamenti sociali dei secoli precedenti. In questi racconti le assemblee sono i luoghi centrali per lo sviluppo delle liti: assemblee chiaramente gerarchizzate, riunite attorno ai capi, che costruiscono il proprio potere sulla base della ricchezza, della rete parentale e della capacità di riunire attorno a sé un seguito di uomini (e di armati) che nell'assemblea intervengono a regolare e pacificare i conflitti. Quando le assemblee falliscono, si sviluppano le faide, lunghi conflitti in cui due fazioni - o più spesso due gruppi parentali - si scontrano in una sequenza di violenze reciproche, di offese e vendette, in un crescendo che costituisce la materia principale di molte saghe islandesi e che trova una fine solo con l'annientamento di una parte o quando il livello di violenza diventa eccessivo e inaccettabile per l'intera società locale, che interviene a ricondurre le parti alla pace. È quindi la comunità a imporre prima o poi una pacificazione, ma anche le due parti sono costrette a cercare una via d'uscita, prima di tutto perché la faida costa. Il singolo atto di offesa (bruciare una casa, devastare un campo ecc.) è semplice e rapido, richiede pochi uomini per poco tempo; mal' attesa della vendetta richiede molti uomini per molto tempo: ci si arma, ci si fortifica, si raccolgono uomini e li si deve mantenere per un tempo indefinito, in attesa che gli avversari agiscano. La faida quindi non è per tutti, è uno strumento disponibile per chi ha molte risorse, e questo vale per l'Islanda ma è un'osservazione di valore generale, perché le faide e le fazioni, così evidenti nelle saghe islandesi, si ritrovano in molti contesti bassomedievali. In genere per le campagne europee non abbiamo testi con lo sviluppo narrativo delle saghe, ma i documenti ci mostrano bene come la società di villaggio sia spesso divisa in fazioni, ovvero schieramenti distinti e contrapposti, organizzati attorno alle famiglie localmente eminenti e pronti a entrare in azione nelle fasi di conflitto. È un fenomeno ben visibile nelle città italiane, dove i partiti
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contrapposti assumono spesso i nomi di guelfi e ghibellini; ma divisioni analoghe si ritrovano nelle comunità di villaggio, con legami parentali e clientelari che uniscono individui e famiglie a costituire fazioni contrapposte, senza alcuna implicazione ideologica. Le fazioni rappresentano certo una minaccia per la pace sociale del villaggio, perché sono schieramenti mobilitabili come manovalanza armata, pronti ad agire violentemente al seguito dei propri capi; ma possono essere anche una risorsa per la comunità locale: nelle montagne lombarde del Quattrocento si vede bene che i capi-fazione, per legittimarsi agli occhi dei propri seguaci e della comunità locale, agiscono come intermediari tra il villaggio e il principe, soprattutto per contrattare piccoli vantaggi fiscali (Della Misericordia, 2006). Li definiamo degli imprenditori politici, perché basano il proprio potere non tanto sulla ricchezza materiale, ma prima di tutto sul sistema relazionale, sulla capacità - propriamente politica - di mettere in contatto la società locale con il potere centrale. Come abbiamo visto in diversi contesti, la mediazione tra villaggio e poteri alti è un ruolo chiave: la peculiarità di questi capi-fazione è il fatto di agire esplicitamente non come rappresentanti dell'intera comunità di villaggio, ma appunto di una fazione localmente dominante. Il dominio della fazione sul villaggio e il dominio del capo sulla fazione fanno di questi personaggi i più efficaci mediatori sia dall'alto verso il basso (garantendo al principe il controllo della società e il prelievo delle tasse) sia dal basso verso l'alto (offrendo alle suppliche e alle istanze locali una via efficace per giungere agli occhi e alle orecchie del principe). Sulla società locale hanno un controllo tale da renderli collaboratori efficaci e a tratti indispensabili per gli ufficiali dello Stato, e i meriti che guadagnano agli occhi del principe li rendono ancora più preziosi per la comunità locale (quanto più sono utili al principe, tanto più saranno efficaci nel presentargli le richieste del proprio villaggio). Nel complesso, contribuiscono a rendere l'intervento statale concreto e possibile, ma anche moderato e accettabile. Il potere dei capi-fazione nasce quindi dalla capacità di offrire aiuto ai propri vicini e al contempo fornire Ùn servizio ai potenti. Da questo punto di vista è però solo una delle tante manifestazioni di un meccanismo politico molto diffuso, ovvero la possibilità per la società contadina - e soprattutto per l'élite locale - di agire politicamente e rafforzarsi tramite il servizio al signore, a cui offrire una serie di prestazioni che vanno al di là dei pagamenti e delle corvées a cui erano normalmente tenuti. Su questo dobbiamo ora soffermarci.
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Carriere all'ombra del signore La società di villaggio è divisa: nuclei insediativi distinti e più o meno coordinati, strati sociali ed economici diversi, liti e talvolta fazioni, famiglie che cercano di compiere un'ascesa sociale, per porsi in una condizione di superiorità rispetto ai propri vicini. Questa condizione di élite si costruisce con la ricchezza (soprattutto di terra), con la rete di relazioni, con i patti matrimoniali e con le funzioni politiche interne al villaggio, ad esempio quando si assume il compito di rappresentare il villaggio nelle contrattazioni con il signore e nei tribunali (cfr. CAPP. 2., 5 e 6). Esiste però un altro modo per crescere politicamente ali' interno del villaggio, il servizio al signore. Prendiamo spunto da due vicende relative a contesti abbastanza lontani nel tempo e nello spazio. I Miracoli di san Benedetto, scritti nell'abbazia di Fleury (nella valle della Loira), narrano una vicenda risalente alla seconda metà del X secolo. Stabilis, un servo dell'abbazia privo di mezzi, si trasferì ad Auxonne, sempre su terre di Fleury, e qui fece fortuna, probabilmente dissodando le terre per conto dei monaci: non solo si arricchì grazie al suo servizio all'abbazia, ma cominciò a comportarsi come i cavalieri e ad accompagnarsi a essi, esibendo cavalli, falchi e cani da caccia; infine si rifiutò di pagare il censo annuo a cui erano tenuti i servi Quando l'abbazia mandò nella zona un nuovo, più attento amministratore, Stabilis venne chiamato in giudizio, dove negò la propria condizione servile. La questione venne quindi affidata a un duello giudiziario, uno scontro tra Stabilis e un campione dei monaci; qui, un prodigio operato da san Benedetto rivelò a tutti la condizione servile dell'uomo (cfr. Barthélemy, 2.004, pp. 161-7). Nel 12.37 il monastero di Santa Flora di Arezzo mosse causa ai figli di tal Ughetto di Sama, per riaffermare che si trattava di uomini dipendenti dal monastero. La
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lite e soprattutto le deposizioni raccolte in quell'occasione ci permettono di leggere i passaggi attraverso cui Ughetto aveva compiuto un'ascesa sociale importante, servendo i monaci soprattutto grazie all'uso della forza. Ughetto aveva preso parte almeno a tre spedizioni con i cavalieri del monastero, e fu probabilmente per questo che la forma della sua sottomissione, propria dei contadini dipendenti (hominicium), si trasformò in una più prestir).osafidelitas: non era un nobile, era sempre un contadino, ma il suo rapporto con l'abate era mutato e il suo stile di vita - che i testimoni ricordano bene - assunse connotati simili a quello dei cavalieri. Il successivo trasferimento in città sia dei monaci sia dello stesso Ughetto gli permise di completare la sua crescita sociale assumendo la condizione di civis (cittadino): non era un semplice fatto di residenza, ma una condizione r).uridica, che garantiva ampie esenzioni fiscali e la protezione dei tribunali comunali. È di fronte a questi tribunali che i monaci portarono i figli di Ughetto, riuscendo - con qualche fatica - a riaffermare la loro dipendenza da Santa Flora (cfr. Collavini, 1011, p. 482.).
Contesti e fonti sono diversi, ma alcuni dati comuni sono molto evidenti: l'ascesa di Stabilis e di Ughetto non si compie nonostante o in opposizione alla signoria, ma grazie a essa, nei quadri del potere locale; diventano relativamente ricchi e sicuramente potenti (nei confronti dei vicini) perché si pongono al servizio del signore. La crescita sociale dei sudditi più fedeli e preziosi è un fatto utile per il signore, può essere funzionale all'esercizio del suo potere, reso più efficace da collaboratori relativamente ricchi e potenti (e comunque più ricchi e potenti dei loro vicini). Ma questa ascesa trova un limite nel signore stesso, quando la crescita di questi uomini si trasforma in una richiesta di indipendenza, quando non è più una risorsa ma una minaccia per il potere signorile. La reazione è inevitabile e spesso vincente: i monaci di Fleury reimpongono a Stabilis il pagamento di un censo servile, cosl come i monaci di Arezzo ottengono con una sentenza la sottomissione degli eredi di Ughetto. I contadini più intraprendenti possono quindi compiere percorsi di ascesa sociale all'interno dei quadri signorili ponendosi al servizio dei potenti. Non si tratta ovviamente dei servizi dovuti da tutti i dipendenti (corvées, guardie al castello ecc.): ciò che crea un legame speciale con il signore è proprio il fatto di fornire servizi che vadano al di là di quelli dovuti per la propria dipendenza. Le funzioni specifiche sono molto varie, così come il lessico con cui sono indicate: gastaldi, camparii, mugnai ecc. Quel che hanno in comune è la partecipazione al potere signorile tramite l'esercizio di funzioni diverse dalla produzione agraria, ricompensate dal signore e sancite da un rapporto personale di fedeltà. Vediamo questi tre aspetti: le funzioni, la ricompensa e la fedeltà.
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Si tratta talvolta di gestire attività economiche particolarmente redditizie {i mugnai), di controllare il rispetto delle norme agrarie all'interno della comunità (camparii), di rappresentare complessivamente il signore nel confronto quotidiano con i sudditi (questo sembra essere in genere il compito dei gastaldi); spesso questi agenti del signore sono la sua mano armata, non tanto nelle spedizioni contro altri signori {ma abbiamo visto che Ughetto di Sarna affianca i cavalieri di Santa Flora), quanto piuttosto in quella violenza quotidiana nei confronti dei sudditi, fondamentale per riaffermare continuamente la loro sottomissione (cfr. CAP. 7 ). È però probabilmente corretto non dare un peso eccessivo alla specializzazione di queste funzioni: chi si pone al servizio del signore assume il compito di gestire la quotidianità del suo potere, il confronto diretto con gli altri sudditi, probabilmente con una certa elasticità di funzioni. Non possiamo considerarli dei professionisti, anche se è interessante vedere - nella Svizzera francese del Quattrocento - casi di piccoli funzionari di cui si può seguire una vera e propria carriera al servizio di diversi signori, il che sembra denotare una forma di specializzazione di tipo professionale (Teuscher, 2.012., p. 69). In cambio di questi servizi, gli ufficiali signorili ottengono benefici concreti: talvolta è uno stipendio regolare o la concessione di terre a condizioni di favore; spesso è il diritto a trattenere una quota di quanto prelevato o un'esenzione dai censi dovuti al signore. Nel caso dei mugnai, la funzione li pone in un ruolo chiave all'interno del processo produttivo locale, grazie al quale possono avere un controllo diretto e concreto sulla capacità produttiva di ogni singolo abitante del villaggio, e intercettare una quota significativa del prodotto, in via legale o illegale, grazie ai pagamenti dovuti e ai doni che ricevono dai vicini interessati a ottenere la loro complicità per occultare parte del grano agli occhi del signore. Ma a questi vantaggi materiali si affianca un rapporto speciale con il signore, un legame personale di fedeltà: in genere i testimoni che narrano queste vicende sono attenti a chiarire che si tratta di una fedeltà diversa dal vassallaggio, che è prerogativa esclusiva dei nobili; ma si tratta in ogni caso di un legame personale con il signore, qualcosa da cui i normali sudditi sono in linea di massima esclusi. È quellajidelitas che nel caso di Ughetto va a sostituire il più umile hominicium. Tutte queste componenti (le funzioni, le ricchezze, il rapporto personale con il potente) affermano una differenza di stams tra questi agenti signorili e gli altri sudditi; sono diversi da rutti i punti di vista: sono più
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ricchi, hanno risorse che non derivano solo dalla coltivazione e dall'allevamento, fanno cose diverse, hanno un sistema relazionale che li collega alla piccola aristocrazia. La dimensione relazionale è fondamentale per comprendere l'importanza di queste persone: vicini al signore e soprattutto ai suoi cavalieri, gli agenti signorili sono figure di riferimento per la comunità contadina, in senso sia negativo, perché sono gli strumenti del prelievo signorile, sia positivo, perché possono garantire ai propri amici qualche piccolo vantaggio, qualche alleggerimento dei censi. Più il signore è lontano {un grande proprietario cittadino, un vescovo ecc.) e più i suoi agenti locali possono permettersi qualche piccolo o grande arbitrio, a favore dei propri fedeli e ai danni dei propri nemici personali. Gli agenti signorili sono quindi figure centrali nelle reti relazionali e clientelari all'interno del villaggio e attirano la solidarietà dei propri vicini, a cui possono offrire vantaggi forse piccoli, ma certo molto concreti. Ancora una volta, acquista potere chi riesce ad agire da mediatore, in entrambi i sensi, garantendo al signore un efficace esercizio del potere e ai propri vicini e amici qualche vantaggio.
Testimoniare per i potenti Esiste però un modo diverso di servire un potente, attraverso le parole. Anche qui è utile prendere spunto da un caso concreto. Nell'882. l'abate di Sant'Ambrogio di Milano chiamò in giudizio un gruppo di uomini che abitavano in alcuni villaggi sul Lago di Como: l'abate sostenne che questi uomini fossero servi della eone di Limonta, e chiese che fossero loro imposte le corvées destinate alla raccolta delle olive e alla produzione dell'olio. I contadini chiamati in causa si opposero alle richieste dell'abate, ma ammisero di non avere prove a sostegno della propria tesi; l'abate poté invece presentare cinque testimoni, uomini liberi dd vicino villaggio di Bellagio, che dichiararono unanimemente che questi uomini erano tenuti a prestare tali corvées. Le deposizioni risolsero ovviamente la lite in favore di Sant'Ambrogio (cfr. Balzaretti, 1994).
Non possiamo leggere nel dettaglio le ragioni che spinsero i liberi di Bellagio a testimoniare contro i servi degli altri villaggi: forse una semplice ostilità nei confronti di uomini di villaggi vicini, forse la percezione di una forma di minaccia al proprio status di liberi di fronte all'alleggerimento della condizione dei servi. Ma certo entrò in gioco la volontà di servire il
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potente abate di Sant'Amb~o, da cui gli uomini di Bellagio non dipendevano, ma che si stava affermando come il maggiore proprietario fondiario della zona ed era uno dei principali centri religiosi milanesi; si posero al servizio del potente in vista di futuri possibili benefici, come è ancora più evidente se consideriamo che i cinque testimoni dell'882 avevano agito a sostegno del monastero già in altre occasioni negli anni precedenti. Per questi uomini di Bellagio, le liti tra Sant'Ambrogio e gli uomini di Limonta furono un'opportunità per guadagnarsi meriti agli occhi di un potente, un'opportunità che seppero cogliere e sfruttare. Non è un caso isolato: ad esempio, negli stessi anni anche l'abate di Saint Denis, presso Parigi, vinse una causa analoga contro alcuni suoi dipendenti del villaggio di Mitry, ricondotti alla loro condizione servile e agli obblighi di lavoro grazie alle testimonianze di altri contadini (Feller, 2007, p. 68). Sono casi che di nuovo ci mostrano come la società contadina non sia un mondo pacificato o necessariamente solidale: tra i vicini e il signore, non sempre i contadini scelgono i vicini. Ma questi documenti ci mostrano anche come esista una capacità di azione politica contadina tramite la parola: l'abbiamo vista nei momenti di contrattazione con il potere signorile (cfr. CAP. 5), la ritroviamo qui in documenti e azioni profondamente diversi, deposizioni all'interno di processi che oppongono potenti e contadini. Per comprendere il senso di queste deposizioni, è necessario chiarire la procedura in cui le testimonianze rientrano. In breve, possiamo dire che nella giustizia del Medioevo europeo esistono due procedure fondamentali, dette "accusatoria" e "inquisitoria~ La procedura accusatoria è quella in cui qualcuno si ritiene danneggiato, accusa un'altra persona, ed entrambi portano le proprie prove (documenti, testimonianze ecc.) al giudice o all'assemblea incaricata di giudicare. Nella procedura inquisitoria è invece l'apparato giudiziario a prendere l'iniziativa quando viene a conoscenza di un reato: compie quindi un'inchiesta (inqutsitio ), va a cercare prove e testimoni e procede contro il presunto colpevole. Nella prima possiamo riconoscere il modello fondamentale della nostra giustizia civile, la seconda è invece affine alla nostra giustizia penale, che persegue d'ufficio i reati più gravi. Nei secoli altomedievali, pur con grandi varianti, la procedura è sempre accusatoria: anche gli atti che nella nostra cultura sono considerati crimini che lo Stato deve perseguire (ad esempio un'aggressione, un omicidio) nell'Alto Medioevo sono ritenuti un danneggiamento della parte che li ha subiti. Perciò è il ferito, il derubato o il figlio del morto ad accusare qual-
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cuno della violenza, e il processo è destinato a stabilire se e in che misura i colpevoli debbano risarcire la parte danneggiata. È solo a partire dal XII e soprattutto dal XIII secolo che i poteri maggiori elaborano una concezione più propriamente pubblica della giustizia, considerano alcuni atti come minacce alla stabilità sociale e politica e si fanno quindi promotori in prima persona dell'azione giudiziaria, attraverso la procedura inquisitoria, che va ad affiancare quella accusatoria. Nella maggior parte delle liti in cui i contadini intervengono come testimoni si segue quindi la procedura accusatoria: un signore accusa un altro di avergli sottratto uomini e animali; una comunità si oppone a un'altra per questioni di confini; un gruppo di contadini - come abbiamo visto nel caso di Limonta - accusa un potente di volerli asservire. Questa procedura - ed è il dato centrale dal nostro punto di vista - implica che i testimoni non siano semplici persone informate dei fatti, individuate e interrogate dal giudice, ma testimoni di parte, individui le cui deposizioni sono presentate da una delle parti come prove a proprio favore. Testimoniare non è un dovere, ma un intervento a sostegno di una delle parti in causa: si testimonia a favore del proprio villaggio contro le pretese della comunità vicina; e si testimonia a favore del proprio signore contro un altro potente o contro un gruppo di servi che si vogliono affrancare. Vediamo allora che queste deposizioni sono in tutto e per tutto un servizio a un potente: talvolta è il proprio signore; talvolta, come a Limonta, è solo un vicino molto potente; talvolta due o più signori si contendono il controllo di un villaggio, e testimoniare a favore di uno o dell'altro è una scelta politica forte, che può condizionare i futuri assetti locali di potere e quindi permettere a questi testimoni di guadagnare meriti agli occhi del futuro signore. Dal 12.2.4 in poi, i canonici di Casale Monferrato dovettero scontrarsi con diverse dinastie signorili per il controllo di alcuni villaggi - Rolasco, Sinaccio, Occimiano - non lontani dal borgo di Casale. Questo conflitto fu condotto davanti a diversi giudici e spesso le parti fecero ricorso a raccolte di deposizioni, che ci permettono di leggere non solo le vicende locali e i funzionamenti del potere signorile, ma anche alcune scelte politiche operate dagli abitanti dei vari villaggi. La principale differenza tra i canonici e le dinastie signorili è costituita dalla distanza: i signori vivevano nei castelli posti al fianco dei villaggi o comunque a poca distanza; i canonici erano a Casale, che non è propriamente lontano, ma è comunque a una decina di chilometri dai diversi villaggi contesi. Questo fece sì che - nelle concrete pratiche di potere descritte nelle deposizioni - i signori dimostrasse-
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ro una maggior presa sulla società, la capacità di agire casa per casa, campo per campo; e proprio per questo ampi settori della società locale presero palesemente posizione a favore dei canonici e deposero per loro. Il signore lontano era meno invadente, meno pesante e quindi preferibile, e molti contadini di questi villaggi fecero quindi il possibile per passare sotto il controllo dei canonici (cfr. Provero, 2.012., PP· 2.·53-301).
Di nuovo si coglie qui la capacità di fare un uso strategico della molteplicità di giurisdizioni localmente attive: data l'altissima frammentazione del potere signorile nel Basso Medioevo, non solo troviamo diversi potenti in un solo villaggio, ma anche il singolo contadino si trova normalmente a rispondere a più di un signore, pagando alcune imposte a uno e altre a un altro. Quando i diversi signori entrano in conflitto, si aprono piccoli spazi di azione politica per la comunità e per il singolo contadino, spazi di cui i sudditi sanno approfittare, cercando di favorire il signore che per qualche motivo ritengono preferibile. In alcuni casi è particolarmente evidente che il testimone prende posizione, fornisce una deposizione favorevole a una parte; ma anche quando le dichiarazioni non sono palesemente orientate a favore di qualcuno, il fatto stesso di presentarsi in giudizio come testimone di una parte è una presa di posizione in suo favore, un servizio per il potente di turno, un tentativo di acquisire benemerenze ai suoi occhi Le deposizioni non sono quindi spontanee narrazioni di quel che è avvenuto nel villaggio, non sono voci ingenue che emergono dal mondo contadino: sono invece azioni politiche, momenti in cui si usa il passato (gli avvenimenti a cui si è assistito) per modellare il futuro (gli assetti politici locali e la propria posizione al loro interno). L'azione politica tramite la parola può essere sfuggente e ricca di ambiguità: basta pensare ad alcune forme documentarie usate per definire i rapporti tra signore e sudditi (cfr. CAP. 5), come i 1Veistumer tedeschi, i manorial custumals inglesi o i molti casi di franchigie in cui la consuetudine locale viene enunciata da un gruppo di giuranti di fronte al signore e all' assemblea di villaggio. Per chi parlano i giuranti? Sono membri della comunità dei sudditi, ma sono anche figure di mediazione, sono accettati in questa funzione sia dai vicini sia dai signori. Se quindi gestiscono la contrattazione con il signore per conto dei propri vicini, possono usare questa opportunità - questo accesso alla parola politica in un contesto assembleare solenne anche per servire il signore e garantirgli qualche ulteriore vantaggio. Non possono falsare la realtà, ovviamente, perché il controllo dell'assemblea limita la loro libertà di parola, ma possono lavorare sui margini, sulle situa-
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zioni ambigue e mal definite, per orientarle a favore dei propri vicini o dei propri signori. Vediamo un caso specifico. A Cerea (presso Verona) nd 1139 l'arciprete del capitolo della cattedrale veronese (signore del luogo) si presentò nel villaggio per amministrare la giustizia; era giunto sul posto con un robusto seguito, di almeno 2.5 persone, tra cui 17 cavalieri: una forza utile per imporre il rispetto della sua giustizia e più in generale per intimidire i sudditi. L'arciprete chiese quindi che gli uomini del villaggio - secondo la consuetudine - mantenessero il suo seguito per l'intera durata del soggiorno, fornendo due pasti al giorno; al che i sudditi risposero sostenendo che la consuetudine locale prevedeva solo un pasto al giorno come diritto signorile all'ospitalità. L'arciprete convocò allora quattro uomini del posto, detti sacramenta/es (giuranti), incaricati di dichiarare quale fosse la vera consuetudine; i giuranti diedero ragione al signore, riconoscendo l'obbligo per gli uomini del posto (tranne i cavalieri del villaggio) a fornire due pasti al giorno al signore e al suo seguito. Gli abitanti di Cerea chiesero quindi perdono e si sottomisero all'obbligo (cfr. Fiore, 2.017, p. 2.16).
I giuranti di Cerea, di fronte ai propri vicini e al proprio signore, si schierano con il signore: sono intimiditi, minacciati, corrotti, lusingati? Ovviamente non lo sappiamo, non possiamo dire con certezza quanto libera sia la loro parola. Ma è certo che, oggettivamente, la loro dichiarazione giurata è un modo per servire il signore. Le parole di un testimone o di un giurante possono divenire un servizio per il signore, ma esistono molti contesti in cui testimoniare per il signore e porsi al suo servizio sono direttamente ed esplicitamente connessi. Un signore o una chiesa che voglia provare il proprio potere su un villaggio o su un gruppo di persone può talvolta esibire diplomi imperiali o atti d'acquisto, documenti che però spesso sono generici e non elencano nel dettaglio i prelievi e i servizi di cui un signore potrà fruire; e in ogni caso molti poteri non sono registrati nei diplomi, anche perché non derivano da una concessione o da un acquisto, ma dalla concreta prassi quotidiana, al cui interno il potente ha saputo imporre la propria forza e quindi la propria capacità di prelievo. Perciò la prova migliore sarà costituita dai prelievi stessi: poter dimostrare che negli anni passati il signore ha sempre chiesto e ottenuto il fodro senza subire resistenze o contestazioni sarà il modo migliore per dimostrare il proprio buon diritto a prelevarlo. I testimoni più preziosi saranno quindi quelli che hanno pagato, quelli che hanno assistito ai pagamenti e quelli che hanno riscosso un'imposta a nome del signore: non è quindi casuale che proprio gli agenti signorili, quelli che
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SERVIRE IL SIGNORE
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abbiamo seguito nella prima parte di questo capitolo, siano quasi sempre: compresi nelle liste dei testimoni. Qui si saldano in pieno il servizio compiuto tramite le azioni e tramite le parole: chi ha prdevato le imposte per il signore lo serve anche con la propria deposizione in processo. E cos} non è sorprendente che ad esempio nei Weistumer una quota significativa di testimoni sia costituita da piccoli funzionari signorili. Gli agenti signorili hanno quindi un ruolo importante nelle liste di testimoni, ma qualunque abitante di un villaggio può offrire al signore una deposizione utile a definire la condizione giuridica di una persona e i suoi obblighi. Questa ampia disponibilità di potenziali testimoni deriva sia da alcuni connotati fondamentali della società di villaggio sia dalle modalità di esercizio dei poteri signorili: sono comunità piccole, talvolta minuscole, a fortissimo controllo sociale, in cui non solo tutti si conoscono, ma sono noti i patrimoni personali, le rdazioni, le forme di sottomissione; al contempo i prelievi e gli altri atti fondamentali dd potere signorile (processi, riti di sottomissione ecc.) avvengono sempre in pubblico, perché per il signore è importante non solo esercitare il proprio potere, ma farlo davanti a tutti, in modo che tutti sappiano quali sono le prerogative signorili {e siano pronti in futuro a testimoniare). Ben poco di quel che avviene in un villaggio resta segreto, tutti sarebbero in grado di deporre con una certa competenza in questi processi; perciò la selezione dei testimoni avviene solo in parte per le loro conoscenze (spesso sanno ciò che è noto anche a tutti i loro vicini), ma molto di più per la loro fedeltà al signore: si cercano testimoni competenti (e non sarebbe difficile trovarli), ma anche fedeli e affidabili (e questo può essere più difficile). Questo contesto di conoscenze diffuse e capillari rende ancora più evidente il dato da cui siamo partiti, ovvero che testimoniare è una scelta di servizio al signore. Esistono però contesti in cui testimoniare non è certo una scelta, ma può comunque divenire un'azione politica: sono da un lato le visite pastorali condotte dai vescovi, e dall'altro l'inquisizione ecclesiastica, le procedure giudiziarie destinate a individuare gli eretici e obbligarli a pentirsi. Quando il vescovo arriva in un villaggio, tutta la comunità è tenuta a rispondere alla sua convocazione; e quando arriva l'inquisitore, solo con la fuga si può evitare il suo interrogatorio. Eppure nelle risposte che gli abitanti di un villaggio danno al vescovo e all'inquisitore si può leggere una forma di consapevole azione politica, ma per comprenderla dobbiamo allargare il discorso all'insieme delle forme di religiosità locale e alleloro implicazioni politiche.
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Pregare
Pregare è prima di tutto un atto individuale a contenuto religioso, ma ciò che intendo mostrare in questo capitolo sono invece le sue componenti collettive e politiche. Le chiese di villaggio sono un oggetto quanto mai sfuggente, perché solo a partire dall'età moderna (e in particolare dal Concilio di Trento) nascono gli archivi parrocchiali e i vescovi compiono sistematiche visite pastorali, percorrendo il territorio della propria diocesi, villaggio per villaggio, a registrare la condizione delle chiese, del clero, dei fedelL Per i secoli precedenti, le chiese locali compaiono in modo sporadico, soprattutto quando rientrano sotto il controllo di grandi chiese o monasteri cittadini, il cui archivio si sia conservato fino a noi.
Culti locali Prendiamo spunto da due vicende italiane della prima età carolingia. Nel villaggio di Gualdo, nella Toscana meridionale, negli ultimi decenni dell'vm secolo si affermò il culto di san Regolo, su iniziativa del vescovo e del clero lucchese (Lucca era decine di chilometri più a nord, ma era la città principale della Toscana altomedievale). In particolare dal 770 in poi si sviluppò un ciclo di donazioni a favore della chiesa a lui dedicata, con una crescente enfasi sulle motivazioni spirituali, che individuavano il santo come patrono locale. Al contempo la chiesa era retta da sacerdoti espressi dalla società di villaggio, un'élite locale non aristocratica impegnata a gestire il culto e le sue implicazioni identitarie. Questo processo si interruppe però nel momento in cui, tra 778 e 781, il vescovo di Lucca impose la traslazione in città del corpo di san Regolo, nel quadro di una generale tendenza - evidente in tutta Italia nei primi anni del dominio carolingio - a dare maggiore forza alle città e ai poteri vescovili, anche con il trasferimento nei centri urbani di reliquie e culti locali. La traslazione non pose fine al culto, che fu a lungo vivace a Lucca e nel suo territorio; ma ruppe quel processo di costruzione iden-
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titaria elaborato dall'élite locale di Gualdo: si interruppero le donazioni da parte di questi gruppi sociali e la chiesa passò sotto il controllo di famiglie lucchesi (cfr. Collavini, 2.007 ). Negli stessi decenni, nel villaggio di Campione (ora nella provincia di Como) possiamo seguire la vicenda di Totone, personaggio non aristocratico molto attivo sul piano economico, sia nello scambio fondiario sia nd commercio di schiavi; è un patrimonio ben documentato perché Totone, senza eredi diretti, cedette infine tutti i suoi beni alla basilica di Sant'Ambrogio di Milano. La sua fu un'azione locale, che tuttavia si proiettò verso orizzonti più vasti, non tanto nel collegamento con il potere regio, quanto piuttosto nell'apertura - nel 777, tre anni dopo la conquista franca - di uno specifico e importante collegamento con Sant'Ambrogio di Milano, città verso cui si andavano orientando le attenzioni dd nuovo regno carolingio d'Italia. Questa attività patrimoniale e relazionale si completò con la fondazione di una piccola chiesa, un oratorio privato che non era il perno di una comunità di villaggio, ma piuttosto della famiglia allargata che faceva capo a Totone. Lo vediamo attraverso i testamenti, che fecero convergere sulla chiesa il patrimonio della famiglia; e lo vediamo tramite gli scavi archeologici, che hanno mostrato la creazione di una piccola necropoli a base familiare attorno a un monwnento memoriale (cfr. Gasparri, La Rocca, 2.005).
Se consideriamo le due vicende dal punto di vista delle élite locali, sono di fatto dei fallimenti: il culto di san Regolo viene trasferito a Lucca e la stessa chiesa di Gualdo passa sotto il controllo del clero cittadino; e Totone, rimasto senza eredi, lascia tutto alla basilica di Sant'Ambrogio di Milano. Ma sono casi molto interessanti per le potenzialità che rivelano, per la capacità della società locale di usare e manipolare il sacro in direzioni diverse, con un più chiaro connotato comunitario nel caso di Gualdo, più nettamente familiare a Campione. In entrambi i casi il culto e gli edifici sacri servono a consolidare l'egemonia di un'élite locale non aristocratica, ma le due fondazioni convergono poi sotto il controllo delle grandi chiese cittadine. Lo stesso fallimento delle due vicende è un dato importante, sia perché ci mostra una chiara tendenza del mondo carolingio a polarizzarsi attorno alle città (sedi vescovili e centri del potere regio), sia perché è proprio questo fallimento a rendere per noi visibili le vicende di Gualdo e di Campione, tramite gli archivi di Lucca e di Milano che ci hanno trasmesso la documentazione locale. Se le due chiese di villaggio non fossero passate sotto il controllo delle città, molto probabilmente non ne avremmo notizia. È quindi abbastanza probabile che i due casi, eccezionali per la visibilità nelle fonti scritte, siano espressione di una ben più diffusa capacità di
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azione politica tramite il sacro: già nell'Alto Medioevo, ben prima che si sviluppino comunità di villaggio definite e politicamente attive, l'élite locale appare in grado di usare i simboli del sacro per manipolare le strutture politiche.
Chiese e parrocchie Le chiese di villaggio non sono però solo espressione di iniziative individuali e familiari, ma sono anche articolazioni della diocesi, strutture che garantiscono la cura delle anime dei laici e il collegamento tra la società locale e il vescovo. Esiste una trama diffusa di chiese e cappelle che si organizzano attorno ad alcune chiese più importanti, dotate di fonte battesimale, che assumono i nomi di "pievi" o "parrocchie': I due termini non sono sinonimi: entrambi vanno a indicare chiese con fonte battesimale, ma rappresentano due modelli e due fasi storiche diverse. Possiamo dire che pievi e parrocchie sono affini per quanto riguarda le funzioni, ma il rapporto con la comunità e il processo generativo sono profondamente diversi: le pievi nell'Alto Medioevo sono grandi articolazioni della diocesi, che riuniscono sotto il proprio controllo molti villaggi, mentre le parrocchie si sviluppano a partire dai secoli centrali del Medioevo e sono molto più numerose, sono le chiese dei singoli villaggi; al contempo la pieve è una creazione dall'alto, promossa dal vescovo, per delegare parte delle sue responsabilità, mentre la parrocchia nasce per iniziativa locale poi riconosciuta dal vescovo, per rispondere all'esigenza dei singoli villaggi di avere una propria chiesa battesimale. Nessun automatismo, non c'è una lineare e chiara transizione tra le pievi altomedievali e le parrocchie bassomedievali, ma un processo frammentato, complesso e sfuggente, con una tendenza prevalente verso la costituzione all'interno dei singoli villaggi di chiese dotate di fonte battesimale e destinate a curare le anime dei laici, ovvero appunto le parrocchie. Concentriamoci allora sul Basso Medioevo: se già nell'Alto Medioevo possiamo cogliere iniziative laiche relative al sacro e alle chiese (come abbiamo visto per Gualdo e per Campione), è però nei secoli più tardi che queste iniziative diventano più visibili e si legano non solo a cappelle e luoghi di culto, ma anche alle chiese battesimali. La cronologia non è casuale: a partire dall'x1 e XII secolo, con il consolidarsi di tutte le forme locali di potere e di solidarietà (dalle signorie alle comunità), anche la cura delle
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anime si articola negli spazi di villaggio. Parrocchie e comunità di villaggio si sviluppano nello stesso periodo, come espressioni diverse di uno stesso processo, al cui interno la chiesa locale è uno degli elementi che convergono nella costruzione di un'identità collettiva: la comunità è formata da chi abita in un villaggio o in un gruppo di borgate vicine, condivide l'uso di boschi e pascoli, si riunisce per contrattare con il signore e si trova a pregare nella stessa chiesa. Anche da questo punto di vista non bisogna pensare a un automatismo {nasce la comunità quindi nasce la parrocchia), né a una piena e sistematica sovrapposizione: comunità di lavoro e comunità di preghiera non corrispondono, ovvero lo spazio agrario di un villaggio e la parrocchia sono proiezioni sul territorio della società locale, ma spesso i loro confini non coincidono. Il nome di un villaggio può di fatto riferirsi a cose abbastanza diverse: è il nucleo insediativo, la signoria locale, il distretto parrocchiale, lo spazio agrario ecc. Il fatto che questi spazi siano indicati con lo stesso nome non significa che coincidano. Ed è soprattutto importante notare come le parrocchie e la loro distrettuazione siano sempre una realtà manipolabile, in un processo in cui intervengono vescovi, signori e comunità locali. In molti casi abbiamo notizia di comunità di villaggio che prendono l'iniziativa - spesso sostenute dal signore locale - e costruiscono una chiesa di cui chiedono poi al vescovo la consacrazione (e in Catalogna ad esempio questo processo è attestato fin dal IX secolo; Bonnassie, Guichard, 19 84, p. 80 ). Ma talvolta lo sviluppo è più complesso e conflittuale, come vediamo in un caso specifico. A Voghera (nella diocesi di Tortona) dal 1139 abbiamo notizia di una chiesa di Sant'Ilario, posta al di fuori del villaggio, in un'arca in cui si concentravano le terre della potente abbazia del Senatore di Pavia. Nella chiesa venivano celebrati i normali riti religiosi e questo a partire dal 1179 divenne un fattore scatenante di una lite tra la badessa del Senatore e il vescovo di Tortona, che voleva impedire che la chiesa si trasformasse in parrocchia. La badessa trovò costante appoggio nella giustizia papale, ma impiegò una trentina d'anni ad avere ragione delle richieste vescovili. Dal nostro punto di vista la questione più interessante è chi fossero i parrocchiani di Sant'Oario: erano coloro che abitavano lì vicino o i dipendenti dell'abbazia del Senatore? Ovvero: per definire una nuova parrocchia, il fondamento era il vicinato o la comune dipendenza da chi controllava la cappella? Probabilmente i dipendenti abbaziali avevano costituito il primo nucleo dei frequentatori di Sant'Ilario: erano uniti dalla comune sottomissione alla badessa, ma anche da legami di vicinato, dato che i possessi abbaziali erano concentrati in questo settore del villaggio; lungo la seconda metà del secolo la frequentazione
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della cappdla si era però allargata ad altri vicini, non dipendenti dal Senatore, che per comodità avevano scelto di partecipare ai riti nella chiesa di Sant'Ilario invece che nella pieve di Voghera. Proprio questo ampliamento aveva provocato la tensione con il vescovo di Tortona, che tentò senza successo di opporsi alla costituzione di una nuova parrocchia, destinata a sfuggire al suo controllo grazie alla potenza patrimoniale e politica dell'abbazia del Senatore (cfr. Provero, 2.012., pp. 347-66).
La parrocchia di Sant'llario nasce quindi da un'iniziativa signorile attorno a cui convergono anche persone che non dipendono dal signore fondiario, ma che trovano in questa chiesa un'opporrunità, un centro cultuale più vicino e forse anche un modo per distinguersi dagli abitanti del borgo di Voghera. E da questa vicenda cogliamo un fatto semplice ma fondamentale: ogni formazione di una parrocchia è un processo aggregativo, che contribuisce alla creazione di una comunità, ma al contempo è necessariamente anche un processo di segmentazione, di divisione di una comunità preesistente. Dopo l'affermazione della parrocchia di Sant'llario, Voghera continuerà a essere un villaggio, una comunità, un interlocutore politico per i poteri signorili locali, ma la sua coesione comunitaria non sarà consolidata sul piano cerimoniale dalla convergenza di tutti gli abitanti nella pieve, perché una parte degli uomini di Voghera dal punto di vista religioso dipenderà dalla parrocchia di Sant'Ilario. L'attenzione del vescovo di Tortona per le vicende di Sant'Ilario nasce da molti fattori. Prima di tutto la cura delle anime dei laici, la sua organizzazione e la sua articolazione territoriale sono i compiti fondamentali del vescovo, ed è nella natura delle sue funzioni la volontà di governare questi mutamenti e conservare il controllo sulle anime dei propri fedeli. Inoltre la minaccia al potere vescovile è in questo caso particolarmente forte, perché la chiesa di Sant'Ilario e gran parte dei suoi fedeli dipendono dall'abbazia del Senatore, ricca, potente, protetta dal papato; per di più, il comune di Pavia è impegnato in quei decenni in un'espansione territoriale proprio in quest'area (e in effetti Voghera è ora in provincia di Pavia). Infine, le parrocchie sono centri di rilievo economico sia per il vescovo, che tramite le chiese locali opera il prelievo delle decime, sia per le comunità locali, che attorno alle parrocchie fanno convergere ampie risorse economiche. Si vede bene nell'Inghilterra bassomedievale, dove per molte parrocchie si sono conservati i registri dei Churchwardens, i funzionari laici delegati dalla comunità a gestire le ricchezze della parrocchia, in larga misura destinate alla costruzione e alla manutenzione della chiesa
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(cfr. CAP. 10 ); è importante sottolineare che queste somme, spesso rilevanti, sono nelle mani della comunità, che ne delega la gestione a funzionari laici. Si coglie quindi bene come la parrocchia possa essere sia un carico gravoso sia una notevole opportunità per la comunità e soprattutto per i suoi membri più intraprendenti.
Le funzioni dei parroci Le tensioni e le aspettative relative alla parrocchia si concentrano ovviamente sulla persona del parroco, ruolo di straordinario potere locale, sia per il controllo che opera sulle anime dei fedeli, sia per le risorse materiali di cui dispone, sia infine per la capacità di mediazione che è insita nella sua funzione: il parroco è uno dei più importanti canali di comunicazione tra il villaggio e la società cittadina, è la voce del vescovo, è uno dei pochi abitanti del villaggio in grado di leggere e scrivere e quindi di accompagnare i propri vicini nelle operazioni che richiedono l'uso del documento scritto, non solo per le questioni specificamente religiose, ma anche per presentare denunce, suppliche ecc. L'importanza di questa funzione emerge a tratti da testi sorprendenti. Nel IX secolo, in un villaggio che non possiamo identificare della Francia settentrionale, dipendente dal monastero di Saint Vaast (Arras ), fu scritto un testo agiografico, l'Apparizione di San Vaast, che narra la vicenda di un povero contadino locale, Dagoberto, a cui l'apparizione notturna del santo garantì la pronta guarigione da una malattia apparentemente incurabile e una nuova capacità di parlare con disinvoltura in pubblico. E proprio questo secondo prodigio rappresenta la parte più interessante del testo, poiché Dagoberto era latore di una serie di messaggi del santo, che criticava pesantemente i personaggi più eminenti del villaggio: Imbod, il prete del villaggio, a cui ordinò di restaurare la chiesa; Adelgiso, il signore locale, che doveva restituire la terra che aveva sottratto alla chiesa; il giudice Winfrid, che doveva smettere di tormentare gli uomini del posto; Ebruino, che aveva sottratto dei servi dipendenti dal santo; e Oric, il sindaco del villaggio, che lo aveva aiutato. L'Apparizione presenta così l'immagine di un villaggio che avrebbe dovuto dipendere da Saint Vaast. ma era governato male, perché erano inetti o malvagi coloro che avrebbero dovuto garantire il legame tra il monastero e i suoi contadini. Il testo diventa comprensibile se consideriamo chi è l'autore: è il nipote del prete Imbod, Uberto, a sua volta sacerdote, che aveva studiato nel monastero di Saint Vaast ma ora viveva nel villaggio. Uberto parla molto di sé nel testo, perché si sta implicitamente candidando come nuovo prete della chiesa, a
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sostituire lo zio: legato al villaggio (dove vive ed è radicato), ma anche al monastero (dove è cresciuto), Uberto si propone come perfetto mediatore tra due realtà lontane (cfr. West, 2.016).
È certo un testo anomalo, ma che ci rivela nel modo più chiaro due dati fondamentali: la funzione di prete del villaggio offre grandi opportunità, è un ruolo di potere ed è quindi l'obiettivo di un sacerdote ambizioso e non privo di mezzi culturali; e questo potere del sacerdote deriva in larga misura dalla sua capacità di mediazione tra il villaggio e il mondo esterno. Il testo di Uberto ci presenta un villaggio fuori controllo e soprattutto fuori dal controllo del santo e del suo monastero, e Uberto propone sé stesso come colui che potrà garantire, come prete della chiesa locale, un'efficace mediazione e un pieno controllo della società di villaggio. Cosi un'agiografia può aprire uno squarcio sulle tensioni interne a un villaggio altomedievale e in specifico sulle lotte che ruotano attorno alla sua chiesa. Ma le fonti più esplicite e preziose per leggere il ruolo del clero parrocchiale sono le visite pastorali, vale a dire il passaggio periodico del vescovo nelle diverse parrocchie della propria diocesi, a interrogare chierici e laici sulle forme della vita religiosa, le condizioni della chiesa e i comportamenti dei sacerdoti. Le visite diventano obbligatorie a partire dal XVI secolo, ma già alla fine del Medioevo per alcune diocesi sono conservate visite pastorali che ci offrono visioni efficaci sulle dinamiche che ruotano attorno alle parrocchie rurali. I temi ricorrenti sono la vita del clero, le pratiche religiose dei laici e le condizioni della chiesa e degli arredi liturgici: troviamo quindi preti ignoranti, con amanti e figli; laici che non si comunicano e non vanno a messa; chiese fatiscenti e con i tetti in rovina e così via. Ma in qualche caso emerge anche il coinvolgimento del parroco nelle dinamiche e nei conflitti interni alla comunità: un breve esempio toscano può permetterci di cogliere alcune di queste dinamiche. Tra 132.5 e 132.8 il vescovo di Volterra Rainuccio Allegretti visitò le parrocchie ddla sua diocesi, registrando la consueta lista di chiese da ristrutturare e di preti con pochi libri e pochissima preparazione. La parrocchia di Fatagliano era mal messa più o meno come le altre, ma soprattutto il prete, don Sandro, era inadempiente negli uffici sacri ed era impegnato in una serie di conflitti con la comunità e con singole persone: si era rifiutato di celebrare messa finché non gli fossero state consegnate le primizie a cui riteneva di avere diritto; aveva negato la comunione a tal Maria, moglie di Gozzo, dicendole: «Non intendo darti la comunione se prima non chiederai perdono agli uomini del villaggio, ai quali hai provocato il
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danno che so»; e a Taviano Ciucci aveva intimato di uscire dalla chiesa, perché in caso contrario non avrebbe cdebrato la messa. e si era platealmente seduto, per poi celebrare solo dopo che Taviano era uscito ( Vescovo Rainuccio Allegretti, PP· I70-4).
Non possiamo ricostruire le vicende a cui i testimoni alludono, non sappiamo quali fossero le colpe di Maria e di Taviano: ma possiamo dire con sicurezza che il parroco era pienamente coinvolto in queste liti. Entrava in conflitto con i propri feddi per i censi (o le offene), ma si schierava anche nei conflitti interni alla comunità, com'è evidente nd caso di Taviano e ancora più per Maria. Il parroco quindi non è necessariamente un demento di equilibrio e di pace all'interno ddla comunità, ma può essere pienamente parte delle liti locali; ed è forse per questo che gli uomini di Fatagliano convocati dal vescovo sono ricchi di dettagli sulla vita poco spirituale del parroco: come in altri contesti (cfr. CAP. 8), gli abitanti del villaggio sanno sfruttare la testimonianza come un'occasione per intervenire sugli equilibri locali (e in questo caso per danneggiare un parroco che appare quanto meno inadempiente).
Cimiteri A fianco della chiesa di villaggio, troviamo in genere il cimitero, uno spazio che nel Medioevo si rivda ricco di implicazioni inaspettate ed è spesso al centro dell'azione politica locale. È nell'Alto Medioevo che in Europa si assiste alla diffusione dei cimiteri in forme non molto dissimili da quelle che conosciamo ora. Tra le moltissime varianti che cogliamo dalle fonti scritte e dai dati archeologici, possiamo dire che attorno all'x1 secolo si afferma un modello di cimiteri collettivi, ddimitati, sacralizzati e posti di fianco alle chiese. Questo modello cimiteriale porta quindi a una prossimità tra i vivi e i morti, poiché i cimiteri sono strettamente associati agli insediamenti e alle chiese (soprattutto alle parrocchie), e gli stessi villaggi tendono a organizzarsi attorno a chiese e cimiteri. La triade villaggioparrocchia-cimitero diventa una realtà riconoscibile tra XI e XII secolo: tutt'altro che una forma obbligata o una realtà immobile, ma sicuramente un modello di riferimento importante, sia ndla pratica locale sia nelle disposizioni vescovili e papali.
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In questi cimiteri ha un'importanza ridotta l'identità individuale: i segni di riconoscimento in superficie sono pochi o del tutto assenti, e lo spazio cimiteriale viene spesso rilavorato, con spostamenti di ossa e nuove sepolture che vanno a sovrapporsi o a sostituire quelle vecchie. Ciò che davvero ha importanza non è il culto familiare della memoria del singolo morto, ma il culto collettivo della memoria dei morti della comunità. Una definizione un po' estrema ma efficace è quella proposta da Patrick Geary, per cui i morti fanno parte della comunità, sono una delle classi di età in cui la comunità locale è organizzata (i bambini, i giovani, gli adulti, i vecchi e i morti, appunto; Geary, 1994, p. 6). Più che la tomba, è importante il rito: se il cimitero rappresenta la comunità - o meglio, i suoi antenati -1'atto di seppellire qualcuno ratifica la sua piena appartenenza alla comunità che in questo cimitero si riconosce; da qui si coglie la forza religiosa, simbolica e politica degli atti di esclusione dal cimitero. In un anno incerto, tra il 1070 e il 1089, l'arcivescovo di Canterbury, Lanfranco, scrisse a un abate (indicato solo come T.) per la causa relativa a Godwin e alla sua «adultera» Lifgiwa. Dichiarò di avere ascoltato le parti, di avere giudicato i due come adulteri e di averli perciò scomunicati. Ordinò quindi che i monaci espellessero Lifgiwa (nel frattempo morta) dal cimitero, fino a che il suo corruttore o qualcun altro a suo nome non avesse fatto la dovuta ammenda davanti al proprio vescovo (Letters ofLan.franc, p. 176, doc. 60 ).
La scomunica è una pena durissima, è l'esclusione di un singolo dai sacramenti e dalla comunità cristiana, significa togliergli la speranza di una salvezza dopo la morte, una condizione espressa nel modo più evidente e brutale nell'espulsione del corpo dal cimitero. Questo connotato comunitario del cimitero non significa che scompaiano del tutto le sepolture individuali, in particolare all'interno delle chiese e dei monasteri. Sono però sepolture privilegiate ed eccezionali, rappresentano l'accoglienza dei grandi benefattori di un monastero all' interno della protezione spirituale offerta dalle preghiere dei monaci e dalla forza salvifica delle reliquie e dell'altare. Sepolture privilegiate, quindi, e chiaramente gerarchizzate: più la sepoltura è vicina all'altare e alle reliquie, tanto maggiore sarà la garanzia di salvezza, espressione diretta del rapporto privilegiato con la chiesa. Se il cimitero non è lo spazio della memoria individuale, ma un luogo di elaborazione dell'identità comunitaria, non sorprende che nel Basso
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Medioevo si facciano molte cose nei cimiteri, oltre a seppellire i morti. Nei cimiteri prima di tutto si abita: tra i molti casi ben attestati, si può pensare alle sagreras catalane, lo spazio circostante le chiese parrocchiali, occupato prima dal cimitero, poi da edifici e via via da abitazioni permanenti. Il nome sagreras ci aiuta a leggere il processo in atto: la sacralità della chiesa e il connesso diritto di asilo si estendono all'area circostante l'edificio, la cui capacità di protezione attira quindi gli abitanti. Nei cimiteri si compiono atti politici importanti per la comunità, ad esempio la definizione delle franchigie o degli accordi con le comunità vicine: sono spazi relativamente ampi e consentono quindi la riunione in assemblea, ma soprattutto sono luoghi ad alto valore simbolico, centri ideali della comunità. Nei cimiteri si costruiscono case e magazzini, si fanno feste e cerimonie, si tengono fiere e si stipulano grandi e piccoli atti commerciali. Tutti questi usi ci sembrano delle distorsioni rispetto alla funzione propriamente cimiteriale, ma lungo il Basso Medioevo sono ampiamente diffusi e soprattutto sono connaturati all'idea stessa di cimitero. Può aiutarci a capire questo atteggiamento un testo che può apparire sorprendente. Attorno alla metà dd XII secolo, il vescovo di Rennes (in Bretagna), su richiesta dei monaci di Marmoutier, dichiara di avere consacrato un cimitero presso la cappella di Saint Aubert « solo per il rifugio dei vivi, non per la sepoltura dei morti»; riconosce poi che la cappella e il cimitero rientrano nd distretto parrocchiale di una chiesa controllata dall' abbazi~ e vieta di seppellire i morti in questo cimitero senza il permesso dei monaci (Guillotel, 1971-74, p. 15).
È un testo da cui emerge con chiarezza il fatto che - se i cimiteri servono a fare molte cose - questo non avviene nonostante il loro carattere consacr~to, ma grazie alla consacrazione. Il vescovo di Rennes è qui molto esplicito, quando dichiara di avere consacrato il cimitero perché servisse da rifugio dei vivi: la benedizione vescovile è una premessa necessaria perché il cimitero possa fungere da luogo di rifugio, anche a prescindere da un uso propriamente cimiteriale. Ed è chiaro che le comunità locali, da cui presumibilmente è partita la richiesta di consacrare il cimitero, hanno bisogno dei cimiteri per molti motivi, tra i quali la sepoltura dei morti non è necessariamente il principale. Ma perché i monaci di Marmoutier sono così preoccupati che qualcuno seppellisca dei morti nel cimitero costruito presso la loro cappella? Possiamo capirlo seguendo un caso per alcuni versi analogo.
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Chiomonte, in Valle di Susa, nel XIII secolo era posto sotto il potere signorile del-
la prevostura di San Lorenzo di Oulx, ma al contempo era sede di un ospedale dei monaci gerosolimitani, che fruivano delle opportunità offerte dai transiti intensi sulla strada del Monginevro. Le due presenze hanno implicazioni molto diverse: Oulx, antica prevostura, aveva un controllo pienamente signorile sulla comunità e sulla chiesa parrocchiale; i gerosolimitani si muovevano in una prospettiva sovralocale e in questa fase erano destinatari di numerose donazioni. Due liti del 12.08 e del 12.2.9 mostrano che la prevostura di Oulx era impegnata a contrastare una tendenza degli uomini del posto a farsi seppellire nel cimitero dei monaci, per ottenere la loro protezione spirituale. In entrambe le occasioni le sentenze sancirono il diritto dei gerosolimitani ad avere un cimitero per i monaci e per chi moriva nell'ospedale, con il divieto però di seppellirvi gli abitanti del villaggio (cfr. Pazé, 1996).
È quindi probabilmente una questione di prelievo (connessa ai donativi e ai pagamenti associati alla sepoltura), ma è anche una lotta per il controllo del villaggio, per distinguere la comunità locale da chi è qui per altri motivi: dal punto di vista dei canonici di Oulx, i gerosolimitani possono prendersi cura di chi transita nell'area, ma non devono intromettersi nella comunità degli abitanti di Chiomonte, che dipende dal potere signorile di Oulx. E questa tensione assume particolare rilievo in un contesto a forte circolazione di uomini, che coinvolge in specifico l'ospedale gerosolimitano. Si coglie bene lo sforzo dei canonici di Oulx di delimitare la comunità, conservando all'interno del cimitero di villaggio chi appartiene e deve appartenere alla collettività locale; al contempo la scelta degli uomini di Chiomonte di farsi seppellire nel cimitero dei gerosolimitani è certo un atto devozionale (per porre le proprie anime sotto la protezione delle preghiere di un ordine religioso di grande reputazione), ma anche un atto pienamente politico, che incide sulla compattezza della comunità locale intesa come un insieme di persone sottomesse ai canonici di Oulx. Se il cimitero è una rappresentazione della comunità, a Chiomonte come a Marmoutier chi vuole controllare un villaggio deve controllarne il cimitero.
Processioni, confraternite ed eresie Luoghi di culto, chiese parrocchiali e cimiteri sono quindi elementi fondamentali nel processo di costruzione e manipolazione dell'identità comunitaria nei villaggi medievali. Ma questa elaborazione passa anche at-
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traverso pratiche religiose diverse, come le processioni, le confraternite e i culti condannati in quanto eretici. Abbiamo visto (cfr. CAP. 4) che le processioni sono usate per riaffermare l'estensione dello spazio agrario di una comunità: la popolazione del villaggio percorre i limiti del proprio territorio, va a individuare le pietre e gli alberi posti come segni confinari e, guidata dal proprio prete, recita una serie di preghiere e litanie. Un rito di questo genere ha molteplici funzioni: affermare il possesso di questo spazio (e soprattutto delle aree contese) di fronte alle comunità vicine, rinnovarne la memoria da parte dei membri della comunità e proiettare su tutto ciò una componente religiosa. Questo non significa che il confine sia un oggetto sacro, ma certo le preghiere, il sacerdote e l'altare connotano in questo senso il controllo dello spazio agrario, che viene presentato non solo come una rivendicazione, ma come parte dell'ordine necessario delle cose. Riaffermazione dei confini, ma anche consolidamento della comunità: le due dimensioni, territoriale e sociale, non possono essere separate in modo troppo netto. Le processioni hanno la funzione di richiamare a unità i nuclei dispersi di una comunità, le borgate più lontane, le chiese e le cappelle di cui il territorio è disseminato. Se riprendiamo la vicenda della chiesa di Sant'Ilario di Voghera che abbiamo seguito prima, è interessante un passaggio cerimoniale descritto da uno dei testimoni: ricorda che, in occasione delle litanie processionali guidate dal pievano di Voghera attraverso il territorio del villaggio, il sacerdote di Sant'Ilario accoglieva i canonici della pieve, come facevano gli altri cappellani; ma mentre gli altri cappellani seguivano poi i canonici, il prete di Sant'Ilario non si univa alla processione. Si coglie bene qui sia la funzione della processione sia il suo parziale fallimento: il pievano guida le litanie da una cappella a un'altra, e ogni cappellano accoglie i canonici per poi unirsi alla processione, come segno dell'appartenenza della cappella alla comunità di Voghera; il cappellano di Sant'Ilario riconosce l'autorità del pievano e dei suoi canonici (che accoglie sulla porta della propria chiesa), ma nega la piena appartenenza della propria chiesa alla comunità pievana di Voghera, come sarebbe stato se si fosse unito al resto del clero in processione. Non sorprende che un chierico sappia fare un uso calibrato e consapevole del cerimoniale, con un attento equilibrio tra il rispetto dovuto al pievano e l'affermazione della propria separazione dalla comunità; più interessante il fatto che il testimone che descrive la scena sia un laico, perfettamente conscio dei significati di questi
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gesti: il cerimoniale religioso e le sue implicazioni comunitarie e politiche costituiscono un linguaggio che clero e laici in parte condividono. L'intervento laico sul terreno religioso, con chiare implicazioni sul piano della politica e delle solidarietà locali, si ritrova nel modo più chiaro in quel mondo frammentato, diversificato e confuso che possiamo ricondurre sono il nome di confraternite. Il termine "confraternite" è una scorciatoia per indicare una molteplicità di esperienze religiose, che hanno in comune la creazione di una solidarietà tra laici, connotata in senso religioso e destinata a un aiuto reciproco. Già nell'Europa settentrionale nell'Alto Medioevo vediamo all'opera delle gilde, associazioni di liberi, formalmente egualitarie (ma spesso dominate di fatto dall'élite locale), che si dedicano ali' assistenza reciproca, sancita in forme cerimoniali nei banchetti periodici. Nelle fonti, la componente propriamente religiosa di queste associazioni è poco o per nulla delineata: vediamo la solidarietà giurata, l'impegno reciproco, ma ne intuiamo appena una connotazione religiosa. Questa connotazione è invece evidente nelle confraternite, che si diffondono nelle città e nelle campagne europee a partire dall'x1 secolo. È una realtà estremamente frammentata, ogni confraternita segue una vicenda sua propria, spesso mal documentata; possiamo però fissare alcuni dati comuni, che ci aiutano a comprendere come queste esperienze andassero ben oltre la dimensione propriamente religiosa: sono associazioni che riuniscono solo laici o anche chierici, impegnate in attività religiose di preghiera comune e di penitenza, destinate soprattutto a garantirsi mutua assistenza in vita (aiutando i più poveri) e in morte (garantendo ai confratelli la sepoltura e le preghiere di suffragio). Il sistema confraternale locale riflette la rete di solidarietà che attraversa la comunità: così una singola confraternita può essere una via per consolidare il sistema comunitario, mentre l'esistenza di diverse confraternite manifesta le divisioni interne al villaggio. Vediamo come la dinamica del sistema confraternale sia per noi una chiave per cogliere l'evoluzione delle solidarietà comunitarie. Dronero, in Valle Maira (Cuneo), nacque attorno alla metà del Duecento, a sovrapporsi a una serie di piccoli villaggi preesistenti. Se il nuovo villaggio assunse presto un'importanza come centro politico della valle, fu più complessa e conflittuale la convergenza dei diversi nuclei insediativi della bassa valle, a formare una più ampia e articolata comunità che facesse capo a Dronero. Si coglie questo processo nella fondazione di una chiesa nel borgo centrale, che tuttavia faticò a imporsi come centro cerimoniale dell'intera comunità; al contempo un'evolu-
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zione in questo senso è leggibile attraverso le forme confraternali. Tra XIII e XIV secolo abbiamo infatti notizia di diverse Confrarie dello Spirito Santo, forme associative laiche destinate al culto e alla mutua assistenza, radicate in specifici settori dd villaggio, attorno a singoli nuclei insediativi. Dalla metà del XIV secolo vediamo invece comparire la Confraternita dei Disciplinati: analoghe le funzioni di solidarietà e di culto; era però una realtà più definita sul piano istiruzionale, più controllata dal clero e soprattutto era una singola confraternita destinata a riunire tutti gli uomini di Dronero (cfr. Olivero, 2.000).
La nascita di una confraternita unica non esaurisce la dinamica comunitaria in quest'area, che nei secoli successivi sarà costantemente segnata dal nascere di nuove chiese e da processi di fusione e di segmentazione comunitaria. Ma è indubbio il rilievo politico delle confraternite, nel dare forza sul piano cerimoniale alle diverse solidarietà che attraversano il villaggio: la mappa delle confraternite attive in un territorio è un'immagine efficace delle solidarietà localmente attive, non necessariamente corrispondenti alla comunità di villaggio Infine l'eresia, un'ulteriore dimensione della vita religiosa di cui è necessario mettere in evidenza le implicazioni sociali. Premessa importante è che l'eresia del Basso Medioevo non è tanto una questione teologica, ma di obbedienza: gli eretici del XIII o XIV secolo non credono in un Dio davvero diverso da quello della Chiesa cattolica, non è sul piano delle definizioni teologiche che si distinguono; ma pregano Dio fuori dalle chiese, guidati da predicatori laici, che non rispondono alla gerarchia ecclesiastica. I testi prodotti dall'Inquisizione attribuiscono a questi gruppi ben precise definizioni, etichette che li incasellano in specifici movimenti ereticali (valdesi, catari, patarini ecc.), ma leggendo i processi inquisitoriali vediamo che essi si definiscono in genere « buoni Cristiani», « buoni credenti» ecc.: non rivendicano una fede diversa, ma il pieno rispetto della fede cristiana. Questa premessa è necessaria per comprendere che l'eresia bassomedievale non è tanto un atto intellettuale (di chi riflette sulla divinità e ne elabora un'idea diversa da quella ufficiale), ma piuttosto un atto sociale, la riunione attorno a un maestro dell'intera comunità, o spesso di una sua parte, che si raccoglie in base ai legami parentali e clientelari. E questo gli inquisitori lo sanno bene: certo, nei loro interrogatori cercano di scoprire le credenze o i culti che non rientrano nelle forme lecite della fede, ma cercano soprattutto di ricostruire le reti sociali, chi ha partecipato ai riti, chi ha portato chi, quali case e quali famiglie erano coinvolte.
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Rispondere a questi interrogatori non è certo facoltativo: di fronte alla convocazione di un inquisitore, le alternative sono solo quella di presentarsi o di fuggire. Non dobbiamo quindi considerare queste testimonianze come le deposizioni all'interno delle liti giurisdizionali (cfr. CAP. 8): qui il fatto di testimoniare non significa prendere posizione a favore o contro qualcuno; ma come si risponde può fare la differenza. Rivelare o non rivelare le pratiche eterodosse dei propri vicini non è tanto un fatto religioso, quanto piuttosto un intervento sulle solidarietà locali, un modo per smantellare o proteggere una forma associativa rispetto a cui ci si sente ostili o solidali. Vediamo un caso, molto tardo ma molto famoso, che può aiutarci a comprendere l'intreccio tra le reti sociali e i fenomeni religiosi ritenuti devianti. Nel 1692. a Salem, in Massachusetts, si tenne un famoso processo per stregoneria, nato da una serie di visioni e di pratiche demoniache. L'analisi di questo processo dal punto di vista sociale (e soprattutto la distribuzione all'interno dd villaggio delle case di accusati e accusatori) ha mostrato come le accuse e il processo non fossero un'improvvisa esplosione di satanismo e persecuzione, mal'evoluzione di una lunga conflittualità interna alla comunità: accusati e accusatori abitavano in sett0ri diversi dd villaggio ed erano membri di famiglie e di sistemi di solidarietà contrapposti. In gioco era l'assetto presente e futuro ddla comunità, l'occupazione delle principali cariche e i rapporti con gli insediamenti vicini (cfr. Boyer, Nissenbaum, 1986).
Ovviamente non si può ridurre tutto a questo: l'eresia, la stregoneria e le forme di persecuzione non sono semplicemente l'espressione di conflitti sociali, di faide e fazioni interne alla comunità; confluiscono qui credenze religiose, superstizioni, paure e timori atavici, una politica ecclesiastica di controllo e repressione. Ma indubbiamente le divisioni interne alla comunità sono una premessa importante per comprendere i processi inquisitoriali e soprattutto i comportamenti delle singole persone di fronte a questi processi: testimoniare, accusare o scagionare sono atti politici, che riflettono la rete relazionale del testimone.
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Gli edifici in cui si svolge la vita contadina sono costruzioni spesso elementari, solo raramente elaborate; non è qui però la sede per riflettere sullo spazio del villaggio dal punto di vista urbanistico o architettonico. Dobbiamo invece notare come l'atto di costruire possa essere per la società contadina un'azione politica, espressione della formazione di una comunità e del suo rapporto con i potenti. Occorre raccogliere e incanalare risorse, sottrarre tempo lavorativo alle coltivazioni, reperire materie prime non sempre disponibili nel villaggio: la costruzione degli edifici più rilevanti impone uno sforzo notevole alle comunità, ed è perciò importante leggere i processi politici che portano a indirizzare o forzare la volontà comunitaria in questa direzione. Possiamo concentrarci su tre tipi di costruzioni: le chiese, i castelli e le villenove.
Le chiese Nel capitolo precedente, tra i tanti segni del rilievo politico delle azioni religiose, abbiamo visto una visita pastorale condotta dal vescovo di Volterra all'inizio del Trecento, e in particolare il caso del prete di Fatagliano e del suo pieno coinvolgimento nei conflitti che dividevano la società di villaggio. I comportamenti del clero sono sempre al centro delle attenzioni dei vescovi: la cultura dei sacerdoti, la loro assiduità negli uffici sacri, la loro morale (più che altro i loro comportamenti sessuali, ma anche il tempo che dedicano a giocare o nelle taverne). Su questi temi i vescovi si preoccupano che siano dettagliatamente interrogati sia i chierici sia i laici. Ma un altro aspetto viene sempre valutato e registrato nelle visite: l'edificio della parrocchia, gli eventuali danni, i restauri necessari; proprio la visita pastorale volterrana ce ne offre esempi interessanti.
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Il vescovo Rainuccio, percorrendo le parrocchie della sua diocesi, si trovò ripetutamente a constatare il cattivo stato delle chiese: non solo gli edifici sacri erano spesso usati come magazzini, ma i tetti erano pericolanti o crollati, mancavano i banchi, i cimiteri erano privi di recinzione. In qualche caso il vescovo poté registrare che i lavori di riparazione erano in atto, ma in altre parrocchie dovette imporre agli uomini del villaggio di impegnarsi a portare a termine i lavori più urgenti nei mesi futuri. E proprio a Fatagliano - la parrocchia in cui abbiamo visto il prece Sandro in lotta con una parte della sua comunità - il vescovo, vista la «tristissima rovina della chiesa», ordinò che i parrocchiani costruissero il muro attorno al cimitero; a due uomini (un operarius e un suo aiutante) intimò che restaurassero il tetto della chiesa e gli stessi, insieme al parroco, avrebbero dovuto far sistemare gli arredi liturgici e i banchi; il parroco doveva poi pagare il dovuto per le tavole, i mattoni e i banchi ( ~scovo Rainuccio Allegretti, pp. 170-4).
Un testo come questo ci mostra diverse cose: che la costruzione e la manutenzione delle chiese sono responsabilità prima di tutto dei fedeli; che questi lavori sono gravosi e costosi (per cui è necessario prevedere una fonte di pagamento) e non si esauriscono certo al momento della costruzione, ma proseguono in un cantiere aperto di continui restauri e rifacimenti; e infine i lavori non sempre sono ben accetti dalla comunità, che deve essere forzata dall'autorità vescovile. Forse non è un caso che proprio in una parrocchia come Fatagliano, dove i rapporti tra prete e comunità sono quanto meno problematici, si fatichi a trovare uomini e risorse per mantenere la chiesa in buono stato. Abbiamo quindi una comunità responsabile della chiesa e degli edifici connessi, e questo non è in alcun modo sorprendente, perché in tutta Europa nel Basso Medioevo constatiamo questo tipo di responsabilità, che implica l'accantonamento di risorse e la nomina di laici responsabili di gestirle e di coordinare i lavori di manutenzione. L'azione comunitaria per la costruzione delle chiese è attestata già tra IX e x secolo in Catalogna, e in seguito, lungo il Basso Medioevo, non vediamo una tendenza verso un passaggio al clero locale del controllo sui lavori edilizi, che restano in linea generale responsabilità dei fedeli. Ma d'altra parte vediamo anche che non sempre e non necessariamente gli uomini del villaggio convergono in modo spontaneo a offrire le proprie risorse, il proprio lavoro e il proprio tempo per costruire la chiesa. Abbiamo visto che la parrocchia non è solo un luogo di convergenza della comunità, può essere un luogo di conflitto, il che si riflette direttamente sui lavori di costruzione e manutenzione.
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Peraltro la chiesa parrocchiale non è un dato di fatto permanente, che precede e condiziona la costruzione della comunità. Le chiese si costtuiscono, si trasformano in parrocchie, talvolta si abbandonano; e in questo processo di elaborazione per via cerimoniale e religiosa dell'identità comunitaria, la componente concreta della costruzione delle chiese ha un peso rilevantissimo. La località di Teregua in Valfurva (una diramazione della Valtdlina) fin dal Duecento aveva espresso la volontà di distaccarsi dalla pieve di Bormio, da cui dipendeva. Ma questa tensione si tradusse in fatti solo all'inizio del Cinquecento, con la costruzione della chiesa della Santissima Trinità, avviata nel 152.1. Una piccola chiesa, adeguata alla borgata che le diede vita attraverso una raccolta di fondi, che noi possiamo seguire grazie a una serie di testamenti: non sono grandi donazioni, ma medi e piccoli lasciti destinati allafabrica della chiesa, cioè a quella piccola organizzazione locale a cui era affidata la costruzione (cfr. Della Misericordia, 2.on ).
Abbiamo visto questo stesso contesto - la Valtellina tardomedievale parlando dei processi di formazione e delimitazione delle identità comunitarie (cfr. CAP. 4); ma qui è importante considerarlo da un altro punto di vista, sottolineare che questo processo di elaborazione comunitaria passa attraverso la costruzione di un edificio sacro, per il quale servono soldi, risorse, lavoro e tempo. E qui si vede il concreto convergere della società locale nel sostenere finanziariamente la costtuzione della chiesa, attraverso i lasciti testamentari di persone di medio livello sociale; è una convergenza che però, occorre ricordare, era l'espressione di un conflitto, della duratura volontà di Teregua di distaccarsi dalla pieve di Bormio. L'atto di costruire esprime al tempo stesso una convergenza e una segmentazione, il formarsi di una comunità e il suo distacco dalla comunità più ampia; e queste azioni politiche non si fondano solo su processi identitari e reti relazionali, ma anche sulla capacità di mobilitare e incanalare risorse.
I castelli Queste chiese restano in genere strutture semplici e piccole: proprio la Santissima Trinità di Teregua, tuttora conservata e da poco restaurata, ha una superficie coperta di poco più di 100 metri quadri, e molte chiese di villaggio erano di dimensioni analoghe; i carichi di lavoro e le risorse necessarie erano quindi importanti, ma alla portata di queste comunità. Un
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discorso in parte diverso deve essere fatto per i castelli: diverso sul piano politico, ma anche della complessità architettonica e quindi del carico economico e lavorativo. Dobbiamo prima di tutto tenere conto di una profonda evoluzione che subiscono i castelli lungo il Basso Medioevo: le prime fortificazioni, tra x e XI secolo, erano essenzialmente delle palizzate in legno, issate su terrapieni e circondate da fossati; è nel corso dell'xI secolo che si avvia e poi lentamente si diffonde la costruzione di castelli in muratura o in pietra, edifici molto più solidi ed efficaci. Nel Tardo Medioevo si assisterà a un'ulteriore transizione per i castelli {e per le mura urbane), quando la comparsa delle anni da fuoco imporrà un consolidamento e un completo ripensamento delle fortificazioni. Ma dal punto di vista dell'impegno comunitario - e quindi del rilievo politico dell'azione di costruire - è importante soffermarsi sulla prima transizione. I castelli in legno e terra sono nel complesso semplici e rapidi da costruire, ma impongono una continua manutenzione: il legno marcisce, i fossati si riempiono, i terrapieni si sfaldano. All'opposto, i castelli in muratura sono complessi e costosi da costruire, marichiedono poi una manutenzione meno frequente. Se quindi un elemento di lungo periodo è l'obbligo dei sudditi a svolgere le guardie al castello, il mutamento architettonico cambia profondamente il tipo di intervento edilizio che il signore chiede o impone: per i castelli in legno, prevale un intenso lavoro di manutenzione, ripetuto ogni anno, a sostituire i tronchi e rinnovare lo scavo dei fossati; per i castelli in muratura diventa invece centrale il primo momento, quello della costruzione. Qui si concentra la richiesta di risorse, tempo, lavoro e materiali, richiesta che diventa via via più pesante nel corso dei secoli, in parallelo alla crescente complessità delle architetture fortificate. Un dato che gli archeologi hanno mostrato in modo chiaro è che la costruzione di una fortificazione in muratura era un'azione complessa, lunga e costosa da ogni punto di vista (materiale e giornate di lavoro). Un esempio concreto ci mostra quali fossero le necessità e che tipo di accordi si potessero definire tra signore e sudditi. Nel 12.66 gli uomini di Caramagna (Cuneo) e la locale abbazia stipularono un accordo per circondare di mura il castello. La badessa si impegnò a completare la costruzione delle mura entro sei anni; la comunità avrebbe perciò pagato alle monache 400 lire a rate, e al contempo si impegnò a fornire una serie di materie prime e di servizi: tutta la legna destinata a cuocere i mattoni e a produrre la calce; il trasporto delle pietre necessarie per la produzione della calce, pietre che gli
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uomini avrebbero dovuto prendere in un luogo a distanza tale da poter andare e tornare in un giorno e una notte; si impegnarono poi a riempire e a svuotare la fornace, a portare alla base delle mura tutto il materiale necessario e infine a fornire tre manovali per ogni casa, che andassero a lavorare alle mura ( Carte varie a supplemento, pp. 167-70, doc. 160).
L'accordo di Caramagna è un esempio tra i tanti possibili, e ci offre uno spaccato delle esigenze materiali che ruotavano attorno alla costruzione di un castello: è prima di tutto una questione di materie prime, vale a dire mattoni, calce e legna. Ma questo implica spesso dei costi importanti di trasporto, come ci ricorda proprio il documento del 12.66, quando prevede uno spostamento massimo di un giorno e una notte per procurare la pietra calcarea. Oltre al lavoro, alle materie prime e ai trasporti, la comunità deve poi pagare una cifra notevole, e questa è solo la parte che tocca ai sudditi, non viene precisato - perché non serve per stipulare l'accordo - quale fosse il costo che si sarebbe accollata la badessa (di fatto, il documento definisce i carichi spettanti alla comunità, lasciando tutto il resto, indefinito, al monastero). Infine i tempi: per il lavoro - che viene definito come un completamento delle mura, già in parte costruite - è previsto un tempo complessivo di sei anni. La cooperazione di signore e sudditi per la costruzione del castello è il momento di più chiara convergenza di interessi tra le due parti: il castello nasce per difendere il signore, la sua famiglia e i suoi beni, ma va a proteggere anche i suoi dipendenti e i loro beni, soprattutto quando - come avviene in molti casi - non si tratta di un castello affiancato al villaggio, ma di un vero e proprio villaggio fortificato, una cerchia di mura che racchiude l'intero insediamento. La protezione che il signore garantisce così ai sudditi è la prima base della sua legittimità: gli abitanti del villaggio potranno rifugiarsi nel castello e porre al riparo i propri raccolti (in un contesto in cui la guerra è soprattutto rapina e saccheggio, e tende quindi a colpire i raccolti più che le persone), e il signore assume quindi la prima e fondamentale funzione di ogni potere legittimo, quella di proteggere i sottoposti. La convergenza tra signore e sudditi si esprime anche nell'ampia disponibilità dei sudditi a prestare i turni di guardia al castello e a fornire il proprio lavoro per le manutenzioni periodiche: guardie e manutenzioni raramente compaiono negli atti di franchigia, perché su questi aspetti i contadini in genere non si oppongono alle richieste signorili, che sono funzionali ai loro stessi interessi. Tuttavia parlare di convergenza, coo-
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perazione e reciprocità non significa in alcun modo suggerire una forma di eguaglianza, né di armoniosa convivenza tra potenti e contadini: la signoria rurale è un dominio violento, teso a estrarre dai sudditi la massima quantità possibile di prodotti e basato su atti e cerimoniali destinati a umiliare i sudditi, a ricordare che essi, i loro corpi e il loro lavoro, appartengono al signore. Ci sono però interessi oggettivi in comune, a partire appunto dalla difesa delle persone, dei raccolti, degli animali e degli spazi del villaggio: un contadino morto (o un contadino senza raccolto né animali) non potrà essere tassato e sarà inutile per il suo signore. La costruzione di un castello ha un forte rilievo politico anche da un altro punto di vista, quello del consolidamento della comunità. È prima di tutto un consolidamento sul piano dell'appartenenza: ha pieno diritto a farsi proteggere chi ha contribuito alla costruzione, e così il castello e i lavori connessi rientrano in quel processo di delimitazione (cfr. CAP. 4), per cui fra XII e XIII secolo l'appartenenza comunitaria si definisce come un dato giuridico sempre più forte, legato all'accesso alle risorse comuni ma anche alla partecipazione agli oneri collettivi. Il castello è entrambe le cose: è un'importante risorsa di difesa, ma è anche un onere non indifferente. Questo è tanto più vero quando parliamo di un tipo particolare di fortificazioni, i cosiddetti "ricetti": fortificazioni collettive, costruite e controllate dalla comunità e destinate a proteggere i contadini. Non si oppongono al castello signorile, ma piuttosto lo affiancano, scindendo le due funzioni principali: il castello protegge il signore e i suoi beni, il ricetto è destinato ai sudditi. Il salto di qualità è importante, perché l'impegno comunitario qui non si limita a sostenere e a integrare le risorse signorili, ma - con il consenso del signore - i sudditi si assumono l'onere di costruire il ricetto mettendo in gioco quote importanti di risorse e tempo. Questo ci segnala in modo indiscutibile che i ricetti sono propri di comunità forti e ricche: forti, perché hanno la capacità di organizzarsi per un'opera che da ogni punto di vista è complessa; e ricche, perché - come abbiamo visto - la costruzione di una fortificazione in muratura è estremamente onerosa. I ricetti in linea di massima sono strutture più semplici dei castelli signorili contemporanei, ma si tratta comunque di edifici ampi, robusti e complessi, molto diversi dalle normali case contadine. E ciò che abbiamo appena detto sulla costruzione dei castelli come momenti di consolidamento della comunità, può essere ripreso con maggior forza per i ricetti, che implicano cooperazione per la costruzione e la manutenzione,
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accesso riservato ai membri della comunità, definizione di norme; come e più del castello signorile, il ricetto è una risorsa e un onere per gli abitanti del villaggio. Esiste però un'altra dimensione che ci permette di cogliere come la costruzione delle fortificazioni possa incidere sull'identità e sulla coesione comunitaria: nei numerosi casi in cui il castello circonda e ingloba il villaggio, le mura diventano un'efficace delimitazione reale ma anche simbolica dell'insediamento. In modo non del tutto diverso da quanto avviene nelle città murate, le fortificazioni del villaggio creano una separazione netta ed evidente. Lo spazio della comunità ovviamente non si arresta alle mura, si estende ai campi, agli incolti, alle borgate minori e alle case disperse; ma fortificare il villaggio significa opporre ciò che è dentro a ciò che è fuori, distinguere un centro da una periferia, creare una chiara gerarchia tra i diversi nuclei insediativi che formano la comunità. Spesso infatti un villaggio è fatto di numerose borgate più o meno grandi: qualcuna è più importante perché ospita la parrocchia o la casa del signore, o semplicemente perché è più popolosa; la fortificazione accentua questa diversità, pone gli abitanti del villaggio in una condizione oggettivamente diversa e più protetta rispetto a quelli delle borgate minori. La comunità quindi da un lato si consolida (nel convergere attorno al castello e ai lavori connessi), ma dall'altro si articola e si gerarchizza.
Villenove e villefranche Se la costruzione di un castello è un lavoro lungo, complesso e costoso, tanto più lo sono le fondazioni di nuovi villaggi, le cosiddette "villenove" o "villefranche", che stravolgono il paesaggio europeo tra XII e XIII secolo. I due secoli sono segnati in tutta Europa da una grande crescita demografica, che si interrompe all'inizio del Trecento, quando una serie di carestie e di crisi demografiche porta a un calo della popolazione europea, poi falcidiata dalla Peste Nera del 1348. La crescita demografica si traduce nell'ampliamento delle città, in qualche caso una vera e propria esplosione della superficie urbana, soprattutto in Italia: città come Firenze e Bologna, che nel X secolo si estendevano per circa 2.5 ettari, alla fine del Duecento superano i 400 ettari. L'impatto sulle campagne è diverso: la crescita demografica rende necessario uno sfruttamento più intenso delle terre e quindi il dissodamento
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degli incolti, che talvolta avviene con l'ampliamento di singoli villaggi e del loro spazio agrario. Tale processo trova però un ovvio limite nel rapporto tra uomini e risorse, dato che nella società rurale gli uomini non possono vivere troppo lontani dai campi, e quindi non sarebbe possibile gestire e sfruttare un grande spazio agrario da un singolo insediamento. Assistiamo quindi alla nascita di una miriade di nuovi villaggi: se osserviamo una carta attuale dell'Europa, vediamo come siano numerosi i paesi la cui nascita nel Basso Medioevo è ricordata dal loro stesso nome di Villanova o Villafranca (e tutte le varianti nelle diverse lingue europee, da Villefranche a Freiburg, a Villanueva ecc.); eppure questi luoghi sono solo una minoranza delle villenove fondate in quei secoli, che per la maggior parte assunsero nomi del tutto diversi, che non richiamano in modo evidente la loro origine (per fare due esempi tra i molti possibili, Cuneo in Piemonte e Pietrasanta in Toscana sono villenove). Creare un villaggio implica avere o acquisire il controllo di un'area, progettare ed edificare l'insediamento, organizzare lo spazio agrario e ovviamente raccogliere le persone destinate ad abitarlo: un'azione ampia e costosa, che va ben al di là delle capacità di azione di un gruppo contadino. Se qualche caso di iniziativa contadina di colonizzazione è attestato, in genere le villenove nascono dall'azione dei prlncipi, dei re, dei signori più potenti e delle città, che dispongono della forza e delle ricchezze necessarie (e anche per questi poteri maggiori, la fondazione di una villanova costituisce comunque un investimento rilevante). Dobbiamo quindi pensare alle comunità contadine come oggetti passivi della politica insediativa dei poteri alti? Non esattamente: l'iniziativa che parte dall'alto costituisce un'opportunità per i gruppi contadini, che quindi si trovano ad agire in risposta a queste opportunità. Più nello specifico, i vantaggi offerti ai nuovi abitanti sono molto concreti e nel complesso semplici, fatti di terre, case, esenzioni fiscali, garanzie. Vediamo un esempio tra i tanti disponibili Nel u99 il comune di Bologna si accordò con gli uomini del villaggio di Castel dell'Alboro per definire le condizioni che avrebbero ottenuto trasferendosi a Castel San Pietro, villanova appena fondata dai bolognesi. Il comune concesse l' esenzione per 2.5 anni da ogni tassa, equiparando in questo gli uomini della villanova ai cittadini bolognesi (i carichi fiscali gravavano in genere sugli abitanti del contado, mentre i cittadini fruivano di ampie esenzioni); inoltre, chi si fosse trasferito, non avrebbe per questo perso alcun feudo o possesso; i bolognesi promisero poi di difendere gli uomini del villaggio e di far scrivere questo impegno nei propri
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statuti; e infine gli uomini di Castd San Pietro ottennero di poter costituire un comune con la nomina di consoli (ma il comune di Bologna si riservò il potere di approvare i nomi dei consoli; Frati, 1904, pp. 2.45 ss.; cfr. Pini, 2.002.).
Da un lato abbiamo contadini affamati di terre, perché in molti villaggi ci sono troppi abitanti, e i campi e i pascoli non bastano; dall'altro lato abbiamo principi e città che vogliono consolidare il proprio controllo sul territorio e hanno bisogno di uomini per mettere a colturale terre dei nuovi villaggi, a sostegno di una popolazione urbana in crescita esponenziale. Il popolamento delle villenove nasce dall'incontro tra queste due esigenze, tra chi offre braccia e chi offre terra a buone condizioni. Non è una fuga dalla sottomissione alla libertà, ma il passaggio da un dominio a un altro, il che non è poco, soprattutto perché i fondatori delle villenove incentivano il popolamento con concessioni di terre, esenzioni fiscali e altri vantaggi. I contadini non fuggono dalla signoria, non sarebbe possibile, ma possono andare a cercare una signoria più vantaggiosa, ricontrattare le condizioni della propria sottomissione. La nascita dei nuovi villaggi incide pesantemente sul quadro insediativo regionale, attirando abitanti da villaggi vicini e meno vicini; questo talvolta porta alla scomparsa dei villaggi più antichi, ma non sempre: è anzi importante notare come questa cancellazione non sia necessariamente un obiettivo dei fondatori di una villanova. Nd 12.99 i fiorentini ddiberarono di costruire la "terra nuova" di San Giovanni Valdarno, destinata ad attirare popolazione dai villaggi vicini. Negli anni immediatamente successivi, gli ufficiali fiorentini inviati a gestire i lavori cercarono di obbligare al trasferimento gli uomini dd villaggio di Ricasoli, che però si opposero e per questo chiesero giustizia al comune di Firenze. Nd 1302. il giudice del podestà, su richiesta dei priori e del gonfaloniere di giustizia (e quindi esprimendo la volontà politica dei massimi vertici cittadini), sentenziò che nessun uomo di Ricasoli dovesse essere forzato a trasferirsi a San Giovanni e che il villaggio di Ricasoli conservasse lo status di comunità (cfr. Pirillo, 2.003).
Firenze segue in questo caso una strategia di compromesso, che ha come obiettivo lo sviluppo della villanova, ma anche la tutela del complessivo quadro insediativo e di sfruttamento delle terre; il villaggio di Ricasoli sopravvive, anche se nei decenni seguenti si può cogliere un suo declino demografico. Ma dal nostro punto di vista il caso di San Giovanni e Ricasoli è importante perché mostra come il trasferimento nella villanova sia
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una scelta, l'adesione non obbligata ddla popolazione locale ali'operazione condotta dal comune cittadino. Di fronte all'opportunità offerta dalla fondazione, gli uomini di Ricasoli si dividono tra chi si trasferisce e chi rimane nel villaggio più antico. Fin qui tuttavia ci siamo mossi in una dialettica politica relativamente semplice, tra città che creano villenove e comunità rurali che in tutto o in parte accettano di trasferirsi. In molti casi però la vicenda appare più complessa, con una molteplicità di attori politici, come si vede a Cherasco (Cuneo), un caso particolarmente chiaro perché disponiamo sia dell'atto di fondazione da parte del comune di Alba sia, poco tempo dopo, ddl' accordo tra Alba e la principale famiglia signorile della zona, i Manzano. ll 12. novembre 12.43 il podestà di Alba si recò sul pianoro di Cherasco per fondarvi una villanova, dichiarando di farlo su richiesta degli uomini di Bra, perché 11. attorno ai signori di Bra e ai marchesi di Monferrato. si riunivano i nemici dell'imperatore; in effetti si trattava solo di una parte della popolazione di Bra, villaggio che continuò a esistere nei decenni seguenti. Un mese dopo, il podestà strinse un patto con i signori di Manzano (un ampio consortile di una trentina di persone) per definire il trasferimento loro e dei loro uomini a Cherasco: i Manzano cedettero ad Alba - per una forte somma - la piena giurisdizione su una decina di castelli e villaggi del circondario, consentirono al trasferimento a Cherasco dei propri uomini e vi si trasferirono essi stessi. Ma, su quest'ultimo aspetto, furono definite alcune clausole interessanti: in particolare. gli albesi «dovranno far trasportare nel luogo di Cherasco le case, ovvero le coperture e i legnami delle case della detta chiesa e dei detti signori e i loro beni mobili, in ogni momento in cui sia richiesto, fino alla prossima festa di Pentecoste, a spese del comune di Cherasco; inoltre dovranno dare ai signori di Manzano stalli e terreni edificabili nei pressi della scarpata, nella direzione di Manzano, se vorranno abitarli; inoltre dovranno dare al prevosto della chiesa di San Pietro di Manzano un terreno edificabile e uno stallo accanto a quelli dei signori, dove sia possibile costruire la chiesa e le case» (AppendicealRigestum, pp. 12.5-3:z., docc. 106-107; cfr. Panero, 1994).
Comunità che si dividono (Bra), villaggi che vengono abbandonati (Manzano), signori che contrattano il proprio trasferimento nella villanova. L'esito di questo intreccio è un'evoluzione abbastanza complessa. Diversamente da Bra, i villaggi sottoposti ai Manzano scompaiono abbastanza rapidamente, assorbiti dalla villanova di Cherasco; ma questa scomparsa degli insediamenti non implica una diretta e immediata scomparsa ddl'identità di Manzano, dei suoi signori, della sua chiesa e dei suoi uomini. Chcrasco è una villanova ampia (la superficie del borgo è di circa 2.7 et-
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tari), con una struttura urbanistica a forte progettualità (un quadrilatero che ai nostri occhi evoca la forma delle città romane); ma al suo interno, nei pressi della scarpata oltre la quale si trova Manzano, si concentrano le case dei signori e la chiesa del villaggio, a costituire un quartiere con un'identità ben definita. Non è un caso eccezionale, spesso le villenove appaiono come fusioni imperfette di comunità più antiche, e queste articolazioni interne possono avere una durata rilevante, come si vede nel caso di Scarperia, vicino a Firenze, che ci porta alcuni decenni più avanti. Il comune di Firenze nel 1306 deliberò di fondare la "terra nuova" di Castel San Barnaba. che fu però sempre nota con il nome originale del luogo, Scarperia. Le identità degli abitanti. provenienti da diversi villaggi, non furono cancellate dal trasferimento a Scarperia, ma anzi ricordate e celebrate nel nome dei quartieri in cui la villanova fu divisa, che ripresero le intitolazioni delle chiese di alcuni dei villaggi originari. Quartieri assai diversi per popolamento: il rilevamento fiscale del 1356 registrò una distribuzione che andava dalle 3:z. famiglie del quartiere di Sant'Agata alle 104 di San Michele; eracosl perché gli abitanti non erano distribuiti omogeneamente nella villanova, ma conservavano l'unità dei villaggi di origine e si raccoglievano nei diversi quartieri secondo la propria provenienza. Firenze agl sul piano cerimoniale per consolidare l'identità comunitaria di Scarpcria. con la fondazione - nella piazza centrale - prima di una chiesa (che però faticò decenni a ottenere lo status di parrocchia. svincolandosi dall'antica chiesa parrocchiale di Fagna), poi di un convento agostiniano, infine di un oratorio destinato a una confraternita di nuova fondazione. Ma infine, nel 1408, le tensioni e i veri e propri scontri armati tra gli abitanti dei diversi quartieri indussero la Signoria di Firenze a intimare al podestà di Scarperia «che tu ordini e facci che questa divisione si levi», per «riducere la terra a uno corpo» (cfr. Friedman, 1996, pp. 197-:z.4:z.).
Nei casi di Cherasco e di Scarperia vediamo le tracce di un processo importante, ma difficile da cogliere nei dettagli, ovvero la ridefinizione delle solidarietà interne alla comunità: gruppi e famiglie che arrivano da villaggi diversi si trovano ad abitare in un villaggio nuovo, a rifondare le reti relazionali, a dover costruire pressoché dal nulla i funzionamenti politici e sociali della comunità. La creazione della comunità implica il superamento e la fusione delle solidarietà preesistenti, e questo è difficile dove la forza delle identità di villaggio si è riprodotta nelle identità di quartiere, come appunto avviene a Scarperia. In generale però, gli abitanti di una villanova partono da un dato anomalo e vantaggioso: mentre nei villaggi di partenza spesso la giurisdizione era frammentata tra tanti signori e le condizioni
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giuridiche dei contadini erano quanto mai diversificate, la villanova è in linea di massima fondata da un singolo potere (re, principe o città che sia), che ha un pieno conuollo sulle risorse e definisce accordi in larga misura omogenei con i nuovi abitanti. Le condizioni economiche e sociali degli uomini restano estremamente varie, non si tratta certo di un ceto contadino omogeneo e paritario; ma questi uomini, originari di villaggi lontani e di contesti politici diversi, si trovano ora a condividere uno stesso villaggio, uno stesso signore e condizioni giuridiche e fiscali affini.
II
Ribellarsi
Resistenza e rivolta Se si pensa a una forma di azione importante e di grande impatto politico da parte dei contadini medievali, la prima e più immediata immagine spesso è la rivolta armata: l'assalto al castello, gli incendi, i forconi usati per contrastare le spade degli aristocratici. Questo capitolo è però posto alla fine del volume per sottolineare che le rivolte non sono affatto la normalità, ma l'eccezionalità rispetto a una vita politica contadina che - come abbiamo visto fin qua - è fatta di molte azioni {comprese le piccole forme di resistenza, l'occultamento del raccolto, le fughe ecc.) che si sviluppano nel quotidiano, in forme magari conflittuali, ma in genere meno violente e meno destabilizzanti. Le rivolte vanno situate nel contesto di questa articolata azione politica contadina e devono essere viste come eccezioni, scelte estreme e pericolose: il conflitto violento è spesso figlio della disperazione e il più delle volte è destinato a essere sconfitto. È quindi una distorsione, negli studi degli ultimi decenni, l'attenzione eccessiva e quasi ossessiva per le rivolte, che non costituiscono in alcun modo l'ossatura dell'azione politica e della resistenza contadina. Ma è un'attenzione che gli studiosi odierni condividono con molti osservatori contemporanei perché, se le ribellioni non sono né normali né vittoriose, sono senza dubbio sconvolgenti. I contadini che prendono le armi in autonomia, entrano nelle città, talvolta arrivano di fronte al re e lo minacciano: da ogni punto di vista la rivolta è un ribaltamento dei ruoli sociali, un vero e proprio mondo alla rovescia. Non è certo casuale se eventi violenti e brevissimi - come la Jacquerie in Francia nel 13 58 o la rivolta contadina in Inghilterra nel 1381 - ci hanno lasciato fonti abbondanti, fatte di atti ufficiali, relazioni, corrispondenze, ma anche narrazioni di cittadini e nobili, che riflettono l'urgenza di narrare un avvenimento quanto mai anomalo.
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La rivolta è difficile e pericolosa, ci si ribella quando si ritiene di avere qualche concreta possibilità di vincere, e soprattutto quando si è messi spalle al muro da un cambiamento nell'azione dei potenti o nella pressione fiscale dello Stato. Per spiegare una rivolta non basta dire che i contadini sono poveri e oppressi: nd Medioevo (e non solo) i contadini sono sempre poveri e sostanzialmente oppressi; se queste fossero ragioni sufficienti per ribellarsi, la domanda non sarebbe "Perché si sono ribellati nd tale anno?", ma "Perché non si ribellavano sempre?". La rivolta è un evento eccezionale e l'anomalia richiede una spiegazione, che deve essere contestuale e congiunturale: deve partire non dall'azione contadina, ma da un contesto costituito dall'evoluzione dei sistemi di potere in cui i contadini sono inseriti; e deve basarsi non sugli dementi permanenti e di lungo periodo, ma sugli dementi congiunturali e di mutamento, sulle dinamiche che in un determinato tempo e luogo hanno indotto alla rivolta.
Le rivolte nell'Alto Medioevo Possiamo partire dal caso più noto di azione armata contadina nell'Alto Medioevo. Nell'84r, nel pieno della guerra tra i figli di Ludovico il Pio, l'imperatore Lotario cercò aiuto tra i Sassoni, e in particolare tra gli Stellinga, gruppi di basso livello sociale, garantendo il rispetto delle loro norme consuetudinarie. Gli Stellinga accettarono e nell'anno seguente ottennero alcuni successi militari. Lotario, invece, sconfitto dai fratelli, arrivò a stipulare con loro una pace e gli Stellinga, che continuarono nella loro azione armata, furono sconfitti due volte, prima da Ludovico il Germanico, poi dall'aristocrazia sassone (cfr. Rembold, 2.or8 ).
È una vicenda nel complesso breve, come molte altre di cui parleremo in questo capitolo, ed è stata per lo più letta come una rivolta contadina in reazione alla conquista della Sassonia da parte dei Carolingi, con la conversione al cristianesimo imposta con violenza da Carlo Magno; ma Ingrid Rembold, che ha studiato a fondo la Sassonia dd IX secolo, ha espresso parecchi dubbi, in modo convincente, notando prima di tutto che dalla conquista carolingia alla rivolta degli Stellinga passa parecchio tempo, una o due generazioni di Sassoni che vivono in pace e sono in larga misura integrati nell'Impero. Il contesto che ci permette di comprende-
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re la rivolta non è costituito dalla conquista carolingia e dalla cristianizzazione forzata, ma dalle guerre di successione tra i figli di Ludovico il Pio; al contempo è importante notare come l'azione degli Stellinga non nasca spontaneamente, ma da una precisa richiesta di Lotario; e infine la loro richiesta non è rivoluzionaria, ma piuttosto conservatrice, dato che chiedono la conferma delle loro consuetudini ( il cui contenuto ci resta purtroppo ignoto). È probabile che Lotario, alla ricerca di sostegno militare in un momento particolarmente difficile, si sia appoggiato su forme di socialità preesistenti nella popolazione sassone, assemblee e comunità che in questa fase si rivelano particolarmente utili dal punto di vista militare, anche perché sono attive nei territori controllati dal fratello e rivale di Lotario, Ludovico il Germanico. Non è un dato da poco, dimostra una capacità degli strati sociali inferiori di coordinarsi, di agire militarmente su vasta scala e di entrare in comunicazione politica con i vertici del potere; ma non per questo si può leggere la vicenda degli Stellinga come una rivolta, un modo per mettere in discussione l'intero assetto politico del regno. Da cosa nasce quindi la repressione attuata prima da Ludovico, poi dall'aristocrazia sassone? Essenzialmente da due cose: da un lato gli Stellinga erano stati gli alleati di Lotario e questo, nonostante la pace raggiunta dai fratelli a Verdun nell'843, ovviamente provoca l'ostilità di Ludovico nei loro confronti; inoltre - ed è il dato forse più rilevante - l'azione armata dei ceti inferiori è una violazione di un modello sociale fondato sul dominio dell'aristocrazia fondiaria e militare, a cui è riservata la guida di ogni azione armata. Se quindi gli Stellinga sono una minaccia per il potere di Ludovico quando combattono al fianco di Lotario, diventano una minaccia per l'ordine politico nel suo complesso quando continuano a combattere autonomamente, dopo la fine del conflitto tra i re carolingi. E perciò non sarà solo Ludovico, ma l'aristocrazia sassone a reprimere la loro azione. Come abbiamo già visto (cfr. CAP. 6), in età carolingia è chiara la volontà regia di affermare l'idea che sia illegittima qualunque azione politica e armata dei contadini (e più in generale dei pauperes) che non sia al servizio del re, anche se condotta per la difesa del regno. Questa illiceità dell'azione militare dei ceti inferiori si vede bene in una vicenda non lontana nel tempo: nell'859 i Vichinghi penetrarono nel territorio francese e il vulgus si organizzò tra Senna e Loira in una coniuratio per combatterli, ma furono massacrati dai nobili franchi. La vicenda può sembrare contraddittoria,
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dato che i nobili massacrano chi combatte per difendere il territorio dalle incursioni vichinghe; ma l'intervento contadino è illecito di per sé, proprio in quanto azione militare condotta dal vulgus. Combattere è un comportamento non adeguato alla condizione dei ceti inferiori. È significativo il lessico con cui le cronache contemporanee, scritte nelle grandi chiese del regno, qualificano le diverse azioni: il vulgus francese che ha combattuto contro i Vichinghi ha agito «incautamente», gli Stellinga «irrazionalmente», mentre gli aristocratici sassoni sono intervenuti «nobilmente» a reprimere la rivolta (cfr. Devroey, 2.006, pp. 349-50 ). Anche un'altra vicenda, di un secolo e mezzo dopo, mostra una capacità di azione contadina su larga scala, senza però assumere connotati di vera e propria rivolta: nel 996 in Normandia i "rustici" (termine generico, ma che rimanda comunque a un mondo contadino) riuniscono assemblee sia a livello di villaggio sia a livello regionale, nelle quali presentano una serie di richieste relative soprattutto alle forme di prelievo e ai diritti d'uso collettivi sugli incolti. L'azione non sembra assumere connotati violenti, diversamente dalla reazione degli inviati del duca di Normandia, che reprimono con la forzale richieste contadine (Gowers, 2.013). Ben poco di rivoluzionario nell'azione di questi contadini: usano le assemblee, un modello politico proprio della tradizione carolingia; chiedono un alleggerimento fiscale e una garanzia d'uso degli incolti; non si ribellano, non agiscono violentemente. Non è una rivolta, ma una contrattazione politica che nei suoi obiettivi non è radicalmente diversa da molte altre {cfr. CAP. 5), ma che assume forme anomale poiché si articola su un'intera regione invece che su un singolo villaggio; ma anche questo può essere compreso grazie al contesto: l'ampiezza dell'azione contadina si modella sulla struttura di potere, perché il confronto non è condotto con un singolo signore di castello, ma con il duca di Normandia, potere egemone a livello regionale. Questa immagine dell'azione contadina che si modella sui quadri di potere con cui si confronta è importante per comprendere la fase in cui le rivolte contadine diventano rilevanti.
Il Trecento Dobbiamo infatti spostarci agli ultimi secoli del Medioevo per trovare vere e proprie rivolte contadine, movimenti ampi e violenti, che superano la dimensione del singolo villaggio per allargarsi a una regione o a un inte-
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ro regno fino a mettere in discussione alcuni elementi di fondo del sistema politico. La nuova forza dei poteri principeschi e regi offre sia un motivo sia un contesto adeguato alle rivolte: un motivo, nella nuova pressione fiscale che mette in difficoltà l'economia contadina; un contesto, perché questa azione fiscale si proietta in forme sostanzialmente omogenee sull'intero regno o su ampie regioni, al cui interno le comunità contadine - che nei secoli precedenti agivano ognuna per conto proprio, a confrontarsi con il singolo signore - si trovano ad avere problemi analoghi e lo stesso interlocutore. In altri termini, il consolidamento di un potere regio o principesco su larga scala suggerisce anche al mondo contadino forme di azione politica su larga scala. Più nello specifico, è il Trecento il secolo in cui sono più intensi e numerosi i movimenti di ribellione, nelle campagne e soprattutto nelle città {le rivolte urbane sono sempre molto più numerose di quelle rurali). Diversi elementi convergono a rendere questo secolo particolarmente inquieto: l'eccessiva pressione demografica, tra XIII e XIV secolo, porta a fasi di crisi e a un generale squilibrio tra uomini e risorse; il successivo crollo conseguente alle carestie e alla Peste Nera del 1348 ristabilisce questo equilibrio, ma induce regni e principati ad aumentare la pressione fiscale su un numero ridotto di sudditi. Al contempo il Trecento è un periodo di generale insicurezza bellica, connessa a diverse lotte di successione e soprattutto alla Guerra dei Cent'anni, una serie di conflitti che oppongono i re di Francia e d'Inghilterra tra 1337 e 1453; conseguenza diretta di questo impegno bellico è una crescente pressione fiscale, perché la guerra è sempre il principale capitolo di spesa dei regni, e a ogni fase di guerra deve corrispondere un aumento del prelievo. È questo il contesto cronologico in cui ritroviamo le più note rivolte contadine, la cui frequenza, ampiezza e intensità cala invece lungo il Quattrocento, quando la minore tensione militare porta anche a un ridursi delle pressioni fiscali. Due sono le rivolte contadine più importanti di questo secolo, la Jacquerie in Francia nel 1358 e la rivolta inglese del 1381; un buon punto di partenza può essere il racconto delle due vicende, entrambe intense e brevissime. LaJacquerie nacque alla fine di maggio del 1358, quando gli uomini del villaggio di Saint-Leu d'Esscrent massacrarono nove gentiluomini, per ragioni che non ci sono chiare. nmovimento si diffuse in molti villaggi: l'intera tic dc France, parti di Piccardia, Artois, Normandia, Champagne e Lorena. I contadini diedero vita ad assemblee e a un movimento che i cronisti definiscono in forme molto generi-
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che (sovversione, terrore ecc.), individuando i ribelli con il nome diJacques (un nome comune, molto diffuso tra gli strati inferiori della popolazione). Erano migliaia di contadini, che trovarono un capo in Guillaume Carie, che però di fatto non riuscì a controllarli. La ribellione si saldò con la città, anzi con la capitale:, dove trovò l'appoggio di Etienne Marcel, il prevosto dei mercanti di Parigi che in quel momento aveva il controllo della città. Ma gli Jacques furono sconfitti e dispersi dalle truppe del re di Navarra il 10 giugno (cfr. Bourin, 2.008). In Inghilterra nel 13 81, tra fine maggio e fine giugno, sembrò vacillare l'intero sistema politico. Al culmine di una serie di anni di pesante imposizione fiscale (soprattutto attraverso la poli tax, una tassa imposta sulla base del numero di abitanti), la rivolta ebbe inizio in un villaggio dell'Essex, per estendersi rapidamente all'intera contea e al Kent. I ribelli individuarono un capo in Wat Tyler e una guida spirituale nel predicatore John Ball, e sotto la loro guida prima presero Canterbury, poi encrarono a Londra, dove si unirono agli strati più bassi della cittadinanza. Tyler andò a trattare con il re, che si vide costretto a riconoscere le ragioni dei ribelli; ma poi, nel giro di un paio di giorni, l'aristocrazia e la corte si riorganizzarono, Tyler venne ucciso e i ribelli duramente repressi (cfr. Hilton, Aston, 1984).
Diversi aspetti sono comuni a queste due rivolte: le dimensioni, a coinvolgere molte regioni del regno; la nascita del movimento nelle campagne e la sua saldatura con le città; l'occupazione della capitale; il tentativo (riuscito in Inghilterra) di accedere a un confronto politico diretto con il re; il senso di forte minaccia percepito dall'aristocrazia, che vede messi in discussione alcuni fondamenti del proprio potere; e infine l'estrema brevità di entrambe le vicende, che in poche settimane esauriscono la propria parabola. Diverse, con un carattere meno violento ma sicuramente più endemico, sono le vicende delle Fiandre tra 1323 e 1328 e dei Tuchins, nella Francia centrale, tra 1363 e 1384. Nel 1305 le Fiandre, dopo una dura guerra, ottennero l'indipendenza dal Regno di Francia, impegnandosi però a pagare un pesante tributo. Nel 132.0, pervia ereditaria, divenne conte delle Fiandre Louis de Nevers: un principe debole e soprattutto con pochi legami con la società fiamminga. È quindi un contesto fatto di un potere principesco fragile e di un carico fiscale pesantissimo che ci permette di capire la ribellione, che scoppiò nel 132.3 con tre caratteristiche chiare: fu un'azione che unì città e campagna, era diretta prima di rutto contro il fisco e si organizzò in assemblee. Le assemblee presero il potere, esclusero il principe e i suoi ufficiali e, sopratmtto, conservarono per cinque anni un ampio controllo sulle Fiandre, fino a essere sconfitte dall'intervento armato del re di Francia (cfr. Tebrake, 1993).
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Ancora più delle assemblee fiamminghe, i Tuchins sono lontani dall'immagine di un'improvvisa e violenta ribellione: fu piuttosto una forma di banditismo endemico che si sviluppò in Alvernia a partire dagli anni Sessanta dd Trecento. Nel contesto della Guerra dei Cent'anni, con le sue conseguenze fatte di peso fiscale e di saccheggi da parte degli eserciti, bande di qualche decina di uomini compirono rapine e attacchi, ai danni dei nobili e delle truppe inglesi. Non una vera e propria rivolta, quindi, ma una forma di banditismo {e il nome Tuchins forse rimanda a quelli che stanno nella touche, "alla macchia•): è utile però presentare qui la vicenda perché fu un'azione condotta da gruppi socialmente abbastanza definiti, contadini che si opponevano al fisco regio e ai comportamenti dei nobili. Ed è una vicenda che poté durare decenni perché questi banditi erano tutt'altro che dei marginali, ma uomini ben integrati nelle comunità locali, che poterono trovare appoggio nei gruppi che subivano le pressioni e le violenze dovute alle guerre. Fu il ritorno di una pace rdativa e di una certa stabilità a far poi perdere ai Tuchins il consenso el'appoggio delle popolazioni locali {cfr. Hilton, 1973, pp. m.-11).
Nuovi orizzonti politici Le vicende descritte sono profondamente diverse da molti punti di vista, ed è soprattutto evidente la differenza tra le prime due (ribellioni brevi e violente, che per un attimo sembrano in grado di mettere in discussione l'assetto politico del regno) e la lunga durata delle altre due (peraltro molto diverse tra di loro, con una forma di potere organizzato nelle Fiandre e un banditismo endemico in Alvernia). Tuttavia possiamo individuare alcuni punti comuni e qualificanti in queste rivolte contadine trecentesche, ricordando sempre che costituiscono comunque una netta minoranza rispetto alle ben più numerose rivolte urbane. Rispetto a tutte le azioni politiche presentate in questo libro, qui emerge in modo netto e sorprendente l'ampiezza di orizzonti dei ribelli: il quadro in cui agiscono è spesso il regno, talvolta una regione; siamo ben lontani dalle azioni condotte a livello di villaggio o di borgata, che costi• tuiscono il quotidiano della politica contadina. È un cambiamento profondo, dato che le forme di azione e di resistenza contadina che abbiamo visto nei capitoli precedenti nascono all'interno di un ben definito siste• ma di relazioni: «in una piccola città la rivoluzione si fa tra persone che si conoscono e si detestano carnalmente, cordialmente, personalmente» (Le Roy Ladurie, 1981, p. 114). Le grandi rivolte tardomedievali sono invece momenti in cui la resistenza contadina dà vita a un'azione che coordina
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persone e gruppi lontani, che non si conoscono, che trovano un terreno comune nelle esigenze politiche condivise. Si apre un sistema di comunicazione politica verticale (verso il principe) e orizzontale (tra le diverse comunità), e questo rappresenta un'indubbia radicale novità rispetto ai secoli centrali del Medioevo, in cui la dimensione locale era pressoché l'unica a cui i contadini potessero accedere. Questo è coerente con i nuovi quadri politici che si stanno affermando, più ampi, più solidi e soprattutto più pesanti nel loro prelievo fiscale. Proprio nelle tasse troviamo il nodo comune delle rivolte, alla cui origine riconosciamo sempre un nucleo fondamentale di resistenza alla pressione fiscale regia: il contesto specifico che unisce queste vicende è quindi il XIV secolo e soprattutto l'intensa conflittualità di questi decenni, che impone grandi spese al regno e quindi un'alta pressione fiscale sui sudditi. Tre implicazioni derivano da questo nucleo originario: le richieste dei ribelli, che potremmo definire conservatrici; le violenze e i saccheggi; il disprezzo nei confronti dell'aristocrazia che ha fallito nei suoi compiti. Vediamo i tre aspetti distintamente. Una ribellione non implica necessariamente un tentativo di imporre con la forza un nuovo ordine: anzi, le rivolte contadine del Trecento sembrano più che altro orientate a opporsi alla novità, a riaffermare antiche consuetudini. I contadini non si rifiutano di pagare le tasse, né tanto meno pensano di abbattere il sistema di potere regio; rifiutano invece alcuni elementi di novità e soprattutto l'appesantimento della pressione fiscale per esigenze belliche. Su questa specifica esigenza di conservazione di un modello fiscale tollerabile, si inseriscono saccheggi e distruzioni che vanno ben al di là di questi obiettivi e sembrano nascere da un accumulo di frustrazioni: il malcontento fiscale è l'innesco, che trova materia prima nella generale insoddisfazione e nelle difficoltà permanenti del mondo contadino, che è sempre ai limiti della sussistenza. I saccheggi trovano poi sostegno ideologico in una polemica antinobiliare, che non è diretta contro il potere signorile nel suo complesso, ma contro i comportamenti di quei nobili che sono venuti meno al loro dovere di proteggere i sudditi. Ciò che i contadini chiedono è una protezione prima di tutto militare, è il dovere dei nobili di tenere il saccheggio nemico lontano dalle proprie terre e dai propri dipendenti; ma è anche una protezione fiscale, che deve nascere dalla capacità dei nobili di frenare le richieste del regno, di agire da mediatori efficaci tra il potere centrale e le società locali. Su entrambi i piani i nobili hanno fallito: le guerre sono continue e hanno un impatto
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devastante sul mondo contadino, che al contempo subisce l'azione sfrenata degli agenti del fisco. Questa componente specifica di avversione contro i nobili e i signori locali si può ritrovare in un caso di impatto molto più limitato rispetto alle vicende descritte fin qui, ma che presenta un'anomalia importante: fu una ribellione che ottenne qualche risultato. A fine Trecento, nelle montagne del Canavese, in Piemonte, gruppi di ribelli furono identificati con il nome di Tuchini, che sembra riflettere il ricordo delle forme di resistenza contadina in Alvemia. Le protagoniste furono in questo caso le comunità delle valli alpine, che si opposero ai propri signori e trovarono un appoggio nd principe (il conte di Savoia), che nel 1385 impose un alleggerimento della pressione signorile, condannando però le comunità a una pesante multa. L'equilibrio cosi raggiunto non fu però sufficiente per le comunità, che diedero vita a un'aperta ribellione, con la cacciata di molti nobili dai loro castelli (anche se gli episodi di violenza furono nel complesso limitati). In una nuova sentenza del 1391, Amedeo VII, condannò le comunità, impose nuove multe e riaffermò il dominio signorile su.I territorio, ma al contempo ampliò le concessioni e le tutele nei confronti delle comunità (cfr. Barbero, 2.008; Gravela, 2.019 ).
La vicenda dei Tuchini ha due particolarità, direttamente connesse: la saldatura tra principe e comunità in opposizione ai signori locali e la conseguente vittoria (sia pur parziale) dei ribelli È una vicenda minore, che però ci presenta un meccanismo politico fondamentale per comprendere le rivolte e i loro occasionali successi, che non nascono solo dall'azione dei contadini contro i signori o contro il principe, ma da una triangolazione politica, in cui i ribelli in alcuni casi sanno muoversi con consapevolezza e abilità. Vediamo due casi, tratti da contesti vicini, ma opposti nei loro sviluppi Nel Parmense, negli anni Ottanta del Trecento, i Visconti condussero una politica fiscale molto pesante, tendente a rafforzare il potere della città e la sua capacità di prelievo, a scapito sia dei contadini (gravati dai pagamenti) sia dei signori (privati della loro capacità di prelievo e controllo). Approfittando di un momento di debolezza dinastica dei prìncipi, nd 13 85 le comunità rurali dell'area diedero vita a un'ampia ribellione, migliaia di uomini entrarono a Parma e la saccheggiarono. La pace fu raggiunta pochi mesi dopo, quando i Visconti confermarono in pieno i poteri dei signori locali, che avevano manovrato l'azione militare contadina a proprio favore (cfr. Gamberini, 2.016, pp. 2.09 ss.). Nel 1462., nel territorio di Piacenza, le comunità si ribellarono contro i signori e arrivarono a minacciare l'occupazione della città, in quella che fu probabilmente
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la maggiore rivolta contadina dell'Italia quattrocentesca. L'ostilità nei confronti dei signori derivava dalla loro incapacità di difenderli dalla pressione fiscale degli Sforza: il tentativo dei ribelli fu quindi pressoché opposto a quanto visto a Panna, dato che qui le comunità lottarono per ottenere una sottomissione diretta ai prlncipi, saltando la mediazione dei signori, che avevano fallito nella loro funzione di proteggere i sudditi dalle pressioni dello Stato. Ma in questo caso i contadini - isolati e ingannati dagli ufficiali ducali - ottennero solo una dura repressione (cfr. Gentile, 2.016).
La vicenda di Piacenza ci ha portato avanti nel tempo, nel pieno Quattrocento, un periodo che però deve essere visto nelle sue caratteristiche peculiari, in parte diverse da quelle del secolo precedente.
Il Quattrocento Il xv secolo è nel complesso un periodo un po' meno conflittuale, in cui termina la Guerra dei Cent'anni e in generale si combatte un po' di meno: non è un secolo tranquillo né pacificato, ma le guerre non innescano quel processo di crescita della pressione fiscale che abbiamo visto per il Trecento. Non scompaiono ovviamente le rivolte contadine (né tantomeno quelle urbane), ma non ritroviamo casi di estrema violenza e di minaccia diretta al re come quelli della Jacquerie e della rivolta inglese. Due sono i casi più rilevanti, la rivolta in Normandia e la lotta contro le remensas in Catalogna, e in entrambi i casi un contesto bellico ci aiuta a comprendere la vicenda. La vittoria nella battaglia di Azincourt (1415) aveva dato il via alla conquista inglese della Normandia, a cui le comunità locali risposero con forme di guerriglia, che di fatto erano anche una supplenza ddl' incapacità aristocratica a controllare e proteggere il territorio. Così la rivolta assunse connotati sociali, come contestazione di una nobiltà che era venuta meno ai propri doveri militari. Su questa base di resistenza endemica, nel 1435 si sviluppò una vera e propria esplosione di violenza, che per un quindicennio prosegul. con distruzioni, villaggi abbandonati e una generale crisi economica e demografica della regione, finché nel 1449 il re di Francia Carlo VII conquistò una Normandia pressoché desertificata (cfr. Fcller, 2.007, pp. 2.71-3).
La Catalogna del Quattrocento ci offre una storia di azione militare contadina ma, più che una vera e propria ribellione, è una saldatura milita-
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re tra il potere regio e le istanze contadine contro il potere signorile, in una dinamica in cui le comunità sono strumenti dell'azione antisignorile del re. In Catalogna si era affermato, almeno dal XIII secolo, il sistema delle remensas: una sottomissione personale pesante cd ereditaria, da cui il contadino poteva liberarsi solo con il pagamento di un rilevante diritto di riscatto (detto appunto remensa ). A questo era collegato il diritto riconosciuto ai signori di esercitare malos usos (le cattive consuetudini) nei confronti dei dipendenti (cfr. CAP. 6). Contro questo sistema giuridico le comunità catalane avviarono una resistenza a partire dalla fine del Trecento, che assunse maggior forza negli anni Quaranta del Quattrocento. Le comunità ottennero da Alfonso v prima il diritto a riunirsi in assemblea, poi l'abolizione delle remensas (1455). L'atto regio era destinato soprattutto a ridurre gli spazi di autonomia della nobiltà, che quindi vi si oppose, fino a dar vita a una vera e propria guerra, al cui interno l'esercito regio trovò l'appoggio delle armate contadine che si organizzarono in molte aree della regione. L'unione di re e comunità permise di giungere alla vittoria contro l'aristocrazia, sancita nella sentenza di Guadalupe del 1486 che, pur tutelando i principali diritti signorili e mantenendo le forme di dipendenza personale, le allcggcrl sul piano del diritto e dei carichi economici (cfr. Orti Gost, 2015).
Sono due vicende che si sviluppano lungo i decenni e le generazioni e che si possono comprendere solo in un contesto ampio e soprattutto nel quadro dell'evoluzione dei poteri regi, che per le comunità contadine possono costituire un interlocutore ostile, ma anche (ed è evidente nella vicenda catalana} una potente risorsa politica. Le comunità entrano in un gioco politico ben più grande di loro, in un sistema di relazioni che i leader contadini dimostrano di conoscere e di saper sfruttare, ma che spesso trasforma i villaggi in strumenti militari e politici per obiettivi altrui (e soprattutto per l'opera di consolidamento del potere regio). Rispetto al Trecento, il contesto è parzialmente diverso, meno segnato dalla guerra e connotato invece da un'accresciuta capacità di azione ad ampio respiro dei re; ma alcune tensioni di fondo appaiono comuni: la centralità degli aspetti fiscali; la richiesta dei contadini ai signori di agire come efficaci protettori nei confronti delle minacce militari e delle richieste regie; la loro capacità di attivare legami politici vari, in senso sia orizzontale sia verticale. Molte altre rivolte coinvolgono gruppi contadini, ma nascono da una volontà politica cittadina o da istanze di riforma religiosa, non dalle esigenze del mondo rurale: è il caso degli hussiti in Boemia lungo la prima
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CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
metà del Quattrocento, della rivolta di Jack Cade in Kent nel 1450 o della nascita della confederazione svizzera. Movimenti politici che passano attraverso fasi di ribellione, in qualche caso di grandissimo impatto sulla storia europea; ma movimenti in cui i contadini sono comprimari, al seguito di istanze che non sono espressione peculiare della società rurale.
Contesti e o biettivi La Cronaca dei conti delle Fiandre, dopo la definitiva sconfitta dei ribelli nella battaglia di Casse! del 132.8, definisce la rivolta «questa peste degli uomini del popolo che si ribellano contro i superiori» (cfr. Tebrake, 1993, p. 1 ): una pestilenza, un fenomeno non umano, privo di controllo, che si trasmette per contagio da un villaggio all'altro. L'immagine è particolarmente efficace, a mostrarci l'atteggiamento dei prìncipi nei confronti dei contadini ribelli, esseri non del tutto razionali, mossi dall'istinto e dal contagio; la ribellione ai loro occhi non è altro che una pestilenza, che porta morti e distruzione, senza alcun vantaggio e senza alcun vero senso politico. Ma le parole della cronaca fiamminga ci ricordano anche l'eccezionalità delle rivolte: la paura che suscitano deriva anche dal fatto che - così come la peste - sono un pericolo reale, ma raro. E d'altronde abbiamo visto che non si può individuare la povertà contadina come motivo scatenante di una rivolta: la povertà è un dato pressoché permanente, la pressione sulle risorse contadine è sempre alta, tanto che spesso consente poco più che la sussistenza. Se fosse questa la causa scatenante, non si spiegherebbero i decenni privi di rivolte. È invece una questione di movente, mezzi e opportunità. Il movente è costituito in genere da un cambiamento (in peggio) della condizione contadina: un appesantimento dei carichi fiscali, una serie di guerre, il rifiuto signorile di accettare una norma regia a protezione dei contadini. Un mutamento che solo talvolta è legato a un singolo avvenimento (ad esempio una sconfitta del re, che lo costringe ad aumentare le tasse), ma in ogni caso si tratta di qualcosa di relativamente rapido, che si trasforma in modo visibile nel giro di pochi anni, un mutamento per cui le comunità e i singoli percepiscono il peggioramento delle proprie condizioni confrontando il presente con un passato prossimo. I mezzi sono politici ed economici: da un lato le relazioni che le comunità contadine sanno intessere con poteri alti e lontani, dal duca di Savoia
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al re d'Aragona; dall'altro sicuramente anche risorse economiche che permettono di organizzare, armare e nutrire le bande contadine che in alcuni casi sono assai numerose. La questione delle risorse mette in luce come questi movimenti non siano composti unicamente da contadini miseri, al limite della sussistenza: gli strati più bassi sono invece la massa, la mano d'opera delle élite locali, dotate di mezzi economici e della strumentazione politica necessaria per suscitare e orientare la rivolta. L'opportunità ovviamente dovrà essere individuata di volta in volta in specifiche congiunture politiche (crisi dinastiche, guerre che mutano radicalmente i quadri politici ecc.); ma, perché si apra un'opportunità di ribellione, una premessa fondamentale è sicuramente l'esistenza di un potere superiore, un re o un principe, grazie al quale le comunità possono attivare quella triangolazione politica (tra sudditi, signori locali e potere regionale) che è alla base di molte forme di resistenza e talvolta offre opportunità anche per movimenti di rivolta. Come in altri casi, anche qui vediamo la capacità delle comunità contadine - e soprattutto delle loro élite - di fare un uso strategico della pluralità di giurisdizioni, come è evidente ad esempio per i Tuchini piemontesi, per i contadini catalani, per le comunità dei territori di Parma e Piacenza. Contesti specifici danno quindi vita a movimenti contadini violenti che - con tutte le varianti del caso - ruotano principalmente attorno ai temi del fisco, della protezione, delle limitazioni al potere signorile. Sono richieste concrete, spesso piuttosto specifiche, ma sostenute anche da grandi ideali politici: un'idea di eguaglianza, la contestazione del fallimento dell'aristocrazia, la ricerca di un re pacificatore e protettore dei deboli, la libertà (un termine molto ampio, che assume significati profondamente diversi di volta in volta). Tutto ciò prende forza dall'ampio coordinamento di comunità disperse, che è indubbiamente un carattere nuovo e peculiare delle rivolte tardomedievali, più che la violenza (ben presente nella quotidianità, e usata anche contro i signori; cfr. CAP. 7), o la presenza di istanze ideali, come la libertà o il dovere dei nobili di proteggere i propri sudditi (che emergono a tratti anche in momenti di contrattazione all'interno dei villaggi; cfr. CAPP. se 6). Capacità di sfruttare le opportunità favorevoli, uso strategico della pluralità di giurisdizioni, elaborazione di ideali politici, costruzione di reti relazionali ampie: tutto ciò ci mostra una significativa e accresciuta consapevolezza politica, che ovviamente non appartiene all'intera società contadina (una società che, abbiamo visto, è da ogni punto di vista ampiamen-
CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
te stratificata). E questo si traduce anche in una nuova consapevolezza dd potere dello scritto, come ci mostra l'impegno a produrre e a distruggere documenti: produrre, perché l'ampiezza dell'orizzonte politico e la necessità di confrontarsi con i poteri alti rendono indispensabile la produzione di una specifica documentazione dei ribelli (dalle lettere per tenere in contatto le comunità, alle suppliche destinate a daborare le proprie richieste e a inoltrarle a corte); distruggere, perché vediamo qui quello che diverrà un dato costante in molte rivoluzioni dell'età moderna e contemporanea, ovvero la distruzione degli archivi, che non è un gesto gratuito di violenza, ma un ben preciso obiettivo di molte ribellioni (basti pensare all'importanza degli archivi fiscali, la cui distruzione costringe il regno a una profonda revisione delle informazioni indispensabili per gestire il prelievo). Tutto ciò ci mostra come le rivolte tardomedievali siano lo sviluppo coerente delle forme di azione politica contadina dell'intero Medioevo, ma al contempo segnino un indubbio salto di qualità, un importante arricchimento delle possibilità di azione. Questo non significa certo che i contadini alla fine del Medioevo vivessero meglio dei loro predecessori; anzi, le rivolte sono spesso segno di disperazione, perché solo un disperato si lancerebbe in imprese così pericolose e quasi sicuramente votate al fallimento. Ma le rivolte ci aiutano a vedere che alla fine del Medioevo i contadini, pur nella loro insuperabile debolezza economica e politica, dispongono di qualche strumento in più in termini di consapevolezza e di reti relazionali.
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Le azioni, i loro tempi e i loro limiti
Nei capitoli precedenti abbiamo seguito alcuni caratteri fondamentali delle azioni politiche contadine nel Medioevo, spesso con ampi salti cronologici e geografici, per delineare alcuni connotati fondamentali e le principali variabili di queste azioni. In conclusione, questi dati così frammentati saranno ricondotti ad alcune considerazioni generali, per poi inquadrare i diversi processi in una cronologia che colleghi le azioni contadine al contesto dei poteri con cui queste azioni interagiscono (cfr. CAP. 1).
Forme della politica Possiamo delineare tre caratteri di fondo dell'azione politica contadina: la varietà delle forme, il ricorrere di alcune tensioni fondamentali e i processi di differenziazione sociale e di costruzione dell'élite. - Forme: l'azione politica contadina nel Medioevo non corrisponde necessariamente né al villaggio, né alla comunità, né alla cooperazione. In tutti i capitoli sono emerse sia forme di azione individuale sia conB.itti interni alla società contadina, che in nessun modo può essere ritenuta un pacifico mondo di collaborazione paritaria. La cooperazione c'è, ovviamente, su molti piani diversi, ma l'azione contadina non si esaurisce qui e le stesse azioni collettive si organizzano in modi, forme e quadri territoriali molto diversi: la comunità di villaggio è un'opzione, certo importante, ma non obbligata. Lo stesso rapporto con i potenti non può in alcun modo essere ridotto a una prospettiva di opposizione, e dà invece vita a una dinamica molto frammentata e dialettica, che integra forme di collaborazione e di conB.itto. Soprattutto se ci si concentra sulle azioni politiche individuali, si vede bene che, tra il proprio signore e i propri vicini, non sempre un uomo si schiera con i vicini. I potenti - a tutti i livelli - costituiscono un
CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
interlocutore e una minaccia, ma anche un'opportunità per un contadino politicamente attivo. - Terra e libertà: sono le tensioni fondamentali che guidano gran parte dell'azione contadina, ma i due termini assumono via via significati profondamente diversi. La terra è ovviamente il fondamento di ogni forma di sussistenza contadina e torna continuamente al centro della scena: il suo possesso, i censi dovuti al proprietario, le forme di organizzazione del lavoro, il rapporto tra coltivo e incolto e cosl via. E al fianco della terra, ricorre il tema della libertà, con tutti i significati che questo termine assume: libertà dalla servitù, libertà di accedere ai tribunali regi, libertà di muoversi verso nuovi villaggi, libertà dal prelievo signorile (prelievo di soldi, prodotti e lavoro). Si intrecciano quindi nozioni e livelli di libertà molto diversi, mal'elemento comune, che corre sotto traccia a molte azioni - dai placiti carolingi alle rivolte trecentesche - è il tentativo di alleggerire la pressione che grava sulle persone, sulle risorse e sul tempo lavorativo dei contadini. Sono sempre quote di libertà, perché non c'è mai nell'orizzonte ideale di questi contadini la prospettiva di liberarsi da ogni dominio: ciò che si può fare è negoziare le forme e l'intensità del dominio, e talvolta scegliere a quale signore sottomettersi. - Élite: in tutti i contesti è emerso con evidenza come il mondo contadino non costituisca una società di uguali. Nella nozione ampia di contadini che ho adottato (la società rurale non nobile) rientrano persone di livelli socioeconomici molto diversi, dai servi, ai braccianti che vivono ai limiti della sussistenza e via via fino ai medi proprietari che hanno più terre di quelle che riescono a coltivare, e ne distribuiscono quindi parte in affitto. Ed è emerso dai diversi capitoli come questa stratificazione sociale non sia un dato statico, ma oggetto di continua manipolazione: non solo esiste un'élite contadina, ma molte delle azioni che possiamo ricostruire sono in effetti tentativi di singoli o gruppi per diventare élite. Si scambia terra, si creano relazioni, si rappresenta la comunità, si serve il signore: le azioni più diverse hanno spesso una finalità comune, quella di consentire un'ascesa sociale rispetto ai propri vicini, sulla base della ricchezza, delle reti relazionali e delle funzioni politiche. Più nello specifico, la mediazione è un elemento costitutivo della condizione d'élite: è una capacità relazionale, basata sull'integrazione di circuiti sociali diversi e lontani; ma è anche un fatto di competenze, fondato sulla conoscenza e la manipolazione di norme e linguaggi che gli altri membri della comunità non controllano.
LE AZIONI, I LORO TEMPI E I LORO LIMITI
Una cronologia dell'azione contadina Queste sono tensioni di lungo periodo, che corrono sotto traccia lungo tutto il Medioevo e attraverso tutti i capitoli di questo libro. È però possibile collocare questi processi nel tempo, collegare le diverse azioni politiche all'abbozzo di cronologia proposto nel capitolo 1, ovvero contestualizzare la politica contadina nel quadro degli interlocutori che la società rurale si è trovata via via ad affrontare. Il punto di partenza è l'Impero carolingio, contesto in cui si realizzano tre processi fondamentali: l'affermarsi di un apparato regio attento a conservare un rapporto diretto con i liberi, il consolidamento del dominio fondiario dell'aristocrazia e - soprattutto in Italia - una crescente centralità delle città. Tutti questi processi incidono pesantemente sulla possibilità e i limiti dell'azione contadina. È un contesto in cui appare possibile ed efficace una comunicazione politica tra la società contadina e gli ufficiali regi, che trova concreta espressione nei placiti in cui si confrontano signori fondiari e gruppi contadini, in processi in cui la vittoria dei potenti è un risultato probabile ma non scontato. L'Impero offre quindi una specifica possibilità di azione alla società rurale, e di questa possibilità i contadini - e soprattutto l'élite contadina- sanno fare un uso consapevole e a tratti vincente (cfr. CAP. 6). Ci porta però in una direzione diversa il secondo elemento che connota l'Impero, ovvero la crescita del dominio aristocratico, basato prima di tutto sull'enorme ricchezza fondiaria accumulata nelle mani di dinastie e chiese: è ovviamente un processo che limita gli spazi di azione contadina, e abbiamo visto che all'interno dei villaggi lalibertàcontadina è inversamente proporzionale alla concentrazione delle terre nelle mani di un singolo grande proprietario (cfr. CAP. 2); ma la presenza di un potente può anche essere un'opportunità, e nel quadro dell'Impero vediamo che si aprono contesti e opportunità per cui singoli esponenti dell'élite contadina sono in grado di attivare legami specifici con gli aristocratici e soprattutto con le chiese, ponendosi al servizio del potente (cfr. CAP. 8). In questo quadro dobbiamo porre il caso - isolato e certo anomalo - degli Stellinga, i gruppi di contadini sassoni attivi militarmente negli anni Quaranta del IX secolo: se rivelano una certa autonomia d'azione, il loro intervento è innescato dal regno, o meglio da uno dei re concorrenti, che appare in grado di entrare in contatto con i livelli inferiori della società saltando la mediazione dei potenti locali (cfr. CAP. u ).
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CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
Infine la crescente polarizzazione attorno alle città e ai vescovi, in particolare in Italia: si va in città (o nella capitale Pavia) per cercare i tribunali regi o per incontrare il conte (cfr. CAP. 6); qui si trova il vescovo, impegnato a ricondurre alla città i culti e le chiese delle campagne (cfr. CAP. 9 ); qui si trovano grandi monasteri con cui è utile o necessario entrare in relazione, come fanno sia Totone di Campione sia i liberi uomini di Bellagio nei confronti di Sant'Ambrogio di Milano (cfr. CAPP. 8 e 9 ). Nel x e XI secolo il regno non è più in grado di eludere la mediazione dei potenti, e questo appare come il periodo più oscuro per la società contadina: oscuro nella realtà, perché la pressione aristocratica sembra avere pochi freni, ma soprattutto oscuro nelle fonti e nella nostra conoscenza. Non è un caso se nel corso del libro la maggior parte degli esempi è tratta dall'età carolingia o dai secoli bassomedievali: la società contadina è visibile soprattutto quando può sfruttare la concorrenza tra poteri diversi ( i grandi proprietari fondiari e il regno, oppure i signori locali e le città comunali del XIII secolo e cosl via). Questa concorrenza può diventare una risorsa per i contadini, che usano i poteri alti per limitare la libertà di azione dei potenti locali, o si appoggiano a questi ultimi come efficaci mediatori verso il regno e le dominazioni regionali. La società contadina dimostra di essere in grado di fare un uso strategico della molteplicità di giurisdizioni, ma questa capacità tocca necessariamente il punto più basso tra X e XI secolo, quando le aristocrazie hanno la maggiore libertà di azione, con una limitata incidenza locale del potere regio. Non dobbiamo peraltro opporre troppo nettamente età carolingia e postcarolingia, poiché il dominio signorile del x secolo è lo sviluppo coerente del rafforzamento aristocratico avviato all'interno dell'Impero e grazie a esso, sostenuto prima di tutto dalla massiccia politica di redistribuzione attuata dai Carolingi. Ma dal punto di vista degli spazi dell' azione politica contadina, l'opposizione appare più netta: questi spazi si restringono, il confronto si concentra su una dimensione locale, nell' insuperabile squilibrio tra mondo contadino e grandi proprietari fondiari. Questo spostamento in sede locale delle dinamiche politiche ha un riflesso diretto nelle forme associative perché, in parallelo alla formazione di poteri locali nelle mani dell'aristocrazia, acquistano maggior forza le forme di cooperazione, i processi di delimitazione della comunità e quindi la capacità di contrattare con i signori (cfr. CAPP. 3, 4 e 5). Le comunità non si definiscono semplicemente in reazione alla nascita dei poteri si-
LE AZIONI, I LORO TEMPI E I LORO LIMITI
gnorili, si tratta piuttosto di due processi paralleli e connessi, che segnano il passaggio a una dinamica politica a dominante dimensione locale. Questa localizzazione della politica viene integrata ma non cancellata dalla formazione, lungo il Basso Medioevo, di nuove dominazioni regionali e poi nazionali: integrata, perché a partire dal XII secolo re, prlncipi e città vanno a costituire una rete di poteri superiori che limita l'autonomia signorile e fornisce alle comunità contadine un interlocutore in più; ma non cancellata, perché sia le dominazioni signorili sia le comunità di villaggio sono un demento permanente e di lunga durata delle campagne lungo il Basso Medioevo e l'età moderna. Tuttavia abbiamo visto che la definizione di "comunità di villaggio" pone qualche problema: il villaggio ha sicuramente grande rilievo come quadro di riferimento per l'azione contadina, ma non è un contesto unico, rigido e obbligato. Le forme della cooperazione (cfr. CAP. 3) mostrano nel modo più evidente come risorse diverse suggeriscano quadri organizzativi diversi, dalla borgata, al villaggio, alla valle. Non si tratta peraltro solo della cooperazione per lo sfruttamento delle risorse collettive, perché è più in generale l'azione politica collettiva che si organizza in forme diverse. È evidente come nelle campagne medievali siano attive molteplici identità collettive che coesistono in modo non necessariamente conflittuale, per cui si è al contempo abitanti di una borgata, di un villaggio, di una valle ecc. Di più: queste identità collettive sono oggetto di una continua ed efficace manipolazione, attraverso processi di delimitazione della comunità e dd territorio in cui entrano in gioco pratiche molto diverse, dalla cooperazione nello sfruttamento delle risorse fino ai riti religiosi {cfr. CAPP. 3, 4, 9 e 10 ). Proprio la dimensione religiosa mostra una potenzialità di aggregazione che non corrisponde alla comunità agraria: né la parrocchia né le confraternite sono un perfetto riflesso delle forme associative connesse alla cooperazione, ma ne sono piuttosto una rielaborazione, l'espressione della continua possibilità di manipolare e plasmare le forme comunitarie, che si ritrova in tutte queste diverse forme associative. Sono comunità di cooperazione, ma sono anche ambiti di duri conflitti interni: la consuetudine alla violenza, che non è un'esclusiva aristocratica, si innesta su meccanismi di segmentazione della società locale, che si articolano attorno ai conRitti per specifiche risorse collettive o alle lotte per il controllo della comunità (cfr. CAP. 7). Lungo il Basso Medioevo, il mutamento del contesto generale e la costituzione di ampi poteri di respiro regionale (principati, dominazioni
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CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
comunali, regni) incidono pesantemente sulla politica della società contadina, che può di nuovo trovare interlocutori alti con cui interagire e che possono fungere da contrappesi rispetto alla dominazione signorile locale. Si riaprono quindi le vie e le procedure che consentono talvolta di chiedere giustizia contro le richieste dei signori (cfr. CAP. 6), ma al contempo si apre un canale di prelievo fiscale che in parte sostituisce, ma in larga misura si sovrappone a quello signorile. Per entrambi gli aspetti - giustizia e fisco diventano centrali i mediatori, coloro che sanno parlare efficacemente con il potere centrale e sono in grado di incanalare nelle giuste direzioni le istanze delle comunità rurali. È una posizione di élite, costruita solo in parte in base alla ricchezza personale, molto più grazie alle conoscenze, alle reti rdazionali, alle competenze: la capacità di scrivere una supplica, la conoscenza delle norme e delle procedure della giustizia cittadina, la rete di rdazioni istituita con membri della corte. I meccanismi della mediazione {affidata a singoli, alle istituzioni di villaggio, alle assemblee locali o regionali) costituiscono una realistica rappresentazione degli equilibri politici locali, perché chi controlla la mediazione verso i poteri alti dispone di un forte strumento di controllo sulla comunità. Quando la mediazione fallisce, quando la pressione fiscale si accentua in modo significativo, può nascere la rivolta, che trova un contesto necessario proprio nelle grandi dominazioni tardomedievali (cfr. CAP. 11 ). È un contesto necessario per due ragioni: la causa scatenante è in molti casi la nuova pressione fiscale, dovuta sia allo sviluppo dell'apparato di governo sia all'aumento dei costi ddla guerra; al contempo, è solo nd quadro di dominazioni di ampie dimensioni che le comunità contadine si trovano a condividere condizioni fiscali e interlocutori politici, tanto da rendere possibile e sensata una forma di resistenza - più o meno violenta - che non si attui a livello di villaggio, ma su un quadro regionale o nazionale. Le rivolte falliscono pressoché tutte, ma sono importanti perché mostrano l'affermarsi alla fine del Medioevo di nuovi quadri e forme dell'azione politica contadina.
Bibliografia
Per approfondire Segnalo qui, per ogni capitolo, i testi che considero dei punti di riferimento fondamentali per i singoli temi Tuttavia ci sono alcuni volumi su cui si basano larghe parti di questa presentazione, sintesi sul mondo contadino che hanno segnato la medievistica europea degli ultimi decenni Penso soprattutto a Bourin, Durand (1984); Rosener (1987); Freedman (1999); Fdler (2.007); Devroey (2.006; 2.019).
I
Gli interlocutori Esistono molti buoni quadri di sintesi sull'evoluzione della società e dei poteri nd Medioevo: un punto di riferimento fondamentale è costituito dai volumi ddla New
Cambridge Medieval History, usciti tra il 1995 e il 2.005. Una sintesi recente e importante per l'Alto Medioevo è quella di Wickham (2.014). Per alcuni contesti specifici, troviamo importanti quadri di sintesi (anche per quanto riguarda l'incidenza sulla società rurale non nobile) in Costambeys, Innes, Mac Lean (2.011); Cammarosano (1998); Menane {2.ou).
2.
Vendere e comprare Riflessioni a più voci sullo scambio di terra e sulle sue implicazioni sociali, su diverse spanne cronologiche e con diverse prospettive, si trovano in Delille, Levi (1987a); Feller, Wickham (2.005); Pastor et al (1999 ). Da una prospettiva diversa, offrono suggerimenti importanti Algazi, Groebncr,Jussen (2.003) e Davies, Fouracre (2.010). Il modello dei cicli di donazioni è stato proposto da Wickham (1997) che, insieme a Wickham (1995), rappresenta un modello di studio sociale basato sullo scambio di
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CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
terre; sulla stessa linea, hanno grande rilievo le ricerche di Davies (1988; 2.007 ), rispettivamente sulla Bretagna e sulla Spagna del Nord. Per l'età moderna (con importanti suggerimenti di metodo), resta fondamentale Levi (1985). Per il peso dd possesso fondiario per definire una condizione di élite, cfr. Menane, Jessenne (2.007); due casi specifici, oltre a quelli ricordati nel testo, sono studiati in Gasparri, La Rocca (2.005) e Feller, Gramain, Weber (2.005).
3
Cooperare Il tema della cooperazione contadina (in particolare per quanto riguarda gli incolti) è ampiamente presente in tutti gli studi sull'economia e sulla società rurale (a partire dalle sintesi citate in apertura). Una riflessione a più voci in Tigrino (2.017), che riprende a venticinque anni di distanza le discussioni proposte in Moreno, Raggio (1992.). Un'indagine regionale sui beni comuni in Rao (2.008). Il rapporto culturale tra l'uomo e la natura è al centro del volume di Devroey (2.019). Sul ruolo dei boschi nel paesaggio medievale, cfr. Andreolli, Montanari (1988) e ora Rao (2.015). Sulle foreste, cfr. Guerreau (2.002.). Sulle forme di cooperazione su coltivi e incolti, cfr. Leturcq (2.004).
4
Delimitare Sono numerosi gli studi che hanno mostrato come i territori di villaggio siano realtà complesse e manipolabili: cfr. in particolare Morse! (2.018a) e Torre (2.ou). Sui confini e sulle pratiche di delimitazione, oltre agli studi citati nel testo del capitolo, cfr. Guglidmotti (2.006), Marchetti (2.001) e, per un periodo successivo, Stopani (2.008); molti casi di ddimitazione del territorio di villaggio sono anche al centro delle liti studiate da Wickham (2.000 ).
s Contrattare La centralità della resistenza quotidiana e silenziosa, nelle civiltà contadine, è messa
in luce in Scott (1985).
BIBLIOGRAFIA
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Le forme di contrattazione tra signori e sudditi sono al centro di Mousnier, Poumarède (2.001) e dei due volumi Bourin, Martinez Sopena (2.004-07), con un'ampia articolazione di casi e di prospettive d'indagine. Prendendo spunto dagli interrogativi proposti in questi volumi, ho condotto un'analisi regionale sulla contrattazione in Provero (2.012., pp. 1-156). I Weistumer sono stati al centro di importanti analisi: in particolare cfr. Algazi (1997); Morsd (2.004); Teuscher (2.012.). Per le implicazioni delle deposizioni dei sudditi in questi atti, cfr. anche gli approfondimenti segnalati nel capitolo 8.
6 Chiedere giustizia La giustizia e le sue procedure sono state al centro di un'intensa stagione di studi; cfr.
in particolare, per l'Alto Medioevo, Davies, Fouracre (1986) e Davies (2.016). Per l'Italia carolingia, apparati e procedure di giustizia sono studiati in Bougard (1995); per l'accesso contadino alla giustizia regia, cfr. Albertoni (2.010) e Provero (2.019). Sull'azione regia nei confronti dei contadini e dei loro obblighi di lavoro, cfr. West (2.018). Per il Basso Medioevo, studi fondamentali (da prospettive diverse) sono Wickham (2.000) e Vallerani (2.005). Sulle forme di comunicazione verso il re e le relative richieste di giustizia cfr., per l'ambito spagnolo, Bisson (1998) e Oliva Herrer (2.004).
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Litigare Sulle liti e le procedure di risoluzione, sono fondamentali gli approfondimenti segnalati nel capitolo 6. Sulla guerra e la sua incidenza nella società, testo fondamentale è Settia (2.002.); la profonda differenza tra guerra e battaglia è illustrata in modo molto efficace in Duby (1977),
Sui casi di uccisione del signore da parte dei sudditi, cfr. Jacob (1990) e Barros (1991).
Sull'Islanda e le saghe la bibliografia è immensa: buoni punti di partenza sono Sigurdsson (1999 ); Helle (2003); Sigurdsson, Smaberg (2013); Miller (1990; 2014). Sulle fazioni nei villaggi del Tardo Medioevo, cfr. Ddla Misericordia (2006).
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8
Servire il signore I servizi prestati dai sudditi al signore sono oggetto di numerose analisi minute, ma di poche riflessioni complessive: oltre agli studi citati nel testo del capitolo, cfr. alcuni casi importanti in Bourin, Martinez Sopena {1004-07, vol 1). Sulle ascese sociali rese possibili dal rapporto con il potere signorile, fondamentale l'indagine regionale di Collavini (1012.). Sulle procedure accusatoria e inquisitoria, cfr. Vallerani (2.005, pp. 19-73); per alcune implicazioni nella società rurale bassomedievale, cfr. Provero (1012., pp. 159-;10 ).
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Pregare La religiosità delle campagne medievali è un ambito di ricerca molto esteso, per cui qui si possono richiamare solo alcuni testi che risultano fondamentali per le implicazioni politiche della dimensione religiosa. Sulle parrocchie e le chiese di villaggio molte osservazioni importanti in tre volumi collettivi: Paravicini Bagliani, Pasche (1995); logna-Prat, Zadora-Rio (1005); Église au village. Recentemente, cfr. soprattutto Morsel (1018b ). Sui distretti parrocchiali come oggetto delle manipolazioni della società locale in età moderna, dr. Torre (1995). Sul ruolo dei sacerdoti come mediatori tra società locale e poteri alti, cfr. Patzold, Van Rhjin (1016). Sul caso inglese nel Tardo Medioevo e sul ruolo dei Churchwardens, cfr. Kiimin (1996) e French (1001). Sul culto delle reliquie nelle campagne altomedievali, cfr. Vocino (1008). Sui cimiteri, il testo fondamentale è Lauwers (1005); cfr. anche Treffort {1015) e Provero (1010). Su gilde e confraternite, cfr. Althoff(2.004); Gautier (1008); Torre (1011, pp. 2.13-50 ). Anche sull'eresia e l'Inquisizione le ricerche, com'è ovvio, sono numerosissime; per limitarci, con la massima essenzialità, a quelle dedicate alle procedure di inquisizione e alle testimonianze, un buon punto di partenza è Forrest (2.018).
10
Costruire Nell'ampia bibliografia dedicata alle chiese, ai castelli e allevillenove, mi limito a segnalare testi particolarmente recenti (da cui trarre le indicazioni su indagini precedenti).
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BIBLIOGRAFIA
Per le chiese, si può rimandare complessivamente agli approfondimenti segnalati nel capitolo 9; un caso particolarmente precoce di impegno comunitario nella costruzione delle chiese è la Catalogna, cfr. Bonnassie, Guichard (1984). Un'aggiornata analisi collettiva sul tema della formazione dei castelli in Augenti, Gaietti (2.018); un quadro sintetico in Settia (2.017 ). Per le villenove, l'amplissima storiografia è in genere poco attenta alla capacità di azione delle comunità. Rassegne articolate (dal punto di vista sia territoriale sia tematico) in Friedman, Pirillo (:z.004) e Panero, Pinco, Pirillo (2.017); l'aspetto propriamente urbanistico è al centro del volume di Friedman (1996).
Il
Ribellarsi Le rivolte medievali sono state oggetto di un'ampia stagione di studi, a partire soprattutto dagli anni Settanta del secolo scorso; i primi grandi testi, tuttora fondamentali, sono stati quelli di Hilton (1973) e Pastor (1980 ). Recentemente una visione complessiva sulle rivolte si trova in Cohn (2.006); Bourin, Cherubini, Pinco (:z.008); Fimhaber-Baker, Schoenaers (2.016). Sulle singole rivolte, cfr. gli studi citati nel testo del capitolo; per la rivolta inglese del 1381 (forse il caso più studiato in assoluto), cfr. anche Brooks (198s) eJustice (1994).
Per le rivolte che non ho qui trattato perché è assai limitato il ruolo contadino (hussiti,Jack Cade, Svizzera), cfr. Fudge (:z.010 ); Harvey (1991); Sablonier (1998).
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Indice dei nomi e dei luoghi*
Abruzzo, 55, 66 Adelgiso, 12.6 Alba (CN), 64, 146 Alfonso v, re d'Aragona, 159 Allegretti Rainuccio, vescovo di Volterra, 12.7, 138 Alpi, 30 Alsazia (Francia), 2.0 Alvernia (Francia), 155, 157 Alzabecco (cN), 64 Amedeo VII, conte di Savoia, 157 Angiò, conti, 80 Appennini, 55, 65 Aragona, 161; cfr. anche.Alfonso v, Ferdinando I d:Aragona Arezzo, 112. monastero di Santa Flora, 1u-3 Arras (Francia), monastero di Saint Vaast, 12.6; cfr. anche Uberto Artois (Francia), 153 Asti, 64-6 Austria, 89 Auxonne (Francia), m Avenches (Svizzera), 73-4 Azincourt (Francia), 158
Bagaudano di Liébana, n Bagnolo (AL), 57-8, 60; cfr. anche Bona-
cossa BallJohn, 154 Barcellona (Spagna), 18 Baviera {Germania), 102. Beaumont-en-Argonne (Francia), 72. Belgio, 2.0 Bellagio (co ), u4-5, 166 Bcrnerio Stefano, 107 Berzé (Francia), 89 Biella, 41, 45 Boemia,159 Bologna, 143-5 Bonacossa, famiglia, 57 Borgogna (Francia), 2.0, 89 Bormio (so), 54 pieve di, 139 Bosone, conte e messo imperiale, 88 Bra (CN ), 64, 146; cfr. anche Uberto di Bra Bretagna (Francia), 18, 30, 130 Briançon (Francia), 103
Cade Jack, 160 Campione d'Italia {co), 63, 12.2.-3; cfr. anche Totone di Campione Campli (TE), 65
* Nell'Indice non sono compresi i nomi degli studiosi moderni né le voci Europa e Italia.
CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
Campori (w), 32.; cfr. anche Gundualdo diCampori Cannes (Francia), 74 Canterbury (Inghilterra), IS4 arcivescovo di, cfr. Lanfranco Caramagna (CN ), 140-I abbazia di Santa Maria, 140 Carie Guillaume, 154 Carlo vn, re di Francia, 158 Carlo il Calvo, re dei Franchi occidentali e imperatore, 90 Carlo Magno, re dei Franchi e imperatore, 17, 19, z50
Carolingi, 13-5, z7-2.o, 2.3, 55-6, 70, 85-7, 89, 93, 12,2,, 150-1, z65-6; cfr. anche Carlo Magno, Lotario I, Ludovico il Germanico, Ludovico il Pio Casale Monferrato (AL), 57-8, n6 Casciavola (PI), 100 Cassel (Francia), 160 Castel dell'Alboro (Bo), 144 Castel San Barnaba, cfr. Scarperia Castel San Pietro (BO), 144-5 Catalogna (Spagna), 14-5, 93-4, 97, 12.4, 130,138,158-9,161
Cavoretto (TO ), 77 Cerea (vR), 105, n8 Cerreto (AT ), 65 Cerreto (vA), 41 Champagne (Francia), 72., 153 Cherasco (cN), 146-7 Chiomonte (TO ), 131 Citeaux (Francia), 70, 74 Ciucci Taviano, z2.8 Civitella del Tronto (TE), 65 Cluny (Francia), abbazia cli, 89 Codorso (PR), 65-6
Como, Lago cli, 91, u4, 12.2. Crescenti, famiglia, 57-8; cfr. anche MiIone Crescenti Croce Mosso (BI), 41 Cuneo, So, 103, 1n, 140, 144, 146 Dagoberto, 12.6 Dionisio, 87 Dora Riparia, fiume, 77 Dronero (cN), 133-4 Ebruino, 12.6 Essex (Inghilterra), 154 Fagna (FI), cfr. Scarperia Faquilona di Liébana, 33 Fatagliano (PI), 12.7-8, 137-8; cfr. anche Ciucci Taviano, Gozzo, Maria, Sandro Ferdinando I d'Aragona, re di Napoli, 65 Fiandre, 32., 86, 105, 154-5, 160; cfr. anche Louis de Nevers Filippo Maria Visconti, duca di Milano, 95
Firenze, 97,143,145, I47 Fleury, abbazia cli San Benedetto, m-2. Flexum (RE), 41, 55-6, 87 Franchi, 18 Francia, 15, 2.1, 2.5, 32., 50, 63, 80, 104, I49, 152.-4; cfr. anche Carlo VII Friuli, 2.0 Galizia (Spagna), 105, zo8 Garfagnana (w), 32. Genova, 65-6 Germania, 13-5, 2.1, 2.5, 73, 104, n7 Giovanni, duca, 91
INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI
Giovanni de Molario, 107 Glugiense, cfr. Pietro Glugiense, Tomma-
sino Glugiense Godwin,12.9 Gozzo, abitante di Fatagliano, 12.7 Guadalupe (Spagna), 159 Gualdo (u), 12.1-3 chiesa di San Regolo, 12.1-2. Gundualdo di Campori, 32.-3
185 Londra (Inghilterra), 154 Lorena (Francia), 153 Losanna (Svizzera), vescovo di, 7J·4 Lotario I, imperatore, 150-1 Louis de Nevers, conte delle Fiandre, IH Lucca, 33, 97, 12.1-2. Ludovico il Germanico, re dei Fr.111d1i orientali, 150-1 Ludovico il Pio, imperatore, 150-1 Lussemburgo, 72.
Hildrich, 89
Iberica, penisola, 13 ile de France (Francia), 153 Imbod, prete, 12.6 Inghilterra. 13-5, 18, 2.0, 2.5, 49-50, 66, 75, 79, 94, 117, 12.5, 149, 153-4, 158 Islanda, 108-9 Istria (Slovenia), 91-2.
Kenc (Inghilterra), 154, 160
Lambardi di San Casciano, 100-1 Lanfranco, arcivescovo di Canterbury, 12.9 Lanfredo, 108 Lérins (Francia), abbazia di, 74 Liébana (Spagna), 33 monastero di San Martin, 33; cfr. anche Bagaudano di Liébana, Faquilona
diLiébana Lifgiwa, 12.9 Liguria 65 Limonta (CO), 114-6 Loira, fiume, u1, 151 Lombardia, 60, uo
Maira, valle, 133 Mairate (AT), pieve di, 65 Mandelli, signori di Pecetto, 95-6, 98; cfr. anche Ottone Mandelli Manzano (cN), 146-7 chiesa di San Pietro, 146-7 signori di, 146-7 Marce! Etienne, 154 Maremma, 46-7 Maria, abitante di Fatagliano, 12.7-8 Marmoutier (Francia), abbazia di, 130-1 Martina Guglielmo, 107 Massachusetts (usA), 135 Mazzorbo (VE), 106 monastero di Santa Eufemia, 106 Medassino (AL), 57 Milano, 41, 96, 115, 12.2. basilica/monastero di Sanc'Ambrogio, 91, 114-5, 12.2., 166 Milone Crescenti, 58 Mitry (Francia), us Modena,41 Moncalieri (To), 77 Mondsee (Austria), abbazia di, 89 Monferrato, 103 marchesi di, 146 Monginevro, valico del, 103, 131
186
CONTADINI E POTERE NEL MEDIOEVO
Monte Amiata (sr), abbazia dd, 70, 74; cfr. anche Rainerio Montelaterone (sr), 70 Montepinzutolo (s1), 70, 74 Mosso, valle, 41, 45 Mougins (Francia), 74
Napoli, cfr. Ferdinando I d~ragona Navarra (Spagna), 154 Nevers, cfr. Louis de Nevers Nonantola (Mo), abbazia di San Silvestro, 41, 55 Normandia {Francia), 152.-3, 158 Normanni, 2.1; cfr. anche Vichinghi Norvegia, 108 Novalesa (To), 107-8 abbazia di San Pietro, 87-8, 90, 107-8 Occimiano (AL), 116 Oric, 12.6 Ottone Manddli, signore di Pecetto, 95-6 Oulx (TO ), prevostura di San Lorenzo, 131 Oziate, 87-9
Palaiseau (Francia), 30 Parigi {Francia), 30, 97, 115, 154 abbazia di Saint Denis, II5 abbazia di Saint-Germain-des-Prés, 30 Parma,65-6,157-8,161 Pavia, 87-8, 12.5, 166 abbazia dd Senatore, 12.4-5 Pecetto {AL), 95-8; cfr. anche Mandelli Piacenza, 157, 161 Piccardia {Francia), 153 Piemonte, 66, 144, 157, 161 Pietrasanta (LU), 144 Pietro Glugiense, 106
Pietro Follano, 106 Pinerolo (TO ), 77-8, 104 Piovà Massaia (AT), 65 Pisa, 67, 100 Pitres {Francia), 90 Po, fiume, 41, 55-6, 77, 104 Pocapaglia {cN), 64 Prarolo {ve), 58
Rainerio, abate del Monte Amiata, 70 Reggio Emilia 41 Regolo, santo, 12.1-2. Rennes {Francia), vescovo di, 130 Ricasoli (AR), 145-6 Risana {Slovenia), 91 Rolasco (AL), 57-8, 116; cfr. anche Cre-
scenti Rostagno, 107 Ruffiac (Francia), 30
Saint-Leu d'Esserent {Francia), 153 Salem (Massachusetts, USA), 135 Saluzzo (cN), 36 marchesi di, 36 San Bonifacio, famiglia, 105 San Casciano (PI), cfr. Lambardi di San
Casciano Sandro, prete di Fatagliano, 12.7-8, 138 San Giovanni Valdarno (AR), 145 San Vincenzo al Volturno {1s ), abbazia di, 55 Saraceni, 2.1 Sarna (AR), cfr. Ughetto di Sarna Sassonia, 18, 150-2., 165 Savoia, conti e duchi, 77, 103-4, 107, 157, 160; cfr. anche Tommaso III,Amedeo VII Scandinavia, 2.0
INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI
Scarperia (FI), 147 pieve di Fagna, 147 Senna, fiume, 151 Sforza, duchi di Milano, 158 Siena, 46-7 Sinaccio (AL), n6 Slovenia, 2.0, 91 Spagna, 18, 2.0, 2.5, 33, 76 Stabilis, m-2. Staffarda (cN), abbazia di Santa Maria, 36-7
Strepeto (PR), 65-6 Susa (To), 104,107 valle di, 87, 103-4, 107, 131 Svizzera, 63, 73, n3, 160
Teramo, 65 Teregua (so), 54, 139 chiesa della Santissima Trinità, 139 Tommasino Glugiense, 106 Tommaso III di Savoia, 77-8 Torcello (AL), signori di, 57-8 Torcello (VE), 106 Torino, 77, 88, 103 Tortona (AL), 12.4 vescovo di, 57, 12.4-5 Toscana, 46, so, 70, 74, 97, 12.1, 144 Totone di Campione, 12.2., 166 Trento, 12.1 Trivelli Anselmo, 107 TylerWat, 154
Uberto, prete e monaco di Saint Vaast di Arras, 12.6-7 Uberto di Bra, 64 Ughetto di Sarna, m-3 Umbria, 18 Ungari, 2.1 Unnone, 87-8
Valenza Po (AL), 95 Valfurva (so), 54,139 Valle Trita (PE), 55-6, 87 Valtellina (so), 54, 56,139 Varese, 41 Velate (vA), 41 chiesa di Santa Maria al Monte, 41 Venaus (To), 108 Venezia, 106 Verdun (Francia), 151 Verona, 105, n8 Vichinghi, 151-2.; cfr. anche Normanni Villardora (To), 103 Visconti, duchi di Milano, 95, 157; cfr. anche Filippo Maria Visconti Voghera (Pv), 12.4-5, 132. chiesa di Sant'Ilario, 12.4-5, 132. pieve di, 12.5, 132. Volterra (PI), vescovo di, 12.7, 137; cfr. anche Allegretti Rainuccio
Winfrid, giudice, 12.6