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Italian Pages 260 [129] Year 2011
Il volume è stato realizzato con il contributo di Regione Piemonte DAMS
A cura di Ilario Meandri e Andrea Valle
SUONO/IMMAGINE/GENERE
© edizioni kaplan 2011 Via Saluzzo, 42 bis - 10125 Torino Tel. e fax 011-7495609 [email protected] www.edizionikaplan.com ISBN 978-88-89908-60-0
k a p l a n
Indice Premessa
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1. Questioni teoriche
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Il suono della paura: quale genere per il suono filmico? di Paola Valentini
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Suono elettroacustico e generi cinematografici: da cliché a elemento strutturale di Maurizio Corbella
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Strutture della determinazione audiovisiva di Mario Calderaro
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2. Suono/genere
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Esordio dell’orrore. Sull’udibile in alcuni horror talkies della Universal di Luca Canova, Andrea Valle
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Senti questo respiro? Horror, fantastico e fantasmagoria sonora in Suspiria di Riccardo Fassone
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Un pianeta proibito: il cinema di fantascienza e la musica elettronica di Franco Fabbri
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Il suono come soglia del reale: genere e narrazione audiovisiva in Dancer in the Dark di Alessandro Bratus
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Quando il musical diventa concettuale, filmico, rock e… 1965-1975 di Marida Rizzuti
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3. Musica/genere
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Il film industriale italiano degli anni Sessanta tra sperimentazione audiovisiva, avanguardia musicale e definizione di genere di Alessandro Cecchi
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Una musica per l’uomo in fuga: suggestioni melodrammatiche nel “British Noir” di Matteo Giuggioli
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Dal Meraviglioso all’Antimusica: su alcuni cliché del Fantastico nel mainstream musicale hollywoodiano di Ilario Meandri
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Armonie perturbanti: un caso di rimediazione di stilemi sinfonici tardo romantici nel cinema fantastico hollywoodiano di Marco Targa
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Strategie, tecniche e topoi audiovisivi nel cinema d’azione degli anni Duemila di Giacomo Albert
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Un progetto dell’Università di Torino: Cabiria – Census, Cataloguing and Study of Manuscript and Printed Music for the Cinema in Piedmont di Annarita Colturato
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Indice delle figure
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Indice dei nomi e dei film citati
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1.
Questioni teoriche
Il suono della paura: quale genere per il suono filmico? di Paola Valentini La stretta connessione che lega suono e generi cinematografici è un aspetto tanto scontato quanto in fondo negletto. La storiografia ha da tempo evidenziato il forte coinvolgimento dell’industria elettrica e dei grandi gruppi legati al cosiddetto electrical entertainment1, pronti a spingere il suono filmico verso venti favorevoli, fossero l’opera lirica o la forza della canzone, traini della nascente industria discografica e attorno ai quali si coagularono i primi generi “musicali” del cinema. Già la teoria classica cinematografica si affrettava poi a riconoscere la stretta connessione tra parola e romance2 che avrebbe portato alla valorizzazione innanzitutto di quei generi più connessi alla potenza dell’eloquio, come la commedia, la quale trova nella fluidità del dialogo una delle sue marche generiche distintive. Tuttavia l’indagine sulla correlazione tra suono e genere ha sempre avuto una marca visiva molto forte. Così non mancano studi che evidenzino la coerenza di certe soluzioni acustiche nell’intensificare il lavoro visivo di generi come l’horror (dalla centralità del rumore al peso del missaggio, alla rilevanza della voce e dell’urlo...) o come la commedia (dalla particolare gerarchia e prospettiva sonora all’uso dei Leitmotiv, alla rapidità dell’eloquio...) e analisi che sottolineino in una chiave per lo più autoriale la gamma di attestazioni o di infrazioni: l’uso del silenzio come rafforzamento della suspense in Hitchcock o l’ampio respiro del repertorio musicale scelto da Kubrick per dare un passato alla sua fantascienza3. Viceversa, gli interrogativi radicali sono spesso rimasti nell’ombra. Il suono ha una funzione di sostegno – “semio-pragmatico” come direbbe 1 Cfr. per esempio Donald Crafton, The Talkies: American Cinema’s Transition to Sound, 1926-1931, University of California Press, Berkeley, 1999. 2 Cfr. per esempio Noël Burch, Praxis du cinéma, Gallimard, Paris, 1969 (tr. it. Prassi del cinema, Pratiche, Parma, 1980). 3 Cfr. per esempio Michel Chion, 2001 L’odyssée de l’espace, Nathan, Paris, 1999 (tr. it. Un’odissea del cinema. Il “2001” di Kubrick, Lindau, Torino, 2000); Elisabeth Weis, The Silent Scream. Alfred Hitchcock’s Sound Track, Firleigh Dickinson University Press, London-Toronto, 1982.
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Rick Altman4 – al genere? Basta il suono a mantenere stabile la percezione di genere? In che modo il suono contribuisce a (ri)definire il genere? E ancora, qual è il ruolo del suono nella lotta tutta contemporanea che il genere intrattiene per la sua identità quando non per la sua sopravvivenza? È solidale al genere o è il suono stesso che contribuisce alla riduzione progressiva di molti generi, sfaldati a pura marca testuale? Interrogativi radicali, che non è certo possibile risolvere nello spazio di un saggio. Tuttavia si può provare a dirigere l’analisi di qualche caso isolato in questa direzione, per provare a vedere più da vicino alcuni aspetti di questo particolare rapporto audiovisivo.
Risonanze di genere: il suono nell’horror contemporaneo Un luogo topico in cui cercare di indagare le interconnessioni tra suono e genere è sicuramente il macrogenere della paura. Sotto l’etichetta di “cinema of fear” ricade un po’ di tutto, per i più radicali il cinema stesso, come ricorda Gilles Deleuze, riprendendo le note di Kafka sul cinema5. Proprio per questo studiarne il suono può diventare un elemento per cercare di capire il suo ruolo nel piegarsi alle mille sfaccettature della paura, dall’attesa esasperata all’orrore passando per le diverse declinazioni dello spavento e della sorpresa. Il diverso dosaggio del suono nel cinema di paura può dare un’idea del carattere fluttuante e cangiante che il suono gioca su questo terreno particolare e in generale della complessità dell’interrelazione tra audio e consistenza di genere, prima e al di là delle predilezioni autoriali. Un rapido esempio tratto dal cinema contemporaneo può mostrare meglio le possibili dimensioni del fenomeno. Nessuno può aver dubbi sullo scenario angosciante che accoglie fin dall’esordio di Shutter Island di Martin Scorsese (2010). Un battello si avvicina nella nebbia fitta puntando dritto sullo spettatore, obnubilato visivamente e investito acusticamente dallo sciabordio dell’acqua e da un tessuto sonoro ambiguo e visionario, che mescola effetto sonoro e note musicali, attraverso le fosche sirene da nebbia e i clangori metallici colti con un registratore magnetico nel 1979 nella baia di San Francisco, rielaborati e sinteRick Altman, Film/Genre, BFI, London, 1999 (tr. it. Film/Genere, Vita & Pensiero, Milano, 2004).
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Gilles Deleuze, Cinéma I: L’image-mouvement, Editions de Minuit, Paris, 1983 (tr. it. L’immagine movimento, Ubulibri, Milano, 1984 pp. 123-124); cfr. Hanns Zischler, Kafka va au cinéma, Cahiers du Cinéma, Paris, 1997.
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tizzati insieme alle sonorità dei flauti balinesi nella partitura avanguardista Fog Tropes di Ingram Marshall. Se è vero, come ricorda spesso Michel Chion, che la musica da film non è un enigma in cui basta afferrare il motivo per cogliere il significato del film6, è anche vero che qui, nelle prime note, è già racchiuso tutto il mondo di Shutter Island diviso tra luoghi reali e luoghi della mente tra i quali è arduo discernere quali abbiano maggiore consistenza; e, come evidenzia il musicista newyorkese autore della partitura, spesso elogiata per la sua capacità di rendere presente l’atmosfera della baia californiana, per lui Fog Tropes è «a piece about memory and the feeling of being lost»7. Il riverbero è una delle chiavi del film, con suoni che implodono più che esplodere, suoni concreti che rimandano alla materia, eppure non tali da agganciarsi a quella visiva del film. E che contribuiscono a sfaldare il reale in un effetto specchio in cui il ricordo può essere più solido della realtà e un suono registrato e rielaborato musicalmente più concreto del cigolare arrugginito di un traghetto. Pochi istanti dopo, mentre le claustrofobiche, destabilizzate immagini del protagonista Di Caprio che sta male lasciano il terreno alla composta inquadratura dell’isola detentiva, questa sonorità minimale, rarefatta e inafferrabile, fatta di poche isolate note e rumori, cede il posto all’esplodere potente della musica sinfonica di Penderecki, in un crescendo sempre più robusto, che ben traduce acusticamente e visivamente questa grande illusione di ordine ricomposto: l’isola che si staglia imponente, tozza e massiccia, sull’orizzonte, dominando il cielo plumbeo e minaccioso con le sue erte scogliere e la sua rigogliosa e verdeggiante vegetazione. Nella lotta anche iconografica tra ordine e disordine, o meglio tra il caos e la sua ricomposizione, il suono installa la paura, con la sconcertante instabilità che deriva dall’accavallarsi di minimalismo ed eccesso romantico, di rarefazione acustica e visiva e di strutturazioni iconografiche e sonore ben più complesse, non solo merito del soundtrack selezionato dal collaudato music supervisor Robbie Robertson, ma anche della rumorosità sempre eccedente del foley Frank Kern. La paura si declina in orrore man mano che ci si immerge nell’universo detentivo, con le serrature che scattano, il tintinnare delle chiavi e il silenzio solido del vuoto e del nulla, e si installa definitivamente con l’aprirsi al ricordo della morte della moglie Michel Chion, Un’odissea del cinema, cit., p. 101. Si veda quanto dichiarato dal musicista sul suo sito personale www.ingrammarshall.com.
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fattosi incubo, con i gocciolamenti dell’acqua, che cade dai corpi pesante più del sangue, e sullo svolazzare della fuliggine che prende il posto della carne sfrigolante divorata dalle fiamme. È chiaro che la marca d’autore è forte e indelebile, nelle novità così come nelle ricorsività dello stile sonoro del film – a partire dalla scelta così vecchio continente di Mahler per accompagnare le visioni su Dachau – e Scorsese dimostra, forse più acusticamente che visivamente, una straordinaria capacità di (auto)rinnovamento, immergendo lo spettatore in un soundtrack senza sconti, che sfida 1’ascoltatore tra musica classica contemporanea e ampi momenti di pura avanguardia8. Allo stesso tempo forte è nel film di Scorsese la consistenza del genere e la paura è l’elemento imprescindibile e dominante all’interno del quale il suono gioca un ruolo cruciale. Tale paura si declina tuttavia ora in terrore ora in suspense secondo complessi giochi che rimandano alla tipologia stessa dei suoni (le sonorità organiche e disumane), alla loro organizzazione (il tendere al mickeymousing che fa incalzare incessantemente gli eventi), a echi e risonanze intertestuali (Kubrick e Ligeti o l’ambiguità herrmaniana degli archi). È infatti chiaro il riferimento a un soundscape che non può essere ignorato perché la paura abbia il suo effetto ed è altrettanto evidente l’ascendenza di una riconoscibile stilistica nei suoni della paura. La scena della scalata alla scogliera del faro appare tutta hitchcockiana: la fotografia sovraesposta ha il sapore del technicolor e il nostalgico emergere di un effetto “trasparente”, si accompagnano a una partitura herrmanniana musicale e rumoristica che viene dal passato (quello squittire disarmonico e invadente dei topi che non può non evocare Gli uccelli). Altrove, non è esagerato definire kubrickiana questa capacità che Scorsese e Robertson (che giustamente definisce oltraggiosa la sua partitura) hanno di rimettere in gioco il soundtrack, non solo nella scoperta di inedite sonorità (il negletto e provocatorio Giacinto Scelsi, per la prima volta udibile nel buio di una sala, ma anche il complesso motivo vocale di Max Richter), e nell’attenzione maniacale alla particolarità delle esecuzioni (il morbido Ligeti della Wiener preferito alla consolidata versione dei Nonostante il comparto sonoro sia lo stesso che lo segue fedelmente da una decina di film, viene qui realizzato qualcosa di inedito, confermato anche dall’assenza totale di partitura originale e di tangibili riferimenti a quell’universo rock caro all’autore americano. Come pure nuovo risulta il sacrificio dei suoni reali di produzione così spesso inseguiti dal regista o il logico cedimento all’ADR, viste le ampie parti di sonoro registrato rese illeggibili dalla rumorosa produzione artificiale dell’uragano.
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Berliner). Questa partitura, oltre a offrire autonomamente un soundtrack che è uno straordinario spaccato musicale dell’inquieto XX secolo, nel film si spezza e sfrangia in frammenti, contamina motivi e sonorità che rimandano non tanto alla potenza della colonna sonora autonoma e «abbastanza “al di fuori”» di 20019 ma alla straordinaria e suggestiva imperfezione di Shining, sfaldando le musiche a stento riconoscibili, privilegiate nei loro momenti più spogli e minimali, mai contrapposte ritmicamente al visivo ma giustapposte tra il respiro di poche fasi melodiche e la compressa dominanza tonale, creando un universo emozionale unico e indelebile. Nel grande calderone contemporaneo di risonanze testuali, queste oscillazioni acustiche del cinema di paura sono solo la contesa tra lo stile sonoro di Hitchcock e quello di Kubrick o c’è qualcosa di radicale che spinge non verso l’omaggio alla poetica di un autore ma verso modelli di genere distinti? Può non essere inutile divagare momentaneamente verso le origini di questa complessità: il cinema italiano di fine anni Sessanta si offre come banco di prova non secondario delle interrelazioni tra suono e genere e di una nuova dimensione dell’esperienza della paura al cinema.
Limiti e sconfinamenti tra generi: il suono del giallo Il cinema italiano popolare degli anni Sessanta si offre come valido campo d’indagine; in particolare il cosiddetto giallo è un terreno in cui le due formule dell’horror (se vogliamo nella sua accezione gothic) e del thriller (se vogliamo nella sua accezione noir) incrociano e mescolano i loro confini, lo show down convive con la detection, l’indagine con lo squadernarsi improvviso dei lati più oscuri della realtà. Meccanismi narrativi e testuali ben distinti vi si incrociano; eppure non mescolano totalmente le loro carte ma mantengono separati i propri effetti, creando quella sospensione, indecidibilità e fluttuazione che può spiegare il successo anche contemporaneo di questa formula ben oltre i confini nazionali. L’osservazione – qui per forza di cose superficiale – della ricca produzione che in un decennio, tra l’esordio di La ragazza che sapeva troppo (Mario Bava, 1962) e la svolta, tanto civile quanto marcatamente orrorifica, di Non si sevizia così un paperino (Lucio Fulci, 1972), porta ad az9
Michel Chion, La Musique au cinéma, Fayard, Paris, 1995, p. 345.
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zardare una possibile articolazione del suono della paura, in Italia e forse non solo. Com’è ovvio, i primi film, e in particolare Sei donne per l’assassino (1964) di Mario Bava, sono fondamentali per l’attestazione del genere e della rilevanza in esso del suono. Modernissimo nel porre istantaneamente il riferimento generico (un assassino è nascosto nell’ombra) quanto nel cancellarne poi subito la coscienza – la seducente strategia di «far perdere allo spettatore ogni coscienza di tale dispositivo» che Hollywood reinventerà successivamente10 –, il film di Bava è una valida esemplificazione della crucialità del suono e del ruolo non secondario che esso svolge nel giallo all’italiana nell’orientare il genere verso i due poli del campo della paura. Mi si perdonerà l’estrema semplificazione con cui vengono qui presentate solo le considerazioni conclusive, ma si può innanzitutto dire che ben più che sull’asse visivo, dove il repertorio iconografico se non altro dell’horror appare ben definito e differenziato (fatto di sotterranei, castelli, cripte, maschere, antiche armi e così via), negli anni Sessanta a livello semantico il patrimonio acustico sembra fortemente condiviso tra horror e thriller. In primo piano le sonorità in grado di rimarcare la profondità del buio e della notte, per esempio. L’esordio di Sei donne per l’assassino è emblematico, con il suono del vento, accompagnato da sbattere di finestre e porte (sviamenti narrativi di matrice acustica ben cari a entrambi i generi), il temporale incombente, i cigolamenti arrugginiti che oltre alle profondità spaziale delle tenebre rimandano anche a quella temporale, evocando la forza del passato e dell’antico (l’insegna mezza scardinata della casa di moda), e il riportare del dialogo alle aree della instabilità e della devianza (la droga), così come altrove il bisbigliare delle voci, il ticchettio di orologi che scandiscono il tempo e modulano l’attesa. Se l’oscurità, il buio e l’ombra con tutti i loro correlati sonori caratterizzano entrambi i generi, è pur vero che non mancano gli elementi di differenziazione, che in questo tipo di cinema diventano fondamentali per permettere il fluttuare tra genere e genere. Solo il thriller può, per esempio, alle tenebre contrapporre con forza l’hic et nunc della consistenza del mondo reale, che consente momentaneamente l’uscita dal buio. Il repertorio musicale gioca un ruolo centrale: Jacqueline Nacache, Le Film hollywoodien classique, Nathan, Paris, 1995 (tr. it. Il cinema classico hollywoodiano, Le Mani, Genova, 1996, p. 23).
la canzonetta Furore di Celentano, che risuona energica nell’esordio di La ragazza che sapeva troppo, installa immediatamente l’ora e adesso di una contemporaneità ben diversa dalla città eterna, minacciosa e inquietante nei suoi silenzi, che dominerà le sequenze orrorifiche centrali; tanto quanto la performance musicale, con la batteria sonora e assordante, scandisce la realtà concreta su cui si apre Quattro mosche di velluto grigio (1970) di Dario Argento. E tuttavia ecco che si può già vedere che il giallo all’italiana significa non solo alternanza ma anche co-occorrenza dei due generi, grazie alla provocatoria coesistenza di indicatori generici sonori (e non solo) ben distinti: così nel prologo che apre Nude si muore di Antonio Margheriti (1968), l’efferato delitto nella vasca da bagno, di marca indubbiamente horror se non altro per i precedenti che evoca, è rimarcato dalla sonorità della radio alzata a tutto volume dall’assassino, in cui una musica jazz cede il posto alla metropolitana canzone Nightmare (autori Carlo Savina e Don Powell) che, cantata dall’inglese Rose Brennan, top chart nei primi anni Sessanta, colloca con precisione quasi cronologica la vicenda. La realtà concreta accompagna perfettamente il paradossale viaggio in taxi che il corpo della malcapitata vittima, chiuso nel baule legato sul tetto della vettura, compie lungo le strade della città francese, viva, notturna e frizzante, fino alla stazione dei treni che lo porterà al collegio a Nizza. Se, come si è visto anche nell’esempio di Scorsese, è la musica orchestrale, con alcune predilezioni particolari, a offrire l’humus classico dell’horror, il giallo all’italiana presenta subito una forte novità che non stenterà a offrirsi come rifondazione importante. Non a caso – inaugurato dal celebre balletto di Alex in Arancia meccanica sulle note di Singin’ in the Rain – l’horror contemporaneo, sempre attento a sottolineare la lucida presenza dell’assassino a se stesso e la perfetta appartenenza al mondo che lo circonda, tende a fare un notevole uso della canzone e della musica pop proprio nelle scene più efferate, in cui il motivo canoro musicale di turno accompagna gli assassinii più violenti, da Le iene ad American Psycho. In un’altra dimensione di recupero e reinvenzione della tradizione generica del cinema precedente, il giallo all’italiana distingue thriller e horror, spartendo ma anche facendo coesistere due distinti universi sonori: da un lato le sonorità meccaniche, apparentemente così solide e affidabili, in ogni caso scevre di ogni possibile rimando semplicemente al mondo della mente e dell’immaginazione. Dall’altro lato, i pur fragili e deboli investigatori del cinema italiano garantiscono un’immissione sonora di realtà, con il rumore delle loro auto, le sirene, lo stridore delle gomme. E natu-
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ralmente – con ampi e ben noti precedenti nel cinema classico e non solo – la detection anche nel cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta si nutre dell’interpretazione e la decodifica di suoni registrati e/o riprodotti, a partire dal telefono. In Sei donne per l’assassino il telefono si riconferma il legame vocale la cui corretta decifrazione può decidere della vita o della morte (la telefonata a Nicole/Arianna Gorini, che viene attirata nella trappola del negozio non essendo riuscita a comprendere che non si trattava della voce dell’antiquario; oppure la vana telefonata di Peggy/Mary Arden che non riesce a garantirle l’arrivo tempestivo del commissario e di fatto la sopravvivenza). Aveva un bel ridere Bava sulle ipotesi formulate dai critici dei «Cahiers du Cinéma» che si erano arrovellati su quella cornetta del telefono rosso fuoco penzolante che chiude il film. Di fatto essa simboleggia iconicamente tutta l’indecidibilità di questa nuova dimensione della paura: una telefonata fatta per altro da una degli assassini, e all’altro capo la polizia incapace di decifrare e di sciogliere quell’enigma (non solo) sonoro che tanti dispositivi, dai Mabuse ai Sorry Wrong Number avevano posto come condizione imprescindibile del ritorno all’ordine finale garantito dal mistery. Se in generale sono le molte voci o suoni registrati e riprodotti che connotano la detection, viceversa il mondo organico nella sua ambiguità e indefinitezza abita da sempre acusticamente il mondo dell’orrore; il verso animalesco o ancor di più l’indefinitezza umano-animalesca sono garanzia dell’horror, soprattutto nella sua declinazione fantastica (il celebre impasto acustico di grida e versi di fiere utilizzato per King Kong). Siano o non siano effetto della non-linearità o del volume eccessivo di questi suoni, come insinuano alcune ricerche recenti11, sta di fatto che il suono la cui matrice
è riconoscibile come organica, attiva in modo molto forte quella multisensorialità tipica della dimensione acustica che fa letteralmente toccare con mano l’abisso dell’orrore. Il diverso modularsi del grido femminile, vera icona sonora del giallo all’italiana, meriterebbe da questo punto di vista un approfondimento a sé. Il grido femminile è ora dato concreto, appello d’aiuto semanticamente inequivocabile che squarcia il buio percorrendo lo spazio e ponendo fine all’indefinitezza dell’oscurità, talvolta facendo strada alla salvezza: come in Nude si muore, quando Jill/Sally Smith, urlando dalla piscina riesce a fare accorrere l’ispettore che è dentro la villa e a salvare l’amica che sta per soccombere all’assassino. Nell’horror viceversa l’urlo di donna si fa emissione animalesca che in realtà trascina nelle tenebre, attrae tra le viscere umane e inghiotte nel suo orrore: come in Sei donne per l’assassino in cui l’urlo bestiale di Peggy si mescola allo sfrigolamento della carne bruciata del suo volto spinto dall’assassino sulla stufa rovente, producendo acusticamente qualcosa di così magnetico che, come ha dichiarato Bava stesso, ebbe il potere di turbare a lungo i suoi sogni; oppure in Sette orchidee macchiate di rosso (1972) di Umberto Lenzi, in cui le grida d’aiuto di Elena Marchi/Rossella Falck, massacrata nella clinica in cui è ospite, giungono fino all’infermiera, pur senza riuscire ad attirarla verso la camera prima di spegnersi con lo svenimento e trasformandosi nei rantoli bestiali dell’annegamento nella vasca. Ancora una volta, la coesistenza di indicatori di genere caratterizza il giallo all’italiana e lo connota di effetti fortemente destabilizzanti: così urlo bestiale e richiamo disperato possono alternarsi, come ne Il rosso segno della follia (1970) sempre di Bava, in cui l’ispettore Russell/Jesus Puente arriva all’atelier attirato dalle grida animalesche di Mildred/Laura Betti, la moglie di Harrington/Stephen Forsyth da lui appena trucidata a colpi d’accetta (e di velo da sposa) ma, con tipico gioco a incastro baviano, l’ispettore non agisce, convinto infine che le grida che lo hanno chiamato siano quelle che provengono dal televisore (ovviamente animalesche, visto che a essere trasmesso dal piccolo schermo è proprio il gioiello dell’horror di Bava I tre volti della paura). L’antitesi animalità-razionalità di thriller e horror che si concretizza nel grido e nei suoni in generale ritorna spesso in Argento: il forte uso da lui fatto dei sintetizzatori e la manipolazione cui i suoni vengono sotto-
Si pensi ad esempio alle ricerche condotte nel Dipartimento di Ecology and Evolutionary Biology dell’UCLA da Daniel Blumstein, che individuano una naturale avversione dell’uomo ai suoni non-lineari ampiamente usati dagli animali per esprimere paura (con versi d’allarme caratterizzati da “noise and deterministic chaos, sidebands and subharmonics, and abrupt amplitude and frequency transitions”) anche a partire dalle ricerche sperimentali effettuate sugli “analoghi sonori” utilizzati nell’esperienza cinematografica; cfr. Daniel. T. Blumstein, Richard Davitian, Peter D. Kaye, Do Film Soundtracks Contain Non-Linear Analogues to Influence Emotion?, «Biology Letters», 6, 23 dicembre 2010, pp. 751-754. Ricerche della bioacustica a parte, per un’attenzione alle origini delle questioni della nonlinearità nel suono, cfr. anche Angelo Orcalli, Complessità e non-linearità nel pensiero musicale contemporaneo, «Sonus – Materiali per la musica moderna e contemporanea», 2-3, 1997, pp. 27-34. Non a caso infatti, tra gli esempi citati da Blumstein, si ritrovano suoni musicalmente
complessi come quelli di Uccelli (The Birds) di Alfred Hitchcock ai quali versi di biologico rimane poco, dato che furono quasi integralmente prodotti da Oskar Sala col suo Mikstur-Trautonium.
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posti accentua quella labilità nei confini tra organico e meccanico che il giallo all’italiana farà proprio, soprattutto con le diverse voci in falsetto ma anche con espedienti di grande efficacia e inquietudine, come la voce distorta dal laringofono che, non a caso, insieme agli occhi resi gelidamente azzurri dalle lenti a contatto, caratterizza il crudele assassino di La morte cammina con i tacchi alti (1970) di Luciano Ercoli. All’origine di molte di queste contaminazioni, si diceva, Dario Argento, in particolare in quella sorta di trattato teorico sul neo-genere che è L’uccello dalle piume di cristallo (1970), dove mette definitivamente a confronto questi due aspetti acustici del thriller e dell’horror attraverso la registrazione della voce dell’assassino simultaneamente al verso animalesco del raro pennuto Hornitus novalis: enigma acustico quest’ultimo il cui scioglimento è fondamentale per la soluzione della detection ma anche sintesi in sé dell’orrore dell’omicidio, quasi verso sgraziato che si fa correlato delle tante vite strappate violentemente. Thriller e horror dunque condividono un patrimonio comune in cui non mancano differenziazioni che spesso fanno leva su un sistema di echi e intertestualità (nell’horror per esempio i cori femminili e le ninna nanne fanciullesche rese celebri da Morricone così come anni dopo il Penderecki esaltato da Kubrick). Diversa tuttavia è sempre sia l’amplificazione (che fa dei riverberi, per esempio, un elemento centrale del sistema orrorifico) sia in particolare la gerarchizzazione tra gli elementi, che dal punto di vista sonoro si fa correlato del primato visivo da un lato dell’illusoria pienezza della sequenza in cui il caos congenito del montaggio si ricompone (il mistery), dall’altro della preminenza invece del dettaglio e dell’enfasi sulla de-contestualizzazione nell’horror. A livello acustico – per riprendere una celebre dicotomia – sembra imporsi un soundscape che mantiene nel caso del thriller la consistenza del paesaggio acustico in cui lo spettatore è chiamato a muovere gli stessi passi, magari seguendo e decifrando gli indizi sonori, tutto ricomposto in un sistema economicamente funzionale in cui ogni suono deve avere una funzione, fosse anche lo stupore del gimmick; dall’altro lato l’horror costruisce piuttosto un artefatto sonoro, una sorta di dipinto che può anche essere totalmente caotico, completamente aprospettico e in cui è impossibile abitare ma da cui ci si può solo magneticamente lasciar sedurre e spesso inghiottire. Come in parte deriva da quanto appena evidenziato, è tuttavia il livello per così dire sintattico ad apparire dominante nella differenziazione tra vena orrorifica e detection; l’area, se si vuole, dei generi del discorso,
appare il livello più stabile e differenziante nel sistema della paura, all’interno del quale le oscillazioni sembrano ridursi e che dunque, si potrebbe azzardare, è forse destinato a dominare stabilmente sui due generi garantendone realmente la riconoscibilità. La linearità e lo sviluppo sull’asse temporale appare essere l’elemento sonoro dominante della detection, in cui i movimenti musicali, la propagazione del suono, il logico dipanarsi del discorso devono tendere alla ricostruzione dell’arco temporale in cui ricordi e anticipi siano ricomposti e la soluzione finale si prospetti alla fine dell’indagine tortuosa come la sua logica conclusione. Il thriller con il primato del whodonit spinge verso la commedia e può arrivare a recuperare quasi la rapidità della screwball, a partire dall’importanza dei dialoghi, sostanziali per comprendere il dipanarsi del mistery, soprattutto quando, pur suffragata dal visivo, la ricostruzione si fa più complessa. Il mistery vede indubbiamente il primato della funzione narrativa del suono, piegato alla sua intelligibilità: la musica che incalza, i suoni che accelerano (i passi sempre più vicini, o il fiato sempre più corto), le parole perfettamente comprensibili. Come nella scena in cui Tony Musante in L’uccello dalla piume di cristallo, giunto a casa, tenta di decifrare quanto ha realmente visto attraverso le porte scorrevoli della galleria: la musica accelera il ritmo e la successione dei frammenti visivi del ricordo cui aderisce, divenendo correlato sonoro della confusione e dell’affastellarsi di immagini. L’horror viceversa coagula il suono attorno a sé, un suono che si ripiega su se stesso incapace di reale sviluppo. L’asse dominante appare se mai quello spaziale della risonanza o dell’eco di un suono che implode nel costante décadrage cui è soggetto rispetto all’immagine, sempre un po’ in anticipo o in ritardo senza potervi mai realmente aderire. Così, nel già citato Il rosso segno della follia, quando l’investigatore, sospettoso ma ormai arreso alle spiegazioni logiche di Harrington sull’origine delle grida, si perde a chiacchierare nell’atrio della casa, al gioco di specchi del tavolino lucido, che riflette il braccio penzoloni della moglie trucidata, fa da correlato il sonoro, che si carica del ripetersi di un unico accordo, distorto, che fa da eco alle gocce di sangue della vittima che silenziose cadono attutite sul tappeto, senza mai un reale agganciarsi col visivo e col reale. Recuperando una ormai abusata distinzione, si può dire che, se nel mistery domina la narrazione, nell’horror a prevalere è l’attrazione: la funzione è quella enfatica, deformante, dissonante e distraente rispetto alla narrazione. Se nel thriller il suono viene controllato e dominato, sacrificandolo all’intelletto, nell’horror ritorna alla sua provocatoria dimensione sensoriale: la funzione è se mai
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epidermica e il suono orrorifico è fondamentale per evocare le sensazioni tattili tipiche di questo genere. In La frusta e il corpo (1963, di Mario Bava), per esempio, i sibili della frusta reali o immaginari convivono con l’onnipresente sibilare del vento e sciabordio del mare, distaccandosi dall’oggetto e dalla sorgente e caratterizzando epidermicamente la visione dell’intero film gotico. Il giallo all’italiana recupera anche questo aspetto anomalo rispetto al primato “economico” della detection, questa vertigine ed eccitazione sonora che diventa elemento sostanziale del suo thrilling: è la forza eccentrica delle unghie che graffiano il muro di pietra che separa dalla salvezza la povera ragazza, vittima del parco in Quattro mosche di velluto grigio, oppure del sibilare della lama del rasoio che si abbatte sul collo delle vittime in Lo strano vizio della signora Wardh di Sergio Martino (1971). L’esasperazione e l’eccesso fanno sì che il senso di straniamento possa essere anche raggiunto per il paradossale aderire del suono all’immagine; il sincronismo anche musicale che caratterizza la detection, in cui ogni suono ha una sorgente o ad essa può essere ricondotto, cede il passo al mickey-mousing dell’horror, a un sincronismo inquietante che in quanto tale eccede il visivo e la realtà e si espande ancora una volta sulla sala. Il ritmo serrato dei colpi, il crescendo musicale che caratterizza le aggressioni o che le accompagna, di nuovo affascinano e trascinano fuori dalla razionalità e dal racconto. Non diversamente, in Profondo rosso di Dario Argento (1975), la cantilena musicale genera un cortocircuito in cui da un lato essa è l’innesco del delitto, dall’altro una rievocazione extradiegetica che non appartiene ai personaggi in scena, da un lato è funzionale all’anticipo per lo spettatore del delitto, dall’altro è gimmick che talvolta non porta a nulla se non, epidermicamente, a calarci nella mente dell’assassino. Più macroscopicamente, l’horror tende a una morfologia in cui l’accumulazione propende verso una dimensione più incline alla paratassi che non alla sintassi, con una configurazione generica molto simile a quella del musical. Il suono funziona in direzione dei diversi “numeri”, sostanziali eppure anche autosufficienti, che caratterizzano lo spalancarsi nella linearità della storia delle faglie dell’orrore. La serialità del killer del giallo all’italiana si presenta come grande occasione non solo visiva ma anche sonora, che isola i numeri non solo per alcune immagini e cromatismi ma anche per la potenza di alcuni suoni. Anche qui tuttavia non mancano le declinazioni particolari. L’horror classico si caratterizza per una forte in-
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cidenza del Leitmotiv12 , e il gotico italiano dimostra ben assimilato questo aspetto, ricorrendo al motivo musicale per anticipare il delitto, soprattutto se associato all’apparizione di assassini di vocazione fantasmatica, come nella produzione di Freda, da L’orribile segreto del dottor Hitchcock (1962) a A doppia faccia (1969). Bava recupera come sempre innovando; così se ne Il rosso segno della follia gli omicidi si accompagnano alle sonorità di un carillon, altrove però l’attenzione al modus operandi dell’assassino nella sua spettacolarità non può non avere ricadute sonore importanti, e alla rassicurante forza previsionale del Leitmotiv Bava sostituisce piuttosto lo shock del rumore. In Sei donne per l’assassino, a fronte dalla ricca costruzione scenografica dei cinque assassinii, si impone la precisione minimale del quadro sonoro che come un numero musicale condensa in sé la scena: lo sfrigolio della stufa, i tonfi degli oggetti caduti nel negozio d’antiquariato fino al colpo finale del guanto chiodato dell’armatura, che penetra le carni della seconda modella, il silenzio di morte del corpo affogato nella vasca. Di più: Bava usa il sonoro in modo ancora più simile alla forza del musical, in cui ciascun numero di musica e danza non è semplicemente omologo all’altro ma, requisito sostanziale della commedia musicale in cui il numero musicale non è mai gratuito e irrilevante per la storia13, anche qui ogni omicidio è differente, riconoscibile acusticamente e ha un’incidenza narrativa reale. Se è pur vero che inventa l’assassino seriale, è anche vero che ciascun omicidio non è simile all’altro e a esso perfettamente sostituibile: così in Sei donne per l’assassinio non solo vi è un gradiente acustico che porta fino al silenzio dell’orrore, con il corpo nella vasca da bagno, ma vi è anche la diversa mano dei due assassini che connota le scelte rumoristiche dei loro numeri crudeli. Tutto ciò diventa più evidente in Argento, basti pensare ai diversi eccidi di Profondo rosso e l’impatto del rumore in essi. L’autore, come si è detto, mescolerà ancora di più le carte, non esitando a presentare queste dinamiche concorrenti all’interno dello stesso film. Lo farà proprio con il massiccio ricorso al Leitmotiv musicale dell’assassinio, un accorgimento tecnico già presente nella celebre cantilena morriconiana di L’uccello dalle piume di cristallo spesso utilizzata come gimmick mu12 Tra i contributi recenti su questi aspetti cfr. Philip Hayward (a cura di), Terror Tracks. Music, Sound and Horror Cinema, Equinox, London, 2009 e Neil Lerner (a cura di), Music in the Horror Film. Listening to Fear, Routledge, New York-London, 2010. 13 Cfr. Rick Altman, The American Film Musical, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis, 1988.
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sicale che non prelude all’ingresso in scena di alcun assassino, come nella sequenza dell’osservazione assorta del quadro naïf, e ritorna nel motivo infantile di Giorgio Gaslini, eseguito dai Goblin per Profondo rosso. Ma lo farà anche con la creazione di artefatti rumoristici che glossano icasticamente lo scivolare dell’assassinio dal thriller all’horror: si pensi allo stridio della carne delle mani dell’assassino che si aggrappano invano al filo metallico per evitare di precipitare nella tromba dell’ascensore in Il gatto a nove code (1971), così come in Profondo rosso, in cui entrambe le strategie convivono in modo complesso. A livello dell’ultimo aspetto, quello pragmatico – o di “patto comunicativo” se si preferisce – è chiaro che è proprio la paura l’elemento comune a horror e thriller, il “contratto” che li lega in quanto testi di genere al loro spettatore e che governa la loro lettura e il loro sistema di attese14. Ed è proprio nel diverso misurarsi con essa dello spettatore che ruotano molti aspetti distintivi del genere. A livello macroscopico, si può dire che lo spettatore trova il suo alter ego in due differenti figure vicarie. Se il thriller ha infatti nella vista la sua dimensione cruciale in cui spesso la soluzione della detection è proprio un arrivare a visualizzare l’esatto procedere dei fatti, sfondando quella quarta parete che fino all’ultimo preclude alla vista l’assassino, ci si può forse spingere a sostenere viceversa la centralità nell’horror dell’ascolto. Da La ragazza che sapeva troppo, attraverso la consacrazione di L’uccello dalle piume di cristallo, la paura dello spettatore si figurativizza nella vertigine visiva del testimone oculare punto di confronto sostanziale per lo scioglimento del mistery. Tuttavia, quando è l’orrore a dominare, sembra essere l’ascolto l’aspetto fascinatorio che condiziona la paura; prova ne è il ricorso a soggetti non vedenti – da Il gatto a nove code di Argento a Sette scialli di seta gialla (1972) di Sergio Pastore – i quali, non a caso, sembrano costringere lo spettatore a non distrarsi e tranquillizzarsi con il visivo, ma a penetrare fino in fondo la dimensione dell’orrore attraverso il suono. Ne è una conferma ancora una volta l’ambivalenza argentiana nel dosare entrambi gli ingredienti, contrapponendoli e facendoli interagire. Così nel prologo di Quattro mosche di velluto grigio lo spettatore può seguire voyeuristicamente la successiva vittima sposando visivamente in soggettiva lo sguardo del possibile assassino, ma è l’indecidibilità di quel parossisistico battito del
cuore e l’impossibilità di quella visione dell’organo così ravvicinata a sprofondarlo nell’orrore ignoto.
L’esperienza sonora della paura In I generi del cinema Raphäelle Moine cita proprio il caso dell’horror per dimostrare come nella valutazione di genere sia fondamentale la cultura dello spettatore, che porta gli appassionati a distinguere molteplici sfaccettature15. Ne risulta un quadro così vario da comprendere al suo interno a volte anche solo un ciclo di film: è il caso della variante stalker, ritagliata su misura su Nightmare, o di quella slasher per Halloween. Nonostante i distinguo sul peso culturale dello spettatore, tuttavia, alcune distinzioni non appaiono poi così semplici da applicare; se è vero che lo splatter si differenzia dal gore per la giocosità dello schizzo di sangue che letteralmente lo caratterizza, è poi così inequivocabile stabilire se un colpo efferato schizzi o si rapprenda? Geli le vene o spinga al riso liberatorio? Ed è più persecutorio o più comicamente crudele Freddy Kruger? Per comprendere meglio il complesso ruolo del suono, forse è meglio, prima di chiudere il discorso, riallargare nuovamente lo sguardo. Pur non mancando precedenti anche importanti – come l’ammonizione che già negli anni Venti del secolo scorso Tynianov faceva, contestando la linea netta dell’evoluzione del genere a favore dell’andamento modellato su continui spostamenti –, la logica sistemica del genere, che in parte anche qui si è applicata a scopo esemplificativo, e che è storicamente dominante, impedisce di cogliere fino il fondo il problema. Oggi, non a caso, sempre più spesso si parla non di teoria dei generi, bensì di esperienza dei generi,16 e del confronto non con la norma di un sistema coerente, bensì con quell’impurità che faceva dire a Jacques Deridda che la legge del genere ruota attorno a un «taking part in without being part of»17. Tuttavia, se questi nuovi approdi hanno spesso portato a esaltare l’idea di ibridismo e contaminazione, marcando ancora una volta la centralità nel genere, lo hanno fatto soprattutto sul versante del genere quale dispositivo
Cfr. Francesco Casetti, Film Genres, Negotiation Processes and Communicative Pact, in Leonardo Quaresima-Alessandra Raengo-Laura Vichi (a cura di), La nascita dei generi cinematografici, Forum, Udine, 1999, pp. 23-36.
Raphäelle Moine, Les Genres du cinéma, Nathan, Paris 2002 (tr. it. I generi del cinema, Lindau, Torino, 2005, p. 36). 16 Per una sintesi di questi argomenti cfr. Anna Maria Sportelli (a cura di), Generi letterari. Ibridismo e contaminazione, Editori Laterza, Bari, 2001. 17 Jacques Deridda, The Law of Genre, «Critical Inquiry», 7, 1980, p. 56.
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di produzione testuale, mentre la novità è proprio nella crucialità della dimensione pragmatica che la nozione di esperienza sottintende. Un ultimo esempio può aiutare a fare luce: l’esperienza del giallo degli anni Settanta non può naturalmente non avere un forte impatto su certo cinema italiano contemporaneo. Il contratto con lo spettatore tuttavia non sembra più essere così chiaro. Un film non capito; e un’esperienza sonora e di genere non univoca ne sono la dimostrazione. Il finale di La solitudine dei numeri primi (di Saverio Costanzo, 2010) nega e contraddice in qualche modo quanto visto fino a quel momento: il capo di Alice (Alba Rohrwacher) si è piegato sul volto privo di reazione di Mattia (Luca Marinelli), attonito sulla panchina in riva al fiume dove perse la sorella, e l’immagine ha dissolto al nero. Alcuni cartelli di coda ci ricordano le principali componenti artistiche del film e nel silenzio schiacciante del nero, parzialmente illuminato dalle scritte blu elettrico, ascoltiamo: lo stormire di uccelli, l’ansimare di un pianto leggero e infine pare di udire inequivocabile il suono di un sorriso, che fa da lancio all’esplodere a pieno volume dell’assertivo ed energetico Yes Sir, I Can Boogie. Non è semplicemente l’ipotesi di un finale diverso dal romanzo di Paolo Giordano, che esca dalla chiusura dei numeri primi; e non è nemmeno solo che il film sposti efficacemente sul piano auditivo quel sistema di coincidenze e assonanze che struttura l’organizzazione letteraria del romanzo18. È che, infine, il patto con lo spettatore è completamente infranto, il cinema di paura si sfrangia – provocatoriamente, visto quel fondo nero e quell’abisso su cui sembra chiudere – in melò: la detection sulle cause non trova soluzione e l’orrore per quanto semplicemente familiare cede il posto al pianto e allo sciogliersi nel dramma. Certo il passaggio di un cinquantennio non può essere ignorato. Come in fondo affermava già teoricamente Dario Argento in L’uccello dalle piume di cristallo, l’orrore contemporaneo non si gioca nel mistero della sonorità fuori campo, in quel caso invano indagata e ricercata con le apparecchiature tecnologiche dal commissario Morosini, alias Enrico Maria Salerno. Diversamente dall’horror classico, in cui in parte il terrore veniva ricomposto e dominato dallo sguardo, nel momento in cui l’aleatorietà e il potere di un suono poteva finalmente essere ricacciato in una sorgen-
te19, per lo meno dagli anni Sessanta l’oppressione della paura deriva più spesso da un’apparentemente inossidabile solidarietà tra percezione acustica e visiva, che solo a tratti un momentaneo e improvviso straniamento può dissociare, facendoci vedere e udire realmente e squadernando tutto il mistero e l’orrore quotidiano. Nel film di Saverio Costanzo coincidenza narrativa e sincronismo visivo-acustico giocano nei momenti migliori con grande efficacia. L’orrore trova invece la sua forza in un ostinato sincronismo, che installa una realtà solida e consistente da cui non sembra esserci scampo, anche grazie a una presa diretta (opera di Gabriele Moretti) di straordinaria pulizia e profondità. La claustrofobicità attraversa un film che non solo fa dei piani ravvicinati una forma dominante, ma che provoca e subito arresta in un ostinato sincronismo ogni tentativo di fuga: le conversazioni telefoniche, le poche parole proferite che si incollano sulle labbra senza quasi il coraggio di lanciarsi nell’aria (e oltre l’inquadratura), la musica costantemente agganciata a dispositivi di riproduzione – come nell’incontro finale tra Alice e Mattia accompagnato dall’altissimo volume della voce roca di Kim Carnes che canta Bette Davis Eyes – più di una volta sembra librarsi (e portarci al di fuori del mondo diegetico), ma basta un tasto schiacciato sul registratore per piombare nel silenzio e nuovamente precipitare in quell’universo senza uscita. Ha questa pesantezza anche il rumore, così misurato e dosato, ma che rende i fiocchi di neve della tempesta, le gocce d’acqua del temporale, le foglie, o anche gli uccelli, elementi solidi che accentuano la forza di gravità di un mondo che trascina verso il basso. E naturalmente il sincronismo, come metafora di un sistema di coincidenze che non offre scampo, caratterizza la sequenza dei due incidenti che il bel parallelismo visivo, ma soprattutto l’eccezionale contributo di Brando Lupi con le note elettroniche cupe e ancora una volta pesanti di Zeta Song sa realmente unire, creando dalle vicende dei due ragazzi un’unica parabola esistenziale scandita da uno stesso incessante battito lugubre e da un unico ritmo fatale. Tuttavia, altrove l’esperienza della paura cambia il suo contratto con lo spettatore, che non sembra sempre in grado di seguire queste divagazioni. L’“horror sentimentale sulla famiglia”, invocato dal regista per il suo film, cede anche con debolezza ad alcune codificate inquiete atmosfere, non del
Verrebbe quasi da dire – impressione già suscitata da Espiazione di Joe Wright – che il superamento della logica dell’adattamento letterario avvenga non tanto in direzione dell’immagine, dimensione ben nota alla lettura, ma del suono.
19 Si pensi ai classici svelamenti acustici resi celebri dagli studi di Michel Chion, da Il mago di Oz alla voce della madre di Psyco.
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tutto riuscite: i rischiarati ambienti, siano i corridoi vetrati della scuola o le luminose corsie dei supermercati, nostalgicamente kubrickiani, che l’occhio e la macchina da presa solcano in profondità accompagnati dai distorti suoni di un sintetizzatore (come quello del Mike Patton di Elettricità Atmosferiche Candite) o la lunga panoramica iniziale sui corpi quasi manichini dei ragazzini, stretti al buio negli sgargianti costumi teatrali, cullata da Magic Thriller dei Goblin di sapore argentiano, ma che tanto ricorda l’incipit del Mario Bava di Sei donne per l’assassino. La forza del giallo all’italiana era la sua instabilità, come si è detto, possibile per la riconoscibilità, distinzione e relativa stabilità dei dati di partenza, in particolare sonori, che provocavano lo spettatore in un complesso ma chiaro sistema di attese, appagamenti, sorprese e stati d’animo. Il mélange, la contaminazione e ibridazione di generi, viceversa, portano in tutt’altra direzione e si mostrano come etichette della dimensione di genere contemporanea che, se possono funzionare sul versante della produzione testuale, non sembrano tenere su quello della ricezione, in cui l’esperienza può certamente trascolorare velocemente da un piano all’altro in un caleidoscopio di emozioni, che tuttavia devono prima essere riconoscibili in quanto tali. Ma questo porterebbe molto lontano. Come dimostra l’esperienza del giallo all’italiana, con le oscillazioni tra horror e mistery, tra suspense e shock, il suono ha un’importanza non secondaria nell’attestazione dell’esperienza della paura e conferma la necessità di esaminare più a fondo le sue configurazioni nella codificazione, riconoscibilità ed esperienza di genere tout court: un ruolo che rimane tutto ancora da indagare.
Suono elettroacustico e generi cinematografici: da cliché a elemento strutturale di Maurizio Corbella Ormai ci siamo fatti un vocabolario musicofantascientifico: a occhi chiusi potremmo riconoscere la presenza sullo schermo dell’astronave marziana entrata nell’orbita della terra, oppure l’effetto di “vuoto sonoro” che alberga nello spazio1. Luigi Pestalozza
Nonostante sia trascorso più di mezzo secolo, l’affermazione di Luigi Pestalozza riportata in epigrafe è ancora valida. Volendole donare una formulazione più generale, potremmo affermare che esiste un repertorio di stilemi musicali e sonori strettamente legato ai generi cinematografici della fantascienza e, aggiungiamo, dell’orrore. Di tale repertorio, le elaborazioni elettroacustiche del suono costituiscono parte sostanziale. Più precisamente, esiste un rapporto preferenziale che lega l’impiego di procedimenti di sintesi e manipolazione del suono nel cinema a sostanzialmente due topoi narrativi, riscontrabili con frequenza nei generi suddetti: la perdita o l’alterazione dello stato di coscienza e l’automatismo. Il film recensito da Pestalozza, la cui musica è opera di un compositore di un certo rilievo come Lyn Murray, non è certo Star Wars (Guerre stellari, George Lucas, 1977), e nemmeno Forbidden Planet (Pianeta proibito, Fred. R. Wilcox, 1956), uscito in Italia proprio un mese prima che il musicologo milanese si producesse nel suo commento. Esso si confonde in quel folto sottobosco di titoli che affolla gli anni ’50 americani, caratterizzati da Guerra Fredda, esperimenti nucleari e ricerche aerospaziali. Proprio in virtù delle caratteristiche non distintive del film in oggetto, l’analisi di Pestalozza ci permette di evidenziare un aspetto della relazione tra suono Luigi Pestalozza, s.t., «Cinema Nuovo», V, 86, 1956, p. 28 [recensione a On the Threshold of Space (Gli eroi della stratosfera, Robert D. Webb, 1956)].
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elettroacustico e genere cinematografico: l’alto tasso di stereotipizzazione. Siamo nel 1956 e soluzioni sonore che dovrebbero rappresentare una novità per il pubblico hanno già il sapore di un dato acquisito per il critico. Anche questo è una sorta di luogo comune delle cronache sull’impiego del suono e della musica nella fantascienza: così come a ogni nuovo film di questo genere le produzioni puntano invariabilmente sulla novità degli effetti speciali (compresi quelli sonori), altrettanto costante è, almeno negli anni ’50 e ’60, il coro di voci critiche che declassano il fenomeno a cliché. Il musicista di Hollywood, scrive sarcasticamente Pestalozza,
damento estetico della creazione musicale, in particolare il ruolo del compositore e del performer; come risultato, talune pratiche musicali sperimentali, decontestualizzate dall’avanguardia e dunque private di una leggibilità in termini estetico-programmatici, sono facilmente (e per il musicologo deprecabilmente) rifunzionalizzabili in un discorso cinematografico “di genere”. In altre parole la composizione sperimentale tende facilmente a “sparire” dietro l’immagine, diventandone puro complemento sonoro e rumoristico. Seguendo con maggior attenzione del solito il materiale sonoro impiegato, m’è parso possibile chiedermi se non esista, o addirittura fin dove esista, un legame ideale fra questa musica funzionale e corresponsabile del fenomeno sociale connesso alla fantascienza, e le ricerche concrete ed elettroniche che nel campo “colto” si conducono in Germania, Francia, Stati Uniti ed anche in Italia. Do per scontato l’interesse degli esperimenti in corso per la produzione di nuovi suoni e anche per la determinazione di una nuova dimensione musicale svincolata dal pentagramma e dalle sue leggi: quando però mi trovo di fronte a disquisizioni teoriche che spostano il problema creativo-musicale, dal naturale ordine estetico, a quello della ricerca scientifica e riproduzione dei dati sonori insito in fenomeni fisici od organici della materia, indicando in essi la nuova “realtà musicale”, la realtà musicale dell’“era atomica” e della “relatività einsteiniana”, e quando di conseguenza mi sento dire che questa è la nuova dimensione artistica, dal punto di vista musicale, dell’uomo, allora mi chiedo se l’alienazione così facilmente identificabile nei film sui marziani e quindi nella musica relativa, non faccia partecipe anche quella “colta” che con essa ha così evidentemente in comune non solo dati tecnici: ossia l’una e l’altra, nelle rispettive sedi, si gioverebbero di medesimi mezzi per medesimi fini, che sotto l’aspetto creativo appaiono essere, entrambi, “fantascientifici”: ossia sono il nutrimento di un bisogno di evasione, l’antiumanesimo, la sfiducia nella realtà, l’aspirazione “titanica” e irrazionale verso domini cosmici, o, peggio, il dilettantesco entusiasmo per le conquiste della scienza che trasfigurano con altrettanta superficialità secondo una posizione culturale che soffre degli squallidi estetismi della decadenza3.
si è aggiornato dunque alle esigenze di questa produzione; le vecchie formule a base di orchestre fruscianti da sfondo patetico le riserva semmai per quelle scene finali in cui l’austera scienziata si toglie le spesse lenti e convola femminilmente a giuste nozze. Altro, per i tre quarti della pellicola, apprestano dunque i compositori di film fantascientifici. Data mano alla erudizione elettronica dei suoni, sfruttati i segreti della musica meccanica e gli effetti più stupevoli di echi e sonorità, intervengono con lancinante brutalità sullo spettatore rovesciandogli nei padiglioni auricolari drastici avvertimenti dell’imminente incontro fra sole e terra2.
Il mio intervento si interrogherà a fondo sulla natura della relazione tra suono elettroacustico e immaginario occidentale, cercando di coniugare alcune tendenze dei cultural studies in campo mediologico con un’ottica più espressamente storico-musicologica. La tentazione di utilizzare l’articolo di Pestalozza come grimaldello per altre questioni non si esaurisce però qui, a dimostrazione di come esso si distingua, per sensibilità intellettuale, da altri più sterili interventi (re)censori dello stesso periodo. L’autore individua una questione nevralgica che pochi critici erano disposti a prendere in considerazione a quell’altezza cronologica, e che potremmo sintetizzare come segue: esiste un qualche «legame ideale» tra ricerca scientifica, sperimentazione musicale e cinema di fantascienza. L’analisi di Pestalozza, pur di carattere catastrofista e profondamente datata nei toni, centra uno dei nodi del problema: l’avanguardia musicale trova nell’ambito della ricerca scientifica risorse rivoluzionarie per la produzione e l’organizzazione del suono e, così facendo, pone sotto scacco il fon2
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Al netto del fervore ideologico e dell’enfasi retorica di cui sono ammantate, tali considerazioni permettono di individuare il secondo filone che seguirà il mio intervento: la messa in luce delle modalità con cui il cinema degli anni ’60 prova, attraverso la permeabilità a poetiche sviluppate in seno alla sperimentazione elettroacustica, a interpretare una realtà profondamente mutata sotto il profilo delle tecnologie e delle ricadute (scientifiche, esistenziali, politiche) che esse hanno sulla società. Sotto il profilo metodologico, il mio intervento è guidato da alcuni temi di respiro epistemologico, che scelgo di riformulare sotto forma di domande aperte: esiste un modo proficuo di incrociare la riflessione sui generi cinematografici con lo studio della musica e del suono elettroacustici? Cosa si può ricavare da un punto di vista musicologico da tale incrocio e, viceversa, quanto l’immissione di una prospettiva musicologica può contribuire alla teoria dei generi cinematografici? Nel tentativo di articolare meglio tali interrogativi, propongo una struttura formata da due paragrafi tra loro potenzialmente indipendenti eppure legati da una direzionalità che muove dal generale al particolare. La prima parte, di respiro più teorico, muove da una critica del concetto di cliché, che vorrebbe appiattire la “simbiosi” tra suono elettroacustico e genere a un fatto facilmente comprensibile e deprecabile dal punto di vista estetico, per poi formulare un’ipotesi di genesi di alcuni procedimenti narrativi distintivi dei generi della fantascienza e dell’orrore in stretta corrispondenza con la scoperta della sintesi sonora. La seconda parte, di respiro più storiografico, si concentra su un periodo cronologico specifico, gli anni ’60, mettendo in luce la transizione di temi culturali ad alto tasso di implicazioni simboliche e archetipiche tra i “poli” della ricerca scientifica, dell’avanguardia musicale e della produzione cinematografica; in secondo luogo essa discute l’emergenza di nuove forme di concezione e organizzazione del suono cinematografico all’interno di film di genere, come risultato dell’influenza delle avanguardie musicali sul cinema.
Sintesi sonora e formazione dei generi classici
essi si affermano secondo modalità che non sono del tutto dipendenti da una volontà imposta, che sia quella del pubblico, dell’industria culturale o di un’ideologia. Nel delineare il triplice approccio semantico-sintatticopragmatico alla teoria dei generi, Rick Altman individua tre fattori che entrano in gioco nella costituzione della nozione di genere: la produzione, il pubblico e la critica 4. Essi sono tra loro paritetici ma disomogenei, le loro finalità e i loro orizzonti d’azione sono diversi. Se dunque il genere è frutto di una negoziazione tra tali istanze ed è allo stesso tempo soggetto a costante ridefinizione storica e geografica, altrettanto si può dire nella nozione di cliché, che si forma con significati e connotazioni differenti tanto in seno alla critica, quanto al pubblico e all’apparato produttivo cinematografico. Guardare al genere attraverso la “lente d’ingrandimento” del suono può aiutarci a capire meglio le sue articolazioni in un determinato periodo storico o contesto produttivo. Viceversa, guardare al suono attraverso le griglie interpretative del genere consente di illuminare alcune connotazioni simboliche che determinate configurazioni sonore veicolano nell’immaginario in specifici contesti socio-culturali. Proviamo pertanto a partire da una selezione di aneddoti cinematografici particolarmente noti per mettere in luce alcune caratteristiche generali della convergenza tra genere e suono elettroacustico. • Nel 1983 Ben Burtt vince l’Oscar come “Best Sound Effects Editing” per E.T. Extra-Terrestrial (E.T. L’extraterrestre, Steven Spielberg, 1982). • Pochi anni prima, nel 1978, Burtt era stato insignito dello Special Achievement Award per «the creation of the alien, creature and robot voices» in Star Wars. • Il primo film di Lucas, THX-1138 (L’uomo che fuggì dal futuro, 1971) segna l’introduzione del termine «sound montage», categoria fino a quel momento non presente nei credits cinematografici: essa dà conto del peculiare lavoro di assemblaggio e di manipolazione sonora operato da Walter Murch, che successivamente avrebbe inaugurato il più fortunato termine «sound design» in Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1978).
La pervasività e la varietà di contesti in cui la convergenza tra suono elettroacustico e determinati topoi narrativi si manifesta ci deve imporre di superare una volta per tutte la scorciatoia della riduzione del fenomeno a cliché di genere. È ben vero che i generi hanno come condizione di esistenza la costituzione di stereotipi riconoscibili, ma è altrettanto vero che
4 Rick Altman, Film/Genre, British Film Institute, London, 1999 (tr. it. Film/Genere, Vita e Pensiero, Milano, 2004).
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• Quando Forbidden Planet (Il pianeta proibito, Fred. R. Wilcox, 1956) esce nelle sale, la “anomala” colonna sonora generata dai circuiti elettronici di Louis e Bebe Barron viene definita nei titoli del film «electronic tonalities».
Dai casi citati, tutti riconducibili al genere sci-fi, si possono dedurre alcune constatazioni. L’introduzione di procedimenti inconsueti di produzione o manipolazione del suono ha imposto all’industria la creazione di terminologie ad hoc. Ciò ha contribuito al riconoscimento presso il pubblico di una specificità di genere di tali procedimenti sonori. Infine, un’ulteriore peculiarità del genere della fantascienza, rispetto alla “norma” hollywoodiana, consiste nel fatto che il suono deve essere avvertito come inconsueto, inusuale, atipico, alla stessa stregua di un effetto speciale. Ribaltiamo la prospettiva: essendo l’effetto speciale un requisito necessario del genere, il suono deve conformarsi a questa qualifica. Sulla base di tale premessa, mi sembra che si segnalino due direzioni di studio: il suono sintetico può essere studiato come conseguenza di un genere, oppure come elemento strutturante del genere stesso. Nel primo caso il suono s’inserisce in una struttura già formata, dotata di proprie regole ed equilibri, nel secondo esso è anteriore alla formazione del concetto di genere. La prima via è la più battuta, poiché parte da osservazioni fenomenologiche che si prestano a indirizzi di carattere narratologico. L’impiego del suono sintetico è interpretato come risultato della necessità dei generi cinematografici della fantascienza e dell’orrore di allargare lo spettro del realismo, ridefinendo i codici stessi della verosimiglianza. L’esempio più tipico è quello delle spade laser di Star Wars, in cui un suono sintetico che non ha alcun referente reale è accostato efficacemente a un oggetto, il quale, pur conservando legami con la realtà conosciuta (la spada), riceve dall’accostamento audiovisivo caratteristiche che richiamano un mondo possibile costruito sulla base di un’intensificazione tecnologica del mondo reale (il laser)5.
La seconda prospettiva, che indaga il suono come fattore strutturante del genere, è invece meno frequentata, ma più fertile dal punto di vista metodologico. La mia tesi è che nel trattamento elettroacustico del suono si possano leggere caratteristiche intrinseche che lo portano a funzionare quale generatore di meccanismi narrativi in ambito hollywoodiano. Essa parte dall’assunto che alla base della formazione del modello narrativo “classico” hollywoodiano negli anni ’30 stia la capacità della tecnologia cinematografica di riprodurre l’atto umano per eccellenza: l’elocuzione, l’unione tra parola e azione del parlare. Grazie alla sincronizzazione audiovisiva, la proprietà “inscrittoria”6 delle tecnologie di fissaggio del suono e dell’immagine viene elevata a momento determinante dell’atto comunicativo del cinema, al punto da passare quasi per naturale7. Con il predominio di tale paradigma, accade che anche un principio in sé potenzialmente divergente rispetto al fissaggio, vale a dire la sintesi sonora, venga per così dire irreggimentato nel tessuto realistico fino a diventarne bilanciamento fondamentale. Ritengo la sintesi divergente rispetto al fissaggio poiché essa nega il principio inscrittorio che consente la corrispondenza tra realtà e impressione di realtà8. Nelle prime esperienze conosciute di
Tale prospettiva è assunta da Luca Bandirali ed Enrico Terrone per lo studio del cinema di fantascienza e dal primo declinata anche in termini sonori; cfr. Luca Bandirali, Enrico Terrone, Nell’occhio, nel cielo. Teoria e storia del cinema di fantascienza, Lindau, Torino, 2008, pp. 15-46; Luca Bandirali, Il campo sonoro della fantascienza come prodotto di una estensione ontologica e di una intensificazione tecnologica, “Ascoltare lo schermo”, Convegno Internazionale di Studi, Università degli Studi di Roma-Tor Vergata, 8-10 novembre 2008.
Il concetto di inscription nell’ambito delle tecnologie di riproduzione sonora è stato studiato, tra gli altri, da Douglas Kahn (Introduction. Histories of Sound Once Removed, in Id., Gregory Whitehead (a cura di), Wireless Imagination. Sound, Radio and the Avant-Garde, Mit Press, Cambridge (MA), 1992, pp. 1-29) e da James Lastra declinato in termini cinematografici in un’utilissima ricerca sul ruolo del suono nella formulazione del paradigma narrativo “classico” a Hollywood (James Lastra, Sound Technology and the American Cinema. Perception, Representation, Modernity, Columbia University Press, New York, 2000). 7 In un suo testo seminale (Moving Lips: Cinema as Ventriloquism, «Yale French Studies», 60, Cinema/Sound, 1980, pp. 67-79) Altman spiega come alla base dell’illusione di verosimiglianza nel cinema vi sia un procedimento ventriloquista: «La ridondanza dell’immagine – vedere “chi parla” mentre sentiamo le “sue” parole – serve dunque a un doppio obiettivo. Attraverso la creazione di un nuovo mito delle origini, fuorvia la nostra attenzione 1) dallo statuto tecnologico, meccanico, e quindi industriale del cinema, e 2) dal fatto scandaloso che il film sonoro comincia come linguaggio – dello sceneggiatore – e non come pura immagine»; Ivi, p. 69 (ove non diversamente indicato, le traduzioni dall’inglese e dal tedesco sono di chi scrive). 8 A ben vedere, un importantissimo elemento di digressione dal paradigma inscrittorio è già adombrato nell’ambito delle stesse tecnologie di fissaggio e riproduzione delle origini. Illuminanti sono le riflessioni di Rainer Maria Rilke (Ur-Geräusch [1919], in Id., Sämtliche Werke, vol. 6, Frankfurt a. M., Insel, 1987, pp. 1085-1093) riportate da Friedrich Kittler riguardo alla somiglianza tra i solchi fonografici e quelli della sutura coronale cranica: «Prima di Rilke, nessuno aveva mai suggerito di decodifica-
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sintesi sonora, rappresentate dal suono disegnato su pellicola ottica, il segno sulla pellicola non ha rapporto con una sorgente sonora reale, non è la codificazione di un dato sonoro esistente in realtà; semmai, come accade nelle sperimentazioni di Oskar Fischinger e di Rudolf Pfenninger, ambisce ad avere una relazione con processi di organizzazione simbolica della percezione9. Le sintesi sonore e visive dunque non tematizzano necessariamente una relazione tra realtà e riproduzione, e anzi conoscono nella loro storia sviluppi profondamente divergenti da tendenze rappresentative, allorché per esempio diventano, lontano dagli affaire cinematografici, il fondamento di poetiche compositive musicali, come quelle riconducibili all’esperienza elettronica dell’avanguardia musicale nel dopoguerra o, più tardi, alla video arte. Ciononostante, nel dominio del cinema narrativo, il suono sintetico diventa da subito il bilanciamento del suono fissato. Sfruttato precipuamente nella sua opzione emulatoria10, esso apre l’illusione di realtà all’orizzonte del perturbante, fondamentale nell’economia dei generi dell’orrore e della fantascienza. È significativo per esempio che, tra i primi impieghi di suono ottico, vi siano le riproposizioni di famosi brani musicali della tradizione classico-romantica11 e, soprattutto, la ricostruzione della voce umana; quando ciò avviene, in un film inglese del 193112 , appare chiaro che la messa in dubbio dell’identità tra rappresentazione e realtà può essere sfruttata con finalità narrative, principalmente per rendere verosimile l’inverosimile. Ecco che la corrispondenza tra la sintesi sonora e i generi cinematografici dell’orrore e della fantascienza diventa oltremodo significativa.
Per sostanziare la mia tesi mi servo di alcune intuizioni di Ruggero Eugeni. Nelle pagine finali di La relazione d’incanto, egli adombra una teoria dei generi cinematografici che attribuisce importanza fondativa all’avvento del suono sincronizzato13. Sebbene i generi cinematografici siano rintracciabili sin dall’epoca del muto, essi si definiscono secondo la modalità “classica” – sostanzialmente di riferimento fino ai giorni nostri – con l’affermarsi a Hollywood del metodo di sincronizzazione tra dialogo e immagine. Questo perché «ogni genere è caratterizzato da una peculiare connessione tra interazione comunicativa e azioni di trasformazione del mondo»14. Più precisamente, il genere si fonda sull’incrocio tra due assi fondanti l’esperienza cinematografica, che scelgo di definire “rappresentativo” e “metalinguistico”15. Il primo esprime la proprietà del cinema di riprodurre sullo schermo dinamiche socio-interazionali riconoscibili nella realtà, vale a dire schemi conversazionali tipici di diversi contesti sociali. Il secondo asse riguarda invece la specifica dinamica comunicativa ed esperienziale messa in atto dal dispositivo cinematografico nei confronti dello spettatore: il cinema configura un’esperienza peculiare di comunicazione, quella tra dispositivo e fruitore, della quale è in grado di ricalibrare in continuazione regole, convenzioni e aspettative. Il peculiare ruolo ricoperto dal cinema dell’orrore (ma la fantascienza opera con meccanismi sostanzialmente analoghi) risiede nel fatto che esso da un lato privilegia un modello interazionale specifico, vale a dire quello dell’ipnosi16, dall’altro si basa su un’accentuazione dell’aspetto metatestuale, per l’importanza drammaturgica che assume la relazione tra dispositivo cinematografico e spettatore:
re una traccia che nessuno aveva [precedentemente] codificato e che non codificava nulla. Mai dall’invenzione del fonografo c’era stata una scrittura priva di contenuto»; Grammophon, Film, Typewriter, Brinkman & Bose, Berlin, 1986, p. 71. 9 Cfr. Thomas Y. Levin, “Tones from out of Nowhere”: Rudolph Pfenninger and the Archeology of Synthetic Sound, «Grey Room», 12, summer 2003, pp. 33-79. 10 James Lastra (Sound Technology and the American Cinema, Columbia University Press, New York, 2000) usa il termine simulation. 11 È esattamente quanto accade con l’introduzione dei primi sintetizzatori portatili come il Moog: si pensi alla produzione di Wendy Carlos e all’impiego cinematografico che ne fa Kubrick in A Clockwork Orange (Arancia meccanica, Stanley Kubrick, 1971). 12 L’aneddoto è citato da Levin (“Tones from out of Nowhere”, cit. p. 33) riferendosi a una notizia del «New York Times» (s.a., Synthetic Speech Demonstrated in London; Engineer Creates Voice Which Never Existed, «New York Times», 16 febbraio 1931) in cui non compaiono gli estremi dell’opera, ma solo il nome del tecnico dell’ingegnere coinvolto: E. A. Humphries.
Ruggero Eugeni, La relazione d’incanto: studi su cinema e ipnosi, Vita e Pensiero, Milano, 2002, p. 196. 14 Ibidem. 15 Eugeni non usa questa terminologia, che tuttavia è funzionale al mio discorso. 16 La tesi fondamentale del saggio di Eugeni è che l’esperienza cinematografica possa essere letta come uno sviluppo della scena ipnotica storica. Il particolare taglio scelto consente l’apertura della semiologia del testo filmico a prospettive di tipo psicoanalitico e sociologico.
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Il cinema dell’orrore costituirebbe un luogo di convergenza dei differenti modelli sociali di interazione, ma anche di loro crisi, di blocco, di impasse (o, se si preferisce, in analogia con il racconto fantastico letterario, di sovversione). Al tempo stesso, il cinema dell’orrore costi13
tuirebbe un luogo di forte e anomala esibizione dello scambio testuale, di diegetizzazione del dispositivo cinematografico, di messa in atto di procedimenti metadiegetici e metafilmici. Lo scopo consisterebbe nella costituzione di un effetto di terrore specificatamente testuale, che si configura in due modi: quale modalizzazione disforica dello scambio testuale in atto; e quale minaccia di blocco di tale scambio e conseguente improvvisa espulsione dello spettatore dallo spazio organizzato e sensato del testo verso lo spazio disperso e opaco del contesto: verso la sala cinematografica e lo schermo – superficie anonima, muta, fra il proiettore e il nulla17.
Eugeni nota come nei primi horror sonori prodotti dalla Universal, tra i quali sceglie Dracula (Tod Browning, 1931) e The Mummy (La mummia, Karl Freund, 1932), uno tra i principali effetti di terrore, e insieme il canale privilegiato del cortocircuito metatestuale, sia la dislocazione della voce rispetto alla fonte sonora, ciò che Michel Chion chiama acusmatizzazione («la voce in cui il corpo non appare, la voce acusmatica, è inserita nei film per dar luogo a particolari effetti di mistero e inquietudine»18). La dislocazione della voce, che in questi film è impiegata per generare inquietudine – in Dracula la voce del conte si avverte mentre è inquadrato lo specchio che non ne riflette l’immagine, mentre in The Mummy la voce fuori campo è quella della mummia reincarnata che ipnotizza le sue vittime conducendole a sé – non è altro che la negazione della funzione inscrittoria di cui le tecnologie di riproduzione sono investite nell’ambito del cinema narrativo. Essa funziona come spia di un genere cinematografico distinto, poiché da una parte insinua nello spettatore dubbi sullo statuto della situazione conversazionale che, da semplice dialogo, si trasforma in scena ipnotica, mentre dall’altra svela il meccanismo tecnologico del cinema sonoro, che consiste nella sovrapposizione parallela ma non interdipendente di suono e immagine, incrinando così il presupposto dell’illusione audiovisiva. Nella sua analisi di Das Testament des Dr. Mabuse (Il testamento del Dottor Mabuse, Fritz Lang, 1932), Chion precisa le ricadute audiovisive di questo discorso e allo stesso tempo contribuisce a chiarire il procedimento messo in atto dal genere19. L’universo sonoro del film di Lang può essere
totalmente riconducibile a una sorta di «terribile macchina acusmatica»20, che cela un’oscura presenza riconducibile, su quello che ho chiamato “asse rappresentativo”, al personaggio Mabuse. L’asse rappresentativo tuttavia non soddisfa del tutto lo spettatore, poiché non è mai possibile operare una perfetta identificazione tra le conformazioni fisiche che il personaggio assume nel film (il paziente afasico del Professor Baum, lo spettro, Baum stesso) e quelle vocali che a esse sono accostate (la voce “reale” di Baum, la voce dello spettro, la voce riprodotta dal grammofono). È quindi sull’“asse metatestuale” che il film si completa, nella misura in cui il dispositivo tecnologico della macchina-film si rivela attraverso le discrasie tra suono e immagine come generatore di inquietudini irrisolte. L’aspetto interessante, che ci porta finalmente ad aprire il discorso sul suono elettroacustico, è che tali discrasie notate da Chion non coinvolgono solo la voce, ma si servono in Mabuse di procedimenti interessanti dal punto di vista del suono tout court. Due sono le sequenze significative in tal senso: quella iniziale, in cui la partitura orchestrale si dissolve inabissandosi nel rumore ossessivo che domina la scena, azzerando completamente gli altri suoni ambientali e la sequenza dell’assassinio del Dottor Kramm, caratterizzata dal risuonare dei clacson delle autovetture ferme al semaforo. Nel primo caso la presenza sonora rimane misteriosa, poiché non è mai deacusmatizzata. Ciò porta lo spettatore a prestare più attenzione alle sue caratteristiche morfologiche e timbriche, che svelano una componente meccanica veicolata dal timbro peculiare e soprattutto dalla pulsazione regolare. La macchina misteriosa crea una sensazione ambigua di disagio e di ordine, un ordine ostile alla natura umana. Proprio il mancato disvelamento della sorgente sonora costituisce un primo indizio subliminale dell’oscura presenza che aleggia su tutto il film. La sequenza dei clacson funziona invece in modo opposto: si parte da un suono diegetico indubitabilmente verosimile, ma si mette in dubbio la verosimiglianza attraverso l’accentuazione delle possibilità musicali dei vari clacson, dotati di varie intonazioni e organizzati ritmicamente (ancora una volta sono messi in evidenza la meccanicità e l’ordine). Siamo in grado a questo punto di trarre una prima conclusione, sep-
Ivi, pp. 196-197. 18 Ivi, p. 193 (corsivo nel testo). 19 Michel Chion, La voix au cinéma, Editions de L’Etoile-Cahiers du Cinéma, Paris,
1982 (tr. it. La voce nel cinema, Pratiche, Parma, 1991). Di seguito mi riferisco alla traduzione inglese di Claudia Gorbman (The Voice in Cinema, Columbia University Press, New York, 1999). 20 Ivi, p. 42.
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pur provvisoria. La sintesi sonora funziona come veicolo per immettere nell’immaginario occidentale un genere d’inquietudine esistenziale specificamente audiovisivo. Essa dà forma a un nuovo senso del perturbante e del meraviglioso, che rimane latente in ogni genere del cinema sonoro, ma che si esplicita, si codifica e finanche si anestetizza nei generi-limite della fantascienza e dell’orrore.
Suono (ri-)organizzato. Musica elettroacustica e cinema negli anni ’60 Lo sviluppo nel secondo dopoguerra di poetiche compositive musicali che, grazie all’ausilio di tecnologie più avanzate, riprendono il filo della riflessione sulla sintesi sonora spezzatosi nel corso degli anni ’30 e ricominciano a ragionare sul suono come entità concettuale a sé stante, configura una stagione di aperta conflittualità con l’impiego del suono elettroacustico nel cinema narrativo. Douglas Kahn ha sostenuto come la strategia comune alle avanguardie musicali, da Russolo a Cage, sarebbe stata quella di portare progressivamente all’interno dell’universo musicale le nozioni di rumore e di extra-musicale, con l’intento di rinnovare e rivoluzionare la pratica compositiva. Conseguentemente però, l’avanguardia avrebbe attuato un processo di spoliazione e astrazione del suono, definito musicalization, per conformarsi a nozioni di «sonicità», vale a dire «idee di un suono spogliato dei suoi attributi associativi, minimamente codificato e situato in stretta prossimità con la percezione “pura”, distante dai contaminanti effetti del mondo»21. Si noti che tale non è il percorso seguito da altri ambiti del pensiero musicale, per esempio quello popular che anzi, inaugurando negli anni ’60 la stagione psichedelica, procede addensando sul suono tutte le connotazioni culturali e gli effetti “contaminanti” del mondo, che Kahn sintetizza nell’espressione worldliness22. Giova ricordare che in tale suddivisione si riecheggia, su un piano differente, l’antico dibattito tra musica pura e musica descrittiva, nonché il dibattito tra musica assoluta e musica funzionale, vivissimo negli anni ’60. Ciò ci aiuta anche a non perdere di vista come le frequenti dichiarazioni d’insofferenza verso il cinema da parte di compositori dell’avanguardia
vadano lette con una lente storica capace di fare la tara della sovrastruttura ideologica che le informa. Nonostante quella di Kahn sia una tesi meta-storiografica affascinante, le considerazioni che posso trarre dalle mie ricerche sui rapporti tra cinema e sperimentazioni musicali elettroacustiche negli anni ’50 e ’60 procedono verso un rimescolamento delle categorie che fin qui sono sembrate nettamente adombrate. La conflittualità tra mondo dell’avanguardia e mondo della musica per film esiste, certo, soprattutto dal punto di vista del dibattito intellettuale, ma è ben più sfumata sotto il profilo delle pratiche. Altrove ho infatti dimostrato come, prendendo a caso di studio la situazione musicale italiana degli anni ’60, tale relazione sia intricata, tanto nell’ambito estetico quanto in quello produttivo, e necessiti di molto altro lavoro documentario e storiografico23. Dal punto di vista cinematografico tale rimescolamento degli equilibri in gioco è favorito dalla deflagrazione sul piano internazionale del modello narrativo classico hollywoodiano, che passa attraverso la radicalizzazione di alcuni percorsi del neorealismo italiano, il superamento operato dalla Nouvelle vague e la sclerotizzazione dello Studio System californiano24. Quando vacilla un modello narrativo forte, ecco che anche la nozione di genere è soggetta a metamorfosi: il genere sopravvive sotto forma di simulacro, che non ha più lo scopo di imbrigliare la realtà, ma semmai di renderne evidenti le falle e i lati inspiegabili. Forse è per questo che la fantascienza, proprio il genere che negava e radicalizzava le regole del realismo, diventa una delle prospettive congeniali per rileggere il reale. Ma essa rappresenta anche un appiglio per la negazione categorica del realismo e l’approdo all’astrazione; in questo senso l’esile fabula di 2001: A Space Odissey (2001: Odissea nello spazio, Stanley Kubrick, 1968) è l’esempio paradigmatico della dissoluzione della narrazione e della proposta di un ritorno a un’esperienza audiovisiva di tipo non narrativo. In tale processo di trasformazione il suono elettroacustico assume un
Douglas Kahn, Introduction. Histories of Sound Once Removed, in Id., Gregory Whitehead (a cura di), Wireless Imagination, cit., p. 3. 22 Ibidem.
23 Cfr. Maurizio Corbella, Paolo Ketoff e le radici cinematografiche della musica elettronica romana, «AAA-TAC», 6, 2009, pp. 65-75; Id., Sperimentazione elettroacustica e cinema d’autore in Italia negli anni ’60. Due casi di studio, «Comunicazioni sociali», Sonoro, 1, 2011 (in corso di stampa). 24 Riguardo infine la crisi dello Studio System hollywoodiano, cfr. Garth Jowett, Decline of an Institution, in Thomas Schatz (a cura di), Hollywood. Critical Concepts in Media and Cultural Studies, 4 voll., I, Routledge, London-New York, 2004, pp. 127-196.
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ruolo decisivo. Per esigenza di semplificazione scelgo due percorsi tematici, esemplificati rispettivamente da due film celebri: • l’esplorazione di nuove forme d’interazione tra suono e immagine, tramite il tentativo di accogliere sotto forma narrativa acquisizioni della ricerca sperimentale (Forbidden Planet); • la formulazione di un nuovo modello narrativo in grado di reggere il peso di una realtà mutata profondamente; in termini estetico-produttivi vedremo come ciò equivalga alla ri-organizzazione degli equilibri tra le componenti sonore del film (The Birds, [Gli uccelli, Alfred Hitchcock, 1963]).
Forbidden Planet è solitamente considerato un film spartiacque dal punto di vista del ruolo della musica elettronica. C’è del vero: questo film configura in più di un senso un “prima” e un “dopo” nella storia del cinema, non solo perché è la prima produzione mainstream a fare uso di una musica generata esclusivamente da processi elettroacustici, ma anche perché rappresenta un caso limite di ricezione culturale. Esso attira su di sé la più grande meraviglia del pubblico e dei cultori del genere, e contemporaneamente la più accesa condanna da parte di critici e compositori attivi sul versante sperimentale25. Il punto di convergenza tra grandi entusiasmi e aspre critiche al film di Fred R. Wilcox consiste senza dubbio nel fatto che esso stabilisce un cortocircuito culturale tra istanze considerate comunemente antagoniste: l’intrattenimento di massa e l’avanguardia. Louis e Bebe Barron, gli autori delle musiche per il film, sono compositori esterni al sistema produttivo hollywoodiano, provenienti dalla sperimentazione newyorchese. Il cortocircuito è generato dal fatto che essi immettono in una produzione hollywoodiana il nucleo della ricerca che stanno conducendo in seno al progetto Music for Magnetic Tape, del quale fanno parte anche John Cage, Earle Brown, David Tudor, Morton Feldman e Christian Wolff, e che darà alla luce quattro composizioni, tra cui Williams Mix (1952) e For an Electronic Nervous System (1953-54), degli stessi Barron. Il principio compositivo alla base di quest’ultima composizione, in seguito trasferito nel film, è di tipo cibernetico: consiste nella costruzione di circuiti elettronici capaci di emulare comportamenti elementari del sistema
nervoso animale. Il processo di preparazione consiste nel fare esperienza di casistiche e di possibilità di intervento tecnico sui circuiti, cioè, per dirla con il fondatore della cibernetica Norbert Wiener, nell’elaborare modelli di comportamento dei circuiti e loro corrispondenze con modelli di comportamento animale26. Il passaggio successivo, di carattere drammaturgico, che naturalmente presta il fianco a critiche di ingenuità, consiste nell’associare tali modelli a “tipologie caratteriali” dei personaggi del film. Nonostante la cibernetica non si occupi di espressioni artistiche e nemmeno udibili, le leggi scientifiche esistono per essere prese in prestito, e un sistema nervoso elettronico può essere progettato attraverso la costruzione di modelli di comportamento che richiamino tipologie di personalità. Quando questi circuiti sono opportunamente progettati, controllati e stimolati, essi reagiscono emozionalmente con strani e significativi suoni. Se pensiamo a questi circuiti dalla personalità elettronica come a personaggi o attori, e quindi componiamo per loro, ci comportiamo come drammaturghi o registi. Come drammaturghi, prima decidiamo un cast di personaggi, progettiamo e costruiamo circuiti che interpretino le parti. Poi strutturiamo una drammaturgia nella quale questi personaggi elettronici interagiscano tra loro man mano che la trama si dispiega. Quindi diventiamo registi e ci accertiamo che i circuiti-attori abbiano i tempi giusti, e interpretino i loro personaggi autenticamente ed efficacemente. Ciò è possibile solo comprendendo e controllando la loro attività elettronica. Amplificandola e registrandola su nastro magnetico, siamo in grado di tradurre il comportamento elettronico in forma udibile. L’aspetto più significativo dell’intero fenomeno è che i suoni che scaturiscono da questi sistemi nervosi elettronici veicolano significati emozionali distinti tra gli ascoltatori27.
La musica, nell’ottica dei compositori, non dovrebbe limitarsi a commentare la vicenda, a suggerire allo spettatore un’adesione emozionale, bensì dovrebbe letteralmente personificare i traguardi attuali della scien-
Cfr. James Wierzbicki, Louis and Bebe Barrons’ Forbidden Planet, Scarecrow Press, Lanham (MD), 2005 (Film Scores Guides, 4).
Norbert Wiener, The Human Use of Human Beings, Houghton Mifflin, Boston, 1950 (tr. it. Introduzione alla cibernetica, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 23-24). 27 Louis & Bebe Barron, Forbidden Planet, «Film Music», XV, 5, 1956.
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za, come a suggerire in via subliminale che il confine della fantascienza si è spostato più in là, e che ciò che un tempo era fantasia, è diventato realtà. L’elemento sonoro dovrebbe mettere lo spettatore direttamente e drammaticamente in contatto con la realtà cibernetica. Nella mia ottica non è tanto importante che ci riesca o meno, quanto piuttosto che ci provi programmaticamente, o dichiari di averci provato. Se nelle copiose spiegazioni fornite a posteriori dai Barron, alimentate certo dal circuito commerciale in cui il film era inserito, sembra verosimile non si debba rintracciare un mero tentativo di legittimare agli occhi dell’establishment culturale un’operazione fatta per ragioni essenzialmente economiche, allora questo film davvero segna una svolta nelle modalità con cui una parte della cinematografia integra a sé il suono e la musica elettroacustica rispetto al passato. La novità sostanziale, che ritroveremo con risultati diversi nel decennio successivo, consiste nell’utilizzare suoni e musica elettroacustica non solo a fini di evocazione di un immaginario condiviso, ma come immissione nel proprio tessuto di questioni nevralgiche delle dinamiche socio-culturali contemporanee, delle quali la sperimentazione elettroacustica si fa interprete concreta. Ciò risulta evidente allorché il cinema d’autore degli anni ’60 si ibrida con il cinema di genere sci-fi e horror, sfruttandone i procedimenti audiovisivi per metterli in comunicazione con situazioni esistenziali esemplari: a casi da me altrove analizzati – Deserto rosso (Michelangelo Antonioni, 1964) e Il seme dell’uomo (Marco Ferreri, 1969)28 – si possono accostare esempi quali Omicron (Ugo Gregoretti, 1963) e Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution (Agente Lemmy Caution, missione Alphaville, Jean-Luc Godard, 1965). Dal punto di vista strettamente musicale, l’acquisizione principale, pregna di conseguenze dal punto di vista della concezione del suono cinematografico, riguarda la scoperta della natura composita (e componibile) del suono e del rumore, sulla base delle loro formanti. Che tale acquisizione porti con sé innumerevoli conseguenze dal punto di vista del rapporto tra suono e immagine, lo ha ben presente Edgar Varèse che, seppure maggiormente interessato a esperienze non narrative, parla del cinema come del luogo privilegiato di una nuova drammaturgia musicale in cui sperimentare inedite forme di organizzazione del suono: secondo Varèse è necessario superare un’organizzazione produttiva come quella di Hollywood, fondata sulla di-
stinzione netta tra sound e music departments, specchio di una concezione del suono rigidamente tripartita (parola, rumore, musica)29. Negli anni ’60 echi di questa impostazione si fanno via via più presenti; prima che in Italia essi siano ripresi con veemenza da Vittorio Gelmetti, c’è da registrare l’intervento di John Cage, pubblicato nel 1963 su «Film Culture»30. Ancora una volta sono i generi più permeabili all’impiego di suono elettroacustico ad accogliere tali stimoli. Si è già detto di Forbidden Planet, molto si potrebbe dire sul film che in un certo senso apre il corso alla Nuova Hollywood dei “movie brats” negli anni ’7031: THX-1138. Tuttavia, la circostanza di poter disporre di ampio materiale documentario su The Birds, caso abbastanza raro nel campo degli studi audiovisivi, consente a questo film di funzionare a mo’ di pietra di paragone di tale riorganizzazione estetico-produttiva, rispetto ad altri casi più lacunosi32. Quando Remi Gassmann, compositore americano di origini tedesche che nei primi anni Sessanta aveva sperimentato il Mixtur-Trautonium di Oskar Sala in alcune sue opere coreografiche, spedisce ad Alfred Hitchcock la sua candidatura per le musiche per il nuovo film del regista americano, egli pone l’accento sulle risorse timbriche potenzialmente illimitate del sintetizzatore, in grado di rivoluzionare l’approccio al suono cinematografico: Per la prima volta abbiamo a nostra disposizione, attraverso la gene-
Maurizio Corbella, Sperimentazione elettroacustica e cinema d’autore in Italia negli anni ’60, cit.
«Tra il settore della musica e quello della sonorizzazione oggi c’è poco più di una rispettiva conoscenza reciproca: ciò di cui hanno bisogno è di togliersi la giacca e di fare insieme una bella sudata. Dovrebbe esistere un settore di coordinamento in cui il compositore, o per meglio dire l’organizzatore di suoni, e il tecnico del suono lavorassero gomito a gomito», Edgar Varèse, Écrits, testi raccolti e presentati da Louise Hirbour, Bourgois, Paris (tr. it. Il suono organizzato. Scritti sulla musica, Ricordi Unicopli, Milano, 1985, p. 120). Citato in Roberto Calabretto, Lo schermo sonoro. La musica per film, Marsilio, Venezia, 2010, p. 43. 30 John Cage, A Few Ideas about Music & Film, «Film Culture», 29, 1963, pp. 35-37 (tr. it. Alcune idee sulla musica e i film, «Filmcritica», pp. 416-418). 31 Michael Pye, Lynda Myles, The Movie Brats. How the Film Generation Took Over Hollywood, Holt, Rinehart and Winston, New York, 1979. 32 Le prossime righe si basano sul materiale da me raccolto presso gli archivi di Remi Gassmann presso l’University of California, Irvine (da qui in avanti RGP) e di Alfred Hitchcock presso la Margaret Herrick Library dell’Academy of Motion Pictures, Arts, and Sciences di Beverly Hills (da qui in avanti AHP). Di notevole utilità documentaria è inoltre James Wierbizcki, Shrieks, Flutters and Vocal Curtains: Electronic Sound/ Electronic Music in Hitchcock’s The Birds, «Music and the Moving Image», I, 2, 2008.
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razione elettronica, ciò che è stato giustamente chiamato “la totalità dell’acustico”. Suoni familiari – dal rumore comune alla musica e agli effetti esoterici – così come un quasi illimitato supplemento di suoni non familiari, possono essere oggi prodotti elettronicamente. La conseguenza sembra essere una nuova dimensione nella produzione cinematografica33.
Hitchcock, nell’accettare la proposta di Gassmann, ha probabilmente in mente un progetto drammaturgico che si discosta molto dai suoi film precedenti. Del resto, The Birds è un’opera particolare, dove se c’è un giallo esso non è risolto dall’ambiguo e discusso finale, non c’è un cerchio che si chiude, bensì un’ombra tetra (rappresentata dagli uccelli) che aleggia sull’intera vicenda e le conferisce una vena insolitamente pessimista e intrisa di uno humour a tinte se possibile ancora più ciniche di quanto non sia tipico dell’autore. Probabilmente è proprio questa anomalia, di cui la componente sonora rappresenta l’aspetto più eclatante, a determinare il tiepido riscontro del pubblico e della critica. Al regista, alle prese con le sonorità elettroniche di Gassmann e Sala, si pone innanzi tutto un problema organizzativo, apparentemente banale, testimoniato da una breve nota con la quale la segretaria di produzione Peggy Robertson riferisce al direttore del sound department Paul Donnelly un dubbio del regista: Il signor Hitchcock ha posto le seguenti domande: 1) Questo sistema elettronico [si riferisce al Mixtur-Trautonium di Sala, ndr] farà i suoni del traffico ecc., o li facciamo noi? 2) Possiamo miscelare i suoni elettronici con i nostri suoni ordinari? Per esempio, abbiamo suoni naturali di uccelli sotto il nostro dialogo nel negozio di uccelli e, in questa particolare scena, la questione di usare suoni elettronici non si pone34.
La risposta a tali dubbi apparentemente contingenti è in grado di influenzare profondamente la strategia drammaturgica di Hitchcock: se, per esempio, non fosse possibile accontentare la richiesta del regista in merito al punto 2, verrebbe a cadere la premessa che fonda buona parte dell’impianto drammaturgico del film, esplicata in una sinossi che Hitchcock distribuisce a tutti i membri del Sound department, ai compositori, al con-
sulente musicale Bernard Herrmann e al direttore del montaggio George Tomasini. Alla netta suddivisione della matrice timbrica degli elementi sonori del film («Ci saranno due tipologie di suoni in questo film. La prima consiste in suoni naturali, la seconda, in suoni elettronici»35) fa seguito una dettagliata descrizione dell’amalgama, sequenza per sequenza, delle due componenti: la corrispondenza narrativa tra reale (suoni “naturali”) e perturbante (suoni elettronici) è naturalmente nettissima. Il peculiare assetto produttivo del dipartimento musicale-sonoro di The Birds, sui generis rispetto alla prassi “classica” hollywoodiana, consente al regista di esplorare territori nuovi nell’ambito del suo disegno drammaturgico. Hitchcock non soltanto dispone di una più ampia varietà di opzioni, ma è messo in condizione di poter controllare l’esatto dosaggio di elementi sonori minimi, trattabili singolarmente. Ciò traspare in particolare dalla modalità con cui egli si riferisce al suono degli uccelli, affrontandolo come un corpus composito dotato di elementi definibili singolarmente, ognuno con determinate caratteristiche acustiche e relative connotazioni: [...] potremmo provare solo con alcuni rumori d’ala, con una variazione di volume e una variazione di espressione di questa in termini di ritmo. Potremmo anche considerare se avere qualche suono di uccello tipo corvo o gabbiano o il loro equivalente elettronico, o una combinazione di ali e versi di uccello36.
Tale minuziosità trova precisa corrispondenza nella procedura compositiva di Gassmann e Sala, che avvicina in effetti gli elementi sonori come eventi singoli (ai quali si riferisce con una terminologia accurata come flutter, shrieks, vocal curtain) per poi orchestrarli, come appare chiaro dall’ascolto di alcuni frammenti sonori raccolti in una bobina conservata nel fondo di Gassmann e dal cue-sheet del film. L’eredità lasciata alla nuova generazione di cineasti americani degli anni ’70 consiste nell’aver riconosciuto nel rumore un elemento su cui investire parte significativa delle energie creative e compositive, impiegando una quantità di tempo e di risorse economiche impensabile pochi anni Background sound notes for “The Birds”, sinossi dattiloscritta, 23 ottobre 1962 (AHP-RGP). 36 Ibidem. 35
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Lettera di Remi Gassmann ad Alfred Hitchcock, 18 aprile 1962 (RGP). Nota di produzione, 7 agosto 1962 (AHP).
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prima per registrare, manipolare e mixare oggetti ed eventi sonori che rispondano alla coerenza del progetto dell’opera. La capacità emulativa dei sintetizzatori, l’introduzione del nastro magnetico e delle relative opzioni di taglio e montaggio, comunicano il fatto che la tecnologia ha raggiunto il traguardo di strutturare la sfera dell’acustico analogamente a quanto era già possibile per la sfera visiva. Se l’incontro con l’avanguardia elettroacustica era sembrato poter minare irreversibilmente qualsiasi velleità narrativa del cinema, esso si trasforma in realtà nel punto di partenza per un nuovo modello sonoro che, pur non scardinando l’organizzazione sonora originaria – che si riflette ancor oggi nell’assetto dei sound departments americani – la ridiscute conferendo un peso nuovo alle diverse componenti e immettendo una nozione di autorialità sonora che risponde alla qualifica di sound design37.
Strutture della determinazione audiovisiva1 Mario Calderaro In base a quale criterio è plausibile definire delle strutture della determinazione di tipo audiovisivo? È risaputo che tale concetto riguarda una delle più note e anche discusse istanze della filosofia lacaniana che si raccolgono attorno alle poche formule fondanti la vulgata di tale approccio filosofico, linguistico e psicanalitico, ossia che: 1.
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l’inconscio è strutturato come un linguaggio (o il discorso dell’Altro); nel linguaggio la catena significante conta indipendentemente dai significati inferiti; il gioco di presenze e assenze in una logica binaria esprime in una struttura differenziale la matrice primigenia del senso.
Il parallelo che verrà imbastito nel seguito di questo articolo non intende perentoriamente traslare ciò che in termini filosofici costituisce argomento inesauribile di un paradigma clinico terapeutico. Viene suggerita bensì una direzione che l’etnomusicologia potrebbe sfruttare per affrontare attraverso un’estetica audiovisiva i propri fenomeni oggetto di studio. Com’è possibile coniugare queste due aree che sembrano divergere radicalmente tanto nel loro campo di indagine quanto nel propugnare l’apporto dei media di provenienza cinematica? Proviamo a condurre il seguente ragionamento: tanto la psicanalisi quanto la peculiare attenzione antropologica per i fenomeni acustici che estende in genere il concetto dell’etno-
Cfr. Maurizio Corbella, Sound design. Ambiguità e necessità storica di un termine alla moda, «Worlds of Audiovision», 2010 (www.worldsofaudiovision.org, ultimo accesso: 5 ottobre 2011).
Il testo che segue costituisce la rielaborazione del nucleo teorico alla base del video-intervento presentato alla IV edizione del convegno di studi «Suono e Immagine» (Università degli Studi di Torino, 28 e 29 ottobre 2010). In questa occasione è stato sottoposto al pubblico dei presenti un filmato, elaborazione del materiale audiovisivo girato come documentazione dei Lamentatori del Venerdì Santo di Delia (CL) nella primavera del 2009. Accompagnavano tale elaborato un’introduzione e un commento qui di seguito integrati nel nucleo concettuale che ha sospinto, guidato, e ispirato tutta la realizzazione. Tale filmato è reperibile online al seguente indirizzo: http:// vimeo.com/user5165457
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musicologia – assumendo come parametro di pertinenza non solo la manifestazione acustica in sé (il fenomeno sonoro) quanto soprattutto il vissuto cognitivo del soggetto che ne fa esperienza – convergono in qualche modo nella definizione della propria metodologia attorno alla nozione di «immagine». L’immagine, in questa sede, non altrimenti sembrerebbe interessante definirla se non come «complesso psichico»: nel primo registro, quello della psicanalisi, tale costrutto designa il nucleo esperienziale che esplica i suoi effetti sulle tre dimensioni dell’esistenza psichica: il Simbolico, l’Immaginario e il Reale. Sul piano Simbolico l’immagine è la struttura inconscia organizzante un’idea, un nucleo semantico da cui provengono le molteplici suggestioni multi-sensoriali (multimediali potremmo dire) che consolidano un territorio formale di rappresentazione, cioè l’Immaginario, il quale a sua volta offre la materia significante in cui si annida, si radica e si staglia il Reale nella sua sostanza inattingibile, la matrice inarrestabile di eventi cui dare un senso, ciò che Lacan chiama l’oggetto[-a], causa del desiderio. Allo stesso modo in ambito antropologico è possibile dare nome di «immagine» a quei fatti culturali, oggetto di studio, che poggiano la propria significazione (piano del simbolico) in una tradizione mitica provvista del proprio apparato estetico-formale (piano dell’immaginario) attraverso cui filtra la sostanza umana (piano del reale) ricorrente e sempre rincorsa perché in fin dei conti sfuggente a un’assoluta sistematizzazione. Questa tridimensionalità dell’evento culturale, e specificamente dell’evento legato alla manifestazione sonora (intesa sia come accadimento sia come prodotto di un agire), è quanto il concetto di immagine-suono, alla cui stesura il presente articolo offre l’ennesimo apporto, intende penetrare attraverso il cosiddetto linguaggio audiovisivo proponendo uno strumento operativo che fonda su alcuni assunti filosofici un preciso processo ermeneutico. Questo procedimento metodologico consisterebbe nel partire dall’organizzazione del livello acustico del testo audiovisivo per comporre una totalità sonora come base e supporto di un corredo visuale di frammenti che condividano con essa lo spazio-tempo della registrazione, e dalla cui modulazione, attraverso un insieme di soluzioni compositive, possa scaturire un’esperienza unica nel suo darsi. Questo processo potrebbe essere schematizzato nella seguente maniera: documentazione acustica e visiva (sincrona e/o differita) dell’evento → composizione del testo sonoro → abbinamento visuale secondo regole
sintattico-linguistiche di «armonia audiovisiva».
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Per illustrare il criterio seguito nell’elaborazione del filmato portato a modello in sede di convegno seguiremo l’ordine degli assunti sopracitati. La spiegazione audiovisiva del primo assunto lacaniano chiama in causa il patrocinio del concetto deleuziano di immagine-tempo a proposito del cinema moderno e della «narrazione falsificante»2. Nel famoso testo di Gilles Deleuze troviamo che mentre la narrazione veridica si sviluppa organicamente secondo connessioni legali nello spazio e rapporti cronologici nel tempo [… , la] narrazione falsificante, al contrario, sfugge a questo sistema, rompe il sistema del giudizio. […] Esiste una ragione profonda di questa nuova situazione: contrariamente alla forma del vero che è unificante e tende all’identificazione di un personaggio (la sua scoperta o semplicemente la sua coerenza), la potenza del falso non è separabile da un’irriducibile molteplicità. “Io è un altro” ha sostituito Io = Io3.
L’interrogazione sulle «potenze del falso» è presente nella riflessione deleuziana già in uno stadio giovanile della propria riflessione filosofica. È nel cinema moderno, tuttavia, che Deleuze troverà un territorio fertile per ripristinare la concezione nietzschiana dell’arte come processo di selezione, correzione, raddoppiamento e affermazione. Questo ci riporta al primo criterio di composizione seguito nella lavorazione del filmato: il cinema documentario sin dalle sue origini ha dovuto subire lo scacco dell’immagine dogmatica del pensiero che sostiene le tesi fondamentali della veridicità; dell’errore come effetto dell’estraneità; e del metodo inteso come artificio non contestuale volto a scongiurare l’effetto delle forze estranee. Proprio quest’approccio in questa sede sembra essere compromesso con un madornale errore di impostazione generale del problema. La mediazione tecnologica, prima che la ricerca antropologica compiuta attraverso questa mediazione, costituisce già in sé, all’origine, un organo di ricezione autonomo, sia esso la riproduzione di un occhio, di un orecchio, o di qualsiasi altro organo di senso. Quest’organo funziona secondo criteri di pertinenza e selezione delle informazioni che non devono rendere conto di nessuna elaborazione cognitiva, garanzia prima Cfr. Gilles Deleuze, L’image-temps, Les Editions de Minuit, Paris, 1985 (tr. it. L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989, pp. 150-151). 3 Ibidem. 2
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– almeno a livello dell’esperienza sensoriale umana – dell’attribuzione di senso. Per cui una delle possibilità del cinema documentario da sempre è che quest’organo riprodotto diventi attivo nella ricezione dell’evento, che non si limiti ad assorbire il “quadro” (il famoso frame) del contesto ma che compia una selezione intenzionale, assumendosi la responsabilità di una necessaria relativizzazione del vissuto. Questa restrizione alla soggettiva esperienziale nonché esistenziale dell’autore-ricercatore corrisponde a un atteggiamento affermativo nei confronti del medium tecnologico: la registrazione neutrale infatti tradisce l’ingenuità dell’operatore, è come una doppia passività che si traduce nell’archiviazione indigesta. L’organo tecnologico, suo malgrado, non può che subire la stimolazione del fenomeno e la coscienza del ricercatore che manovra la reificazione dei propri sensi si trova di fronte a un bivio: o sottostare al processo di mediazione attraverso la personale replica del fenomeno percettivo, oppure prendere le redini di questo processo e agire sullo stimolo che investe la coscienza-mezzo. La risultante di quest’ultimo approccio è una documentazione grezza, selvaggia, in cui sono riconoscibili le marcature della soggettività che esperisce, che si traducono nei movimenti di camera o nelle variazioni dell’angolo di ripresa microfonica: la soggettività che verrà rappresentata nel supporto di registrazione è ancora un’alterità ben definita, testimone dello spazio-tempo fenomenico, alla ricerca dei segni e delle tracce del proprio vissuto. All’altro capo della gamma vi è la ripresa fissa, o la simulazione dell’artificio fotografico, funzionale nei media temporali nella misura in cui è la durata a essere sintomo di qualcos’altro che il mero assistere o l’essere-presenti. La presenza infatti non viene dissimulata col pretesto della verità: nel cinema esiste comunque una ricostruzione, una simulazione, una potenza affermativa che si esprime nel montaggio, una forza che «trova nell’opera d’arte la propria realizzazione, la propria verifica, il proprio divenire-vera»4. Questa forza è una volontà impersonale, o forse è meglio dire una pulsione rivolta all’impersonalità, non al vero, e in questo tentativo di sublimazione dalla testimonianza all’assoluto, si palesa la natura propria della narrazione: il processo con cui l’Io diventa un Altro. Varie strategie enunciative del cinema sonoro – con cui storicamente si è evoluta la «falsificazione» o il salto dalla prima persona al discorso Gilles Deleuze, Nietzsche et la philosophie, Presses Universitaire de France, Paris, 1962 (tr. it. Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino, 2002, p. 156).
libero indiretto – sono passate dalla semplice sincronizzazione dell’audio al monologo interiore attraverso l’audio fuoricampo, per inserire progressivamente un interstizio via via sempre più ampio tra i due canali o i due flussi di immagini, visive e sonore: la nozione di fuori campo tende a scomparire a vantaggio di una differenza tra quel che è visto e quel che è udito, e questa differenza è costitutiva dell’immagine. […] il mixage spodesta il montaggio, poiché è chiaro che il mixage non comporta solo una distribuzione dei diversi elementi sonori, ma l’assegnazione dei loro rapporti differenziali con gli elementi visivi5.
In questa concezione del montaggio la dissociazione completa tra le catene sintagmatiche dell’audio e del video è perfettamente plausibile. Ecco perché nella nostra costruzione del discorso dell’Altro – nella progressione del lavoro compiuto sul girato in prima persona verso un artificio che sancisse il salto in una dimensione di astrattezza paragonabile all’impersonalità inconscia – si è voluti partire dalla composizione del testo sonoro (una composizione di frammenti musicali organizzati nel tempo e sovrapposti) per apporvi in un secondo momento dei rimandi, delle referenze visive, che fungessero da didascalia in una catena sintagmatica tenuta assieme da un metodo di congiunzione puro e semplice fatto di raccordi percettivi nel passaggio tra immagini-movimento, e inquadrature fisse perdurate durante la strutturazione di immagini-tempo. Il richiamo terminologico alle due categorie concettuali ideate da Deleuze per interpretare filosoficamente l’evoluzione del cinema è diretto in questa sede a riassumere quello che potrebbe essere considerato un modello operativo: addensamenti e rarefazioni, convergenze e divergenze, sono il risultato della combinazione di immagini-movimento e immagini-tempo, cioè delle strutture della determinazione audiovisiva. Cosa viene determinato attraverso questo linguaggio, attraverso questa logica di alternanza quantitativa e qualitativa di immagini? Prima di tradurre l’ingerenza del terzo assunto lacaniano nei riguardi del testo audiovisivo qui rappresentato dobbiamo verificare come e perché le sequenze audio e video così organizzate (le catene significanti) contano indipendentemente dai significati inferiti dalla natura delle immagini (il piano simbolico).
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Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 202.
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Per immagine-movimento dobbiamo intendere, filologicamente, la porzione di movimento visivo utile a strutturare un sintagma in cui la successione delle inquadrature segua le leggi di continuità della percezione (legame senso-motorio), o in cui anche infrangendo quest’ultime (attraverso il falso raccordo per esempio) l’aspetto fenomenico prevalga sul rappresentato, su ciò che viene «significato». Nel nostro lavoro viene presupposta a monte un’immagine-movimento del suono cioè una porzione di fenomeno acustico impiegabile come unità sintattica in un sintagma sonoro. Attraverso di essa ha infatti preso forma l’impalcatura acustica che sorregge il girato di frammenti in soggettiva, di dettagli o di inquadrature persistenti, al fine di ottenere un effetto audiovisivo puro: un’immaginetempo. Quando la successione delle inquadrature si interrompe nel suo svolgimento “naturale”, arrestandosi in un’attesa che non alimenta il vettore dell’attenzione rivolta all’azione, e contemporaneamente il flusso sonoro si “allinea” al correlato visivo in una compenetrazione di senso quasi sinestetica, lì possiamo dire di trovarci di fronte a un’immagine audiovisiva pura. Deleuze parla a questo proposito del sublime cinematografico come di una polifonia di senso: l’immagine, visiva o sonora, possiede delle armoniche che accompagnano la dominante sensibile e entrano per conto proprio nei rapporti sovrasensoriali […] al punto che non si può più dire “io vedo, io odo” ma IO SENTO, “sensazione totalmente fisiologica”. Proprio l’insieme delle armoniche che agisce sulla corteccia fa nascere il pensiero, l’IO PENSO cinematografico: il tutto come soggetto6.
Questi rapporti “sovrasensoriali” sono forse più riconoscibili nella permanenza dello stimolo visivo – l’inquadratura fissa – e nella ridondanza acustica – la trama sonora o la ripetizione ritmica. Fenomeno questo che porta a distinguere un’altra tipologia di immagine funzionale all’ideazione e forse anche alla composizione di un’immagine-tempo: l’immaginepaesaggio. L’utilizzo drammaturgico della musica nel cinema convenzionale non si spinge di solito oltre la soglia di un accompagnamento funzionale al suggerimento di una dinamica emotiva nel testo-film. In questi casi la musica funge da cornice alla successione di inquadrature visive passando 6
Ivi, p. 177.
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in secondo piano nell’economia generale del flusso percettivo, diviene un paesaggio, uno sfondo, su cui si stagliano le figure dell’ordine visuale. Lo stesso legame però può presentarsi inversamente: possiamo trovarci di fronte a un pattern visivo amorfo e sullo schermo sonoro sentire accadere gli eventi salienti sul piano narrativo. La struttura che funge da complemento all’immagine-movimento viene così definita immagine-paesaggio, perché si tratta di tutto ciò di cui non possiamo essere coscienti mentre prestiamo attenzione a uno stimolo dominante, come nella vita di ogni giorno non destiniamo che un sovrascolto al paesaggio sonoro circostante. Quindi un’immagine-paesaggio è pressoché onnipresente nel cinema “naturalistico” da quando esiste il sonoro perché per potere instaurare una finzione nella relazione col testo audiovisivo è necessario che una delle due componenti, o alternatamente o in linea costante, diventi subliminale. Sintagma di immagini-movi- → mento ottiche Immagini-paesaggio ottiche ←
→
Immagini-paesaggio sonoro
←
Sintagma di immagini-movi- → mento ottiche Immagini-paesaggio ottiche ←
←
Sintagma di immagini-movimento sonore Sintagma di immagini-movimento sonore Immagini-paesaggio sonore
→
Se l’immagine-movimento essenzialmente compone la catena sintagmatica, e l’immagine-paesaggio offre il supporto destinato a instradarne la fruizione su una tonica – sia essa un tappeto sonoro o una tonalità cromatica – salvo che non ci si trovi in presenza del caso anomalo ipotizzato poc’anzi di una completa dissociazione tra le catene sintagmatiche dell’audio e del video, rimane una quarta e ultima possibilità di combinazione logica tra statuti di immagine: l’eventualità in cui siano due immagini-paesaggio a ritrovarsi compresenti in una fase di sospensione del movimento vibratorio. Questo può accadere o nella compresenza audiovisiva di trame (le textures), o nel momento in cui la porzione di movimento visivo si solidifica e acquista una fissità prettamente cinematografica pur mantenendo una dinamica interna al quadro come nell’immagine al rallentatore o nel primo piano prolungato o nelle panoramiche estese: in tutti questi casi il tempo fisiologico di lettura dell’immagine viene esorbitato da un surplus temporale che libera il pensiero lasciando aperta la possibilità di un salto cognitivo dallo stimolo sensoriale al concetto. Ed è quando l’audio si adegua a questa forma di in-
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sistenza che si produce uno straniante effetto di de-immedesimazione, motivo per cui l’immagine cinematografica può avere un «effetto di choc» sul pensiero, spingendo il pensiero stesso a pensarsi e a pensare il Tutto: «È la definizione stessa del sublime»7. In questo senso le possibilità combinatorie tra statuti di immagine contano indipendentemente dai contenuti rappresentati e veicolati dal mezzo; trasposizione mediologica del secondo assunto lacaniano in cui riverbera la celebre formula di Marshall McLuhan «il medium è il messaggio». L’idea di montare un elaborato di ricerca partendo dall’organizzazione di una totalità acustica risponde a una necessità ermeneutica oltre che a un’esplicita sovversione cognitiva dell’habitus di fruizione cinematica. L’attività conoscitiva dell’uomo culturalmente e storicamente si è evoluta attorno all’idea del Tutto come insieme di elementi organizzati in un sistema coerente: la struttura. Da un punto di vista antropologico questa abitudine deriva da una specifica modalità sensoriale, l’esperienza dell’organo della vista, il quale conosce scomponendo e integrando le parti del campo percettivo. Il cinema per sua natura, come arte del divenire, offre la possibilità di modulare la ridondanza, opportunità legata nel pensiero occidentale alla formazione di una totalità temporale: tecnica spirituale in ambito filosofico, finalità estetica in ambito musicale. Tale prerogativa di una stesura narrativa della ricorrenza diventa vocazione scultorea nel campo della visione e dell’ascolto. Le sopracitate «armoniche» o «dominanti sensibili» di un’immagine, nella semplice occorrenza quantitativa subito prima delle essenziali qualità fenomeniche (spettro, durata, intensità, dinamica), intentano costantemente una pressione nei riguardi del sistema nervoso di chi fruisce il testo cinematico. Che si componga di choc o che vada via via plasmandosi mediante il meccanismo differenziale della ripetizione e della risonanza, Il tutto appunto può essere soltanto pensato, perché è la rappresentazione indiretta del tempo che deriva dal movimento. Non ne deriva come un effetto logico, analiticamente, ma sinteticamente, come l’effetto dinamico delle immagini “sull’intera corteccia”. Così, benché derivi dall’immagine, dipende dal montaggio: non è una somma, ma un “prodotto”, un’unità d’ordine superiore. Il tutto è la totalità organica che si pone opponendo e superando tutte le proprie parti e che si costruisce
come la grande Spirale secondo le leggi della dialettica. Il tutto è un concetto8.
Esattamente questo passo condensa l’intera scommessa dell’elaborato audiovisivo edificato attorno a un fatto culturale corredato da una serie di comportamenti in cui si riflette un sistema di simboli (reale, immaginario, simbolico). La strategia a monte è consistita nel rielaborare in termini di Tutto il piano fenomenico privilegiato in cui si realizzava l’incontro con l’alterità, nella fattispecie sotto forma di manifestazione sonora. Questo piano del reale una volta assimilato e restituito come prodotto di una rappresentazione organica del tempo garantisce in maniera spontanea, potremmo dire “naturale” rischiando di comprometterci col piano finzionale, l’aderenza a un corredo di scorci e frammenti estrapolati dal contesto: l’importante è stato definire in maniera univoca quale livello considerare il piano dei contenuti (il comportamento sonoro) e quale invece la dimensione in cui avviene una rappresentazione di sé da parte dell’Altro (l’apparato immaginario). Distinzione in linea di massima equivoca e ugualmente efficace capovolgendone i termini (contenuto visuale versus immaginario sonoro) ma funzionale interamente nella prassi operativa in quanto pratica assertiva: dimostrare di avere appreso qualcosa dell’Altro restituendone il simulacro compreso in un’immagine (la composizione audiovisiva). Non si tratta dello stadio ultimo, o sintetico, di una tesi ma di una fase qualunque dello scambio antropologico, dell’incontro/scontro con la diversità, e del confronto che ne consegue. Per questo motivo il documentario “naturalista” è disonesto nella sua concezione perché pretende di filtrare il reale attraverso una finzione che non viene assunta in prima persona. Chiamando in causa i concetti del “vero” non si è in grado di ammettere di non volersi “sporcare” le mani compromettendosi drasticamente con i fenomeni: è un problema di falsa coscienza che fa perdere senso a tutta l’operazione della testimonianza. A conti fatti l’«automatismo psichico» di cui Deleuze parla a più riprese nel testo cui facciamo riferimento9 è una risultante subliminale: si tratta del processo logico-emozionale con cui viene organizzandosi un’idea. Processo plausibile a vari gradi di consapevolezza. In questo esperimento siamo partiti dall’assemblaggio di una composizione sonora per edificarvi 8
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Ivi, p. 178.
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Ivi, p. 177. Ivi, p. 175, nota 1.
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attraverso il montaggio una totalità audiovisiva organica che andasse scolpendo, nel suo fluire, un’immagine indiretta del tempo. Ma in termini di fruizione cosa viene prima: il montaggio o la sintagmatica del movimento? A questa domanda Deleuze risponde: Il tutto è prodotto delle parti, ma anche viceversa: […]. Il grado più elevato della coscienza nell’opera d’arte ha come correlato il grado più profondo del subconscio, secondo un “doppio processo” o due momenti coesistenti. In questo secondo momento non si va più dall’immaginemovimento al chiaro pensiero del tutto che essa esprime, si va da un pensiero del tutto, presupposto, oscuro, alle immagini agitate, mescolate, che lo esprimono10.
Viene quasi da pensare che lo stesso meccanismo conoscitivo che relaziona l’essere umano all’ambiente esterno attraverso una ricognizione d’insieme (la Gestalt) possa riproporsi nella percezione cinematografica nella versione dinamica dell’ipostasi subconscia del Tutto-durata. Come se anche la percezione cinematica fosse soggetta alle leggi di conferma delle aspettative cognitive. La ricezione cinematica si comporrebbe allora del circuito: autore → Tutto indiretto del montaggio = Tutto subconscio di ricezione ← spettatore. Dove il film non potrebbe mai essere considerato alla stregua di un livello “neutro”, sede d’incontro e di risoluzione di due intenzioni contrastanti. La costruzione intellettuale e la dinamica inconscia sono un fine, un ideale, che devono essere testati. L’ermeneutica cinematografica ha spesso abusato del costrutto d’ispirazione: ma il cinema in quanto possibilità di «pensiero-azione» è sempre stato teorico. La riflessione sul cinema non può che essere una fase – un momento reattivo – di riorganizzazione delle forze che alimenteranno il nuovo ciclo produttivo. In un percorso di ricerca orientato alla definizione di un’immagine del suono attraverso le strutture della determinazione di stampo audiovisivo diventa plausibile rinvenire quella matrice primigenia di senso che Lacan ha voluto formalizzare nella pura astrazione matematica11. In ogni caso la tassonomia di immagini che abbiamo rinvenuto nel testo deleuziano trascende la possibilità di un sistema d’analisi di stampo semiotico: suben-
trerebbe infatti la problematica dei segni di cui le immagini sono cariche facendo diventare fazioso il tentativo di individuare la genealogia degli elementi testuali. Intendiamo dire che se da un lato il Tutto può venire programmaticamente predisposto attraverso una sintassi di immagini-movimento-paesaggio-tempo, non è possibile sostenere che anche la lettura, o la decodifica del testo attraverso gli stessi termini possa compiersi senza forzature perché il Tutto presupposto in sede di fruizione è inevitabilmente compromesso con il piano simbolico del rappresentato. Il formalismo si scontrerà sempre con la dimensione emozionale dell’immaginario. In ultimo allora potrebbe essere utile provare a ricapitolare la progressione compositiva dell’elaborato quasi compiendo una decostruzione testuale per rilevare, laddove accaduto, l’occorrenza di formazioni di senso inaspettate, non intenzionali, e percorse una volta scoperte come ludica strategia di problem solving.
Progressione cronologica del filmato La tesi finale sostiene che il gioco di presenze e assenze in una logica audiovisiva quaternaria, quale risulta il criterio in questa sede preso in esame, induce autonomamente lo sviluppo del senso. Ragione per cui un breve riepilogo delle fasi di questo procedimento può essere utile a stimolare una verifica tra quanto riportato e quanto effettivamente esperito in sede di fruizione. Potrebbe sembrare che il rappresentato si sia imposto talvolta nostro malgrado, costringendo lo sguardo a un inevitabile “salto” attraverso lo schermo sul piano del significato dell’immagine. Ecco perché stadio ulteriore di questa ricerca potrebbero rivelarsi i quesiti posti attraverso una sorta d’esame di coscienza attendendo conferma o smentita da un potenziale interlocutore, come peraltro si è tentato di fare in sede di convegno. Struttura del filmato Lamentatori di Delia (CL), [tempo totale 12’:15”]:
Ivi, p. 178. Jacques Lacan, Ècrits, Editions du Seuil, Paris, 1966 (tr. it. Scritti. Volume I, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2002, pp. 41-51).
– da 0’ a 02’30”] la prima porzione del brano sonoro è una sequenza esplicativa delle modalità di questo canto ad accordo che si esegue come da tradizione durante la giornata del Venerdì Santo: alcune registrazioni effettuate durante le sessioni di prova sono accompagnate dalle riprese del tragitto che dalla città di Caltanissetta porta al paese
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di Delia. Il giorno 24/4/2009: Venerdì Santo. Le catene sintagmatiche dell’audio e del video sono state giustapposte con l’intenzione di sottolineare l’interstizio tra ciò che si vede e ciò che si ascolta, potenzialmente nessuna delle due determina in maniera univoca lo sviluppo narrativo e ciascuna esclude l’altra se prescelta come pista dell’attenzione (linea attentiva). – da 02’35” a 4’40”] inquadrature statiche di scorci o dettagli, del paese e della celebrazione, si alternano a immagini-movimento tendenti alla sovraesposizione in cui si riconoscono progressivamente le sagome via via sempre più nitide dei lamentatori. Questi adesso vengono riconosciuti come plausibile fonte sonora ma la scissione dei piani viene mantenuta per la totale assenza di elementi sincronici. La pista sonora pur essendosi conformata allo spazio-tempo dell’evento segue le proprie dinamiche assestandosi sulla ripetizione dello scambio tra voce solista e coro. La presenza del paesaggio sonoro reale impedisce a questa alternanza di strutturare senza ambiguità il formalismo dialettico tra immagini-movimento del suono e immagini-paesaggio sonore benché siano già emersi i presupposti per potenziare questo impiego funzionale della densità sonora come accadrà nella parte centrale dell’elaborato. – da 04’40” a 08’50”] la porzione del Tutto-durata già dispiegatasi libera l’emersione di senso audiovisivo puro in questa sezione del filmato. La densità della registrazione sonora continua a confermare la coincidenza con la localizzazione degli eventi visivi: si tratta della funzione liturgica all’interno della chiesa principale. Una maggiore nitidezza insieme all’accentuazione dei contrasti delle informazioni visive ha come effetto più rilevante un naturale “ritorno” alla priorità percettiva del video. Questo determina una “normalizzazione” linguistica nella gestione del montaggio visivo. Le immagini che si avvicendano, pur rimanendo spesso arginate in una restrizione poetica del campo visivo (il frammento, il dettaglio, la parte del corpo12) sono immagini-movimento per eccellenza in quanto porzioni di movimento impiegabili come unità sintattiche del sintagma visivo. Salvo che in un’occasione, analizzata di seguito, l’audio le accompagna come immagine-paesaggio del suono a ogni entrata corale, che diventa il tappeto indiscreto che accoglie Le riprese video della processione e della funzione liturgica sono di Noemi Romano alla prima esperienza di incontro con l’evento del Venerdì Santo di Delia e con i Lamentatori.
l’azione dell’occhio. Anche gli ingressi solisti da 6’20” vengono amalgamati nel continuum sonoro attraverso un gioco di sovrapposizioni da cui l’immagine-movimento potrà stagliarsi solo come prodotto differenziale della variazione armonica. Tutto ciò culmina nell’inquadratura dal valore meta-testuale al minuto 8’00” in cui lo stesso artificio viene rappresentato con l’intenzione di marcare – stavolta simbolicamente – il processo di «falsificazione» dell’esperienza in corso. Lo sviluppo della sequenza 06’20”-08’00” merita un’attenzione più dettagliata: sin dall’ingresso del coro a 06’30” l’immagine visiva si eclissa dietro un gioco di ombre e di veli, di sipari che s’incrociano, diventando difficile da leggere e “violenta” nella gestione dei piani, le immagini-movimento diventano immagini-luce in senso stretto e l’audio la fa da padrone fino al minuto 07’10”. Da lì in poi le catene sintagmatiche s’incontrano: prima nel flusso parallelo di immagini-movimento concordi, tendenti alla convergenza sensoriale; poi in una sospensione: l’inquadratura prolungata del bambino visto di spalle che gioca con la corda dell’abito da chierichetto. Questa inquadratura dura trenta secondi e adesso col senno di poi possiamo dire che struttura un’immagine-tempo composta da due immagini-paesaggio: quella della persistenza visiva e quella del sovrascolto del continuum sonoro. Non a caso quest’immagine ha raccolto la totalità dei commenti “drastici” ricevuti subito dopo la fruizione del filmato. Immagine audiovisiva pura totalmente concepita secondo la dinamica del formalismo descritto in questa trattazione cui segue l’esplicito invito ad astrarsi dal contenuto di rappresentazione che inevitabilmente a questo punto si è imposto. Da allora anche uno dei rari sincronismi che seguono verrà senza troppe difficoltà riconosciuto come effetto percettivo indotto (08’20”circa): successo cognitivo e non solo effetto di montaggio visto che è la stessa percezione a ritrovarsi alla ricerca costante della convergenza sensoriale. Da questo momento sul piano narrativo “tutto” è già stato detto: la «Spirale del Tutto» si è prolungata lungo le sue direttive e sempre secondo la deformazione del pensiero deleuziano che dobbiamo assumere ormai fino in fondo, non resta che affermare una risoluzione finale dell’elaborato, restaurando il legame tra uomo e mondo o, detto in maniera meno pretenziosa, limitandosi a uscire e far uscire lo spettatore, dall’immaginario di rappresentazione. – da 08’50” alla fine (12’15”)] l’elaborato volge al termine, si ritorna alle riprese da dietro il parabrezza dell’automobile, citazione dell’inizio, per
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poi concludersi nella penombra del tramonto, quasi al buio, all’interno e nei paraggi del castello sul belvedere di Delia. Questa sequenza di “brutto cinema” al presente disdice e contraddice ogni fraintendimento autoriale che poteva interferire con la lettura di questo testo. Gilles Deleuze chiude il capitolo da cui abbiamo tratto tutte le citazioni di questa trattazione con questa affermazione:
Da tre punti di vista il cinema moderno sviluppa così nuovi rapporti con il pensiero: la cancellazione di un tutto o di una totalizzazione delle immagini, a vantaggio di un fuori che si inserisce tra loro; la cancellazione del monologo interiore come tutto del film, a vantaggio di un discorso e di una visione liberi indiretti; la cancellazione dell’unità tra uomo e mondo, a vantaggio di una rottura che ci lascia soltanto una credenza in questo mondo13.
E perentoriamente punto per punto questo avvertimento è stato infranto: abbiamo edificato nel filmato una totalità di immagini-suono; abbiamo modulato questo Tutto strutturandone l’ascolto come flusso fuoricampo dislocato nell’universo interiore; e infine abbiamo ridefinito i parametri spazio-temporali dell’evento documentato ricontestualizzando le immagini nell’autoreferenzialità amatoriale. D’altronde non di Cinema si è trattato ma della rielaborazione cinematica di una ricerca etnomusicologica, attraverso Deleuze e qualche assunto comune di psicanalisi lacaniana.
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Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 209.
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Suono/genere
Esordio dell’orrore. Sull’udibile in alcuni horror talkies della Universal di Luca Canova e Andrea Valle
Introduzione Indagare gli effetti di senso che il dominio udibile innesca in relazione all’immagine filmica consente di porre in luce come il suono cinematografico possa essere considerato fondamentale anche in senso storico per il genere horror. Al di là di questo assunto di base, l’obiettivo di questo contributo non è tanto quello di considerare il portato di sperimentazione che i primi prodotti sonori recano con sé, quanto di prendere in carico l’auroralità di un genere a partire da una fase in cui il paradigma scientifico-tecnologico ha già raggiunto un primo completo sviluppo e si appresta dunque a consolidare i parametri formali che lo traghetteranno in direzione del film sonoro maturo. Il primo supernatural horror talkie prodotto dalla Universal, Dracula1 (Tod Browning, 1931), viene realizzato quando il film sonoro, in quanto all talkie, è già una realtà parzialmente stabilizzata2. L’anno seguente Frankenstein (James Whale, 1932), porterà a un più alto grado di complessità le istanze estetico-linguistiche che definiranno il genere. Prima di analizzare alcune sequenze delle due pellicole vale la pena di tratteggiare brevemente gli elementi salienti della cosiddetta transizione verso il sonoro, per poi considerare le specificità che contraddistinguono il modello audiovisivo horror. Quello che comunemente viene indicato come il periodo di transizione dal muto al sonoro riguarda un arco di tempo compreso tra il 1926 e il 1929. In particolare è propriamente nel triennio 1927-1929 che si assiste all’emergenza contestuale di film muti e film sonori, «intesa sia come produzione In realtà il primo horror sonoro della Universal potrebbe essere considerato The Cat Creeps (Rupert Julian, 1930), remake di The Cat and the Canary (Paul Leni, 1927), ma si tratta di un film interamente post-sincronizzato. 2 Harry M. Geduld, The Birth of the Talkies: From Edison to Jolson, Indiana University Press, Bloomington, 1975. 1
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parallela di film ancora privi di suono (o a cui vengono aggiunti musica e rumori post-sincronizzati alle immagini), sia come coesistenza conflittuale di entrambi i sistemi all’interno dello stesso prodotto»3. Soprattutto a partire dal 1928, com’è noto, si afferma con forza la presa diretta e il parlato vero e proprio. Il consolidarsi della parola comporta di fatto un mutamento radicale rispetto all’utilizzo della musica: l’animazione temporale offerta dalla musica extradiegetica risulta tecnicamente inconciliabile con la presa diretta, poiché non è ancora possibile registrare separatamente musica e rumori combinandoli successivamente con il dialogo tramite il missaggio. Fino al 1933 dunque qualsiasi emergenza musicale ascrivibile all’extradiegesi segnala una sequenza muta sonorizzata a posteriori. Dunque, sostanzialmente quella che potremmo definire come fondazione estetica del dominio udibile cinematografico prende avvio dal 1930 attraverso il completo superamento della fase sperimentale e il delinearsi di uno stile sonoro che apre la strada alla classicità del parlato. Il successivo consolidarsi di una certa prolissità musico-vocale determina un impoverimento della dimensione acustica, relegando le emergenze non verbali in una posizione di assoluta marginalità. Tuttavia agli inizi la valorizzazione del rumore appare un elemento fondante del nuovo mezzo. I primi film post-sincronizzati prevedono sempre una ricca gamma di occorrenze sonore e ciò in continuità rispetto alla figura del rumorista nel periodo muto o alla presenza di macchinari per la creazione di effetti sonori. Ciò che viene evidenziato con forza dai primi teorici, da Epstein, a Pudovkin, a Balázs, è però la necessità di allestire una scena sonora che sappia restituire l’espressività e la “tattilità” della realtà sensibile, considerando anche come la musica e il dialogo siano testualità di cui il cinema si appropria.
L’horror come genere sonoro Le specificità estetiche e tecnologico-produttive del sonoro implicano nei primi anni ’30 una valorizzazione di genere piuttosto circoscritta. Da un lato, western e slapstick comedy sono i modelli che risentono di più dell’impatto sonoro, dall’altro, com’è ovvio, i prodotti che si fondano sulla parola
dialogata e sul canto, gli adattamenti teatrali, risultano favoriti determinando quindi il rapido emergere di musical, mystery, commedia e melodramma. In generale la complessità dei film di genere dipende in primo luogo dalla commistione di proprietà semantiche (le costanti tematiche messe in atto nelle proprie articolazioni testuali) e proprietà sintattiche (le caratteristiche formali che regolano i loro principi comunicativi)4. Nello specifico l’horror, ma non solo, poggia sull’effetto cumulativo determinato dalla riproposizione di modalità narrative, tematiche e iconografiche. Questa tipicità distintiva si dispiega poi nell’uso simbolico di immagini, ma soprattutto di suoni; in tal modo il temporale, il vento, una bara o un laboratorio, un ululato piuttosto che un rumore illocalizzabile sono tutti particolari che ricevono una forte valorizzazione simbolica. Nel tentare di rintracciare i fondamenti e le possibili cause che hanno favorito e determinato il sorgere dell’horror nell’accezione attuale, la storiografia si appella classicamente alla combinazione di due fattori, l’elemento socio-economico e l’avvento del sonoro. Il primo ne collega la nascita ai periodi di gravi tensioni sociali, con ovvio riferimento alla Grande depressione del 1929, il secondo sottolinea la coincidenza naturale tra il genere e un arredo acustico che configuri il sentimento perturbante. William K. Everson è probabilmente lo studioso che più di altri ha insistito sul legame fondamentale e privilegiato tra horror e dominio udibile. Il film dell’orrore infatti trascende la logica e l’esperienza fondando la sua efficacia sulla capacità di convincere, sulla persuasione che affiora concretamente come dato fisico-acustico e dunque sulla presenza in quanto attività udibile. Everson mette in relazione le problematiche sociali del periodo con una maggiore vulnerabilità di fronte all’emergere degli eventi sonori, un’impressionabilità che trova le sue radici, da un lato, nel fatto che «the horror film was new, talkies was new»5, dall’altro nella recessione e nel grave stallo economico che caratterizzano gli anni Trenta. Everson sottolinea la dimensione essenziale dell’evento sonoro in quanto “messa in vibrazione” somatica, a partire dagli effetti fisio-psicologici delle stimolazioni acustiche osservabili in particolare nei bambini6. Al di là del dato fisiologico e rimanendo alla dimensione fenomenologica, le evenienze
3 Alberto Boschi, Dal muto al sonoro, in Gian Piero Brunetta (a cura di) Storia del cinema mondiale II. 1 Gli Stati Uniti, Einaudi, Torino, 1999, p. 465.
4 Cfr. in generale Rick Altman, Film/Genre, BFI, London, 1999 (tr. it. Film/genere, Vita e Pensiero, Milano, 2004). 5 William K. Everson, Classics of the Horror Film: From the Days of the Silent Film to the Exorcist, The Citadel Press, Secaucus, 1974, p. 5. 6 «The extreme importance of sound in the effectiveness of the horror film can be gauged by the reaction of young children to them» (Ivi, p. 8).
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sonore mettono in atto una cattura percettiva, irrompono cioè come espedienti spettacolari operando quasi come interpellazioni, esibizioni della nuova tecnologia audio. Ne consegue una prima vera esaltazione del fuori campo inteso come spazio escluso ma tipicamente attivo, che dunque pone delle domande, “preme” sull’immagine: indagare la fonte e la causalità di un evento sonoro si traduce per lo spettatore neo-ascoltatore nell’arrischiare una ricostruzione figurativa, tentare cioè di dare configurazione visibile a un’attività udibile che solitamente si dà come acousmêtre, «essere acusmatico»7. Per Everson l’horror muto non sarebbe allora propriamente definibile come film dell’orrore e ciò in ragione dell’incapacità evenemenziale di installare il sospetto, l’inquietudine, il terrore, condizioni emotive che sarebbero una prerogativa del sonoro. In questo senso, l’horror muto appare più come una serie di tentativi di rielaborazione delle fonti letterarie del Settecento e dell’Ottocento, e anzi la presenza continua dell’accompagnamento musicale viene vista dallo studioso come un elemento che inficerebbe la “terribile” raffinatezza dell’immagine silente. I film degli anni Venti, a esempio, «sono un’effettiva fonte d’ispirazione per l’horror film, e coniano molte immagini iconiche [...] oltre a fissare tematiche destinate a diventare centrali nel genere; ciò nondimeno questi film non rientrano nell’Horror, né nelle intenzioni degli autori, né nella percezione del pubblico»8. Ancora, come ha osservato Christian Metz, la natura percettiva del significante cinematografico implica sia il desiderio di vedere (voyeurismo), sia il desiderio di ascoltare: il cinema muto contemplerebbe solo la pulsione scopica. Presentificare quindi lo spazio assente attraverso emergenze e apparizioni acustiche conduce all’installazione, accanto a un punto d’osservazione nascosto e privilegiato, di un punto d’ascolto altrettanto nascosto e protetto; questa «pulsione percettiva»9 converge nel cinema horror in quanto necessità per lo spettatore di assistere all’orrore, spaventarsi e oggettivare le proprie paure in un ambiente assolutamente sicuro, in virtù della sua condizione di osservatore e “origliatore” («eavesdropper»)10.
Come evidenziato in precedenza, il genere si fonda su ben precise componenti contenutistico-formali. In senso stretto possiamo affermare che esso “esiste” quando si ripresenta, si ripete. Se quindi l’espressione comune che definisce il prodotto può essere fatta coincidere circa con Frankenstein, il secondo film dell’orrore dopo Dracula, il suo consolidarsi in quanto imitazione coinciderebbe con The Mummy (Karl Freund, 1932), anche se in tale prospettiva quanto detto varrebbe anche per i primi sequel dell’orrore. Proprio la Universal di Carl Laemmle (e Carl jr. in seguito) dà vita a questo meccanismo fondativo, cristalizzando sia a livello estetico che produttivo la tipologia dell’orrore, imponendo tematiche e istituendo i parametri del genere. Tuttavia il materiale pubblicitario Universal presenta di solito i suoi primi horror come mysteries, o chillers. Dracula, proiettato in pubblico il giorno di San Valentino, si offre sui cartelloni come «the strangest love story of all», un’indicazione fuorviante che nasconde evidentemente il timore di un possibile fallimento al botteghino. In effetti il film è percorso da un certo torbido erotismo, ma è soprattutto la forte componente necrofila a impadronirsi della visione. L’innovazione centrale dell’opera di Browning va ricercata infatti nella presentazione di un sovrannaturale demoniaco che rifugge qualsiasi razionalità, nel senso di una rinuncia a rassicuranti spiegazioni finali. I vampiri esistono, come recita Edward Van Sloan (Van Helsing) nell’epilogo a seguire i titoli di coda, anche se è pur vero che la scienza può sconfiggere tali fenomeni. Il film, scrive Skal, «liberò l’impulso che sonnecchiava in America, ristabilendo una connessione essenziale tra cinema e inconscio, e trasformò silenziosamente il nostro immaginario, per sempre»11.
Michel Chion, L’audiovision. Son et image au cinéma, Nathan, Paris, 1990 (tr. it. L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino, 2001, p. 111). 8 Kim Newman, L’Horror, in Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale II. 1 Gli Stati Uniti, cit., p. 899. 9 Christian Metz, Le signifiant imaginaire. Psychanalyse et cinéma, UGE, Paris, 1977 (tr. it. Cinema e psicanalisi, Marsilio, Venezia, 1980, p. 72). 10 Proseguendo nelle suggestioni psicanalitiche, Elizabeth Weis (Eavesdropping: an Aural Analogue of Voyeurism? in Philip Brophy [a cura di], Cinesonic: The World of Sound in
Film, Australian Film Television and Radio School, North Ryde, 1999) ipotizza la sostanziale analogia tra lo sguardo voyeuristico e l’azione di “spiare ascoltando”. La studiosa parte dalla constatazione metziana che spiega la relazione tra fruizione cinematografica e attività inconscia: il cinema è in grado di riattivare la scena primaria, cioè quell’esperienza traumatica che si fonda sulla visione da parte del bambino del rapporto sessuale tra i genitori. Ma la Weis sottolinea come successivamente Freud avesse ritenuto più probabile un ascolto dell’amplesso genitoriale, un origliare piuttosto che un’osservazione dell’atto sessuale. Ne conseguirebbe la definizione di una “scena uditiva primaria”, quasi una sorta di filogenesi del fuoricampo come ricostruzione udibile di una meccanica attoriale supposta (il coito dei genitori nel caso freudiano). 11 David J. Skal, The Monster Show: A Cultural History of Horror, Penguin Books Ltd, New York, 1994 (tr. it. The Monster Show, Baldini e Castoldi, Roma, 1998, p. 105).
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Dracula Vale allora la pena di prendere in considerazione alcune sequenze dell’opera di Browning. La prima è quella in cui il film introduce il demoniaco e l’inesplicabile all’interno della narrazione mostrando Dracula e le sue spose nella cripta che ospita i loro sonni. Gli altri estratti rendono invece conto delle potenzialità spazializzanti e “inglobanti” del suono, chiarendo inoltre la connotazione simbolica di determinate emergenze acustiche. Nella sequenza della cripta il dominio udibile si struttura secondo una logica che risente dell’approccio nettamente “visivo” che inevitabilmente caratterizza il lavoro di Browning. Ciononostante è innegabile una chiara valorizzazione acustica del fuori campo, una preminenza accordata agli eventi sonori non visualizzati, opzione che, dissociando immagine e suono, esemplifica per così dire le posizioni asincroniste del regista. Soffermiamoci brevemente sulla sinossi relativa alla sequenza. Un totale riprende dall’alto un sentiero circondato da monti nudi e aguzzi. In alto a destra, in posizione dominante, è visibile un antico castello; segue quindi, in dissolvenza incrociata, un piano ravvicinato dell’edificio. Un’ulteriore transizione ci introduce nel castello: un movimento di macchina percorre uno spazio lugubre, una sorta di ampia cripta, indirizzandosi verso una bara a terra. L’arrestarsi del movimento coincide con l’apertura del feretro, dal quale fuoriesce una mano sinuosa. La macchina da presa (d’ora in avanti mdp), si concentra quindi su di un ratto che si nasconde dietro un feretro. Si solleva ora il coperchio di un’altra bara: ne affiora una mano, mentre all’interno, nell’ombra, è visibile il profilo di un volto di donna. Segue un dettaglio macabro, un insetto che emerge da una sorta di piccola bara. In un terzo feretro troviamo una donna pallida, fortemente truccata, che si porta a sedere. La mdp intercetta quindi un ratto all’interno di una bara semi-aperta; da questa fuoriesce una porzione di scheletro. Una figura maschile, avvolta in un mantello nero, guarda in direzione della mdp, che avanza verso di lui. In campo lungo, due corpi femminili vestiti di bianco incedono lentamente, mentre una terza donna rimane immobile sulla destra, velata da fitte ragnatele. L’uomo, ripreso in figura intera, sale una scala di pietra. L’onirismo che caratterizza la visione produce una indecidibilità tra realtà e allucinazione sottolineando come la nascita del silenzio cinematografico sia concomitante all’avvento del sonoro; silenzio tuttavia che, in questo caso, non è un nulla uditivo, ma un’assenza di suoni
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che predispone all’attenzione, a percepire un probabile accadimento12. La scaturigine dell’evento si produce là dove lo sguardo autoriale recede dalla visione spettacolare per soffermarsi sul dettaglio nascosto e repulsivo. La morte, figurativizzata dalla bara che si impone nello spazio visibile, viene intesa come arresto del divenire e di ogni accadimento e dunque trova nell’assenza di occorrenze acustiche, nella mancanza della processualità sonora, l’esatto corrispettivo. Ma è appunto una visione silenziosa “mormorante”, che annuncia il cambiamento, una sorta di vuoto oppressivo che prepara a una vibrazione nella tela di fondo che il silenzio costituisce (e che dunque sottintende presenze sovraudibili). L’avversione per lo sgradevole che l’immagine del grosso ratto determina si salda così con l’evento sonoro, il colpo, l’accadere del suono, subito seguita da un altro squarcio, un oggetto che reca con sé gli indizi del corpo produttore, l’intuizione della materialità della sorgente. Il terzo quadro macabro mostra un altro ratto, ma presenta un materiale sonoro più complesso, offrendo alla percezione una sommatoria di due oggetti ben differenziati. Il ratto diviene “eccitatore sonoro” mettendo in vibrazione parti di scheletro, configurandosi come duplice produttore dato che a esso vanno ascritte anche le emissioni foniche che lo contraddistinguono e che si legano al suo ritrarsi spaventato. Un’ulteriore peculiarità del piano è quella di abbozzare un ammorbidimento dello stacco attraverso le ripetute emissioni animali fluttuanti nello spazio precluso alla vista. L’inquadratura seguente infatti presenta contributi ripetuti dell’emittente animale precedentemente mostrato, punteggiando la presentazione dell’inesplicabile incarnatosi nella figura di Bela Lugosi, mentre il suo sguardo diegetico in direzione della mdp realizza una fascinazione spettacolare di notevole intensità. La relazione suono-immagine descritta pare allora delinearsi secondo una struttura dicotomica: a ogni stacco la fonosfera diegetica viene modificata secondo un’irruzione del suono che segue una logica dell’alternanza. Quest’ultima può essere riassunta come segue: a) Totale cripta, coperchio della bara, affiorare della mano di Dracula [Nessun evento sonoro]. 12 Il silenzio non può considerarsi come concetto puramente negativo, come buio dell’udito, anche perché, nota Piana, «nella sua precisione e determinatezza, può essere concepito come […] una trama di piccoli suoni, come un brulichio e un mormorio» (Giovanni Piana, Filosofia della musica, Guerini, Milano, 1991, p. 66).
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b) Inserto che include parte di una bara e un ratto che si nasconde dietro di essa [Suono percussivo, seguito dallo spezzarsi del legno, che si rende apprezzabile per la grana armonica compatta]. c) Seconda bara. Il coperchio viene alzato e dallo spiraglio fuoriesce una mano femminile. [Non si percepiscono occorrenze acustiche]. d) Dettaglio dell’insetto che esce da una piccola bara. [Si evidenzia la grana discontinua che si produce per “sfregamento” ]. e) Dalla seconda bara “sorge” un corpo femminile marcatamente seduttivo. [Nessun evento sonoro percepibile]. f) Terzo e ultimo inserto macabro. Da un feretro semi-aperto emerge una porzione di scheletro; all’interno si muove un ratto che dopo poco si nasconde. [Emergenze sonore visualizzate: alla grana attribuibile allo “scricchiolio” d’ossa, risonanti grazie alle sollecitazioni del ratto, si sommano le emissioni foniche di quest’ultimo].
L’oggetto sonoro13 animale ribadisce nei due piani che seguono la sua potenzialità connettiva, quell’«inglobamento unificante»14 che, riduttivamente rispetto alla costruzione enunciazionale, è spesso menzionato quale funzione primaria del suono al cinema. Sul lento incedere del vampiro s’imprime una nuova emissione animale, un ululato, che “annulla” le precedenti aprendo a uno spazio altro, esterno rispetto alla vasta cripta. Questo ululato è un oggetto sonoro cruciale. Nonostante le critiche mosse a Browning, in particolar modo relative agli «ininterrotti silenzi che paiono legare il film con la Hollywood del muto»15, la natura della vocalità linguistica e non linguistica presenta invece alcune peculiarità. Non pensiamo solo alla qualificazione fonologica attivata dalla prosodia altra, dall’inflessione straniera che accomuna sia Dracula che Van Helsing (lo scienziato cacciatore di vampiri) ma alla relativizzazione cui viene sottoposta la parola nel segmento che segna l’apparizione di Van Helsing stesso, quando un assistente legge un presunto testo di demonologia in latino: il ricorso all’idioma sconosciuto ai più partecipa evidentemente della strutturazione udibile del perturbante.
Nella sequenza successiva riemerge significativamente l’emissione acustica animale, quell’ululato che, ben oltre l’indicalità, attiva ormai un ascolto simbolico rimandando a livello semantico alla presenza del vampiro, evocandola per poi immediatamente materializzarla. In altre parole l’evento sonoro oltrepassa la sua causalità per indirizzarci verso un senso prestabilito, ossia l’imminente comparsa del demoniaco. L’oggetto sonoro irrompe dall’esterno interrompendo il dialogo dei presenti, ma soprattutto esemplifica le potenzialità connettive e fluidificanti del suono, inglobando e unificando spazi differenti, cosicché l’enunciazione può agevolmente posizionarci nella nuova dimora di Dracula. Qui, mentre il coperchio di una bara si solleva, l’incongrua evenienza sonora dell’ululato (ci troviamo infatti a Londra) si ripresenta secondo il suo caratteristico profilo melodico. La mdp si sposta verso sinistra, indirizzando il suo sguardo verso la finestra dell’edificio, per poi compiere la traiettoria inversa e rilevare l’inquietante figura del vampiro già in piedi, colta mentre alza il capo. Il sintagma alternato termina mostrando nuovamente lo spazio che ha visto emergere l’emissione animale per registrare lo stupore degli astanti. Nella scena a seguire irrompe ancora l’ululato, oggetto sonoro capace di un’attrazione ipnotica talmente forte da provocare il totale asservimento di Renfield16. La “malia” risulta dall’evento sonoro emerso dallo spazio escluso e indefinito: dunque, il dominio udibile rientra a pieno titolo tra i mezzi di cattura psicologica che Dracula è in grado di mettere in atto (oltre allo sguardo, esercitato in precedenza per i medesimi scopi). D’altronde la commistione e la fusione vampiresca con l’animalità si è più volte palesata nel corso della narrazione. Ma in questo caso tale peculiarità va oltre le capacità metamorfiche proprie del non morto, per investire anche la sua stessa vocalità. L’essenza di Dracula rispetto alla materializzazione del suo respiro è allora duplice: egli possiede da una lato una phoné per così dire pura, condivisa da uomini e animali, e dall’altro quella che i filosofi greci definivano «phoné semantiké, ossia voce significante»17 quindi distinta da quella animale. La voce “vuota” d’animale non implica per il vampiro una negazione della coscienza, nel senso che ciò che si dà all’udito è comunque la radice corporea di Dracula, la sua propria voce, ma sotto un’altra veste sonora e in una differente corporeità.
13 Senza entrare nel dettaglio, per la nozione di oggetto sonoro cfr. Pierre Schaeffer, Traité des objets musicaux, Paris, Seuil, 1966, in particolare nell’accezione proposta in Vincenzo Lombardo, Andrea Valle, Audio e multimedia, Apogeo, Milano, 2008 (3a ed.). 14 Michel Chion, L’audiovisione, cit., p. 46. 15 David J. Skal, The Monster Show, cit., p. 103.
16 Quest’ultimo è stato la prima vittima di Dracula, ma anziché essere eliminato ne è divenuto il servo. 17 Adriana Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 41
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Frankenstein Costato 275.000 dollari, il film ne incassa 12 milioni (fino al 1962)18, Frankenstein fu un successo ancora maggiore del precedente Dracula, tale da persuadere il patron dell’Universal Carl Laemmle di aver letteralmente inventato un nuovo genere economicamente promettente e ancora tutto da sfruttare. In significativa continuità con il film di Browning, l’attore Edward Van Sloan compare qui in un prologo che precede i titoli di testa. Il narratore si rivolge direttamente agli spettatori che potrebbero addirittura essere “inorriditi” dal film, ma soprattutto, con un sofisticato processo semiotico di débrayage, incarnerà il il dottor Waldman della storia. Nell’affrontare il materiale sonoro che struttura e informa la fonosfera diegetica di Frankenstein ci soffermeremo in particolare sulla nota sequenza di rianimazione del mostro, nella quale emergono interessanti spunti per una fondazione udibile del genere attraverso la stabilizzazione di stereotipie figurative. Analizzeremo poi il segmento relativo alla prima apparizione della creatura e da ultimo quello relativo all’aggressione della protagonista femminile nel quale, oltre ai poteri della voce acusmatica, tratteremo del “terrore vocale”. Procedendo con ordine a partire dalla sequenza del laboratorio, un banale sound bridge – cioè la non simultaneità audiovisiva tipica degli albori – implica che la macrosequenza in questione presenti una ricca fonosfera già a partire dal nero schermico. L’irregolarità e la variabilità di un oggetto sonoro come l’ululato del vento, e la massa composita che caratterizza il temporale, definiscono la spazialità chiarendo ulteriormente come la messa in ascolto diviene necessità percettiva per esercitare lo sguardo, per situare e preparare la visione. L’establishing shot ci mostra l’antica torre di guardia sede del laboratorio di Frankenstein. È soprattutto il tuono a imporsi nella scena uditiva divenendo quasi la tonica, il suono fondamentale del paesaggio sonoro19. Alcune inquadrature dopo ha inizio un breve sintagTeo Mora, Storia del cinema dell’orrore vol. 1; dalle origini al 1957, Fanucci, Roma, 1977, p. 133. 19 Lungi dal passare inascoltata, la rilevanza sonora del tuono in Frankenstein stabilisce un cliché cinematografico non solo in termini semiotici (come nel caso dell’ululato del lupo che da Dracula in poi accompagnerà quasi tutte le lune piene sullo schermo) ma letteralmente come prestito sonoro a livello di prassi produttiva: «Castle Thunder could easily be called ‘the thunderclap heard around the world’. Originally recorded for Frankenstein in 1931, it has gone on to be featured in countless films and TV 18
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ma incentrato sulla valorizzazione della componente elettrica: lo scienziato, indossate delle cuffie per amplificare la ricezione dei fenomeni acustici, valuta l’entità dei fulmini. Di lì a poco prende avvio una sorta di partitura elettrica che, attraverso tre inquadrature, mostra la strumentazione scientifica del laboratorio. Ogni quadro dischiude una porzione di spazio che si lega indissolubilmente a un singolo oggetto sonoro. La volontà di introdurre singolarmente sia gli oggetti sonori, sia gli oggetti materiali che compongono la sede operativa dell’esperimento, assume una duplice valenza: da un lato si registra l’attrazione, la volontà di spettacolarizzare sostenendo (fanta) scientificamente le aspirazioni tracotanti del ma doctor, dall’altro, come si vedrà, prende forma una sorta di training audiovisivo, di addestramento dello sguardo ma soprattutto dell’udito in funzione degli eventi che verranno mostrati in seguito. Il collaudo delle macchine viene interrotto da una visita inaspettata presso la torre-laboratorio. Elizabeth (Mae Clark, la fidanzata del dottor Frankenstein), il dottor Waldman (Edward Van Sloan) e Victor (John Boles, l’amico interessato della coppia) saranno spettatori della creazione della vita. Si noti come i tuoni punteggino continuativamente i dialoghi marcando i passaggi narrativi salienti quali unici oggetti sonori. In un crescendo tensivo le varie macchine, tutte in campo, vengono nuovamente attivate quasi all’unisono. Si assiste così a uno dei primi esempi nella storia del cinema dello sfruttamento di una delle proprietà fondanti del suono, ovvero la sua trasparenza costitutiva. Le diverse “voci” elettriche infatti (dunque anche i tuoni) si sommano, si attraversano permettendo comunque, pur compresenti, di essere apprezzate singolarmente in quanto componenti che “traspaiono”. È interessante sottolineare come la temporalità della visione (e la concitazione dell’azione) si strutturi qui non mediante il montaggio delle immagini ma piuttosto grazie alle apparizioni/sparizioni degli oggetti sonori che si mascherano, rivaleggiano in una sorta di orchestrazione elettrofisiologica, sostenuti visivamente dal contrappunto luminoso dei lampi: il balenare dei fulmini esterni nel laboratorio, unitamente alla vita pulsionale dei suoni, definiscono un ritmo dell’espressione di straordinario impatto drammatico. Il popolarsi della scena uditiva per sovrapposizione, per stratificazione, risulta inoltre ancor più evidente quando a emergere nel flusso sonoro sono le shows since, becoming the definitive movie thunderclap. Until around the late ’80s, whenever you heard a thunderclap in a movie, it was probably Castle Thunder» (www. hollywoodlostandfound.net/sound/castlethunder.html, ultimo accesso: 26/09/2011). In questa sede ci limitiamo alla dimensione sintattica, intratestuale.
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voci più o meno intelligibili, determinando quasi la possibilità di apprezzare meglio le co-evenienze di natura elettrica; voci fonologicamente presenti ma semanticamente inaccessibili, che contrastano con il vococentrismo20 prevalente nell’economia dello stesso testo filmico. In questo senso Frankenstein mette in scena due orientamenti contrastanti ma compresenti agli albori del sonoro. Da un lato infatti si assiste a una valorizzazione del suono non verbale che non troverà alcun riscontro nel film sonoro maturo, dall’altro l’affermarsi di un cinema di parola che subordinerà a sé l’arredo acustico. Se «l’apertura del cinema al fantastico coincide con l’irruzione del perturbante»21 e se, seguendo Everson, la nascita di una finzionalità genericamente intesa “di paura” può essere attribuita pienamente al sorgere della fonosfera diegetica, ne risulta che le determinazioni acustiche divengono il proprium udibile dell’estraneità inquietante. Tale svelamento patemico è fortemente presente fin dall’incipit di Frankenstein, ma trova la sua massima realizzazione nella sequenza in cui si assiste alla presentazione del monster, nella quale i passi acusmatici divengono traccia sonora della trasgressione, del frutto (pro)creativo. «Here it comes…» esclama Colin Clive/Frankenstein: Das Unheimlich (il non familiare, il perturbante) sorge dal fuori campo presentandosi come rumore di passi, una sorta di strascichio, secondo una direzionalità di sorgente definita dai movimenti dei corpi in ascolto, sino a una prima mostrazione nella quale la figura intera del mostro fa il suo ingresso nella stanza di spalle, implementando così una ulteriore dilazione narrativa. L’indicalità diviene la scaturigine emotiva attorno alla quale si struttura la forza della visione, l’impatto rivelatorio culminante con il primissimo piano di Boris Karloff (d’altronde nelle strategie discorsive del cinema horror il perturbante è spesso un essere acusmatico, un’insieme di attività udibili). I passi acusmatici legano quattro piani in cui la verità ottica quasi inaccettabile del primissimo piano del mostro determina un annullamento dello spazio acustico. È la rappresentazione dell’ambiguità, dell’impossibilità di interpretare qualcosa che contraddice le leggi naturali, a giustificare “l’apnea sonora”: il volto del mostro si offre in silenzio, quasi come rêverie espressionista.
Si noti come nella creatura la carenza funzionale legata al movimento si connette simbolicamente alla difficoltà nell’articolare il linguaggio. “Esso” comprende il senso veicolato dal linguaggio verbale come dimostra il suo obbedire, pur con qualche insistenza, agli ordini che Frankenstein gli impartisce. In particolare l’afasia motoria si palesa nella reazione di terrore alla vista del fuoco: c’è gesto vocale ma non parola e dunque significazione linguistica; anzi la paura del fuoco sembra significativamente definire uno stato prelinguistico della creatura. È interessante notare allora come, al livello del “microcorpus” testuale osservato, Frankenstein definisca una opposizione netta con Dracula rispetto alla dimensione linguistica, così da allestire una duplicitià del mostruoso linguistico e vocale. Se Dracula ha una capacità linguistica esorbitante, capace cioè di includere per iperarticolazione nel suo spettro l’animalità dell’ululato, Frankenstein declina il mostruoso sotto forma di inarticolato prelinguistico. Infine, nella dimora dei Frankenstein, mentre sono in corso i festeggiamenti per l’imminente matrimonio tra lo scienziato e la fidanzata Elizabeth, Victor porta la notizia della morte del dottor Waldman, affermando che il mostro è stato visto aggirarsi per le campagne circostanti. Frankenstein nel frattempo ha chiuso Elizabeth nella stanza, quando d’improvviso il vocalizzo del mostro si fa udire. Gli uomini cercano di localizzarlo setacciando casa, ma intanto la creatura si introduce nella camera della donna e tenta di aggredirla: il suo grido di terrore risuona in tutto l’edificio. La forza archetipica della voce riveste anche in questa occasione un ruolo di primaria importanza, in quanto fantasma sonoro che ora si spersonalizza fluttuando nella diegesi quale minaccia acusmatica illocalizzabile, ora letteralmente “esplode” quale urlo, climax sonoro. L’annuncio dell’assassinio di Waldman porta Frankenstein a nominare (per la prima e unica volta) l’essere da lui riassemblato e rianimato: «The monster!»22. L’esclamazione dello scienziato evoca letteralmente il perturbante. Di rimando il mostro attesta la sua presenza: affiora dal fuori campo il lamento, il moaning, segno fonico vagante e pervasivo, un’incombenza che grava e avvolge tutto ciò che rientra nella porzione di spazio visibile. Paradossalmente la propagazione sonora come fluttuazione e ingloba-
20 Cfr. Michel Chion, La voix au cinéma, Editions de l’Etoile, Paris, 1982 (tr. it. La voce nel cinema, Pratiche, Parma, 1991). 21 Aldo Carotenuto, Il fascino discreto dell’orrore. Psicologia dell’arte e della letteratura fantastica, Bompiani, Milano, 1997, p. 44.
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Il monster in quanto rappresentazione interna proiettata è chiaramente il doppio di Frankenstein e curiosamente la coincidenza fra i due si invera subliminalmente anche a livello di sapere collettivo, dato che il nome del creatore finisce per saldarsi alla creatura.
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mento nel/del quadro, e quindi l’impossibilità di determinare il “luogo” della voce, investe letteralmente la diegesi, nel senso che anche per gli astanti l’individuazione della scaturigine risulta inattuabile. Le qualità irradianti del suono e soprattutto la sostanziale ubiquità della voce fantasma operano una sorta di incanto che irretisce gli “inseguitori”, al punto che la mdp finisce per intercettare il mostro all’esterno della casa attraverso la trasparenza di una finestra, conferendo così alle proprietà fascinatorie della voce una veste quasi magica. La «corporeità del parlare»23, come l’ha definita Barthes, dopo essersi dispersa, scompare reintegrata: il mostro è muto, mentre la finestra è quella della camera di Elizabeth. La tensione organizzatasi intorno alla circolazione della voce converge dunque nella stanza della donna, s’incarna finalmente in immagine, nel mostro minaccioso e non visto, che scruta e poi vìola lo spazio protetto, chiuso a chiave per volere di Frankenstein. Qui emerge «l’articolazione del linguaggio di fronte alla morte»24, l’urlo della donna, uno squarcio, una lacerazione sonora di incontenibile violenza che irrompe più volte a differenti altezze secondo varie modulazioni, finché non si separa dall’immagine, dalla verità, per incorporare il profilmico, aprendo così un divario tra visibile e conoscibile nel quale quest’ultimo, irrappresentabile, si affida completamente all’ascolto. Il grido femminile seguendo una codificazione che diviene norma, assurge a topos, unione inscindibile che il cinema di paura stabilisce tra la voce della donna e il “terrore vocale”.
Conclusioni Nei primissimi anni Trenta gli all talkies sono una realtà conclamata, ma contestualmente essi si danno come prodotto sonoro limitato e incompleto in ragione del fatto che il missaggio non è ancora disponibile, limitando le opzioni alla presa diretta e/o alla post-sincronizzazione. Assistiamo dunque, da un lato, a un completo superamento della fase sperimentale neosonora e all’imporsi di uno “stile” nel trattamento del dominio acustico, dall’altro all’auroralità di diversi generi tra i quali l’horror. A tale riguardo abbiamo evedenziato come la testualità filmica dell’orrore vincoli la sua Roland Barthes, L’obvie et l’obtus. Essai critiques III, Paris, Seuil, 1982 (tr. it. L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici 3, Einaudi, Torino, 1985, p. 247). 24 Michel Chion, La voce nel cinema, cit., p. 97.
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produzione di senso a una precisa dinamica udibile, attraverso l’emergere del perturbante come minaccia acusmatica, dando concretezza quasi tattile all’irrappresentabile e configurandolo come evenienza sonora. La presenza udibile si offre allora come meccanica energetica che si dispiega sul/ nel nero schermico pulsando e presentificando, nutrendosi delle inferenze dello spettatore, suggerendo e indicando, oppure convincendo come mera interpellazione, come attrazione aurale. In Dracula, nella scena della cripta, abbiamo rilevato come l’inesplicabile, il demoniaco, non facciano rumore, ma si leghino a un silenzio preparatorio, come a dire che se la morte è l’arresto del divenire l’evento sonoro in quanto processo dinamico non può sussistervi. I non morti che si levano dalle proprie bare sono determinazioni acustiche che si saldano a visioni repellenti di ratti e insetti. Browning dunque valorizza il fuori campo attraverso una figuratività naturale, popolandolo di oggetti sonori quotidiani stereotipati e riconoscibili. Attraverso la “simbolizzazione” poi, alcuni suoni come l’ululato diventano veicoli di un senso prestabilito. Essi connettono spazi diversi, inglobandoli e unificandoli, dando conto di una delle peculiarità fondanti del sonoro. Se Dracula è la minaccia pervasiva e metamorfica che arresta il divenire del suono, la creatura riassemblata in Frankenstein è al contrario corpo sonoro, produttore e scaturigine significante. La sequenza della rianimazione è scandita dalla minaccia naturale costituita dal tuono, fenomeno che assurge a irruzione/cesura della/nella narrazione, ma soprattutto diviene un sigillo sonoro degli orrori a venire, un costrutto udibile decisivo a partire da un classico topos letterario. Creato nella stratificazione rumoristica dei fenomeni elettrici del laboratorio egli (esso) si annuncia come percussività senza volto, pur mostrandosi nella totale cessazione delle attività udibili. Nella scena d’aggressione alla donna il monster emette vocalizzi non linguistici che si propagano ridefinendo lo spazio che li contiene. L’inquietante estraneità non può essere rintracciata: scollata dalla sua sorgente essa si configura come viluppo sonoro, propagazione onnidirezionale che spaventa e confonde i corpi sulla scena. L’irrompere infine dell’urlo femminile diviene l’oggetto sonoro accentrante che, similmente, attraversa varie spazialità; è uno «squarcio nel tempo»25 che emerge dal 25
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Senti questo respiro?
luogo simbolico della bocca e opera una convergenza della linee tensive della narrazione. In conclusione, la portata “fantomatica” dell’evento sonoro cinematografico potrebbe esemplificarsi in quelle banali anticipazioni sonore eterogenee che emergono prima che qualcosa si dia a vedere; lì è rintracciabile il delinearsi della spazialità udibile, la capacità tutta cinematografica di assemblare una dimensionalità altra, immaginaria e di estensione indefinita.
Horror, fantastico e fantasmagoria sonora in Suspiria di Riccardo Fassone Con Suspiria, uscito nelle sale italiane nel febbraio del 1977, si fa convenzionalmente coincidere il primo sconfinamento della poetica di Dario Argento nel campo del fantastico e dell’horror. Ha certamente ragione Claudio Bisoni quando nota che tale rottura fu avvertita dalla critica del tempo più come il definitivo allontanamento del cinema argentiano dall’intelligibilità che come un movimento di superamento di una barriera espressivo-stilistica. Scrive Bisoni: A proposito di Suspiria e del seguente Inferno la critica registra di rado la peculiarità del cambio di rotta o di raffinamento di una poetica coerente, più spesso una parabola di dissoluzione degli ultimi elementi di ragionevolezza, verso qualcosa che si fatica a comprendere1.
La recensione di Guido Fink pubblicata su «Bianco & Nero» va in effetti in questa direzione. Secondo Fink: «Alla proliferazione degli effetti nel senso della profondità (davanti, dietro e sopra lo schermo) corrisponde, come ci si può attendere, una voluta erosione del supporto logico del plot»2. D’altra parte, nello stesso articolo, l’autore nota anche l’eccentricità di Suspiria rispetto alla produzione precedente di Argento: «Quel primo film [L’uccello dalle piume di cristallo, 1970] appare un classico in confronto a Suspiria»3. L’idea che Suspiria costituisca una cesura evidente nel percorso stilistico argentiano è rilanciata dai molti interventi critici e analitici dedicati al film negli anni successivi alla sua uscita4 e lo stesso Claudio Bisoni, Dal rifiuto alla celebrazione. Dario Argento e la critica, in Vito Zagarrio (a cura di), Argento vivo. Il cinema di Dario Argento tra genere e autorialità, Marsilio, Venezia, 2008, p. 55. 2 Guido Fink, Suspiria, in «Bianco & Nero», 1, gennaio-febbraio 1977, p. 107. 3 Ivi, p. 108. 4 A tal proposito si veda, per esempio, Roy Menarini, Dal thriller all’horror. Tra modernità, postmodernità e manierismo, in Giulia Carluccio, Giacomo Manzoli, Roy 1
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Argento sottolinea la volontarietà di questo sconfinamento in diverse interviste. Per esempio, in un colloquio con Fabio Maiello, Argento afferma: «Dopo Profondo rosso volevo raccontare qualcosa di più incantato, assolutamente non reale. Volevo sconfinare nei miti delle favole e trasportarli nel presente»5. Suspiria rappresenterebbe dunque una palingenesi nella carriera argentiana, non già un film-soglia, ma un film “oltre-soglia”, testimonianza dell’attraversamento della membrana del fantastico. Abbandonato il canovaccio del giallo modernista dei film precedenti, Argento adotta il registro onirico-fiabesco dell’horror neogotico. Con questo intervento mi prefiggo di indagare, attraverso un’analisi del suono in Suspiria, le caratteristiche dell’accesso al fantastico del cinema di Argento e la tematizzazione dell’idea di soglia (e, inevitabilmente, di attraversamento di una soglia) che sembra innervare il film. Affronterò questo percorso in tre fasi. Dapprima cercherò di ricostruire questo avvicinamento al fantastico dal punto di vista del trattamento del materiale sonoro, individuando segnali di rottura e continuità rispetto alle opere precedenti del regista. Poi, passerò a definire i termini entro cui è possibile parlare di “fantasmagoria sonora” in Suspiria, prendendo a prestito l’idea diffusa tra gli studiosi che il cinema di Argento realizzi un trattamento fantasmagorico del visivo. Il mio tentativo in questo senso sarà quello di verificare la possibilità di un utilizzo dell’idea di fantasmagoria applicata alla componente sonora di Suspiria. Infine, attraverso un confronto tra Profondo rosso (Dario Argento, 1975) e Suspiria presenterò un esempio delle strategie illusionistiche e sabotatorie presenti nel cinema di Argento, individuando alcune pratiche di presentazione della materia narrativa che sembrano volte alla generazione dell’incertezza e dell’ambiguità.
Chiasso e colore. Indizi sonori Repertoriando i molti materiali paratestuali che si offrono allo studioso di Suspiria, è facile imbattersi in un volume intitolato Terrore profondo, antologia di novelisation tratte dai film di Argento. Sebbene la pratica della
novelisation goda (spesso meritatamente) di pessima reputazione6, i testi derivanti da questo singolare trattamento intermediale possono in alcuni casi rivelarsi ricchi di indizi sul film di cui sono adattamento. È il caso del romanzo desunto da Suspiria e firmato da Nicola Lombardi. L’opera di Lombardi si apre con una frase che può costituire un utile pretesto per la ricerca intorno al fantastico sonoro nel film di Argento. Lombardi scrive: «Il Vecchio Mondo l’accolse con braccia chiassose e colorate»7. L’incipit del romanzo di Lombardi sembra voler rappresentare per intero la lunga sequenza (circa sei minuti) che apre Suspiria, configurandosi in effetti come una sintesi degli elementi che la compongono e presentando alcuni nodi significativi sui quali può essere utile concentrarsi. A essere accolta dal Vecchio Mondo è evidentemente Susy (Jessica Harper), che vediamo giungere all’aeroporto di Friburgo dopo un viaggio intercontinentale. La sequenza in esame può essere facilmente divisa in tre sezioni: la prima vede Susy uscire dall’aeroporto e cercare un taxi, la seconda è costituita dal viaggio di Susy verso l’accademia di danza, mentre la terza coincide con l’arrivo della giovane all’accademia e il fugace incontro con Pat (Eva Axén), la studentessa in fuga dalla scuola. Avendo scelto di utilizzare la prima frase del romanzo di Lombardi come sintesi della sequenza, è bene andare con ordine e iniziare dal «Vecchio Mondo». Susy è, come molti personaggi argentiani, una nomade che ha lasciato il proprio paese per raggiungere un luogo distante ed estraneo. In Suspiria, però, l’arrivo di Susy nel Vecchio Mondo (che, però, è per lei del tutto nuovo) non coincide, come accadeva per esempio ne L’uccello dalle piume di cristallo, con il confronto con un tessuto urbano labirintico, in cui è facile (o inevitabile) perdersi. La Friburgo che Susy raggiunge in aereo è un luogo che, almeno in questa sequenza iniziale, non ha caratteristiche geografiche definite; è una foresta incantata avvolta da una pioggia torrenziale che ne rende indistinguibili i confini. Il suono, in prima istanza, funge qui da porta di accesso alla dimensione onirica connaturata al racconto fiabesco. Sono due i luoghi sonori in cui si dispiega questa strategia. Il primo, anche per
Menarini (a cura di), L’eccesso della visione. Il cinema di Dario Argento, Lindau, Torino, 2003, pp. 29-38. 5 Fabio Maiello, Dario Argento. Confessioni di un maestro dell’horror, Alacrán, Milano, 2007, p. 109.
L’astio verso la pratica dell’adattamento da film a romanzo può assumere forme virulente. Lo scrittore Jonathan Coe, in un articolo intitolato Diary of an Obsession, reperibile al sito www.jonathancoewriter.com/oddsAndEnds/diaryOfAnObsession. html, definisce la novelisation «that bastard, misshapen offspring of the cinema and the written word» (ultimo accesso 15 ottobre 2011). 7 Nicola Lombardi, Suspiria, in AA.VV., Terrore profondo, Newton & Compton, Roma, 1997, p. 21.
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posizionamento cronologico nella narrazione, è la voce fuori campo dello stesso Argento. La breve frase recitata dal regista8, posta in corrispondenza dei titoli di testa, costituisce una glossa sonora, un espediente metanarrativo che evidenzia il carattere favolistico del racconto. L’intervento fuori campo di Argento è in fondo un “c’era una volta...”. Se questo intervento del narratore può apparire a prima vista come un vezzo argentiano, una civetteria autoriale, esso diventa significativo quando trova un rafforzamento in una seconda classe di indizi eminentemente acustici. La scena che segue i titoli di testa, infatti, sembra configurarsi come ulteriore glossa o momento preparatorio all’ingresso nel fantastico di Susy e, in senso figurato, della poetica argentiana. Il campo/controcampo che si realizza tra l’inquadratura frontale di Susy che percorre il corridoio dell’aeroporto e il suo sguardo soggettivo sulle porte automatiche sembra in effetti procedere in questa direzione. L’inquadratura di Susy è accompagnata da suoni naturali – segno che alle spalle della ragazza si trova il mondo-mondano –, mentre alla sua soggettiva è affiancata l’entrata prepotente nel campo sonoro del tema composto dai Goblin per il film. Una coincidenza tra musica extradiegetica e soggettiva della protagonista che non corrisponde alla messa in scena del mondo interiore di Susy (che a questo punto della vicenda non avrebbe ragione di essere “sonorizzato” dai Goblin), ma piuttosto alla visualizzazione, attraverso gli occhi di Susy, del punto-soglia (la porta automatica) e alla sua connotazione fantastica tramite la rimozione dei suoni naturali d’ambiente. Per quattro inquadrature, dunque, lo spettatore esperisce attraverso il suono intermittente la temporanea compresenza tra mondo-reale e mondo-fantastico. Pochi secondi dopo, quando Susy attraversa la soglia dell’aeroporto, assistiamo a quello che Chion definisce un punto di sincronizzazione («[R]encontre ponctuelle, instantanée, abrupte d’un son et d’un impact visible»9) particolarmente netto. La macchina da presa inquadra in dettaglio il meccanismo delle porte automatiche, un’immagine che associata allo sbuffo meccanico innaturalmente amplificato dà vita a un luogo di attrazione audiovisiva particolarmente significativo. Se l’horror si è servito tradizionalmente di “cadenze evitate” o di crescendo irrisolti, che preannunciano momenti di attrazione audiovisiva che non si «Susy Benner decise di perfezionare i suoi studi di balletto nella più famosa scuola europea di danza. Scelse la celebre accademia di Friburgo. Partì un giorno, alle nove di mattina, dall’aeroporto di New York e giunse in Germania alle dieci e quarantacinque, ora locale». 9 Michel Chion, L’audio-vision. Son et image au cinéma, Nathan, Paris, 1990, p. 54. 8
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verificheranno, qui ci troviamo invece di fronte a un’attrazione sensoriale superflua; la porta dell’aeroporto, infatti, non è di per sé un oggetto minaccioso. Si tratta di un punto di forte sincronismo apparentemente inutile, annunciato dall’alternanza tra il suono diegetico dell’aeroporto e la musica ossessiva dei Goblin a cui abbiamo già accenato. Si potrebbe supporre quindi che questo frammento audiovisivo sia la prova dell’ingresso di Susy in un universo dominato dall’inspiegabile. Lasciato lo spazio sicuro rappresentato dal corridoio dell’aeroporto, Susy ha finalmente raggiunto il Vecchio Mondo. Che, in realtà, è il mondo-fantastico entro cui si svolge l’intero film; un mondo i cui esistenti – anche i più banali come le porte automatiche – sono animati. Non sorprende che, durante il viaggio in taxi di Susy, Argento ricorra per altre due volte alla creazione di attrazioni sensoriali apparentemente superflue, rafforzando l’idea di un mondo animato. La macchina da presa si concentra infatti in due occasioni su particolari eccentrici rispetto al viaggio di Susy: una cascata d’acqua messa in scena con innaturale insistenza e il dettaglio di un tombino in cui confluisce un rivolo. In entrambi i casi il movimento di sottolineatura di questi particolari sembra eccedere l’esigenza di esplicitazione delle condizioni atmosferiche avverse. Rimane quindi da chiedersi in che senso la perifrasi riguardante le «braccia chiassose e colorate» abbia a che fare con il prologo del film di Argento. La predominanza dell’elemento di sperimentazione cromatica in Suspiria è evidente, e a tale proposito esistono diversi studi. Il più recente, un’intervista al direttore della fotografia Luciano Tovoli apparsa nel numero di febbraio 2010 di «American Cinematographer»10, dà conto in modo approfondito dell’“arredamento” cromatico del film e della volontà argentiana di costruire un mondo fiabesco inondato di colori primari. Circa il «chiasso», però, le risorse bibliografiche sono di minore aiuto. D’altra parte è evidente come di fronte a una tale ridondanza visiva e a un utilizzo tanto radicale del colore, si rischi di dimenticare la significatività del trattamento dei materiali sonori realizzato da Argento in Suspiria. Consideriamo, per esempio, il fatto – raramente notato in sede di analisi – che in Suspiria è presente una notevole componente di rumore disordinato, di suoni che minano l’intelligibilità della parola, di «chiasso», per dirla con Lombardi. Le scene in esterni, per esempio quella appena evocata in cui Susy compie il tragitto Stanley Manders, Terror in Technicolor, «American Cinematographer», 91, 2010, pp. 68-76.
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dall’aeroporto alla scuola di danza, sono quasi sempre caratterizzate da una “quinta sonora” di rumore bianco, di suono disordinato. Lo scrosciare della pioggia nella sequenza presa in esame è una parete uditiva che impedisce di percepire l’estensione sonora della diegesi. Durante il viaggio in taxi di Susy attraverso la città e, poi, nel bosco, il fondale sonoro non rimanda ad alcun altrove possibile, poiché, si direbbe, è compresso entro le pareti acustiche costituite dallo scrosciare della pioggia. E a ben vedere, anche le scene in esterni il cui trattamento visivo appare più realistico restituiscono tramite il sonoro l’idea di un luogo la cui verosimiglianza, che sarebbe normalmente certificata dai suoni d’ambiente (il traffico, gli uccelli, i suoni della città), è soffocata dal chiasso degli elementi naturali, che fungono al contempo da presenza minacciosa e membrana sonora che avvolge il Vecchio Mondo. Si pensi in quest’ottica alla sequenza in cui Susy consulta un esperto di stregoneria durante un cocktail party. Argento abbandona le stravaganze barocche dell’arredamento dell’accademia e ambienta il colloquio nei pressi di un edificio moderno, facendo di fatto coincidere le spiegazioni razionali fornite dallo psichiatra interpretato da Udo Kier con un trattamento scenografico e fotografico sostanzialmente realista. Tuttavia, anche in questa sequenza è presente una cortina di rumore – in questo caso il vento che spazza la zona in cui si trovano i due – che sembra rimandare alla strategia di soppressione del suono d’ambiente “naturale” già notata nel prologo. Sarebbe però incompleta una lettura del suono in Suspiria che non tenesse conto degli elementi di continuità che legano il film del 1977 ai lavori precedenti di Argento. In particolare, alcune ricorrenze nei temi di Profondo rosso e Suspiria sembrano configurare un legame tra i due film almeno per quanto riguarda il commento musicale. In entrambi i casi, in effetti, la partitura composta dai Goblin sembra intrattenere con le immagini un rapporto di quasi totale anempatia. Tale scelta innesca, tanto in Profondo rosso quanto in Suspiria, un effetto di sdoppiamento o, metaforicamente, di contrappunto; immagini e colonna musicale extradiegetica sono compresenti e costituiscono un assalto sensoriale bicefalo, le cui componenti appaiono quasi del tutto indipendenti. Nel caso specifico del tema di Suspiria la qualità anempatica delle composizioni dei Goblin, che secondo Alberto Boschi sarebbero espressione di un «jazz-rock minimalista, basato sulla ripetizione ossessiva e senza quasi variazioni di semplici cellule melodiche»11, è raf-
forzata da tre fattori: 1) la scansione ritmica particolarmente accentuata; 2) la scarsa dinamicità di un commento musicale che, al limite, scompare, ma che raramente cala o cresce d’intensità; 3) la qualità timbrica del suono predominante, che ricorda quello di un carillon, strumento meccanico per eccellenza. È tuttavia interessante notare come l’utilizzo di voci all’interno del commento musicale disegni un secondo movimento. Da un lato il distacco, l’anempatia di composizioni essenzialmente autosufficienti, dall’altro un utilizzo all’interno dei brani di voci che sembrano “suggerire” dettagli utili a risolvere l’enigma posto dal film, anticipando di fatto alcune evoluzioni successive della trama. In alcune sequenze, infatti, il commento musicale extradiegetico contiene frammenti di voci che ripetono la parola «witch», “strega”, suggerendo la natura sovrannaturale delle presenze che abitano l’accademia. Come vedremo più avanti, questa strategia si colloca all’interno di una più ampia volontà di creazione illusionistica (se non addirittura esoterica) che percorre il cinema di Argento a partire da Profondo rosso. In ogni caso, è lecito pensare che la musica dei Goblin e l’utilizzo che Argento ne fa in Suspiria si ponga come unico possibile trait d’union tra questo film e quelli che lo hanno preceduto, segnando una continuità che, come visto, è invece negata nel trattamento del restante materiale sonoro.
L’ascolto fantasmagorico
11 Alberto Boschi, Il suono rivelatore, in Giulia Carluccio, Giacomo Manzoli, Roy Menarini (a cura di), L’eccesso della visione, cit., p. 144.
Se le sequenze ambientate in esterni sono caratterizzate da un trattamento del materiale sonoro che procede nella direzione dell’isolamento tramite cortine di rumore, all’interno della scuola di danza si determina quella che si può definire l’ecologia del suono di Suspiria. L’accademia è infatti un ambiente letteralmente “abitato” da eventi sonori il cui statuto è mutevole e la cui aderenza a un referente reale (chi emette i suoni? Di che suono si tratta?) è incerta e costantemente ridefinita. La sequenza che meglio definisce ed esemplifica alcune strategie argentiane relative alla costruzione dell’ambiente sonoro di Suspiria è quella in cui le giovani allieve della scuola sono costrette a trascorrere la notte in un salone dell’edificio, poiché le loro camere sono infestate dai vermi. Ancora una volta, la sequenza è nettamente tripartita; nella prima parte, il bisbigliare indistinto delle ragazze, che pare innaturalmente amplificato, costituisce una punteggiatura disordinata, che si sovrappone a quella, ritmicamente più definita, rappresentata da una serie di tonfi o passi in lontananza, immersi nello stesso
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riverbero riservato alle voci. La breve lite fra due compagne introduce la seconda parte, decisamente più complessa. La macchina da presa, tramite un dolly, disegna una sorta di soggettiva senza soggetto, introducendo all’interno della camerata uno sguardo aereo disincarnato e distorto, che inquadra nella sua interezza l’accampamento di fortuna. A questo movimento di macchina si associano l’ingresso della musica di commento e la sovrapposizione al mormorio delle ragazze di rantoli e sospiri la cui origine è difficilmente rintracciabile. A ciò che è certamente extradiegetico (la musica) e a ciò che ci sembra ragionevolmente poter essere diegetico (le voci delle giovani), si affianca dunque un terzo elemento destabilizzante e incerto. Sebbene sembrino appartenere alla stessa classe dei bisbiglii (hanno la stessa intensità, lo stesso riverbero e, in definitiva si confondono con questi), i rantoli non sembrano essere uditi dalle ragazze. Si tratta in sostanza di oggetti sonori che anziché compiere un movimento di scavalcamento della linea della diegesi (per esempio deacusmatizzandosi), gravitano attorno a quel confine senza mai porsi definitivamente in uno dei tre quadranti definiti da in, off e over. Eventi sonori che non appartengono né alla colonna musicale né a quella dei dialoghi, ma che partecipano di un’ecologia acustica innaturale, funzionale alla costruzione del fantastico. Tale statuto incerto si rafforza nella terza parte della sequenza, nella quale si palesa il respiro inquietante emesso dalla silhouette che si staglia alle spalle di Susy. Il respiro pesante che le ragazze odono provenire dalle loro spalle funge da centro d’attrazione sensoriale e, volendo aderire alle indicazioni del plot, da ennesimo indizio acustico grazie al quale Susy riuscirà, nel finale, a trovare la stanza nella quale si nascondono le streghe. Si tratta, dunque, di un suono localizzato, al quale è addirittura associato un corpo (trovandosi dietro una tenda, si tratta di quello che Chion definirebbe un «acousmêtre»12); ma il rantolo della direttrice è davvero un suono completamente o unicamente diegetico? Un pezzo del puzzle (a dire il vero piuttosto incoerente) progettato dalla narrazione argentiana? Come visto, il respiro è confuso in un contesto ricco di stimoli sonori di difficile collocazione, con i quali inevitabilmente si confonde e si ibrida. Da un lato, il rantolo della direttrice dell’accademia sembra partecipare alla costruzione ritmica del brano dei Goblin che commenta la sequenza; dall’altro, esso richiama evidentemente le voci di statuto incerto a cui si è fatto riferimento. Argento costruisce un gioco complesso di assonanze che danno vita a 12
Michel Chion, L’audio-vision, cit., p. 109.
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un’associazione uditiva tra il rantolo della direttrice e la restante materia sonora: i sibili uditi in precedenza sembrano costituirne un’espansione o, addirittura, un riverbero, mentre il commento musicale, che utilizza una sorta di mantra vocale, contribuisce a creare l’idea di una saturazione dello spazio dell’udibile attraverso una disordinata polifonia vocale. Il suono percepito in questa sequenza è dunque una complessa rete di eventi discreti ma difficilmente separabili gli uni dagli altri, aleggianti in un’indefinita area di confine. In molti casi questi non si trovano al di qua né al di là dei tre confini definiti da Chion nel suo lavoro sul suono, ma piuttosto in uno spazio interstiziale che favorisce spostamenti e fluttuazioni. In questa prospettiva mi sembra utile avanzare una riflessione sulle potenzialità fantasmagoriche dell’udibile nel film di Argento. Il termine fantasmagoria non è nuovo negli studi sul regista romano: Giacomo Manzoli, nel saggio Il trauma e la trama, rielabora il lavoro di Milner13 sulla fantasmagoria, per rendere conto di alcune dinamiche visive del cinema di Argento. Secondo Manzoli, quello di Dario Argento è «un cinema di sinestesie, di sollecitazioni sensoriali, stimolante nel senso proprio del termine» e ancora, a sottolineare un ulteriore legame con la fantasmagoria come dispositivo spettacolare, «nel cinema di Argento trovano spazio suggestioni provenienti dai confini più remoti della galassia spettacolo»14. Proprio in questo senso, ritengo che si possa ipotizzare un utilizzo del termine fantasmagoria anche in relazione alla componente sonora del cinema argentiano di questo periodo. La studiosa americana Terry Castle, nel suo saggio Phantasmagoria and the Metaphorics of Modern Reverie, analizza le diverse accezioni del termine fantasmagoria. Da un lato, un dispositivo spettacolare, una macchina scenica pensata per generare fantasmi e far sorgere il perturbante; dall’altro, nell’accezione metaforica novecentesca del termine, una peculiare condizione psicologica e percettiva derivante da un’esperienza sinestesica particolarmente intensa. Nel trattare la fantasmagoria come macchinario spettacolare, Castle afferma: The subliminal power of the phantasmagoria lay in the fact that it induced in the spectator a kind of maddening, contradictory perception: 13 Max Milner, La Fantasmagorie: essai sur l’optique fantastique, PUF, Paris, 1982 (tr. it. La fantasmagoria. Saggio sull’ottica fantastica, Il Mulino, Bologna, 1989). 14 Giacomo Manzoli, Il trauma e la trama, in Giulia Carluccio, Giacomo Manzoli, Roy Menarini (a cura di), L’eccesso della visione, cit., pp. 40 - 42.
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one might believe ghosts to be illusions, present ‘in the mind’s eye’ alone, but one experienced them here as real entities, existing outside the boundaries of the psyche. The overall effect was unsettling – like seeing a real ghost15.
Per Terry Castle, insomma, il procedimento narrativo della creazione fantasmagorica consiste nella costruzione di uno spazio di contraddittorietà tra “dentro” e “fuori”, tra ciò che è proiezione della mente e ciò che, invece, esiste nel mondo reale. A questo tipo di strategia di costruzione spettacolare sembra far riferimento la progettazione dell’ecologia sonora di Suspiria; un ecosistema di eventi sonori contraddittori progettato per generare «a kind of maddening, contradictory perception», una fantasmagorica incertezza. L’incertezza, mai veramente risolta, riguarda in Suspiria la localizzazione delle presenze acustiche che abitano il film, la loro attribuzione certa a un campo preciso dell’esperienza audiovisiva. Se lo spettatore dello spettacolo fantasmagorico era sconcertato di fronte a fantasmi che non riusciva a collocare precisamente (proiezioni mentali o entità reali, tangibili?), l’esperienza spettatoriale offerta da Argento in Suspiria riecheggia tale condizione di incertezza tramite l’uso di eventi sonori che abitano uno spazio ambiguo. In questo senso, Suspiria mette in scena una fantasmagoria uditiva, che sfrutta l’incertezza presupposta dal racconto fantastico16 e la trasferisce in un’esperienza di ascolto non localizzato, multidirezionale, polisemico e, in definitiva, irriducibilmente ambiguo. La strategia impiegata da Argento nel trattamento dei suoni nella sequenza analizzata è dunque volto all’erosione della membrana che separa gli ambiti di pertinenza diegetica (in, off, over). Un movimento che inevitabilmente comporta un’asimmetria tra le attese spettatoriali e la forma assunta dalla materia narrativa e spettacolare. Nella camerata delimitata da teli bianchi (un altro possibile riferimento a forme spettacolari pre-cinematografiche) della sequenza analizzata, dove si trova lo spazio “sicuro” del suono over? Terry Castle, Phantasmagoria and the Metaphorics of Modern Reverie, «Critical Inquiry», 15, 1988, ristampato in Ken Gelder (a cura di), The Horror Reader, Routledge, London and New York, 2000, p. 40. 16 In Introduction à la littérature fantastique, Éditions du Seuil, Paris, 1970 (tr. it. La letteratura fantastica, Garzanti, Milano, 2000, p. 45), Tzvetan Todorov scrive: «Il fantastico dura soltanto il tempo di un’esitazione». 15
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Bluff e inganni La celebre sequenza di Profondo rosso in cui Mark Daly (David Hemmings), aggirandosi per una casa in cui è avvenuto un omicidio, si trova faccia a faccia con l’assassina senza in realtà vederla, è forse l’esempio più limpido della tendenza di Argento all’imbroglio. Quello che Roberto Pugliese definisce «un bluff totale, ma sicuro»17 è in questo caso un esempio di manipolazione illusionistica della percezione dello spettatore. Il procedimento messo in moto da Argento in Profondo rosso, a ben vedere, si configura non tanto come un bluff, quanto piuttosto come uno spericolato trucco di prestidigitazione. Lo spettatore avrebbe la possibilità di conoscere la soluzione dell’enigma prima del detective – rendendo vana l’intera struttura da whodunit di Profondo rosso – ma è in effetti impossibilitato a cogliere l’indizio rivelatore, perché confuso dalla sovrabbondanza di sinestesie tipicamente argentiane. L’ondeggiare della macchina da presa, la musica incalzante dei Goblin, la parata di quadri grotteschi appesi alle pareti dell’appartamento, rendono impossibile l’identificazione dell’unico volto umano, quello dell’assassina. L’attenzione del pubblico è alla mano destra del prestigiatore, ma il trucco si compie nella sinistra. È forse più opportuno parlare di bluff nell’incipit di Suspiria, in cui Argento mette lo spettatore nella condizione di credere di poter accedere a un indizio che, invece, è del tutto inattingibile. Susy incontra sulla scalinata della scuola una ragazza che grida qualcosa di inintelligibile; scopriremo più tardi che sono le indicazioni per raggiungere la stanza segreta delle streghe. La mappa del tesoro. La differenza tra le strategie impiegate da Argento nelle due sequenze citate è notevole: se quello presente in Profondo rosso è un trucco di illusionismo (la soluzione c’è, ma è impossibile vederla), in Suspiria assistiamo piuttosto a un deliberato inganno (la soluzione sembra esserci, ma in realtà non c’è). Il bluff argentiano – non meno spericolato del “trucco” di Profondo rosso – è reso possibile principalmente dal fatto che il regista, in questo caso, anziché confondere un’immagine tra molte altre, utilizza il sonoro come esca per una percezione impossibile. Le parole pronunciate dalla ragazza che fugge dalla scuola risulterebbero inudibili anche se ci si concentrasse soltanto su di esse. La traccia sonora le occulta grazie al rumore della pioggia e ai tuoni, rendendole di fatto assenti dal film. La mappa del tesoro rivelata dalla giovane Pat è in realtà inattingibile 17
Roberto Pugliese, Dario Argento, Il Castoro, Milano, 1996, p. 38.
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per gli spettatori in sala, poiché le parole della ragazza sono letteralmente inghiottite dai tuoni e dallo scrosciare della pioggia; ancora una volta, cortine sonore impenetrabili. In questo momento potenzialmente rivelatore, Argento si affida alla sovrapposizione (i suoni d’ambiente coprono le parole), laddove in Profondo rosso si assisteva a un affiancamento (il volto di Clara Calamai, confuso in mezzo agli altri). Argento porta a compimento dunque un vero e proprio inganno ai danni dello spettatore, presentandogli una chiave sonora che non apre alcuna porta. Se queste due sequenze illusionistiche sembrano seguire strategie sabotatorie diverse, se non addirittura opposte, risultano invece essere pressoché identiche se se ne considerano le ricadute narrative. In entrambi i casi queste «scene primarie»18 forniranno il pretesto ai protagonisti per risolvere un enigma tramite un processo solo in parte mnemonico. In Profondo rosso, la memoria di Mark è attivata da una seconda visita all’appartamento. L’espediente argentiano per il quale Mark nota la presenza di uno specchio dove pensava si trovasse un quadro, nella sua sostanziale implausibilità, lascia spazio ad altre conclusioni. Come nota Federica Villa, Mark al contempo ri-vive e ri-vede il carrello in avanti che rivelava il volto dell’assassino. Secondo Villa: [Lo] sforzo inutile di ricordare e di riassestare, attraverso la memoria, una soggettiva difettata, non porta lontano, proprio perché la verità può essere raggiunta soltanto attraverso una memoria piena e uno sguardo perfetto. In sostanza la verità viene toccata da Mark solo facendo memoria e vivendo al contempo quello sguardo, provandone l’effettiva esperienza: non si può ricordare di aver visto, ma si deve ricordare e quindi (ri)vedere19.
Mark (e lo spettatore, il cui punto di vista è a questo momento del tutto allineato con quello del detective/musicista) vive un movimento re18 Federica Villa, nel saggio Parabole di una svista. Soggettive difettate in «Profondo rosso» e «Nonhosonno», in Giulia Carluccio, Giacomo Manzoli, Roy Menarini (a cura di), L’eccesso della visione, cit., pp. 129 - 136, chiama in causa la scena primaria rispetto alla sequenza dei titoli di testa di Profondo rosso. Anche le sequenze in cui i protagonisti di Profondo rosso e Suspiria apprendono indizi che comprenderanno pienamente solo più tardi sono tuttavia accostabili a scene primordiali, momenti-matrice del racconto dai quali Mark e Susy saranno ossessionati e ai quali saranno costretti a risalire. 19 Ivi, p. 132.
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trospettivo totale; non solo un recupero mnemonico, ma una ripetizione dell’intera esperienza audio-visiva della sua prima visita all’appartamento. Argento ripete l’inquadratura che la prima volta ci era sfuggita, concentrandosi tramite uno zoom sul viso di Clara Calamai. Non è la memoria di Mark a risolvere l’enigma, ma la volontà del narratore di offrirci una seconda possibilità, di rendere il gioco più semplice. In Suspiria la memoria di Susy è attivata da un simile processo sinestesico. Lo scoppio di un tuono, unito all’immagine incorniciata dallo specchio di un iris blu riporta alla luce un frammento che sembrava perduto. Le parole della giovane compagna di Susy sono ora intelligibili; il tuono e la pioggia non costituiscono più una barriera insuperabile per Susy né per lo spettatore. Argento ripete due volte la sequenza in cui la giovane pronuncia la frase che si conclude con «I tre iris, gira quello blu». La seconda volta l’unica immagine è un dettaglio della bocca della ragazza; l’impressione è quella di un sincronismo amplificato, un’ironica (o addirittura sadica) interpellazione di Argento, che ribadisce l’evidenza dell’indizio (che, però, è davvero evidente solo ora). Depotenziati tutti gli altri suoni, rimane l’unico realmente utile, mentre, quasi a sottolineare in questo frangente un primato del suono sull’immagine, lo schermo è riempito dal close-up abnorme della bocca di Pat. Ancora una volta Argento mette in scena un processo di recupero delle informazioni che ha poco a che vedere con una dinamica mnemonica naturale e ricorda piuttosto la ricomposizione di frammenti presenti in quell’archivio audiovisivo che è il film stesso. I personaggi – e con loro lo spettatore – hanno la possibilità di rivedere e risentire, attivando quella che Roberto Pugliese descrive come la «memoria-moviola»20. La complessità di un film come Suspiria, che rappresenta uno degli esiti più personali ed eclettici della poetica argentiana, pone dubbi metodologici e interpretativi importanti. Tra i molti quesiti che il cinema di Argento sollecita c’è quello della sua qualità multisensoriale, sottolineata in quasi tutti gli interventi analitici circa questo autore. Un cinema che metterebbe al centro i sensi, la percezione immediata, la meraviglia, che sembra trovare nell’andamento delirante e nell’onirismo di Suspiria la sua incarnazione più limpida. Se questa è davvero la cifra del cinema argentiano, cioè l’essere un macchinario spettacolare pienamente audio-visivo, è certo il momento di interrogarsi con maggiore urgenza sulla componente sonora dell’opera di Dario Argento. 20
Roberto Pugliese, Dario Argento, cit., p. 38.
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Un pianeta proibito: il cinema di fantascienza e la musica elettronica di Franco Fabbri
«Sapete come funziona, quello strumento? Ho consultato il catalogo a questo proposito, e da quello che ho capito, genera delle radiazioni che stimolano il centro ottico del cervello, senza toccare il nervo ottico. In effetti è l’utilizzazione di un senso che non viene mai adoperato sotto stimoli naturali. Straordinario, non vi pare? I suoni invece sono normali. Influenzano direttamente l’apparato dell’udito. Ma… attenzione! È pronto. Date un calcio all’interruttore, è meglio ascoltare al buio». […] Si sentì come un leggero tremito nell’aria, che seguiva la scala musicale. Scomparve e riapparve, scomparve di nuovo, poi sembrò diventare più corposo, finalmente esplose in un rumore di tuono. Una piccola sfera di colori cangianti si formò lentamente levandosi a mezz’aria, da questa caddero piccole gocce senza forma che precipitando si intrecciavano formando disegni schematici… Un suono di cento strumenti accompagnava la visione tanto da rendere difficile separare i due effetti di musica e di luce… Bayta era seduta completamente affascinata dalla visione… La musica ora esplose in un suono di venti cimbali e di fronte a lei un’area sembrò prender fuoco mentre una cascata di colori finiva sulle sue ginocchia mandando spruzzi e incanalandosi in una rapida corrente… Poi ci fu una pausa terrificante, un movimento concentrico mentre tutta la costruzione si sgretolava. Tutti i colori si ammassarono in una sfera che si restrinse, si alzò e scomparve. Ora non v’era altro che il buio […]. Solo Magnifico sembrava essere completamente sveglio e riponeva delicatamente il Visisonor nella custodia. «Mia signora» disse felice «è uno strumento meraviglioso. Risponde perfettamente ad ogni sollecitazione ed è straordinariamente delicato e stabile. Con uno strumento simile sarò capace di fare miracoli. Vi è piaciuta la mia composizione?»1. 1
Isaac Asimov, Il crollo della galassia centrale, «Millemondi 1971». Supplemento
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Questo frammento è tratto da The Mule, racconto di Isaac Asimov pubblicato nel numero di novembre-dicembre del 1945 di «Astounding Science-Fiction», e poi raccolto nel volume Foundation and Empire, seconda parte del ciclo Foundation (Trilogia galattica). Farei un torto a chi non l’avesse ancora letto se rivelassi chi è Magnifico e quali sono i poteri legati all’uso del Visisonor. Limitiamoci a osservare che Asimov immaginò nel 1945 un generatore di effetti multimediali in tempo reale, uno «strumento», che, almeno per la parte audio, produce suoni «normali» (nel senso che sono regolarmente percepiti attraverso le orecchie). Asimov non spiega se lo strumento sia «elettronico», ma non sembra aver bisogno di entrare in dettagli tecnici, almeno in questo caso (ricordiamo che negli stessi anni stava lavorando alle celebri «tre leggi della robotica» relative al comportamento dei «robot positronici»). Forse esistono attestazioni precedenti di strumenti e musiche nella letteratura fantascientifica (se estendiamo il campo al fantastico o alla filosofia, le «case del suono» di Bacone, dalla Nuova Atlantide del 1624, sono un buon antecedente), ma credo che si possa comunque dire che il Visisonor di Asimov anticipi di qualche anno la presenza di suoni elettronici nel cinema di fantascienza. Non nel cinema in generale, se vogliamo considerare elettroniche (e mi sembra più che legittimo) le sperimentazioni di Oskar Fischinger, Rudolf Pfenninger, (Konstantin?) Voinov, László Moholy-Nagy con la colonna sonora ottica, manipolata con figure geometriche, grafici, impronte digitali, profili di volti2. Sperimentazioni che precedono tutte il racconto di Asimov, mentre quelle tecnicamente affini di Norman McLaren lo seguono. È difficile dire se l’idea del Visisonor sia stata suggerita ad Asimov da quelle esperienze ristrette ai circoli d’avanguardia, per di più europei, ma sembra invece molto plausibile che Asimov conoscesse Fantasia, il film di Walt Disney del 1940, con sonoro stereofonico e una sezione intitolata Meet the Soundtrack, che in un certo senso popolarizzava le precedenti esperienze avanguardistiche. D’altra parte, l’idea di uno strumento musicale elettronico era già familiare, sicuramente tra i compositori (anche di musica per il cinema), visto che il theremin e le Ondes Martenot erano già in uso dagli anni Venti e Trenta, insieme ad altri strumenti meno noti, come il Trautonium. Proprio nello stesso 1945 a Urania 568, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1971, pp. 157-317 (trad. di Foundation and Empire, Gnome Press, New York, 1952, prima ed. italiana 1964). Il brano citato è a pp. 255-257. 2 Fred K. Prieberg, Musica ex machina, Einaudi, Torino, 1963, pp. 268-269.
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in cui Asimov pubblicò il suo racconto, Miklós Rózsa utilizzò il theremin nelle colonne sonore di due film di grande successo, Spellbound (Io ti salverò, Alfred Hitchcock, 1945) e The Lost Weekend (Giorni perduti, Billy Wilder, 1945): il malessere psichico e l’alcolismo trovavano nella «voce» misteriosa, soprannaturale del theremin un segno preciso e suggestivo. Il debutto del theremin in una colonna sonora hollywoodiana era avvenuto nel 1935 con Bride of Frankenstein (La moglie di Frankenstein, James Whale, 1935), la cui colonna sonora era stata composta da Franz Waxman (o Wachsmann), compositore tedesco immigrato, mentre il primo utilizzo cinematografico dello strumento sembra risalire al film sovietico Odna (Leonid Trauberg e Grigori Kozintsev, 1931), sonorizzato con una partitura di Dmitri Šostakovič che includeva il theremin nell’organico. Con questi numerosi precedenti, è comprensibile che Bernard Herrmann decidesse di ricorrere a due theremin per la colonna sonora del primo film di fantascienza al quale collaborò, The Day the Earth Stood Still (Ultimatum alla Terra, Robert Wise, 1951). C’erano anche due organi Hammond, un grande organo elettrico da studio, archi elettrificati, ottoni, una ricca sezione di percussioni, e furono utilizzate sovraincisioni insolite ed effetti di nastri rovesciati3. La musica di Herrmann per il film di Wise, benché non sia musica elettronica «pura», merita qualche commento specifico, non solo per il carattere problematico della trama del film e il successo di culto. Tra l’altro, in Italia, Ultimatum alla Terra fu trasmesso alla televisione durante la notte del primo sbarco sulla Luna, in attesa del collegamento col Mare della Tranquillità; la frase «Klaatu barada nikto» pronunciata dai protagonisti è diventata, non solo per gli ultracinquantenni italiani, un esempio prototipico di lingua aliena. Ma soprattutto, nel mondo, l’accompagnamento musicale della prima sequenza è diventato una sorta di icona sonora della fantascienza, utilizzata oggi in numerosi siti web per un più immediato riconoscimento dei contenuti. Innanzitutto, vale la pena di notare l’ambiguità funzionale dei suoni dei «Violins, cellos, and basses (all three electric), two theremin electronic instruments (played by Dr. Samuel Hoffman and Paul Shure), two Hammond organs, a large studio electric organ, three vibraphones, two glockenspiels, marimba, tam-tam, 2 bass drums, 3 sets of timpani, two pianos, celesta, two harps, 1 horn, three trumpets, three trombones, and four tubas. Unusual overdubbing and tape-reversal techniques were used, as well». Wikipedia, voce: «The Day the Earth Stood Still (1951 film)» (ultimo accesso: 24 novembre 2010).
theremin, a volte isolati o accompagnati dagli organi Hammond, a volte immersi nel tessuto orchestrale. Spesso è evidente la funzione diegetica, quando i suoni degli strumenti elettronici sembrano provenire da singoli apparati dell’astronave aliena o dall’astronave stessa. In altri casi è chiara la funzione tematica del theremin, all’interno di una musica evidentemente extradiegetica. Ma altre volte ancora è difficile distinguere: si passa dalla funzione diegetica a quella extradiegetica e viceversa, e spesso l’incertezza è costante. Se ci dovesse servire un esempio che dimostri come la distinzione tra diegetico ed extradiegetico possa essere uno strumento analitico talora “spuntato”, Ultimatum alla Terra è fra quelli più pertinenti. Un altro aspetto (che assume ancora maggiore rilievo proprio per l’incertezza delle funzioni) riguarda la qualità, il carattere dei suoni. Che rumore deve fare un’astronave? O un portello che appare dal nulla in uno scafo perfettamente uniforme? O un robot? O un apparato capace di resuscitare un extraterrestre morto? È già una scelta impegnativa decidere che debbano fare rumore: tornerò tra breve sull’argomento. Ma non si può fare a meno di notare che nel cinema di fantascienza degli anni Cinquanta gli apparati del futuro producano rumori del presente (di quel presente): rumori elettrici (di archi voltaici, di motori a induzione), più che elettronici. E, appunto, gli apparati del futuro producono rumori proprio perché lo fanno quelli del presente: anche nell’immaginazione più spinta, l’idea che congegni dalle capacità meravigliose siano del tutto silenziosi non viene considerata. Le ragioni sono le stesse per cui nei primi film i razzi facevano rumore anche nello spazio interplanetario: perché il suono rendeva più emozionante e convincente l’azione. E non dovremmo guardare a quel periodo come si guarda a un’epoca ingenua, perché non solo le astronavi dei film a noi più vicini, silenziosissime quando si muovono per inerzia, si immergono nell’iperspazio con fragore, ma i cannoni laser esplodono i loro colpi come fuochi d’artificio e le spade di Star Wars (Guerre stellari, George Lucas, 1977) ronzano come un vecchio neon bisognoso della sostituzione del condensatore. Non solo: le sigle dei notiziari televisivi sono ancora modellate sul suono delle telescriventi (abbandonate da un quarto di secolo) o al massimo dei modem a banda stretta, obsoleti da un bel po’, e in quasi tutti i film e telefilm se una scritta appare sul monitor di un computer (e non intendo una scritta generata da un input sulla tastiera, ma l’output di un qualche programma applicativo) ogni carattere che appare è accompagnato da un sonoro “blip”, cosa che talora avveniva sui vecchi terminali dei mainframe, prima dell’apparizione del personal computer.
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Ragioni a volte contrastanti presiedono all’ideazione degli effetti e della musica (spesso difficili da distinguere, come ho accennato) nei film del genere fantascientifico. Da un lato, si devono dare voci inaudite ad apparati mai visti, e si vuole suggerire l’immagine sonora di una musica altrettanto inaudita; dall’altro lato, così come quegli apparati sono spesso rielaborazioni futuribili di apparati esistenti, i loro rumori non si possono allontanare troppo dal già noto, e, allo stesso tempo, le esigenze drammaturgiche chiedono che ci sia un’azione sonora, anche quando considerazioni ingegneristiche ne suggerirebbero l’abolizione. Per quanto riguarda la musica, l’idea che sia inaudita la fa necessariamente dipendere dal già noto, e questo è un primo non trascurabile aggancio tra l’estetica della musica elettronica cinematografica e quella delle avanguardie, perlomeno nelle aspettative di pionieri come Busoni e Varèse. Quest’ultimo scrisse in una conferenza del 1936: Quando i nuovi strumenti che sostituiranno il contrappunto mi permetteranno di scriver musica così come la concepisco, si potranno percepire chiaramente i movimenti delle masse e dei piani sonori. Quando queste masse sonore entreranno in collisione si avrà la sensazione che avvengano fenomeni di penetrazione o di repulsione, e che certe trasmutazioni che avvengono su determinati piani siano proiettate su altri, che si muovono a velocità diverse e in diverse direzioni. Non vi sarà più posto per la vecchia concezione di melodia o di combinazione di melodie: l’intera opera diverrà una totalità melodica, l’intera opera scorrerà come un fiume. […] Sono certo che verrà il giorno in cui il compositore, una volta realizzata graficamente la sua partitura, potrà affidarla a una macchina che ne trasmetterà fedelmente e automaticamente il contenuto musicale all’ascoltatore4.
Nei termini della tipologia dei segni musicali formulata da Philip Tagg nel 19925, la funzione della musica elettronica nelle colonne sonore è spesso quella di una sineddoche di genere, per così dire, inversa: se nella normale sineddoche di genere un segno musicale, un musema, “sta per” uno Edgard Varèse, Nuovi strumenti e nuova musica, in Il suono organizzato. Scritti sulla musica, Ricordi-Unicopli, Milano, 1985, pp.101-103. 5 Philipp Tagg, «Towards a Sign Typology of Music», in Rossana Dalmonte, Mario Baroni (a cura di), Secondo convegno europeo di analisi musicale. Atti, Università di Trento, Trento, 1992, pp. 369-378. 4
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stile diverso da quello del brano esaminato, e per il genere di riferimento di quello stile (per esempio, un glissando di chitarra hawaiana in un brano rock rimanda alla musica country & western, con un processo di citazione stilistica, e può dunque connotare anche aspetti paramusicali di quel genere), nel caso della musica composta per un film di fantascienza un musema “sta per” (o vorrebbe “stare per”) l’insieme complementare a quello che risulta da tutti i generi che si suppongono noti. Un insieme vuoto, inevitabilmente. Questo processo è più evidente in alcuni casi di musica dichiaratamente diegetica, come la musica dei misteriosi Krell ne Forbidden Planet (Il pianeta proibito, Fred M. Wilcox, 1956) composta da Louis e Bebe Barron. In altri casi, come quello della celeberrima orchestrina di alieni nella “cantina” di Guerre stellari (musica di John Williams), o quello della sala ricreativa di Outland (Atmosfera zero, Peter Hyams, 1981, musica composta da Jerry Goldsmith e da Richard Rudolph e Michael Boddicker), la sineddoche di genere è diretta, giocata umoristicamente da Williams (che affida agli alieni un brano di jazz ballabile) o con intenzioni avanguardistiche dai collaboratori di Goldsmith (che nel 1981 immaginano una techno del futuro). Il pianeta proibito è di gran lunga il film di fantascienza più citato per la colonna sonora, prima di 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, Stanley Kubrick, 1968). La ragione è nota: si tratta del primo film interamente sonorizzato con suoni elettronici, creati nello studio privato di Louis Barron e di sua moglie Bebe. È noto anche che nei titoli di testa del film i suoni creati dai Barron furono accreditati come «electronic tonalities» e non come «music». Il motivo puntuale è che i Barron non erano iscritti come compositori al sindacato dei musicisti, ma si può sospettare che dietro il cavillo legale si nascondesse un pregiudizio, sia sull’assenza di una partitura, sia sulla stessa natura di musica del loro lavoro. Pregiudizio che a quell’epoca affliggeva non solo il miope sindacato statunitense, ma anche ambienti musicali almeno in teoria più sofisticati6. I Barron utilizzarono apparati molto simili o identici a quelli che nello stesso periodo si trovavano nei primi studi di musica elettronica in Europa: registratori, oscillatori, modulatori ad anello, filtri, camere eco. Ma, alRimando per questo a Franco Fabbri, «From musique concrète to rock ‘n’ roll, from tape and electronic music to the Beatles, from minimalism and progressive rock to disco and techno: unscored music and its challenge to score-centred musicology», relazione presentata al convegno Generazioni elettroniche, Università di Udine, Gorizia, 21 ottobre 2010, di prossima pubblicazione negli Atti.
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meno stando alle loro dichiarazioni, non si limitarono a un uso impressionistico dei suoni elettronici: anzi, progettarono i loro circuiti (forse si trattava perlopiù di quelle che oggi si chiamerebbero patches) seguendo i principi della cibernetica e i relativi schemi di interazione, così come li aveva descritti Norbert Wiener, il fondatore della disciplina. Ecco come più tardi illustrarono questo aspetto del loro lavoro, nelle note di copertina dell’edizione su LP della colonna sonora:
Louis Barron, Bebe Barron, Forbidden Planet Soundtrack LP, note di copertina, parte 2/2, Moving Image Entertainment, MIE 008. 8 «Bebe Barron On The Cybernetics Of Electronic Music Circuits», 4 marzo 2009, sul sito Synthtopia, http://www.synthtopia.com/content/2009/03/04/bebe-barron-on-thecybernetics-of-electronic-music-circuits/ (ultimo accesso: 26 ottobre 2010).
o d’avanguardia rientrava negli stessi intendimenti della MGM, che (rivela la stessa intervista) prima di scritturare i Barron aveva preso contatto con Harry Partch, uno dei bad boys della musica sperimentale statunitense. I coniugi, del resto, non erano per nulla estranei ai circoli dell’intellettualità d’avanguardia: nel loro studio al Greenwich Village, fondato nel 1951, avevano ospitato Henry Miller, Tennessee Williams, Aldous Huxley e Anaïs Nin, e fra il 1952 e il 1953 John Cage aveva registrato lì il suo Williams Mix. Se si ascoltano a breve distanza brani come Studie II di Karlheinz Stockhausen (1953), Scambi di Henri Pousseur (1957), il Poème électronique di Edgard Varèse (1958) e alcuni frammenti della colonna sonora de Il pianeta proibito, si possono trovare non poche somiglianze timbriche (come ho detto, gli apparati di base erano sostanzialmente gli stessi) e anche strutturali (se si eccettua Stockhausen, naturalmente). Almeno nel caso di Varèse, non ci si può basare sulla distinzione tra musica applicata e musica assoluta, e d’altra parte non si può dire che i Barron componessero per il cinema in modo tradizionale (come rimarcarono i famosi sindacati): dunque già all’origine, per così dire, le «electronic tonalities» dei Barron e la musica elettronica dei compositori d’avanguardia europei e statunitensi si trovavano nella medesima nebulosa stilistica. Quasi subito, però, la colonna sonora dei Barron diventa il prototipo per le colonne sonore dei film di fantascienza, determinando uno dei non pochi casi di invasione semantica della musica da film in altri generi musicali. Chiamo “invasione semantica” il processo per cui una forte associazione tra materiale musicale e significati paramusicali, determinata dall’efficacia comunicativa di un testo complesso (un film, in questo caso), istituisce e stabilizza un codice che diventa dominante rispetto ad altri testi. Qualche esempio: il cool jazz di Ascenseur pour l’échafaud (Ascensore per il patibolo, Louis Malle, 1958), musica di Miles Davis, che codifica l’associazione cool jazz/suspense; la fanfara iniziale di Also sprach Zarathustra di Richard Strauss, che grazie all’uso da parte di Kubrick in 2001: Odissea nello spazio diventa simbolo di tecnologia avveniristica in decine e decine di spot televisivi eccetera. Potenziato dall’uso documentaristico e televisivo, questo processo da un certo momento in poi interferisce con la più che legittima aspirazione dei compositori di musica elettronica di comunicare altre emozioni e altri significati (o nessuno, secondo un’estetica autonoma): non è solo l’ascoltatore più ingenuo a pensare immediatamente alla fantascienza quando ascolta i suoni di un modulatore ad anello, riverberati e filtrati, mixati con
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We design and construct electronic circuits which function electronically in a manner remarkably similar to the way that lower life-forms function psychologically. There is a comprehensive mathematical science explaining it, called «Cybernetics», which is concerned with the Control and Communication in the Animal and Machines. It was first propounded by Prof. Norbert Wiener of M.I.T. who found that there are certain natural laws of behavior applicable alike to animals (including humans) and electronic machines. In scoring FORBIDDEN PLANET - as in all our work - we created individual cybernetics circuits for particular themes and leit motifs, rather than using standard sound generators. Actually, each circuit has a characteristic activity pattern as well as a «voice». Most remarkable is that the sounds which emanate from those electronic nervous systems seem to convey strong emotional meaning to listeners. We were delighted to hear people tell us that the tonalities in FORBIDDEN PLANET remind them of what their dreams sound like. There were no synthesizers or traditions of electronic music when we scored this film, and therefore we were free to explore «terra incognito» [sic] with all its surprises and adventures7.
I Barron, come ha precisato Bebe in un’intervista recente8, si limitavano a “lasciar funzionare” i loro circuiti, sorprendendosi di quanto i risultati fossero poi adatti a questa o a quella sequenza, a questo o a quel personaggio: si tratta senza dubbio di uno dei primi esempi di musica elettronica generativa. Che la musica de Il pianeta proibito dovesse suonare inaudita 7
del rumore rosa, mandati in eco. E d’altra parte valgono a ben poco gli incitamenti e le proibizioni della critica superciliosa: come ha spiegato bene il cognitivista George Lakoff, l’effetto di un invito come “non pensare a un elefante” ha come risultato immediato di far pensare a tutti gli elefanti possibili9. Anche “non pensare alla fantascienza” funziona poco! Scardinare un codice, un effetto prototipico, un frame, un habitus, uno schema – concetti diversi per definire processi affini, rispettivamente secondo le prospettive della semiotica di Eco10, della psicologia cognitiva di Rosch11, delle scienze cognitive di Lakoff12 , della sociologia antropologica di Bourdieu13, della neuropsicologia musicale di Levitin14 – non è semplice. Nel lungo processo di emancipazione della musica elettronica (soprattutto quella delle avanguardie storiche degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento) dalla fantascienza, ha certamente pesato l’abbandono del cliché proprio da parte del cinema, prima con Kubrick, poi con Lucas e Williams. Anche se la profusione di sinfonismo wagnerian-hollywoodiano nella saga di Star Wars, più che far pensare a una ristrutturazione del genere fantascientifico sotto l’aspetto musicale, contribuisce a consolidare l’idea che il genere di riferimento di Lucas, almeno nel primo episodio (oggi quarto...), sia il western (come propongono King e Krzywinska nel loro Science Fiction Cinema)15. Un altro contributo è venuto dal dilagare dei suoni elettronici nella popular music, a partire dalla fine degli anni Sessanta. Nella prima fase, in realtà, abbondano ancora gli abbinamenti tra suoni elettronici e paesaggi spaziali (la popular culture gioca coi cliché, più che respingerli), come nei
Pink Floyd di Astronomy Dominé (da The Piper at the Gates of Dawn, 1967) e Set the Controls for the Heart of the Sun (da Ummagumma, 1969), o negli insoliti Rolling Stones di 2000 Light Years from Home (1967, da Their Satanic Majesties’ Request), o ancora nei Moody Blues di The Best Way to Travel (1968, da In Search of the Lost Chord), ma in seguito suoni ancora più inauditi, come quelli dei campionatori, degli harmonizer, dei vocoder, pur suggestivi, diventano familiari sia attraverso le canzoni popular che nei jingle televisivi e nelle colonne sonore. Conta, naturalmente, la velocità crescente (e oggi ormai immediata) con cui nuove soluzioni musicali si diffondono da un medium all’altro, da un genere all’altro, e conta anche la privatizzazione e l’industrializzazione della ricerca. Già nel 1982, quando la Biennale di Venezia ospitò la prima esecuzione di Quando stanno morendo. Diario polacco n. 2 di Luigi Nono, le macchine dell’Experimentalstudio der Heinrich-Strobel-Stiftung des Südwestfunks di Freiburg erano in buona parte apparecchiature standard, che si sarebbero trovate già da qualche tempo nei migliori studi di registrazione commerciali. La normalizzazione dell’elettronica inevitabilmente comportava un avvicinamento, la progressiva rimozione dell’inaudito, il passaggio dalla fantascienza alla scienza, e poi alla tecnica quotidiana. Sotto questo aspetto, il fatto che l’unica applicazione industriale della leggendaria piastra 4X, lo strumento universale progettato per l’Ircam da Giuseppe di Giugno e utilizzato in composizioni di Boulez, Nono e altri, sia stata destinata al simulatore di volo dell’Airbus (un gigantesco videogioco per professionisti) ha molto da raccontarci sulla fantascienza, sul futuro, e sul futuro della musica e del cinema.
George Lakoff, Don’t Think of an Elephant!, Chelsea Green Publishing, White River Junction, 2004 (tr. it. Non pensare all’elefante!, Fusi orari, Roma, 2006). 10 Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 1976. 11 Eleanor Rosch, Principles of Categorization, in Eleanor Rosch, Barbara B. Lloyd (a cura di), Cognition and Categorization, Erlbaum, Hillsdale (NJ), 1978. 12 George Lakoff, Women, Fire, and Dangerous Things. What Categories Reveal about the Mind, The University of Chicago Press, Chicago, 1987 (tr. it. Donne, fuoco e cose pericolose. Come la mente categorizza il mondo, La Nuova Italia, Firenze, 1999). 13 Pierre Bourdieu, La distinction, Les Éditions de Minuit, Paris, 1979 (tr. it. La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna, 2001). 14 Daniel Levitin, This Is Your Brain on Music, Dutton/Penguin, New York, 2006 (tr. it. Fatti di musica. La scienza di un’ossessione umana, Codice, Torino, 2008). 15 Geoff King, Tanya Krzywinska, Science Fiction Cinema. From Outerspace to Cyberspace, Wallflower, London and New York, 2000. 9
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Il suono come soglia del reale: genere e narrazione audiovisiva in Dancer in the Dark di Alessandro Bratus Oltre che per le provocatorie prese di posizione che periodicamente riportano su di lui l’attenzione dei media, la centralità di Lars von Trier nel panorama contemporaneo è dovuta a una pratica della regia e del montaggio programmaticamente diverse, quando non opposte, a quelle più consuete nel cinema americano ed europeo. I suoi film si segnalano per la preminenza che assume nella loro genesi l’idea concettuale di partenza, tanto da spingere Jan Simons a definire la sua creatività all’interno del paradigma del game cinema, in cui ipotesi teoriche di base diventano parte organica tanto del progetto narrativo, quanto di quello formale1. Ciò appare particolarmente chiaro, per esempio, con la redazione del manifesto Dogma 95, un’operazione [...] largely about devising a set of rules, just to see what happens when the rules are actually observed. Seen like this, Dogma 95 filmmaking is more the exploration of a hypothesis than a realistic ‘dogma’; after all, the issue is simply: what happens if a film-maker has to stick to these rules?2
partenza è l’adattamento del genere musical a contenuti e a un linguaggio audiovisivo originale, frutto di un’attenta riflessione sui limiti e sulle caratteristiche specifiche di tale forma. Un tale presupposto lo porta a realizzare un film in cui sono presenti due piani differenti nel racconto audiovisivo: la vicenda di Selma, spinta a emigrare dalla Cecoslovacchia in una piccola cittadina degli Stati Uniti dalla necessità di far operare il figlio per un difetto congenito agli occhi, e una realtà “alternativa”, in cui gli elementi del mondo fisico vengono trasfigurati in accordo con le atmosfere del musical cinematografico degli anni Quaranta-Cinquanta. La forza normativa del genere, in questo caso, si manifesta nell’uso creativo dei suoi elementi più caratteristici; una vera e propria rielaborazione delle “regole del gioco” che delinea una strategia coerente alla base della realizzazione dell’intero progetto. Nella ricostruzione di questo sistema di vincoli4 e regole autoimposte, ci si soffermerà in particolare sul trattamento che viene riservato al suono e alla musica, partendo dall’ipotesi che questi abbiano una funzione determinante nell’espressione del messaggio che si vuole comunicare. Nel gioco tra diversi usi della dimensione sonora, ancor più che in quello relativo alle immagini e ai tipi di regia, si può infatti intravedere, in controluce, una riflessione più ampia sulla differenza tra utopia e realtà, tra aspirazione ideale e la possibilità della sua realizzazione concreta.
La scelta del genere musical
Come spiega lo stesso regista: «In order to realize a script, you have to find the appropriate technique [...]. It’s all very obvious to me now, although I didn’t think of using this process at all in the beginning»3. Nel caso di Dancer in the Dark (Id., Lars Von Trier, 2001) il nucleo di
Il breve scritto inserito nel sito promozionale di Dancer in the Dark contiene alcune interessanti riflessioni dello stesso von Trier riguardo la scelta e la manipolazione del genere di partenza. Il regista inizia il suo discorso dall’identificazione del musical con l’operetta, per via dei suoi contenuti leggeri e di un tono non particolarmente solenne. È proprio da tale aspetto che inizia il suo ragionamento: «What I wanted to achieve with Dancer in
Jan Simons, Lars von Trier’s Game Cinema, Amsterdam University Press, Amsterdam, 2007. 2 Ivi, p. 23. 3 Jan Lumholdt (a cura di), Lars von Trier: Interviews, University Press of Mississippi, Jackson, 2003, p. 63. La citazione è tratta da un’intervista del 1988 riguardante Epidemic (Lars von Trier, 1987), un altro film nel quale il sonoro gioca un ruolo di primo piano nel definire i rapporti tra la realtà narrata sullo schermo e la storia fittizia elaborata dai protagonisti della pellicola.
4 Il termine “vincolo” viene qui impiegato nell’accezione di Jon Elster, che lo interpreta nella creazione artistica quale garanzia della possibilità di una comunicazione tra artista e pubblico e di una razionalità estetica nella creazione artistica. In von Trier la vocazione intertestuale e sperimentale alla base dei suoi film si potrebbe interpretare proprio come un tentativo teso a creare una comunicazione tra regista e spettatore, chiamato ad avere un ruolo attivo nella ricezione, ossia quello di leggere l’opera alla luce dei propri criteri costruttivi. Cfr. Jon Elster, Ulysses Unbound: Studies in Rationality, Precommitment and Constraints, Cambridge University Press, Cambridge, 2000, pp. 175-269.
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the Dark is that you take things as seriously as you do in an opera. Some years ago, people really cried at operas. I think it’s a skill to be able to find such emotion in something so stylized»5. Accostando le scene musical ad altre di carattere dichiaratamente documentaristico, l’intenzione non era quella di sovvertire del tutto le norme del genere, bensì «[...] trying to make it richer by somehow importing true emotion»6. In tal modo il contrasto tra scelte registiche diverse diventa funzionale a far emergere con maggiore forza l’espressività delle immagini. L’elemento che rende possibile la transizione tra sequenze girate in stili così divergenti è la qualità melodrammatica dell’insieme: Dancer in the Dark brings together real and imaginary worlds through its genre mixing of the musical with a real documentary style. Indeed, Lars von Trier states that the musical and the realist documentary make up the two shapes to the film. However, these intertwined and dialogic ‘shapes’ are also organized through melodrama. A melodramatic modality thus organizes dialogic interchanges between genres, and between fictional and real worlds7.
Da un lato, alcuni elementi basilari del musical sono usati in maniera del tutto eccentrica; tra questi i più evidenti sono il particolare uso delle canzoni, e specificamente la loro non-permeabilità rispetto alla vicenda principale del film, oltre alla rinuncia al lieto fine e a un apparato spettacolare ad hoc. Dall’altro lato, emerge chiaramente dalla pellicola l’accettazione e la riconfigurazione di alcuni parametri centrali del genere, che fungono da punti d’appoggio per scardinarne dall’interno il valore convenzionale, facendo leva sulla carica autoreferenziale spesso presente in queste narrazioni8. Nella trama di Dancer in the Dark l’elemento più significativo rispetto
a tale profilo è l’allusione alla tradizione del cosiddetto “stage musical”, che si manifesta nelle riprese dedicate alla compagnia di dilettanti di cui Selma fa parte, impegnata nella preparazione di The Sound of Music (Tutti insieme appassionatamente, Robert Wise, 1965)9. A un secondo livello l’autoreferenzialità tipica del musical trova spazio nei testi verbali delle canzoni, scritti dal regista prima di affidarli a Björk per la composizione delle musiche. In questi versi si ritrovano numerosi riferimenti all’atto di cantare, al momento performativo, o al plot che si sta svolgendo di fronte allo spettatore. Per esempio la prima canzone, Cvalda (soprannome di Catherine, il personaggio interpretato da Catherine Deneuve), fa esplicito riferimento non solo alla danza, ma anche al meccanismo fondamentale attraverso il quale avviene il passaggio tra i numeri musical e le sequenze documentaristiche, affidato al suono concreto, ritmico, percussivo: Listen, Cvalda You’re the dancer You’ve got the sparkle in your eyes Look at me, entrancer! [...] The clatter-machines They greet you and say: We tap out a rhythm and sweep you away!10 O ancora, In the Musicals, un brano su cui si tornerà nella parte finale di questo intervento, è portatore di una riflessione metateatrale, ironica rispetto alle convenzioni di genere e all’evasione dalla realtà che queste sequenze introducono: Why do I love it so much? What kind of magic is this? How come I can’t help adore it?
Il testo, non più disponibile su Internet, è inserito come contenuto speciale nell’edizione in DVD di Dancer in the Dark, “New Line Platinum Series”, New Line, N5199, 2001, in una pagina dal titolo Lars von Trier on Making Dancer in the Dark. 6 Ibidem. 7 Jan Campbell, Film & Cinema Spectatorship: Melodrama and Mimesis, Polity, Cambridge, 2005, p. 232. 8 Graham Wood, Distant Cousin or Fraternal Twin? Analytical Approaches to the Film Musical, in William A. Everett, Paul R. Laird (a cura di), The Cambridge Companion to Musical, Cambridge University Press, Cambridge, 2002, p. 213.
Tutti insieme appassionatamente e Seven Brides for Seven Brothers (Sette spose per sette fratelli, Stanley Donen, 1954) sono proprio i titoli citati da Vincent Paterson come precedenti diretti per le coreografie di Dancer in the Dark. 10 In questo estratto, come negli altri esempi verbali e musicali citati nel resto dell’articolo, si è fatto riferimento alla versione effettivamente cantata nel film, non sempre identica a quanto inciso sul disco che raccoglie i brani della colonna sonora (Selmasongs, Elektra, 62533-2, 2000).
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It’s just another musical No one minds it at all If I’m having a ball This is a musical [...] There’s always someone to catch you When you fall Un ulteriore elemento autoreferenziale si può ritrovare nella struttura musicale macroformale del film, nella quale la stessa idea tematica viene ripresa durante i titoli di testa, di coda e nell’ultima scena. La prima volta i credits del film scorrono su un brano totalmente strumentale (Overture), che dopo una breve introduzione propone, agli ottoni, il motivo trascritto in Fig. 111. Lo stesso nucleo melodico va anche a dare forma alla testa della strofa dell’ultima canzone del film, Next to Last Song, cantata a cappella da Björk prima di essere impiccata. Infine, sui titoli di coda, diventa lo spunto per lo sviluppo della linea vocale di New World12. A proposito di questo elemento tematico e delle sue possibili associazioni intra ed extra-musicali, Daniel Grimley ha rilevato come il suo profilo «[...] inevitably recall the opening of nineteenth-century Romantic works such as Wagner’s Rheingold, gestures conventionally associated with the musical depiction of sunrise, birth and natural world»13. Concorrono a tale identificazione elementi quali il salto Si noti come il titolo stesso del brano implichi immediatamente il riferimento all’opera e alle sue convenzioni formali. Inoltre, come nota Patricia Pisters, la scelta di sovrapporre al brano strumentale una serie di immagini astratte allude alla cecità di Selma, mettendo al centro delle strategie audiovisive del film, fin dai primi secondi della sua fruizione, il “grado zero” dell’immagine e del suono. Cfr. Patricia Pisters, The Matrix of Visual Culture: Working with Deleuze in Film Theory, Stanford University Press, Stanford, 2003, pp. 139-140. 12 Va segnalato, sempre a proposito della carica autoreferenziale delle canzoni presenti nel film, come la strofa sia accostabile, perlomeno nella costruzione del testo verbale, all’inizio della canzone manifesto di Tutti insieme appassionatamente, My Favourite Things. Entrambe iniziano con un elenco di oggetti e personaggi che fa rilevare una vicinanza non casuale tra i due numeri, ampliando ulteriormente l’estensione e la centralità delle strategie intertestuali messe in campo nella pellicola. 13 Daniel M. Grimley, Hidden Places: Hyper-realism in Bjork’s “Vespertine” and “Dancer in the Dark”, «Twentieth Century Music», II, 1, 2005, p. 40. 11
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d’ottava “spezzato” iniziale, il timbro strumentale, la tonalità di Mi♭ maggiore e la lenta dinamica in crescendo. Il fatto che il referente ideale di tale allusione sia stato identificato in prima istanza con Richard Wagner è, nel caso di von Trier, doppiamente rilevante. In primo luogo perché richiama fin dai primi attimi del film il mondo dell’opera in musica al centro dell’interesse estetico del regista, e in secondo luogo perché rinforza una connessione già riscontrabile nella produzione precedente del regista: è noto, infatti, che Von Trier avesse usato la musica di Wagner come accompagnamento durante le riprese di Frobrydelsens Element (L’elemento del crimine, Lars von Trier, 1984)14, mentre in Epidemic è l’ouverture del Tannhäuser a segnalare l’espandersi dell’infezione batterica dal mondo della finzione a quello reale, segnando la rottura delle barriere tra le due dimensioni.
La scelta del cast Anche nella selezione del cast per il film è all’opera lo stesso tentativo di sfruttare l’autoreferenzialità tipica del genere di riferimento, evidente in particolar modo almeno per quanto concerne i casi della co-protagonista Catherine Deneuve e di Björk. L’attrice francese aveva partecipato, alla metà degli anni Sessanta, a due musical che per le loro scelte formali si allontanavano dal tipico linguaggio americano: Les Parapluie de Cherbourg (Jacques Demy, 1964) e Les Demoiselles de Rochefort (Josephine, Jacques Demy, 1967). Tali esempi, richiamati dal regista nel testo di presentazione del film pubblicato sul web, sebbene non influenzino direttamente Dancer in the Dark, sono importanti come referenti ideali, perché permettono a von Trier di inserirsi in una tradizione europea, periferica ed eccentrica rispetto all’ambito anglosassone. Lo stesso tipo di volontà sembra aver animato la scelta dell’islandese Björk (un’artista di fama internazionale proveniente da una regione in bilico tra i continenti europeo e americano), prima solamente come collaboratrice per le musiche del film e in seguito anche come protagonista. Il regista era stato colpito dalla sua interpretazione nel videoclip Oh So Quiet (1995), che, sotto il profilo musicale, riprendeva un successo di Betty Hutton, mentre la ritraeva impegnata in una serie di coreografie modellate su quelle del musical cinematografico
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Jack Stevenson, Lars von Trier, BFI, London, 2002, p. 37.
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degli anni Quaranta-Cinquanta15. Affascinato dalla personalità espressa sullo schermo, von Trier riuscì dopo due anni di trattative a convincere Björk a prendere parte al suo film in veste di attrice, iniziando così le riprese nell’estate del 1999. La partecipazione della cantante al progetto è particolarmente significativa sia per le ragioni appena esposte, sia perché il suo coinvolgimento permette di interpretare Dancer in the Dark alla luce del concetto di transitività16. Secondo David Baker tale qualità, articolata nei valori di mobilità, libertà e autenticità, permetterebbe di leggere in maniera coerente tanto le vicende presentate quanto le scelte tecniche compiute dai registi nel presentare attraverso il mezzo audiovisivo gli artisti appartenenti alla sfera della popular music. Sebbene il discorso di Baker si limiti a considerare la stagione del Direct Cinema degli anni Sessanta, in realtà le categorie da lui proposte sembrano influenzare la produzione cinematografica legata al mondo del rock anglo-americano in maniera più pervasiva e costante nel tempo17. L’applicazione di queste categorie analitiche a Dancer in the Dark permette, quindi, di testarne la validità su un prodotto contemporaneo, ponendo allo stesso tempo l’accento su alcune tra le principali caratteristiche narrative e formali del film. Il primo elemento costitutivo della transitività, ovvero la mobilità, si esprime nei presupposti della storia di Selma, che prende le mosse proprio da uno spostamento dall’Europa agli Stati Uniti e dai cambiamenti che il trasferimento può portare nella sua vita e in quella del figlio. Un movimento dalla Cecoslovacchia allo stato di Washington che implica anche un passaggio dal punto di vista della classe sociale, delle generali condizioni di vita, di sacrifici personali sopportati solamente perché funzionali alla possibile salvezza di Gene dalla cecità. A tale aspetto può essere affiancato, per omologia, l’uso esclusivo per le sequenze realistiche del film
di riprese realizzate con telecamere a spalla, quindi di un punto di vista continuamente cangiante nel corso della ripresa. Proseguendo con l’esame dei valori proposti da Baker, si può notare come l’idea di libertà influenzi anche sia la trama, sia le modalità con cui la vicenda viene presentata. Sotto il profilo narrativo ciò si può ricollegare a due elementi: la centralità nella vicenda della liberazione dalla futura disabilità, motivo del sacrificio personale da parte della protagonista in favore del figlio, e l’interiorità di Selma, che trova nei momenti musical una via per rendere sopportabile una realtà altrimenti durissima in cui vivere. Dal punto di vista tecnico la ripresa delle sequenze musical del film con una serie di cento telecamere fisse aveva lo scopo di catturare nella maniera più fedele possibile la loro qualità live, permettendo all’occhio del regista di avere libero accesso (almeno idealmente) al momento della performance. Più stratificata, per la sovrapposizione tra la figura interpretata da Björk e il suo personaggio pubblico come cantante, è la rappresentazione dell’autenticità. A livello del plot, questa si esplicita nella coerenza di Selma rispetto agli impegni presi con i personaggi che ha intorno. Ciò avviene nei confronti del figlio così come del vicino, Bill, al quale aveva promesso di non rivelare alla moglie le difficoltà economiche e il furto dei soldi ai suoi danni. Proprio da tale spunto narrativo prenderà inizio la serie di eventi che causerà il litigio tra i due amici, l’omicidio di Bill da parte di Selma e la condanna di quest’ultima alla pena capitale. Ma l’autenticità è anche ricercata sotto il profilo visivo, se si considera l’uso, per le sequenze non-musical, di un tipo di resa che lo stesso von Trier definisce nel Manifesto di presentazione del film «[...] as realistic as possible»18. Ciò contribuisce a enfatizzare il senso di vicinanza tra lo spettatore e la storia raccontata, le cui immagini appaiono più simili a quelle di un documentario piuttosto che prodotte da una cosciente manipolazione. Ovviamente tale immediatezza è esibita ma illusoria, nella sua natura legata a un approccio alla ripresa che traduce
Ivi, pp. 148-149. La canzone si ispira a Blow a Fuse (RCA-Victor 20-4179, 1951): si tratta della traduzione inglese, a opera di Bert Reisfeld, di Und Jetzt ist es Still del 1948, scritta da Erich Meder e Hans Lang, originariamente incisa da Horst Winter. Il videoclip della canzone di Björk, terzo singolo estratto dal disco Post, è firmato dal regista Spike Jonze. 16 David Baker, “I’m Glad I’m not Me!: Marking Transitivity in “Don’t Look Back”, «Screening the Past», 18, 2005, http://www.latrobe.edu.au/screeningthepast/firstrelease/fr_18/DBr18b.html (consultato l’8 marzo 2011). 17 Alessandro Bratus, Popular music al cinema: la rappresentazione dell’artista rock sul grande schermo, «Worlds of AudioVision», 2010, http://www-5.unipv.it/ wav/pdf/WAV_Bratus_2010_ita.pdf (consultato l’8 marzo 2011).
18 Caroline Bainbridge, The Cinema of Lars von Trier: Authenticity and Artifice, Wallflower, London, 2007, p. 173.
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[...] in vertigine formale l’effervescenza esperienziale. Quindi, il liberarsi dogmatico della compostezza della forma si traduce in una altrettanto ricercata ipotesi formale, per quanto “traballante” e “sgranata”. [...] Non si tratta tanto di improvvisare, quanto piuttosto di spingersi alla ricerca rapsodica eppure vitalizzante dei momenti di autenticità
che attraverso l’interpretazione dell’attore restituiscono nella maniera più radicale e sentita il possibile inveramento del personaggio19.
Infine, nel discutere l’autenticità in Dancer in the Dark non si può fare a meno di tener conto della reciproca influenza tra la figura di Björk, celebrità del pop internazionale, e il personaggio di Selma. Se si ripercorre l’intera carriera della cantante emerge, infatti, un percorso in cui la messa in campo di precise strategie audiovisive ha avuto un peso determinante; un aspetto evidente tanto nella collaborazione con i più innovativi registi di videoclip20, quanto nella costruzione di una soggettività peculiare grazie a un’attenta integrazione tra media diversi21. È per tale ragione che l’autenticità di Selma/Björk si rinforza ulteriormente: in primo luogo per la capacità di interpretare quel ruolo in maniera intensa e sentita (tanto da valere la Palma d’oro al Festival di Cannes 2000 come migliore attrice protagonista), in secondo luogo perché la sua vicenda professionale di cantante e autrice la rende particolarmente credibile come protagonista di un film in cui hanno una parte così importante le sequenze musicali22. Non
solo, quindi, è la pellicola con le sue peculiarità a richiedere un certo tipo di attrice, ma è anche quest’ultima a giocare una parte imprescindibile nel fornire un grado maggiore di autenticità a una costruzione audiovisiva dai caratteri decisamente eccentrici.
I piani della narrazione sonora e visiva Si è già accennato nei paragrafi precedenti alle modalità visive con le quali vengono distinti i livelli della realtà e delle fantasie di Selma. Ritornando su quest’aspetto, è interessante sottolineare il diverso carattere che assume il sonoro in entrambe le situazioni. Allo stile documentaristico della storia principale del film si accompagna una dimensione uditiva che riproduce fedelmente il mondo ripreso dalla telecamera, con suoni in o out, ma con la rinuncia a qualsiasi elemento estraneo alla diegesi. La musica non è completamente assente, ma è parte della vicenda “quotidiana” di Selma, per esempio durante le prove del musical The Sound of Music con la compagnia amatoriale di cui fa parte. In questi momenti – che dovrebbero presentare in modo naturale la realtà –, i colori sono slavati, quasi pastello, e il montaggio interrompe frequentemente la continuità temporale dell’azione con tagli sottolineati da improvvise variazioni di tono e volume nella colonna audio. A questa prima tipologia di resa audiovisiva fanno da contraltare i numeri in stile musical, nei quali al canto della protagonista sullo schermo e ai rumori delle coreografie si sovrappone una colonna sonora chiaramente off, costituita dai brani composti per il film, e uno stile di ripresa basato su telecamere fisse. Sotto il profilo visivo le immagini così ottenute si distinguono dalle altre perché sono state sottoposte a un procedimento di saturazione in fase di postproduzione, rendendo i colori più
19 Roberto Lasagna, Lars von Trier, Gremese, Roma, 2003, pp. 46-47. A tale proposito, Lasagna parla nel caso di von Trier di “camera-impulso” (ivi, p. 44), modellando la definizione sulla scorta della “caméra stylo” di Astruc. Cfr. Alexandre Astruc, Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra stylo, «L’Écran français», 144, 1948, p. 128. Come spiega lo stesso regista, la transizione a questo modo di girare si può far risalire alla lavorazione di Idioterne (Idioti, Lars von Trier, 1998), con il passaggio da un’estetica che privilegia il “puntare” della telecamera (pointand-shoot) rispetto all’atto di “inquadrare”. Cfr. Jens Ulff-Møller, The Danish Digital Experience, in Lasse Svanberg (a cura di), The EDCF Guide to Digital Cinema, Elsevier, Amsterdam, 2004, p. 65. 20 Tra questi si possono citare almeno i nomi di Spike Jonze (It’s Oh So Quiet, 1995; It’s in Our Hand, 2002; Triumph of a Heart, 2005), Michel Gondry (Human Behaviour, 1993; Army of Me, 1995; Hyperballad e Isobel, 1996; Jóga e Bachelorette, 1997; Declare Indipendence, 2007), Jean-Baptiste Mondino (Violently Happy, 1994) e Chris Cunningham (All Is Full of Love, 1999). 21 Nicola Dibben, Subjectivity and the Construction of Emotion in the Music of Björk, «Music Analysis», XXV, 1-2, 2006, pp. 171-197. Tale consapevolezza mediale della cantante, forse, è stata anche causa delle frizioni che hanno caratterizzato la lavorazione del film, con lamentele reciproche da parte di Björk, da un lato, e di von Trier e del produttore Aalbæk Jensen, dall’altro lato, riguardo le rispettive modalità di lavoro. Cfr. Jack Stevenson, Dogme Uncut: Lars von Trier, Thomas Vinterberg, and the Gang That Took on Hollywood, Santa Monica Press, Santa Monica, 2003, pp. 30 e 194. 22 In questo modo il film gioca con quella che Richard Dyer definisce la “structured polysemy” dell’immagine della star, in una visione nella quale la visione sullo
schermo «[...] is not referring to the star as a person, but to the star as conglomeration of texts. The star’s image is therefore complex, and this image can either conform or clash with the narrative character a star plays in the film». La citazione è tratta da Jan Campbell, Film & Cinema Spectatorship, cit., p. 190. Cfr. anche Richard Dyer, Heavenly Bodies. Film Stars and Society, MacMillan, Houndsmill, 1986. A tale proposito, Roberto Calabretto mi ha suggerito che l’attenzione della cantante per il mondo del musical, tanto nel videoclip Oh So Quiet, quanto nella sua partecipazione a Dancer in the Dark, possa essere stata stimolata dal suo partner, Matthew Barney, autore con il primo film del ciclo Cremaster (1995) di un’opera audiovisiva dalle coreografie ispirate proprio a questo genere.
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vividi. Quanto al montaggio, che segue un ritmo concitato, paragonabile a quello di un videoclip, questo sviluppa un tipo di temporalità legato alla canzone in cui opera una continuità paradossalmente opposta rispetto alle scene girate secondo un’estetica più realistica. In tale contrapposizione la dimensione sonora svolge una funzione importantissima, vale a dire quella di rivelare la convenzionalità della costruzione audiovisiva, mettendo a confronto diretto la frammentazione temporale del mondo “reale” raccontato nella vicenda e il fluire ininterrotto dei numeri musical, ambientati nell’immaginazione della protagonista. Nel decorso del film, inoltre, la distribuzione delle canzoni – quindi anche delle cesure da un tipo di ripresa audio e video all’altro – mostra una regolarità che sembra frutto di un’attenta pianificazione, volta a instaurare nello spettatore un meccanismo di attese strettamente legato al “ritmo” macroformale di Dancer in the Dark. La prima introduzione di un numero musical avviene dopo una quarantina di minuti (cfr. Tab. 1). La maggioranza delle canzoni sono quindi poste a intervalli di circa quindici minuti l’una dall’altra (indicato nella seconda colonna), con l’eccezione delle due parti di In the Musicals e della canzone finale. Questi due ultimi casi, che rompono una regolarità altrimenti estesa a tutto il film, possono essere spiegati sulla base di considerazioni di ordine narrativo e musicale. In the Musicals in realtà è un’unica traccia “sospesa” tra la sequenza che porta all’arresto di Selma e il processo, come dimostra anche la versione contenuta nel CD Selmasongs, nel quale è assente la distinzione tra le due parti. Le particolarità di Next To Last Song sono molteplici e giustificano pienamente il suo particolare trattamento: è la canzone con cui si chiude la vicenda, è l’unica performance di Björk ripresa in stile documentaristico, non è inserita in una coreografia da musical e, infine, rappresenta un momento saliente del film sotto il profilo delle strategie audiovisive, con il suo finale a marcare la definitiva rottura della soglia tra realtà e finzione23. Nel discutere la posizione dei diversi piani del racconto audiovisivo in Dancer in the Dark non si può sottovalutare l’importanza del sonoro nell’articolare le transizioni da una tecnica all’altra. In tutte le occasioni in cui il film si sposta tra le due modalità della resa audiovisiva il passaggio viene sempre introdotto da un suono proveniente dal mondo “reale”: le
macchine della fabbrica per Cvalda, il rumore del treno per I’ve Seen It All, la puntina del disco all’inizio di Scatterheart, (cfr. Tab. 2). Pur dichiarandosi “poco fiero” di quello che von Trier stesso definisce un “trucco”, la sua decisione si spiega considerando la problematicità di tali momenti nel musical classico: The problem is that when the music suddenly pours down from the sky, you have a tendency to do like they do in The Muppet Show, where everyone looks up to see where all the violins are located. That takes some of the pain and the danger away from the whole thing. I wanted the emotion and I wanted to communicate that emotion, so we used this little trick and I hope it works24.
Nel sottolineare tale uso del suono concreto, inoltre, va rilevato come questo non sia un qualsiasi campionamento tratto dalla situazione rappresentata nel film, ma che questo oggetto sonoro sia sempre provvisto di un carattere ritmico. È la sua periodicità regolare a permettere il passaggio da un livello narrativo all’altro, articolando la connessione tra la musica che “scende dal cielo” e una dimensione terrena, pragmatica, aderente alla realisticità delle sequenze documentarie. A livello concettuale un simile dettaglio può essere visto come un corrispettivo dell’estetica visiva Dogma25: così come quest’ultima può essere intesa alla stregua di una ricerca sul “grado zero” dell’immagine, non manipolata se non tramite il montaggio, in Dancer in the Dark una simile modalità di transizione sembra stimolare una costruzione del discorso musicale a partire da elementi minimi, quotidiani, ad accompagnare il percorso dall’ambientazione “naturale” della trama principale a quella artificiale dei numeri musical. Una prospettiva del genere è affascinante perché dà modo di inserire in un quadro unitario – a partire proprio dalla dimensione sonora – le scelte apparentemente contraddittorie di von Trier nella concezione audiovisiva, inserendole nel quadro delle sue precedenti ricerche sul film come progetto concettuale e formale.
Caroline Bainbridge, The Cinema of Lars von Trier, cit., p. 114; Daniel M. Grimley, Hidden Places, cit., p. 42.
La citazione è tratta dal testo Lars von Trier on Making Dancer in the Dark, pubblicato sul sito promozionale del film. Cfr. supra, nota 5. 25 Ralf von Appen, Konkrete Pop-Musik. Zum Einfluss Stockhausens und Schaeffers auf Björk, Matthew Herbert und Matmos, «Samples. Notizen, Projekte und Kurzbeiträge zur Popularmusikforschung», 2, 2003, p. 5, http://aspm.ni.lo-net2.de/samples-archiv/ Samples2/vappenp.pdf (consultato il 23 marzo 2011).
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In the Musicals pt. 1: la musica come analisi della realtà Nel commento audio contenuto nell’edizione di Dancer in the Dark usata come riferimento per quest’analisi è lo stesso regista a indicare quale sia la funzione delle canzoni e dei numeri musical all’interno della pellicola26. Stimolato dalla riflessione sul genere di partenza, von Trier elabora per questi momenti una strategia di connessione tra suono e immagine in cui la relazione tra le due dimensioni raggiunge un’integrazione particolarmente stretta, visto che la musica diventa in questo caso uno strumento cognitivo per la protagonista: The principle of the music, I think, should not be to go along with the action in the film, as film music normally does: when something is sad, you know, it become sad or whatever. Actually the music and the song come from Selma’s mind, and she uses it as something else, she uses it to escape and to analyze, that it’s what she uses the song for.
La messa in pratica di tali principi si può ritrovare andando a esaminare le corrispondenze “verticali” tra musica e immagine nella prima parte della sequenza In the Musicals pt. 1, immediatamente precedente il processo e la detenzione in carcere di Selma. Ben consapevole del fatto che l’audiovisione dell’esempio specifico rimane il miglior modo per rendersi conto dei meccanismi di cui mi occuperò nelle prossime pagine, ho cercato di formalizzare sulla pagina le caratteristiche più significative della scena in questione. Le due tabelle in appendice al testo propongono una scomposizione della prima parte di questa sequenza da due punti di vista diversi: la prima procede per inquadrature, indicando i tagli di montaggio rispetto alla linea del tempo e descrivendo i principali avvenimenti visivi e sonori (cfr. Tab. 3), la seconda prende invece come riferimento la struttura musicale della canzone, nel tentativo di visualizzare su un piano bidimensionale le interazione tra i diversi “strati” sonori che la compongono. In questo secondo schema (cfr. Fig. 2) le caselle colorate e bordate rappresentano fenomeni reiterati, pattern ritmici o melodici, loop, versi della canzone, con durata da una a più battute, mentre le x o i numeri (nel caso dei Il commento si trova quale traccia audio aggiuntiva negli “extra” dell’edizione di Dancer in the Dark citata in precedenza (cfr. supra, nota 3), dalla quale è stata trascritta la citazione seguente. 26
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battiti di mani riferiti alla quantità di eventi sonori nell’intervallo di tempo corrispondente) indicano suoni che hanno una ricorrenza puntuale e non sono sottoposti a ripetizione. Il passaggio tra la realtà e la fantasia di Selma, e quindi tra Climb Every Mountain pt. 1 e In the Musicals pt. 1, è sottolineata dall’elemento percussivo, che serve da vera e propria soglia tra le due linee narrative (inq. 28/29). Poco prima dell’inizio della canzone (1h 26’ 25’’), si era già vista Selma canticchiare sulle note del pianoforte durante le prove della compagnia amatoriale, ma la scena non si era trasformata in un musical proprio perché non era entrato a far parte della dimensione sonora alcun elemento specificamente ritmico. Nel momento in cui la compagnia inizia la nuova canzone con l’accompagnamento della batterista, l’attenzione della camera (e della protagonista) si concentra sulle bacchette, e l’ingresso della base musicale off avviene su un loop che rielabora suoni dalla qualità “legnosa”, simili a quelli ottenibili su uno strumento tradizionale battendo la bacchetta della batteria sul bordo (rim) del rullante (loop 1)27. Con il primo colpo di cassa (loop 2), in sincrono con l’inizio della prima inquadratura della sequenza musical (inq. 30), i suoni d’ambiente vengono completamente azzerati, lasciando spazio solamente alla voce di Björk, ai rumori delle coreografie (suoni in e out) e alla musica (suono off). All’inizio della sesta battuta, dopo il primo verso cantato durante il quale si alternano due primi piani di Selma (inqq. 30/31), il primo tempo attacca in contemporanea con il dettaglio sui piedi dei ballerini (inq. 32), mentre lo stacco successivo nel montaggio avviene nel momento preciso in cui la cantante inizia a pronunciare il secondo verso della strofa. Alla fine di questo nuovo ciclo (melodico e ritmico) di cinque battute, il successivo momento di sincronia è posto all’inizio dell’ultima riproposizione dei loop 1 e 2 dopo la fine del secondo verso, seguito dal break che introduce il terzo e quarto verso del testo verbale (b. 11). Durante questa battuta i passi dei ballerini (loop 4) sono posti in levare rispetto alla pulsazione, creando un senso di momentanea dissociazione tra ritmo sonoro e stimolo visivo, potenziato ulteriormente dall’effetto di “rimbalzo” sonoro dovuto all’effetto eco applicato alla cassa, che ne prolunga il suono fino alla battuta successiva. Tale sfasamento viene subito rettificato all’inizio della battuta seguente (b. 13), In realtà si tratta di due suoni dalla componente materica e timbrica molto simili, uno più alto e uno più basso, come si è cercato di riprodurre nella trascrizione di questo elemento associata alla Fig. 2.
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il cui primo tempo si trova in corrispondenza con l’inizio dell’inq. 52. Ma qui, in particolare, lo scarto tra sonoro e visivo si ripropone in un altro dettaglio, inerente la danza dei ballerini. Nonostante li si veda costantemente inquadrati da prospettive cangianti, i suoni che producono muovendosi sul pavimento in legno, battendo le mani, o facendo gli altri movimenti della coreografia, rimane a un volume costante, rivelando come il “punto di ascolto” attraverso cui lo spettatore li vede non segua la mobilità dei punti di vista ma rimanga fisso. Tale particolare, nuovamente legato a un rumore concreto e provvisto di uno spiccato carattere ritmico in connessione con la musica, continua a ricordare nei numeri musical la presenza della soglia tra realtà e finzione. Con il verso successivo si riscontra la presenza di altre peculiarità significative sotto il profilo di una stretta interdipendenza tra suono e immagine. Sulla parola just di It’s Just Another Musical inizia un’inquadratura di profilo di Björk che balla insieme al regista (inq. 54), dando vita a un effetto di sottolineatura dell’avverbio con un evento visivo significativo. A sua volta la parola “musical” è accompagnata da un gesto orchestrale ascendente degli archi sovrapposto alla base elettronica (b. 20) che riporta agli stilemi più triti del genere. Alla fine di questo verso la base strumentale si ferma nuovamente per lasciare spazio a un nuovo break di due battute (bb. 21/22): durante la prima la fine del quarto verso della linea vocale è accompagnata dalla percussione in battere e dal risuonare dell’ultimo accordo delle tastiere, mentre nel corso della seconda misura si sentono solamente i rumori delle coreografie e il beat in quattro quarti. Durante quest’ultimo passaggio le due dimensioni audiovisive vengono ancora una volta accostate in maniera asincrona, mostrando i salti dei ballerini in levare rispetto alla pulsazione (inqq. 65/68), mentre con l’inquadratura successiva (inq. 69) l’inizio della nuova sezione della strofa torna ancora a coincidere con l’attacco della frase musicale seguente (b. 23). L’analisi potrebbe continuare, ma già queste prime osservazioni sono sufficienti a lasciare trasparire chiaramente come la dimensione ritmica, temporale, abbia una rilevanza determinante nel definire la relazione puntuale tra musica e immagini nei numeri musical. Una logica costruttiva del genere porta alle estreme conseguenze la ricerca del contrasto tra le sequenze girate in stile documentaristico e quelle musical, dimostrando cosa intenda il regista quando parla delle canzoni come “analisi” della realtà in cui si muove Selma: un modo per recuperare ordine, razionalità, logica, di fronte al caos e al dolore dell’esistente.
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Conclusioni: il musical come sogno del cinema28 Dalla osservazioni esposte finora si configura come elemento centrale nella genesi di Dancer in the Dark una riflessione sul musical come genere, attenta in particolare alla riconfigurazione dei suoi aspetti autoreferenziali e sintattici. Tale operazione diventa possibile specialmente confrontandosi con quel punto di riferimento stilistico, la cui stessa definizione non indica un determinato tipo di ambientazione o narrazione (come nel cinema di fantascienza, noir, horror e altri), bensì identifica una specifica modalità performativa. Nel suo tentativo di “innalzare” gli obiettivi estetici di questa forma e di avvicinarla all’opera in musica e alla tragedia, il regista si muove lungo le stesse linee già sperimentate nel manifesto Dogma 95, ovvero cercando di mettere al centro della costruzione audiovisiva una resa il più possibile vicina alla percezione soggettiva della realtà. È proprio questo cambiamento nelle modalità espressive a dare vita a un processo in cui non si agisce solamente contro il sistema di convenzioni del musical, ma lo si “alimenta” in maniera differente in vista di un diverso obiettivo estetico ed etico29. Se nella tradizione hollywoodiana tale genere è caratterizzato da una tensione verso l’espressione di una felicità utopica collettiva 30 , in Dancer in the Dark, al contrario, è il segno di un mondo ideale strettamente personale e non condiviso. Un tale uso delle convenzioni può anche favorire un’ultima riflessione sul messaggio della pellicola nel suo complesso, a partire proprio dal ruolo cruciale che ha il suono nel definire le coordinate La definizione che dà il titolo a queste conclusioni mi è stata suggerita da Matteo Giuggioli. In una formulazione leggermente diversa negli esiti e nelle implicazioni, un concetto simile conclude anche la recensione di Dancer in the Dark apparsa sul sito Filmtv.it, firmata da Emanuela Martini (http://www.film.tv.it/recensione.php/ film/387/dancer-in-the-dark/, (consultato il 7 ottobre 2011). 29 A proposito della connessione tra il lavoro sulle convenzioni di genere nel cinema di von Trier, Caroline Bainbridge definisce “ammirevole”, proprio dal punto di vista etico, il lavoro compiuto dal regista nel problematizzare l’esperienza dello spettatore attraverso una prassi cinematografica che si concentra in primo luogo sull’unità tra forma e sostanza, tra contenuto e contenitore. Cfr. Caroline Bainbridge, The Trauma Debate. Just Looking? Traumatic Affect, Film Form and Spectatorship in the Work of Lars von Trier, «Screen», XLV, 4, pp. 399-400. 30 Richard Dyer, Entertainment and Utopia, in Richard Dyer, Only Entertainment, Routledge, London, 1992, pp. 18-21; Richard Dyer, The Space of Happiness in the Musical, «Aura. The Film Studies Journal», IV, 1, p. 31. 28
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dell’ideale di felicità e razionalità espresso dalle coreografie e inseguito dalla protagonista. Lo spunto narrativo centrale del racconto, ossia la cecità di Selma e la conseguente rilevanza per la sua percezione dell’elemento uditivo, si è visto essere il nucleo da cui si dipartono molte tra le principali scelte formali di Dancer in the Dark. Nel tentativo di far identificare lo spettatore con la disabilità del suo personaggio principale, di porlo in maniera traumatica di fronte al suo dramma esistenziale31, von Trier costruisce un universo audiovisivo in cui la dimensione sonora è la più rilevante in senso espressivo. In questo quadro si può intendere meglio il continuo riferimento al suono concreto32 , come fonte per materiali da cui si sviluppano brani che poco hanno a che vedere con quelli del musical “classico”, e più con la prassi della musica elettronica contemporanea, con il campionamento, con la rielaborazione dell’esperienza (prima di tutto aurale) quotidiana in una forma artistica. Oggetti sonori del genere, nell’uso che ne viene fatto in Dancer in the Dark, hanno precisamente il compito di drammatizzare quella dicotomia tra utopia e realtà su cui si basa l’intera trilogia di cui il film fa parte, per la loro funzione referenziale e insieme strutturale. Il passaggio dal mondo reale alla fantasia di Selma, prima ancora che nella dimensione visiva, è annunciato da ciò che si sente, dal ripetersi ritmico di rumori generati da oggetti della vita di tutti i giorni: l’occhio arriva al passaggio tra i due piani sempre dopo l’orecchio, come a voler riprodurre nella stessa fruizione del film la maggiore rilevanza percettiva della dimensione sonora per la stessa protagonista. In questo modo l’audio diventa il momento di discriminazione tra i piani del racconto filmico, tra ripresa realistica e numeri musical esenti dall’obbligo di riprodurre una situazione credibile, tra la situazione reale dei personaggi e i loro desideri. L’esplorazione di tale frattura è, d’altronde, un tema centrale nella produzione di von Trier dalla metà alla fine degli anni Novanta, in tutte le pellicole legate alla fiaba di Cuore d’Oro33. Queste articolano, nel complesso, una profonda riflessione sulla bontà individuale e sull’incapacità delle rispettive protagoniste di opporsi alla logica predatoria
della società contemporanea in nome di un principio morale più profondo34. È per questa ragione che von Trier può, nelle sue “conversazioni” con Stig Björkman, parlare di Selma come di un personaggio «[...] costruito attorno alla rivolta»35. Nel privilegiare la dimensione uditiva rispetto a quella visiva la costruzione audiovisiva di Dancer in the Dark riafferma la presenza di una precisa distinzione tra realtà e finzione, nel contesto contemporaneo di un sistema dei media in cui sono sempre più diffuse le tecniche volte a confondere i piani della ripresa fedele e della riproduzione ricostruita della realtà. Ma è proprio in questo spazio, in questa distinzione, che si annida la sua capacità di mettere in questione i paradigmi dominanti, di affermare una superiorità etica nei confronti di un mondo in cui: Questo annullamento, nell’estasi procurata, della differenza tra il vero e il verosimile, tra il reale e l’iper-reale, tra l’immaginazione creativa e la fantasy, se per un verso è funzionale alla riproduzione infinita di quelle differenze, per un altro non meno importante attenta alle ultime roccaforti delle diversità e della alterità ribelle. È pericoloso sottovalutare il fatto che la capacità di crearci visioni originali non controllate lasciando spazi aperti per le formazioni del nostro inconscio-corpo è indispensabile alla produzione del desiderio. Quando essa viene a mancare la morte si avvicina a grandi passi36.
La dicotomia tra le due tecniche usate nell’intero film trova una soluzione solamente dopo l’esecuzione della protagonista nell’ultima scena del film, e si dissolve nella carrellata finale verso l’alto, chiusa dal nero del soffitto visto in sezione – chiara allusione alle tecniche del cinema hollywoodiano e alla qualità artificiale di una narrazione audiovisiva che, solamente a questo punto, abbandona qualsiasi pretesa di realisticità e autenticità documentaria37. Selma muore, ma scegliendo un’opzione consa-
Caroline Bainbridge, The Trauma Debate, cit., p. 395. Ralf von Appen, Konkrete Pop-Musik, cit., p. 5. 33 Questa trilogia, che comprende anche Breaking the Waves (Le onde del destino, Lars von Trier, 1996) e Idioti, si ispira a un libro per bambini posseduto da von Trier fin dall’infanzia, nel quale si racconta la vicenda di una bambina troppo altruista per non privarsi persino del cibo e dei vestiti che possiede in favore dei personaggi bisognosi che incontra sulla sua strada, fino a morire di stenti.
Patricia Pisters, The Matrix of Visual Culture, cit., p. 132. Lars von Trier, Il cinema come Dogma. Conversazioni con Stig Björkman, Mondadori, Milano, 2001, p. 245. 36 Renato Curcio, Finzioni d’estasi, in Pino Bertelli, Cinema dell’eresia. Gli incendiari dell’immaginario, NdA, Santa Giustina, 2005, p. 251. 37 Un passaggio del tutto simile si trova nel finale del film precedente, Idioti, a proposito del quale Caroline Bainbridge scrive: «The effect of this sudden shift from documentary masquerade into a fictive mode wrenches us from the perceived security of the address to us as it has so far been constituted. [...] We are rudely awoken to the fact
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pevolmente perdente arriva al suo scopo, salvare il figlio dalla cecità: se il musical è il sogno del cinema, sembra dirci von Trier, allora la morte può essere la realizzazione di una vita spesa per una causa più importante dei propri interessi particolari.
Quando il musical diventa concettuale, filmico, rock e… 1965-1975 di Marida Rizzuti
of the fiction because the mode of cinematic address has altered. The affect of the moment comes, then, not just in response to the diegetic violence but also in response to the psychological violence imposed on us via the filmic form». Caroline Bainbridge, The Cinema of Lars von Trier, cit., p. 95.
«Lasciate le vostre preoccupazioni per la strada. Fuori, la vita vi lascia amarezze, ma qui dentro la vita è meravigliosa, le ragazze sono meravigliose, l’orchestra è meravigliosa!». In questo modo il Maestro di Cerimonie invita il pubblico ad assistere ai numeri di cabaret del Kit Kat Club; nello stesso modo invito a leggere questo scritto, il cui tema è il cambiamento avvenuto nel genere musical fra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta. Una forza centrifuga lo attraversa in quel decennio, creando una costellazione di elementi difformi fra loro, eppure similari. Il musical così come lo si conosceva, cioè il “musical integrato” (il perfetto equilibrio drammaturgico fra momenti cantati, recitati e danzati, il soggetto edificante e l’autoreferenzialità) si avvia al declino a partire dalla fine degli anni Cinquanta, e lo si può notare dalla quantità di revival rispetto alle nuove produzioni a Broadway. Lo spartiacque è il 1965, esce The Sound of Music (Tutti insieme appassionatamente, 1965) di Robert Wise ottenendo cinque Oscar, fra cui quello per il miglior adattamento cinematografico. Invece di lanciarsi in nuove produzioni la macchina produttiva preferisce realizzare versioni cinematografiche degli originali teatrali: il caso di Camelot di Alan Jay Lerner e Frederick Loewe (1960) è un buon esempio perché a distanza di sette anni ne viene realizzato il film, nel 1967. Dalla fine degli anni Cinquanta non si può più parlare soltanto di “musical integrato”: si assiste invece all’apertura o, in alcuni casi, allo scioglimento in un altro genere proteiforme. Questo cambiamento, fra gli anni ’50 e ’60, coincide con un altro cambiamento, questa volta nel pubblico. La produzione di musical si diversifica: da una parte c’è il circuito di Broadway con un repertorio consolidato, in cui non c’è spazio per il teatro d’avanguardia, dall’altra si trova il circuito di sperimentazione dell’Off e Off-Off Broadway, in cui si utilizzano nuovi strumenti elettronici e soprattutto si cercano nuove forme espressive in campi lontani da quelli consueti. Il fenomeno più consistente è, comunque, il passaggio di numerosi mu-
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sical dal palcoscenico allo schermo per l’innovazione apportata al linguaggio stesso in maniera forte. This essential link between commerce and musical theater has developed even further since the 1970s as the capitalist commodification of popular culture has transformed the musical into a global phenomenon. Here the musical has ceased to be an American genre1.
L’ampia diffusione dei musical cinematografici al di fuori del mercato statunitense modifica i musical stessi facendo perdere il carattere di autoreferenzialità e soprattutto il riferimento a tratti peculiari della tradizione musicale statunitense, quale per esempio una canzone popolare del sud o un arrangiamento particolare del periodo Tin Pan Alley, che al di fuori del territorio nazionale passerebbe sotto silenzio perché non conosciuto. Increasingly, and in response to the differentiations of popular culture that has accompanied the social diversity of modern society, the musical has taken on a variety of forms that appeal to, and are specifically directed toward, particular audiences – for example, “art” musicals, “chamber” musicals, “rock” musicals, “conceptual” musicals, and megamusicals2.
Il musical cinematografico ha contribuito allo sfaldamento del musical integrato ed è uno degli aspetti del genere musical ampio e poliedrico; in questo nuovo linguaggio convergono aspetti diversi, soprattutto dall’antenato teatrale. Il musical cinematografico assume dal musical integrato l’equilibrio fra parola, musica e danza, ma l’innovazione maggiore risiede nella rottura dell’unità drammaturgica, che porta poi a sperimentare nuove forme quali il “concept” musical da una parte e il “rock” musical dall’altra. Grazie alla tecnica del montaggio, l’unità classica di spazio e tempo è sottoposta a continue sollecitazioni fino alla rottura o al superamento del concetto stesso di unitarietà. Le tecniche cinematografiche sono piegate alla drammaturgia e ciò che in teatro non si poteva realizzare, nei musical diviene potenziato. Soprattutto l’unità di spazio/tempo è tratto essenziale David Walsh, Len Platt, Musical Theater and American Culture, Westport (CT), Praeger, 2003, p. 3. 2 Ivi, p. 5. 1
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dei musical cinematografici, che aspirano a essere non più il mero adattamento dell’originale teatrale. La rottura dell’unità drammaturgica, la contemporaneità spazio-temporale di eventi prima successivi, ora paralleli dà luogo a nuove forme quali il “concept” musical. Central to its nature is the organization of the relationship between text and music, but this organization has taken a number of forms that establish various subgenres of the musical and a variety of hybrid relationships between them.
Le relazioni ibride createsi all’interno del vasto genere musical hanno il tratto comune della frammentarietà narrativa: infatti il fluire della narrazione è sottoposto a continue interruzioni e così le canzoni e i momenti danzati, che nel musical integrato avevano una connotazione precisa, in queste nuove forme perdono la loro identità e si orientano a essere qualcos’altro di difficile catalogazione. Le canzoni entrano nella trama; non c’è più distinzione fra avanzamento e sospensione. Tuttavia le sperimentazioni e i risultati ibridi non perdono la caratteristica dominante del genere stesso: normally the musical has been a genre of commercial theatre and largely continues to be so. The musical is a popular cultural phenomenon not only because it has historically been a powerful vehicle of popular collective expression, but because it remains so in terms of its continuing creative vitality and its commercial viability3.
Il musical ha sempre avuto una doppia natura, che fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta è emersa, per poi radicalizzarsi negli anni Sessanta in una dicotomia: quella cioè di far coesistere l’aspetto di intrattenimento e di prodotto artistico raffinato al suo interno. Negli anni Sessanta, come riflesso anche dei movimenti sociali e artistici che hanno attraversato in primis la società statunitense, questa dicotomia è entrata in contrasto: ciò che prima era intrattenimento e “arte”, adesso confliggeva, si doveva scegliere o l’una strada o l’altra. Gli esempi proposti mostrano comunque una risoluzione di tale contrasto, perché per quanto Cabaret e Hair abbiano avuto un notevole successo, non possono non definirsi un raffinato prodot3
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to artistico. La funzione primigenia del musical è divertire, si può ottenere questo scopo in diversi modi, più o meno sofisticati. Si presenta di seguito un prospetto dei lavori realizzati fra il 1965 e il 1975, nonostante la realizzazione filmica di Hair sia del 1979, così da fornire alcuni elementi di paragone entro cui collocare le due opere in esame e proporre una linea di lettura del periodo scelto.
L’aspetto primario su cui puntare l’attenzione è che l’equilibrio fra parola, musica, danza, che caratterizza il musical integrato, nel “concept” viene meno; non vi è più l’alternanza fra parola e momento musicale, le canzoni divengono il commento alle azioni dei personaggi. Fin dai titoli di apertura i livelli narrativi sono chiari, il primo personaggio a comparire è il Maestro di Cerimonie, impersonato da Joel Grey, e svolge un ruolo essenziale: è colui che media la trama allo spettatore.
Cabaret Tra Camelot e The Sound of Music non ci sono differenze formali o di linguaggio espressivo, ma se si pensa al fatto che fra i due film musical nel 1966 vada in scena Cabaret, le categorie abituali per interpretarli non sono più valide. Il produttore Harold Prince ingaggia l’affiatata coppia, che dominava la scena degli anni Sessanta, il compositore John Kander e il paroliere Fred Ebb, proponendo loro di scrivere il suo prossimo progetto, Cabaret appunto. Kander e Ebb si avvarranno, inoltre, della collaborazione del librettista Joe Masteroff, basandosi anche sulle Berlin Stories di Cristopher Isherwood. Già a Broadway il lavoro è un successo, nel 1972 Bob Fosse ne realizza un film, affidando la sceneggiatura a Jay Allen. Fin dalla prima apparizione in teatro e poi con la conseguente diffusione cinematografica, Cabaret rappresenta una pietra miliare nella storia del musical e uno degli esempi più riusciti di “concept” musical; le categorie finora utilizzare per interpretare il musical vanno riconsiderate. Il “concept” musical è un genere di difficile definizione per i suoi contorni sfumati e per la capacità di essere “trans-genere”, cioè di comprendere aspetti diversi fra più generi: it has been used to describe shows which are “conceived” by a master director-choreographer, either before the fact or after the fact. In either case, the director-choreographer becomes the major shaping element of the show and the major creative force behind it. Another view of the “concept musical” is part of the legacy of Hair – an essentially nonnarrative musical that investigates a theme rather than telling a story4. John Degen, Musical Theatre Since World War II, in Don B. Wilmeth, Christopher Bigsby (a cura di), The Cambridge History of American Theatre, Vol III, Post-World War II to the 1990s, Cambridge University Press, New York, 2006, pp. 447-448. 4
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Fred Ebb would later claim that the key to Cabaret was the idea of the Master of Ceremonies, who become the central thread, as events in the book are viewed and commented on, in an almost Brecthian way, through the scenes in the cabaret, which serve not to advance the narrative but to enhance the air of danger and decadence5.
La seconda scena è aperta dalla canzone Wilkommen ed è il numero d’apertura del famoso club Kit Kat. L’ambientazione del film è la Berlino del 1931 in cui si avvertono le prime tensioni generate dalla fine della Repubblica di Weimar e dall’avvento del partito nazionalsocialista. La storia che entra di prepotenza nel soggetto è ulteriore caratteristica del “concept” musical, che lo pone in stretta relazione con un genere affermatosi in Germania fra gli anni Venti e Trenta, la Zeitoper, i cui soggetti erano fortemente calati nella società e la scena contraddistinta da elementi della contemporaneità, quali il telefono, o da riferimenti a mezzi di trasporto di recente scoperta, quali l’aereo o il treno. In Wilkommen il Maestro di Cerimonie invita il pubblico ad assistere allo spettacolo gettando le basi per la doppia narrazione che caratterizza il film: essa è alternata fra lo svolgersi della trama e i numeri di cabaret, intrecciati a essa, svolgendo dunque una funzione di commento. Il montaggio della seconda scena è costruito su un piano alternato fra il numero di cabaret e l’ingresso nella stazione principale di Berlino di un treno su cui c’è il protagonista, Brian. Con questo espediente si crea un doppio livello di azione basato sull’opposizione fra un dentro, il Kit Kat Club, e un fuori, la realtà – l’arrivo di Brian a Berlino e dunque l’avvio della trama, sottolineato dalla canzone del Maestro di Cerimonie che recita: «lasciate le vostre preoccupazioni per la strada. Fuori, la vita vi lascia amarezze, ma qui dentro la vita è meravigliosa, le ragazze sono meravigliose, l’or5
Ivi, p. 439.
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chestra è meravigliosa!». Nell’affermazione del Maestro di Cerimonie vi è un chiaro contrasto perché nel cabaret nulla è come sembra, si assiste al travestimento dietro le quinte delle “ragazze meravigliose”. Il montaggio alternato consente inoltre di opporre alla malizia e alle situazioni equivoche, fumose e sordide, del Kit Kat Club, l’ingenuità e l’inesperienza del giovane Brian. La canzone, oltre a introdurre l’opposizione fra club e realtà e pur se lontana nei contenuti, è rappresentativa anche della condizione di Brian appena arrivato a Berlino; nella sequenza d’apertura si vede il suo arrivo in stazione e quello che di Berlino nota attraverso gli occhi di uno straniero. Le canzoni non sono legate a ogni avvenimento della trama, sono presenti in alcuni momenti salienti e svolgono una funzione di commento per le azioni dei protagonisti oppure denotano i sentimenti e le loro personalità. Per esempio le due canzoni di Sally nella seconda scena Mein Herr e nella sesta May Be This Time connotano la protagonista in maniera completamente opposta: nella prima appare come stella del cabaret, sfrontata e non intenzionata a stabilire legami con gli uomini, nella seconda, dopo l’incontro con Brian, speranzosa che questa volta possa essere la relazione giusta, sicura e confortante. Da ciò si possono trarre gli elementi per enucleare una definizione più completa di “concept” musical: oltre alla predominanza del “narrare una storia” sul rapporto parola, musica, danza, si trovano la funzione di commento delle canzoni e il ruolo di narratore assunto dal Maestro di Cerimonie. Ciò che completa è il ruolo della storia, che talvolta entra di prepotenza nella trama come nel caso della scena 9 con la canzone Tomorrow Belongs to Me intonata da un ragazzo della gioventù hitleriana e poi accompagnato dagli altri avventori della gasthause di fronte allo sguardo attonito e sgomento di Brian e al sarcasmo di Maximilian. Il doppio livello narrativo in Cabaret è stato ricercato già nell’originale di Broadway dal produttore Harold Prince, che ha compreso la doppia natura del soggetto, volendo enfatizzare la presenza del palcoscenico e i numeri del club per evidenziare la distanza con le vicende dei protagonisti. La musica è intrisa di stilemi musicali degli anni ’30, in particolare vi è un forte richiamo alle prime sperimentazioni di Kurt Weill. Ciò che rende Cabaret un punto di riferimento a proposito della forma “concept” è lo sviluppo contemporaneo di più aspetti innovativi: oltre a quelli già elencati sono da citare il carattere autoriflessivo e il cambiamento dei rapporti di dominio. Una delle caratteristiche principali del musical è la sua autoreferenzialità: il “concept”, invece, diviene autoriflessivo. Lo
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spazio scenico è presentato come tale e cade il velo di separazione fra il pubblico e il palcoscenico: il Maestro di Cerimonie sa di essere un attore in scena e la finzione scenica è resa palese. L’altro elemento importante è il cambiamento dei rapporti di dominio: in musical come Camelot o The Sound of Music la relazione è chiara fra il protagonista e la protagonista, che in un primo momento hanno un rapporto di contrasto, risolto prima del finale in amore così da garantire il lieto fine. In Cabaret, e ancora più evidente è in Hair, Jesus Christ Superstar e The Rocky Horror Picture Show, non si presenta più una relazione personale, bensì fra un individuo e un gruppo: in Cabaret fra Brian e il mondo sordido e decadente del Kit Kat Club; in Hair inizialmente fra Bukowski e gli hippy, per poi divenire nel corso del film fra gli hippy e la società conservatrice; in Jesus Christ Superstar Jesus contro Judas e poi contro Caiaphas; per concludere con Brad e Janet contro il Dr. Frank-N-Furter e l’Annual Transylvanian Convention in The Rocky Horror Picture Show. Tale cambiamento ha un effetto sulle strutture narrative perché viene meno il carattere privato della relazione fra i protagonisti ed entra in gioco il rapporto fra individuo o gruppo sociale e società. Si ha un cambiamento di valori: dalla dimensione privata a una pubblica dell’uomo; in questo senso si può parlare di dimensione sociale dei “concept” musical. Di seguito si presenta una tabella riassuntiva delle canzoni in Cabaret indicando la scena e l’azione a esse collegata.
Hair È universalmente riconosciuto come primo esempio nel genere rock musical, infatti il suo sottotitolo è “an american tribal love-rock musical”; come ogni definizione di genere comporta alcuni distinguo e soprattutto si sottrae a una catalogazione definitiva. La definizione di rock musical appare già sfuggente, ma un punto fermo si trova in ciò che ha scritto John Rockwell nella voce “Rock Opera” all’interno del The New Grove Dictionary of Opera: «both the “rock opera” and the “rock musical” were simply variants of their parent genres in which the musical idiom is rock and roll». Questa definizione permette di analizzare Hair con lo scopo di individuare i punti di contatto fra le forme consuete del musical e gli stilemi del rock da una parte e con l’obiettivo di comprendere in che modo questo lavoro abbia segnato il punto più lontano dalla tradizione e nel con-
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tempo l’inizio di un nuovo genere. Una prima distinzione da fare concerne il tipo di intervento della musica rock nel teatro musicale. Emergono quattro usi: il primo in cui il termine rock è adoperato dagli stessi creatori nell’opera stessa o nella pubblicità; il secondo è l’utilizzo di un concept album, per esempio Jesus Christ Superstar, nato come album nel 1970, da cui nel 1973 Tim Rice e Andrew Lloyd Webber realizzano il film; il terzo uso è quello più arbitrario, in cui si adoperano stilemi rock anche se dai creatori non è mai stato usato il termine; infine il quarto fa riferimento ai musical che emulano lo stile rock’n roll delle origini (Grease). Hair ha rappresentato un punto nodale nella storia del musical perché ha stravolto la scena, naturalmente conservatrice, di Broadway passando attraverso il circuito anomalo di una compagnia di neofiti del Greenwich Village, che prima di debuttare al Biltimore Theatre aveva girato fra Off e Off-Off-Broadway; il debutto a Broadway è stato il 29 aprile 1968 e ha avuto 1742 recite. Hair è esempio della controcultura che ha attraversato gli Stati Uniti a partire dalla metà degli anni Sessanta. Nelle intenzioni dei creatori, James Rado e Gerome Ragni, era precisa la volontà di rottura con la forma consolidata del musical, che ha trovato espressione nel dare minore importanza alla trama. Rado e Ragni erano intenzionati a smitizzare la trama, sviluppando le canzoni associate alla danza, non come sospensione, ma come momentaneo intervallo dal suo avanzamento, bensì come elemento essenziale e parallelo dell’espressione artistica. Hair presenta un affresco di un gruppo specifico di persone in un particolare momento storico, più che una trama di un musical convenzionale.
Elisabeth Wollman, The Theater Will Rock A History of the Rock Musical, From Hair to Hedwig, The University of Michigan Press, Ann Arbor, 2006, p. 47.
trocultura. Il film è stato realizzato nel 1967 da Milos Forman con la sceneggiatura di Michael Weller. Nel film le tipologie in cui inscrivere le canzoni hanno i confini più netti. Se nella versione di Broadway il protagonista Charles Bukowski è un ragazzo della classe media che vive nel Queens e incontra Berger, capo di una comunità hippy nel Greenwich Village, nel film Charles proviene dall’Oklahoma e arriva a New York per arruolarsi. Sheila, la protagonista femminile, passa da studentessa attivista politica della New York University a debuttante dell’alta società. Il cambiamento più rilevante riguarda il giudizio sulla guerra in Vietnam, che si presenta perché nella versione teatrale Charles non sa se bruciare la cartolina di richiamo oppure arruolarsi, poi parte per il Vietnam e muore; nella versione cinematografica appare chiara fin da subito la sua decisione di arruolarsi così come quella di Berger e degli altri due amici hippy di bruciare le cartoline, soltanto per un momento Charles nutre qualche dubbio – la canzone d’introspezione Where Do I Go. L’innovazione totale nella trama è il finale perché Berger e gli altri amici, compresa Sheila, decidono di raggiungere Charles al campo di addestramento in Nevada per un ultimo saluto a Sheila prima di partire. Con un espediente Berger riesce a entrare nella base e a sostituirsi all’amico, che può così allontanarsi da essa e incontrare la ragazza. Contemporaneamente arriva alla base l’ordine di immediata evacuazione per il fronte e Berger parte al posto di Charles. Il film si ricongiunge all’originale teatrale con la canzone Let the Sunshine in: si chiude con l’inquadratura di Charles, Sheila e gli altri amici nel cimitero di Arlington di fronte a un immenso numero di lapidi, la camera si ferma su quella di Berger e poi il campo si allarga su tutte le altre mentre la canzone insiste sull’inutilità di quelle morti. L’ultima inquadratura è un momento storico accaduto, una manifestazione di pacifisti davanti alla Casa Bianca che si cristallizza poi su un fermo immagine in bianco e nero sulla folla fra cui svetta una bandiera a stelle e strisce. Le canzoni, oltre che per tipologia, si possono suddividere anche in base alla funzione svolta nell’opera. Un numero consistente è cantato dal coro ed è associato alla danza e rappresenta i numeri di massa, per lo più facendo riferimento a fatti realmente accaduti, quali le manifestazioni di protesta contro la guerra in Vietnam o i raduni hippy a Central Park; l’altra funzione delle canzoni è la connotazione del gruppo di amici incontrato da Charles e il cui leader è Berger. In Hair un esempio ulteriore della volontà di rottura della forma tradizionale è l’uso, quasi spasmodico, di canzoni scioglilingua, prive di significato (es. Ain’t Got No). Occorrono in
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It is certainly easy to mistake Hair for a musical with no cohesive story, since it consists largely of interrelated vignettes, during which the musical’s many characters examine various countercultural concerns. Loosely connected songs and sketches explore drug and sexual experimentation, eastern spiritual and religious practices, the civil rights movement, class issues, the generation gap, and the Vietnam war6.
Il passaggio dal teatro al cinema ha comportato un notevole cambiamento nella trama, radicalizzando il messaggio rivoluzionario e della con6
maniera ricorrente e non sono più associate a un momento preciso della trama oppure non intervengono in un momentaneo stallo della vicenda con la funzione di diversivo; entrano a far parte della narrazione giocando sull’orecchiabilità del motivo. L’uso dell’elettronica ha un ruolo predominante ed è associato sempre ai numeri di massa, che assumono il carattere di happening all’interno del lavoro; i numeri più importanti in tal senso sono le canzoni L. B. J., Electric Blues, Old Fashioned Melody, Hare Krishna, che fanno riferimento a un grande raduno hippy a Central Park e corrispondono, soprattutto le ultime due, alla rappresentazione delle visioni di Charles dovute all’assunzione di LSD. Ma appare più importante in questo momento prendere a esempio la canzone Three-Five-Zero-Zero perché da una parte è autonoma rispetto al contenuto della trama, in quanto rappresenta una performance di teatro d’avanguardia realmente accaduta a Washington di fronte al Lincoln Memorial, dall’altra il montaggio filmico è stato realizzato per essere strettamente intrecciato alla vicenda di Charles Bukowski e dei suoi amici. La scena si apre sul campo di addestramento in Nevada in cui si trova Charles durante un’adunata. Il generale ha iniziato il suo discorso quando dagli altoparlanti s’iniziano a udire suoni elettronici (1.24.44), soprattutto una chitarra elettrica distorta. Il battaglione perde la sua compostezza e inizia a fischiare in segno d’apprezzamento come se fosse un concerto. Il testo è dichiaratamente antimilitaristico e pacifista. Un repentino cambio di scena (1.26.39) e l’inquadratura adesso è su Washington durante la performance di teatro d’avanguardia di fronte al Lincoln Memorial, si vedono i mimi e i cantanti durante la rappresentazione. La scena ritorna in Nevada (1.27.00): il generale volta le spalle al microfono e idealmente allo spettacolo di Washington mentre continuano i tentativi di zittire gli altoparlanti e far cessare la musica. Inizia a questo punto (1.27.11) la canzone Three-Five-Zero-Zero come un coro gospel. Nevada (1.27.56): una pattuglia di polizia militare spara contro gli altoparlanti, facendoli tacere mentre si ascolta l’ultima frase «ripped open by a metal explosion». La compagnia si ricompone mentre Charles rimane attonito nell’osservare come sia stato risolto il problema. La scena si conclude con le parole del generale che soddisfatto e compiaciuto redarguisce i soldati urlando: «Now, can all you men hear me?». Questo è un esempio di come il montaggio abbia rotto l’unità drammaturgica della scena ponendo sullo stesso piano di significato il militarismo del generale, la manifestazione pacifista attraverso la performance al Lincoln Memorial e comunque l’uso della forza da parte dei militari per
mettere a tacere la voce elettronica. Ulteriore esempio che dà validità alla forma ibrida è il finale di Cabaret in cui il Maestro di Cerimonie rivolge nuovamente al pubblico alcune domande: «Signore e signori! Dove sono le vostre preoccupazioni? Scomparse. Ve lo avevo detto, noi non abbiamo problemi. Qui la vita è meravigliosa, le ragazze sono meravigliose» mentre l’orchestra suona con un timbro più stridente e appare ancora di più “stonata”.
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Musica/genere
Il film industriale italiano degli anni Sessanta tra sperimentazione audiovisiva, avanguardia musicale e definizione di genere1 di Alessandro Cecchi
Negli ultimi anni in Italia stiamo assistendo a una vigorosa crescita di attenzione per il film industriale. Dopo la creazione, nel 1998, dell’Archivio del Cinema Industriale e della Comunicazione d’Impresa di Castellanza (Varese) – un centro di documentazione promosso da Confindustria e Università Carlo Cattaneo (LIUC) con la successiva adesione del Centro Studi per la Documentazione Storica ed Economica dell’Impresa – nel 2005 è stato istituito l’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea (Torino)2, in convenzione tra il Centro Sperimentale di Cinematografia, la Regione Piemonte, il Comune di Ivrea e Telecom Italia Spa. Questa istituzione, dedita tanto alla conservazione delle pellicole quanto alla promozione del genere cinematografico in oggetto, ha rappresentato la tappa decisiva di un procesQuesto scritto deriva da una conferenza in lingua inglese presentata al terzo incontro internazionale del gruppo di studio “Music and Media” (International Musicological Society), tenutosi a Lisbona dal 10 al 12 giugno 2011. Il saggio sarebbe rimasto lontano dalla sua formulazione attuale senza i puntuali commenti di Elena Mosconi alle precedenti versioni del testo; a lei va un caloroso ringraziamento. Ringrazio Angela Ida De Benedictis per i preziosi commenti al testo e per avermi segnalato per prima l’esistenza degli audiovisivi con musica di Luciano Berio; da questa segnalazione, infatti, ha preso le mosse la mia ricerca. Ringrazio Matteo Giuggioli per alcune importanti osservazioni e per l’aiuto nel reperimento della bibliografia. Per alcune segnalazioni bibliografiche ringrazio ancora Anna Maria Falchero, direttore dell’Archivio del Cinema Industriale e della Comunicazione d’Impresa di Castellanza, e Letizia Cortini dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico. Desidero infine ringraziare Gianmario Borio, per avere sostenuto e incoraggiato il progetto di ricerca fin dai suoi primi passi, contribuendo concretamente alla sua definizione e al suo avanzamento. Dedico questo saggio alla memoria di Ansano Giannarelli. 2 Per il reperimento delle fonti audiovisive l’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea ha svolto un ruolo essenziale; ringrazio in particolare Arianna Turci ed Elena Testa per la disponibilità, per la segnalazione delle fonti e per l’aiuto nelle ricerche. 1
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so di valorizzazione che ha rafforzato la consapevolezza del ruolo svolto dal film industriale non solo nella storia dell’industria e nella storia del cinema, ma più in generale nella società e nella cultura italiana del Ventesimo secolo. Gli strumenti catalografici e di ricerca messi a disposizione da questi archivi e da altri non specificamente dedicati al cinema industriale come l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico di Roma, il fiorire di raccolte multimediali e di web tv (tra cui quella esplicitamente dedicata a questo genere cinematografico dall’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa)3, oltre che il restauro e la pubblicazione in dvd di produzioni di particolare interesse storico4, permettono oggi un accesso piuttosto agevole a un numero di filmati già consistente, e destinato in tempi rapidi a un ulteriore, notevole incremento. Questa congiuntura storica viene incontro allo studioso, che può fruire direttamente e applicarsi allo studio analitico (con i vantaggi del formato digitale) di produzioni che, strappate all’oblio, tornano a offrirsi in una costituzione audiovisiva che ne riflette la testualità originaria (nonostante la risoluzione notevolmente bassa dei formati digitali generalmente messi a disposizione). Da uno dei molteplici canali di ricerca percorribili nasce il progetto, di cui il presente saggio rappresenta la prima concretizzazione, sul ruolo del suono e della musica d’avanguardia nel film industriale italiano degli anni Sessanta o più precisamente in un insieme significativo di produzioni caratterizzate da un marcato sperimentalismo. Il progetto è ampio e di vasta portata. L’acquisizione di una documentazione che sia in grado di fare luce sulle vicende della committenza, della progettazione, della produzione e della collaborazione di sceneggiatori, registi, grafici e compositori alle singole realizzazioni richiede un lungo e paziente lavoro di ricerca d’archivio, che si complica in ragione del fatto che non è possibile stabilire a priori
se i materiali preparatori eventualmente conservati (contratti, lettere, sceneggiature, schizzi, partiture, nastri magnetici ecc.) siano custoditi negli archivi storici delle imprese committenti, negli archivi personali degli autori coinvolti o negli archivi delle compagnie produttrici di singoli film, in molti casi esterne alle realtà industriali. Per questa ragione occorrerà dotarsi di una certa elasticità metodologica, muovendosi contemporaneamente su più livelli e in più direzioni, in modo da coinvolgere nella ricerca il più alto numero di istituzioni archivistiche. L’impossibilità, in questa fase, di ricostruire nel dettaglio le vicende specifiche delle varie produzioni non impedisce di intraprendere una riflessione teorica sulla definizione di un sottogenere “sperimentale” del film industriale italiano, sostenuta dall’analisi audiovisiva di alcuni esempi.
Modelli teorici
Segnalo di seguito le principali risorse web disponibili, in ordine di rilevanza: il catalogo dell’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea (http://www.cinemaimpresa.tv/); il catalogo dell’Archivio del Cinema Industriale e della Comunicazione d’Impresa di Castellanza (http://archindhi.liuc.it/cineindustria/ricerca.htm); il catalogo audiovisivo dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico e dell’Archivio Cinematografico Luce (http://aamod.archivioluce.com/archivioluce/ aamod/). 4 Cfr. Ermanno Olmi, Gli anni Edison. Documentari e cortometraggi 1954-1958, Archivio Nazionale Cinema d’Impresa (Centro Sperimentale di Cinematografia)Edison-Feltrinelli, Milano, 2009; Bernardo Bertolucci, La via del petrolio, Archivio Nazionale Cinema d’Impresa (Centro Sperimentale di Cinematografia)-Eni-Feltrinelli, Milano, 2010.
Nell’ambito cinematografico qualsiasi definizione di genere presuppone la preliminare distinzione tra diverse modalità discorsive. Una discussione di queste macro-categorie cinematografiche non può che muovere dalla demarcazione tra cinema di fiction, fondato sulla costruzione di una vicenda e sul criterio della narrazione lineare, il cui canone va individuato nel cinema hollywoodiano, e forme audiovisive altre (non fiction), riconducibili a criteri alternativi di costruzione del senso. Si tratta in questo caso di forme disparate, che tuttavia possono essere riportate a due diversi principi: quello della documentazione, fondato sul criterio della rappresentazione di una realtà, e quello della sperimentazione audiovisiva, dove il senso è dato dall’articolazione di forme, colori, suoni e musica anziché dal contenuto rappresentato. Questi principi non devono essere considerati in maniera rigida, tale da determinare un’opposizione: essi si comportano piuttosto come poli di attrazione, definendo un campo di forze che può dare luogo tanto a forme pure (il documentario da una parte, la videoarte dall’altra) quanto a forme ibride. Lo stesso vale, a ben vedere, per il principio della fiction, che può dare luogo a svariate forme di contaminazione tanto con il documentario (docu-fiction) quanto con la videoarte (cinema sperimentale). Questo ci induce a relativizzare anche la prima demarcazione, proponendo lo schema di un campo di forze a tre poli, riportabili ai principi della fiction, della documentazione e della sperimentazione audiovisiva. Il fatto che sia possibile individuare con chiarezza un polo di attrazione principale
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non esclude che anche gli altri possano contribuire, in misura variabile, alla definizione di una strategia discorsiva. Questo schema euristico ci permette di impostare la trattazione del film industriale inserendolo tra le forme ibride: esso infatti si fonda essenzialmente sul principio del documentario, che rappresenta il suo ambito prioritario di definizione; non è stato alieno, nel corso della sua storia (in particolare negli anni Trenta e negli anni Cinquanta), da tentativi di fiction; è stato spesso spazio privilegiato (non solo negli anni Sessanta) di sperimentazione tanto audiovisiva quanto specificamente sonora e musicale. Se consideriamo il film industriale come un genere documentaristico, il film industriale “sperimentale” può essere descritto come un sottogenere che emerge negli anni Sessanta, definito dalla rinuncia al principio della fiction e dalla (conseguente) apertura alla sperimentazione. Con la precisazione che tanto nell’ambito del documentario quanto in quello del cinema di fiction la categoria della sperimentazione non si applica al testo audiovisivo nella sua interezza. Non solo (in verticale) la sperimentazione può riguardare una sola componente o un solo strato della costruzione audiovisiva senza necessariamente coinvolgere gli altri; ma soprattutto (in orizzontale), è evidente che possono essere riservate alla sperimentazione solo sequenze circoscritte, sezioni discontinue, talora una singola enclave. Tuttavia la semplice presenza di tali zone di sperimentazione rappresenta una marcatura di genere consistente. Tra i diversi approcci teorici alla questione dei generi cinematografici quello proposto da Rick Altman è sicuramente il più evoluto. Questo muove da una concezione semiologica della testualità. Nella fase più matura della riflessione di Altman il rapporto tra testo e genere si delinea attraverso un modello che lo studioso definisce «semantico/sintattico/pragmatico»5. Il singolo prodotto audiovisivo è testo nel senso che le componenti della vicenda narrata (livello semantico) si concatenano a formare configurazioni peculiari (livello sintattico) attraverso cui si stabiliscono le coordinate della sua appartenenza (o non appartenenza) al genere (o a generi diversi contemporaneamente). Tale appartenenza è a sua volta negoziata tra diversi soggetti (tra cui le case di produzione, gli autori, il pubblico, la critica), secondo l’uso che del genere viene fatto entro le diverse pratiche (livello pragmatico). Questo modello risulta estremamente fruttuoso e tuttavia (se
si esclude il livello pragmatico, che non dipende dalla specifica costituzione testuale) difficilmente esportabile al di fuori dell’ambito del cinema di fiction; l’impostazione di Altman resta infatti fondamentalmente narratologica (sarebbe interessante chiedersi quanto l’approccio semantico/sintattico sia debitore delle teorizzazioni praticate dai formalisti russi negli anni Venti, a partire dal binomio fabula/intreccio). Se ora riflettiamo sulle peculiarità dell’organizzazione testuale delle diverse forme cinematografiche, possiamo osservare che laddove le modalità discorsive della fiction vengono meno gli aspetti strutturali della costruzione audiovisiva acquistano un peso decisamente maggiore. Nell’affrontare il caso del film industriale è pertanto consigliabile introdurre una diversa impostazione, che sia in grado di porre nel massimo rilievo i valori strutturali del testo audiovisivo. A questo proposito ci viene incontro la riflessione teorica di Gianmario Borio, nel cui ambito la testualità dell’audiovisivo viene definita come articolazione strutturale «su due dimensioni, che si manifestano in modo tangibile nei due livelli di registrazione della pellicola nel cinema sonoro pre-digitale: immagini e suono»6. Questo modello teorico è implicitamente presente, almeno nelle sue linee essenziali, nell’impostazione Michel Chion, che suggerisce una metodologia analitica fondata sull’osservazione delle procedure sintattiche (montaggio e sincronizzazione) e sulla valutazione dell’interazione tra le singole componenti strutturali della costruzione audiovisiva (fotografia, inquadratura, scritte, voce, dialoghi, suoni e rumori ambientali, musica)7. L’adozione di questo modello non implica una svalutazione del modello semiologico. L’attenzione per le strutture, infatti, non spezza il nesso della costruzione audiovisiva con le sue finalità comunicative. Queste si delineano a partire da processi di significazione innescati tanto dalle componenti quanto dalle procedure del testo audiovisivo, le quali si trovano in relazione non soltanto l’una con l’altra, ma anche con i contenuti rappresentati. In questo modo emerge nella maniera più chiara che la struttura testuale supporta i processi semantici, i quali a loro volta si trovano alla base di processi di significazione via via più complessi. L’analisi audiovisiva deve pertanto muovere il più possibile da
5 Cfr. Rick Altman, Film/Genre, British Film Institute, London, 1999 (tr. it. Film/ Genere, Vita e Pensiero, Milano, 2004).
Gianmario Borio, Riflessioni sul rapporto tra struttura e significato nei testi audiovisivi, «Philomusica on-line» (http://riviste.paviauniversitypress.it/index.php/phi), VI, 3, 2007 (http://riviste.paviauniversitypress.it/index.php/phi/article/view/06-03INT01/73). 7 Cfr. Michel Chion, L’audio-vision. Son et image au cinéma, Nathan, Paris, 1990 (tr. it. L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino, 2001).
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un’integrazione dei due modelli di testualità, tenendo tuttavia presente che al di fuori dell’ambito del cinema di fiction gli aspetti semiologici tendono a fondarsi più direttamente sulla struttura audiovisiva. Per mostrare concretamente in che modo e fino a che punto la struttura testuale possa risultare determinante nella definizione di un genere estraneo al principio della fiction è opportuno muovere dall’analisi audiovisiva di alcuni esempi. Nel mettere in luce le strategie testuali poste in atto nei diversi filmati farò riferimento a mia volta ad aspetti sintattici e semantici. Ciò innesca un cortocircuito con la terminologia di Altman. Per evitare equivoci ridefinisco pertanto preliminarmente questi termini, riportando il momento sintattico esclusivamente alla concatenazione delle strutture audiovisive e alla loro articolazione nel tempo, e il momento semantico alla relazione delle componenti e delle procedure del testo audiovisivo con il contenuto rappresentato.
Emergenze audiovisive8 In una produzione Olivetti come Elea classe 9000 (Nelo Risi, 1960) 9 la sperimentazione audiovisiva può raggiungere livelli sorprendenti. Nel presentare un prodotto industriale effettivamente avveniristico (Elea 9003, il primo calcolatore completamente a transistor) Nelo Risi si pone evidentemente in un’ottica avanguardistica; egli realizza audiovisivi che mirano, per quanto possibile al documentario di carattere promozionale, a integrare arte grafica e musica d’avanguardia in un progetto unitario. I collaboratori di cui si avvale sono di primissimo piano: l’ideazione grafica è di Giovanni Pintori, storico industrial designer di Olivetti; le animazioni di Gianni Polidori (più noto come scenografo e costumista di Virginio Puecher), coadiuvato da Giulio Gianini; la musica è affidata a Luciano Berio, che utilizza brani elettronici e strumentali. La parte iniziale del film è comple-
tamente dominata dalle animazioni. In apertura troviamo una sorta di “copertina” (da 00’00” a 00’15”): su uno sfondo chiaro (prevale il celeste), i movimenti di una sfera rossa – che rimbalza schiacciando uno dopo l’altro, da destra a sinistra, una fila di elementi la cui forma richiama i tasti di una macchina da scrivere, fino a uscire dallo schermo (cfr. Fig. 1a-b) – sono strettamente sincronizzati con il suono elettronico, la cui frequenza varia in relazione alle parabole descritte. Subito il quadro cambia: su uno sfondo scuro, quasi nero, una sfera celeste (quasi a proseguire il movimento della precedente sfera rossa) traccia con il suo passaggio da destra a sinistra una linea tratteggiata dello stesso colore (da 00’07”; Fig. 1c) al di sopra della quale, al centro del quadro, compare il logo della Olivetti (da 00’10”; Fig. 1d). Qui vi è una diversa sonorizzazione, caratterizzata da uno spazio puntillista di frequenze elettroniche omogenee, molto staccate e con riverbero, il tutto ripetuto più volte in loop, con graduale fade out, fino al completo svanire del suono (cfr. Video 1). Al mutare del quadro parte un diverso tipo di animazione, che presenta i titoli di testa (da 00’16” a 01’50”) coinvolgendoli in un gioco di grafica minimalista (sfondi colorati, presenza di elementi geometrici che si animano, quali spirali, cerchi, quadrati, asterischi, in varie combinazioni, fino a rappresentare, verso la fine dei titoli, schemi di circuiti elettrici a valvole e a transistor; Fig. 1e-h). Qui è del tutto evidente come siano le minime articolazioni (ritmico-melodiche, timbriche e dinamiche) della musica per ensemble strumentale di Berio a conferire il ritmo puntuale alle animazioni (Video 2). Pur integrandosi alla perfezione nel risultato audiovisivo, la musica vi ha un manifesto primato strutturale. Dopo i titoli, con l’ingresso della voce fuori campo, in corrispondenza di una sezione caratterizzata da accordi e cluster pianistici piuttosto rarefatti, la musica si sposta sullo sfondo (Video 3). In questo passaggio (da 01’51” a 02’08”) si odono le seguenti parole (lo script è di Muzio Mazzocchi Alemanni), enfatizzate dal forte riverbero: Il Ventesimo secolo nasce veramente in questi anni. La seconda rivoluzione industriale non è più una profezia ottimistica o negativa. Sta diventando una realtà. L’elettronica e le sue applicazioni rappresentano un elemento decisivo di questa trasformazione.
Per gentile concessione dell’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea e della Fondazione Ansaldo di Genova gli spezzoni analizzati in questo capitolo (unitamente a un’ampia scelta di immagini), sono disponibili nel sito internet http://www.suonoeimmagine.unito.it/, nella sezione Pubblicazioni/2011 (per un elenco dei materiali proposti si consulti l’indice delle figure in chiusura di questo volume). 9 Il film è conservato presso l’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea e reperibile (ultimo accesso: settembre 2011) nella web tv dello stesso (http://www.cinemaimpresa.tv/).
Quanto vi viene sottolineato è perfettamente in linea con l’intenzione che anima le varie componenti dell’audiovisivo; questo instaura un nesso semantico tra gli oggetti della sua rappresentazione (i più avanzati prodotti
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Olivetti) e la sua stessa fattura, che converge nei concetti di “innovazione”, “sperimentazione”, “avanguardia”. Non si deve pensare che tutto il filmato si mantenga a questo stesso livello. Vi sono invece parti drasticamente antitetiche, in cui la musica e le animazioni lasciano il posto alla semplice documentazione, ivi comprese le spiegazioni (da 06’04” a 07’21”) del direttore del Laboratorio di ricerche elettroniche Olivetti, ing. Mario Tchou, dove l’unico suono è quello della sua voce in presa diretta e le riprese si limitano a pochi movimenti di camera. Per gran parte degli oltre trenta minuti di filmato la musica ha un ruolo più di secondo piano, anche se si tratta di uno sfondo tutt’altro che neutro o convenzionale: il suo carattere radicale e avanguardistico resta ben percepibile, anche quando a dominare è la voce fuori campo, che raccontando e spiegando (ancora con il frequente uso di animazioni, che si intervallano a riprese in bianco e nero) guida lo spettatore tanto nella storia dei metodi computazionali (dall’abaco in poi) quanto nella descrizione dei processi di ricerca, progettazione e produzione industriale dei calcolatori Olivetti. Ben percepibili sono anche le discontinuità della parte musicale, dove si alternano passaggi pianistici, orchestrali o puramente elettronici, in corrispondenza delle diverse sezioni del film (esplicative o descrittive, animate o documentaristiche). Nell’ambito dell’industria automobilistica spicca per la sua carica sperimentale una produzione Innocenti quale Noi continuiamo… (Mario Damicelli, 1968)10. Il film si caratterizza per la presenza di un numero sorprendentemente elevato di sequenze, peraltro piuttosto lunghe, fondate su un montaggio serrato e su una sincronizzazione audio-video particolarmente stretta. La musica è affidata a Egisto Macchi, che utilizza brani tanto orchestrali quanto elettronici. Il suo contributo alla sonorizzazione di tali sequenze si subordina alla chiara intenzione della regia di riservare alla sperimentazione audiovisiva sezioni progressivamente più ampie del filmato, nonostante le sue evidenti finalità promozionali. All’inizio del film viene ripercorsa brevemente la storia della Innocenti, a partire dall’invenzione dei celebri tubi di acciaio per impalcature (fino a 01’15”). Segue una rappresentazione del processo di lavorazione dell’acciaio, ridotto in forma di tubi per le diverse applicazioni, introdotta dalla voce fuori camIl film è conservato presso l’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea e reperibile (ultimo accesso: settembre 2011) nella web tv dello stesso (http://www.cinemaimpresa.tv/). Ringrazio Arianna Turci per la segnalazione.
po, che sottolinea «l’importanza del tubo d’acciaio nell’evoluzione della civiltà industriale», compresa la possibilità di «fabbricare macchine per fabbricare i tubi» (da 01’15” a 01’20”). Si tratta di una sequenza (da 01’20” a 02’02”) fondata sul montaggio serrato di inquadrature che documentano questa fase della produzione (Fig. 2), accompagnata da un passaggio incisivo e brutale della musica orchestrale di Macchi, ricca di ottoni e percussioni, tra cui è particolarmente evidente la presenza di incudini (Video 4), come avviene anche in altri momenti (per esempio da 16’21” a 17’48”). Sequenze analoghe, anche molto estese, seguono lo stesso principio, anche se in certi casi la musica viene consapevolmente rafforzata dalla massiccia presenza di rumori industriali (per esempio da 04’02” a 04’55”, da 06’06” a 06’43”, da 09’23” a 10’06”, da 26’45” a 28’10”). Tra le altre, emerge una sequenza di enorme impatto audiovisivo (da 18’30” a 21’23”), su cui vale la pena di soffermarsi: il montaggio video è caratterizzato dalla continua giustapposizione di inquadrature quasi istantanee e dal rapido passaggio da una fase all’altra di un lungo processo di produzione in serie altamente meccanizzato, che si concluderà con l’assemblaggio della nuova autovettura Innocenti (Fig. 3). La colonna sonora offre un susseguirsi altrettanto rapido di suoni elettronici e registrati, che in buona parte inglobano, riproducono e rielaborano i rumori generati dagli stessi processi produttivi rappresentati (Video 5). Mai come in questo caso il “montaggio” si rivela concetto guida, che assimila al contenuto rappresentato (un lungo processo di lavorazione che culminerà con l’assemblaggio del prodotto) non soltanto le modalità della rappresentazione (montaggio video serrato) ma anche la sonorizzazione, del tutto in linea con l’estetica della musique concrète, dove il suono prodotto elettronicamente, la musica vocale o strumentale e la vasta gamma dei rumori ambientali vengono equiparati nel concetto del suono “concreto”: quale che sia la sua origine, qualsiasi suono diviene semplicemente suono registrato, quindi manipolabile (attraverso il taglio e il montaggio del nastro magnetico) e riproducibile meccanicamente. Da un altro punto di vista il filmato è caratterizzato da processi di significazione musicale che oggi percepiamo come stereotipi. Se l’associazione dei processi di lavorazione dell’industria pesante con una musica orchestrale ricca di percussioni e ottoni si fonda sull’idea di una sostanziale omogeneità timbrica (associazione che non è certo tipica degli anni Sessanta), quella tra sperimentazione elettroacustica e rappresentazione dei processi chimici, soprattutto quando le riprese indugiano sugli strumenti di misurazione elettronica, rimanda a un altro tipo omogeneità. In certi
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casi è il suono stesso emesso da tali strumenti a incoraggiare la relazione; più in generale, tuttavia, conta l’oggettiva somiglianza tecnica e funzionale con gli strumenti utilizzati fin dalla seconda metà degli anni Cinquanta per la produzione del suono elettronico negli studi di registrazione. Così in questo documentario le parole «analisi chimiche» (da 13’28”), pronunciate dalla voce fuori campo, a cui seguono inquadrature di dettaglio di ampolle, microscopi, generatori di raggi X e oscilloscopi (Fig. 4), sono strettamente sincronizzate con l’ingresso del suono elettronico (da qui in poi del tutto scoperto e riconoscibile), che precedentemente era entrato in gioco solo in modo marginale (Video 6). Su questo tipo di associazione semantica insistono i filmati prodotti da Cnen (poi Enea) negli anni Sessanta, che hanno al centro il problema dell’energia nucleare. Tra questi L’atomo in mare (Virgilio Tosi, 1962)11, che per la grafica si avvale della collaborazione di Pino Zac e Miro Grisanti, affidando la sonorizzazione e la musica (quasi esclusivamente elettronica) a Franco Potenza. La sequenza animata iniziale (da 00’00” a 02’22”), che ingloba i titoli di testa, ha qui una funzione più precisamente narrativa; ciò che vi viene presentato è l’antefatto: le esplosioni sperimentali effettuate dagli USA nell’atollo di Bikini, nell’Oceano Pacifico, nel giugno e luglio del 1946 e la conseguente dispersione di particelle radioattive nel mare, destinate per questa via a entrare nella catena alimentare. Tra l’indicazione iniziale del produttore e il resto dei titoli di testa (da 00’45”) viene inserita una sequenza animata che rappresenta l’esplosione della bomba H, preceduta da un countdown e seguita dal fungo atomico, e la dispersione nell’aria della radioattività, che prosegue per tutta la durata dei titoli (Fig. 5). Subito dopo (da 01’18”) le animazioni passano a rappresentare il fondo marino, investito da una pioggia di particelle radioattive che vi si depositano e vengono ingerite dai pesci, uno dei quali finisce sul piatto di un uomo che, mangiandolo, viene contaminato dalla radioattività (Fig. 6). In questa e nelle altre sequenze animate a colori del film (da 12’42” a 14’26” e da 17’58” a 19’43”) – che si alternano come di consueto a sequenze documentaristiche di taglio più tradizionale, in questo caso in bianco e nero – non si può parlare di un contributo propriamente “musicale”, quanto piuttosto di una sonorizzazione elettronica
delle animazioni (Video 7); l’articolazione sintattica risulta comune ai due livelli, ma le animazioni mantengono evidentemente il primato strutturale. In un’altra produzione Cnen, Atomi puliti (Enrico Franceschelli, 1965)12 , la cui musica è ancora affidata a Franco Potenza, il suono elettronico diviene, più concretamente, un segnale di pericolo. Se nei titoli di testa una musica prevalentemente pianistica (ma con lievi note tenute di una sonorità non ben identificabile) è sincronizzata con le inquadrature dell’acqua pacifica di un ruscello e di una piccola cascata (Fig. 7a-d), le considerazioni della voce fuori campo sui danni ambientali e sullo smog (da 00’40”) coincidono con l’emergere del suono elettronico, che solo dopo l’uscita del pianoforte scopriamo essere già presente fin dall’inizio del filmato (Video 8), mentre le inquadrature si concentrano sulla sagoma di una fabbrica, con una lunga ciminiera che si staglia su un cielo grigio e carico dei fumi della produzione industriale (Fig. 7e-g). Da questo momento in poi la contemplazione dei disastri ambientali viene sottolineata dal suono elettronico, la cui presenza inquietante giunge al parossismo nella parte successiva (da 02’30”), dedicata all’energia atomica e alle sue valenze distruttive, secondo uno schema narrativo che ripercorre L’atomo in mare (peraltro anche in questo caso la regia si avvale delle animazioni). Naturalmente – considerata la committenza – il film insiste poi sulla possibilità della prevenzione, sull’avanzamento della ricerca e sulle potenzialità dell’energia nucleare, sottolineando i pregi del suo uso civile a vantaggio della collettività; le preoccupazioni evocate all’inizio sono pertanto parte di una strategia comunicativa il cui fine è tranquillizzare sull’uso oculato dell’energia nucleare – nel prosieguo del filmato anche il suono elettronico diviene infatti uno sfondo piacevole e armonico. Solo con la visione dei depositi delle scorie radioattive – una distesa di bidoni azzurri e rossi con in bella evidenza il noto simbolo di pericolo nero in campo giallo (Fig. 8) – alla fine del filmato (da 10’23” a 10’42”), si torna a un suono elettronico progressivamente più minaccioso e inquietante, fino al brivido elettronico di terrore con cui il film si conclude, sincronizzato con il momento in cui lo schermo va a nero (Video 9); una scelta con cui gli autori mettono in crisi – in modo probabilmente intenzionale – la strategia comunicativa del committente.
11 Il film è conservato presso l’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea e reperibile (ultimo accesso: settembre 2011) nella web tv dello stesso (http://www.cinemaimpresa.tv/). È inoltre disponibile nella web tv dell’Enea (http://webtv.sede.enea.it/ index.php?page=listafilmcat2&idfilm=169&idcat=30).
12 Il film è conservato presso l’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea e reperibile (ultimo accesso: settembre 2011) nella web tv dello stesso (http://www.cinemaimpresa.tv/). È inoltre disponibile nella web tv dell’Enea (http://webtv.sede.enea.it/ index.php?page=listafilmcat2&idfilm=169&idcat=30).
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In questo particolare sottogenere del film industriale degli anni Sessanta i titoli di testa sono destinati a diventare luogo topico di sperimentazione musicale e audiovisiva; a questo aspetto fa cenno, in alcuni casi, la loro stessa dislocazione (compresi i casi in cui siano del tutto assenti, come in Noi continuiamo…). Nel film Italisider Il pianeta acciaio (Emilio Marsili, 1962)13, che si avvale della collaborazione di Dino Buzzati per la sceneggiatura e di Franco Potenza per la musica, dopo il cartello iniziale su cui si apre il filmato, i veri e propri titoli di testa giungono soltanto dopo qualche minuto (da 03’46” a 04’52”), introducendo nel film una forte cesura. La sincronizzazione merita qualche accenno: i cartelli (testo rosso su sfondo nero) sono sincronizzati in parte con i rumori della produzione industriale dell’acciaieria, in parte con un suono di scorrimento continuo che potrebbe somigliare tanto a un nastro trasportatore quanto al rumore amplificato di un proiettore; essi sono però intervallati da riprese del lavoro di un operaio della fonderia (Fig. 9), in cui il rumore è stato cancellato e rimpiazzato da un motivo pianistico percussivo di stampo neoclassico, caratterizzato da un semplice ostinato nel grave e dalla ripetizione – discendente, poi ascendente – di un intervallo di seconda maggiore nel registro acuto, fortemente dissonante rispetto alle note del basso (Video 10). In questo modo i canali audio e video si alternano tra loro creando una stratificazione di astrazione e realtà: rumore industriale in corrispondenza dei cartelli; musica composta in corrispondenza delle riprese. Nel caso di Uno stabilimento: grande e subito (Stefano Calanchi, 1973)14, prodotto da Fiat, la musica di Egisto Macchi – al di là del sottofondo dell’anteprima narrativa, dove una voce fuori campo che ripercorre la storia della progettazione e costruzione dello stabilimento Fiat della città russa di Togliatti – compare come elemento predominante esclusivamente nei titoli di testa (da 01’34” a 02’29”). Questi sono caratterizzati da un montaggio video particolarmente avanzato: bulloni, ingranaggi e altri elementi della produzione industriale – ravvivati però dalla presenza di colori molto accesi – si muovono sullo schermo, susseguendosi in un caleidoscopio di sovraimpressioni, intercalati alla ripresa di dettaglio di placche metalliche riportanti i simboli 13 Il film, conservato presso la cineteca della Fondazione Ansaldo di Genova, è reperibile (ultimo accesso: settembre 2011) nel sito web della CGIL Lombardia (http://iptv. cgil.lombardia.it/web/CanaleTematico.aspx?ch=50&fl=2075&mode=). 14 Il film è conservato presso l’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea e reperibile (ultimo accesso: settembre 2011) nella web tv dello stesso (http://www.cinemaimpresa.tv/). Ringrazio Elena Testa per la segnalazione.
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dell’Unione Sovietica e del comunismo (il contesto dello stabilimento) e la raffigurazione dell’automobile (ciò che viene prodotto nello stabilimento), o ancora sigle e numeri di serie di varia provenienza (Fig. 10). Come la simbologia evocata dalle immagini, così anche la musica strumentale di Macchi – caratterizzata dalla presenza serrata e continua delle percussioni e dall’ingresso altrettanto percussivo del pianoforte nel registro sovracuto, accompagnato da potenti strappate di archi e ottoni – sigla incisivamente questo audiovisivo (Video 11), facendone uno degli ultimi esempi, in termini cronologici, di film industriale “sperimentale”.
Verso una definizione di genere Ciò che emerge dagli esempi è una testualità fortemente connotata dalla sperimentazione musicale e audiovisiva. L’analisi delle strutture affronta questa testualità mettendo in luce aspetti che il modello semiologico tende a lasciare sullo sfondo: da un lato valorizza le singole componenti del testo audiovisivo, consentendo, ad esempio, di rilevare il ruolo del suono e della musica, che in queste produzioni degli anni Sessanta e Settanta non è ancora mai stato indagato sistematicamente; dall’altro evidenzia la complessità sintattica e semantica della costruzione audiovisiva, permettendo di definirne la strategia testuale. Tale strategia presuppone un codice linguistico audiovisivo nella stessa misura in cui contribuisce a istituirlo; ed è su questo doppio binario che la testualità può contribuire in maniera sostanziale alla definizione di genere. Si prenda in primo luogo la musica. Per quanto riguarda il film industriale possiamo notare come rispetto alle produzioni degli anni Cinquanta, caratterizzate dalla diffusa aderenza ai modelli coevi della “musica per film” intesa come definizione stilistica (musica prevalentemente orchestrale, sonorità tardo-romantiche o impressioniste, utilizzo di motivi ricorrenti o di costruzioni tematiche riconoscibili e passibili di elaborazione ecc.), la sperimentazione musicale e in particolare elettroacustica degli anni Sessanta rappresenti un momento di forte discontinuità15. La valutazione della componente musicale permette di introdurre all’interno delle produzioni degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta Cfr. Maurizio Corbella, Musica elettroacustica e cinema in Italia negli anni Sessanta, tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, 2008/2009.
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una ulteriore distinzione tipologica, fondata sull’utilizzo di musica d’avanguardia (strumentale o elettronica) oppure di popular music (in particolare jazz). L’interesse di questa distinzione è motivato dalle sue ripercussioni sulla costituzione sintattica degli audiovisivi. Da un confronto analitico con le fonti emerge che l’impiego di popular music implica un montaggio audio-video che privilegia una “temporalità continua”, in cui i due livelli strutturali si muovono per ampie fasce di coordinamento e la sincronizzazione non è mai puntuale (in altre parole: la musica scorre senza che l’articolazione del montaggio video ne venga influenzata nel dettaglio). Al contrario la musica d’avanguardia viene collegata strategicamente a una “temporalità discreta”, che incoraggia un rapporto con le immagini basato sulla corrispondenza puntuale e su una sincronizzazione tendenzialmente molto stretta; questa crea una continua interazione tra la successione delle inquadrature e la successione degli eventi musicali, con particolare attenzione per i momenti di discontinuità. Il sottogenere “sperimentale” del film industriale si costituisce precisamente attraverso quest’ultimo tipo di sintassi. Nella mia ipotesi, tale sintassi deriva dalla scelta consapevole di conferire rilievo alla sperimentazione musicale collegandola a forme di sperimentazione audiovisiva. Quanto alla strategia “formale”, possiamo notare come il ruolo della sperimentazione favorisca l’emergere di una tipologia molto diffusa. Le finalità promozionali e informative ancorano queste produzioni al principio del documentario; per questo esse alternano invariabilmente sezioni di carattere strettamente documentaristico a sezioni caratterizzate da sperimentazione audiovisiva. Queste ultime comprendono generalmente titoli di testa, sequenze animate e sequenze fondate su un montaggio serrato (in quest’ultimo caso, tuttavia, la sperimentazione si coniuga con la documentazione dei processi di lavorazione industriale). Dal punto di vista del sonoro le caratteristiche delle due tipologie risultano nettamente divergenti: nelle sezioni documentaristiche prevalgono la voce fuori campo, i dialoghi, i rumori industriali in presa diretta, mentre la musica o è assente o si limita a una presenza di sfondo; nelle sezioni sperimentali la musica e il suono guadagnano una posizione di primo piano. Nelle sezioni sperimentali talora l’organizzazione musicale ha il primato strutturale e detta il ritmo delle inquadrature o delle animazioni; in altri casi si giunge a un’articolazione simultanea dei due livelli di registrazione (suono e immagini), fondata sul comune principio del montaggio. Veniamo ora alla fotografia, alle riprese e al montaggio. A differen-
za del cinema di fiction, fondato sul criterio della narrazione lineare di una vicenda, il documentario, e quindi anche il film industriale, è caratterizzato da una forte discontinuità delle riprese e del montaggio video, incoraggiata dalla necessità di operare inquadrature funzionali alla documentazione degli stabilimenti industriali, dei processi di lavorazione e di assemblaggio dei prodotti finiti. Da questo punto di vista un singolo film industriale può esplorare una vasta gamma di possibilità, che vanno dalla ripresa aerea, all’inquadratura di dettaglio, all’utilizzo di tecniche fotografiche come le macro, dalle riprese esterne alla ripresa di interni caratterizzati prevalentemente da condizioni di luce estreme o ricchi di contrasti; di qui il ruolo preponderante svolto dai filtri. Non di rado poi, nelle sequenze documentaristiche, entra in gioco una sintassi ispirata al reportage, soprattutto laddove si tratta di ricostruire memorie e contesti storici, particolarmente tramite immagini di repertorio. Di qui il continuo alternarsi di sequenze in bianco e nero e a colori, oppure di sequenze animate e riprese; tutte differenziazioni che influiscono sulla sintassi. Quanto infine al contenuto rappresentato, il film industriale mette in gioco una vasta gamma di elementi peculiari, che contribuiscono alla costituzione del testo nella sua valenza più strettamente semantica: lo stabilimento, l’azienda, la fabbrica, gli operai, gli scienziati, gli impiegati, i tecnici, i dirigenti, i mezzi di produzione, le macchine e il loro funzionamento, gli strumenti di misurazione e di analisi, l’interazione tra uomo e macchina, la rappresentazione di processi meccanizzati, le materie prime, la loro lavorazione, infine i prodotti, le retoriche, le ideologie dell’industrializzazione, le ritualità del lavoro; tutti elementi di cui non è possibile in questa sede offrire una disamina esaustiva, ma che, nella loro estrema variabilità, fondano la definizione stessa del film industriale, dato che rappresentano il solo criterio di demarcazione dalle altre forme di documentario. Per quanto riguarda il ruolo della funzionalità comunicativa, può essere interessante rilevare come nelle produzioni “sperimentali” le distinzioni introdotte in relazione alle differenti finalità e strategie comunicative del film industriale tendano a confondersi o a diventare irrilevanti. Vi confluiscono diverse funzioni e tipologie: sono «film di divulgazione tecnicoscientifica» con una finalità didattica molto pronunciata, ma nello stesso tempo «film di documentazione» (in particolare per quanto riguarda la progettazione e la produzione); sono «film pubblicitari» ma – a differenza di quanto avviene negli spot – l’attenzione non si concentra esclusivamente sul prodotto finito, bensì anche sui processi della sua produzione; sono
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inoltre «film di public relations»16, cioè non strettamente mirati alla vendita del prodotto, quanto piuttosto alla promozione dell’azienda, con particolare enfasi non tanto sulle finalità economiche dell’impresa, quanto su quelle sociali e culturali (nel catalogo Olivetti vengono definiti «film di corporate image»)17. Il film industriale “sperimentale” tende infatti a sottrarsi al criterio della funzionalità specifica (aziendale, promozionale o pubblicitaria) proprio in virtù del suo valore strettamente testuale, che alterna al criterio della documentazione quello della comunicazione artistica.
Aspetti contestuali Per compiere il passo decisivo verso la definizione del genere occorre accostare al momento testuale, inteso nel senso strutturale, il momento contestuale, al quale possiamo riportare il livello pragmatico dell’approccio di Altman. Da questo punto di vista il film industriale “sperimentale” non si distanzia dalle pratiche del documentario nelle sue diverse specificazioni (etnografico, scientifico, naturalistico, storico ecc.), con le quali peraltro talvolta si confonde. Tra i committenti si trovano le più rilevanti realtà industriali, tanto private quanto pubbliche, dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta: tra le aziende che hanno fatto maggiormente ricorso a questo tipo di comunicazione cinematografica troviamo in prima fila realtà come Eni, Enea, Fiat e Olivetti; altre, come Italsider, Innocenti, Alitalia e Ferrovie dello Stato, vi hanno fatto ricorso in modo più sporadico. All’origine di alcuni progetti significativi vi sono personalità eminenti della storia dell’industria italiana (Adriano Olivetti, Enrico Mattei). Sono tuttavia registi, scrittori, sceneggiatori, compositori e grafici a realizzarne concretamente le intenzioni. La produzione audiovisiva è infatti caratterizzata in modo massiccio dalla collaborazione di più soggetti, ognuno dei quali può essere investito da un diverso grado di responsabilità, senza che si debba necessariamente approdare all’idea di un’autorialità multipla o condivisa: in ogni caso il risultato è sempre il frutto di un incontro di competenze diversificate, di autori la cui provenienza contribuisce in modo determinante Cfr. Elena Mosconi, Il film industriale, «Comunicazioni sociali», XIII, 1-2, 1991 (Il cinema a Milano dal secondo dopoguerra ai primi anni Sessanta, numero speciale a cura di Raffaele de Berti), pp. 65-66. 17 Ringrazio Arianna Turci per la segnalazione.
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alla definizione di un genere sperimentale. Non di rado si stabiliscono sinergie efficaci; per questo capita che una determinata industria stabilisca rapporti privilegiati con uno o più collaboratori (ciò vale per i registi come per i compositori). Metto qui in luce il ruolo dei compositori, che contribuiscono in maniera determinante alla definizione del sottogenere “sperimentale” (non a caso il nome del compositore ha rappresentato la chiave di ricerca più rilevante per l’individuazione delle fonti audiovisive). La collaborazione di compositori afferenti all’area delle avanguardie è già un chiaro indicatore sul ruolo che committenti, produttori e registi conferivano alla sperimentazione musicale già in fase di progettazione. Inversamente, la notevole quantità di produzioni audiovisive (industriali e non) cui alcuni di questi compositori collaborano testimonia che l’audiovisivo in generale e il film industriale in particolare poteva rappresentare un terreno di sperimentazione piuttosto allettante. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che tali collaborazioni erano anche un’occasione per mettere in gioco le proprie competenze coniugando il minor impegno autoriale a un ritorno economico immediato; cosa che vale naturalmente anche per i registi e per gli autori dei testi e delle sceneggiature, soprattutto quando si tratta di scrittori di rilievo. La collaborazione di Luciano Berio in tre produzioni Olivetti18 rappresenta senza dubbio una circostanza eccezionale; oltre alle due produzioni del 1960, Elea classe 9000 e La memoria del futuro, entrambe affidate alla regia di Nelo Risi (che per Olivetti aveva già diretto Sud come Nord, 1957, con musica di Franco Potenza), dobbiamo citare Arte programmata (Enzo Monachesi, 1963), che documenta una mostra d’arte contemporanea promossa da Bruno Munari. Questo filmato è del tutto privo di rumori, dialoghi e voci fuori campo, dunque si offre come un audiovisivo puramente musicale; la musica di Berio accompagna costantemente le riprese mute che documentano lo svolgimento di una mostra di manufatti artistici interattivi (nel senso che si modificano in base alle manipolazioni dei visitatori, il cui contributo è esplicitamente richiesto). Ciò testimonia la contiguità tra film industriale e documentario d’arte, che peraltro caratterizza la vasta produzione audiovisiva Olivetti; basti pensare ai numerosi “critofilm” di Carlo Ludovico Ragghianti, dove la critica d’arte si esercita in forma di audiovisivo. Cfr. Adriano Bellotto, La memoria del futuro. Film d’arte, film e video industriali Olivetti 1949-1992, Fondazione Adriano Olivetti, 1994.
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I filmati Eni si avvalgono quasi esclusivamente della collaborazione di Egisto Macchi, uno membri fondatori (con Mario Bertoncini, Mauro Bortolotti, Aldo Clementi, Antonio De Blasio, Franco Evangelisti, Domenico Guaccero, Daniele Paris e Francesco Pennisi) del gruppo Nuova Consonanza19. Il lungometraggio etnografico-industriale in tre puntate diretto da Bernardo Bertolucci, La via del petrolio (1967), trasmesso dalla Rai, è solo il capitolo più celebre di questa collaborazione. Precedentemente, infatti, Macchi aveva già preso parte ad altre produzioni Eni, da Oro nero sul Mar Rosso (Vittorio Gallo, 1962), a L’isola del petrolio (Gian Maria Messeri, 1962), a CH4 in Lucania e Gela antica e nuova (Giuseppe Ferrara, 1963 e 1964), a Gli uomini del petrolio (Gilbert Bovay, 1965). Tuttavia anche altre realtà industriali si avvalgono della sua collaborazione artistica, per produzioni caratterizzate dalla centralità della musica: Cnen (Re Uranio, Enrico Franceschelli, 1964), Innocenti (Noi continuiamo...), Alitalia (Rapporto uno a venti, Mario Damicelli, 1967; Immagine A, Ennio Lorenzini, 1970), Olivetti (Giuochi di persuasione. Storia del manifesto pubblicitario, Massimo Mida, 1968; Micromondo. Dalle valvole al circuito integrato, Fulvio Tului, 1970) e Fiat (Leggero medio pesante, Ennio Lorenzini, 1973; Uno stabilimento: grande e subito, Stefano Calanchi, 1973). Questo sia detto per limitarsi ai film industriali in senso stretto, dato che Macchi ha collaborato a centinaia di produzioni audiovisive, che comprendono film di documentazione storica e di attualità, alcuni dei quali caratterizzati politicamente come film “di denuncia”. Molto prolifico nell’ambito del film industriale degli anni Sessanta è stato Franco Potenza, autore di musiche strumentali ed elettroniche di notevole interesse, che è stato particolarmente attivo nell’ambito cinematografico tra la fine degli anni Cinquanta (quando, come Egisto Macchi, componeva secondo le convenzioni della coeva “musica per film”) e la metà degli anni Settanta, con punte di spiccato sperimentalismo. Per quanto riguarda il film industriale, Potenza ha collaborato, ricorrendo prevalentemente al suono elettronico, a numerose produzioni Cnen (ora Enea), molte delle quali affidate alla regia di Virgilio Tosi, (La fusione controllata dell’idrogeno, 1960; Sincrotone, 1961; L’atomo in mare, 1962; Il quarto stato della mate19 Nel fondo Ilva della Cineteca della Fondazione Ansaldo di Genova è conservata una pellicola – Opsteel (Emilio Marsili, 1969) – il cui commento musicale è accreditato (caso al momento unico) alla denominazione collettiva del Gruppo di Nuova Consonanza Ringrazio Annalaura Burlando per la segnalazione.
ria, 1963), non a caso attivo anche sul fronte del documentario di divulgazione scientifica. Per lo stesso committente Potenza ha lavorato anche con Giuliano Tomei (Elettricità dell’atomo, 1961), Ennio Franceschelli (Al di qua dell’Uranio, 1965; Atomi puliti, 1965) e Walter Locatelli (Distruggere per costruire, 1969). Potenza è tuttavia anche autore di musica orchestrale, che risulta accreditata in produzioni Olivetti (Sud come Nord; Il diavolo della bottiglia, Sergio Spini, 1968), Fiat (Biografia di un aereo, Ansano Giannarelli e Pietro Nelli, 1964), Italsider (Il pianeta acciaio, con testo di Dino Buzzati) e Ferrovie dello Stato (Uomo macchina uomo, Marcello Baldi, 1960). Considerazioni più approfondite merita il ruolo di Vittorio Gelmetti, che ci permette di valutare l’intreccio del film industriale con il cinema d’arte. Gelmetti si avvicina infatti al cinema per la prima volta prestando alcuni dei suoi brani di musica elettronica a Michelangelo Antonioni per il suo primo lungometraggio a colori, Deserto rosso (1964), l’ultimo con musica di Giovanni Fusco. Come è noto, il regista aveva voluto intessere consapevolmente una complessa “partitura” di suoni, che integrasse i rumori della produzione industriale, la musica elettronica di Gelmetti e quella vocale e strumentale di Fusco; ciò avviene già nei titoli di testa, caratterizzati dalla sfocatura estrema delle riprese del paesaggio industriale. In questo lungometraggio Antonioni sublima in senso artistico il film industriale: il paesaggio, le fabbriche, la complessità dei macchinari, alcune precise fasi della lavorazione industriale, talora documentate fin nei dettagli tecnici, si prestano a una strategia testuale fondata sul criterio dell’offuscamento; offuscamento che investe tanto l’identità dei protagonisti quanto, per certi versi, quella del cinema di fiction. Capita, per esempio, che i rumori dei processi produttivi disturbino la comprensione dei dialoghi o che li sovrastino del tutto; capita anche che il quadro venga completamente invaso da dense nuvole bianche di vapore, prodotte attraverso l’apertura controllata di enormi valvole di sfiato, cancellando così dalla vista i personaggi del film. Nell’ambito del film industriale la musica Gelmetti compare soltanto in pochi titoli, peraltro concentrati nel tempo: Appunti per l’auto di domani (Massimo Mida, 1968), prodotto da Fiat, e La macchina del tempo (Antonello Branca, 1969), prodotto da Olivetti. Le scelte musicali di Gelmetti (sia che si tratti di musica strumentale che di musica elettronica) non sono mai scontate; pur facendo un uso esteso del suono elettronico, questo non si presta mai a processi di significazione stereotipati, rendendo meno agevole la comprensione delle strategie audiovisive in atto. Lo stesso
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vale per le altre collaborazioni di Gelmetti nell’ambito del cinema di fiction. Negli stessi anni dei film industriali citati egli collabora a due lungometraggi: Sotto il segno dello Scorpione (Paolo e Vittorio Taviani, 1969) e Sierra Maestra (Ansano Giannarelli, 1969). La collaborazione con Giannarelli prosegue negli anni successivi grazie ad alcune produzioni Reiac film: le tre puntate di Non ho tempo (1971-72), con la collaborazione alla sceneggiatura di Edoardo Sanguineti (tra l’altro autore del testo dell’opera teatrale composta da Gelmetti, La descrittione del Gran Paese, 1968, oltre che di molte composizioni significative di Berio, teatrali e non), e due cortometraggi del 1972, Linea di montaggio e Analisi del lavoro20, che in questo contesto meritano una trattazione più ravvicinata. Benché non si tratti di film industriali in senso stretto – tanto per la committenza quanto per il taglio fortemente critico nei confronti delle modalità della produzione industriale – la connessione con il tema della fabbrica è evidente. La strategia audiovisiva messa in atto da Giannarelli e Gelmetti si riconnette esplicitamente alle istanze della critica marxista, segnando l’abbandono di quella retorica dell’industrializzazione e della produzione che caratterizza il film industriale, specialmente nei primi anni Sessanta. Mentre il dibattito culturale, particolarmente sulle riviste, affronta la questione dell’impatto negativo dell’industrializzazione sulla società e sulla vita dei lavoratori già nei primi anni Sessanta, nell’ambito cinematografico l’attenzione per la condizione operaia – la questione dello sfruttamento del lavoro, dell’alienazione e della salute dei lavoratori – emerge solo nei primi anni Settanta.
Contesti storici e peculiarità di genere In conclusione sviluppo qualche considerazione sulla storia del genere, nella stretta misura in cui i contesti storici possono essere posti in relazione con il sottogenere “sperimentale” del film industriale italiano che abbiamo delineato. Da questo punto di vista è stato spesso sottolineato come la fioritura del genere sia legata cronologicamente al periodo della rapida
industrializzazione italiana del secondo dopoguerra, e in particolare agli anni del cosiddetto “miracolo economico” (1958-1963), e geograficamente all’attività delle regioni più ricche e produttive del nord, a partire dal triangolo industriale Torino-Milano-Genova. Il genere infatti ha il suo massimo sviluppo nel 1964, quando viene raggiunto il picco quantitativo della produzione. Al suo declino cooperano tanto i primi sintomi della crisi economica che caratterizzerà in maniera determinante i decenni successivi quanto gli effetti di una deludente legge nazionale sul cinema (n. 1230 del 4.11.1965); questa contribuisce notevolmente all’affossamento del genere, dal punto di vista culturale relegandolo ai margini rispetto alla produzione del cinema d’arte, dal punto di vista economico impedendo ai committenti e ai produttori l’accesso al finanziamento pubblico. Ciò porta, già nel 1965, a un drastico ridimensionamento della produzione di film industriali rispetto all’anno precedente (si parla di una diminuzione del 40%)21. Questi elementi contestuali e questi dati quantitativi non devono farci perdere di vista la lunga storia del documentario italiano, che inizia ben prima del “miracolo economico”. I primi film industriali, ovviamente muti, risalgono almeno al 1905 (L’industria di salami, prodotto dalla Ambrosio Film di Torino), mentre la Fiat ricorse alla comunicazione cinematografica molto presto, come testimonia un documentario recentemente restaurato ad opera dell’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea, Le Officine della “FIAT” (Luca Comerio, 1911). Per la produzione dei primi film sonori (da parte della Cines e dell’Istituto Luce) basta aspettare il 1930. La costituzione testuale di un film come Sotto i tuoi occhi (1931), commissionato per promuovere la Fiat 522, è estremamente interessante, anche solo per gli aspetti di fiction che lo caratterizzano. La sonorizzazione è ricca e complessa, con particolare enfasi sui rumori della produzione industriale, ma non è priva di musica orchestrale e di dialoghi, con momenti di sovrapposizione dei tre livelli del sonoro. Già in questa fase, inoltre, si ricorre al film di animazione, come nel caso di Non è più un sogno (1932), con cui viene presentata la Fiat 508 berlina22. Sono peraltro già note le vicende di Acciaio (Walter
Per un’analisi di questo film rimando a Francesco Zennaro, “Analisi del lavoro” di Ansano Giannarelli, musica di Vittorio Gelmetti, tesi di laurea specialistica, relatore Roberto Calabretto, Università di Udine, 2009/2010. La tesi contiene un’intervista ad Ansano Giannarelli, recentemente scomparso, che tra le altre cose offre una testimonianza di enorme interesse documentario sulla sua collaborazione con Gelmetti e sul modo di lavorare del compositore.
Cfr. Anna Maria Falchero, Cinema e industria: i documentari industriali, in Francesca Anania, Simone Misiani (a cura di), Quale modernità per questo paese. I documentari e le culture dello sviluppo in Italia. 1948-1962, «Storia – Politica – Società», XLI, 3-4, pp. 129-142. 22 I film sono conservati presso l’Archivio Nazionale Cinema d’Impresa di Ivrea e reperibili (ultimo accesso: settembre 2011) presso la web tv dello stesso (http://www. cinemaimpresa.it).
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Ruttmann, 1933), uno dei primi film sonori della Cines, girato quasi interamente all’interno degli stabilimenti delle acciaierie di Terni, su soggetto di Luigi Pirandello (Giuoca, Pietro!) adattato da Mario Soldati e con musiche originali di Gian Francesco Malipiero23. Mi limito a notare che per il livello dei collaboratori coinvolti, per il taglio futuristico e per alcuni aspetti della sincronizzazione, questa produzione rappresenterà un punto di riferimento essenziale del cinema industriale italiano del secondo dopoguerra, ivi compresa la produzione “sperimentale” degli anni Sessanta. Per quanto riguarda il dopoguerra, va notato che il cortometraggio Sette canne, un vestito (Michelangelo Antonioni, 1949, musica di Giovanni Fusco) è già un prodotto maturo, che ha alle spalle una storia importante. Ciò vale a maggior ragione per la vasta e significativa produzione di Ermanno Olmi, la cui collaborazione con la Edisonvolta si svolge negli anni Cinquanta e si conclude prima degli anni del cosiddetto “miracolo economico”. Ovviamente la poderosa crescita economica è collegata con l’emergere del filone “sperimentale” nei primi anni Sessanta. La progettualità dell’industria italiana è infatti ai massimi livelli, e incoraggia il ricorso a forme avanzate di comunicazione cinematografica (quanto a innovatività della ricerca tecnologica il caso Olivetti è il più significativo). In questa sede è forse più interessante notare che il film industriale, anche e soprattutto nella sua forma “sperimentale”, sopravvive ampiamente alla crisi del 1965, la quale non determinò uno scadimento della qualità, né si risolse in un minor impegno economico, organizzativo e artistico nelle singole produzioni, ma solo nella drastica riduzione del loro numero complessivo. Gli anni intorno al 1968 sono caratterizzati dal fiorire di produzioni particolarmente incisive, ma, come abbiamo visto, se ne trovano esempi ancora nel 1973. Ciò dipende almeno in parte dal fatto che nel corso degli anni Sessanta il film industriale ha raggiunto uno statuto testuale autonomo, stabilendo un codice linguistico audiovisivo che gli permette di superare la crisi o addirittura di trarne vantaggio, dato la trasformazione in prodotto di nicchia favorisce tendenzialmente le produzioni di carattere avanguardistico. 23 Cfr. Fabrizio Borin, Paolo Cattelan, Paolo Pinamonti, Sandro Miceli, Retroscena di “Acciaio”. Indagine su un’esperienza cinematografica di Gian Francesco Malipiero, Olschki, Firenze, 1993; Marcia Landy, L’immaginario tecnologico all’epoca del fascismo, in Leonardo Gandini (a cura di), La meccanica dell’umano. La rappresentazione della tecnologia nel cinema italiano dagli anni Trenta agli anni Settanta, Carocci, Roma, 2005, pp. 23-24.
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Tra le ragioni della fine della stagione del film industriale, ne vanno ricordate almeno tre. In primo luogo nei primi anni Settanta emergono istanze fortemente critiche sulle conseguenze del processo di industrializzazione selvaggia vissuto dall’Italia dagli anni del boom economico, riportabili alle tematiche ambientaliste, oltre che alla riflessione sulla condizione operaia: l’alienazione nei già citati cortometraggi di Ansano Giannarelli, la salute nel documentario La salute in fabbrica (Giuseppe Ferrara, 1972). A questa visione critica si riallaccia anche, nell’ambito del cinema di fiction, l’amara riflessione sul tema della fabbrica di La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, 1971). Tali istanze mettono direttamente in discussione l’ideologia che ha sostenuto per oltre un decennio la produzione di film industriali. Un secondo aspetto, più sostanziale, deriva dal fatto che gli anni Settanta sono per l’Italia un periodo di stagnazione economica e a tratti di vera e propria recessione, a causa della crescita dell’inflazione, innescata in primo luogo dalle ripetute crisi petrolifere; ciò naturalmente non incoraggia gli investimenti delle aziende nella comunicazione cinematografica. Un terzo elemento va infine individuato nell’inizio di quel processo di “spottizzazione” che consegue allo spostamento dell’attenzione delle imprese dal cinema alla comunicazione televisiva, virando decisamente il fulcro del messaggio dai valori culturali, storici e sociali dell’impresa industriale e dai processi di produzione alla mera presentificazione del prodotto, strettamente finalizzata alla sua vendita presso ampi strati della popolazione24. Ciò assesta indubbiamente il colpo decisivo alle intenzioni scopertamente avanguardistiche che avevano caratterizzato il film industriale “sperimentale” degli anni Sessanta.
Cfr. Luigi Boledi, Elena Mosconi, Il film industriale, in Raffaele De Berti (a cura di), Un secolo di cinema a Milano, Il Castoro, Milano, 1996, pp. 295-311.
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Una musica per l’uomo in fuga: suggestioni melodrammatiche nel “British Noir” di Matteo Giuggioli Verso un modello teorico1 La questione dei rapporti tra suono e generi cinematografici sarà trattata in questo saggio attraverso l’analisi del film Odd Man Out (Il fuggiasco, Carol Reed, 1947), un capolavoro riconosciuto del noir britannico2. Prima di procedere con l’analisi esporrò alcune considerazioni teoriche che ho sviluppato durante le varie fasi della ricerca e che del mio lavoro analitico costituiscono la premessa teorica. Afferrare i generi cinematografici non è facile se si esce da una concezione essenzialista, orientata a concepirli come classi stabili definite da regole e caratteristiche testuali ricorrenti, classi che possono essere descritte nella loro evoluzione nel tempo sulla base di modelli evoluzionistici3. Una visione sincronica di questo tipo suppone in partenza un assioma: che i generi esistano – che abbiano cioè valenza ontologica – e che siano lo strumento indispensabile dell’industria cinematografica per governare e ordinare il sistema di intrattenimento al quale sovraintende. L’assioma sorregge molte storie e molte letture analitiche dei generi e appare incontrovertibile soprattutto per l’industria hollywoodiana. A Hollywood i generi nascono, crescono e muoiono, si moltiplicano e si ramificano in un moto costante basato sulla creazione di attese e sulla mediazione delle Questa ricerca si è svolta nell’ambito delle attività di European Network for Musicological Research, patrocinato dall’Università di Pavia; Humboldt Universität zu Berlin; Royal Holloway, University of London. Ringrazio Gianmario Borio, che ha sostenuto e coordinato il mio progetto. 2 Si veda in proposito la voce dedicata al film in Michael F. Keaney, British Noir Guide, McFarland, Jefferson (North Carolina)-London, 2008. 3 Tra i contributi più recenti si vedano Jean-Loup Bourget, I generi hollywoodiani: morte e trasformazione, in Gian Piero Brunetta (a cura di) Storia del cinema mondiale, Volume II, Gli Stati Uniti, Tomo II, Einaudi, Torino, 2000, pp. 1535-1567; Steve Neale, Genre and Hollywood, Routledge, London-New York, 2000; Barry Langford, Film Genre: Hollywood and Beyond, Edinburgh University Press, Edinburgh, 2005. 1
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istanze culturali del contesto che ospita la realizzazione dei film. Nel frattempo, e questo è il loro principale portato sociale, veicolano ideologie emanate dall’industria, e favoriscono lo stabilirsi di riti nel pubblico che li riceve. L’abbandono di questo punto di vista non comporta lo smantellamento dell’assioma, che anzi si ripropone come uno dei cardini della dialettica rilevata da una visione diacronica del fenomeno. D’altra parte, appare subito evidente che la lettura in chiave storica del fenomeno dei generi cinematografici porterà all’apertura di molte più domande sul loro statuto di quante siano le risposte. Alle lunghe linee di continuità nel tempo tracciate riscontrando analogie nel contenuto e nello stile in certi gruppi di film, si sostituisce l’impressione di un percorso tortuoso, talvolta addirittura lacunoso, in cui la realizzazione di ogni film implica un ventaglio di risultati possibili. Come in un lancio di dadi, il risultato è aperto, seppure all’interno di un numero finito di possibilità. Ai punti fermi e alle linee conduttrici di un quadro assestato subentra allora un movimento sussultorio, dominato dalle dinamiche della negoziazione tra i tre poli o attori sociali di quello che può definirsi come il processo della “generificazione”: la produzione, il pubblico e la critica. L’assegnazione alla critica di un ruolo centrale in tale processo è una delle maggiori intuizioni di Rick Altman, lo studioso che più di tutti ha contribuito alla costruzione di un punto di osservazione non essenzialista sui generi cinematografici4. Se il rapporto tra la sfera della produzione e la sfera della ricezione composta dal pubblico conduce alla ridefinizione continua dei generi, la sfera della ricezione composta dalla critica partecipa in modo non meno decisivo al processo, stabilendo categorie e raggruppamenti che incidono anche sulla produzione in corso, dal momento che contribuiscono all’edificazione dell’immaginario. Altman evidenzia come prospettive storiche e sociali diverse sui generi conducano ad acquisizioni non corrispondenti. Le linee di continuità di genere potranno essere reperite solo mediante uno sguardo retrospettivo, che è lo sguardo tipico della critica. Uno sguardo che al contrario sia proiettato in avanti porta alla constatazione del moto sussultorio cui accennavo in precedenza, un moto incessante che nella mole delle incertezze che lo costellano trova la sua profonda e inesauribile vitalità creativa. Anche uno sguardo di questo tipo mantiene una parte di retrospettività, poiché i generi non nascono mai dal Cfr. Rick Altman, Film/Genre, The British Film Institute, London, 1999 (tr. it. Film/ Genere, Vita e Pensiero, Milano, 2004).
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nulla, e l’innovazione si inserisce sempre in un processo di derivazione. Capire in che senso i generi esistano e stabilire con esattezza le loro coordinate diviene un’impresa meno scontata. Come puntualizza Altman:
Ivi, p. 125. Francesco Casetti, Ruggero Eugeni, Altman e l’ornitorinco. Costruire e negoziare i generi cinematografici, Introduzione a Rick Altman, Film/Genere, cit., pp. XVIIXVIII.
conto non solo degli aspetti socio-culturali del processo di generificazione, ma anche degli aspetti testuali, tra i quali il suono e in particolare la musica sono elementi cruciali. L’analisi dei film condotta secondo i presupposti teorici che ho richiamato non costituirà solo un passo necessario per comprendere le vicende della negoziazione tra i poli sociali coinvolti nel processo di generificazione, ma consentirà di fare luce anche su altre vie della significazione battute da quel processo, che si presentano non meno tortuose e non meno interessanti. Per rilevarle mi sembra opportuno integrare l’approccio semantico/sintattico/pragmatico di Altman con una più attenta esplorazione delle caratteristiche della messa in forma cinematografica, momento da considerarsi anch’esso nella sua processualità, non come complesso statico. Semantica, sintassi e pragmatica così come li concepisce Altman sono in definitiva aspetti diversi della stessa dimensione, ossia l’impianto tematico del film, colto rispettivamente nelle differenti sfaccettature della consistenza tematica, dell’equilibrio tematico, e della sua ripercussione concreta sul piano della comunicazione. La messa in forma è il momento in cui le tre dimensioni individuate da Altman collaborano nel dare vita a un unicum: il film, nel suo equilibrio strutturale complessivo. Nel processo si imprime il profilo irripetibile del film, il suo farsi variante figurale (intendendo il termine “figura” nel significato che gli attribuisce la narratologia di Genette). Gli aspetti legati al genere sono coinvolti nella definizione di un profilo non replicabile, neppure con un remake scrupoloso, che introdurrà una variazione anche solo in ragione del proprio anacronismo rispetto al modello. Tali aspetti, che obbediscono alla dialettica tra il repertorio dei tratti potenziali e la loro configurazione concreta nel film, permettono di istituire dei tragitti tra le creazioni. In termini di genere i tragitti possono essere trasversali, ovvero possono eccedere i limiti del genere stesso, poiché nell’atto della configurazione testuale si possono intrecciare, come i fili in un tessuto, elementi di generi diversi. L’approccio analitico che intendo proporre fa riferimento a una concezione dialogica, che individua una sorgente del senso nella tensione tra gli elementi potenziali e ricorrenti del genere chiamato in causa e la loro attuazione concreta nel film. Anche nei casi di tensione bassa o nulla, che si hanno quando l’impianto filmico si rimette completamente ai cliché di un genere, essa è uno dei pilastri della propulsione creativa del discorso che si sviluppa con il film. La tensione si moltiplica quando i generi chiamati in causa sono più di uno: alla tensione tra i tratti potenziali e i tratti configurati si aggiunge la tensione provo-
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Affinché un genere possa esistere, è necessario che venga prodotto un cospicuo numero di testi e che questi siano ampiamente distribuiti, esibiti a un pubblico vasto e assimilati in modo piuttosto omogeneo. La tradizionale critica di genere tendeva a trattare un singolo aspetto di questo processo come rappresentativo dell’intera situazione. Tuttavia, nessuna parte isolata di questo processo costituisce effettivamente il genere; piuttosto, il genere si trova da qualche parte nel flusso complessivo del significato che costituisce il processo. In quanto prodotto secondario di un’estesa serie di eventi, un genere deve essere definito in modo coerente con la complessità di una situazione determinata da eventi tridimensionali intervallati nel tempo e nello spazio5.
L’analisi del film interessata agli aspetti di genere, come dimostra l’approccio semantico/sintattico (poi ampliato dall’autore al versante pragmatico) proposto da Altman, si colloca alla confluenza dei due sguardi, quello retrospettivo della critica e quello proiettato in avanti e insieme retrospettivo della sfera della produzione. La rete intertestuale fatta di influssi, ricorrenze, attese, che ogni film attiva in quanto produzione, quindi in quanto realtà storica, e che potrà essere valutata nei suoi aspetti materiali e strutturali attraverso quell’approccio, elargisce informazioni utili se osservata da entrambe le prospettive. Riflettendo sulla trattazione di Altman, Francesco Casetti e Ruggero Eugeni sostengono ragionevolmente che il destino della teoria dei generi cinematografici, come luogo esemplare dell’intera teoria del cinema, è forse quello di farsi narrativa: una teoria capace di discernere, all’interno della storia del cinema, reticoli di storie trasversali da consegnare alla narrazione6.
Credo che la sfera narrativa così rilevata possa essere efficace per dare 5 6
cata dall’incontro tra richiami a generi diversi. L’incontro tra elementi riconducibili a generi diversi porta a un allontanamento rispetto al genere predominante, che arricchisce la produzione di senso del film. Nel gioco delle costanti e delle varianti si istituisce in definitiva la tensione che dà al film un equilibrio peculiare e che spetterà all’analisi osservare e in qualche modo misurare.
Noir e British Noir Sulla base di queste premesse presenterò ora l’analisi del Fuggiasco, diretto da Reed per la compagnia di produzione inglese Two Films. Il film è comunemente ascritto al genere noir, un genere dalla definizione di per sé problematica. La prima individuazione del noir come genere avviene nel dominio della critica, per cui già in partenza è frutto di uno sguardo retrospettivo. Furono i critici cinematografici francesi Nino Franck e Jean-Pierre Chartier a proporla in due articoli pubblicati nel 1946. L’individuazione del genere avvenne in modo pressoché inconsapevole: i due critici si limitavano a registrare delle analogie, pertinenti ai piani che ricorrendo alla terminologia di Altman potremmo oggi indicare come semantico e sintattico, in alcuni crime film americani a loro coevi. Entrambi rimarcavano lo smantellamento, in quei film, dell’ingranaggio poliziesco e della figura rassicurante del suo amministratore, l’ispettore inteso come macchina pensante, in favore di una innovativa e certo più emozionante immersione nelle realtà torbida del crimine metropolitano. Il dibattito critico sul noir non avrebbe seguito una traiettoria rettilinea e sarebbe stato vessato nei decenni successivi da dubbi relativi all’identità stessa del genere. Il noir è un genere? È uno stile? È un ciclo di film? sono tra le domande più ricorrenti negli studi, che tuttavia, anche se talvolta in negativo concordano sugli aspetti che accomunano una lista abbastanza condivisa di film, da The Maltese Falcon (Il mistero del falco, John Huston, 1941) a Touch of Evil (L’infernale Quinlan, Orson Welles, 1958), per citare due titoli piuttosto distanti nel tempo. Generalizzando molto, i tratti salienti del noir, desunti in gran parte dalle fonti letterarie cui il genere attinge, possono essere reperiti, sul piano tematico, nel clima di disfacimento che pervade la rappresentazione, disfacimento esistenziale e morale che emerge dalle relazioni morbose, corrotte e violente intrattenute da una ben nota galleria di personaggi, dalla femme fatale all’investigatore privato intem-
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perante, al grande capo criminale celato nei panni di membro rispettabile della buona società. L’ambiente più consueto al genere, sfondo ideale di quel tipo di relazioni, è la metropoli americana, trasformatasi, da utopico regno del riscatto personale da una condizione disagiata, o comunque da una situazione critica, in contenitore labirintico di solitudini disperate e disilluse. Sul piano stilistico la caratteristica più appariscente del genere è la rifusione in un diverso contesto produttivo e comunicativo di stilemi desunti dal cinema moderno europeo e soprattutto dal cinema espressionista tedesco – un’esperienza da cui provengono peraltro numerosi operatori, emigrati negli Stati Uniti negli anni della dittatura nazista7. Se la definizione di genere del noir americano presenta numerose insidie, ancora di più ne presenta la definizione del contemporaneo noir europeo. Una delle esperienze più notevoli, se non la più notevole, è il noir inglese, il cui statuto di genere è oggi affermato con decisione da molti studiosi8. Della commistione tra melodramma psicologico cruento e modernismo stilistico che, come riassume efficacemente Naremore, caratterizza il noir, la variante inglese esalta soprattutto il primo elemento, forte di una propria tradizione cinematografica ispirata al romanzo gotico. Il melodramma gotico, incentrato sulla stridente messa in scena dell’ipocrisia della società vittoriana, è una delle quattro categorie principali in cui Andrew Spicer suddivide la produzione dei noir inglesi. Le altre sono il thriller psicologico, che ha di solito per protagonista un reduce di guerra o un sopravvissuto a un’esperienza altrettanto terribile tormentato dai propri traumi; il crime thriller, basato perlopiù su vicende losche che si svolgono sullo sfondo del dissesto post-bellico; il semidocumentario concentrato sui problemi sociali più recenti.
Sulla definizione problematica del genere noir, sulla sua storia, sui suoi temi ed elementi stilistici ricorrenti si rimanda a James Naremore, More Than Night: Film Noir in Its Context, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1998; Andrew Spicer, Film Noir, Pearson Education, Essex (England), 2002; Renato Venturelli, L’età del noir. Ombre, Incubi e delitti nel cinema americano, 1940-60, Einaudi, Torino, 2007. 8 Cfr. Steve Chibnall, Robert Murphy, British Crime Cinema, Routledge, LondonNew York, 1999; Tony Williams, British Film Noir, in Alain Silver, James Ursini (a cura di) Film Noir Reader 2, Limelight, New York, pp. 243-270; Andrew Spicer, Film Noir, cit., pp. 175-200; Robert Murphy, British Film Noir, in Andrew Spicer (a cura di), European Film Noir, Manchester University Press, Manchester, 2007, pp. 84-112. 7
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«Johnny’s Walk»: il criminale/eroe e il suo tragico destino
to da William Alwyn, Il terzo uomo da Anton Karas, Accadde a Berlino da John Addison. La discordanza più evidente tra le tre colonne sonore è costituita dalla sostituzione, nel secondo, della più usuale – non solo in termini di genere ma in relazione all’intero panorama produttivo del cinema inglese di quel momento – veste sinfonica, per di più rinunciando a una firma prestigiosa come quella di Alwyn, con le improvvisazioni di uno strumento sconosciuto nella Gran Bretagna dei tardi anni Quaranta almeno quanto l’esecutore/compositore che fu coinvolto nella realizzazione del film. Lo strumento è lo Zither, un salterio usato nella musica popolare della Germania meridionale, dell’Austria e della Slovenia, il musicista l’austriaco Anton Karas9. Reed lo sentì suonare per la prima volta al party di benvenuto offerto dalla produzione alla troupe del Terzo uomo al momento del suo arrivo a Vienna, città in cui avrebbe effettuato le riprese del film. Reed fu immediatamente colpito dal suono dello strumento e dalla musica di Karas, capaci di riportarlo con la memoria ai suoi giorni da soldato di stanza nella capitale austriaca durante la Seconda guerra mondiale. Dopo lunghi ripensamenti decise di affidare a Karas tutta la musica del film. Una scelta così ardita potrebbe forse trovare una tenue motivazione nella volontà da parte del regista di seguire il filone semidocumentaristico del noir britannico, abbinando, per aumentare l’effetto di verosimiglianza, alle immagini di Vienna devastata dalla guerra, un tipo di musica che poteva essere udito nelle sue strade in quella stessa epoca. La scelta però appare più significativa in quanto infrazione di una consuetudine di genere. Smantellando l’elemento sinfonico, subito ripristinato nel noir successivo, Reed destituisce il dialogo tra noir e melodramma, che, almeno sino a quel momento aveva dominato l’orizzonte espressivo del noir inglese improntando anche il suo approccio al genere. Nel Terzo uomo il regista orienta la tensione di genere nella direzione opposta, marcatamente antimelodrammatica. Sebbene l’unicità musicale del Terzo uomo incoraggi una lettura comparata dei tre film, in questo saggio ho preferito limitarmi al primo di essi, nella convinzione che fosse necessario, per comprendere il potere sovversivo della scelta meno convenzionale in relazione alle dinamiche di genere, indagare innanzitutto la configurazione dell’opera cinematografi-
Tra il 1947 e il 1953 Reed diresse tre film noir: oltre al Fuggiasco, The Third Man (Il terzo uomo, 1949) e The Man Between (Accadde a Berlino,1953), rifacendosi al genere, in modo più velato, anche in The Fallen Idol (Idolo infranto, 1948). Al pari del Terzo uomo, il suo film più famoso e uno dei maggiori successi di sempre del cinema britannico, Il fuggiasco è, come già anticipavo in apertura del saggio, sicuramente tra i capolavori riconosciuti del noir inglese. Minore fortuna, sia di pubblico che di critica, arrise invece ad Accadde a Berlino, film minato da evidenti problemi di coesione narrativa. Il film era stato concepito con l’intento di duplicare il trionfo commerciale del Terzo uomo, ma l’operazione riuscì solo in parte. Accadde a Berlino presenta tuttavia notevoli motivi di interesse, se letto in relazione alle dinamiche del genere del noir britannico nella declinazione personale di Reed, costituendo una sorta di punto di incontro tra i due film precedenti del regista. Se del Terzo uomo riprende lo scenario post-bellico dell’Europa continentale costellato di spie, mediatori, contrabbandieri, del Fuggiasco ripropone l’attore principale James Mason, cui è affidato ancora una volta il ruolo del protagonista, e ne desume il respiro tragico. Il legame più forte tra i tre film si ravvisa nella condivisione del tema narrativo centrale, quello dell’uomo in fuga, uno dei temi più cari al noir inglese. A esso corrisponde, sul piano stilistico della scrittura cinematografica una forte omogeneità della componente visiva, essenziale per l’attribuzione immediata dei film al genere noir. Il cinematographer del Fuggiasco e del Terzo uomo era stato l’australiano Robert Krasker (con il secondo film vinse il premio Oscar), la cui arte risentiva fortemente dell’influsso dell’espressionismo tedesco, mentre per Accadde a Berlino Reed si avvalse di Desmond Dickinson, che si attenne sostanzialmente allo stile del suo predecessore. Nel gioco delle costanti e delle varianti che investe i tratti di genere producendosi in una tensione creativa, la componente visiva è la costante più tenace dei tre film, capace di tracciare un percorso coerente nel noir inglese. Lo è nella fotografia, caratterizzata dal bianco e nero contrastato, dalla prevalenza dei toni cupi, dalle angolature vertiginose, come nel montaggio serrato. Al contrario, la musica è sicuramente una delle varianti più mutevoli e ciò invoglia a intraprendere una lettura analitica mirata a comprendere il suo apporto nella definizione del profilo di genere di questi film. Reed e i suoi produttori si rivolsero a tre diversi musicisti. Il Fuggiasco fu musica-
Sui rapporti professionali tra Reed e Karas si vedano John Hoare, The Third Man, York Press, York, 2000, pp. 58-59; Charles Drazin, In Search of The Third Man, Methuen, London, 2000, pp. 95-109. Ai due contributi, e a Rob White, The Third Man, British Film Institute, London, 2003), si rimanda per il resoconto delle fasi di realizzazione del film.
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ca che segna il punto di partenza del trittico di noir diretti da Reed e che costituisce un buon esempio della tendenza espressiva prevalente in quegli anni nel noir inglese. La vicenda del Fuggiasco verte sulle ultime ore di vita di Johnny MacQueen, un capo dell’IRA reduce dalla prigione. In una cupa Belfast, MacQueen organizza una rapina a una fabbrica tessile. Uscendo dall’opificio al termine della rapina egli si scontra con un agente e lo uccide con un colpo di pistola ma rimane a sua volta gravemente ferito. I compagni non riescono a trattenerlo nell’auto durante la fuga precipitosa. Sbalzato a terra dovrà quindi cercare rifugio da solo. Inizia in quel momento il suo percorso verso una fine tragica, una sorta di passione in cui il tormento per il senso di colpa, la ricerca della redenzione per il proprio atto criminale, la percezione allucinata e dolorosa della durezza dell’ambiente urbano e della sua popolazione si alternano senza tregua. Il film rientra appieno nel filone dei thriller psicologici, il secondo suggerito da Spicer per il noir inglese. La figura principale è la più tipica per la categoria, il reduce, e la trama verte tutta attorno al suo rovello interiore. I motivi più tipici del noir, sia americano che inglese, ricorrono: la città tentacolare e ostile; il notturno, piovoso poi addirittura innevato; il crimine che fa da innesco all’indagine sugli atteggiamenti etici di coloro che sono toccati dalla vicenda (non meno importante del cammino della coscienza di Johnny è l’insieme delle reazioni, di carità moderata e infastidita, e comunque mai del tutto sincera, delle persone con cui egli viene a contatto durante la lenta fuga); la perfidia corrotta della buona società riposta sotto maniere educate (la signora anziana presso cui due compagni di Johnny cercano aiuto per il proprio capo ferito dopo la rapina, in teoria amica di uno di loro, li consegna alla polizia, che li uccide appena usciti dalla casa); la dimensione onirica (evidente nelle allucinazioni di Johnny ferito); l’attenzione su personaggi collocati ai margini della società (il terzetto composto da Shell il vagabondo, Luckey il pittore e Tober il dottore mancato). Sul piano sintattico poi il lavoro di Krasker e la composizione di Reed non lasciano dubbi, si tratta di un noir di raffinatissima foggia10. Spetta al suono, e soprattutto alla musica, protendersi per dare un contrassegno peculiare al film, forzando il dialogo tra gli elementi potenziali e la loro attuazione e innescando la tensione tra generi diversi. Alcuni
spunti narrativi e il modo in cui si sviluppano nel concreto del film già fanno capire che il noir è in dialogo con il melodramma. O meglio, che il melodramma, una delle forze latenti del genere, ha urgenza di emergere sotto la compatta superficie dell’avventura criminale. I suoi motivi principali risiedono nell’amore tra Johnny e Kathleen, profondo ma reso impossibile dalla “ragione di stato”, che allontana fatalmente il capo della cellula dell’IRA dalla ragazza, e nell’elaborazione del senso di colpa di Johnny per l’omicidio commesso nei confronti di un innocente, cui si unisce il presentimento di ciò che dovrà compiersi, ovvero che egli non potrà sopravvivere. Nei motivi melodrammatici insomma si imprime la vera essenza della personalità del protagonista, un uomo di alta levatura morale, costretto al crimine dalle circostanze storiche in cui si è trovato a vivere. L’elemento che riesce a proiettare con forza la rappresentazione verso il melodramma è però la musica, affidata al magniloquente sinfonismo della partitura approntata da Alwyn, celebre compositore inglese e autore prolifico anche di musica per il cinema. La musica interviene sul doppio livello semantico/sintattico. Sul piano semantico fornisce di temi della giusta caratura espressiva i personaggi di Johnny e di Kathleen11. Il tema di Johnny però domina la partitura, in conformità alla prassi coeva della musica per film inglese. Anteponendo la chiarezza narrativa alla esuberanza della componente musicale, i compositori inglesi, pur impiegando la tecnica del Leitmotiv, ne arginarono le possibilità di proliferazione tematica, che invece furono calcate dai compositori di Hollywood. La minore quantità di temi comportava un impianto formale della musica completamente diverso, con un maggiore spazio per lo sviluppo motivico e per la ricerca coloristica degli impasti orchestrali12. Questo si ripercuote sul rapporto tra la musica e la narrazione visiva e verbale, con la musica che dà un minore impulso all’azione, mentre rafforza o addirittura introduce linee narrati-
10 Per una lettura complessiva del film attenta alle sue caratteristiche stilistiche si veda Dai Vauhan, Odd Man Out, British Film Institute, London, 1995.
Fortunatamente, per lo studio della musica del Fuggiasco è a disposizione lo schizzo autografo completo della colonna sonora conservato nell’archivio Alwyn che si trova presso la biblioteca dell’Università di Cambridge: William Alwyn, Odd Man Out: Piano Sketches, Alwyn Archives, Cambridge University Library, numero di catalogo 1.1.76. Gli esempi musicali presenti in questo articolo sono mie trascrizioni dagli schizzi di Alwyn. Il contributo principale sull’opera di Alwyn per il cinema è: Ian Johnson, William Alwyn: The Art of Film Music, The Boydell Press, Woodbridge, 2006. Il capitolo tredicesimo del libro di Johnson (pp. 145-158) è dedicato alla musica del Fuggiasco. 12 Su questi aspetti si veda Jan G. Swynnoe, The Best Year of British Film Music, 1936-1958, The Boydell Press, Woodbridge, 2002, pp. 30-55.
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ve collegate all’interiorità dei personaggi principali. La concezione che prevale nelle composizioni per il cinema di Alwyn non si discosta da tali principi. Il tema di Johnny (Fig. 1) e il trattamento cui è sottoposto lungo il percorso del film ne sono un esempio eccellente. Compreso in un arco di 20 battute, il tema si suddivide in cinque segmenti e si articola secondo la struttura di un periodo di 16 battute (4+4)+(4+4) più una coda che riprende, riepilogando, il tratto iniziale. Il complesso motivico è abbastanza ampio per dare luogo a un consistente processo di elaborazione. Nella curvatura melodica compassata e nei colori orchestrali cangianti ma sobri dei diversi episodi in cui compare ed è armonizzato, il tema sembra voler dare un ritratto dell’interiorità del protagonista, un uomo che non perde il proprio contegno neppure di fronte allo strazio del martirio. Già nei plumbei colpi di timpano che introducono il suo esordio sui titoli di testa del film e nell’andamento solenne che ne contraddistingue il profilo, il tema richiama ineluttabilmente, alludendo a una marcia funebre, alla tragicità intrinseca della vicenda personale di Johnny. L’allusione è precisata da Alwyn, che accompagna lo schizzo della linea melodica del tema con l’indicazione: «Tempo di marcia funèbre» (cfr. Fig. 1). Al tema di Johnny è strettamente connesso il tema di Kathleen, in pratica una sua concisa derivazione. Poiché la disperata vicenda di Johnny è il punto di riferimento anche per questo tema, sembra giusto definirlo non tanto come il tema di Kathleen quanto come il tema del suo amore impossibile per Johnny. Il gesto eloquente del suo profilo melodico e armonico, aperto e tendente alla progressione continua, suggerisce l’anelito a un idillio amoroso che non potrà mai verificarsi. Non meno efficace è la disposizione dei temi nella sintassi del film. Il calvario di Johnny si snoda in una serie di momenti analoghi, variazioni di uno stesso spunto narrativo: il capo dell’organizzazione noto ai concittadini, braccato dalla polizia per un omicidio e ferito a morte cerca un riparo nella speranza di conservare forze sufficienti per arrivare alla casa di Kathleen. Tutte le persone che incontra sul suo cammino gli danno inizialmente un piccolo aiuto, ma quasi subito si mostrano infastidite e impaurite della sua presenza e cercano di sbarazzarsi di lui. Così Johnny è costretto a ripartire per una nuova tappa, sempre più sfinito e allucinato. La musica interviene, con il tema principale frammentato, variato, o, più sporadicamente, riproposto nella sua conformazione d’origine, ogni volta che il fuggiasco si mette in cammino, rendendo evidente la costruzione a blocchi del film e scandendo l’evoluzione narrativa della lenta marcia
del protagonista verso la propria fine. Come esempio di questo processo di elaborazione musicale e narrativa a episodi, si consideri l’apparizione del tema nella sequenza d’azione in cui Johnny è sbalzato fuori dall’automobile durante la fuga dopo il colpo, sequenza che segna l’inizio del suo cammino verso la morte (Fig. 2). Il tema entra alla fine di battuta 34 con la sua caratteristica anacrusi (note: si4-re3-mi3). Il profilo delle sue prime due cellule motiviche – oltre all’anacrusi con l’approdo su fa#3, lo spunto tra le battute 35 e 36 sulle note mi3-re3-mi3 – si insinua nel nuovo contesto musicale fondendosi con la musica d’azione e caricandosi di una sfumatura eroica. L’apparizione del frammento tematico sottolinea lo sforzo, non solo fisico, ma anche morale del protagonista, che, fallito il colpo e scosso dal probabile omicidio dell’agente di polizia, fa appello alle energia residue per raggiungere un rifugio (cfr. Fig. 2). Conformemente ai canoni del melodramma cinematografico, più che a quelli del noir, la musica, nel Fuggiasco, si fa veicolo essenziale per il coinvolgimento emotivo dello spettatore nella vicenda e cardine del sistema delle attese. Relativamente a questo punto bisogna sottolineare che il tema di Johnny inizia a farsi sentire addirittura prima dell’inizio del film, sul certificato della censura. Debordando dai confini convenzionali della rappresentazione il tema musicale va a preannunciare il clima del racconto che sta per iniziare imponendosi con la forza di un narratore onnisciente. Questa estrema anticipazione della musica, quasi a volerne fare la sorgente più remota della narrazione, è concepita da Alwyn sin dallo schizzo al pianoforte. Sull’autografo pianistico della sezione «Main Titles» compaiono le indicazioni dei momenti esatti nei quali la musica deve coincidere con il segnale di cortesia per il pubblico, con il logo della casa di produzione, infine con i titoli di testa. Quanto il racconto sia in pugno alla partitura sinfonica emerge nel finale del film. Come in un finale operistico la musica di commento, con il tema di Johnny che circola ripetutamente lasciando spazio solo a una breve apparizione del tema di Kathleen in concomitanza dell’incontro tra i due, non si arresta mai. Gli unici “vuoti” musicali (già segnalati nelle schizzo al pianoforte), di pochi attimi ciascuno, si hanno sul segnale sonoro della nave in partenza – che rappresenta la salvezza di Johnny e Kathleen, salvezza irraggiungibile perché il fuggitivo è allo stremo delle forze e la polizia sta arrivando per arrestarlo – e sul colpo di pistola esploso dalla ragazza in direzione dei poliziotti, che innescherà la loro reazione e porterà all’uccisione dei due personaggi principali. Gli ogget-
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ti sonori tuttavia, e ciò era avvenuto anche all’inizio con i colpi di gong della sigla audiovisiva della casa produttrice, sono inglobati dalla partitura quasi fossero inseriti in essa. Rispondendo prevalentemente a codici melodrammatici e amministrando sulla scorta di questi l’asse delle attese, la musica fa del noir incentrato sulla vicenda avventurosa del criminale braccato un appassionato e sanguinoso melodramma del destino. Assieme all’allusione religiosa contenuta nel monologo sul principio della carità che Johnny recita nel suo penultimo delirio (il monologo è tratto dalla lettera di San Paolo ai Corinzi) e all’alone allegorico dell’intero dramma, la musica, grandiosa (Alwyn parlava di un «big score»), conferisce al film il tono di un alto apologo morale. Il carattere ciclico della partitura, con il finale identico all’esordio, fa del racconto cinematografico una parabola della predestinazione del criminale/eroe. Attraverso la musica comprendiamo che il cammino di Johnny verso la propria fine – sullo schizzo Alwyn intitola il finale musicale «Johnny walks to his death» o, più brevemente, «Johnny’s walk» – inizia prima del progetto stesso dell’azione criminale, pertanto è scritto nel suo destino. Poco tempo dopo l’uscita del film, il critico Charles Drazin, con un certo disappunto, scrisse un commento ironico sulla partitura di Alwyn, definendola il suo «più alto esempio di stile epico-biblico», per sottolineare evidentemente quanto gli sembrasse inadeguato accompagnare con una composizione tanto grandiosa un film d’azione13. Drazin reputava troppo fuori codice la musica rispetto all’impianto generale del film. Così facendo, e l’analisi ce lo dimostra, in realtà rendeva conto della tensione che al film dà un profilo espressivo peculiare.
Dal Meraviglioso all’Antimusica: su alcuni cliché del Fantastico nel mainstream musicale hollywoodiano di Ilario Meandri I resisted those kind of chords progression for years. I would hear them in horror movies and I would hear them in Goldsmith and in John Williams. I still hear them. But I resisted and resisted. It became self-deceiving in a way. I was in a kind of denial about it, because audience, director producers – everybody watching the movie – has certain expectations. […] there is a sound to that sequence that, when tied to an image, particularly when tied to a spectacular, ultra-large image, is hard to resist. […] We all know that sometime cliché is the best way to go. (James Newton Howard)1
Stargate (Roland Emmerich/David Arnold2 , 1994). Varcata la soglia dello stargate, destinazione ignota, l’unità di spedizione capeggiata dal colonnello O’Neil si ritrova in un universo parallelo. Con una circospezione militare in pieno stile anni ’90 O’Neil, l’archeologo Jackson e l’equipaggio escono dallo stargate. Le mura di un tempio in pietra, un deserto. Un totale del luogo attraversato dagli argonauti è per il momento attentamente occultato al nostro sguardo, la tensione nel fuoricampo è preparata dal crescendo musicale, in un classico découpage, la mdp andrà a cercare il primo piano dei volti, le reazioni dei protagonisti di fronte alla location fantastica che sta per essere svelata anche a noi. Una serie di cut sui volti di O’Neil e James Newton Howard in Michael Schelle, The Score: Interviews with Film Composers, Silman-James Press, Beverly Hills (CA),1999, pp. 192-193 [corsivo mio]. 2 Nel seguito dello scritto accanto al nome del regista comparirà sempre quello del compositore. 1
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Jan Johnson, William Alwyn, The Art of Film Music, cit., p. 157.
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Jackson (prima e seconda immagine in Fig. 1) – e poi la Spannung musicale: un hard hit3 sullo stacco in CLL, l’autentico momento mostrativo (si vedano le riduzioni armoniche in Fig. 1). Sullo stargate troneggia una piramide (terza immagine), dune in lontananza, in un cielo velato lune troppo grandi rivelano la propria natura di corpi celesti. Invariabile esibizione di un luogo paradossale, di un’alterità del tempo e dello spazio, cosmogonia oniroide e surreale, gli esempi proposti da Hollywood sono in tal senso illimitati4: ma eviteremo di moltiplicarli, concentrandoci invece su poche istanze, vale a dire su ricorrenze topiche di un underscore5 la cui retorica è oggetto che miriamo a circoscrivere nelle pagine che seguiranno. Star Trek II: The Wrath of Khan, (Nicholas Meyer/James Horner, 1982). La rivelazione fantastica segue un dialogo tra Kirk (William Shatner) e la ex moglie del capitano, la scienziata Carol Marcus (Bibi Besh). Il dialogo ha luogo presso una base di ricerca su Genesis, una luna ostile, incompatibile con la vita. Carol ritorna sulle ragioni della loro separazione, motivo melodrammatico ricorrente in Star Trek (tutti i capitani di vascello sono attraversati da questo nodo6, un tema caro al genere – maschile – che l’ha progettato): l’incompatibilità o per lo meno la difficoltà a conciliare maschile e femminile (anche in senso junghiano). Kirk, il suo mondo: Carol voleva impedire che il figlio crescesse con un padre sempre fuori, a dare la caccia ai suoi fantasmi in giro per la galassia, (l’Ahab di Moby Dick è il grande modello di solitudine sul quale spesso Star Trek riflette, con connes-
sioni anche esplicite7), sempre assente, missione dopo missione, emergenza dopo emergenza. Poi, Carol mostra a Kirk, un Kirk giunto all’apogeo dei suoi anni e ora vecchio, stanco e solo, il risultato di un progetto cui ha lavorato tutta la vita – dobbiamo leggere: Carol mostra a Kirk il suo mondo. Si prepara qui una rivelazione fantastica per il tramite di un femminile (un classico del patriarcato). CAROL: «Let me show you something that will make you fill young as when the world was new». Lo prende per mano (prima immagine, Fig. 2), e lentamente lo conduce attraverso un passaggio sotterraneo. A questo punto (~1:15:17) il cue8 comincia a preparare la rivelazione (prima trascrizione) e già insiste sulla relazione plagale caratteristica, qui una relazione tra la t e la sottodominante maggiore (t - S), cui segue, nel pieno canone di mise-en-scène, uno “stupore nel controcampo” (seconda immagine) e l’altrettanto canonico crescendo. Ma tutta la sequenza è a ben vedere preparatoria della risolutiva mostrazione (un momento simile è nel Venus di Holst dalla suite The Planets, Op. 32, misure 26-27, prima dell’Andante). La mostrazione giunge puntuale con un hard hit sullo stacco-al-Meraviglioso: un eden nell’aridità di una pianeta senza vita (ultima immagine) che è anche culmine del crescendo musicale. Due ultimi esempi aiuteranno a raccogliere ulteriori indizi. Il primo – The Hunt for Red October (John McTiernan/Basil Poledouris, 1990, riduzioni armoniche in Fig. 3) – pesca nell’action-adventure-thriller, a ricordarci che la gamma dei cliché del mainstream tende a scavalcare facilmente i confini dei generi, tratto distintivo dell’attuale tensione attraversata dal sistema dei generi hollywoodiani9. L’ibridazione dei generi è parallela a un’ibridazione tra topoi musicali proprio perché il narratore musicale predilige l’intertestualità
Privilegeremo ove possibile i termini emici correntemente utilizzati nella pratica produttiva hollywoodiana. Hard hit è termine tecnico utilizzato dalla prassi per definire un punto di sincronizzazione molto preciso, con uno scarto inferiore a 2/24 di secondo, convenzionalmente ritenuto soglia differenziale per una percezione dell’a-sincrono. Si veda per un inquadramento generale di questo e degli altri termini tecnici esposti: Fred Karlin, Rayburn Wright, On the Track: a Guide to Contemporary Film Scoring, Routledge, New York-London, 2004. 4 2010 (di Peter Hyams, 1984), Waterworld (Kevin Reynolds, 1995), Contact (Robert Zemeckis, 1997), The Time Machine (Simon Wells, 2002), per citare alcuni esempi. 5 Seguiamo nell’adottare questa categoria il suggerimento di Anahid Kassabian, Hearing Film. Tracking Identifications in Contemporary Hollywood Film Music, Routledge, New York-London, 2001, p. 45, e impieghiamo il termine underscore (anche dramatic scoring) nella stessa accezione in cui è impiegato pragmaticamente nella pratica hollywoodiana e nella manualistica per i compositori. La coppia source/underscore sostituisce nell’emica l’ambigua e problematica coppia diegetico/extradiegetico. 6 Il personaggio di Picard (Patrick Stewart), capitano della serie “Star Trek: The Next Generation” (1987-1994) è immancabilmente attraversato dai medesimi dilemmi di Kirk.
Una citazione esplicita in questo senso è in Star Trek: Nemesis (Stuart Baird, 2002). Cue è il termine tecnico che definisce i singoli brani sincronizzati e numerati secondo convenzione della prassi con la numerazione n|M|n: [ordine di apparizione]|M(=music)|[numero del rullo]. Tra i manuali consultabili si veda: Jeffrey Rona, Ronny Schiff, Scott Wilkinson, Synchronization, From Reel to Reel: A Complete Guide for the Synchronization of Audio, Film & Video, H. Leonard Pub., Milwaukee (WI), 1989. 9 Certo alcuni scavalcamenti restano impossibili, per riassumere in un solo esempio una questione complessa: le figuralità del Fantastico, nonché quelle dell’antimusica non ibrideranno nell’attuale equilibrio generico con il Romance hollywoodiano. Per un inquadramento sul sistema dei generi si vedano: Thomas Schatz, Hollywood Genres: Formulas, Filmmaking, and the Studio System, Temple University Press, Philadelphia (PA), 1981; Luca Aimeri, Giampiero Frasca, Manuale dei generi cinematografici: Hollywood, dalle origini a oggi, UTET, Torino, 2002.
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al fine di produrre le proprie asserzioni. Dunque dovremo sin da subito intendere il travaso da film a film, il ricorso a una modularità stereotipica, come strumento privilegiato di un logos, come metodo e non già tratto deteriore di questo sinfonismo. Il secondo esempio, tratto da King Kong (Peter Jackson/James Newton Howard, 2005, riduzioni e immagini in Fig. 4), riflette con grande esattezza su di una tensione che è sempre in qualche modo implicata nella mostrazione fantastica: la presenza in campo della macchina da presa di Denham è cioè un guardare che, in quanto ipermediazione, rimette in causa il nostro stesso guardare/ascoltare. Tensione verso l’Aperto, la mostrazione fantastica è sempre in qualche misura momento metanarrativo, nel quale è la stessa grandezza del cinema a rivelarsi: «JIMMY: Non è un racconto di avventura, vero signor Hayes?» «HAYES: No Jimmy; è tutt’altro»10.
Impossibile di fronte a questi esempi non tornare anche solo per un momento alla inesauribile lezione di Todorov sul Fantastico11. La tensione nel fuoricampo invariabilmente proposta dal découpage, prima dell’autentica mostrazione, conserva per esempio una traccia consistente della «hésitation» todoroviana («il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza»12); per tutti gli esempi che presenteremo invariabilmente il Fantastico risolve a un Meraviglioso, perciò ne adotteremo volentieri l’etichetta, avvertendo però che raramente le definizioni tipologiche di Todorov collimano alla perfezione con i nostri esempi. Nell’ambito di questo scritto, converrà mettere a tacere il demone della teoria13 e procedere empiricamente, cogliendo innanzitutto il gesto sostanziale, la generale retorica che informa questa gamma di cliché: mostrare, portare a visibilità un Meraviglioso; che a sua volta sarà votato all’espressione di un magnifico, mirabile, stupefacente, di un prodigioso: «rovine, reliquie,
rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti»14, strumenti, astronavi, tecnologie, paradossi del tempo, alterità. Non ha nemmeno senso stimare un inventario, quanto piuttosto comprendere tale mostrazione nel suo movimento generativo profondo, descrivibile in molti modi: pulsione, movimento erotico, sensuale, desiderio di fusione amniotica, «lost maternal chora» (Irigaray e Cixous in Flinn)15, «utopian thought» (sempre Flinn16); anelito verso l’«aperto» (Rilke), «unheimliche […] vibration de la réalité» (Cixous in Bellavita17) e, in un certo senso, «worldliness» (Kahn18). Svolto di preferenza in un ambito temporale piuttosto disteso – rivelazione topica, cuore della promessa spettacolare, una media delle sequenze esaminate si aggira sui tre, quattro minuti – per questa gamma di espressioni ricorrenti l’underscore dispiegherà interamente le risorse del proprio sinfonismo, pervenendo a una piena udibilità. Ciò che Kalinak descrive come: «music responding to the presence of spectacle with continuous playing and increased volume»19. Prima ancora Gorbman, prendendo a modello Williams-Rózsa-via-Holst20, vi dedicava un’intera funzione:
King Kong (~ 0:52). Ringrazio Emilio Sala per questo suggerimento. Impieghiamo Todorov consapevoli che la critica postmoderna ne ha profondamente ridiscusso gli assunti. 12 Tzvetan Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Seuil, Paris, 1970 (tr. it. La letteratura fantastica, Garzanti, Milano, 1981, p. 28). 13 Cfr. Antoine Compagnon, Le démon de la théorie: littérature et sens commun, Seuil, Paris, 1998 (tr. it. Il demone della teoria: letteratura e senso comune, Einaudi, Torino, 2000).
14 Cfr. Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura: rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Einaudi, Torino, 1994. 15 Caryl Flinn, Strains of Utopia: Gender, Nostalgia, and Hollywood Film Music, Princeton University Press, Princeton (NJ), 1992, p. 64. 16 Ivi, p. 93. 17 Andrea Bellavita, Schermi perturbanti: per un’applicazione del concetto di Unheimliche all‘enunciazione filmica, Vita e Pensiero, Milano, 2005, p. 168. 18 La categoria è citata da Maurizio Corbella in questo volume (Cfr. supra p. 40) ed è tratta da Douglas Kahn, Introduction: Histories of Sound Once Removed, in Wireless Imagination: Sound, Radio and the Avant-Garde, Cambridge-Massachusetts-London, MIT, 1992, pp. 1-30. Piego qui la categoria a un uso “illecito”, cioè per fenomeni assai distinti da quelli cui originariamente mira nell’accezione di Kahn e, se vogliamo, per descrivere un movimento inverso: la vocazione del sinfonismo musicale hollywoodiano, nei suoi statements monumentali, nei suoi massimi mostrativi, a farsi “carne, materia del mondo”, “mondità” (Questa inferenza a maggior ragione varrà per l’antimusica). 19 Kathryn Kalinak, Settling the Score: Music and the Classical Hollywood Film, University of Wisconsin Press, Madison (WI), 1992, p. 97 [corsivo mio]. 20 Sappiamo che Holst componeva le temp tracks di Star Wars, come al di là di ogni dubbio suggerisce la sequenza iniziale del primo episodio (1977). Il Marte dalla Sinfonia dei Pianeti è role model fondamentale per il cinema d’azione, da Star Wars sino al più recente reimpiego nel main title di Gladiator (Il gladiatore, Ridley Scott, 2000). Role model è termine emico discusso in Fred Karlin, Rayburn Wright, On the Track, cit., pp. 21ss.
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«Spectacle. […] Think of the orchestral grandeur of the theme in Star Wars that plays as spaceships speed through the galaxy»21, salvo poi relegare questa retorica spettacolare ai margini del canone critico22 delle «unheard melodies». Contro i limiti di questa teoria di campo dissentono i post-teorici – «yet one wonders if such claims to inaudibility are not overstated» (Smith)23 – ma a più di vent’anni dalla sua formulazione l’intuizione di Gorbman è ancora fertile, se una vasta gamma di espressioni musicali-filmiche possono effettivamente essere interrogate alla luce di questo paradigma. Proprio via Gorbman, Doran Eaton conduce recentemente uno studio sugli Unheard Minimalisms del cinema24: dal punto di passaggio obbligato (il tormentone di Reggio-Glass), sino a casi più interessanti di compositori cinematografici non minimalisti che impiegano tecniche minimaliste in specifici momenti dell’underscore. Nel pieno canone delle «unheard melodies» lo studio raggiunge i risultati più interessanti, tra gli altri, quelli di aver fatto luce sul rapporto tra minimalismo, distopia e costruzione dell’alterità culturale (e.g. in The Terminator [James Cameron, 1984], Artificial Intelligence: A.I. [Steven Spielberg, 2001], The Truman Show [Peter Weir, 1998], Gattaca [Andrew Niccol, 1997] ecc.). Ciò detto, molta retorica spettacolare del mainstream, fermiamoci anche solo a quella dell’action-adventure, si oppone radicalmente al paradigma dell’inaudibilità e «Spectacle» è categoria troppo generica in cui far rientrare figuralità musicali-filmiche caratterizzate da una retorica, nonché da un trattamento aurale (dunque da sfumature nella presenza e funzione attanziale della musica)25 affatto specifico. Ma il punto non è prendere le distan-
ze da Gorbman, piuttosto di ripensare il rapporto tra udibilità e inaudibilità come una dialettica fondante la «retorica del rituale» (nel senso di Beghelli26), una dialettica pertinente tanto al testo filmico quanto al rapporto tra il testo filmico con i suoi paratesti (e via sull’asse delle molteplicità transtestuali sistematizzate da Genette e prima ancora da Kristeva). Cercando non solo nell’underscore contemporaneo, infatti, ma anche nei suoi epifenomeni musicali, molteplici istanze dei cliché qui in esame si potranno rinvenire nei trailer, intesi insieme come paratesti e metatesti (Kernan)27, come «promessa di intrattenimento» (Hediger)28 in cui la paratestualità e la metatestualità sono veicoli rimediatici (nel senso di Bolter e Grusin)29, che articolano il dialogo tra «coming attraction» e canoni spettacolari vigenti, tra film e sistema dei generi. Mediante un costante riferimento a stereotipi e cliché esistenti, la grande Babele delle libraries impiegate dalla prassi30, autentico corrispettivo odierno di una Kinothek,
Claudia Gorbman, Unheard Melodies: Narrative Film Music, BFI-Indiana University Press, London-Bloomington (IND), 1987, p. 68 [corsivo mio]. 22 Sul rapporto tra categorie interpretative e canonizzazione da parte della storiografia e dell’ermeneutica, un’articolata riflessione è offerta in: Pietro Bianchi, Giulio Bursi, Simone Venturini (a cura di), The Film Canon. Proceedings of the XVII International Film Studies Conference, Forum, Udine, 2011. 23 Jeff Smith, Unheard Melodies? A Critique of Psychoanalytic Theories of Film Music, in David Bordwell, Noël Carroll (a cura di), Post-Theory: Reconstructing Film Studies, University of Wisconsin Press, Madison (WI) 1996, p. 230. Smith sostiene che il canone estetico delle «unheard melodies», principio estetico in un primo tempo generato dalla prassi, sia stato in seguito assunto in Gorbman. 24 Rebecca Marie Doran Eaton, Unheard Minimalisms: The Functions of the Minimalist Technique in Film Scores (PhD Dissertation, The University of Texas at Austin, 2008). 25 In quanto voce che racconta, la musica occupa nell’acusma un luogo coordinato a
quello di una voce narrante, ne simula le proprietà, ne riproduce una certa episteme della discorsività. La musica, esperienza che attraversa la quarta parete, esperienza a uso esclusivo del pubblico in sala, oggettiva l’immagine stabilendo un hic et nunc della narrazione (in termini greimasiani: un embrayage) distanziando da sé, mediante il ritorno a questo tempo e luogo del racconto, il racconto delle immagini come in una deissi. Differenti generi sperimentano diverse distanze musica/immagine, come ben sanno gli ingegneri del mix e gli stessi compositori, lo spazio aurale dell’azione è incomparabile con quello del romance, ma la collocazione nel campo aurale, una maggiore o minore prossimità agli eventi, è solo il punto di ingresso una questione più profonda: ogni genere progetta la presenza dell’orchestra sciogliendone il paradosso secondo i propri fantasmi attanziali (e.g. un golfo mistico nel romance vs una breccia che sempre è aperta tra diegesi ed extradiegesi nell’Antimusica. Cfr. infra pp. ???). 26 Cfr. Marco Beghelli, La retorica del rituale nel melodramma ottocentesco, Istituto Nazionale di Studi Verdiani, Parma, 2003. 27 Si veda per una discussione delle categorie genettiane implicate: Lisa Kernan, Coming Attractions: Reading American Movie Trailers, University of Texas Press, Austin (TX), 2004, p. 7. 28 Si veda su questo punto Vinzenz Hediger, La cartografia degli affetti. A proposito delle marche dei generi cinematografici nei trailer, «Comunicazioni Sociali», XXIV, 2, 2003, pp. 207ss. 29 Cfr. Jay David Bolter, Richard Grusin, Remediation: Understanding New Media, The MIT Press, Cambridge (MA), 2000. Per meglio definire ambito e accezione del termine in relazione ai fenomeni musicali in oggetto mi permetto di rimandare a un mio testo: Trailer Music as a Medium for Film Music Canon Synthesis/Film Music as a Medium for Film Genre Canonization, in Pietro Bianchi, Giulio Bursi, Simone Venturini (a cura di), The Film Canon, cit., pp. 229-239. 30 Mi riferisco alle librerie prodotte per la sonorizzazione dei trailer dalle grandi
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assimila all’interno della propria retorica i topoi del Meraviglioso, ricorrendovi accanto a molti altri, come a “indici” di loci spettacolari attraverso cui, (anche) per mezzo dell’efficacia sintetica della musica, il film negozia la propria appartenenza generica31. Solo una piccola parte di questa retorica spettacolare opera all’insegna dell’«inaudibility». In prospettiva, dunque, «[re-]think of the orchestral grandeur», come memoria emotiva di una ricezione, come dispositivo intermediale privilegiato per la rimediazione della spettacolarità del mainstream32; «[re-]think of the orchestral grandeur», come componente essenziale delle strategie promozione (Synergy33); «[re-]think of the orchestral grandeur» e ai suoi cliché, come figuralità musicali ricorrenti che anche in funzione della ripetizione finiscono per legarsi intimamente alle strutture narrative di cui sono espressione – il Meraviglioso insisterà per esempio attorno a specifici plot points di una sceneggiatura in tre atti e non ad altri – ready-made della significazione e del senso cui il compositore attinge, impiegandoli come moduli di una narratività musicale che, almeno per ciò che attiene alcuni generi del mainstream hollywoodiano, non è azzardato definire neo-epica (portato dell’oralità che informa la prassi compositiva e il medium stesso); «[re-] think of the orchestral grandeur», infine, come a una gamma di figuralità musicali ed espressioni topiche che, proprio perché incorporano narratività, si fanno portatrici di un’etica attraverso cui la musica, prima ermeneuta
del testo filmico34, partecipa al «rito di ordine» (Schatz35) interpretandone il telos36. Salmi è vicino a questo argomento quando rileva che risorse di questa grandeur spettacolare vengono rimediate dai compositori del cinema degli anni ’50 e ’60 – il sinfonismo post-wagneriano di Tiomkin e Rózsa, ça va sans dire – al fine di costruire il «senso della Storia», quella «historicity and universality»37 che pubblico e Studios si attendevano da kolossal del calibro di Ben-Hur (William Wyler, 1959) e The Ten Commandments (Cecil B. DeMille, 1956). La situazione non cambia negli anni ’80 e ’90 se, come sostiene Davison, «large scale orchestral force continued to be used in high production value Hollywood films […]»38. Di seguito fa un passo in più, estendendo forse arbitrariamente l’implicito di una categoria così smaccatamente hollywoodiana a fenomeni culturali per cui ha scarsa pertinenza, comunque centrando il punto: «[…] music as a signifier of high production values may be considered to have a much longer history, connected to the patronage of composers and musicians and aristocrats of the European courts which dates back at least as far as the Renaissance»39. Perché è vero, anche in film non di soggetto storico, mutate le età del cinema, anche cercando presso generi lontani da quelli di cui si occupa Flinn, il recupero di topoi sinfonico-romantici è sempre «nostalgia for a lost golden era»40, Storia e Universalità sono sempre soggetti metatestuali dello «Spectacle»; specchio della differenza sessuata che li
multinazionali della musica istantanea, e.g. Remote Control Production (ex Media Ventures), Immediate Music, Two Steps from Hell, X-Ray Dog, Magic Box Music, E.S. Posthumus, Pfeifer Broz. Music ecc. 31 Naturalmente la possibilità che il trailer menta non solo è ammessa, ma è organica alla dialettica tra audience e trailer (e ne informa peraltro la retorica). Su questo punto, come sostiene Vinzenz Hediger, La cartografia degli affetti, cit., p. 210: «[…] il trailer può permettersi di esagerare la quantità o l’intensità delle gratificazioni che gli spettatori possono attendersi dal film […]. Il trailer non può però mentire riguardo al tipo di gratificazioni che promette». 32 La spettacolarità del mainstream nutre per osmosi quella dei format televisivi. Per fermarsi a pochi esempi italiani, la trasmissione Un giorno in Pretura (Rai Tre) utilizza il main title di Van Helsing (2004) di Alan Silvestri. Dello stesso compositore Father of the Bride era Leitmotiv per Adesso Sposami (Rai Uno). Jerry Goldsmith (Air Force One) è stato un Leitmotiv delle prove di sopravvivenza delle prime edizioni de L’isola dei Famosi (Rai Due) e proprio i cliché di Dinosaurs presi in esame in questo scritto servono da anni Ulisse – Il piacere della scoperta (Rai Tre). 33 Una approfondita analisi storica sulle strategie musicali di «cross-promotion» del film è offerta da Jeff Smith, The Sounds of Commerce: Marketing Popular Film Music, Columbia University Press, New York, 1998.
Forziamo qui a nostro uso un’idea di Brown che, riflettendo sul ruolo della musica nello sciogliere la radicale ambiguità dell’immagine, sostiene quanto segue: «music […] plays one of the strongest role in what is […] a worldwide tendency in commercial cinema to encode the visual/narrative amalgam with the mythologies, both political and extrapolitical, embedded in a particular culture», in Royal S. Brown, Overtones and Undertones: Reading Film Music, University of California Press, Berkley-Los Angeles-London, 1994, p. 30. 35 Cfr. Thomas Schatz, Hollywood Genres, cit., pp. 33-34. 36 «The goal toward which a process strives». Rubo il concetto a Hepokoski e Darcy, che lo applicano ad alcune circostanziate sezioni della forma sonata (James Hepokoski, Warren Darcy, Elements of Sonata Theory: Norms, Types, and Deformations in the Late-Eighteenth Century Sonata, Oxford University Press, Oxford, 2011. 37 Hannu Salmi, Composing the Past: Music and the Sense of History in Hollywood Spectacles of the 1950s and Early 1960s, (18 dicembre 1998), http://www.latrobe.edu.au/ screeningthepast/firstrelease/fir1298/HSfr5d.html (ultimo accesso: 24 agosto 2011). 38 Annette Davison, Hollywood Theory, Non-Hollywood Practice: Cinema Soundtracks in the 1980s and 1990s, Ashgate, Burlington (VT), 2004, p. 4.
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Ibidem [corsivo mio].
Caryl Flinn, Strains of Utopia, cit., p. 153.
esprime, di che cosa sarebbe rimediazione questa grandeur se non del Potere? Nell’era del Global Soundwriting (ricostruendo un titolo di Dancyger41), la formula di rito delle Synchronization License icasticamente ne riassume l’ethos: «The territory covered by this license is the Universe»42… d’altronde, nemmeno al “sinfonismo dei grandi spazi” bastavano i confini dell’Impero: la grandezza postulata da un “tutti” della musica è sempre un “noi”, metalinguaggio di cultura (Lotman)43, che inevitabilmente mette in causa un kosmos, nel suo etimo di “ordine”, e nel senso di “struttura”44. Tutto ciò riguarderà anche il Meraviglioso, come per altri topoi positivi dello Spectacle, luogo di una pienezza di linguaggio e di senso, «lost utopian coherence»45, cui si oppone, nella dialettica invariabilmente tematizzata dall’ideologia del mainstream, l’orrore della cacofonia, dell’anti-musica, su cui torneremo brevemente in chiusura. Trailer a parte, anche altri margini metatestuali propongono un addensamento topico degno di rilievo: media ipersensibili ai corsi e ricorsi di utopie e distopie che attraversano le età del cinema (e del mondo) – non a caso frequente luogo di riscrittura da parte del compositore46 – i loghi delle case di produzione sono per esempio dispositivi privilegiati per un Sonic Branding47 in cui è già attiva una negoziazione di senso e di appartenenza generica. Pescando a caso, distante dai territori aperti del Fantastico si collocheranno per esempio il romance di Castle Rock Entertainment (anni ’90), o la golden age della Warner Bros Pictures; Disney proporrà una diversa declinazione del family-fantasy, poniamo, rispetto a Dreamworks – in quest’ul-
timo caso, prima ancora dei cliché è un’articolazione dello spazio aurale a significare (penso al débrayage intimista del solo acustico di chitarra, cui è affidato il compito di “risolvere il fantastico”); ancora, una diversa natura del Fantastico è messa in causa dal logo Columbia Pictures (post ’97), con l’onnipresente scala lidia (e.g. anche in Hollywood Pictures) attorno cui invariabilmente glossa l’underscore del family-fantasy, e talvolta anche quello del cinema catastrofico anni ’90, a tal punto da costituire un esempio prototipo dell’impiego strutturale dei cliché. La lidia sottintende la doppia dominante di cui è qui derivazione: come enfatizzazione retorica dei modi del maggiore, come maggiore del maggiore, sarà esposta nelle primissime fasi del set-up, prima dell’inciting incident, collaudato underscore per una stabilità e per un ordine (anche sociale) in cui la vicenda ha inizio; la lidia tornerà quindi nella risoluzione, a «rito di ordine» concluso, et passim, ma sempre legata a momenti dell’intreccio per cui, quando non sia un red herring48, risolverà sulla mostrazione di un Meraviglioso (come in parte avviene nella micro-drammaturgia che lo stesso logo Columbia propone)49. Più spesso fanfare di newmaniana memoria o innodie coplandiane (diversi i cliché in gioco, le sociabilità evocate, pur sempre luoghi immaginari di una pienezza utopica perduta), più raramente il logo corteggia le figuralità distopiche dell’antimusica, com’è il caso del logo-certificazione THX - Digitally Mastered, un ossimoro della potenza, composto da glissando per moto contrario (alla Shepard-Risset) che si stabilizzano iperbolicamente su un drone; ancora più marcato il riferimento all’antimusica, per l’aderenza a una specifica tecnica aleatoria orchestrale (pur trattata dall’elettronica) nel logo Intrepid Pictures. Invece, su territori più affini ai cliché considerati in apertura, un esplicito riferimento arriva dal logo della Regency: una serie di passaggi tra I (sol minore) e VI in terza e sesta (mi♭ maggiore), dopo di che un singolo enfatico passaggio (che è quel che ci interessa) al V minore del VI (si♭ minore), di qui a una conclusione per note tenute e per scivolamento cromatico della quinta di si♭ sul nuovo accordo di sol♭ maggiore, dove la breve serie di tonicizzazioni passeggere conclude (pur con un certo senso di provvisorietà). Nei termini della teoria
41 Mi riferisco a un celebre testo per sceneggiatori: Ken Dancyger, Global Scriptwriting, Focal Press, Boston, 2001. 42 Mark Northam, Lisa Anne Miller, Film and Television Composer’s Resource Guide: The Complete Guide to Organizing and Building Your Business, H. Leonard Corp., Milwaukee (WI), 1998, p. 131. 43 Cfr. Jurij Lotman, Boris Uspenskij, Tipologia della cultura, Bompiani, Milano, 1995. 44 Una proverbiale metariflessione in questo senso nella sequenza di apertura di Contact (Robert Zemeckis, 1997): allontanandosi dal pianeta terra Zemeckis torna a ritroso nel tempo riavvolgendo in un medley l’intera storia delle trasmissioni radio nel loro viaggio indisturbato nel cosmo: un ascolto impossibile interroga qui il silenzio – cuore dell’assunto fideistico del film – oltre i confini della sonosfera. 45 Caryl Flinn, Strains of Utopia, cit., p. 50. 46 Sovente il main title del film oblitera la soglia del logo, inglobandone e riprogettandone la retorica. 47 Cfr. Daniel Jackson, Sonic Branding: An Essential Guide to the Art and Science of Sonic Branding, Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2003.
Red herring, nell’accezione impiegata (anche) dai compositori: una trappola, una falsa pista. 49 Su territori simili Davis Entertainment, nella variante tipica della lidia affidata al solo di corno (altro cliché dell’underscore cinematografico), clausola d’altronde già sentita nel logo Columbia.
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funzionale50, interpretiamo il passaggio tra mi♭ maggiore e si♭ minore come un passaggio tra T – d (tra poco privilegeremo per lo stesso passaggio una lettura speculare: un rapporto tra S – t). Con ciò, pur essendo discutibile l’impiego della teoria funzionale entro una simile dispersione dei rapporti dominantici, è proprio su questi ultimi che vorremmo porre l’accento, vale a dire su quella che, potremmo suggerire, è la vocazione invariabilmente anti-dominantica del topos51. Oltre la soglia dei logo, tra i «beginning credits» ritroveremo un numero ben più consistente di esempi: in quanto «invito all’immaginazione» (Biancorosso)52 , la complessa retorica dei main titles non potrà che proporre piccole anticipazioni del cliché: ma è proprio in quanto cliché, in quanto veicolo intertestuale, che la figura contribuisce a costruire patto e tensione narrativa entro gli opening credits; più che il luogo di un’autentica mostrazione del Meraviglioso, il cliché – sempre comunque riconoscibile da una serie di procedure armoniche circostanziate – comparirà qui come quantum nell’ambito dell’ouverture: àncora indessicale, riferendo di momenti di là da venire nel film, si limita a indicare una “funzione d’onda” dell’intreccio, una gamma di possibilità al cliché sottesa. Peschiamo tra le occorrenze della nostra personale libreria: il main title di Zulu Dawn (Douglas Hickox/Elmer Bernstein, 1979) un caso di ricorrenza puntuale del cliché (qui un movimento ripetuto tra I minore e IV maggiore, t - S, affidato agli archi). Brainstorm (Douglas Trumbull/James Horner, 1983) propone simili ricorrenze puntuali. Cambiando del tutto genere, il main title di Dinosaurs (Eric Leighton e Ralph Zondag/James Newton Howard, 2000) cifra nelle sue pieghe, e non a caso in occasione delle gran vistas (un improvviso campo lungo su valli e cascate dove vivono gli esseri primordiali) alcune occorrenze puntuali dello stesso movimento plagale. Il main title di Night at the Museum (Shawn Levy/Alan Silvestri, 2006) – in sé uno straordinario saggio di narratività musicale cinematografica53 – nasconde tra i suoi nodi riferimenti a
un Meraviglioso di là da venire di analoga natura. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Basta un frammento per evocare il topos, il grado minimo di un lirismo armonico riconoscibile. Altre indicazioni potranno venirci dall’analisi del rapporto strutturale che il topos intrattiene con il resto della colonna musicale, nello spazio di questo scritto non potremmo che limitarci a qualche appunto su The Abyss, il cui underscore, interamente costruito attorno a un Meraviglioso, propone momenti di straordinaria metariflessione. Il ricorso al topos è precoce, la relazione armonica plagale caratteristica, in seguito alla “sequenza sonar” che sovrascrive il logo della 20th Century54, compare come momento terminale del brevissimo main title la cui sezione iniziale è affidata al coro di voci bianche. Lo statement monumentale occorre sul title credit del film, precisamente sul movimento di macchina che effettua uno zoom sul titolo (Fig. 5), allorché entriamo nel blu oceanico nella lettera “y”, la lettera centrale che verticalizza verso l’abisso. Questa piccola occorrenza del cliché sul titolo orienta con grande efficacia tensiva il racconto, conduce già dentro la storia poiché la stessa a questo punto (e ancora l’immagine non ha mostrato nulla) non è già più una vicenda che si dipana nel vuoto o in un’assenza, ma si dipana verso l’evento che lo statement silvestriano ha con sintetica eloquenza stabilito come orizzonte (orizzonte del narrabile, prima ancora che del narrato). Quando il film comincerà a raccontare, la storia è già una sequenza di eventi in relazione al Meraviglioso: avendo già operato sull’intreccio, la musica l’ha proposto come orizzonte della fabula. Esibito come telos, come tensione e promessa la cui fonte ci è ancora per il momento preclusa
Cfr. Diether de La Motte, Harmonielehre, Deutscher Taschenbuch Verlag, München, 1978 (tr. it. Manuale di armonia, Astrolabio, Roma, 2007). 51 Proprio questa assenza di rapporti dominantici contribuisce a costruire l’atemporalità del topos: fluttuazione ciclica, architettura irrelata, perturbante… uno straniamento è messo in campo da questa aporia armonica: il paradosso di rapporti armonici “non orientabili”, come in un nastro di Möbius. 52 Cfr. Giorgio Biancorosso, Beginning Credits and Beyond: Music and the Cinematic Imagination, «AAA/TAC», I, 1, 2004. 53 Vi si trovano riassunte tutte le gamme codicali del genere e, come in un’ouverture,
vi sono puntualmente anticipate le situazioni spettacolari che occorreranno nel corso del film e le possibili risoluzioni. 54 In particolare The Abyss, sovrascrivendo il rituale di soglia del logo con la sequenza sonar dell’incipit, che comprende la citazione (americanizzata) da Nietzsche («when you look long into an abyss, the abyss also looks into you»), ha già compiuto un atto molto denso: sostituisce cioè le proprie specifiche premesse di genere alla cornice multi-generica del logo, postulando innanzitutto un vuoto, uno spazio esplorato dal sonar; sonar che è qui è macchina celibe, irrelata, gesto tensivo par excellence – il suono-esplora-spazi, dispositivo tensivo di molte sequenze d’azione – ma è un tendersi all’ascolto ancora senza storia, un meccanismo tensivo astratto da qualsiasi relazione con una vicenda, gesto senza umani, senza gli artefici che dovrebbero essere i protagonisti dell’evento (per questo celibe, irrelato e per questo tremendamente privo, vuoto). È questo a mio avviso l’esergo autentico del film, nemmeno tanto la cifra nicciana, che non fa che rendere esplicito ciò che il suono aveva già sperimentato.
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– acusmatica55 – con una serie di passaggi graduati che ripercorriamo qui sinteticamente il Meraviglioso verrà progressivamente deacusmatizzato. Il primo «Close Encounter»56 di Lindsey (Mary Elizabeth Mastrantonio) con un Meraviglioso è trascritto in Fig. 6. Lindsey perde il contatto radio con la piattaforma, la luce all’interno della stessa viene a mancare per un istante (interruzione fatica classica: “qualcosa sta per succedere”); poco dopo, al di fuori dalla piattaforma, una strana creatura trasparente, una sorta di celenterato luminescente (prima immagine), comincia a curiosare attorno a Lindsey, per poi sparire all’improvviso. Alla piccola creatura Silvestri dedicherà qualche momento di Mickey Mousing: anticlimaxico, tutto il momento in cui Lindsey si accorge della creatura aliena è quasi un red herring, ma risolverà a breve su un “piccolo Meraviglioso” (Fig. 6, prima immagine, riduzione a. È qui impiegata una relazione topica tra S e TP, la cui interpretazione funzionale era già stata proposta per un analogo esempio tratto da The Hunt for Red October (Cfr. Fig. 3). La creatura si allontana, Lindsey è ora sul ciglio di una fossa oceanica (seconda immagine) quando una luce, immensa, sale dal fondo marino. In questo secondo incontro, l’essere che si disvela alla vista di Lindsey, della stessa natura di luce della creatura che poco prima curiosava attorno a lei, è più imponente e maestoso. È ancora una volta un Meraviglioso, di maggiore intensità rispetto al precedente: vi partecipa tutta l’orchestra con una disposizione strumentale che raggiunge al suo acme un’intensità simile, seppure di poco inferiore, a quella che verrà prodotta nel finale. È rispettato anche in questo “medio Meraviglioso” il canone per cui la fonte del Meraviglioso è in un primo tempo occulta per poi progressivamente rivelarsi: con un movimento sincrono alla rivelazione il climax musicale risolve sulla consueta relazione armonica (Fig. 6, riduzione c, misura 4). In un articolo apparso pochi anni dopo l’uscita del film, Jody Lyle ri-
flette sulle esplicite asserzioni femministe del film57. Perno dell’analisi è proprio l’incontro tra Lindsey e la creatura dalla celenterata trasparenza (Fig. 6, ma si veda anche il secondo fotogramma in Fig. 14). Sostiene Lyle, citando il lavoro di Linda Williams58: «[…] it is in this moment that the heroine’s “look at the monster recognizes their similar status within patriarchal structures of seeing”»59. Un’ampia serie di indizi, coerenti con questa lettura, disseminano l’opera di Cameron. The Abyss tematizza in modo esplicito una riflessione sulla differenza sessuata, certo un percorso condotto dall’autore entro le strutture simboliche del maschile – peraltro sull’onda della lezione dell’Alien di Scott, opera con cui The Abyss è strettamente imparentata – ma che si fa a tratti portatore di un’intelligenza di genere quantomeno rara nel mainstream. Centrale il rapporto tra Bud (Ed Harris) e Lindsey, il tema dell’incontro tra un maschile e un femminile, del riconoscimento e dell’accoglimento di una reciproca alterità: il conflitto dei personaggi60, la loro evoluzione, la dinamica profonda dell’intreccio sono interamente costruiti sull’attraversamento di una frontiera simbolica, e – questa l’inferenza roboante, ma non superficiale del film – attraversare questa frontiera è l’unica possibilità di salvezza per il mondo: lo spettro di un conflitto atomico fa da sfondo alla vicenda intimista (per una coincidenza forse non così incredibile la release del film data pochi mesi dalla caduta del Muro) e la “soluzione”, suggerisce Cameron, è – in un personale-e-politico – ripensare l’abisso in cui il mondo è precipitato, «a mad male word»61, alle radici del simbolico. Proprio sul rapporto tra questa frontiera e un Meraviglioso, The Abyss rivela dei tratti di metariflessione sorprendenti. Nel finale (~02:02) Bud si prepara alla discesa nel cuore degli abissi nel tentativo di disinnescare un ordigno nucleare. Al fine di resistere alla pressione “freudiana” che compor-
55 Distorciamo qui consapevolmente il noto concetto di Chion in Id., L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino, 1997: la musica stessa può essere interrogata nei termini di una voce (Cfr. Paul Zumthor, Introduction à la poésie orale, Seuil, Paris, 1983 [tr. it. La presenza della voce: introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 2001]w). E come voce, anche la musica propone i suoi acusmetri. 56 La genesi della colonna musicale del film è complessa: talvolta cifrate e abilmente mixate all’interno dei cue restano tracce delle probabili temp tracks del film (nello specifico alcuni frammenti dell’Alien di Goldsmith); mentre il cue 8M1X, dal titolo Lindsey’s Close Encounter, contiene un’esplicita citazione a un motivo di Williams, tratto da Close Encounters of the Third Kind (1977).
57 Jody Lyle, The Abyss: Like a Fish Out of Water, «Jump Cut», 38, 1993, pp. 9-13. Ripubblicato online all’indirizzo: http://www.ejumpcut.org/archive/onlinessays/ JC38folder/Abyss.html (ultimo accesso: 30 agosto 2011). 58 Linda Williams, When the Woman Looks, in Mary Ann Doane, Patricia Mellencamp, Linda Williams (a cura di), Re-Vision: Essays in Feminist Film Criticism, University Publications of America and The American Film Institute, Frederick (MD), 1984. 59 Jody Lyle, The Abyss, cit., p. 11. 60 Cameron lavorerà anche musicalmente, traducendo le relazioni tra i personaggi e dotando ognuno di essi di una distinta sonosfera (sia del campo aurale – autentica rarità nella prassi di sonorizzazione – che delle Identities musicali, nel senso di Kassabian, che contraddistinguono i protagonisti). 61 Jody Lyle, The Abyss, cit., p. 13.
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ta una discesa là in fondo, il team ha preparato una sperimentale emulsione liquida ossigenata da cui Bud dall’interno del suo scafandro dovrà respirare. Lyle cita un’ultima linea di dialogo, uno dei tanti segnali seminati da Cameron, quando un membro dell’equipaggio rassicura così Bud: «We all breathe liquid for nine months, Bud. Your body will remember»62. Curioso però che Lyle si fermi qui, quando il segnale più eclatante giunge poco più tardi, e precisamente in coincidenza della mostrazione meravigliosa che, avevamo detto, il main title e una serie di progressivi disvelamenti avevano postulato come orizzonte degli eventi. Bud viene preso per mano da una creatura aliena mentre si trova, ormai avviato verso una morte certa, prigioniero sul fondo del mare. Il Meraviglioso è raggiunto mediante consueto découpage, come progressivo scollinamento su una dorsale oltre la quale riluce una città sommersa, la città dove vivono gli alieni “psicoterapeuti” e moralizzatori (Fig. 7, immagini 1-3). Comune alle sequenze esaminate in apertura anche il trattamento musicale: preparazione → mostrazione (sulle consuete relazioni armoniche trascritte), cui segue un overview statement63. Con quest’ultimo appunto lasciamo prematuramente le interessanti considerazioni di Lyle sull’implicito femminista del film, limitandoci solo ad aggiungere un particolare non secondario: la “grande vulva luminosa” (Fig. 7, ultima immagine) – il diaframma simbolico, o meglio il diaframma del simbolico attraversato da Bud al culmine del suo percorso di trasformazione/ri-nascita – coincide con la massima monumentalità dell’underscore, il momento dell’autentica mostrazione meravigliosa. Circostanza non infrequente dell’action-adventure-sci-fi – l’overview statement del film coincide pienamente con la retorica del Meraviglioso, proprio questa rivelazione è definitiva deacusmatizzazione da cui l’overview statement riceve dinamicamente senso64. Valga come appunto per il processo compositivo, cui non abbiamo potuto dare qui spazio sufficiente, è essenziale comprendere che sempre il compositore lavora attorno a, spesso anche contro il topos, immettendo le relazioni armoniche del cliché all’interno di un’architettura in cui si rende pienamente riconoscibile la sua peculiare cifra stilistica.
Nell’esempio Alan Silvestri trasporta la relazione plagale in una serie di modulazioni cicliche da lab a fa (si veda la trascrizione in Fig. 7) per cui l’adesione al topos – indice di una piena competenza idiomatica per il compositore del mainstream – non oblitera mai la riconoscibilità stilistica, i cliché sono materiali di una poetica che non è (quasi) mai pedissequa applicazione della formula, ma sempre riscrittura dell’immaginario. Resta lo spazio per proporre una sintetica ricognizione su una gamma di cliché la cui filogenesi è affatto diversa, ma che dal punto di vista ermeneutico occupano regioni di prossimità rispetto ai cliché del Meraviglioso puro. A solo scopo di sintesi, tali regioni sono schematizzate nella mappa in Fig. 865. Qualora ragioni dell’intreccio e del soggetto lo rendano opportuno, una nuova gamma può sostituirsi ai cliché del Meraviglioso, restando immutata la retorica mostrativa presa in esame. Un esempio prototipo in Lara Croft: The Cradle of Life (Jan de Bont/Alan Silvestri, 2003): l’eroina (Angelina Jolie) e i suoi aiutanti riemergono dalle acque in una grotta sottomarina (reiterato paradosso di luce dell’action-adventure) in cui si cela un antico tesoro nascosto. Alle coordinate della sequenza trascritta (Fig. 9) gli stessi aiutanti di Lara continueranno a esclamare stupefatti: «È meraviglioso!», ma una particolare disposizione tensiva informa in realtà l’underscore: da un lato il frammento indica, presuppone e prepara un Meraviglioso, dall’altro lo evita accuratamente, propendendo per un diverso trattamento. Paradigmatica, con riferimento alla trascrizione, nelle misure 2-4 (riduzione b) la relazione tra la triade di sol minore e quella di mi ♭ minore, tra una t e la sua sp (variante minore del parallelo della sottodominante minore della t), relazione fortemente significativa per una connessione con le risorse armonico-espressive del Meraviglioso: si lavora su relazioni affini a quelle del Meraviglioso – si ricordi il rapporto topico tra S e t, o tra la sottodominante e i rappresentanti funzionali della tonica (S - TP) – ma mediante la concatenazione di due accordi minori, pure ancora in una relazione non dominantica, si introduce un tono estraneo al Meraviglioso puro, negandone la positiva apertura. Questa nuova gamma di figuralità, la cui logica funzionale è interpretata da Marco Targa nei termini teoria della neo-riemanniana, è indagata in questo volume anche in senso storico filologico (se ne rintracciano nell’opera di Wagner, ma non solo, alcuni con-
Ibidem. Nell’accezione di Karlin e Wright: «if the musical concept evolves from the dramatic theme of the film, it becomes an overview statement; [reflecting] the overall attitude and thrust of the film» (Fred Karlin, Rayburn Wright, On the Track, cit., p. 121). 64 In questo nodo dovrà essere compresa l’attitudine della musica a operare come veicolo intertestuale di grandissima potenza, a farsi autentica memoria emotiva del film (e del cinema tout court).
65 Da considerarsi come schema operativo e non come sistematizzazione onnicomprensiva; valida esclusivamente nei limiti di questo scritto.
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sistenti esempi, nonché numerosi casi di persistenza del topos nel cinema contemporaneo)66. «Whatever is fitted in any sort to excite the ideas of pain and danger, that is to say, whatever is in any sort terrible, or is conversant about terrible objects, is a source of the sublime»67. Da Burke possiamo legittimamente trarre qualche suggerimento tipologico, poiché è in effetti alla rappresentazione di un Terribile che queste figuralità sono votate: poteri soprannaturali – The Mummy Returns (Stephen Sommers/Alan Silvestri, 2001, Fig. 10) – terribiligotiche-oscure dimore – Van Helsing (Stephen Sommers/Alan Silvestri, Fig. 11), ma anche tutti i Batman (Tim Burton, 1989 e 1992) di Danny Elfman – da qui allo Spider-Man III (Sam Raimi, 2007) di Christopher Young, caso in cui la stessa gamma cliché post-wagneriani68 si lega alla titanica figura di Sandman/Flint Marko. Siamo in effetti ancora nella regione espressiva del Fantasticovisionario, ma di un umgekehrte Erhabene, per usare la nota espressione di Jean Paul69, dunque ancora rimediazione tardo-romantica (penso a Berlioz), anche se la filogenesi dovrebbe tener conto anche del recupero tardo-romantico operato da compositori pienamente novecenteschi, che, a loro volta influenzati dall’idioma cinematografico, hanno avuto grandissimo influsso su generazioni di compositori cinematografici americani (si pensi per esempio alle spiccate tinte gotiche della Antarctic Symphony di Ralph Vaughan Williams)70. Risorse di un campo espressivo in cui, ricorda Laura Cosso a proposito di Berlioz: «[…] predomina l’esplorazione nei territori aperti dalla bellezza antinomica victorhugiana e dunque nei versanti del sublime capovolto: nel grottesco, nel demonico, nel fantasticovisionario»71. Il passaggio descrive perfettamente le attitudini del Terribile Cfr. infra, p. ???ss. L’originale di Burke da cui traiamo la citazione è ripubblicato in Edmund Burke, Adam Phillips, A Philosophical Enquiry Into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful, Oxford Paperbacks, Oxford, 1998, p. 36. 68 Sul complessissimo rapporto tra Wagner e il cinema rimandiamo a: Jeongwon Joe, Sander Gilman, Wagner & Cinema, Indiana University Press, Bloomington (IND), 2010. Ma per la rimediazione di questo cliché un certo ruolo deve averlo avuto il cinema classico, in particolare Bernard Herrmann. 69 Cfr. Dominique Peyrache-Leborgne, La question du sublime chez Jean Paul et Hugo, Groupe Hugo, http://groupugo.div.jussieu.fr/groupugo/02-02-09peyrache-leborgne.htm, (ultimo accesso: 19 maggio 2008). 70 La cui genesi è già, come noto, cinematografica. 71 Laura Cosso, Sublimità gluckiane e ribaltamenti nel fantastico. L’itinerario di 66 67
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cinematografico dell’idioma contemporaneo ed anche l’esplicito rapporto con un Meraviglioso: diverse le procedure armoniche (ma in certa misura paragonabili, in “analogia entis” con un Meraviglioso). Segnaliamo, en passant, alcune scelte strumentali e di orchestrazione appariranno a un’analisi più minuta peculiari ed altamente pertinenti a un Terribile piuttosto che a un Meraviglioso. L’organo, che è debolmente presente nel mix dell’esempio tratto da Van Helsing, è spesso strumento cui viene fatto ricorso in questo senso (e.g. anche le figuralità del Terribile nel finale di The Abyss ~02:25’, poi virate ancora una volta nel Meraviglioso puro del finale ~02:32’). Elfman lo impiega per esempio nei momenti di massima (ironica e ieratica) intensificazione mostrativa nei Batman: con i valori che il suo solo suono è in grado di evocare, l’organo è strumento appropriato al fine di produrre un “rovesciamento del sacro”: non solo chiama in causa un sacro, ma l’intero ambiguo rapporto che è istituito tra musica e automi, con la macchina, con una tecnica, con l’immaginario di artefici aberranti (coloro che siedono innanzi ai manuali dello strumento) e con la loro solitudine (scienziati pazzi e fantasmi, non a caso, da Frankenstein al Fantasma dell’Opera). D’altronde non è questo l’unico straniamento su cui/ con cui il cinema riflette, asserzioni etiche vengono continuamente proposte sui fantasmi attanziali che l’immaginario strumentale è in grado di evocare, come nel caso dei carillon o delle music boxes72: qui il rovesciamento è prodotto nel momento in cui la natura automatica dello strumento è interrogata nella sua ambiguità radicale e nel paradosso di un incanto, incantatorio della ripetizione esatta, mistero del mandante tecnologico di questa sequenza di suoni, straniamento tecnologico di una cosa che ha anima (che sembrerebbe averla in quanto “musica”)73 ma che è suonata in virtù di un potere inanimato (inumano?), che ha la stessa magia oscura che ha la serialità dei libri per le società preindustriali. Questa stessa densità è a mio avviso interpretante primario dell’organo votato all’espressività del Terribile, che è sempre fonte che spinge verso una diegesi (un source Berlioz, relazione all’incontro di studio a cura del Saggiatore Musicale: La recezione di Gluck nel teatro musicale europeo, 3 dicembre 2002, Torino. La sintesi della relazione è consultabile online all’indirizzo http://www.muspe.unibo.it/period/saggmus/ attivita/2002/unsem.htm (ultimo accesso: 2 ottobre 2008). 72 Ma anche di strumenti che propongono il paradosso di “un’alienazione della voce”, come è il caso del theremin. 73 E questa è in fondo una Teoria dell’Uncanny Valley (Masahiro Mori) pensata dal lato della musica.
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scoring74) che rifiuta di abitare l’acusmatico così pacificamente come può farlo il logos positivo di un Meraviglioso, che ammicca ambiguamente alla fonte oscura di cui si fa interprete, che gioca con il potere degli attanti che è in grado di evocare. In ciò anche, siamo al confine delle due grandi aree della mappa, non solo perché differenti sono le figuralità messe in gioco, ma perché diverso è il rapporto drammaturgico tra musica e racconto, la distanza tra source e underscore postulata da tale rapporto, la breccia che si apre qui tra diegesi ed extradiegesi. In riferimento allo schema esposto, proponiamo di esplorare, a latere del Meraviglioso, alcuni topoi “di prossimità”. Independence Day (Roland Emmerich/David Arnold, 1996). La sequenza da cui le immagini in Fig. 12 sono tratte narra del momento in cui, nel pieno corso di un’invasione aliena, nientemeno che il Presidente degli Stati Uniti viene condotto in un laboratorio segreto (siamo naturalmente nell’area 51, Nevada), ove è custodito un vascello extraterrestre. Se le relazioni armoniche, le scelte di strumentazione e la retorica sono riconoscibili come pienamente pertinenti a un Meraviglioso, immediatamente dopo lo stacco in cui la mdp va a esplorare il dettaglio del vascello (seconda immagine) ci troviamo di fronte a un nuovo topos, che già informava di sé i momenti precedenti e che dal Meraviglioso stesso sembra discendere, come una sua forma instabile, mobile, fluida (seconda trascrizione, quinta misura, ai violini). Nel primo e nel secondo episodio della trilogia Lord of the Rings (Peter Jackson, 2001 e 2002), all’interno della fitta rete di relazioni leitmotiviche del film75, Howard Shore impiega il cliché come componente della sonosfera di Gran Burrone, il paese degli elfi. La melodia (trascritta in Fig. 13), affidata ai violoncelli, adagio e in registro di tenore, presenta notevoli parallelismi con il precedente esempio. I violoncelli accompagnano un tema affidato al coro, esso stesso costruito sulla gamma armonica del Meraviglioso (l’ennesima occorrenza di un passaggio tra TP e S). Nell’esempio di Shore è suggerita la stretta relazione tra i due luoghi retorici: la prima semifrase del movimento ondulatorio della figura conduce alla S ed è uno sbocco spesso
virtualmente presente, come armonia implicita del cliché, esito possibile del movimento ondulatorio proposto76. Nei frammenti di Shore la figura interpreta una temporalità dell’immagine e del racconto, qui propriamente un ralenti. Nella prima occorrenza in particolare, la sequenza in cui Frodo (Elijah Wood) si risveglia a Gran Burrone, suggerisce non solo attraverso il ralenti, ma anche attraverso la fotografia (nelle tinte dorate, nella bruciatura, in senso fotografico, dei volti), nell’uso delle ellissi – in tutto questo suggerisce una diacronia, una dimensione del ricordo che la musica intercetta e interpreta con particolare efficacia (ma è molto di più, poiché la musica, come mediatrice privilegiata dell’incanto, è il linguaggio che ne rende possibile il racconto). Nel secondo episodio il topos ricorre, immutato – seppure proveniente e a sua volta disciolto su un nuovo materiale drammatico77 – e la sua occorrenza è se possibile ancora più suggestiva, poiché ritorna sul viaggio per eccellenza, il viaggio degli elfi che abbandonano la “terra di mezzo”. Ancora un ralenti, la stessa temporalità, una ritualità che la musica interpreta e racconta. Se, come in questo esempio straordinario, il viaggio è incedere immutabile, un andare verso, se è astratto ed intuito nella sua dimensione archetipica, nel suo essere momento rituale in seno alla narrazione, sua cesura; se tutto questo è vero, allora l’etichetta con cui identifichiamo il cliché è pertinente, poiché in tutti gli esempi è in azione, seppur mediatamente, questo stesso paradigma. In forma di barcarole78 e ancora come “viaggio” ritroviamo il cliché in una vasta serie di esempi. Riassumo schematicamente di seguito alcune occorrenze, limitandomi a opere già citate (Fig. 14-15). Come entrata progressiva nel campo del Meraviglioso in King Kong: una doppia fluidità, sia del movimento di rollio e beccheggio della lancia, sia del moto ondoso, stabilisce qui intrecci sinestesici profondi sia con il tema, sia con la figura dei violoncelli; molteplici esempi si possono trarre dalla filmografia silvestriana: in Van Helsing e ancora in The Abyss la stessa figura ricompare nel momento in cui l’alieno, creatura degli abissi, fa la sua comparsa nella
Per una definizione del termine si veda Anahid Kassabian, Hearing Film, cit., p. 45. Per una guida tematica introduttiva può essere utile consultare le note di Doug Adams nel booklet allegato a The Lord of the Rings. The Complete Recordings (Reprise/Wea, 2006).
Alternativamente interpretabile come oscillazione tra una triade maggiore e una triade eccedente. 77 In particolare ciò che subito dopo il momento descritto Shore sarà preoccupato di mettere in musica, virando verso un’enfasi drammatica di diversa natura, è l’addio tra Arwen (Liv Tyler) e Elrond (Hugo Weaving). 78 Penso agli stilemi fin de siècle di un Gabriel Fauré (e.g. Barcarole n. 4, Op. 44 per pianoforte); o alla Barcarolle dei Six Morceaux, Op. 11, per pianoforte a quattro mani, di Sergej Rachmaninov.
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piattaforma sottomarina79 (Alcuni tratti in particolare, sia nell’iconografia che nella svolta narrativa in oggetto, sembrano proponibili come motivi di coerenza, la fluidità/trasparenza liquida dell’effetto in primis, l’esplorazione, il fondamentale contatto con l’alterità). Judge Dredd (Danny Cannon/Alan Silvestri 1995) presenta una variante ricorrente del cliché in cui l’arpeggio non è condotto su tutti i gradi dell’accordo maggiore, ma solo su mediante, dominante e sopradominante. In Battle Beyond the Stars (Jimmy Murakami, 1980), Star Trek II: The Wrath of Khan (1982), tutti esempi tratti dalla filmografia di Horner, il cliché ricorre, nella forma di rapido arpeggio dei violini, nel momento in cui la celebre astronave Enterprise intraprende un nuovo viaggio lasciando l’ormeggio spaziale (un singolo esempio in Fig. 16). In Star Trek III: The Search For Spock (Leonard Nimoy, 1984) lo stesso pattern di cui sopra è riproposto sia dai violini nella forma di rapido arpeggio, sia ai violoncelli, al registro di tenore, in background rispetto al materiale tematico primario, dunque come figura d’accompagnamento – ma anche e suggestivamente, nelle ricorrenze proposte dagli Star Trek di Horner, come unità di moto che trova un intreccio profondo nella lentezza e nella regolare continuità dei movimenti e dell’astronave, delle inquadrature e dei loro elementi di moto interno. Per traslato e per osmosi diretta con questa figura una grandissima serie di cliché di tipo melodico – interpretabili sia come momentanea destabilizzazione di una triade eccedente (una nota di volta), sia come ombra di un rapporto tra TP e S nell’armonia ivi implicita – ricorrono come “descrittori di moto” nel genere sci-fi e sue ibridazioni. In relazione alle variazioni prese in esame – i frammenti ridotti nelle Figg. 17-19 sono tratti da Stargate, Sahara (Breck Eisner/Clint Mansell, 2005) e Atlantis (Gary Trousdale e Kirk Wise/James Newton Howard) – scegliamo di esplorare la connessione tra questi esempi e un’altra gamma di cliché di prossimità, al Viaggio intimamente legati, ma che ricorrono associati a situazioni narrative, o meglio, a iconografie differenti. Sulla base delle ricorrenze riscontrate, proponiamo di etichettare le occorrenze che seguiranno, pur consci dei limiti operativi di tali etichette, come “spazio”, nel senso di
“spazio interstellare”, o ancora più precisamente di “traiettoria orbitale”. Ciò che del Viaggio viene isolato nei casi che prenderemo in considerazione è precisamente il semitono, come forma melodica iterata e discendente, vale a dire il sesto grado alterato (o il quinto alterato se scegliamo di interpretare la figura come volta generata da una triade eccedente), gradi su cui è arpeggiato il topos del viaggio nella sua forma prototipica (tonica – mediante – dominante – sopradominante ♭ e ritorno). La figura è spesso oggetto di un’interpretazione lirica, in tempo di adagio, affidata agli archi in registro caldo (e.g. violini sulla IV o sulla III corda, con sordina o sulla tastiera o violoncelli in registro di tenore). Questo lirismo, oltre alle scelte strumentali ricorrenti, distingue radicalmente questo da altri cliché d’azione costruiti sul semitono80. Gli esempi sono molteplici, per limitare a pochi casi ridotti nelle Figg. 20-25, il cliché o sue varianti ricorrono: in Under Siege 2: Dark Territory (Geoff Murphy/Basil Poledouris, 1995), per un satellite in orbita; in Star Trek VIII: First Contact (Jonathan Frakes/ Jerry Goldsmith, 1996), per una perdita di contatto gravitazionale, una fluttuazione nello spazio; in Alien (Ridley Scott/Jerry Goldsmith, 1979), per l’ingresso della nave spaziale in orbita equatoriale; in Indipendence Day, per l’ingresso di una navicella nella pancia dell’astronave aliena. Un ultimo esempio, più spiccatamente lirico, racconta dell’implicito esotismo del cliché (la sua autentica latenza espressiva mette cioè in campo un’alterità per interpolazione di un esotico): per un’aurora boreale, in AVP: Alien vs. Predator (Paul W. S. Anderson/Harald Kloser, 2004); infine, come figura sugli opening titles, un buon esempio è Robocop (Paul Verhoeven/ Basil Poledouris, 1987): quasi un lamento, ultima Sehnsucht ai confini della distopia, ma ancora al di qua, un prima, nell’angoscia in cui il mondo è ormai precipitato. I remember David Raksin saying in one of my classes, “I’ve never seen a successfully handled true love scene that’s not tonal”. Christopher Young81
Penso che sia in questo senso che il cliché appartiene per elezione al dominio della fantascienza: il viaggio come contatto con un’alterità, come vertigine del contatto che è d’altronde già così emblematicamente implicita nel lirismo del melos, nella sua oscillazione “eccedente”.
Un solo “determinismo intervallare”, cioè ogni tentativo di definire il cliché esclusivamente in base alla sua riduzione analitica/notativa rischia di avere scarsa pertinenza. 81 Christopher Young in Michael Schelle, The Score, cit., p. 425.
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C’è appena il tempo, in chiusura, di riflettere su una dialettica che non investe solo i topoi del Meraviglioso, poiché l’intero immaginario dello «Spectacle» vi è implicato. Nella ritualità invariabilmente proposta dal mainstream, le «large scale orchestral force[s]» di Davison si opporranno radicalmente, nella sintetica descrizione del compositore David Shire, alle «larger symphonic forces that mostly represent the “large” forces of evil»82. L’underscore riproporrà fedelmente l’implicito delle strutture narrative cui si lega e questo movimento generativo profondo – coessenziale al «rito di ordine», alla struttura restaurativa in tre atti – non è che un corollario politico della cultura calvinista che l’ha espresso: «the spiritual wrestling match between good and evil which is the paranoid’s archetypal model of the world struggle»83. Da una parte, dunque, il Terribile: un Meraviglioso di segno inverso, che al Meraviglioso si oppone, come in uno specchio. Espressione di una bellezza antinomica, prodotto secondo le regole dell’eufonia (secondo procedure armoniche che propongono una certa simmetria rispetto a quelle del Meraviglioso), nel Terribile musicale è ancora all’opera la grandiosa azione di un ordine, sebbene di ordine inverso e minaccioso si tratti. Oltre il confine del Terribile, attraversando la frontiera mediana della mappa, ci accolgono i dark territories della cultura musicale mainstream, la grande fucina hollywoodiana della musica come male, o della musica del male, che reinterpreta, narrativizza e socializza l’intera esperienza del Novecento non tonale all’insegna del tremendum e della rappresentazione panica della crisi. Antimusica è un termine che ha impiego in etnomusicologia per descrivere il mondo sonoro di alcune particolari, circostanziate e straordinarie espressioni rituali della cultura popolare84: lo strepito, lo charivari, i rituali di derisione di Cristo, del mattutino delle tenebre, le manifestazioni sonore 82 David Shire in David Morgan, Knowing the Score: Film Composers Talk About the Art, Craft, Blood, Sweat, and Tears of Writing Music for Cinema, Harper, New York, 2000, p. 21. 83 Richard Hofstadter, The Paranoid Style in American Politics, and Other Essays, Harvard University Press, Cambridge (MA), 1996, p. 35. 84 Per una definizione del termine si vedano, di Febo Guizzi: Gli strumenti della musica popolare in Italia, LIM, Lucca, 2002; Corni, strepiti, diavoli e giudei. Le rappresentazioni del Cristo deriso e il ‘demoniaco’ nei rituali della Passione in Franco Castelli (a cura di), Charivari. Mascherate di vivi e di morti, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2004, pp. 201-243).
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che nella tradizione folklorica si eseguono parallelamente all’atto liturgico che celebra la morte del dio in terra; da qui le connessioni con le tenebre, con il demoniaco, con il mondo dei morti. È anti-musica, perché si oppone all’universo estetico della Musica; perché costruisce le sue forme mediante l’impiego di criteri d’emissione e di organizzazione del suono che si oppongono alle regole del suono prodotto secondo il bello, o secondo i principi di eufonia propri di ogni cultura musicale. In una seconda accezione, anti-musica perché rivolge l’espressività e la potenza che da questo procedimento le deriva, contro qualcosa (versus il “deviante” interno alla comunità, che nello charivari diviene oggetto della spietata censura fonica sociale). Ritualità prevalentemente diffuse in Europa, non mancano in tutto il mondo esempi che ripropongano questa dialettica, dai rituali legati al culto dei morti dei monaci itineranti del Bon, ai rituali amazzonici di esorcismo dell’eclissi di cui riferisce Levi-Strauss85. Non ci interessa proporre questa categoria per suggerire una filogenesi probabilmente esistente a un qualche livello, ma quantomeno difficile da dimostrare; piuttosto ci pare interessante impiegarla per le sue proprietà modellizzanti, come metafora descrittiva, al fine di interpretare la dialettica che invariabilmente oppone alla «utopian coherence» – leggi: alla Musica tout court, come momento “positivo” e di linguaggio – l’antimusica come luogo di un caos, di un disordine. Per rappresentare, per portare a visibilità questo luogo, l’antimusica lavora contro i fondamenti stessi del linguaggio o almeno, nell’asserzione metalinguistica proposta da Hollywood, l’antimusica mette in scena il linguaggio dell’assenza di linguaggio. Scrive Lotman, a proposito di una frequente organizzazione del metalinguaggio nelle descrizioni tipologiche di cultura: «La propria cultura viene contrapposta a quella “altrui”, a quella “estranea”, sulla base di un’opposizione “organizzato vs non organizzato”»86. L’immaginazione neoromantica – poiché l’antimusica hollywoodiana non ne è che un esito estremo – per costruire programmaticamente il proprio «Inferno Musicale» (Hieronymus Bosch), locus horridus, universo distopico, rimedia come antimusica il grande bacino espressivo del Novecento musicale (l’atonalità in genere e in particolare il post-serialismo est-europeo) sulla base di
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Cfr. Claude Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano, 1980. Jurij Lotman, Boris Uspenskij, Tipologia della cultura, cit., p. 146.
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una latenza espressiva indubbia di questo materiale sonoro87. L’antimusica cinematografica è universo distopico antitetico alle regole del bel suono, del suono prodotto secondo il bello, secondo i principi di armonia e concordanza. Dallo spiccato assetto eterofonico – che implica una metafora organicistica – l’antimusica tematizza un’opposizione interna allo stesso sistema musicale, all’universo musicale dell’ordine, all’universo utopico dell’eufonia, per infrangerlo, per opporvi il terrore, la forza dirompente del suono «non organizzato». Come abbia giocato nella ricezione del Novecento musicale l’immaginario cinematografico del male e fino a che punto questa ricezione abbia mutato radicalmente gli orizzonti di attesa e gli interpretanti che a questi repertori si legano (anche per l’orecchio di compositori insospettabilmente “colti”) è, sul piano storico-musicologico, una questione di grande interesse. Il problema ha implicazioni profonde, perché nel rimediare l’esperienza del Novecento non tonale, non solo Hollywood reinterpreta, rilegge e narrativizza repertori colti assimilandoli entro una dialettica programmatica che con questi ultimi poco o niente aveva a che fare, ma propone per questi materiali sonori una ricezione di massa la cui portata storico-culturale avrà probabilmente, sul lungo periodo, non poca rilevanza.
Limitando a due soli esempi: penso alle motion sonorities di John Corigliano, già a loro volta estensioni delle tecniche aleatorie utilizzate da Krzysztof Penderecki. Ma è proprio nel magistrale utilizzo di questa latenza espressiva del post-serialismo in The Shining (Stanley Kubrick, 1980) che De Natura Sonoris – sia il No. 1, 1966, che il No. 2, 1971 – diventerà per il cinema hollywoodiano uno dei più potenti e imitati role models di tutti i tempi.
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Armonie perturbanti: un caso di rimediazione di stilemi sinfonici tardo romantici nel cinema fantastico hollywoodiano di Marco Targa La rimediazione1 del linguaggio sinfonico tardo romantico all’interno delle colonne sonore del mainstream hollywoodiano, classico e recente, è un fenomeno della cultura musicale contemporanea il cui studio, come quello di altre forme di espressione della cultura di massa, valica facilmente i confini dell’analisi e della critica per confluire in quell’orizzonte antropologico interessato alla costruzione dell’immaginario sonoro del tempo presente. Come per ogni fenomeno culturale complesso, alla base del trasferimento del linguaggio sinfonico tardo romantico dalla sala da concerto europea alla colonna sonora della pellicola cinematografica statunitense vi è un intreccio di cause di varia natura: innanzitutto storiche, per esempio il fatto che la prima generazione di compositori di colonne sonore fosse costituita da musicisti viennesi di formazione classica (Julius Korngold e Max Steiner in primis) i quali hanno fondato lo stile musicale del soundtrack hollywoodiano classico attingendo all’illustre tradizione sinfonica europea; ma anche ideologiche, ovvero l’esigenza dell’establishment produttivo hollywoodiano di assorbire e far proprio il linguaggio musicale della cultura dominante e paludata; non ultime ragioni di natura tecnica, come quella proposta da Kalinak2 , la quale fa notare come il principio del melodismo sinfonico apparve fin dagli esordi di Hollywood un elemento utile a bilanciare la tendenza alla frammentazione visiva che il montaggio cinematografico inevitabilmente comportava, svolgendo una funzione unificante a livello della percezione narrativa. Il riferimento classico per l’inquadramento teorico sul fenomeno della rimediazione è Jay David Bolter, Richard Grusin, Remediation: Understanding New Media, The MIT Press, Cambridge, 2000 (tr. it. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Guerini e Associati, Milano, 2002). 2 Kathryn Kalinak, Settling the Score: Music and the Classical Hollywood Film, University of Wisconsin Press, Madison, 1992, p. 81.
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Qualunque sia l’intreccio di motivazioni di questo singolare connubio tra tradizione e modernità (e post-modernità), il risultato è che tale forma di rifunzionalizzazione ha permesso a un particolare stile musicale di perpetuarsi attraverso i decenni con una longevità che pochi altri stili musicali hanno conosciuto nella storia della musica occidentale. Come in ogni fenomeno di rimediazione, le forme linguistiche che trapassano da un medium a un altro portano con sé significati e interpretanti che lungo il processo possono mutare, permanere, trasformarsi, arricchirsi, impoverirsi e anche perdersi. Nel passaggio, significanti e significati possono mantenere i propri reciproci rapporti o mutarli radicalmente, come anche può accadere che a migrare sia sola una forma, privata del suo contenuto. Ricostruire il percorso del loro senso è spesso impresa titanica e forse impossibile considerando quanto siano intricati e molteplici i percorsi tracciati e le loro ramificazioni. Se l’orizzonte di ricerca è amplissimo, non è impossibile qui proporre un piccolo contributo che si muova entro un ambito estremamente confinato proponendosi di tracciare dei collegamenti tra alcuni aspetti del linguaggio armonico del sinfonismo europeo di fine Ottocento e particolari stilemi presenti nel cinema fantastico hollywoodiano degli ultimi decenni (con le sue sottoclassi sci-fi, horror fantastico, fiabesco eccetera) servendosi anche di alcune recenti teorizzazioni di procedimenti armonici di stampo neo-riemanniano3. È noto che l’universo sonoro del cinema fantastico hollywoodiano di oggi, nonostante il massiccio ingresso dei generi della popular music e della musica elettronica, sostanzialmente fondi la propria struttura portante sul linguaggio sinfonico, il quale rimane l’agente di narrazione musicale principale. Come osserva Kalinak, infatti
Il fantasy, in tutte le sue declinazioni, affida al sound della grande orchestra sinfonica gli snodi narrativi fondamentali della costruzione del senso filmico. La dinamica entro cui ci si muove è in larga misura quella del cliché: la regolare ricorrenza di un’associazione fra luogo narrativo – immagine – figura musicale che svolge la funzione di mantenere quelle promesse che l’appartenenza al genere istituisce fra la narrazione filmica e lo spettatore, secondo quella dinamica “dialogica” per cui i caratteri fondamentali di un genere permangono, pur all’interno di un continuo processo di mutamento e di ri-generazione5. Come osserva Meandri, fra i vari “luoghi topici” che definiscono il genere fantastico quelli che possiedono un ruolo centrale all’interno della trama narrativa del plot sono certamente lo svelamento del Meraviglioso, il confronto con il Terribile, l’apparizione di entità appartenenti a dimensioni di alterità6. Tutte queste categorie lambiscono il territorio di un elemento centrale del racconto fantastico e di conseguenza già molto dibattuto dalla critica letteraria: la manifestazione del Perturbante7. La categoria del Perturbante, teorizzata da Freud nel celebre saggio del 19198 , viene fin da subito indagata a livello psicoanalitico attraverso la lente della narrativa fantastica ottocentesca9, all’interno della quale essa emerge in tutte le sue varie declinazioni. Sarà il teatro musicale tedesco a trasferire il Perturbante nella dimensione simbolica dell’opera lirica, con la conseguente creazione di mezzi di espressione musicale adatti a rendersene interpreti sonori. Come è noto, l’opera di Wagner è il luogo eletto d’espressione dell’universo pulsionale inconscio10, atto di nascita
Esponenti di questo nuovo filone di studi erede del pensiero teorico di Hugo Riemann sono Richard Cohn, David Lewin e Henry Klumpenhouwer. 4 Kathryn Kalinak, Settling the Score: Music and the Classical Hollywood Film, cit., p. 188.
Rick Altman, Film/Genre, British Film Institute, London, 1999 (tr. it. Film/Genere, Vita e Pensiero, Milano, 2004). 6 Si confronti la descrizione di tali momenti narrativi e i relativi cliché musicali a essi associati nel saggio di Ilario Meandri in questo volume: cfr. supra pp. 173ss. 7 Tutte queste categorie sono state indagate a fondo dalla narratologia; sul Perturbante la letteratura è sterminata e si rimanda alla bibliografia dello studio di Bellavita sui rapporti tra il Perturbante e il Fantastico al cinema: Andrea Bellavita, Schermi perturbanti: per un’applicazione del concetto di Unheimliche all’enunciazione filmica, Vita e Pensiero, Milano, 2005. 8 Sigmund Freud, Das Unheimlich, «Imago», V, 5, 1919, pp. 297-324 (tr. it. Il perturbante, Theoria, Roma-Napoli, 1984). 9 Come risaputo, Freud fonda la sua indagine sull’analisi del racconto Der Sandmann (L’uomo della sabbia) di E.T.A. Hoffmann, attraverso la quale illustra gli attributi del Perturbante. 10 È Thomas Mann uno dei primi commentatori a sottolineare gli stretti rapporti fra il
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The classical score is hardly in need of resuscitation. It continues to function in Hollywood as a primary determinant on the construction of the film score. Williams was, however, a major force in returning the classical score to its late-romantic roots and adapting the symphony orchestra of Steiner and Korngold for the modern recording studio4. 3
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della psicanalisi moderna, se è vero che Freud trasse lo spunto iniziale della formulazione delle prime teorie dell’inconscio dopo l’ascolto del Ring wagneriano, enorme serbatoio di immagini e figure in cui anche il Perturbante trova la sua simbolizzazione, drammatica e musicale. Di riflesso tutta la produzione sinfonica post-wagneriana, che assorbirà le innovazioni linguistiche introdotte da Wagner, condividerà l’universo di simboli a esse associate. Il Perturbante è un fenomeno complesso e ai suoi molteplici attributi possono corrispondere altrettanto numerosi modi di espressione nel linguaggio dei suoni che agiscono al livello dei differenti parametri del discorso musicale: timbro, melodia, armonia, ritmo, dinamica ecc. In questo contributo vogliamo concentrarci su alcuni procedimenti relativi al parametro dell’armonia, analizzando alcuni fenomeni studiati dalla teoria neoriemanniana statunitense, che si è interessata anche ai fenomeni di significazione legati all’utilizzo di particolari connessioni armoniche. Uno degli esponenti di questa corrente di studi teorici, Richard Cohn (Università di Yale) ha documentato una ricorrenza molto regolare e pervasiva tra un certo tipo di procedimento armonico e l’insorgere di situazioni che si configurano come unheimlische11. Tale procedimento armonico è costituito da un tipo di relazione accordale difficilmente inquadrabile nella teoria armonica ottocentesca a causa della sua estraneità rispetto ai consueti percorsi funzionali, ma per nulla assente dalla letteratura12 , soprattutto wagneriana e post-wagneriana: essa intercorre fra gruppi di triadi raggruppabili in quegli insiemi scalari che la teoria neo-riemanniana denomina hexatonic systems13. Senza poterci
dilungare a descrivere le caratteristiche armoniche di questi insiemi e i risvolti teorici a essi collegati, enunciamo la regola che permette di individuare le triadi che fanno parte di un medesimo hexatonic system: l’insieme esatonico è formato dai tre suoni di una qualsiasi triade maggiore più i tre della triade minore costruita sul suo sesto grado minore (per esempio, SolSi-Re-Mi♭, Sol♭, Si♭14), due triadi appartengono allo stesso sistema quando traggono i rispettivi suoni da questa collezione. Esempi di connessioni accordali di triadi che si possono ricavare entro questo sistema sono le seguenti: Sol minore-Si minore; Mi♭ minore- Si minore; Si maggiore-Sol minore ecc. (Cfr. Fig. 1) Cohn dimostra, attraverso una ricca serie di esempi tratti dal repertorio sinfonico e operistico ottocentesco, come il collegamento accordale tra una triade maggiore e la triade minore del suo sesto grado minore è frequentemente utilizzata per dare rappresentazione musicale a situazioni perturbanti. Una vera e propria fenomenologia, quasi didascalica nella sua completezza, di questi rapporti armonici è presente nel Parsifal wagneriano da cui traiamo due esempi esplicativi. Nel III atto ha luogo l’ultimo rituale di svelamento del Santo Graal, durante il quale la ferita perennemente sanguinante del cavaliere custode del sacro calice, Amfortas, verrà finalmente guarita dalla sacra lancia riconquistata da Parsifal, che consentirà al cavaliere del Graal una morte redenta. Durante tutta questa scena di effusione mistica e rapimento estatico, una sequenza accordale di I grado maggiore-VI grado minore risuona diverse volte in orchestra, trasportata ogni volta in diverse tonalità. Una delle sue occorrenze è in corrispondenza della didascalia che descrive la morte del personaggio femminile Kundry, l’ebrea dannata, colta nel momento in cui rimane “privata dell’anima”
teatro musicale di Wagner e le teorie di Freud: Thomas Mann, Dolore e grandezza di Richard Wagner, Discanto Edizioni, Ravenna, 1979. 11 Sarebbe ingenuo non riconoscere che la questione dei rapporti tra musica e semantica e, in particolare, fra procedimenti armonici e contenuti emotivi, sia infinitamente più complessa di quella descritta da un semplicistico rapporto di relazione univoca, non problematica. Com’è noto, il problema risiede nella natura ambigua e ambivalente del linguaggio musicale, in sé astratto e privo di un apparato semantico, ma con un’indomabile tendenza a creare legami con il mondo, a essere, come dice Abbate, «sticky», ovvero “adesivo” rispetto alle cose, alle immagini, ai concetti della realtà. Carolyn Abbate, Drastic or Gnostic?, «Critical Inquiry», XXX, 3, 2004, pp. 505-536 (precisamente, p. 523). 12 Per esempio, essa fa parte costitutiva del lessico armonico di Schubert. 13 Per l’inquadramanto teorico degli hexatonic systems si veda Richard Cohn, Maximally Smooth Circles, Hexatonic Systems, and the Analysis of the Late-Romantic Triadic
Progression, «Music Analysis», XV, 1, 1996, pp. 9-14. Id., Uncanny Resemblances: Tonal Signification in the Freudian Age, «Journal of the American Musicological Society», LVII, 2, 2004, pp. 285-323. A scanso di equivoci è utile chiarire che i sistemi esatonici qui citati non hanno nulla a che vedere con la più conosciuta delle scale a sei suoni, ovvero la scala a toni interi, anch’essa cliché fra i più sfruttati nella Hollywood classica, in periodi ben anteriori a quelli considerati in questa sede; l’utilizzo della scala a toni interi fu, infatti, già negli anni Quaranta bersaglio delle critiche mosse da Adorno alla pratica del cliché: Theodor W. Adorno, Hanns Eisler, Composing for the Films, Oxford University Press, New York, 1947 (tr. it. La musica per film, Newton Compton, Roma, 1975, p. 17). 14 In totale i sistemi esatonici sono quattro, Cohn li denomina utilizzando i nomi dei quattro punti cardinali, con una scelta un po’ discutibile, considerando la possibilità di fraintendimento nel considerare un certo sistema come proveniente da una determinata area geografica. In ogni caso il sistema indicato sarebbe quello “occidentale”.
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(entseelt), libera dall’incantesimo della perenne reincarnazione cui è stata condannata per aver irriso il Cristo crocifisso (Fig. 2). Anche il II atto, che si svolge nel giardino incantato del mago Klingsor dove Parsifal viene attirato per essere sedotto da Kundry, è ricco di esempi di accostamenti armonici perturbanti: il tema stesso del mago (che risuona già all’inizio del preludio dell’atto) è costruito sulla sequenza accordale Si minore-Sol minore-Mi♭ minore15 che, con la sua tinta straniata, conferisce alla figura del malvagio necromante connotazioni sulfuree e inquietanti. Non è questo il luogo per dilungarsi in elenchi e in spiegazioni su come questi elementi drammatici dell’opera di Wagner siano associati al Perturbante e su questo si rimanda al saggio di Cohn16. Quello che a noi interessa è che questo tipo di connessioni accordali, che si fanno sempre più frequenti nel linguaggio sinfonico e operistico di fine Ottocento, migreranno in massa negli scores del cinema hollywoodiano fino a divenire un cliché fra i più pervasivi. Rinunciando a una ricognizione su larga scala che presenti numerose occorrenze del topos, ci si limiterà a presentare alcuni esempi, proponendo qualche spunto interpretativo che possa avere una qualche validità generale. Una colonna sonora che più di altre risulta imparentata da vicino con la tecnica wagneriana, non fosse altro per il fatto di ricorrere con rinnovato interesse alla tradizionale tecnica del Leitmotiv nella sua costruzione narrativa epica, è quella della trilogia The Lord of the Rings (Il Signore degli anelli, Peter Jackson, 2001-2003) scritta da Howard Shore, in cui l’utilizzo di questo tipo di connessioni accordali svolge un ruolo considerevole. Il prologo della saga che apre il primo dei tre film, The Fellowship of the Ring (La compagnia dell’anello, 2001), è sceneggiato come racconto narrato da una voce femminile fuori campo (si scoprirà in seguito apparteneÈ da precisare che Cohn limita la sua analisi alle coppie di accordi che egli definisce hexatonic poles: ovvero una triade maggiore e una minore non aventi suoni in comune e appartenenti allo stesso sistema esatonico (per esempio Mi maggiore e Do minore). A nostro avviso però il medesimo potere perturbante lo possiede anche l’associazione tra due triadi minore dello stesso sistema, come il caso del tema di Klingsor nel Parsifal wagneriano dimostra. 16 Un’altrettanto ampia rassegna di esempi di collegamenti accordali per rapporto di terza (dello stesso tipo qui analizzato) tratti dal repertorio operistico e strumentale settecentesco e ottocentesco è consultabile in Giorgio Pestelli, Tipologie del “sublime” nell’Ottocento musicale europeo, in Anna Laura Bellina, Giovanni Morelli (a cura di), L’Europa musicale. Un nuovo rinascimento: la civiltà dell’ascolto, Vallecchi, Firenze 1988, pp. 217-244.
re alla Dama Galadriel, maga elfica), la sequenza di immagini illustra in maniera didascalica il contenuto della narrazione costituita dagli antefatti della vicenda epica. Dal punto di vista musicale questo prologo è pensato come un’ampia pagina sinfonica che unifica all’interno di un discorso musicale continuo la sequenza narrativa frammentata da frequenti e profonde ellissi temporali (alcune delle quali nell’ordine di migliaia di anni). Durante questa sequenza di apertura si ascoltano i numerosi temi ricorrenti del sistema leitmotivico (il tema dell’anello, il tema degli elfi, il tema della Contea degli hobbit ecc.), fra cui una sequenza accordale destinata a tornare innumerevoli volte lungo le svolgersi dell’intera trilogia. La si può ascoltare a partire da 0:04:00 (Fig. 3). Questa sequenza di accordi è chiamata ad accompagnare la narrazione del possesso dell’anello del potere da parte della mostruosa creatura Gollum, questa associazione leitmotivica verrà mantenuta durante lo svolgersi dell’intera trilogia divenendo figura musicale distintiva del personaggio, il cui ruolo di aiutante/oppositore all’interno dell’intreccio narrativo è tanto ambiguo quanto la sua natura deforme e degenerata, che più di una volta assume connotati perturbanti. Gollum è un hobbit che ha perso il suo aspetto antropomorfo e, consumato dalla cupidigia del possesso dell’anello del potere, è divenuto una creatura mostruosa. È da ricordare che la dinamica di insorgenza del Perturbante, così come descritta da Freud, si instaura nel momento in cui il soggetto viene a contatto con un’entità avvertita come familiare e consueta, ma che al contempo presenta attributi di estraneità e alterità, causando uno stato di disagio emotivo dovuto a tale commistione. Il termine tedesco Unheimlich è estremamente significativo dal punto di vista etimologico, in quanto possiede in sé la presenza della radice Heim (casa, patria, situazione familiare) e, al contempo, la sua negazione Un-. Seguendo questo linea interpretativa Cohn ha ipotizzato una spiegazione a livello percettivo dell’associazione del Perturbante con questo tipo di giustapposizioni di triadi. La triade è l’entità più famigliare del linguaggio tonale, sulla quale tradizionalmente viene risolta la dissonanza armonica. In particolare la triade di tonica, ovvero del primo grado della scala, è l’elemento che nella trattatistica è spesso associato al concetto di “ritorno a casa”. Giustapporre due triadi perfette che non possiedono alcuna relazione all’interno dell’armonia tradizionale significa dar vita a una commistione fra elementi di familiarità ed estraneità, generando nel soggetto un effetto Perturbante.
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Il cinema fantastico sfrutta questo particolare potere straniante in maniera estensiva e la natura esclusivamente armonica di questo procedimento musicale gli conferisce una duttilità di utilizzo tale da consentirgli di trovare applicazione sotto diverse forme e in unione con altri stilemi, con i quali entra in ibridazione. Per esempio, insieme con l’altrettanto frequente cliché della marcia militare (generalmente espressione e metafora di potere politico) è presente nel celeberrimo tema di marcia che nella saga di Star Wars (Guerre stellari, George Lucas, 1977), musicata da John Williams, simboleggia il “lato oscuro della forza”, incarnato nel personaggio di Dart Fener (Darth Vader), cfr. Fig. 4. In questo caso il tema marziale viene armonizzato con una giustapposizione di triadi minori appartenenti al medesimo hexatonic system (Sol minore-Mi♭ minore) che deforma la normale armonizzazione di una marcia militare17. Anche il personaggio di Dart Fener esibisce una buona quantità di attributi perturbanti: una voce umana proveniente da un corpo non-umano, in cui biologia e automazione si fondono, un respiro artificialmente amplificato dal grande potere di penetrazione acustica18. Si può qui ricordare che la prima definizione psicoanalitica che fu data del Perturbante da Ernst Jentsch, in anticipo di qualche anno su Freud, si fondava proprio sull’incertezza di riconoscere una natura animata o inanimata in un oggetto, antropomorfo o meno che fosse19. Con il cristallizzarsi del cliché e il suo radicamento nell’immaginario 17 È John Williams stesso a parlare del carattere minaccioso di questa marcia in un’intervista a Craig L. Bird: «In the case of Darth Vader, brass suggest itself because of his military bearing and his authority and his ominous look. That would translate into a strong melody that’s military, that grabs you right away, that is, probably, simplistically, in a minor mode because he’s threatening», in Julie Hubbert (a cura di), Celluloid Symphony: Texts and Contexts in Film Music History, University of California Press, Berkeley, 2011, p. 419. 18 Se è consentito uno sconfinamento a un genere parallelo al cinema, ma che con esso intrattiene stretti legami, ovvero il musical teatrale, si può osservare come il tema musicale distintivo di un altro personaggio dell’immaginario pop degli stessi anni è costruito su una simile associazione di accordi: I minore-VI (in questo caso) maggiore: il Fantasma dell’opera dell’omonimo musical di Andrew Lloyd Webber, anch’esso personaggio ambiguo, altalenante tra i poli del bene e del male, la cui umanità irrimediabilmente sfigurata è nascosta da una maschera. Questo collegamento trans-generico è un’ulteriore prova della capacità del topos di tracimare molto facilmente i limiti di un genere o di un medium. 19 Ernst Jentsch, Zur Psychologie des Unheimlichen, «Psychiatrisch-Neurologische Wochenschrift», VIII, 22, 1906, pp. 195-198 (tr. it. Sulla psicologia del perturbante, in appendice a Remo Ceserani, La narrazione fantastica, Nistri-Lischi, Pisa, 1983, pp. 399-410.)
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uditivo la sua funzione tende a standardizzarsi come segnale generico di una situazione di disagio, inquietudine, minaccia incombente, diluendo i suoi legami con il Perturbante strettamente inteso. Esso diviene marcatore narrativo chiamato, anche solo attraverso brevissime apparizioni, a connotare un’immagine in senso inquietante, ad assegnare una certa entità al versante attanziale del maligno, dell’opposizione. In questa veste il cliché può ricorrere frequentemente nei cues musicali di sequenze d’azione: per esempio, esso è presente nelle numerose scene d’azione dell’horror fantascientifico Event Horizon (Punto di non ritorno, Paul W.S. Anderson, 1997, musiche di Michael Kamen). Si ascolti la sequenza a partire da 0:18:00 durante la quale la nave spaziale Lewis and Clark, in orbita attorno a Nettuno, compie una pericolosa manovra di avvicinamento alla nave Event Horizont che si rivelerà essere un luogo maledetto, fonte di terrore e angoscia: gli ottoni, con suono minacciosamente aspro, giustappongono triadi di Fa minore e di La minore. Ma anche spostandosi all’interno dei generi e approdando alla leggerezza della commedia fantastica, la validità del cliché rimane intatta: nella sequenza del main title di Night at the Museum (Una notte al museo, Shawn Levy, 2007, musiche di Alan Silvestri) il cliché è utilizzato in corrispondenza dell’apparizione dello scheletro di T-Rex esposto al museo (Do minoreLa♭ minore), che assegna inequivocabilmente il dinosauro (o meglio, i suoi resti destinati a riprendere vita durante lo svolgersi del plot) al versante del Terribile, seppur addomesticato al contesto leggero della commedia. Un utilizzo in funzione segnaletica di minaccia ancor più icastico nella sua brevità è presente in Abyss (James Cameron, 1989, musiche di Alan Silvestri): a 00:49:05 l’inquadratura si stringe sul contenitore appena recuperato dal sommergibile statunitense naufragato all’inizio del film che contiene la testata nucleare attorno alla quale ruota la maggior parte della densa trama narrativa, e l’orchestra commenta l’inquadratura con un accordo di ottoni (spesso impiegati in queste situazioni con il timbro alterato dalla sordina) in cui sono fusi i suoni degli accordi di Sol minore e Mi♭ minore. Chiaramente in questi ultimi casi il cliché volge maggiormente verso una dimensione di unheardness20, ovvero di commento sonoro che tende a 20 Cfr. Claudia Gorbman, Unheard Melodies: Narrative Film Music, British Film Institute, Londra, 1987. Questo tipo di utilizzo della musica in funzione segnaletica viene concettualizzato per la prima volta, con intenti polemici, da Adorno e Eisler in Theodor W. Adorno, Hanns Eisler, Composing for the Films, cit.
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rimanere sotto la soglia della percezione cosciente dello spettatore; l’enunciato musicale non possiede una propria autonomia, ma serve al riconoscimento di una determinata intenzione narrativa che senza l’enunciazione musicale difficilmente verrebbe identificata come tale (secondo un semplice meccanismo cinematografico, senza quell’accordo di ottoni lo stringersi dell’inquadratura sulla borsa portata dai tre militari non sarebbe percepita come minacciosa). Tuttavia, come abbiamo osservato, la duttilità del cliché gli consente di agire a livelli differenziati e in situazioni filmiche di diversa natura: questi procedimenti armonici sono infatti coinvolti in prima istanza in quei dispositivi retorici di culminazione sonora e visiva individuati e analizzati da Meandri in corrispondenza dei momenti di svelamento del Meraviglioso o del Terribile, tappa obbligata del plot fantastico in cui la musica si colloca a un livello massimo di esposizione percettiva21. La retorica musicale di annuncio, preparazione, incremento della tensione e manifestazione, cui corrisponde nel montaggio visivo una dialettica di tensione tra lo “sguardo fuori campo” e lo svelamento dell’immagine stupefacente, trae i suoi mezzi armonici proprio dai sistemi esatonici descritti dalla teoria neoriemanniana. Secondo l’inquadramento teorico dato da Meandri, infatti, il momento di apparizione del Meraviglioso e del Terribile altro non sono che due facce della stessa medaglia e parallelamente i mezzi impiegati per dar loro espressione musicale ricorrono alle medesime risorse armoniche, in un caso associate alla triade maggiore, nell’altro caso alla triade minore. Negli esempi di apparizione del Terribile citati nel suo saggio, infatti, le connessioni accordali utilizzate nell’underscore rientrano negli insiemi di coppie di triadi minori che stiamo qui analizzando. Nella sequenza del film Lara Croft: The Cradle of Life (Jan de Bont, 2003, musiche di Alan Silvestri) in cui la protagonista e i suoi aiutanti riemergono fra le rovine di una città subacquea, a partire da 0:08:59 la successione accordale è Sol minore-Si minore, mentre nella sequenza de The Mummy Returns (La mummia-Il ritorno, Stephen Sommers, 2001, musiche di Alan Silvestri) quando il risorto sacerdote Imhotep compie un sortilegio sulle acque di un fiume, scatenando una gigantesca onda maligna, gli accordi impiegati sono Re minore-Si♭ minore. Specularmente, una possibile alternativa per dar suono al dispiegamento del Meraviglioso sfrutta le risorse delle triadi 21
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maggiori dell’insieme esatonico neo-riemanniano: in Abyss durante l’apparizione della creatura aliena, formata da acqua (1:24:07), che dimostra i suoi intenti amichevoli assumendo le sembianze dapprima della protagonista femminile Lindsey, poi del protagonista maschile Bud, la figura musicale in ostinato (Fig. 14) viene trasportata alternativamente dalla triade di Fa maggiore a quella di Re♭ maggiore. Meraviglioso, Terribile e Perturbante sono quindi territori adiacenti dai confini sovrapposti in cui il risolversi dell’uno nell’altro dura il tempo di quell’“esitazione” di fronte all’evento straordinario che secondo Todorov è l’essenza del genere fantastico22 e che in termini musicali, con l’icastica semplificazione su cui Hollywood costruisce il suo potere fascinatorio, oscilla tra i poli del modo maggiore e del modo minore. In buona parte, l’intento di fascinazione che si mette in moto in questi luoghi retorici si fonda su procedimenti armonici in grado di accedere a regioni tonali fluttuanti23, prive di relazioni cadenzali forti, in cui la musica sospende il corso del mondo e segna l’ingresso in una dimensione di stupefazione. A potenziare questa proprietà musicale è spesso chiamato un altro mezzo musicale che più di ogni altro possiede un’irresistibile facoltà ipnotica: la ripetizione in ostinato. Elemento raro all’interno dello stile sinfonico classico dove il discorso musicale tende alla continua progressione direzionata in avanti, esso torna a riaffiorare nel linguaggio sinfonico proprio nel periodo tardo romantico, spesso in associazione con sequenze armoniche caratterizzate dalla sospensione dei consueti percorsi funzionali, dove la presenza di patterns melodici continuamente ripetuti potenzia il carattere sospensivo di queste concatenazioni remote. Uno dei possibili role models di questa pratica, il quale ha probabilmente contribuito in maniera determinante alla fissazione del cliché cinematografico, è costituito ancora una volta da quel fondaco universale di musica per il cinema della New Hollywood costituito dalla Suite I Pianeti op. 32 di Gustav Holst. Com’è noto, tutti i brani della suite sono stati fonte di utilizzi diretti e indiretti di Tzvetan Todorov, Introduction à la littérature fantastique, Éditions du Seuil, Paris, 1976 (tr. it. La letteratura fantastica, Garzanti, Milano, 2000). 23 È lo stesso Cohn a sottolineare il legame dei processi armonici neo-riemanniani con il concetto di “sospensione”, riportando tra l’altro un corposo elenco di teorici della musica che individuano questo stesso tratto peculiare, per esempio Salzer e Schachter affermano: «This temporary lack of a diatonic frame of reference, creates, as it were, a suspension of tonal gravity», Felix Salzer, Carl Schachter, Counterpoint in Composition, McGrave-Hill, New York, 1969, p. 215 [corsivo mio]. 22
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stilemi armonici, melodici, timbrici, ritmici che hanno trovato larghissima diffusione nel cinema fantastico a partire dagli anni ’70. L’ultimo brano della raccolta, Neptune, the Mystic è certamente uno dei modelli di riferimento per l’applicazione di una logica armonica che risponde ai principi dei sistemi esatonici: l’intera prima parte del brano è costituita da un’oscillazione ostinata di due triadi minori dello stesso insieme, gli accordi di Mi minore e Sol diesis minore, che con il loro ipnotico ripetersi danno vita a un’aura sonora di sospensione e di arcana indeterminatezza. La solita coppia di accordi, che ormai abbiamo imparato a conoscere, viene in seguito trasportata su gradi differenti, fino a che l’oscillazione non diventa sovrapposizione simultanea (a battuta 22) e il timbro della celesta non giunge a sancire, secondo un’interpretazione cinematografica a posteriori, la natura “magica” di questo brano. La suite di Holst ha guidato in buona parte il recupero di un sinfonismo tradizionale nel cinema fantasy dagli anni ’70, contribuendo a definire alcuni musemi del vocabolario musicale dell’underscore e gettando un vero e proprio ponte di collegamento tra lo stile sinfonico di inizio Novecento e la New Hollywood. È bene infatti precisare ciò che potrebbe essere già di per sé ovvio, ovvero che l’uso di determinati topoi e figure musicali si inserisce sempre all’interno di precisi limiti cronologici che ne definiscono le fasi di fissazione, diffusione, declino e scomparsa, le quali seguono il naturale processo di vita di qualsiasi convenzione linguistica. Gli stilemi legati all’applicazione degli insiemi esatonici sono introduzione relativamente recente del cinema fantastico, propria degli anni Settanta e Ottanta, e decisamente più scarso e occasionale è il loro utilizzo in periodi precedenti. Non che sia impossibile trovarne: per esempio, nella musica del main title del film fantascientifico The Day the Earth Stood Still (Ultimatum alla terra, Robert Wise, 1951, musiche di Bernard Herrmann), il minaccioso tema degli ottoni (che risuona subito dopo il glissato discendente di musica elettronica) è sostenuto da un’armonizzazione che accosta la triade di Mi♭ minore a quella di Si minore, cui si aggiunge nel registro acuto un arpeggio ostinato di triadi minori con settima maggiore. Ma a questa altezza cronologica il cliché, seppur già occasionalmente presente, non è ancora giunto a una piena definizione e fissazione. Pochi anni più tardi infatti lo stesso Herrmann ricorre a mezzi musicali molto simili a quelli utilizzati per il film di Wise nella colonna sonora di un film la cui sceneggiatura corteggia diversi aspetti del Perturbante, Vertigo (La donna che visse due volte, 1958, Alfred Hitchcock). In essa, tuttavia, si troveranno esigue tracce di utilizzo di sistemi esatonici; è pre-
sente un ostinato melodico costruito sul medesimo accordo utilizzato nel precedente film di fantascienza (Mi♭-Sol♭-Si♭-Re) con minacciosi interventi degli ottoni che, giunti alla loro acme, emettono inquietanti esplosioni sonore sullo scontro di triadi fra loro remote, La♭ maggiore-La minore e in seguito La♭ minore-Si♭ eccedente, estranee quindi alla logica dei sistemi esatonici24. Qualche decennio più tardi, quando ormai il cliché sarà divenuto moneta corrente, Alan Silvestri, chiamato a musicare un film la cui sceneggiatura e il cui montaggio sono un aperto omaggio al cinema di Hitchcock, What Lies Beneath (Le verità nascoste, Robert Zemeckis, 2000) pagherà il suo tributo allo stile musicale di Hermann attingendo a piene mani a elementi stilistici delle musiche per Psyco e Vertigo, senza esimersi però dal rivolgersi a un massiccio impiego di accostamenti esatonici per dar rappresentazione a un tipo di suspense perturbante, parente stretta di quella dei capolavori hitchcockiani: il tema del main title che, come in Vertigo, sarà destinato a diventare ossessione sonora nelle sue innumerevoli ripetizioni lungo lo svolgersi del plot, è costituito da un frammento di tre note del nostro “esacordo magico”25, armonizzato dalla coppia di triadi Re♭ minore-Fa minore.
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Ciò che è stato fin qui argomentato mette in luce alcuni rapporti di continuità presenti tra due linguaggi differenti (il sinfonismo tardo romantico e la colonna sonora neohollywoodiana) i quali utilizzano lo stesso medium musicale, l’orchestra sinfonica, e si fondando su un vocabolario di figure condivise. Nel caso da noi analizzato sono stati messi in relazione È interessante notare che la stessa combinazione armonica di triadi in unione con l’elemento melodico costituito dalla scala discendente di tre suoni (Re-Do-Si) è utilizzata tanto per la rappresentazione angosciata della vertigine che per la scena di fascinazione erotica di tipo feticistico, in cui Scottie costringe Judy ad acconciarsi come Madeleine, creduta defunta. Questa strettissima parentela tematica, occultata dietro un’orchestrazione totalmente differente, incarica la musica di creare un potente legame narrativo tra i due elementi che si intrecciano nel complesso ossessivo del protagonista Scottie, nelle spire del quale anche lo spettatore viene inevitabilmente avvinto. Per un’analisi approfondita del soundtrack di questo film si veda Graham Donald Bruce, Bernard Herrmann: Film Music and Narrative, UMI Research Press, Ann Arbor, 1985. 25 Così Friedmann chiama la scala formata dai suoni dell’insieme esatonico in Michael L. Friedmann, Ear Training for Twentieth-Century Music, Yale University Press, New Haven, 1990. 24
fenomeni di natura esclusivamente armonica, ma i campi di comparazione sarebbero numerosi e potrebbero riguardare i parametri della strumentazione, della melodia, della forma eccetera. Come si osservava in apertura, tuttavia, sarebbe semplicistico pensare che i rapporti di discendenza da uno stile all’altro corrano su tracciati diretti e rettilinei. L’adozione di un mezzo espressivo proveniente da un determinato medium indubbiamente porta con sé pezzi di storia e di significati di quel medium, ma anche dà inevitabilmente avvio alla germinazione di nuove forme che con quella storia nulla hanno a che vedere. Il sistema di significazione su cui abbiamo concentrato la nostra analisi, ovvero il meccanismo del cliché, per esempio, risulta estraneo al linguaggio operistico e sinfonico tardo ottocentesco, perlomeno al livello di stabilità di ricorrenza figurale che caratterizza invece i topoi musicali del cinema di genere (una simile stabilità di formule è invece sicuramente presente nel melodramma romantico italiano, il cui lessico tuttavia non lascia tracce nello stile New Hollywood di genere fantastico). Se è possibile, quindi, tracciare alcune linee di discendenza tra un repertorio e l’altro nell’ambito dell’utilizzo di determinati stilemi armonici e dei significati a essi associati, sarebbe ugualmente possibile individuare una serie di ricorrenze topiche frequentissime nel cinema americano e del tutto assenti nel repertorio musicale ottocentesco, maturate di conseguenza esclusivamente all’interno del nuovo medium. Non vi è quindi un rapporto di meccanico trasferimento di ricorrenze topiche da un contesto all’altro, ma un complesso processo di ricreazione: se attraverso i classici elenchi di frammenti musicali provenienti dal repertorio classico, da utilizzarsi nelle varie situazioni drammatiche della sceneggiatura, la Hollywood delle origini ha fatto proprie numerose figure provenienti dal repertorio sinfonico tardo ottocentesco26, non sempre questo trasferimento ha lasciato intatti i significati originari di quei materiali. Numerose sono, infatti, le formule musicali che sviluppano contenuti validi solo nel nuovo contesto e che nulla hanno a che vedere con i relativi precedenti sinfonici, dei quali ripropongono magari solo la forma esteriore. Rimanendo nel campo dei cliché del genere fantastico, si consideri la figura costituita dalla reiterata oscillazione tra un accordo di triade minore di I grado e il suo IV grado maggiore (o anche il suo inverso, ovvero una triade maggiore che si sposta sulla sua dominante minore), individuata
da Meandri essere il topos musicale più diffuso per musicare la mostrazione del Meraviglioso27. È difficile immaginare per questo topos alcuna relazione con il vocabolario dell’opera o della sinfonia ottocentesca, non tanto perché collegamenti accordali di questo tipo, estranei all’orizzonte di possibilità dell’armonia ottocentesca, iniziano a comparire solo all’interno del linguaggio modale esplorato dalla musica francese o degli autori delle scuole nazionali28, ma soprattutto perché presso i compositori “classici” a essere del tutto assente è qualsiasi relazione fra queste concatenazioni accordali con quel tipo di retorica della “stupefazione” che invece costituisce il carattere emblematico del cliché hollywoodiano. Si ascolti, per esempio, il grado di affinità che le battute mostrate in Fig. 3, tratte dalla parte finale di Nuages (Nuvole), primo dei tre Nocturnes di Debussy (batt. 77-79), intrattengono con il diffuso cliché cinematografico del Meraviglioso, ma quanto marginali siano esse nel contesto del brano sinfonico e quanto lontane dalla retorica di culminazione che è propria del topos nella sua fissazione cinematografica. Allo stesso modo si ascolti il passo sinfonico di Dialogue du vent e de la mer (terzo movimento di La Mer) sempre di Debussy, presente in Fig. 6 (da 4 prima di 56 a 4 dopo 56) e si valuti la parentela che accomuna la fragorosa esplosione in f di questa idea tematica con la retorica e il vocabolario melodico e armonico di numerosissime sequenze cinematografiche atte ad accompagnare momenti di svelamento di immagini stupefacenti. Di fronte a esempi di questo tipo, in cui le forme esteriori del cliché cinematografico coincidono così esattamente con passi di opere sinfoniche classiche, viene naturale domandarsi se sia possibile, per il fruitore cinematografico contemporaneo, ascoltare queste sequenze musicali senza assegnarvi inevitabilmente tutto il portato immaginifico che il cinema ha legato a quelle formule. E la domanda successiva è: quanto di questo significato era presente nell’idea creativa del compositore e quanto è frutto delle associazioni iconiche sulle quale il cinema ha costruito il proprio immaginario? È quanto infatti si domanda Abbate, trattando proprio dell’influenza che la trasposizione di un’opera musicale all’interno di un mezzo di riproduzione diverso da quello originale esercita sul contenuto
26 Cfr. Roberto Calabretto, «L’iniziatore del commento musicale cinematografico»: Giuseppe Becce, «La Valle dell’Eden», XII-XIII, 25-26, 2010, pp. 24-37.
Cfr. Ilario Meandri, supra pp. 173ss. Piston, per esempio, ne parla nel suo manuale citando esempi da Grieg, Debussy e Ravel: Walter Piston, Manuale d’armonia, Edt, Torino, p. 458. Mascagni usa spesso l’accordo di dominante minore, soprattutto nell’opera L’amico Fritz.
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stesso dell’opera e della conseguente possibilità che le opere sinfoniche ottocentesche risuonino all’orecchio contemporaneo come una sorta di «Hollywood by-products»29. Con questi interrogativi approdiamo a quelle questioni generali concernenti l’immaginario musicale contemporaneo cui si accennava in apertura, che coinvolgono la storia della ricezione musicale e i processi di inevitabile deriva che il significato di un’opera subisce al mutare dei contesti culturali attraverso i quali essa è trasportata dal tempo, sottoposta a tutte le nuove funzionalizzazioni cui essa va incontro. A questo stesso tipo di processi culturali appartengono anche tutti i fenomeni di influenza alla rovescia, ovvero di migrazione di stilemi cinematografici all’interno del linguaggio dei compositori di musica sinfonica contemporanei, fenomeni che si possono osservare nella produzione di gran parte dei compositori neo-tonali, i quali spesso accolgono nel proprio bagaglio lessicale un tipo di figuralità musicale che si rifornisce direttamente dalla fonte dello stile Hollywood. È un diffuso fenomeno di rimediazione al contrario per cui all’interno di brani strumentali e sinfonici di compositori di musica assoluta dei giorni nostri è frequente trovare procedimenti musicali che arrivano direttamente dal repertorio dei cliché cinematografici. Si ascolti, per esempio, la Suite Antique (1979) del compositore inglese John Rutter (1945), votata nelle forme a un recupero neoclassico della suite sei-settecentesca30, ma nel contenuto vera e propria collezione di topoi cinematografici. Basta ascoltare l’incipit del primo brano, il Prelude, per imbattersi già nella reiterata sequenza di accordi di I minore-IV maggiore cui poc’anzi si accennava come esempio di figura maturata all’interno del contesto cinematografico e chiamata in questo brano ad aprire una suite strutturata secondo criteri pseudo-barocchi, in cui subito dopo le battute iniziali risuona una delle più tradizionali progressioni per quinte à la Bach, con un paradossale contrasto stilistico tutto postmoderno. È chiaro, quindi, che il tema dei reciproci rapporti tra il linguaggio sinfonico e il cinema (in particolare hollywoodiano) sia intricato e non descrivibile nei termini di un semplice trasferimento. Nel caso qui esaminato si è cercato di mettere in evidenza la longevità di un certo tipo di associazione
semantica fra accordi di natura esatonica e una modalità di espressione del Perturbante in musica che, emersa nel periodo tardo romantico, ha mantenuto validità anche nella sua versione cinematografica più recente. Si è però poi voluto mettere in guardia dal ritenere così automatica la filiazione di certi cliché cinematografici dal repertorio classico, la quale non sempre avviene in maniera immediata. Questo tipo di comparazione si potrebbe estendere anche ad altri aspetti della sintassi sinfonica ottocentesca più o meno condivise dal sinfonismo cinematografico, mettendo in luce i debiti dell’uno verso l’altra ma anche le radicali diversità, in un quadro di continuità e discontinuità che caratterizza questo legame di discendenza e i loro rapporti di reciproca influenza. L’esperienza del soundtrack hollywoodiano, infatti, è ormai entrata a far parte costitutiva dell’immaginario uditivo legato alla tradizione dell’orchestra sinfonica e forse è stato raramente evidenziato come essa abbia contribuito in maniera determinante ad alimentare quel processo di “persistenza del Romanticismo” che il musicologo Leonard Meyer ha individuato essere uno degli aspetti fondamentali degli sviluppi della musica del XX secolo e di cui il cinema è senza dubbio stato fra gli agenti principali31.
Carolyn Abbate, Drastic or Gnostic, cit., p. 523. Il compositore scrisse la suite utilizzando volutamente lo stesso organico del Concerto Brandeburghese n.5 di Bach.
Leonard B. Meyer, Style and Music: Theory, History, and Ideology, University of Chicago Press, Chicago, 1989 pp. 337-352. Devo a Ernesto Napolitano lo spunto per questa ultima considerazione.
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Strategie, tecniche e topoi audiovisivi nel cinema d’azione degli anni Duemila di Giacomo Albert Introduzione Intendo studiare le strategie e le tecniche audiovisive di alcuni film d’azione degli anni Duemila, incentrando l’attenzione sulla loro relazione con le modalità di fruizione. In particolar modo mi propongo di inquadrare tali strategie all’interno di una delle principali categorie della fruizione, l’immersione. Oggetto d’analisi sono le opere prodotte dalla collaborazione tra Christopher Nolan e Hans Zimmer: Batman Begins (2005)1 e The Dark Knight (Il cavaliere oscuro, 2008) dalla saga di Batman2, e Inception (2010)3. La saga di Batman appartiene al filone del film d’azione ispirato ai fumetti, molto in voga nel cinema mainstream degli anni Duemila; al contrario, Inception è più elaborato e di difficile classificazione: intreccia caratteristiche di diversi generi, dal film d’azione al thriller alla fantascienza.
Rapporto tra le tecnologie audiovisive e l’immersione del fruitore nella storia del cinema
Ken Jordan 5 individuano cinque caratteristiche chiave della multimedialità: l’integrazione delle forme artistiche e delle tecnologie in forme di espressività ibride, l’interattività, l’ipermedialità, l’immersione e infine le forme di narratività sviluppate dalla combinazione delle precedenti categorie. Definiscono poi l’immersione come «l’esperienza di entrare nella simulazione o nella suggestione psicologica di un ambiente tridimensionale»6 , mettendo in risalto l’architettura mediale delle opere d’arte multimediali, che inglobano il fruitore all’interno di un reticolo di diversi media, simulando un ambiente, uno spazio virtuale, potenziando così la mimesi del mondo rappresentato. Oliver Grau ha trattato l’evoluzione delle sale, degli schermi e delle tecnologie di riproduzione cinematografici all’interno di una storia allargata della visione sulla scorta della categoria dell’immersione7. In tal senso ha interpretato non solo le tecnologie di visione stereoscopica e tridimensionale, dal Cinérama al 3D, ma anche le tecniche adoperate da Leni Riefenstahl per Triumph des Willens (Il trionfo della volontà, 1935) 8. Ha messo in risalto il rapporto tra la condizione di novità della tecnologia impiegata, quanto essa sia nota al fruitore, con la sua capacità di illuderlo di appartenere al mondo rappresentato. Grau ha dunque affermato la necessità di contestualizzare storicamente la tecnologia per studiare le categorie e le figure della fruizione messe in moto nel processo esperienziale dell’opera. Il concetto di immersione si sposta dal piano della mera architettura mediale a quello della struttura modale 9:
Le analisi sono condotte sui DVD ufficiali della prima uscita. La saga sarà completata nel luglio 2012 con The Dark Knight Rises (Il cavaliere oscuro – Il ritorno). 3 Per i film su Batman Zimmer si è avvalso della collaborazione di James Newton Howard, oltre che degli altri musicisti consorziati nella Remote Control Production, struttura di produzione di musica per film e trailer da lui fondata. 4 Sergej M. Ejzenstejn, Über den Raumfilm in Id., O. Bulgakowa, D. Hochmut (a cura di), Das dynamische Quadrat: Schriftem zum Film, Röderberg, Köln, 1988, p. 235 [le traduzioni sono a cura del redattore].
5 Randall Packer, Ken Jordan (a cura di), Multimedia: From Wagner To Virtual Reality, Norton & Company, New York- London, 2001, pp. XIII-XXXI e 219-275. La categoria dell’immersione è presente in molte teorie della multimedialità: per esempio è citata tra i principi che ridefiniscono lo statuto delle arti e la figura dell’artista da Andrea Balzola, Anna Maria Monteverdi (a cura di), Le arti multimediali digitali, Garzanti, Milano, 2004, pp. 13-14. 6 Ivi, p. XXXI. 7 Oliver Grau, Virtual Art. From Illusion to Immersion, MIT Press, Cambridge Massachusetts, 2003, pp. 140-168 e Id., Immersion und Emotion. Zwei bildwissenschaftliche Sclüsselbegriffe, in Oliver Grau, Adreas Keil (a cura di), Mediale Emotionen. Zur Lenkung von Gefühlen durch Bild und Sound, Fischer Verlag, Frankfurt a. M., 2005, pp. 70-107. 8 Ivi, pp. 83-90. 9 Per le categorie architettura mediale e struttura modale cfr. Giacomo Albert, ‘Sound Sculptures’ e ‘Sound Installations’, «AAA • TAC», Vol. 7, 2010, pp. 37-87, in particolare pp. 57-69.
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Nel 1947 Ejzenštejn scrisse che la diffusione stereofonica del suono, tecnologia all’epoca all’avanguardia, avrebbe permesso al pubblico di «immergersi completamente nella forza del suono»4. Randall Packer e 1 2
non è tanto una proprietà della tecnologia, ma del rapporto che il fruitore instaura con essa. Come avviene questo scivolamento? Lo si può comprendere osservando il sistema di proiezione di Batman Begins, Il Cavaliere oscuro e Inception, IMAX10: lo schermo previsto nei cinema IMAX è più grande rispetto a quello usuale. L’IMAX, così come i suoi antecedenti CinemaScope o Cinérama, è pensato per sormontare la visuale dello spettatore. In tal modo, questi ha la sensazione di essere inglobato nello schermo. Il contorno dell’immagine è costituito dai limiti del campo visivo dello spettatore e non da quelli dello schermo: si frantuma la cornice11. La soppressione della cornice, così come quella del piedistallo per una scultura in campo aperto12 o la fine della pittura da cavalletto in favore della creazione di un ambiente13, non è tanto un fenomeno visivo, quanto cognitivo. La cornice, infatti, delimita lo spazio dell’opera da quello del fruitore. Eliminarla significa rimuovere le barriere che distanziano i due mondi. Significa cioè che l’opera non viene interpretata sulla base di un orizzonte di significati proprio, distinto da quello adoperato nella vita quotidiana, bensì partecipa di questo. In tal modo la comunicazione tra opera e fruitore non è più mediata e le forme esperienziali e cognitive che vengono messe in campo non si basano più sulla rappresentazione, ma sulla presenza. Il fruitore non interpreta l’opera, non vi si avvicina con distanza critica, bensì la vive. Il mondo rappresentato sullo schermo e dagli altoparlanti diventa per lui una realtà, pur se virtuale. Questa è un surrogato della realtà, un’iper-realtà14, percepita in maniera diretta, come vera, dato di natura, non come artificio. Ecco come il concetto mediale, la forma dell’oggetto che travalica il campo percettivo del fruitore, si trasforma in un concetto modale, che riguarda la relazione e le modalità sensoriali, percettive e cognitive, che legano il fruitore e l’opera.
Nonostante l’aspetto mediale e quello modale nelle trattazioni scientifiche dell’immersione siano intrecciati15, è a mio avviso utile distinguerli, in quanto nessuna delle due dimensioni è condizione necessaria per la reificazione dell’altra: cercherò nel prosieguo del testo di dimostrare che le modalità di comunicazione inscritte nelle strategie compositive determinano le modalità in cui l’opera è percepita, piuttosto che l’apparato tecnologico in sé. L’evoluzione della tecnologia sonora nel cinema tende verso l’integrazione di strumenti che permettono una maggiore immersione del fruitore nel film, tanto dal punto di vista mediale, quanto da quello modale. La spazializzazione del suono, passata dalla monofonia alla stereofonia, alla quadrifonia, fino agli impianti a 5, 7, 9 e 10 canali, ha circondato lo spettatore di casse e lo ha immerso nei suoni, dandogli la sensazione di trovarsi all’interno dell’opera e del mondo ivi rappresentato. Dal punto di vista cognitivo ciò che ha aumentato la capacità di comunicazione diretta, non mediata da strutture rappresentative tra suono e fruitore, è la definizione della riproduzione16: dal musicista che suona dal vivo si è passati al diffusore, che ha consentito di ascoltare rumori ambientali, dialoghi e musiche sincronizzati con l’immagine, aumentando la capacità mimetica di quest’ultima17. Da allora la definizione sonora è costantemente migliorata, attraverso progressi nelle tecnologie di ripresa, in quelle di diffusione e nell’acustica delle sale. In tal modo è aumentata la banda dello spettro sonoro e si è passati da un ambiente con forte riverbero a uno asciutto, nel quale il riverbero, e con esso la distanza e la dimensione dell’immagine sonora percepita, possono essere composte in fase di postproduzione e variare da un suono all’altro.
La stessa ditta IMAX sul sito ufficiale http://www.imax.com/corporate/ richiama la categoria dell’immersione: «IMAX Corporation is one of the world’s leading entertainment technology companies, specializing in immersive motion picture technologies». 11 La metafora della cornice è usata con frequenza nelle teorie del film, per esempio da André Bazin, Peinture et cinéma, in Id., Qu’est-ce que le cinéma?, Vol. II, Éditions du Cerf, Paris, 1962, pp. 127-132. 12 Cfr. Rosalind Krauss, Sculpture in the Expanded Field, «October», Vol. 8, MIT Press, Cambridge (Mass.), 1979, pp. 30-44. 13 Cfr. Rosalind Krauss, La crisi della pittura da cavalletto, in Id., Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte d’oggi, 2005, Mondadori, Milano, pp. 1-37. 14 Cfr. Jean Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina, Milano, 1996.
Sia in ambito artistico, come in Oliver Grau, Virtual Art. From Illusion to Immersion, sia in altri ambiti, come in Francesco D’Orazio, Immersione, in Alberto Abruzzese, Valeria Giordano (a cura di), Lessico della comunicazione, Meltemi, Roma, 2003, pp. 271-275. 16 Cfr. Michel Chion, Un art sonore, le cinéma. Histoire, esthétique, poétique, Cahier du Cinema, Paris, 2003 (tr. it. Un’arte sonora, il cinema. Storia, estetica, poetica, Kaplan, Torino, 2007, pp. 93-112). 17 Per la relazione tra immersione e tecnologie di ripresa e diffusione sonora, cfr. Frances Dyson, Sounding New Media. Immersion and Embodyment in the Arts and Culture, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 2009.
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Il sound design e lo spazio patemico A 25’07” di Inception inizia una scena ambientata nel dehors di un café parigino, i cui protagonisti sono Cobb e la giovane Ariadne. Cobb le spiega i segreti della navigazione dei sogni; successivamente le rivela di essere già all’interno di un sogno; a questo punto il mondo inizia a collassare, i protagonisti muoiono e di colpo si svegliano. È interessante osservare come si comporta il sonoro: all’inizio, mentre dialogano, c’è del rumore di fondo molto basso, che, pur rimanendo a volume costante, si sente di più mano a mano che la musica di sottofondo esce di scena. A 26’13” Cobb inizia a rivelare di essere parte di un sogno, chiedendo ad Ariadne se si ricorda come siano giunti in quel posto; contemporaneamente inizia un crescendo del rumore di fondo, che riceve un’ulteriore accelerazione a 26’24” quando lei si rende conto di essere nella dimensione onirica. A 26’30” improvvisamente il rumore scompare in un silenzio assordante; due secondi dopo iniziano a crescere frequenze molto basse, che probabilmente simulano l’inizio di un terremoto, frequenze che a 26’36” diventano delle esplosioni, visibili anche sullo schermo, composte da timbri molto scuri. Ho citato questo passo per evidenziare come il rumore di fondo non svolga solamente una funzione mimetica nei confronti dell’immagine, ma a esso siano demandate numerose funzioni secondarie. Non deve solo raffigurare sonicamente la strada parigina; piuttosto, da una parte rappresenta l’accresciuta attenzione di Ariadne nei confronti del mondo che la circonda, dall’altra, soprattutto, serve per comprimere psicologicamente il fruitore, aumentando la sensazione di disturbo provocata dai rumori di fondo. Ciò avviene nonostante questi non rilevi tale artifizio, non ne sia cosciente. Il silenzio inverosimile che segue il raggiungimento del climax e il successivo crescere delle frequenze basse rafforzano la compressione psicologica del fruitore, attraverso suoni non naturalistici, misteriosi, che annunciano e incutono timore per qualcosa che deve accadere ma che non si conosce. Pertanto, una funzione del sound design è qui la manipolazione diretta del subconscio dell’audiospettatore, non mediata da processi cognitivi consci basati sulla rappresentazione. Non riveste solo una funzione mimetica, ma anche di pressione psicologica. Con tale osservazione si possono spiegare molte “incongruenze” nel sound design di passi celebri, come per esempio il rumore del vento nella scena dell’inseguimento finale di The Shining (Shining, Stanley Kubrick, 1980), vento il cui timbro e volume non riflettono in alcun modo i cambiamenti d’ambiente dei protagonisti.
Si può quindi affermare che lo spazio all’interno del quale il fruitore è seduto ha una natura patemica, emozionale e non descrittiva o rappresentazionale. Le modalità di comunicazione tra lo spazio patemico e il fruitore possono essere di diversa natura. Una tecnica più complessa di quella appena esaminata si osserva, per esempio, nel prologo di The Hurt Locker (Kathryn Bigelow, 2008). Di solito è classificato come film d’azione, nonostante rinunci a molti canoni del genere: la caratteristica più importante che esula dal film d’azione consiste nel fatto che la tensione, costantemente presente, nasce dai conflitti interiori dei protagonisti, piuttosto che da vere scene d’azione (ossia l’azione è interna, dunque statica). L’emozione su cui si basa non è cinetica, ritmica, legata al movimento, ma è incentrata sulla creazione di campi di tensione. Il prologo occupa i primi 9’13”: in un primo momento mostra il percorso di avvicinamento della squadra degli artificieri al luogo dove è stata ritrovata una bomba, attraverso le strade di Baghdad; poi il tentativo, fallito, di disinnescare l’ordigno attraverso un robot telecomandato e, infine, il tragitto verso la bomba del sergente Matt Thompson, vestito in un scafandro di protezione: un percorso che si conclude con la sua morte in seguito alla detonazione dell’ordigno attivata da un civile iracheno che i suoi colleghi, Sanborn e Eldridge, non sono riusciti a bloccare. La prima sezione (0’-1’27”) introduce il film e lo definisce dal punto di vista sonoro con i principali temi caratteristici: sono qui sovrapposte fasce sonore tenute, che rimandano ai crescendi di tensione dei film horror, cluster lentamente cangianti suonati da archi, fiati e strumenti elettronici fusi, la pulsazione di un cuore umano, una melodia araba, presumibilmente cantata da un muezzin, i rumori del disordine della città, del caos che si affastella. La seconda sezione (fino a 5’00”) ha meno suono: nel canale anteriore centrale sono registrati i suoni “diegetici”, relativi alle azioni e ai dialoghi raffigurati nel mondo rappresentato sullo schermo; nei canali laterali si sentono solo, a tratti, aerei ed elicotteri; inoltre, nella prima sottosezione (fino a 3’18”), si sente in estrema lontananza un’eco del canto del muezzin, mentre nella terza sottosezione (da 3’55”), non si ode più alcun suono. Tra le due sottosezioni c’è un breve intervento del mondo esterno, che allude alla prima sezione, ai cluster e ai suoni della città (il mondo esterno irrompe brevemente nella scena dell’attentato). La terza sezione (da 5’00” alla fine) è più articolata: è composta di diversi crescendi di tensione seguiti da brevi diminuendi; tali crescendi, sempre
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più intensi, sfociano nell’esplosione. I suoni d’ambiente sono di due tipi: il normale rumore di fondo e la simulazione del punto di ascolto del sergente18, ciò che questi avrebbe potuto sentire dentro lo scafandro. Ciò è interessante, perché, oltre alle differenze timbriche dovute al particolare tipo di filtraggio provocato dall’attrezzatura, il suono è diffuso dai 4 canali laterali e posteriori, e, inoltre, si ascoltano suoni “intimi”, come il respiro o il battito cardiaco del sergente, che predispongono il fruitore all’empatia: egli si avvicina al sergente, respira assieme a lui. I crescendi del rumore di fondo sono accompagnati da crescendi dei cluster: iniziano con il solo rumore percepito da Sanborn e Eldgidge, cui si sostituisce il suono dello scafandro e, soprattutto alla fine, le due tipologie di rumore si sovrappongono. Nell’ultimo tratto si distinguono anche i crescendi dei suoni intimi, della pulsazione sempre più concitata del cuore e del respiro sempre più affannoso, che sfociano nella lunghissima “detonazione al microscopio”, in cui le singole fasi dell’esplosione sono separate e ampliate in un suono anti-mimetico che immette il fruitore all’interno dell’esplosione. Il prologo di The Hurt Locker è dunque incentrato sulla dialettica tra un ascolto frontale, tipico della seconda sezione, cui corrisponde un rapporto distaccato tra il fruitore e lo schermo, e un ascolto immersivo, in cui il fruitore è risucchiato nello spazio di rappresentazione, entra nello schermo e la sua percezione è sovraeccitata e manipolata.
spazializzato anche soprattutto sui canali posteriori. La ragione per cui il sound designer ha operato tale scelta risiede nel fatto che il colpo è inaspettato (dal dialogo tra i due malviventi mascherati si suppone che i colpi siano finiti) e la sua accentuazione ha lo scopo di far saltare lo spettatore sulla sedia, piuttosto che rappresentare un evento. Dal momento che il sound design non è una dimensione autonoma del testo filmico, ma che, ancella, costituisce assieme all’immagine e alla musica un’unità inscindibile, quanto ora osservato è da interpretare nell’intersezione dei diversi piani: l’ultimo sparo conclude una sezione formale e dà avvio a quella successiva. Il suo effetto è rafforzato dall’organizzazione temporale degli spari: 3’12”; 3’21”; 3’25”; 3’27”; 3’29”; 3’39”; un intervallo di tempo esponenzialmente minore tra gli spari, tranne che tra gli ultimi due, separati da una lunga pausa, in cui viene accumulata tensione emotiva (gli intervalli sono: 9”- 4”-2”-1”-10”). Gli spari tra 3’12” e 3’29” sono, inoltre, accompagnati da una veloce musica ritmata, interrotta subito dopo 3’29”; dal silenzio, in accompagnamento a una minaccia proferita dal mafioso, inizia a crescere una nota di violoncello elettronico tenuta (la identificheremo in seguito quale Leitmotiv del Joker), che serve ad aumentare la tensione emotiva. L’ultimo sparo conclude il discorso audiovisivo e nel contempo dà l’avvio a quello successivo (attacca subito una nuova tessitura ritmica).
La costruzione artificiale del suono ha dato la possibilità di applicare tecniche di manipolazione della percezione di stampo comportamentista, basate sulla ricerca psicoacustica, che travalicano la descrizione sonica degli oggetti e degli eventi per attribuire a essi una sostanza emozionale19. Per esempio, analizzando gli spari di fucile tra 3’12” e 3’39” del prologo de Il cavaliere oscuro20, si evincono molte differenze nei volumi e nella spazializzazione. Tale fenomeno non ha giustificazione nell’immagine (il mafioso/direttore di banca che spara è ripreso in maniera frontale). L’ultimo sparo è molto più forte di quelli precedenti e, a differenza di questi, è
Lo spazio in cui è collocato il fruitore non costituisce dunque una mera rappresentazione di uno spazio reale, né di uno immaginario, ma è uno spazio emotivo, patemico. A seconda dei generi e delle finalità dei registi e dei sound designer, si adoperano differenti metodologie di gestione dello spazio, che sollecitano il subconscio del fruitore in modi diversi.
La nozione di “punto di ascolto” è sviscerata nella sua problematicità in Michel Chion, L’Audio-vision. Son et image au cinéma, Editions Nathan, Paris, 1990 (tr. it. L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino, 2001, pp. 90-95). 19 Cfr. Maurizio Corbella, Sound design. Ambiguità e necessità storica di un termine alla moda, www-5.unipv.it/wav/pdf/WAV_Corbella_2010_ita.pdf, Pavia University Press, Pavia, 2010; David Sonnenschein, Sound Design: The Expressive Power of Music, Voice and Sound Effects in Cinema, Michael Wiese, Studio City, 2005. 20 In Fig. 1 è riportato il sonogramma delle tracce audio. 18
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Analisi del prologo de Il cavaliere oscuro Nel prologo de Il cavaliere oscuro il Joker e i suoi scagnozzi rapinano una banca. La sequenza introduce il personaggio principale del film, assente dal primo episodio della saga21. Precede, sulla scorta della più classica struttura narrativa, la presentazione di Batman, il personaggio a lui antitetico, che occupa la sequenza successiva. Lo si può suddividere in più unità formali di livello inferiore. Una simi21
Le sue musiche sono perciò originali.
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le segmentazione non è basata sul piano contenutistico (la sequenza segue un percorso lineare, il Joker dall’esterno della banca arriva al caveau ed esce con i soldi); piuttosto, le cinque sezioni ricevono coerenza e indipendenza dal linguaggio audiovisivo. La prima, che potremmo identificare con la categoria formale dell’introduzione, è costituita da due unità di livello inferiore, la prima delle quali è composta dai titoli di testa (0’-0’49”), mentre la seconda, anch’essa di sole immagini, musica e rumori ambientali, rappresenta il graduale avvicinamento dei rapinatori alla banca ed si conclude con l’inizio del primo dialogo (a 1’38”). La seconda sezione (1’39”-2’50”) mostra l’entrata in banca dei rapinatori, che raggiungono il caveau. Nella terza (fino a 3’39”) si vedono i contrattempi: la porta del caveau manda una scossa elettrica al rapinatore che cerca di aprirla e il direttore della banca, mafioso, reagisce ed è ferito dal Joker. Nella quarta sezione (fino a 4’21”) i rapinatori scassinano la porta del caveau e riempiono le sacche di soldi. La quinta (fino a 6’02”), il finale, è, come l’introduzione, composta di due sottosezioni (4’21”-5’01”; 5’01”-fine): nella prima arriva il mezzo di trasporto, vi vengono caricati i soldi e il Joker uccide i suoi compagni; nella seconda c’è il dialogo tra il Joker e il direttore di banca precedentemente ferito, alla fine del quale il Joker si toglie la maschera, la telecamera entra dentro il suo volto, ed esce infine di scena. La segmentazione è facilitata dalla presenza di forti stacchi audiovisivi tra la fine di una sezione e l’inizio di quella successiva. La struttura interna delle sezioni è quella del crescendo emotivo concluso da una climax, seguito dall’inizio della sezione successiva, solitamente un nuovo dialogo. I crescendi sono composti su diversi piani: gli strumenti impiegati sono il ritmo audiovisivo, il campo (la distanza tra l’oggetto ripreso e la macchina), la diminuzione ritmica del battito musicale, l’aumento del volume sonoro, la creazione/risoluzione del conflitto ecc. Tali elementi non lavorano in maniera separata, ma mettono in moto e controllano sensazioni di tipo cinestesico in una percezione multimodale. Proprio la natura cinestesica che si può leggere nell’analisi audiovisiva permette di classificare questa sezione all’interno della categoria dell’immersione. Propongo in Tab. 1 l’analisi della prima sezione del prologo. Si consiglia, per proseguire nella lettura del saggio, di consultare la tabella, dal momento che la continuazione del presente paragrafo è basato su di essa. La Tab. 1 è organizzata su più righe che scorrono simultaneamente: nella prima, “Sezioni”, ho riportato l’analisi temporale complessiva, che prescinde dal medium, su due livelli temporali. Sotto questa propongo l’ana-
lisi dell’“Immagine”: ho indicato le singole inquadrature nella riga inferiore, mentre le unità formali di livello superiore in quella sopra. Poi segue l’analisi del “Sound design”, le cui righe superiori sono dedicate ai rumori d’ambiente e quelle inferiori ai suoni puntuali, più forti, raffigurati anche sullo schermo. Infine si trovano le righe dedicate all’analisi della musica, suddivisa in diverse texture: la ritmica, i colpi percussivi, il tema di Joker e diversi livelli di fasce rumorose continue. La prima questione sollevata dall’analisi riguarda le metodologie per lo studio della spazializzazione: non esiste infatti una prassi analitica consolidata. Tale lacuna deriva dalla problematicità intrinseca al parametro: la percezione della localizzazione spaziale della sorgente sonora non è puntuale e il grado di precisione che si può raggiungere, la sua definizione, dipende da numerosi fattori, tra cui spiccano il contesto in cui è inserita e la tipologia del movimento (orizzontale, verticale o in profondità)22. Per tal motivo usualmente la spazializzazione non è concepita quale parametro autonomo, al pari dell’altezza o del ritmo, ma è pensata in relazione agli altri parametri23. Le possibili tipologie di collegamento tra questi e la concezione dello spazio sono però infinite, dipendono dal repertorio. La metodologia analitica qui applicata si adatta alla concezione di tipo cinestesico poc’anzi rilevata. La spazializzazione è in 5.1, ossia in sei canali: tre frontali (le cui casse sono collocate dietro lo schermo), sinistro, centrale e destro; due sui lati e sul retro della sala, a destra e sinistra (detti surround); infine, un ultimo canale dedicato all’amplificazione delle basse frequenze. Nella configurazione standard il canale centrale è riservato ai dialoghi, mentre in quelli laterali ci sono i rumori rappresentati sullo schermo o idealmente provenienti da quella direzione; i surround si fanno carico dei suoni d’“ambiente” (immergendo il fruitore nello spazio della rappresentazione). La musica è solitamente centrata sui canali frontali destro e sinistro e talora anche sui surround. Nell’analisi della spazializzazione (riportata in Tab. 1, nelle righe denominate “Spat”, collocate in calce a ogni “texture”) distinguo due aspetti: quello percettivo, che comprende la localizzazione della sorgente sonora (il
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Riguardo la definizione della localizzazione spaziale cfr. Brian C. J. Moore, An Introduction to the Psychology of Hearing, Elsevier Academic, London, 2004, pp. 233-269. 23 Si vedano le osservazioni di Marco Stroppa, Espace et figure, conferenza tenuta all’IRCAM, Parigi, marzo 1991, pp. 2-3, http://marco-stroppa.com/essays.html. 22
suono può seguire o meno una traiettoria) e la sua ampiezza (può avere una dimensione maggiore o minore e presentare o meno un movimento testurale interno) e quello mediale, in cui sono indicati i canali in cui è presente il suono. La sintassi proposta nella Tabella 1 per l’analisi della spazializzazione è conseguente alla morfologia attraverso cui lo spazio è configurato: ogni texture ha una propria conformazione spaziale, fortemente connotata, sia per quanto concerne la localizzazione, sia per la tipologia di movimento della sorgente. La successione tra le tipologie di spazializzazione serve per creare momenti di stacco tra le sezioni e per suscitare una sensazione di movimento o stasi nel fruitore, cioè per creare uno spazio ampio o ristretto (focalizzato). Per questo motivo si può affermare che la spazializzazione segue un paradigma di tipo comportamentista, il cui scopo è la manipolazione diretta della percezione sensibile, superficiale, del fruitore. Ora si procederà con l’esplicazione dell’analisi delle diverse texture. La prima sezione del prologo è suddivisa in due sottosezioni di uguale durata24 (cfr. Tab. 1). La prima mostra i quattro loghi, ognuno per 12”, la seconda l’inizio dell’azione. Il macrosezionamento è associato, nella dimensione sonora, alla scansione della texture 2 (d’ora in avanti t2), colpi percussivi bassi in fortissimo: l’inizio del film è accompagnato da un primo colpo; l’attacco della seconda sottosezione è sottolineata dal secondo; l’introduzione è poi conclusa da quattro colpi, che creano una figura ritmica25. È la texture dotata di maggior volume e di un inviluppo percussivo: sebbene il fruitore non la ascolti, lo colpisce con la sua violenza, scandendo il macroritmo formale nella fruizione cinestesica, lavorando sulla percezione psico-motoria. La prima sottosezione è accompagnata dalla texture 4 (t4), fasce di suono/rumore in bande spettrali distinte, che entrano gradualmente in maniera tale da riempire l’intero spettro, dai bassi agli acuti, per poi tornare ai bassi soli: aprono lo spazio spettrale. Sono spazializzate su un fronte ampio e hanno un movimento interno gradualmente più accentuato, in relazione diretta con la frequenza. Le basse e le medio-basse hanno un transitorio d’attacco soffice e in tal modo non richiamano l’attenzione del fruitore, pur introducendolo in un ambiente emotivo misterioso, di timore e attesa. Al contrario, le medio-alte e le alte hanno un transitorio d’attacco 1: da 0 a 0’49”; 2: 0’49”-1’58”. Minima puntata seguita da due crome, che risolvono sull’ultimo colpo che apre la battuta successiva.
più marcato; le medio-alte raffigurano in maniera plastica il movimento dell’immagine del secondo logo. Zimmer e Nolan hanno cercato il “suono del Joker” nell’idea di una tensione sempre crescente26. Per raggiungere tale obiettivo Zimmer è partito da una singola nota tenuta. Ha scolpito una nota di violoncello elettronico con una fine sperimentazione sulle tecniche esecutive e in fase di editing e post-produzione. Vi ha poi sovrapposto la medesima nota suonata da altri strumenti, da una chitarra elettrica suonata con un barré metallico, corde di pianoforte sfregate con lame ecc. e ha rielaborato i suoni in digitale in maniera tale da fonderli in un unico timbro, sempre cangiante. Nel prologo ha adoperato due tipologie di texture derivate da questo lavoro: la prima è la texture 3 (t3), il tema di Joker, la nota tenuta, la seconda è la t1 della seconda sottosezione, texture dotata di una continua pulsazione ritmica veloce, sempre sulla medesima nota. Il tema di Joker t3 compare due volte: un crescendo continuo da 37” a 49”, che, con l’attacco della seconda sottosezione, cambia improvvisamente spazializzazione e gradualmente scompare. La seconda volta, tra 1’15” e 1’23” effettua, sincronizzato con la prima inquadratura del Joker, un crescendo dal nulla al forte, accompagnato solo da una fascia di frequenze basse. È palese il riferimento leitmotivico al Joker (la prima volta introduce l’inizio del film, la seconda l’entrata in scena del personaggio). È anche chiara la sua funzione di elemento che suscita un crescendo di tensione e conduce a uno stacco: crea aspettativa, tende verso. Il suo profilo spettromorfologico è simile a quello dei cluster del prologo di The Hurt Locker, elementi acentrici, che non richiamano l’attenzione del fruitore, ma comportano una crescente tensione emotiva, l’attesa di una risoluzione. Non è classificabile come motivo: non ha un profilo ritmico, melodico o armonico, è tensione pura. Non è definibile, se non come “nota cangiante”: più che un motivo è un’idea. È difficile identificare quale sia il suo centro, la sua istanza originaria, quando l’archetto suona al ponticello introducendo armoniche acute, oppure quando è fuso con la chitarra elettrica, in crescendo o diminuendo: come la tensione può aumentare o calare, muoversi velocemente o lentamente, ma è difficile da congelare in un’immagine.
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Cfr. The Sound of Anarchy, in Il cavaliere oscuro, DVD2, Warner Brothers, DVS Z8 Y17658.
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Con t1 ho indicato la pulsazione metrico/ritmica. È composta di materiali disomogenei: nella prima sottosezione ci sono colpi percussivi e, da 0’23”, una successione di col legno orchestrali. Nella seconda, da 0’49”, o poco prima, c’è l’elaborazione ritmata del tema del Joker. Ho riunito questi materiali in una sola texture, poiché condividono la pulsazione. Anche l’inizio del prologo di Batman Begins è composto da una successione di loghi con accompagnamento musicale. I suoi materiali sonori sono: una variazione della t2, t4 basse e medio-basse e il materiale della prima sottosezione della t1. In seguito il volo dello sciame dei pipistrelli riempie l’intero spazio sonoro e apre la scena. L’inizio di Batman Begins è un crescendo intenso, concitato, con una forte impronta ritmica; benché composto con i medesimi materiali dell’inizio de Il cavaliere oscuro, sono molto differenti. In Batman Begins la t2 è ripetuta ogni 4 pulsazioni dei colpi della t1 e il suo attacco è meno percussivo, richiama il battito d’ali del pipistrello, dà un ritmo e non scandisce le macrosezioni formali. I colpi e i col legno della t1 sono qui sovrapposti, e, insieme, creano la sensazione di un forte impulso ritmico, in crescendo, che manca ne Il cavaliere oscuro. Le t4 sono più forti, compatte e opprimenti. Zimmer ha dunque composto due strutture musicali diverse variando materiali minimi. Ha conferito ai brani un effetto cinestesico e un’esperienza emozionale propri: in Batman Begins si percepiscono il crescendo, il movimento concitato e direzionato, il ritmo e la velocità, mentre ne Il cavaliere oscuro la tensione, una struttura musicale più articolata e un movimento meno direzionato. La seconda sottosezione del prologo de Il cavaliere oscuro è dominata dalla t1, una scansione metrica a pulsazione continua con accenti irregolari derivata dal “suono del Joker”. È composta dalla successione di timbri diversi, successione a volte graduale, con un morphing tra i due timbri, altre volte con stacco. L’evoluzione della t1 fornisce il ritmo audiovisivo all’intera sottosezione (e anche al resto del prologo). I timbri, in particolar modo quelli raggiunti con stacchi timbrici e di configurazione spaziale, sono gradualmente più accentuati, forti e aspri. Gli stacchi delimitano le unità formali da cui è composta la seconda sottosezione: 0’49”-1’07”; 1’07”1’23”; 1’23”-1’32”; 1’32”-1’38”. Si può vedere come la loro durata è esponenzialmente più breve: 28”, 16”, 9”, 6” (sequenza preceduta dai 49” della prima sottosezione). Realizza dunque un’accelerazione che comporta una forte compressione sulla percezione psico-motoria. Questo processo non avviene solo nella t1, né nella sola colonna sonora, ma coinvolge tutte le
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dimensioni. Si può in primo luogo osservare come gli stacchi sono sincronizzati con gli altri suoni: 0’49 con t2, 1’07” con il suono del vetro, 1’23” con la frenata, 1’32” con t2. In secondo luogo l’effetto di stacco è sottolineato dall’evoluzione dell’immagine: a 0’49” attacca; a 1’07” si interrompe la graduale zoomata con lo scoppio del vetro e il cambio di ambiente; a 1’23” si interrompe la zoomata sul Joker fermo, in favore dell’azione; a 1’32” avviene uno stacco dall’ambiente interno alla ripresa della strada dal tetto del grattacielo, un cambio di prospettiva radicale, finalizzato a uno spaesamento del senso dell’equilibrio del fruitore, alla creazione di una momentanea vertigine. L’effetto di stacco, dunque, non è solo sempre più ravvicinato, ma anche gradualmente più forte. Si osserva così un effetto sincronizzato di tutte le dimensioni compositive, visive e sonore, sulla sensazione psicomotoria del fruitore, per ottenere un senso crescente di contrazione e concitazione, in una percezione di tipo multimodale. È interessante osservare anche la struttura ritmica della t1: nonostante si basi su battute di 4/4, si può parlare di una pulsazione acentrica. È strutturata sulla successione di varianti di alcuni moduli ritmici basilari27. Ogni modulo è costituito da una o due battute con cambi di accentazione interna. La loro successione non segue un percorso ordinato o direzionato. La struttura è basata su varianti e sul principio dell’elaborazione e non sulle variazioni o sullo sviluppo. Perciò sarebbe anche in questo caso difficile parlare di motivi, e del tutto sbagliato introdurre il concetto di tema, inteso quale unità formale chiusa, di senso compiuto.
Conclusione Sono assenti strutture tematiche in Batman Begins, ne Il cavaliere oscuro, e in Inception28; ma anche in altri film d’azione29. Solo texture, segnali, moduRiporto la trascrizione dei modelli dei moduli in Figg. 2-9. Nella forma standard i trailer 3, quelli di 2’30” ca., prevedono un tema nella penultima sezione formale, che precede la coda; sia nel trailer 3 di Inception (reperibile su http://trailers.apple.com/trailers/wb/inception/, ultimo accesso 15 ottobre 2011), sia in quello de Il cavaliere oscuro (in Il cavaliere oscuro, DVD2, Warner Brothers, DVS Z8 Y17658) è stato introdotto un tema non impiegato nel relativo film, e in entrambi i casi si tratta dell’unico materiale musicale composto ex novo per il trailer. 29 Per esempio nella saga su Jason Bourne, in State of Play, in Green Zone, in The International ecc. Al contrario, sono basati su strutture di tipo tematico film non 27
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li o al più motivi, di breve respiro, privi di vere e proprie cadenze e con un percorso armonico di stampo post-minimalista, per lo più non direzionato in senso tonale30; e ancora, varianti di tali motivi e non variazioni o trame musicali basate sul principio dello sviluppo. In genere una struttura tematica focalizza l’attenzione del fruitore sull’organizzazione simmetrica o sulla fraseologia melodica: l’ascolto di essa evoca processi di riconoscimento e identificazione31. In questo repertorio, invece, si attua una manipolazione della percezione, che non rimanda a strutture cognitive basate sulla rappresentazione, si stabilisce una comunicazione diretta tra opera e fruitore, che evita le forme di conoscenza del mondo di cui questi è consapevole – si nasconde la tecnologia. Lo scopo del film, dunque, non è raffigurare una realtà, né rappresentare un sentimento, bensì costituire una presenza, veicolare un’emozione. In questi film non è importante la logica dello sviluppo del materiale musicale, ma la funzione assolta dalla sua organizzazione in una comunicazione incentrata sulla percezione cinestesica. Tale funzione determina tutte le dimensioni: immagine, sound design, colonna sonora, spazializzazione, e provoca una percezione di tipo multimodale. Le tecniche qui discusse non sono pertinenza esclusiva di questi film o del linguaggio di Zimmer. La creazione di un senso di concitazione attraverso una ripetizione continua di un modulo in cui vengono gradualmente introdotte suddivisioni della pulsazione32 , una tecnica che pervade le scene d’azione e inseguimento di Inception, è oramai un effetto standard del linguaggio audiovisivo e si ritrova in altri film d’azione, come nella maggior parte dei loci corrispettivi della saga di Jason Bourne. Alcune di queste tec-
niche sono entrate nel lessico compositivo e, sedimentate nell’immaginario collettivo, costituiscono stereotipi audiovisivi, cliché o topoi narrativi33. Abbiamo osservato differenti tecniche di sound design e musicali in senso lato. Alcune si basano sull’empatia, come il sound design del prologo di The Hurt Locker, altre, invece, sullo shock, come gli spari de Il cavaliere oscuro, altre ancora sul senso dell’ignoto, come l’inizio del prologo de Il cavaliere oscuro, oppure sulla manipolazione della percezione cinetica, come la seconda sottosezione del medesimo prologo o l’inizio di quello di Batman Begins, altre introducono il fruitore in uno stato di tensione emotiva ecc. Il nesso comune a queste tecniche è la tipologia di comunicazione tra opera e fruitore, la forma della fruizione, che è multimodale, immersiva, fondata sul senso cinestesico, sulla risposta muscolare e nervosa agli stimoli sensoriali. Lo spazio dell’opera, il mondo rappresentato, diventa emozionale, patemico e non basato sulla raffigurazione o sulla rappresentazione. È un mondo diretto, non mediato, anche se virtuale, una iper-realtà. Possiamo dunque far nostre le parole di Ariadne in Inception: «I thought the dream space would be all about the visual, but it’s more about the feel of it».
classificati primariamente d’azione, nonostante in essi sia presente molta “azione”: esempio è la saga de The Lord of the Ring (Il Signore degli Anelli 2001–2003), in cui si riconoscono di volta in volta forme standard di temi eroici, bucolici, epici, o quelli legati al mondo del cinema di fantasia e in cui le sezioni che dal punto di vista del linguaggio audiovisivo rimandano a quello del film d’azione sono più rare. 30 Per esempio il modulo che in Inception a un primo ascolto potrebbe sembrare più riconducibile a strutture tematiche, che domina la sequenza tra 1 52’25” a 1 56’ 28”, è la successione di 4 accordi, ognuno di una battuta di 4/4: Re♭- Do+ La♭- Mi♭-; accompagna la linea melodica reb do lab solb. La successione è basata sullo scivolamento semitonale di due note degli accordi, che mantengono una nota in comune, successione che esula dal canone tonale. 31 Stephen McAdams, Recognition of Auditory Sound Sources and Events, in Stephen McAdams, Emmanuel Bigand (a cura di), Thinking in Sound: The Cognitive Psychology of Human Audition, Oxford University Press, Oxford, 1993. 32 Si batte prima la semiminima, poi la minima, poi la croma ecc.
Cfr. nota 31. Per il processo di creazione di un canone, di un repertorio di materiali applicabili in determinati loci dei film, cfr. Ilario Meandri, Trailer Music as a Medium for Film Music Canon Synthesis/Film Music as a Medium for Film Genre Canonization, in Pietro Bianchi, Giulio Bursi, Simone Venturini (a cura di), The Film Canon, Forum, Udine, 2011, p. 229-239.
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Un progetto dell’Università di Torino: Cabiria - Census, Cataloguing and Study of Manuscript and Printed Music for the Cinema in Piedmont di Annarita Colturato Chi studia la musica per il cinema deve sovente confrontarsi con la penuria delle fonti, la lacunosità delle informazioni ad esse relative e, specie per quanto riguarda l’Italia, la scarsità di centri di documentazione dedicati. Partiture, abbozzi, documenti sonori (nonché fonti secondarie come carteggi, diari, saggistica, testimonianze iconografiche ecc.) sono disseminati in biblioteche, archivi, musei e collezioni private: una dispersione aggravata – basti pensare alla mole dei materiali a stampa ricevuti dalle biblioteche in virtù delle leggi sul deposito legale – dalla disattenzione per una tipologia di ‘oggetti’ di fattura recente e non particolarmente pregevole e dall’annosa insufficienza di preparazione musicale del personale addetto alla loro registrazione in inventari e cataloghi. L’urgenza di reperire e salvare da condizioni di conservazione spesso precarie i documenti musicali per il cinema, unita alla convinzione del contributo decisivo che la maggiore disponibilità di fonti e informazioni fornirebbe alla definizione di una metodologia scientifica utile all’analisi storico-critica del ruolo della musica nel cinema e alle riflessioni intorno al restauro delle colonne sonore, hanno spinto il Dipartimento di Discipline Artistiche, Musicali e dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Torino a partecipare al Bando Regionale per progetti di ricerca in materia di Scienze Umane e Sociali (2008) con un progetto intitolato Cabiria - Census, Cataloguing and Study of Manuscript and Printed Music for the Cinema in Piedmont1. Approvato e finanziato dalla Regione Piemonte
(D.D. n. 151, 7 agosto 2009), coordinato per conto del Dipartimento dapprima da Luisa Zanoncelli poi da chi scrive, il progetto ha come obiettivi: a) il censimento della musica manoscritta e a stampa per il cinema conservata nelle istituzioni piemontesi; b) la creazione di una base di dati catalografica liberamente accessibile e corredata – nel rispetto delle norme vigenti in materia di copyright, diritto d’autore e diritti di riproduzione – dalle immagini digitali dei documenti catalogati; c) lo studio dei materiali reperiti e la stesura di saggi critici che affrontino l’analisi della musica per il cinema secondo prospettive diverse (musicologica, estetica, antropologico-musicale, bibliografica). Che l’ambito territoriale circoscritto non infici la validità e l’ambizione del progetto (senza corrispettivi in Italia) è suffragato dal profilo della città nella quale è stato ideato: una delle capitali europee del cinema nei primi decenni del Novecento, culla di centinaia di pellicole (prima fra tutte Cabiria, da cui la ricerca ha tratto il titolo), sede di case produttrici come la Società Anonima Ambrosio, l’Aquila Film o l’Itala Film e di editori musicali di non poco rilievo.
Come ha scritto Luisa Zanoncelli nella definizione del progetto, si tratta di «un passaggio ineludibile per tutti i generi di studi sulla musica per il cinema, che sinora quasi mai si sono fondati su analisi filologicamente rigorose, per mancanza dei necessari studi preliminari. Gli esiti critici risultano quindi spesso compromessi o quantomeno parziali, perché alle metodologie di studio sul versante delle immagini e della narrazione non fa riscontro una altrettanto seria considerazione della colonna sonora.
Disporre di questi materiali significa innanzi tutto rendere possibili le edizioni critiche della musica per il cinema e quindi una analisi storico-critica del suo ruolo nel film metodologicamente rigorosa, poi consentire un restauro altrettanto rigoroso delle colonne sonore: è una questione fondamentale, perché la musica che può essere ricostruita (spesso solo parzialmente) sulla base delle parti orchestrali disseminate in archivi diversi è un aspetto essenziale per la corretta riedizione di un film. L’importanza della musica per il cinema è riconosciuta in teoria, ma non ancora nei fatti nel suo pieno valore all’interno dell’opera cinematografica: nel campo del restauro cinematografico è perciò rarissimo che le colonne sonore siano oggetto della stessa attenzione attribuita alle immagini. Le conseguenze sono nel migliore dei casi una comprensione scorretta del film, nel peggiore la perdita di informazioni essenziali, come in Senso di Visconti, dove nel restauro è andato perduto per intero il commento musicale espressivamente cruciale di una lunga scena importante (la scena nel granaio); o in Ossessione, dove un rumore di scena è stato erroneamente cancellato perché considerato un deterioramento della pellicola, con la conseguenza che la coerenza della cifra stilistica risulta compromessa per la comparsa improvvisa e ingiustificata di uno stilema antirealistico. Per contro, la partitura delle musiche del Gattopardo, sempre di Visconti, include il commento musicale di una scena sconosciuta, evidentemente tagliata; la partitura è l’unica testimonianza di un insospettato travaglio tra riprese e montaggio» (cfr. Cabiria - Census, Cataloguing and Study of Manuscript and Printed Music for the Cinema in Piedmont, approvato dalla Regione Piemonte con D.D. n. 151 del 7 agosto 2009 nell’ambito del Bando Regionale per progetti di ricerca in materia di Scienze Umane e Sociali 2008).
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a) Census Pur trattandosi del primo progetto che si prefigge il censimento della musica manoscritta e a stampa per il cinema conservata in Piemonte, nella sua fase iniziale Cabiria ha potuto giovarsi dei risultati di alcune indagini condotte negli ultimi decenni e tuttora in corso. Ci riferiamo in particolare al progetto di censimento del patrimonio musicale subalpino promosso dalla Regione Piemonte e dall’Istituto per i Beni Musicali in Piemonte a seguito di una convenzione siglata nel 19992. A una dozzina d’anni dall’avvio del progetto l’Istituto ha censito circa 900 fondi musicali e prodotto, grazie all’adozione del Sistema Informativo della Direzione Beni Culturali della Regione Piemonte (SIRe), una base di dati che annovera attualmente informazioni relative a due terzi di essi, fornendo una sorta di carta d’identità delle istituzioni (con cenni storici e ragguagli sulle modalità di accesso e sugli strumenti di ricerca), una ricognizione di ciascun fondo con notizie sulla sua costituzione e sui materiali contenuti (musica manoscritta e a stampa, libretti, libri liturgico-musicali, lettere, documenti sonori e audiovisivi, fonti iconografiche, strumenti musicali), una bibliografia di riferimento. All’implementazione della base di dati informatica si affianca la pubblicazione di una serie di volumi che, oltre a rendere noti i risultati via via ottenuti, ha lo scopo di proporre un approfondimento storico, musicologico e bibliografico delle informazioni reperite (sinora hanno visto la luce i volumi dedicati alla città di Torino e a Cuneo e provincia, ma è imminente l’uscita di quello su Asti e provincia)3. Accanto al numero e alla datazione di manoscritti e stampe musicali, SIRe richiede l’indicazione del genere cui le opere testimoniate possono essere ricondotte, offrendo le seguenti opzioni: musica vocale sacra, vocale profana, operistica, strumentale, altro. Sorvoliamo qui sulle riserve che
un simile ventaglio di possibilità non manca di alimentare e sulle riflessioni che lo stesso problematico concetto di genere imporrebbe. Ci limitiamo a segnalare che, a fronte dell’utilità di varie notizie emerse nel progetto di Regione Piemonte e Istituto per i Beni Musicali in Piemonte (si pensi per esempio alle istituzioni che, interrogate in proposito, si sono dichiarate sprovviste di materiali di interesse musicale e che dunque ci si può astenere dal ricontattare), nel merito della musica per il cinema Cabiria non ha potuto giovarsi che di sporadiche informazioni fornite dai collaboratori a corredo e arricchimento di quanto inserito nella base di dati informatica. Torino5
Mss
Bibliomediateca “Mario Gromo” e Archivio del Museo Nazionale del Cinema6
75 ca
Biblioteca Civica Musicale “Andrea Della Corte”
1
635
Biblioteca Nazionale Universitaria
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164
Biblioteca “Eugenio Reffo” della Congregazione di San Giuseppe (Collegio Artigianelli)
-
118
Biblioteca del Collegio San Giuseppe
-
22
Archivio Capitolare del Duomo (S. Giovanni Battista) e Archivio Arcivescovile
-
19
Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza
-
14
Biblioteca del Conservatorio Statale di Musica “Giuseppe Verdi”
1
2
Ed.
1020 ca
Nato nel 1992 e riconosciuto come ente di rilievo regionale ai sensi della L.R. 49/84, l’Istituto è l’erede dell’Associazione Piemontese per la Ricerca delle Fonti Musicali fondata nel 1986. La citata convenzione con la Regione Piemonte è stata rinnovata e ampliata nel 2002 e nel 2010. 3 Cfr. Le fonti musicali in Piemonte, vol. I, Torino, a cura di Annarita Colturato, Libreria Musicale Italiana, Lucca - Regione Piemonte, Torino, 2006; Le fonti musicali in Piemonte, vol. II, Cuneo e provincia, a cura di Diego Ponzo, Libreria Musicale Italiana, Lucca - Regione Piemonte, Torino, 2009; Le fonti musicali in Piemonte, vol. III, Asti e provincia, a cura di Paolo Cavallo, Libreria Musicale Italiana, Lucca Regione Piemonte, Torino (in stampa).
5 Le istituzioni torinesi sono elencate in base alla rilevanza quantitativa dei documenti utili ai fini di Cabiria. Tutte le altre istituzioni censite in Le fonti musicali in Piemonte, vol. I, Torino, cit., risultano al momento sprovviste di documenti musicali per il cinema. 6 Per il materiale ascrivibile al primo cinquantennio del secolo scorso si rimanda a Flavia Ingrosso, La musica per film dal cinema muto agli anni Cinquanta del
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2
Biblioteca del Circolo degli Artisti
-
2
Biblioteca Culture e Missione (Missionari della Consolata)
-
2
Biblioteca Reale
17
-
Archivio dell’Accademia di Canto Corale “Stefano Tempia”
-
1
Fatto il punto sullo stato dell’arte Cabiria ha avviato l’indagine sul territorio regionale, preparandola con un seminario di formazione dei collaboratori tenuto dai docenti del Dipartimento4. Contemplando la seconda 4 Le lezioni sono state tenute da docenti degli indirizzi Musica (Paolo Gallarati, Luisa Zanoncelli e chi scrive) e Cinema (Franco Prono) del Dipartimento. Hanno collaborato o stanno collaborando alla fase di censimento con borse di ricerca o contratti di prestazione d’opera occasionale Filippo Arri (provincia di Torino), Chiara Guazzo (Torino), Giancarlo Marchisio (Asti e provincia), Diego Ponzo (Cuneo e provincia), Serena Sabia (Torino), Paola Salvadeo (Alessandria e provincia), Alberto Viarengo (Novara e provincia), Stefania Vitale (Vercelli e provincia).
fase del progetto la catalogazione dettagliata dei documenti, e presentandosi quindi il censimento come semplice stadio propedeutico alla stessa, si è ritenuta sufficiente l’adozione di una scheda di rilevazione dati che permettesse l’identificazione dei materiali. Oltre alla denominazione ufficiale dell’istituzione, per ogni fondo o raccolta censiti la scheda prevede l’indicazione di: collocazione dei singoli documenti, nome del compositore (o dei compositori), titolo presente sul frontespizio, presentazione (partitura, parti ecc.), numero delle carte/pagine, dimensioni, organico della composizione, titolo, regista e data del film a cui era destinata, eventuale bibliografia già esistente. Nel caso della musica manoscritta sono richieste informazioni aggiuntive sulla redazione (autografo, copia ecc.) e datazione del documento; per quanto attiene alla musica a stampa i collaboratori sono tenuti a specificare luogo, editore e data di pubblicazione, numero editoriale o di lastra. In margine vale la pena di sottolineare che grande attenzione è stata prestata alla raccolta di informazioni sui materiali (carteggi, documenti sonori e audiovisivi, monografie e periodici, testimonianze iconografiche) che, pur non rientrando fra le tipologie documentali oggetto delle attività di catalogazione, possono rivelarsi di notevole utilità e interesse in fase di studio. Di seguito si propone un quadro riassuntivo dei primi dati. Per la loro corretta lettura va ancora ricordato che i numeri relativi alla quantità di manoscritti e stampe si riferiscono alle unità catalografiche e non alle unità fisiche (per cui – per limitarci a un paio di esempi – sei parti manoscritte destinate ai sei esecutori di una composizione vengono considerati un’unità catalografica, mentre dieci edizioni diverse eventualmente legate in un unico volume da un possessore sono conteggiate singolarmente): precisazione pedante, forse, ma utile a spiegare quelle che di primo acchito potrebbero apparire discrepanze rispetto a informazioni riportate in altre sedi. Nelle altre città e province piemontesi si sono reperiti finora:
Novecento: edizioni e manoscritti musicali dell’Archivio e della Biblioteca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, in «Fonti musicali italiane», A. 14, 2009, pp. 209-255. Rammentiamo che presso l’Archivio del Museo si conservano, fra gli altri, i manoscritti della Sinfonia del fuoco di Ildebrando Pizzetti e della musica di Manlio Mazza per il film Cabiria (Giovanni Pastrone, 1914). 7 Data la particolarità della composizione di Lorenzo Pupilla (Pupillo; 1854-1923), dedicata a Vittorio Emanuele III di Savoia (12 ottobre 1910), se ne trascrive di seguito il frontespizio: Il Risorgimento / Italiano / Gran Fantasia Descrittiva / Da eseguirsi con Pitture Cinematografiche contemporaneamente ai Fatti e Musica / di quei Tempi del Risveglio Italico. / Scritta per l’occasione del / 50.mo Anniversario / della / Proclamazione del Regno d’Italia / e / Per l’Esposizione Internazionale di / Roma e Torino. / Creazione del Fatto con Musica / del / Maestro Cav. Lorenzo Pupilla / Socio della Reale Accademia di S. Cecilia in Roma / V. Presidente ed Esaminatore / dell’Italo-American Federation / of Musicians / Maestro Direttore / della Scuola Musicale / Italo-American / Philadelphia; in testa al titolo: A S.M. / Vittorio Emmanuele III / Re d’Italia / L’Autore dedica. 8 In margine si segnala che gran parte delle musiche per il cinema di Lavagnino (19091987) è stata ceduta in comodato d’uso al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, che nel maggio del 2009 ha istituito un fondo apposito.
Cfr. Filippo Arri, L’Associazione Filarmonica Castellamonte. Composizioni celebrative dalla biblioteca storica, tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Scienze della Formazione, Corso di laurea specialistica in Storia e critica delle culture e dei beni musicali, a.a. 2009-10. 10 Cfr. Marco Allolio, La musica manoscritta della Scuola Comunale di Musica “Francesco Antonio Vallotti” di Vercelli. Inventario con introduzione storica, tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Scienze della Formazione, a.a. 2006-7.
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Alessandria e provincia Alessandria, Biblioteca del Conservatorio Statale di Musica “Antonio Vivaldi”: ca 45 ed.; Casale Monferrato, Istituto Musicale “Carlo Soliva”: 3 ed.; Gavi Ligure, Biblioteca privata Angelo Francesco Lavagnino: ca 20 mss8.
Asti e provincia Asti, Congregazione Suore Domenicane del S. Rosario (Casa madre): 1 ed.; Asti, Parrocchia San Giovanni Bosco: 1 ed.; Buttigliera d’Asti – Capriglio, Fondi riuniti delle bande musicali: 1 ms., 8 ed.; Nizza Monferrato, Biblioteca civica: 9 ed.
Cuneo e provincia Alba, Archivio privato Paolo Paglia: 12 ed.; Belvedere Langhe, Istituto T.C.S.L.M. Healing Sound onlus: 2 ed.; Bra, Civico Istituto Musicale “Adolfo Gandino”: 9 ed.; Savigliano, Biblioteca Villa: 1 ed.; Savigliano, Civico Istituto Musicale “Giovanni Battista Fergusio”: 18 ed.
Novara e provincia Novara, Biblioteca del Conservatorio Statale di Musica “Guido Cantelli”: 2 mss., 31 ed.; Novara, Civico Istituto Musicale “Brera”: 21 ed.
Torino (provincia) Castellamonte, Associazione Filarmonica Castellamonte – Scuola di Musica “Francesco Romana”, 9 ed.9; Ivrea, Archivio Storico Diocesano: 2 ed.; Moncalieri, Biblioteca dei Padri Barnabiti (ex Real Collegio Carlo Alberto): 8 ed.; Pinerolo, Biblioteca Civica “Camillo Alliaudi”: 6 ed.
Vercelli e provincia Borgo d’Ale, Biblioteca privata di Roberto Santocchi: 6 mss., 23 ed.; Saluggia, Archivio della Banda musicale Don Bosco: 1 ms., 23 ed.; Saluggia, Parrocchia di S. Grato: 4 mss.; Santhià, Archivio della Parrocchia di Sant’Agata: 4 ed.; Varallo, Biblioteca Civica “Farinone-
11 Le attività di catalogazione nell’ambito di Cabiria sono affidate a Silvia Caratti e Flavia Ingrosso.
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Centa”: 8 ed.; Vercelli, Biblioteca Civica: 6 ed.; Vercelli, Biblioteca privata di Paolo Boggio: 1 ms.; Vercelli, Biblioteca della Scuola Comunale di Musica “Francesco Antonio Vallotti”: 252 ed.10; Vercelli, Società del Quartetto: 1 ed.
Benché non si debba dimenticare che al momento della catalogazione molti dei documenti a stampa sopra citati potranno rivelarsi esemplari di una stessa edizione, l’attuale computo complessivo ammonta a circa 110 manoscritti e 2500 stampe.
b) Cataloguing Per quanto riguarda le attività di catalogazione, Cabiria si avvale della collaborazione tecnico-scientifica della Direzione Regionale per i Beni e le Attività Culturali del Piemonte (Ministero per i Beni e le Attività Culturali), con cui il 15 gennaio 2010 il Dipartimento di Discipline Artistiche, Musicali e dello Spettacolo ha sottoscritto una convenzione. Come recita l’articolo 2, «la Direzione Regionale accoglie presso le proprie strutture le strumentazioni informatiche (hardware e software) per la costituzione della base di dati on-line senza oneri economici e, a titolo gratuito, ne svolge la manutenzione ordinaria. Consente l’uso a titolo gratuito del sistema multimediale Teca Meta Opac compatibile con i sistemi gestionali in uso negli istituti del Ministero operanti in ambito regionale (Cadmus e SBN Musica) e con i sistemi nazionali BDI (Biblioteca Digitale Italiana) e Internet Culturale». Nell’ambito del sistema Teca Meta Opac, la Direzione ha messo a disposizione dei collaboratori del progetto11 il software Atlante, che gestisce sia l’applicativo per la catalogazione sia il sistema dei collegamenti con i file digitali e i metadati (allineati agli standard dei progetti nazionali). Sviluppabile rispetto alle nuove tecnologie dell’informazione, il software per la catalogazione è open source, presenta un’architettura modulare e offre le seguenti funzionalità: -
catalogazione in multiutenza di musica manoscritta e a stampa, libretti manoscritti e a stampa, libri liturgico-musicali manoscritti e a stampa gestione delle trascrizioni tramite lo scambio di metadati in formato XML/MAG
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attivazione delle funzioni di import/export con le altre basi catalografiche italiane consultazione e revisione del materiale multimediale supporto di gestione della teca digitale rendendo disponibile l’accesso al materiale multimediale o l’export per propositi di consultazione (OPAC) operazioni di servizio.
Al pari dei più recenti software di catalogazione musicale, l’applicativo permette una dettagliata descrizione esterna e interna dei documenti e dispone di Authority File controllati per nomi, forme musicali, organico (voci, strumenti), sistemi di notazione. Tra gli aspetti innovativi va menzionata la possibilità di creare record indipendenti non solo – com’è usuale – per monografie, pubblicazioni in serie, collezioni, spogli, volumi senza titolo significativo, ma anche per le cosiddette unità analitiche relative a singoli movimenti o sezioni di una composizione in sé completa, movimenti o sezioni che (a differenza degli spogli riguardanti, ad esempio, le canzoni di una raccolta) di norma non sono accessibili indipendentemente; prevedendo la procedura il corredo delle immagini digitali dei documenti, nel caso in cui non sussistano problemi di diritti di riproduzione lo studioso potrà dunque accedere, oltre che al record catalografico dell’unità analitica, alle immagini corrispondenti all’unità stessa a prescindere dalla conoscenza dell’intera composizione (e dalla consultazione dell’intero documento riprodotto). Il software consente inoltre di inserire l’incipit musicale in modo semplice e immediato facendo ricorso al programma LilyPond. Le attività di catalogazione vengono condotte secondo le più recenti norme catalografiche. In particolare, per quanto concerne i manoscritti musicali si fa riferimento a: -
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Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche (ICCU), Guida a una descrizione catalografica uniforme dei manoscritti musicali, a cura di Massimo Gentili-Tedeschi, ICCU, Roma 1984 I manoscritti musicali, a cura di Massimo Gentili-Tedeschi, in Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche (ICCU), Guida a una descrizione uniforme dei manoscritti e al loro censimento, a cura
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di Viviana Jemolo e Mirella Morelli, ICCU, Roma 1990, pp. 103142 Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche (ICCU), Guida a SBN Musica. Manoscritti, ICCU, Roma 1997.
Per la musica a stampa a: -
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International Federation of Library Associations and Institutions (IFLA), ISBD (PM): International Standard Bibliographic Description for Printed Music, ed. italiana, ICCU, Roma 1993 Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche (ICCU), Guida alla catalogazione in SBN. Pubblicazioni monografiche, pubblicazioni in serie, 2. ed., ICCU, Roma 1995 Id., Guida a SBN Musica. Edizioni, ICCU, Roma 1997 Id., Regole italiane di catalogazione - REICAT, a cura della Commissione permanente per la revisione delle regole italiane di catalogazione, ICCU, Roma 2009 International Federation of Library Associations and Institutions (IFLA), International Standard Bibliographic Description (ISBD), ed. consolidata preliminare raccomandata dall’ISBD Review Group e approvata dallo Standing Committee dell’IFLA Cataloguing Section, ed. italiana a cura dell’Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche, ICCU, Roma 2010 Id., ISBD: International Standard Bibliographic Description, ed. consolidata raccomandata dall’ISBD Review Group e approvata dallo Standing Committee dell’IFLA Cataloguing Section, De Gruyter Saur, Berlin [etc.] 2011 Istituto Centrale per il Catalogo Unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche (ICCU), Guida alla catalogazione in SBN. Musica a stampa, libretti a stampa, registrazioni sonore musicali, video musicali, a cura del Gruppo di studio sul materiale musicale, ICCU, Roma 2011 (pdf).
12 A questa parte del progetto collaborano, con assegni di ricerca annuali dal 1° dicembre 2011, i dottori di ricerca Alessandro Cecchi, Ilario Meandri e Marco Targa.
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Data la natura del progetto, particolare attenzione viene posta alla ricerca su compositori, registi, cantanti e attori (spesso immortalati, magari senza didascalie che ne citino i nomi, in fotogrammi riprodotti sulla coperta o sul frontespizio del documento musicale), case di produzione cinematografica. Come i titoli (originali e tradotti) dei film, ciascuno dei nomi di cui sopra costituisce un accesso indipendente, il che non mancherà probabilmente di fornire agli studiosi informazioni (e testimonianze iconografiche) inedite.
c) Study
La terza e ultima fase della ricerca – il cui termine è previsto nel maggio 2013 – riguarderà come si è detto la stesura di saggi critici che mettano in luce l’importanza dei documenti reperiti, affrontino l’analisi della musica per il cinema da prospettive diverse (musicologica, estetica, antropologico-musicale, bibliografica), contribuiscano alla definizione di una metodologia filologicamente fondata, essenziale anche per le operazioni di restauro delle colonne sonore12. Gli esiti di questa fase, appena avviata e cruciale per la riuscita del progetto, saranno resi noti in un convegno internazionale, i cui atti a stampa andranno ad affiancare la base di dati catalografica e digitale.
Indice delle figure Le figure sono accessibili all’indirizzo web http://www.suonoimmagine. unito.it, nella sezione Pubblicazioni 2011. Il suono come soglia del reale: genere e narrazione audiovisiva in Dancer in the Dark (Alessandro Bratus) Fig. 1. Overture, motivo degli ottoni. Tab. 1. Timing delle canzoni. Tab. 2. Suoni concreti in apertura e chiusura dei canzoni. Tab. 3. Analisi del primo frammento della sequenza di ballo di In the Musicals pt. 1 (inquadratura 1: 1h 24’ 48’’). Fig. 2. Trascrizione della struttura audiovisiva del primo frammento di In the Musicals pt. 1. Quando il musical diventa concettuale, filmico, rock e… 1965-1975 (Marida Rizzuti Tab. 1. Tipologia dei musical. Tab. 2. Struttura di Cabaret. Tab. 3. Tipologia di canzoni. Il film industriale italiano degli anni Sessanta tra sperimentazione audiovisiva, avanguardia musicale e definizione di genere (Alessandro Cecchi) Fig. 1. Elea classe 9000, sequenza 00:00-01:25. Fig. 2. Noi continuiamo, sequenza 01:35-01:58. Fig. 3. Noi continuiamo, sequenza 18:56-21:19. Fig. 4. Noi continuiamo, sequenza 13:25-14:23. Fig. 5. L’atomo in mare, sequenza 00:13-01:34. Fig. 6. L’atomo in mare, sequenza 01:37-02:09. Fig. 7. Atomi puliti, sequenza 00:09-01:13. Fig. 8. Atomi puliti, sequenza 09:54-10:40.
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Fig. 9. Il pianeta acciaio, sequenza 03:46-04:48. Fig. 10. Uno stabilimento: grande e subito, sequenza 01:37-02:20. Video 1. Elea classe 9000 (Nelo Risi, 1960; musica di Luciano Berio), 00:00-00:15. Video 2. Elea classe 9000 (Nelo Risi, 1960; musica di Luciano Berio), 00:16-01:35. Video 3. Elea classe 9000 (Nelo Risi, 1960; musica di Luciano Berio), 01:51-02:08. Video 4. Noi continuiamo (Mario Damicelli, 1968; musica di Egisto Macchi), 01:20-01:56. Video 5. Noi continuiamo (Mario Damicelli, 1968; musica di Egisto Macchi), 18:30-21:23. Video 6. Noi continuiamo (Mario Damicelli, 1968; musica di Egisto Macchi), 13:25-14:26. Video 7. L’atomo in mare (Virgilio Tosi, 1962; musica di Franco Potenza), 00:00-02:10. Video 8. Atomi puliti (Enrico Franceschelli, 1965; musica di Franco Potenza), 00:00-00:58. Video 9. Atomi puliti (Enrico Franceschelli, 1965; musica di Franco Potenza), 09:32-10:42. Video 10. Il pianeta acciaio (Emilio Marsili, 1962; musica di Franco Potenza), 03:45-04:52. Video 11. Uno stabilimento: grande e subito (Stefano Calanchi, 1973; musica di Egisto Macchi), 01:33-02:28. Una musica per l’uomo in fuga: suggestioni melodrammatiche nel “British Noir” (Matteo Giuggioli) Fig. 1. William Alwyn, Il fuggiasco, Piano Sketches: Johnny’s Walk (tema di Johnny). Fig. 2. William Alwyn, Il fuggiasco, Piano Sketches: Johnny falls off car. Dal Meraviglioso all’Antimusica: su alcuni cliché del Fantastico nel mainstream musicale hollywoodiano (Ilario Meandri) Fig. 1. Stargate, sequenza e relative riduzioni. Fig. 2. Star Trek II:The Wrath of Khan, sequenza e riduzioni armoniche. Fig. 3. The Hunt For Red October e riduzioni armoniche.
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Fig. 4. King Kong, sequenza e riduzioni armoniche. Fig. 5. The Abyss, particolare di una delle locandine del film. Fig. 6. The Abyss, sequenze e riduzioni armoniche. Fig. 7. The Abyss, sequenza e riduzioni armoniche. Fig. 8. Rapporti tra Meraviglioso e topoi di prossimità; dialettica Meraviglioso vs Antimusica. Fig. 9. Lara Croft: The Cradle of Life, sequenza e relative trascrizioni. Fig. 11. Van Helsing, sequenza e trascrizione. Fig. 12. Independence Day, riduzione frammento. Fig. 13. The Lord of the Rings: Fellowship of the Ring; The Lord of the Rings: The Return of the King e relative riduzioni. Fig. 14. King Kong, sequenza e relative riduzioni. Fig. 15 Van Helsing; The Abyss, sequenze e riduzione melodica del motivo. Fig. 16. Star Trek II: The Wrath of Khan; Star Trek III: The Search For Spock; Battle Beyond the Stars, sequenze e riduzione melodica del motivo. Fig. 17. Stargate, sequenza e riduzione melodica del motivo. Fig. 18. Sahara, sequenza e riduzione melodica del motivo. Fig. 19. Atlantis: the Lost Empire, riduzione melodica del motivo. Fig. 20. Under Siege 2, sequenza e riduzione del motivo. Fig. 21. Star Trek VIII: First Contact, sequenza e riduzione melodica del motivo. Fig. 22. Alien, sequenza e riduzione del motivo. Fig. 23. Independence Day, sequenza e riduzione melodica del motivo. Fig. 24. Robocop, main title e title credit, sequenza. Fig. 25. Alien vs. Predator, sequenza.
Fig. 5. Claude Debussy, Nuages (1900), batt. 77-79, nella riduzione per due pianoforti di M. Ravel. [APP5 p.4] Fig. 6. Claude Debussy, La mer ̧ III movimento (Dialogue du vent et de la mer, 1905), da 4 prima di 56. [APP5 p.5] Strategie, tecniche e topoi audiovisivi nel cinema d’azione degli anni Duemila (Giacomo Albert) Tab. 1. Nelle pagine precedenti: analisi della prima sezione del prologo. Fig. 1. Sonogrammi degli spari de Il cavaliere oscuro. Fig. 2. Modulo ritmico della seconda sottosezione del prologo de Il cavaliere oscuro (testura “legnetti”). Fig. 3. Modulo ritmico della testura “legnetti” (variante) Fig. 4. Modulo ritmico antecedente la seconda sottosezione del prologo de Il cavaliere oscuro (testura “ticchettio”). Fig. 5. Modulo ritmico relativo alla testura “ticchettio” (variante). Fig. 6. Modulo ritmico della seconda sottosezione del prologo de Il cavaliere oscuro (testura “col legno”). Fig. 7. Modulo ritmico della seconda sottosezione del prologo de Il cavaliere oscuro (“chitarra elettrica”). Fig. 8. Modulo ritmico della seconda sottosezione del prologo de Il cavaliere oscuro (testura “archi”). Fig. 9. Motivo dei colpi percussivi (timpano) sovrapposto al modulo ritmico relativo alla testura “chitarra elettrica” (conclusione della seconda sottosezione del prologo de Il cavaliere oscuro).
Armonie perturbanti: un caso di rimediazione di stilemi sinfonici tardo romantici nel cinema fantastico hollywoodiano (Marco Targa) Fig. 1. Coppie di accordi appartenenti al medesimo hexatonic system. Fig. 2. Richard Wagner, Parsifal (1882), atto III, p. 271, spartito Peters 1914. Fig. 3. Howard Shore, The Fellowship of the Ring, (2001), prologo. Riduzione armonica a partire da 0.04.00. Fig. 4. John Williams, Star Wars (1977), Tema della marcia imperiale [APP5 p.3]
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Indice dei nomi e dei film citati 2001: Odissea nello spazio 41, 99, 101 2010 174 Abbate, Carolyn 202, 213, 214 Abruzzese, Alberto 219 Abyss 185, 187, 191, 193, 207, 209 Abyss, The 185, 187, 191, 193 Acciaio 157, 158 Adams, Doug 192 Addison, John 167 A doppia faccia 23 Adorno, Theodor W. 203, 207 Agente Lemmy Caution, missione Alphaville 44 Aimeri, Luca 175 Albert, Giacomo 218 Al di qua dell’Uranio 155 Alien 186, 187, 195 Allen, Jay 126 Allolio, Marco 238 Altman, Rick 12, 23, 33, 35, 67, 140, 141, 142, 152, 161, 162, 163, 164, 201 Alwyn, William 167, 169, 170, 171, 172 American Psycho 17 Analisi del lavoro 156 Anania, Francesca 157 Anderson, Paul W. S.
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195, 207 Anderson, Paul W.S. 195, 207 Antonioni, Michelangelo 44, 155, 158 Apocalypse Now 33 Appen, Ralf von 115 Appunti per l’auto di domani 155 Arancia meccanica 17, 36 Arden, Mary 18 Argento, Dario 17, 19, 20, 23, 24, 26, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93 Arnold, David 173, 192 Arri, Filippo 235, 238 Artificial Intelligence: A.I. 178 Ascensore per il patibolo 101 Asimov, Isaac 94, 95, 96 Astruc, Alexandre 112 Atlantis 194 Atmosfera zero 99 Atomi puliti 147, 155 Atomo in mare, L’ 146, 147, 154 AVP: Alien vs. Predator 195 Axén, Eva 83 Bach, Johann Sebastian 214
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Bacone, Francesco 95 Bainbridge, Caroline 111, 114, 119, 120, 121, 122 Baird, Stuart 175 Baker, David 110, 111 Balázs, Béla 66 Baldi, Marcello 155 Balzola, Andrea 217 Bandirali, Luca 34 Barney, Matthew 113 Baroni, Mario 98 Barron, Bebe 34, 42, 43, 99, 100, 101 Barron, Louis 34, 42, 43, 99, 100, 101 Barthes, Roland 78 Batman 190, 191, 216, 218, 224, 228, 230, 231 Batman Begins 216, 218, 228, 230, 231 Battle Beyond the Stars 194 Baudrillard, Jean 218 Bava, Mario 15, 16, 18, 19, 21, 23, 28 Bazin, André 218 Beatles, The 99 Beghelli, Marco 179 Bellavita, Andrea 177, 201 Bellina, Anna Laura 204 Bellotto, Adriano 153
Ben-Hur 181 Berio, Luciano 137, 142, 143, 153, 156 Berlioz, Hector Louis 190, 191 Bernstein, Elmer 184 Bertelli, Pino 121 Bertolucci, Bernardo 138, 154 Bertoncini, Mario 154 Besh, Bibi 174 Betti, Laura 19 Bianchi, Pietro 178, 179, 231 Biancorosso, Giorgio 184 Bigelow, Kathryn 221 Bigsby, Christopher 126 Biografia di un aereo 155 Bird, Craig L. 206 Bisoni, Claudio 81 Björk 107, 108, 109, 110, 111, 112, 114, 115, 117, 118 Björkman, Stig 121 Blumstein, Daniel. T. 18 Boddicker, Michael 99 Boledi, Luigi 159 Boles, John 75 Bolter, Jay David 179, 199 Bordwell, David 178 Borin, Fabrizio 158 Borio, Gianmario 137, 141, 160 Bortolotti, Mauro 154 Bosch, Hieronymus 197 Boschi, Alberto 66, 86
Boulez, Pierre 103 Bourdieu, Pierre 102 Bourget, Jean-Loup 160 Bovay, Gilbert 154 Brainstorm 184 Branca, Antonello 155 Bratus, Alessandro 104, 110 Brennan, Rose 17 Brown, Earle 42, 181 Browning, Tod 38, 65, 69, 70, 72, 74, 79 Brown, Royal S. 42, 181 Bruce, Graham Donald 211 Brunetta, Gian Piero 66, 68, 160 Bulgakowa, O. 217 Burch, Noël 11 Burke, Edmund 190 Bursi, Giulio 178, 179, 231 Burton, Tim 190 Burtt, Ben 33 Busoni, Ferruccio 98 Buzzati, Dino 148, 155 Cabaret 125, 126, 127, 128, 129, 133 Cabiria 232, 233, 234, 235, 236, 237, 239 Cage, John 40, 42, 45, 101 Calabretto, Roberto 45, 113, 156, 212 Calanchi, Stefano 148, 154 Camelot 123, 126, 129
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Cameron, James 178, 187, 188, 207 Campbell, Jan 106, 113 Cannon, Danny 194 Caratti, Silvia 239 Carlos, Wendy 36 Carluccio, Giulia 81, 86, 89, 92 Carnes, Kim 27 Carotenuto, Aldo 76 Carroll, Noël 178 Casetti, Francesco 24, 162 Castelli, Franco 196 Castle, Terry 74, 75, 89, 90, 182 Cat and the Canary, The 65 Cat Creeps, The 65 Cattelan, Paolo 158 Cavaliere oscuro, Il 216, 223, 227, 228, 230, 231 Cavaliere oscuro - Il ritorno, Il 216 Cavarero, Adriana 73 Cecchi, Alessandro 137, 242 Celentano, Adriano 16 Ceserani, Remo 206 CH4 in Lucania 154 Chartier, Jean-Pierre 164 Chibnall, Steve 165 Chion, Michel 11, 13, 15, 26, 38, 39, 68, 72, 76, 78, 84, 88, 89, 141, 186, 219, 222
Clark, Mae 75, 207 Classe operaia va in paradiso, La 159 Clementi, Aldo 154 Clive, Colin 76 Close Encounters of the Third Kind 186 Coe, Jonathan 83 Cohn, Richard 200, 202, 203, 204, 205, 209 Comerio, Luca 157 Compagnia dell’anello, La 204 Compagnon, Antoine 176 Contact 174, 182, 195 Coppola, Francis Ford 33 Corbella, Maurizio 29, 41, 44, 48, 149, 177, 222 Corigliano, John 198 Cosso, Laura 190 Costanzo, Saverio 26, 27 Crafton, Donald 11 Cunningham, Chris 112 Curcio, Renato 121 Dalmonte, Rossana 98 Damicelli, Mario 144, 154 Dancer in the Dark 104, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 112, 113, 114, 115, 116, 119, 120, 121
Dancyger, Ken 182 Darcy, Warren 181 Davis, Miles 27, 101, 183 Davison, Annette 181, 196 Davitian, Richard 18 De Benedictis, Angela Ida 137 De Berti, Raffaele 152, 159 De Blasio, Antonio 154 De Bont, Jan 189, 208 Debussy, Claude 213 Degen, John 126 De La Motte, Diether 184 DeMille, Cecil B. 181 Demy, Jacques 109 Deneuve, Catherine 107, 109 Deridda, Jacques 25 Deserto rosso 44, 155 Deleuze, Gilles 12, 51, 52, 53, 54, 57, 58, 62, 108 Diavolo della bottiglia, Il 155 Di Caprio, Leonardo 13 Dickinson, Desmond 11, 166 Di Giugno, Giuseppe 103 Dinosaurs 180, 184 Disney, Walt 95, 182 Distruggere per costruire 155 Doane, Mary Ann 187 Donen, Stanley 107
251
Donna che visse due volte, La 210 Donnelly, Paul 46 D’Orazio, Francesco 219 Dracula 38, 65, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 77, 79 Drazin, Charles 167, 172 Dyer, Richard 112, 113, 119 Dyson, Frances 219 Eaton, Rebecca Marie Doran 178 Ebb, Fred 126, 127 Eco, Umberto 102 Eisler, Hanns 203, 207 Eisner, Breck 194 Ejzenštejn, Sergej M. 216 Elea classe 9000 142, 153 Elemento del crimine, L’ 109 Elettricità dell’atomo 155 Elfman, Danny 190 Elster, Jon 105 Emmerich, Roland 173, 192 Epidemic 104, 109 Epstein, Jean 66 Ercoli, Luciano 20 Eroi della stratosfera, Gli 29 Espiazione 26 E.T. L’extraterrestre 33 Eugeni, Ruggero 37, 38, 162 Evangelisti, Franco 154
Everett, William A. 106 Everson, William K. 67, 68, 76 Fabbri, Franco 94, 99 Falchero, Anna Maria 137, 157 Falck, Rossella 19 Fantasia 95 Fauré, Gabriel 193 Feldman, Morton 42 Ferrara, Giuseppe 154, 159 Ferreri, Marco 44 Fischinger, Oskar 36, 95 Flinn, Caryl 177, 181, 182 Forbidden Planet 29, 33, 42, 43, 45, 99, 100 Forman, Milos 131 Forsyth, Stephen 19 Frakes, Jonathan 195 Franceschelli, Enrico 147, 154, 155 Franck, Nino 164 Frankenstein 65, 69, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 96, 191 Frasca, Giampiero 175 Freda, Riccardo 23 Freud, Sigmund 69, 201, 202, 205, 206 Freund, Karl 38, 69 Friedmann, Michael L. 211 Frusta e il corpo, La 21 Fuggiasco, Il 160, 166 Fulci, Lucio 15
Fusco, Giovanni 155, 158 Fusione controllata dell’idrogeno, La 154 Gallarati, Paolo 235 Gallo, Vittorio 154 Gandini, Leonardo 158 Gaslini, Giorgio 24 Gassmann, Remi 45, 46, 47 Gattaca 178 Gatto a nove code, Il 24 Geduld, Harry M. 65 Gela antica e nuova 154 Gelder, Ken 90 Gelmetti, Vittorio 45, 155, 156 Genette, Gérard 163, 179 Gianini, Giulio 142 Giannarelli, Ansano 137, 155, 156, 159 Gilman, Sander 190 Giordano, Paolo 26, 219 Giordano, Valeria 26, 219 Giorni perduti 96 Giuggioli, Matteo 119, 137, 160 Giuochi di persuasione 154 Gladiatore, Il 177 Glass, Philip 178 Goblin 24, 28, 84, 85, 86, 87, 88, 91 Godard, Jean-Luc 44
252
Goldsmith, Jerry 99, 173, 180, 186, 195 Gondry, Michel 112 Gorbman, Claudia 38, 177, 178, 179, 207 Gorini, Arianna 18 Grau, Oliver 217, 219 Gregoretti, Ugo 44 Grey, Joel 36, 127 Grieg, Edvard Hagerup 213 Grimley, Daniel M. 108, 114 Grisanti, Miro 146 Grusin, Richard 179, 199 Guaccero, Domenico 154 Guazzo, Chiara 235 Guerre stellari 29, 97, 99, 206 Guizzi, Febo 196 Hair 125, 126, 129, 130, 131 Halloween 25 Harper, Jessica 83, 196 Harris, Ed 187 Hayward, Philip 22 Hediger, Vinzenz 179, 180 Hemmings, David 91 Hepokoski, James 181 Herrmann, Bernard 46, 96, 190, 210, 211 Hickox, Douglas 184 Hirbour, Louise 45 Hitchcock, Alfred 11,
15, 18, 42, 45, 46, 47, 96, 210, 211 Hoare, John 167 Hochmut, D. 217 Hoffmann, Ernst Theodor Wilhelm 201 Hofstadter, Richard 196 Holst, Gustav 175, 177, 209, 210 Horner, James 174, 184, 194 Hubbert, Julie 206 Humphries, E. A. 36 Hunt for Red October, The 175, 186 Hurt Locker, The 221, 222, 227, 231 Huston, John 164 Hutton, Betty 109 Huxley, Aldous 101 Hyams, Peter 99, 174 Idolo infranto 166 Iene, Le 17 Immagine A 154 Inception 216, 218, 220, 230, 231 Independence Day 192 Industria di salami, L’ 157 Infernale Quinlan, L’ 164 Ingrosso, Flavia 236, 239 Io ti salverò 96 Isherwood, Cristopher 126 Isola del petrolio, L’ 154 Jackson, Daniel 182
Jackson, Peter 104, 173, 174, 176, 182, 192, 204 Jensen, Aalbæk 112 Jentsch, Ernst 206 Jesus Christ Superstar 129, 130 Joe, Jeongwon 26, 126, 190 Johnson, Ian 169, 172 Jolie, Angelina 189 Jonze, Spike 110, 112 Jordan, Ken 217 Josephine 109 Jowett, Garth 41 Judge Dredd 194 Julian, Rupert 65 Kafka, Franz 12 Kahn, Douglas 35, 40, 41, 177 Kalinak, Kathryn 177, 199, 200 Kamen, Michael 207 Kander, John 126 Karas, Anton 167 Karlin, Fred 174, 177, 188 Karloff, Boris 76 Kassabian, Anahid 174, 187, 192 Kaye, Peter D. 18 Keaney, Michael F. 160 Keil, Adreas 217 Kernan, Lisa 179 Kern, Frank 13 Kier, Udo 86 King, Geoff 18, 102, 176,
253
193 King Kong 18, 176, 193 Kittler, Friedrich 35 Kloser, Harald 195 Klumpenhouwer, Henry 200 Kozintsev, Grigori 96 Krasker, Robert 166, 168 Krauss, Rosalind 218 Kristeva, Julia 179 Krzywinska, Tanya 102 Kubrick, Stanley 11, 14, 15, 20, 36, 41, 99, 101, 102, 221 Lacan, Jacques 50, 58 Laemmle, Carl 69, 74 Laird, Paul R. 106 Lakoff, George 102 La mummia-Il ritorno 208 Landy, Marcia 158 Langford, Barry 160 Lang, Fritz 38, 110 Lara Croft: The Cradle of Life 189, 208 Lasagna, Roberto 112 Lastra, James 35, 36 Lavagnino, Angelo Francesco 237 Leggero medio pesante 154 Leighton, Eric 184 Leni, Paul 65, 217 Lenzi, Umberto 19 Lerner, Alan Jay 22, 123 Lerner, Neil 22, 123 Levin, Thomas Y. 36
Levitin, Daniel 102 Levy, Shawn 184, 207 Lewin, David 200 Linea di montaggio 156 Lloyd, Barbara B. 102, 130, 206 Lloyd Webber, Andrew 130, 206 Locatelli, Walter 155 Loewe, Frederick 123 Lombardi, Nicola 83, 85 Lombardo, Vincenzo 72 Lord of the Rings, The 192, 204 Lorenzini, Ennio 154 Lotman, Jurij 182, 197 Lucas, George 29, 33, 97, 102, 206 Lugosi, Bela 71 Lumholdt, Jan 104 Lupi, Brando 27 Lyle, Jody 186, 187, 188 Macchi, Egisto 144, 145, 148, 149, 154 Macchina del tempo, La 155 Mago di Oz, Il 26 Mahler, Gustav 14 Maiello, Fabio 82 Malipiero, Gian Francesco 158 Malle, Louis 101 Manders, Stanley 85 Mann, Thomas 201 Mansell, Clint 194 Manzoli, Giacomo 81, 86, 89, 92
Marchisio, Giancarlo 235 Margheriti, Antonio 17 Marinelli, Luca 26 Marshall, Ingram 13, 56 Marsili, Emilio 148, 154 Martini, Emanuela 119 Martino, Sergio 22 Mascagni, Pietro 213 Mason, James 166 Masteroff, Joe 126 Mastrantonio, Mary Elizabeth 186 Mattei, Enrico 152 Mazza, Manlio 237 Mazzocchi Alemanni, Muzio 143 McAdams, Stephen 230 McLaren, Norman 95 McLuhan, Marshall 56 McTiernan, John 175 Meandri, Ilario 201, 208, 213, 231, 242 Mellencamp, Patricia 187 Memoria del futuro, La 153 Menarini, Roy 81, 82, 86, 89, 92 Messeri, Gian Maria 154 Metz, Christian 68 Meyer, Leonard B. 215 Meyer, Nicholas 174, 215 Miceli, Sandro 158 Micromondo. Dalle valvole al circuito
254
integrato 154 Mida, Massimo 154, 155 Miller, Henry 101, 182 Miller, Lisa Anne 101, 182 Milner, Max 89 Misiani, Simone 157 Mistero del falco, Il 164 Möbius, August 184 Moglie di Frankenstein, La 96 Moholy-Nagy, László 95 Moine, Raphäelle 25 Monachesi, Enzo 153 Mondino, Jean-Baptiste 112 Monteverdi, Anna Maria 217 Moody Blues 103 Moore, Brian C. J. 225 Mora, Teo 74 Morelli, Giovanni 204 Moretti, Gabriele 27 Morgan, David 196 Mori, Masahiro 191 Morricone, Ennio 20 Morte cammina con i tacchi alti, La 20 Mosconi, Elena 137, 152, 159 Mummia, La 38, 208 Mummy Returns, The 190 Munari, Bruno 153 Murakami, Jimmy 194 Murch, Walter 33 Murphy, Geoff 165, 195
Murphy, Robert 165, 195 Murray, Lyn 29 Musante, Tony 21 Myles, Lynda 45 Nacache, Jacqueline 16 Napolitano, Ernesto 215 Naremore, James 165 Neale, Steve 160 Nelli, Pietro 155 Newman, Kim 68 Newton Howard, James 173, 176, 184, 194, 216 Niccol, Andrew 178 Nietzsche, Friedrich 52, 185 Night at the Museum 184, 207 Nightmare 17, 25 Nimoy, Leonard 194 Nin, Anaïs 101 Noi continuiamo... 144, 148, 154 Nolan, Christopher 216, 227 Non è più un sogno 157 Non ho tempo 156 Nono, Luigi 103 Non si sevizia così un paperino 15 Northam, Mark 182 Notte al museo, Una 207 Nude si muore 17, 19 Officine della “FIAT”, Le 157
Olivetti, Adriano 152 Olmi, Ermanno 138, 158 Omicron 44 Onde del destino, Le 120 Opsteel 154 Orcalli, Angelo 18 Orlando, Francesco 177 Oro nero sul Mar Rosso 154 Orribile segreto del dottor Hitchcock, L’ 23 Packer, Randall 217 Parapluie de Cherbourg, Les 109 Paris, Daniele 154 Partch, Harry 101 Pastore, Sergio 24 Pastrone, Giovanni 237 Paterson, Vincent 107 Patton, Mike 27 Penderecki, Krzysztof 13, 20, 198 Pennisi, Francesco 154 Pestalozza, Luigi 29, 30 Pestelli, Giorgio 204 Petri, Elio 159 Peyrache-Leborgne, Dominique 190 Pfenninger, Rudolf 36, 95 Phillips, Adam 190 Piana, Giovanni 71 Pianeta acciaio, Il 148, 155 Pianeta proibito 29 Pinamonti, Paolo 158
255
Pink Floyd 103 Pintori, Giovanni 142 Pirandello, Luigi 158 Pisters, Patricia 108, 121 Piston, Walter 213 Pizzetti, Ildebrando 237 Poledouris, Basil 175, 195 Polidori, Gianni 142 Ponzo, Diego 234, 235 Potenza, Franco 146, 147, 148, 153, 154, 155 Pousseur, Henri 101 Powell, Don 17 Prieberg, Fred K. 95 Prince, Harold 126, 128 Profondo rosso 22, 23, 24, 82, 86, 87, 91, 92 Prono, Franco 235 Psyco 26, 211 Pudovkin, Vsevolod 66 Puecher, Virginio 142 Puente, Jesus 19 Pugliese, Roberto 91, 93 Punto di non ritorno 207 Pupilla, Lorenzo 237 Pye, Michael 45 Quaresima, Leonardo 24 Quarto stato della materia, Il 154 Quattro mosche di velluto grigio 17, 22, 24 Rachmaninov, Sergej 193
Rado, James 130 Raengo, Alessandra 24 Ragazza che sapeva troppo, La 15, 17, 24 Ragghianti, Carlo Ludovico 153 Ragni, Gerome 130 Raimi, Sam 190 Rapporto uno a venti 154 Ravel, Maurice 213 Reed, Carol 160, 164, 166, 167, 168 Reggio, Godfrey 178 Reisfeld, Bert 110 Re Uranio 154 Reynolds, Kevin 174 Rice, Tim 130 Richter, Max 14 Riefenstahl, Leni 217 Riemann, Hugo 200 Rilke, Rainer Maria 35, 177 Risi, Nelo 142, 153 Robertson, Peggy 13, 14, 46 Robertson, Robbie 13, 14, 46 Robocop 195 Rockwell, John 129 Rocky Horror Picture Show, The 129 Rohrwacher, Alba 26 Rolling Stones 103 Romano, Noemi 60 Rona, Jeffrey 175 Rosch, Eleanor 102 Rosso segno della follia, Il
19, 21, 23 Rózsa 96, 177, 181 Rózsa, Miklós 96, 177, 181 Rudolph, Richard 36, 99 Russolo, Luigi 40 Rutter, John 214 Ruttmann, Walter 158 Sabia, Serena 235 Sahara 194 Sala, Emilio 18, 45, 46, 47, 176 Sala, Oskar 18, 45, 46, 47, 176 Salerno, Enrico Maria 26 Salmi, Hannu 181 Salute in fabbrica, La 159 Salvadeo, Paola 235 Salzer, Felix 209 Sanguineti, Edoardo 156 Savina, Carlo 17 Scelsi, Giacinto 14 Schachter, Carl 209 Schaeffer, Pierre 72 Schatz, Thomas 41, 175, 181 Schelle, Michael 173, 195 Schiff, Ronny 175 Schubert, Franz Peter 202 Scorsese, Martin 12, 14, 17 Scott, Ridley 175, 177, 187, 195
256
Sei donne per l’assassino 16, 18, 19, 23, 28 Seme dell’uomo, Il 44 Sette canne, un vestito 158 Sette orchidee macchiate di rosso 19 Sette scialli di seta gialla 24 Sette spose per sette fratelli 107 Shatner, William 174 Shining 15, 221 Shining, The 198, 221 Shire, David 196 Shore, Howard 192, 193, 204 Shutter Island 12, 13 Sierra Maestra 156 Signore degli anelli, Il 204 Silver, Alain 165 Silvestri, Alan 180, 184, 186, 189, 190, 194, 207, 208, 211 Simons, Jan 104 Sincrotone 154 Skal, David J. 69, 72 Smith, Jeff 19, 178, 180 Smith, Sally 19, 178, 180 Soldati, Mario 158 Solitudine dei numeri primi, La 26 Sommers, Stephen 190, 208 Sonnenschein, David 222 Šostakovič, Dmitri 96 Sotto il segno dello Scor-
pione 156 Sotto i tuoi occhi 157 Spicer, Andrew 165, 168 Spider-Man III 190 Spielberg, Steven 33, 178 Spini, Sergio 155 Sportelli, Anna Maria 25 Stabilimento: grande e subito, Uno 148, 154 Stargate 173, 194 Star Trek II: The Wrath of Khan 174, 194 Star Trek: Nemesis 175 Star Trek VIII: First Contact 195 Star Wars 29, 33, 34, 97, 102, 177, 178, 206 Stevenson, Jack 109, 112 Stewart, Patrick 174 Stockhausen, Karlheinz 101 Storia del manifesto pubblicitario 154 Strano vizio della signora Wardh, Lo 22 Strauss, Richard 101, 197 Stroppa, Marco 225 Sud come Nord 153, 155 Suspiria 81, 82, 83, 85, 86, 87, 90, 91, 92, 93 Svanberg, Lasse 112 Swynnoe, Jan G. 169
Tagg, Philip 98 Targa, Marco 189, 199, 242 Taviani, Paolo e Vittorio 156 Tchou, Mario 144 Ten Commandments, The 181 Terminator, The 178 Terrone, Enrico 34 Terzo uomo, Il 166, 167 Testa, Elena 137, 148 Testamento del Dottor Mabuse, Il 38 Time Machine, The 174 Tiomkin 181 Todorov, Tzvetan 90, 176, 209 Tomasini, George 47 Tomei, Giuliano 155 Tosi, Virgilio 146, 154 Tovoli, Luciano 85 Trauberg, Leonid 96 Tre volti della paura, I 19 Trionfo della volontà, Il 217 Trousdale, Gary 194 Truman Show, The 178 Trumbull, Douglas 184 Tudor, David 42 Tului, Fulvio 154 Turci, Arianna 137, 144, 152 Tutti insieme appassionatamente 107, 108, 123 Tyler, Liv 193 Tynianov, Yuri 25
257
Uccelli, Gli 14, 42 Uccello dalle piume di cristallo, L’ 20, 23, 24, 26, 81, 83 Ulff-Møller, Jens 112 Ultimatum alla terra 210 Ultimatum alla Terra 96, 97 Under Siege 2: Dark Territory 195 Uomini del petrolio, Gli 154 Uomo che fuggì dal futuro, L’ 33 Uomo macchina uomo 155 Ursini, James 165 Uspenskij, Boris 182, 197 Valle, Andrea 72, 212 Van Helsing 69, 72, 180, 190, 191, 193 Van Sloan, Edward 69, 74, 75 Varèse, Edgar 44, 45, 98, 101 Vauhan, Dai 168 Venturini, Simone 178, 179, 231 Verhoeven, Paul 195 Vertigo 210, 211 Via del petrolio, La 138, 154 Viarengo, Alberto 235 Vichi, Laura 24 Vitale, Stefania 235
Vittorio Emanuele III 237 Voinov, (Konstantin?) 95 Von Trier, Lars 104, 105, 106, 109, 110, 111, 112, 114, 115, 116, 119, 120, 121, 122 Wagner, Richard 108, 109, 189, 190, 201, 202, 204 Waterworld 174 Waxman, Franz 96 Weaving, Hugo 193 Webb, Robert D. 29 Weill, Kurt 128 Weir, Peter 178 Weis, Elisabeth 11, 68, 69 Weller, Michael 131 Welles, Orson 164 Wells, Simon 174 Whale, James 65, 96 Whitehead, Gregory 35, 40 White, Rob 102, 167 Wiener, Norbert 14, 43, 100
Wierbizcki, James 45 Wierzbicki, James 42 Wilcox, Fred. R. 29, 33, 42, 99 Wilder, Billy 96 Wilkinson, Scott 175 Williams, John 42, 99, 101, 102, 165, 173, 177, 186, 187, 190, 200, 206 Williams, Linda 42, 99, 101, 102, 165, 173, 177, 186, 187, 190, 200, 206 Williams, Ralph Vaughan 42, 99, 101, 102, 165, 173, 177, 186, 187, 190, 200, 206 Williams, Tennessee 42, 99, 101, 102, 165, 173, 177, 186, 187, 190, 200, 206 Williams, Tony 42, 99, 101, 102, 165, 173, 177, 186, 187, 190, 200, 206 Wilmeth, Don B. 126 Wise, Kirk 96, 107, 123,
258
194, 210 Wise, Robert 96, 107, 123, 194, 210 Wolff, Christian 42 Wollman, Elisabeth 130 Wood, Elijah 106, 193 Wright, Joe 26, 177, 188 Wright, Rayburn 26, 174, 177, 188 Wyler, William 181 Young, Christopher 190, 195 Zac, Pino 146 Zagarrio, Vito 81 Zanoncelli, Luisa 232, 233, 235 Zemeckis, Robert 174, 182, 211 Zennaro, Francesco 156 Zimmer, Hans 216, 227, 228, 231 Zischler, Hanns 12 Zondag, Ralph 184 Zulu Dawn 184 Zumthor, Paul 186
orizzonti
Giaime Alonge, Uno stormo di Stinger. Autori e generi del cinema americano Giulia Carluccio, Scritture della visione. Percorsi nel cinema muto Alessandro Faccioli, Leggeri come in una gabbia. L’idea comica nel cinema italiano Anton Giulio Mancino, Il processo della verità. Le radici del film politicoindiziario italiano Andrea Martini (a cura di), L’antirossellinismo Paolo Noto, Dal bozzetto ai generi. Il cinema italiano dei primi anni Cinquanta Valentina Re, Leonardo Quaresima (a cura di), Play the Movie. Il DVD e le nuove forme dell’esperienza audiovisiva