Immagini e corpi. Da Deleuze a Sloterdijk


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Immagini e corpi. Da Deleuze a Sloterdijk

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A11 496

Tommaso Ariemma

IMMAGINI E CORPI DA DELEUZE A SLOTERDIJK

Copyright © MMX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065

ISBN

978–88–548–3098–1

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: febbraio 2010

Ai miei studenti, con riconoscenza

Indice

9 Introduzione 11 Capitolo I Iconofagia 1.1. Desidero, dunque siamo, 11 – 1.2. L’essere speciale, 12 – 1.3. Qualcosa di oscuro nell’anima, 14 – 1.4. Avere o fare l’immagine, 18 – 1.5. Baci e morsi, 20 – 1.6. Il morso dell’immagine. A partire da Burroughs, 21

23 Capitolo II Compagnia e circuito delle immagini 2.1. Tesi I: L’immagine porta in superficie il problema filosofico fondamentale, 23 – 2.2. Tesi II: L’immagine “c’è” per un corpo capace di sentire se stesso, 25 – 2.3. Tesi III: Non c’è “immagine a sé”, “in generale” o “pura”, 27 – 2.4. Tesi IV: Se l’immagine c’è, c’è anche un circuito di immagini, un circuito iconico, 30

35 Capitolo III Homo homini imago. Per una critica del farsi spazio 3.1 L’esprimersi dentro, 35 – 3.2. Il farsi spazio e la retorica della nascita, 38 – 3.3. Nudità e sistema di sguardi, 41

45 Capitolo IV Simulazione del nudo e civilizzazione video-cristiana 4.1. Singolarità dello strip-tease, 45 – 4.2. Per una decostruzione della nudità seconda, 45 – 4.3. L’immagine del corpo e la nudità seconda, 47 – 4.4. Immunizzazione e nudi-

8

Indice tà, 48 – 4.5 Baudrillard e la transustanziazione del nudo, 50 – 4.6. Il cristianesimo dietro la simulazione, 51 – 4.7. La civilizzazione video-cristiana, 53 – 4.8. Fare e inventare la carne, 54 – 4.9. La rivolta del gesto e dell’immagine, 56

59 Capitolo V Sul contenimento dello sguardo e delle immagini 5.1. Dall’iconofagia al controllo dell’ambiente visivo, 59 – 5.2. Ottiche occidentali, 60 – 5.3. Lacrime e pittura, 65 – 5.4. Polizia estetica, 67

71 Capitolo VI Lineamenti di termoestetica 6.1. Visualizzazione e climatizzazione. A partire dal design, 71 – 6.2. Il segreto del design, 72 – 6.3. Lo stato gassoso dell’economia, 74 – 6.4. Atmosfera e sensibilità, 76 – Termoestetica dei media, 78 – Termoestetica dell’arte, 80

85 Appendice Corpo in frammenti. Il male in pittura da Botticelli a Bacon 95 Nota al testo 97 Bibliografia

Introduzione

Una filosofia delle immagini e dei corpi Il nostro rapporto con l’immagine è raramente frontale. Le immagini, piuttosto, attraversano il nostro corpo e ci chiariscono l’anima. Un tale chiarore, come ogni illuminazione, non si ottiene senza che qualcosa bruci, in ogni senso. Per tale motivo, non c’è esperienza dell’immagine senza desiderio, senza un bruciare dell’anima. Per tale motivo, non c’è controllo del desiderio che non passi per il controllo dell’immagine. Corpi desideranti e immagini sono legati, più di quanto sia stato pensato, al punto che l’immagine non si distingue dal respiro stesso dell’anima, dal suo corpo. Il presente studio attraversa teorie, le mette alla prova del reale. Deleuze, Rancière, Stiegler saranno tra i nostri immaginari interlocutori. Ma soprattutto Baudrillard e Sloterdijk, per la loro preziosa e originale attenzione alle immagini dei corpi e al loro spazio caratteristico. A tale discussione verrà affiancata progressivamente una teoria della resistenza delle immagini dell’arte all’attuale economia delle icone e delle visibilità, al controllo del clima culturale. A partire dai gesti apparentemente più semplici: dalla carezza, dalle lacrime, dal respiro. Infine, il sottotitolo di questo libro: “Da Deleuze a Sloterdijk” non indica una progressione storica, né una semplice carrellata di autori.

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Introduzione

È piuttosto l’indicazione della direzione di analisi tematica: dalle superfici (Deleuze) agli ambienti (Sloterdijk) e viceversa. Dal toccarsi dei corpi alle atmosfere mentali e viceversa. Un percorso di esplicitazione Le ricerche che qui presentiamo analizzano, dunque, i rapporti tra corpi e immagini, muovendo dall’immaginazione al gesto, dal gesto al controllo del suo spazio di iscrizione, secondo un percorso di “esplicitazione crescente”, per usare una felice espressione di Sloterdijk, che non vuol dire qui “spiegazione, chiarimento” nel senso abituale del termine, ma dispiegamento e messa a nudo. Un tale percorso di ricerca poteva avere anche, come titolo, “Il nostro tempo messo a nudo” poiché verranno analizzati, soprattutto, fenomeni di costume caratteristici del contemporaneo in relazione alla questione capitale della nudità: topless, strip-tease, cultura della visione, design, pornografia. Un romanzo filosofico di esplicitazione, dunque, o una sorta di piccola fenomenologia dello spirito. Dal frontale all’ambientale, dal vedere al respirare. Il procedere della ricerca, seguendo un percorso di esplicitazione, allarga, di volta in volta, il campo delle relazioni, secondo dispiegamenti progressivi. È la ragione per cui non vi è una conclusione, poiché l’esplicitazione ultima, a rigore, resta ancora a venire.

Capitolo I

Iconofagia

1.1. Desidero, dunque siamo «Desiderare – ha scritto Giorgio Agamben – è la cosa più semplice e umana che sia»1. Desiderare è certo una cosa semplice, dato che qualsiasi cosa può innescare il desiderio. Ma perde ogni semplicità se pensiamo al fatto che il desiderio complica ogni volta ciò che è semplice – l’uno. Il desiderio, infatti, è sempre un più d’uno, fatto di almeno due cose: un desiderante e un desiderato. Desidero, dunque siamo. Potremmo ripensare in questo modo la celebre frase cartesiana cogito ergo sum, penso dunque sono. Potremmo così violare quella forte credenza nell’individuo, che, come ha osservato il sociologo Norbert Elias, è mossa dalla convinzione che l’individuo sia «un homo clausus, un piccolo mondo a sé che esiste indipendentemente dal mondo al suo esterno […] Qualsiasi altro uomo appare perciò ugualmente un homo clausus; anche il suo nocciolo – la sua essenza, il suo io effettivo – appare come qualcosa che al suo interno è separato mediante un muro invisibile da tutto ciò che sta fuori, e quindi anche da tutti gli altri uomini»2. 1

G. AGAMBEN, Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005, p. 57. N. ELIAS, La civiltà delle buone maniere, trad. it. di G. Panzieri, il Mulino, Bologna 1998, pp. 78-79. 2

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Capitolo I

Interrogare la natura del desiderio ci permetterà di oltrepassare questa prima chiusura esistenziale, una chiusura ideologica. Ci permetterà di fare problema della nota opposizione tra interno ed esterno, ovvero di rispondere alla questione posta da Elias in questi termini: È forse il corpo il recipiente che ha racchiuso al suo interno l’io effettivo? È forse la pelle il confine tra «interno» ed «esterno»? Che cosa è il guscio dell’uomo e che cosa è il nocciolo? L’esperienza dell’«interno» e dell’«esterno» appare così immediatamente evidente che ben difficilmente ci si pongono tali quesiti; sembra che non ci sia bisogno di sottoporli a indagine. Ci si accontenta delle metafore spaziali «interno» ed «esterno», ma non si fa nessun tentativo per indicare seriamente l’«interno» nello spazio; […] questa immagine preconcetta dell’homo clausus non soltanto domina la scena in gran parte della società ma, in misura elevata, anche nelle scienze umane3.

Il nostro punto di partenza sarà una particolare lettura filosofica: la lettura che Deleuze fa di Leibniz. Partiremo da Leibniz, perché la sua idea di chiusura dell’anima è decisamente singolare. Anzi, a rigore (come vedremo), speciale. La sua concezione, che rafforza la credenza nell’individuo promossa da Cartesio, offre tuttavia il fianco a una singolare decostruzione. Proprio la concezione estrema della chiusura individuale si rovescia nel suo opposto, in una singolare apertura. Partiremo da una lettura suggestiva di Leibniz, una lettura che permette di ripensare meglio tale “speciale” chiusura e con essa la natura del desiderio. Prima di seguire la lettura di Deleuze, attraverso un vero e proprio pedinamento teorico, sarà opportuno esplicitare ciò che debba intendersi, in questo caso, per “speciale”. 1.2. L’essere speciale Oggi si intende, per “essere speciale”, qualcosa di esclusivo, di unico, di solo. Ripensare il senso dell’essere speciale è di fondamentale importanza per vedere quanto, in realtà, ciò che si intende oggi per speciale sia 3

Ivi, p. 79.

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un vero e proprio impoverimento della sua complessità, del suo senso originario. Non c’è essere speciale senza un più d’uno e soprattutto non si dà essere speciale senza immagini. È la filosofia medioevale a indicarci un tale senso dell’essere speciale4. Specie è il termine usato dalla filosofia medievale per indicare soprattutto l’immagine, il darsi delle cose alla conoscenza che le riceve, e che pertanto diviene speciale. Come è stato opportunamente osservato: L’essere speciale è assolutamente insostanziale. Esso non ha luogo proprio, ma accade a un soggetto, ed è in esso come un habitus o un modo d’essere, come l’immagine è nello specchio. […] I medievali chiamavano la specie intentio, intenzione. Il termine nomina la tensione interna (intus tensio) di ogni essere, che lo spinge a farsi immagine, a comunicarsi5.

Nell’anima non vi sono cose, ma immagini, specie di cose6. L’anima, nell’accogliere tali specie, si comporta come uno specchio, lo “speciale” per eccellenza. È, infatti, per i filosofi medioevali lo specchio a fornire il modello e il paradigma attraverso il quale poter definire cosa accade all’anima quando conosce. Speciale è ciò che si riferisce alla specie, alla “conoscibilità” delle cose, ovvero alle immagini. Speciale è, dunque, ciò che dipende dalle immagini, ciò che riflette, ciò che le riflette, facendo figura. Dobbiamo attendere proprio Leibniz per una originale ripresa della natura riflessiva, cioè speciale, dell’anima. Per Leibniz l’anima è una monade, ed è chiusa, senza porte né finestre: tuttavia essa possiede una natura speculare (cfr. Principi razionali della natura e della grazia). È uno specchio che riflette il mondo intero da un determinato punto di vista. Si comincia già ad intuire quanto la chiusura dell’anima, così come è intesa da Leibniz, possa rivelarsi una singolare apertura. Come uno

4 Cfr. E. COCCIA, La trasparenza delle immagini. Averroè e l’averroismo, Bruno Mondadori, Milano 2005. 5 G. AGAMBEN, Profanazioni, cit., pp. 61-62. 6 Cfr. Ivi, p. 61.

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Capitolo I

specchio, essa non ha porte né altre aperture, perché è tutta aperta, nella sua riflessione, speciale. Ne La piega. Leibniz e il Barocco, Deleuze legge la chiusura della monade come una singolare apertura verso il mondo. Più che un semplice specchio, l’anima è una camera oscura (costituita da una serie di specchi)7. Oltre alla riflessione, c’è l’oscurità. C’è qualcosa di oscuro nell’anima. 1.3. Qualcosa di oscuro nell’anima Suggestive quanto complesse sono le pagine che Deleuze dedica a Leibniz nel suo testo La piega, così intricate e dense da rendere quasi irriconoscibile la sua filosofia. Tuttavia diversi interventi che Deleuze opera sul corpo degli scritti leibniziani sono ancora per noi preziosi per avvicinarci ancora meglio a quanto di oscuro vi è nell’anima e alla sua natura speciale. Di particolare interesse ci sembra la deduzione morale che Deleuze rintraccia nell’esigenza, per Leibniz, che l’anima abbia un corpo. Io devo avere un corpo perché c’è qualcosa di oscuro in me: è questo per Deleuze il primo argomento circa la deduzione morale: Io devo avere un corpo: è una necessità morale, un’«esigenza». E, per prima cosa, devo avere un corpo perché c’è qualcosa di oscuro in me. Già questo primo argomento mostra la grande originalità di Leibniz. Egli non dice che solo il corpo spiega quanto c’è d’oscuro nello spirito. Al contrario, lo spirito è oscuro, il fondo dello spirito è scuro, ed è proprio questa natura scura che spiega ed esige il corpo. […] Non c’è dell’oscuro in noi perché abbiamo un corpo, ma noi dobbiamo avere un corpo perché c’è dell’oscuro in noi: all’induzione fisica cartesiana, Leibniz sostituisce una deduzione morale del corpo8.

Tuttavia ci pare che, nel momento in cui viene individuata, la deduzione morale venga subito abbandonata per una causalità inversa:

7

Cfr. G. DELEUZE, La piega. Leibniz e il barocco, a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004, p. 139. 8 Ivi, p. 139.

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l’anima oscura spiega il corpo, non il contrario9. Dov’è la moralità del corpo? Perché è bene, è giusto, è meglio avere un corpo? Qui “bene” è inteso nel senso di ciò che si ha, del proprio avere. E per avere qualsiasi cosa io devo avere prima un corpo. È un esigenza morale, in vista di qualsivoglia bene. Deleuze non ci pare porre in questi termini la questione, optando per un discorso causale, senza che intervenga il minimo discorso sulla bontà dell’avere un corpo. In fondo, Deleuze non può avanzare una deduzione morale perché aggira il problema dell’appetitus in Leibniz. È curioso: una monografia su Leibniz, in cui, in maniera puntuale e precisa, ogni concetto viene descritto e quasi riscritto, la parola “appetito”, concetto fondamentale in Leibniz, vi compare una sola volta, all’interno di una sola proposizione, velocissima10. Da buoni investigatori, ormai sulle tracce di qualcosa che sembra mancare, che sembra mancato, si è certi di essere sul luogo in cui si è consumata più di una omissione. Nella pagina (dell’edizione italiana) in cui accenna all’appetito, Deleuze fa un rapido riferimento alla fame, ma il modo in cui questa viene introdotta nel testo non solo la separa dall’appetito, ma fa apparire la fame un mero esempio. Scrive Deleuze: Per quanto brusca sia la bastonata al cane che mangia, questi avrà comunque avuto tante piccole percezioni del mio arrivo furtivo, del mio odore ostile, dell’alzarsi del bastone – tutte percezioni soggiacenti alla conversione del piacere in dolore. In che modo la fame potrebbe seguire la sazietà se tante piccole fami elementari (di sali, di zuccheri, di grassi, ecc.) non insorgessero a ritmi alternati e avvertiti?11

Ci sembra pertanto opportuno recuperare ciò che in questa pagina è stato espunto, rintracciandolo nei corsi preparatori a La piega che Deleuze ha dedicato a Leibniz. Come afferma nella seduta del 29/04/1980:

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Cfr. ivi, p. 140. Ivi, p. 142. 11 Ibidem. 10

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Capitolo I […] secondo Leibniz, l’anima ha due facoltà fondamentali: l’appercezione cosciente che è composta da piccole percezioni incoscienti, e ciò che chiama l’appetizione, l’appetito, il desiderio. E noi saremmo fatti di desiderio e di percezioni. Ora, l’appetizione è l’appetito cosciente. Se le percezioni globali sono fatte di un’infinità di piccole percezioni, le appetizioni o grossi appetiti sono fatti di un’infinità di piccole appetizioni. Come potete vedere le appetizioni sono i vettori corrispondenti delle piccole percezioni, diventa un inconscio molto strano. La goccia del mare alla quale corrisponde la goccia d’acqua, alla quale corrisponde una piccola appetizione presso colui che ha sete. E quando io dico: “Oddio, ho sete, ho sete”, che cosa faccio? Esprimo grossolanamente un risultato globale delle mille e mille piccole percezioni che mi attraversano, e delle mille e mille appetizioni che mi attraversano. Che cosa vuol dire? All’inizio del ventesimo secolo, un grande biologo spagnolo caduto nell’oblio, si chiamava Turrò, fece un libro col titolo in francese: “Les origines de la connaissance” (1914 – L e origini della conoscenza) ed è un libro straordinario. Turrò affermava che quando diciamo “io ho fame” – aveva una formazione puramente biologica –, e ci diciamo che è Leibniz che si è svegliato, è un vero risultato globale, ciò che egli chiama una sensazione globale. Impiega i suoi concetti: la fame globale e le piccole fami specifiche. Dice che la fame come fenomeno globale è un effetto statistico. Di cosa è composta la fame come sostanza globale? Di mille piccole fami: fame di sali, fame di sostanze proteiche, fame di grassi, fame di sali minerali, ecc… Quando dico “io ho fame”, io faccio alla lettera, dice Turrò, l’integrale o l’integrazione di queste mille piccole fami specifiche. Le piccole differenziali sono le differenziali della percezione cosciente, la percezione cosciente è l’integrazione delle piccole percezioni. Molto bene. Vedete bene che le mille piccole appetizioni sono le mille fami specifiche. E Turrò continua, perché c’è tuttavia qualcosa di strano a livello animale: come fa l’animale a sapere di cosa ha bisogno? L’animale vede delle qualità sensibili, ci si getta sopra e le mangia, tutti mangiamo delle qualità sensibili. La mucca mangia del verde. Essa non mangia dell’erba, e tuttavia non mangia un verde qualsiasi poiché riconosce il verde dell’erba e non mangia soltanto il verde dell’erba. Il carnivoro non mangia delle proteine, mangia la cosa che ha visto, non vede delle proteine. Il problema dell’istinto, al livello più semplice, è: come si spiega il fatto che le bestie mangiano pressappoco ciò che gli conviene? In effetti, le bestie per il loro pasto mangiano la quantità di grassi, la quantità di sale, la quantità di proteine necessaria all’equilibrio del loro “ambiente” interiore. E il loro ambiente interiore che cos’è? L’ambiente interiore è il luogo di tutte le piccole percezioni e le piccole appetizioni12.

12

Lezione del 29/04/1980, disponibile su www.webdeleuze.com (traduzione lievemente modificata)

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Il lungo brano riportato pone, rispetto al passo de La piega, diversi problemi: in primo luogo, Deleuze collega, come fa Leibniz, l’appetizione al desiderio. Ribadisce, seguendo Leibniz e coerentemente con tutta la sua filosofia, che noi siamo fatti di percezioni e di desiderio, desiderio che investe le percezioni e le coordina13. Ne La piega scompare ogni riferimento al desiderio, e, come abbiamo già detto, non dedica all’appetizione che un solo rigo. Nel brano della sua lezione, inoltre, collega l’appetizione alla fame, esplicitamente. E fa un importante riferimento al biologo spagnolo Turrò, che scompare nel testo dedicato a Leibniz. Traccia di quanto il riferimento alla fame e alla nutrizione sia comunque implicito e decisivo nell’espressione dell’anima, è il sottolineare di Deleuze, ne La piega, «il brulichio digestivo delle piccole percezioni»14. L’anima ha appetiti, cioè delle inquietudini. Ha la necessità di passare da una piccola percezione all’altra – in questo consiste l’appetizione – ma sopratutto, e qui fa il suo ingresso il corpo, queste piccole percezioni devono essere trattenute, assorbite, tenute insieme, nel movimento dell’appetizione. L’anima fa l’integrale (dice Deleuze seguendo Turrò) di queste piccole appetizioni che il corpo sembra soddisfare. Il corpo è buono, la sua esistenza è buona, perché è capace di soddisfare e sviluppare gli appetiti, i desideri, dell’anima. Essi non si chiariscono che mediante il corpo, poiché attraverso il corpo l’anima si rappresenta il mondo: «così si conoscono i satelliti di Saturno e di Giove solo per il movimento che si fa nei nostri occhi», scrive Leibniz ad Arnauld15. Un’anima senza corpo sarebbe un’anima incapace di avere appetiti e dei desideri nitidi e distinti. Desidero quella donna, perché il corpo ha permesso che la sua immagine mi si chiarisse nel fondo oscuro dell’anima, assorbendo odori, rilasci ormonali, percorrendo con gli occhi le sue forme, toccandole. 13

Ibidem G. DELEUZE, La piega, cit., p. 151. 15 Cfr. R. FABBRICHESI LEO, Leibniz: monade e armonia, Cuem, Milano 1998. 14

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Capitolo I

Il risultato di questo pasto oscuro è il tingersi progressivo nell’anima di un’immagine. Deleuze dice che l’anima leibniziana è tappezzata di dipinti trompe-l’oeil e nello stesso tempo che è fatta come una camera oscura16. Allora, quando si tratterà di sviluppare la proposizione “io devo avere un corpo, perché c’è qualcosa di oscuro in me”, secondo una deduzione morale, bisognerà affermare che vi è un’esigenza morale del corpo nella stessa misura in cui davanti a una tela vi è l’esigenza morale del pittore: è sempre un corpo che rende possibili le immagini. 1.4. Avere o fare l’immagine L’oscurità dell’anima ha aperto la strada, implicitamente, seguendo il non detto di Deleuze, a una esigenza morale dell’immagine. Tuttavia, in relazione al problema della sua realtà, l’esigenza dell’immagine diviene subito un problema complesso. Pur necessitando di tutte le piccole percezioni e di tutte le piccole appetizioni, essa non è la somma di queste, ma una sorta d’insieme, ovvero qualcosa di più di un semplice composto. Non essendo raggiunta per l’associazione atomistica di tutti i piccoli elementi consumati attraverso il corpo, si direbbe che a fare l’immagine sia stata l’anima. Una soluzione di comodo, questa. Semplificante e degna del romanticismo più sfrenato. In verità, è assai difficile sapere se l’anima abbia fatto l’immagine o abbia colto anch’essa attraverso il corpo. L’immagine le è venuta, potremmo dire, esprimendo con questa proposizione, dal senso ambiguo, l’indecidibilità tra l’avere e il fare. Tale ambiguità permea già il De anima (III, 3) di Aristotele, fino al celebre dilemma di Samuel Beckett che conclude le due versioni di un suo celebre testo (la cui seconda versione non a caso intitolata L’image ) ora con l’espressione c’est fait j’ai fait l’image (è fatta ho

16

Ibidem, p. 46.

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fatto l’immagine), ora con c’est fait j’ai eu l’image (è fatta ho avuto l’immagine)17. Ad un’analisi genetica, però, l’indecidibilità pare sbilanciarsi dal lato dell’avere, perché non vi è desiderio o appetito, ciò che farebbe l’immagine nell’anima, senza a sua volta un’immagine che lo investa. Ciò che chiamiamo immaginazione esprimerebbe proprio l’inquietudine dell’anima che oscilla tra l’avere e il fare l’immagine, ovvero tra un’immagine interna e un’immagine esterna. Parafrasando Aristotele, non vi è desiderio privo dell’immagine che lo renda possibile. Nella sua monografia su Bacon, Deleuze accenna a qualcosa di singolare che accade al pittore, ovvero al fatto che egli non trova mai dinanzi a sé una tela bianca: È un errore credere che il pittore si trovi dinanzi a una superficie bianca. All’origine della credenza nella figurazione c’è questo errore: se infatti il pittore fosse dinanzi a una superficie bianca, potrebbe riprodurvi un oggetto esterno, che quindi fungerebbe da modello. Ma non è così. Il pittore ha molte cose nella testa, intorno a sé o nell’atelier18.

A questo punto, chiamiamo iconofagia il processo attraverso il quale, mediante il corpo, non solo assumiamo in modo oscuro dati sensibili, ma altrettante immagini. Come ha sottolineato Deleuze in Logica del senso19, il corpo non fa che mangiare, ma c’è un momento, una sorta di beatitudine, in cui il corpo perde la sua profondità e raggiunge la superficie, fino a mangiare ciò che si direbbe incommestibile. In questo caso, proprio l’immagine.

17 Cfr. B. CLÉMENT, Avere o fare l’immagine?, in AA. VV., Ai limiti dell’immagine, Quodlibet, Macerata 2005, pp. 150-159. 18 G. DELEUZE, Francis Bacon. Logica della sensazione, trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 1995, p. 157. 19 Cfr. G. DELEUZE, Logica del senso, trad. it. di S. De Michelis, Feltrinelli, Milano 2005, p. 165.

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Capitolo I

1.5. Baci e morsi Si può obiettare che ciò che qui si sta avanzando sia un consumo simbolico, che tutto ciò che abbiamo detto è metaforico. Invece, non si sta parlando di un falso consumo, ma del consumo reale del simbolico, cioè dell’immagine. Senza questo consumo, senza la dinamica dell’iconofagia, non si potrebbe parlare, come oggi si fa, di un consumo delle immagini20. È il consumo a cui siamo condannati, il consumo a cui anche l’anoressica, che sembra non mangiar nulla, non può sottrarsi. C’è un consumo reale dell’immagine, nei confronti della quale si può provare nausea, piacere, ossessione. La fame dell’immagine, lungi dunque dall’essere qualcosa di metaforico, investe aspetti fondamentali della nostra esistenza. Come quello dell’amore, dove non si può non cibarsi di immagini. «Quanto ho detto della fame si può facilmente estendere al bisogno d’amore»21: sono parole di Valéry, mentre tenta il paragone classico, ma mai opportunamente tematizzato, tra il mangiare e l’amare. Si ha un bel paragonare il desiderio, come fa Sartre22, a un divorare l’altro, senza notare che esso è realmente un cibarsi dell’altro, dell’altro in effigie, ovvero in quella virtualità irriducibile, di cui pure si costituisce l’esperienza del mondo. In uno dei suo ultimi racconti, Italo Calvino, forse perché agisce già nella sfera dell’immaginazione, sembra prendere sul serio questo consumo (del) simbolico, proprio a proposito dell’esperienza amorosa: Sotto la pergola di paglia d’un ristorante in riva a un fiume, dove Olivia mi aveva atteso, i nostri denti presero a muoversi lentamente con pari ritmo e i nostri sguardi si fissarono l’uno nell’altro con intensità di serpenti. Serpenti immedesimati nello spasimo di inghiottirci a vicenda, coscienti d’essere a nostra volta inghiottiti dal serpente che tutti ci digerisce e assimila incessante-

20

Cfr. F. C ARMAGNOLA, Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy, Bruno Mondadori, Milano 2006. 21 P. VALÉRY, Scritti sull’arte, trad. it. di V. Lamarque, Guanda, Milano 1984, p. 155. 22 Cfr. J. -P. SARTRE, L’essere e il nulla, trad. it. di G. del Bo, Il saggiatore, Milano 1997, p. 450.

Iconofagia

21

mente nel processo di ingestione e digestione del cannibalismo universale che impronta di sé ogni rapporto amoroso e annulla i confini tra i nostri corpi23.

Ma è nella Pentesilea di Kleist che il nodo mangiare/amare viene a esplicarsi per via negativa: Pentesilea, l’amazzone protagonista dell’opera, che uccide, sbranandolo, Achille, confonde il consumo dell’immagine dell’amato con il consumo del suo corpo organico. In questo consiste la sua follia: nell’aver scambiato la presenza corporea con la realtà dell’immagine. È ciò che si evince dal suo famoso monologo: Amore, orrore [letteralmente: baci, morsi] fa rima, e chi ama di cuore può scambiare l’uno con l’altro. […] Quante, attaccate al collo dell’amante, ripetono di continuo queste parole: che l’amano, oh, l’amano così tanto, che per amore potrebbero anche mangiarlo24.

1.6. Il morso dell’immagine. A partire da Burroughs Non vi è distinzione reale tra il consumo dell’immagine, ovvero il consumo spettrale, e il consumo fisiologico, ma distinzione modale: l’assunzione dell’immagine non passerebbe semplicemente per la bocca o per i sensi, intesi organicisticamente. Non passerebbe neanche in modo esclusivo per la visione, perché, come nota Aristotele (cfr. De anima 424 a5-20), c’è immagine anche ad occhi chiusi: la visione non le è essenziale. A far precipitare il consumo dell’immagine nel metaforico è certo la centralità data alla bocca, al consumo orale. Ma, come giustamente fa notare Derrida: L’introiezione o l’incorporazione dell’altro, si sa, ha tante risorse, riusi e sotterfugi… Essa può inventare tanti orifizi, al di là di quelli di cui si crede di disporre naturalmente, come per esempio la bocca25.

23

I. CALVINO, Sotto il sole giaguaro, Mondadori, Milano 1995, pp. 47-48. H. KLEIST, Pentesilea, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1989, pp. 89-90. 25 J. DERRIDA, Retorica della droga, trad. it di C. Verbaro, Teoria, Roma-Napoli 1993, p. 42. 24

22

Capitolo I

È stato lo scrittore William S. Burroughs a svincolarsi da questo primato, soprattutto nella sua opera più celebre, non a caso intitolata Naked Lunch – Pasto Nudo, parlando di organi che diventano bocche, a cominciare dalla pelle, dagli occhi. Scrive: «Nel posto dove regna il buio assoluto la bocca e gli occhi sono un organo solo che balza avanti per mordere con denti trasparenti…»26. Nella sua spietata analisi del corpo del drogato, egli non manca di parlare di una fame di immagini, più accentuata nel suo corpo27. Un corpo, quello narrato da Burroughs, intrinsecamente famelico, del quale non manca di elaborare un’algebra del Bisogno e del Nutrimento, svincolata da ogni riduzione organicistica e che, ovviamente, permette di pensare la distinzione modale del consumo dell’immagine. Tale distinzione prevede, inoltre, la non assimilazione dell’immagine rispetto agli altri cibi. Il consumo dell’immagine sarebbe il consumo di ciò che, anche se introiettato, resterebbe indigeribile. Resterebbe, semplicemente. Rientrerebbe nella sfera di ciò che Derrida ha chiamato il morso, o il boccone28, come qualcosa che, benché mangiato, resta nella bocca, e il suo consumo sarebbe l’impossibile consumo dell’eterogeneo, un consumo non assimilante. Piuttosto, un consumo costituente, un consumo che non mira al mantenimento di un sé, ma precisamente a introdurre dell’altro in sé, secondo un’estensione non omogenea dell’anima. L’anima non può, dunque, far a meno dell’immagine che arriva a popolare il suo fondo oscuro. L’immagine e l’anima si accompagnano. È giunto il momento di dedicare a tale compagnia almeno qualche tesi.

26 27

W. S. BURROUGHS, Pasto nudo, trad. it. di F. Camagnoli, Adelphi, Milano 2005, p. 33. Cfr. W. S. BURROUGHS, Checca, trad. it. di K. Bagnoli, Adelphi, Milano 1998, Prefa-

zione. 28

Cfr. J. DERRIDA, La verità in pittura, trad. it. di G. Pozzi, Newton-Compton, Roma 2005, p. 194.

Capitolo II

Compagnia e circuito delle immagini

2.1. Tesi I: L’immagine porta in superficie il problema filosofico fondamentale Ciò che con queste tesi ci prefiggiamo di abbozzare è una teoria dell’immagine che non risolva quest’ultima nella mera somiglianza con ciò che rappresenta, né che la pensi come qualcosa di “a sé stante”. Si tratta, in poche parole, di rifiutare sia il paradigma classico, sia il paradigma postmoderno. Bisogna pensare l’immagine in maniera differente, a partire dal fatto che non si può mai parlare dell’immagine, come dimostreremo, senza una qualche compagnia: in primo luogo, l’immagine rinvia almeno a un’altra immagine. C’è sempre, è la nostra tesi finale, un circuito iconico, anche minimo, tra un’immagine interna, o mentale, e un’immagine esterna. L’esperienza dell’immagine ha a che fare con un venire a mancare, che non è una semplice mancanza, ma qualcosa come un mancamento, un colpo subito, una falla nella presenza e nel riconoscimento, perché implica sempre un gioco tra una somiglianza e una dissomiglianza. Un gioco inquietante che i greci chiamavano mimesis. Jean-Jacques Wunenburger, autore dell’ampio volume Filosofia delle immagini, riassume così questo gioco delicato:

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Capitolo II La mimesis si sviluppa infatti come una commistione, un equilibrio di attributi opposti, che rende assai delicata la sua analisi concettuale. Un eccesso di somiglianza fa scambiare l’immagine per ciò che le dà origine, un eccesso di dissomiglianza fa scomparire l’apparenza d’immagine al punto da far pensare che l’immagine sia una realtà nuova. In entrambi i casi, l’immagine scompare a vantaggio di ciò che è scambiato per la cosa stessa. L’immagine ci induce dunque a pensare a una natura doppia, contraddittoria, fatta di una paradossale combinazione di Medesimo e Altro 1.

L’immagine ha a che fare con un mancare a se stesso, che è in verità un mancare se stesso, come pura solitudine, e fa riferimento a una struttura di copia che, a partire da Platone in poi, si è sempre voluto esorcizzare. Come evidenzia ancora Wunenburger: Nel momento in cui diviene immagine, una forma è chiamata a esistere per una seconda volta: è, nello stesso tempo, Medesima e Altra, perché deve essere la propria immagine somigliante ma anche essere sufficientemente distinta dal modello, per poter apparire come l’immagine e non come l’essere originario. […] L’immagine presuppone, dunque, inizialmente, che l’essere, il reale, non sia unico ma possa dar luogo a una duplicazione, almeno della sua forma. In questo senso qualsiasi posizione filosofica che miri a custodire gelosamente l’univocità dell’essere, ovvero la sua singolarità, la sua nonduplicabillità, rende impossibile o illegittima l’immagine e concepisce la sua riproducibilità o la sua riproduzione come una forma di alienazione2.

La riproduzione è il problema filosofico per eccellenza, perché tutto ha a che fare con essa. Anche la questione dell’immagine rientra in tale problematica fondamentale e anzi ne é una questione chiave. L’immagine è stata, nel momento in si è cominciato a pensarla, subito una questione insidiosa, proprio perché essa ha posto il problema della copia. Essere di superficie, l’immagine esprime anche e soprattutto l’esposizione a cui la copia dà luogo: essendo il momento in cui il medesimo si fa altro, si offre e si espone cioè all’alterazione, ed essendo, pertanto, pure l’attestazione di un’apertura, di un farsi almeno due in uno, la copia mostra la nudità costitutiva della ripetizione, ossia la sua 1

J.-J., WUNENBURGER, Filosofia delle immagini, trad. it. di S. Arecco, Einaudi, Torino 1999, p. 140 2 Ivi, pp. 137-138.

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esposizione. L’immagine non fa che portare in superficie questa nudità. Per questo motivo l’immagine è sempre una pellicola, una piccola pelle. 2.2. Tesi II: L’immagine “c’è” per un corpo capace di sentire se stesso Pensata nella sua nudità, l’immagine è qualcosa che si accompagna sempre a un corpo che sente se stesso, perché la capacità di sentire se stessi è strettamente connessa con un certo accompagnarsi a immagini. A tal proposito, una decostruzione delle meditazioni di Cartesio può dare risultati sorprendenti. Procediamo, cominciando con il riportare il passo della Seconda Meditazione: Per la verità non intendo ancora in modo adeguato chi sia quell’io che ormai, necessariamente sono. […] Che cosa, dunque ho ritenuto prima d’ora di essere? Un uomo, è chiaro. Ma che cos’è un uomo? Dirò forse che è un animale razionale? No, perché poi dovrei chiedermi cosa sia un animale e cosa significhi razionale, e in questo modo, muovendo da un’unica questione, mi smarrirei in molte altre di più difficile soluzione; ed ora non dispongo di così tanto tempo da volerlo usare per affrontare sottigliezze di questo genere. Ma qui piuttosto rivolgerò la mia attenzione a ciò che spontaneamente e per la guida della natura appariva in passato al mio pensiero, ogni volta che prendevo in considerazione che cosa io fossi. E non vi è dubbio che appariva innanzitutto che io avevo un volto, mani, braccia e tutt’intera questa macchina delle membra, analoga a quella che può essere riconosciuta anche in un cadavere, e che indicavo con il nome di corpo3.

Cartesio parla di un atteggiamento naturale attraverso il quale cogliamo noi stessi, per mezzo di un atto di immaginazione, un processo di somiglianza e di dissomiglianza. Fanno tutti così, ci dice, perché agli uomini piace distrarsi. La disciplina, il metodo e il rigore di Cartesio non hanno ancora agito nella meditazione, illuminando così questa condizione estetica e prima, per la nostra tesi molto preziosa. 3

R. DESCARTES, Meditazioni sulla filosofia prima, a cura di G. Brianese, Mursia, Milano 1994, pp. 59-60.

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Cartesio negherà questa condizione, dimostrando quanto invece sia possibile sentire se stessi senza l’immaginazione. Un sentire senza: come se questo sentire non implicasse, anche nella sua negazione, una qualche forma spettrale di compagnia. Quando Cartesio fa rifermento a come spontaneamente e naturalmente gli uomini percepiscono se stessi, implicitamente afferma che chi siamo sorge, in un primo momento, su un fondo di immagini, di memorie, in loro compagnia. Anche quando invocherà una mente distinta da tutto questo, che prende le distanze dalle immagini, sta affermando in maniera negativa la loro presenza, la loro familiarità. Anche perché di un io che non si dia, in immagine, almeno un volto o un corpo, e che non lo distingua da altri, si può affermare certamente che non sia nessuno. Implicitamente in questo passo, che non ha come oggetto la realtà dell’immagine, si offre un buon argomento per pensare l’esserci dell’immagine. Come è possibile notare dal passo citato, Cartesio ha una certa fretta: tuttavia quella dell’immagine gli sembra una realtà indiscutibile. L’immagine c’è, non v’è dubbio. Anzi, il fondamento di ogni inganno si fonda sull’esistenza certa dell’immagine, che accompagna la nostra esistenza. L’immagine c’è, in una maniera forte: c’è, ovvero ci è, è per noi. Per noi che sentiamo noi stessi: non potrebbe essere altrimenti. Negando l’immagine, dovremmo negare noi stessi, come siamo. Pertanto, le immagini sono le prime cose che ci sono. Finché esistiamo, l’unica relazione che sembra difficile interrompere è quella con le immagini: si può essere privati di qualche senso (la vista, l’udito, etc..) ma per dire io, per cogliersi, le immagini sono fondamentali, anche perché la struttura stessa dell’immagine, il suo essere medesimo altro, viene assunta dalla percezione della forma distinta del nostro corpo: per sentire noi stessi dobbiamo sentire pure il nostro rapporto con l’altro, ovvero quella soglia tra lo stesso e l’altro che l’immagine porta in superficie. L’immagine, cioè, ha la stessa struttura del nostro sentire, perciò possiamo assimilarla (anche se, a rigore, il consumo dell’immagine non è dell’ordine della semplice assimilazione, secondo ciò che abbiamo chiamato iconofagia).

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Inoltre, nell’esperienza dell’immagine non vi è meno sensazione di ciò che si dice ricevere dai cinque sensi. Lacan ha giustamente sottolineano quanto erroneamente l’immagine, pensata «come una sensazione indebolita nella misura in cui testimonia in modo meno sicuro della realtà, è considerata l’eco e l’ombra della sensazione»4. Per Lacan il rapporto tra soggetto e immagine è fondamentale. La sua teoria dello “stadio dello specchio” afferma proprio questo: non c’è soggetto senza l’immagine del suo corpo: «il piccolo d’uomo, ad un’età in cui per un breve periodo, ma per un periodo comunque, è superato nell’intelligenza strumentale dallo scimpanzé, già riconosce però nello specchio la propria immagine come tale.[…] Basta comprendere lo stadio dello specchio come una identificazione nel pieno senso che l’analisi dà a questo termine: cioè come la trasformazione prodotta nel soggetto quando assume un’immagine»5. Le ricerche di Lacan sullo stadio dello specchio sono per noi preziose (anche se non del tutto condivisibili, come vedremo), in primo luogo, per avviare un’analisi esistenziale dell’immagine che investa il problema stesso del soggetto e del nostro restare al mondo, piuttosto che avviare una semiologia, o, come da poco sembra affermarsi, un’analisi puramente percettologica dell’immagine6. È necessario pertanto avanzare un’altra tesi. 2.3. Tesi III: Non c’è “immagine a sé”, “in generale” o “pura” Esaminare un’immagine dal punto di vista puramente percettivo significa rimuovere il nesso fondamentale, formativo, che l’immagine istituisce con il sentire noi stessi. Significa pertanto ridurre il problema dell’immagine a teoria della conoscenza, quando essa riveste, nella sua complessità, una problema metafisico decisivo. Lo stesso dicasi delle analisi puramente tecnologiche.

4

J. LACAN, Scritti, a cura di di G. B. Contri, Vol. I, Einaudi, Torino 2002, p. 72. Ivi, pp. 87-88. 6 Cfr. P. SPINICCI, Simile alle ombre e al sogno. La filosofia dell’immagine, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 10 e sgg. 5

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A ragione va sottolineato, come fa Bernard Stiegler, che “non esiste immagine in generale”7. Le analisi di Stiegler hanno il merito di non ridurre, come si fa in altri studi, la questione dell’immagine a ricerche di estetica tecnologica, pensando invece gli effetti sui processi che producono il soggetto. Si tratta di una direzione differente, esistenziale, rispetto a quella puramente tecnica e tecnologica. Un esempio di quest’ultimo atteggiamento, che consideriamo riduttivo, sono le ricerche di Mario Costa. A ragione questi sottolinea, contro una estetica tradizionale che ha prediletto le “arti belle” a svantaggio di quelle ritenute meccaniche o puramente ornamentali, il ruolo della tecnica e delle innovazioni tecnologiche nella formazione delle arti8. Ma in maniera un po’ affrettata constata una liquidazione del soggetto per mezzo delle attuali arti tecnologiche, che produrrebbero immagini “a sé”, epifanie ritirate in se stesse, senza soggetto9. Su tale questione, programmatico e chiaro fin dal titolo, è il suo saggio Della fotografia senza soggetto. Contributo alla teoria dell’oggetto tecnologico (20082). Nel suo Dimenticare l’Arte, Costa distingue tre statuti dell’immagine: antico o pre-moderno, dove l’immagine è legata al suo referente e al soggetto, moderno, dove l’immagine allenta i suoi rapporti con il soggetto e si lega alle altre immagini formando un unico “blocco immagine” proprio della “società dello spettacolo”, post-moderno, dove, grazie alle tecnologie più recenti: «l’immagine perde la sua forza e la sua identità, e si dissolve in un altro da sé […] il cellulare che fotografa, la fotografia sul cellulare, la fotografia in rete, la fotografia del cellulare inviata per email, la televisione in Internet, la televisione sul cellulare, le immagini ricevute per email e trasferite sul cellulare, e così via; in tutto questo l’immagine cede la propria essenza alle procedure della comunicazione e scompare in quanto tale»10.

7 B. STIEGLER, L’immagine discreta, in B. STIEGLER; J. DERRIDA, Ecografie della televisione, trad. it. di L. Chiesa, Cortina, Milano 1997, p. 167. 8 M. Costa è autore di numerosi scritti sul tema. Per un’importante sintesi del suo percorso di ricerca cfr. M. COSTA, Dimenticare l’Arte, Franco Angeli, Milano 2003. 9 Cfr. ivi, p. 99. 10 Ivi, pp. 109-110.

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Nel suo percorso, dove rintraccia una progressiva estromissione del soggetto e una altrettanto progressiva sparizione dell’immagine, Costa, inoltre, non collega le due questioni, il che lo avrebbe condotto alla nostra tesi, ovvero che non c’è soggetto senza immagine e viceversa. La doppia sparizione dell’immagine e del soggetto è, poi, tutta da dimostrare, e Costa sembrerebbe registrare una sparizione di fatto fantomatica: chi sarebbe il fruitore delle immagini delle nuove tecnologie, chi fotograferebbe le immagini sul cellulare, chi riceverebbe poi tali immagini, e, ancora, chi navigherebbe su Internet? La sua conclusione della liquidazione del soggetto ci pare, pertanto, affrettata, perché è costretto comunque, alla fine, a reintrodurre, dopo aver constatato una sparizione del soggetto, e una distanza assoluta tra questo e le immagini proprie della tecnologia più recente (ad esempio le immagini-interfacce di Internet, gli ologrammi etc..), la persistenza occulta del soggetto stesso, anche se nella forma di un curioso ipersoggetto: «su Internet il soggetto è solubile perché si apre e si dissolve in un iper-soggetto che è il vero soggetto occulto della rete e la sua finale destinazione»11. Si conferma pertanto il vincolo indissolubile che l’immagine stringe con il soggetto e la sua impossibilità di mostrarsi pura, o “a sé”, oppure indipendente dall’elemento tecnologico dal quale pure sorge. Più profonde e più esistenziali ci sembrano, pertanto, le ricerche di Bernard Stiegler. Allievo di Derrida, questi ha avviato, ormai da tempo, con diversi cicli di tomi, come La Technique e le Temps e De la misère symbolique, un’originale riflessione sulla tecnica e sui suoi effetti nelle coscienze. Stiegler lamenta una perdita d’individuazione12 che caratterizza le nostre società, da lui definite “iperindustriali”. Per il filosofo, attraverso determinate strategie comunicative, proprie delle industrie culturali, le nostre coscienze, che si individuano, in modo speciale, in rapporto a immagini, ovvero in rapporto a dispositi11

M. COSTA, Prima del post-umano, in Aa.Vv., Dopo L’umano. Annuario Kainos II, Punto Rosso, Alessandria 2007, p. 37. 12 Cfr. in particolare B. STIEGLER, Aimer, s’aimer, nous aimer, Galilée, Paris 2003.

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vi che fungono soprattutto da supporto per la memoria (immaginivideo, immagini pubblicitarie, etc..), verrebbero come sincronizzate, rese ostili verso ciò che sono e indotte a comportamenti gregari, funzionali alla “società dei consumi”. Le industrie culturali intervengono nel nostro rapporto con le immagini, proponendo immagini-modello, e soprattutto una loro fruizione (il riferimento principe di Stiegler è quella televisiva, dove tutti vedono nello stesso tempo le stesse immagini), in contrasto con ogni procedura soggettiva che tenti di sentire la propria singolarità. Questo sentire sarà solo negativo: sarà sempre più difficile cogliere se stessi come differenti. 2.4 Tesi IV: Se l’immagine c’è, c’è anche un circuito di immagini, un “circuito iconico” In linea con quanto da noi affermato precedentemente – ovvero che un soggetto si coglie nelle immagini –, il filosofo francese offre degli strumenti teorici, per pensare come un certo uso di queste immagini possa ferire il soggetto più di ogni altra cosa, proprio al cuore della sua stessa soggettività. Il soggetto si coglie nelle immagini che si trovano sempre fuori di sé. Tra l’immagine interna, o mentale, e l’immagine esterna, o oggetto, c’è, secondo Stiegler, una differenza che non è opposizione. In un breve testo, che conclude un dialogo con Derrida, Stiegler sottolinea bene tale dinamica: Se tra immagine mentale e immagine-oggetto c’è evidentemente una differenza che non è però un’opposizione, questo significa che esse hanno a che fare sempre l’una con l’altra, e che nessuna delle due può ridurre la differenza dell’altra. La differenza che si impone nel modo più immediato é che quella oggettiva dura, mentre quella mentale è effimera. Ugualmente, un ricordooggetto dura (quello che si compra dal venditore di souvenir, che si segna su un’agenda o sul proprio diario, che si annoda al proprio fazzoletto – e può durare molto a lungo, persino milioni di anni se un vestigio è davvero una sorta di ricordo oggettivo), mentre un ricordo mentale si cancella inevitabilmente – e a breve scadenza: la memoria viva, la memoria vissuta è essenzialmente ciò che cede, finisce sempre per lasciarci. La morte non è altro che una totale cancellazione della memoria. […] Se, senza immagine mentale,

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non c’è, non c’è mai stata e non ci sarà mai immagine-oggetto […] reciprocamente, senza immagine oggettiva, qualsiasi cosa si possa pensare al riguardo, non c’è, non c’è mai stata e non ci sarà mai immagine mentale: l’immagine mentale è sempre il ritorno di qualche immagine oggetto, la sua rimanenza – sia come persistenza retinica sia come revenance allucinatoria del fantasma –, effetto della sua permanenza13.

Quanto affermato da Stiegler mette in evidenza una sorta di circuito tra le immagini interne e le immagini-esterne, che può essere interrotto in due modi: o con la morte del soggetto che immagina (o di tutti i soggetti che immaginano), o con la catastrofe di tutte le immaginiesterne (ovvero della realtà intera, dalle cui forme nascono le immagini). Come pure può essere “manipolato” in due modi: o alterando direttamente le immagini mentali di un soggetto, o alterando le immagini-esterne. Va da sé che una strategia di manipolazione dei soggetti (nel loro cogliere se stessi attraverso le immagini), si rivolga, per economia ed efficacia, alle immagini-oggetto che, in virtù del circuito iconico, influiscono sulle immagini mentali e sulla capacità complessiva dei soggetti di cogliere se stessi. Come avverte Stiegler: «oggi siamo nella situazione di dover decidere fra dei possibili che sono finzioni, e che ci ingiungono di distinguere fra buone e cattive finzioni. La filosofia, in fondo, è sempre stata basata sull’idea che bisogna stabilire delle differenze. Ma, sino ad ora, essa metteva la finzione dalla parte della cattiva differenza, tentando di opporle il vero come non-fittizio». Concordando con quanto afferma Stiegler, si tratta di comprendere che «la percezione va sempre di pari passo con l’immaginazione e che il reale è sempre proiettato dall’immaginazione: la finzione è costitutiva della conoscenza. A questo punto la questione è saper distinguere 13

B. STIEGLER, L’immagine discreta, in B. STIEGLER; J. DERRIDA, Ecografie della televisione, cit., pp.167-168. Nel suo Bioestetica (Carocci, Roma 2007, pp. 95-102) Pietro Montani liquida con troppa leggerezza la consistenza dell’immagine esterna, e quindi le tesi di Stiegler, preferendole l’immagine interna, secondo l’insegnamento di Emilio Garroni. Quest’ultimo tuttavia nel suo Immagine Linguaggio Figura (Laterza, Roma-Bari 2005), accorda, a ragione, un ruolo importante all’immagine interna, ma ci sembra trascurare quella che per Stiegler è la svolta tecnologica della sensibilità, come pure il ruolo che le tecnologie dell’immagine hanno nei processi di soggettivazione, il che farebbe sicuramente perdere il primato a qualsiasi immagine interna, dipendente così da quella esterna.

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fra le buone e cattivissime finzioni – mentre lo sfruttamento industriale sistematico delle coscienze conduce a una cattiva finzione: quella che uccide il potere stesso di immaginare, desiderare, inventare»14. Dalle analisi di Stiegler è possibile dedurre, pertanto, che l’attuale violenza delle immagini (perpetuata attraverso le attuali tecnologie di comunicazione massiva) è, anche e soprattutto, una violenza sulle immagini, cioè: una violenza sui soggetti. Pur concordando con molte delle sue tesi, c’è tuttavia almeno un’obiezione che va mossa a Stiegler. Il punto debole della sua analisi è quello di ritenere che l’immagine esterna sia riducibile all’immagine-oggetto. L’immagine-oggetto (foto, dipinto, film, programma televisivo, e in generale ogni registrazione esatta), per quanto abbia una sicura influenza sui soggetti, non copre l’intera sfera dell’immagine esterna. Il limite delle analisi di Stiegler è, pertanto, quello di riferirsi quasi esclusivamente a immagini che si iscrivono esattamente su un supporto (pellicola, tela, marmo etc.) senza tenere in adeguata considerazione lo spazio dei gesti, all’interno del quale le immagini si diffondono e si producono. Anche un gesto, infatti, figura. Non si iscrive esattamente su un supporto freddo, ma si iscrive tra le morbidezze della carne umana. A rigore, il gesto è il cuore di ogni immagine: le altre immagini esterne sono gesti solidificati, induriti. Un gesto è un’immagine esterna, ed è l’elemento decisivo affinché ciò che abbiamo chiamato “circuito iconico” possa sussistere. Affinché vi sia circuito, cioè circolazione, scambio, bisogna avere, infatti, un divenire interno dell’esterno e anche un divenire esterno dell’interno. Il gesto umano permette una tale circolazione, perché esso è sia espressione che impressione: è un uscire da sé ma anche un entrare nell’altro. Un gesto adotta immagini ed è a sua volta un’immagine, uno schema.

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p. 36.

B. STIEGLER, Il cinema delle coscienze, «Eutropia», 3, 2003, Quodlibet, Macerata 2003,

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Un soggetto si forma tra le immagini, cioè, anche e soprattutto, tra i gesti, divenendo centro di gesti a sua volta. Il soggetto che esce fuori di sé, verso le immagini, si ritrova entro uno spazio di gesti, ovvero di figure, di posture, di rapporti di forza mimetici. Nei prossimi capitoli ci concentreremo proprio sull’espressione gestuale, mettendo in risalto come una tale espressione rientri ogni volta in uno spazio caratteristico: l’uscir fuori del gesto è ricompreso in uno star dentro più vasto. Uscir fuori, scoprirsi davvero, diviene così sempre più raro. Anche quando crediamo di scoprirci, in realtà, ci vestiamo di controllo. È questo un fatto comune a tutte le società. Tuttavia nella cultura occidentale e in modo particolare nell’epoca contemporanea un tale controllo è orientato alla negazione stessa del corpo e delle singolarità, alla negazione stessa dell’esposizione. Scrive l’antropologo David Le Breton: Capiamoci bene, ogni società implica la ritualizzazione delle attività corporee. Ad ogni istante, il soggetto simbolizza attraverso il suo corpo (le gestualità, le sue mimiche, ecc.) il tenore del suo rapporto al mondo. In questo senso, il corpo, in qualsiasi società umana, è sempre significati-vamente presente. Tuttavia le società possono scegliere di metterlo all’ombra o alla luce della socialità. Possono scegliere tra la danza e lo sguardo, l’ubriachezza e lo spettacolo, tra l’inclusione e l’esclusione relativa delle modalità sensoriali cinetiche della condizione umana. Le società occidentali hanno scelto la distanza e quindi hanno privilegiato lo sguardo15.

Il controllo dell’esposizione contemporaneo, proprio della cultura occidentale, si caratterizza per un’astuta rimozione dell’esposizione attraverso determinate politiche dell’immagine e del corpo – soprattutto grazie a un crescente privilegio assegnato allo sguardo. È quanto mostreremo, partendo proprio dai gesti che nella nostra cultura incarnano la nudità, dagli sguardi che vi corrispondono. Partiremo dal senso del farsi-spazio, che è alla base del gesto, per pervenire al controllo che un tale farsi-spazio subisce, soprattutto in senso sociale, all’interno di uno spazio caratteristico. 15

D. LE BRETON, Antropologia del corpo e della modernità, trad. it. di B. Magni, Giuffrè, Milano 2007, p. 139.

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Capitolo II

Uno spazio che, nella nostra cultura, si è costituito come uno spazio prevalentemente ottico, ossia organizzato a partire da un primato della vista.

Capitolo III

Homo homini imago Per una critica del farsi spazio

3.1. L’esprimersi dentro A torto si crede che esprimersi sia semplicemente un andar fuori, un uscire. Nessun gesto avrebbe davvero senso senza un interno comune in cui i nostri “lanci espressivi” ricadono. Una rigorosa teoria dell’espressione umana deve fare i conti con spazi di iscrizione, spazi circoscritti da gesti e gravitanti intorno a un centro, un cuore che fa circolare immagini, un grande medium. La cultura occidentale raccoglie i suoi gesti intorno a dei centri di visibilità che istaurano un vero e proprio ambiente visivo, un sistema di sguardi, cioè di distanze controllate. Ogni nostra espressione si dà a vedere secondo questo sistema, si mostra in questo ambiente, che è costituito da una pericoresi visiva. Si deve al filosofo Peter Sloterdijk la massima considerazione spaziale di questo termine fondamentale della teologia cristiana, la pericoresi. Nel primo volume della sua trilogia Sfere, opera che discuteremo meglio più avanti, Sloterdijk interpreta la pericoresi come il fondamento autentico di ogni spazio sociale, liberandolo da ogni sua pregnanza teologica. Scrive: Per designare la strana coesistenza senza luogo e localizzante se stessa propria delle persone divine [Padre, Figlio, Spirito Santo], Giovanni Damasceno

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Capitolo III ha riutilizzato la parola perichoresis – che in greco antico significa qualcosa di simile a “danzare intorno a qualcosa” o “turbinare in cerchio”. Elevando questo antico termine che designa il movimento a rango di concetto – in base al quale esso significa qualcosa di simile a essere-l’uno-nell’altro, essereintrecciati-reciprocamente, compenetrarsi –, il Damasceno riesce in una delle creazioni concettuali più spirituali della storia occidentale delle idee. […] Se con il termine perichoresi intendiamo, per gli esseri legati in modo indissociabile, l’essere l’uno nell’altro, non pensiamo nella direzione sbagliata, ma siamo ancora piuttosto lontani dal raggiungere l’essenziale. Questa strana espressione designa niente di meno che l’idea ambiziosa secondo la quale le persone non sono localizzabili negli spazi esteriori attinti dalla fisica, ma creano, tramite la loro mutua relazione, il luogo in cui si incontrano. […] La pericoresi fa sì che il locale delle persone sia senz’altro la relazione stessa. Le persone contenute le une nelle altre all’interno del comune si spazializzano da sé, in modo che illuminino, si compenetrino e si circondino l’un l’altra, senza tuttavia ledere il chiarore della loro differenziazione. Le une per le altre esse appartengono in certa misura all’aria – ma all’aria in cui si situano l’una in rapporto alle altre. Ognuna ispira ed espira quello che le altre sono – coispirazione perfetta – ; ognuna esce da sé ed entra nelle altre – protuberanza perfetta. Esse si offrono mutua vicinanza – perfetto essere-circondate1.

La lunga citazione di Sloterdijk è di estrema importanza sia per ciò che esplicita, sia per ciò che non esplicita adeguatamente. Innanzitutto i meriti della sua analisi: la pericoresi è, per Sloterdijk, la costituzione di un più vasto interno che accoglie i gesti umani ed è delimitato dagli stessi gesti. È anche, come si può notare dai passi finali della citazione, la costituzione di un interno “climatizzato”: i gesti umani sono gesti d’aria, poiché producono un’atmosfera simbolica. Si tratta in questo caso dell’esplicitazione di ciò che all’interno del senso comune è già implicitamente compreso. Si dice, infatti, che determinati gesti danno “l’aria di…”. Per quanto penetrante, attenta e suggestiva, l’esplicitazione di Sloterdijk non tocca tuttavia il senso originario del termine pericoresi. Pur risalendo al presocratico Anassagora2 per l’uso di questo termine, Sloterdijk non esplicita il riferimento alla danza, al “danzare intorno”, che il termine pericoresi significa. 1

P. SLOTERDIJK, Sfere I. Bolle, trad. it. di G. Bonaiuti, Meltemi, Milano 2008, pp. 542543; 546. 2 ANASSAGORA, Fr.18, cit. in Ivi, p. 543.

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Una tale esplicitazione avrebbe condotto Sloterdijk non solo all’assetto ottico di tale spazio sociale (per danzare intorno a qualcosa si deve rispettare una distanza garantita dalla visione) ma alla cristallizzazione “schematica” dei gesti che tale spazio comporta, raggiunta attraverso schemi, cioè immagini. Lo spazio della pericoresi è uno spazio ottico dove circolano immagini che organizzano e disciplinano lo spazio stesso. Il riferimento alla danza è, infatti, prezioso. Indicando il termine greco soprattutto una danza, il riferimento agli schemi è imprescindibile. Come è stato fatto notare in un accurato studio3, nell’antica Grecia la danza indicava soprattutto la costruzione di schemi di comportamento, di posture, di figure corporee. Le immagini generate dal corpo dei danzatori, ossia gli schemata di danza, hanno «un ruolo cruciale nel fissare visualmente i modi del corpo per esprimere determinati valori. Gli schemata divengono in tal modo un medium trasversale ai generi dell’espressione visuale. […] Ateneo menziona il danzatorefilosofo dei suoi tempi soprannominato Menfi che, meglio ancora degli specialisti di eloquenza, riusciva a spiegare in silenzio coi gesti – schemata –, la natura della filosofia pitagorica»4. Ciò che noi chiamiamo pericoresi visiva è allora l’esplicitazione dello stare insieme occidentale, dello spazio sociale interno: un controllo dei gesti in relazione allo sguardo proprio e degli altri, e in relazione a ciò che si deve vedere. Homo homini imago: l’uomo è immagine per l’altro uomo. Sloterdijk riprende, dunque, il termine pericoresi, trascurando il riferimento alla danza, ovvero il riferimento al veicolare schemi, proprio di quest’arte. I corpi umani si fanno l’un l’altro schema, immagine, intorno a ciò che si deve vedere. Ovvero, per dirla nei termini di Anne Sauvageot, sociologa dello sguardo: In quanto prodotto sociale, lo sguardo è condizionato dal gioco delle forme che gli offre qualsiasi ambiente. Le figure e le immagini che ci circondano – anche le più banali – concorrono all’edificazione di immagini-norme, instaurando negli individui un habitus percettivo, cognitivo e simbolico. 3

M. L. CANTONI, La comunicazione non verbale nella Grecia antica, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 4 Ivi, pp. 125; 157.

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Capitolo III All’apprendimento normativo della percezione si accompagna infatti una strutturazione simbolica che favorisce l’assimilazione di modelli di riferimento. Infatti le norme che costituiscono il nostro ambiente visivo non sono innocenti, dal momento che esprimono un certo essere culturale della materia. Perciò l’organizzazione del visibile costituisce una sorta di “grammatica semantica” che educa lo sguardo5.

L’essere “intorno” dei corpi, proprio della pericoresi, dice anche la delimitazione dello spazio stesso, ovvero il punto in cui lo spazio si forma, ma anche il punto in cui proprio tale spazio si espone maggiormente. Ciò spiega il grande tentativo di “accattivare” i corpi, cioè, a rigore, di tenerli in uno stato di cattività, di orientamento forzato. Di tenerli dentro con lo sguardo. È giusto pertanto dire che la nostra società ha dato un privilegio alla visione rispetto agli altri sensi, ma è anche vero che essa ha, in maniera non secondaria, imposto pure un controllo della visione stessa. Il termine pericoresi non a caso è reso, nella traduzione del frammento di Anassagora, con “rivoluzione” o “rivolgimento”, ovvero è inteso come un orientamento fondamentale. Primato e controllo della visione, dunque. Ogni gesto occidentale cade all’interno di tale primato e di tale controllo. È necessario, allora, riprendere alcune ragioni del farsi spazio, dell’esprimersi, per mostrare quanto questi argomenti siano più “poetici” che concreti, poiché non reggono alla prova del sociale, dell’esposizione umana. 3.2. Il farsi spazio e la retorica della nascita Il problema dello spazio è un problema filosofico classico. Ma il farsi-spazio, il farsi-largo delle cose permette di pensare tale classico problema secondo un nuovo punto di vista: quello dell’e-mozione, come il muoversi verso, fuori di sé, comune a tutte le cose.

5

A. SAUVAGEOT, Sguardi e saperi. Introduzione alla sociologia dello sguardo, trad. it. di S. Mambrini, Armando, Roma 2000, p. 14.

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Si tratterebbe, allora, di pensare lo spazio secondo una differente logica dell’estensione, che fa tutt’uno con l’esposizione. Con il suo La nascita dei seni Jean-Luc Nancy ha offerto, per una tale logica, un importante contributo. La nascita dei seni è, infatti, per Nancy, un vero e proprio paradigma per pensare il mondo e la sua estensione. Un tale paradigma, prima di essere trattato in maniera approfondita in questo testo, veniva accennato in qualche scritto più letterario che filosofico di Nancy (ovvero in Peana per Afrodite, che, per tal motivo si trova ripreso in appendice a La nascita dei seni). Ma la nascita dei seni faceva la sua comparsa come paradigma nella prima edizione di una delle opere più significative del filosofo francese: Corpus. In questo testo si legge infatti, a proposito del mondo dei corpi: È uno spazio ammassato, una massa spaziosa, estensione che si espone come consistenza, peso, rigonfio […] Il paradigma è probabilmente il seno femminile, massa che localizza numerose ectopie. Nutrimento, oggetto, separazione, visibilità del sesso, movimento indipendente, erezione, abbondanza duplicità, inversione del pettorale vigoroso, nascita della curva, nascita del frutto: la nascita dei seni è il paradigma di ogni nascita come modalizzazione essenziale dell’arealità, e mostra che questa modalizzazione può essere detta, in tutti i sensi, emozione6.

Ne La nascita dei seni Jean-Luc Nancy dà luogo a una singolare ricognizione di frammenti, per lo più letterari, sul seno nudo e sul sorgere dei seni. Il testo avrebbe una natura squisitamente poeticoletteraria se la nascita dei seni non venisse presentata ripetutamente come paradigma del sorgere del mondo, delle cose, del pensiero. Un’intimità esposta, quella dei seni, ovvero la crisi stessa dell’intimità, destinata ad affacciare sempre fuori, ad esporsi. In fin dei conti sempre destinata, cioè consegnata all’altro. Una singolare plasticità, quella dei seni, perché mantengono una forma, senza cessare tuttavia di assumerne altre. Una decisa insistenza sulla loro nascita, quella del filosofo, che preferisce mostrare in modi sempre diversi e suggestivi, più che di6

J. -L. NANCY, Corpus, a cura di A. Moscati, Cronopio Napoli 2004, pp. 70-71.

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mostrare, un concetto che così riassume: «Il cuore delle cose non costituisce un oggetto. Non è qualcosa che viene individuato dalla conoscenza, è uno spazio di nascita. La nascita è l’apertura di uno spazio, inventa la spaziatura che essa stessa è e attraverso la quale un luogo nuovo prende posto. La nascita dei seni li spazia l’uno dall’altro, tra di essi si trattiene il loro segreto: la loro gola, la loro svasatura, il loro raccoglimento»7. Più che i seni, Nancy pensa la loro nascita, che fa tutt’uno con l’affermazione della nudità. Quest’ultima, lungi dall’essere mancanza, è piuttosto una crescita, che dice l’accadere del mondo e del suo estendersi. Attraverso il paradigma della nascita dei seni, il filosofo fa ritornare così tutte le questioni caratterizzanti del suo pensiero: la nascita, la spaziatura delle cose, il levarsi del corpo, la sua esposizione. Il testo, tuttavia, è privo di più di un riferimento letterario importante: benché molti autori siano convocati da Nancy intorno alla questione del senso nudo, proprio l’assenza di un celebre brano come quello del Palomar di Italo Calvino lascia intuire che, oltre alla citazione, il filosofo abbia mancato, innanzitutto, il tema dello scoprirsi e della scoperta relativa all’esposizione dei seni. Un tema per nulla marginale se si parla della nascita dei seni. La nascita dei seni fa scoprire donne, ma individua sia la donna che l’uomo. Investendo, anche e soprattutto, lo sguardo di quest’ultimo. Nel romanzo di Calvino, infatti, il protagonista fa un singolare incontro su una spiaggia, così descritto nel capitolo intitolato, non a caso, “il seno nudo”: Il signor Palomar cammina lungo una spiaggia solitaria. Incontra rari bagnanti. Una giovane donna è distesa sull'arena prendendo il sole a seno nudo. Palomar, uomo discreto, volge lo sguardo all'orizzonte marino. Sa che in simili circostanze, all'avvicinarsi d'uno sconosciuto, spesso le donne s'affrettano a coprirsi, e questo gli pare non bello: perché è molesto per la bagnante che prendeva il sole tranquilla; perché l'uomo che passa si sente un disturbatore; perché il tabù della nudità viene implicitamente confermato; perché le convenzioni rispettate a metà propagano insicurezza e incoerenza nel comportamento anziché libertà e franchezza. Perciò egli, appena vede profilarsi da lontano la nuvola bronzeo-rosea d'un torso nudo femminile, s’affretta ad atteggiare il capo in modo che la traiettoria dello sguardo resti sospesa nel vuoto e 7

J. -L. NANCY, La nascita dei seni, trad. it. di G. Berto, Cortina, Milano 2007, p. 45.

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garantisca del suo civile rispetto per la frontiera invisibile che circonda le persone8.

La riflessione di Nancy sul seno e sul senso del farsi spazio è, inoltre, viziata da una “retorica della nascita”, ovvero da quella concezione ideologica del venire al mondo che dimentica il fatto fondamentale che non si nasce mai da soli, ma sempre insieme e grazie a qualche forma di assistenza o di controllo. Ogni farsi spazio è ostacolato da un controllo dello spazio stesso, ovvero, per quanto riguarda la socialità umana, dell’immagine che genera. 3.3. Nudità e sistema di sguardi Ogni elemento presentato dal brano di Calvino, trascurato da Nancy, è, invece, oggetto dello studio di Jean-Claude Kaufmann, Corpi di donna, sguardi di uomo. Sociologia del seno nudo. Un’indagine sul campo ricca di interviste, quest’ultima, ma con efficaci premesse teoriche. Sulla linea delle celebri analisi di Norbert Elias in merito al processo di civilizzazione, Kaufmann approfondisce il controllo del corpo che si annida nell’esibizione del seno nudo. Tale esibizione, infatti, non ha niente di naturale e spontaneo, rispondendo piuttosto a un preciso e localizzato controllo di figurazione del corpo. Così riprende la tesi di Elias: Norbert Elias […] mostra come il minimo gesto abbia importanza e si integri all’interno di un’evoluzione che tende all’intimo controllo delle emozioni e dei comportamenti: il riso e il pianto, i rutti e i peti sono ormai possibili solo in circostanze ben precise e secondo procedure ben codificate. È questo che egli chiama processo di civilizzazione, poiché le conseguenze di questa padronanza sui piccoli eventi della vita quotidiana sono immense. Essa struttura, infatti, una nuova economia psichica che amplia lo spazio mentale. La modernità, che si basa sulla responsabilizzazione dell’individuo e sulla razio-

8

I. CALVINO, Palomar, Mondadori, Milano 2002, p. 11.

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Capitolo III nalizzazione dei comportamenti, avrebbe origine proprio da questo ampliamento dello spazio interiore9.

Alla tesi di Elias, Kaufmann aggiunge, però, un’attenzione per il ruolo assunto dallo sguardo, riprendendo, tra varie posizioni, anche quella di Le Breton sul primato visivo, da noi menzionata nel precedente capitolo. Questa integrazione è per noi di fondamentale importanza. La spiaggia, ad esempio, su cui Kaufmann a ragione concentra la sua ricerca, è il luogo dove l’esibire il seno nudo trova la più efficace elaborazione della sua normalità, in relazione a quello che viene definito come un vero e proprio sistema degli sguardi e delle visibilità, ovvero un controllo prevalentemente visivo dei gesti e delle immagini corrispondenti. La ricerca di Kaufmann ci permette di stabilire un’identità tra processo di civilizzazione e processo di visualizzazione. La sua indagine sociologica è certo circoscritta e non giunge alla formulazione di una tesi generale. E, in particolar modo, non insiste sulla identità dei due processi. Ovvero non nota come un maggior controllo dell’esposizione si accompagna a un maggior controllo della visione. Per visualizzazione, infatti, non intendiamo solo il primato dello sguardo, ma il suo sviluppo e il suo orientamento. Le cose si danno a vedere con sempre maggiore “definizione”. In tal modo si spiega l’apparente contraddizione tra offerta del nudo e controllo del corpo. Si tratta, infatti, di un’offerta a uno sguardo a sua volta controllato. Non è concesso a tutti di spogliarsi e non ci si può spogliare in qualsiasi modo. Pertanto, quella che appare come una “liberazione del corpo” non può essere pensata separata dal suo più invasivo controllo, proprio perché una tale liberazione ha “interiorizzato” tutta una serie di costrizioni e schemi: dalle posture, dal darsi a vedere, fino al tempo dello sguardo dell’altro. Un tale autocontrollo ha reso la nudità sempre più gestibile, sempre più vigilata. Acutamente Kaufmann rileva: 9

J. -C. KAUFMANN, Corpi di donna, sguardi di uomo. Sociologia del seno nudo, trad. it. di F. Sossi, Cortina, Milano 2007, p. 5.

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Molti autori hanno mostrato come la liberazione del corpo sia una semplice compensazione in spazi ben delimitati, per esempio negli stabilimenti sportivi o in spiaggia, in una società che, invece, nega il corpo, e come in realtà, meno visibili, si siano installate nuove procedure di controllo dei movimenti che rafforzano i meccanismi di esclusione a partire dalle norme della giovinezza e della bellezza. […] Le osservazioni fatte nei luoghi in cui gli svelamenti sono più spinti tendono a comprovare questo spostamento delle norme da ambiti più esterni verso meccanismi più intimi. Quando le donne si svestono sulla spiaggia, quello che mostrano (unghie di piedi laccate, ascelle rasate, inguini depilati) è estremamente elaborato. Quando gli uomini e le donne si denudano completamente come nei campi naturisti, le emozioni sessuali sono rigorosamente autocontrollate. E persino nella situazione limite dei corsi di pratiche corporee dove ci si tocca e ci si accarezza reciprocamente, il controllo dei gesti comporta una ritualizzazione che disinnesca il loro potenziale di sensualità. Come se i limiti diventassero sempre più raffinati man mano che il corpo amplia i propri spazi di libertà10.

La nostra cultura ha digerito il corpo controllando la sua progressiva scoperta agli occhi dell’altro. Ha creato, nel corso del tempo, luoghi e momenti per la sua esposizione, per i suoi gesti. Ciò che accade al seno nudo è esemplare. Dai rituali dell’abbronzatura fino alla pratica del topless, il saggio di Kaufmann mostra l’ordine del visibile e del pensabile che ci portiamo dietro e soprattutto dentro. Un controllo sull’immagine del corpo, attraverso i suoi gesti, le sue posture, grazie a immagini-norme e a dei veri e propri rapporti di forza mimetici. L’interiorizzazione del controllo sarebbe impossibile senza l’assunzione di un’immagine esterna, di un’immagine-norma incarnata dai gesti e immagini-oggetto che riproducono gesti. In merito a tale “figurare” dei gesti, nella ricerca di Kaufmann vi sono tuttavia solo accenni, quando uno studio sul seno nudo avrebbe dovuto, a nostro parere, maggiormente tematizzare la sfida che un particolare regime dell’immagine lancia al corpo, attraverso gesti determinati, posture normalizzanti, icone. Non tutte le immagini elaborano la norma di un corpo per negarlo. Solo quando l’immagine assume una determinata funzione ortopedica 10

J. -C. KAUFMANN, Corpi di donna, sguardi di uomo. Sociologia del seno nudo, cit., p. 9.

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(come direbbe Lacan), all’interno di un particolare regime della rappresentazione, essa diventa normalizzante e ascetica. Il controllo della nudità finalizzato alla sua negazione non è separabile da un controllo dell’immagine, del gesto. Un tale controllo viene alla luce, si esplicita, in particolar modo all’interno di un tipico fenomeno della cultura occidentale, che ci apprestiamo ad analizzare: lo strip-tease. In questa danza singolare viene esplicitato quel controllo dell’immagine del corpo, che consiste nell’offrirlo alla vista per meglio negarlo, attraverso ritmi e momenti precisi.

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4.1. Singolarità dello strip-tease A differenza del corpo nudo sulla spiaggia, lo strip-tease non appare spontaneo, e tuttavia riesce nella sua illusione di offrire il corpo, nel momento stesso in cui lo nega. Ma, cosa più importante, espone il suo schema, mostrando tutta una tradizione, rendendo pensabile l’ambiente mentale che lo sostiene. Un momento di confessione, che negli anni, dalla fine dell’Ottocento ad oggi, è caduto sempre più in ombra, per le resistenze creative che lasciava intravedere insieme al suo dispositivo di controllo. Lo strip-tease offre pertanto, allo sguardo pensante, l’astuto meccanismo della negazione del corpo attraverso gesti più marcati: mostra la sua costruzione culturale, la esplicita. Ci troviamo, infatti, dinanzi non a un semplice controllo della nudità, bensì alla sua simulazione confessata. Concentriamo, dunque, la nostra analisi sul più vistoso controllo del corpo, e, nello stesso tempo, proprio per il suo eccesso, più fragile. 4.2. Per una decostruzione della nudità seconda L’esibizione continua del giovane corpo nudo resterebbe per noi qualcosa di incomprensibile se non riuscissimo a scorgere in questo

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ordine di manifestazione una simulazione del nudo, una sua messa a distanza, e in verità una vera e propria rimozione. Jean Baudrillard è stato certamente tra i primi a rilevare questo dispositivo, che è alla base di ogni simulazione, soffermandosi su quel fenomeno di costume caratteristico della cultura occidentale: lo striptease. Quest’ultimo, lungi dall’offrire il corpo nella sua nudità radicale, è un rituale vero e proprio, che inventa la carne, la ricrea, con strumenti, gesti e tempi calcolati. A ragione Baudrillard chiamava questo risultato nudità seconda1. Un prodotto esclusivo della nostra cultura del corpo, che fa di quest’ultimo un vero e proprio oggetto di culto: «La sua riscoperta, dopo una millenaria era di puritanesimo, sotto il segno della liberazione fisica e sessuale, la sua onnipresenza […] nella pubblicità, nella moda, nella cultura di massa – il culto igienico, dietetico, terapeutico di cui lo si circonda l’ossessione della giovinezza, le cure, le diete, le pratiche sacrificali che vi si collegano, il ‘mito del piacere’ che lo avvolge – tutto oggi testimonia che il corpo è diventato oggetto di salvezza»2. Si tratta dunque di un corpo da assicurare e da salvare: bisogna metterlo a riparo dalla vecchiaia, da tutto quello che potrebbe minarne la fierezza, da ogni devianza dal modello imposto da questa società, che non vuole affatto liberare il corpo, ma, ancora una volta, vuole liberarlo da se stesso, attraverso un’ascesi “mondana”: «La bellezza è diventata per la donna un imperativo assoluto, religioso. Essere belle non è più un effetto di natura, né un sovrappiù delle qualità morali. È la qualità fondamentale, imperativa, di colei che cura il proprio viso e la propria linea come se fosse la sua anima. Segno di elezione al livello del corpo, così come lo è la riuscita al livello degli affari. Del resto bellezza e riuscita ricevono nelle loro rispettive riviste lo stesso fondamento mistico […] l’idea protestante non è lontana»3. Quella della cosiddetta “liberazione del corpo” è, dunque, una mistificazione: a dominare è l’ascetica nudità seconda, il fare della propria pelle non «l’irruzione della nudità (e dunque del desiderio), ma 1

Cfr. J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, trad. it. di G. Mancuso, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 117 e sgg. 2 J. BAUDRILLARD, La società dei consumi, trad. it. di G. Gozzi e P. Stefani, Il Mulino, Bologna 2008, p. 149. 3 Ivi, p. 153.

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[…] vestito di prestigio e residenza secondaria, come segno e come referenza di moda (e dunque sostituibile al vestito senza mutar di senso, come ben si vede nell’attuale sfruttamento della nudità […] come termine in più nel paradigma del vestito di moda)»4. Ma ciò che per noi sarà interessante rilevare, seguendo Baudrillard, è la fragilità costitutiva del dispositivo della nudità seconda, che può perdere da un momento all’altro il suo incanto, mostrando l’inconsistenza della sua simulazione. La natura di questa fragilità, come avremo modo di dimostrare, è iscritta nella sua provenienza cristiana, derivando la nudità seconda da un paradigma fondamentalmente teologico. È vero che Baudrillard sottolinea, ne La società dei consumi come, pur diventando il corpo nudo un vero oggetto di culto e di sacralizzazione, la nudità simulata non abbia più niente a che fare, nella sua funzionalità, con la “carne” della visione religiosa5. Tuttavia, proprio riprendendo alcuni suoi riferimenti alla provenienza cristiana nell’elaborazione della nudità seconda, è possibile avviare una decostruzione di tale nudità. 4.3. L’immagine del corpo e la nudità seconda La nudità seconda si costituisce, in primo luogo, nell’intersezione tra un primato accordato all’anatomia6 e la diffusione dello spettacolo, ovvero in quella dimensione che Baudrillard, richiamando le ricerche di Michel Foucault, dice essere l’ultima forma della confessione: un determinato darsi a vedere dell’immagine del corpo7. Viene in tal modo ribadita l’identità tra processo di civilizzazione e di visualizzazione. Alla produzione della nudità seconda è necessario qualcosa dell’essenza dell’immagine: ovvero il suo richiedere una distanza. L’immagine può essere toccante, ma, per goderne, essa non può essere 4

Ivi, p. 150. Cfr. ivi, p. 153. 6 Cfr. J. B AUDRILLARD, Della seduzione, Studio Editoriale, Milano 1997, pp. 18-21. 7 Cfr. J. BAUDRILLARD, Il Patto di lucidità o l’intelligenza del Male, trad. it. di A. Serra, Cortina, Milano 2006, p. 79. 5

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toccata. La nudità seconda “incorpora” una condizione fondamentale dell’esperienza dell’immagine, facendo così, come sottolinea Baudrillard, violenza all’immagine stessa. La questione fondamentale è, dunque, l’immagine del corpo: la nostra società ha intensificato il governo del corpo attraverso il governo della sua immagine. Governo che ha agito sull’immagine del corpo umano facendone una vera e propria icona. Nell’epoca della morte di Dio, ciò che non è mai stato attentamente considerato è il singolare destino dell’icona, ovvero dell’immagine che rappresenta la divinità, che agisce anche sul destino dell’immagine nel suo insieme. Il culto verso l’icona, ovvero verso l’immagine del corpo di Dio, faceva di quest’immagine un’immagine impoverita, caratterizzata da una stabilità stilistica e dalla funzione di negarsi in quanto immagine, per non turbare in modo significativo la comunicazione con il divino. Morto Dio, nell’epoca del nichilismo e della società dei consumi, l’icona, la sua funzione, transita dall’immagine del corpo di Dio all’immagine del corpo dell’uomo. Benché il corpo umano sia sempre stato un oggetto privilegiato della nostra cultura dell’immagine, solo recentemente la sua immagine ha assunto la natura di icona. La costruzione della nudità seconda include questo transito come momento fondamentale della sua ingegneria estetica. La nostra analisi dell’immagine del corpo si concentrerà, in particolare, su ciò che accade nella dinamica dello strip-tease. Un fenomeno come lo strip-tease mostra la costruzione della nudità seconda come processo e soprattutto come un rituale, particolarmente delicato, soggetto a fallimenti. Dove può fare irruzione la nudità che si vuole rimuovere attraverso la sua simulazione, dove può essere interrotta quella liturgia formale che dissolve il corpo nella sua forma, nel suo essere in forma. 4.4. Immunizzazione e nudità Lo strip-tease non è che uno dei tanti rituali di elusione del corpo, per usare una felice espressione di David Le Breton. Proprio secondo quest’ultimo, le cui tesi sono segnate dalle ricerche di Baudrillard e di

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Norbert Elias, la nostra società finge di osannare il corpo. In verità non fa che prenderne le distanze, attraverso una cancellazione ritualizzata. L’espressione della carne nuda è accolta solo in luoghi e tempi privilegiati. La liberazione del corpo è solo un’illusione. Come acutamente rileva, implicitamente riprendendo le tesi di Baudrillard: […] la liberazione del corpo si compie sotto l’egida dell’igiene, di un allontanamento dell’animalità dell’uomo: i suoi odori, le sue secrezioni, la sua età, la sua fatica, sono proscritti. Ugualmente, la diffusione sociale dello sport o della danza moderna impone un modello di giovinezza, di vitalità, di seduzione e di salute. Il corpo liberato della pubblicità è pulito, liscio netto, giovane, seducente, sano, sportivo. Non è il corpo della vita quotidiana. […] Un’astuzia della modernità fa passare per liberazione del corpo quello che non è se non un elogio del corpo giovane, sano, slanciato, igienico8.

Si tratta di pensare l’ostensione della carne nuda all’interno di un modo di vivere il corpo in cui fenomeno frequente è «la reticenza a toccare o essere toccati da uno sconosciuto, che porta ad inevitabili scuse quando il contatto, anche minimo, ha avuto luogo […] un cattivo odore, un alito troppo forte, una postura disordinata, una risatina, ecc., richiamano bruscamente l’attenzione su un corpo che deve restare discreto, sempre presente ma nel sentimento della sua assenza»9. L’ostensione della carne va compresa, pertanto, all’interno di una sorta di dispositivo di immunizzazione, che si libera dal corpo nella misura in cui lo esibisce in forme e mimiche controllate. Ciò vale anche e soprattutto per un fenomeno come lo strip-tease. Un autore di riferimento di Baudrillard, ovvero Roland Barthes, ha scritto pagine molto acute sulla tecnica dello spogliarello, proprio evidenziando l’immunizzazione operata dall’esibizione controllata del nudo. Secondo Barthes, lo strip-tease rientra in quel «procedimento di mistificazione che consiste nel vaccinare il pubblico con una punta di male per poi immergerlo in un Bene Morale, ormai immunizzato: alcuni atomi di erotismo, designati dalla situazione stessa dello spettacolo, sono infatti assorbiti in un rituale rassicurante che cancella l’elemento carnale con tanta certezza quanto il vaccino o il tabù bloc8

D. LE BRETON, Antropologia del corpo e modernità, trad. it. di B. Magni, Giuffrè, Milano 2007, pp. 149-151. 9 Ivi, pp. 143-144.

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cano e frenano la malattia o l’errore. Si avrà così nello strip-tease tutta una serie di coperture apposte sul corpo della donna via via che ella finge di spogliarlo»10. 4.5. Baudrillard e la transustanziazione del nudo Nello spogliarello la cancellazione ritualizzata del nudo raggiunge così il suo culmine, perché, proprio con la esplicita intenzione di denudare il corpo, questo viene maggiormente occultato e rimosso. All’interno della sua opera teorica più importante, ovvero Lo scambio simbolico e la morte, Baudrillard fa proprie le riflessioni di Barthes, accentuando tuttavia la natura religiosa dello strip-tease. Inoltre, concentra le sue analisi soprattutto sul “cattivo spogliarello” (analizzato anche da Barthes), sullo spogliarello fallito, che fa risaltare la strategia interna allo strip-tease. Scrive: Il cattivo spogliarello è evidentemente quello dello svestimento puro e semplice, che non fa che restituire una nudità – questa pretesa finalità dello spettacolo – e manca questa ipnosi del corpo, per renderlo direttamente alla concupiscenza diretta del pubblico. Non è che il cattivo spogliarello non sappia captare il desiderio della sala – al contrario, ma il fatto è che la ragazza non ha saputo ricreare per se stessa il suo corpo come oggetto incantato, non ha saputo operare questa transustanziazione della nudità profana (realistica, naturalistica) in nudità sacra […] il cattivo spogliarello è quello insidiato dalla nudità […] La spogliarellista è una dea […] La lentezza dei gesti è quella del sacerdozio, della transustanziazione […] lo spogliarello è lento: se il suo fine fosse il denudamento sessuale, dovrebbe andare il più velocemente possibile […]11.

Baudrillard sottolinea come il cattivo spogliarello abbia minato una vera e propria invenzione della carne nuda. L’invenzione della carne, legata ai riti di elusione del corpo, è sicuramente una delle invenzioni fondamentali dell’Occidente, un’astuzia ancora difficile da cogliere. È uno dei cardini della sua economia politica del desiderio.

10 11

R. BARTHES, Il senso della moda, a cura di G. Marrone, Einaudi, Torino 2006, p. 3. J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, cit., pp. 122-123.

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4.6. Il cristianesimo dietro la simulazione Sarebbe davvero impossibile esaurire ciò che è implicito nelle proposizioni appena citate. Con quella sintesi icastica, con quella brevitas che lo ha sempre contraddistinto, Baudrillard offre tracce da percorrere, abbozza corrispondenze da esplicare. Come il riferimento alla transustanziazione cristiana. Baudrillard, come pure Barthes, offrendo per lo più indizi, non sottolineano adeguatamente la provenienza cristiana di tale strategia che forgia letteralmente la carne nuda, ed è capace di rendere la carne nuda qualcosa di divenuto. Il suo essere risultato, che non si mostra in quanto tale, oltre a fornire il paradigma della simulazione stessa, la prima simulazione, attraverso la quale il corpo ne esce inventato e purificato12, evoca una redenzione dal corpo e dalla sua nudità, che rinvia esplicitamente al corpo glorioso cristiano. Su questo punto ancora Barthes non ha mancato di fornire altri indizi: Esiste […] un corpo, molto più importante per noi, che vorrei chiamare religioso; intendo dire un corpo umano che è messo in relazione con il sacro. […] Assistiamo a una sorta di reviviscenza di questo problema della sacralità del corpo in aspetti assolutamente laici, contemporanei della nostra vita, tutto quel che riguarda la cultura riflessa del corpo, come le ginnastiche, i tentativi di yoga o di educazione del corpo che agiscono in qualche modo dall’interno […] vedo in questo una sorta di versione laica di un pensiero religioso.[…] La pubblicità, che utilizza molte fotografie di corpi umani, è uno straordinario medium, un mezzo di diffusione, e conseguentemente di elaborazione, di un nuovo corpo umano, che è un vero e proprio corpo glorioso, un corpo sempre giovane13.

Lo strip-tease, tecnica occidentale del corpo per eccellenza, unisce mirabilmente i due fondamentali enunciati del cristianesimo: Hoc est enim corpus meum e Noli me tangere14. Tuttavia proprio esprimendo insieme questi assunti, la promessa di un corpo glorioso, del corpo simulato come inviolabile e perfetto, of12

Cfr. ivi, p. 109. R. BARTHES, Il senso della moda, cit., pp. 137-141. 14 Su ciò si vedano le acute osservazioni di J.-L. NANCY, Noli me tangere, trad. it. di F. Brioschi, Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 26. 13

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fre sempre il fianco all’evento della nudità profanatrice, che assilla ogni rituale di elusione dell’esposizione. L’imperativo immanente allo spogliarello, noli me tangere, dice anche e soprattutto la fragilità della simulazione: che potrebbe in ogni istante essere toccata e violata, perché il suo corpo è innanzitutto toccabile, offerto, esposto. Portando la nudità nel suo seno, la “nudità seconda” si decostruisce da sé 15. L’evento del nudo, il ritorno traumatico dell’esposizione, è il vero spettro dell’invenzione occidentale del corpo. Ma la decostruzione della simulazione del nudo ha aperto anche la strada alla connessione tra il glorioso, nel senso teologico del termine, e il simulato. Una connessione che può gettar luce sulla provenienza teologica, e nello specifico cristiana, del potere e della sua forma spettacolare. Giorgio Agamben, in un saggio erudito e denso, ha messo in relazione la forma spettacolare del potere, ovvero le tesi di Debord, con la funzione teologica della gloria: Ciò che restava un tempo confinato nelle sfere della liturgia e dei cerimoniali si concentra nei media e, insieme, attraverso di essi, si diffonde e penetra in ogni istante e in ogni ambito, tanto pubblico che privato, della società. La democrazia contemporanea è una democrazia interamente fondata sulla gloria, cioè sull’efficacia dell’acclamazione, moltiplicata e disseminata dai media al di là di ogni immaginazione […]16.

Il potere ha bisogno di essere glorificato, in primo luogo, per assicurarsi, per consolidarsi, per rendere il suo corpo politico immune a ciò che potrebbe fare irruzione17. Un’analisi genealogica della gloria può ben mostrare, a integrazione delle ricerche di Agamben, e in linea con le tesi di Baudrillard, come questa sia pensata come una guaina o una veste: insomma come un rimedio per l’esposizione, una forma di assicurazione. 15 Anche grazie alla sua stessa provenienza cristiana: il corpo di Cristo non è solo ciò che, nel momento in cui ascende al cielo, comanda a Maria Maddalena di non essere toccato, ma innanzitutto un corpo estremamente vulnerabile, e da toccare. 16 G. AGAMBEN, Il Regno e la Gloria, Neri Pozza, Vicenza 2007, p. 280. 17 Sulle relazioni tra paradigma teologico e immunologico si vedano J. DERRIDA, Fede e sapere. Le due fonti della ‘religione’ ai limiti della semplice ragione, in La religione, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1995; R. ESPOSITO, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, pp. 62-94.

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Si pensi, per esempio, a quanto confessa Agostino: per il cristiano immettersi sul sentiero di Dio, nel suo senso, significa contenere l’esposizione, significa contenersi, significa cioè rivestirsi della sua gloria18. Bisognerebbe pensare, allora, ad un ero(t)ismo della carne, alla sua più radicale esposizione, piuttosto che alla sua gloria. 4.7. La civilizzazione video-cristiana Lo spazio dello strip-tease è, al principio, uno spazio soprattutto femminile. Oltre a inventare il corpo, lo strip-tease inventa un vero e proprio spazio visivo, perfettamente coerente con il processo di visualizzazione occidentale. Ma la singolarità dello strip-tease è quella di permettere un’esplicitazione fondamentale: benché Baudrillard (e con lui tanti altri) non possa non sottolineare la centralità della donna nel processo di rimozione del corpo e dell’esposizione, è certo ben lontano dal sottolineare anche questa volta la sua provenienza cristiana. Lo strip-tease inventa, dicevamo, un vero e proprio ambiente visivo, un orientamento dello sguardo, ma questa invenzione ha una provenienza greca più che cristiana19. L’eredità cristiana si mostra invece proprio nella centralità assegnata al corpo femminile, una singolare centralità mass-mediale: è la donna, con il suo corpo, ad essere non un semplice veicolo, ma il riferimento chiave delle immagini successive, private e pubbliche, che si producono nei corpi degli spettatori. Se, in generale, la donna ha sempre svolto una funzione mediale – poiché «la femmina è il mezzo che il maschio ha trovato per riprodursi, cioè per venire al mondo»20– è solo con il cristianesimo che essa riceve una centralità mass-mediale: la donna diffonde immagini controllate, immagini-norme, icone (e quando fallisce questa missione è subito punita). 18 Cfr. AGOSTINO, Confessioni, a cura di R. De Monticelli, Garzanti, Milano 2008, pp. 136, 148. Sulla veste di gloria si veda anche A. Kowalski, “Rivestiti di gloria”. Adamo ed Eva nel commento di S. Efrem a Gen 2,25, «Cristianesimo nella storia», 3 (1982), pp. 41-60. 19 Cfr. D. DE KERCKHOVE, La civilizzazione video-cristiana, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 88-94. 20 P. VIRILIO, L’orizzonte negativo, Costa & Nolan, Milano 2005, p. 19.

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La differenza tra l’Antico e il Nuovo Testamento si gioca anche su questa centralità. Se Eva è ancora qualcosa di semplicemente inferiore all’uomo, la Vergine Maria è certo simbolo di tutt’altra importanza e di tutt’altro ruolo mediatico riservato alla donna rispetto alla concezione veterotestamentaria. Il suo corpo accoglie il corpo di Cristo, ovvero l’icona per eccellenza: se l’uomo è (fatto a) immagine di Dio, Cristo è l’immagine perfetta, senza fraintendimenti o scarti, di Dio: è Dio stesso21. “Icona madre” è dunque Cristo, che ha bisogno a sua volta di una “madre” vera e propria, di un supporto che possa veicolare tale icona: il corpo di Maria, il corpo di una donna. Al tempo stesso violato e vergine. La provenienza cristiana non solo dello strip-tease, ma anche della centralità che nella nostra cultura ha il corpo femminile, è dunque esplicitata. La civilizzazione occidentale è una civilizzazione videocristiana22, che cioè inventa ambienti visivi dove le immagini-norme circolano soprattutto grazie a supporti femminili, che fingono libertà, verginità, naturalezza. Questi ambienti visivi sono retti da una fondamentale ipocrisia espositiva, ovvero da quella procedura, finora analizzata, che rimuove il corpo nella sua stessa evocazione (e che pertanto mostra solo ipocritamente il corpo). 4.8. Fare e inventare la carne Ritornando, adesso, sulla questione dell’invenzione cristiana della carne, quest’ultima lascia intravedere, proprio attraverso la centralità assegnata al toccare, seppure nella forma negativa del Noli me tangere, un altro modo di inventare la carne o quantomeno di farla. Come se si potesse fare la carne senza inventarla, ovvero senza sostituirla con qualche surrogato che ne stemperi la natura. A partire dal toccare, dal toccarsi, dunque. 21

Questa tesi è debitrice delle importanti riflessioni presenti in M.-J. MONDZAIN, Immagine, icona, economia, trad. it. di A. Granata, Jaca Book Milano 2006, pp. 132-134. 22 L’espressione è di DE KERCKHOVE (cfr. op. cit.), ma ovviamente assume per la nostra ricerca tutt’altro significato. La riflessione sulla centralità del corpo femminile è nel testo del sociologo del tutto assente.

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È un filosofo come Jean-Paul Sartre, questa volta, a fornirci un indizio essenziale, che pare proseguire il nostro discorso a proposito dello spogliarello, attraverso preziose considerazioni: […] niente è meno «in carne» di una danzatrice, anche se nuda. Il desiderio è un tentativo di svestire il corpo dei suoi movimenti come di vestiti, e di farlo esistere come pura carne; è un tentativo di incarnazione del corpo dell’altro. Solo in questo senso le carezze sono appropriazione del corpo dell’altro […]. La carezza non vuole essere un semplice contatto; sembra che solo l’uomo la possa ridurre a semplice contatto, e allora viene meno al suo significato. Perché la carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare. Carezzando l’altro, io faccio nascere la sua carne con la mia carezza, sotto le mie dita. La carezza fa parte dell’insieme di cerimonie che incarnano l’altro. Ma, si può obiettare, non era forse già incarnato? No. La carne dell’altro non esisteva esplicitamente per me, perché percepivo il corpo dell’altro in situazione, non esisteva per lui perché la trascendeva verso le sue possibilità e verso l’oggetto. La carezza fa nascere l’altro come carne per me e per lui.23

Al di là dell’analisi sartriana, che ritiene “possessiva”, o finalizzata al possesso, l’esperienza carnale della carezza, ci pare che qui venga indicata un’altra invenzione della carne, un’invenzione del desiderio, in senso soggettivo, un fare carne piuttosto, dove la carne non si dà se non nella differenza dei corpi che si toccano. La carne può essere, dunque, opera della carezza, opera della nudità come profanazione del corpo dell’altro, o meglio del suo “sarcofago”, di ciò che divora la sua carne (il termine sarcofago significa proprio questo), perché la incorpora e la separa dall’esposizione al mondo. È sarcofago ogni rivestimento della nudità, ogni sua cancellazione ritualizzata, ogni sua ipocrisia espositiva. Baudrillard ha dedicato alla sarcofagia sociale, in cui rientra anche e soprattutto un fenomeno come quello dello strip-tease, delle analisi penetranti. Ha soprattutto connesso una tale sarcofagia al desiderio di sicurezza della nostra società, ovvero alla rimozione dell’esposizione, che ormai sembra sempre di più un bisogno fondamentale: […] la gente è indifferente nei confronti della sicurezza: non l’hanno voluta quando la Ford e la General Motors gliel’hanno proposta negli anni 195523

J. P. SARTRE, L’essere e il nulla, trad. it. di G. Del Bo, il Saggiatore, Milano 1997, p. 441. Ma sulla carezza si vedano anche le suggestive pagine di Levinas.

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Capitolo IV 1960. Dappertutto è stato necessario imporla. […] Le resistenze sono state vinte, e oggi si può contare su un bisogno “naturale”, “eterno”, “spontaneo” di sicurezza, e di tutte quelle buone cose che la nostra civiltà ha prodotto. Si è riusciti a intossicare la gente con il virus della conservazione della sicurezza, tanto che si batterebbero a morte per ottenerla24.

È forse un azzardo pensare che una risposta alla sarcofagia sociale si celi in un gesto così tenero, e apparentemente insignificante, come quello della carezza, che da qui si dipani forse una rivolta. Eppure, parafrasando delle considerazioni di Camus, all’interno del Mito di Sisifo25, non c’è rivolta che non nasca nella carne, dalla carne. La rivolta sarà della carne o non sarà. 4.9. La rivolta del gesto e dell’immagine Un gesto di rivolta, quello della carezza, che è innanzitutto una rivolta del gesto e dell’immagine del corpo. Una rivolta quella della carezza che rompe innanzitutto l’ordine visivo, retto dal divieto di contatto, che bisogna rispettare. Rompendo l’ordine visivo, un tal gesto insinua una differente politica dell’immagine. Non c’è gesto, dicevamo nei capitoli precedenti, che non faccia figura, che non consista, cioè, in una figurazione. Un gesto è un’immagine: è questa anche la lezione dello strip-tease e della carezza. Un’immagine soprattutto per altri gesti, secondo il principio “homo homini imago” di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo. Un gesto di rivolta sarà, allora, quel gesto che sfugge alla “gestione”, ovvero al controllo dei gesti, ovvero, ancora, al controllo delle immagini. Un controllo che diviene sempre più “ambientale”. Le immagini “circolano”, si diffondono, rientrano in un “clima”, in una iconosfera. L’ambiente gestito è, come abbiamo già sostenuto, un ambiente prevalentemente visivo.

24 25

J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 199. Cfr. A. CAMUS, Il mito di Sisifo, trad. it. di A. Borelli, Bompiani, Milano 1998, p. 17.

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I gesti devono rispettare l’organizzazione ottica della società, come ogni altra immagine. Anche quando crediamo di essere fuori, siamo sempre dentro. Siamo sempre dentro un’ottica. Nei capitoli che seguono analizzeremo l’organizzazione dello spazio della visibilità, in cui lo strip-tease stesso si iscrive, e ciò che vi resiste. Al controllo dell’ambiente visivo, dell’atmosfera simbolica, si opporrà ciò che toglie il fiato. La carezza, o, se si vuole, l’arte.

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5.1. Dall’iconofagia al controllo dell’ambiente visivo Prima di indagare ancora meglio l’organizzazione ottica della sensibilità e il corrispondente controllo delle immagini, riassumiamo alcune tappe fondamentali del nostro percorso. Il primo passo della ricerca è stato quello di sottolineare la nostra dipendenza dalle immagini, il nostro essere speciali, attraverso espressioni chiave come “iconofagia”, “compagnia dell’immagine”, “circuito iconico”. In secondo luogo abbiamo notato come una tale dipendenza divenga il bersaglio di un controllo dei soggetti. È impossibile governare senza immagini. Dalle strategie pedagogiche della Chiesa alla televisione e al Web è possibile riscontrare come costante della nostra civiltà l’identità tra controllo dell’immagine e controllo politico. Come ha ben messo in evidenza Marie-José Mondzain: La Chiesa aveva perfettamente compreso che colui che ha il monopolio della visibilità s’impadronisce del pensiero e determina la figura della libertà. Sottomettersi a un concilio o alla CNN non presenta grandi differenze, se ci si colloca dal solo punto di vista della convinzione da provocare e dell’obbedienza da ottenere1.

1

M.-J. MONDZAIN, Immagine, icona, economia, cit., p. 270.

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Ogni economia è, in primo luogo, economia delle immagini, nella misura in cui, attraverso tale controllo, si gestiscono corpi, affettività, adesioni, territori, circolazioni di beni. L’attuale governo occidentale dei corpi si è rivelato un particolare regime delle immagini, orientato a una negazione dell’esposizione attraverso l’esposizione stessa, ossia attraverso un’esposizione negativa, un’ipocrisia espositiva. Il terzo passaggio fondamentale della nostra analisi è stato quello di comprendere meglio, poi, la portata di tale controllo, esplicitando la natura delle immagini da cui dipendiamo. Siamo passati così dai supporti “rigidi” ai corpi umani. Dall’immagine-oggetto al gesto. Una tale esplicitazione è stata per noi fondamentale per fare il passo successivo: l’esplicitazione dell’ambiente dei gesti, della loro atmosfera culturale. Senza passare per i gesti, cioè per i corpi che adottano e producono immagini, è impossibile prendere in giusta considerazione l’ambiente in cui tali gesti hanno senso, e che diviene pertanto esso stesso sempre di più oggetto di controllo. Una tale esplicitazione ha permesso di ricostruire la civilizzazione video-cristiana che caratterizza la nostra società, ma anche di rintracciare il principio di una resistenza al controllo dell’ambiente e dei gesti. Se vi è una resistenza al controllo dei gesti, questa partirà da una rivolta del gesto stesso. La decostruzione della simulazione del nudo ha indicato proprio tale potenzialità. Adesso si tratta di vedere in che misura l’organizzazione ottica della società sia uno spazio regolato, una vera e propria climatizzazione. 5.2. Ottiche occidentali Peter Sloterdijk è un filosofo assai interessante. Il suo nome verrà ricordato per l’elaborazione del motivo concettuale di sfera, protagonista della trilogia che ripercorre la storia dell’umanità proprio a partire da questo concetto e pertanto intitolata Sfere. I tre volumi, pubblicati tra il 1998 e il 2004 e dedicati rispettivamente a una microsferologia, a una macrosferologia e a una sferologia plurale, intendono inda-

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gare la storia dell’uomo attraverso ciò che Sloterdijk, in un altro testo, chiama «il dramma silenzioso del suo creare spazi»2. La sfera è un dispositivo fondamentale attraverso il quale il genere umano regola la sua esposizione alle cose e controlla il loro farsi largo. Secondo il filosofo le sfere «hanno lo status di un’‘apertura mediana’, sono involucri di membrane tra l’interiorità e l’esteriorità e dunque media di tutti i media. […] lo sferico orienta l’originaria struttura ‘spaziale’ dei rapporti abitativi»3. L’uomo produce e abita delle sfere che, tuttavia, periodicamente vengono distrutte. E Sloterdijk, in questo caso, registra la loro distruzione e la loro ricostruzione, senza pensare fino in fondo il trauma che le espone, limitandosi a spiegarne la causa in un eccessivo raffinamento dell’interno che soccombe a un certo punto alla pressione dell’esterno. Possiamo a questo punto affermare con certezza che Sloterdijk fornisce utili tasselli per quella che noi abbiamo chiamato “filosofia dell’esposizione”4, anche se resta lontano dall’elaborarne consapevolmente una. Il motivo concettuale della sfera è tuttavia, a nostro parere, privo di una indagine “archeologica”. Come si arriva al concetto di sfera? Sloterdijk dice che trae questo concetto dalla tradizione filosofica dell’antica Grecia e più o meno esplicitamente da Parmenide e da Platone5. Ammette di riprendere la poetica dello spazio di Gaston Bachelard, ovvero la sua fondamentale “fenomenologia del rotondo”, all’interno della quale pure giustamente si afferma che «la “sfera” di Parmenide ha conosciuto un destino troppo grande»6.

2 P. SLOTERDIJK, Non siamo ancora stati salvati, a cura di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, p. 125. 3 Ivi, p. 138. 4 Abbiamo finora articolato una tale filosofia in diversi articoli e in special modo nei seguenti volumi a cui rinviamo: Fenomenologia dell’estremo. Heidegger, Rilke, Cézanne, Mimesis, Milano 2005; Il nudo e l’animale. Filosofia dell’esposizione, Editori Riuniti, Roma 2006, Il senso del nudo, Mimesis, Milano 2007, L’estensione dell’anima. Origine e senso della pittura, ombre corte, Verona 2009, Logica della singolarità. Antiplatonismo e ontografia in Deleuze, Derrida, Nancy, Aracne 2009. 5 Cfr. P. SLOTERDIJK, Sfere I. Bolle, cit., pp. 69-71. 6 G. BACHELARD, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 2006, p. 270.

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Ma Sloterdijk dimentica che i greci erano tutt’occhi, perché, come ci ricorda Heidegger, concepivano il mondo a partire dall’occhio e dalla visione7, e che pertanto un concetto come quello (greco) di sfera, come medium tra interno ed esterno, è ricavato solo da una riduttiva schematizzazione del dispositivo oculare. Per un greco stare nell’essere significa stare “entro” uno sguardo, prendere parte a una teoria (theorein in greco significa innanzitutto vedere). Non dunque un semplice guardare, quello di un greco come Parmenide, ma uno stare nello sguardo che l’essere è. Non ha altro senso la concezione della sfera di Parmenide: l’essere non è una cosa qualsiasi, ma ciò che ci permette innanzitutto di guardare. L’essere di cui parla Parmenide è sferico come un occhio e stare nell’essere significa stare in un’ottica. Il proemio del poema di Parmenide fa riferimento innanzitutto a un’esperienza visiva e le stesse due strade (quella della verità e dell’errore) più che sentieri da percorrere sono delle vere e proprie ottiche entro cui situarsi8. L’essere, pensato dalla nostra tradizione di pensiero, ha una natura fondamentalmente oculare. Lo stare al mondo dell’uomo occidentale è comprensibile solo come uno stare all’interno di una certa ottica o oculatezza. Da tali spazi “ottici” l’uomo lancia “occhiate”. Un buco in una serratura ad esempio: un posto da dove “spiare”. L’abitazione strutturata otticamente è anche una base di lancio, di penetrazione e di ispezione. E solo se si pensa fino in fondo l’applicazione dello “schema oculare” ai principali dispostivi elaborati dall’uomo (abitazioni, telescopi, macchine fotografiche, telecamere), si può comprendere quella, di volta in volta istituita, ripartizione dell’esposizione, che disloca interno ed esterno, intimo e superficiale, visibile e invisibile. Cosa sono finestre, macchine fotografiche, telecamere, se non occhi, dispositivi oculari, che cioè dell’occhio hanno ereditato lo schema fondamentale? Sartre, più di ogni altro, ha intuito questa “estensione” dell’occhio, e del suo essere medium e sostegno dello sguardo, quando ha scritto 7

Cfr. M. HEIDEGGER, Parmenide, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1999, p. 258. Il solo ad essersi avvicinato a questo concetto greco dell’essere è stato Kant, quando, a proposito delle categorie, ne ha parlato come di “lenti colorate” attraverso le quali guardiamo la realtà. Ma si è avvicinato anche Nietzsche con il suo “prospettivismo”. 8

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che, ad esempio, delle finestre di una fattoria e la fattoria stessa, per dei soldati che si aggirano nei paraggi, “Non rimandano mai agli occhi di carne della persona appostata dietro la tenda, dietro la finestra della fattoria: per sé sole, esse sono già degli occhi”9. La filosofia di Sloterdijk pone esplicitamente in secondo piano la costituzione ottica della sfera, facendola divenire un caso particolare. Al primato della visione, Sloterdijk preferisce un primato dell’acustico. Scrive nel primo volume della sua trilogia: I primi uomini, come la maggior parte di quelli della nostra epoca, non vogliono somigliare a qualcosa, bensì suonare come qualcosa; è stato necessario lo scatenarsi del macchinario moderno delle immagini che, dal barocco, imprime i suoi cliché nella popolazione per mascherare questa situazione fondamentale e soggiogare le masse al fascino dell’individualismo visivo – con le sue istantanee, i suoi specchi, le sue riviste di moda. Non è un caso che quello dei video-clip sia il genere sintomatico della cultura contemporanea, che apre al collage ottico dell’ascolto e alla sintesi globale attraverso le immagini10.

E afferma chiaramente in un’intervista: Volgiamo lo sguardo verso l’oriente perché il sole nasce in quella direzione. Come ho sottolineato anche nei miei lavori, è importante tenere presente che dobbiamo tornare indietro, a quelle situazioni in cui possiamo rinascere, in cui c’è disorientamento primario, che va salvaguardato e ricostituito. Un nascituro nel grembo è sempre senza orientamento, ed è una cosa bella, anche se ha un giudizio precostituito, che è quasi sempre positivo: non vede il mondo, sente il mondo. Siamo innanzitutto in una sonosfera dove vige il mondo dei suoni – come dicono a ragione i musicisti e chi si occupa di musicologia. L’orientamento iniziale avviene perché noi ci troviamo in una sfera di suoni; un’esistenza sonosferica è dunque un nostro bisogno primario11.

Come è possibile notare dalla prima citazione, Sloterdijk non disconosce affatto il ruolo del dominio visivo, ma non associa sfera e visione (facendo risalire il primato della visione soprattutto all’epoca

9

J. -P. SARTRE , L’essere il nulla, trad. it. di G. Del Bo, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 304. P. SLOTERDIJK, Sfere I. Bolle, cit., p. 456. 11 P. SLOTERDIJK, La costruzione telematica del reale, «aut aut», 336, 2007, p. 106. 10

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moderna), ovvero non considera adeguatamente il fatto che gli ambienti occidentali sono, in primo luogo, ambienti visivi. Non viene, pertanto, ben esplicitata l’organizzazione estetica fondamentale della civilizzazione occidentale. Il dispositivo oculare viene prima della sfera, e addirittura la spiega, la chiarisce: perché, così come viene definita da Sloterdijk, la sfera è innanzitutto un dispositivo che regola interno ed esterno, ma anche e soprattutto visibile e invisibile. L’occhio è il medium fondamentale, l’agente di scambio tra visibile e invisibile, ma non solo, non semplicemente. È innanzitutto un dispositivo di controllo molto efficace: con la pupilla regola la quantità di luce che entra, con la retina registra ciò che vede, con le palpebre può scegliere di interrompere drasticamente la visione etc. Non è solo uno strumento di osservazione, come potrebbe sembrare, ma un vero e proprio dispositivo di regolazione dell’esposizione. Se la sferologia di Sloterdijk non sembra cogliere tale fondamentale connessione, quella di Régis Debray, ci sembra invece meglio rispettare il dominio dello sguardo. Ben prima della monumentale trilogia di Sloterdijk, Debray ha descritto, infatti, tre ere dello sguardo secondo tre differenti “sfere” estetiche: Alla logosfera corrisponderebbe l’era degli idoli in senso lato (dal greco eidolon, immagine). Essa si estende dall’invenzione della scrittura a quella della stampa. Alla grafosfera l’era dell’arte, la cui epoca si estende dalla stampa alla televisione a colori […] Alla videosfera l’era del visivo (secondo il termine proposto da Serge Daney). […] Ognuna di queste ere disegna un ambito di vita e di pensiero dalle strette connessioni interne, un ecosistema della visione e dunque un certo orizzonte di attesa dello sguardo12.

L’uomo, più che fabbricare sfere, come crede Sloterdijk, fabbrica qualcosa di molto simile all’occhio, e ne eredita il sistema di regolazione. Fabbrica e abita “ottiche”, ovvero dei punti vista, prospettive. Un dato fenomeno può essere compreso in un’ottica o in un’altra, ovvero all’interno di una precisa ripartizione del visibile e

12

R. DEBRAY, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, trad. it. di A. Pinotti, Il castoro, Milano 2009, p. 145.

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dell’invisibile, all’interno della quale rientra ovviamente anche il pensabile. L’occhio è sferico e la sfera è oculare. Le sfere di cui parla Sloterdijk, all’interno delle quali gli uomini vengono contenuti, sono dunque innanzitutto ottiche, punti di vista, orientamenti dello sguardo. Sloterdijk ha ragione a inserire il motivo della sfera all’interno di un approfondimento filosofico della concezione dello spazio. Tuttavia manca, all’interno della sua riflessione, l’adeguata considerazione che l’organizzazione spaziale occidentale consiste, in primo luogo, in un’organizzazione ottica, ovvero in una precisa organizzazione estetica. Solo se pensiamo tali spazi entro il primato dell’organizzazione ottica, può essere pensata anche la loro crisi. La verità del punto di vista, ovvero la sua nudità, si manifesterebbe, infatti, nel momento in cui l’occhio smette di vedere come sapeva di vedere. Perde la sua organizzazione ottica. Jacques Derrida, ovvero il filosofo che ha aperto certamente la strada a ogni teoria del lacrimare, come verità dell’occhio e del punto di vista13, non ha pensato tuttavia in modo adeguato le implicazioni socio-antropologiche relative al modo di abitare il mondo che l’organizzazione ottica comporta, e che la commozione, pensata nel suo senso più ampio, apporta a tale organizzazione. Non ha pensato cioè alle estensioni del dispositivo ottico, come pure all’estensione della commozione, che riguarda, a questo punto, non solo il lacrimare dell’occhio, ma la crisi in cui può imbattersi ogni ottica. 5.3. Lacrime e pittura La crisi del dispositivo ottico si anniderebbe, allora, nella commozione, ovvero in ciò che fa saltare ogni ripartizione tra interno ed esterno, visibile e invisibile. La commozione non è solo il lacrimare, ma ciò che accade nel lacrimare, ovvero un cambiamento improvviso nell’abitudine o in un sistema percettivo, come nel caso della cosid13

Cfr., in particolare, Memorie di cieco, a cura di F. Ferrari, Abscondita, Milano 2003.

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detta “commozione cerebrale”. La commozione tuttavia rinvia, principalmente, alla nudità del dispositivo oculare. Per cui ciò che temono tutti i sistemi di controllo dell’esposizione è una sorta di intenerimento, di permeabilità all’altro, con conseguente crisi della ripartizione del visibile e dell’invisibile. La civilizzazione video-cristiana ha temuto, nel corso dei secoli, un certo potere dell’arte e in modo particolare un certo potere della pittura. Quest’ultima incarnerebbe il principio di ogni arte sovversiva, farebbe da modello per tutte le altre forme d’arte difficili da piegare all’ordine. La pittura, infatti, ricorda che l’occhio non è solo ciò che guarda e prende distanza dalle cose, ma anche e sempre un’apertura, attraverso cui si può sempre entrare. Ricorda che tutti i sistemi di controllo sono vulnerabili proprio nel punto in cui la loro azione è più forte. L’arte è, innanzitutto, una strategia eroica, ma anche sapiente. Sa che è possibile fare breccia dove c’è più protezione. La pittura, con il suo fare breccia nello sguardo, fornisce così un efficace controparadigma. Sarà allora portatrice del senso dell’irritazione dell’occhio e di ogni sistema oculare. Il suo stesso nome significa “tocco che penetra”. Il dipinto penetra nell’occhio e pertanto fa da “esemplare” per ogni commozione del dispositivo oculare. Lacan ha scritto su questo potere della pittura pagine importantissime14. Se i dispositivi che l’uomo occidentale crea per controllare l’esposizione hanno una effettiva discendenza nel dispositivo proprio dell’occhio, allora tutte le forme di resistenza a tale controllo dovranno ritrovare il loro motivo ispiratore nella pittura. Questo spiega perché tutti i principali controlli dell’esposizione, teorici e procedurali, abbiamo sempre odiato la pittura e individuato in essa il germe di ogni rivolta all’ideale, ovvero alla chiusura verso l’altro15. Per questo motivo, i dispositivi di controllo, che nei secoli si sono succeduti, si sono fatti carico dell’esposizione pittorica, fino a disinne14 Cfr. J. LACAN, Il seminario. Libro XI: I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003. 15 È questa una delle tesi principali del nostro L’estensione dell’anima. Origine e senso della pittura, cit.

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scare, nell’epoca contemporanea, ogni potenziale commovente dell’esperienza dei dipinti. Le prime pagine dell’interessante studio di James Elkins, Dipinti e lacrime, denunciano così l’approdo “anestetico” del nostro tempo nei confronti della pittura: Moltissimi di noi, penso, non hanno mai pianto di fronte a dipinti, e magari non hanno mai provato emozioni molto forti. I dipinti ci rendono felici, ci sorprendono. Certi sono piacevoli e rilassanti. I migliori sono splendidi, di incantevole bellezza – ma in realtà solo per qualche minuto, poi passiamo ad altro. La nostra capacità di provare emozioni intense è affascinante. […] Per fortuna, non mancano le prove di forti risposte ai dipinti. Risulta che alcuni abbiano pianto davanti a immagini del tardo Medioevo e del primo Rinascimento, ad altre del XVIII secolo e ancora nel XIX, ogni volta per ragioni diverse e di fronte a quadri diversi. Pochi secoli, si direbbe, sono stati tanto caparbiamente privi di lacrime come il nostro16.

La spiegazione del minimo coinvolgimento dinanzi alle opere pittoriche è celata in una sottile polizia estetica, ovvero nella vigilanza sul nucleo sovversivo di ogni organizzazione ottica che ogni pittura porta con sé. 5.4. Polizia estetica Nelle sue Dieci tesi sulla politica17 il filosofo Jacques Rancière ha ribadito lo scopo fondamentale di ogni controllo poliziesco, ovvero di ogni esercizio di potere: la ripartizione della sensibilità e in particolare della visibilità. Ogni polizia, ogni esercizio di potere, è allora essenzialmente una polizia estetica. Non dice il potente dinanzi al ribelle “Ti faccio vedere io adesso!”? Ha ragione, pertanto, Virilio a sostenere che si assiste sempre di più all’esplicitazione del politicamente come «otticamente corretto; una

16 17

167.

J. ELKINS, Dipinti e lacrime, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. VII e VIII. Cfr. J. R ANCIÈRE, Dieci tesi sulla politica, in «La Rosa di Nessuno», 3, 2008, pp. 157-

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correzione non più oculare delle lenti, bensì societaria della nostra visione del mondo»18. Se, per quanto affermato precedentemente, ogni dispositivo di controllo dell’esposizione è, per lo più, un dispositivo oculare, l’azione che perturba un tale dispositivo è pertanto un’azione che ha come suo modello la pittura, che cioè conserva il suo senso. La polizia estetica sarà allora il controllo di ogni commozione, di ogni turbamento dell’organizzazione del visibile. A partire ovviamente dalla pittura in senso stretto, fino a giungere a ogni possibile estensione del suo senso, di cui ogni arte può farsi portatrice. Esemplare è allora ciò che accade nei musei, come pure il fine occulto di molta storia dell’arte. Elkins attacca efficacemente entrambe le due istituzioni quando scrive a proposito di chi compila le targhette nei musei: I musei d’arte insegnano agli spettatori a guardare senza troppo sentire. I musei contemporanei fanno fare la spola ai visitatori da un cartello all’altro, e dicono ben poco che sia atto a favorire genuini incontri con gli oggetti. L’incessante pressione di targhette, cataloghi, guide delle gallerie, audio guide e videotape trasforma i musei in scuole. […] I dipartimenti universitari di storia dell’arte e critica, dove vengono in gran parte formate le persone che compilano le targhette, contribuiscono a raggelare la pittura proponendo ai loro abbacinati studenti il sapere di civiltà del passato. […] L’ultima cosa di cui uno studente ha bisogno è di essere davvero coinvolto da un’opera, al punto da permetterle di insinuarglisi nel pensiero, spronando e stuzzicando le sue aspettative, cambiando il suo punto di vista, minandone le certezze, e addirittura influendo sul suo modo di pensare. Se viene loro concesso, i quadri posso far crollare le nostre certezze, scavare sotto la compiuta superficie di ciò che sappiamo, cominciare a sgretolare il nostro modo di sentire19.

L’immagine non commuove più, o solo in rari casi. A provocare tale risultato è, in modo significativo, un dispositivo, come quello museale, che ripartisce il visibile e l’invisibile. Tale dispositivo orienta verso ciò che si deve vedere e ciò che possiamo provare in relazione ad esso.

18 19

P. VIRILIO, L’arte dell’accecamento, trad. it. di R. Prezzo, Cortina, Milano 2007, p. 83. J. ELKINS, Dipinti e lacrime, cit., pp. 220-222.

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Istituisce ciò che si deve vedere e ciò che bisogna pensare di conseguenza. Ripartizioni fatte anche e soprattutto di discorsi tanto eruditi quanto anestetizzanti. È la vigilanza che attualmente funziona meglio, perché non si lascia scoprire e per lo più si accetta passivamente. È difficile cogliere la canalizzazione della nostra sensibilità sottesa a questa procedura. Siamo la civiltà che ha più protetto gli occhi, (occhiali da sole, lenti a contatto, liquidi speciali), come pure la società che ha maggiormente indirizzato e controllato lo sguardo. La civilizzazione occidentale è innanzitutto un’efficace domesticazione visiva. Sui soggetti umani si esercita, cioè, la stessa strategia di addomesticamento impiegata per addomesticare gli animali più selvaggi, ovvero la stessa strategia che il filosofo Mark Rowlands ha adottato per addomesticare Brenin, il suo lupo. Come ha sostenuto in una sua opera recente: «La chiave dell’addestramento di Brenin […] fu di convincerlo, in modo calmo, ma inesorabile, che doveva guardarmi. Fare in modo che l’animale guardi quello che state facendo, e quindi capisca da voi che cosa deve fare, è la pietra angolare di ogni regime di addestramento, che l’animale sia un lupo o un cane»20. O un uomo, aggiungiamo noi. Controllare lo sguardo è l’obbiettivo fondamentale di un addomesticamento che, ovviamente, non vale affatto solo per un lupo, ma, anche e soprattutto, per l’uomo. È ciò che, del resto, avviene oggi. Non c’è nessun Grande Fratello nei termini descritti da George Orwell, perché l’attuale Grande Fratello non ti guarda, ma si guarda. Lo scrittore Chuck Palahniuk ha colto efficacemente una tale strategia estetica, quando scrive: Il vecchio George Orwell aveva capito tutto, ma al rovescio. Il Grande Fratello non ci osserva. Il Grande Fratello canta e balla. Tira fuori conigli dal cappello. Il Grande Fratello si dà da fare per tenere viva la tua attenzione in ogni singolo istante di veglia. Fa in modo che tu possa sempre distrarti. Che sia completamente assorbito. Fa in modo che la tua immaginazione avvizzisca. Finché non diventa utile quanto la tua appendice. Fa in modo di colmare la

20

p. 29.

M. ROWLANDS, Il lupo e il filosofo, trad. it. di N. Lamberti, Mondadori, Milano 2009,

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Capitolo V tua attenzione sempre e comunque. Questo significa lasciarsi imboccare, ed è peggio che lasciarsi spiare21.

Orientare lo sguardo, costruire ottiche: ciò che viene temuto è una certa vulnerabilità della visione. Come se a far problema nell’occhio fosse proprio la sua nudità. Perché il vedere può essere sia qualcosa che allontana, che tiene a distanza le cose proprio osservandole, sia la porta attraverso cui può passare qualsiasi cosa. La pittura (e con essa tutte le arti che ne riprendono il senso) sfrutterebbe tale apertura in cui potrebbe insinuarsi anche e soprattutto dell’invisibile e da cui potrebbe fuoriuscire ciò che si direbbe l’intimo. Le lacrime sono proprio quest’intimità che sgorga, l’invisibilità visibile. Un farsi-spazio – comune all’arte e alle lacrime – , un gesto di rivolta – che è rivolta del gesto – , resiste, dunque, alla gestione dello spazio del fare, alla sua organizzazione ottica, che “interna” gesti, immagini di ogni sorta. L’arte resiste al controllo del visibile nella misura in cui rompe con la sua organizzazione ottica, con l’otticamente corretto. Uno scontro che, come ci apprestiamo a mostrare, si rivela una vera e propria sfida atmosferica. Confrontandosi con Lacan, e con la sua celebre teoria dello stadio dello specchio, Sloterdijk ha certamente ragione a mostrare che il rapporto che un soggetto intrattiene con la propria immagine non è affatto frontale, ma atmosferico: «In effetti, la propria immagine nello specchio non può apportare nulla in quanto tale alla diagnosi del bambino “su se stesso” che non sia già da tempo installato in sé a livello dei giochi di risonanza vocali, tattili, interfacciali ed emotivi, e dei loro sedimenti interiori»22. Tuttavia la sua analisi mostra il suo punto debole, come abbiamo già sostenuto, nel momento in cui mette in secondo piano l’organizzazione ottica di questo ambiente. Il nostro rapporto con le immagini rientra in una iconosfera: ovvero, come dimostreremo, entro una ben precisa climatizzazione simbolica. 21 22

C. PALAHNIUK, Ninna Nanna, trad. it. di M. Colombo, Mondadori, Milano 2003, p. 28. P. SLOTERDIJK, Sfere I. Bolle, cit., p. 488.

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6.1. Visualizzazione e climatizzazione. A partire dal design Il controllo della visibilità si rivela, all’interno del nostro processo di esplicitazione, un vero e proprio controllo atmosferico. Abbiamo già incontrato più volte il riferimento all’ambiente sociale, all’atmosfera simbolica, all’interno del nostro percorso. I soggetti fanno figura con i loro gesti, il che li porta ad avere sempre una certa “aria” interpersonale. Ognuno, per l’altro, ha sempre “l’aria di ...”. L’essere umano si dà sempre, in un modo o nell’altro, delle arie: il suo fare figura occupa cioè quella zona mediana, tra soggetto e mondo, che va a formare una vera e propria atmosfera simbolica. Ne consegue che una teoria dei media rigorosa sia, anche e soprattutto, una teoria di tale atmosfera simbolica e di ciò che condiziona questa atmosfera. Ha scritto Sloterdijk: «La climatizzazione simbolica dello spazio comune è la produzione originaria di ogni società»1. La società occidentale si caratterizza per l’identità tra civilizzazione e visualizzazione, ma anche per l’aver climatizzato i propri ambienti sia in senso strettamente fisico, sia in senso culturale. Possiamo allora cominciare ad enunciare una triplice identità, che lega civilizzazione, visualizzazione e climatizzazione. Si tratta adesso di capire come, attraverso la visione, venga eserci1

P. SLOTERDIJK, Sfere I. Bolle, cit, p. 97.

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tata una propria climatizzazione simbolica nei confronti dei soggetti umani. L’iconosfera è, come dimostreremo, un ambiente socialmente climatizzato. Un fenomeno contemporaneo come quello del design, ad esempio, è incomprensibile se non viene inserito all’interno di un processo di climatizzazione. Sloterdijk ha colto la portata di tale climatizzazione, mettendo tuttavia in secondo piano, come abbiamo già potuto rilevare nel capitolo precedente, il riferimento alla visualizzazione. Il che è un non poco trascurabile errore se si considera che una climatizzazione simbolica è impossibile nella società occidentale senza riferirsi alla visione. Indagare il design significa, pertanto, constatare proprio la strettissima connessione tra visualizzazione e climatizzazione. 6.2. Il segreto del design Non è certo un filosofo dell'arte o della tecnica a porsi la domanda più radicale circa il ruolo del design. È, invece, Jacques Rancière, originale e discusso filosofo della politica. Nell’articolo La superficie del design, pubblicato nel 2002 e poi raccolto ne Il destino delle immagini, Rancière tenta l’originale paragone tra Mallarmé e Peter Behrens. Quest’ultimo può essere considerato il primo industrial designer della storia. Nel 1907, infatti, la Allgemeine Elektricitäts Gessellschaft (AEG) gli affida l’incarico di curare la veste grafica dei suoi prodotti, inclusi pubblicità e logo. È il primo incarico di questo tipo. Nella sua indagine sul design, Rancière sceglie dunque di confrontare il pioniere del design con l’illustre Mallarmé. Cosa hanno in comune? È, del resto, proprio questa la domanda: […] che somiglianza c’è tra Stéphane Mallarmé, poeta francese che nel 1897 Un colpo di dadi mai abolirà il caso, e Peter Behrens, architetto, ingegnere, designer tedesco, che, dieci anni più tardi, è impegnato a disegnare i prodotti, le pubblicità ed anche le sedi della compagnia tedesca AEG (Allgemeine Elektricitäts Gessellschaft)? È una domanda apparentemente sciocca2. 2

J. RANCIÈRE, Il destino delle immagini, a cura di R. De Gaetano, Pellegrini, Cosenza 2007, p. 136.

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Nel tentativo di rispondere egli stesso alla domanda che ha posto, Rancière individua (ed è ciò che ci interessa della sua analisi) il vero fine del designer, comune a quello di Mallarmé: Che rapporto c’è tra un poeta così definito e Peter Behrens, ingegnere al servizio di una grande industria che produce lampadine, scaldabagni o impianti di riscaldamento? All’opposto del poeta, Behrens è occupato nella produzione in serie di dispositivi utili. Egli è anche il partigiano di una visione unificata e funzionalista. Vuole sottomettere tutto a un solo principio di unità, dalla costruzione degli stabilimenti fino al logogramma e alle pubblicità della marca. Egli vuole ricondurre gli oggetti prodotti a un certo numero di forme “tipiche”3.

Seguendo Rancière, il designer ha piuttosto di mira non il singolo oggetto, ma una rete di rapporti, la costruzione di un vero e proprio ambiente. La sua esigenza fondamentale sembra essere quella di oltrepassare l'utilità, spingendosi verso l'essenziale, come Mallarmé, ovvero verso la ricerca di una funzionalità superiore. Il "funzionale" ricercato dal designer non ha niente a che fare con l'utilità. Scrive ancora Rancière: Così, un uomo come Behrens appare dapprima nel ruolo funzionale di consigliere artistico della compagnia di elettricità, la cui arte consiste nel disegnare oggetti che si vendano bene e nel fare cataloghi e manifesti che ne incentivino la vendita. Egli si fa inoltre pioniere della standardizzazione e della razionalizzazione del lavoro. Ma, nello stesso tempo, egli situa tutta la sua attività sotto il segno di una missione spirituale: dare alla società la sua unità spirituale attraverso la forma razionale del processo di lavoro, dei prodotti fabbricati e del design. La semplicità del prodotto, lo stile adeguato alla funzione, è molto di più di una “immagine di marca”, è il marchio di un’unità spirituale che deve unificare la comunità4.

Il design costituisce il principio attivo della cosiddetta “società dei consumi” e la sua funzione primaria consiste nell’interrompere il rapporto con il mondo reale e con i concreti bisogni dell'individuo, per innescare un rapporto spirituale con una unità irradiata dagli stessi oggetti. Proprio grazie al design, “funzionale” smette di significare “uti3 4

Ivi, p. 136-137. Ivi, p. 146.

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le”, senza per questo significare “inutile”. Si tratta di una differente funzionalità che non è più riducibile all'opposizione tra utile e inutile. Come ha acutamente evidenziato Jean Baudrillard, ne Il sistema degli oggetti, funzionale «non qualifica ciò che è conformato a un fine, ma ciò che si è adattato a un ordine o a un sistema»5. 6.3. Lo stato gassoso dell’economia Il principio dell’utilità cede il posto a un principio ambientale. La produzione delle merci muta del resto l’ecologia stessa dell’uomo. Baudrillard apre Il sistema degli oggetti con queste parole «È possibile classificare l'immensa vegetazione degli oggetti come una flora o una fauna, con specie tropicali, glaciali, con brusche mutazioni, con specie in via di sparizione?»6. Siamo giunti al controllo dello stato gassoso dell'economia, perché il consumo interrompe ogni rapporto dell’uomo con il singolo oggetto, ogni rapporto utilitaristico7, promuovendo piuttosto un rapporto con l'ambiente nel suo insieme. Il consumo contemporaneo è il rapporto con la merce divenuta atmosfera, al di là di ogni riferimento ai bisogni individuali o sociali: I concetti di “situazione” e di “ambiente” sono senza dubbio così diffusi solo da quando viviamo, in fondo, meno in prossimità degli altri uomini, della loro presenza, dei loro discorsi, che non sotto lo sguardo muto di oggetti obbedienti e luccicanti che ci ripetono sempre lo stesso discorso, quello del nostro sbalorditivo potere, della nostra potenziale abbondanza, della nostra assenza gli uni nei confronti degli altri. […] E la relazione del consumatore con l’oggetto ne è modificata: egli non si riferisce più a quell’oggetto nella sua utilità specifica, ma a un insieme di oggetti nella loro significazione totale. Lavatrici, frigoriferi, lavastoviglie, ecc., hanno un altro senso presi assieme che considerati singolarmente come utensili8.

5 J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, trad. it. di S. Esposito, Bompiani, Milano 2003, p. 81. 6 Ivi, p. 5. 7 Ivi, p. 255. 8 J. BAUDRILLARD, La società dei consumi, trad. it. di G. Gozzi, Il mulino, Bologna 2008, pp. 3-5.

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Nel testo fondamentale che di pochi anni segue Il sistema degli oggetti, ovvero La società dei consumi, Baudrillard insiste sul carattere “ambientale” come caratteristica distintiva di tale società, e tuttavia non vi insiste abbastanza. Interessato a evidenziare come le merci si connettano tra loro e facciano sistema, Baudrillard opta più per un modello semiotico che per uno atmosferico. Considera, infatti, alla fine il rapporto tra le merci un rapporto tra segni, tra segni puri, costituenti una realtà altra9, più reale del reale. Eppure l'individuazione di una natura atmosferica della merce aiuta, a nostro parere, a comprendere molto meglio il mondo dei prodotti all'interno del quale siamo letteralmente immersi. Il ruolo del design è decisivo. Anche se il riferimento all'atmosfera, che ritorna sempre nei testi di Baudrillard, è metaforico, ogni indizio in tal senso resta prezioso. Come quando, a proposito del nudo e della sua resa spettacolare, egli parla di una “climatizzazione ottimale” e di una nudità “design-ata”, che condivide cioè la stessa stilizzazione degli oggetti10. In un articolo dal titolo Design e Dasein11 Baudrillard vede nel design lo strumento di controllo sulle nostre vite. Strumento di controllo che ha innanzitutto una funzione “climatizzante”. Negli oggetti, nel loro design, è all’opera, dunque, una climatizzazione esistenziale. Gli stessi termini hot e cool (caldo, freddo) rimandano al controllo di una temperatura simbolica: quella dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti. Baudrillard resta vincolato al primato dei “significati” che il sistema degli oggetti produce, senza cogliere, proprio in questo “significare”, una funzione climatizzante, ovvero un controllo dell’atmosfera esistenziale. Baudrillard resta colui che ha colto una tale potenzialità senza svilupparla in senso propriamente atmosferico, limitandosi a utilizzare l’ambiente e l’atmosfera come una metafora, per pensare la rete dei rimandi, dei segni, in cui gli oggetti sono immersi. 9

Cfr, ivi, in particolare p. 5. Cfr. J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, trad. it. di G. Mancuso, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 118-119. 11 Cfr. J. B AUDRILLARD, Design e Dasein, «Agalma», 1, 2000. 10

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6.4. Atmosfera e sensibilità Siamo davanti a un’esplicitazione atmosferica non solo dell’economia, ma della sensibilità stessa. Esplicitazione a cui la filosofia si sta lentamente avvicinando, innanzitutto cominciando a pensare il ruolo fondamentale dall'atmosfera, per millenni caduto nell’oblio. Furono gli antichi filosofi greci di Mileto, ovvero Talete, Anassimandro, Anassimene, a porre agli albori del pensiero filosofico un’attenzione all’atmosfera, a cui era strettamente connessa l’essenza del pensiero, non a caso chiamato psyché, cioè “respiro”12. La filosofa Luce Irigaray, a ragione, ha lamentato nella sua critica al pensiero di Heidegger un “oblio dell’aria”, che prenderebbe avvio con Parmenide13. In terra francese e tedesca l’attenzione per l’atmosfera è crescente. In Francia, con il suo L’arte allo stato gassoso, il filosofo Yves Michaud14, e in Germania, filosofi come Gernot Böhme15 e il già citato Sloterdijk hanno posto l’attenzione sul ruolo costitutivo dell’atmosfera. In modo particolare quest’ultimo ha eletto, come abbiamo più volte sottolineato, l’esplicitazione dell’atmosfera a concetto cardine di una nuova teoria della cultura. Scrive: Si comincia a capire che l’uomo non è soltanto ciò che mangia, ma anche ciò che respira e ciò in cui si immerge. Le culture sono situazioni collettive d’immersione nell’aria e in sistemi di segni. […] la cosa più sensata sembra perciò che la teoria della cultura, in una prima fase di auto-accertamento, si 12

Sulla scuola di Mileto come pensiero dell’atmosfera rimandiamo all’importante studio di G. SEMERANO, L’infinito. Un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Bruno Mondadori, Milano 2001. 13 Cfr. L. IRIGARAY, L’oblio dell’aria, trad. it. di C. Resta, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 17-34. 14 Cfr. Y. MICHAUD, L’arte allo stato gassoso, trad. it di L. Schettino, Idea, Roma 2007. 15 Cfr. in particolare G. BÖHME , Atmosphäre. Essays zur neuen Ästhetik, Suhrkamp, Frankfurt/a. M. 1995. La ricerca sulle atmosfere ha interessato recentemente un’intera schiera di fenomenologi tedeschi. Si veda infatti anche M. HAUSKELLER, Atmosphären erleben. Philosophische Untersuchungen zur Sinneswahrnehmung, Akademie, Berlin 1995. A partire dalle loro ricerche ha preso avvio anche l’analisi in merito di Tonino GRIFFERO, cfr. in particolare Corpi e atmosfere: il “punto di vista” delle cose, in A. SOMAINI (a cura di), Il luogo dello spettatore. Forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita & Pensiero, Milano 2005, pp. 283-317.

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orienti alle forme più sviluppate di descrizione scientifica dell’atmosfera, alla meteorologia e alla climatologia, per dedicarsi in seguito a fenomeni aerei e climatici più rilevanti da punto di vista culturale e più vicini alle persone16.

Sloterdijk considera il design industriale e il concetto di ambiente (insieme alla prassi del terrorismo) come determinanti tutta l’organizzazione della sensibilità contemporanea17. Il design per Sloterdijk si esplicita come Air Design, come controllo dell’atmosfera. Le sue ricerche si interessano all’atmosfera sia in senso strettamente fisico, sia attraverso il parallelismo esistenziale, aprendo così la strada a quella che si potrebbe chiamare una termoestetica, che non può non farsi carico pertanto di ciò che lui stesso ha chiamato «design climatico di persone e gruppi nel loro spazio caratteristico»18. Con il termine “termoestetica” intendiamo, allora, la riflessione intorno alla produzione di atmosfere simboliche, tali da contenere e orientare i soggetti. Nell’epoca in cui il governo dei soggetti fa esplicitamente riferimento all’atmosfera, al clima sociale, il pensiero filosofico non può non farsi carico delle sue produzioni. Si tratta di pensare l’esistenza umana come un continuo passaggio da un’atmosfera all’altra, passaggio che diventa sempre più esplicito nella vita contemporanea e sempre più centrale nell’arte. È, del resto, proprio Andy Warhol a cogliere la crescente centralità dell’atmosfera nella vita di tutti i giorni: In questi ultimi tempi i ristoranti a New York hanno una novità – non vendono cibo, vendono atmosfera. Ti dicono: “Come si permette di affermare che il nostro cibo non è buono, non abbiamo mai detto che il nostro cibo è buono. È la nostra atmosfera che è buona”. Hanno capito che l’unica cosa che realmente importa alla gente è di cambiare atmosfera per un paio d’ore. Ecco perché riescono a far quadrare i conti vendendo atmosfera e un minimo di cibo. E tra non molto, quando il costo del cibo aumenterà, si metteranno a vendere solo atmosfera19.

16

P. SLOTERDIJK, Terrore nell’aria, trad. it. di G. Bonaiuti, Meltemi, Roma 2006, p. 70. Cfr. ivi, p. 7. 18 Ivi, p. 79. 19 A. WARHOL, La filosofia di Andy Warhol, Abscondita, Milano 2009, p. 131. 17

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L’estetica deve, pertanto, risolversi in una termoestetica se vuole cogliere il proprio tempo. Come ha rilevato Böhme «l’estetica tradizionale non è all’altezza della crescente estetizzazione del mondo. […] l’estetica delle atmosfere […] esige, come prima cosa, che si riconoscano uguali diritti a tutti i prodotti del lavoro estetico, dalla cosmetica fino alla scenografia, dalla pubblicità, attraverso il design, fino alla cosiddetta vera arte»20. 6.5. Termoestetica dei media Il design rende possibile l’esplicitazione teorica della climatizzazione: si presta, cioè, meglio di altri fenomeni, per la sua portata esplicitamente ambientale. Ma non è affatto l’unico agente della climatizzazione né il più potente. Per Sloterdijk, infatti, tutti i media hanno una portata climatizzante. I media di massa sono, pertanto, dei grandi climatizzatori. Come sottolineava efficacemente già nella sua Critica della ragione cinica: «Nell’ambiente “società”, i moderni mezzi di comunicazione di massa climatizzano le coscienze in maniera nuova e artificiale»21. Una teoria dei media, in senso termoestetico, era stata già avviata, in un certo senso, da Marshall McLuhan nella sua opera fondamentale Understanding Media22. Questi, infatti, distingueva i media in media caldi e media freddi, a seconda del grado di partecipazione richiesto dalle persone. Medium caldo è, ad esempio, la radio, poiché fa a meno della partecipazione attiva dei soggetti, mentre medium freddo è il telefono, poiché necessita invece di una partecipazione attiva. Nella nostra prospettiva termoestetica i termini caldo e freddo non sono relativi al completamento percettivo del medium, ma al coinvolgimento emotivo e più generalmente esistenziale dei soggetti. 20 G. BÖHME, Atmosphäre. Essays zur neuen Ästhetik, cit., trad. it. parz., «Rivista di Estetica», n. s., 33, 2006, p. 19. 21 P. SLOTERDIJK, Critica della ragione cinica, a cura di A. Ermano e M. Perniola, Garzanti, Milano 1992, pp. 396-397. 22 M. MCLUHAN, Gli strumenti del comunicare, trad. it. di E Capriolo, Il Saggiatore, Milano 2002.

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I media raffreddano o riscaldano gli animi, garantendo quella climatizzazione ottimale capace di disperdere l’ira o di rassicurare le persone. È proprio questo il punto: l’hot e il cool (il caldo e freddo ricercato) non sono temperature simboliche estreme. Un medium come la televisione, ad esempio, non può seminare il panico, né rassicurare troppo, generando distacco. Deve esercitare una climatizzazione ben bilanciata. Da questo punto di vista, il design rappresenta solo una polarità della climatizzazione, quella relativa al cool: rassicurante, adeguata, giusta. Media massivi come la televisione devono saper bilanciare o alternare le polarità di caldo e freddo, relative a un maggiore o a un minore coinvolgimento, per produrre quella climatizzazione ottimale capace di contenere i soggetti. L’antropologo Franco La Cecla ha intuito la relazione tra media di massa e pornografia, indicando addirittura nell’effetto prodotto dalla pornografia la matrice di tutti i media23. Si tratta ovviamente di una considerazione eccessiva, ma per noi costituisce un indizio importante. Permette, infatti, di vedere nella pornografia una matrice dei media, aggiungendovi, diversamente da La Cecla, una considerazione termoestetica. I media di massa, soprattutto la televisione, adottano la climatizzazione della pornografia, che va a coprire la polarità calda che il design escludeva. La pornografia, il suo principio, fa da paradigma per il dominio dello scottante, dello scandaloso, dell’esplicito. Media come la televisione, lungi dal fare pornografia in senso stretto, ne catturano il principio, e rendono lo stesso effetto. Calore, coinvolgimento, ma non troppo. Lo scottante non deve bruciare. E, per raffreddare gli animi, basterà catturare il principio del design: fresco, ma non glaciale. Un distacco che presenta un certo grado di eccitazione. Design e pornografia offrono, dunque, i paradigmi per una termoestetica degli attuali mass-media.

23

Cfr. F. LA CECLA, Surrogati di presenza. Media e vita quotidiana, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 115.

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6.6. Termoestetica dell’arte Anche l’arte cade all’interno della climatizzazione e all’artista spetta sempre di più una competenza termoestetica per affermare il suo lavoro. All’artista spetta, innanzitutto, individuare una fondamentale metaclimatizzazione all’opera nella nostra società, ossia una climatizzazione della climatizzazione. A rigore, infatti, ogni singolo gesto può “riscaldare l’ambiente” e in modo particolare l’arte, che ha sempre avuto una significativa valenza climatizzante. L’arte crea atmosfere: quella che è stata definita la sua aura è proprio la sua atmosfera, la differenza termica che essa crea nei pensieri. La climatizzazione all’opera nelle strategie di controllo dei gesti e dei soggetti è, pertanto, una climatizzazione in più, aggiuntiva. Una metaclimatizzazione. Il controllo dell’arte è determinato da questa strategia. Riprendiamo, a questo punto, il problema dell’arte dove l’avevamo lasciato, parlando della pittura e del suo senso. Abbiamo indicato, nel precedente capitolo, il senso della pittura come dis-senso: esso indicherebbe una direzione contraria alla civilizzazione video-cristiana. Tuttavia non abbiamo posto la questione contingente della pittura come arte in relazione alle altre arti. Dovevamo, infatti, prima introdurre l’approccio termoestetico per offrire una visione il più possibile adeguata alla sua esistenza contemporanea. In quanto arte, la pittura non è affatto sola, e anzi la sua non centralità nell’attuale sistema delle arti è estremamente significativa per comprendere meglio le altre arti e la loro distribuzione. Più che di un sistema delle arti, allora, bisognerebbe parlare di un vero e proprio ecosistema. L’ordine contemporaneo della sensibilità non si è affatto liberato dell’arte, perché non cessa di produrla e di sostenerla. Si immunizza dall’arte nella misura in cui la assume in forme controllate, nella misura in cui la distribuisce. È possibile formulare allora la seguente tesi: c’è omologia tra l’ipocrisia espositiva relativa alla nudità e l’ipocrisia espositiva rela-

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tiva all’arte. Per il semplice motivo che l’arte non si distingue realmente dalla nudità, dalla messa a nudo. All’arte viene in tal modo sottratta non la sua esistenza, ma la sua esposizione. L’arte è, infatti, distribuita, posta. Solo ipocritamente possiamo parlare della sua esposizione. Diffusa, distribuita, ipocritamente esposta. Deve pertanto essere riformulata la celebre tesi di Walter Benjamin esposta nel suo saggio L’opera d’arte dell’epoca della sua riproducibilità tecnica24. In quest’opera, come è noto, Benjamin rileva una perdita dell’aura e un processo di progressiva esposizione dell’opera d’arte. L’opera d’arte perde il suo carattere “cultuale”, lussuoso, magico, la sua autorità e la sua unicità, per essere diffusamente riprodotta e accessibile alle masse. Si tratta, tuttavia, evidentemente di ipocrisia espositiva. La diffusione dell’opera d’arte implica soprattutto il controllo della sua distribuzione. Si controlla la sua esposizione, ovvero si pone l’arte e spesso la si impone. In questo senso non sparisce né l’aura dell’arte, né il suo culto: si controlla ancor di più, infatti, la sua atmosfera e il suo divenire ciò che si oggi si chiama cult. Come è stato osservato, più che trovarci di fronte a una perdita di aura, come vorrebbe Benjamin, ci troviamo piuttosto di fronte a una «ricollocazione dell’aura: dalla fruizione privata, che comunque sarebbe continuata nella sfera del collezionismo, a quella pubblica, commerciale e monumentale. E questo non poteva che portare a una trasformazione dell’aura, che da allora si è spostata da una dimensione contemplativa a una spettacolare»25. Una termoestetica della situazione contemporanea dell’arte deve partire dalla considerazione che ci sono aree climatiche, luoghi specifici, vere e proprie “riserve” per forme d’arte in via di estinzione, piccoli circuiti per intenditori (ciò che si chiama arte contemporanea) e grandi circuiti con un clima artistico più mite o bilanciato (come nel caso della visione di programmi televisivi, ad esempio). 24 Cfr. W. BENJAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 2000. 25 A. DAL LAGO, S. GIORDANO, Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 135-136.

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Una tale distribuzione ha avuto luogo soprattutto in seguito a un evento che non ha apparentemente nulla a che fare con l’arte: la Prima Guerra mondiale. Sarebbe soprattutto grazie a questo evento che l’arte è divenuta una questione legata alle masse, e non più un esercizio di pochi con altrettanta fruizione di pochi. È questa la tesi di Jean Clair: […] la grande guerra è il primo conflitto che vede la mobilitazione generale: fino allora le guerre erano state combattute da corporazioni specializzate, mantenute a questo fine dai diversi stati. D’ora innanzi tutti parteciperanno alla guerra. Il servizio militare universale diventa impiego coercitivo e generale della violenza asservita ai fini dello stato. Alcuni artisti traggono da tutto ciò alcune conseguenze. Se la guerra, che può ormai essere combattuta da chiunque, che è diventata «grande», ha sottratto all’arte la sua grandezza, l’arte stessa, fino allora attività specialistica di pochi, non potrebbe forse diventare attività di chiunque? In pieno conflitto, nel 1916, nel cuore della nuova Europa lentamente spostandosi a Zurigo, il dadaismo, che riunisce pacifisti e imboscati sfuggiti al carnaio, sarà, col suo nichilismo terapeutico, il primo movimento di intellettuali a proclamare il totalitarismo della soluzione estetica applicata a tutti gli individui, la mobilitazione generale a favore di un’attività che ha perduto la sua specificità e la sua supremazia. Ormai l’arte è tutto e non è nulla: chiunque può dirsi artista26.

Pur essendo la guerra mondiale un evento decisivo, per la massificazione dell’arte è necessaria, anche e soprattutto, l’invenzione della fotografia e la sua diffusione. La fotografia contribuisce in modo significativo alla democratizzazione del ritratto: per secoli «ordinare il proprio ritratto era stato un privilegio di persone facoltose il cui potere e la cui ricchezza in tal modo manifeste agli occhi di tutti, ma la riproduzione meccanica, ponendo cittadini anche modesti nella condizione di farsi fare il ritratto, comportava, in maniera quasi automatica, la soppressione di almeno una barriera sociale, quella delle apparenze»27. La fame delle immagini aumenta e con essa il consumo dell’arte. L’avvento del cinema renderà possibile soddisfare proprio tale iconomania dilagante. L’arte diventa, così, non qualcosa da sopprimere, ma qualcosa da distribuire sapientemente.

26

J. CLAIR, Il nudo e la norma. Klimt e Picasso nel 1907, trad. it. di U. Pasti, Abscondita, Milano 2008, p. 17. 27 P. SORLIN, I figli di Nadar, Einaudi, Torino 2001, p. 61.

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Controllare l’arte, la sua aura (cioè la sua atmosfera), significa controllare ancora meglio l’anima dei soggetti, la loro commozione, oggi sempre più innescata, programmata. La distribuzione non è uniforme, ma strategica. Ci sono zone, aree, momenti, come pure reti, flussi continui. Oggi l’offerta dell’arte è estremamente differenziata. Sbagliano coloro che credono che ciò che viene chiamato arte contemporanea sia l’arte di oggi. Essa, infatti, come ha sottolineato Natalie Heinich28, non indica semplicemente un momento dell’evoluzione artistica, quanto piuttosto un vero e proprio genere dell’arte, con una logica interna singolare. Le opere scandalose di Duchamp o di Manzoni, opere che mettono in discussione la definizione stessa dell’arte, hanno, nell’epoca della distribuzione strategica dell’arte, un posto assegnato, luoghi, momenti finalizzati a disinnescare il loro potenziale, a impadronirsi della loro aura e a climatizzarla diversamente. Scrive Heinich, confermando ciò che noi abbiamo chiamato ipocrisia espositiva a proposito dell’arte: Oggi basta entrare in uno di quei luoghi riservati per percepire fino a che punto il fatto di esporvi annulli l’essenziale della carica scandalosa contenuta in quelle opere: gli iniziati sanno, ancora prima di entrare, che troveranno di cosa essere stupiti – di modo che niente più li può veramente stupire. Quanto ai non-iniziati, la loro presenza in quei luoghi ha dell’improbabile – errore di percorso o pura combinazione. È come se, sulla facciata delle gallerie d’avanguardia e di quegli edifici dove si fanno i documenta, le biennali, le esposizioni e le fiere d’arte contemporanea – come se ci fosse scritto un invisibile “QUI CI SI STUPISCE”. Ancora meglio è sapere che è di cattivo gusto sembrare stupiti29.

È un errore pertanto identificare ciò che si chiama arte contemporanea con l’arte di oggi, errore in cui è facile cadere soprattutto a causa della denominazione di questo genere di arte, che non esaurisce affatto l’offerta artistica contemporanea, in cui primeggiano certamente, 28

Cfr. N. HEINICH, Per porre fine alla polemica sull’arte contemporanea, in A.a. V.v., Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo, a cura di F. Ferrari, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 53-76. 29 N. HEINICH, Trasgressioni, reazioni, integrazioni. Il triplice gioco dell’arte contemporanea, «Agalma», 9, 2005, p. 13.

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per consumo, il cinema di Hollywood, la musica pop, le serie e i format televisivi, i best-sellers. Come è stato opportunamente osservato30, bisogna evitare ogni snobismo e considerare arte anche ciò che, per i cosiddetti intenditori, non viene ritenuto arte, o arte significativa. Bisogna capire che siamo circondati dall’arte e che il design e la pornografia convivono e si nutrono della sua onnipresenza. Abbiamo piccoli circuiti e grandi circuiti, atmosfere più rarefatte e più respirabili, e forse oggi l’unica manifestazione davvero affermativa dell’arte consiste nel violare i generi, più che nell’assecondarli, nel produrre sbalzi termici, correnti d’aria non identificate, piuttosto che rientrare nel clima assegnato. Il compito affermativo dell’arte, insieme estetico e politico, consiste, allora, nel produrre quel “respiro indistinto dell’immagine” di cui parlava Pierre Fédida a proposito delle opere di Cézanne e Giacometti31. Rilke ha scritto in un suo verso che il respiro è un “invisibile poema”32. Si può ben affermare, a questo punto, anche l’inverso, ossia che il poema, e cioè l’arte, sia un invisibile respiro. Un respiro che toglie il fiato, un’aria che è altra rispetto a ogni altra aria, un’interruzione che è un nuovo inizio.

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Cfr. S. REGAZZONI, La filosofia di Lost, Ponte alle grazie, Milano 2009, pp. 9-21. Cfr. Le site de l’étranger. La situation psycanalytique, Puf, Paris 1995, pp.187-220. Su questa espressione, cfr. G. DIDI-HUBERMAN, Gesti d’aria e di pietra, trad. it. di C. Tartarini, Diabasis, Reggio Emilia 2006. 32 R. M. RILKE, Sonetti a Orfeo, in ID, Poesie, a cura di G. Baioni, Einaudi-Gallimard, Torino 1995, pp. 138-139. 31

Appendice

Corpo in frammenti Il male in pittura da Botticelli a Bacon

Un male irriducibile Ogni pittura è una singolare meditazione sul corpo e, in particolare, una singolare meditazione con mezzi pittorici della sua esposizione. Essa non medita, cioè, sull’integrità del corpo ma sull’impossibilità di questa. Non c’è corpo integro, intatto, ma sempre in un certo modo aperto, esposto. La pittura avrebbe a che fare allora con un corpo “malato”. In pittura si darebbe il suo male. Quest’ultimo concetto, tuttavia, necessita di essere maggiormente indagato, per meglio comprendere la stessa pittura, come pure qualcosa di essenziale intorno all’immagine del corpo ad essa legata. Il problema del male non ci sembra adeguatamente posto fino a quando lo si pensa a partire dalla cattiveria, o come cattiveria. Ovvero fino a quando lo si pensa in modo classico, all’interno di un regime di senso gravitante intorno alla prigionia, ossia gravitante intorno a ciò a ciò che implica il captivus: si pensi a Platone, che dice il corpo essere la radice di ogni male, perché imprigiona l’anima; oppure si pensi al Maligno per eccellenza, il Diavolo, che è prigioniero nell’Inferno. Il prigioniero, il cattivo per antonomasia, è negativo, perché è uno sconfitto e perché il suo stato alimenta sentimenti come la viltà, il risentimento. In un senso o in un altro il male è stato sempre pensato a partire dalla cattività.

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Eppure, se esso viene pensato oltre la cattiveria, ovvero come eccesso, esposizione, violazione, violenza, diventa irriducibile al buono e al suo opposto. Perché ciò che fa male non necessariamente è cattivo. Il male, inteso come cattiveria è un male ridotto, uno stato nello Stato, ovvero all’interno del bene. Come il captivus, il prigioniero: un male interno, minore, o in minoranza, “limitato”, rispetto al bene. Tutt’altro male, invece, qui ci si propone di indagare, un male indecidibile e irriconoscibile, all’origine del bene stesso, che per manifestarsi, per mostrarsi, deve irrompere, violare qualcosa. Ora, si vorrebbe qui approfondire qualcosa come “il male in pittura”. Perché crediamo che in special modo in quest’arte, ovvero in questa tecnica dell’immagine, questo “male” - irriducibile, ambivalente trovi adeguata e interessante manifestazione. L’immagine pittorica, del resto, è sempre stata pensata prossima al male, alla violenza. Recentemente il filosofo Jean-Luc Nancy lo ha ribadito: La violenza si compie sempre in un’immagine.[…] L’immagine è dell’ordine del mostro: monstrum è un segno prodigioso che avvisa (moneo, monestrum) di una minaccia divina. […] C’è così una mostruosità dell’immagine: essa è fuori del comune della presenza, perché ne è l’ostensione, la manifestazione, non l’apparenza, ma l’esibizione, la-messa-in-luce e la messa-in-avanti. […] Un pittore non dipinge forme, se non dipinge prima di tutto una forza che si impadronisce delle forme e le trascina in una presenza.[…] Se non c’è immagine senza che si laceri un’intimità chiusa […] bisogna ammetter allora che al bordo dell’immagine, di ogni immagine, si aggira non soltanto la violenza, ma anche la violenza estrema della crudeltà1.

Si noti come. nelle frasi appena citate, l’immagine violenta sia, esplicitamente, soprattutto l’immagine pittorica. Come se tra violenza e pittura ci fosse un legame quasi scontato. La pittura è una tecnica originaria dell’immagine: le prime immagini che la nostra cultura ha prodotto (si pensi alle grotte paleolitiche di Lascaux) sono immagini pittoriche. In pittura, inoltre, l’immagine è legata a una violenza altrettanto originaria. Lo stesso termine pittura conserva in ogni lingua un riferi1

J.-L., NANCY, Tre saggi sull’immagine, trad. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2007, pp. 17; 19-20; 25.

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mento al dolore, all’inquietante, al trauma, alla macchia come colpa, come impurità Il termine inglese painting, proviene da pain, panico; il tedesco Male da Mal, macchia, colpa; il latino pictura significa “puntura”, e il greco zoografia rimanda alla zoé, alla traccia del vivente, che indicava innanzitutto l’effetto “vivace”, inquietante, della pittura. Macchie e orrore in pittura La pittura ha certamente, più di ogni altra tecnica dell’immagine, un rapporto elettivo con la macchia, il che ci immette in un regime simbolico potente ed efficace, che tocca quel fondo di “male” originario, di cui l’immacolato, il bene, il puro, è la negazione. La pittura è legata, inoltre, come già si è potuto notare nella citazione di Nancy, al mostruoso, altro nome del male irriducibile, ambivalente, perché essa, esattamente come il mostro, è una sovrabbondanza di realtà che si offre al nostro sguardo, un eccesso di presenza, un vero e proprio “fenomeno”. Certamente l’invenzione della prospettiva nell’arte del Rinascimento ha ammorbidito e attenuato (senza eliminarlo del tutto) il suo potenziale mostruoso, facendone perdere, apparentemente, innanzitutto la bidimensionalità e dunque il suo effetto di macchia. La prospettiva, proprio creando la più potente illusione di profondità, tenta di separare le sue figure dallo sfondo, per generare una rimozione della superficie, e quindi ogni sua evocazione della macchia. Lo scandalo che ha potuto suscitare un pittore come Manet con la sua Olympia nel 1863, deve essere riferito soprattutto all’effetto bidimensionale, schiacciato e macchiato, della sua pittura. Come ha rilevato acutamente Michel Foucault: Manet è colui che per la prima volta nell’arte occidentale, almeno dal Rinascimento, almeno dal Quattrocento, si è permesso di far giocare, in certo modo, all’interno dei suoi stessi quadri, all’interno di quel che rappresentano, le proprietà materiali dello spazio su cui dipingeva.[…] Manet ha fatto risorgere […] in un certo qual modo, proprio all’interno di quel che era rappresentato nel quadro, quelle proprietà, quelle qualità e quelle limitazioni materiali della tela, che la pittura, la tradizione pittorica, fino ad allora aveva avuto

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Appendice come missione di sfuggire. […] Gli storici dell’arte sostengono, e indubbiamente hanno ragione, che lo scandalo morale non era che un modo maldestro di esprimere uno scandalo estetico: […] l’Olympia di Manet è visibile perché una luce viene a colpirla. Ma questa luce non è affatto dolce e discreta luce laterale, è una luce molto violenta che la colpisce in pieno2.

La pittura di Manet esercita dunque una violenza, perché vuole essere autentica pittura. E da Manet fino a Francis Bacon il nesso tra pittura e violenza verrà esplicitato in più modi, sempre più intensi. Particolarmente interessante, a tal proposito, è ciò che è possibile dedurre dalle considerazioni intorno all’Autoritratto dell’orecchio tagliato di Van Gogh che fa il filosofo Georges Bataille3. Davanti all’autoritratto di Van Gogh non si è davanti al quadro di un folle, ma a un gesto pittorico originario. Richiama, se seguiamo l’argomentazione del filosofo francese, l’immagine delle dita mozzate in alcune pitture parietali primitive. Anche quando ha perso ogni sudditanza, ad esempio nei confronti della religione, la pittura non ha mai rinunciato alla sua violenza. Una violenza che tuttavia si sottrae a ogni valutazione. Storie di pittori crudeli La pittura, quando è veramente tale, ha sempre a che fare con un corpo ferito, aperto, esposto. Come se il vero pittore, il pittore che vuole veramente dipingere, dovesse essere sempre, in un certo senso o in una certa modalità, crudele. La letteratura, da questo punto vista, è ricca di figure suggestive, di pittori necessariamente crudeli, quando si prefiggono di essere pittori autentici. Si pensi al Capolavoro sconosciuto (1832) di Balzac: il pittore protagonista del racconto è ossessionato dal voler rendere vive le sue opere. Giungerà, proprio perseguendo questo obiettivo, a fare un vero e proprio scempio: il suo capolavo2 M. FOUCAULT, La pittura di Manet, trad. it. di S. Paolini, Abscondita, Milano 2005, pp. 20-23; 56-57. 3 Cfr. G. BATAILLE, La mutilazione sacrificale e l’orecchio reciso di Vincent Van Gogh, in A. Pinotti (a cura di), Filosofia e pittura nel Novecento, Guerini, Milano 1998, pp. 49-60.

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ro è un caos di macchie da cui fuoriesce solo un piedino di donna, sopravvissuto alla sua furia espressiva. Perché non leggere questo risultato pittorico come l’ennesima amputazione, complementare e speculare a quella di Van Gogh? Tale risultato, infatti, invece di presentare il corpo privo di qualche sua parte, è ancora più radicale: presenta una parte priva di tutto il corpo. Come se il corpo non potesse che darsi a pezzi, in frammenti, mai integro. Ne Il ritratto ovale (1842) di Edgar Allan Poe, l’opera eseguita da un pittore radicale, che voleva solo dipingere, è intrisa di morte e di crudeltà. Il protagonista del racconto di Poe, un soldato che per caso si trova in un disabitato castello, resta affascinato da un ritratto che reca sotto la sua storia: Era una fanciulla di rarissima bellezza, e non meno soave che piena di gioiosità. E funesta fu l’ora in cui vide, amò, e sposò il pittore. Lui appassionato, sollecito studioso, austero, e già sposato con la sua Arte, lei una fanciulla di rarissima bellezza, e non meno soave che piena di gioiosità; tutta luce e sorrisi, e vivace come una cerbiatta; amante e appassionata di tutte le cose; odiava solo l’Arte che era la sua rivale; temeva solo la tavolozza e i pennelli e gli altri strumenti spiacevoli che la privavano della vista del suo amato. Fu dunque una cosa terribile per questa donna udire il pittore parlare del suo desiderio di ritrarre anche la sua giovane sposa. Ma era umile e obbediente, e posò per molte settimane docilmente nell’oscura e alta camera – nella torretta dove la luce scendeva sulla bianca tela solo dall’alto. Ma egli, il pittore, si gloriava solo della sua opera che procedeva di ora in ora, di giorno in giorno. Era un uomo appassionato, ombroso, e lunatico, che sognava a occhi aperti; cosicché non voleva accorgersi che la luce che cadeva così spettralmente in quella solitaria torretta faceva deperire la salute e la vivacità della sua sposa, che sfioriva visibilmente per tutti tranne che per lui. Tuttavia ella sorrideva ancora e sempre, senza lamentarsi, perché vedeva che il pittore (che aveva grande notorietà) traeva un piacere intenso e ardente dal suo lavoro, e lavorava notte e giorno per ritrarre lei che tanto lo amava, ma che diveniva di giorno in giorno più spenta e debole. E in verità chi contemplava il ritratto parlava della sua somiglianza in parole sommesse, come di una grandissima meraviglia, una testimonianza non meno della capacità del pittore che del suo profondo amore per colei che veniva ritraendo in modo così incomparabile. Ma alla fine, mentre l’opera si avvicinava alla conclusione, nessuno fu più ammesso nella torretta; divenuto folle nell’ardore della sua opera, il pittore distoglieva raramente gli occhi dalla tela, anche solo per osservare il volto della sposa. E non voleva accorgersi che i colori che stendeva sulla tela erano sottratti alle gote di lei che gli sedeva vicino. E quando molte settimane furo-

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Appendice no passate, e solo poco rimaneva da fare, una pennellata sulla bocca e una sfumatura sull’occhio, lo spirito della donna guizzò di nuovo come la fiamma nel bocciolo della lampada. E allora fu data la pennellata, e la sfumatura fu posta; e, per un attimo, il pittore rimase estasiato davanti all’opera che aveva compiuto; ma subito dopo, perso ancora nella contemplazione, divenne tremante e molto pallido, e atterrito, gridando con una voce forte, “Questa è davvero la Vita stessa!” si voltò improvvisamente a osservare la sua amata: Era morta! 4.

Ritratto ed esposizione: ancora una volta pittura autentica e violenza sono inseparabili. E in dipinti come quelli di Francis Bacon la violenza della pittura raggiunge certo il suo culmine, perché esplicitamente dichiarata. Il pittore considera il suo esercizio pittorico come un vero e proprio scempio, derivante dall’intenzione fondamentale di voler aprire, attraverso la pittura, le valvole della sensazione, elevando l’immagine stessa a grido che colpisce lo spettatore. Come dichiara in un’intervista a David Sylvester: DS: E che cosa succede se, dopo aver già dipinto molte volte una persona a memoria e basandosi sulle fotografie, alla fine questa posa per lei? FB: Mi inibisce. Mi inibisce perché, se è una persona che mi piace, non mi va di compiere davanti ai suoi occhi lo scempio che ne faccio sulla tela. Preferirei compiere in privato lo scempio con il quale credo di registrare con più chiarezza la sua realtà5.

Ma il male, lo scempio, la violenza a cui Bacon fa riferimento non ha nulla a che vedere con la cattiveria, bensì con una violenza che non si lascia riconoscere in quanto tale e che resta indecidibile6. Dichiara ancora, confermando ulteriormente quanto da noi affermato: “La violenza della pittura non ha niente a che vedere con la violenza della guerra. Ha a che vedere con il tentativo di ricreare la violenza della realtà stessa. E la violenza della realtà non è semplicemente quella che s’intende quando si dice che una rosa o qualcos’altro è violenta, ma è 4 E. A. POE, Il ritratto ovale, in Tutti i racconti del mistero, dell’incubo e del terrore, trad. it. di D. Palladini e I. Donfrancesco, Newton & Compton, Roma 2004, pp. 70-71. 5 D. SYLVESTER, Interviste a Francis Bacon, trad. it. di D. Comerlati, Skira, Milano 2003, p. 37. 6 Cfr. G. DELEUZE, Francis Bacon. Logica della sensazione, trad. It. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 1995, pp. 88-89.

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anche la violenza delle suggestioni all’interno della sua stessa immagine che può essere comunicata solo attraverso la pittura”7. L’esposizione in pittura Ogni pittore autentico dipinge corpi violati, esprime sempre una crudeltà, l’offerta nuda del corpo. Anche quando la sua figura è pudica, apparentemente serena, e nessuna crudeltà sembra scalfirla. Botticelli è, da questo punto di vista, esemplare: la sua pittura si sottrae certamente alla bonifica tentata dai teorici della prospettiva del Quattrocento. Leonardo da Vinci diceva di lui di essere ancora troppo fedele alla macchia, il che lo rendeva incapace di fare buoni paesaggi. Attraverso Botticelli, è possibile ribadire come la vera pittura sia legata alla crudeltà, al male ambivalente. Nel pudor della Venere di Botticelli, come ha ben messo in evidenza Didi-Huberman in un suo importante studio8, vi è una dissimulazione dell’horror, da cui essa stessa nasce. Venere, infatti, nasce dalla castrazione di Urano, ad opera di Crono: il suo organo cade nel mare fecondandolo. Venere sorge, dunque, da questa unione mitica e allo stesso tempo crudele. Ma non è solo nella Nascita di Venere, che Botticelli esprime un riferimento alla crudeltà, ovvero l’esposizione dei corpi. Si veda La scoperta del cadavere di Oloferne, o La storia di Nastagio degli Onesti dove i corpi sono esplicitamente mozzati e sventrati . Proprio attraverso Botticelli (chi lo avrebbe mai detto!), viene espressa l’ambivalenza dell’apertura dei corpi, del loro poter essere tagliati, offerti, nudi. L’ambivalenza del male ci conduce inevitabilmente alla centralità della nudità, dell’esposizione. Mai un’opera come la Nascita di Venere fu più esplicita da questo punto di vista. A partire da Botticelli, infine, Didi-huberman afferma che l’immagine del corpo è l’immaginazione della sua apertura. Riprende 7

D. SYLVESTER, Interviste a Francis Bacon, cit., p. 73. Cfr. G. DIDI-H UBERMAN, Aprire venere. Nudità, sogno, crudeltà, trad. it. di S. Chiodi, Einaudi, Torino 2001, pp. 19-35. 8

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così Lacan, il suo concetto di corpo-in-frammenti, che lo psicoanalista riferisce sia all’esperienza pittorica sia all’immaginazione di sé, mossa dal desiderio. Un corpo in frammenti, un corpo parziale, ogni volta spartito. Con-diviso. L’immagine del corpo in pittura è, dunque, l’immagine della sua esposizione. In pittura, il corpo viene ricondotto, dunque, alla sua radice, al suo non essere mai uno, integro, intatto. L’immagine pittorica è l’immagine della verità del corpo.

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Nota al testo

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Il testo nasce dalla rielaborazione e dall’ampliamento dei seguenti articoli già pubblicati: 1) Iconofagia. Da Deleuze a Burroughs, in AA. VV. Fame/sazietà. Annuario Kainos 3, Punto Rosso, Alessandria 2008; 2) Il circuito iconico. Quattro tesi sulla compagnia dell’immagine, in V. Cuomo (a cura di), L’immagine in questione, Aracne, Roma 2009; 3) recensione a J.-L. Nancy, La nascita dei seni e a J.-C. Kaufmann, in AA. VV. Nudità. Annuario Kainos 4, Punto Rosso, Alessandria 2009; 4) La simulazione del nudo. Una decostruzione, in E. De Conciliis (a cura di), Jean Baudrillard, o la dissimulazione del reale, Mimesis, Milano 2009; 5) Ad occhio nudo. Note su Sloterdijk e sulla commozione pittorica, in «Viadellebelledonne», 4, 2009; 6) Intorno al design. Per una termoestetica, in «Giornale Critico di Storia delle Idee», 2, 2009. Questi studi hanno fornito, rispettivamente, la base per i sei capitoli, ma ormai compongono un testo differente per tesi e argomentazioni. L’appendice è del tutto inedita. Desidero qui ringraziare tutti coloro che hanno ospitato le mie prime e abbozzate ricerche contenute negli articoli e, in modo particolare, Alessandra Pigliaru, che mi ha dato la possibilità di avanzare delle prime tesi su Sloterdijk. Ma, soprattutto, desidero esprimere la mia gratitudine agli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Lecce (a.a. 2008/2009) e dell’Accademia di Belle Arti “P.Vannucci” di Perugia, con i quali ho discusso molti punti del libro, e agli studenti liceali che mi hanno ac-

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Nota al testo

compagnato in questi anni nella città di Napoli e nella sua provincia. Devo, in particolare, a questi ultimi molti stimoli e l’invito fondamentale ad essere chiaro e meno pedante possibile. Molti dei contenuti del presente lavoro sono stati inoltre discussi all’interno del quarto ciclo di incontri filosofici, svoltosi presso la sede del Trip della Carlo Rendano Association da gennaio ad aprile 2010, e noto come Trip Filosofico. L’edizione del 2010 era dedicata alle politiche dell’immagine.

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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI

Area 01 – Scienze matematiche e informatiche Area 02 – Scienze fisiche Area 03 – Scienze chimiche Area 04 – Scienze della terra Area 05 – Scienze biologiche Area 06 – Scienze mediche Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie Area 08 – Ingegneria civile e Architettura Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche Area 12 – Scienze giuridiche Area 13 – Scienze economiche e statistiche Area 14 – Scienze politiche e sociali

Le pubblicazioni di Aracne editrice sono su www.aracneeditrice.it

Finito di stampare nel mese di febbraio del 2010 dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri) per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma CARTE: Copertina: Patinata opaca 300 g/m2 plastificata opaca; Interno: Usomano bianco Dune 90 g/m2 ALLESTIMENTO: Legatura a filo di refe / brossura