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Italian Pages 239 [281] Year 2018
STUDI SUPERIORI/ 1093
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Luca Salmieri
Studi culturali e scienze sociali Analisi e interpretazioni della svolta culturale
Carocci editore
1a edizione, maggio 2017 © copyright 2017 by Carocci editore S.p.A., Roma Finito di stampare nel maggio 2017 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG) ISBN 978-88-430-9019-8
Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico
Indice
Prefazione
11 Parte prima Sedimenti
1.
La cultura prima della svolta culturale
19
2.
La cultura nelle scienze sociali
23
3.
Gli strutturalismi
41
4.
American dream, Guerra Fredda e conformismo
53
5.
Positivismo metodologico
63
6.
La c
-funzionalista
7. 8.
71 83
La nascita dei Cultural Studies in Gran Bretagna
95
Parte seconda Svolta 9.
115
10.
Movimenti sociali e svolta culturale
129
11.
Il riemergere delle altre sociologie
139
12.
151
13.
Black is beautiful!
159
14.
Cultura e/è potere
171
15.
La dimensione semiotica della cultura
185
Parte terza Post 16.
Post-strutturalismo
199
17.
La svolta culturale e i discorsi della post-modernità
216
18.
Globalizzazione, traffico culturale, multiculturalismo
231
Bibliografia
245
Indice dei nomi
277
Prefazione
attorno al rapporto tra gli studi culturali e le scienze sociali, con particolare riferimento alla sociologia. A partire dalla fine degli anni Sessanta, una serie di spinte epistemologiche e critiche che in via del tutto schematica hanno preso il nome di cultural turn produssero una nuova e forte attenzione ai problemi del significato, alla autonomia euristica della dimensione simbolica, alla forza delle metodologie interpretative. Si trattò di un movimento foriero di notevoli impatti in quasi tutte le discipline umanistiche e sociali. Swidler, 1986) e poi la sociologia culturale (Alexander, Smith, 2001), si sono imposte come filoni di studio in forte espansione. Nel mondo delle discipline storiche, la cosiddetta nuova storia culturale (Burke, 2009) ha vissuto una stagione feconda che sembra durare ancora fino ad oggi ispirandosi alla concezione semiotica di cultura proposta da Clifford Geertz umanistici è stato affascinato dal recupero e dalla rivisitazione sul ruolo della cultura intesa in variegate accezioni, ma sempre discipline fare i conti con la svolta culturale, aprendosi a sguardi nuovi che hanno apparente paradosso, da disciplina fondata da sempre sullo studio della cultura aveva poi vissuto una lunga crisi dovuta ad una certa insoddisfazione 11
pe con pieno consenso interno , ha comunque riabilitato la propria missione di studio delle culture nelle dinamiche del traffico culturale globale contemporaneo (Fabietti, 2004). Del resto è nel campo antropologico, anche in risposta a questa impasse teorica e metodologica, che agli inizi degli anni Settanta si svilupparono gli elementi germinali della svolta che ha portato la cultura ad assumere una posizione rilevante in termini interdisciplinari. Sono state date molte definizioni della svolta culturale, ma ho come solitamente sbrigativo con cui si allude al percorso storico che ha portato passaggio. Molti citano la svolta culturale, ma pochi ne ricostruiscono i passaggi fondamentali, limitandosi per lo più a tratteggia . Ovviamente devo subito esplicitare, per quanto in modo sommario, cosa si intende per svolta culturale. Posso però farlo in modo per ora sbrigativo, ne con cura e nei dettagli la storia. Per il momento il lettore si deve accontentare di annotare che la svolta culturale rimanda ad un cambiamento di approccio e di pensiero che attraversa in modo per nulla lineare e sistematico la riflessione nelle discipline umaniste e delle scienze sociali a cavallo tra le fine degli anni S Settanta e che prosegue nei due decenni . Non è possibile isolare facilmente date, opere e autori da cui far risalire la scansione di questo cam attraverso cui ricostruire cosa è accaduto esattamente nel durante. È più agevole tentare di descrivere un periodo pre-svolta e un periodo post-svolta, illuminando le differenze. Lo sforzo di ricerca e ricostruzione di cui riporto i chiarire ed interpretare il fenomeno attraverso riferimenti precisi. È del resto sempre più avvertita da quando a partire dal nuovo millennio si sono moltiplicate le pubblicazioni, le ricerche, gli studi e le proposte teoriche che fanno riferimento agli studi culturali. Prova ne è fanno bella mostra di sé sugli scaffali delle librerie. All riportano termini e definizioni che indicano una modalità di classificazione 12
così come questi sono percepiti da lettori, studiosi ed esperti. Segnalare ed ordinare temi, argomenti e materie di approfondimento è il compito principale di una libreria scientifica che si rispetti ed è di per sé un chiaro esempio di analisi e classificazione della cultura. A partire dagli anni Ottanta, soprattutto nelle librerie anglosassoni, a Londra, New York, Boston o Sidney sono catalogati di gran lunga più testi sotto la dizione Cultural studies che sotto quella di Anthropology o Sociology e può persino succedere, se la libreria non è particolarmente grande, che l'etichetta Sociology sia assente, mentre capeggino altre etichette e tra queste appunto quella di Cultural studies Cultural studies, verrebbe da pensare che la produzione di autori come Hoggart e Hall, nonché dei loro prosecutori sparsi in tutto il mondo, sia stata così copiosa e feconda da porre in secondo piano quella che ha caratterizzato le scienze sociali nel corso degli ultimi decenni. Ma le cose non stanno così. Se si scorrono i titoli dei testi catalogati sotto la dizione Cultural studies si scopre che pochissimi di questi afferiscono alla tradizione inaugurata a Birmingham nel 1964 da Richard Hoggart con il CCCS (Center for Contemporary Cultural Studies). Piuttosto si scopre che buona parte di quei testi, dai più recenti fino a quelli autori disparati che trattano temi, argomenti e analisi molto diversi tra loro. In realtà sotto la dizione Cultural studies appare tutto ciò che risponde ad uno o più dei seguenti requisiti: si può trattare di testi nei quali le variabili culturali relative a qualsiasi fenomeno (sociale, politico, letterario, mediatico, economico, etc.) sono tenute in forte considerazione; ma possiamo trovare anche essere un fenomeno soprattutto culturale; infine, fanno solitamente parte degli scaffali dei Cultural studies quei libri nei quali il metodo di analisi è in qualche modo riconducibile ad un approccio ermeneutico. Eppure nel reparto Cultural studies spesso compaiono anche testi che sarebbe difficile catalogare e disporre da qualche altra parte ed il cui taglio discorsivo, a partire sin dal titolo, rimanda ad una qualche forma di criticismo rispetto a temi, approcci e visioni del pensiero scientifico e modernista. In effetti, gli studi culturali nel corso del tempo hanno finito per ospitare una congerie di contributi totalmente slegati tra loro, proprio in virtù del successo semantico di questa
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etichetta che, come ogni moda, nel tempo finisce per svuotare di senso i caratteri originari di un'innovazione. che le opere che si rifanno alle dimensioni culturali abbiano visivamente occupato il palcoscenico delle librerie tradizionalmente dedicato alla ntropologia?1 Esiste una risposta immediata, quanto superficiale: c'è stata una vera e propria svolta culturale nelle scienze sociali come ormai viene definito questo movimento eclettico e questa svolta avrebbe rivoluzionato la produzione scientifica nelle discipline più disparate, producendo non s negli scaffali delle librerie, ma stravolgendo lo scenario metodologico ed epistemologico dei vari campi del sapere. In effetti, la svolta culturale racchiude e rimanda a sua volta ad una svolta linguistica in filosofia, ad una svolta nella storia sociale, economica e politica, ad una svolta ermeneutica in politica, ad una svolta culturologica in geografia. Ma come anticipato, questa è una risposta superficiale. Il problema che si affronta in questo libro è che attualmente non è chiaro in cosa e come sia avvenuta questa svolta. Spesso si ha la sensazione di avere di fronte un banale modo di dire, un semplice indicatore di un cambiamento, una tattica esplicativa troppo sbrigativa attraverso cui liquidare velocemente una serie di mutamenti eterogenei e slegati che avrebbero trasformato il modo di fare storia, economia, geografia, sociologia, antropologia. Cosa è realmente successo? Dove e in che cosa avrebbero svoltato tutte queste discipline? Prima di affrontare questi interrogativi è tuttavia importante anticipare tre punti: 1) senza nulla togliere al fatto che la tradizione dei Cultural studies abbia culturale, segnalo sin da subito che si tratta di due cose diverse: i Cultural studies inaugurano un importante binomio di studio cultura e potere, declinati sempre come un connubio indissolubile mentre alla svolta culturale non è possibile attribuire una sola specifica corrente di studi e riguarda qualcosa di ancora più vasto e profondo rispetto al contributo dei Cultural studies: la svolta culturale descrive un forte cambiamento di
1 Un fenomeno simile è avvenuto anche nella scelta dei nomi dati a dipartimenti, corsi di studio e insegnamenti accademici nel mondo anglosassone.
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n costituisce un nuovo paradigma proposto in maniera unitaria, consapevole e programmatica da parte di un gruppo coeso di autori, ma rappresenta un insieme di tendenze autonome, scollegate, asistematiche e indipendenti le une dalle altre che convergono, in momenti e modi diversi, nel contribuire ad un generale ri-orientamento delle scienze sociali verso una maggiore e più estesa considerazione della cultura, dei fenomeni culturali e del loro carattere simbolico; 3) I singoli contributi e le specifiche opere che sono divenute un punto di riferimento per gli autori che hanno condiviso o rafforzato questo ri-orientamento verso la cultura non avrebbero raggiunto una tale estensione se non fossero state precedute, accompagnate e seguite da eventi e fenomeni extra-accademici che hanno segnato una trasformazione radicale a partire dalla metà degli anni Sessanta: il movimento per i diritti civili, il femminismo, le contestazioni giovanili, l'irruzione delle rivendicazioni etniche dentro e fuori le società occidentali. Il legame indiretto tra queste trasformazioni e la svolta culturale risiede nelle concettualizzazioni che i nuovi movimenti sociali hanno avanzato nelle loro rivendicazioni, secondo una logica per la quale le politiche culturali o le politiche dell'identità , di genere, razza, religione sono divenute costitutive delle identità soggettive o collettive. Che tutto questo non sia stato il frutto di un agire e di un pensare preordinato, coordinato e univoco si evince dal fatto che ad esempio il concetto stesso di svolta culturale apparve molto in ritardo: fu usato per la prima volta solo nel 1988, in un saggio di Jeffrey Alexander The New Theoretical Movement nel quale si conferiva ex-post un ordine semantico ad un fenomeno eterogeneo e disunito, affermando che la costante fosse da rinvenirsi nell'attenzione più o meno esplicita alle relazioni tra la cultura come insieme di testi da interpretare e gli attori nella loro vita quotidiana. Per dare un ordine astratto e del tutto artificiale alla descrizione e alla ricostruzione di ciò che è stata la svolta culturale, ho scelto di procedere affidandomi ad un metodo sequenziale, isolando un prima , un durante e un dopo . Sebbene queste fasi non debbano essere prese alla lettera, poiché libri, articoli, dibattiti accademici da un lato ed eventi sociali, politici ed economici dall'altro hanno avuto ciascuno una propria temporalità interna, è possibile utilizzare un quadro cronologico di massima, distinguendo il panorama epistemologico dominante fino alla fine degli anni Sessanta, 15
l'epoca della svolta a seguire negli anni Settanta e infine il pieno dispiegamento degli effetti negli anni Ottanta e Novanta. Si tratta di una tripartizione che ha ragione di esistere soltanto come artificio narrativo, poiché le cose non sono andate affatto in modo così lineare.
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17
Parte prima. Sedimenti
LA CULTURA PRIMA DELLA SVOLTA CULTURALE
I
La cultura prima della svolta culturale
Seconda Guerra Mondiale, quando la sociologia era orientata a studiare i fenomeni sociali come se si trattasse di imitare le scienze naturali. Anche se negli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta non mancarono opere importanti di autori nfasi sulla soggettività umana e sul significato contestuale dei fenomeni, nelle scienze sociali americane e di converso, vista la loro influenza, in quelle internazionali, predominava la tendenza ad offrire iologia attraversata da correnti, filoni, concezioni molto diverse, spesso in contrasto tra loro, ma accomunate dal medesimo spirito di fondo, ovvero una spiccata propensione trattarsi della sociologia di origine marxista, delle teorie della scelta razionale, del funzionalismo o di uno dei tanti strutturalismi di ispirazione modernista, tali filoni sociologici erano legati ad un simile anelito. In base al tipo di teoria, il risultato poteva essere differente, ma il presupposto era uguale: le scienze sociali intendevano giungere ad una conoscenza sempre più raffinata e fondamentale nella teoria dell'azione sociale di Talcott Parsons, si rafforzava come sapere che, applicandosi ai problemi sociali, avrebbe facilitato la modernizzazione. Negli anni Cinquanta e Sessanta questa disciplina raggiunse una produzione e uno statuto di tutto rispetto che consentiva, malgrado la compresenza di una versione radicale e di teoria critica, di porsi come riferimento operativo per lo sviluppo sociale, politico ed economico, negli Stati Uniti e nel resto del mondo. 19
STUDI CULTURALI E SCIENZE SOCIALI
Agli strutturalismi di derivazione marxista, si contrapponeva lo struttural-funzionalismo parsonsiano che forniva una lettura basata su schemi sociali ancora più adatti alla contesto americano, dove prosperità economica, benessere crescente, pace sociale e conformismo segnarono il paesaggio sociale, politico e culturale per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta e al contesto europeo, dove, la ripresa post-bellica lasciava intravedere ampie e l'integrazione delle diverse forme di rivendicazione delle classi inferiori. L'American dream che paradossalmente rappresentava un collante dell'immaginario di tipo simbolico, il conformismo dilagante anche per effetto dei timori che scaturivano dalla Guerra Fredda e il clima interno di forte espansione dell'economia finirono per rappresentare un modello idealizzato dell'integrazione sociale in cui democrazia, capitalismo e specializzazione delle istituzioni potevano convivere e prosperare a lungo. Nel campo antropologico, sebbene questa disciplina non fosse stata mai unificata nel senso di adottare un unico e condiviso paradigma esplicativo, gli anni Cinquanta e in misura minore i Sessanta videro una certa omogeneità interna in termini di affiliazione teoretica attorno ad alcune categorie fondamentali e scuole di pensiero ben definite. Secondo Ortner (1984), il kit teorico tipico dell'antropologo del periodo era un bricolage di tre principali paradigmi che, per quanto ormai quasi esausti, fornivano ancora un saldo aggancio teorico per chi struttural-funzionalismo britannico discendente da A.R. Radcliffe-Brown (1952b) e Bronislaw Malinowski (1931); l'antropologia americana culturale e psico-culturale proveniente da Margareth Mead (1935) e Ruth Benedict (1935) e l'antropologia materialista ed evoluzionista, sempre di marca americana, di Leslie White (1940) e Julian Steward (1956). Per quanto verso la fine degli anni Sessanta già fossero evidenti le rotture alternative di Clifford Geertz (1964, 1973, 1983) e di Victor Turner (1969), lo scenario era ancora del tutto imbevuto delle influenze tipiche delle scienze dure e lo
della disciplina, senza che il pubblico esterno ne avesse ancora sentore. antropologia degli anni Sessanta era soprattutto lo strutturalismo di Lévi-Strauss (1949, 1958), secondo il quale stabilire la grammatica universale della cultura era possibile: le modalità nelle quali il discorso culturale è creato (secondo il principio dell'opposizione binaria) e le regole secondo cui le unità (coppie di termini opposti) sono organizzate e 20
LA CULTURA PRIMA DELLA SVOLTA CULTURALE
ricombinate per creare le concrete produzioni culturali (miti, regole di parentela, suddivisioni in clan, alleanze, etc.) rappresentano le strutture soggiacenti alla realtà osservata. Fino alla fine degli anni Sessanta (e per certi versi anche oltre) il problema che attanagliava da sempre il rapporto tra sociologia e antropologia, ovvero il problema della distinzione tra società e cultura continuava ad essere irrisolto, nonostante il tentativo di Parsons (1951) di stabilire un ordine analitico sui cui basare almeno una più chiara divisione del lavoro tra sociologi e antropologi. Ad esempio, lo stesso Lévi-Strauss (1958) aveva sottolineato che a suo avviso se le strutture mitologiche rispecchiavano le strutture sociali, non era perché i miti fossero un riflesso della società, ma perché sia i miti che l'organizzazione sociale condividevano una stessa struttura latente. Gli anni Settanta videro, sia nel campo sociologico che in quello antropologico, un forte ritorno dello strutturalismo marxista. Quegli stessi fenomeni di tensione che irruppero improvvisamente nello scenario di pace sociale, alimentando i temi della svolta culturale, contribuirono al contempo strutturalismo marxista ebbe un peso di un certo rilievo. Il simultaneo rafforzamento di visioni anti-strutturaliste da un lato e di prospettive che conferma di come la svolta culturale non possa essere collocata in modo scienze sociali. Vedremo infatti come diversi autori ascrivibili alla svolta culturale, pur sposando alcune letture di derivazione marxista, produssero dei movimenti sociali degli anni Settanta, una nuova sinistra (New Left) mise in discussione l'orientamento determinista dello strutturalismo marxista. In particolare, negli anni Settanta e poi negli anni Ottanta, prima in Gran Bretagna, dove avevano preso forma già a metà degli anni Sessanta, poi negli Stati Uniti, dove erano sbarcati ed imitati, i Cultural studies proposero una nuova lettura transdisciplinare del marxismo, applicato allo studio della cultura e mediato da recuperi innovativi come nel caso di Gramsci. Inoltre, gli anni Settanta misero fine allo scontro sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nella società e nella cultura occidentale. Costretto per oltre un quarantennio nella stretta opposizione tra apocalittici e integrati, il dibattito sulle capacità dei mass media di manipolare o meno le menti, i gusti, le preferenze e i valori di un pubblico sempre più vasto, si aprì improvvisamente negli anni Settanta a intuizioni e ragionamenti di più 21
STUDI CULTURALI E SCIENZE SOCIALI
ampio respiro e soprattutto si affinò proprio in riferimento ad una rivalutazione della cosiddetta popular culture (Gans, 1974; Schudson, 1987) e ad una più attenta e minuziosa ricostruzione dei meccanismi di ricezione, rielaborazione e appropriazione simbolica dei messaggi e dei contenuti veicolati dai mass media.
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LA CULTURA NELLE SCIENZE SOCIALI
2 La cultura nelle scienze sociali
possibile ricordare che per molti secoli la base comune del concetto di cultura colere, che vuol dire
di
colere
concorrono a sviluppare, adattar le credenze. Per secoli tuttavia si è fatto uso del termine cultura soprattutto per sottolineare quella prodotta dai colti e al contempo quella che produceva uomini colti; la cultura indicava specialmente uno dei principali attributi che resto della popolazione (incolta) e, a specchio, la dimensione elitaria attraverso cui pochi si sottoponevano al esercizio di elevazione spirituale ed intellettuale, unico modo per raggiungere saggezza e conoscenza. Si può persino considerare la nascita del mondo moderno come la fase in cui la nozione e lo studio della cultura, precedentemente riservati alle speculazioni che si occupavano della verit teologia e le arti, si aprono a nuovi campi di analisi che pretendono di essere scientifici. Si assiste a ciò che Charles Percy Snow ha definito l'emergere delle 23
STUDI CULTURALI E SCIENZE SOCIALI
«due Culture», ovvero il divorzio tra filosofia e scienza. Questa schematica, ma felice espressione che Snow esplicitò nel corso di un suo speeching a Cambridge nel 1961, sottolineava come la scienza moderna, nata ovviamente i resa autonoma (Lee, Wallertein, 2004). Quello di Snow era ovviamente un discorso arcinoto già affrontato da tantissimi altri studiosi e illustri pensatori prima di lui da Bacone a Kant, da Cartesio ad Hume, da Spinoza a Locke studiosi che avevano del resto contribuito al divorzio della scienza dalle epistemologie in cui era sorta.
professionale e sociale tra coloro i quali studiavano il mondo della natura due epistemologie, una Diciottesimo secolo, la sua rigida istituzionalizzazione avvenne solo alla metà del Diciannovesimo. Secondo Wallerstein (2007), la distinzione avrebbe raggiunto l'apogeo solo in tempi relativamente recenti, nel periodo 19451968. In via del tutto arbitraria e schematica, negli sviluppi della modernità possiamo così rintracciare tre sviluppi differenti rispetto allo studio della cultura: il percorso più antico, quello degli studi umanistici, che parte dalle forme originali delle arti e della letteratura per poi allargarsi ad altri campi, quello della filosofia delle idee che ritaglia alla cultura un campo a sé, r la cultura sotto forma di ponderazioni attorno cui le concezioni della cultura e le metodologie per la sua analisi vivono e subiscono tutti i problemi dei vari dibattiti relativi al rapporto e alla
Prima però è doveroso qualche cenno ai primi due. Soltanto alla metà e alla fine dell'Ottocento, le scienze sociali sono emerse come un campo epistemologico autonomo, accanto alle già affermatissime scienze naturali e ai classici studi umanistici. Fin dall'inizio, questo terzo campo epistemologico incontrava non poche difficoltà a collocarsi rispetto alla distinzione tra il mondo della conoscenza scientifica e quello della
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LA CULTURA NELLE SCIENZE SOCIALI
fine di risultare moderno, ma aveva anche il problema di dimostrarsi a, con la quale competeva per lo
methodenstreit: la disputa sul metodo2. La cultura rientrò a pieno titolo in questa diatriba, forse ancora più di altri oggetti di studio delle scienze sociali.
scienza, l programmatico di conoscenza e analisi dei popoli della terra. È proprio in questa fase che si avvia e si rafforza una distanziazione tra il progetto scientifico che ammanta le nuove discipline del tradizione degli studi umanistici che assumono, quasi per scarto rispetto alla scienza e alle sue aspettative di nomoteticità, una connotazione storicistica, interpretativa, soggettiva, ermeneutica, relativista. Edward Burnett Tylor,
tedesco Gustav Klemm ben 10 volumi che comprendevano una storia generale del Allgemeine Kulturgeschichte der Menschheit, usciti tra il 1843 e il 1852 a fondamento dello slancio verso una scienza che comprendesse le culture dei popoli primitivi (Remotti, 1990) e che considerasse la cultura «etnograficamente intesa» come «quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società» (Tylor, 1871; tr. it., p. 7). Questa definizione inaugura lo sviluppo di un progetto precedentemente frammentato nelle mille curiosità ed esplorazioni dei popoli bizzarri e ora organicamente
2 La disputa metodologica emerse in particolare tra i sostenitori della scuola storica dell'economia tedesca come Karl G.A. Knies, Gustav Schmoller e Wilhelm G.F. Roscher con un'impostazione storicistica e gli economisti marginalisti che invece adottavano l'approccio analitico, tipico della scuola austriaca. I primi sostenevano l'irriducibilità dei fenomeni economici e sociali a spiegazioni di carattere generale, mentre i secondi sostenevano la possibilità di spiegare il comportamento delle diverse soggettività con leggi e teorie economiche. La disputa
Dilthey.
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STUDI CULTURALI E SCIENZE SOCIALI
tutta. Essa è un esordio che legitti
allargamento dello spettro delle attività culturali, non più limitate alla ragione e alle idee elevate; sottolinea il carattere acquisito della dimensione culturale, e quindi nettamente distinto dalle leggi della natura; include la cifra sociale della cultura che, appunto, viene acquisita dagli uomini in quanto membri di un determinato gruppo sociale, fornendo così quel successivi sviluppi della disciplina. concezione della cultura rimanda ad una dimensione pubblica, condivisa dai membri del gruppo sociale che ne è portatore e si amplia fino ad abbracciare ventaglio di elementi rientranti nella cultura segna un distacco dalla tradizione filosofica ed umanistica, ancora limitata alle idee e alle forme più sublimi della creazione del singolo, del contesto o di una civiltà. Quella di Tylor è anche una definiz specifici contenuti della cultura si allunga a dismisura, in relazione alla progressiva catalogazione e classificazione delle varietà etnografiche che la nuova disciplina comincerà ad annotare e spiegare, soffermandosi
transdisciplinare delle scienze tutte di fine Ottocento, vale a dire se ne fa portatore in primo luogo perché avvolto perché, benché inglese, come appena accennato, era stato influenzato da Herder, il quale concepiva la cultura come una dinamica di lunghissima
se alle società avanzate di fine secolo. Le fasi e le tappe del cammino spiegano tà delle culture umane e le primitive culture
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LA CULTURA NELLE SCIENZE SOCIALI
coesistenti alle società avanzate assumono il carattere di «sopravvivenze», infinite specificità, comparandole per poi disporle lungo la linea del progresso. Nei suoi multiformi prosiegui, lo sviluppo della disciplina o per lungo tempo una sorta di monopolio nello studio delle culture. Il compito dell'articolazione e del raffinamento del concetto di cultura è stato così fatto proprio da quella che tra le scienze sociali ha individuato nelle esperienze etnografiche il campo peculiare delle proprie ricerche, lasciando alle discipline contigue la sociologia e la psicologia contributi affini, ma, per lungo tempo, mai così determinanti nella riformulazione teorica della cultura. A dire il vero, tra sociologia e antropologia vi è stato un rapporto di dialogo e alleanza, basato sociale, alla seconda lo studio e la teorizzazione del culturale. Nondimeno, questa divisione del lavoro scientifico si è protratta a lungo, generando una serie molto fitta di contraddizioni. La prima contraddizione riguarda il fatto che, nel concreto, antropologia e sociologia più che dividersi tra lo studio delle culture e lo studio delle società, si spartirono spazialmente Gli antropologi si concentravano sulle origini della cultura e sul rapporto tra natura e cultura, fra cultura e biologia, ma soprattutto sui popoli le società lontani spazialmente, temporalmente e nei costumi da quelli della società industriale. La sociologia si occupava di converso delle moderne società avanzate immediatamente definite «complesse», proprio in contrapposizione a quelle «semplici» del passato o del presente antropologico delle strutture di tali società, della loro organizzazione statale e capitalistica, di classi e ceti, del rapporto tra la religione e conoscenza moderna, di urbanizzazione, di estrema divisione del lavoro. Questo fece sì che gli antropologi continuassero a produrre una congerie di definizioni differenti della cultura, senza trovare mai un pieno consenso teorico su quello che era nel frattempo divenuto il loro comune oggetto di ricerca e su cui si plina, mentre le vaire prospettive sociologiche prendevano in considerazione diverse visioni della cultura come variabile delle società complesse e dei gruppi sociali interni a tali società. Il ennero spesso 27
STUDI CULTURALI E SCIENZE SOCIALI
impiegati come sinonimi oppure, nella migliore delle ipotesi, come dimensioni inestricabilmente intrecciate. Da questa contraddizione, ne scaturirono altre. I campi di indagine ranta del
popoli, a Franz Boas (1911) seguita poi pressoché da tutti i suoi allievi (Clark Wissler, Alfred Kroeber, Margareth Mead, Robert Lowie continuò a prodursi un vuoto: non era chiaro in cosa fossero distinti i britannica a partire dal primo decennio del Novecento, favorito dalle penetrazioni negli entroterra coloniali, pose fine alla precedente separazione portati alla luce dagli etnografi o ancora più semplicemente costruiti sulla base di rapporti e survey ricercatore schiacciato dalla eterna presenza sul campo, a diretto contatto con i casi). Il definitivo abbandono del metodo comparativo di ispirazione evoluzionista e la promozione di ricerche a committenza accademica, concentrate su gruppi singoli e poco numerosi di popolazione, avevano dato vita alla cosiddetta «monografia etnografica», un tipo di prova che qualsiasi antropologo avrebbe dovuto superare per farsi le ossa. Era questa la vera si sommano le une alle precedenti, non sembravano, nella loro numerosità, costituire un problema. La conoscenza approfondita di una cultura o appunto di una società
campo antropologico, società e cultura divennero sinonimi di tutto loro contestualizzazione territoriale. La produzione monografica che resistette come emblema della formazione e della metodologia o alla Seconda Guerra Mondiale ebbe come effetto una rappresentazione delle popolazioni studiate come distinte in
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LA CULTURA NELLE SCIENZE SOCIALI
(1914), studi Meridionale e connettendo questo studio alle sue precedenti esperienze di ricerca nello Stretto di Torres, giunse ad elaborare metodi per la raccolta di
The History of Melanesian Society (1914), fanno oggi comprendere come
accademicamente e scientificamente affermando come la disciplina delle culture (esotiche), ma in pratica analizzava le società semplici che la sociologia non poteva analizzare, per i motivi legati agli ostacoli della distanza
campo problematico delineato da Alfred Radcliffe-Brown (1922), un antropologo che ebbe una forte influenza non solo nel mondo britannico, ma anche in quello americano. Allievo proprio di Rivers, Radcliffe-Brown spostò la legittimità di un progetto scientifico antropologico sul piano del sociale. Nel definire la cultura in termini scientifici e antropologici, Radcliffe-Brown seguì Durkheim termini di studio dei fenomeni sociali in quanto tali, ovvero non riducibili al altri ordine di realtà. In pratica, Radcliffe-Brown (1952a, 1952b) annullava qualsiasi differenza tra il sociale e il culturale, sostenendo che il metodo di consentono il funzionamento. A partire da tale base, si poteva poi passare alla comparazione e se possibile alla generalizzazione a livello di leggi. Non a caso, per Radcliffe-Brown to dello studio della cultura materiale e della storia dei popoli primitivi, «primitivi attuali», ma considerandoli per la loro organizzazione sociale. Il primo capitolo della sua monografia sugli Andamane si intitolava: The Social Organizaztion. riflettere sulla contraddizione che proveniva invece dalla sociologia del periodo, in particolare da Durkheim (1893, 1912) e dalla cosiddetta scuola francese che furono un punto di riferimento per il progetto antropologico di 29
STUDI CULTURALI E SCIENZE SOCIALI
Radcliffe-Brown. Per il padre fondatore della sociologia come disciplina autonoma tesa a identificare le leggi relative alla società nella sua universalità, con metodi che le erano propri alle società semplici, altrimenti irraggiungibili allo sguardo del sociologo delle società moderne. È probabili che questo sia il motivo per il quale Durkheim non utilizza quasi mai il termine di cultura, ma preferisce quello di «coscienza collettiva» o di «rappresentazioni collettive», ad indicare l'insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di un gruppo sociale. I fenomeni mitico-religiosi, i sistemi di credenze, le forme di classificazione della realtà circostante, le rappresentazioni del mondo costituivano, in tutte le società, il substrato cognitivorelazioni sociali e, ovviamente contribuivano ad un senso di appartenenza dei individui a quella società, unito ad una funzione tendente a garantirne -Brown vale a dire in riferimento alle ricerche sul campo da parte di ricercatori australiani, neozelandesi e sudafricani fu pari a quella di Malinowski -Brown poneva in luce il concetto di struttura, concependo la società come un sistema di elementi interdipendenti, funzionalmente connessi a fini di integrazione e adattamento. Secondo Radcliffe-Brown una specifica struttura sociale costituiva un sistema di relazioni in cui interessi e valori individuali erano integrati e adattati in un quadro di valori sociali realizzati in norme istituzionali. Se il Radcliffe-Brown non poneva l'accento sul concetto di cultura, Malinowski osservazione partecipante si tradusse soprattutto in uno studio
dello struttural-funzionalismo antropologico, ovvero lo studio analitico dei rapporti sociali la cui trama complessiva costituiva la struttura sociale in confluendo nella tradizione avviata da Franz Boas (1911), la lezione di culturale americana a partire da Alfred Kroeber, passando per Ruth Benedict,
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LA CULTURA NELLE SCIENZE SOCIALI
Abram Kardiner, fino ad arrivare a Margaret Mead. In questo secondo caso era la cultura che assorbiva quasi completamente la società: per Malinowski ppo articolato di risposte. Per quanto definibili possano essere i bisogni primari, ovvero quei bisogni che riguardano anche altri esseri animali (nutrirsi, ripararsi da temperature troppo elevate o troppo basse, riprodursi e via dicendo), le possibili forme di risposta a tali bisogni sono variegate e molteplici. Per Malinowski non vi è una connessione scontata tra il tipo di bisogno e la sua soddisfazione. Ciascuna cultura produce ed è prodotta da una sedimentazione storica di bisogni-risposte-nuovi bisogni-nuove risposte fino a formare un insieme che si pone agli individui come una seconda natura. Per Kroeber (1909, 1917) la cultura costituirà quindi un livello «superorganico», ovvero separato, distaccato e nettamente discontinuo rispetto al livello organico dei fenomeni biologici. Ma nel suo famoso saggio del 1917 The Superorganic ne parla identificandola in modo intercambiabile con il sociale. Per Benedict (1934) il prospetto configurazionista dei modelli di cultura stabiliva una connessione
sociali, quali organizzazione, strutture, istituzioni ne erano tenute fuori. Con il concetto di «personalità di base», Abram Kardiner avvicinava
lle istituzioni culturali, una particolare immagine delle figure parentali e successivamente delle norme e dei valori fondamentali della cultura di cui fa parte (Kardiner, Linton, 1939). Infine, Margaret Mead (1935, 1949) inseriva il processo antropologici mettevano in risalto le relazioni esistenti tra modelli culturali, i processi di apprendimento e personalità dominanti, giungendo a caratterizzare i tratti basilari del maschile o del femminile degli individui in relazione alle qualità tipiche della loro cultura di riferimento. agli inizi degli anni Cinquanta tratta il culturale come sinonimo del sociale umano. Soprattutto produce varie definizioni di cultura, senza preoccuparsi di fissarne una su cui far convergere quel minimo di consenso interno alla 31
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disciplina tale da poterla rendere effettivamente coesa. Vi erano diversi il carattere piccolo, isolato, relativamente semplice, controllabile e interamente osservabile dei gruppi sociali che divenivano oggetto dello sguardo ravvicinato e partecipante degli antropologi spingeva a considerare immediatamente sociologici come poco complessi e dunque passibili di minore attenzione rispetto a quella che meritavano gli elementi culturali, ammesso, che i primi esulassero dai secondi. In fondo, le regole matrimoniali, economica e politica venivano facilmente sussunti nella dimensione più strettamente culturale delle credenze, dei riti, della religione, della magia, del linguaggio e delle forme di rappresentazione della realtà. Posti di fronte ai Samoani o ai Trobriandesi, ad una tribù di indiani Zuni oppure agli isolani Dobu della Melanesia, o ancora osservando i clan degli Azande come pure gli aborigeni disposti intorno ad un totem, gli antropologi si imbattevano in un tipo di realtà in cui gli aspetti politici, organizzativi, istituzionali, economici apparivano risucchiati in una dimensione culturale accessibile alla comprensione del linguaggio e quindi secondo una cifra squisitamente rappresentazionale. Comprendere culture così diverse da quella propria presupponeva uno della vita sociale. In secondo luogo, la cifra sociale di queste popolazioni era effettivamente molto meno variegata rispetto alle stratificazioni e differenziazioni desumibili dai dati relativi alle grandi e complesse società moderne. Sul fronte sociologico, la cultura, o meglio i fenomeni culturali che tesi nella prima metà del Novecento. In quella francese, invece, la cultura non era altro che il riflesso simbolico delle istituzioni sociali e per un simmetrico progetto sociol Inoltre, la tradizione sociologica francese risentiva, come del resto avveniva alpe, per tutto il Diciannovesimo secolo e
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cultura. Un uso del resto già ampiamente legittimato dagli storici e dagli studi umanistici francesi. Va ricordato che la forte competizione con lo sviluppo intellettuale della vicina produzione scientifica tedesca, spingeva i francesi a rifiutare di tradurre il tedesco kultur in culture e a preferire il francese civilisation che in tedesco corrispondeva invece a zivilization. civiltà, piuttosto che sul concetto scientifico di cultura come qualcosa presente in tutti i popoli in relazione alla loro specifica storia. Persino il titolo della più famosa opera di Edward Burnett Tylor che pure ebbe una certa risonanza in Francia, fu tradotto come La civilisation primitive, piuttosto che con il titolo cultures primitives. Anche campo, si dovrà attendere gli anni Trenta e una nuova generazione di africanisti come Michel Leiris (1951) e Marcel Griaule (1957; 1965), , per leggere finalmente la parola Nella sociologia durkheimiana che è anche fondazione della scienza sociologica e stimolo al confronto continuo con i testi, le fonti e i resoconti antropologici i fenomeni sociali posseggono una dimensione culturale, sociologica come quella inaugurata da Durkheim si interessò così tanto ogia delle società non occidentali. Eppure Durkheim concetto di «coscienza collettiva», a quella forza sociale che rimandava uppo coeso di persone. La prova è fornita da Les formes élémentaires de la vie réligieuse del 1912 e persino dallo studio sociologico su Le suicide del 1897. In questi due lavori Durkheim intendeva la coscienza collettiva come una dimensione culturale che precede, analizzata soltanto a partire dai «fatti sociali», ovvero dai quei fenomeni oggettivi che esistono indipendentemente dalla volontà degli uomini. Per Durkheim, il fatto che la cultura costituisse un insieme del tutto coeso o la necessità di prendere in considerazione non solo le forme e le funzioni e, ma anche i fenomeni culturali che innervavano
Les formes élémentaires de la vie réligieuse fu un tentativo abbastanza riuscito di evidenziare la continuità 33
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esistente tra le forme tradizionali di coscienza e rappresentazione collettiva e quelle moderne, partendo dalla scelta di studiare i fenomeni religiosi. La famosa definizione del «sacro» in opposizione al «profano» come contrapposizione religiosa basilare per configurare un sentimento di coesione comune e per rinforzarlo attraverso i rituali e le pratiche collettive, ne costituisce la testimonianza maggiore: ogni società ha un proprio sistema fondativo di distinzione tra ciò che è sacro e ciò che è profano. Questo sistema è parte di un più ampio apparato simbolico. Nella tradizione della sociologia tedesca, il rapporto tra fenomeni sociali e culturali fu analizzato in maniera più completa, non solo poiché più ricorrenti erano i casi in cui gli autori si concentrarono sui fenomeni di tipo culturale, evide ma anche perché Max Weber (1922a, 1922c, 1958) sviluppò doveva essere in grado di tenere insieme fattori culturali e fattori sociali. Ferdinand Tönnies, Georg Simmel, Max Weber e Werner Sombart Associazione tedesca di sociologia e contribuirono ciascuno in modo diverso a sviluppare un percorso fondamentale di messa a punto della disciplina storico-sociale e delle metodologie attraverso cui studiare i fenomeni storico-sociali. Si trattava di prospettive che pur nella loro diversità, segnavano una rottura rispetto alla sociologia durkheimiana. La nascente sociologia tedesca era fortemente influenzata dai dibattiti nel campo storico-filosofico ed economico: idealismo versus materialismo, scienze naturali nomotetiche basate sulla spiegazione causale versus scienze storico-sociali basate sulla descrizione e interpretazione; determinismo economico marxista versus multidimensionalità dei fattori di sviluppo acquisì un peso crescente. Sebbene Simmel (1890, 1892) non fosse interessato ad individuare un metodo di analisi che fornisse alla sociologia un rigore avalutativo con cui cosa che invece rappresentò un punto fermo tra gli obiettivi del suo amico Weber la sua produzione saggistica non solo aprì ampio spazio a temi spiccatamente culturali, ma ridefinì con grande acume il campo euristico del sociale, in relazione ad una concezione molto moderna della cultura, tanto che i suoi scritti pesarono molto nei primi orientamenti della sociologia americana a Chicago (in particolare
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attraverso la figura di Robert Park)) e nello sviluppo della filosofia e e György Lukács). La concezione simmeliana del sociale ri fenomeni che attraversano la realtà delle relazioni sociali. Questa posizione, rme di influenza reciproca che sussistono tra gli uomini e sulla «sociazione», la dinamica attraverso cui tali azioni reciproche si consolidano nel tempo sedimentandosi nel tessuto sociale. Per Simmel la sociologia poteva riposare prima di tutto tanza di tener conto degli aspetti formali, ovvero delle forme che le relazioni di reciprocità assumono in situazioni e tempi differenti, cristallizzandosi in complesse istituzioni come ad esempio le banche o la borsa oppure rimanendo passeggere come nelle relazioni più fuggevoli come ad esempio nel caso delle mode (Jedlowski, 1995). Eppure affianco a questa sociologia, per Simmel non si poteva fare a meno
pubblica, del senso comune e della conoscenza scientifica. La cultura, assoluto in cui si fluidifica o si arre sociali, poiché la vita stessa del singolo, irriducibile a qualsiasi trattazione scientifica, si svolge in un contesto in cui tali relazioni sono calate in una «cultura oggettiva» che per estensione domina le esperienze vissute e le conoscenze acquisite dal singolo («cultura soggettiva»). La vita della persona può realizzarsi non in sé stessa, ma soltanto attraverso le forme culturali della propria estraniazione. La cultura per Simmel non è solo in umano che, appunto, attraverso di essa riesce a costruire socialmente una serie di soluzioni articolate ai propri bisogni naturali. Ma le variegate forme culturali di tale emancipazione dall'arte al diritto, dalla religione alla scienza posseggono una loro autonoma oggettività, e pertanto condizionano la vita umana. La cultura, insomma, è una sorta di seconda natura che, in quanto tale, non può essere scissa dalle forme sociali in cui si manifesta. Nel caso di Max Weber (1958) il rapporto tra culturale e sociale entra a far parte del metodo di spiegazione sociologica. I valori, una parte considerevole di ciò che Weber considera cultura, sono orientamenti di 35
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fondo che motivano le condotte dei soggetti. Dato che la sociologia può e deve essere una scienza «comprendente», ovvero una disciplina autonoma il senso, il significato, il valore) e solo in seguito tentare di spiegare tale azione sociale (ovvero rintracciare per tale fenomeno altri fenomeni che sono in può prescindere dalla comprensione della cifra cultura per Weber il mondo umano, il mondo storico-sociale, non coincide esattamente con la cultura: le strutture sociali, fatte di rapporti economici e politici, non possono essere ricondotte alla cultura. Le sfere risultano differenziate: si sviluppano in maniera tra loro intrecciata e contestualmente, ma le logiche interne restano differenti. Proprio sulla base dei presupposti sociologici che assegnano rilievo alla cultura, in America la prima importante tradizione sociologica che si afferma, quella della cosiddetta Scuola di Chicago, risulta parecchio sensibile alla dimensione culturale dei rapporti sociali. Nelle ricerche dei suoi più illustri rappresentanti William Thomas (1918-20, 1967), Florian Znaniecki (1954), Robert Park (1915, 1950, 1952, 1967) per la prima volta viene adottata una ricca combinazione di metodi di raccolta dei dati e delle informazioni. Tra questi spicca la «osservazione partecipante» e gli approcci allo studio dei vari gruppi sociali presi in considerazione appaiono molto simili a quelli adottati dagli antropologi di fronte al mondo delle tribù. La fortissima propensione alla ricerca empirica con la raccolta di informazioni provenienti dalle fonti più disparate si combina con la costante presenza dei (Anderson, 1923) o gli abitanti dei ghetti urbani (Wirth, 1928), oppure i giovani delinquenti riuniti in bande (Thrasher, 1927), sia se si tratta di seguire le vicissitudini delle le flappers, le ragazze delinquenti studiate da Thomas (1923). Ne risultano resoconti vivissimi sugli stili di vita e le realtà quotidiane, sulle dinamiche di gruppo, sui rapporti con la comunità, con una ricchezza di particolari e un tono discorsivo che ricalca quello di autentiche opere di narrativa. la cultura è evidente per almeno tre motivi. Il primo è il chiaro e continuo riferimento alla cultura intesa come insieme di caratteristiche peculiari di un gruppo
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valoriale hanno un impatto sul comportamento dei singoli. Lo si riscontra in modo palese nel famoso studio di William Thomas e Florian Znaniecki su The Polish Peasant in Europe and in America, pubblicato in cinque volumi tra il 1918 e il 1920, dal quale emergeva come gli immigrati polacchi giunti in nuove istanze valoriali della società che li accoglieva e come questo confronto simultaneo con riferimenti culturali spesso tra loro contrastanti potesse produrre forti problemi di integrazione. Ma lo si riscontra anche nella necessità da parte dei chicagoans, nel corso dei loro studi di comunità, di adottare il nuovo concetto di «subcultura» che sarebbe stato poi meglio definito negli anni Quaranta e che tanto successo avrebbe avuto in seguito nella sociologia britannica. La prima teoria delle subculture fu elaborata in relazione agli studi delle gang e della devianza criminale e in seguito erazionismo simbolico. Si sosteneva che alcuni gruppi sviluppassero al loro interno una propria cultura fondata su valori, norme, pratiche e modelli di comportamento che erano in parte condivisibili e totalmente autonomi e antagonisti. «Una gang è un gruppo interstiziale, in origine formatosi spontaneamente, in seguito si struttura in modo integrato ponendosi in conflitto con altri gruppi. Tale gruppo ha le seguenti caratteristiche: si basa su relazioni faccia a faccia, sulla militanza, si sposta nello spazio in forma sempre coesa, in modi pianificati, ma conflittuali. Il risultato di questo comportamento collettivo è lo sviluppo di una vera e propria tradizione, con una struttura interna, uno spirito di corpo, una forte solidarietà, una propria morale, un consapevole senso di apparenza al gruppo e un attaccamento ad uno specifico territorio» (Thrasher, 1927, p. 46). La somiglianza con il concetto di cultura applicato ai piccoli gruppi studiati dagli antropologi è evidente. La forte diversificazione, frammentazione e anche disorganizzazione delle metropoli americane negli anni del capitalismo rampante e delle repentine trasformazioni, spinse ad adottare una prospettiva secondo cui ciascun gruppo sociale possedeva caratteri propri, pur condividendo alcuni valori di fondo con la cultura generale. Del resto il legame teorico con le osservazioni di Simmel sulle caratteristiche della vita nelle metropoli moderne era evidente. Le sue intuizioni sulla condizione psichica del vivere nella confusione della grande città, «l'intensificazione dell'agitazione nevrotica» 37
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come «risultato del rapido e ininterrotto mutare degli stimoli interni e ansione dell'economia monetaria, l'abbassamento della soglia di reattività come difesa rispetto alle stimolazioni esterne che Simmel chiama blasiertheit, sono alcune delle intuizioni che dovettero affascinare i chicagoans. C'è ancora Simmel e la sua nozione di straniero a stimolare la definizione e lo studio della figura dell'individuo «marginale», partorita dalla descrizione delle problematiche sociali del dipartimento di Chicago. Robert Park, era stato suo allievo a Berlino e alcuni scritti di Simmel erano giunti nel Dipartimento di Chicago, divenendo ben presto letture fondamentali per gli studiosi e gli studenti del primo dipartimento di sociologia americano. Lo stesso William Thomas aveva studiato per due anni in Germania, presso le Università di Berlino e e della sua psicologia sperimentale. sulla stessa realtà sociale. dinamismo disordinato della metropoli americana, la sociologia di Chicago non dava risalto solo alla realtà vera, logica e coerente, ma anche alle diverse interpretazioni che ne davano i soggetti e i gruppi sociali. «Razionalizzazioni, costruzioni mentali, pregiudizi, esagerazioni non hanno meno valore delle descrizioni obiettive», scriveva Clifford Shaw (1931), a proposito della disorganizzazione sociale e della devianza. La sociologia non poteva e non doveva fare a meno di considerare il significato che gli attori attribuiscono al di Thomas: «se gli uomini definiscono reale una situazione, essa è reale nelle sue conseguenze» (1967, p. 42). In maniera non molto differente da Weber, consegue, al di là del principio di realtà logica o oggettiva che informa quella situazione. Se le azioni sono influenzate dalle percezioni soggettive di una situazione, allora contano i valori, le credenze, le aspettative, le pratiche di rappresentazione delle persone: in una sola parola, la loro cultura.
stretto tra identità e cultura. Contrariamente alle aspettative di totale e piena
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Chicago e Thomas in particolare, dimostravano con i loro studi e le loro ricerche che, non solo esisteva una tendenza degli immigrati a preservare le che andavano formandosi e a mantenere in vita anche il proprio linguaggio, le proprie abitudini, le proprie credenze, ma tutti questi aspetti, se avessero comunicazione come la stampa, sarebbero risultati un fattore positivo per facilitare processi di riorganizzazione sociale. Da questo punto di vista, il notevole contributo della Scuola di Chicago fu la numerosa serie di esempi diversità culturale, non soltanto attribuibile, come nel caso delle società urbane americane, alla presenza di gruppi etnici eterogenei provenienti da altre nazioni, ma desumibile dalla presenza, in alcuni casi conflittuale, di stili di vita, condotte, orientamenti molto eterogenei. Una forte differenziazione morale e simbolica caratterizzava le società moderne, in particolare nei contesti delle metropoli e delle grandi città, configurando una condizione generale di complessità culturale.
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3 Gli strutturalismi
irrobustiscono le scienze sociali dagli anni Trenta e agli Settanta del ssità teorica e epistemologica che caratterizzò quel periodo. Tuttavia, se si amplia la portata di ciò che il termine «struttura» può significare, l'operazione ha un senso: un conto è infatti indagare i significati specifici dello strutturalismo, un altro è soppesare l'importanza assunta in vari ambiti dalla nozione di struttura. Nel primo caso va detto che per quanto fossero numerose, le varie versioni dello strutturalismo non assunsero mai una posizione completamente egemonica nelle scienze sociali; nel secondo caso, quello che qui seguirò, è possibile affermare che il ricorso all'uso del concetto di struttura fu invece molto più frequente e diffuso (Sewell, 1992). Il presupposto di riferimento comune e trasversale al ricorso al termine di struttura è stato a lungo il fatto che ogni oggetto di studio delle scienze sociali può costituire una struttura, cioè un insieme organico e globale i cui elementi non hanno valore funzionale autonomo, ma lo assumono nelle relazioni oppositive e distintive di ciascun elemento rispetto a tutti gli altri generalizzato più di quanto fosse consapevolmente legittimata l'affiliazione degli autori allo strutturalismo, tanto più che l'impiego di quella nozione non comportava affatto l'automatica adozione di una prospettiva strutturalistica (Pettit, 1977). Questa differenza aveva da tempo le sue ragioni: sin da 41
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Auguste Comte, Herbert Spencer e in generale dalla nascita delle varie correnti del positivismo; sin da Karl Marx, Friedrich Engels e il marxismo; fino ad arrivare a Talcott Parsons, Robert Merton e a molta della sociologia dei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, l'uso del termine struttura è evidente, nonostante gli autori richiamati non possano considerarsi a tutti gli effetti strutturalisti3. Uno dei primi riferimenti espliciti allo strutturalismo come movimento scientifico aveva fatto capolino negli anni Trenta in un saggio del linguista russo Trubeckoj (1933). Eppure, le radici di un approccio che oggi definiremmo senza problemi strutturalista affondano ancora più indietro nelle considerazioni che l'etnologo americano Lewis Henry Morgan produsse nella seconda metà dell'Ottocento, nel suo studio impressionistico sugli Irochesi e su altri ceppi indiani Nordamericani, rispetto ai cui termini di parentela Morgan (1871) individuava la possibilità di applicare una logica di «sistema» Tale logica non era rinvenibile immediatamente sulla superficie degli usi linguistici, ma la si poteva presagire attraverso il confronto tra i vari tipi di società; dato che persino il sistema terminologico di parentela della nostra società, se «considerato da solo, senza l'idea di una qualche forma opposta», ovvero senza la ricerca di sistemi diversi e contrastanti, «non susciterebbe alcun interesse» (Morgan, 1871, p. 55). Insomma, si delineava un'idea fondamentale per il successo del concetto di struttura: l'inevitabilità che esistesse da una qualche parte, nascosta, una forza generatrice di similitudini e opposizioni tra loro collegate, attraverso regole piuttosto invarianti. La metafora del sistema consentiva di superare il problema del carattere a prima vista specifico, contestuale e irripetibile delle forme sociali e culturali osservate, rimandando lo sforzo epistemologico alla ricerca di regolarità nascoste capaci di spiegare non solo e non tanto esempi analoghi, ma soprattutto quelli contrari e opposti (Kuper, 1996). È come se le scienze dello spirito si fossero date il difficile compito di scovare qualcosa di profondamente naturale e quindi oggettivamente spiegabile che opera al di sotto della estrema variegatura delle forme sociali e culturali. 3 Paradossalmente, proprio nell'opera di maggior richiamo per lo strutturalismo europeo, ossia il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure (1916), non compare mai il
generale l'utilizzo del termine struttura non può essere meccanicamente indicativo strutturalisti anche senza mai menzionare il termine struttura.
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Il motivo per il quale de Saussure (1916) viene considerato il padre dello strutturalismo nella linguistica è l'aver compiuto un passo ulteriore: il superamento del confine della scrittura a favore dello studio della lingua in quanto tale, nelle sue svariate forme (Ducrot, Todorov, 1981; Harris, 1987; Holdcroft, 1991). De Saussure introduce il concetto di «differenza» o di «opposizione» che si colloca come conseguenza del principio di relazione tra significante (suono o immagine acustica) e significato (idea o concetto) e del principio della «arbitrarietà del segno», con cui de Saussure stabilisce il tipo di rapporto tra significante e significato (Crespi, Fornari, 1998). Dato che significanti e significati hanno origine non soltanto dalla combinazione di un suono (fonema) con un'idea, ma anche dal sistema di differenze di cui rispettivamente fanno parte, de Saussure assegna al concetto di differenza o di opposizione la funzione di stabilire i rapporti della struttura linguistica. I fonemi non sono unità foniche aventi un valore intrinseco, una qualità propria e positiva, ma sono invece «entità oppositive, relative e negative»; essi consistono nelle loro reciproche «differenze» (de Saussure, 1916, p. 144). Questo principio della priorità delle differenze o delle opposizioni vale per il sistema lingua (non soltanto per i fonemi): «un sistema linguistico è una serie di differenze di suoni combinate con una serie di differenze di idee» (de Saussur oppositivo degli elementi di qualsiasi sistema costituirà il nocciolo dello strutturalismo linguistico e degli strutturalismi nelle altre discipline. La nozione di struttura saussuriana riposava proprio sul principio che esiste sempre un «sistema di differenze». Questa concezione della struttura si farà largo come idea di articolazione interna ai fenomeni sociali, culturali, linguistici, storici e quindi aprirà un varco di ottimismo circa la possibilità di analizzare un elevato grado di eterogeneità la complessità sociale, introducendo la molteplicità nell'unità (Dosse, 1991). Non vi sono preventivamente termini o elementi che, aggregandosi in un sistema, danno luogo a differenze; al contrario, sono le differenze che, formando la struttura di un sistema, fanno esistere i termini. Dedicandosi alla ricerca dei principi che sostengono la sua idea della lingua come sistema e che dovrebbero permettere di accedere alla «vera natura della lingua», de Saussure si interessò prima di tutto dell'opposizione tra il versante sociale e quello individuale della lingua; in secondo luogo dell'opposizione tra la cifra sistemica e la cifra storica. Per evitare che l'analisi delle lingue si riduca a «un ammasso confuso di cose eteroclite», occorreva a 43
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suo avviso studiare la dimensione sociale e gli aspetti sistemici della lingua. In questo modo: «si separa ciò che è essenziale da ciò che è accessorio e più o meno accidentale» (de Saussure, 1916: 23). Questo orientamento alla strutturalismo della seconda metà del Novecento, in antropologia, nel caso di Claude Lévi-Strauss e per certi versi in sociologia, nel caso di Talcott Parsons. È bene notare che il favore accordato all'approccio sincronico non implica affatto che la lingua o un qualsiasi altro oggetto (sistema) studiato non cambi nel tempo. I cambiamenti sono ampiamente contemperati lisi strutturalista (Remotti, 1971; 1995). Il fatto è che tuttavia il sistema in quanto tale non è mai il motore attivo del cambiamento; esso piuttosto lo subisce, dato che qualche sua componente riceve alterazioni dall'esterno, a margine di esso. De Saussure preferiva sacrificare questa dimensione storica e individuale a tutto vantaggio dell'analisi dei principi e delle condizioni formali che rendono possibile una qualsiasi lingua, al di là dei sistemi momentanei e della molteplicità delle realizzazioni storiche e particolari (Matthews, 2001). Questa impostazione rese lo strutturalismo un paradigma generale facilmente applicabile e ne stabilì la chiave del successo. Adottando il i esterni, si sarebbe potuto operare una sorta di svuotamento della nozione tradizionale di struttura, fatta non più di contenuti (di elementi che si aggregano), ma in primo luogo di relazioni formali (differenze ed opposizioni). Per comprendere la portata estensiva di questa possibilità esplicativa possiamo fare un esempio: immaginiamo di dover spiegare il funzionamento generale delle diverse norme che regolano la proprietà in differenti tipi di società. Si possono immaginare due assi: uno verticale, il quale conduce dall'osservazione e dallo studio analitico di uno o più sistemi normativi alla determinazione di ciò che vi è in essi di universale; l'altro orizzontale, che consiste nel confronto e nella comparazione tra il maggior numero possibile di sistemi normativi. Si può plausibilmente asserire che lo strutturalismo si muove sul punto di intersezione di questi due assi. Esso assume prospettive diverse e produce esiti differenti, secondo che punti: i) a considerare prima zzante, astrattiva, formalistica) da cui precedere poi via via che la comparazione, verrà a disporre sull'asse orizzontale (taglio descrittivo, osservativo, comparativo) dei casi specifici;
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modificano le prospettive e i risultati teorici dell'asse verticale. Optare per la prima alternativa e quindi favorire le tendenze formalistiche che ne scaturiscono è un modo per ovviare alle carenze conoscitive che si manifestano sempre nell parla allora di «formalismo strutturalistico»: in questo ambito si ritiene nonostante l'inevitabile incompletezza del sapere empirico e comparativo. Ad esempio, il formalismo può rispondere in maniera positiva al problema di delineare i tratti fondamentali e universali del concetto di proprietà personale e privata, pur non conoscendo tutte le norme che finiscono per influenzarne la forma. Anzi, pensando di determinare la struttura specifica della proprietà personale, lo strutturalismo formale ritiene possibile descrivere e predefinire qualunque forma di proprietà personale possibile o si configura come un calcolo delle possibilità strutturali. Questo modo di applicare lo strutturalismo, secondo cui la teoria strutturale può precedere, anticipare e persino estendersi al di là dei dati osservativi e comparativi, è riscontrabile ad esemp (1949), secondo cui la teoria può determinare, sulla base di una certa stima probabilità, le diverse forme che l'organizzazione di clan può assumere, anche in assenza di un riscontro reale per alcune di esse. eventualmente scovare le relazioni generali che consentano di giungere a formulazioni astratte è tipico per esempio dei primi slanci di Lévi-Strauss. Nel monumentale Les structures élémentaires de la parenté (1948), mostrare come le diverse scelte matrimoniali seguite in varie società rispondano ad un unico modello strutturale elaborato a partire da alcuni fattori elementari. In primo luogo il principio bifronte dell'incesto e dell'esogamia: avere unioni sessuali tra i membri di un ristretto gruppo sociale comporterebbe a lungo termine un isolamento del ceppo originario, un ripiegamento continuo in sé stesso materiali e simboliche per lo sviluppo e la tenuta del gruppo stesso. Così tutte le società umane, a partire da una qualche forma di divieto negativo tto i parenti affermano e promuovono delle regole positive per definire un'area, più o 45
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meno vasta, di scelta legittima per l'unione matrimoniale. Solo vietandosi alcune donne, quelle sulle quali hanno più stretto controllo, i maschi possono, attraverso lo scambio, stabilire relazioni sociali con altri gruppi con cui invece è possibile scambiarsi le donne. La regola della reciprocità informa e plasma le strutture di parentela: i casi specifici in cui tale regola prende una forma determinata contribuiscono a validare il principio strutturante generale. Così come attraverso l'interazione tra forma e comparazione si compieva anche a proposito del rapporto tra staticità e mutamento lo strutturalismo esprime sue opzioni con una spendibilità molto seducente. L'analisi strutturale di un sistema consente di stabilire la rosa delle possibilità di mutamento che caratterizzano dall'interno una data struttura. Del resto, nella metafora marxista e quindi su piano completamente diverso da quello linguistico o antropologico, la struttura dei rapporti di produzione contiene elementi che nel loro dispiegarsi storico realizzano nuove configurazioni della struttura. Eppure, la stessa possibilità di stabilire le eventualità strutturali comporta anche il riconoscimento di un fattore di contingenza inconoscibile, espresso dalla nozione di «scelta». Lo strutturalismo non è in grado di rendere conto della «scelta della via seguita nel caso di un crocevia fonologico» (Jakobson, 1963, trad.it. p. 96), ovvero di predire la direzione assunta dal mutamento. Così lo strutturalismo si autoassolve e riesce a porsi come paradigma che spiega il mutamento, ma al tempo stesso ammette che il mutamento non sia prevedibile. Esso si situa al centro, a debita distanza da due prospettive diverse: da un lato, il particolarismo storico, secondo cui a partire da una certa condizione storica si aprirebbe un numero indefinito di ondo cui la storia Franz Boas in poi, si era opposta al «pregiudizio evoluzionistico» e in particolare gli antropologi più vicini allo strutturalismo contrastavano fermamente il principio che portava a «trasformare la tipologia delle lingue il greco e il latino» (Sapir, 1921, trad. it., p. 125). Gli autori più dichiaratamente strutturalisti fonderanno le proprie ricerche e analisi su alcune archetipi fondamentali: i) il mutamento ha una sua struttura intrinseca, e ogni struttura ha un suo mutamento; ii) ma il
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mutamento non è mai unilineare e, però, non per questo si svolge in una molteplicità infinita di possibili direzioni; iii) poiché alla sua base vi è una scelta (Jakobson, 1963, trad. it. pp. 96-97) o una selezione inconscia (Sapir, 1921; tr. it., p. 155) o una concatenazione che si verifica, inevitabilmente, entro una gamma di possibilità limitate, alcune delle quali si realizzano come tendenze principali, maggioritarie, dominanti; iv) tra i mutamenti strutturali e quindi tra le strutture si possono trovare, dopo lungo scavo, paralleli e similitudini indipendentemente da effettive connessioni e influenze storiche. Si ha l'impressione che in questo modo Sapir abbia contribuito ad aprire la strada a una concezione strutturalistica del mutamento. Per Sapir rappresenta infatti «soltanto una mezza verità» l'asserzione secondo cui «ogni lingua ha la sua storia unica, e quindi una struttura unica», peculiare ed esclusiva (Sapir, 1921, trad. it., p. 123). Anche qui il concetto di struttura travalica i confini delle individualità storiche, per cui la spiegazione, di ordine strutturale, coinvolge una molteplicità di sistemi che non necessariamente sono tra loro storicamente connessi. Con una visione del genere, la storia non è più un explanans, ma un explanandum. È secondo questo schema di ragionamento che Murdock (1949, trad. it., p. 158) applicava alla struttura sociale ciò che la linguistica strutturalista evinceva dallo studio del linguaggio in virtù delle regolazioni interne che via ce come teoria fuori dalla logica interna di un singolo sistema e inserirla in una visione teorica potenzialmente universale (Whiting, 1986). Le forme sociali in cui di volta in volta si trasforma una struttura corrispondono o a forme etnograficamente accertate (in un qualsiasi contesto sociale) oppure a possibilità strutturali ancora non riscontrate, ma molto probabilmente esistenti da qualche parte. Lo strutturalismo di Murdock è già una versione più avanzata e flessibile di quella riduttiva e rigida di Radcliffe-Brown, la cui interpretazione delle strutture sociali australiane non consente di collocarle nello stesso schema di riferimento degli altri sistemi sociali che ci sono nel mondo, finendo per rappresentare nelle parole di Murdock soltanto un «groviglio di cose apparentemente bizzarre, uniche e scientificamente inesplicabili» (Murdock, 1949, trad. it., p. 52). È con Claude Lévi-Strauss che lo strutturalismo diviene un programma antropologico per la piena comprensione degli universali umani. La posizione
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chiara: «non è la comparazione a fondare la generalizzazione, ma il contrario» (Lévi-Strauss, 1958, trad. it., p. 33). Per Lévi-Strauss le strutture rappresentano le relazioni che collegano forme e istituzioni collocate nei più svariati ambiti sociali e culturali. Le strutture non sono accidenti storici, ma insiemi di relazioni consolidate che connettono logicamente e qualunque sistema (economico, di parentela, cosmologico, rappresentazionale) ha una propria struttura, ma non è essa il suo principio individuante. Dunque, non è il sistema culturale specifico a possedere una propria struttura interna; viceversa, il sistema specifico appartiene alla struttura, in altre parole è una delle possibilità strutturali, una variazione tra altre. Ciò non implica negare la coesione interna di un sistema locale. Esso può essere coeso e coerente; resta il fatto che costituisce uno dei tanti sviluppi possibili delle trasversalità tra le strutture che lo attraversano. La «coesione, inaccessibile all'osservazione di un sistema isolato, si rivela nello studio delle trasformazioni, grazie alle quali ritroviamo proprietà similari in sistemi in apparenza differenti» (Lévi-Strauss, 1952, trad. it., p. 66). Le trasformazioni dello strutturalismo non coincidono, se non in modo del tutto secondario, con i mutamenti particolari di un sistema locale (la storia delle forme che via via assume nel tempo). Le lingue e le terminologie di parentela rappresenteranno gli ambiti culturali che più di altri si offrono al tentativo sistematico di Lévi-Strauss di produrre uno scavo antropologico alla ricerca dei caratteri strutturali. Il grande influsso degli strutturalismi nelle scienze sociali va colto soprattutto nel concetto di «trasformazione» (Valeri, 1970). Il principio ispiratore di Lévi-Strauss è che «i sistemi non debbono essere trattati come oggetti isolati, i cui caratteri particolari sarebbero altrettanti attributi indissolubilmente uniti a ciascuno» (Lévi-Strauss, 1949, trad. it., p. 228). Scoprire due sistemi identici nel corso della comparazione etnografica, lascerebbe inalterato il problema della spiegazione, che invece dovrebbe trovare sfogo nella ricerca delle regole di trasformazione che consentono di passare da un sistema a un altro. Non si carpisce pienamente il funzionamento di un sistema fintanto che non si colgono differenze e opposizioni tra sistemi collegandole poi ai nessi trasformativi. Così, per l'antropologia di Lévi-Strauss, il compito non è svelare chi è l'uomo, bensì di
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ricostruire «il sistema delle differenze» di cui è fatta l'umanità (Lévi-Strauss, 1962, trad. it., p. 271). Nel campo strettamente sociologico gli anni Cinquanta e Sessanta vedono la contaminazione proveniente dallo strutturalismo discipline umane, individualizzanti e storicizzanti, i metodi a-scientifici a favore di spinte e criteri di tipo generalizzante, sincronico A volte si tratta di posizioni supportate da un formalismo matematizzante che consente di isolare, dietro la variegata e mutevole apparenza dei fenomeni, configurazioni astratte costanti, regole di formazione e di trasformazione di pochi elementi semplici di base. Sul piano metodologico lo strutturalismo sociologico opera però una forte selezione: non tutto si può collegare mediante i gruppi di trasformazione. Molti fenomeni oppongono resistenza a un trattamento strutturalistico, e quelli che vengono sottoposti all'analisi strutturale, subiscono una specie di depurazione, di distillazione logica, così da perdere l'opacità determinata dal contesto particolare in cui sono inseriti. La formalizzazione procede a filtrare il particolare, a catalogarlo per tipizzarlo e la perdita di aspetti eccessivamente specifici viene considerato un prezzo da pagare tutto sommato sostenibile, poiché ampiamente controbilanciato dalla formulazione di leggi o connessioni trasversali. Già nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta quando la sostenibilità delle teorie formali scaturenti dallo strutturalismo mostrava di avere una tenuta non così salda, si assiste ad un ripiegamento e ad un ridimensionamento delle ambizioni universalistiche. Gli universali si configurano «sempre come strutture aperte»: non essendo mai definitive e concluse, «lasceranno sempre lo spazio per nuove definizioni», le quali reagiranno sulle strutture (ossia sui gruppi di trasformazioni) precedentemente acquisite con modifiche, integrazioni, sviluppi. Questo strutturalismo è ormai disposto ad ammettere tanto la parzialità dei suoi attraversamenti, quanto la provvisorietà e la modificabilità delle sue strutture. Si tratta di un paradigma ormai incline a riconoscere i propri limiti, a indicare i confini entro cui può legittimamente spingersi, e quindi a riconoscere, nello stesso tempo, i tipi di fenomeni o aspetti che tendono a sfuggire alla sua presa, e che coincidono in buona misura con gli scarti che le nette selezioni dei suoi procedimenti hanno prodotto. Sebbene le analisi marxiste utilizzassero un altro concetto di struttura, riferito non tanto ai rapporti tra le differenze e le regolarità osservabili, ma 49
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quale assunto del predominio casualistico dei rapporti di produzione nei mutamenti radicali della storia umana, non sono mancati i tentativi di operare una fusione con lo strutturalismo di derivazione antropologica, di cui si fecero portavoce alcuni antropologi degli anni Settanta, attraverso il concetto di «surdeterminazione» introdotto da Luis Althusser (1965). In effetti, nel canone del materialismo storico si parla di «struttura economica» e il metodo de Il capitale è strutturalistico, in quanto mira a costruire un modello teorico di natura formale-sistematica, secondo il metodo dell'astrazione scientifica (Luporini, 1974, pp. 362-372). Tuttavia, Althusser interpretare come orientato verso un riduzionismo che riconduce ogni elemento a una dimensione economica. Secondo Althusser, la teoria marxiana non rappresenta un rovesciamento della dialettica hegeliana, una struttura diversa rispetto a quella proposta da Hegel. Althusser introduce il concetto di «surdeterminazione» per riferirsi al fatto che a determinare un fenomeno vi o della rivoluzione allo studio della realtà sociale in generale: se nella spiegazione intervengono diverse cause esplicative, i sistemi sociali non si possono analizzare solo in base alle contraddizioni pure della struttura economica, bensì ricorrendo un insieme di cause che vanno ricercate in tutte le sfere della realtà e non solo in quelle economiche. Fu in particolare Claude Meillassoux (1960; 1975) ad avvicinare analisi delle società primitive, Meillassoux metteva in discussione il marxismo
piccole società assolve alla funzione fondamentale della riproduzione ciclica donne sono fondamentali in quanto genitrici e i figli in quanto futuri produttori. In un contesto di scarsità di risorse, la riproduzione garantisce la sopravvivenza e i rapporti di parentela trascurati sia da Marx, in quanto attinenti alla sfera della famiglia, un elemento della sovrastruttura, sia da Lévi-Strauss, in quanto visti nella sola ottica della scelta del partner, ovvero
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dello scambio o del conflitto tra sistemi culturali diversi hanno il compito vitale di assicurare la riproduzione delle condizioni della produzione. Posso ora riassumere i diversi paradigmi della struttura in riferimento alla contrapposizione che questi hanno espresso nei confronti delle teorie
spiegazione del comportamento umano. Nelle ottiche strutturaliste vincoli e alle opportunità derivanti dalle strutture sociali in cui è calato. Esse altro non sono che il reticolo in cui si collocano i percorsi soggettivi. Naturalmente ciò non implica che il soggetto non sia libero di compiere scelte autonome, ma persino tali scelte altro non sono che la combinazione specifica di ruoli, percorsi e influenze derivanti dalle istituzioni sociali. Anche strutturalismo, le teorie sociologiche che rimandano al ruolo delle istituzioni sociali fanno sempre riferimento a qualche forza che agisce alle spalle degli individui (sovente a loro insaputa), spingendoli a determinate proiezioni di comportamento. Le teorie funzionalistiche che anticipano le formalizzazioni dello strutturalismo hanno del resto anch'esse fatto affidamento ad una in volta esaminati rimandano ad un sistema in cui risultano più o meno integrati tra loro. Oltre a fornire una o più risposte a bisogni di carattere sociale, tali proprietà generali. La teoria dei ruoli, ad esempio, spiega il comportamento di un attore sociale in funzione della posizione che egli riveste e del potere sociale. In tale prospettiva, i ruoli non sarebbero altro che la traduzione operativa dei vincoli, delle opportunità e delle norme che discendono dalle strutture sociali. Appurando le caratteristiche di un determinato ruolo, con le relative competenze, i diritti e i doveri che lo definiscono, siamo così in grado di intravedere non solo la gamma dei comportamenti possibili, ma anche il collegamento tra questi comportamenti e le strutture che li rendono possibili. Per tale ragione il paradigma della struttura si contrappone a quelle posizioni sociologich divenute secondarie durante i decenni della massima influenza degli strutturalismi, ovvero più o meno dagli anni Quaranta agli anni Sessanta del Novecento. 51
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4 American dream, Guerra Fredda e conformismo
richiesto uno sviluppo senza precedenti del sentimento di unità nazionale, con il quale superare le posizioni politicizzate che avevano profondamente diviso la società americana durante la fase tarda del New Deal. Numerosi scienziati sociali lavorarono con impegno e trasporto a questa unificazione, riuniti in organizzazioni come il Committee for National Morale una struttura privata fondata nel giugno 1940 e dominata da intellettuali che , Ruth Benedict, Gregory Bateson, Erich Fromm, Gordon Allport e Robert Yerkes. Costoro spinsero per accelerar dettero da fare affinché lo sforzo fosse guidato anche dalla scienza sociale più avanzata (Herman, 1995). Diverse opere tra cui certamente An American Dilemma di Gunnar Myrdal (1944) contribuirono a far emergere il «carattere americano» o il «credo americano» come grandi concetti unificanti. Ma questa percezione di unità che si provò a rappresentare non corrispondeva in modo preciso alla realtà. Ricerche di decenni successivi dimostrarono come durante lo sforzo bellico americano il conflitto sociale si disorganizzazione interna crearono diversi focolai di forte insoddisfazione, di cui il caos e spesso la protesta
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Gli anni 1940-1955 videro gli Stati Uniti riemergere dalla catastrofe economica della Grande Depressione, trasformandosi in pochi anni in una società ad altissima produttività, con tassi di piena occupazione, un livello di trasformazione era stato un potere statale centralizzato storicamente senza precedenti che, anche dopo la smobilitazione postbellica, aveva continuato ad utilizzare molti degli strumenti del precedente New Deal (Abbott, Sparrow, 2007). La crescita delle capacità di consumo a sua volta causa ed effetto del di massa a seg espansione dei sobborghi e del ciclo economico generale contribuì a generare American dream, ovvero la disponibilità di opportunità e libertà illimitate. In realtà la prosperità non era così estesa come il sogno americano prometteva. Durante la presidenza Eisenhower, alcune sacche di povertà profonda continuavano ad esistere in diversi Stati. La retorica del sogno era in realtà abbastanza distante dalla realtà di grandi fette della popolazione, come gli afro-americani, che continuarono a soffrire di discriminazioni sociali, economiche e politiche. Ciononostante, i progressi nella qualità della vita e nelle disponibilità economiche delle classi medie furono evidenti e Cinquanta vi fu una combinazione di nuovi fattori di ordine culturale, economico e politico. Lo sviluppo tecnologico della produzione di massa favorì una rapida adesione centri caotici delle aree urbane, in case ampie, spaziose e unifamiliari, dotate di elettrodomestici e strumenti che la standardizzazione e miniaturizzazione dei processi industriali aveva reso adatti agli spazi domestici: dal tostapane pinte dagli enormi investimenti del precedente periodo bellico, poté sfruttare la riconversione legata al mercato della crescente domanda di mobilità che cominciava a trasformare la vita quotidiana, rendendola sempre più centrata nti dei sobborghi residenziali giunsero a rappresentare fino ad un terzo della popolazione totale nel 1960. Anche grazie al baby boom, si determinò un circolo virtuoso basato su: produzione
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buy mood americano spostò le leve della crescita economica dalla necessità di grandi investimenti su larga-scala alla possibilità di alimentare una produzione trainata dalla domanda. Le tecniche, gli strumenti e le strategie pubblicitarie, nonché la loro capacità di raggiungere un pubblico sempre più vasto, si avvicinarono il più possibile alla concezione del marketing come scienza esatta. I due decenni a seguire dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale furono segnati da una politica di stampo keynesiano, basata su interventi statali, investimenti pubblici, accrescimento delle infrastrutture civili e ampliamento del budget stimolo a della spesa pubblica per investimenti e ricerca militare («keynesismo militare») (Mintz, Hicks, 1984). Criteri simili, se non anco alimentarono il nascente welfare e costituirono il compromesso economico tra le forze politiche progressiste e quelle conservatrici. Contribuirono inoltre ad affinare le tecniche statistiche in campo economico. Dal 1945 gli Stati Uniti continuarono a sviluppare un'intensa denominatore comune degli anni Cinquanta. Prese il via la corsa agli armamenti che portò in breve tempo le due superpotenze a disporre di numerose testate nucleari. La minaccia di una devastante guerra nucleare iniziò a pesare sul mondo. Tale pressione fu depotenziata nel corso degli anni alla competizione tecnologica, scientifica ed economica (sebbene non mancarono momenti e situazioni che fecero temere per il peggio, come ad esempio lo spiegamento di missili nucleari sovietici a Cuba nel 1962, la Guerra in Corea e poi quella in Vietnam). La preoccupazione dominante preoccupazione che nel contesto interno americano fu sfruttata anche con secondi fini: ammansire eventuali focolai di dissenso sociale, mantenere il clima di mobilitazione che aveva caratterizzato il periodo bellico, giustificare il pesante sostegno finanziario alle spese militari in tempo di pace, legittimare, quando necessario, gli interventi armati in quei punti del mondo
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dimostrazione del benessere raggiunto in campo socio-economico e alla sfera culturale, in un crescendo che finì per inglobare praticamente tutti i paesi del mondo, chiamati a prendere una posizione netta in termini filoamericani o filosovietici, riguardo alle scelte politiche, economiche e al modello di riferimento. In seguito alla vittoria comunista in Cina nel 1949 e all'inizio della realistico, con tutta una produzione culturale che tendeva ad esagerare la sovietica in territorio americano. A partire dal 1947, elementi della sinistra liberale furono sottoposti a forti pressioni, mentre altri subirono l'umiliazione di dover denunciare i loro orientamenti e fornire alla Commissione Parlamentare per le Attività Antiamericane (HUAC) nomi di secondo le accuse considerata cruciale nella potenziale diffusione di un consenso di sinistra (o proprio perché doveva concretamente contribuire ad American dream), fu
Communist Infiltration Motion Picture Industry): diversi registi, sceneggiatori e attori furono costretti a lasciare il settore, altri invitati a lavorare per l'Anti-communist Film, come Howard Hughes con il suo Ho sposato un comunista del 1949. Il maccartismo dal nome del Senatore repubblicano Joseph McCarthy che fu il volto più noto di questo anticomunismo tradottosi in una feroce e spesso ingenua caccia alle streghe coagulò le crescenti paure di «influenze comuniste» sulle istituzioni statunitensi. La caccia alla strega fu alimentata dalla scoperta di alcuni casi di spionaggio Russo, dalla tensione che andava accumulandosi in Europa occidentale con la crescita del consenso raccolto dai grandi partiti nazionali di sinistra e in Europa Orientale dove l'egemonia sovietica divenne schiacciante, dal successo della rivoluzione cinese (1949) e dalla Guerra di Corea (1950-1953). Problemi sorsero anche dal potenziale rafforzamento dei sindacati di settore a Hollywood e dalla foga con cui alcuni gruppi conservatori e di destra intendevano smantellare i programmi più . Sebbene la fioritura della ricerca nel campo delle scienze sociali continuasse naturalmente come se nulla fosse, il clima di crescente sospetto anticomunista culminato nel maccartismo fece sì che alcuni aspetti della
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auspicava nel 1946, cominciassero ad essere osteggiate. Ciò contribuì ad un allontanamento della disciplina da qualsiasi valutazione critica della condizione sociale e culturale degli Stati Uniti che potesse fornire sospetti di una qualche vicinanza alle posizioni marxiste o semplicemente radicali. Il caso di Samuel Stouffer (e Parsons) resta paradigmatico. Stouffer, un professore di sociologia la cui tradizionale posizione repubblicana, unita ad una lunga carriera al servizio di varie agenzie governative avrebbero dovuto tenere al riparo di qualsiasi sospetto, fu vittima d ricevé una lettera da un Talcott Parsons probabilmente è il leader di un gruppo interno di simpatizzanti comunisti a Harvard». Il vecchio Dipartimento di Sociologia di Harvard, di cui era direttore Sorokin un conservatore e di cui facevano parte «loyal Americans of good character», era stato pochi anni prima allargato e trasformato in un Dipartimento di Social Relations questo passaggio, il Dipartimento era diventato un luogo di sinistra «per 52 Hoover diede febbraio del 1954, Stouffer, in una lettera indirizzata a Parsons, che era momentaneamente in Inghilterra, lo informava che gli era stato negato l'accesso a documenti autorità era che egli aveva legami di amicizia con comunisti, tra cui appunto Parsons4 affidavit in difesa di Stouffer, in cui naturalmente cercò di difendere, oltre che il collega, anche sé stesso: «la diffamazione è talmente scoraggiante che non riesco a capire come una persona ragionevole possa giungere alla conclusione che io sia un membro del Partito comunista o che lo sia mai stato» (Parsons, 1954). Le calunnie contro Parsons gli impedirono di partecipare ad una conferenza dell'UNESCO e solo nel gennaio 1955 tutte le accuse e i sospetti vennero a cadere. Tuttavia, la reputazione scientifica di Stouffer, la sua posizione al Dipartimento di Social Relations ad Harvard e il riconoscimento quasi universale che era stato accordato alla sua ricerca The American Soldier del 4 Lettera di Samuel Stouffer a Talcott Parsons, 5 febbraio 1954. Talcott Parsons Collection, Harvard University Archives.
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opportunamente celato i problemi sociali incontrati nel corso di quella ricerca (il libro aveva opportunamente sorvolato sui potenziali conflitti di classe, sugli antagonismi razziali e sulle lotte locali di potere). Tra gli antropologi ci fu chi cooperò attivamente alla caccia alle streghe: George Murdock, ad esempio, aveva segretamente informato Hoover della
American Association of Anthropology. Alla base vi erano motivi personali: a Murdock era particolarmente invisa l'antropologia culturale legata al relativismo di Franz Boas che egli considerava allineato al pensiero comunista. Per gran parte degli anni Cinquanta e Sessanta, la CIA e l'FBI godettero di stretti rapporti con le università americane e con quella di Yale in particolare. Il ruolo di antropologo si prestava bene alle coperture nei paesi del Terzo Mondo, in cui resto la forte concorrenza con l'Unione Sovietica per conquistare i cuori e le menti del Terzo Mondo comportò altresì che gli sforzi degli apparati di ricerca americani incoraggiassero programmi contro-rivoluzionari come il progetto Camelot, a quali partecipavano vari scienziati sociali, purché fossero in grado di fornire indicazioni precise e utili per la dottrina 5 (Steinmetz, 2004a). La seconda metà degli anni Cinquanta vide lo spegnersi del maccartismo6, ma non certo il timore nei confronti della superpotenza sovietica, timore che gradualmente si tra sociologia americana, depotenziandone la carica critica che pure aveva mostrato nei decenni precedenti, quello eco 5 Il progetto Camelot fu un programma di ricerche finalizzato a rafforzare le strategie con coordinato dallo Special Operations Research Office presso l'American University e riuniva un team di psicologi, sociologi, antropologi ed economisti che avevano l
scaturivano o potessero scaturire movimenti rivoluzionari. In particolare, scopo operativo del ence militare americana di prevedere e influenzare gli sviluppi politici nei paesi stranieri. 6 Nel 1954, una commissione del Senato votò una mozione di censura nei confronti del senatore Joseph McCarthy, poiché questi si era ormai evidentemente spinto oltre ogni limite, portando avanti la sua campagna perfino contro gli alti gradi dell'esercito, accusati di simpatie comuniste (Herman, 1995).
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altrettanto marcata nel forgiare le condizioni per un riallineamento disciplinare di tipo epistemico. Esiste abbastanza consenso attorno al fatto che a partire dagli anni Trenta fino alla fine degli anni Sessanta, la sociologia americana (e quindi quella internazionale nella seconda parte di questo periodo) sia andata incontro ad un processo che trasformò la disciplina da una condizione di frammentazione epistemologica ad un recinto gradualmente più egemonizzato al suo interno (Steinmetz, 2004a; Borch, 2012; Smith, 2014). La storia dello scientismo nella sociologia e nelle discipline vicine sottolinea l'enorme afflusso di finanziamenti federali durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, afflusso che aveva già da tempo esercitato un forte impatto sugli orientamenti epistemologici (Turner, Turner, 1990; Kleinman, 1995). Gli stili sociologici fortemente orientati a servire le esigenze di ricerca dei rati statali come erano parte di una più ampia conformazione che emerse nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale: il fordismo, o se si vuole il «fordismo sociale», una modalità di intervento e di regolazione che considerava la realtà ontologica manipolare e organizzare con una certa probabilità di successo. Tale oggetto era ciò su cui la sociologia andava sempre più affermando la propria giurisdizione (Steinmetz, 2005a). I modelli sociali su cui si fondavano le teorie della regolazione e su cui si basava anche il fordismo hanno svolto un ruolo altrettanto importante nel rendere tra le cerchie accademiche di varie discipline la sociologia un sapere in procinto di farsi quanto primo scientifico. Il modello fordista attraverso cui molti aspetti della vita sociale nel mondo capitalista avanzato prendevano occidentale accoglieva i benefici della modernizzazione americana, collimava con gli vuol dire che i sociologi americani e poi quelli europei producessero descrizioni e analisi della società fordista che, semmai, è stata concettualizzata e ricostruita nel dettaglio soltanto ex-post, quando ormai era scomparsa. Il mestiere del sociologo consisteva piuttosto nell'osservare e interpretare il sociale: tuttavia le nuove condizioni del sociale non si riflettevano in modo nitido nella scrittura sociologica del periodo, tanto che per molti ricercatori esisteva scarsa consapevolezza dei cambiamenti favoriti dal fordismo. Dal secondo dopoguerra, la realtà sociale è diventata più ordinata, o meglio, 59
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veniva percepita come più ordinata del solito e destinata a diventarlo sempre più, tanto è che era presentata e descritta con tropismi afferenti alla stabilità, familiare e plausibile l'aspettativa positivista e modernista. Soprattutto ratiche sociali potessero essere incluse in corpi teorici e leggi di valenza universale. Allo sguardo dei sociologi e degli psicologi sociali gli attori sembravano sempre più atomizzati e intercambiabili, perdendo ogni peculiarità culturale distintiva e prestandosi quindi a modelli standardizzati di studio della soggettività: behaviorismo, teoria della scelta razionale e versioni positiviste della psicoanalisi (Steinmetz, 2005a). Poiché le pratiche e i comportamenti sociali sembravano iscriversi in regolarità, ripetizione, schema, diventava plausibile anche spingersi a altre parole, per motivi storicamente contingenti, la realtà sociale si configurava in modo da prestarsi alle illusioni della cumulabilità delle teorie sociologiche. Il fordismo sociale era portatore di diverse caratteristiche che prospettiva. Il ruolo della scienza (compresa la scienza sociale) nella politica statale americana nel giro di appena due decenni gli anni Cinquanta e Sessanta si era accresciuto, non solo sul fronte delle diverse tecnologie a sostegno degli sforzi pubblici rivolti al progresso, ma anche sul fronte eni di interesse nazionale: si pensi agli strumenti della statistica, alle teorie economiche, alla comunicazione, agli esperimenti di gruppo della psicologia e alle stesse ricerche sociali. Il ruolo dello Stato si implementare un insieme di politiche sociali e fiscali tendenti ad allievare gli urti e le contraddizioni nel processo di grande accumulazione capitalistica: gli e amministrare i delle situazioni socio-economiche su cui tali programmi avrebbero dovuto intervenire. Se a questo sviluppo contribuivano parimenti le inchieste e le ricerche commissionate da agenzie private o da grandi apparati industriali, il scientifica e politica americana, sia a livello interno che estero, si irrobustì nel dopoguerra e, per un effetto persino paradossale, contribuì a consolidare il
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principio ideale che la scienza dovesse essere «priva di qualsiasi riferimento ai valori» (Mirowski, 2005). Fu così che la dimensione storica e diacronica in sociologia cominciò a perdere la rilevanza di cui aveva goduto nei decenni precedenti. La stabilizzazione economica attraverso la gestione della domanda, l'omogeneizzazione dei gusti dei consumatori, la pacificazione delle relazioni industriali e un costante aumento degli standard di vita, con salari legati al costo della vita grazie ad un sistema introdotto per la prima volta nella contrattazione del 1950 tra General Motors e United Auto Workers (definita da Daniel Bell 1995) divennero i perni del fordismo sociale. Quando gli esperti delle scienze sociali si ritrovavano a fare i conti con i modelli sociali che trasparivano da questo mondo, la realtà sembrava ratificare il loro approccio teso ad individuare regolarità e meccanismi causali di tipo lineare. replicare su scala nazionale i modelli di analisi usati in aree, gruppi sociali e classi differenti, aumentandone la credibilità su un piano universale. Qualsiasi riferimento all'approccio interpretativo e semiotico alla cultura venne in pratica estromesso. Ne conseguiva che il regime spaziale del geografiche. La maggior parte delle pratiche sociali, comprese i rapporti, gli multipli di scala delle grandezze geografiche, ma erano piuttosto inseriti -Nazione. Ogni qual volta si prendeva lo Stato-Nazione come unità di analisi, le differenze specifiche interne tendevano a scomparire o al massimo a rappresentare le eccezioni rispetto al quadro generale delle regolarità (Brenner, 1998). Le forze che plasmavano i rapporti sociali, avevano una carica di omogeneizzazione dello spazio nazionale con un forte potere seduttivo sullo sguardo dei sociologi. Infine, il ruolo emergente della politica estera degli Stati Uniti costituiva un altro aspetto caratteristico del sostegno indiretto che il fordismo offriva
Stati Uniti uscirono dalla Seconda Guerra Mondiale non soltanto da vincitori quasi assoluti, ma soprattutto da potenza egemone a livello globale. Il ventennio successivo alla fine della guerra servì proprio a ribadire questa 61
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posizione di egemonia, sotto forma di potere economico e culturale di riferimento: l'egemonia americana fu dunque orientata verso la trasformazione del mondo in un mercato capitalista aperto, attraverso una simbolici, il dominio ver colonizzazione diretta e senza applicare il discrimine delle differenze razziali e britannico (Chatterjee, 1993). Attraverso la promozione ideologica, economica e militare della convergenza delle periferie del mondo verso American way of life (Louis, Robinson, 1993; Bergesen, Schoenberg, 1980), si creò un legame diretto tra le immagini e le rappresentazioni interne della società americana idealizzata da un lato e il benchmarking della domestico americano il fordismo sociale rappresentava così una sorta di garanzia delle capacità espansive del libero mercato nello spazio
soprattutto quando si trattava di raccogliere dati e produrre analisi sui fattori allinearsi alle dinamiche di sviluppo per raggiungere il Secondo Mondo e poi il Primo Mondo.
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5 Positivismo metodologico
Il termine positivismo ha almeno t teorico di Auguste Comte e Emile Durkheim alla spiegazione
Vienna. Può comprendere un insieme di pratiche di ricerca sociologica che si presumono essere scientifiche (Steinmetz, 2005b; Riley, 2007). È a questo terzo tipo di positivismo che mi riferirò nelle pagine seguenti. Si tratta di una questione relativa alla conoscenza sociologica, al modo di concepire la realtà sociale e ad un modo di rappresentarsi la scienza. come insieme di leggi in grado di coprire la realtà sociale che viene analizzata. Vale con oggetti di studio che sono empiricamente osservabili. Terzo, il positivismo metodologico può essere associato con una propria sociologica è indipendente e totalmente separata dalla realtà che intende descrivere (Steinmetz 2005b; 2005c). In una delle migliori analisi storiche sulle metodologie sociologiche in voga fino alla fine degli anni Cinquanta, Hinkle e Hinkle (1954) hanno individuato per il periodo post-bellico un campo sempre più focalizzato su una concezione della conoscenza sociologica come progetto volto a scovare le leggi del comportamento in associazione alla netta «preferenza per il concreto lavoro empirico». Il capitale di reputazione che la disciplina guadagnava in generale era direttamente 63
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proporzionale allo spazio che il positivismo metodologico riusciva a crearsi al suo interno. Un caso emblematico da cui può trarsi una prova affaire di Robert Bellah, fortemente osteggiato da matematici, fisici, chimici e altri esponenti delle scienze dure (più un piccolo, ma agguerrito manipolo di storici), in parlerò più avanti. Mi preme ora proporre una descrizione più Sebbene i sociologi ascrivibili al positivismo metodologico negli anni restavano positivisti: i) era possibile giungere a leggi generali e empiriche o almeno a «postulati di regolarità nella sequenza degli eventi» (Shils, 1961, p.1419); ii) era corretto astrarre analiticamente il sistema sociale come sistema chiuso e tale chiusura era una condizione preliminare per «determinare le regolarità» (Bhaskar, 1975, p. 978); iii) era auspicabile dotarsi di strumenti di previsione; iv) le spiegazioni diventavano scientificamente fondate se sopravvivevano alla prova di falsificazione (secondo la riformulazione popperiana); v) si dovevano privilegiare le vi) ci si doveva persuadere che le modalità matematiche e statistiche di analisi e rappresentazione fossero di gran lunga superiori a tutte le forme alternative di descrizione della realtà (interpretative, testuali, letterarie, ermeneutiche); vii) era utile, proficuo, vantaggioso aderire alla visione idealizzata delle scienze naturali come modello per le scienze umane. Diversi autori (Steinmetz, 2005a; 2005d; Sewell, 2005) hanno sostenuto che il positivismo metodologico sia stato dominante in storia e sociologia soprattutto nel periodo che va dal 1945 fino ai primi anni Settanta. Il motivo principale di questo dominio risiede nel collegamento con il fordismo sociale, ovvero con il un periodo storico caratterizzato da una gestione keynesiana della domanda aggregata, politiche di piena occupazione, sviluppo ed estensione delle istituzioni di welfare state, espansione di forme altamente burocratizzate di public and private management (Sewell, 2005:). Steinmetz (2005c) ha brillantemente descritto cinque tipi di legame storico tra fordismo sociale e positivismo metodologico: un legame di tipo politico lo stato militare-industriale; uno di tipo economico, il 64
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keynesismo; un collegamento culturale lo sviluppo della cultura dei consumi di massa; un legame spaziale StatoIn effetti il fordismo sociale contribuiva indirettamente alla plausibilità del positivismo, poiché, sfruttando politiche fiscali, spesa pubblica e grandi investimenti infrastrutturali e, quindi la stabilità dei redditi e delle condizioni socio-economiche, rimandava le possibili crisi economiche collegate alla ciclicità del capitalismo ed evitava ad un numero crescente di persone di subire cambiamenti troppo radicali nel loro ciclo di vita. Queste condizioni, che hanno riguardato soprattutto i lavoratori industriali sindacalizzati e le classi di reddito medio anche in Europa occidentale, resero lo scenario americano adatto a considerare modelli di consumo, stili di vita, tendenze comportamentali, attitudini e pratiche sociali come catalogabili, tipizzabili secondo trend e rappresentazioni statistiche e esperimenti di analisi psicologica o sociologica rimodulabili. Se il positivismo metodologico emerse con forza entro la fine degli anni Cinquanta e non prima è perché, le forze intellettuali, finanziarie e politiche esistenti prima del 1945 in seno alla sociologia erano ora combinate con l'effetto ideologico del fordismo sociale: i poteri statali che alimentavano il senso di sicurezza economica facevano affidamento sulle competenze sociologiche più di quanto fosse avvenuto nei decenni precedenti e ne scaturiva una anche crescita notevole dei finanziamenti economici alla ricerca sociologica. Ad esempio, grazie alla sua struttura e organizzazione molto innovativa e formalmente interdisciplinare, il
Department of Social Relations di Harvard in particolare quella della Carnegie Corporation , che finanziò lautamente tutti gli sforzi di Parsons e collaboratori di giungere ad una Quaranta stava per nascere la National Science Foundation , il Social
Science Research Council farvi rientrare anche le scienze sociali (Klausner, 1986; Solovey, 2004). Una prima richiesta di adesione redatta da Louis Wirth non ebbe successo e tocco allora a Parsons il compito di scrivere una serie di dossier sulle scienze sociali americane da inviare al Congresso degli Stati
National Science Foundation .
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La tendenza al positivismo metodologico aveva il proprio perno in una costante spinta a trovare leggi fondate sul calcolo probabilistico con cui spiegare i diversi fenomeni sociali. Lo studio di caso come genere sociologico era quindi inaccettabile, poiché non si poteva generalizzare a partire da uno o più studi caso (Steinmetz, 2004b). Ovviamente si era consapevoli con grande senso fideistico sulle leggi probabilistiche, aprendo uno spazio enorme ai contributi che sarebbero giunti dalla statistica delle probabilità. Qui furono di grande aiuto gli statistici che lavoravano nelle scienze sociali: potevano definire la specifica realtà sociale come una dimensione in cui i meccanismi generali di causapercorso legati al tempo e allo spazio. Allo stesso modo, il concetto di path dependency che nacque proprio in quegli anni tentava di collegare tra loro le eterogeneità della storia di un contesto, ordinandole matematicamente in
le spiegazioni scientifiche devono riuscire a collegare eventi oggettivamente osservabili. Per le scienze sociali, questa premessa significava che i propri oggetti di analisi potevano essere trattati come fatti materiali in sé, come se la loro essenza fosse del tutto indipendente da ciò che le persone pensano di tali fatti. Significava anche che i fatti sociali, come quelli naturali, potessero essere condotti verso «leggi naturali invariabili», indipendenti dal tempo e dal luogo, cioè nomotetiche. L'implicazione specificamente metodologica di questo scientismo fu che la sociologia sarebbe dovuta diventare soprattutto quantitativa e sperimentale privilegiando metodi e strumentazioni statistiche, come lo erano state da sempre le scienze naturali, e avrebbe dovuto escludere il più possibile indicazioni, valutazioni e giudizi di carattere valoriale. La triade Parsons, Merton, Lazarsfelfd costituì un riferimento latente, ma incisivo di una sorta di banalizzazione teorica che guidava con forza le numerose ricerche sociali condotte con metodi quantitativi (Owens, 2010). Il Columbia Bureau of Applied Social Research (BASR), costituito nel 1943 sotto la direzione di Lazarsfeld, divenne presto il riferimento dominante della ricerca sociologica statisticamente orientata che ormai avrebbe operato grazie ad un grande prestigio e ad una spiccata indipendenza. Lazarsfeld (1951) sosteneva che il ricercatore coinvolto nella creazione di concetti chiave dovesse subito dare vita a «categorie piuttosto concrete», prima ancora di 66
POSITIVISMO METODOLOGICO
formulare gli interrogativi di ricerca. Le dimensioni culturali, quelle della personalità e della soggettività dovevano essere trattate in maniera positivista,
dei dati delle variabili per poi sviluppare i metodi adatti a studiare i modelli di variazione nelle distribuzioni. La sua analisi delle strutture latenti (in seguito divenute più familiari con il nome di latent class models) ha migliorato sensibilmente le possibilità di inferenza dai dati, superando i metodi che tendevano semplicemente a derivare i valori medi delle caratteristiche di l'uso sempre più sofisticato delle stime di probabilità si trasformò velocemente in una spiegazione sociologica con attribuzione causale. Negli anni Settanta, i modelli probabilistici si estesero ancora, con lo sviluppo di nuovi tipi di analisi. Sociologi come Blalock (1969, 1974, 1991), Duncan (1961, 1966, 1975), Goodman (1970) e altri introdussero la regressione lineare e la sua estensione nella path analysis7, nei modelli di structural equation e di event history analysis. La forza di questa ondata non risiedeva tanto nel numero di sociologi, storici, psicologi, antropologi ed economisti che riusciva effettivamente a persuadere fosse stato fatto un sondaggio di quanti si dichiarassero aderenti a questa prospettiva generale, molto probabilmente una quota sostanziosa si sarebbe espressa negativamente che era in grado di emanare, ponendo nettamente in secondo piano il valore e la spendibilità delle metodologie e delle concezioni teoriche concorrenti. La fluency degli idiomi della sociologia come disciplina poteva finalmente spendere questo profitto agli occhi delle altre discipline, ponendosi come un campo ora apparentemente ben strutturato. Se negli anni Trenta la sociologia atlantica costituiva un campo frammentato, poco o per nulla omogeneo ed egemonizzato, a partire dal secondo dopoguerra la generale acquiescenza alle metodologie positiviste tra i due periodi non ha tanto a che fare con la disponibilità di idee e 7
Nei modelli di path analyses due o più variabili esogene sono utilizzate come correlate tra loro e con effetti diretti e indiretti su due o più variabili dipendenti o endogene. Nella maggior parte dei modelli di questo tipo, le variabili endogene sono influenzate anche da fattori esterni al modello, il cui influsso è calcolato attraverso i cosiddetti errori di misura. Utilizzando le stesse variabili, sono possibili modelli alternativi.
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STUDI CULTURALI E SCIENZE SOCIALI
procedure pertinenti a ciascuno dei due sistemi di pensiero tutte in parte già presenti anche alla fine del Diciannovesimo secolo. Piuttosto la novità fu l'efficacia con cui gli aderenti del positivismo metodologico erano ora in grado di difendere la propria posizione come indicatrice generale del capitale scientifico della disciplina intera. Naturalmente non era affatto tutto così piatto ed omogeneo: ad esempio il dipartimento di Sociologia di Berkeley, che nel 1964 era al vertice dei ranking accademici, aveva tra le sue fila autori come Erving Goffman, Neil Smelser, William Kornhauser, Reinhard Bendix che cercavano e adottavano stili, temi e metodologie sociologiche certamente non positiviste. Si potrebbe considerare questi autori come un gruppo non molto coeso di veri e propri a qualche pubblicazione collettanea come quella famosa curata da Irving Louis Horowitz (1964) in onore di Charles Wright Mills e ottimisticamente intitolata The New Sociology ciascuno di questi autori stava perseguendo un autonomo sviluppo di prospettive specifiche, nessuna delle quali in grado da sola di contrastare, almeno fino agli Settanta, lo strapotere del positivismo metodologico. quella basata su una teoria critica del sociale benché avesse prodotto da tempo analisi acutamente stringenti della società americana, del capitalismo, della società di massa, o del rapporto tra i media e la dimensione politica moderna, così come della cultura e della conoscenza nelle società industrialmente avanzate, per diversi anni stentò ad essere seguito negli ambienti accademici americani. Recuperando Dilthey e il Weber della «razionalità rispetto ai valori», i teorici di Francoforte insistevano sul principio che la comprensione progetto del positivismo metodologico, se perseguito senza un complemento critico che desse maggiore risalto al carattere distintivo degli esseri umani e all'importanza di comprendere l'azione, avrebbe inevitabilmente prodotto una dimensione tecnocratica e violenta dell'umanità. Alla nozione positivista della scienza come un sapere al di fuori della storia e libero da influenze
potesse facilmente degenere in uno strumento al servizio delle ideologie dominanti: la certezza della correttezza dei mezzi a giustificazione di dimostrato dai progetti autoritari di ingegneria sociale dei regimi che avevano 68
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portato al conflitto mondiale o di quelli ideologici che tenevano il mondo col fiato sospeso durante la Guerra Fredda. Tuttavia, si dovettero attendere gli anni dei primi movimenti di contestazione, quando gli scritti degli autori francofortesi cominciarono a circolare dentro e fuori i campus americani e poi dentro e fuori le università europee, per assistere ad un riequilibrio dei rapporti di forza tra le diverse impostazioni sociologiche. Gli scritti di Theodor Adorno (1950, 1990) contenevano le critiche più sofisticate del positivismo di quel periodo, ma non furono tradotti in inglese se non nel 1976. Quindi, se Shils agli inizi degli anni Sessanta poteva affermare che (1961) «il seme della sociologia tedesca è maturato soltanto ora che è stato trapiantato in America» è solo perché ignorava (o volutamente nascondeva) il fatto che i redattori della Rivista di sociologia tedesca (Zeitschrift) fossero tutti già rientrati in Germania per ricominciare, lì dove era nata, la sociologia critica. Herbert Marcuse, più giovane rispetto a coloro che avevano fondato la Scuola di Francoforte, e il cui dimensione restò a lungo un libro sconosciuto, aveva lavorato come analista di intelligence per l'esercito americano negli anni del conflitto e poi diretto la sezione centrale del Bureau of Intelligence Research. Quando ritornò finalmente all'insegnamento nel 1951, il suo percorso si sviluppò lungo i sentieri della filosofia piuttosto che nei dipartimenti sociologici.
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LA COMPLICATA VICENDA DELL EGEMONIA STRUTTURAL-FUNZIONALISTA
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Il positivismo metodologico non poteva non avere un qualche riferimento teorico generale che ne giustificasse il suo dif analisi e delle ricerche quantitative che andavano moltiplicandosi. Furono le impostazioni e le proposte teoriche di Talcott Parsons a colmare il vuoto, Egli aveva ripreso la prospettiva che tende ad analizzare la società come metaforicamente di qualsiasi «sistema sociale» si dovesse guardare alle modalità attraverso le quali le sue varie parti o istituzioni si integrano per conferire ad una determinata società una continuità nel tempo. Lo sviluppo del pensiero funzionalista si ritrovava originariamente -Brown e Malinowski, come abbiamo visto, avevano sottolineato la necessità di studiare la società (il primo) e la istituzioni e spiegare perché i suoi componenti si comportano in un determinato modo. Gli elementi sociali e culturali, come ad esempio le credenze ed i rituali religiosi, potevano essere spiegati solo mostrando in che modo sono collegati ad altre istituzioni sociali e culturali: le diverse parti di una società sono integrate in stretta relazione reciproca. Il funzionalismo concepiva le pratiche culturali e le istituzioni sociali come una funzione che
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risponde alle necessità di integrazione. Così il funzionalismo rientrava in una formulazione generale del modo in cui funzionano tutti i sistemi sociali. Parsons si dimostrò sin dagli inizi un fine stratega che si mosse a proprio agio nel mercato del lavoro sociologico. Prese subito le distanze dal determinismo biologico e dalle teorie ortodosse in economia (con le quali la in tutte le circostanze possibili per squalificare qualsiasi opera sociologica precedente che fosse in contrasto con la propria prospettiva, incluso i contributi di sociologi come Robert Park, Sorokin o i coniugi Lynd (Camic, soprattutto proponendo una teoria generale di ampio respiro. In una seconda fase rappresentò al contempo il falso bersaglio per i detrattori della positivismo metodologico. Nel corso dei 25 anni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, i primi persero visibilità e potere, i secondi acquisirono prestigio e risorse. In una terza fase, a partire dagli anni Settanta, il terremoto epistemologico e la svolta culturale, portarono ad una critica sbrigativa del contributo di Parsons. Fu in un certo senso seppellito un intero periodo sociologico, il cui emblema era diventato lo struttural-funzionalismo e Parsons il suo padre fondatore. Agli esordi, Parsons fu considerato un astro nascente della sociologia. Questa profezia non tardò ad avverarsi. Il contributo teorico di ampio respiro 1937 di The Structure of Social Action ebbe una ricezione molto positiva in termini di critica, conferendogli un certo prestigio, unito a sinceri riconoscimenti da parte di numerosi colleghi che contribuirono ad affermarne il suo nome in sociologia. I pochi che si presero la briga di fare le pulci al libro, si limitarono ad osservare che il tipo di scrittura era oscuro, la comprensione difficile, i collegamenti tra i diversi elementi del ragionamento The Structure of Social Action fu quello di collocare Parsons tra le figure di spicco ad Harvard. In questa prima fase era difficile prevedere la congiuntura che si sarebbe verificata nel giro di un decennio. Nella fase successiva si verificò appunto una saldatura inattesa: le opere del 1951 contribuirono a diffondere la produzione teorica di Parsons come riferimento da utilizzare nelle ricerche empiriche su larga scala, sebbene
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questo riferimento venisse solo raramente tradotto in termini evidenti nella costruzione dei programmi di ricerca o nella spiegazione dei risultati che queste avevano prodotto. La teoria struttural-funzionalista di Parsons suscitò una violenta polemica che però non le impedì di diventare un paravento teorico sempre più à la page. Anzi, più probabilmente, le polemiche derivavano proprio da questa inaspettata saldatura. Era un effetto non voluto e non desiderato da Parsons, il quale, se tra la ricerca sociologica empirista e le aveva certo elaborato il proprio sistema teorico per porlo al servizio della prima8. La sua era pur sempre una Grande Teoria, lontana dalle esigenze di comprendere il concreto operare di fenomeni sociali specifici. Poteva al massimo fornire uno schematico collegamento tra tali fenomeni specifici e i sistemi generali della società. Principî e gli schemi descrittivi a suo supporto il funzionamento della società nel suo complesso. La forza dello strutturalfunzionalismo era semmai proprio questo carattere omnicomprensivo di teoria generale. Si formarono due campi opposti: uno composto da coloro che criticavano contenuti della sua Grande Teoria. In pratica confondevano il bersaglio: eso la sociologia e la ricerca sociale, osteggiavano Parsons e lo struttural-funzionalismo, alimentando un secondo paradosso che riguardava appunto il campo avversario. Qui coloro che aderivano solo superficialmente ed erano tanti, vista la fama che Parsons seppe coltivare e conquistarsi alla nuova prospettiva teorica, in pratica non la adottavano, ma semplicemente la richiamavano a copertura generica delle ricerche e delle analisi quantitative condotte, accontentandosi dei soli rimandi al linguaggio parsonsiano. Una doppia illusione ottica produsse una forte polarizzazione attorno al contributo di Parsons: un campo sociologico molto eterogeneo e
8 La funzione di guida principale che Parsons assunse nel rafforzare e in breve tempo dirigere il Dipartimento di Social Relation di Harvard illustra molto bene non solo tutta la sua ener-
propria visione di come dovesse essere strutturata la ricerca scientifica sociologica, distinguendo chiaramente la «scienza sociale di base» corrispondente agli interrogativi e alle teorie generali che si erano finalmente riunite con la nascita del Dipartimento di Social Relation (sociologia, psicologia clinica, psicologia sociale, antropologia) - e la ricerca sociale applicata che in ultima analisi dipendeva da quelle teorie generali.
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frammentato mirava a depotenziare un campo sociologico potente e allineato. Gli attori del primo miravano agli attori del secondo campo, ma sferravano i colpi allo struttural-funzionalismo, poiché gli attori del secondo si facevano scudo proprio dello struttural-funzionalismo per ammantare con un guscio teorico protettivo la mole di ricerche empiriche acritiche di cui erano artefici. Fu così che Parsons si ritrovò, nel bene e nel male, al centro dello scontro. Per lungo tempo i benefici per lo struttural-funzionalismo superarono ampiamente i danni. Il campo critico capitolò rispetto al campo adattivo. Più si diffondeva la ricerca sociologica che sfruttava le tecniche statistiche, le correlazioni e le metodologie quantitative, più si criticava la sociologia parsonsiana, senza però che né quel tipo di ricerca sociologica, né Parsons e il suo prestigio, ne soffrissero. Il Dipartimento di Sociologia da cui Parsons mosse tutte le sua azioni a supporto della legittimazione della sociologia come disciplina scientifica era stato soltanto nel 1931 e Pitirim Sorokin ne era stato il direttore. Venne dopo appena quindici anni trasformato in un Dipartimento interdisciplinare di Social Relations, sotto la direzione di Talcott Parsons. Questi considerava sì fondamentale la coesistenza di più discipline, ma pur sempre entro le regole analitiche da lui stesso suggerite che ne limitavano fortemente la contaminazione. Ognuna doveva focalizzarsi sul proprio legittimo oggetto di studio, mentre il positivismo metodologico si faceva strada come imperativo euristico in ciascuna di esse. Parsons riuscì a portare antropologi, psicologi culturali e psicologi sociali a fianco dei sociologi. Nel campo interdisciplinare, i sociologi si sarebbero occupati principalmente delle strutture sociali, gli antropologi della cultura (sebbene questo oggetto di studio avesse esaurito la sua spinta propulsiva a seguito della quasi scomparsa delle culture esotiche ed isolate). L'interdisciplinarietà che ne venne fuori non somigliava affatto alle azione di metodologie e prospettive teoriche. La visione di Parsons di una logico-positivista dell'unità della scienza (Carnap, 1934). Come lo stesso Parsons sosteneva nella sua prefazione al suo testo programmatico Toward a General Theory of Action «tutti questi diversi flussi di pensiero sono in procinto di scorrere insieme» (1951, p. viii). La possibile lotta tra «operazionalismo» e «struttural-funzionalismo» non deflagrò mai intorno alla questione centrale su quale fosse il cuore del capitale scientifico da
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lavoro: i teorici avrebbero fornito gli schemi generali del funzionamento delle istituzioni sociali; i ricercatori e i metodologici avrebbero raccolto i dati cercandone il valore nelle correlazioni tra le diverse variabili. Se consideriamo la teoria come qualcosa di superiore ad una semplice riaffermazione empirica del significato di una correlazione causale tra più variabili, allora Parsons Sorokin che però negli anni Cinquanta era ormai stato marginalizzato come intellettuale della vecchia guardia. Il principale coautore di Parsons negli scritti di radice più teorica fu Edward Shils che tuttavia era ad Harvard come
visiting Sebbene Parsons in Structure of Social Action (1937) avesse decisamente rigettato la tradizione del positivismo utilitaristico, negli anni Cinquanta sosteneva che «gli stessi principi filosofici che guidarono le scienze naturali sono alla base delle scienze sociali» (Klausner, Lidz 1986, p. vii). I primi due capitoli di Parsons contenuti nei Working Papers in the Theory of Action -ego e del particolare quelli scritti assieme a Robert F. Bales ed Edward Shils, utilizzavano un linguaggio scientista, spesso complesso e oscuro, preso a prestito soprattutto dalla fisica e dalla cibernetica. Il sistema sociale era presentato come uno spazio popolato da «particelle», «elementi inerziali», «flussi», «movimenti di fase», «feedback loop», «orbite» e «processi di input-output» (Parsons, Bales e Shils, 1953, pp. 164-68; pp. 210, 212, 214; pp. 217-22). La terza fase corrispose ad una storicizzazione altrettanto scorretta del predominio della sociologia parsonsiana. Quando negli anni Settanta la sociologia mainstream dei decenni precedenti divenne, nel pieno della svolta ndava fatto, fu ancora lo struttural-funzionalismo il catalizzatore degli strali antimainstream. Tuttavia, anche in questo caso, si nominava Parsons per colpire il dominio del fideismo scientista che aveva caratterizzato oltre 20 anni di ricerca sociologica. A conti fatti le uniche analisi che criticarono lo struttural-funzionalismo di Parsons apparvero nel momento stesso in cui esso si andò esplicitando. Esse andavano dirette al cuore del problema della teoria generale dell Charles Wright Mills (1959), George Homans (1964) e Alvin Gouldner 75
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-Parsons sentiment» (Calhoun, Van Antwerpen, 2007). La principale critica di Mills alla scienze sociali potessero e dovessero sviluppare modelli di spiegazione della realtà astraendosi completamente dai rapporti di forza presenti nella società capitaliste. La conseguenza era una generalizzazione artificiale che in un colpo solo si liberava grossolanamente del carattere storico degli assetti sociali liberava della autocancellava ogni differenza esistente tra realtà segnate da un alto tasso di eterogeneità, ma era anche in un certo senso «americanocentrica». Homans (1964) riconosceva invece a Parsons di essere partito da basi sociologiche corrette: le relazioni sociali. Queste avrebbero consentito di riportare in primo piano l'individuo con i suoi bisogni ed i suoi impulsi. Tuttavia, il perno delle relazioni sociali era stato freddamente calato da una scatola-sistema dotata di correlazioni strutturali tra i contenuti della molto ben collocato: gli attori sociali si orientano uno in direzione degli altri, approvando o disapprovando le diverse azioni che diventano così sociali a partire da una selezione apparentemente caotica. Ma non appena la teoria dell'azione era applicata alla società e diventava la scorciatoia con cui spiegare la strutturazione di relazioni di interdipendenza tra le istituzioni, ci si rendeva conto che questa non aveva attori e ben poca azione veniva illuminata. La critica di Gouldner (1970) fu quella in un certo senso più profetica: disciplina accademicoia della convergenza» secondo la quale vi è una continuità nel pensiero sociologico dalle origini ai è soprattutto un metafisico» (Gouldner, 1970, p. 218). Per Gouldner l'analisi dei sistemi sociali teorizzata da Parsons non aveva mai dimostrato empiricamente alcuna capacità di spiegare in modo più efficace alcun fenomeno reale rispetto ad altre prospettive. Questa posizione spiega perché Gouldner, pur criticando aspramente Parsons, non divenne mai un riferimento per gli approcci e le
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prospettive teoriche della svolta culturale. In pratica, secondo Gouldner tutte quelle ricerche di sociologia empirica che si erano ammantate di strutturalfunzionalismo, credendo di essere per questo più convincenti sul piano teorico, avevano preso un abbaglio. La vera teoria capace di creare un dal concretizzarsi se non si fosse tenuta realmente in considerazione anza di una sociologia riflessiva. Per gli epigoni della svolta culturale questa era in un certo senso una critica espressa al fatto che la sociologia americana dei precedenti anni non era stata sufficientemente empirica. Merton e di accorgersi della distanza esistente tra i rimandi generici allo struttural-funzionalismo e i risultati delle grandi survey empiriche. Merton, infatti, fece molto di più per salvare la reputazione di Parsons di quanto non fece Parsons stesso. La formulazione mertoniana di un funzionalismo basato su «teorie di medio raggio» servì a colmare in parte un vuoto, trovando spiegazioni specifiche di fenomeni contestualizzati da pecifiche, applicabili a serie limitate di dati: teorie, ad esempio, sul comportamento deviante, o sul flusso di potere da una generazione all'altra, o sulle maniere invisibili di esercitare un'influenza personale». In questo modo si sarebbe potuto contrastare le semplici descrizioni di fenomeni sociali, concentrandosi su un dato oggetto di studio e avanzando una serie di presupposti da cui derivare e verificare empiricamente ipotesi specifiche. Cosi formulato, il progetto di Merton delineava l'anello di congiunzione «tra quella messe di dati senza una struttura teorica e la generalizzazione teorica omnicomprensiva senza supporto empirico». Lo sforzo della sociologia americana di farsi scienza empirica o quanto meno di venire accettata come tale, in un certo senso riuscì. Ne è la prova storica il famoso affaire Bellah (Bortolini, 2011, 2013), una vicenda che dimostra come agli occhi delle discipline delle scienze naturali, la vera e unica sociologia possibile fosse quella orientata a determinare le leggi generali del funzionamento della società. Il caso di accademica sulla sua nomina in qualità di membro permanente dell'Institute for Adavanced Study (IAS) di Princeton, la prestigiosa istituzione fondata da una facoltosa fondazione privata e divenuta presto luogo ideale di ricerca indipendente e in cui operarono studiosi eccezionalmente talentuosi come Albert Einstein, Robert Oppenheimer, John von Neumann, Kurt Gödel. A 77
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partire dalle scienze naturali, lo IAS aveva ampliato le aree di studio e ricerca, umanistici. La sociologia e le materie affini non avevano trovato ospitalità. Quando nel 1966 Carl Kaysen, economista di Harvard dal 1961 al 1963 ra stato vice assistente speciale per gli affari nazionali alla sicurezza divenne lle scienze sociali. Geertz, divenuto membro permanente nel 1970. Nel 1972 Geertz propose a Kaysen di invitare religioni, a far parte dello IAS in funzione del progetto di espansione delle scienze sociali. Bellah poteva considerarsi un sociologo solo fino ad un certo punto, poiché era anche molto altro ancora. Dal 1967 aveva sì ricoperto a Berkeley la carica di Ford professor of Sociology, ma i suoi studi abbracciavano un insieme di temi e approcci abbastanza eterodossi rispetto alla sociologia mainstream. Bellah aveva sviluppato autonomamente una propensione interdisciplinare, ma soprattutto multi-metodologica, al punto che oggi potremmo considerarlo uno studioso che con largo anticipo aveva fatto propri alcuni degli elementi della svolta culturale. I suoi studi univano differenti stimoli intellettuali; pescavano da tradizioni molto diverse; si fondavano su una pratica ermeneutica e coglievano i ricchi aspetti della dimensione simbolica dei fenomeni sociali e culturali. In estrema sintesi, Bellah era ciò che di più lontano si potesse trovare rispetto alla sociologia empirista. Bellah fu nominato membro temporaneo dello IAS. Ma in attesa che tutti i componenti del senato di facoltà si esprimessero in favore della nomina permanente (solitamente si trattava di una formalità), un numero cospicuo della Schools of Mathematics e della School of Historical studies avevano già formato un fronte unito contro il programma di espansione delle scienze sociali, portato avanti da Kaysen (e Geertz). La commissione esterna che aveva giudicato e avallato la nomina di Bellah era composta da due pezzi gross e Edward Shils; dallo storico delle religioni Joseph Kitagawa, dal filosofo Stanley Cavell e dallo storico del Giappone Edwin Reischauer da Kayesen non formularono alcuna obiezione sostanziale nei confronti del curriculum, delle pubblicazioni e del programma di ricerca che Bellah aveva presentato. Bellah puntava allo studio delle religioni nel presente delle società
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occidentali e delle new nation postcoloniali, ragionando attorno ad una serie di interrogativi storici e filosofici. La comprensione dei cambiamenti sociali sarebbe stata affrontata facendo ricorso a metodi ermeneutici. Il rapporto tra idee, istituzioni e cambiamento sociale costituiva il campo di riflessione. Questo programma comunicava un totale disinteresse per la sociologia mainstream e una forte allergia per i confini disciplinari che del resto Bellah considerava Il senato di facoltà votò contro, con 8 voti contrari alla nomina, 3 astensioni e nessun voto favorevole. Si rese necessario un secondo voto, poiché si era subito acceso un scontro tra il potere amministrativo di Kayesen e la maggioranza dissidente che sosteneva di incarnare lo spirito libero e autonomo della scienza. Alla seconda votazione il dissenso crebbe: 14 voti contrari. Sebbene la questione riguardasse un più generale scontro tra la ra di Bellah divennero presto oggetto di contesa accademica. Il caso uscì fuori dalle mura dello IAS e approdò al New York Times e ad altri autorevoli giornali (National Observer, Time magazine e Newsweek), alimentato soprattutto dalle lettere di endorsement inviate da vari accademici a sostegno di Bellah o a supporto della battaglia combattuta della vecchia guardia di Princeton. Furono le armi usate in campo aperto, quando non si era più al chiuso della enclave ora si tendeva presentare come oggettivamente fondata. Kurt Gödel un matematico, logico e filosofo di riconosciuta fama faceva notare che nessuno tra i sostenitori di Bellah aveva avuto modo di spendere una sola parola circa «la scientificità o la verificabilità delle tesi sociologiche di Bellah»; Harold Fredrik Cherniss, uno studioso di storia del periodo classico e di filosofia antica, sostenne che leggen no great power of analyzing concepts. Second, he is not strong on marshalling evidence». Dal canto loro, i sostenitori di Bellah, tutti esterni al mondo dello IAS, tranne Geertz e Kaysen, accusavano la maggioranza dissidente di non avere le competenze sociologiche per giudicare i meriti e il valore dei lavori di lavoro sociologo. In qualità di matematici, fisici, esperti di storia antica, come potevano pretendere di valutare un sociologo e di entrare nel più ampio dibattito sul futuro della sociologia allo IAS? Geertz e i vari sociologi sparsi nei vari dipartimenti americani e tirati in ballo a sostegno di Bellah, affermavano il diritto di un sociologo di essere valutato da suoi pari 79
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sociologi, secondo gli standard di eccellenza del contesto disicplinare specifico. Parsons scrisse: «nei miei molti anni come professore di sociologia, non sono mai stato invitato a giudicare le competenze di un fisico, di un biologo, di un professore di lingue e letteratura, di un antico storico o di qualunque studioso operante in un settore importante di conoscenza che non fosse quello della sociologia» (Parsons, 1973, p. 259)9. da parte della maggioranza dissidente andava ben oltre la sua opera. Era come se si fosse disposti a tollerare la sociologia come scienza a patto che questa si mostrasse altrettanto scientifica e quindi empirica, con solide basi dimostrative e con chiare e inattaccabili tesi a prova di verifica. Il caso fu avevano interesse che si protraesse ulteriormente poiché, esponendosi
entrò più a far parte dello IAS. Ma almeno nelle cerchie delle scienze sociali, la sua reputazione ne uscì intatta, se non rafforzata: aveva combattuto e tutto sommato resistito con successo ad un attacco disciplinare da parte di alcuni ntifica la sociologia.
9 Assolutamente da notare come Parsons per posizionare la sociologia tra i settori importanti di conoscenza, al pari della fisica, della biologia, della lingua e della letteratura.
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LA CRISI DELL ANTROPOLOGIA
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La crisi di una disciplina o di una teoria indica il momento in cui le nozioni centrali che ne definiscono il campo sono sottoposte ad un giudizio che rimette in questione i fondamenti. A partire dagli anni Cinquanta, proprio in una fase in cui aveva raggiunto la massima affermazione, il concetto antropologico di cultura definizioni antropologiche della cultura cominciò a suscitare negli antropologi un disinteresse o quanto meno un fastidio, in quanto il dibattito attorno al concetto sembrava esausto. La cultura, paradossalmente, quasi usciva di scena, entrando in un lungo periodo di latenza (Bunzl, 2005). Dagli anni Cinquanta a gli anni Settanta si verificano una serie di In sintesi: i esotiche che non fossero state mai toccate dalla presenza e dal contatto con il
meno resero difficile mantenere gli scopi iniziali con cui era nata la disciplina, ii) il dibattito sul relativismo culturale che si infiammò alla fine degli anni Cinquanta mandò in soffitta teorie, concetti e metodi che avevano per lungo tempo costituito la base indiscussa della disciplina; iii) la distinzione che Parsons, assieme a Kroeber che 83
STUDI CULTURALI E SCIENZE SOCIALI
gli studi degli antropologi potessero spiegare le strutture sociali e la società più di quanto non potessero i sociologi analizzando i fenomeni sociali; iv) la disillusione e il disincanto che seguirono alla pubblicazione postuma del 1967 dei diari di Malinowski sensazione di perdita di autorità. i) La situazione storica del processo di decolonizzazione fu una delle cause che portarono alla messa in discussione del vecchio stile antropologico che tendeva a rappresentare etnograficamente le società studiate come tradizionali, statiche e immutabili. Il tema dell'incontro con altre culture e dei mutamenti socioculturali che ne conseguivano divenne giocoforza fondamentale nei contesti in profonda trasformazione come quelli che furono toccati dalla decolonizzazione negli anni Cinquanta e Sessanta. Soprattutto il clima di autocritica del potere e del sapere occidentale giocò altresì un ruolo determinante. Naturalmente non fu la decolonizzazione in sé ad aver accelerato la scomparsa delle culture vergini e intatte da sottoporre culturale facesse i suoi danni. Era stata la stessa antropologia, attraverso il moltiplicarsi di lunghe ricerche sul campo e una sorta di monopolio che ciascun antropologo o etnografo di fatto sanciva di volta in volta sulla popolazione locale che eleggeva a oggetto della propria specializzazione, a nte Malinowski, oltre a sancire con il successo delle sue opere quale fosse
di far luce sulle società occidentali («prendendo coscienza della natura umana in una forma molto lontana ed estranea a noi»), i processi di decolonizzazione mettevano in risalto la deriva modernista attraverso cui i nuovi Stati-Nazione avrebbero nel breve tempo realizzato una deetnicizzazione delle eterogenee composizioni interne. I processi di decolonizzazione successivi al secondo dopoguerra si inquadrano in uno scenario dominato da due nuove realtà geopolitiche tuttavia, per motivi ideologicamente differenti, ma strategicamente convergenti, furono entrambe determinanti nel porre fine agli imperi
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LA CRISI DELL ANTROPOLOGIA
nel
continente
africano
e
asiatico;
la
seconda
in
funzione
sgretolarsi del potere coloniale inglese, francese, tedesco che ne derivò, si riflesse nel ridimensionamento del numero di ricerche sul campo condotte nelle ex-colonie di quest poteva continuare ad ampliare il raggio delle proprie campagne di studio in cui la ticolarmente
vergine per la ricerca antropologica. In questo scenario, si avviava una forte atte ma anche una difficile presa di distanza dagli usi strumentali americana. Se gli interessi erano costretti a spostar esotica agli interventi di marca modernista che vedevano nello sviluppo, capitalistico o pianificato, lo strutturarsi di nuove identità nazionalistiche, al contempo era necessario erigere nuove protezioni nei confronti di quelle popolazioni, precedentemente isolate e ora schiacciate dal triplice avanzamento dei processi di nazionalizzazione, enclavizzazione e depauperamento delle tradizioni esotiche. ii) La questione del relativismo culturale acquisì ulteriore centralità, pro materiali e simbolici sulla modernizzazione del Terzo Mondo rtecipante di matrice
americana una nuova generazione di antropologi insofferenti rispetto lla disciplina e portatori di un netto criticismo nei confronti della tradizione etnografica. Impegnati e militanti nel campo etico e politico, solidali con le rivendicazioni del movimento per i diritti civili delle minoranze e con i femminismi, vivevano gli eventi legati alla guerra del Vietnam anche in rapporto al coinvolgimento più o meno consapevole di molti ricercatori nelle operazioni e negli interessi strategici del governo 85
STUDI CULTURALI E SCIENZE SOCIALI
americano, del Ministero della Difesa o della CIA (Wolf, Jorgensen, 1970). Addirittura nel 1968 le critiche nei confronti della disciplina considerata
Mondo
sfociarono in un simposio
American Anthropological Association e in un numero speciale della rivista Current Anthropology intitolato Social Responsibilities Symposium10 Il principale aspetto di novità rispetto alle tradizionali critiche della disciplina, delle sue pretese e promesse. Al tema del relativismo si che ovviamente impediva di a spingendo invece ad esaminarne la configurazione retorica e discorsiva e la contestualizzazione pragmatica: a cercare di capire, in altre parole, quanto le osservazioni, proprio perché partecipate, fossero influenzate da modelli narrativi, dalla situazione comunicativa in cui emergevano, dalle finalità in
iii) La divisione del lavoro tra antropologia e sociologia (che riguardava anche biologia e psicologia) individuata da Parsons rappresentò uno spartiacque a prima vista paradossale. In un saggio del 1958, The concepts of culture and of social system (Kroeber, Parsons, 1958), Parsons facendosi supportare dalla figura di un antropologo autorevole quale era ai tempi Alfred Kroeber e con il quale aveva sviluppato una ricca riflessione durante i due intensi anni passati insieme a Stanford, presso il Center for Advanced Study of Behavioral Sciences aveva tentato di porre fine alla lunghissima produzione schizofrenica dei numerosissimi concetti di cultura (Kluckhohn, Kroeber, 1952) e conseguenti prospettive teoriche che avevano affollato la produzione antropologica fino agli Cinquanta, con il duplice obiettivo di giungere ad una definizione di cultura stringata e condivisibile e fare concetti di sociale e culturale. Un uso questo che come rilevato nelle pagine precedenti era tipico soprattutto tra alcuni antropologi. Naturalmente il concetto di cultura su cui Parsons insisteva era stato già ampiamente articolo, la 10
Si veda il volume 9, numero 5 di Current Anthropology del 1968, pp. 391-435.
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sua trattazione aveva uno scopo preciso e avrebbe avuto anche conseguenze di rilievo: Parsons elabora una precisa proposta, invitando sociologi e forma di convivenza interdisciplinare che si basasse su una chiara distinzione tra i concetti e i relativi contenuti della «cultura» e del «sistema sociale». fondersi in un «temporary condominium», tendente ad affrontare in maniera collaborativa, ma differenziata, le questioni relative a quelle aree di studio intermedie con cui entrambe le discipline facevano i conti. La proposta della distinzione tra sociale e culturale era soltanto analitica, poiché per P (come quelle biologiche e psicologiche) erano intimamente intrecciate: «all phenomena of human behavior are sociocultural, with both societal and cultural aspects at the same time». Tuttavia, la proposta suonava paradossale poiché per distinguere i due concetti e le due rispettive aree di priorità tematica era necessario passare sia per una (nuova) definizione di cultura, sia per una definizione di sistema sociale e, mentre era legittimo che un contrastanti definizioni della cultura da parte degli antropologi, ci fosse bisogno di un sociologo per quanto affermato come il riferimento massimo delle scienze sociali per porre fine alle diatribe sul concetto di cultura autonoma. Ed era altrettanto paradossale che lo facesse in un momento in cui gli antropologi stavano cominciando a mettere in dubbio il valore euristico del concetto stesso. La mossa elegante di Parsons fu quella non solo di presentare Kroeber come garante del patto, ma anche di inserire i sociologi tra coloro che avevano contribuito ad alimentare il disordine semantico ed epistemologico attorno ai due concetti (in realtà la confusione era tutta antropologica). grande confusione tra antropologi e sociologi rispetto ai concetti di cultura e di società (o di sistema sociale). La mancanza di consenso tra e all'interno delle discipline ha prodotto una tale confusione semantica che non è chiaro quali dati vadano assimilati sotto questi due termini; ma, questione ancora più rilevante, la mancanza di consenso ha sinora impedito l'avanzamento (Kroeber, Parsons, 1958, p. 582). Secondo Parsons, i sociologi tendevano a 87
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considerare tutti i sistemi culturali come una sorta di espansioni o sviluppi derivanti dai sistemi sociali, mentre gli antropologi, con un approccio più olistico, davano priorità alla totalità omnicomprensiva della cultura e poi procedevano a sussumere la «struttura sociale» come una parte della cultura
di un antropologo
Kroeber
che firmò il saggio come se si trattasse di una disciplinare basata sullo joint statement tra il leader della sociologia proficuo utilizzare una definizione del concetto di cultura che sia molto più ristretta rispetto a quanto è sinora avvenuto nella tradizione antropologica americana, limitando il suo riferimento ai contenuti trasmessi e creati, ai modelli di valori e idee ed ai sistemi simbolico-significativi intesi come fattori che plasmano il comportamento umano e gli artefatti prodotti da tale o più generalmente il termine sistema sociale venga utilizzato per designare lo specifico sistema relazionale di interazione tra gli individui e le collettività» (Kroeber, Parsons, 1958, p. 582). Dunque la cultura era per Parsons un sistema di valori, idee, e simboli; la società un sistema di istituzioni e strutture, al suo interno più o meno integrato, composto di vari sottosistemi consolidate. Si trattava appunto di una reciproca delimitazione dei rispettivi campi analitici in cui antropologi e sociologi avrebbero dovuto muovere i loro principali interessi, fermo restando che puntare primariamente sulla cultura, così come era stata definita, non avrebbe implicato affatto scartare le dimensioni più spiccatamente sociali e, simmetricamente, interessarsi in primo luogo delle relazioni sociali non comportava la scelta di tralasciare i fenomeni più spiccatamente culturali. Parsons suggeriva una tregua. Anziché dibattere intorno alla questione se la cultura dovesse essere meglio spiegata dalla prospettiva sociologica o se invece fosse la società ad essere meglio interpretata da quella antropologica, sarebbe stato molto più fruttuoso per entrambe le discipline dedicarsi ciascuna al proprio rispettivo oggetto di studio: gli antropologi dovevano studiare la cultura, tenendo anche conto dei sistemi sociali, ma soltanto per meglio
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comprendere la prima. I sociologi avrebbero dovuto dedicarsi ai sistemi sociali, considerando anche i fattori culturali, ma giusto per meglio comprendere i primi. I risultati della teoria e della ricerca antropologica in campo sociale avrebbero rappresentato un contributo per la sociologia e i sociologi se ne sarebbero potuti giovare, valutandoli in qualità di esperti designati, per la loro validità. Parimenti le letture dei sociologi relative ai sistemi sociali, alle istituzioni, alle norme avrebbero inevitabilmente fruttato anche una conoscenza dei modelli culturali che sarebbe stata utile fosse più rilevante, la cultura o il sistema sociale. Lo erano entrambi, anche rensione di come ciascuna È difficile stabilire con esattezza come venne percepita e recepita questa proposta. Le reazioni che suscitò furono diverse. Ad ogni modo, più che stimare la risonanza di questo brevissimo articolo, è forse più utile richiamare ebbero un effetto abbastanza incisivo sul modo in cui la sociologia strutturalfunzionalista trattò la cultura per almeno un quindicennio a venire, mentre il interne che la proposta di Parsons contribuì ad accentuare. La nuova definizione di cultura era stata data da un sociologo e soprattutto sembrava funzionare abbastanza nel campo più ampio delle scienze sociali. Soprattutto, una versione ancora più stringata e tutta schiacciata sulla cifra simbolica sarebbe giunta di lì a poco, prodotta da un antropologo Geertz, allievo dello stesso Parsons a determinare appunto la svolta culturale, o meglio il versante interpretazionista della svolta culturale. aveva elaborato come uno degli elementi della teoria gen piano e si tradusse in una sorta di sostegno euristico allo sviluppo delle ricerche sul funzionamento dei vari sistemi e sottosistemi sociali. Si può in un certo senso sostenere che sociologi e ricercatori misero più o meno in atto quello che Parsons aveva auspicato (e senza neanche bisogno di aver letto il joint statament di Kroeber e Parsons!): per almeno una generazione a seguire di sociologi calati nel positivismo metodologico, i «sistemi di valori» molto più che i «sistemi simbolici» e i «sistemi cognitivi» di cui pure era fatta la cultura per Parsons costituirono i fattori esplicativi esterni delle 89
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caratteristiche dei sistemi sociali indagati. Spesso ciò che non si riusciva a spiegare in termini di funzioni e meccanismi sociali, lo si imputava ai fattori culturali, o meglio a quella parte dei modelli culturali che riguardava i valori. Nel suo impianto Parsons (1951; 1959; Parsons, Shils 1951), attribuiva sì grande importanza alla cultura, ritenendo anzi che fosse proprio la cultura con i suoi contenuti valori, idee, credenze, simboli, trasmessi nel corso della crescita, nel percorso della socializzazione, risultavano inculcati e interiorizzati così a fondo da rimanere fissi, statici, indiscutibili così da non poter verosimilmente cambiare. È raro, nella visione proposta da Parsons, che il comportamento sociale di un soggetto si dimostri non conforme, non allineato, non integrato con i valori ricevuti e ritenuti validi individui fa propri fino in fondo i valori e le norme del sistema in cui vive e li riproduce sempre uguali, come possiamo spiegarci il cambiamento, visto che la società si muove, cambia. Che cosa lo mette in moto? Per molto tempo la visione di Parsons, così compatta, ha tenuto congelata la sfera della cultura: i soggetti sociali al suo interno erano come imbevuti di mettere in moto un cambiamento. È anche da questa impasse, da questa immobilità che ha preso spunto la svolta culturale. Del resto, a distanza di diversi anni, nel 1972, Parsons ancora utilizzava un linguaggio farcito dei riferimenti alle proprie posizioni originali e confermava una visione sempliceme strutture sociali: «patterns of culture», «cultural system», «value system», «values patterns» «institutionalized values» erano le locuzioni impiegate in un saggio con cui ritornava sulla questione della distinzione analitica tra cultura e società (Parsons, 1972). Il preciso passaggio in cui era possibile scorgere il nesso cultura-sistema sociale risiedeva a suo avviso nel rapporto tra valori e norme. Si trattava di una riedizione sintetica dei numerosi contributi
interpenetrazione tra il sistema culturale e quello sociale» (Parsons, 1972, p. 261). Essi, a differenza, dei sistemi simbolici, dei sistemi cognitivi o dei
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sistemi espressivi, possiedono una più netta carica normativa. I modelli normativi, fin quando rientrano pienamente nel sistema sociale attraverso una loro istituzionalizzazione, sono appunto valori istituzionalizzati. Così, «il significato dei modelli culturali relativamente al loro rapporto con ficato normativo (Parsons, 1972, p. 256). La differenza analitica tra i valori e le norme è che
entrambe culturali e istituzionalizzate come parte della struttura del sistema modalità o un meccanismo di mantenimento della integrità culturale el reale funzionamento della vita sociale. Le norme, al contrario, hanno un primato sociale, costituiscono i meccanismi normativi che operano per aggiustare e adattare le richieste alla loro
iv) Le critiche al paradigma etnografico tradizionale in parte furono come Bronislaw Malinowski e in parte emersero su contestazione che sulla scorta dei movimenti di emancipazione dei popoli
farsi scientifica non era altro che il risultato di un rapporto fortemente stessa di articolare descrizioni, resoconti e comparazioni presentati come oggettivi e disinteressati appariva come molto discutibile. Ma soprattutto localizzata: le descrizioni etnografiche non potevano più prescindere dalle dinamiche più ampie, spesso globali in cui tali descrizioni erano situate. In seguito, verso la fine degli anni Settanta, divenne chiaro che il paradigma etnografico tradizionale, tutto schiacciato sulla dimensione localizzata e chiusa della ricerca sul campo, presso piccoli gruppi sociali relativamente isolati, non riusciva ormai più ad essere realistica, poiché scartava le dinamiche di frammentazione, discontinuità e simultaneità che già da ampia.
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Era stata la pubblicazione postuma di un diario privato di Malinowski nel 1967, da parte della moglie Valetta Malinowska a disvelare il problema scrittura e la pretesa di oggettività che ne derivava. Il diario privato scritto in polacco da Malinowski nel corso delle ricerche effettuate in Melanesia tra il in inglese a venticinque anni dalla morte - A Diary in the Strict Sense of the Term al di là della nuova e sorprendente immagine di Malinowski, assai diversa rispetto a quella affermata di uomo controllato in grado di adattarsi a qualsiasi estraneità culturale e che per questo fece molto scalpore nel mondo dell'antropol intersoggettivo, il contatto difficile e il dialogo problematico con i nativi. In Argonauti del Pacifico occidentale (1922), uno dei suoi scritti più importanti, Malinowski aveva invece nascosto i normali ed inevitabili
ricomposizione nella scrittura degli aspetti più salienti della ricerca sul campo
rendere i resoconti il più possibile riconoscibili come scientifici. Il tenere
Il rapporto tra ricercatore e oggetto di studio, dopo aver fornito un in questo periodo a far parte degli elementi di crisi e di critica della disciplina. Dalla retorica scientifica della rappresentazione oggettiva dei fatti, era meticolosamente rimossa la personalità, gli orientamenti, ma anche la complessità relazionale del ricercatore, il suo background culturale ed
di rappresentati di culture diverse, i problemi dello sradicamento e dello sfruttamento, le dinamiche del mutamento avevano ormai sostituito quelle la funzionalità e della coerenza interna delle culture osservate. Erano questi indicatori non solo del fatto che molti antropologi
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cominciavano a porsi domande diverse rispetto al passato, ma anche che il mondo delle culture non poteva più essere rappresentato come una volta.
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8 La nascita dei Cultural studies in Gran Bretagna
Qualche anno prima che la moglie di Malinowski desse alle stampe i diari personali del marito defunto, nella stessa Gran Bretagna, a Birmingham, politici, sociali, culturali e con ramificate connessioni dentro e fuori la prima spinta teorica e di ricerca anticipatrice della svolta culturale: i Cultural studies. Il comun denominatore di questo movimento intellettuale era dato da fissa, stabile e definita, ma come qualcosa che è frutto della continua interazione e trasformazione di pratiche materiali e processi simbolici. Ma anche qualcosa che è sempre in relazione con le dinamiche del potere. Mossi da una curiosità politematica e multidisciplinare, gli intellettuali/ricercatori che dettero vita ai Cultural studies critica letteraria, tesi politiche e analisi semiotiche, metodi enografici, estetica e filosofia. Si trattò di una ricerca continua dei significat umana, così come venivano a prodursi nel linguaggio e in altre pratiche di senso delle persone comuni e delle istituzioni della società britannica dei questo movimento che rimetteva la cultura al centro della analisi sociale e politica, ebbero però una visibilità e un riconoscimento posticipato, verso la fine degli anni Settanta. Il lettore va immediatamente avvertito che nella 95
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iniziale sparuto gruppo di autori britannici,
Richard Hoggart tra mille difficoltà inaugura il Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS). Tutta una serie di grandi e piccoli precedenti portarono alla nascita di questa piccolissima istituzione dedicata allo studio della cultura contemporanea. Nel 1963, nel corso di un seminario della letteratura e della lingua Inglese nelle scuole del Regno Unito, nel criticare i metodi ortodossi e rigidi di allora, Hoggart avvertiva che sarebbe stato assolutamente necessario seguire un approccio da lui definito «literature and contemporary Cultural studies» (Hoggart,
studi letterari ad una più ampia gamma di prodotti culturali» (Hoggart in Turner, 1990, p. 48). caratterizzato negli anni a seguire lo spirito del Centro di Birmingham. Sin dalla sua concezione, questo progetto veniva a realizzarsi, non senza ostacoli e opposizioni da parte delle autorità accademiche, come un impegno di tipo interdisciplinare. Cresciuto in un quadro imbevuto di critica letteraria, Richard Hoggart che era prima di tutto un professore di lingua e letteratura inglese, non esitò mai a sfruttare il più possibile le stesse virtù della critica Da questo punto di vista, il progetto di Hoggart conteneva sin dagli inizi le stimmate metodologiche che avrebbero poi caratterizzato la svolta culturale. Si puntava a riunire tre prospettive di analisi solitamente molto distanti tra approssimativamente sociologica; la terza, la più importante, è la critica
sociali, dei riferimenti simbolici e delle identificazioni collettive delle varie classi sociali. Ne , un critico di letteratura ed insegnante inglese e di Thomas Stearns Eliot, poeta, saggista, critico letterario e drammaturgo statunitense, naturalizzato inglese. Entrambi consideravano
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cultura e democrazia agli antipodi. La seconda, estendendosi, avrebbe degradato la prima, intesa in senso ristretto ed elitario, come il meglio e il massimo della produzione umana. Leavis (1930), in uno scritto che godette di ampia circolazione, intitolato Mass civilizaton e minority culture, aveva rivitalizzato una lunga tradizione da tempo presente nel conservatorismo britannico, riproponendo le visioni di Coleridge un ceto intellettualmente più dotato distintamente dedicato allo sviluppo culturale di Carlyle una «classe organica di letterati» alla guida della società vittoriana di Matthew Arnold (1867, 1869) un gruppo selezionato di talenti, reclutati dalle varie classi, che riporta alle vette della cultura genuina del passato: «culture is a study of perfection. Culture seeks to do away with classes; to make the best that has been thought and known in the world current everywhere» (Arnold, 1867, ora in Collini, 1993, p. 146). Leavis
Eliot, premio Nobel per la Letteratura nel 1948, professava il distacco delle élite socio-culturali che, per garantire una stabile continuità della società, conservatore, difendeva ciò che la realtà educativa inglese palesava in quei decenni: timore e disprezzo per le possibilità di emancipazione delle classi lavoratrici, condanna per le istanze favorevoli al sistema educativo nazionale e pubblico, estrema avversione per i rischi di democratizzazione e mescolanza e posizioni di Eliot e Leavis
i quello che sarebbe diventato il progetto dei Cultural studies di Hoggart (1958): prendere In modi diversi, tre testi formativi pubblicati alla fine degli anni Cinquanta avevano anticipato le posizioni storiche e teoriche alla base della genesi del CCCS: The Uses of Literacy (1957), di Hoggart stesso, seguito Culture and Society di Raymond Williams (1958) e da The Making of the English Working Class di Edward Palmer Thompson (1963). Il testo di Hoggart era il frutto di una ricerca sul campo: analizzando dal vivo le pratiche culturali della working class del dopoguerra, indagando sugli usi della cultura codificata che questa classe stava acquisendo, Hoggart scopriva nuovi oggetti di consumo e di intrattenimento del mondo proletario inglese 97
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riviste popolari, tabloid, giornali, romanzi a buon mercato, il cinema di Hollywood e vi intravedeva il rischio di una «deriva» della vecchia cultura, con la perdita delle tradizionali forme di uso del tempo libero, tipiche della comunità e dei sobborghi in cui vivono e lavorano i blue collar. Raymond Williams, invece, descriveva nel dettaglio proprio la visione elitaria e distintiva di cultura che aveva ancora una forte presa sulla società inglese degli anni Cinquanta e, in maniera pacata, ne tracciava gli effetti in termini di una crescente segregazione culturale lungo le demarcazioni delle differenze di classe. Culture and Society era insieme un esame storico industria, democrazia, cultura, un quadro di sociologia applicata alla letteratura. Con un approccio metodologico che il suo maestro Leavis detestava sì, proprio il Leavis della cultura classica Williams dimostrò che nella società inglese si erano ormai affermate diverse nozioni di englishness e che quella che rimandava al modello elitario non aveva più il monopolio assoluto. The Making of the English Working Class (1963) di Thompson era il frutto di una grande ricerca storico-sociale sulle origini e gli sviluppi della classe operaia divenuta nel tempo una formazione storica culturalmente Thompson di far risaltare gli aspetti culturali e umani della working class, in antitesi rispetto alle trattazioni statistiche e fredde della storia economica: la classe lavoratrice britannica non era un contenitore uguale a sé stesso demograficamente in crescita bel corso dei decenni, né i lavoratori e le loro famiglie potevano essere considerate semplicemente le vittime designate dalla storia marxista dei rapporti di produzione. Thompson, invece, raffigurava questi soggetti come persone capaci di esercitare un minimo di controllo sulla propria identità, sulle proprie relazioni e sulle proprie comunità: «the working class made itself as much as it was made». In particolare, le esperienze di vita delle classi lavoratrici rivivevano nelle pagine del libro: la classe, il senso di appartenenza ad essa e la sua vita in quanto classe storico-marxista più grossolana era invece stata considerata ininfluente rispetto alla struttura dei rapporti di produzione. situazione sociale e culturale della classe operaia inglese, ma, ciascuno a
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proprio modo, rivoluzionava profondamente il concetto tradizionale e aristocratico di cultura, preferendo inquadrare una «common culture» abbastanza estesa da includere la cultura popolare. La pubblicazione di questi nuovo filone di ricerca sulla cultura intesa come «a whole way of life» (Williams, 1958). Cionondimeno, dietro la nascita e lo sviluppo di un di libri apripista. Forse si può sostenere che le ricerche e i testi che furono così influenti sullo sviluppo dei Cultural studies furono essi stessi il prodotto di uno specifico milieu storico-politico. La fondazione del CCCS a Birmingham si inscriveva anche nel percorso di sviluppo di interventi a favore Novecento. Tra le due guerre, un sistema di istruzione autonomo e autogestito, organizzato e sostenuto dal iation (WEA), organizzava corsi basilari di alfabetizzazione e di cultura generale primaria o lo avevano fatto per breve tempo e con scarsi risultati. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la politica della WEA puntò alla realizzazione di attività formative di più ampio respiro, con il contributo delle istituzioni elitario di quello universitario, grazie anche a numerosi extra mural courses. Va poi ricordato che sia Hoggart che i primi ricercatori suoi allievi, tennero in vita un legame molto stretto tra la loro diretta esperienza personale a contatto con le classi lavoratrici e le posizioni teoriche più contesto accademico o professionale. Questo aspetto è indicativo del modo in cui i Cutural studies riuscirono a rappresentare una sorta di movimento già nelle prime fasi, adottando lo studio della cultura della classe operaia come una priorità: numerose figure chiave che ruotarono attorno al CCCS provenivano dalla classe operaia e continuarono a frequentarla come propria missione di studio e ricerca. Vi erano inoltre molte similitudini tra Hoggart e Williams. Entrambi di umili origini, entrambi diventati insegnanti e professori universitari di Inglese Hoggart a Leeds, Williams addirittura a Cambridge entrambi esperti e critici letterari, avevano una conoscenza diretta di cosa volesse dire
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un paese con una profonda distinzione sociale nei percorsi di socializzazione e con le scuole pubbliche considerate infinitamente meno prestigiose di quelle private. Soprattutto, entrambi avevano tenuto corsi di educazione degli adulti e lezioni extraHull e proprio con il concorso della e Williams a East Sussex. Entrambi contribuirono a sradicare la tradizione elitaria e aristocratica di cultura promossa da Eliot e Leavis. Entrambi promossero la diffusione dello studio dell'inglese e della letteratura tra le classi popolari (Sparks, 1977). Il progetto di studi sulla cultura che aveva in mente Hoggart per il CCCS rimandava ad un nemico implicito: la nota e tradizionale scuola di pensiero che in Inghilterra distingueva in maniera snob una visione elitaria e classica di il mondo contemporaneo, che incensava la teoria letteraria ortodossa e derubricava i consumi culturali di massa a spazzatura non degna di alcun interesse. Nel progetto di Hoggart lo studio della cultura doveva invece cercare alternative a questa vecchia impostazione accademica. Si trattava di riempire un vero e proprio vuoto con metodi, temi e fenomeni culturali che non avevano trovato mai spazio nel campo accademico e istituzionale (Schulman, 1993). adulti che Hoggart si interrogò sui probabili sviluppi della cultura della classe cultura basilare? Hoggart incentrò la ricerca sulla progressiva scomparsa di una genuina cultura popolare e sulle modalità di funzionamento della società urbana, caratterizzata da forme di aggregazione sempre più complesse. Pur sostenendo di non essere animato da un intento politico, ma dalla preoccupazione del declino delle istituzioni familiari, comunitarie e di classe, con questo progetto Hoggart contribuì allo sviluppo di un movimento politico, culturale, intellettuale e giovanile che aveva le sue radici nelle condizioni storiche generali della Gran Bretagna del dopoguerra. Una questione che si pone ogniqualvolta si guarda alle origini di nuovi movimenti e nuove prospettive di ricerca riguarda i fattori che determinano il precipitato del cambiamento in un determinato momento storico piuttosto che in un altro. Da questo punto di vista, il progetto del CCCS di Hoggart fu una conseguenza, ma anche uno dei fattori di sviluppo della cosiddetta New
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Left inglese, un movimento nato dalle particolari condizioni politiche, economiche e sociali della Gran Bretagna degli anni Cinquanta. Il Regno Unito era uscito vincitore della Seconda Guerra Mondiale, ma le conseguenze del conflitto erano state pesanti (Bell, 1964). Furono gli anni Cinquanta, anche in concomitanza del boom economico che riguardò molti segnare una ripresa cui corrispose una prima ondata di «americanizzazione» (Lundestad, 2005). Durante il quindicennio 1950 1965, gli investimenti americani in Europa aumentarono dell'8,8% e il Regno Unito ne fu uno dei mantenere una posizione competitiva ed egemonica nello scacchiere della Guerra Fredda. La superiorità tecnologica americana rispetto al continente europeo e alla stessa Gran Bretagna si tradusse soprattutto in una massiccia invasione di beni, prodotti e oggetti di largo consumo tra le classi medie prefiguranti lo sviluppo di una società dei consumi di massa nella vecchia Europa a caratterizzare quelli che furono visti come i rischi di una americanizzazione degli old british lifestyles. Rischi che facevano storcere il naso ai guardiani della britishness aristocratica, mentre ponevano nuovi interrogativi per gli studiosi, come Hoggart e Williams, più interessati a È in questo contesto che deve essere collocata la nascita della cosiddetta New Left, un movimento politico di natura socialista, extraparlamentare, radicalmente antimperialista e antirazzista che sosteneva la nazionalizzazione delle industrie più importanti del paese, l'abolizione dei privilegi economici il nascente movimento per il disarmo nucleare ed i diversi programmi di arricchimento della vita sociale e culturale della working class (Anderson, 1965). La New Left era inoltre un movimento per nulla allineato alla politica dei laburisti. In quegli stessi anni, il fervore e il consenso per il socialismo come progetto rivoluzionario furono pesantemente indeboliti da due fattori: la diffusione di un minimo benessere materiale e la Guerra Fredda. Il aveva favorito un costante miglioramento delle condizioni materiali di vita delle classi lavoratrici, evitando così la paura del cambiamento rivoluzionario profetizzato dal socialismo (Anderson, 1965). Lo stesso Raymond Williams, in The Long Revolution, attestava che alla fine degli anni Cinquanta la 101
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«povertà individuale è stata più o meno abolita, ma non la povertà sociale o culturale» (1961, p. 352). 1956 provocò numerosi abbandoni delle posizioni ortodosse da parte di intellettuali marxisti. Stuart Hall, il successore di Hoggart alla guida del CCCS, ricorda che: «la prima New Left nacque nel 1956, una congiuntura e non semplicemente un anno qualsiasi, che saldava da un lato la soppressione sovietici e due tragici eventi, il cui enorme impatto si accrebbe per il fatto che avvennero latente nei due sistemi che dominavano la vita politica a quei tempi
persone della mia generazione, stabilirono i confini e i limiti di ciò che è tollerabile in politica. Dopo i carri armati a Praga, ci sembrava che i socialisti dovessero portare per sempre nel cuore il senso della tragedia che rappresentò per la sinistra del ventesimo secolo la degenerazione della rivoluzione russa socialismo» (Hall, 2010, p. 177). Le vittorie del partito conservatore alle elezioni del 1951, del 1955 e del 1959 furono interpretate come una prova della tesi che «la relativa affluenza postbellica della classe operaia ha portato ad un indebolimento del partito laburista» (Williams, 1965, p. 19). Nel dibattiti interni sulla nazionalizzazio riconquistare la guida del Paese. Tuttavia, lacerato da profonde spaccature sulla questione delle nazionalizzazioni e del riarmo della Germania, il partito laburista divenne optare le nuove istanze provenienti da una sinistra alternativa e radicale. La svolta fu la nascita della Campagna per il Disarmo Nucleare (Campaign for Nuclear Disarmament, CND), un movimento di protesta che ringiovanì la politica britannica e zio di una «vera e propria rivolta da parte di un gran numero di apparato sociale e contro la bomba atomica» (Anderson, 1965, p. 10). Per i giovani «le armi termonucleari non rappr
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la dimostrazione della totale mancanza di controllo sulle forze che regolavano la loro vita» (Anderson, 1965, p. 10). La New Left coagulò così istanze vitali e immediate del mondo giovanile e della critica radicale della società (Matthews, 2013). L'attivismo generato dal movimento per il disarmo fu un fenomeno inusuale e atipico rispetto alla storia della working class britannica, solitamente «più interessata a sviluppare le proprie istituzioni solidali e (Williams, 1965, p. 12). La rivista di riferimento di questo movimento, la New Left Review, il cui primo direttore fu proprio Stuart Hall (ben prima di prendere le redini del Centro di Birmingham), rivestì da subito un ruolo il ventaglio dei temi e di portarlo dalla questione del disarmo fino al tema della cultura della classe operaia. Fu proprio su questa rivista che Hall decise di pubblicare numerosi scritti di Raymond Williams e di Edward Palmer Thompson. Sulle pagine della New Left Review , i ricercatori del CCCS caldeggiavano un tipo di trasmissioni maggiormente espressive della «popular culture» e meno influenzate dal modello tradizionale elitista. Sulle pagine della rivista si criticava la television authority e la sua idea di arte popolare come evasione dalla realtà. Contro la predilezione della
trasmettere programmi di sport, commedie, jazz, popular music e documentari. «Tutte le forme di espressione hanno la loro propria validità e tutte meritano di un serio apprezzamento» (Williams et al., 1961, p. 17). Dopo appena quattro intensi anni di coordinamento delle prime ricerche del CCCS, Hoggart lasciò il ruolo di direttore al suo giovane seguace Stuart Hall, uno dei fondatori della New Left Review. Nato in Giamaica dove aveva concluso brillantemente i suoi studi superiori di formazione classica, Hall si massiccio flusso di migrazione afro-caraibica che nei tempi prese il nome Windrush generation11. Nel 1951 Hall riuscì ad ottenere una borsa di studio 11 MV Empire Windrush era il nome della nave che nel giugno del 1949 sbarcò un folto gruppo di migranti afrocaraibici a Tilbury, nei pressi di Londra. La nave faceva rotta
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(Rhodes Scholarship) presso il Merton College ad Oxford, dove si laureò in Inglese e continuò con un dottorato di ricerca su Henry James. Profondamente toccato dagli eventi che portarono migliaia di membri del Communist Party of Great Britain (CPGB) a fuoriuscire da questa organ James e si dedicò alla campagna per il disarmo nucleare. Fino al 1960, Hall educazione per gli adulti. Nel 1960 assieme a Thompson e Williams fuse la Universities and Left Review e The New Reasoner in un'unica nuova rivista, lanciando il primo numero della New Left Review. Nel 1964 Hall aveva appena terminato di scrivere assieme a Paddy Whannel del British Film Institute (BFI), The Popular Arts, uno dei primi libri che proponevano una ricerca seria e approfondita sui film di intrattenimento. Fu proprio questa pubblicazione a convincere Richard Hoggart che Stuart Hall meritasse il primo incarico del CCCS, prima a spese personali di Hoggart e poi Appena quattro anni dopo, nel 1968, Stuart Hall divenne direttore del CCCS e lo fu fino al 1979, quando la direzione passò a Richard Johnson. Almeno secondo Stuart Hall, la forte opposizione alla nascita del CCCS provenne soprattutto dalla sociologia britannica istituzionalizzata12. Hall ricorda che la ricerca inaugurale di Hoggart «scatenò una critica feroce specialmente nel campo sociologico allora dominante» che «rivendicava il L'apertura del CCCS fu accolta da una lettera di due sociologi che
Jamaica, dove solitamente imbarcava personale della Corona in servizio nei Caraibi e diretto in patria per un periodo di congedo. Dal 1948 in poi, ad ogni passaggio della nave, comparivano sui stracciati per chiunque avesse intenzione di emigrare in cerca di lavoro. Le fotografie dello sbarco dei passeggeri e della loro prima accoglienza nei sotterranei della metropolitana di Clapham South che durante la guerra erano stati usati come rifugio della popolazione durante i bombardamenti sono divenute nel tempo un elemento simbolico cruciale per la memoria storica della Gran Bretagna moderna e al contempo del multiculturalismo britannico (Gilroy, 2007). 12 La ricostruzione offerta da Hoggart diverge parecchio da quella di Stuart Hall. Hoggart ha dichiarato che «i sociologi, a dire il vero, furono abbastanza benevoli nei nostri confronti. Ci
rimarcato che «ancora non esiste una ricostruzione storica attendibile e det del CCCS e dei suoi sviluppi» (Hall, 1984a, p.277).
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recapitavano un avvertimento: «se gli studi culturali dovessero superare i propri confini e occuparsi dello studio della società contemporanea a tutto tondo e non solo dei suoi testi, le reazioni scientifiche non tarderanno ad arrivare, provocando le giuste rappresaglie per aver illegittimamente superato i confini disciplinari» (Hall, 1984a, p. 21). Nel periodo in cui Stuart Hall impresse un forte impegno i e intellettuali che lavoravano attorno al CCCS, vi fu una proliferazione di nuove versioni della teoria marxista, favorite dalla scoperta o riscoperta di alcuni testi chiave come i Quaderni dal carcere di Gramsci (tradotti in Inghilterra soltanto nel 1971), dalla rilettura di Marx da parte di Althusser (1969) e da alcuni scritti selezionati del Grundrisse. Questa nuova letteratura produsse una prospettiva innovativa rispetto al marxismo ortodosso, con una serie di nuovi interrogativi e nuove alternative (Williams, 1977). Per Hall (1984a) si trattò di un tuffo in un marxismo molto meno deterministico, più articolato e complesso, più sofisticato. Era un marxismo atipico: lontano dalla versione deterministica e materialista. La cultura non era la sovrastruttura che dipende automaticamente dalla economia dei rapporti sociali. Il potere economico da solo non appariva affatto in grado di spiegare il dominio culturale di determinate ideologie. Soprattutto, le dinamiche della produzione, della circolazione e della ricezione culturale nella Gran Bretagna contemporanea lasciavano intravedere un gioco di conflitti e resistenze molto più articolato e fluido di quanto la teoria marxista della falsa coscienza riuscisse a cogliere. Per delle rappresentazioni, dei linguaggi, dei costumi e del senso comune di ogni specifica società storica, il cui carattere può essere contraddittorio e occasionale, ma è pur sempre espressione della coscienza pratica delle masse» (Hall, 2006, p. 224). Un posto centrale fu giocato dalla contestualità, da metodologie di analisi molto variegate, flessibili, critiche. Forse questa è una delle ragioni per cui la «natura completamente inesplorata del lavoro di Gramsci» si prestò pienamente al progetto dei Cultural studies, «permettendo di adattare le acute osservazioni di Gramsci nel modo più libero possibile alla lettura culturale» (Hall, in Nelson, Grossberg, 1988, p.70). Gramsci aveva politica e culturale attraverso cui il consenso si irradia in tutte le sfere del 105
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e dominanti. In alcune congiunture storiche, le élite al potere riescono a connettersi con la proprie proposte culturali, a riconoscervisi. Ma di converso le masse o i ceti subalterni possono anche essere capaci di imporre proprie modalità di produzione o tutela di forme proprie e autonome di cultura o subcultura. scrive Hall (2007, p. 41), «deve necessariamente intrecciare i modi di pensare, i media, la cultura, la lingua, la filosofia, la cultura popolare, la Chiesa». Partendo dalle funzioni ideologiche della cultura dominante e dei media, Hall operò un vero e proprio ribaltamento del modello base-sovrastruttura del marxismo volgare, soprattutto per ciò che concerne la distinzione operata nza sociale; certa comunità, dove la comunità in esame può corrispondere anche ad tutte le manifestazioni del gruppo stesso, considerate in una rete di relazioni
La rottura più evidente riguardò la lettura del rapporto tra i tratti culturali dominanti e la loro ricezione attraverso i media. Per Hall (1973) era altrettanto importante riconoscere che la loro ricezione non lo era affatto. La ricezione è diversa da una persona all'altra, da un contesto a un altro. Può produrre acquiescenza e consenso, polemica o indignazione, attenzione scettica o accettazione distratta, atteggiamenti indifferenti, riletture critiche, ironie, comprensioni sarcastiche e perfino forme aberranti di ribaltamento (Hall, 1980b). Il circolo encoding, deecoding e re-encoding è un fittissimo e continuo dialogo-conflitto che si sviluppa con esiti incerti fra le intenzioni e le aspettative dei produttori di cultura, informazione ed entertainment e la 1980a). Negli anni Settanta la ricerca del CCCS, pur nella sua eterogeneità, si diresse verso i campi della comunicazione, intesa nel senso più ampio di
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«sistemi di relazioni sociali, culturalmente mediati, tra le classi» (Johnson, inglese: ne fu criticata la storia (nella quale la cultura era stata dipinta in termini monolitici come qualcosa di elitario e ristretto) e ne furono indagate anche biografici e alla ricerca sulle modalità di ricezione degli oggetti culturali da parte del pubblico. Queste ricerche che riguardavano sempre più il mondo quotidiano, avevano un taglio decisamente etnografico. Fu pubblicata una lunga serie di stencilled occasional papers prodotti e distribuiti in forma artigianale e dedicati ai temi più svariati: si andava da una introduzione ragionata di Stuart Hall (1973) sul Grundrisse eterogeneo (Morley, 1974), dalla proposta di una teoria del significato sociale della musica pop (Willis, 1973) ad una serie di analisi delle nuove subculture giovanili (Clarke, Jefferson, 1973; Jefferson, 1973; Clarke, 1973; Hebdige, 1974b; 1974b), dallo studio delle immagini femminili nei media (Butcher, Coward, 1974; McRobbie, 1978b; Winship, 1980) alle primissime riflessioni sulla costruzione mediatica delle etnicità (Critcher et al., 1975; Lawrence, 1981), dalla traduzione di Bourdieu (Nice, 1976) alla ricezione delle categorie gramsciane di «egemonia» e «resistenza» (Lumley, 1977), fino ad arrivare ad una prima auto-riflessione sui Cultural studies (Johnson, 1983). Lo spettro intellettuale si ampliava: il massimo della sintesi che Stuart Hall è riuscito a ricostruire col senno di poi, riguarda due varianti generali: una «
, ma tutto quello che posso accettare di
in grado di unificare il tutto, né abbiamo voluto creare un qualche tipo di ortodossia» (1986, p. 59). Si possono considerare i primi dieci anni di avvio del CCCS e delle relative ricerche come una fase preparatoria al contributo che i Cultural studies avrebbero poi dato alla svolta culturale degli anni Settanta. Nel primo decennio di vita, il CCCS propose una visione marxista completamente rivisitata e reinterpretata in chiave culturalista. Vi permaneva il forte accento
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come riflesso della lotta implicita della classe operaia per il riconoscimento delle proprie forme di espressione. Relativamente presto, nella storia delle analisi proposte da Hoggart e poi Stuart Hall, i contenuti dei mass media sembrarono cominciare a fornire una fonte di produzione alla quale la «common culture» che Raymond Williams aveva in mente potesse attingere. Ma già nella seconda metà degli anni Settanta, in piena svolta culturale, gli interessi del CCCS si spostarono. La lettura di Gramsci e delle sue categorie avvenne anche in relazione al nuovo (e tardivo) interesse per le questioni razziali e di genere. Queste due nuove tematiche, che si andavano ad aggiungere alle resistenze simboliche delle subculture giovanili, rappresentarono i punti caldi e cruciali attraverso cui il CCCS interagì
prestito da Gramsci servì a rileggere la cultura. La popular culture fu allora dinamica e circolare in cui era possibile ricostruire in modo dettagliato quelle storie particolari di quei precisi tratti subculturali capaci di diventare (temporaneamente) egemonici. Gli scritti che erano prima apparsi sui Working Papers in Cultural Studies o come occasional stencilled papers vennero pubblicati in volumi che sono stati letti ai quattro angoli del mondo. A partire dalla fine degli anni Ottanta, ben dopo che la svolta culturale avesse sedimentato le proprie rotture epistemologiche, testi come Resistance Through Rituals (Hall, Jefferson, 1976), Women Take Issue (McRobbie, 1978a), Culture, Media and Language (Hall et al., 1980), The Empire Strikes Back (CCCS, 1982), Making Histories (Johnson, 1982), così come Subculture: The Meaning of Style (Hebdige, 1979) e Policing the Crisis (Hall et al., 1978) divennero le chiavi teoriche di riferimento per coloro che, fuori dal Centro di Birmingham, avevano cominciato a riconoscere nei Cultural studies un percorso nuovo di analisi della cultura. Se la spinta critica e antagonista dei Cultural studies si è negli anni ito del progetto è poi cambiato notevolmente nel corso del tempo. Per Hoggart usò nel suo discorso inaugurale del CCCS. Il riferimento era la nascita di una «sociologia della letteratura o della cultura» ed era un
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riferimento ancora incontaminato dalla terminologia allusiva ed eclettica e dai suoi allievi. Hoggart puntava ad affrontare questioni prevalentemente sociologiche che si prestavano immediatamente all'esame empirico basato anche su dati demografici. Gli interrogativi a cui Hoggart sperava di dare una risposta attraverso lo sviluppo dei Cultural studies erano: «chi sono gli Come sono diventati ciò che oggi rappresentano? Quali sono le loro ricompense finanziarie? Che tipo di pubblico esiste? Come si compone il pubblico in funzione delle varie forme di produzione culturale? Quali aspettative hanno i diversi tipi di pubblico e di quali conoscenze di base sono portatori? Chi sono e che ruolo svolgono i leader di opinione nei vari settori della cultura e quali sono i loro canali di influenza? E l'organizzazione per la produzione e la distribuzione della parola scritta e parlata? I guardiani
distribuzione della lingua scritta e parlata? Cosa significa in termini pratici sostenere che la letteratura e tutte le forme di arte e di cultura stanno diventando delle merci, da usare e gettare? Sappiamo davvero troppo poco di tutte quelle relazioni che esistono tra i produttori di cultura e il loro pubblico, sui i loro assunti condivisi così come sulle loro divergenze; dei rapporti tra scrittori e organi di opinione; tra scrittori, politica, potere, classe e denaro; sappiamo pochissimo dei legami tra le arti sofisticate e quelle popolari; dei nessi tra le funzioni strumentali e quelle immaginative della cultura; senza tacere su quanti pochi confronti esistano tra la dimensione britannica e quella estera» (Hoggart, 1970b, pp. 256-257). È proprio su tto, la questione delle relazioni, dei rapporti, delle dinamiche tra la produzione e la rielaborazione di cultura, che i Cultural studies hanno poi più insistito, inserendovi un tema squisitamente politico: i gia. Fu invece con un certo ritardo che i Cultural Studies britannici si aprirono allo studio culturale di quei fenomeni sociali che avevano dato linfa alla svolta culturale degli anni Settanta: le questioni razziali, etniche e di genere. Queste divennero un tema di ricerca per Stuart Hall e colleghi soltanto grazie ad una lunga parentesi di studio e ricerca sulle subculture giovanili della working class. The Empire Strikes Back. Race and Racism in 70s Britain uscì soltanto nel 1982, diversi anni dopo che le questioni razziali 109
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e di genere avevano pervaso la protesta e la contestazione dei movimenti in America, in Europa e nella stessa Inghilterra e non a caso conteneva una serie di analisi e riflessioni sul decennio appena passato. Stuart Hall era proprio uno dei tanti afro-caraibici che era giunto in Gran Bretagna, ma molti anni Giamaica, in una famiglia della piccolissima borghesia. Ma ho vissuto tutta la mia v (Hall, 1990, p. 223). La questione di genere era stata introdotta ancora prima, nel 1978 femminista dei primissimi anni Settanta e comunque soltanto grazie ad una vera e propria presa di posizione delle giovani ricercatrici che avevano gravitato al CCCS. Angela Mcrobbie ricorda: «nei primi anni a Birmingham ero costantemente coinvolta in attività dominate dalla presenza di femministe radicali. La ragione delle mie relazioni con questi gruppi che si formavano e si scioglievano continuamente era che avevano sviluppato i tre o quattro donne del CCCS con questi tipi di interesse ed io ero una di queste. Il fatto è che quando arrivai al CCCS si era nel momento più forte della moda per Althusser e andava fortissimo il collective writing. Fu soltanto a distanza di un decennio, che avemmo la femminismo politico con dibattiti, confronti, scontri, gruppi, autogestione, ma le ricerche sul genere venivano condotte al massimo isolatamente da qualcuna di noi. Poi finiti gli anni Settanta, finita una certa politicizzazione, fummo capaci di imporre la ricerca e la teoria sulle questioni di genere come aspetto primario del dibattito sui media, sulle rappresentazioni, sulle diseguaglianze» (Mcrobbie, 2013, p. 830).
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Parte seconda. Svolta
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9 nismo
Identificare cosa sia stata la svolta culturale nelle scienze sociali significa elaborare una rassegna abbastanza ampia di opere e ricerche che in modo o molti assunti fondativi della sociologia mainstream e reinterpretare/criticare le principali visioni del rapporto tra azione e struttura sociale. È dunque difficile stabilire i contenuti della svolta culturale: non a caso è qui subito parso evidente come sia più facile individuare gli effetti di questa trasformazione, che i tasselli su cui si regge. Tuttavia, sembra possibile inquadrare un insieme di elementi che sono al centro di questo cambiamento, cioè alla base di un sistema non-integrato di spunti circa il diso i
ii linguistico e rappresentativo del sociale; iii) il rinnovamento degli assunti metodologici ed epistemologici; iv) la conseguente sistematica critica dei sistemi esplicativi precedenti; v) un tentativo di riallineamento delle discipline e delle sotto-discipline delle scienze sociali. È possibile altresì anticipare in modo schematico i cambiamenti che subiscono le discipline delle scienze sociali13 a seguito della svolta culturale: a) 13
della conoscenza in campo sociale e umanistico a meno che non si consideri la scienza come una pluralità di metodi conoscitivi non del tutto ristretti alla ricerca e alla formulazione di leggi nomotetiche.
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il fiorire di un ampio e rinnovato interesse per la cultura e per tutti quei sfere del sociale; b) una riformulazione semiotica del concetto di cultura ovvero una concezione della cultura come sostrato e apparato simbolico delle dinamica, sfugge a qualsiasi ricostruzione strutturale; c) la crescente adozione di metodi e approcci i tipo interpretazionista ovvero letture ermeneutiche in alternativa o ad integrazione ai metodi esplicativi basati su regolarità empiriche attraverso cui dimostrare la presenza di strutture e logiche ricorrenti, modelli nomotetici, correlazioni tra variabili o addirittura leggi che spiegano i fenomeni
d riflessione sottopo multidimensionali e circolari tra cultura e forme del potere. Per fare ordine è possibile adottare anche una distinzione tra una svolta culturale intesa come mutamento di tipo sostanziale che ha riguardato l'intera società e cambiamento epistemologico avvenuto nel mondo primo tipo racchiude la consapevolezza che la cultura gioca un ruolo significativo nelle società contemporanee come campo nel quale si sviluppano fenomeni significativi per la soggettività, il potere, la sessualità, la comunicazione e diverse altre forme del vivere comune. Il secondo tipo riassume invece un movimento eterogeneo di approcci interpretativi che propongono un nuovo concetto di cultura (dinamico, plastico, malleabile e aperto) e pongono le relative nozioni di significato, cognizione, emozione e simbolo al centro delle metodologie e delle teorizzazioni. Naturalmente i due tipi di cambiamento hanno influenze reciproche e non pochi autori (Bonnell, Hunt, Biernacki, 1999; Sewell, 1999; Jameson, 1998; Best, 2007) sostengono che la rottura analitica sia in un certo senso endogena a quella sostanziale. Nelle pagine seguenti tenterò di tenere insieme la ricostruzione dei passaggi che hanno segnato la svolta culturale nei termini della mutamento di prospettiva che ha investito diverse discipline accademiche. e opere ha in un certo qual modo anticipato o segnato
Metahistory: The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe, di Hayden White, pubblicata 116
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nel 1973 e tradotta in Italiano nello stesso anno con il titolo Retorica e storia; The Interpretation of Cultures: Selected Essays, di Clifford Geertz che pure vide la luce nel 1973 ma che in Italia fu tradotta soltanto nel 1988; Surveiller et punir di Michel Foucault del 1975 ed la pratique di Pierre Bourdieu del 1972, apparsa in Italiano con ampio ritardo, addirittura nel 2003. Tali opere hanno contribuito più di altre al consolidarsi accademico dell'analisi culturale, ciascuna con una propria enfasi su alcuni temi e punti che sono poi divenuti importanti nelle scienze sociali. Verso la fine degli anni Sessanta e durante tutti gli anni Settanta era andata crescendo da parte di intellettuali e studiosi una profonda insofferenza per le sicurezze e gli assunti fondativi e ideologici che albergavano nelle grandi costruzioni teoriche tanto nelle scienze sociali cominciò ad utilizzare il termine «sociologia mainstream» per indicare negli anni Cinquanta e Sessanta. La maggior parte di coloro che utilizzavano il termine intendevano ribellarsi ad una forza che dal loro punto di vista frenava lo sviluppo di sociologie alternative e critiche. Parsons rivestiva oramai una posizione ingombrante nella sociologia: tale posizione appariva centrale più di quanto la sua effettiva influenza giustificasse. Ciò era il risultato non solo del fatto che divenne appunto un bersaglio di routine dei critici della sociologia del secondo dopoguerra (un fatto che tende ad esagerare retrospettivamente la sua centralità), ma anche perché la storia della sociologia tendeva a concentrarsi in modo sproporzionato sulle teorie generali. E la grande teoria di Parsons era considerata negli anni Settanta, nel bene e nel male, una sorta di icona dell'intera epoca postbellica. Il fatto che tale teoria si prestasse ad essere considerata come il canone classico di riferimento per altre teorie funzionalismo. In un articolo pubblicato nel 1982 sull' American Journal of Sociology, Michael Burawoy usava la nozione di «sociologia mainstream» quasi come sinonimo di struttural-funzionalismo che naturalmente egli considerava dominante dall'immediato dopoguerra in poi: «i due decenni dopo la Seconda Guerra Mondiale sono stati dominati dalla grande sintesi, operata da Talcott Parsons, del contributo di Weber, Durkheim, Pareto e Marshall e successivamente di Freud (1927). The Structure of Social Action (1937) ha fissato i nuovi criteri e 117
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le direzioni che avrebbe dovuto poi seguire la sociologia, un campo in espansione. Fu durante questo periodo che Parsons, assieme a un certo numero di colleghi e allievi, sviluppò e consolidò la base dello struttural funzionalismo, fornendo alla sociologia americana la forza della coerenza interna da spendere a livello globale» (Burawoy, 1982, p. S2). In effetti, negli anni Settanta e Ottanta, lo struttural-funzionalismo, sacrificato precedenti, divenne un facile bersaglio per tutti coloro che intendevano collocarsi nella nuova e variegata eterodossia: «le teorie del conflitto sostituirono quelle del consenso, il concetto di «contraddizione» rimpiazzò quello di «equilibrio», la critica del capitalismo si sostituì alla sua celebrazione» (Burawoy, 1982, p. S4). Negli anni Settanta e Ottanta varie forze contribuirono a rendere il terreno della ricerca scientifica in ambito umanistico particolarmente instabile e insicuro. I motivi erano anche legati a ciò che era successo in termini pol movimenti che rivendicavano i diritti civili, il pacifismo, i diritti sociali, con il rinforzarsi del femminismo e delle lotte per i diritti delle minoranze. Tali forze avevano messo al cent agency storica della soggettività. Agli inizi degli anni Ottanta si svilupparono nuovi prima di tutto una rottura interna allo studio della cultura. Non è un caso che uno dei maggiori contributi alla svolta di cui si discute provenga da uno studioso Clifford Geertz di una disciplina che, come abbiano visto, soffriva di una propria crisi interna. Geer più ristretto campo etnografico delle popolazioni indigene ed esotiche che è in molte cose, quasi in tutte. «Ritengo insieme a Max Weber un animale impigliato nelle reti di significato che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura consista in queste reti di significato e che perciò la loro analisi non sia una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato» (Geertz, 1973, trad. it., p. 51). Questa definizione della cultura è un passaggio snellente che consente una nuova e pologia. A tale riconsiderazione, si aggiunse la capacità di Geertz di distinguere il
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simbolismo della cultura dagli schemi sociali, emancipando in modo ancora sociologiche. Non mancavano in Geertz altre definizioni della cultura tra cui ad esempio: «un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche grazie alle quali gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e la loro attitudine al mondo» (Geertz, 1973, trad. it., p.89); oppure «un insieme di fonti estrinseche di informazione, nel senso che si trovano all'esterno dei confini dell'organismo umano come tale» (Geertz, 1973; trad. it., p. 143) ssa fosse lo sfondo simbolico delle prassi e del pensiero umano. Formatosi ad Harvard dove si era laureato seguendo i corsi interdisciplinari del Department of Social Relation e dove era stato in contatto con Talcott Parsons, Geertz aveva molto apprezzato alcune letture europee, tra cui Max Weber , Gilbert Ryle e Ludwig Wittgenstein. Nel campo più strettamente antropologico aveva fatto gradualmente sue le prospettive di Victor Turner e Stephen Tyler. Per alcune trovate che avrebbero dato al suo brillante eloquio un fondamento solido in termini teorici, Geertz è debitore anche nei confronti di altri autori che per anni erano stati relativamente marginali nelle proprie discipline. Uno di questi era Gregory Bateson, uno studioso inglese abbastanza eclettico, prima scienziato naturale, poi antropologo (ai tempi di Margareth Mead che divenne a stretto giro sua moglie e da cui si separò dieci anni dopo), poi ribellione giovanile nei campus americani, Bateson si ricavò anche un ruolo carismatico nel dibattito antropologico. Nel lontano 1936, nella sua Naven, frutto di una ricerca tra gli Iatmul della Nuova Guinea, Bateson si era allontanato dallo strutturalfunzionalismo dei suoi maestri (Haddon, Malinowski e Radcliffe-Brown), capovolgendo del tutto il metodo di osservazionetotalità, bensì verso le relazioni degli attori che sottintendono le modalità, ad un tempo emozio
essere interpretato su due piani, in rel eidos culturale che rappresenta il livello manifesto, evidente del fenomeno e in relazione al tono 119
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emotivo che caratterizza l'ethos ovvero ciò che non è esplicito, ma latente nel comportamento del singolo, poiché «si esprime nei differenti frammenti della condotta culturale» (Bateson, 1936, p. 120). Già a partire dalle sue prime ricerche sul campo, Geertz aveva dato credito anche al fare antropologico di Victor Turner secondo il quale nello studio etnografico è fondamentale considerare i singoli soggetti che operano materialmente e simbolicamente all'interno del contesto, i cui valori e punti di riferimento sono in continua mutazione. Questo approccio offriva a Geertz la possibilità di affrontare la dimensione simbol
cui le interpretazioni dei nativi sono al contempo fonte di cambiamento e frutto del cambiamento. Negli stessi anni in cui Geertz produsse i primi saggi frutto delle sue ricerche sul campo, Stephen Tyler stimolava le prime riflessioni su quella che a breve sarebbe stata chiamata cognitive anthropology, curando una raccolta di saggi omonima (Tyler, 1969): questa nuova branca puntava a comprendere i modi in cui gli attori sociali concettualizzano la propria cultura di riferimento, soffermandosi sui principi organizzativi che sottostanno al comportamento e che risiedono nelle mappe cognitive della mente. Geertz era debitore anche nei confronti delle intuizioni di Tyler. Come ogni antropologo che si rispetti, Geertz aveva condotto la sua ricerca di dottorato sul campo, passando quasi tre anni a Java dove studiò la vita religiosa di una piccola comunità. Dopo la discussione della tesi, tornò ancora sul campo, questa volta a Bali e Sumatra, dove portò avanti diverse ricerche. Fu soltanto nel 1973, con la pubblicazione di The Interpretation of Cultures, un testo che raccoglieva una serie di saggi già pubblicati tra il 1957 e il 1972, che la sua concezione della cultura e le novità metodologiche che ne discendevano suscitarono una diffusa attenzione nelle scienze sociali. Si può affermare con una certa sicurezza che questa raccolta di saggi abbia rappresentato il riferimento principale cui hanno guardato tutti coloro che come prassi per comprensione dei fenomeni sociali. Interpretazioni di culture può essere a tutti gli effetti considerato come il
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essere interpretate come «testi non scritti»: ovvero era possibile portare dunque un testo rispetto al quale poi dare vita ad una danza di interpretazioni. Il compito nello studio della cultura era dunque sfruttare un approccio semiotico utile per guadagnare accesso al mondo concettuale nel quale vivono le persone e gli oggetti, in maniera da poter conversare con loro. È tuttavia un fatto abbastanza curioso il modo in cui queste indicazioni vennero alla luce. The Interpretation of Cultures si vuole fortuito e non intenzionale. Come Geertz stesso racconta nella Prefazione, egli non aveva alcuna intenzione di dettare le linee guida per lo studio della cultura, né tantomeno di fornire una serie di esempi circa i metodi da adottare quando si è di fronte a fenomeni di cui non è immediatamente chiaro il significato. Semplicemente Geertz aveva avuto mandato dal proprio editore di provare a mettere insieme una serie di saggi e studi tra loro slegati che erano stati scritti in momenti e luoghi diversi e che erano stati il frutto di domande di ricerca tra loro molto differenti.
fil rouge Thick description: Toward an interprative theory of culture. Geertz non avrebbe mai potuto immaginare che un saggio introduttivo scritto per dare contesto e periodo potesse diventare uno dei fondamenti della svolta culturale. In questo nuovo saggio, Geertz condensò la propria visione di come potesse essere studiata la cultura e riuscì ad anticipare il senso da dare a Introduzione. i grandi problemi di definizione della cultura alle modalità attraverso cui è possibile descrivere e raccontare ciò che antropologo osserva e studia, Geertz aggira il fatto che la cultura possa apparire sotto mille spoglie valori o norme, credenze o istituzioni, riti o visioni del mondo e punta dritto al fatto che questi elementi, tanto ai nativi che agli antropologi, appaiono sempre sotto le spoglie di fatti da intrepretare. È una mossa «very practice oriented»: che si osservi un rituale magico o si partecipi ad un funerale, che si studino le etichette di contrattazione in un mercato africano o si analizzino le credenze religiose di un villaggio rurale, si ha sempre ed inevitabilmente a che fare con 121
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animale sospeso tra ragnatele di significato che egli stesso tesse». La cultura è
diventa ciò che ha un senso per qualcuno, qualunque sia questo senso e qualunque aspetto possa di volta in volta veicolarlo. La proposta di Geertz è a (1971), ovvero adottando u qualsiasi cultura è un complesso assemblaggio di testi che costituiscono una «ragnatela di significati». Questi significati vengono interpretati dagli stessi attori (i nativi) e di conseguenza reinterpretati dagli antropologi allo stesso modo in cui i critici letterari interpretano un «testo» ovvero
Si trattava di una visione che consentiva immediatamente di uscire dalle insidie che nascondevano sia i concetti tradizionali di cultura umanistici e normativi, sia le visioni descrittiviste e relativiste. Il testo culturale, proprio come il testo letterario, ha una sua qualche forma di coerenza interna tutto sta a saperla trovare basata su una significazione specifica fatta di rimandi etazione di quelle interpretazioni» che altri hanno dato ad eventi, comportamenti, azioni in un determinato contesto culturale e sociale. Come il critico letterario, Geertz si sforza di leggere «sopra alle spalle dei suoi informatori» un insieme di testi espressi in azioni simboliche. -Strauss: questi interpretava i miti, le regole matrimoniali e i sistemi di parentela come testi, ma intesi sotto forma di codici che come nelle strutture linguistiche dovevano essere analizzati in riferimento ad una loro supposta struttura interna. Diversamente, Geertz si chiedeva in che modo i testi intesi come tessuto simbolico e medium culturale organizzassero le percezioni e modellassero i sentimenti nel concreto della vita sociale. In questo caso il tore ha in mente. Liberato dalle possibili distorsioni legate alle intenzioni e alle codifiche soggettive grazie alla
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fluttuante variabilità dei contesti, il testo per Geertz si apre ad un mondo pubblico e intersoggettivo: «the concept of Verstehen is brought out of private minds into the cultural world» (Rabinow, Sullivan, 1987, p. 12). un processo incompleto, più si tenta di andare in profondità alla ricerca dei significati di un rito, di una significato ultimo e condiviso di quel fenomeno: se è vero che i significati sono conosciuti da più persone poiché normalmente incarnati in simboli pubblicamente disponibili, è al resta fondamentalmente soggettiva. Sebbene per essere culturali i significati debbano essere condivisi in un qualche gruppo sociale e la loro conoscenza essere minimamente diffusa, comunicata, ribadita, trasmessa intersoggettivamente, essi restano arbitrari nella loro declinazione soggettiva. La difficoltà nel cogliere la loro dimensione intersoggettiva risiede proprio nella dimensione eterogenea e differenziata delle interpretazioni degli attori e nel fatto che la vita culturale presuppone una continua «negoziazione di significati». Non resta allora che affidarsi ad un metodo denso di descrizione la thick description che produca un «testo» molto stratificato di terpretazione e si sostituiscono
ccesso ad un universo simbolico differente da quello del ricercatore. È una descrizione thick di atti, forme simboliche e modalità significative. La forza di un resoconto etnografico non risiede, allora nella rilevazione e la coerenza formale del discorso o nelle generalizzazioni che attribuiscono proprietà universali ad ogni contesto sociale. Va però detto che, in maniera abbastanza furbesca, Geertz si guarda bene dal fornire le prassi formali che presiedono alla «descrizione densa». I saggi raccolti in Interpretazione di culture stanno lì ad esemplificare piuttosto il evento causale che chiarisce il senso di un fenomeno provviso della polizia durante il combattimento dei galli a Bali altrimenti privo di senso o troppo pregno di significati fluttuanti. È il lettore che dovrà scoprire quali sono le regole della thick description, verificando semmai che, più che di regole, si tratta di una cocciuta dinamica di osservazione e scrittura, 123
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scrittura e osservazione finché il testo che si produce non si presta ad essere interpretato secondo una serie di significati che appaiono finalmente adatti a ttività. La teoria «interpretativa della cultura» si erge su pochi parametri che Geertz lascia disseminati qua e là come suggerimenti nascosti: poiché fare antropologia è uno sforzo semiotico, l'analisi culturale dovrebbe essere una pratica interpretativa che traccia le modalità attraverso cui vengono attribuiti i significati alle cose. Il materiale osservazionale grezzo raccolto da un etnografo non è allora sufficiente. È necessario provare continuamente ad enuclearlo e rinuclearlo con interpretazioni che si reggano il più possibile sullo sguardo e sulla decodifica ricerca deve quindi riportare in forma di scrittura quello che è lo scorrere delle relazioni intersoggettive attraverso cui si generano i discorsi sociali sui fenomeni osservati. Questo implica un approccio microscopico, una miniatura etnografica, una raccolta di dettagli e aspetti a prima vista secondari che possono rivelarsi successivamente fondamentali per ricchezza. Ma sono soprattutto le sfaccettature del discorso a guidare lo superficiali. Geertz utilizza un vero e proprio circolo ermeneutico un concetto metodologico coniato da Dilthey nell'Origine dell'ermeneutica (1900) e ripreso da Martin Heidegger (1927) e Hans-Georg Gadamer (1960) ovvero un continuo passare «dal tutto concepito attraverso le parti che lo rendono attivo alle parti concepite attraverso il tutto che le motiva» (Geertz, 1983, p. 79). Il richiamo a Dilthey è infatti presente in Geertz, ma a partire di sfruttare le possibilità di comprensione offerte relativistica. Geertz del 1973 va annoverato il contesto in cui vengono accolti. Proprio sul finire degli anni Sessanta, una generazione di giovani antropologi americani diede voce in forme decisamente radicali al sentimento di disillusione rando un progetto critico in cui la riflessione sui limiti epistemologici della disciplina si associava alla decisa messa in discussione dei suoi profili teorici e del suo assetto istituzionale. Un simile programma si traduceva in un chiaro impegno etico e
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politico solidale con altre espressioni della cultura contestataria del periodo e con i movimenti sociali per i diritti civili delle minoranze e delle donne. Sulla scia della crisi dell'antropologia, erano state le questioni epistemologiche e politiche a prendere il sopravvento in un dibattito che è stato per diverso tempo ospitato in una serie di spazi di discussione: dalla rivista Anthropology Newsletter fino alla pubblicazione di Reinventing Anthropology (Hymes, 1972). Critici come Bob Scholte (1971) e Johannes Fabian (1972) avevano tradizione antropologica fosse corrosa dal positivismo e per porre in che secondo loro
dibattito degli anni Settanta, quando «critica» e «riflessività» furono riconosciute quali ridefinizione dei suoi fondamenti epistemologici. Nelle aspirazioni di alcuni
un campo inter-soggettivo, e quindi ermeneutico. In tale visione, la conoscenza antropologica avrebbe definitivamente cessato di porsi come un programma di sperimentazioni conoscitive condotte sul campo e sarebbe invece em essere vissuti in un contesto di interazione comunicativa» (Fabian, 1971, p. 17). Geertz in questo contesto fornì inconsapevolmente le basi per una riflessione sulla natura delle verità etnografiche, sul tipo di evidenza che conduce ad esse e sul rapporto tra esperienza individuale del ricercatore, descrizione scientifica e conseguenze sociali delle pratiche disciplinari. Il fatto che Geertz ribaltasse concretamente le costruzioni sistemiche, le teorie ad alti livelli di generalità e, con queste, la possibilità di individuare le regolarità che il principale motivo di interesse per la lettura dei suoi scritti anche nei contesti extraantropologici. Senza contare che la sua versione della cultura aperta alla scomparsa del storia e senza contatti con i grandi centri politici, economici e culturali» era ormai «divenuto un soggetto di diritti, che non solo non accetta più che si 125
STUDI CULTURALI E SCIENZE SOCIALI
parli a suo nome, ma contesta ciò che viene detto di lui e addirittura comincia a produrre i propri antropologi» (Giglioli, Ravaioli, 2004, p. 268). In termini epistemologici, la novità di Geertz era il fatto di sollevare tre zione emergente
procedimento etnografico o, come cominciava a dirsi allora, proprio in
di ogni traduzione ad un pubblico meno ingenuo e più avvertito che in passato. Nuove forme di scrittura etnografica sperimentale hanno in seguito quella del ricercatore, dando più spazio alla dimensione dialogica della ricerca sul campo e a forme di produzione testuale a più mani, che esplicitano la eteroglossa, testimonianza della dimensione orizzontale in cui si muovono osservatore e osservato, dell Nei decenni successivi, sotto la spinta forte delle ibridazioni e delle diaspore culturali, a seguito dei processi di sincretismo e di volatilità dei tratti culturali che circolano attraverso le immagini, il rapporto osservatore e gruppi sociali non è più connotato in termini oppositivi di soggetto-oggetto e spinge a ripensare le strategie metodologiche, a ridefinire lo stesso concetto di campo etnografico che ora è situato, ma allo stesso tempo mobile (Amselle, 1990). non faceva tanto riferimento ad una visione sistemica dei tratti e dei significati generali di una cultura. 2001). Erano infatti le pratiche dei gruppi sociali osservate da Geertz che si trasferivano nel testo da interpretare. Pur concependola come un meccanismo significante, la cultura era identificata con modi di agire e strategie di azione, al di là di qualsiasi presunzione di sistematicità. Quelle che Geertz interpreta sono pratiche sociali significative (Alexander, Smith, Norton, 2011) e concepire la sostanza della cultura in termini di simbolismo
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GEERTZ E IL SUCCESSO DELL INTERPRETAZIONISMO
non comporta necessariamente un'autonomizzazione della dimensione
manifestarsi nel linguaggio, consentendo di stabilire connessioni e distinzioni, di organizzare l'esperienza sulla base di convenzioni, intese, come anche scontri e conflitti, è presente nelle azioni, poiché esse stesse sono dotate di senso e comunicano più di qualcosa, sebbene sulla base di codici più aleatori. Se i simboli sono reali ed efficaci nella misura in cui sono «agiti» oltre che pensati, coinvolti nel flusso delle azioni sociali, è sufficiente una qualche variazione nella riproduzione delle forme culturali per insinuare l'idea della loro precarietà. I simboli culturali non sussistono in quanto tali, bensì esistono solo in quanto sono impiegati, condivisi, socializzati. Se il corpo della cultura consiste in questa sostanza simbolica partecipata, in un «traffico di simboli significanti» (Geertz, 1973, p. 339), ciò implica che la cultura deve essere non solo costituita, ma di continuo ricostituita. Il «traffico dei simboli locali» (Geertz) passa attraverso le variazioni individuali.
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MOVIMENTI SOCIALI E SVOLTA CULTURALE
10 Movimenti sociali e svolta culturale
In un periodo abbastanza lungo, databile dal 1965 alla prima metà degli anni Settanta, fa irruzione sulla scena politica e sociale dei paesi occidentali un intricato insieme di rivendicazioni nuove nella forma e nel contenuto, dallo spiccato taglio conflittuale e contestatario e con obiettivi di radicale trasformazione delle relazioni sociali. I movimenti sociali a cui mi riferisco dovrebbero essere forse più esattamente considerati come movimenti culturali, in virtù del carattere culturale delle rivendicazioni di cui si fecero
quasi sempre spiegato come esito del sorgere di nazionalismi o ideologie politiche, o come frutto della presenza di conflitti di classe e di condizioni di particolare sfruttamento o povertà materiale oppure ancora come sottoprodotto di disfunzioni nei sistemi sociali. Invece, nel caso dei movimenti di fine anni Sessanta-inizi anni Settanta, per la prima volta le rivendicazioni collettive non rimandano al miglioramento delle condizioni materialistici» (Inglehart, 1977). La tesi dei più attenti osservatori è che i bisogni immateriali o postmaterialisti caratterizzano le ultime generazioni, nate e cresciute in un clima di relatività prosperità economica, con nuovi spazi e tempi a disposizione per il consumo piuttosto che per il precoce inserimento nella vita adulta. Il superamento delle necessità socioeconomiche minime e dello status di privazione comporta per i nati negli 129
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meno quantificabili, più orientate al futuro, più idealistiche (la salvezza del formazione di soggetti collettivi non previsti dalle istituzioni e non previsti neppure da contraddizioni strutturali palesi, costituisce una novità nel paesaggio relativamente stabile e tranquillo degli anni del boom economico nelle società occidentali. E, oltre che inaspettata, la lunga stagione dei movimenti mostra una sua originalità che consiste nel mettere in moto «forme di azione collettiva non istituzionali, spontanee. I movimenti si situano fuori dal quadro istituzionale, non si richiamano ai partiti politici, non entrano nel gioco dei poteri riconosciuti, non si misurano con le contese elettorali. Reclutano i loro simpatizzanti fuori dai canali convenzionali della rappresentanza» (Piccone Stella, Salmieri, 2012, p. 121). Lo scopo è mettendo tuttavia in questione molti canoni culturali. Prima il movimento per il riconoscimento dei diritti civili degli africani e movimenti studenteschi e il femminismo non solo negli Stati Uniti, ma tono in scena forme di protesta e dei poteri riconosciuti, estranei agli strumenti elettorali di rappresentanza, non delegano e soprattutto mettono in discussione un intero quadro di rapporti sociali in cui alle disuguaglianze sostituiscono le differenze. I temi della lotta politico-culturale sono i diritti civili attraverso cui ottenere pieno attraversat delle autorità precostituite in capo alle organizzazioni sociali di rilievo
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università, i luoghi di lavoro, le istituzioni maschili che dominavano il controllo della salute e della riproduzione femminile. Il movimento per i diritti civili, quello giovanile, il femminismo ebbero diversi momenti di fusione e alleanza combattere avevano le sembianze di un nemico comune e svilupparono in maniera articolata una duplice lettura critica della modernizzazione: per un verso criticavano molti degli aspetti disumanizzanti del progresso capitalistico e tecnicoccidente
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i conflitti armati, il soggiogamento e la subordinazione dei popoli non occidentali, la devastazione delle risorse naturali del pianeta, la segregazione razziale, la repressione sessuale e omosessuale andavano alle
sociale, la liberazione dai vincoli familiari e del mercato del lavoro. Da questo secondo punto di vista, i movimenti sociali rilanciavano una visione utopica della modernità, nel momento in cui questa mostrava i primi segni di una crisi di inefficacia. Per quanto diverse anime convissero e si alternarono al megafono delle rivendicazioni e al centro delle manifestazioni di protesta, le forme espressive e simboliche che scaturirono dai movimenti sociali produssero una profonda alterazione dei capisaldi della cultura dominante nei paesi in cui agirono. L'apporto dei movimenti e delle nuove soggettività politiche, l'enfasi sull'identità e sulla differenza, piuttosto che su ruoli, gruppi e disuguaglianze, la spinta verso i riconoscimenti della dimensione simbolica piuttosto che verso l'abbattimento delle disparità economiche o verso la ricerca di equilibri di pacificazione sociale vanno considerati non solo per un contributo diretto alla costruzione dei nuovi paradigmi culturalisti, ma anche per la forte carica antagonista rispetto ai riferimenti politici, culturali e scientifici che li precedevano. È utile distinguere tre differenti tipi di intreccio tra i movimenti degli anni Sessanta-Settanta e la svolta culturale: i) il primo è un intreccio di ordine macro strutturale e generale, nel senso che la forza dirompente dei nuovi soggetti che si presen nuovi criteri di aggregazione è tale da scardinare il quadro politico, modificando il funzionamento, gli assetti, le relazioni e i comportamenti dentro e fuori le istituzioni che si erano evolute nel corso dei decenni senza particolari movimenti tellurici la famiglia, le istituzioni formative, le organizzazioni politiche, il mondo del lavoro. In questo caso il contributo alla svolta culturale va considerato in termini di trasformazione generale del clima antropologica dei soggetti che hanno voce in capitolo e che determinano seguiranno poi subito altre minoranze etniche delle donne e dei giovani. Sebbene gli effetti del cambiamento si rendano visibili nelle istituzioni solo gradualmente, con correzioni di rotta, ripensamenti, sconfitte, adattamenti e passaggi storici le 131
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politiche attive e le affirmative action (azioni positive) per le minoranze, i democratizzazione dei rapporti familiari e di coppia, le trasformazioni dei è lo studio della cultura, o meglio delle culture, delle subculture e delle controanalisi delle dinamiche di potere. La cultura politica cambia, le istituzioni si modificano. La novità culturale opera qui come forza causale, intervenendo direttamente sulle strutture sociali di riferimento e alterandone non tanto gli renda visibile nelle istituzioni solo gradualmente nel tempo, la sua portata è immediatamente simbolica ed espressiva, poiché scuote il senso comune, diversi punti fermi. Una delle strategie dei movimenti è proprio quella di elaborare e diffondere in maniera creativa immagini e simboli che
durata che si è perpetuata e ancora oggi si perpetua, alimentata dalle reazioni oppositive alla stessa sfida, in un movimento circolare e continuo sui cui si reggono i dibattiti politici, sociali e valoriali contemporanei. Si tratta di una sfida pratica e linguistica a fatti e a nozioni in precedenza considerati
alla quale è stato necessario schierarsi e prendere posizione. Si impongono nuovi valori rispetto ai quali si generano anche posizioni di rifiuto: il valore della differenza, un messaggio collettivo dei movimenti degli anni Sessanta, uello sul multiculturalismo; il valore della cura, promosso dalla riflessione delle formazioni femministe; la libertà degli orientamenti sessuali, per il quale ha lavorato il movimento gay. Le sfide terminologiche e valoriali generano contro-sfide culturali e queste a loro volta alimentano nuove definizioni teoriche. ii) Il secondo intreccio riguarda la ricaduta dei movimenti sulla cultura della comunità scientifica, sulle sue pratiche e sul suo linguaggio, sui suoi metodi e sulle sue teorie, oltre che sui suoi temi. Non solo perché i campus, le università e i luoghi della ricerca sono sin da subito uno dei centri della
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contestazione e della critica, ma proprio perché la rivisitazione del ruolo del sapere e della conoscenza nella società rappresenta un nodo focale della critica dei movimenti. Il mondo delle scienze sociali è attraversato da una serie di energie autoriflessive che mettono in luce come diverse categorie concettuali prendo prospettive di studio alternative riprendono slancio, nuovi oggetti di ricerca e presa di coscienza, la trasgressione, la resistenza, per citarne alcuni; in critica, i rapporti tra la disciplina e il potere post-coloniale; negli studi umanistici: la scoperta delle letterature non occidentali, lo studio delle filosofie orientali, la soggettività, il corpo, la sessualità. Temi più o meno nuovi di studio penetrano e si diffondono trasversalmente a più discipline: i fiducia nelle relazioni sociali, la vita quotidiana. Un tema più di tutti, quello delle identità e delle differenze culturali acquisisce una centralità inedita. Ma si tratta anche di una profonda rivisitazione dei significati associati ad alcune parole chiave. Melucci (1976) ad esempio ricostruisce come i movimenti di rivolta, le azioni collettive e le varie forme del dissenso abbiano costretto anche le scienze sociali a rivedere molti concetti familiari: il privato, il pubblico, i diritti, lo stato, la societ culturali il lascito terminologico e concettuale del decennio dei movimenti è molto denso: culture di opposizione, culture della mobilitazione, culture della solidarietà, identità, investimento emozionale. La carrellata dei valori politico-culturali è ancora più ampia: studentesche, si riflette anche nelle pretese di democratizzazione delle relazioni tra le figure autorevoli e le figure emergenti o soltanto esordienti nei contesti accademici e di ricerca; i valori pacifisti ed ecologisti, quali la non anti-consumistica si traducono velocemente in filoni di studio e di ricerca, politicamente orientati, ma non per questo privi di ricchezza euristica; le pari opportunità, frutto dei movimenti antidiscriminatori, da quello per i diritti civili a quello delle donne, a loro volta generano nuovi campi specialistici del
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meccanismi di segregazione, dallo studio delle disuguaglianze di opportunità di genere, dallo studio delle rappresentazioni delle differenze etnico-razziali agli studi sugli orientamenti ravvicinata ai soggetti concreti, agli attori come persone, al di là delle astrazioni e dei ruoli, proprio perché i soggetti, come persone, hanno scelto di manifestare la loro volontà e i loro desideri. Nel campo sociologico, ad esempio, si svilupperanno in seguito prospettive focalizzate sugli aspetti relazionali della soggettività, sulle dimensioni di networking, sulle forme sociologia per la persona (Allodi, Gattamorta, 2008). Cadono anche alcuni tabù, si impongono la fisicità e le questioni del sesso, la salute e la malattia. Il corpo assume una posizione di primo piano
nella circolazione di pensieri prima inespressi, di desideri che non erano ancora stati messi a tema il vero contesto della svolta culturale, il suo nutrimento nella possibilità di dare un nome a problemi che ancora non iologia non solo di temi nuovi, ma anche di domande e ipotesi nuove. Adesso è la declinazione impregnano di sé i comportamenti, le scelte di vita? I valori culturali estrinsecano la loro forza causale e i loro significati quando si traducono in una pratica, osserverà Sewell (1992) a distanza di anni, e i movimenti hanno rappresentato a modo loro questa traduzione. Un cospicuo carico di quesiti viene di conseguenza affidato alla ricerca empirica, che si incarica di verificare la distribuzione sia dei nuovi che dei vecchi valori come dei nuovi e dei vecchi significati. La centralità della cultura e in particolare del suo carico simbolico ed espressivo diventa evidente non solo nelle diverse aree della sociologia, ma anche in altre discipline umane e sociali. La popular culture (non più la cultura di massa) che pure agli inizi degli anni Settanta comincia ad interessare in modo sistematico la sociologia americana che inaugura una vera (Santoro, 2008), si assesta come oggetto di analisi legittimo e cruciale per i Media studies (Fiske, 1986; 1987; 1989). Modelli, significati, simboli, valori vengono additati e messi a frutto dagli studiosi perché capaci di illuminare
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questioni culturali, scavano ora nel terreno dei significati: la scienza politica indaga sulla mutevolezza dei meccanismi del consenso e sulle forme di fiducia per interpretare i mercati finanziari e le alleanze economiche, la le dinamiche dei gruppi organizzati. Nei campi intellettuali che agivano a stretto contatto con i movimenti sociali e che non potevano che privilegiare un approccio critico alla società, la crescente avversione alle autorità epistemiche consolidate si estrinsecava spesso nei discorsi di debunking, ovvero attraverso uno rovesciamento ironico delle letture dominanti del sociale. La messa in discussione riguardava ovviamente quegli autori delle scienze sociali che guardavano alle contestazioni dei campus americani e a quella aria vagamente hippy a loro avviso intrisa di stranezze e teorizzazioni insostenibili che, per sociologi come Alvin W. Gouldner (1970), stavano acuendo la crisi della sociologia. Per quanto Gouldner sostenesse con convinzione che la sociologia dovesse allontanarsi dalla produzione di una verità oggettiva e dovesse piuttosto accettare la natura soggettiva della conoscenza, non mancava di sottolineare come il «contesto di contraddizioni e conflitti sociali» fosse «la matrice storica di ciò che chiamò «la crisi imminente della sociologia» (Gouldner, 1970, p. 5). La sociologia, nello scontro culturale tra scienza e studi umanistici per il proprio riconoscimento pubblico (e quindi per ottenerne vantaggi istituzionali e finanziari), si era venuta a definire sempre più come una (umanistico). Tale autodefinizione, per quanto niente affatto condivisa da tutti i sociologi, comportava un trattamento migliore da parte dei governi, era diventata ormai quasi indiscussa nel periodo che va dal 1945 al 1968: come abbiamo visto, i riscontri pratici e applicativi della sociologia come apparati industriali e dalle organizzazioni a scopo militare e il clima della Guerra Fredda avevano contribuito a rendere vincente tale preferenza. iii che le scienze sociali dedicano immediatamente ai movimenti in quanto vero e proprio oggetto di interpretazione. Se la «questione giovanile» era stata più volte trattata dalla 135
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sociologia, ciò era avvenuto in riferimento ai temi della devianza e della ribe sulla capacità dei mondi giovanili di produrre una contro-cultura, di elaborare forme espressive e pratiche culturali proprie, autonome, originali, talvolta particolarmente creative e innovative. Altresì, si tentava di valutare il portato politico della contestazione giovanile, la capacità di incidere ideologici. Certamente anche le questioni razziali e la subordinazione ma in questo caso indagini, ricerche e ipotesi teoriche si erano sforzate di rilevare le cause della segregazione, della persistenza di stereotipi e atteggiamenti razzisti o sessisti e di individuare la natura dei vincoli e degli ostacoli che si frapponevano di volta in volta ad una concreta emancipazione anni Settanta la sociologia dovette invece fare i conti con la presa di
li risultava allergica organizzazione, risorse, precondizioni strutturali, classi, scelta razionale. I nuovi movimenti potevano essere meglio compresi rifacendosi ai tipici elementi che avevano contraddistinto lo studio della cultura e delle sue manifestazioni fenomeniche: credenze, valori, rituali, simboli, artefatti, rappresentazioni. Un set di fattori meno pesanti (soft) rispetto a quelli usati in passato veniva ora preferito per comprende sociali, fattori che rimandavano alle dimensioni cognitive e soggettive operativizzare secondo le metodologie della sociologia quantitativa. Nel tracciare un bilancio degli esisti della stagione dei movimenti, le scienze sociali, la sociologia e le scienze politiche in particolare, sono state più o meno concordi nello stabilire che i risultati più efficaci e più durevoli sono riscontrabili, più che sul fronte squisitamente politico, proprio nelle trasformazioni culturali introdotte nel senso comune e negli stili di vita. Le un altro. La radicalità delle richieste e delle istanze immediatamente traducibili in leggi, riforme e rotture politiche era tale che i modesti risultati
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ottenuti, per quanto comunque significativi si pensi ad esempio alle leggi e alle riforme che in tutti i paesi occidentali hanno inciso sui rapporti di genere diritti civili e sociali delle minoranze etniche non potessero corrispondere a tutte le aspettative, alcune utopiche, dei movimenti. Ma sul piano culturale, una sorta di lunga durata degli effetti incisivi dei movimenti è innegabile. Le
sul piano simbolico, attraverso linguag anche a dispetto del fatto che le opportunità e gli scenari politici non fossero più gli stessi. Johnston e Klandermans (1995) indicano come esempio di lunga durata il fatto che la singolarità culturale del movimento delle donne e la sua permanenza nel tempo siano in parte collegabili alla forma organizzativa, poco gerarchica e poco autoritaria, e al suo approccio, meno frontale nella negoziazione e più flessibile, di altre formazioni. Soprattutto contestazione e della lotta, abbia poi segnato gli attori nel modo in cui pretendono e a volte ottengono, nella vita quotidiana, nei rapporti di lavoro e negli ambiti del privato, il rispetto di quelle istanze che erano state al centro della mobilitazione anni prima.
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IL RIEMERGERE DELLE ALTRE SOCIOLOGIE
II
Il riemergere delle altre sociologie
Le battaglie delle nuove leve di sociologi contro le figure autorevoli e a loro detta autoritarie americana fu uno dei caratteri che accompagnò la critica alle scienze sociali consolidate a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta. Molti studenti e studentesse che erano anche impegnati nei movimenti femministi e per i diritti delle persone di colore condividevano
mainstream. In un clima di mobilitazione e contestazione, fu facile individuare il nemico in modo schematico e rigido, additando le forme di sapere e di ricerca che richiamavano le posizioni teoretiche e metodologiche soprattutto molti degli attivisti o simpatizzanti furono gli artefici, spesso involontari, della diffusione e quindi del risorgere di una serie di prospettive
Nel periodo di contestazione, le prospettive di influenza marxista
affidavano alla ricerca sul campo. Si trattava di prospettive tutte già da tempo funzionalista che divenne il nemico da criticare, facendo così riscoprire le 139
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prospettive che in precedenza erano state messe in ombra. La principale stretto un legame acritico con i matematici e gli statistici, i fautori delle teorie generali di ampio respiro con i promoter delle teorie della modernizzazione capitalista, i teorici politici con i sociologi del consenso. La convinzione più condivisa non corrispondeva esattamente alla realtà, ma era un modo efficace per rappresentarla in termini manichei: il funzionalismo aveva rappresentato il quadro teorico comune per gli usi positivisti della sociologia. Quanto meno questo era il mondo che ritenevano di ribaltare coloro i quali negli anni Settanta attaccavano la sociologia mainstream. Si trattava ovviamente di una semplificazione, utile anche per collocare in un unico calderone i sociologici che avevano i capelli bianchi e che rappresentavano la vecchia guardia. L'energia dei movimenti sociali su vasta scala quello per i diritti civili, il pacifismo e la mobilitazione contro la
generale delle scienze sociali del passato che, tuttavia, veniva frettolosamente fatta corrispondere con un nemico a cui era stato dato il nome di mainstream sociology. Il fatto è che fino alla fine degli anni Sessanta, le voci critiche radicali interne alla sociologia, pur presenti e vive, erano state soltanto «lamenti nel deserto» (Flacks, Turkel, 1978, p. 198). In seguito Bourdieu sosterrà che il mix di teoria funzionalista e metodologia positivista era arrivato al punto di dominare la sociologia americana: «sulla base delle loro posizioni universitarie, le tre grandi figure della triade del pantheon sociologico americano, sono state in grado di dominare, sia negli Stati Uniti che in altri paesi del continente occidentale, non solo le istituzioni accademiche, ma anche le sedi di pubblicazione, le associazioni professionali e più o meno direttamente le risorse disponibili per la ricerca empirica» (Bourdieu, 1991, p. 378). La triade a cui Bourdieu si riferiva era quella composta da Parsons, Merton e Lazarsfeld. Naturalmente negli Stati Uniti, ma anche in Europa, durante tutti gli anni Settanta e Ottanta le discipline delle scienze sociali assorbirono molti di quanto il vertiginoso aumento di laureati e giovani ricercatori facesse presupporre). Fu anche per questo motivo che negli anni successivi le teorie del conflitto e i temi legati a razza, genere e classe entrarono a far parte degli
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insegnamenti sociologici e degli oggetti di analisi delle ricerche. Ciò comportò la proliferazione di diversi sotto-campi delle scienze sociali, la nascita di nuove riviste e un rinnovato interesse per le posizioni che sottolineavano la possibilità che il cambiamento culturale influenzasse le prospettive e i metodi di analisi. Deve però essere sottolineato che nel corso della svolta culturale, la sociologia mainstream che veniva indicata come un campo monolitico, definito e potente che aveva dominato la teoria e la ricerca, costituiva più un bersaglio generico che un preciso e univoco apparato teorico-metodologico. Frutto di una strategia discorsiva, sorta di epiteto classificatorio, e al contempo arma dei critici, la nozione di mainstream divenne lo strumento analitico per periodizzare schematicamente la sociologia postbellica e attaccare molte figure della sociologia di allora. Insomma, la sociologia mainstream era anche frutto di una ricostruzione exvisto che negli anni il fronte che si intendeva criticare era stato in realtà caratterizzato da una certa eterogeneità di posizioni (Fuller, 1996; Laslett, Thorne, 1997; Levine, 2004; McAdam, 1988; Sica, Turner, 2005; VanAntwerpen, 2006). Come ebbe modo di notare in seguito Gouldner, tanto in America che in Europa i sentimenti della New Left e della cultura psichedelica della fine degli anni Sessanta, erano profondamente dissonanti con gli assunti di fondo incorporati nella sintesi teorica prodotta da Parsons anni addietro, tanto che scriveva Gouldner: «al solo pensiero di un hippie parsonsiano, la mia mente trasecolerebbe» (1970, p. 160). Eppure la posizione di Gouldner era quella di chi se da un lato aveva anticipato la necessità della teoria e della ricerca sociologica di dotarsi di un sapere riflessivo e autocritico, pena la crisi sia dalle critiche cieche provenienti dalla stagione della contestazione generalizzata, sia dagli apporti che gli approcci culturalisti avrebbe potuto offrire allo sviluppo delle scienze sociali. The Coming Crisis of Western Sociology del 1970 toccava in particolare il potere della sociologia più istituzionalizzata, impersonata dalla figura di Parsons; viceversa la sociologia riflessiva doveva e poteva rappresentare non una semplice opposizione o una sociologia critica, ma la base per articolare una visione costruttiva della sociologia e della società (Gouldner, 1970, p. 500). Per Gouldner la sociologia accademica aveva disconosciuto il mondo sociale in cui agiva e la sociologia riflessiva sarebbe stata la risposta per affrontare davvero quel 141
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mondo e conseguire una «consapevolezza distintiva delle implicazioni ideologiche e della risonanza politica del lavoro sociologico» (1970, p. 499). Se la teoria di Parsons era soggetta ad una «imminente entropia», ciò era dovuto al fatto che essa era ormai fuori passo rispetto allo spirito politico e culturale del tempo. La sociologia riflessiva avrebbe fornito invece una ricetta più utile della mera critica sociale. È probabile che le critiche, ormai negli anni Settanta ritualizzate, nei confronti di Parsons che la sociologia quantitativa aveva avuto proprio in quegli anni (Gerhardt, confronti di temi che erano stati sottratti alla teoria critica, come le classi e i la riproduzione delle disuguaglianze, il mercato del lavoro, lo studio dei mass media. Anche per questo motivo, i sociologi ribelli degli anni Settanta proiettavano la lotta epistemica per il futuro della disciplina in una ricostruzione parziale del passato: la battaglia sulle classificazioni dei temi era anche uno scontro sociologia mainstream erano un attacco ad un certo tipo di canone dominante, cioè una sorta di presunzione minima che il positivismo
Naturalmente questo non significò che tutti coloro che avevano per anni contributo a sviluppare questo canone smisero improvvisamente di aderirvi per effetto della pesante e diffusa critica che avanzava. Soltanto che ora bisognava fare i conti con le critiche e quindi si poteva e si doveva essere più dubbiosi e meno convinti. Gli assunti che avevano informato il fare sociologico per tanti anni, anziché auto evidenti e scontati, diventarono una appariva improvvisamente varia e disordinata. La nuova generazione di studiosi si opponeva al principio dominante nel periodo 1945-1968 che gli studiosi potessero e dovessero assolutamente separare i loro giudizi scientifici dalle loro preferenze morali e politiche. Non solo non lo si considerava più possibile, ma neanche auspicabile. Nel campo sociologico la svolta culturale non può essere tuttavia ridotta al solo attacco, alle teorie e alle posizioni dominanti degli anni Cinquanta e Sessanta. Del resto lo stesso ritorno delle influenze della sociologia di
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derivazione marxista al centro del dibattito negli anni Settanta può essere letto come una forma di semplificazione operata da parte di coglieva nei movimenti sociali di quel periodo la causa principale della messa in discussione del mondo accademico e delle sue prospettive conservatrici. Questo è tanto più vero se si pensa che tra le stesse cause di un complesso culturale, è naturale inserire il graduale fallimento del paradigma marxista. Come hanno notato Victoria Bonnell e Lynn Hunt in un bel saggio di introduzione al testo Beyond the Cultural Turn del 1999, la crisi del pensiero marxista e post-marxista come strumento interpretativo nel contesto delle scienze sociali ha tirato dietro di sé un generale collasso di tutti discipline capaci di fissare una verità empirica. Si trattava, dunque di una più generale messa in discussione della forza euristica delle grandi teorie, il funzionalismo quanto il marxismo. Al punto che, Bonnell e Hunt (1999) si interrogano sulla possibilità che le scienze sociali siano diventate, con la svolta culturale, quasi una branca di un più generale campo di interpretazione, lasciata libera di proporre temi e metodologie avulse da qualsiasi riferimento ad un sapere condiviso. Del resto sembra questo essere stato il punto di arrivo più evidente anche per gli approcci postmoderni (Rosenau, 1992). Negli Stati Uniti gli anni Settanta videro il riemergere di approcci sociologici che nel corso dei decenni precedenti avevano sopravvissuto ai questi approcci, pur avendo un forte legame con molte delle basi della sociologia classica continentale, durante il periodo del successo globale della sociologia parsonsiana, erano stati sospinti ai margini, pur producendo ricerche, studi e teorizzazioni di estremo valore. Ora, grazie soprattutto ad un potente rinnovamento e ad un vita al moltiplicarsi di critiche al formalismo sociologico di Parsons della fenomenologia, a partire dalle teorie classiche filosofiche di Edmund Husserl (1913) e Alfred Schütz (1972), generò una rinnovata ispirazione, rinvenibile nella prospettiva di Peter L. Berger e Thomas Luckman (1966) epistemologico del positivismo e della società occidentale; la genesi
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Harold Garfinkel (1967) curiosamente giovane studente di Parsons con cui nel 1952 consegue ad Harvard un dottorato in Filosofia riesce a svelare le convenzioni tacite che sostengono i rapporti sociali, usando una radicalità reto delle attività quotidiane e con un atteggiamento anti metodologico, allergico alle regole, recalcitrante, anti sistemico e perfino romantico; la sociologia di Goffman (1969, 1974, 1981) e di tutto il filone interessato ai micro-contesti della vita quotidiana, operano un distacco definitivo dalle pretese strutturali. Ai tempi della radicalizzazione dello scontro interno alla sociologia, il duello tra teorie micro e macro avviluppò queste prospettive sociologiche, rno delle teorie micro. Queste ricevettero un forte sostegno da tutti coloro che associavano le teorie macro alla sociologia dominante. Ci è voluto del tempo prima che la maggioranza dei teorici ento operativo tra delle teorie della sociologia della cultura, dopo il fervore degli anni Settanta, si è effettivamente assistito ad un riavvicinamento, con il consolidarsi degli auspici affinché i due sguardi siano considerati complementari, piuttosto che accompagnato dal risorgere virulento di una seconda contrapposizione, quella tra metodi quantitativi e metodi qualitativi (Steinmetz, 2004b). Non reazione agli stravolgimenti culturali aveva portato ad una ripresa degli approcci micro, allo stesso modo le preferenze per i metodi cosiddetti qualitativi ritrovarono una nuova linfa grazie al clima di sfiducia nei confronti delle grandi survey quantitative. Naturalmente, lo sviluppo e gli avanzamenti degli strumenti statistici e di elaborazione e analisi dei dati continuarono la loro marcia indisturbata: non è che improvvisamente nessuno più facesse analisi quantitative. Anzi, queste diventavano sempre più raffinate. Tuttavia, rispetto al recente passato, i metodi qualitativi potevano alla pari. Le diverse sensibilità emergenti assieme al consenso per la sociologia goffmaniana e per la variegata famiglia delle ricerche riconducibili sancirono i punti in comune: le relazioni e i contatti face-to-face degli attori sociali dovevano essere considerati come una delle caratteristiche centrali
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della sfera sociale; le persone dovevano essere viste come attori creativi, portatori di conoscenze e pratiche intelligenti che possono essere poste al dovevano essere concepite come derivanti dalla capacità delle persone di gestire gli incontri e le relazioni rendendoli il più possibile prevedibili, efficaci, dotati di senso e reciprocamente comprensibili; per comprendere i ora bisogno di adottare metodologie interpretative con le quali catturare le modalità attraverso cui gli attori definiscono la situazione in cui interagiscono e comunicano. Queste posizioni sociologiche avevano due origini differenti, una antica, influenze legate alla sociologia classica: il patrocinio di Weber sulla rilevanza della Vcrstehen (la comprensione) forniva un presupposto importante, poiché consentiva di evidenziare la centralità dei significati rispetto all'azione sociale. Le produzioni teoriche di autori come George Herbert Mead e Charles Cooley furono altresì influenti nel ripescaggio di temi quali la riflessività e il senso di sé che gli attori elaborano nel corso delle interazioni sociali. Le metodologie etnografiche di ricerca della prima generazione di chicagoans rappresentarono un ulteriore impulso fondamentale nel tradurre reali e concrete forme di interazione. Infine, la tradizione europea della fenomenologia fu abbracciata fin tanto che risultava proficua nel sottolineare teorie a sostegno degli approcci interazionisti. sione al funzionalismo parsonsiano (Alexander, 1987, 1988; Heritage, 1984). La modalità di analisi proposta da Parsons sottolineava che il mantenimento dell'ordine sociale e che la , così come tutte le altre sociologie micro, puntavano invece a far emergere il peso che gli attori e i micro-contesti dell'azione hanno per i modelli teorici della riflessività, della costituiva tuttavia anche un nodo abbastanza intricato rispetto alla concezione culturale di Parsons: grazie a una messa a fuoco della tradizione
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vi fossero i simboli delle varie forme di comunicazione intersoggettiva che gli attori interpretano e reinterpretano. Non potevano tuttavia ammettere che l'azione fosse organizzata a partire da un ordine culturale sistemico o da simboli collettivamente e rigidamente condivisi. Se lo avessero fatto, avrebbero commesso lo stesso tipo di peccato che imputavano della teoria dei sistemi di Parsons. Ne conseguiva un corpo di produzioni teoriche e di ricerche che ruotavano sul rapporto tra significati e interazioni sociali, paradigmatico è il contributo teorico di Herbert Blumer (1969, p. 7): «il significato delle cose deriva da o si cella nell'interazione sociale che ciascuno sociale è cruciale scoprire le modalità con cui le persone creano e utilizzano norme e i valori forniscano la base per spiegare i significati che le persone attribuiscono alle cose e alle relazioni con gli altri» (Blumer, 1969, p. 3). Piuttosto che descrivere schematicamente come la cultura possa plasmare i modelli d'azione e come questi risultino analiticamente distinti dalla cultura, one simbolica fuoriescono dalle strettoie delle interazioni faccia a faccia e dalle micro-situazioni della vita quotidiana. Questo tema rappresentava una delle priorità dei lavori di Erving Goffman. La sociologia di Goffman presentava diversi spazi di approdo per coloro i quali puntavano ad una rivisitazione radicale della sociologia in chiave culturalista e anti-strutturalista: una spiccata e acuta attenzione ai modi in cui l'uomo usa la cultura nelle interazioni quotidiane costituiva una qualità sempre più apprezzata via via che negli anni Settanta crescevano le fila degli anti-strutturalisti. Senza ttagli come la gente impiega le risorse culturali per mantenere le definizioni appropriate e comuni delle varie situazioni, allora la concezione della cultura come qualcosa di immutabile o comunque rigido poteva essere riposta in soffitta. La comprensione che l'analisi semiotica fosse fondamentale per comprendere l'interazione sociale suonava come musica alle orecchie di chi stava sociologia (Vester, 1989; Fine, Manning, 2003). Del resto Goffman
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dimostrava che viviamo in un mondo dove i significati sono costantemente scambiati offrendo un modello profondamente culturale della vita sociale. la sessualità, le emozioni, il genere che erano essenzialmente assenti dalla disciplina sociologica nei decenni precedenti, rubarono il centro della scena non solo grazie ai sociologi le cui sensibilità e preferenze tematiche erano emerse dal fermento politico e culturale dei movimenti, m coloro che meno avevano vi avevano partecipato. Goffman (1976, 1979) ad esempio nel corso degli anni Settanta svolse un lavoro di osservazione e raccolta di un vasto repertorio di annunci pubblicitari mettendo in evidenza il ruolo subordinato della donna rispetto all'uomo. Un rapporto che si evince sul piano della rappresentazione dall'analisi del comportamento non verbale prossemica, dalla postura e nelle espressioni, nei gesti e nelle relazioni spaziali tra i soggetti (femminili e maschili). Le considerazioni di Goffman facevano il paio con quelle prodotte ad esempio dalla ricercatrice britannica Laura Mulvey (1975) che aveva puntualizzato le principali caratteristiche dello sguardo maschile (male gaze passa attraverso il filtro dello sguardo dell'uomo, che coincide con quello della macchina fotografica e che determina le logiche dalle quali emergono i punti di vista, gli aspetti formali e di ripresa che caratterizzano l'immagine femminile. Lo sguardo maschile costituisce il risultato e il presupposto di una visione del mondo androcentrica, che elegge l'uomo a misura di tutte le cose in una prospettiva che è costantemente riproposta e perpetuata dalla collettività che ne ha incorporato regole e valori, in un regime dove i dominati (le donne) applicano categorie costruite dal punto di vista dei dominanti (uomini) ai rapporti di dominio, facendoli apparire come naturali. Trasversalmente al riemerge di alcune tradizioni sociologiche, un grande culturale dei soggetti e delle aree del mondo precedentemente marginalizzate. Il concetto di minoranza fu sostituito da quello di identità etnica o culturale «negroes» dovevano essere chiamati «blacks» e poi in seguito «afroamericans». Nacque il concetto di «hispanics» poi sostituito da «latinos». Allo stesso modo gli «american indians» divennero i «native americans» e così via in un crescendo di rivendicazioni identitarie che riguardavano non soltanto il composito mosaico multiculturale americano, ma cominciarono 147
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ad estendersi anche a nuovi popoli che come funghi spuntavano ovunque a 2005). I nomi, i concetti e le definizioni divennero un terreno di battaglia: nel mondo della sociologia americana «race relations» fu sostituito da «racial/ethnic conflict» e pregiudizio da «razzismo». Per la prima volta il Gli assunti fondativi dei nuovi concetti erano molto diversi rispetto al passato: tradizionalmente le differenze tra uomini e donne venivano «sexual inqualities» oppure «sexual differences», ma a partire dagli anni Settanta il con femminismo, sostituì gradualmente i vecchi assunti e il vocabolario delle scienze sociali cominciò ad ospitare concetti come «gender identity», femminista produsse costruzioni storiche, sociali e culturali del maschile e del femminile. In famiglia. Alla fine degli anni Settanta, in tutte le scienze sociali le analisi si basavano, tra le altre cose, anche sulle variabili di genere e base etnica, divenute ormai imprescindibili nelle indagini statistiche ufficiali (Alcoff, Potter, 1994). Nel corso del tempo le differenziazioni e le politiche di rivendicazione identitaria si sono moltiplicate: gli omosessuali sono diventati in definitiva «gay, lesbiche, bisessuali e transessuali (GLBT)»; i disabili sono diventati i «diversamente abili» e così via. Per ciascuno di questi casi e per quelli che movimenti sociali sorgevano prima o poi istanze e rivendicazioni che richiamavano con forza una maggior attenzione e un maggior rispetto per una specifica minoranza, ne conseguiva la scoperta che nel mondo delle scienze sociali e in termini di attenzione universitaria vi era stato troppo disinteresse per la questione. Nel volgere di breve tempo nascevano studi specialistici, programmi di ricerca, riviste scientifiche e associazioni che si occupavano di recuperare il gap.
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Negli anni Settanta, la mobilitazione femminista americana dall'interno delle sindacati e dei luoghi pubblici di lavoro dando vita anche nuove forme sociali vi furono enormi trasformazioni in termini istituzionali e intellettuali. Furono sollevate questioni riguardanti le basi sociali delle disuguaglianze tra uomini e donne, il dominio maschile, le sue forme normative e culturali, il potere, la sessualità, la ge dei rapporti di genere ha finito poi per riguardare anche lo studio della mascolinità e delle sue diverse forme. La sociologia ha registrato, descritto e truzione, ha sostenuto e poi annotato in termini entusiasti il graduale cambiamento nei valori di riferimento delle nuove generazioni di donne, sempre più orientati Anche i temi della discriminazione razziale e della condizione femminile nella società contemporanea non erano del tutto nuovi nella sociologia. Tuttavia, non appena negli anni Settanta sia alcune femministe che alcuni sociologi di colore cominciarono ad entrare nel mondo accademico, la sfida per includere i paradigmi interessati alle questioni razziali e di genere assunse il tono della critica alla sociologia mainstream altri movimenti sociali, come quello per i diritti civili e quello pacifista, il movimento delle donne, nel modo in cui riuscì a farsi spazio nei contesti 151
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accademici statunitensi ed europei, rappresentò una nuova forma di mobilitazione culturale e istituzionale che portò le donne ad agire collettivamente attraverso la fondazione di nuove riviste, l che stavano a cure alle analisi femministe (Laslett, 2007). In un primo momento i movimenti sociali che si erano mobilitati contro le discriminazioni razzia nelle teorie marxiste e nelle varianti meno ortodosse terreno fertile per la produzione intellettuale. Le diverse posizioni in qualche modo legate alla sociologia o alla teoria critica marxista presentavano il vantaggio di offrire
aggiungere le questioni razziali e di genere. Tuttavia, la principale rottura operata dalle versioni accademiche del femminismo e dei movimenti di rivendicazione delle identità etnico-minoritarie fu di non arrestarsi alla critica delle disuguaglianze socio-economiche, ma di pretendere anche e e differenze culturali e delle radici
anzi potevano essere e in pratica presto lo divennero un elemento di sviluppo della coscienza e una risorsa da difendere fieramente. Le teorie sulla riproduzione delle diseguaglianze di classe cozzavano con quelle relative alle differenze etniche e di genere. Soprattutto la versione deterministica del marxismo c discriminazioni razziali un addentellato secondario rispetto alla madre di tutte le ingiustizie: la subordinazione di una classe nei confronti di quella ormarono diverse correnti di pensiero. Tra queste, quella marxista aveva fatto da apripista alle altre e più di altre si era mossa alleandosi con le altre anime dei movimenti sociali. Ma nel volgere di pochi anni si produsse da parte di numerose intellettuali e accademiche una netta presa di distanza dalle campo della conoscenza. La corrente marxista del femminismo, accusata di vamente isolata, fino a diventare minoritaria. Le altre correnti femministe puntarono a ridefinire la scala delle priorità e in alcuni casi perfino a praticare un separatismo radicale:
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subordinazione delle donne, il dominio maschile lo precedeva. Inoltre, il marxismo rientrava facilmente nei sistemi di conoscenza oggettivi, monolitici e quantitativi che ora la critica femminista considerava come il portato e lo hile nel cruciale campo del sapere. Classe, genere e identità etnica davano vita a diverse combinazioni e genere) complicava le alleanze e moltiplicava i nemici (Baxandall, Gordon figura che riassumeva in un solo nemico i differenti regimi di oppressione di dei rapporti di potere prendeva una via meno superficiale. Così successe che le disuguaglianze di genere furono viste come una prova che non tutto poteva essere ricondotto alla questione del rapporto tra classi sociali; quelle etniche distinguere le condizioni delle donne bianche da quelle delle afro-americane e per sottolineare come in ogni contesto sociale le subordinazioni si intrecciassero in modalità e forme che non potevano essere universalizzate. Le femministe di colore criticavano le di subordinazione e oppressione di tutte le donne, silenziando la questione razziale. Adrienne Rich (1986), tra le prime teoriche che misero in crisi il soggetto femminile/femminista bianco, metteva in guardia contro i rischi di seriamente in considerazione le differenze di razza, etnia, classe, età e preferenza sessuale. Ci fu come un processo di separazione degli obiettivi delle diverse critiche la sua strada, sebbene le contaminazioni erano frequenti e fruttuose. Spesso le strade si rincrociavano, quando il nemico assumeva di nuovo le fattezze concrete di un qualcosa di palesemente insostenibile per tutti. Anche per tale motivo il pensiero femminista non giungerà ad un insieme di teorie sistematiche e di elaborazioni unitarie da cui articolare indirizzi strategici condivisi, ma produrrà posizioni differenti, contraddizioni, conflitti, continui nuovi interrogativi, strategie di lotta e di resistenza molto variegate, schema.
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In termini sociologici le ricerche e le analisi sulla stratificazione e la mobilità sociale si colorarono di venature più marcatamente politiche, trasformandosi spesso in analisi sulle classi e sulle diseguaglianze sociali. Tutto il filone della sociologia delle classi e delle occupazioni si rivitalizzò, raggiungendo un livello di ricerche e produzione teorica molto avanzato che ancora oggi in buona parte preserva. La posizione marginale delle donne nell'accademia negli anni Sessanta e Settanta portò la ricerca femminista come prima cosa fuori del mainstream sociologico. Come tutte le novità di questo tipo, prima di entrare nelle istituzioni del sapere codificato, la ricerca femminista prosperò cospicua a margine di queste. Nei primi anni Settanta, i programmi di studies emersero come un nuovo spazio di ricerca interdisciplinare libero dalle influenze provenienti dai canoni della sociologia fondamentale dimensione di genere ai fenomeni classici della sociologia o della storia sociale (McIntosh, 1983), i virarono presto verso una ricerca radicalmente nuova, preoccupata di comprendere le diverse configurazioni storiche e contestuali dei rapporti di genere. Un duplice obiettivo sguardo convenzionale delle scienze sociali, inserendovi questa nuova attenzione relativa ai rapporti di genere nella produzione del sapere, nelle pratiche economiche, nella sociologia e nella storia della famiglia, nel mercato sociale ed politica sulla soggettività e sulla maturazione della consapevolezza femminile, sulle dinamiche di riproduzione del dominio maschile a livello epistemologico. Nel 1970, venne fondata la Sociologists for Women in Society (SWS) che raggruppava un nutrito numero di sociologhe insoddisfatte dello spazio che la sociologia degli anni precedenti aveva riservato al tema delle differenze e delle disuguaglianze di genere e ancor più del ruolo di leadership che il mondo maschile deteneva nel campo accademico e della ricerca. Nel 1972, fondò un ufficio apposito che si sarebbe occupato di donne e minoranze, raccogliendo dati relativi alla presenza di 2007). Negli Stati Uniti, dal 1971 al 1981 la quota di donne che avevano ottenuto un Phd in sociologia raddoppiò, passando dal 20 al 40%. Nacque la rivista Gender and Society creando la prima nicchia sociologica interamente
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dedicata agli studi di genere. Tuttavia, in questa prima fase vigeva ancora stica: gli studi di genere studiano le donne e le ancora evidente e da questa derivavano anche facili automatismi percettivi: le sociologhe preferiscono i metodi qualitativi, i colleghi uomini, i metodi quantitativi. Sebbene si trattasse di uno stereotipo, ci volle del tempo prima che gli approcci interdisciplinari e la combinazione di metodi e fonti di ricerca dimostrasse il contrario. Another Voice (Millman, Kanter, 1975), una raccolta di contributi scritti con lo sforzo di immaginare nuovi approcci nelle della sessualità e delle forme sociali allora considerate devianti. Ebbe il merito di mostrare problemi e ostacoli alle azioni delle donne. Inoltre, si trattò di uno dei primi studi sociologici in cui le teorie di genere includevano pienamente anche gli uomini. Negli studi sulla stratificazione, una volta che i dati cominciarono ad essere raccolti ed elaborati considerando le variabili di genere, fu automatico icativo che si era fino ad allora
sociale in modo da includervi i processi di femminilizzazione dei settori oc reclutamento (Bielby, Bielby 1996; Rosenfeld, 1992) inaugurò il filone di studi sul genere nelle organizzazioni ed incoraggiò una nuova leva di sociologhe ad interessarsi al tema «genere, imprese e potere» (Crompton, 1984). Gli approcci interdisciplinari irti di ostacoli e spesso considerati naif segnarono la principale novità di cui gli studi di genere si fecero portatori (Andersen, 1987, 1993). Negli Stati Uniti i primi passi furono compiuti da figure come Jessie Bernard, Pauline Bart (1981) e Nancy Chodorow (1978). Hannah Papanek, Joan Huber, Barrie Thorne, Elise Boulding, Lise Vogel, Jean Lipman-Blumen e Joan Acker siglarono insieme il primo volume della rivista Signs: A Journal of Women in Culture and Society (1975) che si impose immediatamente come il principale riferimento accademico per le ricerche e i dibattiti sulla dimensione sociale e culturale delle teorie di genere. Il volume edito da Ruth Wallace, Feminism and Sociological Theory (1989)
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ta nel corso dei precedenti quindici anni in altre discipline: già nella prima metà degli anni Settanta, il concetto di genere, inteso come insieme di relazioni sociali costruite a partire dalle differenze sessuali e primario strumento di potere simbolico (Scott, 1986, 1988, 1991) si era imposto come potente attrezzo euristico in nelle discipline storiche e antropologiche (Lamphere, Rosaldo, 1974). Ma è solo nel pieno degli anni Ottanta che il concetto di genere venne rafforzato attraverso una serie di analisi teoriche: The Missing Feminist Revolution di Stacey e Thorne (1985), Doing Gender di West e Zimmerman (1987) e soprattutto Gender as a Useful Category for Historical Analysis di Joan Scott definitivamente il passaggio dalla teoria dei ruoli sessuali a quella delle identità e dei rapporti di genere, si compì un vero e proprio cambio di paradigma. La teoria dei ruoli sessuali stava ad indicare che le persone in modo più o meno aderente, confermando e riproducendo le aspettative dicotomiche ed esclusiviste (si appartiene univocamente al maschile o al femminile) del senso comune, in base alle diverse situazioni concrete e nelle varie fasi del corso della vita. Al contrario, il modello basato sul genere come costruzione sociale e culturale del maschile e del femminile non definiva le donne e gli uomini come intrinsecamente opposti, ma apriva la possibilità di considerare cambiamenti e contraddizioni nelle attribuzioni, nei comportamenti, nei sentimenti che socialmente sono assegnati a ciascuno dei due gruppi, cercando di interpretare quali interessi siano in gioco quando le persone resistono a tali costruzioni sociali, oppure ne propongono di diverse. Il maschile e il femminile erano dunque parte di un complesso sistema di identità di genere e non il frutto di ruoli individuali. Questa visione si è poi gradualmente affermata fino ad affinarsi con gli anni e giungere fino a postulare che il genere è qualcosa che si fa e si agisce doing gender. Si trattava dunque di un modello concettuale molto più flessibile e aperto ad ospitare le possibili costruzioni sociali alternative, aggiungendo altri generi o anche rendendo quello maschile e quello femminile coesistenti, ma non in opposizione. Questa nuova teoria contrastava la supposta naturalità corso degli anni Ottanta si è rinforzato il rifiuto della dimensione oppositiva e binaria del
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genere ed è emerso un nuovo tema di ricerca che coagulava gli influssi del decostruzionismo e del post-strutturalismo, la sociologia dei rapporti di potere e la genealogia storica in senso foucaultiano. Le diseguaglianze di nel linguaggio e nelle forme del sapere occidentale. Nel panorama femminista francese spiccano i contributi di Luce Irigaray (1974, 1984, 1990), Hèléne Cixous (1975) e Julia Kristeva (1974a, 1974b, 1974c, 1978) che, pur tutte come riferimento gli scritti di Jacques Derrida che, proprio in quegli anni, si ritagliavano uno ampio spazio nella verve della decostruzione. che ebbe un forte impatto nei Gender studies in area statunitense ed europea opponendosi alla tradizione più empirica del femminismo anglosassone, per sottolineare maggiormente il valore del linguaggio in cui ha sede la rappresentazione del femminile. Alla fine degli anni Ottanta, Judith Butler (1986, 1990, 1993) propone una teoria fenomenologica dei comportamenti genere come una serie di atti e concezioni performative. Il corpo e i linguaggi, la sedi principali della performativa di genere, dipendono dalle concezioni storiche e dai contesti (Butler, 2003). La distinzione tra la dimensione biologica delle differenze sessuali e il genere inteso come significazione e interpretazione culturale della fatticità biologica è alla base della visione rno della società. Per Butler il genere è frutto di performance che i soggetti agiscono a livello individuale in presenza di sono state trasmesse per produrre un nostra concezione delle differenze di genere ci risulta naturale o innata poiché il corpo «diventa il suo genere attraverso una serie di atti che sono rinnovati, rivisitati e consolidate nel tempo» (Butler, 1988, p. 520).
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Il 7 settembre 1968, nel corso di un evento di ampia copertura mediatica il concorso di Miss America ad Atlantic City alcune manifestanti del movimento di liberazione femminile diedero vita ad una forma di protesta a, cori che gadget che a loro avviso offendevano la dignità delle donne, ovvero reggiseni, scarpe con tacchi alti e riviste di bellezza che inevitabilmente finirono bruciate in un cestino della spazzatura. Le esponenti del Radical Women di New York, un gruppo femminista formatosi in quello stesso anno, aveva scelto il concorso di Miss America come target emblematico di un nuovo tipo di protesta: i canoni della bellezza bianca e hollywoodiana opprimevano le donne, vilificando le estetiche e le soggettività che non aderivano ai modelli dominanti basati sulla mercificazione del corpo femminile bianco. Al termine della manifestazione, le femministe incoronarono la loro Miss America: una pecora! I concorsi di bellezza erano come aste di bestiame, questo il massaggio per nulla sottointeso (Craig, 2002). Poche ore dopo la proclamazione di Miss America ad Atlantic City, a pochi isolati di distanza, al Ritz Carlton Hotel, Saundra Williams vinceva il titolo di Miss Black America, una contromanifestazione organizzata per protestare contro la totale assenza di donne afro-americane nell'evento da una famiglia di classe media di una piccola cittadina del Maryland e aveva pensato bene di eseguire un'originale danza ispirata all'Africa, con 159
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sse lisci i capelli, come era invece tipico delle sue coetanee di colore, persuase che la bellezza fosse «avere i capelli lisci, un naso sottile e dritto e le labbra delicate. Fu come un sogno impossibile che si avverava. Fu la dimostrazione che nero è bello black is beatiful!» (cit. in Morgan, 1970, p. 32), sottolineò a distanza di qualche anni la protagonista. Black is Beautiful non fu soltanto un fenomeno di asserzione afroamericani durante la seconda metà degli anni Sessanta e per tutti i
diversi movimenti che lottavano per il riconoscimento dei diritti civili, per la fine della segregazione razziale ancora molto presente ed evidente negli Stati del Sud contro le discriminazioni molto diffuse anche nelle grandi afroamericano durante gli anni Sessanta propagò una forte carica di rimarce per i diritti civili e le lotte per il riconoscimento politico. Il movimento Black Power14 dicale della ribellione, era stata fondata nel 1966 ad Oakland come associazione informale armata che controllava e pattugliava diversi quartieri neri della città per opporsi alle violenze e ai soprusi della polizia locale. Mentre la sua parabola espansiva fu abbastanza
afroamericana, facendo presa anche fuori dai confini americani, trasformandosi in uno slogan politico associato all'orgoglio delle persone con la pelle nera sparse nel mondo (Peniel, 2006; 2010). La storia americana dei conflitti e delle tensioni razziali durante tutto il Novecento è una carrellata di tali e tanti eventi, molti dei quali cruenti, che non è azzardato sostenere che tale storia sia stata una guerra civile permanente e puntiforme, con periodi brevi di latenza e innumerevoli situazioni di scontro aperto. Il lento e graduale processo di 14 Il termine era stato usato per la prima da Stokely Carmichael, presidente dello Student Non Violent Coordinating Committee, durante la marcia dei neri americani attraverso lo stato
del Mississippi, nel 1966
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democratizzazione dei rapporti razziali tra il mondo afro-americano e quello bianco, mai del tutto completato, passa attraverso una mutazione radicale che maturerà agli inizi degli anni Sessanta, per poi fiorire nel corso del decennio e richieste di riconoscimento a favore di un nuovo modello di auto-
autonomo rispetto alle aspettative e alle proiezioni del senso comune (tanto quello ovviamente segregazionista che quello integrazionista e progressista). Nella seconda metà degli anni Sessanta, le forze e la visibilità di diverse organizzazioni che ritenevano troppo blanda e includente la politica di non violenza e integrazione razziale sostenuta da Martin Luther King, si erano coagulate attorno al progetto politico della costituzione di un partito composto esclusivamente da neri. Gli aderenti al movimento Black Power professavano il risc comunità afroamericane, in base a diverse visioni che andavano dal ni minoritarie -americani, i fan del Black Power questo il nome del movimento più radicale riuscirono ad influenzare lo sviluppo di una cultura popolare afroamericana del tutto nuova. Da un lato adesione simbolica di personaggi come Rosa Parks icona e figura storica della ribellione non violenta per aver rifiutato nel 1955 di cedere a un bianco il proprio posto su un autobus e aver dato ad un lungo boicottaggio del trasporto pubblico Robert F. Williams iniziatore del Maya Angelou poeta e attivista di spicco Gloria Richardson mobilitazione del 1963-64 nella cittadina di Cambridge Fay Bellamy Powell, che ebbe un ruolo importante nella Student Nonviolent
Coordinating Committee goglio -americana, alla differenziazione stilistica, alla blackness nella vita quotidiana. I molti collegamenti e connessioni del movimento Black Power con gli altri movimenti avevano una valenza legittimante agli occhi della popolazione afro-americana, ma restava il fatto che se Martin Luther King vestiva ancora alla maniera dei bianchi, i fautori del Black Power avevano uno stile proprio totalmente nuovo. 161
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Il primo passaggio epocale della lotta era stata la sentenza del 1954 della Corte Suprema nel caso Brown versus Board of Education con cui si bandiva la segregazione razziale su base scolastica, cui seguirono una serie di leggi che principali successi della lotta dei movimenti e delle organizzazioni più strutturate furono ottenuti soprattutto nel corso degli anni Sessanta: il Civil Rights Act del 1964 proibì qualsiasi forma di discriminazione basata sulla razza, la religione, il sesso, Voting Right Act del 1965 rese meno complesso per gli afro-americani esercitare il diritto di voto (la legge sarà poi emendata per includere anche altre minoranze, comprese quelle linguistiche, nel 1975 e nel 1985); sempre nel 1965 fu istituita la Equal Employment Opportunity Commission allo scopo di monitorare e combattere le forme di segregazione e discriminazione occupazionale; nel Immigration Act rimosse le barriere agli immigrati provenienti dai paesi africani; nel 1967 il caso Loving versus Virginia rimosse tutte le barriere legali ai matrimoni interraziali; il Fair Housing Act del 1968 vietò le anni Settanta aprì la strada alla affirmative action. Al di là dei successi politici e nella lotta per i diritti civili, la leva segregazione, nello sfruttamento, nella violenza subita da parte della società ha sicuramente prodotto uno spirito di rivalsa che ha operato anche e soprattutto sul piano simbolico: «il fatto che ai tempi venisse presa in considerazione la questione politica, non può porre in secondo piano il ruolo della cultura nera nella promozione e nel miglioramento della percezione del valore della popolazione afro-americana. I leader e i semplici protagonisti dei movimenti riscossero più successo nel convincere la minoranza afroamericana delle proprie potenzialità espressive che nel raggiungere gli obiettivi strettamente politici e socio-economici» (Van Deburg, 1975, p. 306). Il processo di liberazione ed emancipazione avveniva soprattutto sul piano psicologico e culturale. Il movimento risollevò il senso di appartenenza, la solidarietà e la percezione di comunità su basi razziali, soprattutto trasformando la differenza razziale in una differenza culturale, in opposizione al mondo degli americani bianchi, un mondo che aveva fisicamente e dei movimenti sulla diffusione delle rivendicazioni sociali e culturali si è potuto osservare per
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lungo tempo, fino alla fine degli anni Novanta e, dal punto di vista della formazione di una vera e propria black-consciousness fino a consolidare una black culture metropolitana e poi globale, attraverso la sua piena legittimazione nella popular culture. La svolta in termini di orgoglio afroamericano che i movimenti degli anni Settanta seppero imprimere faceva leva su obiettivi politici irraggiungibili, come il separatismo che paradossalmente era una versione cosciente del segregazionismo contro cui si era combattuto nei decenni precedenti il panafricanismo, il nazionalismo nero. Eppure su un piano identitario e di ricerca di vecchie e nuove forme di rappresentazione e performatività della negritudine e dell'afro-americanismo, queste utopie ebbero il vantaggio di penetrare la coscienza e le posture delle persone. ae accademici degli American studies, Black studies e African studies, cui fece seguito anche la fondazione di numerosi musei e centri culturali dedicati alla storia e alla cultura afro-americana del periodo. Nel corso di tutto il Novecento non erano affatto mancate interpretazioni culturaliste delle questioni razziali. Il caso più significativo è quello di William Edward Burghardt Du Bois che nel lontano 1895 fu il primo afroamericano a conseguire un dottorato ad Harvard e che in seguito divenne una figura carismatica della National Association for the Advancement of Colored People. Le scienze sociali americane, prima della stagione della mobilitazione per i diritti civili, non erano state in grado di mettere a fuoco il mondo delle relazioni razziali e in particolare la dimensione delle culture afro-americane, poiché avevano allevato una visione che non coincideva affatto con la concreta realtà sociale di quel mondo. I sociologi, fino almeno alla fine degli delle persone di colore che non corrispondeva alla realtà. Le prospettive antropologiche erano addirittura mancate. Curiosamente, proprio relativismo culturale, non si interessò alla questione delle minoranze interne alle società occidentali, oppure, come nel caso degli afroamericani, ritenne evidentemente che la cosa
la questione ben più scottante degli Stati del Sud. Soprattutto figure W. I. 163
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Thomas o Robert Park, sebbene di idee molto progressiste per i tempi e in persone di colore avessero doti culturali diverse da quelle dei bianchi. Buona parte della letteratura sociologica sulla questione razziale aderì alla teoria di Park (Lyman 1968) race relations cycle secondo cui quando gruppi culturalmente differenti entrano in contratto, attraversano diverse fasi di un processo di interazione competitiva: conflitto, accomodamento e infine melting pot ipotizzava un consorzio di gruppi assimilati che vivevano un processo di mescolamento fisico e culturale che li portava a diventare indisting la componente afro-americana il ciclo che avrebbe dovuto portare
doveva per forza di cose essere più lenta, graduale, metodica, eliminando qualsiasi deriva conflittuale o peggio ancora violenta. Il livello e la durata verifica delle istituzioni sociali bianche. Secondo Du Bois (1940), la sociologia Americana si basava su una caricatura delle condizioni di vita degli afro-americani. Il principio guida alla base di questa miopia la convinzione di una reale inferiorità, quanto meno rimase ampiamente condivisa da una larga maggioranza
sociologici, le categorie concettuali e il corpo di conoscenze prodotte da diverse generazioni di sociologi che si occupavano delle relazioni tra la minoranza afro-americana e il resto della popolazione. cultura bianca una richiesta ovviamente impossibile da soddisfare proprio perché la da codici dominanti che la dipingevano come troppo diversa da quella costruita per i bianchi. Si trattava dunque di un riferimento impossibile da mettere in pratica poiché ai neri mancavano le capacità culturali di cogliere in pieno il sof bianca. Le istituzioni della cultura nera la famiglia, la scuola,
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erano considerate inferiori e instabili perché radicate in un sistema sociale troppo disorganizzato e anarchico, percorso dalla brutale forza delle emozioni che si riteneva i neri non fossero in grado di controllare (qui il legame mai del tutto spezzato tra razzismo biologico e razzismo culturale trovava un leitmotiv abbastanza ricorrente nel senso comune). Ad esempio, le organizzazioni, le pratiche e i riferimenti del mondo religioso dei neri venivano considerate incontrollabilità del cara carattere standard del negro, a cura di un processo di classificazione bianco, che forniva il legame logico alla costruzione caricaturale della cultura nera. La sociologia dei rapporti razziali inaugurata in modo autonomo dal lavoro di ricerca e analisi di Du Bois (1896, 1899, 1904, 1907, 1935, 1970) rimase un filone isolato e nascosto che procedette ripiegato nella sua ovvero la Sociologia, se ne accorgesse o vi prestasse la giusta attenzione. aveva
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funzionamento
del
perverso meccanismo di i assunti e nelle analisi degli autori bianchi più progressisti. Du Bois (1940, 1945) rigettava in tutti i modi la supposta inferiorità dei neri. Partendo dal presupposto che i neri erabio la storia, dalla cultura e dalle strutture sociali, Du Bois enucleò un quadro sociologico molto realistico delle condizioni di vita degli afroamericani in rapporto a quelle dei bianchi. Dato che riscontrava nelle comunità afroamericane la presenza di pratiche creative, associative e distintive, rifiutava la tesi della nel corso dei decenni produsse una mole di analisi sempre più accurate e approfondite sul popolo nero, sulle strutture ricorrenti, sulle sue istituzioni, sui vari movimenti di emancipazione, sul loro sviluppo, sulle figure carismatiche, mondo segregato, marginalizzato, sfruttato, represso e oppresso. In particolare si concentrò sui molteplici carnefici. In sintesi, Du Bois era più volte riuscito ad illustrare la presenza e la riproduzione di una agency spontanea e autentica che veniva puntualmente negata e nascosta alla stessa coscienza afroamericana, attraverso una potente 165
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produzione di immagini caricaturali che anche i bianchi progressisti proiettavano sul mondo del popolo nero, essenzializzandone una supposta natura di alterità esotica irriducibile alle norme della società bianca. Inevitabilmente, Du Bois ribaltava questo potente riflesso della visione dominante, proponendo a sua volta una serie di resoconti caricaturali del modo attraverso cui i bianchi «fabbricavano» gli stereotipi sui neri. Dunque anche il mondo e la mentalità dei bianchi veniva diluito in una agency bianca era per contrasto esagerata, ampliata, reificata, ipervalorizzata. Questa dialettica dei modelli caricaturali sarebbe stata una fondamentale chiave di lettura per interpretare i veri ostacoli che si frapponevano ad una reale comprensione dei rapporti o della sociologia americana nessuno la prese in considerazione. Nonostante Du Bois nel corso di ben 70 anni di prolifica scrittura avesse pubblicato sulla questione razziale e sul razzismo qualcosa come 20 monografie, 58 saggi e quasi 2.000 articoli apparsi su periodici, riviste e quotidiani, le sue tesi passarono quasi del tutto inosservate sia agli inizi del Novecento, sia tra le due guerre e persino nel secondo dopoguerra (Johnson, 2003). La svolta cui si assiste a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta in questo ambito di studi può essere letta analisi di Du Bois; scoperta resa possibile dalla presa di coscienza, da parte delle diverse sogg agency e Perché la sociologia bianca non si era accorta di tutto ciò? Contrariamente a Du Bois, per decenni le letture dominanti avevano
discriminazione (ovviamente giudicata deplorevole dalla morale della sociologia bianca) era una reazione inevitabile alla inadeguatezza culturale dei
nto morale. Considerandoli come quasi totalmente privi di autocontrollo e senso di leadership, ma anche ignoranti, incapaci di prendere parte ai processi e ai dibattiti politici, la lisi che però non ne era dotato: sebbene biologicamente non inferiori ai bianchi,
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BLACK IS BEAUTIFUL!
i neri avrebbero potuto acquisire le doti sociali del razionalismo logico solo attraverso un lentissimo apprendimento imitativo per il quale era necessario attendere molte generazioni. Il problema della razza era dunque «un peso per i bianchi e non una discriminazione dei bianchi» (McKee, 1993, p.8). Ovviamente la sociologia americana, con tali assunti, non avrebbe mai potuto prevedere la nascita e lo sviluppo dei movimenti per i diritti civili, né tanto meno la fioritura culturale che accompagnò e seguì quel periodo. Ancor meno fu in grado di comprendere che nelle anticipazioni di Du Bois era presente anche una ricca serie di analisi e connessioni che indicavano le linee del successivo interesse teorico per lo studio della «diaspora» delle popolazioni africane. A partire dagli anni Settanta gli studi sulla diaspora furono infatti anticipati dal nuovo e diffuso interesse interdisciplinare sulla natura dei rapporti razziali e interculturali nelle colonie africane. Il lavoro di Fanon oggi. A partire dalla metà degli anni Sessanta, accanto alla posizione mainstream, cominciarono a circolare alcune di protesta cui si assisteva in quegli anni fu interpretato come la prova agency e che ora trovava finalmente espressione in una congerie di azioni che non era più possibile disconoscere, in concomitanza di alleanze con altri soggetti dei movimenti. I riots, le grandi mobilitazioni di ma coinvolgimento e alla creatività culturale, spinsero la sociologia di taglio conflittuale a fiondarsi su questi fenomeni, poiché erano la prova delle opportunità di cambiamento offerte dal conflitto. Accanto a questa effervescenza teorico-politica, la sociologia dei temi classici stratificazione, disuguaglianza, organizzazione, potere politico, sviluppo, istruzione, mercato del lavoro, crimine, devianza cominciò ad includere nelle sue ricerche lo retaggio della Grand Theory a cui idealmente faceva riferimento, questa iale di marca funzionalista, tendendo ad ignorare o marginalizzare le tendenze più radicali della marxista per i nuovi soggetti del conflitto sociale. Il risultato fu che sebbene 167
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aumentasse la mole di dati ed informazioni sulle variabili socio-economiche e politiche degli afroprimario fosse rispondere ad una sola domanda: si raggiungerà una situazione di maggiore integrazione sociale? Come e quando? Race relations e non più racial conflict interrogare la tenuta del sistema e delle istituzioni sociali americane. Naturalmente il nuovo approccio aveva toni molto liberali, progressisti e appunto integrazionisti. Il ruolo unificante associato alla concezione funzionalista della cultura portava immediatamente ad analizzare la capacità caso che la sovrapposizione dei du
molto di più che una casuale sineddoche. Eppure le interpretazioni che si muovevano su un piano performativo
questione del valore politico delle identità culturali e tracciò una prima guida interpretativa delle dinamiche simboliche del conflitto culturale (Ladner, 1973). Il radicalismo erose la capacità di presa e il significato del concetto di integrazione. Quanta integrazione nel doppio senso sociologico e razziale sufficiente ad evitare una guerra civile? Negli anni Ottanta, in parte come riflesso delle campagne contro ai diritti di autodeterminazione dei popoli nelle aree delle ex-colonie, la sociologia -strutturale occupò gradualmente il campo delle questioni razziali e delle minoranze (McAdam, 1982; Morris, 1984; McAdam et al. 1996). Non più una visione cibernetica ma una visione discorsiva e situata nei contesti
new social movement approach
dissenso, della codificazione dei messaggi. La sociologia perdeva così anche un
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BLACK IS BEAUTIFUL!
elementi razziali, di genere, classe e collocazione geo-politica attraverso cui potere interpretare le dinamiche del dominio e dello sfruttamento. Si aprì 2004; Higginbotham, 2001; Romero, Stewart, 1999) relative a gruppi o soggetti che apparvero sulla scena come intersezioni categoriali di provenienze geografiche, identificazioni etniche reali o immaginarie e di genere molto composite. Non si trattò della nascita di un nuovo paradigma teorico, poiché non era in gioco la lettur più correnti teoriche per meglio interpretare la complessità situata dei fenomeni legati a pratiche, gruppi e rappresentazioni egemoniche o subalterne. Questo implicava di volta in volta la scelta di un focus specifico, magari già oggetto di una tradizione teorica, di cui sovvertire le classiche categorie concettuali provando a fornire una interpretazione particolareggiata, a validità ridotta. Il metodo per intersezioni consentiva per processi discorsivi dotati di una loro collocazione politica, storica e spaziale (Keith, Pile, 1993).
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Cultura e/è potere
Il rapporto tra le condizioni sociali date considerate come istituzioni, strutture, sistemi e le azioni umane è stato uno dei temi che la teoria sociologica ha messo ai primi posti della propria missione epistemologica. A lato di questo dualismo, la dimensione simbolica ha occupato una posizione relativamente defilata, almeno fino agli anni della svolta culturale quando si è imposta una rivalutazione molto prolifica dei possibili legami tra i) i significati delle pratiche e delle rappresentazioni sociali, ii) le azioni umane e iii) i rapporti sociali. Il merito di questo potente innesto della dimensione erre Bourdieu (1980) a cui va assegnato anche un secondo merito, quello di aver mostrato la natura estremamente dinamica e mobile di queste interrelazioni. Già in precedenza quasi tutte le prospettive sociologiche avevano indirettamente t relazioni sociali, si erano molto avvicinate al carattere imprescindibile della dimensione simbolica, ma non aveva marxismo, la sociologia di matrice parsonsiana e gli strutturalismi avevano privilegiato uno sguardo aereografico, troppo distante delle pratiche sociali. Nella ricerca di una via di mezzo tra questi due estremi, la sociologia degli ultimi due decenni del Ventesimo secolo si è ritrovata tra le mani il 171
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fondamentale contributo di Bourdieu la cultura può essere considerata come un ponte tra le istituzioni sociali e portata della sociologia bourdieusiana è notevole anche per una serie di numerose altre qualità del sociologo francese: le sue ricerche riescono a far in maniera altrettanto convincente dimostrano e dinamizzano i legami tra riproduzione dei rapporti di forza sociali; maneggiano con cura sapiente i weberiano, dando prova di una notevole capacità di non applicarli mai in una marxista della formazione delle classi e dei loro rapporti di forza. Anzi, mbolica permette di enucleare e articolare una descrizione molto realistica delle lotte che attraversano il campo della collocazione sociale dei soggetti. Il fatto che Bourdieu consideri il proprio lavoro sociologico come parte di un più ampio progetto critico in costante svolgimento, lo rende ancora oggi, particolarmente apprezzato in molti campi delle scienze sociali, persino più di quanto succeda ad Anthony agency. Senza contare la prolifica elaborazione di concetti e categorie come «campo», «habitus», «capitale culturale», «capitale simbolico», che hanno segnato in modo profondo gli studi
popular culture sapere scientifico. allo studio delle classi sociali si inscrive in una nuova ricerca sulla fondazione, il mantenimento e il rafforzamento delle risorse materiali e simboliche del potere e mostra in modo emblematico il carattere propriamente relazionale, multicausale e processuale della sua sociologia. Le nozioni di spazio sociale, campo, habitus di classe, volume globale e struttura del capitale sono elementi interconnessi di un sistema azioni e forza tra poteri differenti «relativamente autonomi» gli uni dagli altri, esse rimandano al fatto che sono sempre pregne di significati e sempre orientate alla rappresentazione sociale di «stili di vita distinti e distintivi». La precisa
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definizione di specifiche classi sociali il cui universo simbolico e stilistico di riferimento è mobile e temporaneo è il risultato e posizione propria e possibilmente ascendente, in difesa dalle pratiche e dalla rappresentazione degli altri. Ed è soltanto alla fine di questa ricostruzione che le classi sociali possono essere ricostruite, «ritagliate», come «porzioni di spazio sociale» che presentano un certo gradi di omogeneità. Ma Bourdieu è consapevole che si tratta pur sempre di una ricostruzione parziale; non solo perché è momentanea rispetto al continuo gioco che le persone giocano tra simbolismo e potere, tra la cultura e il modo di esercitarla, farla valere. È una ricostruzione parziale anche perché il ricercatore è un osservatore che non può totalmente estraniarsi dalla propria interpretazione. Per tale motivo Bourdieu sottolinea il gioco a cui egli stesso partecipa e che tenta di superare in parte attraverso quella che definisce «oggettivazione del soggetto oggettivante» (Bourdieu, 2009). Particolarmente contrario a qualsiasi forma di netta separazione disciplinare, il sociologo francese avversa tanto il
nominalisti hanno un approccio in realtà oggettivista: sono coloro che propongono un «relativismo nominalista», ovvero vedono nelle classi sociali soltanto i «concetti euristici o categorie statistiche arbitrariamente imposte uità in una realtà continua» (Bourdieu, 1984, p. 4). Essi considerano «le classi absurdum) come dei gruppi discreti, semplici popolazioni numerabili e separate da confini oggettivamente inscritti nella realtà» (Bourdieu, 2012, p. 403). I realisti, considerati come soggettivisti poiché si affidano al «realismo
(Bourdieu, 2012, p. 403È il concetto di habitus che Bourdieu adopera per superare queste due distribuzioni delle proprietà materiali misurate dal ricercatore, e «rappresentazioni conflittuali che sono prodotte dagli agenti sulla base di una conoscenza pratica delle distribuzioni così come esse si manifestano negli 173
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Bourdieu avviene grazie alla ricerca sulle pratiche sociali. Egli le considera come qualcosa che riflette e al tempo stesso riproduce sia le relazioni sociali oggettivamente osservabili sia le interpretazioni soggettive del mondo. Questo duplice meccanismo che definisce il dato che influenza i soggetti e che al temo stesso rende i soggetti capaci di definire, rappresentare, interpretare e classificare il mondo sociale viene definito habitus, il famoso insieme di sistemi di disposizioni durevoli, trasferibili, «strutture strutturate» predisposte per funzionare come «strutture strutturanti», ovvero come principi di generazione e strutturazione di pratiche (Bourdieu, 1972). Attraverso questo concettoassume una valenza strettamente connessa al potere di agire e di rappresentare, di imporre le proprie azioni e le proprie rappresentazioni (soprattutto perché già date come habitus rimanda infatti a molti modi in un certo modo (stili di vita), una gamma di pratiche e rappresentazioni incorporate nel soggetto, una visione del mondo o una cosmologia dalla quale si dipanano modi di fare e di pensare variabili a seconda dei contesti e delle situazioni, una costellazione di competenze pratiche e sociali, soprattutto anche simboliche il savoir fare e il savoir penser; un insieme variegato di aspirazioni ed aspettative circa le opportunità di miglioramento della propria habitus è un set di disposizioni trasferibili da situazione a situazione. Il valore dispositivo consente a Bourdieu di includere habitus così come quelli che riguardano le regolarità e le ripetizioni nel comportamento e nelle pratiche habitus è legato soprattutto ad azioni che svolgiamo in maniera apparentemente inconscia o senza riflettervi. La forza habitus non si fonda sulla ragione; molte delle cose che facciamo o che pensiamo non seguono una strategia razionale studiata a tavolino, ma derivano da decisioni impulsive. Bourdieu sottolinea che tuttavia in questo modo siamo in grado di reagire in modo efficiente a tutte le situazioni ordinarie della nostra vita. habitus non è qualcosa di rigidamente precostituito e che non ammette creatività; anzi, pur entrando a far parte della nostra postura, del nostro modo di stare al mondo
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con il corpo, con gli atteggiamenti, con il linguaggio, ci consente anche di improvvisare, immaginare, creare, variare, sorprendere a seconda delle situazioni sociali sempre diverse che incontriamo. Queste capacità, tuttavia, sono di origine sociale, ovvero ci sono trasmesse socialmente e quando le
habitus è inevitabilmente legato alle disuguaglianze e alle differenze sistematiche incorporate nelle dinamiche di potere. Esso è dunque un portato di queste disparità e a sua volta produce linee di azione che sono «sempre tendenti a riprodurre le strutture oggettive da cui esse stesse derivano» (Bourdieu, 1972, p. 72). Con questa spiegazione, Bourdieu rende circolare il rapporto tra cultura, potere è sempre in gioco: nella dimensione culturale, in quella delle strutture sociali, nelle pratiche e nelle azioni individuali. Nella sfera strettamente culturale il potere è sia la posta in gioco, sia una caratteristica del dato erta cultura personale dipende dalle possibilità sociali di una persona non essendo disponibile in modo uguale a tutti ma al contempo il bagaglio culturale di quella persona è una risorsa che le consente il posizionamento e il riposizionamento nelle gerarchie di potere sociale. Nella dimensione dei rapporti sociali, le scienze sociali hanno da sempre inserito le questioni di potere ed è dunque ovvio ed evidente che vi si determinano le differenze e le disparità di potere: è incontestabile che le risorse materiali e simboliche del potere derivino da e riproducano le diverse opportunità e i diversi vincoli di accesso al potere sulla scorta delle stratificazioni occupazionali, economiche e di prestigio, delle differenze territoriali e generazionali, delle fonti di ascrizione familiare etc. Infine, nelle pratiche sociali risiedono le possibilità di mettere in azione il potere personale, farlo valere, misurarlo, ampliarlo, manifestarlo e così via. Per Bourdieu, coloro che si trovano nelle posizioni subordinate della vita sociale, per quanto si sforzino di migliorare il proprio capitale culturale, economico e sociale non sono equipaggiati di un habitus che possa loro consentire di scalare con successo le posizioni sociali elevate, dato che anche nel caso in cui riuscissero a modificare nel tempo il proprio habitus in modo da renderlo capitale simbolico adatto a ridefinire le distanze e le differenze rispetto ai parvenue. Piuttosto è mol habitus di cui sono dotati i soggetti delle posizioni sociali inferiori fornisca desideri, motivazioni, 175
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conoscenze, capacità, routine e strategie che tenderanno a riprodurre la loro collocazione in uno status inferiore. Sono la famiglia e la scuola, ovvero le agenzie di socializzazione e formazione fondamentali nella trasmissione del capitale culturale, economico e sociale, che secondo Bourdieu forme differenti di habitus. È qui visibile sia il dato di partenza immutabile, ovvero la famiglia di origine che non si può scegliere e ci è data dalla nascita, universale, aperta formalmente a tutti e teoricamente premiante sulla base distinzione fondamentale che riguarda le fonti della cultura per le pratiche sociali degli individui, distinguendo una cultura certificabile che fa leva sui saperi codificati delle discipline riconosciute nei vari tipi di sistemi di formalmente tutti sullo stesso piano da quando è stata raggiunta la zione e una cultura esperienziale, pratica e simbolica che non ha alcuna possibilità di essere certificata da istituzioni formali esterne e che è invece legittimata o meno durante il suo quotidiano dalle relazioni sociali stesse in virtù del potere simbolico che al suo interno rivestono i soggetti. Questo secondo tipo di cultura, viene sociali e contribuisce a delineare le linee di distinzione tra le persone. Dunque se attraverso habitus la tendenza prevalente è quella della potere, è perché le persone dei ceti superiori possiedono un vantaggio in partenza rispetto a quelle dei ceti inferiori. Se il capitale economico e quello sociale possono essere accresciuti nel corso di un processo di ascesa sociale, quello culturale, anche quando aumentato grazie ai titoli scolastici e universitari e alla frequentazione di ambienti sociali «ricercati e raffinati», resta pur sempre imbrigliato nelle dinamiche della distinzione sociale, poiché il divario originario può essere rivenuto nel modo in cui tale capitale culturale viene usato. È dunque un gioco di distinzioni in cui tutti i giocatori mettono in campo il proprio capitale culturale, ma ve ne sono alcuni che hanno molto più potere di altri nel definire e ridefinire i criteri di distinzione, ovviamente a proprio vantaggio. Coloro che possiedono questo potere sono coloro che sanno perfettamente e «in maniera naturale, senza darlo a vedere» far
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fruttare al massimo il proprio capitale culturale in termini di potere classificatorio e distintivo. Da questo punto di vista, La Distinzione del 1979 costituisce una rottura importante: il capitale culturale, la cultura simbolica che si fa pratica sociale e questa che a sua volta produce significati sono un portato del più ampio concetto di habitus che riflette il posizionamento nella dinamica della vera posta in gioco sociale: il potere. Il gusto, lo stile, il sapere dominanti sono al disuguaglianze e delle differenze di potere. Ma la posizione sociale non è qualcosa di acquisito e stabilizzato una volta per tutte; è un risultato mobile e momentaneo dei rapporti di forza simbolici a partire dal potere di
la Cultura , il fine e il distinto dal triviale, dal volgare,
che formalmente le élite non cospirano in modo aperto e cosciente affinché siano bloccate le aspirazioni di mobilità sociale dei ceti inferiori: la scuola, i pratiche sociali di tutti. Il privilegio non è ascritto e le barriere non vengono erette in maniera strategica in base ad una cospirazione. Piuttosto, il privilegio si riproduce attraverso il cambiamento culturale con un sottile gioco di disconoscimento e di pregiudizi celati di cui non sono consapevoli né le vittime, né tanto meno i carnefici. Esiste sempre una modalità distintiva di usare il proprio capitale culturale dalla quale far discendere con cui usare nel modo appropriato il proprio capitale culturale (ma anche quello economico e sociale) non sono mai formalmente svelate, anche perché sono regole non codificate, regole che è possibile fare autenticamente proprie solo attraverso una originaria familiarità con coloro i quali le usano e le cambiano. Il capitale culturale non opera in un vuoto. È piuttosto una forza che Il concetto di «campo» è fondamentale nel permettere a Bourdieu di analizzare tutto il dispiegarsi del potere culturale in rel assetto sociale. In ciascuno dei vari ambiti culturali del sociale le arti, il mondo delle imprese e del lavoro, il diritto, la politica, le scienze e la ricerca 177
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gli attori competono per ottenere reputazione, prestigio, potere. Il capitale culturale, sebbene molto meno di quanto sia possibile per quello economico, aspetto moltiplica le possibilità di spenderlo in più campi dimostrando come la sua forma plastica e plasmabile spiega in parte il collegamento che esiste tra i campi nonostante la rigida divisione e specializzazione tipici della società moderna. Spiega anche come a partire da posizionamenti specifici, le élite siano in grado di fondare, mantenere, creare discorsi culturali dominanti. Le battaglie simboliche, gli scontri tra diversi paradigmi e correnti del sapere, attraversano di continuo i campi e i sotto-campi, coinvolgendo gli attori che ne fanno parte (Bourdieu, 1993). Tutti i campi, dalla fotografia alla medicina, dalla letteratura alla fisica contengono i diversi gradi distintivi che forme di sapere subordinate, illegittime, alternative. Le dispute, le diatribe, i dibattiti e gli scontri sul valore intrinseco degli oggetti della produzione culturale servono a rafforzare o sfidare le classificazioni, le distinzioni e le gerarchie esistenti. La rottura di Bourdieu è stata di fondamentale importanza, poiché nel corso degli anni in cui si verificò la svolta culturale e in seguito ha permesso di ni date fondamentale per i metodi esplicativi della formazione, della distribuzione e del mantenimento del potere nelle relazioni sociali, ma questo uso poteva trovare conferma dal ricorso a ricerche quali-quantitative come nel caso de La Distinzione in cui i dati sulle stratificazioni sociali coesistevano a fianco tra gli orientamenti e le attitudini culturali degli attori sociali e le condizioni corpo indicò una strada molto feconda in cui cultura e strutture sociali marciavano fecondamente a braccetto. A partire dalle analisi e dalle teorie di Bourdieu nelle scienze sociali hanno acquisito sempre più spazio gli studi sui consumi culturali. Nella maggior parte dei casi le ricerche in questa aerea hanno confermato la validità della prospettiva sociologica di cultura del sociologo francese, mostrando come i gusti e le preferenze siano guidate dalla posizione sociale (e viceversa) e come
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i consumi culturali costituiscano una dimensione importante nei circuiti della produzione culturale intesa in senso ampio. Parimenti, gli studi habitus hanno ulteriormente rimarcato il rapporto tra cultura e potere, allargando lo spettro delle ricerche sulle subculture. Hanno inoltre esteso le diversa
background familiare e education attainment del capitale culturale sul mercato del lavoro e sulla stratificazione occupazionale. Ancora, la legacy di Bourdieu è evidente negli studi successivi che si sono occupati della cultura codificata e della produzione del sapere ufficiale, analizzando lo svi
non solo in termini generali sulle scienze sociali, ma nello specifico sul ruolo della cultura è ancora oggi indiscussa. Le critiche che gli sono state rivolte da parte degli epigoni della svolta culturale possono considerarsi come un invito a sfruttare in modo ancora più profondo le ricadute della sua teoria culturale. William Sewell (1992), ad esempio, approva con piena convinzione la capacità della teoria bourdiuesiana di tori e la loro abilità di usare il capitale culturale. Tuttavia, invita a produrre sforzi ulteriori per così potentemente tra di loro» (Sewell, 1992, p.151). Secondo Sewell (1992), habitus e tra habitus e le strutture sociali piuttosto che cogliere le inevitabili innovazioni, contraddizioni e discontinuità. Negli anni Ottanta e nei Novanta, sebbene fossero totalmente avulsi rispetto ai metodi di ricerca e analisi di Bourdieu e sebbene si concentrassero soggetti rapportati alle classi e ai ceti, gli sviluppi dei Cultural studies britannici in un certo senso si mossero proprio nella direzione che Sewell ha indicato. In corrispondenza con la scoperta delle nuove soggettività e grazie ad una sorta di sponsorizzazione offerta dal decostruzionismo francese, i Cultural studies in Gran Bretagna hanno continuato a dar conto della lotte nel campo della cultura, includendovi le forme più innovative e atipiche e al 179
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delle scienze sociali aveva già assorbito i temi della soggettività e della differenza emersi dal dibattito del femminismo americano. La cultura, sempre e ancora intesa come a whole way of life, guadagna attraverso le ricerche dei Cultural studies una nuova dinamicità: l'eterogeneità e la frammentarietà dei fenomeni culturali, la molteplicità dei loro significati e le condizioni di produzione e riproduzione delle possibilità di azione politica, si uropa e soprattutto nei media studies americani discorso di teorici come Foucault. Una sorta di spartiacque lo si ritrova nel saggio di Hall (1988) sulle «nuove etnicità» in cui si articola il senso di un cambiamento cruciale tra una prima ed una seconda fase degli studi culturali sulle minoranze nere in Gran Bretagna, passando da «una battaglia sui rapporti di forza relativi alle rappresentazioni [delle minoranze] ad una politica delle rappresentazioni stesse». In questa seconda fase si riconosce che i soggetti minoritari non possono venire rappresentati senza che si faccia riferimento alle divisioni di classe, genere, sessualità ed etnicità. Il panorama delle battaglie culturali che si dipanano in Gran Bretagna, a partire dalle fine degli anni Settanta si aggroviglia: le subculture etniche irrompono sulla scena, si intrecciano con quelle giovanili, rivendicano le loro identità a cavallo tra i sobborghi di Londra, Birmingham, Manchester e le ex-colonie, i contesti esotici, le tradizioni mitologiche da cui erano giunti i padri e le madri di queste seconde approdate nei paesi occidentali e in Gran Bretagna negli anni del dopoguerra, avevano alterato la gamma tradizionale delle divisioni di classe britanniche, prospettiva la futura apertura di un territorio di indagine a cui si affezioneranno gli studi postcoloniali. Si tratta di un universo multiculturale di cui Hall tratteggia i contorni e le articolazioni. articolare dalla Francia, cioè con il poststrutturalismo e il decostruzionismo. È in questa fase che la dimensione del potere viene calata in un tentativo che punta a rendere le analisi coerenti ad una piattaforma teorica più affinata, più sottile, più accademica. Gli studi
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culturali guadagnano così slancio in molti paesi, oltre che negli Stati Uniti, anche in Francia, Canada, Germania, Australia e Sudafrica, spesso attraverso gli sforzi di studiosi che una volta hanno insegnato o studiato presso il Centro di Birmingham. Le pubblicazioni in alcune riviste internazionali come Media, Culture and Society o Cultural Theory o ancora Screen Il lavoro teorico aveva già mostrato i suoi affinamenti nel cogliere le sottigliezze del rapporto tra potere e cultura in testi come The Empire Strikes
Back di razzismo in rapporto al loro specifico contesto storico-sociale e non semplicemente in riferimento alla presenza di un dato costante e transculturale. La questione riguardava soprattutto il modo in cui i gruppi subordinati si sottomettessero e contemporaneamente resistessero ai modi di rappresentazione culturale dei gruppi dominanti.. Si era ormai consolidata la tesi che le caratteristiche strategiche e negoziate di questi processi culturali di relativamente autonomo rispetto alle classi sociali. Le rappresentazioni ideologiche in quanto tali e non come promanazioni di una classe dominante, potevano avere un impatto sulla vita sociale e politica in quanto potenti dispositivi di sintesi della complessità. Al contempo, lungi dal circolare in modo libero e fluido, le ideologie venivano ad ogni modo interpretate come il frutto del e colleghi da parte della semiotica di Barthes fu tradotta in nuove tecniche di analisi culturale grazie alle quali dai prodotti dei media venivano estratti rimandi doveva spingere a cogliere i meccanismi latenti attraverso cui questi audience. La distinzione mutuata da Barthes tra «denotazione» e «connotazione» entrò velocemente a e politica. Ancora più successo ha avuto la matrice relativa ai tipi di decodifica: nel tentativo di differenziarsi dai modelli deterministici, Hall aveva sottolineato che non tutte le persone reagiscono e interpretano allo stesso modo i messaggi e i testi mediatici. Nel modello generale di encoding e decoding sviluppato nel contesto della comunicazione televisiva, Hall ritiene che sia Considerazioni di carattere sociale, economico, ideologico e tecnologico co181
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influenzano la produzione di un programma televisivo, le intenzioni dei tradursi in una serie di messaggi comprensibili, utilizzando linguaggi e codici che devono essere il più possibile vicini al mondo ordinario e al linguaggio comune. Soprattutto devono essere codificati in un insieme di riferimenti simbolici che siano il più possibile intellegibili al pubblico. I telespettatori devono dal canto loro estrapolare i significati e dare un senso ai messaggi dei programmi televisivi. Devono in altre parole decodificare i testi. Secondo Hall non vi è alcuna garanzia che si stabilisca una simmetrica e perfetta traduzione tra i significati nei processi di codifica e quelli interpretati dalla decodifica. Ciò è vero laddove i significanti hanno una valenza connotativa come nel caso del testo televisivo. «Il cosiddetto livello denotativo del segno televisivo è fissato da alcuni codici molto complessi (sebbene limitati o addirittura chiusi). Ma il suo livello connotativo, malgrado sia esso stesso limitato, è pur sempre più aperto, soggetto a interpretazioni più attive che sfruttano il valore comunque polisemico del segno televisivo» (Hall, 1980a, p. 134). A partire da tali aperture nella decodifica è possibile secondo Hall
aderisce alla versione egemonica codificata nella produzione del segno televisivo, ad una invece di segno contrario, oppositiva e che rifiuta di adattarsi alle intenzioni codificanti. Ma può esistere anche una decodifica di negoziazione, in cui lo spettatore distingue tra le posizioni condivisibili e quelle meno condivisibili, dando prova comunque di non allinearsi automaticamente alla decodifica proposta. Infine, sono possibili anche decodifiche aberranti nel senso che sovvertono e ribaltano completamente il segno televisivo, alterandone del tutto i significati originari attraverso una interpretazione ironica, assurda e fuori da qualsiasi schema utilizzato nel processo di codifica (Piccone Stella, Salmieri, 2016). flusso tra codifica e decodifica, una serie sempre più numerosa di studi e produzione e la ricezione non solo dei programmi televisivi (in particolare i e le soap-opera), ma anche di altri etc.. Il solco in cui queste ricerche si sono estese è quello della dimensione
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politica e ideologica della produzione della cultura veicolata dai media:
specifici gruppi sociali e culturali che compongono il pubblico). Al di là delle molte derive discorsive, numerosi studiosi nel corso
neato dai critici di
oggetti culturali della produzione mediatica (testi giornalistici, programmi radiofonici, romanzi) (Radway, 1984). È in questo caso importante segnalare
modelli di interpretazione delle persone, le chiavi di decodifica e
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LA DIMENSIONE SEMIOTICA DELLA CULTURA
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La dimensione semiotica della cultura
Buona parte delle analisi teoriche sulla cultura prodotte nel corso degli anni della svolta e soprattutto in quelli successivi hanno considerato la cultura dal punto di vista simbolico, come costellazione di significati, mantenendo più o o però per marginalizzare in diversi casi il ruolo pratico della cultura. Del resto per quanto nei suoi saggi Geertz iniziasse sempre il discorso con i massimi auspici i un funerale, di un rito bizzarro o di un momento di trance e trasporto collettivo nel corso di una danza) tali pratiche finivano per essere il puzzle da risolvere e tali pratiche venivano addirittura eliminate dalla cultura in quanto tale: Schneider (1968), ad esempio, sosteneva che un resoconto pienamente culturale avrebbe dovuto prendere in considerazione soltanto le relazioni tra i vari simboli in una specifica area di significato. Inoltre, nonostante uno degli assunti critici che avevano favorito la svolta culturale fosse stato il fatto che la cultura non potesse essere concepita come un ha continuato ad offrire spesso analisi nelle quali venivano selezionati i simboli e i significati che risultavano tra loro coerenti, lasciando fuori quelli che avrebbero invece inficiato la possibilità di vedere e isolare un sistema coerente. Insomma, si sceglieva ciò che tornava utile per una ricostruzione di 1991).
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Gradualmente nel corso degli anni il focus sulle pratiche è stato richiamato come un elemento importante e diversi autori hanno sottolineato il fatto che il concetto di cultura come costellazione simbolica e come insieme di pratiche non sono affatto incompatibili tra loro (Sewell, 1999). Essere coinvolti in una pratica culturale implica anche utilizzare i simboli culturali disponibili per raggiungere uno o più scopi interni a quella pratica. Ed è altrettanto plausibile che la costellazione simbolica sarebbe priva di alcuni suoi elementi o questi sarebbero deboli se non fossero alimentati dalla è quella che non si pone il problema di stabilire se la cultura rappresenta una dimensione simbolica oppure pratica, ma semmai di comprendere come le due dimensioni sono tra loro articolate. Per il raggiungimento di questa posizione che integra la dimensione pratica e quella simbolica è stato molto importante il contributo che man mano è andato accumulandosi nel campo semiotico. rispetto ad altri campi è evidente per il fatto che persino gli aspetti tipicamente economici, politici o geografici per trasformarsi in qualcosa che sia socialmente significativo hanno bisogno di essere tradotti e transitare in una dimensione semiotica, vale a dire in uno o più linguaggi. Inoltre, la sostanziano sono continuamente plasmati e riplasmati da una molteplicità di altri contesti diversi. Il significato di una combinazione di simboli trascende sempre un contesto specifico e particolare, poiché il simbolo è trasportato attraverso i suoi usi in una moltitudine di altre pratiche sociali. Il network delle relazioni semiotiche che sviluppano la cultura non può essere considerato isomorfico rispetto ai fenomeni economici, politici, geografici, demografici con cui pure è collegato. Se negli anni della svolta culturale è gradualmente emersa questa nuova versione della cultura come una dimensione che integra il simbolico e il della semiotica. In particolare è stato cruciale il contributo offerto da Barthes (1965) soprattutto nella seconda fase della sua produzione scritta, quando ha in un certo senso marcato un passaggio verso il postp
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Benché già dalle sue origini la semiotica si fosse definita come uno «studio dei segni in seno alla vita sociale», prima che giungesse ad occuparsi dei fenomeni sociali e culturali sono passati diversi decenni. Tutto lo sviluppo novecentesco della semiotica intesa come scienza della significazione era stato infatti orientato ad altri interessi, per lo più legati alla linguistica, alla poetica, alle scienze cognitive, alla critica letterari alle applicazioni più sociologiche (Eschbach, Trabant, 1983). Non è possibile riassumere qui i diversi percorsi e il variegato e ricchissimo dibattito che ha attraversato la semiotica nel corso di oltre mezzo secolo. Gioverà però ambiti più strettamente sociologici e riferibili alla teoria culturale si è potuto in un certo senso liberamente estrinsecare soltanto a partire dalla rottura e
interpretazione per cui era competente la semiotica, il secondo, invece, come un campo in cui la semiotica lo era meno, dato che pratiche sociali e interpretazioni variabili di un testo dipendono molto dal contesto. Una poesia, un racconto o un programma radiofonico, un oggetto artistico o un dalla semiotica nel tentativo di comprenderne le regole e i rapporti di significazione, i rimandi, le connessioni interne ai sistemi linguistici ed espressivi di comunicazione; il contesto, invece, in quanto ambiente sociale in cui quello stesso testo è stato prodotto e quindi fruito si prestava ad
etnografici. Si trattava tuttavia di una dicotomia che poteva essere superata, a partire dal momento esigenze disciplinari della linguistica. Se infatti per la linguistica è stato a che non è lo, per la semiotica anche ciò che non è linguistico, nel caso della semiotica può essere più o meno datato proprio agli inizi degli anni Sessanta, quando sono emerse alcune importanti novità (Greimas, 1976). In primo luogo, con Barthes ha inizio una pratica semiotica con cui si criticano le connotazioni ideologiche ravvisabili nello sviluppo della società dei consumi. Il panorama segnico esaminato e criticato va ben oltre il 187
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linguaggio linguistico e ben oltre il testo. Per Barthes dunque tutto ciò che determina una qualche significazione può essere per principio oggetto linguistica, ossia tentare di parlare, oltre che della lingua, di tutti i sistemi di segni (Fabbri, 1998). Già negli scritti della fine degli anni Cinquanta, come ad esempio in Mythologies del 1957, Barthes produce una combinazione tra la semiotica strutturale e la teoria critica. Questa ibridazione fornisce nuova linfa alle teorie culturali di orientamento marxista che altrimenti alla fine degli anni Cinquanta sarebbero rimaste ancora deterministicamente legate ai concetti nomotetici tratti dai Manoscritti economico filosofici di Marx. Barthes (1973), invece, contribuiva in modo forte a legittimare lo studio della popular culture, altrimenti relegata a materia di scarso interesse accademico: mostrava che persino le attività e gli aspetti della cultura di massa a prima vista privi di interesse o considerati spazzatura, come ad esempio il wrestling americano oppure gli oggetti banali della vita quotidiana, mettevano in gioco tutto un denso universo di significati che potevano essere criticati come discorsi fondativi e mitologici dei consumi e del divertimento di massa. Se negli anni Settanta, la sociosemiotica di Barthes applicata alla cultura di massa ebbe un impatto notevole nei British Cultural studies e nelle ricerche sulla pubblicità, sui programmi televisivi di informazione e sulla carta stampata, negli anni Ottanta era diventata un canone di riferimento per le teorie culturali. Si superano così anche le critiche che analisti della cultura mediatica occupandosi di testi, non sarebbe in grado di rendere conto di tutte quelle pratiche sociali complesse che trascendono i confini della testualità, tradizionalmente intesa, e che pure sono decisive per la produzione di senso: si pensi per esempio alle pratiche di consumo, mediatico o di qualsiasi altro prodotto esistente sul mercato, che, con de Certeau (2001), sono produttive di significato senza per questo dipendere da un codice o essere inscritte in una qualche forma di testo. Tali critiche non colgono nel segno perché (al di là della nozione di codice, su cui nessun semiologo darebbe oggi alcun credito) continuano a pensare il testo come un oggetto, con una sua chiusura negoziato volta per volta fra gli attori della comunicazione (si pensi a una
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La neutralizzazione della distinzione fra testo e contesto porta allora alla considerazione di una nozione chiave, di derivazione linguistica, ma in perfetta consonanza con il dettato degli studi culturali: la nozione di discorso. Un testo, infatti, di qualsiasi natura esso sia, non si limita a trasmettere un certo numero di contenuti, come pensava la teoria della della situazione comunicativa in cui si trova, del suo mittente e del suo destinatario, e così facendo detta le regole pratiche per la sua fruizione. Ogni testo, in altre parole, svolge un discorso, nel senso che si inserisce in un contribuisce a creare. Un annuncio pubblicitario, per esempio, non offre solo dei contenuti, più o meno nascosti, di tipo persuasivo, ma imbastisce tipo specifico di discorso: il discorso pubblicitario. Senza questo frame comunicativo, che esso porta al suo interno, non sarebbe possibile intenderne a fondo il senso. E ovviamente di questa connotazione ne sono ampiamente consapevoli gli stessi destinatari del discorso. Il discorso è una realtà sociale e testuale al tempo stesso, culturalmente definita e semioticamente articolata: sociosemiotica. è interrogare ciò che è «falsamente ovvio», rendere esplicito ciò che normalmente resterebbe implicito nel senso comune, nei testi e nelle pratiche della cultura popolare. È il suo è un chiaro intento politico in cui la semiotica diventa un possibile strumento per suo punto di vista è un abuso ideologico. A tale proposito Barthes riesce ad andare oltre la distinzione di Saussure tra significante e significato. Se ogni significante è portatore di diversi significati, a questo va aggiunto che rispetto al significato primario che comunque emerge dalla lettura di un testo, di una parola, di un messaggio, esiste per Barthes un secondo livello di significazione. Nel 1965, in Éléments de sémiologie, Barthes esplicita teoricamente questo tipo di ragionamento sostituendo i più familiari concetti di denotazione (significazione primaria) e connotazione (significazione secondaria) con un sistema nel quale il primo diviene il piano di espressione del secondo ovvero una sorta di significante rispetto alla 189
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significazione secondaria che acquista così il valore di significante possibile della connotazione. I significanti della connotazione sono costituiti da segni (significanti e significati ora unificati) di un sistema di denotazione. Per Barthes è al livello della significazione secondaria ovvero della connotazione che avviene la produzione dei miti legati alla cultura dei consumi. Nella pratiche e idee che, promuovendo attivamente i valori e gli interessi dei gruppi dominanti, difende e preserva le strutture di potere prevalenti. In agisce attraverso la persuasione, ma attraverso la trasformazione di fatti, immagini, riferimenti che hanno una propria complessità storica ed una propria eterogeneità di significato in una denotazione naturale alla quale le persone non chiedono più di rendere conto. I segni hanno una natura polisemica ovvero possono significare un insieme molto ampio di cose diverse; ma attraverso la significazione secondaria ovvero attraverso la connotazione operata su sé stessi, è possibile trasformare la complessità in semplicità e naturalità, fino al punto da portare le persone a credere che esista un solo significato generale che non ha bisogno di ulteriori verifiche e non ha bisogno di essere messo in discussione. Naturalmente i miti sono tali non solo perché chi produce e confeziona determinate letture opera
significazione come naturale normalmente condivide con il produttore un simile repertorio culturale di riferimento. I fruitori di un programma, gli scontata di ciò che osservano e percepiscono. Tuttavia, il repertorio culturale di riferimento da cui viene prodotto un codice non è detto che costituisca un universo uniforme e perfettamente coerente. Pertanto, a dei miti si contrappongo anche dei contro-miti. I codici che verranno prescelti in realtà dipendono sempre da un triplice incontro di elementi: la contestualizzazione del testo, il momento storico dato, la formazione culturale del lettore. Quando il lettore già a priori ha fiducia nei confronti del contesto in cui viene inserito il testo e quando il momento storico si presta ad una ato nella più grande innocenza possibile. Il lettore non vi scorgerà un sistema
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causale: ai suoi occhi, significante e significato hanno una relazione causale. mito prende la significazione per uno stato di fatto delle cose: il mito viene allora letto come un dato di fatto, quando in realtà si tratta di un sistema semiologico» (Barthes, 1957, p. 16). Va tuttavia detto che Barthes solo raramente arriva a includere la possibilità che anche il mondo della critica alle ideologie abbia le sue complesse mitologie. Come se gli smascheramenti critici (e di sinistra) fossero realisti e davvero capaci di rimuovere gli elementi ideologici del senso un sistema semiologico. Barthes sosteneva che «la cultura borghese nasconde il fatto che è la borghesia a produrre i miti più famosi. La rivoluzione invece annuncia sé stessa come apertamente una rivoluzione e quindi tende ad abolire i miti» (1973, p. 14). A testimonianza di questa concezione, Barthes cita il fatto che nonostante la presenza di miti nello stalinismo, questi miti risultino poveri e limitati, senza inventiva e con una magra costruzione semiologica se comparati a quelli della cultura borghese. è che produrr sbilanciata sul versante di come i miti vengono letti e interpretati. Chi ci dice che le interpretazioni prodotte da Barthes circa le letture dei miti corrispondano a quelle che effettivamente le persone producono? I successivi sviluppi nel campo degli studi sulla ricezione culturale sottolineano che i testi sono aperti ad interpretazioni molto più numerose e variabili di quelle che Barthes lasciava presupporre. Tra le persone normali, nella vita quotidiana, società dei consumi di continuo propone. La socialità presupporrebbe una certa capacità delle persone di scambiarvi una serie di ironiche e avvertite interpretazioni dei miti proposti dai media e dalla popular culture. Perché ciò consentirebbe una partecipazione attiva nella vita sociale resa possibile da una Addirittura gli stessi produttori pubblicitari più consapevoli e avvertiti non è r contestazione di miti esistenti o persino una serie di significazioni per nulla chiare in modo da lasciare spazio alla consapevolezza che i destinatari sapranno ciascuno costruire una propria versione di lettura.
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sui modi molto articolati attraverso cui i soggetti catturano e rielaborano a modo proprio le significazioni, i miti, gli aspetti ideologici nel mondo che li circonda. Oltre al fatto già noto a Barthes e a molti altri che uno stesso oggetto culturale o bene di consumo venga letto in modi diversi da persone diverse, le pratiche che derivano da ogni lettura aprono la gamma molto ampia del portato culturale e sociale della produzione di miti, ideologie e senso comune. Del resto lo stesso Barthes, nelle sue opere successive, dette un contributo fondamentale a questo percorso di riflessione, preparando la strada al post-strutturalismo, attraverso la teoria de la jouissance, ovvero del piacere e del desiderio che possono muovere e accompagnare la lettura e Nello studio della novella Sarrasine, di Balzac, Barthes (1970) avanza i sottesi al testo. Per ciascun frammento si tenta di mostrare i codici interpretativi che il lettore potrebbe mettere in gioco durante la lettura per dare un senso compiuto alla narrazione. Tali codici provengono da un mix di significazioni riferibili tanto a specifiche convenzioni letterarie che al repertorio culturale del lettore. La nostra capacità di dare senso al testo dipende dalla nostra capacità di mobilitare e rendere attivi questi codici altrimenti latenti. Si tratta di una metodologia che per quanto innovativa è altresì coerente con un obiettivo scientifico e forte che esiste da sempre nella semiotica. Eppure, al contempo, Barthes sostiene che non esista alcun nessun significato definitivo e generale della novella presa in considerazione. I codici sono complessi poiché si sovrappongano tra loro in modi anarchici e imprevedibili. Il risultato è un eccesso di significato e pertanto le alternative di interpretazione sono pressoché infinite. Per comprenderlo basta riflettere sul fatto che i significati che estrapoliamo da un libro alla sua seconda lettura sono molto diversi rispetto alla prima volta che abbiamo letto quel libro. Le due letture differiscono non solo perché tra la prima e la seconda abbiamo inevitabilmente dato due interpretazioni diverse, ma soprattutto perché abbiamo collegato i frammenti della lettura ogni volta ad esperienze diverse della nostra vita e soprattutto abbiamo riportato le interpretazioni ogni volta ad aspetti differenti delle nostre pratiche sociali. «L'interpretazione di un testo non significa dare un significato a quel testo, ma anzi apprezzare e godere del pluralismo di interpretazioni [... ] i codici che si attivano sono
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infiniti» (Barthes, 1973, p. 5). Questa visione di significati proliferanti e multipli che sfidano abbastanza suggestiva. Nel corso degli anni Ottanta, il richiamo alla jouissance si è esteso oltre la questione della lettura ed ha assunto, dapprima nel dibattito della filosofia di stampo francese, poi anche nel mondo della teoria critica anglofona, un chiaro statuto di riferimento relativamente a più ambiti di ricezione e pratica di consumo culturale. Ma soprattutto ha segnato una definitiva rottura nei confronti dello strutturalismo. Le plaisir du texte (1973) è infatti già -strutturalista visto il modo in cui Barthes abbandona lo sforzo di costruire una teoria coerente o un approccio sistematico. Ciascun lettore deriva un proprio tipo di piacere a partire da una significazione personale dei contenuti presenti nel testo, a seconda del profilo psicologico, a seconda del modo di intendere la propria appartenenza di genere, a seconda della propria costellazione di riferimenti politici, sociali, ideologici. Esistono tanti stili e tante strategie di significazione nella lettura di un testo culturale, quante sono le possibilità di ricerca appunto di una jouissance nella lettura. Il termine francese jouissance rimanda non solo alla ma anche allo slancio verso la ricerca di sensazioni appaganti. Con il piacere derivante dalla lettura e dalla interpretazione anche fantastica del testo, Barthes richiama la nostra attenzione sulla fusione intellettuale, fisica ed emotiva che si raggruma intorno alla fruizione dei prodotti culturali. Questa annotazione tradiva già un tentativo abbastanza smaccato di detronizzare la logica razionale e larga diffusione. Al suo esordio considerata sconcertante, questa dimensione aforistica de Il piacere del testo. Contro le indifferenze della scienza e il puritanesimo dell'analisi ideologica così venne tradotta in Italia divenne presto un riferimento centrale del tentativo di superare la ricerca ortodossa prodotti culturali, le idee relative alla presenza di letture multiple e al ruolo del piacere e della gratificazione personale assunsero un valore molto inglobate nelle prospettive proposte da molti autori, da de Certeau a Kristeva, fino a configurare nelle strategie del piacere anche elementi di ovvero quelle che appaiono 193
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immediatamente avverse al buon senso, oppure ironiche, paradossali permetterebbero di appropriarsi e utilizzare i testi e i contenuti multimediali tradizionali secondo una logica tesa ad esaltare la gratificazione personale. Tuttavia, un secondo tipo di rottura si era prodotta molti anni prima, nel 1964, con la pubblicazione del famoso testo di Umberto Eco, Apocalittici ed integrati, una raccolta di saggi diversi che possono essere tutti riportati ad un sociologica delle condizioni storiche e contestuali della produzione e della ricezione mediatica, non può continuare ad oscillare tra i due poli ideologicamente connotati delle tesi della persuasione di massa e delle tesi «condivisa da tutti, prodotta in modo che si adatti a tutti, e elaborata sulla misura di tutti, [sia] un mostruoso controsenso», una «caduta nto
invece, espone i principali argomenti a sostegno e contro la cultura di massa, evidenziando tuttavia come fra cultura di massa e cultura elitaria si sia stabilito un medium culturale, la midcult: i vari codici che compongono i diversi prodotti culturali si interfacciano gli uni agli altri, dando vita a stili e registri differenti. Il cattivo gusto, ad esempio, è riscontrabile soltanto una chiara «prefabbricazione e imposizione dell'effetto» che intende suscitare nel pubblico, ma il cattivo gusto non esiste in sé come una proprietà assoluta. E soprattutto, come fare a risalire alle reali e concrete intenzioni di dipendono in ultima analisi dalle modalità di fruizione e non dalle opere in sé stesse. Apocalittici ed integrati che secondo le preferenze di Eco avrebbe dovuto intitolarsi Psicologia e pedagogia delle comunicazioni di massa, è un libro che anticipa il dibattito epistemologico fra due discipline considerate come autonome, la semi , in questo caso particolare la televisione, ad offrirsi come campo di studi al tempo stesso di natura semiotica e di carattere sociale. Occupandosi dei meccanismi della
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produzione e della articolazione del senso, la riflessione sociosemiotica entra ciali, non si presenta cioè, come pensava ancora Barthes, come una metodologia delle scienze umane e sociali, ma si colloca invece a un livello epistemologico diverso rispetto a tali scienze: quello del loro esame critico, ovvero come una ricerca delle condizioni formali di possibilità della socialità in quanto tale. Così, la ricerca sociosemiotica arretra lo sguardo rispetto a quella sociologica: laddove vita vissuta, la prima si dà il compito di ricostruire le procedure di senso dei fenomeni istituzionali e collettivi. Per la semiotica il sociale non ha nulla di evidente, di immediato, se non il fatto che è esso stesso a costruire la sua presunta evidenza, la sua immediatezza, facendo apparire come ovvio, di significazione.
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Parte terza. Post
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Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, le teorie culturali, specialmente quelle di derivazione post-modernista, mettono in discussione la possibilità o la desiderabilità di una spiegazione sociale dei fenomeni culturali: seguendo (1966, 1967a, 1967b) e Foucault (1963, 1966a, 1969), i post-strutturalisti e i post-modernisti ritengono che i discorsi culturalmente condivisi permeino in modo talmente intrinseco la nostra percezione della realtà e che qualsiasi spiegazione della vita sociale ritenuta valida dal punto di vista scientifico non sia altro che un esercizio di finzione collettiva o di creazione di miti: la posizione comune è che sia possibile soltanto elaborare le nostre analisi contestuali e localizzate, senza poter giungere a nessuna verità oggettiva. Nonostante il lavoro di Lévi-Strauss (1962, 1964) durante gli anni Sessanta e nonostante le innovazioni teoriche di Barthes, lo strutturalismo è stato lentamente sostituito dal post-strutturalismo come paradigma dominante della teoria culturale francese. Negli anni Settanta e Ottanta, la svolta culturale ha contribuito a far sì che questa nuova concezione della cultura si trasferisse nel panorama intellettuale anglofono. Se nel caso dello statuto del sociale gli elementi di crisi sono endogeni allo sviluppo del pensiero sociologico, nel caso d di interesse sociologico ci troviamo di fronte ad una palese invasione -Strauss e in secondo luogo perché -strutturaliste il principale oggetto di revisione critica. 199
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tessa poteva essere analizzata come un linguaggio e tutti i comportamenti sociali potevano essere considerati, nel loro significato, come legati a codici strutturali incorporati nel linguaggio in modo implicito o inconscio. Secondo LéviStrauss
in fenomeni la cui natura è simile ai fondamenti del linguaggio. Così la critica allo strutturalismo di Lévi-Strauss, cioè quello che viene in termini ampi definito post-strutturalismo, continua a sostenere che il linguaggio influenza in modo incisivo la conoscenza e la nostra concezione della realtà; tuttavia, essa sostiene che il linguaggio non possiede di per sé strutture di significato su Laddove lo strutturalismo insisteva su un suo status oggettivo e scientifico quindi su una visione evidentemente ancora positivista il poststrutturalismo mette in discussione la totalità dei saperi obiettivi e scientifici. Dunque il post-strutturalismo non ha niente di strutturale e strutturato in sé: il linguaggio e la cultura, discorsi e narrative del sociale non possono rispecchiare automaticamente i meccanismi di funzionamento della società, né, a maggior ragione, possono illuminare circa la realtà sociale, perché linguaggio e cultura, essi stessi, sono uno specchio di un dato contesto sociale: altre parole, le categorie del sociale non sono altro che espressioni e rappresentazioni del sociale stesso. Eppure, nella misura in cui il post-strutturalismo è stato reso possibile dallo strutturalismo, è inevitabile che si possano trovare forti tracce del primo nello sviluppo del secondo. I due più notevoli elementi di continuità sono gli strumenti concettuali utilizzati per comprendere la cultura e l'approccio alla soggettività. Il post-strutturalismo, così come lo strutturalismo fanno largo ricorso a modelli teorici riferiti ai diversi linguaggi e testi della cultura contemporanea. In particolare il lavoro di Barthes e Lacan e le loro analisi dei codici, dei miti, delle narrazioni e del simbolismo rivestono una posizione di tutto rilievo. Il risultato è un kit teorico ricco e potente, sviluppato in relazione alla scrittura e alla lettura della vita culturale contemporanea. Ma un'attenzione particolare è rivolta anche all'autonomia della cultura. Questo aspetto è ciò che lega più di ogni altra cosa il rapporto tra la svolta culturale e
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il postlturali possano essere interpretati separatamente dalle strutture latenti del sistema sociale o dalle contrapposizioni derivanti dalla struttura dei rapporti di classe. Infatti, le varie posizioni post-strutturaliste esprimono un rifiuto deciso del marxismo e tanto più del funzionalismo. Le teorie sull'ideologia (che implicano il determinismo sociale o economico) vengono sostituite dalla centralità del Il problema tuttavia è che non esiste una singola versione del poststrutturalismo, ma piuttosto una pluralità di approcci che sono spesso arbitrariamente raccolti sotto questa etichetta. Senza contare che le discussioni sul post-strutturalismo sono quasi invariabilmente confuse dagli sforzi contemporanei di definire il postmodernismo risultato può essere il caos terminologico. Proverò ad esplicitare come il poststrutturalismo consegni una serie di teorie nuove che segnano una certa differenza rispetto a quelle strutturaliste, mentre il post-moderno rimandi ad una condizione generale della cultura e del sapere tipica dei nostri giorni, ad una serie di discorsi che tendono ad annullare la dimensione moderna del sapere che avrebbe caratterizzato la storia occidentale degli ultimi secoli, in particolare del Novecento. Nel primo caso è possibile risalire ad una certa unitarietà di pensiero basata su teorie e autori, mentre nel secondo più che di una produzione teorica, si tratta di un coacervo di critiche rivolte al passato e di analisi descrittive del presente. Come lo strutturalismo, così anche il pensiero post-strutturalista ha pesantemente attaccato l'idea umanista che l'individuo debba e possa essere il principale oggetto dell'analisi della conoscenza, arrivando a sostenere con forza ciò che sinteticamente, come in uno slogan, è stata definita «la morte del soggetto». L'idea dell'individuo sovrano aveva avuto origine dal pensiero rinascimentale, si era poi rafforzata nel corso dell'Illuminismo ed era divenuta la base di riferimento della modernizzazione capitalistica. Proclamando una natura razionale e motivata del comportamento umano, questo modello esplicativo dominante aveva considerato società e cultura il prodotto di scelte attori umani autonomi. Al contrario, i post-strutturalisti sottolineano non solo la centralità dei sistemi semiotici come obiettivi dell'analisi culturale piuttosto che gli attori , ma anche le modalità attraverso cui le soggettività e agency sono forgiate da forze culturali e storiche arbitrarie, ma potenti.
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I desideri, le motivazioni e le concettualizzazioni del soggetto si e dal pensiero razionale. Inoltre, gli aspetti del sé sono considerati spesso contraddittori, frammentari o incompleti. Da questo punto di vista il modalità di autorappresentazione. Questo percorso di ripensamento del sé e la co trova traduzione nella felice espressione post-strutturalista del lavoro di Jacques Lacan (1966) hanno contribuito a rafforzare questa produzione teorica. Sostenere che strutturalismo e post-strutturalismo hanno diversi elementi teorici in comune ovviamente non significa stabilire che siano due prospettive identiche, tanto più che appunto il secondo concetto, con quel introducendo ingredienti del tutto nuovi. Come abbiamo sottolineato nella Parte Prima, lo strutturalismo ortodosso a la Lévi-Strauss operava con un modello di ricerca e analisi in cui il ricercatore era prima di tutto un a caccia di una qualche struttura nascosta nel profondo dei fenomeni che venivano comparati. Lo strutturalismo rinviava alla possibilità che fosse possibile giungere ad una qualche scoperta oggettiva, universalmente valida relativamente al sistema di significati di una data cultura. Per i poststrutturalisti, invece, queste aspettative erano del tutto fuorvianti. La loro critica si basava su alcune annotazioni che avevano a che fare con le riflessioni emerse con la svolta culturale. Prima di tutto, il posizionamento storico di un fenomeno culturale o meglio di un testo e di un discorso sono inevitabilmente presi dal discorso che viene prodotto su di loro (1966b, 1971, 1972, 1975) era pieno di esempi di come tutti coloro che sono coinvolti nelle interpretazioni delle scienze umane sono altresì implicati in particolari assetti di potere e conoscenza, la cui configurazione produce sempre impatti sui discorsi che avvolgono le spiegazioni dei fenomeni studiati. Questo punto di vista aveva certamente una serie di affinità con la tradizione della sociologia della conoscenza così come con le prospettive che tendono a relativizzare qualsiasi epistemologia laddove mettono in serio dubbio la possibilità di
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di tali orientam
-strutturalisti propongono di dirigere
I post-strutturalisti sostengono che le culture e i testi debbano essere interpretati in modi molto diversi poiché sono portatori della possibilità di letture contradditorie e opposte, multiple e secondo visioni che si o più sfuggente di quello che si può pensare. Al contrario della visione per comprendere o interpretare un testo. Anzi qualsiasi posizione del genere è deleteria poiché costitui logiche rigorosamente sistemiche non gioverebbero affatto a risolvere la questione della ricerca dei significati. Al contrario, autori come Derrida (1967b) sostengono che gli approcci strutturalisti tendono soltanto a moltiplicare le letture e a produrre paradossi e chiusure nelle interpretazioni. Inoltre, la critica allo strutturalismo, soprattutto nella versione di LèviStrauss, rimprovera la cecità di questa prospettiva nei confronti della dimensione del potere. Le dinamiche culturali venivano considerate come il frutto dei legami sociali, dei bisogni umani e di un trascendentale inconscio collettivo. Nelle versioni marxiane, come ad esempio in Althusser, le strutture culturali venivano considerate come il prodotto di un sistema latente, ma oggettivo, di forze economiche. Se il post-strutturalismo continua ad avere un debole per la cultura come superfice dei rapporti di potere includendo dunque un minimo di sensibilità marxiana al contempo rigetta la metanarrativa del marxismo come valida possibilità di resoconto della storia e della società. La teoria marxiana assegna alla storia una dinamica evolutiva attraverso fasi distinte di sviluppo e pertanto finisce per considerare la storia come un processo intellegibile attraverso la ricostruzione di metanarrazione. In questo quadro, gli eventi possono venire interpretati come parte di (1969), invece, reclamava quanto la storia fosse un campo di conflitti situati e che attraverso una decodifica unitaria, i sistemi ideologici basati sulle differenze di classe, andrebbero letti attraverso una proliferazione e interpenetrazione di discorsi e di strutture di potere/conoscenza. Tali 203
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ideologie sono del resto attraversate da differenze che hanno a che fare con la coloniale, così come da altre categorie oppositive di naturalizzazione della realtà. La visione post-strutturalista della storia assegna una netta priorità alla ricerca e allo scavo delle radici attraverso cui le forme del sapere, i discorsi della e sulla conoscenza hanno informato il tipo di potere e le modalità di esercizio dello stesso attraverso la costruzione delle «verità». Un elemento costitutivo del post-strutturalismo è il forte rigetto delle cosiddette metanarrazioni relative allo sviluppo del progresso e caotica e nessuna possibilità di rivelare un piano, un modello, un ordine. La ricostruzione schematica per la quale al feudalismo succede il capitalismo e a questo qualche altro regime socio-politico ed economico rappresenta solo e soltanto una grande narrazione semplificatrice. Piuttosto la storia enfatizza discontinuità e rottura, contingenze e schizofrenie che plasmano le dinamiche culturali e istituzionali in modo imprevedibile. I caotici conflitti per il potere costituiscono la principale forza del cambiamento e dei processi storici. Queste concezioni della storia infl specifica fase storica una sua propria caratterizzazione irripetibile. Ne deriva anche un totale abbandono di qualsiasi presupposto relativo alla cultura come insieme coerente ed ordinato, sistemico ed unitario di strutture di significato. Piuttosto la cultura appare come una collezione di frammenti mal specifiche battaglie per il potere e il dominio. Da questo punto di vista, a distanza di oltre un ventennio, la concezione post-strutturalista della cultura non appare molto differente da quella che aveva proposto Clifford Geertz agli albori della svolta culturale, ma con decostruzione delle dinamiche di formazione dei discorsi e dei saperi dominanti che codificano come normale una determinata visione del mondo. Il lavoro di Michel Foucault (1978, 1980, 1984a, 1984b) non solo incorpora molte degli elementi seminali del post-strutturalismo, ma è in larga post-strutturalist commentatori riconoscono che Foucault è stato uno degli intellettuali più
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solo la forza delle sue tesi, ma anche una spiccata capacità delle sue opere di confrontarsi con gli sviluppi di diverse discipline: dalla filosofia alla storia, dalla psicologia alla sociologia, dalla linguistica alla psicoanalisi. Sebbene egli si considerasse soprattutto come un esperto di «storia dei sistemi di pensiero», bisogna riconoscere che i riferimenti utilizzati nelle suo operano spaziano in modo incredibilmente aperto a più campi del sapere. Foucault postche gli è stata affibbiata più di qualsiasi altra. Fu soprattutto la traduzione in inglese nel 1977 e la rapidissima diffusione nel mondo accademico anglosassone del libro Surveiller et punir: naissance de la prison (1975) a decretare un fortissimo e rinnovato interesse e alla combinazione delle caratteristiche dello strutturalismo e della fenomenologia: «le due principali alternative disponibili a quei sociologi che cercano una via di fuga dal positivismo» (Simon, 1996, p. 318). Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, i due decenni in cui ha scritto il numero principale di analisi e riflessioni, Foucault ha tuttavia spostato continuamente le sue posizioni teoriche. È perciò sempre molto pericoloso tentare di fornire una sintesi unitaria e coerente della sua produzione che andrebbe invece considerata soprattutto come una costante evoluzione di modelli teorici. Se tuttavia ci riferiamo ai principali temi che sono stati affrontati da Foucault diventa meno complesso evidenziare il contributo che in seno alla svolta culturale. In questo senso vale pena esaminare prima di tutto la forza del concetto di «discorso» che Foucault (1962, 1963, 1966a, 1966b, 1969, 1971, 1972, 1975, 1976, 1978) ha utilizzato per specificare la propria visione del rapporto tra cultura legittima, codificata, istituzionalizzata e le dinamiche del potere dei processi di formazione dei discorsi «normalizzanti». Per Foucault un a modalità di descrivere, classificare e concepire persone, cose e persino sistemi astratti di pensiero. politiche, ovvero non è mai neutro rispetto alle relazioni di potere. Contrariamente ad un assunto implicito negli approcci umanistici, i 205
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sovrane, creative e distaccate dalle dinamiche delle relazioni di potere; al contrario essi sono implicati nei ed emergono dalle relazioni di potere tra i gruppi sociali che sono essi stessi costituiti e regolati da tali discorsi. Foucault esplicitamente sottolinea che «il potere e il sapere si implicano di potere senza conosce, gli oggetti della conoscenza e le modalità della conoscenza devono essere considerati come tanti effetti di queste implicazioni fondamentali del rapporto tra potere e conoscenza e delle loro trasformazioni storiche» (Foucault, 1975, p. 27). Così nel lavoro di Foucault vengono esplorate le modalità attraverso cui la conoscenza forgia le varie categorie sociali di persona in relazione al potere. Nelle sue ricerche storiche più empiriche come Maladie mentale et psychologie, (1962), Naissance de la clinique (1963) e Surveiller et punir (1975) Foucault ha esaminato il modo in cui esperti e specialisti, medici, psichiatri e criminologi nel corso del tempo abbiano goduto di una determinata autorità e quindi di un potere crescente nello sviluppo di nuovi discorsi relativi alla malattia mentale, alla pazzia, alla devianza. Questi discorsi non si limitavano soltanto a rinforzare la pretesa di à degli esperti. Essi inventavano e definivano nuovi gruppi devianti in qualità di oggetti necessari di studio e di analisi, di controllo e di confinamento. Sottolineando il modo arbitrario attraverso cui queste classificazioni sono sorte e sono cambiate nel corso dei secoli, Foucault
grande scetticismo: piuttosto che catturare una realtà oggettiva, discorsi scientifici creano, riproducono e mascherano le relazioni di potere e le forme di controllo sociale. Per Foucault fondamenti piuttosto che tentare di valutare il loro reale valore cercando una
possibilità di affrontare la questione del rapporto tra cultura e potere senza alcune riferimento al pesante portato intellettuale del concetto di ideologia, che il pensiero marxiano ha avuto e ha tuttora su questo tema.
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POST-STRUTTURALISMO
La prospettiva foucaultiana, invece, parte proprio dal presupposto che
conoscenza tesi a stabilire verità. Ad esempio, usando fonti, materiali e documentazioni storiche, Foucault (1971) ricostruisce come nel corso legittimazione del potere. La novità qui è una critica della teoria dei sistemi marxisti che hanno compreso il potere come parte di un sistema dominazione perfetto, internamente coerente e sistematico legato ad uno specifico un modo di produzione. Viceversa Foucault preferisce riferirsi al concorso multiplo di discorsi e narrative che dominano la realtà sociale o addirittura la creano. Il potere circola all'interno di contesti istituzionali e discorsivi, in forme micro-sociali. Se agli inizi il potere era incarnato nella forma violenta e assoluta del monarca, nel corso del Novecento si è che hanno colonizzato le varie realtà sociali attraverso la definizione di forme di controllo interiorizzate dai soggetti. La forma monarchia e violenta del potere possedeva le sue specifiche caratteristiche: la brutalità ostentata, le punizioni fisiche, fino alla pena capitale, la sua presenza intermittente e asistematica, la sua ritualità densa di rimandi simbolici, la sua manifestazione pubblica e terroristica. In Surveiller et punir (1975), il potere violento delle norme Ottocentesche cede storicamente e gradualmente il posto a nuove forme di controllo con caratteristiche totalmente differenti: esso è associato allo sviluppo tecnologico e dei saperi empirici; si basa su un monitoraggio a distanza e quindi non in compresenza e quindi ancora distante dalla violenza fisica; procede per effetto di una pre-incorporazione nelle competenze di autocontrollo delle persone; è razionale, strumentale e tradotto in sanzioni compe soprattutto tende a manifestarsi per mezzo di specifiche istituzioni come le La domanda che muove la ricerca storica riguarda «il come» e «il potere e controllo operano per ricostruire e normalizzare il sé degli individui, agendo sul corpo e disciplinandolo. Lo scopo di tali processi è allenare i corpi ad una docilità di reazione ed esecuzione che sia obbediente alle autorità e funzionale ad un controllo sociale che in superfice non appare quasi mai come coercitivo. La ricerca storica di Foucault porta a mettere pesantemente 207
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in discussione il cammino di apparente progresso e liberazione del sé nella modernità: ciò che sembra costituire un progressivo allontanamento dalla barbarie e dalla bruta violenza, irrispettosa delle prerogative umane del soggetto si rivela, a una ricostruzione più precisa, come un totale e pieno co forme di potere più subdole e nascoste. ha definito il «biopolitico». Nella sua ricerca Histoire de la sexualité (1976, moderno sviluppa una crescente preoccupazione e sete di controllo delle tendenze di riproduzione della popolazione e della sessualità. È un interesse d epidemiologici, alle condizioni di salute dei cittadini, alle indagini sui tassi di fertilità, alle forme di devianza sessuale e così via. Foucault suggerisce che i vittoriana, un periodo che la storia ricostruisce come culturalmente repressivo. In realtà per Foucault non si tratta di una repressione, ma semmai Foucault scrive che «la sessualità era ora vista come un mezzo di accesso sia al mondo dei piaceri corporali che a quello della vita [...] diventando il tema delle operazioni politiche. Gli interventi economici [...] e le campagne ideologiche [...] sorsero tutta una serie di tattiche diverse che combinavano in proporzioni differenti la disciplina oggettiva del corpo e quella della regolazione delle popolazioni» (1976, p. 66). Foucault suggerisce che il biopolitico ha quindi operato nel segno della produzione di una novità, piuttosto che in quello della repressione. Lo ha fatto agendo sulla sessualità e sul desiderio, non solo per censurarli, ma per farli emergere come campo aperto di definizione controllata del sé. Lungi dall'essere una serie di pratiche che sfuggono o si oppongono alle forme istituzionalizzate del potere (come sosterrebbe il buon senso), le pratiche sessuali e riproduttive diventano veicoli attraverso Oltre all'identificazione di varie forme di potere, Foucault ha introdotto una serie di altre idee chiave tra cui spicca, soprattutto per il suo impiego
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quella delle «micro-politiche del potere» (1977). Il «micropotere» che fa riferimento alla natura capillare del potere: proprio come i capillari conducono il sangue fino ai più remoti e piccoli ambiti del corpo umano, così le discipline del sapere si traducono in una normalizzazione delle forme di autocontrollo esercitate inconsapevolmente dalle persone nella loro vita quotidiana. La forza della destrutturazione da pa negli anni Settanta da subito ispirato una notevole quantità di commenti e dibattiti. In taluni casi, la reazione degli storici e dei sociologi più di altri ività irrefutabili ha mosso alcune critiche nei confronti delle tesi di Foucault giacché queste mancherebbero di solidità empirica. Ma si tratta di pretese non del tutto condivisibili, giacché la forza delle ricostruzioni storiche di Foucault risiede frammentarietà dei processi storici. Altre critiche si sono dirette verso la concezione foucaultiana del soggetto visto nella sua estrema debolezza di fronte alla forza pregante dei discorsi e dei dispositivi tecnico-scientifici di controllo e governamentalità. Il modello consegnerebbe ai soggetti poche troppe poche chance di autodeterminazione, sottovalutando le capacità umane e dei gruppi sociali di opporre comunque un minimo di resistenza. In alcuni casi si è citato il lavoro di Goffman (1968), Asylums, in cui in effetti queste capacità emergono nonostante la pervasività delle forze di controllo. Infine, si è a volte rimproverato a Foucault di proporre una visione di medio raggio della dimensione sociale nella quale le grandi diseguaglianze tra i gruppi sociali sembrano scomparire dietro i processi culturali attraverso cui le istituzioni producono forme di controllo e di manipolazione che risultano prive di un legame a gruppi sociali specifici. In effetti, nelle ricostruzioni foucaultiane manca una sociologia empirica dei gruppi e degli agenti. Ben più di Foucault, è il decostruzionismo di Jacques Derrida (1966) a -strutturalismo. Anche in questo caso il suo itinerario teorico prende le mosse dallo strutturalismo, ma declina velocemente verso il superamento di quella prospettiva, sebbene in una modalità per certi versi strana e paradossale: Derrida, impiega infatti la logica segni possa sostenere la verità, la logica e la coerenza è del tutto scorretta. Per Derrida non solo il significato è strettamente connesso al contesto, alla situazione e ai giochi di relazione e significazione che in maniera creativa i 209
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soggetti mettono di volta in campo, ma esso è anche continuamente differito, mai pienamente presente, mai definitivamente concluso e chiarito. Questa natura divisa del segno, secondo Derrida (1967a), può essere indicata con il concetto, da lui coniato, di différance differenza, che a quella del differimento. Derrida è nel considerare che i segni hanno un significato poiché implicitamente in
ità di significazione; la différance implica proprio il fatto
Letture e interpretazioni diverse e differenti si possono sempre dare, e qualsiasi testo è portatore al suo interno di significati anche contrapposti, a seconda delle sezioni e dei frammenti che si analizzano. Le note a piè di pagina possono ad esempio contraddire la tesi principale presente nelle righe righe. È soltanto quando viene saldamente posizionato in un discorso situato e letto in un contesto specifico che il gioco continuo di rimandi tra significante e significato trova una sua pausa. Eppure, persino in questi casi specifici si può seguire il continuo e infinito processo di differimento del significato. Il neologismo della différance serve a Derrida per proporre una lettura che rompa con questi assunti e a focalizzare piuttosto il carattere qualcosa ritiene che siano da «de-costruire» le opposizioni determinate che costituiscono il campo concettuale della metafisica. Derrida punta rompere questa regola ricorrente del pensiero occidentale. In sintesi, la différance rende conto della procedura della significazione, in quanto rende conto delle condizioni di possibilità della presenza di ciò che è presente: il differire da sé, dunque del senso, del significato. Ancora una volta si tratta di una conferma che la verità non può essere cercata nel linguaggio e tanto più che un testo non può essere portatore di una sola verità semantica. Ogni testo produce un eccesso di significazione che
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di controllare la panoplia di significazioni di cui è portatrice. Pertanto le teorie culturali dovrebbero lanciarsi in un «gioco ermeneutico», in (Derrida, 1987). Questa impostazione segna in effetti una definitiva rottura e un radicale binaria tra significati asilare dello strutturalismo non è mai una relazione strutturale. Semmai è una relazione di potere, nella quale uno dei emerge naturalmente o scientificamente dalla relazione di opposizione, ma è qualcosa che è costruito in base a come la relazione viene sviluppata: un lato della relazione rivendica una posizione di status o di pura presenza rispetto significazione non sono semplici opposizioni, ma rapporti che ianco è tale perché non vi è nero e viceversa; il maschio è tale poiché non vi è nulla di femminile in esso e viceversa. Uno dei due termini viene usato per rimuovere, possibilità Di fronte a queste relazioni binarie oppositive che producono rapporti gerarchici di dominazione e subordinazione simbolica, Derrida (1967b) propone il metodo della de-costruzione che è appunto una prospettiva di totale rottura della visione strutturalista. La de-costruzione è un processo di de-composizione a ritroso delle configurazioni opposizionali
metafisica. La de-costruzione interroga la tradizione filosofica per comprendere in che modo questa si sia costituita e generalmente imposta E in questo tentativo di rottura, Derrida privilegia la scrittura. Tale scelta è fondamentale negli sviluppi della svolta dominante della cultura contemporanea che prima di tutto è in forma scritta. La linguistica e la filosofia linguistica si sarebbero da sempre occupate in maniera ossessiva più del discorso parlato che di quello scritto. Secondo 211
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Derrida anche de Saussure aveva assegnato alla scrittura soltanto una funzione derivativa e di prossimità rispetto alla forma orale (Derrida, 1976b). Nella tradizione della cultura orale e del dialogo, della comunicazione parlata, Derrida oggetti concreti che vengono percepiti come immediatamente presenti alla Derrida (1966) si riferisce a tale situazione come ad una «metafisica della alla eventualmente svelare una verità sul mondo poiché gli errori e le distorsioni soggettive nel linguaggio possono essere gradualmente corrette. Derrida definisce questa illusione come «logocentrismo», un dominio della parola attraverso cui si presume di poter fondare una progressiva pratica di avvicinamento al significato ultimo delle cose. Viceversa, il linguaggio produce sempre significati multipli e non circoscritti che producono sempre molto più di ciò che riescono a descrivere. La scrittura, a differenza, del linguaggio rappresenta sempre una separazione espressiva rispetto al soggetto che la produce. Pertanto, secondo Derrida, i significati proliferano senza fine, oltre e al di là delle intenzioni di un autore che li ha prodotti. Questa prospettiva rappresenta una sfida e un decentramento della sovranità iusura e limitazione dei messaggi. Per Derrida la «grammatologia» (Derrida, 1966), una comprensione delle radici del linguaggio scritto. La différance delle categorie oppositive del linguaggio, ma proprio perché si tratta di una perdita non definitiva la différance non smette di produrre effetti destabilizzanti sul sistema simbolico organizzato a partire dalla rimozione. Tuttavia, per Derrida la decostruzione non è una nuova metodologia di scomposizione delle categorie dominanti. Essa è latentemente da sempre regola prodotta altrove rispetto ai testi; esso è già presente in nuce delle potenzialità di différance anzitutto, a rovesciare in un determinato momento la gerarchia», per e sta in alto,
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emergenza di un nuovo concetto, concetto di ciò che non si lascia più, né mai si è lasciato, comprendere nel regime anteriore» (Derrida, 1987, p. 53). Derrida definisce tali concetti gli «indecidibili», ovvero «unità di simulacro, delle false proprietà verbali, nominali o semantiche, che non si abitano, le resistono, la disorganizzano, senza però mai costituire un terzo termine, cioè senza mai dar luogo a una soluzione nella forma della dialettica speculativa» (Derrida, 1987, p. 54). Si tratta di termini che sono insiti alla struttura delle opposizioni binarie, ma non si lasciano rinchiudere in essa, anzi la disorganizzano, in quanto sono connessi alle proprietà della différance. è stato duplice. Sul piano strettamente connesso alle analisi culturali, anche attraverso una sorta di banalizzazione, ha prodotto una base giustificativa della frammentarietà delle letture e delle un indebolimento delle ottiche empiriche di ricerca (Culler, 2003). Sul piano più ampio della critica ai saperi ufficiali costituiti, specialmente negli Stati Uniti, si è cristallizzato come prova più esplicita del post-strutturalismo, per incisiva influenza del decostruzionismo negli studi culturali sancisce la
produzione culturale (le politiche editoriali, il ruolo supposte creatività innovative), opponendogli il ruolo attivo e le performance dei lettori/fruitori. Un ricco e però anche molto aspro dibattito ha reso molto vivo il ttanta. Attraverso la decostruzione derridiana, diverse studiose femministe hanno preso seriamente in considerazione la possibilità di spogliare il linguaggio maschile, dominante per secoli (il cosiddetto «fallo-logocentrismo») del potere di parlare al posto e per conto delle donne. La differenza sessuale vista quale prodotto sociale irriducibile a categorie universali o determinazioni biologiche e pertanto ricondotta alla impossibilità di essere rinchiusa nelle pluralizza per effetto della différance che apre a tutta una serie di variabili mobili e fluide (Nicholson, 1990, Piccone Stella, Salmieri, 2012). 213
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La svolta culturale e i discorsi della post-modernità
Sullo sfondo della svolta culturale opera un dibattito che ha le sue radici nella filosofia continentale dai primi del Novecento. Tale dibattito muove le mosLa razionalità scientifica moderna tenderebbe a reificare i fenomeni, a considerarli come oggetti di calcolo e manipolazione. La critica delle filosofie realtà sarebbero per lo più prodotti della coscienza. Tutti gli sforzi tesi a trovare una teoria che si applichi alla realtà sarebbero vani poiché esiste una tensione interna alla realtà, in cui è avviluppata la stessa coscienza umana. Il pensiero storiografico da cui mossero le più forti critiche alla possibilità che le scienze trappone al pensiero logico-definitorio dello stile analitico. Va però detto che anche in modo del tutto indipendente alla svolta culturale degli anni Settanta, nello stesso periodo comincia a farsi largo un una radicale critica della tuale e prende diverse etichette: post-modernismo, post-modernità, postserie di concetti come questa ha generato più controversie. Provo da subito a fornire qualche riferimento sintetico. Il concetto di post-modernismo ha diverse dimensioni. In primo luogo può essere riferito ad uno stile estetico e artistico che rigetta totalmente i codici del modernismo. Ma include anche una posizione filosofica e teorica in parte legata al post-strutturalismo e che a sua volta rifiuta i principi degli approcci novecen215
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teschi che ripongono nella scienza, nel progresso, nello sviluppo e nella razionalità empirica enormi aspettative. Il termine post-modernità sta invece indicare una fase dello sviluppo sociale successiva alla modernità in cui vengono ad assumere importanza i fattori culturali, informazionali e della conoscenza rispetto a quelli industriali e burocratici tipici della storia del Novecento. I sostenitori della postradicale ad un -industriale organizzata attorno alla cultura e ai senso il processo di post-modernizzazione indica la transizione dalla modernità alla post-modernità in uno scenario di globalizzazione, interconnessione, avrebbe favorito anche una frammentazione delle prospettive conoscitive e una forte eterogeneità delle possibili letture. È doveroso partire dalla distinzione analitica tra la letteratura che invoca o fa uso delle caratteristiche del post-modernismo e della postmodernizzazione e le analisi che invece tentano di spiegarne i significati. È soprattutto nel secondo caso che si ritrovano le tracce dei legami intellettuali con le posizioni che negli anni Settanta erano state artefici della svolta culturale. Possiamo ad esempio distinguere una sociologia post-moderna e una sociologia del post-modernismo: la prima include gli apologeti del postmoderno e applica acriticamente una teoria esplicativa post-moderna. La seconda, invece, ha nel post-moderno e nella post-modernizzazione i propri gli oggetti di analisi. Le definizioni e le concezioni di società post-moderna sono infinite. È utile allora soffermarsi brevemente sui pochi elementi e qualità che incontrano il consenso della maggior parte degli autori che si sono occupati 1990; Lash, Urry, 1993). La prima caratteristica riguarda la cultura e i mass media sarebbero più potenti e centrali di quanto non fossero nella modernità. Nel tempo post-moderno la vita sociale ed economica è orientata come non mai al consumo di simboli e stili di vita, piuttosto che alla produzione di beni materiali provenienti dagli investimenti e dalle logiche industriali. In altre parole, il postuna società post-industriale in cui il dato informazionale e comunicazionale ha spiazzato quello materiale. coltà di dar conto della realtà sociale e delle sue rappresentazioni visive: i con-
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cetti e lo spazio avrebbero sostituito la storia e la narrazione lineare come principi organizzatori della produzione culturale. Infine, in termini strettamente estetici, la parodia, il pastiche riferimenti prevalenti degli stili dominanti nei vari settori della produzione culturale. In queste trasformazioni, i confini rigidi delle classificazioni usate nelle scienze sociali si allentano per effetto della presenza di commistioni interpretano i fenomeni culturali. Il campo in cui il concetto di post-moderno ha fatto la sua prima appariJencks derna è morta». In quella data ebbe inizio la demolizione del nuovo quartiere residenziale di Pruitt-Igoe a St Louis, Missouri15, un piano di urbanizzazione pubblica dell'architetto Minoru Yamasaki, sviluppato tra il 1954 e il 1955 e in seguito caduto nel degrado a seguito di un repentino decadimento della qualità abitativa. Il nuovo quartiere pensato per la dislocazione di famiglie delle classi medio-inferiori e inferiori era sorto secondo i principi del razionalismo, del comportamentismo e del pragmatismo, ma senza mai riuscire a garantire alla zona la vivibilità per la quale era stata progettata. Il movimenripetitivo, sulla serie e sullo standard, sui materiali e sulle forme universali, icazione di concetti lazione urbana americana, un mix molto eterogeneo di razze, etnie ed esigenze abitative. iava ad essere letta criticamente come una metafora della macchina industriale, con edifici che simboleggiavano il potere del progresso e del razionalismo e le con le forme estetiche subordinate al funzionalismo. Secondo i critici, questo tipo di architettura tradiva il desiderio utopico dei progettisti, animati da una progetto sociale di ingegneria comportamentale poi spesso messo in scacco
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Autore anche delle torri gemelle del World Trade Center di New York. La sua realizzazione di Pruitt-Igoe ebbe decisamente meno successo. Fu un vero e proprio fallimento: appena 20 anni dopo la sua costruzione, il primo dei 33 giganteschi edifici fu demolito dal governo federale; gli altri 32 edifici rimanenti vennero demoliti nei due anni successivi.
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dalle pratiche di vita quotidiana della popolazione: il design non corrispondeva alle esigenze umane di un ambiente attraversato da differenze e richiami simbolici diversi, ma ad una percezione di alienazione. Una ricostruzione simile circa la fine del modernismo in architettura è stata elaborata da Robert Venturi e i suoi collaboratori in un testo divenuto poi molto influente: Learning from Las Vegas e una pretesa di verit nativo Las Vegas con i suoi casinò, alberghi e file di grandi centri commerciali della popular culture del divertimento, era lì ad offrire in modo smaccato la tenuta stilistica ed efficace di ciò che le persone cercherebbero nel panorama urbano: le stranezrchitettura di Las Vegas è vibrante, anti-elitaria, vicina alle pratiche ordinarie e triviali di
entertainment e della commistione fantastica di epoche e contesti differenti. Il modernismo in architettura aveva per anni implicato una forte ossesdegli intrecci tra le categorie di «spazio», «struttura», «programma», cenfunzionalizzati, dunque vincolanti e rigidi, la rottura del post-modernismo architettonico segna una nuova pretesa di ornamento intellegibile o quanto meno fruibile secondo i codici della popular culture. Il post-modernismo funzionalismo, oltre alla ricerca del divertimento al posto del serioso, oltre suo carattere principale nelcarattere forte (Jencks, 1977; Venturi et al. 1977; Jameson, 1984). Seppure in un secondo momento rispetto al dibattito in architettura, uno stile post-moderno ha cominciato ad essere richiamato con forza anche poiché considerati troppo seriosi, astrusi e astratti e soprattutto provenienti da autori riconosciuti la cui fama simboleggiava la distinzione tra cultura alta e cultura bassa. Anche se in modo meno esplicito di quanto avvenisse nel
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campo architettonico, in quello letterario e pittorico il modernismo richiamava il domini per causa-effetto. Le opere che negli anni Ottanta cominciarono ad essere definite post-moderne era mosse da una nuova concezione estetica, ironica, dissacratoria, paradossale, basata sulla frammentazione che celebra senza il ricorso alle interpretazioni sofisticate degli esperti e dei critici di setni tra cultura raffinata e popular culture, suggerendo non tanto e non solo che anche non aveva più alcun senso continuare ad adottare questi confini. Venivano ora proposti temi e oggetti che criticavano ironicamente il passato, le classi-strutturanti. Nel cinema appariva netto e palese il rifiuto di film basati sulle classiche sequenze basate su plot a svolgimento lineare; cominciavano ad avere un certo seguito storie che portavano sul grande schermo una forma spezzata o frammentata dalla linearità di svolgimento, con elevati dosi di «intertestualità». tente autore. -modernità nelle scienze sociali testimonia d riche e letterarie che il concetto ha potuto transitare a tutti gli ambiti del sociotaneo di molteplici tipi di sti differenti approcci e punti di vista, tutti convergenti nel rifuggire le prospettiva moderna delle grandi narrazioni logico-lineari e la fede moderna nella prodottasi in ambito architettonico-pittorico-letterario che nel campo delle scienze sociali si è scelto il termine post-moderno per segnare una serie di rotture rispetto alla continuità di fondo delle varie teorie che hanno dominato il Novecento, il razionalismo, il marxismo, il funzionalismo, gli strutturalismi. Da un lato la svolta culturale aveva contributo a minare le certezze delle prospettive scientiste e razionali derivanti dalla sociologia parsonsiana, da 219
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quella di impronta marxista, con il post-strutturalismo a fare da apripista sulle grandi teorie della modernità cominciarono a servirsi del concetto per demarcarne la crisi. Sono i filosofi francesi Lyotard (1979) e Baudrillard (1970) i primi ad utilizzare, sebbene in una visione differente, il concetto di post-modernità. Il punto di partenza è la pubblicazione de La condizione postmoderna nel 1979 da parte di Jeanstrutturalista è evidente: per questo intellettuale francese, le società contemporanee non sono organizzate soltanto attorno alla performatività di nuove tecnologie del sapere, ma anche in relazione alla presenza di giochi linguistici e discorsi. Un particolare ruolo è svolto dalle narrative della vita sociale, dal modo in cui cioè la società, attraverso le culture esperte, si auto-rappresenta. Se nelle società pre-industriali, la rappresentazione del sociale aveva una cifra
allo sviluppo della scienza. I nuovi discorsi sul sociale si pongono in chiave evolutiva, proiettando la società nel futuro, spingendo verso il progresso, la ragione, la conoscenza tecnico-empirica che avrebbero gradualmente e inesola miseria con il sapere, la quisiva uno scopo di miglioramento continuo. Anche il soggetto aveva un o al cui interno valutare ogni attività umana. Lyotard riscontra un ulteriore passaggio epocale già entro gli anni Settanta: la scienza, la tecnologia, i complessi sistemi di amministrazione e governo, la diffusione dei computer e dei saperi digitali fanno transitare la società in uno stadio in cui «la conoscenza è divenuta la principale forza motrice» (Lyotard, 1979). Questo passaggio viene percepito nelle sue dimensioni quantitative e qualitative. Le utopie visionarie dei discorsi sullo sviluppo umano che avevano animato la vita sociale perdono la loro centralità, si indeboliscono, consumano la loro autorevolezza originaria. Per Lyotard si tratta del declino delle Grandi Narrative. Questi discorsi generalizzanti e la loro ampia presa sociale «hanno perso di credibilità, al di là del sistema di unificazione che viene usato, al di là se si tratta di una narrazione di tipo speculativo o di una narrazione di emancipazione» (Lyotard, 1979, p. 37). La maggior parte delle persone non crede più che la scienza, la ragione o una qualche verità fondata possano offrire le rispo-
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ste adatte ai problemi sociali o permettere in futuro di costruire un mondo migliore. Né ritengono che sia possibile affidarsi ad una singola grande teoria o rappresentazione del mondo per comprendere e riunificare tutte le forme
pluralizzazione e parcellizzazione di ipotesi, nessuna delle quali avente obiettivi totalizzanti. Nessuno immagina più che sia possibile trovare una posizione privilegiata da cui sviluppare una conoscenza che risulti vera o universalmente valida. La pluralizzazione dei punti di vista, ciascuno dei quali minimalista favorisce di modernizzazione continua. Lyotard sottolinea che: «il legame sociale è parla tutti i linguaggi del sapere, nessuno possiede un metalinguaggio univerSiamo tutti presi dal positivismo di questa o di quella disciplina del sapere mpartimentalizzati al punto che ovviamente nessuno può padroneggiarli tutti» (Lyotard, 1979, p.4041). In sintesi, la postno perse di vista le certezze che accompagnavano il progetto della modernità e in cui è scomparsa del tutto la possibilità di fare riferimento ad una «bigpicture» del sociale. Secondo Lyotard la scomparsa delle Grandi Narrazioni giunge a dui e quindi la razionalità strumentale prende il sopravvento. Considerata in questa maniera, la tesi di Lyotard non è molto lontana dalla teoria critica della Scuola di Francoforte. Anzi assomiglia ad una radicalizzazione di quella ipotesi. Semmai la vera innovazione di Lyotard è il forte ruolo assegnato alla dimensione discorsiva e linguistica del processo di razionalizzazione. -modernità che negli anni Ottanta ottiene una forte attenzione nel campo sociologico e nelle teorie culturali è quella preposta da Jean Baudrillard. I suoi scritti appaiono già nel pieno degli anni Sessanta (Baudrillard, 1968). Sottolineano che le società occidentali non si reggono scambio dei valori simbolici. È una rottura epistemologica che considera la cultura, nell 221
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moderna. Come se la cultura fosse divenuta la struttura dei rapporti sociali. Le merci sono segni, funzionano come tali, circolano come tali, rimandano a significati che pervadono la realtà di riferimento delle persone, formano un sistema il «sistema degli oggetti» capace di costituire una realtà persino più potente della realtà che li preesiste. Baudrillard ritiene che questo sistema cultura di LéviStrauss, ma per Baudrillard la società post-moderna è pervasa dai consumi attraverso cui i soggetti pensano e sperano di plasmare la propria identità per differenziazione. «Il consumo è un ordine di significazione come il linguaggio o il sistema di parentela era per la società primitive. La circolazione,
scambia» (Baudrillard, 1970, p. 79-80). Dal punto di vista di Baudrillard, la distinzione tra «cultura» e «realtà» e tra «segno» e ciò che questo significa non ha più alcun senso. Se nel passato moderno i segni e i simboli mascheravano un certo tipo di realtà soggiacente o quanto meno fornivano un resoconto di tale realtà, nella dimensione post-moderna una «iper-realtà ha ovunque sostituito la realtà, una iper-realtà interamente prodotta combinando gli elementi del codice» (1970, p. 126). espressioni materiali dei modelli e delle mitologie originatesi autonomamente nella sfera culturale. I termini utilizzati per catturare questa bizzarra dinamica sono «simulazione» e «simulacro» (Baudrillard, 1972, 1976, 1981). Baudrillard (1991) cita ad esempio la Guerra del Golfo del 1991 durante la quale entrambe le fazioni acquisivano informazioni dalla copertura televisiva degli eventi e orientavano le proprie rispettive strategie militari affinché risultassero legittime e accettabili al giudizio dei media internazionali. Parimenti i programmi e i documentari realistici che mostrano la vita delle persone normali e finiscono anche per alterarla sono un altro esempio evidente del processo di simulazione cui Baudrillard si riferisce. In entrambi i casi le situazioni che vengono riportate dai media sono situazioni elaborate e costruite dai media stessi. Baudrillard (1990, 1997, 1999) sembra essere piuttosto fatalista e nichilipresenza di immagini nella realtà quotidiana di fine secolo lo spingono a pre-
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conizzare «la morte la cultura occidentale. La vita sociale sarebbe ormai definitivamente catturata posto di un circolo di eterni rimandi al gioco dei segni, costringendolo ad essere soltanto un passivo spettatore di generazione di osservatori della realtà sociale e mediatica contemporanea, restano tuttavia intrise di esagerazioni, paradossi e fughe estreme in un paesaggio radicalmente amplificato nelle sue degenerazioni iperboliche. Per quanto molto influente, la sua è una lettura molto personale della società post-moderna e dei flussi mediatici e culturali che la caratterizzano. Diversamente, nelle sue varie sfaccettature e tenendo conto delle numeropostmoderno è ricostruita con maggiore distacco e in termini quasi storiografici, da Fredric Jameson in un saggio apparso per la prima volta nel 1984, sulla rivista New Left Review. Il saggio ha il merito di individuare un cruciale punto di partenza situato nelle estetiche post-moderne e nel loro legame con il tardo capitalismo. Jameson considera il post-modernismo e il capitalismo intimamente connessi: «ogni posizione relativa al post-modernismo nella cultura è allo stesso tempo, necessariamente, implicitamente o esplicitamente, una posizione politica sulla natura multinazionale del capitalismo contemporaneo» (1984, p. 55). Il saggio di Jameson verte soprattutto su una descrizione architettonica-spaziale di un albergo di Los Angeles (il Bonaventure Hotel, il più grande della metropoli costruito dal 1974 al 1976 e proget. L'esterno dell'edificio ha un design nettamente modernista, con torri di vetro che svettano alte in puro international style moderna soprattutto per come sono configurati gli spazi: gli ingressi e le uscite sono difficili da trovare, ci sono scale e corridoi che conducono in luoghi privi di funzione; manca uno spazio centrale di riferimento, come un foyer o una lobby. Lo spazio, in breve, è frammentato e decentrato. Jameson sostiene che tali configurazioni spaziali rappresentino la vera e propria mutazione post-moderna, in quanto annullerebbero qualsiasi concezione della storia come principio organizzativo del vivere sociale. Si tratterebbe di una mossa decostruttiva. Lo stile post-
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regressione, poiché il senso della storia costituisce normalmente una base fondamentale per comprendere la collocazione del soggetto. Il modo nuovo di concepire gli spazi rappresenta invece una sfida alle capacità e alle possibilità dei soggetti di sfruttare appieno le proprie abilità cognitive, di attivazione e di autonomia. Per Jameson, il post-moderno è una spazializzazione della cultura sotto la pressione del capitalismo organizzato. Gli aspetti distopici degli interni del Bonaventure Hotel si riflettono in un disegno che volge dell'architettura modernista, quella post-moderna rifiuti qualsiasi contatto, qualsiasi continuità, qualsiasi legame con il resto della città. Non punta a favorire un uso degli spazi che accresca le responsabilità civiche, ma tenderebbe a confondere e a lasciare il soggetto solo con sé stesso alle prese con soltanto l'architettura postmoderna a veicolare questa mutazione del rapporto tra il soggetto e la storia più facile scorgerne i principi operatori ma anche gli altri oggetti e artefatti della cultura contemporanea conterrebbero in sé spinte e pressioni simili. Ad quadro di Van Gogh raffigurante gli zoccoli di un contadino (Paio di zoccoli, raffigurante una serie di scarpe da donna (Diamond dust shoes, 1980). Nel primo caso modernista il paio di zoccoli di legno, sporchi e logori, possono essere letti come simbocaso post-modernista la stampa di Warhol mostra un quadro eterogeneo di vari tipi di scarpe a tacco altro: potrebbe simboleggiare una sorta di celebrazione del consumo, ma anche una critica al consumismo; potrebbe rivelare tendenze feticistiche da parte dell'artista come pure una pungente ironia di tali tendenze. L'opera d'arte sembra insomma porsi solo come una serie parodistica di letture superficali cui manca una chiara visione morale, una deterpretazione plausibile. Esso mostra invece «un nuovo tipo di piattaforma o profondità». Per Jameson lo stile o meglio gli stili post-moderni tradirebbero una voluta proterpretazione stabile. Questo tipo di produzione artistica è analoga ed estendibile alla produzione culturale tutta, poiché, a detta di Jameson, il tardo capitalismo è caratterizzato dalla circolazione perpetua di segni e simboli aperti
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a più interpretazioni e quindi più facilmente recepibili secondo le nuove logiche di consumo. Il consumo edonistico delle immagini è così una strategia centrale che consente ai produttori di evitare qualsiasi sforzo per ottenere un iventa una risorsa per la circolazione e penetrazione dello stesso. Nonostante le tante analogie, la lettura del post-moderno a partire dalla prospettiva che riflette direttamente sulle caratteristiche della produzione culturale nelle società del tardo capitalismo non poteva che essere diversa da
menti nella sfera estetica; la seconda ha tenuto conto soprattutto dei cambiamenti nel campo dei paradigmi teorici. viene un trofeo che illustra il successo del post-strutturalismo, non va dimenticato che la stessa sociologia si accompagnava d sulla sufficiente scientificità della disciplina. Era dunque inevitabile che le vulnerabilità interne si saldassero alle critiche della svolta culturale rinfordei campi di
Il problema principale per la tradizione sociologica rispetto al concetto di postCiò implica prima di tutto un dilemma storico: quando, in quale decennio nello specifico, si è prodotta la rottura? Se la risposta ci riporta a prima degli anni Sessanta, il legame con la svolta culturale è del tutto infondato. Se invece, la risposta si colloca nei decenni successivi, diventa importante la questione dei contenuti della rottura: quali sono gli elementi sociali e culturali che segnano la fine della modernità? Implicita nel concetto di post-modernità vi giamo lo sguardo indietro nel tempo, dobbiamo rilevare che il postmodernismo ha mostrato esempi di sua visibilità simbolica in più momenti del Novecento (Calhoun, 1995): in letteratura autori come T. S. Eliot. James Joyce e Virginia Woolf si imposero negli anni Venti e Trenta. Erano forse degli antesignani? In architettura i modelli modern international style, impostisi negli anni Venti hanno continuato ad imperversare sino ai giorni nostri: forse che il modernismo sopravvive al post225
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post-modernità varia dunque in relazione al campo culturale in cui si decide di osservare il cambiamento. Anche se scegliamo le scienze sociali come punto di osservazione, siamo obbligati ad ammettere che la sovrapposizione storica ha la meglio sulla sequenza: ad esempio Harvey (1989) fissa il passaggio al post-moderno nella crisi petrolifera dei primi anni Settanta, mentre Jameson sembra affidarsi al modello degli stadi di sviluppo del capitalismo e individua lo sviluppo della post-modernità a partire dai primi anni Sessanta, quando a suo avviso ebbe inizio il tardo capitalismo della società A complicare il dibattitto vi è la considerazione condivisa da molti sociologi (Crouch, 1997; Giddens, 1984, 1991) che la post-modernità non è altro , nel senso che sarebbe possibile rintracciare elementi della postsorta di feticismo per i consumi e di narcisismo edonistico che isola i soggetti all 149). Oppure la relativizzazione della capacità scientifica e razionale di procedere per accumulazioni di verità non sarebbe altro che il portato di una forza della modernità che trascende e supera la fede nella scienza e nella tecnica per affidarsi con meno restrizioni alla performatività del rapporto tra capitale e governo irriflesso delle cose. Ancora, il predominio di alcune caratteristiche estetiche che si suppongono collegate al postdella modernità già a partire dal barocco del Diciassettesimo secolo. Una serie stata una chiara e radicale rottura tale da poter distinguere modernità e postmodernità. Craig Calhoun (1995) definisce la prospettiva post-moderna come una specie di «pseudoque in cui situare un cambiamento di tipo epocale non regge alle prove empiriche. Dal suo punto di vista i propugnatori della rottura epistemologica del post-modernismo troppo spesso propongono una lettura troppo semplicistiprima contiene molte analogie con il dopo e il dopo non risulta così radicalmente diverso dal prima.
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izione che a loro volta de-moderna concordano sul fatto che vi siano troppe versioni e «la post-modernità implica molte cose tra loro diverse a seconda delle persone che analizzano la questione». Per alcuni la post-modernità ha a che fare e simulazione, per altr
soft. Per altri ancora è uno spostamento della base sociale e culturale dal mondo della produzione a quello dei consumi, mentre per i filosofi riguarda il rafforzamento degli approcci radicali che riposano sullo scetticismo e sul dubbio. Dovendo isolare un elemento comune, Bauman non può far meglio che fissarlo nella generica considerazione che ovunque il postdegli approcci. Se questo elemento ha il merito di contrastare le visioni totalizzanti e coerenti e di favorire la proliferazione di discorsi e interpretazioni rischio di indebolire anche alcuni punti fermi dello sguardo sociologico. In Jhon Frow (1981) che sostiene con grande candore che «il concetto di postmoderno non significa assolutamente nulla». Buona parte degli sforzi definitori, a suo avviso, procedono tutti secondo uno schema molto debole: prima -
efini-
si tenta di dare un contenuto al post-moderno in modo che risulti in netta Prova di questa infinita serie di definizioni senza unità risiede nel fatto che come forme emblematiche del post-moderno vengono indicate cose molto diverse tra loro: il film Blade runner, il caso Simpson, Disneyland, il taglio ironico di molti scritti, MTV, i simulacri e così via. Tutti feticci del postmoderno che consentono agli autori di evitare di fornire definizioni chiare e precise. A causa di questa mancanza di precisione, il dibattito che si è sviluppato sulla post-modernità è popolato da autori che sembrano parlare uno esiste un discorso molto interno alla post-modernità che si autoalimenta or-
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mai senza più preoccuparsi di analizzare in maniera precisa in cosa questa fase contemporanea della storia sia effettivamente diversa dalla precedente. Esiste anche un problema relativo alla portata del cambiamento. Alcuni meno radicali di quanto si è soliti immaginare leggendo le iperboli dei cantori della post-modernità. Craig Calhoun (1995) ritiene ad esempio che buona parte della letteratura presenti scarse evidenze a supporto della tesi secondo cui
municazione a distanza, de consumi rispetto alla produzione è innegabile. Ma su quali basi è possibile sostenere con certezza che tali cambiamenti abbiano una portata e una propotrebbero essere nel progetto di modernizzazione? La sicumera con cui vengono invece trattati come prove incontrastate del salto in una nuova era non ricorda la fiducia cieca nelle verità scientifiche che si pretende essere il perno della modernità contro cui si sarebbero rivoltati i discorsi della post-modernità? Callinicos (1989) nota che le tesi a favore dello sviluppo della società post-fordista solitamente accoppiate alla post-modernità sorvolano sulla sono sempre più standardizzati. La dimensione simbolica di una specializzazione ad hoc aperta a soddisfare le esigenze di personalizzazione in realtà convivono e sarebbe questa una forza del processo di estremizzazione della modernità con piattaforme produttive altamente standardizzate. La cultura immaginata dai post-modernisti celebra la dimensione cosmopolita, eclettica e frammentata dei linguaggi e delle estetiche contemporanee. JeanFrançois Lyotard della cultura generale contemporanea: si ascolta il reggae, si guarda un western in Tv, si consuma cibo di McDonald per pranzo e si sceglie cucina locale per cena, si opta per un profumo parigino mentre si è a Tokyo e per vestiti retrò a Hong Kong» (Lyotard, 1979). Callinicos sottolinea che questo tipo di argomentazioni descrittive sorvolano sulle questioni cruciali di chi accede a cosa e di come esperisce la propria esperienza: «è abbastanza sorprendente
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come Lyotard ignori che la maggioranza della popolazione francese o di qualsiasi altra economia avanzata non sia nelle condizioni di poter sperimentare contemporaneamente il lusso di una costosa fragranza francese e di un viagpost-modernismo abbia in realtà raggiunto e incluso anche le classi lavoratrici, sotto forma di consumerismo superficiale attraverso cui anche le esperienze cosmopolite sono disponibili a buon prezzo. Il tratto principale della cultura postdi immagini, esperienze e aspettative slegate dalla loro territorialità originaria e veicolate nei canali del consumo di massa. Ad ogni modo, alla luce di questo ampio e per certi versi feroce dibattito, coloro i quali sostengono che il cambiamento sia innegabile, sono divenuti almeno molto più cauti e scrupolosi nel definirne la portata e i connotati del post-modernismo. Steven Seidman (1994), ad esempio, ammette che i principali segni della modernità non siano affatto scomparsi e che aspetti quali così come le visioni utopiche del bene comune abbiano ancora il loro peso. Seidman suggerisce una prospettiva abbastanza condivisibile e non priva di buon senso: il moderno e il post-moderno possono essere utilizzati come astrazioni concettuali di tipo analitico; facendo salvo il dato di fatto della loro coesistenza, possiamo pensarli per sottolineare quando un fenomeno -moderno sembra acquisire sempre maggiore evidenza, bisogna tuttavia riconoscere che non tutti gli ambiti del culturale ne sono dominati. Parimenti, la convinzione di Jameson che la cultura sia divenuta una dimensione ancora più centrale per comprendere in generale la vita sociale contemporanea è altresì plausibile: il proliferare delle immagini nel nostro quotidiano, il moltiplicarsi delle espe-
una realtà post-moderno, indubbiamente spingono in direzione di letture e
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Globalizzazione, traffico culturale, multiculturalismo
Il dibattito sul post-moderno spesso si mescola con analisi che hanno per oggetto una serie di processi interrelati che attengono al movimento più generale della globalizzazione. Il motivo di fondo è che le forze sociali associate alla post-modernizzazione della cultura (media digitali, turismo e mobilità di lungo raggio, ibridazione degli stili estetici, capitalismo transazionale, circolazione finanziaria, etc.) giocano un ruolo importante nel plasmare un mondo che è sempre più interconnesso nelle sue parti. Portando sempre più culture a contatto tra loro, la globalizzazione ha finito anche per favorire approcci e prospettive relativiste e riflessive che incoraggiano il riconoscimento delle differenze e di converso la critica alle rigidità e alle forzature della tradizione occidentale (solitamente incluse nel concetto di modernità). La globalizzazione può essere definita come un intreccio di almeno tre grandi processi (Waters, 1995). Una globalizzazione economica associata allo
zionali. Una globalizzazione politica risultante dal mutato ruolo e peso degli Stati-Nazione e dei loro governi, oggi depotenziati a interlocutori delle organizzazioni internazionali, dalla evidente perdita di governance rispetto al controllo dei confini, al controllo della leva finanziaria, al controllo strategico di alcune aree di interesse geopolitico. Una globalizzazione culturale come superfice terrestre urbanizzata. 231
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Mentre il dibattito sulla globalizzazione ha avuto luogo nelle scienze sociali già a partire dagli anni Ottanta, è importante ricordare che molti dei processi che la sostanziano esistevano e andavano avanti già da secoli. I commerci su scala globale funzionavano, con fasi di grande sviluppo e fasi di dee le ricchezze degli altri continenti. La cultura umana è tale a partire dal nomadismo e dalle migrazioni che hanno fatto la storia di intere popolazioni. Tuttavia, la portata dei pletora di esperti di vari discipline a causa del carattere capillare delle sue conseguenze. Tutti veniamo in qualche modo toccati dalla scelta della Banca Centrale Europea di ritoccare i tassi di interesse e tutti siamo stati in qualche modo toccati dalla crisi finanziaria che a partire dalla bolla dei subprime in America è nel giro di breve tempo divenuta appunto globale, così come le certo tipo anche nel dibattito politico nostrano. Infine, per quel che più interessa, in virtù della globalizzazione e a rinforzo della globalizzazione, nel mondo contemporaneo la mobilità di lungo raggio e gli spostamenti delle persone sono divenuti massicci. Si pensi in particolare ai flussi migratori che per tutto il Novecento e negli ultimissimi decenni in particolare stanno con-
linguistica, cultur Mike Featherstone (1995) sostiene che buona parte degli scritti che analizzano gli impatti culturali della globalizzazione ruotano attorno a due tesi contrapposte: una tesi è che ormai vivremmo in un mondo caratterizzato da una crescente «americanizzazione, McDonaldizzazione e omogeneizzazione». Le prime argomentazioni a favore di questa tesi sono state elaborate soprattutto da intellettuali e osservatori di sinistra che sposavano una posizione politica anti-imperialista, passata dal piano strategico-militare a quello simbolico-culturale. Del resto una certa realpolitik della globalizzazione ha preso piede negli anni Novanta, immediatamente dopo il crollo dei regimi comunisti e la po to al libero mercato: la fine del comunismo spianava la strada, sia in termini di piena legittimazione del regime economico vittorioso il capitalismo sia in termini di effettive opportunità pratiche di espansione del libero mercato su scala globale.
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In effetti a distanza di quasi un trentennio, le logiche degli scambi commerciali, lo spirito e le norme della libera intrapresa, il potere delle imprese e delle corporation transnazionali hanno esteso la loro presa in molti dei terrialla Cina). La globalizzazione del capitalismo avrebbe probabilmente significato la globalizzazione della cultura americana, essa stessa una cultura interclassi lavoratrici europee a partire dal Secondo Dopoguerra un fenomeno che se non è stato totalizzante come temevano molti intellettuali europei, ha comunque lasciato i suoi segni indelebili allo stesso modo la globalizzazione
americana come i film e i gadget della Disney, generi e band musicali di origine americana o semplicemente generi musicali americani (si pensi al rap e la cultura del fastd una graduale erosione delle tradizioni locali. Probabilmente questa tesi trova maggior riscontro nel concetto di McDonaldization proposto da George Ritzer fast-food abbiano penetrato moltissimi settori sociali e aree territoriali del mondo. Questi principi, riassumibili in efficienza, calcolabilità, prevedibilità e controllo, hanno reso McDonald prima un grande successo economico americano, poi un modello ispiratore per ogni impresa del mondo che, a contatto di utenti, voglia garantire un servizio rapido, di tipo standard ed economico. Università, imprese funebri, alberghi, compagnie aree si sono ispirate e si ispirano a questi principi allo scopo di minimizzare i tempi, tracciare ogni singolo processo di lavoro, omogeneizzare la resa, garantire al cliente un prodotto/servizio perfettamente identico a quello garantito ad altri utenti/clienti. Sebbene vi siano una serie di benefici innegabili (prezzi contenuti e certezza dei tempi), Ritzer evidenzia una serie di conseguenze negative per quanto riguarda lo spazio sempre più ridotto per altri modelli autoctoni di produzione e consumo legati alle culture locali che così rischierebbero di scomparire. Nel corso degli anni Novanta questo tipo di letture della globalizzazione, con la loro enfasi pessimistica sulla crescente uniformità della cultura globale e sulla perdita di autenticità del panorama una volta differenziato delle pratiche locali, è stata rimessa in discussione attraverso una serie di analisi e ricer233
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che più accurate nel rendere conto del caleidoscopico mondo delle differenze che continuamente si producono nei vari angoli del mondo nonostante o proprio a partire da la globalizzazione. È dunque emersa una seconda tesi. Questa sottolinea la rilevanza della complessa interazione tra globale e locale: glocal è subito diventato il neologismo di riferimento. Sebbene globale e locale siano due concetti abbastanza elusivi e sebbene la difficoltà di definirne ficato è amplificata dal fatto che si reggono per opposizione sen-
terno devono forzatamente fare i conti con le influenze che si producono autonomamente, a partire da repertori contestualizzati e situati in maniera specifica. Il globale è riferibile alle forze sociali e culturali di ampia estensione territoriale che sono associate alla globalizzazione (il consumerismo, le comunicazioni satellitari, le grandi industrie culventate in opposizione al globale o in sincronia con il globale) su piccola scala, geograficamente confinate e collegate a ritualità specifiche (tradizioni etniche, linguaggi, idiomi, credenze religiose, culti, esotismi). Il contatto tra elementi globali e locali, non sempre vede i secondi soctensione dei primi procede con forza, con altrettanta forza possono esservi reazioni oppositive di esaltazione del locale, sulla scorta di inaspettate enfasi vocate alla distinzione. Queste collisioni producono risultati imprevedibili, ibridizzazioni, sincretismi, gemmazioni per differenze, ma anche ovviamente omogeneizzazioni. È vero che si registrano diverse forme di standardizzazione nei gusti, nelle preferenze e negli stili di vita delle classi medie e affluenti di molte nazioni in via di rapido sviluppo economico e che questa tendenza ha portato ad erodere la forza delle culture locali, ma è altrettanto vero che sempre più gruppi sociali nelle società ta delle tradizioni nascono come funghi in tutti gli angoli del globo. La riscoperta delle origini pare essere un orientamento quasi connaturato alla globalizzazione culturale, una sorta di suo inevitabile opposto, favorito in modo te in quasi tutte le società globalizzate. -coloniale in particolare hanno
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sottolineato come proprio la globalizzazione abbia fomentato un protagoniriferimento è quella di una babele di voci, con gerarchie prestabilite, punti di data ammesso che questi esistano in maniera indiscussa, vengono relativizzati come una delle tante forme esistenti in un dato contesto locale ed eventualmente svalutati in ragione della loro presenza dovuta alla globalizzazione o al retaggio del colonialismo. -coloniale ha una sua premessa antropologica. Viene infatti fomentata a partire dalla riflessione sulla . Writing culture di James Clifford e George Marcus nel 1986 ospita diversi contributi che aprono la strada alla Il seminario avanzato The Making of Ethnographic Text tenutosi alla School of American Research di Santa Fe (New Mexico) e appunto il volume Writing culture che ospita il come nucleo di una «svolta» per il rinnovamento delle linee di sviluppo di scrivere. Il seminario fissa simbolicamente lo scenario istituzionale e la data il parziale ri-orientamento verso nuove direzioni) delle spinte manifestatesi, dagli anni Sessanta, sul piano etico e politico nella critica del colonialismo, sul piano epistemologico con la svolta ermeneutica e su quello metodologico nei precoci tentativi di attraverso forme di scrittura etnografica fortemente autobiografiche. Matura, tnografia multi-situata proposta da Marcus (1995) si muoverà ad esempio in questa direzione. Tuttavia, la svolta semantica che apre in maniera definitiva la strada agli studi post-coloniali è contenuta nel testo di Robin Cohen Global Diasporas del 1997, un libro in cui la condizione diasporica viene estesa a più culture, ovvero a tutte le comunità che vivono al di fuori della terra nativa, o immaginata tale, e che si riconoscono nella lingua, religione e pratiche comuni. Cohen distingueva le d delle colonizzazioni e delle segregazioni razziale ed etnica, e quelle sviluppatesi a partire dalle spinte economiche, ovvero le migrazioni alla 235
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ricerca di condizioni di vita migliori. In entrambi i casi i diversi studi condotti a partire da questa distinzione concordano nel considerare i movimenti diasporici il frutto di pressioni e forzature esterne che obbligano al distacco fisico dai territori della cultura condivisa povertà, conflitti armati, persecuzione religiosa o politica. In precedenza impiegato soltanto in riferimento alla persecuzione religiosa del popolo ebraico, il concetto di diaspora viene ora applicato a ricollocazione si manifestano e vengono ricostruite a partire da un punto di vista identitario dei soggetti che hanno patito la diaspora: la forzata transplantation dei popoli africani nelle Americhe; le migrazioni dalle isole dal Pakistan sempre alla Gran Bretagna. Si tratta in molti casi di processi storici avvenuti diversi secoli fa. Ma soltanto a partire dalla decolonizzazione è avvenuto un percorso di rememory, ovvero una ricostruzione della propria storia, compresa quella della schiavitù, precedentemente rimossa dalle coscienze oppure resa marginale e periferica nella storia ufficiale
Cultural studies Gilroy aveva descritto la condizione diasporica come una posizione di tensione e sospensione fra il «da dove vieni» e il «dove sei ora», portando alla luce i suoi effetti nostalgia, visione romantica del passato, lacerazione, ma anche fluidità, contaminazione. Gli aspetti di arricchimento e di valore aggiunto della diaspora sono stati invece messi in luce per la prima volta a partire dalle considerazioni di Homi Bhabha (1990, 1994) che ha evidenziato come spesso si aprano spazi di negoziazione fra le culture che pongono in crisi le pratiche di assimilazione. -coloniali è la marcata attenzione per la frammentarietà dei tratti culturali che si combinano in varianti sempre diverse e altrimenti imperscrutabili allo sguardo che considera le culture come essenze monolitiche. Ad esempio, per Bronwyn Williams (1999) affrontare le questioni della diaspora implica del concetto di madrepatria, la capacità dei gruppi locali di elaborare concetti situati e mobili di terra natia. Williams osserva una dinamica di differenziazione che poi diventerà un punto di riferimento per le sociologie nazionali europee e statunitense di fronte al panorama interno del pluralismo
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mentre per la generazione dei figli, nati nel paese ex-colonizzatore, zione procede su binari differenti, spesso secondo un bricolage di tratti culturali che deve essere ricostruito prestando massima attenzione alla creatività delle pratiche di rappresentazione. Ciò che distingue la critica postcoloniale da molte storiche ideologie anticoloniali è la presenza di un concetto di cultura anti-essenzialista, ben lontano dalle seduzioni del nazionalismo. In questa prospettiva vengono ripresi autori classici come Fanon (1952, 1961) e Césaire (1950) che con la nozione di «négritude» non intendevano essenzializzare la condizione dei (1988) nel suo saggio su Césaire. Le nozioni di ibridità e sincretismo assumono un significato centrale perché permettono di disvelare le pretese modernità finalmente affrancata dai suoi presupposti eurocentrici. Gli studi post-coloniali assumono il punto di vista della critica foucaultiana che situano al fianco delle voci dei subalterni attraverso le pratiche di riscrittura della lingua dei dominatori, vale a dire il programma intellettuale dei subaltern studies. La critica post-coloniale individua le radici pone un soggetto astratto a proprio fondamento, un soggetto che tuttavia nasconde una determinazione storica concreta. A questo tipo di cosmopolitismo si può contrapporre un «cosmopolitismo dal volto specificità storica e la materialità di soggetti plurali. Non esiste, insomma, una essa rappresenterebbe comunque una violenza al riconoscimento delle differenze. Esistono pratiche cosmopolite (Appadurai, 1996) le quali partono da specifiche localizzazioni cultu riconoscimento dei processi di ibridazione. «Affiliazioni molteplici», nella formulazione di Clifford, piuttosto che multiculturalismo, relazioni aperte praticate in spazi diasporici piuttosto che chiusura nelle determinazioni dei «modelli culturali». In questo senso lo sradicamento che caratterizza meno di una dimensione univoca del radicamento culturale. 237
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Gli studi post-coloniali hanno in un certo qual modo proseguito alcune tracce lasciate dai Cultural studies britannici: pensatori, scrittori, etnografi nodi generali del pensiero transnazionale o panafricano di un Marcus Garvey o di un William Edward Burghardt Du Bois. Destrutturando i principi di centro, centralità, centralismo, unitarietà, identità e ricostruendo fasi, flussi, incontri, ibridazioni, di formulata da Du Bois e soprattutto consegnano una visione della cultura come di un deposito di rappresentazioni alterabili a partire dalle quali i gruppi creano e rivisitano pratiche e simboli capaci di dar conto di rapporti sempre nuovi tra la realtà della condizione sociale, politica ed economica e chiave è la sameness con cui le situazioni diasporiche della storia vengono rilette in termini di
Subaltern studies
-coloniali si è imposto il gruppo collettivo nizio degli anni Ottanta in India, presso
sul rapporto tra conoscenza e politica, declinati in chiave di articolazione dei rapporti tra le periferie culturali del mondo e i centri di definizione e classificazione delle scienze sociali. Questo gruppo di studiosi Shahid Amin (1996), Dipesh Chakrabarty (1992), Partha Chatterjee (1993), Ranajit Guha (1997), David Hardiman (1992), Gyanendra Pandey (2013), Gayatri C. Spivak (1988a, 1988b) ha affrontato una serie molto ricca e articolata di come figura cruciale nella cultura indiana postcoloniale; la storia del subcontinente indiano; le voci dissonanti e subalterne rispetto alla storiografia dominante ed eurocentrica (Guha, Spivak, 2002). Il termine «subalterno» viene acquisito dagli scritti di Gramsci. Viene scelto ed utilizzato per la capacità di evocare i gruppi socialmente subordinati alla forza culturale delle classi egemoni. Ne viene fornita una in particolare indiana, che acquisisce una coloritura persino più complessa, dovuta alla intersezione di elementi di resistenza e insubordinazione nel quadro molto complesso delle vicende i subalterni
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vi hanno giocato un ruolo fondamentale, non tanto e non solo attraverso le mobilitazioni politiche, ma soprattutto attraverso una composita elaborazione popolare del senso di appartenenza ad una nascente nazione nel solco di una ricchissima articolazione di pratiche inclusive delle differenze religiose, linguistiche ed etniche del subcontinente indiano. In contrasto con le ricostruzioni ufficiali della storiografia, tanto quella eurocentrica tutta o alla decolonizzazione fornito dal tardo imperialismo britannico, quanto quella nazionalistica, tutta di un ristretto gruppo di politici tra cui Gandhi, Nehru e Jinnah, le analisi del groppo dei Subaltern studies insistono sulla sfaccettata dimensione culturale in cui i processi si sono svolti. Le differenze di casta, classe, genere, provenienza etnica o territoriale erano state da un lato motivo di ricchezza popolare che è riuscita a sopravvivere e transitare attraverso la (1997) esistevano tracce di questa forza culturale nella storia dei contadini, un vasto gruppo di subalterni per antonomasia. La subalternità dei contadini nella società semi-feudale delle campagne indiane durante il periodo coloniale si era mostrata in un sistema di segni proveniente da numerosi aspetti della loro alimentari ai rituali di festa. La chiusura totale delle possibilità di trasformazione politica dei rapporti di subalternità aveva provocato lo sviluppo di una resistenza simbolica, nella quale i contadini avevano elaborato tutta una pratica di continua codifica e decodifica dei segni disponibili nel quadro di quei rapporti. È evidente, secondo Guha, che ribellarsi, contrariamente alla narrazione della storiografia ufficiale, non poteva essere un riflesso automatico alle condizioni di vita, bensì poteva solo tradursi in una serie di pratiche culturali motivate e consapevoli. Lo sforzo del collettivo Subaltern studies presa di tipo storiografico: una ricerca nei meandri delle produzioni culturali locali, per le quali le fonti, in precedenza trascurate, sono comunque di difficile reperimento. I racconti orali, la memoria popolare, i materiali scritti persi o nascosti negli archivi costituiscono il target delle ricerche. La loro interpretazione viene condotta di pari passo al confronto e alla decostruzione delle fonti della storia ufficiale neocoloniale o nazionalista (Spivak, Chakravorty, 1986). I lavori di Roland Barthes vengono presi come 239
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riferimento per condurre una semiotica dei discorsi dominanti, alla ricerca di indizi del soffocamento delle narrazioni subalterne. Ma questo tipo di ricerca produce anche interrogativi e una grande dose di auto-riflessione nei suoi autori: è pensabile che sia possibile restituire ai subalterni del passato la loro autentica voce? Spivak (1988b), in Can the Subaltern Speak?, affronta proprio questo tipo di problema. Esaminando il caso del rituale del sati, secondo il quale chi diviene vedova è obbligata a immolarsi sulla pira del presti ad una doppia manipolazione culturale: da un lato i discorsi della modernizzazione che additano questo rituale come esempio dei gap che i
preservazione della cultura tradizionale dei subalterni. Spivak (1988b) critica
pensiero occidentale; sottolinea la forza della «violenza epistemica» come forma di conoscenza prodotta a partire dallo scontro fra il colonialismo e i soggetti che esso ha prodotto. Subaltern studies è Edward Said (1978) che con Orientalism capitolo di storia intellettuale tra i più complessi, quello che parte dal XVIII secolo, ma con radici ben più lontane nel tempo, arriva fino ai giorni nostri ed è la costruzione ideologica e simbolica che ha dato vita alla costituzione della categoria di «Oriente», appropriandosi, dominando, travisando e manipolando una congerie di luoghi, culture e pratiche tra loro luogo Pubblicato nel 1978, Orientalismo si articola in tre densissimi capitoli in cui geografico: vengono tracciati i confini del fenomeno in termini di durata, di implicazioni storiche e politiche. Si prosegue in seguito a decostruire lo sviluppo del moderno orientalismo, attraverso la rassegna delle manipolazioni comuni a più studiosi, scrittori, intellettuali, viaggiatori e dalla Seconda Guerra mondiale in poi.
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La sofisticata analisi del rapporto tra soggetti e culture, che ha permesso agli studi post-coloniali di andare oltre i presupposti etnocentrici delle scienze sociali occidentali, merita tuttavia anche una critica: rischia di ritagliarsi un passivo e tendenzialmente apolitico spazio accademico,
agency della globa
cidente, vengono negli ultimissimi anni richiamati per uno studio della globalizzazione più attento e accurato. Tuttavia, questi strumenti spesso condividono gli stessi presupposti etnocentrici dei meccanismi di dominio che intendono criticare e la loro associazione con la critica post-coloniale non risulta molto pacifica. In altri marxista del capitale non può prescindere da una genealogia critica della nozione di soggetto che è in esse incardinata. ha come oggetto la realtà sociale dei multiculturalismi ormai insiti in tutti i contesti occidentali e la discussione sulla fattibilità delle politiche multiculturaliste da parte dei governi occidentali. Si tratta da un lato di interventi pubblici di favorire la riproducibilità delle differenze legate alle minoranze etniche e al contempo la convivenza pacifica tra una pluralità di rivendicazioni identitarie. Il multiculturalismo allora identifica il fenomeno stesso della compresenza e della coesistenza talvolta difficile di gruppi diversi, secondo uno sguardo essenzialmente descrittivo, per distinguere le società multiculturali e quelle che non lo sono o lo sono meno: gli Stati Uniti, il contraddizioni attraverso le immigrazioni; ampi territori che sono multiculturali per essenza e sin dalle origini; molti Paesi europei Francia, Gran Bretagna, Germania, Paesi Bassi, Belgio sono invece divenuti masse provenienti dalle zone di influenza coloniale; altri Paesi ancora, come
Un secondo livello della multiculturalità attiene alle politiche culturali. Qui il multiculturalismo è sinonimo di una posizione di intervento, in 241
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rapporto alle attività militanti di quanti reclamano una società multiculturale. Si tratta di risposte più o meno coerenti attraverso le quali una vera e propria azione politica, multisettoriale, punta a preservare, proteggere, persino stimolare la variegatura culturale avanzata da gruppi sociali che si autodefinisco come culturalmente diversi per idioma, tradizioni, religione, pratiche culinarie, valori rispetto ad una supposta cultura dominante. Il proporsi di problematiche e situazioni conflittuali via via diverse nel corso degli anni ha consolidato la riflessione e il dibattito intorno al multiculturalismo: cosa bisogna riconoscere alle comunità di stranieri o agli stranieri in quanto tali? Cosa vuol dire «pari dignità culturale»? È possibile concepire un quadro democratico in cui vengono previsti anche diritti gruppi e identità culturali da tutelare? Una delle soluzioni più interessanti essere legalmente esercitato solo se esiste un numero minimo di individui che richiedono di goderne. La politica multiculturale sarebbe dunque una variabile dipendente della forza di rivendicazione dei gruppi che la sollecitano. Per quanto astrattamente condivisibile, questa logica presenta non pochi problemi laddove il revival delle differenze produce una moltiplicazione di rivendicazioni identitarie (Bourdieu, 1990). Del resto, la superfice più sdrucciolevole del discorso multiculturalista è quella del rischio di una nuova essenzializzazione del concetto di cultura. Si assiste così ad un conflitto interno, tra diverse concezioni che enucleano la cultura solo per contrasto con altri sistemi di oggettivazione di raggio più ristretto, e concezioni più chiuse, secondo le quali la nozione di cultura dovrebbe essere riservata solo agli ambiti di mediazione simbolica che hanno dimostrato una tenuta storica meno effimera, almeno per un certo numero di generazioni. La proposta del canadese Will Kimlicka (1995) è impiegare una visione di «cultura societaria», intesa come glossario descrittivo e valutativo precondiviso da uno stesso gruppo per più generazioni.
ortanti giustificazioni finora addotte a sostegno dei diritti culturali hanno fatto riferimento soprattutto ai valori della libertà e
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GLOBALIZZAZIONE, TRAFFICO CULTURALE, MULTICULTURALISMO
storico, basate sulla necessità di onorare gli antichi trattati bilaterali fra diritti culturali al perseguimento del pluralismo e delle diversità come bene in sé. Nelle giustificazioni che fanno riferimento al valore assoluto della libertà, diritto alla libertà, in coerenza con il quadro teorico liberale. Proteggere il pluralismo delle appartenenze culturali significherebbe proteggere rendono possibile. Per il filosofo canadese Charles Taylor (1994) una minoranza è imprescindibile dalle forme del proprio riconoscimento. Ma, ammonisce il filosofo, possono esserci due forme patologiche che interessano la percezione della propria identità da parte delle minoranze: la invisibilità sociale» legata alla negazione della propria identità; la seconda
identità. Da questo presupposto, per Taylor tutte le volontà delle minoranze di essere riconosciute hanno come obiettivo il raggiungimento di una visibilità sociale o una necessaria revisione della rappresentazione delle loro identità. Il meccanismo adottato in ogni forma di colonizzazione, culturale o fisica, per cui il soggetto colonizzato viene rappresentato come disumano, barbaro, incivile, inferiore, adducendo false motivazioni scientifiche che ne giustificherebbero la sottomissione, costituisce la realtà contro la quale operano le rivendicazioni culturali più genuine. «La premessa di fondo di qu particolare, in senso fanoniano: i gruppi dominanti tendono a consolidare la Perciò la lotta per la libertà e l tale immagine» (Taylor, 1994). La questione multiculturalista quasi tace sul fatto che le maggioranze diseguaglianze socio-economiche, i gap in termini di potere materiale, le dinamiche di esclusione e discriminazione basate sulle risorse effettive. Diverse rivendicazioni multiculturaliste trasformano in un segno culturale ciò che è anche e a volte prima di tutto una marca censuaria, una disparità economica, una diseguale possibilità di qualità della vita. Succede così che da 243
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è economico e culturale (Piccone Stella, Salmieri, 2012). Altro problema fondamentale è conciliare una società in cui tutti gli individui godano di pari diritti, rispetto e dignità con le innumerevoli differenze culturali. Il difetto del liberalismo politico è che viene quasi sempre accompagnato da quello economico, con le sue sfumature degenerate che riconducono a casi di mercificazione culturale e alla logica di omogeneizzazione culturale in chiave quello di diventare cieco alle differenze culturali in quella che dovrebbe essere sul piano teorico la sua neutralità nel riconoscere pari dignità agli individui, ovvero che questi siano considerati al di fuori delle loro origini etnico-culturali e questo è dinamiche politiche ed economiche del liberismo occidentale. Per Taylor sorge così il rischio di stipulare una sorta di «contratto sociale di tipo rousseauiano degenerato», per cui, per il bene collettivo, oltre ad una parte di
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STUDI CULTURALI E SCIENZE SOCIALI
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INDICE DEI NOMI
Indice dei nomi
Adorno T., 69 Alexander J., 15 Althusser L., 50, 105, 111, 203 Amin S. 238 Angelou M.,161
Césaire, 237 Chakrabarty, 238 Chatterjee P., 62, 238 Cherniss F., 80 Chodorow N., 155 Cixous H., 157 Clifford J.,11, 20, 39, 78, 185, 235, 237, 238 Cohen R., 235 Comte A., 42 Cooley C., 145
Bales R.F. 75 Bart P., 155 Barthes R.,111, 181, 186, 188, 189, 191, 192, 193, 195, 199, 200, 240 Bateson G. 53, 119 Baudrillard J., 220, 222, 223 Bell D., 61 Bellah R.N., 64, 77, 78, 79, 80 Bendix R., 68 Benedict R., 20 Berger P.L., 144 Bernard J., 155 Bhabha H.K. 236 Blalock H.M., 67 Bloch E., 35 Blumer H., 146 Boas F., 28, 31, 46, 58 Bourdieu P., 107, 117, 140, 171, 172, 175, 176, 178, 179, 180 Burawoy M., 117 Burke P., 11 Butler J.,157
de Certeau M., 188, 194 de Saussure F., 42, 43, 44, 210 Derrida J., 157, 199, 203, 210, 212, 213 Dilthey W. 25, 68, 124 Du Bois W.E.B., 163, 164, 165, 166, 167, 238 Duncan O.D., 67 Durkheim E., 29, 30, 33, 34, 118 Eco U., 194, 195 Einstein A., 78 Eliot T.S., 96, 100, 226 Engels F., 42 Fabian J., 125 Fanon F., 167, 237 Featherstone M.,232 Foucault M., 117, 180, 199, 202, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210 Fromm E., 53
Calhoun C., 228 Carmichael S., 160 Cavell, 79 277
STUDI CULTURALI E SCIENZE SOCIALI
Kardiner A., 31 Kaysen C., 80 Kimlicka W., 243 Kitagawa J., 79 Klandermans B., 137 Klemm G., 25 Kluckhohn C., 86 Kornhauser W., 68 Kristeva J., 157, 194 Kroeber A., 28, 31, 83, 86, 87, 88, 90
Gadamer G., 124 Gandhi M., 238, 239 Garfinkel A., 144, 146 Garvey M., 238 Geertz C., 11, 20, 78, 79, 80, 89, 117, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 185, 204 Gilroy P., 104, 236 Gödel K., 78, 79 Goffman E., 68, 144, 146, 147, 209 Goodman L., 67 Gouldner A., 76, 135, 141 Gramsci A., 22, 105, 106, 239 Griaule M., 33 Guha R., 238, 239
Lacan J., 200, 202 Lazarsfeld P.D., 66, 140 Leavis R., 96, 97, 98, 100 Leiris M., 33 Lévi-Strauss C., 21, 44, 48, 49, 51, 123, 199, 200, 202, 203, 222 Lowie R., 28 Luckman T., 144 Lukács G., 35 Luther King M., 161 Lynd R.S., Lynd M.L, 72 Lyotard F., 220, 221, 229
Hall S., 13, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 180, 181, 182 Hardiman D., 238 Harvey D., 226 Hegel G.W.F., 50 Heidegger M., 124 Herder J.G., 26 Hoggart R., 13, 96, 97, 99, 100, 101, 102, 104, 105, 108, 109 Homans G., 76 Hoover H., 57, 58 Horowitz L., 68 Husserl E. 143
Malinowski B., 20, 30, 31, 71, 84, 91, 92, 95, 119 Marcus G., 235 Marcuse H., 69 Marshall A., 118 Marx K., 42, 50, 51, 105, 172, 188 Mauss M., 33 McCarthy J., 56, 59 Mcrobbie A., 110 Mead M., 20, 28, 31, 32, 53, 119, 145 Meillassoux C., 51 Merton R., 42, 66, 77, 79, 140 Mills C.W, 68, 76 Morgan L.W., 42 Murdock G., 45, 47, 48, 58
Irigaray L., 157 Jameson F., 218, 223 Jencks C., 217, 218 Jinnah M.A., 239 Johnson R., 105 Johnston H., 137 Joyce J., 226
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INDICE DEI NOMI
Myrdal G., 53
Smelser N., 68 Snow P., 24 Sorokin P.A., 57, 72, 74, 75 Spencer H., 42 SpivakG.C., 238, 240 Stacey J., 156 Stouffer S., 57
Nehru J., 239 Neumann J., 78 Oppenheimer R., 78 Ortner S., 20 Pandey G., 238 Pareto V., 118 Park R., 35, 36, 38, 72, 164 Parks R., 161 Parsons T., 19, 21, 42, 44, 57, 66, 71, 72, 73, 74, 75, 76, 77, 80, 83, 86, 87, 88, 89, 90, 117, 119, 140, 141, 142, 143, 145 Portman J.C. 223 Powell F.B., 161
Taylor, 243, 244 Thomas W., 36, 37, 38, 39, 144, 164 Thompson E.D., 97, 98, 103, 104 Thorne B., 156 Tönnies F., 34 Trubeckoj N.S., 42 Turner V., 20, 59, 96, 119, 120, 141 Tyler S., 119, 120 Tylor E.D., 25, 26, 33
Radcliffe-Brown A.R., 20, 29, 30, 48, 71, 119 Reischauer E., 79 Rich A.C. 153 P., 119, 122 Ritzer G., 233 Rivers W., 29 Roosevelt T., 57 Ryle G., 119
Van Gogh V., 224 Venturi R., 218 Wallerstein, 24 Warhol A., 224 Weber M., 34, 35, 36, 39, 68, 118, 119, 145 West C., 156 Whannel, 104 White L., 20, 116 Williams R., 97, 98, 100, 102, 103, 104, 108, 161, 236 Wirth L., 37 Wissler C., 28 Wittgenstein L., 119 Woolf V., 226 Wundt W., 38 Zimmerman D.H., 156 Znaniecki F., 36, 37
Said E., 240 Sapir E., 47 Scholte B., 125 Schütz A.,144 Scott J.W., 156 Seidman S., 229 Sewell W., 41, 116, 134, 179, 180, 186 Shaw C.R., 39 Shils E., 64, 69, 75, 79, 90 Simmel G., 34, 35, 36, 38
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STUDI CULTURALI E SCIENZE SOCIALI
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INDICE DEI NOMI
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