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Italian Pages 271 [272] Year 2018
punto org Collana diretta da Luigi Maria Sicca
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Comitato scientifico Massimo Bergami (Alma Mater Studiorum - Università di Bologna) Zareen P Bharucha (Anglia Ruskin University) Ilaria Boncori (University of Essex) Jo Brewis (The Open University) Olivier Butzbach (Humboldt University, Berlin /Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli) Luigi Cantone (Università degli Studi di Napoli Federico II) Antonio Capaldo (Università degli Studi di Napoli Federico II) Anna Comacchio (Università Ca’ Foscari Venezia) Stefano Consiglio (Università degli Studi di Napoli Federico II) Enricomaria Corbi (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa) Barbara Czarniawska (Gothenburg Research Institute) Paolo de Vita (Università degli Studi del Molise) Rosario Diana (Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno, CNR) Umberto di Porzio (Institute of Genetics and Biophysics, CNR Adriano Buzzati-Traverso) Agostino Di Scipio (Conservatorio di Musica de L’Aquila Alfredo Casella) Sergio Faccipieri (Università Ca’ Foscari Venezia) Guglielmo Faldetta (Università degli Studi di Enna “Kore”) Nicolai J Foss (Copenhagen Business School) Maria Laura Frigotto (Università degli Studi di Trento) Alain Giami (Inserm) Adriano Giannola (Università degli Studi di Napoli Federico II) Luca Giustiniano (LUISS Università Guido Carli) Francesco Izzo (Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli) Birgit H. Jevnaker (Norwegian Business School) Matthias Kaufmann (Martin-Luther-Universität Halle-Wittenberg) Ann Langley (Héc Montreal) Thomas Taro Lennerfors (Uppsala University) Michela Marchiori (Università degli Studi Roma Tre) Massimo Marrelli (Università degli Studi di Napoli Federico II) Riccardo Marselli (Università degli Studi di Napoli Parthenope) Marcello Martinez (Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli) Daniele Mascia (LUISS Università Guido Carli) Giovanni Masino (Università degli Studi di Ferrara) Eugenio Mazzarella (Università degli Studi di Napoli Federico II) Fabrizio Montanari (Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) Andrea Moretti (Università degli Studi di Udine) Luigi Moschera (Università degli Studi di Napoli Parthenope) Maria Rosaria Napolitano (Università degli Studi di Napoli Parthenope) Mario Nicodemi (Università degli Studi di Napoli Federico II) Mariella Pandolfi (Université de Montréal) Vincenzo Perrone (Università Commerciale Luigi Bocconi) Andrea Piccaluga (Scuola Superiore S. Anna, Pisa) Francesco Piro (Università degli Studi di Salerno) Martha Prevezer (Queen Mary University of London) Antonella Prisco (Institute of Genetics and Biophysics, CNR Adriano Buzzati-Traverso) Alison Pullen (Macquarie University) Giuseppe Recinto (Università degli Studi di Napoli Federico II) Enzo Rullani (Venice International University) José Manuel Sevilla Fernández (Universidad de Sevilla) Martyna Śliwa (University of Essex) Luigi Maria Sicca (Università degli Studi di Napoli Federico II) Luca Solari (Università degli Studi di Milano) Antonio Strati (Università degli Studi di Trento) Maura Striano (Università degli Studi di Napoli Federico II) Teresina Torre (Università degli Studi di Genova) Giancarlo Turaccio (Conservatorio di Musica di Salerno G. Martucci) Paolo Valerio (Università degli Studi di Napoli Federico II) Luca Zan (Alma Mater Studiorum - Università di Bologna)
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BarBara Czarniawska
LA NARRAZIONE NELLE SCIENZE SOCIALI
Editoriale Scientifica Napoli
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Il volume è stato finanziato da puntOorg International Research Network
Tutti i diritti sono riservati
Barbara Czarniawska, Narratives in Social Science Research © Sage Publishing, London, 2004. All rights reserved Edizione italiana a cura di Luigi Maria Sicca, Francesco Piro, Ilaria Boncori Prima traduzione di Gaya Calabrò, rivista dai curatori
© Copyright dell’edizione italiana: 2018 Editoriale Scientifica s.r.l. Via San Biagio dei Librai, 39 - 80138 Napoli www.editorialescientifica.com [email protected] ISBN 978-88-9391-372-0
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Indice
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Nota editoriale Luigi Maria Sicca
13 13 16
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1. La ‘svolta narrativa’ negli Studi Sociali 1.1 Cenni storici 1.2 La narrazione messa in atto come forma basilare della vita sociale 1.3 Il racconto come modalità di conoscenza 1.4 Il racconto come modalità di comunicazione 1.5 C’è spazio per la narrazione nella società postmoderna? 1.6 In questo libro Esercizio
39 39 43 47 59
2. Come sono fatte le storie 2.1 Dalle narrazioni alle storie 2.2 I modi di emplotment 2.3 Osservare le storie mentre vengono costruite Esercizi
61 61 65 68 72 76 79
3. Raccogliere le storie 3.1 Tradizione orale 3.2 Raccogliere le storie 3.3 Raccontare le storie 3.4 Storie di organizzazioni e storie nelle organizzazioni 3.5 Modi per raccogliere delle storie Esercizi
81 81
4. Le narrazioni in un’intervista 4.1 Cos’è un’intervista?
22 28 31
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indice
6
84 87 91 94 99 101 101 102 105 106
4.2 Intervista come interazione e luogo di produzione narrativa 4.3 Le difficoltà nel suscitare la nascita di narrazioni durante un’intervista 4.4 Evitare i rendiconti 4.5 Le trascrizioni di un’intervista come forma narrativa Esercizio
109 112 116 119 121 124
5. Leggere le narrazioni 5.1 La triade di Hernadi 5.2 Le difficoltà dell’esplicazione 5.3 Varietà di spiegazioni 5.3.1 Spiegazione soggettivistica: intentio auctoris o intentio lectoris? 5.3.2 Spiegazioni oggettivistiche 5.3.3 Spiegazioni costruttivistiche 5.3.4 Azione come testo; testo come azione 5.4 Esplorazione 5.5 Leggendo Egon Bittner Esercizio
125 125 128 130 134 136 141
6. Analisi strutturali 6.1 La morfologia di una fiaba 6.2 Morfologia delle teorie evolutive 6.3 Il modello attanziale 6.4 Sceneggiature e schemi 6.5 Altri tipi di analisi strutturale Esercizio
143
7. Letture ravvicinate: Poststrutturalismo, Interruzione, Decostruzione 7.1 Poststrutturalismo in azione 7.2 Interruzione 7.3 Decostruzione Esercizio
144 148 155 160
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indice
161 161
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182 183
8. Leggere le scienze sociali 8.1 Analisi drammatica della ricerca sul consumo di alcool tra i guidatori 8.2 L’antropologo come autore 8.3 Lo storytelling in economia 8.4 Leadership come seduzione: decostruire la teoria delle scienze sociali 8.5 Le storie di casa Esercizio
185 185 185 188 191 194 195 197 199 202 205
9. Scrivere le scienze sociali 9.1 La mimesi ovvero come rappresentare il mondo 9.1.1 Problemi con la ri-presentazione 9.1.2 L’ambientazione 9.1.3 Le voci 9.2 L’intreccio ovvero come teorizzare una storia 9.2.1 Strutture ereditate 9.2.2 Trame 9.2.3 Una storia ricca d’intrecci 9.2.4 Un intreccio semplice che funziona Esercizio
207 207 209 213
10. Narrativizzare le scienze sociali 10.1 Storie pericolose dal campo 10.2 Storie preoccupanti dal campo 10.3 Le narrazioni speranzose
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Glossario
223
Bibliografia
241
Indice analitico
245
Indice degli autori citati
165 171 177
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indice
8
249 250 253 256 263
Tavola rotonda Mauro Gatti Francesco Piro Ilaria Boncori e Luigi Maria Sicca Bibliografia
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Hanno scritto nella Collana punto org
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Nota editoriale
Questo libro riprende il “filo di un discorso” sulla natura testuale delle organizzazioni che abitiamo1. Questione lanciata circa dieci anni fa in seno alla rete internazionale puntOorg2 e declinata in successive esperienze di ricerca, intorno al ruolo delle humanities come metodo per generare domande e, attraverso un confronto dialettico dibattimentale, proporre possibili risposte3. Da cui l’ulteriore tema, che ci accompagna costantemente, relativo a quanto sia non scontato definire le fonti della conoscenza manageriale4. Una conoscenza da rinnovare, di tempo in tempo, se si ammette l’ipotesi per cui le scienze umane e sociali abbiano anche un ruolo interpretativo della realtà, atteggiandosi quindi a discipline normative e non solo positive: ci stiamo lavorando da tempo perché, a fronte dell’evoluzione degli scenari geopolitici e di evoluzione o involuzione dei tradizionali modelli novecenteschi, è tempo di interrogarsi sui cosa “c’è dietro” le azioni economiche e le pratiche organizzative, tra innovazione e tradizione; tra ciò che è effettivamente nuovo e ciò che non lo è; tra neophilia e neophobia5. 1 Sicca, L.M. (a cura di) (2010), Leggere e scrivere organizzazioni. Estetica, umanesimo e conoscenze manageriali, Napoli, Editoriale Scientifica, Postfazione di Francesco Piro. 2 www.puntoorg.net. 3 Sicca, L.M. (2018), O l’impresa o la vita. Storie organizzative ed epiche, Milano, Egea (III ed., Prologo di Silvia Gherardi). 4 Sicca, L.M. (2012), Alla fonte dei saperi manageriali. Il ruolo della musica nella ricerca per l’innovazione e per la formazione delle risorse umane, Napoli, Editoriale Scientifica. 5 Per una amplia riflessione di questo neologismo si rinvia a: The 3rd Australasian Caucus of The Standing Conference on Organizational Symbo-
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Luigi Maria Sicca
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Per noi di puntOrg la questione, insomma, riguarda il confronto tra il corpus di studi di management, così come si sono andati strutturando dalla metà degli anni Cinquanta nelle principali business school di area nord americana e più antiche scaturigini di pensiero interne alla tradizione filosofica e antropologica, per spiegare le logiche che sottendono forme possibili di convivenza6. Ponendo poi interrogativi anche sui modelli di formazione ed education da mettere in campo lungo l’intera filiera dell’apprendimento7. Tenendo come vertice il narrative turn8 di cui questo libro rappresenta un punto di riferimento essenziale. *** Il testo di Barbara Czarniawska sarà accompagnato da una “Tavola rotonda”9 che aggrega i punti di vista di quanti, in questi anni, si sono dedicati alla riflessione intorno (e interna) alla proposta dell’autrice. Vi parteciperanno Mauro Gatti che ha lanciato l’idea di questo progetto e che ha ospitato a Roma, a partire dal 2017 presso l’Università La Sapienza, la Winter School su Narratives in Organizational Research, nell’ambito delle attività dell’Aslism “Neophilia and Organization”, University of Technology, Sydney, 26-28 November 2008. 6 Per un’esplorazione delle successive ricerche condotte lungo questa linea si rinvia a: http://www.puntoorg.net/it/ricerche-e-studiosi/volumi. 7 Piro, F. (2015) Manuale di educazione al pensiero critico. Leggere e argomentare, Napoli, Editoriale Scientifica (Prefazione di Tullio De Mauro) seguito da una ulteriore ricerca puntOorg, i cui risultati sono stati recentemente pubblicati (2018) in una collettanea a cura dello stesso Luigi Maria Sicca e Francesco Piro insieme a Pietro Maturi, Massimo Squillante e Maura Striano, Sfide didattiche. Il pensiero critico nella scuola e nell’università, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018. 8 Si rinvia in proposito a puntOorg International Journal (PIJ), vol. 3 (1), 2018, eds. Luigi Maria Sicca, Giuseppe Balirano, Ilaria Boncori, Paolo Valerio. 9 Aa.Vv. (2013 ), Tavola rotonda. Umanesimo del management attraverso gli occhi dell’altro è anche il titolo di una nostra precedente pubblicazione, che riprendeva i termini del dibattito internazionale lanciato nel 2010, con la pubblicazione menzionata nella nota 1.
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nota editoriale
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sociazione Italiana di Organizzazione Aziendale (ASSIOA); Francesco Piro, che commenterà il testo attraverso gli occhi della storia delle idee; Luigi Maria Sicca e Ilaria Boncori. *** Vengono ora indicati i criteri di traduzione di alcuni dei termini centrali del libro. Account: di solito resoconto, ma nel contesto del quarto capitolo si è privilegiata la sua funzione pragmatica: il rendiconto, intendendo con ciò l’atto di rendicontare, soprattutto se finalizzato alla propria giustificazione. Narrative: in italiano il termine “narrativa” fa pensare a una classificazione di tipo letterario. Evitando terminologie artificiose, come “narratività”, e seguendo il modello già offerto dalla traduzione di Lucia Morra di B. Czarniawska (Narrare l’organizzazione. La costruzione dell’identità istituzionale. Torino: Einaudi 2000), si è scelto di tradurre narrative con racconto, e mantenere narrazione per l’atto del narrare. Narration: tradotto come “atto del narrare”, “singola narrazione” oppure, quando il termine non crea confusioni, racconto. Story: verrebbe anche qui da usare “racconto”, ma bisogna evitare l’errore di fare pensare a una dimensione precipuamente letteraria. In italiano, si raccontano delle “storie”, mentre i “racconti” prevalentemente li si scrive. Per questo motivo, la traduzione scelta è storia. Storytelling invece rimane nella sua forma inglese, trattandosi di una metodologia ampiamente usata delle scienze sociali. History: viene reso con Storia (con la maiuscola) quando si tratta della “storia” nel senso di insieme delle vicende umane, storiografia quando è il resoconto di esse, storia negli altri casi. Plot: il termine plot può essere tradotto sia con trama che con intreccio. A differenza che in precedenti traduzioni (cfr. Czarniawska 1997/2000: 112-3), si è preferito intreccio, anche per-
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Luigi Maria Sicca
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ché Czarniawska discute spesso un autore per il quale il traduttore italiano ha invece adottato intreccio (p. es. Todorov). Analogamente si procede con emplotment o ‘intrecciamento’ (su cui vedi il Glossario finale). Script: sceneggiatura o copione, per continuità con Czarniawska (2000) si è preferito sceneggiatura. Per quanto riguarda l’apparato di note, si è seguito il modello anglosassone scelto dell’autrice, quindi con citazione abbreviata nel corso del testo (cognome + anno + pagina). Qualora il libro citato sia presente anche in lingua italiana, ma non venga citato direttamente, la traduzione italiana viene ricordata solo all’interno della bibliografia finale. Se invece vi sono citazioni dirette, si prendono dalla versione italiana del testo, indicandone le pagine, p. es. XYZ, 1975/1978: 12. In tutti i casi in cui il libro o l’articolo non siano reperibili in traduzione italiana, si intende che la traduzione proposta è nostra. *** Infine i ringraziamenti: a Mauro Gatti che per primo ha portato tra gli studiosi italiani di OA la proposta della Czarniawska con un progetto accademico strutturato e per avere proposto l’idea di questo libro in occasione di un incontro a Napoli, in una storica pasticceria del Centro antico, durante la Primavera del 2017. Grazie a Francesco Piro e Ilaria Boncori per il costante impegno di lavoro in biblioteca, al cospetto della monumentale immersione dell’autrice in una letteratura amplia ed eterogenea. A Barbara Czarniawska per avere riletto e approvato il testo. Grazie a Enzo Amendola per avere concesso la riproduzione della sua opera “Aurelia che legge”, come immagine di copertina. Luigi Maria Sicca Napoli, Università degli Studi Federico II 25 novembre 2017
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1. La ‘svolta narrativa’ negli studi sociali
1.1 Cenni storici Una delle affermazioni più citate sul ruolo centrale della narrazione nella vita sociale proviene da Roland Barthes (19151980), semiologo e critico letterario francese: Innumerevoli sono i racconti del mondo. In primo luogo una varietà prodigiosa di generi, distribuiti a loro volta secondo differenti sostanze come se per l’uomo ogni materia fosse adatta a ricevere i suoi racconti: al racconto può servire da supporto il linguaggio articolato, orale o scritto, l’immagine fissa o mobile, il gesto e la commistione coordinata di tutte queste sostanze; il racconto è presente nel mito, le leggende, le favole, i racconti, la novella, l’epopea, la storia, la tragedia, il dramma, la commedia, la pantomima, il quadro (si pensi alla S. Orsola di Carpaccio), le vetrate, il cinema, i fumetti, i fatti di cronaca, la conversazione. Ed inoltre, sotto queste forme quasi infinite il racconto è presente in tutti i tempi, in tutti i luoghi, in tutte le società; il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti; tutte le classi, tutti i gruppi umani hanno i loro racconti e spesso questi racconti sono fruiti in comune da uomini di culture diverse, talora opposte: il racconto si fa gioco della buona e della cattiva letteratura: internazionale, trans-storico, transculturale, il racconto è là come la vita. (Barthes, 1966/1969: 7).
Internazionale, trans-storico, transculturale: in realtà, anche l’interesse per la narrazione risale a molto prima degli anni ’70. L’inizio dell’analisi delle narrazioni può essere collocata negli
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Barbara Czarniawska
studi ermeneutici della Bibbia, del Talmud e del Corano. Gli studi contemporanei invece iniziano con l’opera di un formalista russo, Vladimir Propp, che pubblicò Morfologia della fiaba nel 1928, analizzando meticolosamente la struttura che sta alla base dei racconti popolari russi. I formalisti e i post-formalisti russi, come Mikhail Bachtin, hanno continuato a sviluppare l’analisi narrativa, che però ha ricevuto un più ampio riconoscimento per la prima volta solo nel 1958 quando il libro di Propp è stato tradotto in francese e in inglese. Ma è stata la seconda edizione inglese, quella del 1968, a consacrarla dentro e fuori gli ambienti di studio di teoria della letteratura. Lo studio contemporaneo della narrazione, afferma Donald E. Polkinghorne (1987), trae origine da quattro correnti di pensiero: il Formalismo russo, il New Criticism americano, lo Strutturalismo francese e l’Ermeneutica tedesca. Andando ancora più indietro nel tempo, gran parte dell’analisi linguistica e narrativa risale ai discepoli di due linguisti comparativi: il polacco Jan Niecislaw Baudouin de Courtenay (1845-1929) e lo svizzero, Ferdinand de Saussure (1857-1913)1. La rivoluzione sovietica mise fine alla collaborazione tra Oriente e Occidente, ma alcuni emigrati come Roman Jakobson (linguista), Tzvetan Todorov (teorico letterario) e Algirdas Greimas (semiologo) continuarono a sviluppare la tradizione dell’Europa orientale in Francia, mentre Mikhail Bachtin e altri perseveravano nei loro sforzi dietro la cortina di ferro. Ciò che tutti questi movimenti avevano in comune, diversamente dall’ermeneutica tradizionale, era il loro interesse per i testi in quanto tali, non per le intenzioni degli autori o per le circostanze della loro produzione. Su questo interesse si basava il principale dogma del New Criticism, rappresentato da Northrop Frye e Robert Scholes: non ricercare solo le trame universali, 1 Per una breve descrizione del loro lavoro si veda ad esempio, The New Encyclopædia Britannica (1990): Micropædia, vol. 1: 969; Vol. 10: 427.
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1. la ‘svolta narrativa’ negli studi sociali
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ma anche l’evoluzione della narrazione nella storia. I narratologi francesi, come Tzvetan Todorov e Roland Barthes, erano maggiormente influenzati dallo strutturalismo dell’antropologo Claude Lévi-Strauss, che aveva in precedenza letto Propp. Lévi-Strauss, con il linguista statunitense Noam Chomsky, ha analizzato la struttura immutabile della mente umana universale. Un’altra critica, ma anche un’estensione, dell’ermeneutica tradizionale arriva dalla Germania. Hans-Georg Gadamer (19002002) è conosciuto come il promotore dell’ermeneutica contemporanea. Wolfgang Iser e Hans Robert Jauss andarono oltre, creando la propria teoria della ricezione; Iser in particolare mise l’accento sull’interazione tra lettore e testo (Iser, 1978/1987). Tra questi studiosi emerse la straordinaria figura di Paul Ricoeur, che attinse da varie scuole i postulati che riguardavano la sua materia di interesse: la relazione tra temporalità e narrazione (Ricoeur, 1986-1988). Questo interesse per la narrazione si espanse oltre la teoria letteraria fino alle scienze umanistiche e alle scienze sociali. Lo storico Hayden White fece una dichiarazione scioccante: secondo lui, la Storia non esiste, ma esiste solo la storiografia, dal momento che lo storico inserisce gli eventi in specifici intrecci invece di “scoprirli” (White, 1973/1978). William Labov e Joshua Waletzky hanno sposato e migliorato l’analisi formalistica di Propp, suggerendo che la sociolinguistica si occupi di un’analisi sintagmatica di narrazioni semplici, che alla fine fornirà la chiave per capire struttura e funzione di narrazioni complesse (Labov e Waletzky, 1967: 12-13). Richard Harvey Brown, con un colpo di genio, parlò di “poetica della sociologia” (1977), apparentemente ignaro che Mikhail Bachtin avesse postulato questa definizione prima di lui (Bachtin, 1928/1985). Alla fine degli anni ’70, l’interesse per la narrazione era ormai sdoganato. Walter R. Fisher (1984) sottolineò il ruolo centrale della narrazione nella politica e dell’analisi narrativa nelle scienze politiche; Jerome Bruner (1988) e Donald E. Polkinghorne
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Barbara Czarniawska
(1987) fecero lo stesso per la psicologia; Laurel Richardson (1990) per la sociologia; mentre Deirdre McCloskey (1990) esaminò la narrazione nella competenza economica. Negli anni ’90, l’analisi narrativa diventò anche un approccio comune negli studi scientifici (Curtis, 1994; Silvers, 1995).
1.2 La narrazione messa in atto come forma basilare della vita sociale Questo entusiasmo nell’adottare l’approccio narrativo, sia nelle scienze umanistiche che nelle scienze sociali, si può comprendere alla luce dell’idea che la narrazione messa in atto [enacted narrative] sia la più tipica forma di vita sociale (MacIntyre, 1981/2007: 257). Non si tratta necessariamente di una rivendicazione ontologica; la vita può essere o non essere narrazione messa in atto, ma concepirla come tale fornisce una ricca fonte di riflessione. L’idea è vecchia almeno quanto Shakespeare! È stata ripresa ed approfondita nel corso degli anni da Kenneth Burke (1945), Clifford Geertz (1980), Victor Turner (1986), Ian Mangham e Michael Overington (1987) e da molti altri. Partiamo dal concetto fondamentale della filosofia di Alasdair MacIntyre: la vita sociale è una narrazione. Generalmente si ritiene che la vita sociale consista in azioni ed eventi, dove la differenza tra i due poli sta nella presunta intenzionalità delle azioni. In molti testi di scienze sociali, tuttavia, il termine “azione” è stato sostituito dal – o usato in alternativa col – termine “comportamento”. Nel mio campo, “comportamento organizzativo” è un termine che viene dato per scontato – ritenuto elementare anche dagli autori e i lettori più critici. Esiste qualche ragione per cui sia necessario discutere della differenza tra “azione” e “comportamento”? Sì, esiste, se pensiamo che il concetto di “scienze comportamentali” risale all’empirismo del XVIII secolo, in cui il “dato sensoriale” era considerato la principale unità di cognizio-
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ne e l’oggetto centrale dello studio scientifico. Se descrivessimo la nostra esperienza solo in termini di descrizione sensoriale, “ci troveremmo di fronte a un mondo non solo non interpretato, ma non interpretabile” (McIntyre, 1981/2007: 116). Tale mondo sarebbe sicuramente fatto di “comportamenti”, inutili e meccanici, perché se i dati sensoriali diventassero la base per la formulazione delle leggi, andrebbero rimossi tutti i riferimenti alle intenzioni, ai fini e alle ragioni – tutto ciò che trasforma il comportamento in azione umana2. MacIntyre e molti altri sostenitori di un approccio narrativo ai fenomeni sociali legano e limitano il concetto di azione agli esseri umani: “Gli esseri umani, diversamente dagli altri, possono essere ritenuti responsabili di ciò di cui sono autori” (Mc Intyre, 1981/2007: 255). Nel Capitolo 6 spiegherò che tale limitazione non è necessaria, ma al momento seguiamo questi autori interessati a comprendere la condotta umana attraverso la nozione di narrazione. Alfred Schütz (1899-1959) ha sottolineato che è impossibile capire il comportamento umano ignorandone le intenzioni ed è impossibile capire le intenzioni umane ignorando il contesto nel quale queste hanno un senso (Schütz, 1973). Queste ambientazioni possono essere delle regole, un insieme di procedure o altri contesti creati dagli uomini; questi contesti hanno una loro storia ed è al loro interno che devono essere situate azioni specifiche e/o intere storie di singoli attori per essere intelligibili. Il concetto di azione, nel senso di atto intenzionale che si verifica tra attori in un dato ordinamento sociale (Harré, 1982), può essere ulteriormente collegato a tre importanti correnti di pensiero. La prima è l’ermeneutica letteraria rappresentata da Ricoeur
2 Questo compito, naturalmente, non è mai stato portato a termine, anche se sono stati fatti dei seri tentativi in questa direzione. Il miglior esempio di ambiguità latente è il famoso – e famigerato – concetto psicologico di “atteggiamento” (attitude) che, insistendo nel tenere insieme l’aspetto meccanico e quello intenzionale, prometteva molto e ha dato poco.
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Barbara Czarniawska
(1983-85/1986-88), che ha suggerito che un’azione rilevante possa essere trattata alla stessa stregua di un testo e viceversa. L’azione rilevante, infatti, condivide le caratteristiche costitutive del testo: viene oggettivata dall’iscrizione che la libera dal suo agente; ha rilevanza anche al di fuori del suo immediato contesto; può essere letta come una ‘opera aperta’. La teoria dell’interpretazione letteraria può quindi essere estesa al campo delle scienze sociali. La seconda importante corrente di pensiero è quella della fenomenologia, introdotta nelle scienze sociali da Alfred Schütz e dai suoi allievi, Peter Berger e Thomas Luckmann. L’incontro della fenomenologia con il pragmatismo statunitense ha dato vita a due branche molto rilevanti per il contesto attuale. Una è l’interazionismo simbolico, rappresentato da Herbert Blumer e Howard S. Becker. L’altra è l’etnometodologia sviluppata da Harold Garfinkel, Aaron Cicourel e Harvey Sacks. A loro si è ispirato, con particolare successo, il sociologo britannico David Silverman (Silverman, 1975; Silverman e Jones, 1976; Silverman e Torode, 1980). L’etnometodologia è importante in questo contesto perché introduce la nozione di rendicontabilità come concetto centrale nella comprensione dell’azione sociale. La rendicontabilità è il legame principale delle interazioni umane: di fatto, il principale legame sociale. Il comportamento può essere considerato azione quando può essere spiegato (prima, durante o dopo l’atto stesso – Harré, 1982) nei termini riconosciuti in un dato contesto sociale. Le persone trascorrono la propria vita pianificando, commentando e giustificando ciò che essi e gli altri fanno. Anche se alcune di queste sono solo conversazioni immaginarie che avvengono nelle singole teste, la maggior parte ha luogo in “reali” confronti con altri individui. Il pensiero etnometodologico tradizionale ha però difficoltà a spiegare come si connettano tra loro le regole differenti di rendicontazione che sembrerebbero essere proprie di specifiche situazioni. Una “conversazione tra amanti” segue un copione diverso
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da una “conversazione di un adolescente con sua madre arrabbiata”, ma conversazioni tra amanti e conversazioni tra adolescenti e madri arrabbiate che si verifichino nello stesso luogo in uno stesso periodo di tempo tendono ad assomigliarsi. Com’è possibile? La risposta di Latour (1993b) è che l’etnometodologia spiegherebbe la socialità, ma non la società: in essa non c’è nulla per stabilizzare le azioni e rendere ripetibili le situazioni. Per lui, lo strumento con cui vengono stabilizzate e collegate le azioni è appunto la tecnologia. Se torniamo all’esempio precedente, i film e la TV hanno svolto un ruolo centrale per diffondere copioni appropriati per amanti e adolescenti. Parlando più in generale, sono le tecnologie di riproduzione ciò che ci permette di inserire le conversazioni attuali all’interno della Storia – ovvero delle conversazioni del passato. Osservare come si ripetono le conversazioni e come cambiano permette la loro classificazione in generi, come avviene nella critica letteraria. Uno dei generi contemporanei più popolari è la storia di vita, ossia la biografia o autobiografia. Quelli che Elisabeth Bruss (1976) definì come “atti autobiografici” esistevano già nei secoli XVII e XVIII ed erano considerati documenti privati. ‘Biografia’ è diventato un termine riconosciuto dopo il 1680, mentre il termine ‘autobiografia’ ha fatto la sua comparsa nei testi inglesi solo nel 1809 (Bruss, 1976). Prestare attenzione a questo genere di narrativa può essere utile nella ricerca di indizi per comprendere altri generi moderni. La sua caratteristica saliente è che la narrazione di una storia individuale è collocata nella narrazione di una storia sociale (sia essa di una famiglia o di una nazione) o addirittura in una storia della narrazione. L’aspetto interessante di una storia individuale è che essa mette in luce il fatto che, per comprendere la propria vita e quella degli altri, le persone le debbano dare la forma di narrazione. Quindi le azioni acquisiscono significato quando ottengono un posto nella narrazione di una vita. “Vivere è come scrivere un libro” è un detto noto in molte lingue.
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Detto così, suona come se le persone potessero raccontare storie nel modo che preferiscono e costruire la propria vita come più aggrada loro. Questa è in realtà una tipica critica al costruttivismo sociale, che concepisce il mondo come una raccolta di storie intrecciate in maniera soggettiva3. Ma non siamo mai i soli autori delle nostre narrazioni; in ogni conversazione si prende una posizione (Davies-Harré, 1991) che sarà poi accettata, rifiutata o migliorata dagli interlocutori. Quando un nuovo capo si presenta ai suoi collaboratori dice come vuole essere percepito e le loro reazioni gli faranno capire quanto questa percezione sia stata accettata o respinta, quali correzioni siano state apportate e come i membri del gruppo vogliano essere percepiti a loro volta dal nuovo capo. Ma la fine dell’incontro non mette fine al prendere posizione di ciascuno, che infatti durerà finché queste persone lavoreranno insieme e, persino più a lungo, nella storia che racconteranno in seguito. Inoltre, altre persone o istituzioni intrecciano narrazioni per conto di terzi senza includerli in una conversazione e questo è ciò su cui verte il potere. Il potere si ha quando alcuni decidono del lavoro di altri, dei loro mezzi di sussistenza, della loro stessa identità. Ma, seppur come burattini in un gioco di potere, questi ultimi sono ancora coautori di una storia: ovvero di quell’altro drammatico racconto messo in atto, del quale essi sono anche attori. Come possono le storie individuali essere poste in relazione con quelle sociali? Per capire una società o parte di una società, è importante scoprire il suo repertorio di storie riconosciute e scoprire come si è evoluto: è quello che ho chiamato prima una storia delle narrazioni. Come MacIntyre ricordava ai suoi lettori, lo strumento principale di educazione morale nelle società pre-moderne era il racconto di storie appartenenti ad un genere adatto al tipo di società in cui la storia veniva raccontata. Nel processo di 3 A proposito delle critiche al costruttivismo sociale e per una difesa di esso, rinvio a Czarniawska (2003a).
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socializzazione o, come lo chiamano gli antropologi, di inculturazione, i giovani, nell’attribuire significato alla propria vita, erano aiutati dalla narrazione riconosciuta dalla società di appartenenza. Pertanto la narrazione principale delle società eroiche era rappresentata dall’epica e dalla saga, mentre il genere letterario proprio delle città-stato era la tragedia. Entrambe riflettevano ed esprimevano l’atteggiamento delle società a cui appartenevano verso il destino umano e la comunità. Sebbene nessuna di queste due culture – le società eroiche e le città-stato greche – sia stata unita o omogenea fino in fondo, MacIntyre sostiene tuttavia che furono le culture medievali per prime ad incontrare il problema di molteplici narrazioni su scala globale, vale a dire: molti ideali, molti stili di vita, molte religioni. Come raccontare allora una storia in particolare? Innanzitutto, è ovvio che ogni epoca ospita molti racconti, a volte anche in contrasto tra loro (in effetti, la periodizzazione stessa è diversa in una storia o in un’altra) e, in linea di principio, sembrerebbe possibile scegliere di collegare la propria storia a una qualunque di esse. D’altra parte, per scopi interpretativi, appare lecito parlare di un genere narrativo dominante o prevalente in un determinato momento storico, che scientificamente viene chiamato mainstream. Il romanzo, per esempio, è considerato il genere più rappresentativo dei tempi moderni. Kundera (1988) colloca Cervantes tra i fondatori dell’Età Moderna insieme con Cartesio. Alcuni nuovi generi emersero nel corso della modernità, come la biografia di cui ho già parlato nonché l’autobiografia (conseguenze entrambe dell’istituzionalizzazione dell’identità individuale). Mentre altri cambiarono il loro carattere iniziale così che poté, per esempio, emergere una ‘poesia moderna’. Così, quando leggiamo Giambattista Vico (1668-1744), il precursore dell’etnologia moderna, ci accorgiamo che stiamo leggendo un trattato filosofico, ma non di quelli moderni. In questo senso i generi letterari sono come tutte le altre istituzioni o forse tutte le istituzioni sono
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come i generi letterari: “Un’istituzione letteraria deve tener conto e dedicare attenzione ai bisogni ricorrenti e alle percezioni di possibilità proprie della comunità che serve, ma al tempo stesso tempo un genere letterario aiuta a definire ciò che è possibile e a identificare i mezzi appropriati per soddisfare una necessità espressiva”(Bruss, 1976: 5). Se sommiamo bisogni strumentali e bisogni espressivi (o meglio se rimuoviamo qualsiasi divario tra di loro), ne emerge che la teoria sociale e la pratica sociale possono essere trattate come speciali generi di narrazione tra le altre narrazioni della società moderna (o postmoderna). Di conseguenza, le scienze sociali possono domandarsi come queste narrazioni di tipo teorico o pratico vengano costruite, utilizzate correttamente o in modo improprio. Ma, prima di passare ad esempi concreti, esamineremo come il concetto di narrazione sia inteso oggi nelle scienze sociali e umanistiche. Sono due le prospettive più rilevanti: vedere i racconti come modalità di conoscenza, vedere l’atto di raccontare come modalità di comunicazione. 1.3 Il racconto come modalità di conoscenza Il sapere non si identifica con la scienza, soprattutto nella sua forma contemporanea. (Lyotard, 1979/1981: 37)
Nel 1979, il Conseil des Universités del governo del Quebec chiese al filosofo francese Jean-François Lyotard di scrivere “una relazione sulla conoscenza nelle società più sviluppate” (Lyotard, 1979/1981: 8). Nel suo rapporto, Lyotard contrappose la conoscenza narrativa, tipica di una società non moderna, alla conoscenza scientifica, che è un’invenzione moderna. Egli sosteneva che esiste una relazione particolare tra le due: mentre la scienza necessita della narrazione per la propria legittimazione (deve esserci una storia per spiegare perché la conoscenza scien-
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tifica sia importante), non è vero il contrario4. La scienza non solo non legittima la conoscenza narrativa (con la possibile eccezione di strutturalismo e formalismo nella teoria letteraria) ma addirittura nega con forza alla narrazione ogni legittimità come forma di conoscenza e, soprattutto, chiede che non venga esaminata la questione dello status della conoscenza e la sua legittimazione rimanga data per scontata. Paradossalmente però, dal momento in cui le metanarrazioni di legittimazione hanno perso il loro status privilegiato, narrazione e scienza sono tornate ad essere sottoposte ad un attento confronto. Uno degli autori che si è occupato di questa analisi è Jerome Bruner, che ha paragonato la modalità narrativa di conoscenza con la modalità logico-scientifica, nota anche come modalità paradigmatica di conoscenza (Bruner, 1986/1988). La modalità narrativa di conoscenza consiste nell’organizzare l’esperienza con l’aiuto di uno schema che parte dall’assunto dell’intenzionalità dell’azione umana. Utilizzando i concetti di base della teoria letteraria, Polkinghorne (1987) ha seguito il modello di Bruner nell’esplorazione della narrazione, un tentativo che discuterò ora a lungo per metterne in rilievo i tratti più interessanti. L’intreccio [plot], secondo Polkinghorne, è lo strumento fondamentale con cui eventi specifici, altrimenti rappresentati come elenchi o cronistorie, vengono raggruppati in un insieme significativo.”L’azienda ha subìto perdite senza precedenti” e “i dirigenti sono stati costretti a dimettersi”sono due eventi misteriosi che richiedono un’interpretazione. “Dal momento che l’azienda ha subìto perdite senza precedenti, i dirigenti sono stati costretti a dimettersi” è una storia. La differenza sta nell’ordinamento temporale e nella connessione tra i due eventi. Come indica l’esempio, può intervenire qualcosa di casuale, ma la storia, a differenza della scienza, lascia aperto il tipo della connessione. 4 Richard Harvey Brown (1998) mostra come Cartesio e Copernico abbiano creato l’accettazione dei loro apparati scientifici inserendoli in “storie di conversione”.
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Un’affermazione – che suona come una regola – come “quando un’azienda subisce delle perdite, i suoi dirigenti si dimettono” può essere vera o falsa a livello statistico, ma non lascia spazio ad un fraintendimento o ad una reinterpretazione del significato, come per esempio se dico: “Sei sicuro? Ho sentito che le perdite sono cominciate quando i dirigenti si sono dimessi, perché si sono portati via con sé i propri clienti”. Ciò che è considerato un difetto dalla scienza – l’apertura ad interpretazioni contrastanti – costituisce invece una virtù nella narrazione. Questa apertura fa sì che lo stesso insieme di eventi possa essere intrecciato in modi diversi. Affermare “I dirigenti sono stati costretti a dimettersi quando è stato reso noto che le perdite dell’azienda sono state nascoste a lungo” oppure “I dirigenti sono stati costretti a dimettersi anche se la colpa è dei revisori” attribuisce alla stessa catena di eventi un significato diverso. Nel periodo 2008-2010, il periodo degli scandali e della crisi finanziaria, simili intrecci comparivano quotidianamente nei media. Polkinghorne discute inoltre di uno speciale tipo di spiegazione che è possibile ottenere attraverso una storia nella quale le “ragioni” si concilino con le ‘cause’ nell’interpretazione dell’azione. Nella modalità logico-scientifica di conoscenza, una spiegazione si ottiene riconoscendo l’evento come manifestazione di una legge generale o come appartenente ad una determinata categoria. Nella modalità narrativa di conoscenza, la spiegazione consiste nel collegare un evento ad un progetto umano: Quando si dice che un evento umano non ha senso, solitamente non è perché si sia incapaci di collocarlo nella categoria appropriata. La difficoltà deriva, invece, dall’incapacità di inserire l’evento in un intreccio perché diventi comprensibile nel contesto di ciò che è accaduto…Quindi le narrazioni presentano una spiegazione invece di dimostrarla (Polkinghorne, 1987: 21).
Si noti anche la differenza implicita tra “evento” e “azione”: quest’ultima è un evento che può essere interpretato, al quale si
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può dare un senso attribuendogli delle intenzioni. “Un’inondazione” è un evento ma “un’inondazione dovuta alla scarsa qualità del cemento usato nella costruzione della diga” è una storia del tutto diversa. Mentre un testo logico-scientifico dovrà dimostrare e spiegare la differenza tra le due affermazioni, un racconto può semplicemente mettere gli elementi vicini l’uno all’altro, presentando così una spiegazione: “Poiché l’acqua scorreva in tutte le direzioni, l’ingegnere alzò gli occhi e vide una falla allargarsi nella diga”. Se è chiaro che la narrazione offre una modalità alternativa di conoscenza, può restare oscuro il vantaggio di utilizzare questa modalità. Bruner (1990) sosteneva che l’autorevolezza di una storia deriva dall’intreccio, piuttosto che dalla verità o falsità degli elementi che la compongono. Un racconto che affermi: “I dirigenti si sono dimessi e poi è piovuto per una settimana intera” (cioè una narrazione senza intreccio o con un intreccio incomprensibile) avrà bisogno di ulteriori elementi che permettano di dargli un senso, anche se i due eventi e la loro connessione temporale sono veri e corretti di per sé. Bruner (1990/1992: 55) chiamò questo fenomeno “estraneità del racconto rispetto alla realtà extralinguistica”, estraneità che viene compensata da un’estrema sensibilità verso la realtà del discorso, ossia verso il contesto in cui viene presentata la storia. “I dirigenti si sono dimessi e poi è piovuto per una settimana intera” può far ridere se detta, ad esempio, in una giornata di sole dal nuovo CEO al suo consiglio di amministrazione. Non esistono differenze strutturali tra il racconto fittizio e quello fattuale e la loro attrattiva non è determinata dal loro essere fatto o finzione. L’attrattiva di una storia è negoziata di situazione in situazione; o piuttosto viene conseguita, dal momento che la contingenza gioca un forte ruolo in questo processo, come nell’estetica e nella politica. Questa negoziazione si verifica anche quando un lettore legge in solitudine: un lettore assonnato troverà un testo meno interessante di un lettore attento, ecc.
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Dunque, non c’è modo di stabilire la differenza tra un testo fittizio e uno fattuale, tra belles lettres e scienze sociali? Un modo c’è e per spiegarlo prenderò in prestito da Tzvetan Todorov, teorico letterario e linguista bulgaro-francese con uno spiccato interesse per le scienze sociali, il concetto di contratto fittizio (Todorov, 1978/1993: 26). In questo tacito accordo tra autore e lettore, l’autore afferma: sospendi il tuo scetticismo e io ti farò divertire. Invece, in quello che Todorov definisce un contratto referenziale, il ricercatore propone: attiva il tuo scetticismo e io ti istruirò. È chiaro che, se l’autore di un testo scientifico riesce anche a divertire il lettore, si ottiene un bonus supplementare. Al tempo stesso, si può sospettare che proprio la mancanza di differenze strutturali tra racconto fittizio e racconto fattuale sia l’elemento in cui risiede la maggior parte del potere delle storie. La narrazione prospera sul contrasto tra l’ordinario, ciò che è ‘normale’, solito e previsto, e l’‘anormale’, che è insolito e inaspettato. Ha mezzi efficaci a sua disposizione per rendere intelligibile l’inaspettato: “La funzione del racconto è quella di trovare uno stato intenzionale che mitighi o almeno renda comprensibile una deviazione rispetto a un modello di cultura canonico” (Bruner, 1990/1992: 59). Ciò è possibile perché la forza di una storia non dipende dalla sua connessione con il mondo al di fuori della storia stessa, ma dalla sua apertura verso la negoziazione di significato. “Questa è una storia vera” e “Questo non è mai successo” sono due diversi modi per rivendicare l’appartenenza ad un genere, ma questa appartenenza non determina se una storia sia interessante o meno. Un proverbio italiano dice: “Se non è vero è ben trovato” [in italiano nel testo. N.d.T.], ossia: anche se non è vero, è stato ben concepito. Dal momento che i racconti spiegano deviazioni e perciò toccano punti sensibili della vita sociale, un tipo di storia il cui potere non risieda nella differenza tra fatto e finzione è conveniente per le negoziazioni su punti sensibili. Su di essi sono sempre disponibili una o più racconti alternativi a quello dominante.
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Nella storia di Enron, la parte del colpevole è stata data, alternativamente, al governo degli Stati Uniti, ai dirigenti di Enron, ai revisori, o a tutti in contemporanea. Gli eventi acquisiscono un significato attraverso un’abduzione, una congettura, un tentativo di intreccio, che introduce una connessione ipotetica – proprio come fa un’ipotesi, ma restando ancora aperta. Infatti un’altra storia potrebbe offrire una spiegazione migliore o più convincente, senza mettere in discussione la veridicità o falsità degli elementi introdotti nella storia precedente. Non c’è modo di scegliere tra diverse storie se non attraverso una negoziazione: tra gli scrittori, per esempio in un dibattito pubblico; tra lo scrittore e il lettore, laddove lo scrittore cerca di avere la meglio ma è il lettore ad avere l’ultima parola; oppure tra diversi lettori, come in una conversazione privata. Le storie, afferma Bruner, sono “strumenti vitali per la negoziazione sociale”. “Il metodo che consiste nel proporre e riproporre una negoziazione sui significati con la mediazione dell’interpretazione narrativa”, spiega Bruner, “costituisce a mio avviso uno dei grandi risultati dello sviluppo umano in senso ontogenetico, culturale e filogenetico” (Bruner, 1990/1992: 73). Il genere umano ha sviluppato una propensione ‘protolinguistica’ verso l’organizzazione narrativa dell’esperienza. Questa predisposizione primitiva del bambino è incoraggiata ed elaborata nel corso della vita, sfruttando la ricchezza del repertorio di storie e trame esistenti. Un adulto arricchirà, metterà in discussione e porterà avanti questo repertorio. L’analogia tra l’inculturazione di un bambino e l’acculturazione di un immigrato o di un nuovo impiegato è ovvia, ma voglio spingermi oltre. Anche gli scienziati diventano tali con l’aiuto della narrazione. I dottorandi leggono montagne di libri come questo sulle metodologie, ma quando è il momento di pubblicare un paper su una rivista accademica, chiedono ad un collega che ha già pubblicato, come abbia fatto. I libri di metodologia sono accompagnati da un numero crescente di biografie e autobiografie e sono riccamente illustrati con storie.
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La conoscenza narrativa è onnipresente in tutte le pratiche sociali. In azienda, i manager e i loro subordinati scrivono e raccontano delle storie tra di loro oppure agli intervistatori, siano essi ricercatori o giornalisti. Così fanno anche medici e pazienti, insegnanti e allievi, venditori e clienti, allenatori e calciatori. Il genere autobiografico – sia individuale che organizzativo – sta crescendo costantemente in popolarità, mentre i generi più tradizionali come fiabe, miti e saghe acquisiscono nuove forme grazie alla diffusione di nuove tecnologie e nuovi media. Uno studioso di pratiche sociali ripete le storie sentite durante la visita al campo e poi le cura per i suoi scopi. Tuttavia, non può fermarsi qui perché, se lo facesse, non avrebbe alcun vantaggio competitivo sui professionisti studiati, partendo da una posizione svantaggiata. Deve andare oltre e vedere come si sviluppano le storie in quella pratica specifica. Questo interesse lo condurrà ad abbracciare le idee della conoscenza logico-scientifica, come formalismo e strutturalismo, oppure quelle poststrutturaliste della narratologia. Parlerò di entrambe le correnti di pensiero, ma dopo aver discusso di un altro uso della narrazione: il raccontare come modalità di comunicazione.
1.4 Il racconto come modalità di comunicazione Raccontare è un modo comune di comunicare. La gente racconta storie per intrattenere, insegnare e imparare, chiedere un’interpretazione e darne una. Mentre leggeva l’opera di MacIntyre, il politologo americano Walter Fisher capì improvvisamente che il suo stesso lavoro nel campo della comunicazione era basato su una concezione dell’essere umano come Homo narrans (Fisher, 1984). Di qui nacque il suo tentativo di congiungere le modalità narrativa e quella classica della conoscenza in quello che egli chiama il paradigma narrativo della comunicazione.
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Il paradigma narrativo si basa su una nozione di razionalità narrativa (Fisher, 1987), che si oppone al modello convenzionale di razionalità formale, secondo cui la comunicazione umana dovrebbe seguire le regole della logica formale5. La razionalità ridefinita da Fisher è basata sui principi della probabilità narrativa – ovvero la coerenza e l’integrità di una storia – e di fedeltà narrativa – che è la credibilità di una storia determinata dalla presenza di ‘buone ragioni’ (ossia “affermazioni accurate sulla realtà sociale”) (Fisher, 1987). Egli afferma che questa ridefinizione della razionalità fornisce una radicale base democratica alla critica socio-politica, in quanto presuppone che chiunque sia capace di razionalità narrativa. A differenza della tradizionale nozione di razionalità, tale ridefinizione permette anche l’interpretazione del discorso pubblico e morale (R.H. Brown, 1998). Fisher illustrò questi concetti attraverso l’analisi della controversia sulla guerra nucleare come discorso pubblico e morale (1984) nonché della retorica politica di Ronald Reagan (1987). L’affermazione di Fisher secondo cui “tutte le forme di comunicazione umana devono essere viste fondamentalmente come storie”(1987: xiii) va al di là della concezione di narrazione di MacIntyre. Secondo la mia lettura di quest’ultimo, la narrazione è per lui la principale forma di vita sociale perché è lo strumento primario per dar senso all’azione sociale. La narrazione, perciò, viene ad includere la comunicazione come una sorta di azione, oppure la rende ridondante – tutto è “comunicazione”. Ma se, per contro, si mantiene la tesi che la comunicazione sia un tipo particolare di azione, diventa chiaro che esistono altre forme di comunicazione umana oltre alla narrazione. Fisher stesso ne elencò diverse: il ragionamento tecnico, il discorso poetico o quegli atti linguistici che Gumbrecht (1992) ha chiamato “descrizione” e “argomentazione”. 5 Qui ancora una volta si ricorda la ridefinizione etnometodologica della razionalità come retorica per rappresentare azioni sociali (Garfinkel, 1967).
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Vi sono discorsi o atti linguistici che possono mirare alla distruzione o all’interruzione della narrazione. Il movimento Dada, in arte, rappresenta un esempio estremo di sperimentazione nella comunicazione che si oppone allo storytelling; tuttavia, noi siamo in grado di dargli un senso contestualizzandolo nella narrazione dell’Arte Moderna o, in alternativa, nella narrazione della storia europea del primo dopoguerra, quando la frustrazione aveva raggiunto l’apice (Berman, 1992). Fisher intendeva inoltre condurre una ‘analisi criteriologica’ delle narrazioni: per lui non era sufficiente vedere la narrazione come buona o cattiva “per uno scopo immediato”, per parafrasare Schütz. Di conseguenza, egli rifiutò il pragmatismo anche se ne condivideva molte idee. La sua idea di razionalità è orientata all’applicazione di criteri piuttosto che al raggiungimento del consenso (Rorty, 1992/1995). Questo significa che, pur sposando la modalità narrativa di conoscenza, Fisher non abbandonò del tutto quella paradigmatica (cioè logico-scientifica): da qui la sua espressione ‘paradigma narrativo’. Per lui, deve esistere un criterio a priori per definire ciò che vi è di buono o cattivo nel raccontare storie. Questa pretesa richiama l’affermazione di Habermas (1985) secondo il quale deve esistere un insieme di criteri per un buon dialogo, posti al di fuori del dialogo stesso. Fisher ha riconosciuto il suo debito nei confronti del filosofo tedesco. Mi sto soffermando su questo punto per avvisare il lettore che io adotterò un approccio pragmatistico, quello neo-pragmatista rappresentato da Richard Rorty. Anche se simpatizzo con molte delle idee di Fisher, non ne condivido l’obiettivo generale: “È un corollario del credo generale dei pragmatisti che non esista una cornice metafisica permanente ed eterna, in cui tutto possa trovare posto” (Fisher, 1987: 64). Non accuso Fisher di tentare di inventare tale cornice, ma i criteri di cui egli parla sembrano proprio pensati per arrivarci. Dal punto di vista pragmatista, è senz’altro possibile identificare molte situazioni nelle quali la
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creazione di tali criteri viene a servire ad uno scopo particolare. Mentre, una volta che diamo loro uno status privilegiato, essi finiranno con il fare ciò che i “principi” o i “criteri” di solito fanno: ostacolare il loro stesso cambiamento o la loro riforma. La nozione di “situazione discorsiva ideale”, coniata da Habermas (1984/1986), ha avuto grande risonanza nella teoria e nella pratica delle organizzazioni, specialmente se intesa come modo di migliorare la comunicazione organizzativa (Gustavsen, 1985). Un simile successo può essere immaginato anche per le idee di Fisher, che si prestano bene a scopo di consulenza: con un elenco di “condizioni per una buona narrazione”, migliorerete di certo la vostra comunicazione organizzativa. Eppure, la conoscenza della realtà organizzativa, come la si presenta in questo libro, mostra che si tratta di un tentativo impossibile. “Una situazione discorsiva ideale” e “una buona narrazione” sono concetti che devono essere negoziati localmente e sono validi solo in un dato momento e luogo. Essi rappresentano un risultato, non una precondizione della comunicazione organizzativa. Alcuni sostengono che questo fenomeno della costruzione in costante divenire della società sia essa stessa locale e temporale ovvero appartenga alla tarda epoca moderna o alla postmodernità.
1.5 C’è spazio per la narrazione nella società postmoderna? È generalmente riconosciuto che l’epoca in cui viviamo oggi sia diversa da ciò che viene definito ‘modernità’ (anche se non è chiaro come sia possibile, dal momento che le epoche vengono denominate e definite meglio quando sono già finite). C’è invece disaccordo sul tipo di immagine chiamata ‘postmoderno’. Per alcuni, ‘postmoderno’ è solamente la descrizione di una corrente di architettura e qualsiasi altro uso della parola è ingiustificato. Per altri, ‘postmoderno’ è un vocabolo pretenzioso ed ermetico, dilagante negli studi umanistici e, di recente, anche nelle scienze
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sociali. In questo testo, ‘postmoderno’ si applica ad una sorta di riflessione sociale che è caratterizzata da tre principi: 1. Rifiuta la teoria corrispondentistica della verità, secondo la quale le affermazioni sono vere laddove corrispondono al mondo, sulla base del principio che sia impossibile confrontare le parole con le non-parole (Rorty 1980/1986). 2. Di conseguenza, sfida l’atto del rappresentare, rendendo manifeste le complicazioni di ogni tentativo di rappresentare qualcosa attraverso qualcos’altro. 3. Esso infine pone molta attenzione al linguaggio (inteso come qualsiasi sistema di segni: numeri, parole o immagini) come strumento di costruzione della realtà piuttosto che come suo riflesso passivo. Potrebbe sembrare che questo libro vada contro uno degli assunti fondamentali della riflessione postmoderna, cioè che “la storia sia arrivata ad una fine” (Fukuyama, 1992) oppure che le metanarrazioni – progresso, emancipazione e, di recente, anche crescita economica – siano state abbandonate (Lyotard 1979/1985). Rispondendo a Lyotard per conto dei pragmatisti, Rorty affermò: “vogliamo abbandonare le metanarrazioni, ma continuare a raccontare narrazioni formative di prim’ordine” (1992/1998). La Storia può considerarsi morta solo se restiamo irrimediabilmente legati ad una sua versione specifica. Abbandonare la moderna metanarrazione dell’emancipazione non significa rinunciare al desiderio di narrazioni che amiamo per quel benigno etnocentrismo che valorizza il nostro modo di vivere, ma rinunciare all’idea di ‘modernizzare’ altre persone che sono ‘arretrate’, ‘pre-moderne’ o diverse da noi per altre ragioni. La ricerca di una buona vita si estenda fino a diventare ricerca di una buona società, ma escluda quello zelo missionario che obbliga altre persone ad adottare il nostro punto di vista, includendo invece la prontezza ad ascoltare gli altri e le loro narrazioni, che
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potranno a loro volta essere incluse nelle nostre, se ci piacciono (Rorty, 1992/1998). E Lyotard era d’accordo che solo le ‘metanarrazioni’, intese come narrazioni di legittimazione, sono esposte alla critica postmoderna: “La ‘piccola narrazione’ resta la forma per eccellenza dell’invenzione immaginativa, innanzi tutto nella scienza” (1979/1981: 87). Si pone allora la questione se sia in realtà possibile costruire un qualsiasi concetto condiviso, se sia possibile avere una conversazione, uno scambio di narrazioni, senza ricorrere ad una metanarrazione. Nel rispondere, MacIntyre (1981/2007: 125-46) ha sottolineato l’imprevedibilità di una narrazione drammatica della vita e della Storia quando è messa in atto. Tale costruzione è in continuo divenire e nella negoziazione di significato i risultati saranno sempre incerti. Le vecchie metanarrazioni hanno peccato di presunzione con la loro ambizione di porre fine a una conversazione cercando di prevederne il risultato. Se un criterio è già noto, non resta niente di cui parlare. La struttura narrativa della vita umana richiede imprevedibilità ed è per questo, paradossalmente, che il presunto fallimento delle scienze sociali nel formulare regole e nel prevedere un risultato è in realtà il loro più grande successo. Secondo MacIntyre, questa non dovrebbe essere interpretata come una sconfitta ma come un trionfo, come una virtù piuttosto che come un difetto. Egli ha aggiunto provocatoriamente che la comune convinzione che le scienze umane siano giovani rispetto alle scienze naturali è chiaramente falsa: esse sono infatti altrettanto vecchie, se non di più. E il tipo di spiegazioni che offrono si adatta perfettamente al tipo di fenomeni che si propongono di spiegare. L’imprevedibilità6 non implica inesplicabilità. Le spiegazioni sono possibili perché esiste una certa teleologia, una finalità, in L’imprevedibilità tuttavia non è totale: esistono previsioni che noi stessi creiamo (come negli orari); le regolarità statistiche sono fatte di prevedibilità e lo stesso vale per le regolarità causali della natura e della vita sociale. 6
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tutte le narrazioni vissute. È una sorta di teleologia circolare che non viene definita in anticipo ma è creata dalla narrazione. La vita è magari vissuta con uno scopo, ma l’aspetto più importante della vita è la formulazione e riformulazione di tale obiettivo. Questa teleologia circolare è ciò che MacIntyre chiama messa in questione narrativa. Una vita virtuosa, secondo lui, è una vita dedicata al porre la questione della buona vita umana, laddove la costruzione della definizione di ‘buona vita’ è un processo che termina solo quando la vita stessa finisce. Una ‘buona vita’, piuttosto che essere definita tale sin dall’inizio, acquisisce una definizione performativa durante il suo corso. Una ricerca [search] cerca qualcosa che già esiste (come nel caso della ‘ricerca dell’eccellenza’); una messa in questione [quest] crea il proprio obiettivo piuttosto che scoprirlo. I sostenitori della concezione razionalistica del rapporto mezzo-fine difendono l’idea che gli obiettivi siano fissati a priori, i pragmatisti considerano impraticabile questa ipotesi. La concezione narrativa si libera del problema considerando gli obiettivi come conseguenze e non soltanto come antecedenti dell’azione stessa. Sia le comunità nel loro insieme sia i singoli individui sono impegnati in un messa in questione del significato della propria vita allo scopo di conferire significato alle azioni particolari intraprese. Pertanto, uno studente di scienze sociali, indipendentemente dall’indirizzo di studio, deve necessariamente interessarsi alla narrazione come forma di vita sociale, forma di conoscenza e forma di comunicazione. Riguardo al ruolo della narrazione nella società contemporanea, vi è una differenza palese tra MacIntyre e Fisher da un lato e Richard Harvey Brown, sostenitore di un altro approccio narrativo, dall’altro. I primi due celebrano i racconti, mentre Brown li vede come una specie a rischio: “La narrazione richiede un’economia politica e una psicologia collettiva in cui prevalga un senso di vivo legame tra carattere personale e comportamento pubblico” (1987: 144). Questa condizione, affermò Brown, è rara
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nelle società occidentali contemporanee, nelle quali il carattere personale si è separato dal comportamento pubblico (cfr. anche Sennett 1998/2001). La differenza è poco rilevante in quanto sia MacIntyre che Fisher credevano che ci fosse bisogno di celebrare la narrazione proprio perché c’è una frattura tra il discorso pubblico e quello privato, perché il linguaggio della virtù è diventato obsoleto (MacIntyre 1981/2007) e perché un discorso pubblico morale è diventato un ossimoro alla luce dell’etica emotiva (Fisher 1984, 1987). Tutti e tre gli autori, così come la maggior parte dei seguaci – che siano dichiaratamente tali o meno – della metodologia narrativa di conoscenza, sono estremamente interessati a costruire un discorso pubblico morale che eviti nostalgici viaggi verso il passato (soprattutto verso epoche totalitarie) senza però smettere di denunciare la frammentazione postmoderna. C’è sempre una visione morale nelle loro teorie, seppur differiscono nello scopo finale: emancipazione per Fisher e Brown, ricerca di virtù per MacIntyre e lotta contro la crudeltà per Rorty7. 1.6 In questo libro La figura 1.1 che segue descrive i diversi impieghi della narrazione e dell’analisi narrativa nelle scienze sociali, annunciando simultaneamente i contenuti di questo libro. Il capitolo 2 riguarda le modalità con cui le storie vengono create in vari contesti della dimensione pratica (inclusa la pratica scientifica, anche se questo settore verrà approfondito nei capitoli 8 e 9). Il capitolo 3 tratta della raccolta di storie, mentre il capitolo 4 mostra come le interviste consistano di tutte e tre queste attività, consentendo l’osservazione di come sono fatte le storie, dando l’occasione per la raccolta di storie, dando infine la possibilità di provocare Non lo si interpreti come un discorso moralizzatore; l’interesse degli autori qui menzionati è quello di migliorare il discorso sulla moralità, non è raccontare a persone o nazioni cosa dovrebbero fare della loro vita. 7
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racconti. Il capitolo 5 introduce una cornice generale per l’interpretazione dei testi. Il capitolo 6 illustra la l’approccio strutturalistico all’analisi dei testi, mentre il capitolo 7 presenta le modalità poststrutturalistica e decostruttivistica di lettura di un testo. Il capitolo 8 offre esempi di lettura di testi scientifici, mentre il capitolo 9 descrive le problematiche più importanti nella stesura di un testo scientifico. Il capitolo 10 illustra le conseguenze della narrativizzazione delle scienze sociali. I capitoli 2-9 hanno una struttura simile: essi iniziano con un’introduzione generale a un dato aspetto dell’approccio narrativo, continuano con uno o più esempi di opere ben note che illustrano tale aspetto, finiscono con un esempio dettagliato di operazione testuale. Gli esempi sono spesso tratti dal mio lavoro, non perché esso sia esemplare ma perché ciò mi permette di prendermi delle libertà altrimenti impossibili con testi di altri autori. I capitoli 1-9 terminano con uno o più esercizi il cui scopo è quello di creare materiale che possa essere utilizzato per esemplificare il contenuto del capitolo successivo. I lettori possono sostituire il tema dell’esercizio con uno del proprio campo di studio. Nel capitolo 10 l’esercizio consiste nella creazione di un testo da parte del lettore. Campo della pratica
• Osservare come sono state create le storie • Raccogliere le storie • Suscitare i racconti • Interpretare le storie (cosa dicono?) • Analizzare le storie (come lo dicono?) • Decostruire le storie (smontarle) • Mettere insieme la propria storia • Affiancarla ad altre storie Campo della ricerca
Figura 1.1. L’uso dell’approccio narrativo: dal campo della pratica a quello di ricerca
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1. la ‘svolta narrativa’ negli studi sociali
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Esercizio 1.1: la mia vita finora Scrivi un resoconto cronologico della tua stessa vita (se stai lavorando in gruppo, decidi dall’inizio se vuoi veramente condividere la tua biografia con gli altri. Una censura cosciente funziona meglio di una censura involontaria.)
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2. Come sono fatte le storie
Questo capitolo introduce la distinzione tra i racconti, intesi come resoconti puramente cronologici, e le storie, ovvero le narrazioni dotate di un intreccio [plot]. Esso è centrato dunque sul lavoro di dare ordine, vale a dire su quegli sforzi collettivi che forniscono un intreccio [emplotment] al contesto quotidiano della vita e del lavoro.
2.1 Dai racconti alle storie La citazione di Barthes che apre il capitolo 1 rappresenta la definizione più esaustiva del racconto presente nei testi sull’analisi narrativa: tutto è un racconto o almeno può essere trattato come tale. Di solito, tuttavia, il racconto è inteso come testo scritto o parlato che dà conto di un evento/azione o di una serie di eventi/azioni, collegati cronologicamente. In effetti, è più facile definire ciò che non è racconto, anche se presentato in forma di testo: una tabella, una lista, un’agenda, una tipologia linguistica (Goody, 1986/1988). Lo storico Hayden White, in The Content of the Form (1987) ha mostrato in maniera convincente i vantaggi di una definizione più circoscritta dei racconti, distinguendo tra un racconto e una storia. Egli spiega come nel tempo sia cambiata la maniera di scrivere la Storia in Europa: gli Annali registravano solo alcune date ed eventi, senza alcun tentativo di collegarli; le Cronache presentavano alcune connessioni causali ma prive di intreccio o di una struttura significativa. Solo la moderna tecnica
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di scrittura ha consentito alle storie di essere riconosciute come qualcosa di più che compilazioni cronologiche. White ha citato gli Annali di San Gallo come l’esempio più rappresentativo della prima storiografia europea (White 1987/2006: 42-3): 709. Inverno duro. Il duca Gottfried è morto. 710. Anno difficile e raccolti scarsi. 711. 712. Inondazione dappertutto. 713. 714. Pipino, maestro di palazzo, è morto. 715. 716. 717. 718. Carlo ha travolto i sassoni con grande distruzione. 719. 720. Carlo ha combattuto contro i sassoni. 721. Theudo ha cacciato i saraceni fuori dall’Aquitania. 722. Grandi raccolti. 723. 724. 725. I Saraceni sono giunti per la prima volta. 726. 727. 728. 729. 730. 731. Il santo Beda, il presbitero, è morto. 732. Carlo ha combattuto contro i saraceni a Poitiers il sabato. 733. 734.
La Storia di Francia di Richerio di Rheims (998) è, per White, un esempio di cronaca, che è un racconto ma non ancora una storia. Essa ha un soggetto, una posizione geografica, un contesto sociale e un inizio nel tempo: Nonostante queste caratteristiche, l’opera non riesce ad essere una vera storia, almeno secondo l’opinione dei commentatori successivi,
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a causa di due tipi di considerazioni. In primo luogo, l’ordine del discorso segue l’ordine della cronologia; presenta gli eventi secondo la sequenza del loro accadimento e non può, pertanto, offrire il tipo di significato che dovrebbe fornire una versione narratologicamente sviluppata. In secondo luogo, probabilmente a causa dell’ordine “annalistico” del discorso, lo scritto non si conclude ma termina semplicemente, banalmente si interrompe … e lascia al lettore il peso di riflettere retrospettivamente sui nessi tra l’inizio e la fine del resoconto (White 1987/2006: 53).
Quindi, se i monaci di San Gallo avessero deciso di trasformare i loro annali in una cronaca, il risultato avrebbe potuto essere simile a questo (qui mi prendo delle libertà sui testi di White e dei monaci): L’anno 709 ha segnato l’inizio di tempi duri per la nostra terra. Due inverni duri hanno inevitabilmente portato a scarse colture e la gente moriva come mosche. Tra loro anche il duca Gottfried, pianto da tutto il suo popolo. E quando sembrava che la natura stesse tornando ad essere benevola, il diluvio ci colpì nel 712. Dopo questi eventi, tuttavia, Dio si è mostrato misericordioso con il suo popolo. Per ben cinque anni non è successo molto, a parte il fatto che Pipino, sindaco del palazzo, morì. Carlo, grande condottiero, ha combattuto con successo contro i Sassoni nel 718 e nel 720, mentre il suo alleato, Theudo, cacciò i Saraceni fuori dall’Aquitania. I raccolti furono abbondanti nel 722 e le [nostre] terre godevano di pace quando, nel 725, i Saraceni arrivarono per la prima volta. Furono sconfitti, ma tornarono di nuovo nel 732 e giunsero fino a Poitiers. Ciò accadde quasi subito dopo la morte del nostro presbitero, il santo Beda.
Questo è un racconto ma non è ancora una storia perché manca un intreccio. Va costruito un intreccio. Come si può fare? Innanzitutto, abbiamo bisogno di una definizione operativa di intreccio. Todorov ha proposto la seguente: l’intreccio minimale completo consiste nel passaggio da un equilibrio ad un altro. Un racconto ideale inizia con una situazione stabile, che una forza qualunque viene a turbare. Ne risulta uno stato di
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squilibrio; mediante l’azione di una forza diretta in senso opposto, l’equilibrio viene ristabilito; il secondo equilibrio è simile al primo, ma i due non sono mai identici. (Todorov, 1971/1989: 56)
Il secondo equilibrio può solo assomigliare al primo; non è raro che il suo contenuto sia il contrario del primo. Un’azienda in difficoltà può modificare gli assetti organizzativi e tornare profittevole oppure fallire, ripristinando così l’equilibrio del mercato. L’episodio che descrive il passaggio da uno stato all’altro può contenere uno o più elementi: ci può essere una sola forza che modifica lo stato delle cose (in tal caso si parla di ‘cambiamento paradigmatico’) oppure ci possono essere simultaneamente una forza e una controforza. Solitamente le ultime due, quando compaiono insieme, sono formate da un evento e da un’azione: ad esempio, un’inondazione e la gestione dello stato di emergenza. Normalmente, gli intrecci sono molto più complicati e contengono catene di azioni ed eventi, situazioni che cambiano ed evolvono, azioni evidenti ed eventi erroneamente interpretati, come in situazioni di suspense o di mistero, ma un intreccio minimo è sufficiente per dare senso ad un racconto. Così il famoso estratto utilizzato da Harvey Sacks (1992: 223-6) come materiale per due lezioni (“Il bambino ha pianto. La mamma lo ha preso in braccio”), deve essere completato da una terza frase (ad esempio “Il bambino ha smesso di piangere”) per diventare una storia. Mi prenderò un’altra libertà con il testo di White e con gli Annali per cercare di rendere la “cronaca di San Gallo” una vera storia. Le storie possono essere diverse a seconda di chi le scrive. Uno storico contemporaneo, facendo attenzione a non saltare alle conclusioni, potrebbe scegliere di trasformare la cronaca in una storia, aggiungendo un semplice finale: FINALE 1. Come possiamo vedere, nelle prime fasi della sua storia l’Europa era in costante lotta contro la natura ostile e gli invasori. [l’intreccio diventa circolare: il secondo equilibrio non dura per sempre, dal momento che la natura o gli invasori continuano a distruggerlo]
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Un monaco di San Gallo, dopo aver fatto un corso di scrittura narrativa, avrebbe probabilmente scritto qualcosa di simile (l’informazione riferita alla messa è una mia invenzione basata sul fatto che la battaglia è stata combattuta di sabato): FINALE 2. Come possiamo vedere, la storia antica della Francia è la storia di un popolo messo alla prova seriamente dal proprio Dio, che rappresentava però il suo unico conforto. Quando il santo Beda morì, Carlo trovò molto difficile guidare i suoi soldati contro i Saraceni. Ma la domenica fu detta una grande Messa, dopo la vittoria. [La cristianità in questo contesto rappresenta la forza del cambiamento e il modo di accettare le avversità.]
Infine, un teorico di leadership potrebbe creare un intreccio ancora diverso: FINALE 3. Come possiamo vedere, la presenza di un forte condottiero era cruciale per la sopravvivenza del popolo. Quando il duca Goffredo morì, l’inverno rigido, gli scarsi raccolti e le inondazioni avevano provato il popolo. Quando Carlo si mise alla guida del suo popolo, le avversità della natura cessarono di occupare la mente delle persone che combatterono coraggiosamente al fianco del loro capo. [La leadership è il fattore cruciale tra fallimento e successo.]
Non è insolito aggiungere un paragrafo alla fine di una cronaca, come ho appena fatto, sebbene non sia la maniera più sofisticata per creare un intreccio. Il finale spiega le connessioni logiche tra i vari episodi, in un’attività che alcuni definirebbero retroproiezione (per ulteriori informazioni sugli su intrecci centrati sul finale, cfr. il capitolo 6). Solitamente, tuttavia, il lavoro di creazione di una trama è più complesso. 2.2 I metodi di emplotment Hayden White (1973/1978) ha sottolineato come, abbastanza sorprendentemente, storie moderne presentino spesso un intrec-
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cio costruito con l’aiuto dei tropi (o figure) della retorica classica. Vi sono quattro figure o tropi principali nella retorica classica: la metafora, la metonimia, la sineddoche e l’ironia. I tropi sono espressioni figurate. La parola viene da tropos (dal greco ‘volgere, trasferire’) e viene utilizzata per contrassegnare vari ‘cambiamenti’ di un’espressione puramente letterale. La metafora, forse il tropo più noto, spiega un termine meno conosciuto collegandolo ad uno più noto: ‘la luna è un piatto argentato’. La metonimia consiste nella sostituzione di un termine con un altro che ha con il primo una relazione di vicinanza: la corona per il regno, la bandiera per il paese. La sineddoche usa figurativamente una parola in cui la parte simboleggia il tutto o l’insieme simboleggia la parte: mani per lavoratori, cervelli per intellettuali. L’ironia si basa sull’uso di termini di significato opposto rispetto a ciò che si è apparentemente detto. In Orgoglio e Pregiudizio, il signor Bennet, che ama molto l’ironia, dice: “Ammiro molto tutti e tre i miei generi. Wickham, forse, è il mio preferito “ (Lanham, 1991:92)1. I tropi non sono semplici ornamenti usati per abbellire il discorso o per ingannare il pubblico. Essi permeano tutte le espressioni linguistiche. Hanno affinità con certe consuetudini drammaturgiche – vale a dire, con certi racconti già messi in atto e dotati di intreccio – facilmente riconoscibili da un pubblico a cui sono familiari, in questo caso a un pubblico di origini europee. Il romanzo cavalleresco [romance] è una forma di storia incentrata su un singolo personaggio e sulle sue potenzialità. Il suo intreccio più tipico è la peripezia del cavaliere (che però può essere una donna in cerca del vero amore); l’eroe, dopo una lunga ricerca tra varie prove e avventure, riconquista ciò che aveva perduto: l’amore, il senso della vita, il successo o la gloria. La metafora è la figura retorica fondamentale del romanzo cavalleresco: l’eroe o l’eroina simboleggia l’ordine, i loro nemici rappresentano le for1
Come sa ogni lettore di Jane Austen, Wickham era il malvagio.
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ze del male, ecc. Il romanzo cavalleresco è costruito sul presupposto romantico che tutte le creature e le cose del mondo abbiano un significato vero e profondo che sarà svelato al protagonista, dopo che ella o egli avrà purificato la propria anima. Così la metafora iniziale si concretizza nel finale. La tragedia vede l’umanità sottoposta ad una serie di leggi del destino, che emergono dalle crisi che costituiscono il fulcro della narrazione. La tragedia è costruita intorno alla metonimia, figura retorica che confronta i fenomeni con una prospettiva di giustapposizione: fenomeni o oggetti che sono vicini uno all’altro nel tempo o nello spazio. Un esempio tipico è il tragico mito di Sisifo, dove il macigno spinto sulla collina dal tragico eroe, e che continua a cadere in eterno, esemplifica il destino di Sisifo. Nella commedia gli esseri umani non sono rappresentati come soggetti alle leggi del destino ma piuttosto come parte organica di un’entità più alta che, nonostante intoppi e complicazioni (divertenti), lavora per risolvere tutto in armonia nel caratteristico lieto fine. Così la commedia si muove sempre tra due società, una manchevole, l’altra desiderabile. La condizione finale è una società che integra eccellentemente i personaggi. La transizione verso una società nuova e migliore non si svolge mai senza attriti: al contrario, le complicazioni ad essa connesse danno vigore alla narrazione. In queste situazioni un ruolo centrale è giocato dai personaggi ‘ostacolanti’ che sono i personaggi comici della commedia. D’altra parte, ci sono sempre personaggi che spingono verso il lieto fine. Entrambi questi tipi di personaggi sono funzionalmente o disfunzionalmente legati all’armonico lavoro dell’intera società. Ecco perché la figura retorica usata nella commedia è la sineddoche, il tropo che rappresenta l’intero attraverso una delle sue parti. La satira mostra l’assurdità di tutto ciò che accade e quindi anche di tutte le convenzioni narrative citate in precedenza. Essa rifiuta come illusorie le leggi razionali del destino della tragedia, il perseguire una comune armonia della commedia e l’autodisci-
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plina e svelamento del vero significato del romanzo cavalleresco. L’ironia, tropo dello scetticismo, della contraddizione e del paradosso, è la figura retorica preferita dalla satira.2 Lo studioso svedese di organizzazione, Kaj Sköldberg, ha scoperto che varie manifestazioni del cambiamento organizzativo da lui studiate erano percepite come intrecci classici, dando così origine a diverse versioni della stessa sequenza di eventi (Sköldberg, 1994, 2002). Una versione del cambiamento era tragica. Subendo la cecità delle inesorabili leggi del destino, l’azienda è sprofondata in una crisi a causa di un errore fatale: la mancata consapevolezza dei costi, insieme ad una gestione sconsiderata delle spese e delle prospettive di espansione. Il problema era in via di soluzione attraverso strumenti di razionalizzazione, come le misure di risparmio. Se queste misure avessero salvato l’impresa, il dramma sarebbe rientrato nel genere della tragedia a lieto fine. Un altro strumento che avrebbe potuto risolvere la situazione era l’informatizzazione, il che appartiene a un altro genere di tragedia, quello fatalistico: i computer sono di solito rappresentati come il deus ex machina, ovvero come quella cosa che “si deve” avere perché allora tutti i problemi saranno risolti. Un’altra versione della riorganizzazione era la commedia romantica, eseguita per un pubblico di appassionati. Nel teatro come nella vita, la commedia romantica è la preferita di tutti i tempi. Dopo tutto, la commedia rappresenta sempre la transizione da uno stato di cose originario carente e manchevole ad uno finale desiderabile. Le organizzazioni studiate da Sköldberg sarebbero state all’inizio caratterizzate da ridicoli regolamenti. Lo stato finale sarebbe stato invece una deregolamentazione, implicitamente legata ad una mitica età dell’oro, cioè al libero mercato prima della regolamentazione. La deregolamentazione avrebbe significato che si sarebbe passati da un’organizzazione 2 Richard Harvey Brown (1998) affermò che questo genere, nonché il tropo dell’ironia, sarebbero i più adatti per le scienze sociali (si veda anche Capitolo 10).
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infelice ad una divisa in gruppi locali felici – dunque a un decentramento. Qui un intreccio tipico della commedia si combinava con diverse attività del genere “romanzo cavalleresco” rivolte al personale (comicamente definite come “gestione delle risorse umane”), attraverso le quali i membri dell’organizzazione avrebbero dovuto ritrovare se stessi, la loro vera identità che avevano dimenticato. La terza versione, quella degli oppositori della riforma, era un racconto che veniva vissuto in accordo con le convenzioni della satira. Esso ridicolizzava entrambe le precedenti versioni, mostrandone l’incompatibilità. Considerando la generale disintegrazione o scollamento tra i componenti del cambiamento, il genere potrebbe essere definito come satira frammentata. Lo scollamento variava come forza ma era onnipresente in varie forme: tra decentramento e informatizzazione, tra problemi e soluzioni, tra potere e base di potere, tra management e dipendenti, e tra vari simboli. L’esercizio di Sköldberg non è un’eccentrica applicazione di generi classici a materiale contemporaneo. Gli intrecci classici sono facilmente riconoscibili e molto apprezzati dal pubblico moderno. Anche se lo stesso pubblico apprezza e gode degli approcci rivoluzionari e sperimentali del dramma moderno e postmoderno, i suoi gusti, non solo nell’arte, sono spesso conservatori. Ecco perché è così difficile sostituire la storia tradizionale della leadership maschile con una sua versione femminile (cfr. capitolo 7) o gli intrecci del cinema di Hollywood che terminano tutti con un finale felice. Il repertorio classico è molto resiliente.
2.3 Osservare le storie mentre vengono costruite Tutti gli esempi sopra indicano che la produzione di senso è un processo retrospettivo, che richiede tempo, ma non ci mostrano come un racconto collettivo prenda forma. È difficile mostrarlo
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a causa dell’inevitabile conflitto tra “l’orientamento prospettico della vita e l’orientamento retrospettivo della narrazione” (Ryan, 1993: 138). È impossibile monitorare l’attore per catturare il momento esatto in cui elabora la propria esperienza di vita in una storia: questo vale sia per i monaci di San Gallo che per persone viventi. Eppure Marie-Laure Ryan (1993) è riuscita ad individuare quella che lei ha chiamato “una fabbrica di intrecci” (p.150): le trasmissioni radio in diretta di eventi sportivi. “La situazione reale della vita promuove un tempo narrativo in cui il ritardo tra il tempo di avvenimento degli eventi narrati e il tempo della loro rappresentazione verbale tende a zero e la durata della narrazione si avvicina alla durata del narrato” (p.138). Pertanto, le trasmissioni in diretta (non solo di eventi sportivi) sono di grande interesse per il narratologo. Una trasmissione è costruita su tre dimensioni: la cronaca di che cosa sta accadendo; la mimesi di come esso appare, dimensione che permette all’ascoltatore di costruirsi un quadro virtuale degli eventi; e la costruzione dell’intreccio (emplotment) che collega le cose tra loro, cioè della struttura che dà senso agli eventi. Mentre la costruzione dell’intreccio è considerata centrale per costruire una storia, è ovvio che in una trasmissione sportiva sia centrale la cronaca. La necessità di abbinare il tempo narrativo al tempo reale crea sfide e risposte specifiche. Un esempio sono i ‘tempi morti’ (come gli anni mancanti negli annali): ovvero quando non succede nulla in campo e i cronisti devono riempire il tempo con storie passate o chiacchiere generali, col rischio di essere interrotti da un nuovo avvenimento nel mezzo del racconto. Un altro esempio è la contemporaneità di un alto numero di avvenimenti, un problema solitamente risolto accelerando il ritmo del discorso, a volte a una velocità impossibile. Un modo per riempire i tempi morti è adattare il racconto alla dimensione mimetica della trasmissione. Quando c’è un vuoto dopo un evento drammatico, lo stesso evento può essere raccontato nuovamente ponendo l’enfasi su come è accaduto.
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La vera sfida, però, è la costruzione dell’intreccio della trasmissione. Le emittenti, dice Ryan, lo fanno seguendo tre attività di base: 1. creando i personaggi, cioè introducendo differenze facilmente riconoscibili tra gli attori (il protagonista e l’antagonista); 2. attribuendo una funzione ad ogni singolo evento; e 3. trovando un tema interpretativo che racchiude tutti gli eventi e li collega in una sequenza significativa (“vicino al successo”, “vicino al fallimento” ecc.: p. 141). La stretta analogia sussistente tra eventi sportivi e prestazioni organizzative nella società contemporanea è stata ampiamente documentata (Corvellec, 1997; cfr. anche capitolo 8). In effetti, gli spettatori (così come gli azionisti) insistono nel guardare la cronaca degli eventi, non da ultimo perché vogliono avere un’occasione per creare un proprio intreccio. Anche se l’interesse reale riguarda l’intreccio (“perché hai delle perdite?”), i princìpi della conoscenza logico-scientifica, adottati parzialmente, distolgono l’attenzione dalla costruzione di tale intreccio. Gli intrecci sono dati, sotto forma di leggi scientifiche, perciò l’unica attività necessaria è ritrovarne il modello nella cronaca. Ne risulta uno scarso interesse per la mimesi da parte degli attori, degli spettatori e degli osservatori/ricercatori. Eppure è la mimesi a premiare il modo in cui gli eventi si connettono, con l’aiuto del repertorio accessibile degli intrecci: una principessa trasandata non può sposare un principe, una società disonesta non può restare nel mercato azionario, ecc. Ciò che mi ha spinto ad applicare la ricetta di White e a sviluppare una cronaca e una storia dal testo degli annali è stata l’analogia che ho visto tra queste tre forme e la creazione di una storia che ho potuto osservare durante i miei studi di management in tre capitali europee (Czarniawska, 2002). Le minute della mia osservazione diretta ricordano gli annali, anche se la metodologia contemporanea consente una misurazione del tempo più dettagliata. Anche la maggior parte dei report aziendali ricorda gli annali (Gabriel, 2000). D’altra parte, le trascrizioni delle interviste
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somigliano alle cronache: riportano il concatenarsi cronologico e causale degli eventi, ma non hanno un nucleo narrativo o un intreccio. In alcuni casi, da queste cronache emergono col passare del tempo delle storie complete; ma in determinate situazioni è necessario produrre direttamente delle storie senza passare da altre forme narrative. Durante il mio studio della gestione di Varsavia, ho affiancato il direttore della Quartiere Generale della Costruzione della Metropolitana (QGCM), azienda comunale che stava costruendo la metropolitana di Varsavia e sperava di gestirla dopo la costruzione. Ecco alcuni estratti della mia osservazione: Giorno 1. 14.00. Sono seduta nell’ufficio del Direttore Generale (DG) e sto parlando con il Direttore Finanziario (DF). DF: Mercoledì alle 10, ci sarà una conferenza stampa con la partecipazione del sindaco. Una delle cose discusse sarà la metropolitana… Vede, la nostra società risale ai tempi in cui i contraenti sceglievano un investitore e la QGCM aveva la funzione di super-contraente. Oggi è l’investitore a scegliere i contraenti. Per noi, sarebbe più vantaggioso avere un solo investitore e molti contraenti, dove QGCM avrebbe un ruolo di coordinamento. BC: Quale sarebbe, secondo lei, la struttura organizzativa ideale per la Metro? DF: Non sono un sostenitore dell’emulazione a tutti i costi, ma per me gli svizzeri sono il modello della democrazia e della buona gestione. Hanno risolto la gestione del trasporto pubblico nel modo più ragionevole. Fuori da Zurigo, nei cantoni e nei comuni… 14:50. Entra DG. … ci sono società per azioni senza scopo di lucro, perché la metropolitana è un’istituzione non remunerativa. Più titoli azionari significano più soldi da investire. Credo che una soluzione del genere sarebbe la migliore. BC: Chi sono gli azionisti? DF: Comuni, distretti. La soluzione svizzera consente di entrare alle persone che sono interessate allo sviluppo del trasporto pubblico,
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ma la loro partecipazione è minima, pochi punti percentuali, e il resto appartiene al Comune in proporzione al numero di mezzi di trasporto. A seconda del sistema di gestione si ottengono risultati specifici: migliori sono gli accordi finanziari e più alti i vantaggi e meno deve pagare il cittadino. Ogni decisione amministrativa ed economica viene messa ai voti e ogni decisore ha competenze ben definite. È un sistema democratico sviluppato da 600 anni in cui tutti collaborano in una simbiosi ideale.
Il direttore finanziario ha creato la bozza di una prima storia: una struttura proprietaria ideale per la futura azienda della metropolitana, legittimata dalla lunga storia di successo della Svizzera. “La Svizzera” rappresenta l’Utopia: una terra dove tutto funziona come dovrebbe: DF si rivolge a DG: siete invitati a una conferenza stampa. DG: Non ci sarò, ho un appuntamento dal medico. Di cosa si tratta? DF: Principalmente di investitori e appaltatori. DG: È un peccato! Qual è il tema della conferenza stampa? DF: Sarà tutto improvvisato, come al solito … DG: Abbiamo fatto per il vicesindaco un elenco delle cose che stiamo facendo? DF: Sì, ma non ce l’ho con me. Gliene ho dato 3 copie. DG: Il sindaco parlerà … DF: E noi saremo seduti dietro … Ma almeno il suo atteggiamento è stato estremamente accomodante. DG: Tutti hanno cambiato atteggiamento, ora sono tutti molto gentili. È stato confermato che il Consiglio non può nominare o revocare i contraenti fino alle elezioni…ma se il presidente e il parlamento concordano che le elezioni debbano essere rinviate per un anno, dovremo fare qualcosa. Tutti quelli che hanno già sistemato i loro affari, resteranno seduti a girarsi i pollici… Dobbiamo incontrare Mr. X dal governatore della Provincia per scoprire dove si collocata la metropolitana nel futuro sistema di governo, se sarà inclusa nella Municipalità o nella Provincia… Alle 15:15 Entra la segretaria.
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S: C’è Kislewski al telefono. DG: Il regista? S: Non Kieslowski3 ma Kislewski. (Rivolgendosi a DF): Un’azienda svizzera ha chiamato per dire che garantiscono il completamento della galleria. DF: Dì loro di chiamare tra tre anni. S: Significa che non siamo interessati? DF: Sì lo siamo, ma tra tre anni. Le gallerie che abbiamo fatto noi sono state completate e le prossime potranno essere costruite tra tre anni. BC: Non lo sanno? DF: Probabilmente no. Ma seriamente, la costruzione della prossima sezione della metropolitana sarà fattibile tra tre anni … Ma abbiamo già i fornitori per l’intero progetto. Dovrei licenziare i nostri scavatori? 10 minuti passano per sbarazzarsi di Kislewski (DG a BC: Sai, qui tutti vogliono parlare con il regista).
Il direttore suggerisce l’esistenza di un tema interpretativo più importante della struttura ideale dell’azienda: il posizionamento politico della futura metropolitana. La vera Svizzera interviene. Osservate la storia che sto creando: ometto parti della conversazione (…) ma tengo lo spezzone Kislewski-Kieslowski perché sarò in grado di attribuirgli una funzione in seguito: DG: (al telefono): Buongiorno, vorrei sapere come stanno andando le cose… Cosa vuol dire che non siamo importatori? Se ne sta occupando il City Office, il sindaco della città. [Attiva il viva voce in modo che io possa sentire.] Una donna: Mi ha detto che è la Foreign Trade Co. che importa. DG: Lo fa, su ordine del City Office. Donna: Beh sì, stanno importando ma non abbiamo alcuna informazione … DG: Quali informazioni le possiamo dare noi? 3 A quel tempo era appena uscito Three Colors: White (un film su Varsavia sotto il nuovo regime) del regista Kieslowski.
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Donna: Che tipo di accordo è, come funziona … DG: È sufficiente una copia dell’accordo? Donna: Sì, grazie. DG [a me]: Ha sentito? Non ha sentito l’inizio. Noi acquistiamo i vagoni della metropolitana dalla Russia con un’IVA molto alta, il 25%. Gli autobus e i tram invece sono esenti dall’IVA. Ma per essere esentati dall’IVA i vagoni della metropolitana devono essere acquistati da un’unità amministrativa che sia esente dall’IVA … DF: Non è chiaro se stiamo parlando di una tassa di importazione diretta o di IVA. DG: … ma una tale unità non esiste. Un’unità operativa per l’acquisto di questi vagoni sarà istituita solo l’anno prossimo. Ho parlato con il Ministero e mi ha detto che non ci sarebbe stato alcun problema, che sarebbe stato fatto a gennaio. Sono uscito dall’ospedale a marzo e nessuno sapeva nulla. Una segretaria mi disse che il capo era fuori, lei non sapeva niente e dovevo parlare con un responsabile. Il direttore è stato molto gentile – tutti vogliono essere d’aiuto – ma mi ha detto che dell’IVA se ne occupa qualcun altro, la signora Bartczak. La signora Bartczak dice di non saperne nulla, ma se tutti dicono che se ne occupa lei, deve essere così. Alla fine guarda in fondo ad un cassetto e la trova – se non avessi chiamato, non avrebbe mai guardato lì. Le ho detto ancora una volta che il City Office importa attraverso la sua agenzia. Mi ha risposto: nessun problema. Ma, per sicurezza, l’ho chiamata ancora una volta – e hai sentito tu stessa. Ora mi dice che è la Foreign Trade Co. e non il City Office! Allora le dico ancora una volta che la Foreign Trade Co. è l’agenzia del City Office. Ma vuole vedere il contratto…
A questo punto non si sa molto: è una cronaca di eventi, contemporanei (conversazioni e telefonate) e passati. Apprendiamo che QGCM ha avuto in passato una struttura e un’identità organizzative che sono in procinto di cambiare, come parte di un cambiamento generale nella gestione della città, a sua volta causato da un cambio ai vertici politici (una potenziale storia a tutti gli effetti). Apprendiamo anche che mercoledì verrà creata una sorta di storia ad una conferenza stampa e possiamo immagina-
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re che ci siano all’orizzonte diversi tipi di intrecci, sulla base dei diversi interessi politici. Il direttore finanziario ha una sua storia ideale: seguire l’esempio della Svizzera. I direttori sospettano sia la municipalità che la Provincia di avere costruito un proprio intreccio. Mercoledì, QGCM arriverà alla conferenza con la propria storia e dovrà cercare di farla vincere sulle altre storie e trame in competizione, ma non sappiamo ancora quale sarà questa storia. Ha bisogno di prove e la conversazione telefonica del direttore era un tentativo per procurarsele (creare una storia può essere un lavoro duro), ma è anche servita a me come chiacchierata delucidativa. È tutto molto intricato. Giorno 3 (mercoledì). 9.30. Arriva un’auto. DG e io stiamo andando alla conferenza stampa (lui ha annullato l’appuntamento dal medico) quando arriva il Direttore Tecnico. DT: Che cosa dovrei fare con quel macchinista di San Pietroburgo? [Il macchinista che deve provare i motori delle macchine della metro.] DG: Non lo so, è un tuo macchinista. DT: I nostri macchinisti non hanno mai guidato questo tipo di macchine, potremmo avere dei problemi. DG: Trova dei macchinisti in nero o prendine due da Minsk. [Questo è ciò che accade nel film di Kieslowski] DT: Come posso fare una cosa del genere? DG: Fai come vuoi, ma non creare troppo scompiglio con il macchinista di San Pietroburgo, perché chiederebbero immediatamente un accordo di collaborazione e di certo in città direbbero che i russi vengono ad insegnarci il mestiere e che ci scambiamo le esperienze… DT: Be’, lo so, ma come posso utilizzarlo in modo non ufficiale… DG: Forse non in maniera non ufficiale, ma in modo che non lo sappiano tutti. DT: Ma dove trovo un altro macchinista… DG: Ah, non lo so.
Salvo due pezzi di dialogo – la telefonata di Kislewski e l’allusione al film di Kieslowski – e gli attribuisco una funzione nel-
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la mia narrazione: così facendo mostro come le informazioni del contesto vengono usate per dare senso nel organizzare il proprio materiale (Czarniawska, 2000, 2002). Ma questa funzione non è significativa per la narrazione che i due direttori stanno creando. Quel che diventa sempre più centrale nel loro dialogo è il coinvolgimento di fornitori russi nella costruzione della metropolitana. Mentre il direttore, nella sicurezza del proprio ufficio, può prendersi il lusso di creare un intreccio affascinante in stile Kieslowski (“prendi due macchinisti da Minsk, se non li vuoi di San Pietroburgo”), alla conferenza stampa l’intreccio è chiaro e ovviamente deciso insieme al vicesindaco, che è sempre più ansioso: La conferenza stampa si svolge nel municipio di piazza Bankowy. Quando entriamo nella sala c’è un uomo di Gazeta Wyborcza (il principale giornale polacco) e alcune giornaliste, molto giovani. Alle 10.04 entra il vicesindaco e il suo portavoce (una donna). Arrivano altri giornalisti… Portavoce: Vorremmo presentare alla stampa tutte le nuove attività dell’amministrazione comunale. Iniziamo oggi con la prima, la metropolitana. DG: Non sarà possibile completare la metropolitana prima della fine del mandato del consiglio né estenderne il termine. L’attuale Consiglio sta facendo molto per la metropolitana…Quando? Dopo 12 anni abbiamo costruito 12 km. Alcuni dicono che è molto lento, altri dicono che, dati gli investimenti fatti, questi chilometri avrebbero potuto richiedere molto più tempo, e non solo in Polonia. Ad ogni modo, ora le condizioni politiche ed economiche sono diverse e la costruzione della metropolitana può procedere. Anche se è quasi pronta, c’è ancora molto lavoro da fare: non è ancora stato stabilito se sarà un treno o un tram, se il traffico dovrà essere a sinistra o a destra, né quale degli istituti centrali si occuperà della metropolitana. Il numero di regolamentazioni è enorme e molte riguardano i passeggeri. Innanzitutto ci sono le norme di sicurezza, di massima importanza, ma anche le norme organizzative e tecniche sono importanti. Qui trovate ciò che abbiamo al momento [Distribuisce un foglio con dati tecnici e asset distributivo: stazioni, macchinari ed equipaggi.]
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Devo dire che, anche se abbiamo iniziato i lavori all’epoca di un sistema politico che non è ricordato positivamente, siamo stati in grado di modernizzarci e abbiamo tecnologie che non sono seconde a nessuno al mondo. Vicesindaco: Signor Direttore, può assicurarci che siamo noi a supervisionare la produzione dei macchinari, perché molte persone sono preoccupate … D: Certo! Acquistiamo vagoni e matrici della metropolitana dalla Russia e abbiamo avuto problemi con la costruzione e la qualità di esecuzione. Le macchine dateci in origine sono state consegnate tre mesi dopo la data di consegna stabilita. Non eravamo autorizzati ad interferire con la produzione. Ma secondo un nuovo contratto, le Ferrovie di Stato Polacche hanno la supervisione operativa diretta e già dopo poche settimane sono emerse differenze di opinione tra i nostri supervisori e i loro operai. Si potrebbe parlare addirittura di conflitti, ma il management è dalla nostra parte, perché vede che questa è la sola opportunità per la fabbrica di sopravvivere. Vicesindaco: Ma signor direttore, lei deve dire esplicitamente che esercitiamo un controllo su quello che stanno facendo, perché dal modo in cui lei parla sembra che non sappiamo cosa stia succedendo. DG: Be’, certamente. Ad esempio, se venerdì consegnano macchine non finite correttamente, sperando che i controllori siano andati per il fine settimana, i nostri supervisori si assicureranno che lavorino sabato e domenica. Le domande successive riguardano le date della possibile apertura della metro; non vengono poste ulteriori domande riguardanti investitori o contraenti.
L’intreccio è semplice, quello del dialogo: all’inizio il coinvolgimento dei russi era grande, ora il sistema politico è cambiato e il rapporto con i russi è cambiato di conseguenza. Prima erano i russi ad insegnare e ad aiutare QGCM; ora è QGCM, che insegna e aiuta i russi. Il direttore tenta di intrecciare la sua trama preferita: la trasformazione di QGCM (“anche se abbiamo iniziato i
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lavori all’epoca di un sistema politico che non è ricordato positivamente”), ma il vicesindaco non ne vuole sapere: torniamo ai russi! Quale emplotment ha funzionato? Giorno 4. 10:23. Un giornalista di Gazeta Wyborcza viene nell’ufficio del direttore. DG: Non avete scritto niente sulla conferenza stampa di ieri. Per quale motivo? Non vi interessa? G: No, abbiamo scritto ma … DG: Della conferenza stampa, ma non della metropolitana. G: Non saprei… ma ho un’idea. DG: Che idea? G: La costruzione della metropolitana è quasi finita, ma non è emerso dalle sue parole di ieri, è tutto nascosto. Il nostro giornale vorrebbe farlo sapere con un reportage, raccontando fase dopo fase. DG: Per me va bene. G: Naturalmente avremo bisogno di una storia importante. DG: Suggerirei questi punti. Innanzitutto, come mettiamo in piedi certe strutture e trasformiamo gli investimenti in operatività. In secondo luogo, la peculiarità di certe stazioni. Alcune sono esteticamente più interessanti di altre, alcune avranno ascensori molto moderni, ecc. In terzo luogo, la consegna delle macchine russe della metropolitana, dal confine fino alle prove tecniche di guida. Potresti andare a Brest [stazione ferroviaria di frontiera]. G: Oppure a San Pietroburgo. DG: Posso darvi un contatto ovviamente, ma non organizzare il viaggio. G: Ma naturalmente il viaggio sarà pagato dal giornale… DG: Devo informarla che non siete gli unici ad essere interessati. Ad esempio Top Canal [TV] ha scattato alcune fotografie, me le ha mostrate e sono molto interessanti, sembrava addirittura diverso da come lo vedo io. G: Noi come giornale non abbiamo queste possibilità. DG: Ma avete un fotografo, sebbene francamente non si vede un granché sulle vostre foto. G: Ma migliorerà …
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DG: Tutti dicono ‘migliorerà’, ma il fatto è che solo Rzeczpospolita e Zycie Warszawy hanno immagini di buona qualità. G: Non dimentichi che, se un argomento è di interesse generale, ad esempio la produzione delle macchine della metropolitana a San Pietroburgo, possiamo stampare su Venerdì [Gazeta Wyborcza il venerdì pubblica un supplemento settimanale stampato su carta patinata con illustrazioni e fotografie]. DG: Vorrei anche ricavarne qualcosa. Risolvere un paio di questioni con il vostro aiuto. Vorrei che non foste solo l’ospite della metropolitana, ma che vi metteste in contatto anche con le autorità come l’amministrazione della Provincia e l’amministrazione comunale. Bisogna che qualcuno insegni loro a rispondere a vecchi quesiti: perché questa stazione è qui e non lì, perché questa è stata soppressa e quella introdotta. Dopo tutto, la metropolitana aprirà durante il loro mandato. G: Abbiamo interessi comuni… [L’intervista continua per un’oretta e, infine, il giornalista se ne va. Si ferma sulla porta, dicendo]: La produzione delle macchine è qualcosa che non vorrei perdere. DG: I russi saranno grati se scrivete qualcosa di bello su di loro, per una volta. G: Dipende molto da ciò che vedrò.
La storia è stata presentata con un vero e proprio intreccio, per quanto io ho potuto sentire, ma il suo pubblico più importante, il giornale, non stava ascoltando. Finalmente, il direttore ha un suo rappresentante nel suo ufficio e può negoziare apertamente il loro interesse reciproco. ‘L’intreccio russo’, tuttavia, non è facile. Il giornalista mostrava chiaramente un forte interesse, ma non era disposto ad acquistare una storia già fatta: egli doveva andare a vedere con i suoi occhi prima di decidere. Osserva che, per lui, come per la maggior parte dei giornalisti, la mimesi e lo sviluppo dei personaggi sono molto più importanti di quanto non lo siano per i dirigenti (e, forse, anche per gli studenti di management?).
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La costruzione della metropolitana è finita, ma la costruzione delle storie continua. A differenza di una trasmissione sportiva, qui la cronaca non era molto importante. La mimesi (il modo di descrivere gli eventi) è uno strumento di vendita di un dato tipo di intreccio, ma l’intreccio è centrale. La costruzione di una storia è una lotta di potere: c’è un vecchio detto secondo cui sono i vincitori a scrivere la Storia.
Esercizi Esercizio 2.1: identità multiple Cerca di intrecciare una trama sulla tua biografia in tre modi diversi (possibili trame: “La ricerca della conoscenza”,”’La storia di successo”; possibili generi: Romanzo cavalleresco, Commedia, Satira). Non andare all’esercizio 2.2 fino al completamento dell’attività. Esercizio 2.2: storie di vita Rifletti sul lavoro svolto per trasformare la tua biografia in una storia con una trama. Dove hai preso gli intrecci? Dalla tua fantasia? Dai media? Dalla tua storia familiare? Quali cambiamenti nella struttura (omissioni, completamenti) sono stati necessari per ottenere la trama? La mimesi (le descrizioni) è cambiata con i vari intrecci? Esercizio 2.3: osservare come si costruiscono le storie Prendi come punto di partenza qualsiasi evento riportato nei media cominciando dal momento in cui si è verificato. Guarda e annota come viene trasformato in una storia: ci sono trame contrastanti? Quali sono gli strumenti utilizzati per dare all’evento un significato? Quale tra le diverse versioni vince, alla fine della tua osservazione?
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3. Raccogliere le storie
3.1 Tradizione orale Per la storia, l’etnologia e l’antropologia culturale, la svolta narrativa è stata una novità solo nella misura in cui è stata applicata anche a scritti degli autori stessi (ritornerò su questo argomento nei capitoli 8 e 9). Le storie come materiale di studio non erano nuove a queste discipline. La tradizione orale – delle famiglie, delle comunità e delle società – si basava sulla raccolta di storie (Paul Thompson, 1978). Il famoso The Making of the English Working Class (Edward Palmer Thompson, 1963) si basava su una raccolta di rapporti di informatori governativi assoldati dal governo, all’inizio del XIX secolo. La relazione di Paolo Apolito sulle apparizioni mariane in Campania, Italia (1990) era originariamente intitolata Dice che hanno visto la Madonna, un’espressione che sottolinea il fenomeno della ‘circolazione di storie’ come elemento importante nella vita di una comunità. Come Paul Connerton sosteneva nel suo Come le società ricordano: “La produzione di narrazioni raccontate più o meno informalmente risulta essere l’attività di base nella caratterizzazione delle azioni umane. È una caratteristica della memoria collettiva” (1989: 16-17). Molti studiosi di tradizioni popolari sarebbero d’accordo con ognuna di queste affermazioni (vedi, ad esempio, Narayan e George, 2002), ma uno studente di società occidentali contemporanee potrebbe avere delle obiezioni. Il racconto orale non è qualcosa di pittoresco o qualcosa del lontano passato, rudimentale e insignificante nelle moderne società letterarie?
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Studi comparativi di società alfabetizzate e non (cfr. Goody, 1986/1988) mostrano che, mentre i racconti esistono sia nelle tradizioni orali che nelle società colte, ci sono tre forme di testo che sono diventate possibili solo grazie all’esistenza della scrittura: tabelle, elenchi e ricette. I primi due differiscono dai racconti in quanto presentano le informazioni in modo disgiunto e astratto. Per memorizzare un elenco o una tabella, è necessario l’utilizzo di un metodo mnemonico per sopperire alla mancanza di connessioni. La ricetta si basa su una connessione cronologica e perciò sembra assomigliare ad un racconto, ma manca della forza propulsiva di una causa o di uno scopo, forniti dall’intreccio della storia. Ad esempio: le nuvole portano la pioggia e l’avidità porta al crimine, ma spargere la farina non implica rompere le uova. La ricetta soddisfa la funzione di apprendimento di un racconto in quanto fornisce all’allievo un’esperienza indiretta, anche se in una maniera più simile a quella delle tabelle o degli elenchi. Si potrebbe dire che le ricette sono elenchi, ma di azioni, non di oggetti. Nel suo Il Pendolo di Foucault (1988), Umberto Eco ha illustrato in maniera divertente la differenza tra elenchi e narrazioni. Nella sua storia, tre ricercatori entusiasti – Casaubon, Belbo e Diotallevi – che inseguono i Rosacroce, entrano in possesso di una vecchia pergamena di Provins (Provenza), che contiene il seguente testo: a la … Saint Jean 36 p charrete de fein 6 … entiers avec saiel p … les blanc mantiax r … s … chevaliers de Pruins pour la … j.nc 6 foiz 6 en places chascune foiz 20 a … 120 a … iceste est l’ordonation al donjon li premiers it li secunz joste iceus qui … pans
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it al refuge it a Nostre Dame de l’altre part de l’iau it a l’ostel des popelicans it a la pierre 3 foiz 6 avant la feste … la Grand Pute (Eco, 1988: pp. 81-82)
Lo ricostruiscono come un grande Piano dei Cavalieri Templari, in cerca di vendetta contro i loro nemici nei secoli a venire: LA (NOTTE DI) SAN GIOVANNI 36 (ANNI) P(OST) LA CARRETTA DI FIENO 6 (MESSAGGI) INTATTI CON SIGILLO PER I CAVALIERI DAI) BIANCHI MANTELLI [I TEMPLARI] R(ELAP)S(I) DI PROVINS PERLA (VAIN)JANCE [VENDETTA] 6 VOLTE 6 IN SEI LOCALITA OGNI VOLTA 20 ANNI FA) 120 A(NNI) QUESTO A PIANO: VADANO AL CASTELLO I PRIMI IT(ERUM) [DI NUOVO DOPO 120 ANNI] I SECONDI RAGGIUNGANO QUELLI (DEL) PANE DI NUOVO AL RIFUGIO DI NUOVO A NOSTRA SIGNORA AL DI LA DAL FIUME DI NUOVO ALL’OSTELLO DEI POPELICANT DI NUOVO ALLA PIETRA 3 VOLTE 6 [666] PRIMA DELLA FESTA (DELLA) GRANDE MERETRICE. (Eco, 1988: p. 82)
La fidanzata di Casaubon, Lia, essa stessa ricercatrice, lo legge in modo molto diverso, consultando attentamente delle fonti. Secondo lei, si tratta di una semplice lista delle consegne, contenente le ordinazioni di un mercante di stoffa e rose, a quel tempo i prodotti più importanti di Provins: Nella via Saint Jean. 36 soldi per carretta di fieno.
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Sei drappi nuovi con sigillo alla via dei Blancs Manteaux. Rose dei crociati per fare una jonchee: sei mazzi da sei nei sei posti che seguono, ciascuno 20 deniers, che fa in tutto 120 deniers. Ecco in che ordine: i primi alla Rocca item i secondi a quelli della Porte-aux-Pains item alla Chiesa del Rifugio item alla Chiesa di Notre Dame, al di la del fiume item al vecchio edificio dei catari item alla strada della Pierre Ronde. E tre mazzi da sei prima della festa, alla via delle puttane (Eco, 1988: 32).
Ma è troppo tardi per questa lettura semplice: i tre uomini si sono già cacciati in un pericolo mortale, credendo nel Piano. In questo modo, Eco ha manifestato le sue preoccupazioni riguardo ai pericoli della sovrainterpretazione (ritornerò su questo tema nel capitolo 5), ma ha mostrato anche quanto i tre ricercatori siano dediti alla loro storia: la lista prosaica di Lia non può competere con l’allure di una storia. Eppure le moderne organizzazioni non dovrebbero essere affascinanti ma sobrie; e tabelle, elenchi e ricette sono indubbiamente moderni strumenti di conoscenza. Si tende spesso a considerare le organizzazioni formali, epitomi di azione collettiva razionalizzata, come luoghi in cui un racconto non ha alcun ruolo per l’apprendimento e la memoria; almeno non tra le metodologie programmatiche usate per influenzare l’apprendimento organizzativo. Nelle scuole, ma anche nelle aziende, tabelle ed elenchi (molti schemi e tassonomie sono complicati elenchi) sono tra i supporti didattici prioritari. Senza dubbio, sono in grado di soddisfare alcune funzioni che i racconti non possono soddisfare, ma vale ancor di più il contrario. Senza dubbio, il grosso dell’apprendimento sociale avviene attraverso la circolazione di storie (Weick, 1995; Orr, 1996). Inoltre, varia anche la misura in cui i mo-
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derni strumenti di apprendimento, e le tecnologie di scrittura che li sostengono, vengono utilizzati nelle organizzazioni moderne. I miei studi di gestione urbanistica mostrano, ad esempio, che, nel municipio di Stoccolma, molti accordi importanti sono stati siglati al telefono, mentre a Varsavia tutto deve essere confermato per iscritto. A Stoccolma, però, circolano molti volantini, opuscoli e circolari, mentre a Varsavia se ne vedono pochi e tutte le informazioni importanti vengono comunicate di persona. Dunque la tradizione orale non è poi così lontana nel tempo. Goody e Watt (1968) hanno osservato che la tradizione orale resta la modalità primaria di orientamento culturale anche in una società colta, che ha la fortuna di avere a sua disposizione una varietà illimitata di fonti scritte. E la tradizione orale dipende dalle storie. Ogni campo di pratica (compresa la pratica della ricerca) ha, ad un certo punto, una serie di storie in circolazione. Possono riguardare eventi recenti che hanno bisogno di un intreccio o, al contrario, possono essere storie lontane nel tempo, che danno coerenza e legittimità al campo della pratica com’è oggigiorno. Ogni famiglia ha un repertorio di storie. Vengono offerte ai nuovi arrivati come mezzo di introduzione alla comunità, ma vengono anche ripetute alla presenza degli stessi protagonisti della storia, consolidando così il senso di appartenenza alla comunità e rielaborandone la Storia. Molte di loro acquisiscono un carattere quasi leggendario ed è in questo senso che vengono sfruttate, come è descritto in molti studi antropologici. Questo capitolo spiega le funzioni pragmatiche di tali storie e cita ben noti esempi di studi basati sulla raccolta di storie.
3.2 Raccogliere le storie Alla luce di quanto detto in precedenza circa il ruolo delle storie nell’apprendimento e nella memoria collettiva, forse non sorprende che uno dei primi studi sul moderno fenomeno del-
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la raccolta di racconti venga dal campo dell’educazione. Burton R. Clark (1972) ha studiato tre famosi college statunitensi (Reed, Antioch e Swarthmore) e in ognuno di questi ha scoperto un racconto in circolazione, radicato nella storia del college, che raccontava il raggiungimento di un obiettivo straordinario ed era tenuto in gran conto dal gruppo che lo richiamava alla memoria. Clark ha chiamato queste storie “saghe organizzative”: La saga, che in origine si riferiva ad un racconto medioevale islandese o norvegese centrato su un singolo individuo o gruppo di persone, oggi ha acquisito il significato di narrazione di gesta eroiche, di eventi unici che hanno scosso profondamente gli animi di chi vi ha preso parte e dei loro discendenti. Quindi una saga non è semplicemente un racconto, ma un racconto che a un certo punto ha avuto un certo numero di sostenitori… L’elemento della fede è fondamentale, perché, senza un racconto credibile, gli eventi e le persone non diventano Storia; con lo sviluppo della fede, un evento particolare della Storia diventa un elemento pieno di orgoglio e di identità per il gruppo (Clark, 1972: 178).
Tutte e tre le saghe hanno svolto la stessa funzione (simbolica), ma differivano nell’intreccio. La saga del Reed College raccontava la storia degli atti creativi messi in opera da un leader, pioniere nel ‘deserto’ in ambito educativo. La saga dello Antihach College era la storia di una consolidata organizzazione in profonda crisi, salvata da un riformatore utopico. La saga del Swarthmore College era la storia di un’organizzazione di successo messa in pericolo dalla noncuranza, finché non fu salvata da un leader sensibile al vento del cambiamento. Sebbene l’intreccio di base cambi, il carattere centrale rimane lo stesso. Di fatto, le storie moderne tendono a replicare la dominazione maschile, offrendo poche o quasi nessuna controparte ai racconti folcloristici su streghe e donne sagge. Questa caratteristica non si limita alle saghe epiche dove la presenza di un protagonista carismatico è parte integrante dell’intreccio classico. Le antropologhe Sabine Helmers e Regina Buhr (1994) hanno condotto
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uno studio sul campo in una grande azienda tedesca produttrice di macchine da scrivere. Hanno trascorso tre settimane in azienda, facendo interviste e osservando. Durante questo periodo, molti interlocutori, tutti uomini, hanno raccontato loro la seguente storia: Il tecnico di macchine da scrivere discreto La nuova segretaria aveva chiamato il tecnico molte volte perché la sua macchina da scrivere elettrica continuava a creare spazi dove non servivano. Dopo aver cercato di trovare senza successo la causa, il tecnico decise di osservare per qualche tempo la segretaria al lavoro. Presto scoprì il problema. La ragazza, generosamente dotata di attributi femminili, continuava a colpire involontariamente il tasto dello spazio ogni volta che si chinava in avanti. Il tecnico dimostrò di essere in grado di affrontare questa situazione piuttosto delicata. Trovò una scusa per mandarla fuori dall’ufficio e sollevò la sua sedia girevole di quattro centimetri. Da allora non ci furono più problemi con la macchina da scrivere e non ci furono altro che lodi per la bravura del tecnico. (Helmers e Buhr, 1994: 176)
In un primo momento, dissero Helmers e Buhr, non avevano prestato molta attenzione alla storia, ma si incuriosirono nel sentirla ripetere più volte. La storia gli era stata raccontata come se l’evento avesse avuto luogo il giorno prima, ma il tentativo di rintracciarla le ha condotte ad una rivista aziendale austriaca di un commerciante di macchine da scrivere, datata 2 giugno 1963 (l’estratto citato è ripreso da quella fonte). Così una vecchia storia era stata mantenuta in vita raccontandola e le era stata data rilevanza collocandola nel presente e nell’azienda del narratore. Questo racconto aveva altre varianti in altre società, industrie, paesi e momenti storici. Helmers e Buhr sono state in grado di dimostrare che tale stereotipizzazione delle donne come ‘stupide e bionde’ in realtà ha ostacolato lo sviluppo tecnologico nell’industria delle macchine da scrivere. Storie del genere hanno contribuito ad archiviare molti problemi tecnicamente risolvibili delle macchine da scrivere come ‘errori di utilizzo’.
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Il titolo di questo capitolo potrebbe sembrare un po’ fuorviante: ‘raccogliere storie’ suona come un’occupazione passiva, come se le storie fossero funghi in attesa di essere raccolti. Infatti, Boland e Tenkasi (1995) erano preoccupati che troppi ricercatori si aspettassero esattamente questo. Boland e Tenkasi hanno assunto un punto di vista molto critico verso il concetto di ‘raccogliere’ i racconti organizzativi come se fossero reperti mummificati nella realtà organizzativa in attesa di essere ‘scoperti’ da un ricercatore. In realtà, un racconto diventa nuovo ad ogni nuova narrazione e la ‘mummificazione’ di una storia è il risultato, non della miopia del ricercatore, ma di un lavoro di stabilizzazione messo in atto dai narratori, come avviene in alcuni esempi che abbiamo visto al capitolo 2. Tuttavia, la raccolta di storie deve essere sorretta dallo studio delle narrazioni, come quello condotto da David Boje (1991).
3.3 Storytelling Boje ha preso ispirazione dagli studi di Harvey Sacks (1992) e dei suoi seguaci, che hanno esaminato la funzione dei racconti nelle conversazioni1. Egli osservò che un brodo di coltura particolarmente ricco di storie è la realtà aziendale: Nelle organizzazioni, lo storytelling è la moneta di scambio preferita nelle relazioni tra interlocutori interni ed esterni. Le persone si impegnano in un processo dinamico di perfezionamento incrementale dei propri racconti legati a nuovi avvenimenti, così come in continue reinterpretazioni di storie classiche culturalmente con-
1 Il lettore potrebbe chiedersi come David Boje abbia potuto partecipare nel 1991 alle idee contenute nel libro di Sacks pubblicato nel 1992. Lectures on Conversation di Sacks fu pubblicato per la prima volta nel 1992, 17 anni dopo la sua tragica morte, ma il testo circolava in copie cartacee in forma di trascrizioni di Gail Jefferson e alcune di esse erano state pubblicate separatamente prima del 1992.
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sacrate. Quando si è in procinto di prendere una decisione, vengono raccontate vecchie storie e confrontate con la situazione attuale per evitare all’organizzazione di ripetere scelte sbagliate e per cercare di ripetere i passati successi. In un ambiente turbolento, gli uffici e le sale delle organizzazioni pullulano di storie di vita attuali, ancora più ricche e vibranti dei contesti aziendali. Anche in tempi stabili, il racconto è altamente variabile e talvolta politico, in quella parte di processo collettivo che consiste nel raccontare diverse versioni di storie a seconda del pubblico… Ad ogni esecuzione non si ha mai la storia completa; è un processo in costante svolgimento per confermare nuovi dati e nuove interpretazioni, che diventano parte di un intreccio in continua evoluzione. (Boje, 1991: 106)
Boje si era stabilito in una grande azienda di forniture per uffici che stava studiando, allo scopo di registrare le conversazioni quotidiane, nel tentativo di catturare episodi spontanei di narrazione. Ha usato il programma ETNOGRAPH per codificare oltre 100 ore di registrazione, una procedura che gli ha richiesto 400 ore di lavoro. Le sue scoperte riguardano due aspetti del racconto: come si manifesta nelle conversazioni e in che modo esso viene usato. Per quanto riguarda il primo aspetto, Boje ha scoperto che il racconto nelle organizzazioni odierne difficilmente segue il modello tradizionale di un narratore che racconta una storia dall’inizio alla fine ad un pubblico interessato e attento. I narratori raccontano le loro storie a pezzi, vengono spesso interrotti, a volte allo scopo di integrare il racconto e altre volte per porgli fine. Per quanto riguarda l’utilizzo delle storie, Boje lo ha distinto in: modello di ricerca, modello di elaborazione e modello di adattamento. Questa classificazione esemplifica bene il pensiero di Karl Weick sulla creazione di senso (1995). Una storia è una cornice, che viene creata e viene sperimentata, sviluppata ed elaborata e che può facilmente assorbire un nuovo evento. Lo studio di Boje mostra che la distinzione tra ‘creare storie’ e ‘raccogliere storie’ – argomenti trattati in due capitoli separati di
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questo libro – è molto sottile, sempre che esista. La struttura che ho dato a questo libro non corrisponde alla ‘struttura della realtà’, per così dire. È uno strumento utilizzato per strutturare un testo. Anche se sia gli studi di Boje che quelli di Gabriel (cfr. paragrafo successivo) sono stati svolti in ambienti di lavoro, l’attività di storytelling non si limita a questi luoghi. La famiglia, i gruppi di gioco e alcune associazioni sono dei luoghi naturali per lo storytelling. Tuttavia, i “mondi-di-lavoro” meritano particolare attenzione. Il mio concetto di “mondi-di-lavoro” si ispira a Benita Luckmann (1978), la quale sostiene che, nel mondo di oggi, la vita delle persone sia divisa in segmenti o sottouniversi. Uno è il mondo del lavoro, altri sono la famiglia e la comunità ecologica (oggigiorno l’elenco dovrebbe essere esteso per includere le comunità virtuali). Accettare la sua lettura significa deviare dal diffuso punto di vista secondo il quale i luoghi di lavoro siano governati dal pugno di ferro del “sistema” e quindi si oppongano al “mondo della vita”2. Luckmann ha dimostrato due aspetti interessanti di tali “piccoli mondi di vita”: il primo è che sono sorprendentemente simili alle comunità tradizionali; il secondo è che la differenza principale tra una persona moderna e il suo equivalente tradizionale consiste nel fatto che nella società odierna esistono diversi mondi che richiedono (e consentono) frequenti “cambi di marcia”. Le storie si trovano in tutti questi mondi e a volte il cambio di marcia significa cambio di genere. L’idea di Luckmann ha trovato un’ottima rappresentazione nell’etnografia di Julian E. Orr (1996) sul lavoro di un gruppo di tecnici che riparano macchine fotocopiatrici. Anche se erano impiegati in una grande azienda, essi si comportavano come se non lo fossero e concepivano il loro lavoro – inteso come lavoro pratico piuttosto che come rapporto gerarchico – come compito individuale, impegnativo, reso possibile dalla presenza di una comunità 2 “Sistema” e “mondo della vita” sono termini di Husserl, usati molto da Alfred Schütz e dai suoi discepoli.
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di supporto. Nelle culture passate, la comunità era il contesto in cui ci si scambiava racconti di guerra e dove il sapere collettivo veniva concepito, mantenuto e divulgato. Orr ha concluso che: il lavoro specializzato nell’ambito dei servizi[è] necessariamente improvvisato … e centrato sulla creazione e sul mantenimento del controllo e della comprensione. Controllo e comprensione si ottengono con un resoconto verosimile della situazione, che richiede competenze sia diagnostiche che narrative. La comprensione viene mantenuta attraverso la circolazione di questo sapere, raccontando storie ad altri membri della comunità, e questa protezione della comprensione contribuisce al mantenimento del controllo (1996: 161).
Orr fu molto chiaro su un punto: le storie non sono sul lavoro, esse sono il lavoro dei tecnici, anche se possono produrre altri risultati: quando i tecnici si riuniscono, il principale argomento di conversazione sono le macchine. Queste conversazioni mettono in mostra la loro conoscenza del mondo dei servizi; da un altro punto di vista, sono questi discorsi a creare quel mondo e persino l’identità dei tecnici stessi. Ma l’obiettivo della pratica dei tecnici non è né il parlare né il creare identità. L’obiettivo è portare a termine il lavoro, rendere felici i clienti e mantenere le macchine in funzione (1996: 161).
Le storie dei tecnici non sono “storie organizzative”, ma “storie che organizzano” (Czarniawska e Gagliardi, 2003). Presumibilmente, i racconti registrati da Boje (1991) svolgevano una funzione simile, anche se lui si è concentrato di più sul loro ruolo formale nel processo di creazione di significato. Ciò che differenzia le narrazioni riportate da Boje e Orr da quelle descritte da Gabriel (cfr. il prossimo paragrafo) è che le “storie di lavoro” sono di dubbio valore estetico o politico e sono spesso enigmatiche e difficili da comprendere per uno spettatore. D’altra parte, le “storie organizzative” sembrano fatte per un pubblico generale e, anche se senza dubbio soddisfano molteplici funzioni, difficilmente possono essere di uso pratico per un problema imminente.
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3.4 Storie su organizzazioni e storie all’interno di organizzazioni Yiannis Gabriel (2000) inizia il suo libro con una confessione: egli ama i racconti ed è una storia d’amore che risale alla sua infanzia e che dà vita alla sua famiglia. Per lungo tempo, però, egli aveva visto narrazione e vita lavorativa – e in particolare il suo lavoro che consisteva nel fare ricerca sulla vita lavorativa – come due entità separate. Tuttavia, sia da impiegato che da ricercatore, fu colpito da due osservazioni. Prima di tutto, persone diverse gli avevano raccontato la stessa storia, o una molto simile, come se l’avessero provata prima di raccontarla. In secondo luogo, molto tempo dopo la fine della sua esperienza lavorativa o della sua ricerca, queste storie rimasero nella sua memoria più a lungo di fatti e persone. Quindi il suo impegno attuale, anche se ispirato dalla ricerca sulle tradizioni popolari, mira a rispondere a tre domande: 1. Come possiamo studiare le organizzazioni attraverso le storie che vengono raccontate al loro interno e su di loro? 2. Che cosa ci dicono le storie sulla natura delle organizzazioni come forme specifiche di collettività umana? 3. Che cosa ci dicono le storie che incontriamo nelle organizzazioni sulla natura e sulle funzioni del racconto? (Gabriel, 2000: 2)
Cito queste domande testualmente come una sorta di monito. Molti giovani studiosi, affascinati dalla presenza di racconti, continuano a svolgere studi che mostrano proprio questa presenza. Ma ciò non è sufficiente. Inoltre, è già stato documentato, non da ultimo, negli esempi che cito qui. Secondo Robert Solow (1988), un fenomeno simile è avvenuto in ambito economico, quando si fece notare agli economisti che l’economia utilizzava metafore nei suoi scritti (McCloskey, 1985). Il risultato è stato una serie di studi che Solow riassume sotto il titolo Guarda, mamma, c’è una metafora! La stessa cosa sta avvenendo negli studi organizzativi: molti sono del tipo “Guarda, mamma, c’è una storia!”. Eppure
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3. raccogliere le storie
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non basta mettere in evidenza che la scienza, come altri tipi di attività umana, usa racconti e metafore. Il punto è: quali sono le conseguenze della retorica scientifica e quali le conseguenze del racconto, sia per coloro che raccontano le storie sia per coloro che le studiano? Gabriel adottò una definizione ristretta di “storia”, come quella che ho esposto nel capitolo 2, contrapponendola ad altri tipi comuni di narrazioni organizzative: l’opinione e il report (quest’ultimo è chiaramente la versione moderna di una cronaca; cfr. il capitolo 2). Ecco l’esempio di una storia completa che vale la pena riportare per la sua funzione di intrattenimento: C’era un tizio che, guidando un camion, colpì un gatto, così egli scese dal camion e vide il gatto sul lato della strada e pensò che era meglio finirlo…gli spaccò la testa, tornò a bordo e se ne andò. Qualcuno telefonò alla polizia e disse di avere appena visto l’autista di un camion della Board scendere e uccidere il suo gatto. Così la polizia gli diede la caccia, lo trovò e gli chiese se avesse ucciso il gatto. Il tizio disse che lo aveva investito e non poteva lasciarlo così…sarebbe stato crudele, quindi l’aveva finito. Allora la polizia gli chiese di poter esaminare il camion, l’autista rispose di sì. Così lo esaminarono e trovarono un gatto morto sotto la ruota. Quindi [quello che aveva ucciso] era un altro gatto, che dormiva al lato della strada. (Gabriel, 2000: 23)
Gabriel sottolinea che non ha senso verificare la veridicità della storia e la considera come un esempio di folklore organizzativo3. Vorrei far notare che questo racconto contiene più di un messaggio sull’azienda Board, come la storia del tecnico discreto 3 Gabriel sottolineò che la nozione di folklore organizzativo (pratiche e manufatti culturali che sono simbolici, spontanei e ripetitivi) non ha ricevuto molta attenzione da parte degli studiosi organizzativi. Sono d’accordo con lui che sia estremamente deplorevole, dal momento che tutti i tipi di pratiche corporee e di manufatti sono potenti vettori di memoria sociale (Connerton, 1999). Suppongo che la ragione sia che sono molto difficili da studiare e richiedono un particolare tipo di sensibilità allenata, che non è di solito parte del curriculum dei ricercatori di scienze sociali.
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che abbiamo già esaminato. Non è l’intreccio (una storia comica con un caso di scambio di identità), ma la mimesi che contiene il messaggio: apprendiamo che gli autisti della Board sono sensibili alla sofferenza degli animali e che la polizia inglese reagisce tempestivamente anche a richieste estremamente insolite, con eccezionale serietà e alacrità. Gabriel passò ad esaminare “i modi in cui le storie vengono costruite”, mostrando come lo stesso incidente che riguardava l’esplosione di un estintore avesse preso la forma di quattro storie diverse. Egli proseguì a localizzare i tropi poetici che operano nella creazione della storia, in un modo ispirato a White e che somiglia a quello di Sköldberg (capitolo 2), dando esempi di una storia epica, una storia tragica e una comica (manca una storia romantica) e analizzandole secondo cinque caratteristiche: (1) il protagonista; (2) una situazione difficile; (3) i tentativi di risolvere la situazione difficile; (4) l’esito di questi tentativi; e (5) le reazioni del protagonista (p. 61). A questo tipo di analisi strutturale verrà data maggiore attenzione nel capitolo 7. Per ora, cercheremo delle risposte alle domande di Gabriel. Abbastanza sorprendentemente, Gabriel era più pessimista sulla ricerca basata su storie di quanto non lo sia il suo stesso testo. In una conclusione piuttosto cupa, egli affermò: A differenza di bar e pub, della piazza del paese e della tavola in famiglia, le organizzazioni non sembrano essere l’habitat naturale del racconto – dopo tutto, la maggior parte delle persone in azienda è troppo impegnata ad apparire impegnata per poter ingaggiare una narrazione. Né c’è abbastanza fiducia, rispetto e amore tra i membri delle organizzazioni da incoraggiare una narrazione libera e disinibita. Inoltre, le storie nelle organizzazioni competono con altre forme narrative: principalmente informazioni e dati, ma anche cliché, frasi fatte, acronimi, piccoli e grandi manufatti, discussioni, opinioni e così via. In un simile ambiente, tra il frastuono di fatti, numeri e immagini, il delicato e impegnativo discorso della narrazione viene facilmente ignorato o messo a tacere. Poche organizzazioni sono spontanee culture di storytelling (2000: 240).
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Annaspando in un oceano di storie ripetitive, desidererei quasi che Gabriel avesse ragione. Come sua lettrice, credo che Gabriel stesse usando un’iperbole, che consiste nell’esagerare la descrizione della realtà (Lanham, 1991: 86). La citazione continua: “Tuttavia, ci sono storie raccontate all’interno delle organizzazioni e alcune storie organizzative sono buone storie”. E in effetti la maggior parte del suo libro mostra quanto lo studio di storie sia in realtà rivelatore (quanto alla questione se io abbia il diritto di andare contro le intenzioni esplicitamente dichiarate da un autore, cfr. il capitolo 5). Per cominciare, le storie che ha trovato non sono poche: 130 interviste hanno dato vita a 404 storie (Gabriel ha fornito anche consigli utili su questioni pratiche concernenti il suscitare e raccogliere storie.) L’analisi successiva che egli ne ha fatto chiarisce diversi aspetti estremamente importanti e spesso altrimenti nascosti della vita sociale. Uno di questi aspetti è il ruolo che le storie giocano nel dramma del potere e della resistenza organizzativi, dramma al quale ho accennato nel capitolo precedente. Un altro è che le storie consentono di avere accesso alla vita emotiva delle organizzazioni. Quest’argomento è stato ripreso da altri scrittori (rinvio su ciò a una raccolta pubblicata da Fineman, 1993), ma Gabriel ne affronta un aspetto molto originale: le storie come rivelatrici della nostalgia presente nelle organizzazioni. Un terzo aspetto, strettamente correlato, è il lato religioso delle organizzazioni: Gabriel ha offerto un’interpretazione convincente della longevità dell’intreccio sviluppato intorno al capo-come-eroe; il capo è una sorta di Dio surrogato delle organizzazioni: “Mettendo in evidenza l’atipico, il critico e lo straordinario, le storie ci danno accesso a ciò che sta al di là del normale e dell’ordinario” (2000: 240). Gabriel qui è in sintonia con Jerome Bruner, che ha affermato che “La funzione del racconto è quella di trovare uno stato intenzionale che mitighi o almeno renda comprensibile una deviazione rispetto a un modello di cultura canonico” (1992: 59). Pertanto, le storie dicono molto sui mondi-di-lavoro, ma non tutto.
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3.5 Modi per raccogliere storie Secondo la letteratura sulla raccolta di racconti, i principali modi sono tre. Il primo è quello usato da Boje e Orr: registrazione di momenti spontanei di narrazione durante una lunga ricerca sul campo. Come ha sottolineato Gabriel, questo metodo non è facile: richiede una sensibilità particolare (che può tuttavia essere acquisita sul campo), una buona memoria, o un uso esperto e discreto di strumenti di registrazione. Il secondo approccio è quello usato da Gabriel stesso: suscitare la nascita di storie. Guardando la sua guida alle interviste, sono rimasta colpita dalla sua somiglianza con la tecnica dell’incidente critico di Flanagan (1954). Questa tecnica è stata inventata all’interno di un approccio molto distante da quello narrativo, eppure nulla vieta che la si possa utilizzare a tale scopo. Questa tecnica particolare è nata nel Programma di Psicologia dell’Aviazione americana durante la seconda guerra mondiale, allo specifico scopo di sviluppare procedure per la selezione e la classificazione degli equipaggi. Flanagan interrogava i piloti circa gli incidenti critici avvenuti durante il loro servizio. Flanagan ha definito l’incidente come un’attività umana osservabile che può essere vista come un insieme: essa ha un inizio e una fine, anche se può essere collegata a molte altre attività precedenti e successive. Un incidente critico è un incidente atipico, ovvero che non accade regolarmente, anche se resta tipico di un determinato tipo di attività (e perciò, per esempio, un’attività ripetuta più volte ogni giorno non può essere considerata come un incidente critico). Tuttavia l’incidente deve essere importante dal punto di vista dell’attività principale che si svolge nel sito sotto esame. Entrambe le qualifiche – atipico, importante – debbono essergli attribuite dalla persona che lo ha osservato, sotto la guida del ricercatore. La procedura – solitamente composta da un’intervista e da una tecnica di osservazione diretta – dovrebbe comprendere le seguenti fasi:
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1. Definire gli obiettivi generali di un’attività (i ricercatori che, come Karl Weick, ritengono che gli obiettivi di un’attività si individuano meglio attraverso un’analisi specifica e post factum potrebbero sostituire questa domanda con una domanda sul tipo di attività svolto). 2. Descrivere unità e attori (anche qui Flanagan ha chiaramente in mente organizzazioni formali. I ricercatori che studiano altri tipi di comunità si accontenteranno di una descrizione del luogo in cui si svolge l’attività. Una buona descrizione dovrebbe somigliare alle note per una messa in scena teatrale, cioè dovrebbe rendere chiaro dove sono – metaforicamente parlando – porte e finestre, quali costumi dovrebbero indossare gli attori, etc.) 3. Scegliere un incidente. Durante un’intervista, l’intervistatore e l’intervistato fanno la scelta insieme. Durante un’osservazione, l’osservatore compie la scelta e la motiva. 4. Descrivere l’incidente critico. Anche in questo caso, la descrizione dovrebbe assomigliare ad un copione teatrale: deve essere ordinata cronologicamente, dettagliata (con ogni dettaglio che sia importante per la comprensione dell’insieme) e includere le intenzioni degli attori (dichiarate da loro stessi o attribuitegli dall’osservatore). 5. Possono essere inclusi giudizi critici dell’osservatore, ma devono essere chiaramente distinti dal resto.
La descrizione della procedura fa capire che il resoconto che ne risulta potrebbe essere tanto una storia quanto una cronaca. Ma, a meno che lo studio non riguardi in specifico la differenza tra il racconto e una storia, ciò non ha importanza, dal momento che anche le cronache e gli altri tipi di narrazione sono testi che consentono interpretazioni interessanti. Il terzo metodo per raccogliere storie è chiederle. Per quanto in questo capitolo io mi sia soffermata sui racconti orali, anche i racconti scritti vengono creati e divulgati, grazie anche a Internet. Di conseguenza, ho usato un approccio simile (che è una variante della tecnica di Flanagan) in uno studio sul potere nelle organizzazioni. Studenti di management, psicologia e sociologia di differenti paesi hanno ricevuto le seguenti istruzioni:
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Il potere è uno dei fenomeni che ha sempre interessato gli scienziati sociali, fossero essi filosofi o teorici dell’organizzazione. Tuttavia, non sappiamo davvero come appaia il potere nelle odierne e strutturate organizzazioni odierne. Pensa un attimo ad un incidente che hai recentemente osservato, che riguarda il potere in un’organizzazione. Prenditi un po’ di tempo per ricordare i dettagli di quell’incidente, prima di andare oltre. Ora descrivi nel modo più completo possibile i dettagli di quell’incidente, spiegando la situazione che ha portato all’incidente, quali erano le persone coinvolte, cosa è stato detto e fatto, da chi, nonché le conseguenze dell’incidente. Aggiungi tutte le pagine che desideri. Perché hai scelto questo incidente in particolare? Puoi commentare il fenomeno del potere organizzativo come lo vedi tu e come lo hai descritto nell’incidente? Grazie mille per la tua collaborazione!
Questo esercizio ha prodotto un’intera raccolta di storie molto interessanti4. Monika Kostera ha utilizzato una tecnica simile (2002), talvolta modificandola in modo che, invece di assegnare un tema, gli intervistati sono invitati a completare una storia di cui conoscono solo la prima frase (“Sei libero di andare, ha detto l’amministratore delegato”). Kostera ha anche chiesto ai manager di scrivere brevi poesie ed è stata accontentata (Kostera, 1997). Scheytt et al. (2003) hanno applicato le stesse istruzioni ad uno studio sul concetto di ‘controllo’ in diverse culture. La scelta di una tecnica specifica dipende dalle prospettive, dalle capacità personali e dalle proprie preferenze. In questo libro evito di dare ricette specifiche (preferisco citare storie) per I risultati di questo studio si possono trovare in Czarniawska-Joerges e Kranas (1991), Czarniawska-Joerges (1994) e Czarniawska (2003b); si veda anche il capitolo 7. 4
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ché la maggior parte delle prescrizioni, sensibili come sono ad un dato contesto di uso, possono risultare totalmente inutili in un altro. Se esiste una regola generale della ricerca sul campo è che tutte le tecniche devono essere sensibili al contesto. Un ricercatore sul campo prende continuamente decisioni sul passo successivo da intraprendere (anche decisioni morali) e non c’è un’autorità di ambito accademico che sia in grado di prevedere tutti i contesti e le circostanze. Il nocciolo di questo capitolo è che i racconti longevi, soprattutto le storie, sono depositarie di norme e pratiche e, come tali, meritano profonda attenzione. Ogni posto di lavoro, ogni gruppo e comunità ha un doppio repertorio di storie, moderno e storico, talvolta diviso in ‘storie interne’ e ‘storie esterne’. Talvolta si tratta di storie divulgate all’esterno, per esempio, attraverso i mass media, con la speranza di un loro ritorno in una forma legittimata (Kunda, 1992). Boland e Tenkasi (1995) hanno evidenziato un punto importante. Le storie non restano ferme: esse nascono, circolano, vengono contraddette. Utilizzando una metafora industriale (Michel de Certeau, 1984), si potrebbe dire che le storie vengono prodotte (architettate, fabbricate), vendute (raccontate, divulgate) e consumate (ascoltate, lette, interpretate), spesso tutto nella stessa circostanza. Chi raccoglie storie, in questo caso un ricercatore, non è un raccoglitore di funghi: ascolta in maniera selettiva, ricorda i frammenti importanti e riadatta il racconto al proprio scopo. È interessante notare che questi fenomeni possono essere tutti osservati all’interno di un dato tipo di interazione: l’intervista.
Esercizi Esercizio 3.1: storia di famiglia o di lavoro La tua famiglia ha una storia che viene raccontata agli ospiti? (Si intende sia amici e conoscenti che altri membri della famiglia in visi-
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ta). In caso contrario, ricordi una storia che viene raccontata ai visitatori nel tuo posto di lavoro? Forse ricordi le storie che ti hanno raccontato quando tu eri un nuovo dipendente? Scrivi il racconto che ricordi più facilmente. Esercizio 3.2: narrazione collettiva Mostra la tua storia ad un altro membro della famiglia o a un collega di lavoro. Chiedi a lui/lei se hai ricordato bene i dettagli e se può correggere la storia su un foglio (assicurati di lasciare una doppia spaziatura). Confronta le due versioni. Cosa dicono di te le correzioni? Che cosa sul tuo familiare o sul tuo collega? Cosa dice la storia sulla tua famiglia o sul tuo posto di lavoro?
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4. Le narrazioni in un’intervista
4.1 Cos’è un’intervista? L’ingegnosa disposizione tipografica del titolo del libro di Steinar Kvale, InterViste, (1996/2007) ha portato all’attenzione dei ricercatori come me almeno due spiacevoli scoperte su questa tecnica da loro amata. La prima riguarda ciò che non è un’intervista nella sua forma usuale: non è uno scambio reciproco di opinioni. Forse un nome più corretto sarebbe ‘inquisizione’ o ‘interrogatorio’, abbastanza in sintonia con la deplorevole abitudine di chiamare ‘informatori’ gli intervistati. La seconda riflessione riguarda ciò che, nella sua versione più frequente, un’intervista purtroppo è: una collezione di punti di vista e opinioni su qualsivoglia argomento. Se l’intervista non è una valutazione delle opinioni, essa non è ciò che i ricercatori perseguono: essi vogliono conoscere fatti, o atteggiamenti, o molte altre cose fuori intervista, la “realtà dietro di essa”. Ma un’intervista fatta allo scopo di ricerca dovrebbe essere uno scambio di opinioni tra le due parti? Kvale assume una prospettiva normativa e filosofica e afferma che, poiché le conversazioni sono la principale modalità di creazione di sapere nella nostra società, il modello ideale della conversazione, in particolare quella sua versione nota come ‘dialogo filosofico’, dovrebbe diventare il modello per le interviste. Un’intervista dovrebbe constare di due persone che cercano conoscenza e comprensione in un comune tentativo di conversazione.
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Fino a che questo postulato venga formulato in termini teoretici, non vi è motivo di fare obiezioni nei suoi confronti, anche se, in termini strettamente semantici, questa è una definizione di ‘dialogo’ e non di ‘intervista’. In effetti, un’intervista è una impresa collettiva di creazione di sapere. La pratica dell’intervista di ricerca ha tuttavia delle sue complessità. Kvale è stato il primo a notare che quello che lui chiama un ‘colloquio professionale’ è caratterizzato da un disequilibrio di potere: il ‘professionista’ interroga ‘l’oggetto’ o, in linguaggio psicologico, il ‘soggetto’, il quale risponde al meglio delle proprie conoscenze. Non c’è da meravigliarsi che i dottorandi, almeno in Svezia, chiamassero ‘vittime dell’intervista’ i loro interlocutori. Vi è tuttavia una peculiare simmetria all’interno di questa asimmetria. Innanzitutto, non è realistico pensare che un ricercatore sia un professionista onnisciente. Sarà un professionista della propria materia, ossia la ricerca, ma non della professione dell’interlocutore di un colloquio di lavoro, che è l’argomento dell’intervista. Questo aspetto è evidente in particolare nelle storie di vita: qui i narratori sono gli unici esperti della propria vita. Il ‘potere della conoscenza’ è nelle mani dell’intervistato. I ricercatori devono offrire in cambio un’attenzione curiosa e rispettosa, non il proprio punto di vista. Succede spesso che l’intervistato chieda di conoscere l’opinione dell’intervistatore, o della scienza che ella o egli rappresenta, sull’argomento in questione. Ma guai a chi lo prenda alla lettera. Nella maggior parte dei casi, si tratta o di una trappola politica (l’intervistato vuole portare il ricercatore dalla sua parte in un conflitto in corso) o di un semplice trampolino retorico. Devo ammettere di essere caduta in questa trappola molte volte e quando ho iniziato ad esprimere il mio punto di vista ho notato l’impazienza con cui il mio interlocutore aspettava che finissi e gli dessi la parola. L’esperienza di 30 anni di interviste in quattro paesi mi ha insegnato che i professionisti che ricoprono le cariche più elevate, sono spesso abbastanza soli nelle loro opinioni. Esprimere
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4. le narrazioni in un’intervista
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il proprio pensiero all’interno delle proprie organizzazioni ha conseguenze politiche e pratiche, perchè altri ascoltano, traggono conclusioni e agiscono di conseguenza. C’è anche un limite alla quantità di ‘pensieri ad alta voce’ che ci si può permettere in famiglia, anche nella più amorevole. Un’intervista di ricerca crea così la possibilità di uno scambio insolito, ma bilanciato. I professionisti offrono una visione personale della realtà del loro lavoro. I ricercatori offrono quello di cui la nostra professione, a differenza di altre, dispone in abbondanza, ossia l’opportunità di esplicitare i propri pensieri senza reali conseguenze. Tutto ciò non risolve ancora il secondo dubbio che ho sollevato all’inizio. Pareri personali e opinioni soggettive sono tutto ciò che un’intervista darà a un ricercatore? La situazione simmetrica descritta sopra può essere soddisfacente per un terapeuta, ma può esserlo altrettanto per un ricercatore? Un’altra vana speranza è quella di ricevere informazioni e fatti da un’intervista. Ho capito quanto fosse vana nel mio studio su una riforma nei comuni svedesi (Czarniawska, 1988). Ho formulato quella che pensavo essere una domanda semplice in merito all’inizio della riforma. Ho ricevuto risposte che la localizzavano in un momento non precisato tra i primi anni ’30 e la fine degli anni ’70. Era una informazione preziosa ma non del genere che mi aspettavo. Per cominciare, la memoria senza aiuto vacilla sempre: le persone non ricordano date e numeri. Esistono dei documenti in cui si possono trovare questi fatti (sempre con l’avvertenza di esaminarne attentamente il contenuto). Inoltre, ciò che le persone dicono nelle interviste è il risultato della loro percezione, della loro interpretazione del mondo, che è di eccezionale valore per il ricercatore perché si può supporre che sia la stessa percezione che influenza le loro azioni. In quest’ottica, la riforma attuata negli anni ’30 appartiene a un mondo di significato del tutto diverso dalla riforma che è iniziata negli anni ’70; il che indica che in realtà le persone intervistate si riferivano a riforme diverse.
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È importante capire che le interviste sono ciò che sono e non rappresentano altro che se stesse. Si tratta di un’interazione, che viene registrata o messa per iscritto. E questo è tutto. Tale definizione impietosa, tuttavia, preoccupa molti ricercatori. Che valore ha un’interazione tra un ricercatore e un professionista? Negli studi sociali questo valore è abbastanza evidente: un’intervista non è una finestra sulla realtà sociale, ma ne è parte, è un esempio tratto da quella realtà. Un’interazione in cui un professionista viene intervistato da una fonte esterna è tipica e frequente nel lavoro di molte persone che, in un mondo di tante e veloci connessioni, devono costantemente spiegarsi a degli sconosciuti: persone provenienti da una divisione estera, da un altro dipartimento, dall’ufficio revisione, da un giornale. Viviamo in una società basata sulle interviste (Atkinson e Silverman, 1997; Gubrium e Holstein, 2002). Mentre ognuno di questi racconti è unico perché ogni interazione lo è, sarebbe presuntuoso e inverosimile supporre che un professionista inventi un’intera storia nell’interesse del ricercatore che lo intervista. Le narrazioni sono state provate e disegnate in una logica valida e riconosciuta. Questa ‘logica della rappresentazione’ potrebbe costituire un altro problema e ne parlerò in seguito.
4.2 L’intervista come interazione e luogo di produzione narrativa L’approccio di David Silverman alle interviste, che si basa sulle idee dell’interazionismo simbolico, può essere molto utile ai ricercatori scoraggiati. Egli ha sostenuto che un’intervista può essere considerata come l’osservazione dell’interazione che si svolge tra le due persone in questione (Silverman, 2001). Silverman si è spinto oltre gli interazionisti classici, mettendo in discussione gli assunti seminaturalistisci dell’interazionismo simbolico e suggerendo metodi prudenti per minimizzare molte insidie legate ad un’eccessiva fiducia nell’intervista intesa come interazione ‘naturale’.
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4. le narrazioni in un’intervista
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Uno di questi metodi, di semplice buon senso ma estremamente prezioso, è quello di accompagnare le interviste con l’osservazione diretta; una raccomandazione spesso fatta dagli etnografi (vedi, ad esempio, Hammersley e Atkinson, 1995). In questo modo si crea un’esperienza condivisa a cui entrambi gli interlocutori possono facilmente fare riferimento e allo stesso tempo l’intervistatore visualizza il luogo in cui si sono svolti gli eventi raccontati, incrementandone notevolmente la comprensione. Osservare una scena precedentemente descritta da qualcuno aiuta a capire quanti segnali perdiamo affidandoci troppo ai racconti verbali. Questa realizzazione spinge sempre più ricercatori ad utilizzare apparecchiature video quando possibile, anche se filmare rende l’osservazione più invadente. Ma aggiungerei che non esistono metodi del tutto discreti; anzi, non c’è ragione di aspettarsi che i ricercatori possano ottenere un ‘giro gratuito’ nel mondo sociale. Ogni interazione ha il suo prezzo e fa parte del dovere di ciascun membro della società pagare quanto richiesto. Un’intervista può quindi essere trattata come un’interazione registrata ed essere in seguito analizzata con il supporto di metodi come l’analisi conversazionale (vedere, ad esempio, Edwards e Lampert, 1993; Psathas, 1995; ten Have, 1998; Silverman, 2001). A questo punto, vorrei evidenziare ancora un’altra possibilità offerta dalle interviste, le quali possono essere condotte partendo da un monologo contenente punti di vista generali su questioni astratte. Un’intervista di questo genere diventa simile a una conversazione manipolata, nella quale la manipolazione è riconosciuta e accettata da entrambe le parti. Tali conversazioni potrebbero essere una ricca fonte di conoscenza sulla pratica sociale nella misura in cui producono racconti. Qui ritorno ad un significato più ampio del termine ‘narrazione’ che include storie, ma anche cronache (o relazioni, come le chiama Gabriel, 2000). Durante un’intervista, l’intervistato può riesaminare i racconti che circolano su un dato campo di pratica o l’intervista stessa può diventare luogo di produzione di una storia. Incoraggiato dal
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ricercatore, il professionista può elaborare una narrazione, mostrando così al ricercatore l’applicazione pratica dei dispositivi narrativi. Infatti, è molto improbabile che l’intervistato ricorra ad un repertorio di dispositivi narrativi inusuali per la sua pratica. Miller e Glassner hanno osservato che “gli intervistati a volte rispondono agli intervistatori attraverso l’uso di costrutti narrativi familiari, piuttosto che fornire approfondimenti significativi della loro visione soggettiva”(1997: 101). Vorrei contestare quel “piuttosto che”, pur essendo in accordo con la posizione generale degli autori. “Approfondimenti significativi della loro visione soggettiva” possono essere espressi solo attraverso “costrutti narrativi familiari”(anche se la loro espressione può assumere la forma di deviazione o di sovversione rispetto a tali costrutti), altrimenti non potrebbero nemmeno essere compresi o riconosciuti come tali. Tutti viviamo e comunichiamo grazie all’incessante uso di un repertorio culturale largamente diffuso (piuttosto che ‘condiviso’). Le persone utilizzano intrecci conosciuti dai film e dalle serie televisive – oltre che dalle favole – per dar forma alle proprie storie, come abbiamo visto nel capitolo 2. Questo non fa di loro dei ‘sempliciotti culturali’ solo perché utilizzano un repertorio creato direttamente da loro o dai propri genitori. Questo paradosso è già stato formulato da Berger e Luckmann (1966): noi creiamo la ‘cultura’ affinché essa possa crearci. La differenza tra “significativi approfondimenti personali” e “costrutti narrativi familiari” risiede principalmente nell’interesse dei ricercatori. Le storie di vita di ogni singolo individuo sono composizioni uniche di materiale accessibile in un repertorio comune, ma è proprio questa unicità quel che interessa lo studioso di racconti personali (Riessman, 1993). Ciò che rappresenta un ruolo centrale per Catherine Riessman, per me fa solo da sfondo e viceversa. Le storie organizzative delimitano una gamma, predominante o legittimata, di tali composizioni in un dato momento e luogo: la loro familiarità e la loro ripetitività sono di interesse per lo studioso delle organizzazioni.
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Per tutte queste ragioni, è possibile vedere ogni comunità come un luogo di produzione narrativa, insieme alle molte altre cose che produce. Un’intervista può essere il luogo in cui avviene questa produzione o semplicemente un punto di distribuzione in cui al ricercatore è consentito prendere parte alle storie precedentemente prodotte. Ciò non significa che le interviste di ricerca evochino sempre e solo racconti; anzi, a differenza di una conversazione spontanea, può succedere che si eviti consciamente di produrne durante un’intervista allorché quest’ultima è percepita come un’arena nella quale solo la conoscenza logico-scientifica può essere legittimamente prodotta. È quindi compito dell’intervistatore ‘attivare’ una produzione narrativa (Holstein e Gubrium, 1997: 123).
4.3 Le difficoltà nel suscitare racconti durante un’intervista “Raccontare storie è tutt’altro che insolito nelle conversazioni quotidiane e a quanto pare, non è affatto insolito che gli intervistati rispondano alle domande con racconti quando viene data loro la possibilità di parlare” (Mishler, 1986: 69). Infatti, in molti casi, le risposte date in un’intervista vengono formulate spontaneamente in forma narrativa. Questo di solito è il caso di interviste su storie di vita o, in ambito organizzativo, su descrizioni di carriera, dove una storia è esplicitamente richiesta e rilasciata. Anche nel caso di interviste mirate alla descrizione storica di un certo processo, il racconto è usato solo come introduzione all’intervista vera e propria, svolta in modalità analitica, allo scopo di produrre conoscenza logico-scientifica. Quando l’argomento di un’intervista è una riforma o una riorganizzazione (cioè una catena di eventi che si sviluppano nel tempo), spesso accade che venga formulata una domanda che richiede un racconto: “Ricordi quando hai iniziato a parlare della necessità di riorganizzare il tuo reparto? Che cosa accadde dopo?”
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Ma nella maggior parte dei casi entrambe le parti devono combattere la convinzione condivisa che la ‘vera conoscenza’ non sia fatta di narrazioni. “Perché hai deciso di attuare una riforma?” e “Quali sono i fattori che hanno reso necessaria una riorganizzazione?”sono domande considerate più ‘scientifiche’ e richiedono risposte analitiche. Pertanto, le domande che riguardano gli “inizi” non sono così innocue come sembrano. Qui di seguito, cito due esempi tratti dai miei studi sulla gestione di grandi città dove, nella prima fase del progetto, prima di fare affiancamento, ho condotto un ciclo di interviste a politici e funzionari locali (Czarniawska, 2002). Il primo esempio viene da Varsavia, il secondo da Stoccolma; il primo interlocutore era una donna e il secondo un uomo: BC: Vuole cominciare descrivendo il suo lavoro, per favore? Cosa fa? Quali sono le sue responsabilità? Com’è la sua giornata lavorativa tipo? Interlocutore: No. Mi dispiace, ma nel mio caso, si deve cominciare dalla Storia [History].
Questo breve esempio illustra una difficoltà cui spesso incappano i ricercatori interessati ai racconti orali. Paul Connerton ha fatto notare che, mentre gli storici di tradizioni orali di solito, e per deformazione professionale, adottano una tempistica cronologica del racconto, i loro interlocutori potrebbero avere in mente un altro schema. Alcune persone, la cui vita non è sottoposta a schemi di organizzazioni moderne, non concepiscono la propria vita come un flusso di eventi, come un ‘curriculum vitae’, ma come una serie di cicli. Il ciclo di base è il giorno, poi la settimana, il mese, la stagione, l’anno, la generazione (Connerton, 1989/1999: 20). L’osservazione è importante, ma Connerton sottovaluta la quantità di ‘premodernità’ presente nelle istituzioni odierne. Il tempo ciclico infatti è un’unità di misura del tempo molto usata nelle organizzazioni odierne: giorni lavorativi, settimane di lavoro, budget annuali e generazioni. Nell’esempio precedente, ho
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suggerito io un arco temporale ciclico, ossia un giorno lavorativo, mentre il mio interlocutore ha scelto di collocare le proprie azioni nel contesto sociale a cui appartiene. Il punto è che gli intervistati per il proprio racconto possono scegliere tra diversi schemi temporali: cronologico, ciclico o kairotico. Quest’ultimo è un tempo narrativo costellato di eventi importanti, i quali possono perfino farci andare a ritroso nella cronologia. È importante lasciare che gli interlocutori scelgano il proprio schema temporale. Come indica il mio esempio, non è detto che sia utile chiedere: “Quando è iniziato tutto?”. Nell’intervista a Varsavia, con mio grande sollievo, l’interlocutore ha preso il controllo dell’interazione sin dall’inizio. Non ho avuto la stessa fortuna a Stoccolma: BC: Qual è la responsabilità principale nel suo lavoro? Interlocutore: Ho il ruolo di capogruppo nel secondo più grande partito politico e la responsabilità di guidare l’opposizione. BC: Questo cosa significa in termini lavorativi? Che cosa fa? Interlocutore: Le scienze politiche affermano chiaramente che questo ruolo è quello di una persona che, in una democrazia, è stata eletta per essere il rappresentante più importante di un movimento politico o di un gruppo. BC: Ma quali obblighi ha? Viene qui ogni mattina e cosa fa? Interlocutore: Tutto quello che ha a che fare con l’amministrazione e la gestione della città.
Abbiamo continuato così per un bel po’ finché non ho trovato una soluzione: ho chiesto al mio interlocutore di descrivere in dettaglio la sua giornata precedente in ufficio. Ne è risultata una forma minimalista di racconto basato soltanto sulla cronologia: “La mattina ho incontrato i miei colleghi di partito…”. Ma la povertà stessa di questa narrazione ha richiesto un’elaborazione: “Deve sapere che, al momento, stiamo cercando di sviluppare un nuovo modo di lavorare insieme” e così ne è seguito un racconto. E quasi ogni frammento della giornata è servito come elemento della storia stessa.
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Non cito questi stralci di intervista semplicemente per documentare la mia goffaggine come intervistatrice. Anche i più abili intervistatori, che non commettono mai errori, riducono i loro interlocutori a burattini che recitano ciò che il ricercatore aveva già in mente. Latour (2000) ha evidenziato l’aspetto più ironico della differenza tra gli scienziati naturali e quelli sociali: mentre i primi incontrano una continua resistenza nei loro oggetti che non accettano di fare quanto richiesto dai ricercatori, i soggetti sociali svolgono con entusiasmo il ruolo di oggetti docili quando viene chiesto loro di farlo in nome della scienza. L’apparente fraintendimento tra me e il secondo interlocutore rivela altre cose interessanti sulle interviste di ricerca. Volevo sapere cosa facesse, ma in realtà mi ha detto in cosa consiste teoricamente il suo ruolo. Per utilizzare una definizione di Bourdieu (1990/2005), ciò che io avrei voluto era ricostruire la logica della pratica. Ma si può dire che la risposta del mio interlocutore abbia seguito invece la logica della teoria? In parte sì; dopotutto, ha anche citato le scienze politiche per legittimare la sua risposta. Ma la logica che domina la sua risposta è ciò che io definisco logica della rappresentazione (Czarniawska, 1999b) e ciò che Bourdieu chiamava ufficializzazione. Il termine rappresentazione ha molti significati. Io qui non lo uso nel senso di raffigurazione di qualcosa d’altro, come nella ‘teoria della verità come rappresentazione’; né lo uso nel senso di ‘rappresentazione politica’, ma bensì nel significato di ‘presentare se stesso in una buona luce’. La logica della rappresentazione è come un vestito elegante da indossare quando si hanno visite. Essa viene usata da chiunque ricopra un ruolo che richiede un rendiconto [account] ufficiale delle pratiche organizzative. Essa prende in prestito dalla logica della pratica la passione per le narrazioni, ma le sue narrazioni sono stilizzate e astratte, non avvengono mai in circostanze concrete e di solito iniziano con ‘se’ o ‘immagina che’. Essa prende in prestito dalla logica teoretica i suoi modelli di razionalità formale, nei quali è previsto che
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mezzi selezionati scrupolosamente portino al raggiungimento di obiettivi scelti con accuratezza. Essa si richiama sia alla pratica che alla teoria, ma contrariamente ad esse, è retoricamente abile e autocosciente. Nelle interviste di ricerca, l’intervistato esibisce soprattutto la logica della rappresentazione, l’elegante abito per i visitatori. Ma c’è sempre una parte di improvvisazione in un’intervista, mentre essa manca in rappresentazioni formali, come i report annuali e i video aziendali. Tutte le interazioni contengono stili misti di rappresentazione e si richiamano a diversi tipi di logica nello stesso tempo. Un amico potrebbe recitare una poesia per esprimere al meglio i suoi sentimenti o un collega, durante le pausa caffè, potrebbe raccontare un’intera teoria che ha letto il giorno prima. Inoltre, la logica della rappresentazione non è nient’altro che una forma più consapevole ed elaborata di quei rendiconti che facciamo nella vita di ogni giorno, l’esemplificazione di una corretta grammatica dei motivi (Burke, 1945). Come Scott e Lyman hanno osservato in un loro eminente articolo, “un rendiconto [account] è un dispositivo linguistico impiegato ogni qualvolta un’azione sia sottoposta ad un’indagine valutativa”(1968: 46). Pertanto, un rendiconto è proprio il tipo di narrazione che vogliamo ma che non sempre si riesce ad ottenere.
4.4 Come gli intervistati evitano rendiconti Scott e Lyman hanno spiegato che i rendiconti sono fatti per spiegare un ‘comportamento inatteso o sconveniente’ (1968) e ciò secondo loro comporta una differenza tra rendiconti spontanei e interviste di ricerca. Io affermerei che, al contrario, questo avvertimento spiega perché le risposte alle interviste di ricerca sono rendiconti proprio nel senso inteso da Scott e Lyman: “Un rendiconto non viene richiesto quando le persone attuano un comportamento routinario e sensato all’interno di un contesto culturale
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che lo riconosce come tale” (Scott e Lyman 1968: 47). Quando i manager lavorano in accordo al proprio ruolo, essi attuano un comportamento routinario e sensato all’interno di un contesto culturale che lo riconosce come tale. Invece un’intervista di ricerca è una situazione di tipo teatrale, nella quale di comune accordo viene sospeso il riconoscimento di un dato comportamento come ‘routinario e sensato’. I ricercatori svolgono il ruolo di stranieri o visitatori da un altro pianeta, mentre i professionisti accettano di fare un rendiconto del loro comportamento come se non si trattasse di una routine basata sulla logica comune, facendolo così diventare ’azione’. Essendoci noi rassegnati all’onnipresenza della logica della rappresentazione – le interviste si rifanno alla logica della pratica solo nella misura in cui esse rientrano nella prassi del prendere parte ad interviste – e al carattere di rendiconto che hanno spesso le risposte alle interviste, cerchiamo allora di imparare da Scott e Lyman quali sono le strategie più usate dall’intervistato per evitare di fornire rendiconti, perché si tratta di strategie che elimineranno del tutto o impoveriranno la narrazione. Scott e Lyman ne menzionano tre: la mistificazione, il rinvio ad altri, lo scambio di identità. Una mistificazione si verifica quando “un intervistato ammette che non sta incontrando le aspettative dell’intervistatore, ma va avanti sottolineando che, sebbene esistano delle ragioni delle sue azioni inattese, egli non può svelarle” (Scott-Lyman 1968: 58). In molti studi, la mistificazione potrebbe avere fondamento giuridico, come quando le informazioni sono classificate come riservate o quando voler spiegare l’azione di un altro potrebbe essere letto come una calunnia. Ma la strategia più comunemente usata è il rinvio ad altri: parlando con il ricercatore, l’interlocutore rinvia ad una fonte di informazioni più autorevole (“Se vuoi sapere cosa facciamo, guarda sul sito”) oppure si rifiuta di fare speculazioni sul punto di vista di altre persone (“Temo che tu debba chiedere a lei come si è sentita quando è successo questo”). Un altro tipo di rinvio si trova nell’intervista che ho citato sopra: il
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mio interlocutore ha fatto riferimento alle scienze politiche nelle quali si troverebbe una valida giustificazione delle attività che competono al suo ruolo. È frequente infine lo scambio di identità, che si verifica allorché l’interlocutore afferma che il ricercatore sta dandole o dandogli una personalità diversa da quella che ella o egli intende presentare: “Non sono una persona che racconta storie”. Dopo tutto, per citare Scott e Lyman un’ultima volta, “ogni rendiconto è la manifestazione di un’implicita negoziazione di identità”(1968: 59). Un’interessante aggiunta a questa lista deriva dagli studi che intervistano scienziati (Mulkay e Gilbert, 1982). Gli scienziati intervistati dai due autori non hanno fornito né rendiconti né racconti su ciò che essi consideravano conoscenza corretta. Essi hanno invece prodotto rendiconti, e hanno perciò raccontato storie, su sbagli ed errori. Questa situazione rimette in luce le difficoltà di cui ho parlato prima: messi di fronte ad una conoscenza corretta, difficilmente la si può mettere in dubbio o fingere ignoranza. Ci si trovò così in una situazione di impasse che poté essere risolta soltanto ripristinando le premesse che autorizzavano l’interlocutore a “meravigliarsi”. Dunque, come ottenere racconti in una situazione che sollecita l’uso della logica della rappresentazione ed offre molte possibilità di evitare rendiconti? Vi sono moltissimi suggerimenti, che variano dai suggerimenti su come suscitare le storie (Mishler, 1986, Gabriel, 2000) ai suggerimenti su come suscitare l’offerta di materiale descrittivo (Spradley, 1979), fino a suggerimenti su come suscitare un qualunque tipo di risposta (Johnson e Weller, 2002). Il problema, a mio avviso, è che molti di questi suggerimenti cercano di generalizzare e di astrarre a partire da esperienze specificamente situate. Suggerirei di trattare questi testi come preziose raccolte di storie di ricerca, ma non come ricette fatte e finite. Ciò che ha fatto miracoli in una situazione potrebbe causare problemi in un’altra. È importante ottenere una narrazione sull’argomento di interesse del ricercatore, ma a volte un altro
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tema, sollevato spontaneamente dall’intervistato, può risultare più interessante. Fin qui si è discusso delle difficoltà di ottenere un qualsiasi tipo di narrazione. Una volta che questo scoglio sia stato – in maniera abile o goffa – superato, la preoccupazione successiva è come ottenere un racconto o, ancora meglio, una storia completa. In questo contesto, gli schemi abbastanza ovvi suggeriti da Gabriel o da Flanagan (vedi capitolo 3) vanno bene come tanti altri. Personalmente, io raccomando quello che io chiamo un “test di richiamo” domandandosi: riuscirò a ripetere questa storia? Se no, che cosa manca? 4.5 Le trascrizioni di un’intervista come forma narrativa Ci sono fondamentalmente due cose che si possono fare con i racconti suscitati dalle interviste. La prima possibilità è che il ricercatore estragga da esse un proprio racconto, cioè che lo scriva, o lo riscriva, o lo reinterpreti. Si tratta qui di sinonimi per una sola attività: dopo tutto, ogni atto di lettura interpretativa corrisponde allo scrivere una storia ex novo. Se li si guarda da questa prospettiva, i racconti provenienti da interviste non si discostano da altri tipi di racconti: annotazioni sul campo, documenti e storie ufficiali. I modi di lettura e di analisi saranno esaminate nei prossimi capitoli. La seconda possibilità è analizzarle come racconti di interviste, considerandoli come un tipo speciale di testo. L’analisi conversazionale offre tecniche sofisticate per gestire tali testi una volta che li si prenda come trascrizioni di interazioni sociali. Qui suggerisco un modo di considerare l’intervista come iscrizione di un processo di produzione narrativa. La seguente intervista radio è stata registrata e trascritta da Veronica Gabrielli di Padova1, che ringrazio per il permesso di 1 Come parte di un’esercitazione durante un corso di metodo tenuto da me presso l’Università di Venezia nell’autunno del 2000.
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utilizzarla. Era originariamente trascritta con le annotazioni tipiche dell’analisi conversazionale, ma l’ho semplificata, mantenendo solo le lettere maiuscole per enfatizzare alcune parole: INTERVISTA A ISABELLA SPAGNOLO, COLTIVATRICE DI RADICCHIO ROSSO TREVIGIANO, E SERGIO GRASSO. (Entrambi alfieri per la sicurezza alimentare) Isabella: I, Sergio: S, Paola: P (intervistatrice) 1P: Allora siamo in cucina, in cucina per parlare di un inizio insomma di settimana IMPORTANTE per noi. Domenica 3 dicembre in 100 città italiane si svolgerà “Campagna Amica”, una manifestazione per far CONOSCERE quelli che sono i prodotti, vivaddio i piú autentici della nostra agricoltura, e ce ne sono tanti in Italia. Noi iniziamo da una giovanISSIMA produttrice, che è alfiere per… Tante donne della zona del nord-est. Ci trasferiamo nella zona di Treviso con Isabella Spagnolo che è PRODUTTRICE di RADICCHIO trevigiano. Buongiorno. 2I: Buongiorno Paola 3P: Buongiorno Isabella. Benvenuta. C’è anche l’alfiere in seconda, nel senso che, trevigiano anche lui…. 4S: …. alfierone, un alfierone… 5P: … il nostro Sergio Grasso. Dunque, quando si dice RADICCHIO… innanzitutto lei è GIOVANISSIMA, si è lanciata anima e corpo in questa produzione 6I: Sí, esattamente. 7P: Con passione… 8I: Sí, esattamente, io sono una ENTUSIASTA dell’agricoltura, perché ritengo proprio che abbia un VALORE in questo momento poi FONdamentale. Proprio perché siamo ALFIERI della sicurezza alimentare e siamo CERTI di quello che produciamo e come lo produciamo… 9P: Ecco, e detto di questi tempi… 10I: Infatti questo prodotto nostro, della zona di Treviso, STUPENDO, perché è un miracolo della natura, non è come voi lo credete di vedere in campo, perché è un miracolo che avviene sott’acqua, nelle risorgive, che sono SOLO nella zona di Treviso, che matura all’interno un cuore STUPENDO, rosso, che è il radicchio di Treviso….
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11P: Quindi quello che si vede, diciamo così, se io vengo nella VOSTRA zona, non vedrò questo… 12I: No, è proprio un MIRACOLO, è una EMOZIONE, che nasce proprio dalla terra dove ci sono le risorgive e quindi l’acqua a 20 gradi viene raccolta dal CAMPO, posto sotto l’acqua, e rifiorisce questo fiore, chiamato FIORE D’INVERNO. 13P: Allora.. Avete sentito Isabella non è solo entusiasta, è anche poetica. Noi ci interrompiamo solo un istante e diamo la parola a Luca, e ritorniamo SUBITO dopo per parlare di radicchio trevigiano con la nostra Isabella Spagnoli. (…) 14P: Peró adesso mi racconta tutto, eh… Questa BELLA BELLA signorina di 29 anni, Isabella Spagnoli, di fianco a me, responsabile del coordinamento imprenditoria femminile Coldiretti di Treviso. Nonché produttrice di vino e… 15I: … di radicchio… 16P: … di radicchio… E torniamo col nostro Sergio, che di Treviso è, a parlare di radicchio, ma del radicchio però di Treviso. Questo oro che voi avete… 17S: Questo fiore che si mangia 18P: Questo fiore che si mangia? 19S: QUESTO di Treviso è chiamato FIORE CHE SI MANGIA, questo di Treviso, mentre quello di Castelfranco, a un tiro di schioppo da Treviso, è detto LA ROSA DI CASTELFRANCO. È una cicoria. 20P: Allora Isabella… 21S: E di cicorie ce n’è tante, quella di Treviso è senz’altro la miglior cicoria, sbianchita, cioè sottoposta ad un processo di SCHIARITURA, è la MIGLIOR cicoria, quella di tradizione più innovativa, che si presta ad un sacco di preparazioni. 22P: Isabella, una giovane ragazza come lei che è produttrice, quindi coltiva, come vive? Cioè come è il suo lavoro, come è impostato? 23I: Beh, indubbiamente, GESTIRE la produzione è un fattore importante perché noi ci sentiamo ovviamente caricati dalla grande responsabilità che abbiamo, che è quella proprio di GARANTIRE il prodotto, infatti questo prodotto è un prodotto col marchio IGP, che è un marchio che dice che questo prodotto può essere fatto solo in una determinata zona, Treviso, LA NOSTRA, e oltretutto subisce dei controlli, DI QUALITÀ, quindi noi forniamo un prodotto, certificato
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e ci sentiamo responsabili di questo. E poi c’è la parte COMMERCIALE, quella di presentazione del prodotto, come sta succedendo adesso, in cui bisogna raccontare quello che noi, che per noi è materia normale. 24P: Allora Isabella quanto c’è di ORGOGLIO a Treviso per questo prodotto e soprattutto per questo prodotto che è di grande esportazione, perché è un prodotto che viaggia in tutto il mondo… 25I: È la nostra punta di diamante che ovviamente si inserisce in un quadro di prodotti STUPENDI della nostra Regione Veneto, come ad esempio possono essere le patate, l’asparago, il fagiolo, le zucche, il vino e tantissimi altri prodotti che si abbinano bene con il radicchio di Treviso. 26P: Dunque, come si cucina? 27I: Indubbiamente ha tantISSIMI modi per essere gustato: è ottimo alla piastra, alla griglia, è ottimo per fare il risotto al radicchio, ovviamente TANTISSIMO radicchio e meno riso, questo è fondamentale per la riuscita del piatto, e poi questo puó essere abbinato, poi naturalmente si sposa con il vino della SUA terra, il Rabboso, AUTOCTONO, che è possibile avere solo nella provincia di Treviso…E poi… 28P: AUTOCTONO…Anche lei è autoctona… 29I: Siii…Io sono innamorata della natura e del PRODOTTO. 30P: Allora, finiamo con una informazione: ci sará anche Isabella Spagnolo domenica, grande giornata italiana alla Coldiretti. 31I: Esatto…E in cento piazze italiane ci saranno, ci saremo NOI giovani produttori della Coldiretti che offriremo ai consumatori prodotti certificati di QUALITÀ, perché proprio il consumatore si fidi di noi, di quello che facciamo con tanto amore, con tanta passione e tanta dedizione. 32P: …. e ha solo 29 anni…Fra 10 chissá dov’é! Allora grazie a Isabella Spagnolo, grazie a Sergio Grasso e grazie al radicchio trevigiano!
Ho scelto questa intervista perché, a mio avviso, rappresenta un caso interessante di ‘lotta per la narrazione’, resa distintiva dal formato specifico di un’intervista radio. Un’intervista in tempo reale ha un tempo fortemente limitato; la persona ufficialmente al potere – il giornalista – non può utilizzare molti dei
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suoi privilegi e combatte su un piano quasi pari. In questo senso, rappresenta un’eccezione rispetto alla tradizionale lotta per la narrazione, ma il suo carattere eccezionale serve ad evidenziarne la natura. La lotta è per lo più combattuta tra Paola e Isabella e riguarda il protagonista della narrazione: è la giovane imprenditrice oppure il radicchio rosso di Treviso? Paola opta per la prima, Isabella opta per il secondo. Sergio è dalla parte di Isabella e quindi Paola non ha molto bisogno di lui: gli consente di parlare solo una volta (affermazioni 17-21) ma già alla frase 19 Paola torna a Isabella perché è chiaro che Sergio continuerà a parlare di radicchio rosso (non sapremo mai la sua età.) Paola sembra voler sapere tutto di Isabella, non del radicchio rosso (lo afferma nella frase 13). Fino alla pausa, le narrazioni sono pari, con Isabella che parla di radicchio rosso mentre Paola enfatizza i modi in cui Isabella parla di radicchio rosso, spostando così l’attenzione su Isabella. Dopo la pausa, però, vince la narrazione di Isabella. Sergio la supporta. Allorché Paola riprende la parola da Sergio, tenta di far emergere la storia della vita di Isabella (o almeno la storia del suo lavoro) nell’affermazione 22. Ma Isabella si lancia in un elogio del radicchio rosso, utilizzando in maniera accattivante termini di marketing (ho verificato che ai giovani imprenditori associati a Coldiretti vengono fatti corsi di marketing). Con la frase 28 Paola rinuncia, il tempo sta per finire e si nota un leggero sarcasmo quando definisce Isabella ‘autoctona’. Alla fine dell’intervista, lei stessa riconosce esplicitamente il vero protagonista della narrazione nata nell’intervista, ringraziando “il radicchio rosso di Treviso”. La mia lettura di questa intervista è stata supportata da un affascinante studio sulle donne italiane imprenditrici agricole, condotto da Valérie Fournier (2002), che ci mostra come queste donne abbiano consapevolmente utilizzato l’identità di ‘giovani donne’ o l’abbiano evocata per scopi strategici. Isabella ne è
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certamente un esempio brillante. Un altro aspetto interessante di questa intervista è che Isabella è presentata con l’identità di “giovane bella donna” non da un uomo, ma da un’altra donna. Tutti e tutte utilizziamo le tipizzazioni convenzionali delle e dei nostri simili.
Esercizio Esercizio 4.1: un’intervista come sito di produzione narrativa Registra un’intervista dalla radio o dalla TV (un’alternativa può essere utilizzare una trascrizione di una tua intervista). Cerca le tracce della produzione di un racconto oppure di una storia: si vede il lavoro di intrecciamento? Ci sono racconti opposti? La storia sta funzionando?
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5. Leggere i racconti
5.1 La triade di Hernadi Dal momento che esistono molti modi di lettura, i quali si impongono già prima che si decida se si sta facendo una ‘interpretazione’ o una ‘analisi’, un utile strumento per classificarli può essere la “triade ermeneutica” formulata da Paul Hernadi (1987) e qui riportata nella figura 5.1. La triade di Hernadi distingue concettualmente tre modi di leggere un testo, che nella pratica, di solito, sono presenti contemporaneamente ed avviluppati. Tra le altre cose, un’attrattiva di questa classificazione consiste nell’abolizione della distinzione tradizionale tra ‘interpretazione’ e ‘spiegazione’, osservando che è possibile che diversi modi di lettura coesistano e che in realtà questa è una situazione auspicabile. La triade inizia con il passaggio più semplice: la trasposizione di un testo nel lessico del lettore – “che cosa dice questo testo?”; continua con vari metodi di spiegazione – “perché questo testo dice queste cose?” oppure “come questo testo dice queste cose?”; e conclude con un passaggio più vicino alla scrittura che alla lettura – “che cosa penso io lettore di ciò che ho letto?”. L’esplicazione corrisponde ad una posizione che il semiotico italiano, Umberto Eco (1990), ha definito come quella di un lettore ingenuo o di un lettore semantico. Nasce dall’ambizione di capire un testo. Hernadi ha ripreso a tal proposito il pensiero del famoso teorico letterario Northrop Frye (1957) per mostrare che essa comporta umiltà da parte del lettore: il lettore sottostà al testo. La
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spiegazione pone il lettore al di sopra del testo. L’innocua domanda “cosa dice il testo?” viene sostituita da “come lo dice?” (Silverman e Torode, 1980) o da un più tradizionale “perché lo dice?”. Questo equivale alla posizione di un lettore critico o semiotico (Eco, 1990). La triade di Hernadi è ugualitaria in quanto pone sullo stesso piano tutte le azioni esplicative – semiotica, nuova critica, analisi strutturale o analisi retorica, decostruzionismo – che tutte tenterebbero di smontare il testo per vedere come è stato fatto. Esplicazione Stare sotto Traduzione Riproduttiva Ricostruzione
Spiegazione Stare sopra Analisi investigativa Inferenziale Decostruzione
Esplorazione Sostituire Enunciazione Esistenziale Costruzione
Fonte: Hernadi (1987)
Tavola 5.1. La triade ermeneutica
L’esplorazione, ovvero l’atto di sostituirsi all’autore, potrebbe essere considerata non appropriata per i testi scientifici, un genere che non incoraggia quel coinvolgimento di natura esistenziale che si ha quando i lettori proiettano le loro vite e preoccupazioni nel testo. Ma essa compare nella maggior parte delle opere di natura interpretativa, in modo implicito o esplicito: nella conclusione di uno studioso positivista, nelle osservazioni personali di un etnografo (Geertz, 1988, Van Maanen, 1988), nell’affermazione di un punto di vista femminista (Smith, 1987; Martin, 1990; Calás e Smircich, 1991) e nelle ambizioni di empowerment di un analista narrativo (Mishler, 1986; Brown, 1998).
5.2 Le difficoltà dell’esplicazione Se il metodo più ovvio dell’esplicazione è riassumere il testo composto da qualcun altro, come mostrerò più avanti, la faccenda si complica notevolmente quando si hanno davanti i racconti
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5. leggere i racconti
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che vengono dalla ricerca sul campo della pratica in esame. Tanto per cominciare, si tratta di molti racconti e di storie raramente complete. Il modo tradizionale di eseguire quest’operazione è che il ricercatore scriva ‘l’unica storia vera’ di ciò che è ‘veramente accaduto’ con voce chiara e autorevole. Oggigiorno, questa procedura è considerata un’eresia, ma si tratta di un giudizio piuttosto precipitoso. Dopotutto, ci sono molte buone ragioni per comporre una storia coerente traendola da altre parzialmente contrastanti o incomplete o frammentarie; ad esempio, una storia coerente è facile da leggere. Il concetto di far giustizia o ingiustizia alla narrazione originale dipende dall’atteggiamento del ricercatore e dalle precauzioni prese. Il secondo, forse principale, problema è quello di tradurre la storia di qualcun altro nella propria lingua. Non importa quanto sia ben intenzionato il ricercatore, la traduzione è un atto politico globale. Questo problema è diventato acuto in ambito antropologico a partire dal momento in cui si è diffusa l’alfabetizzazione in società precedentemente orali (Lejeune, 1989). L’Altro, che prima era solo ‘descritto’, ha assunto il compito di descrivere se stesso e di mettere in discussione le descrizioni degli antropologi. Ma quando il campo oggetto di studio è altamente colto, le ridefinizioni eseguite dai ricercatori sono aperte ai commenti e alle domande dei professionisti, il che rende il problema moralmente meno discutibile ma più complesso politicamente. Lo status di scienza, specialmente delle scienze sociali, non soffoca più le proteste e le critiche. Come ho sottolineato a un certo punto in un diverso contesto (Czarniawska, 1998), le ‘voci dal campo’ riportate negli studi organizzativi sono colte ed eloquenti come quelle dei ricercatori e spesso hanno una maggiore influenza politica. Quindi, la scelta sembra essere tra la Scilla di zittire gli altri e la Cariddi di dover provare a gridare più forte di loro1. 1 Scilla e Cariddi erano, nella mitologia greca, due mostri situati su entrambi i lati dello stretto che Odisseo doveva attraversare.
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Qualunque sia la scelta, essa non libera i ricercatori dalla responsabilità di ciò che scrivono e dal dovere di rispettare i loro interlocutori. Ma questa responsabilità e rispetto non devono essere espressi in una ripetizione letterale di ciò che è stato detto. Un ricercatore ha il diritto, e il dovere professionale, di creare una “lettura novella” [novel reading] secondo un’espressione coniata da Marjorie DeVault (1990), per indicare l’interpretazione di una persona che non è socialmente integrata nello stesso sistema di significato del narratore, ma è abbastanza familiarizzata con esso da riconoscerlo. DeVault continua dicendo che, in un dato momento e luogo, esistono letture dominanti e marginali dello stesso testo e, io aggiungo, vi sono diverse storie che riportano gli stessi eventi, ma intrecciandoli nei modi diversi, come abbiamo visto negli esempi di Gabriel (2000) e Sköldberg (2002). Alcuni intrecci sono dominanti, mentre altri sono considerati marginali, ma non è necessario che il ricercatore si affidi ad un intreccio dominante. L’assenso non è sempre il modo migliore per esprimere rispetto. Il dovere del ricercatore è, dunque, assumersi la responsabilità autoriale della narrazione che ha concepito ed ammettere l’esistenza di un’opposizione da parte dell’interlocutore, qualora ne sia consapevole. Esistono molti modi per manifestare rispetto verso il proprio interlocutore. Uno di questi è il racconto a più voci, consigliato da molti antropologi (cfr., ad esempio, Marcus, 1992). Esistono molte storie, non una sola. Come in un romanzo postmoderno, tutti raccontano la propria storia e il ricercatore non deve prendere posizione su quale sia ‘giusta’e quale quella ‘sbagliata’. In questo modo, Gabriel ha potuto citare tutti e quattro i racconti dell’esplosione di un estintore. Uno era una cronaca che riportava semplicemente la sequenza degli eventi, mentre i restanti tre davano vita a tre storie diverse con diversi eroi, vittime e intrecci. Un esempio eccellente di multistoria è il romanzo di Iain Pears, La quarta verità (1998). È la storia di un’invenzione medica, la trasfusione, ambientata nella Oxford del XVII secolo. Il romanzo
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contiene quattro storie che riguardano lo stesso corso di eventi. I lettori possono scegliere a quale credere, ma l’effetto finale è piuttosto quello di fare capire perché le storie differiscano tra loro. Bisogna però sottolineare che, in un testo, la polifonia non è altro se non una strategia testuale (Czarniawska, 1999a). Le ‘voci dal campo’ non parlano da sole, ma è l’autore che le fa parlare, alle proprie condizioni. Pertanto in linea con Bachtin (Bachtin 1928/1985), è più opportuno parlare di un’eteroglossia del campo, lasciando traccia di diversi dialetti, diversi idiomi e diversi vocabolari – senza omogeneizzarli in un unico ‘testo scientifico’. Questo è sicuramente ciò che Pears ha saputo condurre a termine in modo eccellente. Ma, ancora una volta, questa strategia testuale non è così diversa da una storia autorevole, come può sembrare. Anche mettere insieme frammenti di narrazioni prese direttamente da un’intervista li decontestualizza, ma, in cambio, li ricontestualizza a sua volta (Rorty, 1991). Non è un problema che si possa risolvere con il ‘citare letteralmente’. Si tratta di effettuare una ricontestualizzazione che sia interessante (“novella”), credibile e rispettosa. È chiaro a questo punto che l’esplicazione prepara già il terreno per la spiegazione e l’esplorazione.
5.3 I vari casi di spiegazione Alcune correnti di pensiero ermeneutiche ravvisano la presenza di un salto dall’esplicazione all’esplorazione, senza spiegazione (per Hernadi, spiegazione e interpretazione sono sinonimi). Dal punto di vista dei pragmatisti, un salto del genere è impossibile perché tutte le esplicazioni sono già pervase di spiegazione e tutte domandano non solo “che cosa dice questo testo?” ma anche “come mai lo dice?”. Analogamente, l’ermeneutica, intesa come filosofia e teoria dell’interpretazione, ha offerto nelle varie fasi della sua esistenza, differenti suggerimenti su come intraprendere l’interpretazione. Il problema è che la
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domanda “come mai lo dice?” assume diverse forme nelle varie scuole di pensiero. Le soluzioni cambiano, ma i problemi restano. Come scrisse Umberto Eco: Interpretare significa reagire al testo del mondo o al mondo di un testo, producendo altri testi … Il problema non è sfidare la vecchia idea che il mondo sia un testo che può essere interpretato, ma piuttosto decidere se ha un significato fisso, molti significati possibili o nessuno del tutto. (1990: 23)
Permettetemi di introdurre una semplice classificazione di varie scuole di pensiero riguardanti i modi di spiegazione, o interpretazione, divise in tre gruppi: soggettivistico (volontaristico), oggettivistico (deterministico) e costruttivistico. 5.3.1 Spiegazione soggettivistica: intentio auctoris o intentio lectoris? Forse il modo più tradizionale di spiegare i testi è dedurre le intenzioni del loro autore. Questa tradizione deriva dalla lettura della Bibbia, del Talmud e del Corano come testi scritti da Dio e pertanto il più elevato compito del lettore (che deve essere un lettore esperto nel caso del cattolicesimo e dell’ebraismo, chiunque nel protestantesimo e nell’Islam) è quello di cercare di scoprire le intenzioni di Dio. Esistono molti diversi pareri su come procedere nel cercare di scoprire le intenzioni di Dio. L’Enciclopedia Britannica (1989, 5: 874) elenca quattro grandi tipi di ermeneutica biblica. La prima, quella letterale, vietava ogni tipo di spiegazione: l’esplicazione era l’unica operazione consentita sul testo divino. La seconda è l’ermeneutica morale che cerca nella Bibbia gli insegnamenti etici. La terza è l’interpretazione allegorica che attribuisce un secondo livello di riferimento a persone, cose ed eventi esplicitamente menzionati nella Bibbia. Il quarto tipo è chiamato anagogico2 o 2
Dal greco anagein (‘riferirsi a’).
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mistico e suppone che la Bibbia anticipi il futuro, gli eventi a venire. Un eccellente, seppur ironico, esempio di questo ultimo tipo di lettura si trova ne Il pendolo di Foucault di Eco (1988) citato nel precedente capitolo, in cui un gruppo di cabalisti scopre trame divine in tutti i testi in cui si imbatte. Ora, ha l’ermeneutica biblica una qualche rilevanza per le scienze sociali, fatto salvo il suo ruolo di informazione storica? L’ermeneutica letterale e quella mistica forse non hanno rilevanza, ma quella morale e le interpretazioni allegoriche chiaramente sì. Esse non possono essere utilizzate per i racconti colti nel loro farsi – interviste, conversazioni, osservazioni –, ma possono esserlo tutte le volte in cui uno può parlare di intenzioni da parte dell’autore, come nel caso di pubblicità o di documenti che servono all’autorappresentazione come report annuali, pagine web, autobiografie. Tanto più che gli autori contemporanei sono essi stessi lettori ermeneutici, i quali spesso citano la Bibbia quando sono alla ricerca di insegnamenti etici e/o allegorie che trasmettano un significato al lettore contemporaneo. Nelle versioni moderne dell’ermeneutica, l’autore divino è stato rimpiazzato dalla psiche dell’autore umano. Questa mossa è attribuita a Friedrich E.D. Schleiermacher (1768-1834), considerato il fondatore della moderna teologia protestante, il quale, grazie al suo interesse per la classicità e il romanticismo, si spostò dall’esegesi del Vangelo a una concezione della religione basata sulla cultura umana (Robinson, 1995). Schleiermacher sosteneva che per ottenere il significato di un testo si debba capire la mente dell’autore perché è lì che Dio vive e lavora. La fenomenologia e la psicoanalisi, pur essendosi liberate dal contesto religioso, continuarono a leggere i testi come manifestazione dello stato mentale del loro autore (Marcel Proust e James Joyce sono forse gli autori più spesso letti in quest’ottica). Cercare le intenzioni di un autore non è mai stata una tradizione distintiva della lettura di testi scientifici (se escludiamo la pura e semplice esplicazione ovvero “ciò che l’autore vuol dire è…”). Ciò perché la psiche dell’autore non doveva interferire con la scrittura
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di un testo scientifico: la verità dovrebbe scrivere se stessa. Ma l’approccio soggettivistico era, ed è tuttora, applicato ai ‘soggetti’, vale a dire alle persone sotto studio e alle narrazioni prodotte da esse. Nella teoria letteraria e nella filosofia, la risposta più efficace alla corrente di pensiero dell’intentio auctoris è stata l’ermeneutica di Gadamer (1960/1972). Questo libro non è il posto più adatto per fare giustizia alla sua opera che, come si dice a ragione nella prefazione di Verità e metodo, “eleva l’ermeneutica letteraria alle più alte vette”. Per Gadamer, l’ermeneutica era una filosofia, una ricerca della verità e solo in maniera marginale un metodo (in effetti, Ricoeur, nel 1975, affermò che il libro di Gadamer avrebbe dovuto avere come titolo: Verità OPPURE metodo) (Ricoeur 1975/1989: 92). Gadamer stesso commenta il suo lavoro affermando che “il suo intento è quello di studiare, ovunque essa si dia, l’esperienza di verità che oltrepassa l’ambito sottoposto al controllo della metodologia scientifica, e di ricercarne la specifica legittimazione” (1960/1972: 19). Le scienze umane dovrebbero unirsi alla filosofia, all’arte e alla storia: “forme di esperienza in cui si annuncia una verità che non può essere verificata con i mezzi metodici della scienza” (Ivi: 19). Allo stesso modo, Gadamer afferma di non voler portare avanti la distinzione di Dilthey tra le scienze ‘umane’ e ‘naturali’ e le loro tecniche. Egli non era contro l’applicazione dei metodi delle scienze naturali al mondo sociale, ma ciò non ha nulla a che fare con la ricerca della verità attraverso l’esperienza, appartiene alle esigenze della tecnica e della burocrazia. Allo stesso tempo, egli dichiara di essere andato oltre il romanticismo e il soggettivismo, ma i suoi critici affermano che l’influenza di queste correnti resti determinante nel suo lavoro. Questa critica è confortata dalla seguente dichiarazione di Gadamer: “La comprensione deve essere concepita come parte del processo di nascita del significato, in cui il senso di tutte le affermazioni … si forma e si completa” (Ivi: 146). L’ipotesi di un significato che riveli il senso di tutti gli enunciati è un sogno centrale del romanticismo ed è un sogno che im-
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plica che anche una piccola porzione di intersoggettività rimetta in dubbio e in discussione il giudizio di ‘completezza’. Questi miei commenti non sono un tentativo di sminuire il brillante contributo di un grande filosofo; ma solo un modo per sottolineare che, nonostante le proteste di Gadamer, la maggiore attrattiva della sua versione dell’ermeneutica sta proprio nel suo romanticismo, nel suo soggettivismo e nella sua sfiducia nell’applicazione dei metodi di scienza naturale alle scienze umane. A suo parere, tali metodi assumono e richiedono una distanziazione alienante in contrapposizione all’esperienza di appartenenza tipica delle arti, della storia e dell’umanità. Io mi richiamerò invece a Ricoeur per sostenere la possibilità che questi due aspetti si uniscano. Inoltre, se Gadamer resta ancora legato alla soggettività, si tratta della soggettività del lettore, non dell’autore; è l’esperienza del lettore quella che porta alla verità intesa come comprensione. Infine, questa esperienza viene verificata attraverso la tradizione in una sorta di intersoggettività temporale. In questo modo, viene spianata la strada per una teoria della lettura come risposta. Analogamente, l’osservazione di Gadamer sull’influenza formativa del linguaggio sul pensiero lascia spazio sia per concezioni oggettivistiche che costruttivistiche della lettura. 5.3.2 Spiegazioni oggettivistiche Le spiegazioni oggettivistiche trovano perfetta applicazione nelle scienze. La teoria letteraria ha sperimentato un periodo di scientificizzazione, specialmente negli anni ’70, quando la sociologia era al suo apice. Una spiegazione oggettivistica fa riferimento a strutture esterne: classe sociale, rapporti di potere, genere biologico o addirittura uno specifico evento storico. Anche se le biografie degli scrittori hanno un loro peso, gli autori vengono considerati figli del loro tempo e di conseguenza anche i loro testi sono visti come il prodotto di un determinato momento storico. Le opere marxiste, neo- e post-marxiste ne sono un esempio.
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Il lavoro di Jürgen Habermas è stato di enorme importanza per le scienze sociali. Il suo focus non è tanto l’ermeneutica quanto la critica dell’ideologia che, tuttavia, può anche essere considerata come una teoria della lettura. Il suo rapporto con il marxismo, fa notare Ricoeur (1973), è simile a quella di Gadamer con la filosofia romantica: ne prende le distanze eppure gli appartiene. Il compito delle scienze critico-sociali – così come quello della lettura critica – è smascherare gli interessi che su cui si fonda l’impresa della conoscenza (Habermas, 1968). Questo è ciò che differenzia le scienze critico-sociali sia dagli studi empirico-analitici sull’ordine sociale sia da quelli storico-ermeneutici suggeriti da Dilthey e Gadamer. Lo scopo delle scienze critico-sociali è l’emancipazione, che si ottiene con l’auto-riflessione. Le scienze critico-sociali forniscono lo strumento di tale emancipazione, svelando i rapporti di dipendenza che si nascondono dietro le relazioni (non le forze, come nel marxismo) di produzione. L’auto-riflessione indotta dalla scienza critico-sociale è la strada verso la libertà dalle istituzioni. Si può trovare un’altra variante della teoria marxista dell’interpretazione nella teoria letteraria di Fredric Jameson (Jameson, 1981, Selden, 1985). Jameson l’ha definita come ‘critica dialettica’ [dialectical criticism] perché è fortemente incentrata sulla concezione hegeliana della relazione tra la parte e il tutto (che è l’idea che sta dietro a tutte le concettualizzazioni del ‘circolo ermeneutico’3), tra il concreto e l’astratto, tra il soggetto e l’oggetto, tra l’apparenza e l’essenza. Questo tipo di critica non analizza le singole opere, bensì considera ogni opera come parte di una situazione storica più ampia e così ogni lettura. La critica dialettica cerca di grattare via la superficie di un testo per raggiungere la profondità della vera ideologia storica che lo permea. Mentre Habermas
3 Un termine usato spesso dai filosofi nella tradizione che corre da Schleiermacher e Dilthey a Heidegger, Gadamer e Ricoeur. Esso esprime la circolarità intrinseca di ogni comprensione. Il concetto afferma che ciò che è sconosciuto può essere catturato solo attraverso la mediazione di quello che è già noto.
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era interessato principalmente al concetto di ‘dialogo’, Jameson era fortemente convinto del ruolo centrale della narrazione nel sapere umano: il racconto è una ‘categoria epistemologica’ da accogliere dappertutto e che deve essere interpretata. La critica dialettica di Jameson è vicina ad un altro tipo di spiegazione oggettivistica: lo strutturalismo. Infatti, il suo modo di trattare le narrazioni ricorda quello di Barthes e usa le categorie di Greimas per l’analisi. Non sorprende: Selden (1985) sottolinea che gli scritti economici di Karl Marx sono strutturalisti. Poiché strutturalismo e decostruzionismo non sono solo ‘strategie di lettura’ma anche metodologie, se ne discuterà nei capitoli successivi. Un terzo esempio di teoria post-marxista della lettura è il punto di vista femminista, rappresentato da Dorothy Smith (1990, 1999). Le sue letture hanno lo scopo di esplorare le relazioni di dominanza: L’ordine istituzionale della società che ha escluso e messo a tacere le donne e la loro esperienza viene messo in luce dalla posizione femminile nelle realtà locali del nostro mondo quotidiano/notturno, poiché sono organizzate extralocalmente, astratte, fondate in forme universali e oggettivate. La frase “relazioni di dominanza” indica l’insieme di relazioni extra-locali che nelle società contemporanee danno luogo a una specializzazione in organizzazione, controllo e iniziativa. Sono quelle forme che noi conosciamo come burocrazia, amministrazione, gestione, organizzazione professionale nonché i media. Esse includono anche l’insieme di discorsi scientifici, tecnici e culturali che intersecano, interpetrano e coordinano le numerose sedi del comando. (1990: 6)
In un saggio del 1990, K is mentally ill, Smith analizzò un’intervista la quale mostra come K venga definita dai suoi amici come una malata di mente4. In The social organization of subjectivi Si tratta de l’analisi di un’intervista esemplare sia per il modo in cui il racconto viene suscitato (cfr. le questioni discusse nel capitolo 4) sia per l’uso creativo e non formale delle analisi strutturali (cfr. il capitolo 6). 4
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ty (1990), Smith analizza la trascrizione di una riunione avvenuta presso la University of British Columbia nell’’anno caldo’ 1969. In The active text (1990), ella confronta due testi che descrivono lo stesso corso di eventi: uno scontro tra la polizia e la folla a Berkeley in California negli anni ’60. Uno dei testi è una lettera pubblicata su un giornale clandestino e l’altra è un opuscolo che descrive i fatti nella versione del sindaco di Berkeley. Un aspetto che merita attenzione è che l’opera di Dorothy Smith potrebbe essere anche classificata nell’ambito delle spiegazioni ‘costruttivistiche’. Traendo ispirazione da Schütz e dall’etnometodologia, ella descriveva i rapporti di governo come processi, non come strutture. La parola chiave è oggettivato piuttosto che oggettivo. Questo mostra, ancora una volta, che le differenze tra le diverse prospettive sono molto sottili, sebbene talvolta vengano esasperate in nome dell’attuazione di ‘guerre di paradigma’. Ma tutti gli autori presentati in questo libro hanno una cosa in comune: il loro interesse verso le narrazioni e la convinzione della loro importanza. Piuttosto che perdere tempo ed energie a combattere contro le altre scuole di pensiero, imparano gli uni dagli altri. 5.3.3 Spiegazioni costruttivistiche I teorici di cui sto per parlare non sono di solito indicati come ‘costruttivisti’ e non è mia intenzione giustificare tale etichettatura del loro lavoro. Ho scelto di presentarli sotto questo titolo perché ciò che tutti hanno in comune è la convinzione che il significato di un testo non si può né ‘trovare’ né ‘creare’ dal nulla, ma si costruisca ex novo da quello che già esiste (un testo, un’usanza tradizionale, un genere) nell’interazione tra lettori e testo, tra lettori, e tra autore, lettori e testo. Un tipo di spiegazione costruttivistica è nota come teoria della risposta del lettore. Il teorico letterario tedesco Wolfgang Iser e il teorico estetico Hans Robert Jauss hanno ampliato ma anche criticato il lavoro di Gadamer creando una teoria della ricezione, nella
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quale Iser, in particolare, ha sottolineato l’interazione tra lettore e testo (1978/1987). La teoria della risposta del lettore mantiene una ispirazione fenomenologica, ma è anche influenzata dal pragmatismo statunitense nell’interpretazione di William James, mentre Umberto Eco e Richard Rorty (vedi oltre), sono influenzati rispettivamente da Charles Peirce e John Dewey. Per Iser: Un tale significato deve evidentemente essere il risultato di un’interazione fra segnali testuali e atti di comprensione del lettore […] Siccome testo e lettore si fondono così in un’unica situazione, la divisione tra soggetto e oggetto non può più essere applicata, e ne segue perciò che il significato non può continuare ad essere definito come un oggetto, ma risulta un effetto da sperimentare (Iser 1978/1987: 42)
E se il significato è un fine prodotto, o meno, in un incontro tra il lettore e il testo, ”l’interprete dovrebbe dedicare forse più attenzione al processo che al prodotto” (Iser 1978/1987: 53). La produzione di significato diventa più interessante che il significato stesso. Già questa conclusione avvicina la teoria letteraria alla scienza sociale. Ma se il significato equivale all’esperienza che si fa di esso, tutte le critiche dirette al soggettivismo nascosto di Gadamer sembrerebbero applicabili anche in questo caso. Iser riconosce che un elemento soggettivistico può subentrare in una fase tardiva dell’interpretazione, allorché l’effetto conseguito ristruttura l’esperienza – in altre parole, nella fase dell’esplorazione. Nella fase di spiegazione, tuttavia, il lettore segue le “istruzioni intersoggettivamente verificabili per la produzione del significato” che ogni testo contiene, anche se essa può concludersi con una “totale varietà di esperienze” (Iser 1978/1986: 62). Questo assunto rende le idee di Iser simili a quelle di Eco sulla intentio operis; a sua volta Eco prende da Iser l’ipotesi di un ‘lettore implicito’. I pragmatisti, tuttavia, sono in disaccordo tra loro su come dovrebbe essere fatta la teoria pragmatistica della lettura. In risposta all’ondata di teorie polisemiche dell’interpretazione che af-
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fermavano che le letture sono innumerevoli, Eco (1992) affermò che le interpretazioni sono indefinite ma non infinite. Esse sono infatti negoziazioni tra l’intenzione del lettore, intentio lectoris, e l’intenzione del testo, intentio operis. Tali negoziazioni possono sfociare in una lettura di primo livello – tipica di un lettore semantico –, o in una sovrainterpretazione, ossia in una lettura che ignora il testo – tendenza propria di un lettore semiotico. Gran parte dei lettori si trova a metà strada tra questi due estremi e lettori diversi hanno abitudini di interpretazione diverse. Proprio a causa del suo pragmatismo filosofico, Richard Rorty ha avuto delle difficoltà ad accettare il modello di interpretazione pragmatica di Eco. Nonostante tutti i dinieghi, vi è una chiara gerarchia tra i due estremi della tipologia di Eco: il lettore semiotico è intelligente – presumibilmente un ricercatore –, mentre il lettore semantico è un ingenuo – presumibilmente un operatore non riflessivo. Inoltre, Rorty non poteva accettare la differenza proposta da Eco tra una ‘interpretazione’ che rispetta l’intentio operis e un ‘uso’, inteso come azione irrispettosa (ad esempio, accendere un fuoco con un libro), ma più in generale come lettura irrispettosa di un testo. Per Rorty invece tutte le letture sono ‘usi’. In una classificazione di usi, ossia di letture, egli suggerirebbe una distinzione tra lettura metodica, controllata dal lettore e il cui fine è precisabile, e lettura ispirata, che cambia il lettore e il fine tanto quanto cambia il testo (Rorty 1992/1995: 131-2). In conclusione, chi ha ragione? A questo punto altre teorie costruttivistiche dell’interpretazione potrebbero venirci in aiuto. Che cosa sia una ‘interpretazione ragionevole’ e che cosa una ‘sovrainterpretazione’ è stabilito non tanto tra il testo e il lettore quanto tra i lettori stessi (intersoggettività). In tal senso, l’intentio operis è solo una lettura frequente di un determinato testo in un dato luogo in un dato momento. È impossibile, tuttavia, stabilire l’intentio operis di un dato testo una volta per tutte. Le intenzioni vengono lette nel testo ogni volta che un lettore lo interpreta. Ciò non significa che vi sia una varietà illimitata di interpretazioni
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idiosincratiche. Se i generi letterari sono modi istituzionalizzati di scrittura, esistono anche modi istituzionalizzati di lettura, come la ‘nuova critica’ o il ‘decostruzionismo’. In un dato momento e luogo ci saranno letture dominanti e letture marginali dello stesso testo (DeVault, 1990) e ciò rende molto utile il concetto di ‘comunità interpretative’(Fish, 1989). Nelle scienze sociali mancano ancora dei tentativi di scoprire e di descrivere le comunità interpretative dei propri lettori. In questo contesto, sono rilevanti le spiegazioni istituzionalistiche, che cercano ispirazione nella teoria dei generi, che è una teoria letteraria delle istituzioni. Il genere letterario è generalmente concepito come un sistema di azioni che vengono istituzionalizzate e diventano riconoscibili attraverso la ripetizione; il suo significato deriva dal suo posto all’interno di sistemi simbolici che costituiscono la letteratura e la cultura, acquisendo specificità nella differenza con agli altri generi (Bruss, 1976: 5). Un genere offre a uno scrittore un repertorio di mezzi espressivi e ad un lettore un repertorio di chiavi di lettura. Anche se può capitare che sia gli scrittori che i lettori sovvertano e trasgrediscano la rigida distinzione tra generi, entrambi possono contare su questo repertorio riconoscibile. Quando ci troviamo di fronte ad un romanzo poliziesco, si creano in noi delle aspettative su come dovrebbe svolgersi il seguito. Se il romanzo non le rispecchia, potrebbero succedere due cose: che ci incanti, facendoci pensare che c’è un nuovo genere che sta emergendo, oppure che ci deluda, facendoci pensare che è un romanzo poliziesco fatto male. Anche se io stessa opto per spiegazioni costruttivistiche, esistono molte valide spiegazioni di tipo soggettivistico o oggettivistico. Uno può domandarsi: quali sono le ragioni (motivazioni) dietro questo testo? Quali sono le cause che hanno portato alla costruzione di questo testo? Come viene letto questo testo e da chi? Come questo testo espone il suo contenuto? Sono tutte domande eccellenti e tutte hanno in comune una cosa: esse interrogano il testo, il che è la raison d’être di ogni ricerca. Un modo di
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interrogare un testo sembra, tra tutti, particolarmente adatto alle scienze sociali e lo presento perciò separatamente. Si tratta dell’analogia tra azione e testo, postulata da Paul Ricoeur. 5.3.4 Azione come testo, testo come azione Il filosofo francese, Paul Ricoeur, pur lavorando essenzialmente dal lato dello spettro orientato verso il lettore, non era contento dell’intrinseco soggettivismo associato a tale ermeneutica; pertanto egli decise di oltrepassare il confine tra oggettività fondata sul testo e possibilità di molteplici interpretazioni dello stesso testo (Robinson, 1995). Egli integrò e, al tempo stesso, superò i contributi di Gadamer e di Habermas. Per essere in grado di far questo, egli introdusse una specifica concettualizzazione del testo, ovvero di un racconto scritto. Per lui, il testo è principalmente un lavoro di discorso, che è un’entità strutturata che non può essere ridotta a una somma di frasi. Questa entità è strutturata secondo regole che permettono di riconoscere la sua appartenenza ad un genere letterario: un romanzo, una dissertazione, un’opera teatrale. Anche se ogni testo può essere classificato come appartenente ad un genere o come trasgressione di un determinato genere, esso ha una sua composizione peculiare; e quando tale composizione viene ripetuta nell’opera dello stesso autore, si parla di stile. Composizione, genere e stile svelano il lavoro che sta dietro la creazione di uno specifico esemplare di discorso. È importante notare che il testo è un discorso scritto, il che significa che è più della semplice trascrizione di un intervento orale fatto in precedenza (questo è il motivo per cui tali trascrizioni non possono essere lette e analizzate nella stessa maniera di un vero testo). Parlare e scrivere sono due modalità distinte di discorso. Ricoeur (1971; vedi anche John B. Thompson, 1981) introdusse il concetto di distanziazione per indicare la differenza tra i due. Il testo si distanzia dal discorso orale, anche se può avere avuto origine da quest’ultimo. Questa tesi non sorprende
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chiunque abbia cercato di trasformare una presentazione orale in un documento scritto. La prima forma di distanziazione consiste nel fatto che, attraverso un testo scritto, il significato acquisisce una vita più lunga rispetto al solo evento del discorso. L’istituzione delle minute corrobora questa tesi. La seconda forma di distanziazione riguarda le intenzioni dell’autore e del discorso trascritto. Mentre, nel caso di un intervento orale, ha senso la ricerca dell’intentio auctoris dal momento che il relatore può negare di aver detto una determinata cosa, quando si tratta dell’interpretazione del testo, invece, l’autore e il lettore acquisiscono più o meno uno status paritario. Incidentalmente, questa è la ragione per cui è rischioso inviare ad un intervistato la trascrizione di un’intervista: l’intervistato considererà la trascrizione come un testo scritto e la correggerà di conseguenza. Il testo corretto avrà poco a che fare con il discorso originale, non perché l’intervistatore abbia capito male, ma perché si tratta di due forme diverse di discorso. La terza forma di distanziazione riguarda la distanza tra i due pubblici a cui si rivolgono: l’intervento orale è rivolto a un pubblico concreto – come nel caso di radio e TV, dove esistono statistiche che mostrano chi ascolta cosa e quando – mentre un testo scritto è potenzialmente indirizzato a chiunque possa leggere. La convinzione (diffusa) che i testi possano essere scritti per un effettivo pubblico si basa sulla credenza che il passato si ripeta, ad esempio i lettori dei precedenti romanzi di Elena Ferrante saranno probabilmente i lettori dei suoi futuri romanzi, oppure sulla speranza di poter creare il proprio pubblico, di plasmare un lettore per il proprio testo, come Flaubert ha detto di Balzac. Per gli autori che non sono né Ferrante né Balzac, tale convinzione è o espressione di ingenuità o di presunzione. La quarta forma di distanziazione riguarda la separazione del testo dal quadro di riferimento che relatore e pubblico condividono o creano insieme. Durante una conversazione, è suffi-
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ciente chiedere al pubblico se ha familiarità con un determinato segmento della realtà per adattare il discorso di conseguenza. Invece, il quadro di riferimento dei suoi futuri lettori resta sconosciuto allo scrittore.”Saranno abbastanza vecchi da ricordare chi era Gerard Philippe?”5 è un genere di domanda a cui non si può rispondere in anticipo con certezza. Testi rivolti a un determinato pubblico possono essere inaspettatamente adottati da un altro tipo di pubblico. William Gibson, autore di romanzi di fantascienza, fu sorpreso di apprendere che i programmatori informatici si ispiravano ai suoi libri (Kartvedt, 1994/95). Questo modo di concepire un testo ha delle conseguenze sulla teoria dell’interpretazione. Le prime due forme di distanziazione implicano che “il problema dell’esatta comprensione non può più essere risolto con un semplice ritorno all’intenzione presunta dell’autore” (Ricoeur, 1971/1989: 192). Le altre due forme di distanziazione, il pubblico sconosciuto e il suo quadro di riferimento altrettanto sconosciuto, possono essere affrontate in due modi diversi. Il primo è il metodo strutturalistico (e poststrutturalistico): concentrarsi solo sul testo, lasciando da parte la questione dei suoi possibili referenti. Il secondo è quello proposto da Ricoeur: “situare la spiegazione e la comprensione a due stadi diversi di un unico arco ermeneutico (…)” e integrare gli opposti atteggiamenti di spiegazione e comprensione all’interno di una concezione complessiva della lettura come recupero di significato (1971/1989: 200). L’analogia tra testo e azione, che ho citato nel capitolo 1 come un modo di introduzione della narrazione nelle scienze sociali, è un esempio di tale concezione della lettura. Un’azione dotata di significato condivide le caratteristiche costitutive del testo: viene oggettivata dall’iscrizione, che la libera dal suo agente; ha rilevanza al di fuori del suo immediato contesto e può essere letta come una ‘opera aperta’. Allo stesso modo, 5 Attore cinematografico francese (1922-59) tragicamente scomparso, icona degli anni Cinquanta.
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un testo può essere attribuito ad un agente, cioè all’autore; è possibile ascrivere (piuttosto che ‘stabilire’) delle intenzioni al suo autore e il farlo ha spesso delle conseguenze spesso inaspettate. In questa concettualizzazione, il testo non ‘sta per’ un’azione; il rapporto tra i due piani è di analogia, non di rappresentanza.
5.4 Esplorazione Esplorazione significa che il lettore sostituisce l’autore, diventa l’autore. Ciò può sembrare insolito alla maggior parte dei lettori, ma è la pratica comune di lettura nelle scienze sociali. Nelle scienze sociali, il lettore legge per diventare un autore: non importa a quale scuola di esplicazione e spiegazione appartenga; non importa se fa una lettura metodica o ispirata. È per questo che i capitoli 8 e 9 sono dedicati ai modi di scrittura come atto finale della lettura scientifica. Le modalità di esplorazione variano a seconda delle teorie di lettura finora discusse. I soggettivisti, come si è accennato in precedenza, potrebbero saltare la spiegazione e mostrare la propria esperienza come modo per esplorare l’argomento. Gli oggettivisti potrebbero saltare l’esplorazione, o meglio trattare la combinazione di esplicazione e spiegazione come modo per produrre l’esplorazione: il resoconto di un testo combinato alla sua critica si intende come testo “migliorato”. I costruttivisti potrebbero voler prendersi del tempo per riflettere sul proprio processo di interpretazione oppure no. Essi potrebbero anche saltare la fase della spiegazione, usando l’esplicazione come materiale per costruire la propria posizione. Vale la pena ricordare un caso sorprendente di esplorazione: si tratta di Manifesto cyborg di Donna Haraway (1991). Può forse essere paragonato a Cosa si prova ad essere un pipistrello?6 di 6 Nagel ha ricevuto una risposta energica basata sugli studi sui pipistrelli di Kathleen Akins (1993: Che cosa si prova ad essere noioso e miope?).
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Thomas Nagel (1979). Ma mentre Nagel ha progettato un delicato esperimento di pensiero filosofico, Haraway è stata letterale: Alla fine del Ventesimo secolo, in questo nostro tempo mitico, siamo tutti chimere, ibridi teorizzati e fabbricati di macchina e organismo: in breve, siamo tutti dei cyborg. … Nelle tradizioni della scienza e della politica “occidentale” … la relazione tra organismo e macchina, è stata una guerra di confine… Questo saggio vuole essere un argomento a sostegno del piacere di confondere i confini e della nostra responsabilità nella loro costruzione (1991/1995: 2). … È evidente la necessità di una politica femminista-socialista che si indirizzi verso la scienza e la tecnologia. (1991/1995: 19)
In questo senso, tutti gli scritti femministi sono un enorme esperimento di esplorazione: l’autore no-gender è stato trasformato in una donna, in una femminista, che guarda il mondo in modo nuovo da un punto di vista femminista. Ma Haraway è andata ancora oltre e ha reputato la stessa ‘identità femminile’ come una cosa del passato. La sua esplorazione è rivolta al futuro: le persone sono già cyborg e sono impegnate in ulteriori riprogettazioni dei cyborg (il progetto successivo di Haraway riguardava un topo geneticamente modificato: Haraway, 1997/2000). Che cos’è un cyborg? Un corpo cyborg non è innocente, non è nato in un giardino, non cerca un’identità unitaria e quindi non genera antagonistici dualismi senza fine (o fino alla fine del mondo). Il cyborg presume l’ironia; uno è troppo poco, e due è solo una possibilità. L’intenso piacere della tecnica, la tecnica delle macchine, non è più un peccato, ma un aspetto dello stare nel corpo. La macchina non è un quid da animare, adorare e dominare; la macchina siamo noi, i nostri processi, un aspetto della nostra incarnazione. … Il genere in fondo potrebbe non essere l’identità globale. (Haraway, 1991/1995: 24-25)
Questa è quindi la quintessenza dell’esplorazione: proiettare la propria identità in un testo o costruirla attraverso un testo.
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Una simile mossa è ancora rara nelle scienze sociali ma non sorprende più. Le brevi descrizioni delle varie teorie di lettura che formano questo capitolo non permettono la loro applicazione a un testo reale, non solo perché sono brevi e sintetiche ma anche perché sono filosofie, non metodi o tecniche di lettura. Sono presentate qui perché la scelta di un metodo o di una tecnica di analisi deve essere preceduta dalla scelta di una teoria di lettura che si condivida. Questo libro è dunque inteso come introduzione al repertorio di teorie di interpretazione: il lettore può procedere ad approfondire i contenuti della teoria che più gli si adatta. Concludo questo capitolo con un breve esempio delle tre fasi di lettura per illustrare perché sia inevitabile una riflessione su quale teoria di lettura adottare.
5.5 Leggendo Egon Bittner Quel che segue è un breve estratto dal testo classico di Egon Bittner, The concept of organization(1965): Lo Studio del Concetto di Organizzazione come costrutto di senso comune Strappato via dalla sua terra nativa, cioè dal mondo del senso comune, il concetto di ‘organizzazione razionale’, così come le determinazioni schematiche poste sotto di esso, sono privi di informazioni su come i suoi termini si colleghino ai fatti. Senza conoscere la struttura di questa relazione di riferimento, il significato del concetto e i suoi termini non possono essere determinati. In questa situazione un investigatore può utilizzare una delle tre procedure di ricerca. In prima istanza, può continuare a indagare sull’organizzazione formale, supponendo che gli inesplorati significati dei termini offerti dal senso comune siano definizioni adeguate ai fini della sua indagine. In questo caso, userà quello che propone di studiare come risorsa per lo studio stesso.
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Può, in secondo luogo, attribuire ai termini un significato più o meno arbitrario definendoli in maniera funzionale. In questo caso, il rapporto di riferimento tra il termine e i fatti a cui si riferisce sarà definito dalle operazioni di indagine. Viene deliberatamente abbandonato qualsiasi interesse per la prospettiva dell’attore oppure si adotta una qualche versione inventata. L’investigatore può, in ultima istanza, decidere che il significato del concetto e di tutti i termini e le determinazioni sotto di esso debbano essere scoperti studiando il loro uso in scene reali di azione da parte di persone la cui idoneità ad utilizzarli sia sancita socialmente. (p. 247)
Esplicazione (cosa dice questo testo?) Bittner elenca tre possibili approcci allo studio delle organizzazioni formali. Il primo approccio consiste nell’ipotesi che la gente comprenda il concetto di ‘organizzazione formale’ allo stesso modo del ricercatore e attraverso lo studio di ciò che considera un’organizzazione formale. Il secondo inizia con il ricercatore che introduce la propria definizione e procede senza alcun riferimento alla comprensione da parte di altre persone. Nel terzo, il ricercatore prova a scoprire come il concetto venga applicato dalle persone che ne fanno uso per strutturare la propria azione. Spero che questo semplice esempio dimostri quanto sia complesso in realtà il funzionamento dell’esplicazione. Il testo è più corto di quello di Bittner, ma dice la stessa cosa? Ho avuto molte discussioni con gli studenti che lo hanno capito diversamente. Inoltre, molte volte la semplice traduzione da una lingua all’altra (come quando i miei studenti si esprimono in svedese o in italiano) modifica il contesto d’utilizzo: si traduce letteralmente? Oppure funzionalmente? Cioè cercando espressioni simili, ma non esattamente le stesse, nell’altra lingua (sono stati scritti molti testi a tal proposito; per esempio cfr. Eco, 2003)? Inoltre, si osservi il cambiamento di vocabolario: “persone la cui idoneità a farne uso sia socialmente sancita” equivale a “persone competenti” in linguaggio etnometodologico; “persone che ne fanno uso per
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strutturare la propria azione” è una definizione wittgensteiniana o pragmatista. Quindi un’esplicazione innocente è già a metà strada tra la spiegazione e l’esplorazione. Seguirò questa traccia. Spiegazione 1 (perché questo testo dice ciò che dice?) È facile vedere che Bittner scrive nel 1965. La rivoluzione etnometodologica è imminente – con Garfinkel, Sacks e lo stesso Bittner – e il principale nemico è il positivismo. La fenomenologia di Schütz è un sostegno e in parte rappresenta un punto di partenza: i concetti rimossi dal contesto del senso comune perdono il loro significato, ma i concetti che rimangono al suo interno non possono essere esaminati. Perciò, il primo ricercatore è un ingenuo, che non capisce su che cosa verte l’indagine. Probabilmente, è solo un fantoccio messo lì per distogliere l’attenzione dal vero obiettivo dell’attacco. Il secondo ricercatore è un positivista che non si preoccupa del mondo del senso comune: definisce solo la parola che gli si adatta e continua a studiare questo ‘figmento della sua immaginazione’ (tipica espressione usata a quei tempi nei dibattiti sociologici). Il terzo ricercatore è un bravo ragazzo; è un etnometodologista. Spiegazione 2 (come lo dice?) Al lettore di oggi, questo testo potrebbe apparire pesante e complicato. Il soggetto della prima frase è composto da quattro proposizioni, abbastanza da scoraggiare i lettori più coraggiosi. Ma questa apparente mancanza di classe, o di eleganza, potrebbe in realtà essere un segno di stile. Il testo di Bittner è contemporaneo a L’azione organizzativa di James D. Thompson (1967), che ho citato come esempio dello stile ‘scientistico’ così in voga negli anni ’60 e ’70 (Czarniawska, 1999a). Potrebbe anche essere che la pesante sintassi sia una traccia residua dell’influenza della filosofia tedesca sulla scrittura delle scienze sociali statunitensi. Osservate anche l’uso dato per scontato del pronome maschile.
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I tipi di spiegazione possono essere moltiplicati quasi all’infinito; possono anche essere combinati, a seconda dello scopo del lettore. Di fatti, tutti i tipi di analisi del testo presentati nei Capitoli 6 e 7 possono essere applicati al testo di Bittner. Ciò che hanno in comune, così come le mie due “spiegazioni”, è che tutti contrappongono il testo in esame ad altri testi, lo ‘contestualizzano’ (lo fa anche il decostruzionismo). Esplorazione Scrivendo 35 anni dopo Bittner, mi sembra ovvio che la terza strategia sia l’unica ad avere un senso. So, dalla mia dura esperienza di studio di culture diverse, che le persone di cui esamino le pratiche molto spesso usano gli stessi concetti in un modo opposto al mio. Ma Bittner non ha previsto una conseguenza del secondo metodo di ricerca: ossia che i ‘membri competenti’ acquisiranno familiarità con gli usi proposti dal secondo tipo di ricercatore e li scaglieranno contro il terzo tipo di ricercatore. Spesso, il ricercatore raccoglie solo ciò che i suoi colleghi hanno seminato prima di lui. L’ultimo commento, con la sua metafora agricola, è un’allusione all’intervista sul radicchio rosso: in quel caso, la giovane imprenditrice ha usato concetti di libri di testo in riferimento a situazioni quotidiane per dare significato alla propria esperienza. Neanche la vita quotidiana e le scienze sociali possono essere separati in modo sicuro: le scienze sociali alimentano la lettura che viene data di esse.
Esercizio Esercizio 5.1: esplicazione, spiegazione, esplorazione Prendi un breve testo (che potrebbe essere qualificato come tale secondo la definizione di Ricoeur) di uno dei tuoi scrittori di scienze sociali preferiti e analizzalo attraverso le tre fasi di lettura.
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6. Analisi strutturali
Un metodo tradizionale di analizzare una narrazione è l’analisi strutturale, un approccio vicino alla semiologia e al formalismo (Propp 1928; Saussure 1933; Barthes 1967). Questo approccio è stato adottato e sviluppato in antropologia da Claude Lévi-Strauss (1965). I sociolinguisti William Labov e Joshua Waletzky hanno sostenuto e migliorato l’analisi formalistica di Propp, suggerendo che la sociolinguistica si occupi di un’analisi sintagmatica di narrazioni semplici, che alla fine fornirà una chiave per capire la struttura e le funzioni di narrazioni complesse. La loro proposta è stata seguita da diversi sociologi (Watson, 1973; Mishler, 1986; Riessman, 1993).
6.1 La morfologia di una fiaba Vladimir Propp (1895-1970) era un membro del gruppo formalista russo; scrisse Morfologia della fiaba nel 1928, in un momento in cui la tradizione formalista era entrata in crisi in Unione Sovietica. Mikhail Bachtin e i suoi collaboratori svilupparono allora quello che può essere definito postformalismo, sotto le sembianze di critica marxista. Ma il libro di Propp è un classico esempio di analisi strutturale, applicata ad una raccolta di favole con lo scopo di descrivere il folklore slavo. Il suo libro fu tradotto in inglese solo nel 1968, dopo che Lévi-Strauss lo rese famoso con la sua analisi dei miti. Il fine di Propp era altamente scientifico: desiderava classificare le fiabe slave “secondo le parti componenti e le loro relazio-
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ni reciproche e col tutto” (Propp 1928/1966: 25), cioè darne una morfologia, come in botanica. Dopo aver analizzato 100 favole, su una raccolta di 449, egli rilevò che lo stesso personaggio può eseguire diverse azioni e che diversi personaggi possono eseguire la stessa azione. Alcune azioni possono avere significati diversi a seconda di quando e dove si svolgono nella storia, mentre altre hanno sempre lo stesso significato. Su questa base, Propp ha stabilito che l’elemento più importante del racconto è la funzione che l’azione di un personaggio gioca nell’insieme della storia. Di conseguenza, ha stilato un elenco di funzioni dove la funzione è intesa come “l’operato di un personaggio determinato dal punto di vista del suo significato per lo svolgimento della vicenda” (Propp 1928/1966: 27)1. Citerò questo elenco di funzioni, insieme alla loro definizione, ma evitando i simboli della logica formale, che, dal mio punto di vista, mistificano l’analisi piuttosto che chiarirla; Propp stesso infatti li abbandonò in seguito2. Segue l’elenco di 31 funzioni (Propp, 1928/1966: 32-70): 1. Uno dei membri della famiglia si allontana da casa (allontanamento). 2. All’eroe è imposto un divieto (divieto). 3. Il divieto è infranto (infrazione). 4. L’antagonista tenta una ricognizione (investigazione). 5. L’antagonista riceve informazioni sulla sua vittima (delazione). 6. L’antagonista cerca di ingannare la vittima per impadronirsi di lei o dei suoi averi (tranello). 1 Propp ha fatto una serie di affermazioni riguardanti “tutte le favole” che giudico altamente problematiche, ma non sono particolarmente rilevanti in questo contesto. 2 Ecco un esempio (Propp 1928/1966: 137), ho preso quello che era più semplice da digitare con la mia tastiera: “Analisi di una favola semplice ad un solo movimento, della categoria L-V, del tipo: rapimento di una persona (…) Un re con tre figlie (i). Queste vanno a passeggio (e3), si attardano in un giardino (q1). Un drago le rapisce (X1). Bando (Y1). Ricerche di tre eroi (W↑). Tre combattimenti con il drago (L¹-V¹), liberazione delle fanciulle (Rm⁴). Ritorno (↓), ricompensa (n0). e³q¹X¹Y¹W↑L¹-V¹Rm⁴ ↓n0 1”.
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7. La vittima cade nell’inganno e con ciò favorisce involontariamente il nemico (connivenza). 8. L’antagonista arreca danno o menomazione a uno dei membri della famiglia (danneggiamento). 8a. A uno dei membri della famiglia manca qualcosa o viene il desiderio di qualcosa (mancanza) [A questo punto, Propp si scoraggia e ammette la difficoltà di una classificazione per singoli punti]. 9. La sciagura o mancanza è resa nota; ci si rivolge all’eroe con una preghiera o un ordine, lo si manda o lo si lascia andare (mediazione, momento di connessione). 10. Il cercatore3 acconsente o si decide a reagire (inizio della reazione). 11. L’eroe abbandona la casa (partenza). 12. L’eroe è messo alla prova, interrogato, aggredito ecc., come preparazione al conseguimento di un mezzo o aiutante magico (prima funzione del donatore). 13. L’eroe reagisce all’operato del futuro donatore (reazione dell’eroe). 14. Il mezzo magico perviene in possesso dell’eroe (fornitura, conseguimento del mezzo magico). 15. L’eroe si trasferisce, è portato o condotto sul luogo in cui si trova l’oggetto delle sue ricerche (trasferimento nello spazio tra due reami, indicazione del cammino). 16. L’eroe e l’antagonista ingaggiano direttamente la lotta (lotta). 17. All’eroe è impresso un marchio (marchiatura). 18. L’antagonista è vinto (vittoria). 19. È rimossa la sciagura o mancanza iniziale (rimozione della sciagura o della mancanza). 20. L’eroe ritorna (ritorno). 21. L’eroe è sottoposto a persecuzione (persecuzione, inseguimento). 22. L’eroe si salva dalla persecuzione (salvataggio). Un gran numero di racconti finisce qui, afferma Propp, ma non tutti. Fiabe più complesse hanno ulteriori funzioni: Così nella tradizione italiana Einaudi (1966: 44), ma il lettore tenga conto che il “cercatore” è l’eroe stesso in quanto considerato come un eroe-cercatore e non come l’eroe-vittima che compare in altre combinazioni fiabesche (N.d.T). 3
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23. L’eroe arriva in incognito a casa o in un altro paese (arrivo in incognito). 24. Il falso eroe avanza pretese infondate (pretese infondate). 25. All’eroe è proposto un compito difficile (compito difficile). 26. Il compito è eseguito (adempimento). 27. L’eroe è riconosciuto (identificazione). 28. Il falso eroe o l’antagonista è smascherato (smascheramento). 29. L’eroe assume nuove sembianze (trasfigurazione). 30. L’antagonista è punito (punizione). 31. L’eroe si sposa e sale al trono (nozze).
Propp individuò anche altri elementi nella storia, tra i quali il più interessante è la divisione della sfera d’azione tra diversi personaggi: l’Antagonista, il Donatore, l’Aiutante, la Principessa, il Padre della principessa, il Messaggero, l’Eroe e il Falso Eroe.
6.2 Morfologia delle teorie evolutive La paleoantropologa Misia Landau (1984, 1991) ha osservato che le varie teorie dell’evoluzione umana possono essere viste come versioni del racconto dell’eroe universale nel folklore e nel mito. Avendo applicato l’analisi di Propp a questi testi, fu in grado di dimostrare che le storie hanno tutte una struttura simile, a nove parti, e presentano un umile eroe (un primate non umano) che parte per un viaggio (lascia il suo habitat naturale), riceve aiuto o attrezzature essenziali da una donatore (un principio evoluzionistico, come ad esempio la selezione naturale o ortogenesi), passa attraverso una prova (imposta da predatori, clima rigido o rivali) e infine arriva ad un livello più alto (cioè più umano). Fino a quel momento le teorie evolutive erano tutte centrate sul finale [ending-embedded] cioè vedevano l’emergere dell’umanità come scopo dell’evoluzione (cfr. il paragrafo ‘Copioni e schemi’) – e queste storie, basate sulla predizione del futuro, indugiano tra lieto fine e disastro.
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Analizzando le storie classiche e moderne sull’evoluzione, Landau non ne ha mostrato solo la forma narrativa comune, ma ha anche dimostrato come questa forma accoglie differenze di significato – vale a dire, sequenze di eventi, di eroi e di donatori. Di conseguenza, le interpretazioni del registro fossile differiscono a seconda di quello che il paleontologo ritiene sia il donatore (cioè l’agente evolutivo primario). La lettura di Landau conferma l’osservazione di Bruner secondo cui la narrazione è il modello perfetto per la negoziazione del significato. Molti narratori – Thomas Henry Huxley, Arthur Keith, Elliot Smith – hanno combattuto grandi battaglie contro i propri avversari (Huxley contro Owen; Keith e Smith contro entrambi), senza mai menzionarli esplicitamente. Invece di impegnarsi in un dibattito scientifico, hanno cercato di ‘superare narrativamente’ i loro concorrenti. La sua conclusione è che gli scienziati abbiano molto da guadagnare dalla consapevolezza di essere narratori di storie e che una comprensione della narrazione possa fornire strumenti per la creazione di nuove teorie scientifiche e per l’analisi di quelle già esistenti. Lo scopo del suo esercizio era liberare la paleontologia dal suo corsetto narrativo convenzionale e aprirle la strada verso nuove forme di narrazione. Infatti, in un lavoro successivo (1987), ella ha confrontato la teoria evolutiva con il Paradiso Perduto di Milton. L’uso che Landau ha fatto dell’analisi di Propp è istruttivo perché è estremamente consapevole del proprio scopo. Come ha detto lei stessa: “lo scopo principale nell’adattare le teorie dell’evoluzione umana a una cornice comune non è dimostrare che esse vi si adattino” (1991: 11-12). Le finalità possono essere due: o dimostrare che esse vi si adattano nonostante la loro diversità, ovvero che esse mantengono valori culturali tradizionali, come nel caso della paleontologia; oppure mostrare che i testi sotto esame si discostano dallo schema generico, ovvero che sovvertono i valori culturali dati, come, nel caso del romanzo del diciannovesimo secolo, è stato dimostrato da Jameson nel 1981.
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Mostrare solamente che l’analisi di Propp può essere applicata ad un testo non sarebbe stata una grande rivelazione.
6.3 Il modello attanziale Molti autori che utilizzano l’analisi strutturale4, non da ultimo nella sociologia della scienza e della tecnologia, usano il ‘modello attanziale’ suggerito dal semiologo francese di origine lituana, Algirdas Greimas (si veda, ad esempio, Greimas e Courtés, 1982/2007). Greimas ha preso il lavoro di Propp come punto di partenza per sviluppare un modello che comprendesse i princìpi organizzativi di tutti i discorsi narrativi. In modo per certi versi simile a Ricoeur, egli ha distinto fra livello discorsivo (enunciazione) e livello narrativo (espressione), cioè tra i modi in cui la narrazione viene raccontata e la narrazione stessa5. Greimas ha introdotto la nozione di programma narrativo, un cambiamento dello stato delle cose prodotto da un qualsiasi soggetto che condizioni un altro soggetto – equivalente all’intreccio minimo, secondo la definizione di Todorov citata in precedenza. I programmi narrativi si concatenano l’un l’altro in una successione logica, formando un percorso narrativo. Greimas ha individuato uno schema narrativo canonico che include tre istanze essenziali: la qualificazione del soggetto, che lo introduce nella vita; la sua ‘realizzazione’, attraverso qualcosa che egli ‘fa’; infine la sanzione – retribuzione e ricompensa insieme – che è l’unica a garantire il senso dei suoi atti e ad instaurarlo come soggetto secondo l’essere. (Greimas e Courtés, 1982/2007: 216)
4 Ad esempio, Donna Haraway (1992), Catherine Hayles (1993), François Cooren (2000; 2001), Daniel Robichaud (2003) e Anne-Marie Søderberg (2003). Si veda anche Timothy Lenoir (1994) per osservare un parere più cauto. 5 Non credo sia scorretto vedere la lettura come una sorta di enunciazione, anche se potrebbe portare gli autori a elaborare teorie troppo vicine tra loro.
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È da notare che Greimas usava il pronome ‘esso’: egli infatti parlava qui di un soggetto grammaticale, che non è detto sia una persona. Egli ha sostituito il termine ‘personaggio’ con il termine ‘attante’ – nel senso di colui ‘che compie o subisce l’atto’ (p. 17) – “poiché sussume non soltanto gli esseri umani, ma anche gli animali, gli oggetti o i concetti”. Ciò ci permette di notare come gli attanti cambino ruolo durante una narrazione: un attante può diventare un attore, ossia acquisire carattere di soggetto, oppure rimanere oggetto dell’azione di qualcun altro. “Così, l’eroe sarà tale solo in certe posizioni del racconto: non lo era affatto prima, può non esserlo più dopo” (1982/2007: 18). “Definito in questo modo, l’attante non è un concetto fissato una volta per tutte, ma una virtualità che sussume un intero percorso narrativo” (Ibid.: 21). Questi elementi dello strutturalismo di Greimas hanno reso interessante la sua teoria per gli studiosi di scienza e tecnologia, che intendevano dare maggiore spazio alle macchine e ai manufatti nelle loro narrazioni e si sentivano oppressi dai concetti di ‘attore’ e ‘azione’ i quali sottintendono chiaramente un carattere umano e una condotta basata su intenzioni. Le definizioni di ‘attante’ e ‘programma narrativo’ erano molto più adatte per loro. Inoltre, per come la vedo io, le ambizioni universalistiche di Greimas non erano per loro di grande importanza. Di conseguenza, per esempio Bruno Latour non ha applicato il modello di Greimas, ma lo ha usato, nel senso in cui questa parola era intesa da Rorty. Secondo Latour, per questa via, gli studi sociali sulla tecnologia guadagnano una nuova risorsa narrativa. In Technology is society made durable (1992), egli presentò la storia dell’invenzione della fotocamera Kodak e la simultanea emergenza della fotografia dilettante come fenomeno di massa, inteso come sequenza di programmi narrativi e antiprogrammi narrativi (usando il punto di vista di Eastman). Di seguito un esempio, dove le maiuscole indicano gli attanti:
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Programma: professionista-dilettante(A)/collodio bagnato (C) 1850/ produzione della carta (D) antiprogramma: fare tutto da soli e subito. (Latour, 1992: 111)
Mentre l’invenzione del collodio bagnato e la possibilità di produrre carta avevano rappresentato per Eastman nuovi modi per servire fotografi dilettanti e professionisti, allo stesso tempo avevano reso possibile ai fotografi fare tutto da soli, il che andava contro l’interesse di Eastman. Così Eastman nel 1860-70 escogita un nuovo programma: produrre lastre fotografiche di collodio secco, un programma a cui non ha fatto seguito alcun antiprogramma per molto tempo. Il racconto procede, continua Latour, ed è segnato da due operazioni: l’associazione, chiamata sintagma in narratologia, e la sostituzione, detta paradigma. “Il rullino ha sostituito le lastre e il collodio secco ha sostituito il collodio bagnato, i capitalisti sostituiscono altri capitalisti, e soprattutto il consumatore medio sostituisce i professionisti-dilettanti di un tempo”(1992: 113). Ma la questione che interessava Latour, e il motivo per cui ha condotto questa analisi greimasiana, era la questione del potere: Il consumatore finale è costretto ad acquistare una fotocamera Kodak? In un certo senso sì, dal momento che l’intero scenario è ora costruito in modo tale che non esista alcun modo di procedere se non correre al negozio di Eastman. Tuttavia, questo predominio è evidente solo alla fine della storia. In molti altri passaggi della storia, l’innovazione era altamente flessibile, negoziabile, alla mercé di un evento contingente. (1992: 113)
Questa è una differenza importante tra l’analisi di Latour e quella convenzionale delle scienze sociali. La lettura di Latour ha costruito la storia come centrata sulle evenienze [outcome-embedded]: ogni episodio è determinato dall’esito dell’episodio precedente (si veda su questo punto anche il paragrafo successivo). La scienza sociale usuale è piuttosto centrata sul fine da raggiunge-
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re (ending-embedded) ovvero teleologica (cfr. Landau, 1991, che ha citato la paleontologia come esempio tipico). Così, conclude Latour, un’innovazione è solo una linea sintagmatica, che collega tra loro i programmi contenenti attanti – umani e non umani – che sono stati reclutati per contrastare gli antiprogrammi. Ogni volta che è sorto o è stato introdotto un antiprogramma, ad esempio dai concorrenti, Eastman Kodak è riuscito a reclutare nuovi attanti per il programma successivo. Così facendo, Eastman Kodak è diventato un attore importante, ma solo alla fine della storia. Contrariamente a molti racconti epici, non c’era niente nel ‘carattere’ di Eastman Kodak all’inizio della storia che potesse aiutare l’osservatore a prevedere il suo successo finale. Era un attante come qualsiasi altro, ed è diventato un attore perché è riuscito a reclutare molti altri attanti per il sostegno della sua causa. Ma, in molti momenti della storia, Eastman Kodak avrebbe potuto condividere il destino di molti altri imprenditori finiti in bancarotta e sconosciuti. Si potrebbe quindi riassumere la procedura di Latour e Greimas come segue. Essa inizia con l’identificazione degli attanti, quelli che agiscono e quelli che subiscono l’azione. Quindi, si seguono gli attanti attraverso un percorso – una serie di programmi e antiprogrammi – fino a che diventano attori, vale a dire acquisiscono un carattere distintivo e relativamente stabile. Quali attanti hanno la possibilità di diventare attori? Coloro che con i loro programmi sono riusciti a combattere gli antiprogrammi; in alternativa, coloro i cui antiprogrammi hanno vinto, come nelle storie di opposizione e resistenza. Questo successo, suggerì Latour, si deve all’associazione, ossia alla formazione e stabilizzazione di reti di attanti, che possono poi presentarsi come reti di attori. Latour ha utilizzato molti altri concetti di Greimas nella sua analisi, che è più lunga e più complessa di come io la presenti qui. Tuttavia, vorrei richiamare l’attenzione su due aspetti della sua analisi strutturalistica. Per cominciare, Latour non ha presentato l’intero apparato di Greimas, ma ne ha utilizzato sem-
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plicemente delle parti6. Non sembrava interessato a dimostrare la sua conoscenza o abilità nell’utilizzo del modello: egli lo usa perché gli permette di dire cose sull’argomento di suo interesse – innovazione e potere – e che non avrebbe potuto dire altrimenti. Con il rischio di sembrare troppo normativa, voglio esprimere la convinzione che l’analisi narrativa dovrebbe essere utilizzata per chiarire questioni di interesse scientifico-sociale e non per il gusto di usarla. Propp e Greimas hanno mostrato quali sono le strutture canoniche delle narrazioni; gli scienziati sociali devono mostrare le conseguenze che esse hanno nella e per la vita sociale. 6.4 Sceneggiature e schemi In psicologia, l’interesse per le storie o almeno per la narrazione (‘enunciazione’) iniziò con Frederic C. Bartlett e i suoi studi sulla memoria (1932). Mentre Jerome Bruner e Donald E. Polkinghorne introdussero la narrazione nella psicologia nelle sue versioni letterarie, gli psicologi cognitivi svilupparono le nozioni legate a quelle di sceneggiatura (si veda, ad esempio, Schank e Abelson, 1977) e schema (Mandler, 1984). Jean Matter Mandler suggerisce che è importante distinguere tra la grammatica di una storia e lo schema di una storia: La grammatica di una storia è un sistema di regole ideato allo scopo di descrivere delle regolarità che si riscontrano in un certo tipo di testo. Le regole descrivono le unità di cui le storie sono composte, cioè la loro struttura costitutiva; e l’ordine delle unità, vale a dire la sequenza con cui compaiono i componenti. Lo schema di una storia, d’altra parte, è una struttura mentale che consiste in una serie di aspettative sul modo in cui le storie si sviluppano. (1984: 18) 6 Latour non ha nemmeno citato neanche Greimas – è noto da altri suoi testi che lo usa come ispirazione (vedi, ad esempio, Latour, 1988, 1993a). Un comportamento simile non è raccomandato a giovani studiosi, ma ci fa capire che l’uso di un modello specifico è non il nocciolo della questione.
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Nella mia interpretazione, la grammatica di una storia è l’analisi del testo, una ricerca di intentio operis o una strategia semiotica; lo schema è il repertorio di intrecci tipico di una determinata comunità di interpreti. Mandler fornì un esempio di analisi della grammatica del racconto in cui utilizzò categorie ispirate da Propp, ma ampliate e riformulate (1984: 22-30). Come altri strutturalisti, Mandler assunse che tutte le storie abbiano una struttura di base che rimane relativamente invariata nonostante le differenze di contenuto tra diverse storie: 1 Un’ambientazione che introduce il protagonista e gli altri personaggi, e indicazioni sul tempo e sul luogo della storia. Uno o più episodi che formano un intreccio della storia con una struttura similare: 2 Episodi(o): 2A Un inizio (uno o più eventi) 2B Uno sviluppo: – la reazione del protagonista: semplice (rabbia, paura) o complessa. Se è complessa, è seguita da: – la definizione di un obiettivo (cosa fare per l’evento iniziale), – un percorso da seguire per conseguire l’obiettivo, un esito (successo o fallimento) 2C Il finale, che include delle osservazioni riguardo le conseguenze dell’episodio, o una riflessione del protagonista o del narratore. La fine dell’episodio conclusivo diventa: 3 Il finale, che potrebbe anche contenere una lezione morale.
Gli episodi possono essere collegati temporalmente o causalmente, secondo le due regole dell’associazione. Ci sono due tipi di connessioni causali. Un primo tipo è la connessione centrata sul finale (ending-embedded): il finale svela la sostituzione o la trasformazione ovvero una nuova combinazione tra protagonista e obiettivo (ad esempio: dopo che lo spasimante le ha salvato la vita, l’eroina capisce che lo ha sempre amato). Un secondo tipo è invece centrato sulle evenienze (outcome-embedded): la struttura della storia e le connessioni tra gli episodi dipendono dall’esito
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del singolo episodio e quindi possono cambiare durante la storia (per esempio, un fallimento dell’eroe porta ad un susseguirsi di eventi o di antiprogrammi). Per usare una definizione di Hayden White, i metodi consueti per intrecciare il racconto [emplotment] sono questi. Come si è detto nei paragrafi precedenti, gli intrecci centrati sul finale sono tipici delle teorie tradizionali delle scienze sociali, mentre gli intrecci centrati sulle evenienze caratterizzano le teorie che tengono conto delle contingenze. Mandler ed i suoi collaboratori hanno effettuato una serie di esperimenti finalizzati all’analisi delle strutture cognitive e della memoria. In uno degli esperimenti essi hanno creato tre tipi di racconti (soltanto temporale, centrati sul finale e centrati sulle evenienze) ma li hanno presentati come un elenco di eventi non collegati tra loro, omettendo locuzioni come ‘e’ e ‘allora’ e persino segni di punteggiatura. I soggetti dell’esperimento hanno subito collegato gli eventi, a volte seguendo la grammatica consueta – la versione ‘canonica’ – e altre volte presentando strutture alternative (vale a dire, uno schema). In un altro esperimento, Mandler ed i suoi collaboratori hanno presentato due versioni del racconto: una versione schematica (connessione solamente temporale), un’altra con episodi concatenati (“… nel frattempo”). Ripetendo il racconto concatenato, molti soggetti ( in particolare, i bambini) hanno ricostruito una storia schematica piuttosto che la storia che avevano ascoltato in realtà (entrambe le versioni erano perfettamente comprensibili). Vi prego di tenere a mente questo esperimento quando leggerete il prossimo capitolo.
6.5 Altri tipi di analisi strutturali Sebbene le analisi descritte precedentemente siano le più conosciute, non sono gli unici tipi di analisi strutturale. Tali analisi vengono effettuate in molte discipline, dalla teoria letteraria alla
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linguistica, alla semiotica, all’etnometodologia. In effetti, come sottolineato da Latour (1993a), la semiotica può essere considerata come un’etnometodologia dei testi, un’analogia che è facile da comprendere se si assume, grazie a Ricoeur, che il testo è il frammento scritto di un discorso. L’analisi narrativa è parte dell’analisi retorica: la narratio è la seconda parte in un’orazione classica composta di sei parti (cfr. anche Capitolo 9). La pentade di Kenneth Burke – Agente, Attività, Scopo, Scena, Azione – che deriva dalla tradizione retorica, è stata molto utilizzata nelle scienze sociali (Burke, 1968, Overington, 1977a; 1997b; Mangham e Overington, 1987; Czarniawska, 1997/2000) e ci ritornerò nel Capitolo 8. Nella mia analisi narrativa, sono particolarmente interessata al lavoro di Tzvetan Todorov, molto probabilmente perché il suo modo di scrivere mi coinvolge molto. Credo che l’affinità con un autore faciliti l’uso del suo metodo. Todorov è un teorico della letteratura, quindi specialista di una materia che mi è più familiare della semiotica o della linguistica e usa l’analisi strutturale in modo non convenzionale, prendendo in prestito liberamente da Propp e Greimas, ma senza seguire in modo esatto l’uno o l’altro. Nella prefazione della Poetica della Prosa di Todorov, il teorico letterario americano Jonathan Culler ha riassunto molto succintamente: “Quando la poetica studia le opere individuali, cerca non di interpretarle ma di scoprire la struttura e le convenzioni del discorso letterario, che permettono loro di avere i significati che hanno” (Culler, 1977: 8). In questa frase, basterebbe cambiare l’aggettivo da ‘letterario’ a ‘sociale’ e il programma, secondo me, funzionerebbe perfettamente nelle scienze sociali. Todorov era particolarmente interessato alla struttura dell’intreccio. In questo, egli è vicino a Propp e Greimas, nel senso che gli attori – o personaggi – sono il risultato non di singole azioni, ma di una serie di azioni. Gli attanti diventano ‘personaggi’ se riescono a mantenere lo stesso ruolo attraverso una serie di azioni; o, per usare i termini di Greimas, se la loro pre-
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stazione porta all’acquisizione di una competenza. Ma una serie di azioni resta tale solo in un racconto incompleto o in un racconto basato sulla vicinanza temporale o spaziale; in una storia completa, le connessioni sono il risultato del lavoro di intrecciamento. Di conseguenza, l’intreccio è un elemento centrale in una narrazione; è l’intreccio stesso che creerà i personaggi. Un pagliaccio visto in una scena di apertura si trasformerà in un personaggio tragico se si tratta di una tragedia, o di un’opera tragicomica. Ciò che merita attenzione è quindi il tipo di connessione esistente tra gli episodi. Di seguito, cito una storia che mi è stata raccontata da uno dei miei interlocutori di Stoccolma in merito alla gestione delle acque e delle fogne in città (Czarniawska, 2002). Come molte storie, essa inizia con la descrizione di uno stato di cose tanto negativo da dover essere cambiato: (Dis)equilibrio 1 Nel XIX secolo Stoccolma fu tormentata da un’epidemia. La gente aveva contratto diversi tipi di malattie allo stomaco e la causa era chiara: l’arretrata gestione dell’acqua e il consumo di acqua sporca. Così la città visse epidemie di colera e molte altre malattie che oggi si trovano solo nei paesi in via di sviluppo, alta mortalità infantile, ecc. Azione 1 La soluzione era costruire impianti idrici, opera realizzata alla fine del secolo. Il passo successivo era occuparsi delle fogne, Equilibrio 1 Questa è stata una rivoluzione, una rivoluzione nell’igiene pubblica. Fu fantastico il modo in cui furono risolti i problemi igienici della società. Complicazione 1 Ma presto fu chiaro che i problemi erano solo stati allontanati, non realmente risolti. L’acqua dei laghi e del mare era diventata così inquinata che era impossibile nuotarci dentro.
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Azione 2 Fu allora che i primi impianti di depurazione cominciarono a essere costruiti. Il primo impianto di depurazione, che utilizzava dispositivi meccanici, è stato aperto a Stoccolma nel 1934. Nel 1941 ne fu costruito un secondo più grande, un terzo nel 1950. Equilibrio 2 Da quel momento in poi, le tecniche di purificazione migliorarono costantemente. Più tardi, fu creato e migliorato il trattamento dell’acqua. Negli anni ’60 l’attenzione si è spostata sulle questioni ambientali. La prima legge sulla tutela ambientale fu applicata in Svezia nel 1969. Fu estremamente utile per migliorare la situazione degli scarichi e per la conseguente diminuzione dell’inquinamento ambientale in generale e dell’acqua in particolare. Complicazione 2 Ma la società moderna diventa sempre più complessa. Vedi tu stessa come il traffico aumenta con il tempo e come elementi pericolosi nell’ambiente – biocidi e fungicidi –creano sempre più problemi. Azione 3 Questo problema ha trovato la sua espressione durante la famosa conferenza di Rio che ha adottato il termine ‘sviluppo sostenibile’, coniato dal Rapporto Brundtland. Tutti i capi di stato partecipanti hanno firmato la dichiarazione di Rio, dando così maggiore rilevanza alle tematiche dell’ambiente. Equilibrio 3 Oggi parliamo di tutela ambientale, ma lo facciamo in termini di sostenibilità, in termini di circolazione e gestione delle risorse naturali. Si tratta di una prospettiva molto più ampia che alza l’asticella delle aspettative. Il livello di difficoltà è seriamente aumentato. La Stockholm Water è un tipico esempio di azienda di ingegneria ambientale. È proprio in questo tipo di società che il concetto di sviluppo sostenibile a lungo raggio, è più centrale … Cerchiamo di avere una visione olistica delle cose: vediamo l’acqua di Stoccolma come una risorsa naturale che abbiamo in prestito; la usiamo per
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soddisfare le esigenze della città, ma a quel punto l’acqua è stata purificata in modo tale da poter essere restituita, ritornare alla circolazione naturale senza alcun danno. È con questo scopo che lavoriamo: per migliorare, per ottimizzare questo sistema. (Stoccolma, Osservazione 5/1)
Sembra una storia abbastanza ordinaria: ogni volta che l’equilibrio è sconvolto, viene intrapresa un’azione per ripristinarlo; quando si verificano complicazioni, ci si occupa anche di esse. Ma ci sono alcune caratteristiche originali in questa storia. Per cominciare, non è facile fare un elenco completo degli attanti: le ‘persone dell’acqua’, locali e globali, sono abbastanza evidenti; così come lo sono ‘la città’ e gli ‘inquinatori’ (umani e non umani), ma chi, o cosa, sta dietro alle complicazioni o antiprogrammi? Chi, oltre alle autorità cittadine, è artefice dei programmi? Sembra che esistano tre attanti, praticamente assenti dal punto di vista grammaticale (con una sola eccezione, nella complicazione 2: “la società moderna diventava sempre più complessa”): società, natura e scienza. Sia la società che la natura sono, anche se involontariamente, artefici degli antiprogrammi: la scienza rappresenta invece tutti i programmi positivi, anche se non viene detto esplicitamente. Vorrei sottolineare che questa è una tipologia di narrazione che Propp non poteva trovare in una collezione di fiabe perché è una storia moderna. Ha due attanti consueti, che potrebbero cambiare il loro carattere anche all’interno della stessa storia: la società e la natura possono creare problemi o soluzioni. Il terzo attante importante, la scienza, si trova inevitabilmente in una storia moderna in una maniera simile al fato nelle storie classiche, come forza contro la quale non si può opporre resistenza. Tuttavia, differisce dal fato nel percorso. La scienza non arriva mai ad un finale e non raggiunge l’equilibrio; si muove in avanti e in alto in un costante progredire. L’intreccio di una storia moderna si basa su questi due meccanismi: la società e la natura
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causano squilibri e la scienza ripristina l’equilibrio ad un livello sempre più alto. Questa è un’altra storia di evoluzione, in versione ottimistica.
Esercizio Esercizio 6.1: analisi strutturale Tenta di formulare un’analisi strutturale de “La mia vita finora”.
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7. Letture ravvicinate: Poststrutturalismo, Interruzione, Decostruzione
Prima ancora di riuscire ad acquisire legittimità nelle scienze sociali, lo strutturalismo fu spazzato via dal poststrutturalismo. Il passaggio dallo strutturalismo al poststrutturalismo non fu drastico come può sembrare. Ha significato soprattutto abbandonare ‘la profondità’ per ‘la superficie’: se le strutture profonde sono dimostrabili, devono essere osservabili. Le strutture non possono più essere ‘trovate’, perché sono già state inserite nel testo da chi lo legge, compreso l’autore (dopo tutto, leggere un testo significa riscriverlo). Ciò significava abbandonare l’idea che vi sia una struttura universale del linguaggio o della mente e accettare l’idea di un comune repertorio di strategie testuali, riconoscibili dallo scrittore e dal lettore. Questo rilassamento nelle ipotesi di base ha portato come conseguenza a rendere la tecnica più flessibile: dal momento che non esiste una vera struttura profonda da scoprire, diverse tecniche possono essere applicate per strutturare un testo e consentirne così una nuova lettura. Invece di tentare una esposizione dogmatica del decostruzionismo, in questo capitolo lo porrò alla pari con altri modi come strumento per ‘interrogare’ un testo: il capitolo contiene un riesame di approcci che, seppur chiamati con nomi diversi, hanno in comune la stessa finalità di scoprire “ciò che un testo fa” piuttosto che “ciò che dice”, per prendere in prestito la distinzione di Silverman e Torode (1980).
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7.1 Poststrutturalismo in azione L’esempio di utilizzo del poststrutturalismo, che voglio citare qui, è insolito e altamente istruttivo. Una sociologa australiana, Bronwyn Davies, era interessata a capire come le persone apprendono a quale genere sessuale appartengono: il suo punto di partenza era l’assunto che i bambini imparino a diventare maschi o femmine e che lo facciano attraverso l’apprendimento di pratiche discorsive in cui tutte le persone sono collocate come maschi o come femmine (Davies, 1989)1. Davies ha adottato il poststrutturalismo come suo discorso (nel senso di ‘vocabolario’) perché le forniva gli strumenti – i dispositivi – concettuali per dar significato alla sua materia, formulando risposte alle domande della sua ricerca. Lo ha scelto perché è un discorso radicale che “ci permette di andare oltre il concetto di dualismo maschio-femmina come inevitabile, di pensare ai processi costitutivi attraverso i quali ci attribuiamo una posizione come maschio o come femmina e che possiamo cambiare se lo scegliamo”(1989: xi). A mio avviso, si tratta di una motivazione eccellente per la scelta di un determinato approccio. In un dato momento, esistono diversi approcci o linguaggi, che sono in linea di principio altrettanto applicabili ad una determinata ricerca. Quello che i foucaultiani chiamano ‘discorso’, i nuovi istituzionalisti lo chiamano ‘sistema di significato’. La scelta è in realtà un processo attivo di allineamento. È più facile applicare un approccio narrativo a materiale composto da testi scritti con parole, ma può anche essere applicato a testi scritti con numeri. Ci sono molti autori che promuovono l’approccio strutturalistico, come ho mostrato nel capitolo precedente, ma alcuni scienziati sociali optano per una variante linguistica dello strutturalismo, alcuni per un approccio semiotico, alcuni, come me, per uno letterario e altri ancora deci1 Ulteriori informazioni sulle posizioni assunte in merito alla formazione dell’identità si possono trovare in Davies e Harré (1991).
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dono di creare la propria combinazione. Le mode, i cambiamenti al potere, le tendenze estetiche svolgono tutti un ruolo chiave nella scelta di un approccio, e lo stesso vale per i ragionamenti logici. Come fece notare lei stessa, Davies aveva bisogno di un approccio radicale, dal momento che aveva deciso di cercare risposte ad uno degli argomenti più dati per scontati in assoluto. Una parte dell’indagine di Davies – che non sarò in grado di riportare in versione integrale – ha riguardato la lettura di numerose revisioni in chiave femminista di note favole per bambini di 4-5 e 7 anni. Ella ha trascorso molte ore con ciascun bambino nel corso di un anno, leggendo storie e discutendo del loro pensiero sul contenuto di ciascuna di esse. Una delle storie era una variante del noto racconto “una principessa prigioniera del drago salvata dal principe”. È proposta come segue: All’inizio della storia, la principessa Elizabeth e il principe Ronald stanno progettando di sposarsi, ma poi arriva il drago, brucia il castello e gli abiti di Elizabeth e vola via con il principe Ronald tenendolo dal cavallo dei pantaloni. Elizabeth è molto arrabbiata. Trova un sacco fatto di carta da indossare e segue il drago. Lo inganna mostrando tutti i suoi poteri magici finché questi non si addormenta esausto. Si precipita nella grotta del drago per salvare Ronald, ma scopre che Ronald non vuole essere salvato da una principessa coperta di cenere e che indossa un vecchio sacco di carta. Elizabeth è abbastanza sorpresa da questa svolta negli eventi e dice: “Ronald, i tuoi vestiti sono davvero belli e i tuoi capelli sono davvero in ordine. Sembri un vero principe, ma sei solo un cretino”. Le ultime pagine mostrano la principessa allontanarsi da sola al tramonto e la storia finisce con le parole: “Non si sono sposati, dopotutto” (1989: viii)
Nella chiacchierata che seguì, le tre bambine si misero nella posizione della principessa, che sembrava loro bella e gentile. Tutte capirono il piano di Elizabeth e conclusero che Ronald non era gentile. Una di loro, tuttavia, credeva che Elizabeth avrebbe dovuto fare come le aveva detto Ronald: andare via, cambiarsi e tornare quando fosse somigliata di più ad una vera principessa.
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Tra i quattro maschietti, tre di loro volevano essere nella posizione del principe. Due di loro credevano che il principe fosse intelligente; il terzo bambino non pensava che il principe fosse gentile ma voleva comunque essere come lui. Il quarto considerò il principe ‘non molto buono’ e ‘stupido’ e voleva essere il drago, “il drago più intelligente e più forte del mondo”. Anche se i ragazzi capirono il piano di Elisabeth, tutti loro rifiutarono di posizionarla come personaggio centrale, attribuendo tale ruolo a Ronald o al drago. Ad esempio, i due ragazzi che hanno considerato Ronald intelligente, hanno sostenuto che “Ronald tiene astutamente la sua racchetta da tennis stretta in mano ed è il motivo per cui rimane sospeso in aria”(Ivi, 61) e che “indossa una maglia da tennis e ha vinto la medaglia d’oro” (Ivi, 62). Tutti i ragazzi erano preoccupati per l’aspetto di Elizabeth: è “disordinata”, “disordinata e sporca”, “disgustosa”. “Le direi: ‘sembri un’idiota dentro quel vecchio sacco di carta’ “(62). Secondo Davies, ci sono molti indizi per credere che il problema principale non fosse lo sporco ma la momentanea nudità di Elizabeth, anche se non viene mai detto espressamente. Ad ogni modo, questo è un esempio della complessa connessione tra mimesi e intreccio, menzionata nel capitolo 2: la descrizione della principessa come sporca autorizza e giustifica un certo tipo di intreccio. Davies ha raggruppato i bambini non secondo il sesso, ma secondo la loro comprensione del fatto che Elizabeth sia l’eroina della storia e che Ronald non sia gentile. Si è scoperto che i quattro intervistati che avevano compreso l’interpretazione femminista della storia hanno madri che lavorano e padri che si occupano dei lavori domestici più della media maschile. I tre intervistati che avevano visto l’azione di Elizabeth come mirata a riprendersi il suo principe e a salvare il futuro matrimonio hanno madri casalinghe, anche se due di loro hanno una buona istruzione. Davies sottolineò però che sarebbe un errore intendere come causale la connessione tra la capacità dei bambini di immaginare le donne come agenti attivi nel mondo pubblico e le madri
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lavoratrici. Se esistesse tale connessione, la soluzione alla disuguaglianza di genere sarebbe semplicemente mandare tutte le donne a lavorare. “Ma non è detto che il lavoro che una donna fa sia necessariamente accompagnato da pratiche discorsive che la rendano agente o le diano potere” (Ivi: 64). In effetti, potendo confrontare un team di sole donne con uno tutto maschile che ricopriva fondamentalmente la stessa posizione nell’amministrazione urbana a Varsavia e a Stoccolma, sono stata colpita dal modo differente in cui i due gruppi parlavano durante e del loro lavoro. Mentre gli uomini erano palesemente convinti sia della difficoltà che dell’importanza del proprio lavoro, le donne parlavano allo stesso modo – e spesso passando da un argomento all’altro – delle proprie responsabilità, delle loro ultime vacanze estive o del lavoro a maglia. Nel secondo anno del suo studio, Davies ha continuato a visitare un certo numero di scuole materne e di centri per bambini per osservare il modo in cui i bambini parlano e agiscono nella vita quotidiana. La lettura di storie era solo una parte di queste visite e, anche se le discussioni non erano molto lunghe, hanno portato a più interpretazioni de La principessa e il drago, alcune delle quali in un’ottica apertamente sessuale. Ciononostante, la linea interpretativa dominante è stata quella di un amore romantico. Per i maschietti, Elizabeth è in errore quando si presenta al principe sporca e nuda. Si aspettano che le sue azioni dimostrino la sua bontà e le sue virtù, ma considerano un diritto di Ronald di rifiutarle, in quanto insufficienti. Le ragazze sono sconcertate dal rifiuto di Ronald da parte di Elizabeth, che lei amava all’inizio, e dalla sua decisione di prendere il controllo della propria vita. Dopotutto, in una trama romantica tradizionale, non c’è spazio per pensieri egoistici e rabbia: “Il potere della struttura preesistente della storia tradizionale di impedire che una nuova forma di narrazione venga ascoltata è onnipresente”, concluse Davies (1989: 69). E, come le direbbe probabilmente Jean Matter Mandler, le narrazioni tradizionali sono più facili da ricordare.
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7.2 Interruzione David Silverman e Brian Torode (1980) avevano già messo in evidenza che nuovi sviluppi in linguistica, semiotica e teoria letteraria avrebbero potuto acquisire una rilevanza più generale per gli scienziati sociali e non solo in settori specifici come la sociolinguistica. Silverman e Torode notarono la vicinanza tra etnometodologia e semiotica prima di Latour opponendosi alla differenziazione tra discorso e narrazione, enunciazione ed espressione, conversazione e testo: a loro avviso, essi possono essere tutti avvicinati in maniera simile. Seppur non fecero un diretto riferimento a lui, si trovarono d’accordo con de Certeau (1984/1988), secondo il quale non esiste una chiara linea di separazione tra scrittura e lettura ovvero tra la produzione di un testo e il suo utilizzo. Silverman e Torode scelsero, invece, di contrapporre all’interpretazione una ‘interruzione’ (secondo la terminologia usata nel capitolo 5: alla spiegazione un’esplicazione) e sostituire la domanda “che cosa dice un testo?” con la domanda “come lo dice?”: La formulazione dell’interruzione entra in relazione con un testo o una conversazione allo scopo di indagare la relazione tra apparenza e realtà ivi proposta. Essa cerca di scoprire e sostenere le pratiche antiautoritarie all’interno del linguaggio ordinario, che vengono invece contrastate e represse dall’interpretazione. Rifiutando ogni appello a idealistiche ‘essenze’ poste al di fuori del linguaggio ordinario, l’interruzione rappresenta una svolta materialistica verso la natura delle stesse pratiche linguistiche. (Silverman – Torode 1980: xi-xii)
Secondo una chiave di lettura più favorevole alla definizione di ‘interpretazione’ come ‘esplicazione’, suggerita in questo libro, è possibile sia interpretare che interrogare lo stesso testo. Ho quindi applicato quella che chiamo ‘un’interpretazione interrotta’ alle storie che ho raccolto nello studio sul potere menzionato nel capitolo 2 (Czarniawska-Joerges, 1994). Ho ridotto i
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testi, traducendoli in italiano. Ciò equivale a trattare un testo alla stessa stregua dell’apparenza: cambiarla non pregiudicherà la realtà dietro di essa. Non stavo cercando la ‘realtà nascosta’, ma ho scoperto che i testi stessi usano il contrasto apparenza-realtà come propri dispositivi. Il ‘come’ era al servizio del ‘che cosa’: gli autori erano abili creatori di storie. Di conseguenza, sono stata in grado di mostrare che cosa fanno i testi attraverso l’uso di specifici modi di esprimere quello che stavano dicendo: il “che cosa di second’ordine”, per dir così, attraverso il “come del che cosa”. Qui cito alcune storie e dò loro un titolo che preannuncia la conclusione della mia ‘interpretazione interrotta’2: Discorso antifemminista: un racconto dalla Polonia Una donna piangeva stava seduta di fronte alla scrivania, accavallando e scavallando nervosamente le gambe. Dietro la scrivania, interamente coperta di fogli, sedeva un funzionario [o una funzionaria? Il genere non è chiaro nell’originale polacco] che parlava ad alta voce. Sembra che la donna avesse una bolletta scaduta per l’energia elettrica e l’acqua, che aveva promesso di pagare. Tuttavia, non poteva pagare immediatamente per problemi finanziari momentanei. Avrebbe pagato a rate o il mese successivo. Pensò che la soluzione sarebbe stata accettabile, ma il funzionario reagì bruscamente e osservò in tono sarcastico che il suo ruolo era di riscuotere i pagamenti, non di trovare soluzioni ai problemi privati delle persone.
In questa storia incontriamo il narratore (una donna) e due protagonisti: una donna che è vittima del potere burocratico e un oppressore il cui genere biologico è sconosciuto al lettore. Di fatto, è stato il testo che ha interrotto la mia lettura, non il con-
Poiché i testi sono stati tradotti, sarebbe difficile cercare gli elementi del testo come hanno fatto Silverman e Torode, anche se hanno tentato lo stesso approccio su un testo francese (1980: 34-5). Essi distinguono tra figure (clausole, unità atomiche di significato), strofe (raggruppamento delle clausole) e voci (nomi attorno ai quali sono state create le strofe). In qualche modo ricorda i programmi narrativi, i percorsi narrativi e gli attanti di Greimas. 2
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trario: nel tradurre in inglese un testo scritto in polacco, mi sono resa che, laddove per necessità stilistica avrei avuto la necessità di utilizzare un pronome anziché ripete il sostantivo, non sapevo quale usare. Ho incontrato varie volte la stessa difficoltà nelle storie polacche: a volte anche il genere biologico della vittima era nascosto e poteva essere indovinato solo quando la vittima era il narratore (che indicava il suo sesso in risposta ad una richiesta formale). La mia ‘interpretazione interrotta’ mi ha portato all’ipotesi (o all’idea, per dirla con altre parole) che gli studenti nascondano il genere dei protagonisti perché vogliono che le loro storie riguardino il potere, non le relazioni di genere. Rispetto alla storia appena narrata, se l’oppressore fosse una donna, la storia potrebbe essere letta come un esempio di ‘donne che sono cattive tra loro’ (che sottende l’assunto che gli uomini non si comporterebbero così tra di loro), una situazione frequente nelle organizzazioni, come ho avuto modo di vedere. Se l’oppressore fosse stato un uomo, questa sarebbe diventata una ‘storia femminista’, che si autocondanna. In un lavoro straordinario, The World without Women: Gender in Public Life in Poland, Agnieszka Graff (2001) ha descritto un nuovo pensiero collettivo visibile in Polonia (e in altri paesi dell’Europa dell’Est): la ‘questione femminile’ non solo non è importante ma rappresenta addirittura una possibile minaccia alla costituzione del nuovo regime. Questo atteggiamento, come la storia stessa, risale al 1989. Sotto il regime socialista, la questione femminile era vista come una minaccia alla solidarietà del movimento di opposizione e il femminismo come parte del linguaggio dell’oppressore. Discorso quasi femminista: una storia finlandese La mia giornata lavorativa terminava alle 16.15. L’amministratore delegato era in vacanza. Alle 16.20, nel momento esatto in cui ero pronta ad andare a casa, entrò e mi chiese di battergli a macchina la prenotazione di un tavolo. Gli avrei volentieri fatto notare l’ora, spiegando che avevo di fretta e sottolineando che mi stava chie-
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dendo un favore personale. Ma conoscevo il suo potere e sentivo il suo sguardo autorevole, perciò cominciai a digitare. Ha aspettato, ha detto che ci stavo mettendo troppo tempo, tamburellando con le dita sul tavolo. Quando fu pronto, prese il foglio, lo guardò e disse freddamente: “No, non è così che lo voglio. Devi riscriverlo”. L’ho fatto. Tre volte. Erano le 17.30 quando sono andata via. Mi sono comportata come richiede il mio ruolo di segretaria perché non ho avuto il coraggio di oppormi al suo modo incredibile di sfruttare la sua posizione di potere.
Il genere dei protagonisti è chiaro (il superiore maschio, la segretaria femmina) ma non ci serve a molto saperlo; essi rappresentano semplicemente due categorie, il potente e l’impotente. È così che vanno le cose nelle organizzazioni. Un’altra storia simile si concludeva con il seguente commento: “Normalmente non si pensa molto a queste situazioni. Se si vuole lavorare per persone che hanno potere, è meglio lasciarli liberi di esercitarlo. Altrimenti, non si resisterà a lungo nel ruolo di segretaria.” Una situazione simile è stata descritta in molte altre storie e viene commentata in due modi diversi: “questo è il modo in cui vanno le cose ed è meglio che ci si abitui” oppure “questo è il modo in cui le cose non dovrebbero andare ed è una vergogna che sia così”. “Va” e “non dovrebbe andare” si riferiscono entrambi alla circostanza che le persone nelle organizzazioni sono spesso impotenti e questo è di solito legato all’età – talvolta biologica, talvolta aziendale – e al genere. Il quadro di riferimento più ovvio per queste storie sarebbe il patriarcato: a che cos’altro fanno pensare altrimenti età e genere biologico insieme? Ma un’interpretazione così femminista non si evince da nessun racconto. Una possibile spiegazione si potrebbe trovare in alcuni testi, come quello di Simonen (1991: 51-2): “Le donne finlandesi erano di grande importanza nella vita politica ed economica sia durante che dopo la guerra, a differenza delle loro simili in molti altri paesi occidentali … Dalla Seconda Guerra Mondiale, nella campagna finlandese è diventata più diffusa l’educazione femminile di quella maschile”.
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L’immagine ufficiale è dunque quella di un’uguaglianza eccezionalmente all’avanguardia (si tratta del primo paese in Europa a riconoscere alle donne il diritto di voto, nel 1909) – anzi, di una posizione privilegiata per le donne. Solo di recente è emerso un crescente numero di interpretazioni secondo cui l’attuale ‘distribuzione del potere’ sia stata costituita al fronte durante la guerra (Eräsaari, 2002). Anche se, durante la guerra, le donne finlandesi gestivano fabbriche e uffici pubblici, oltre che la famiglia, quando i ‘ragazzi’ tornarono dal fronte, trovarono un’organizzazione già avviata e semplicemente la rilevarono, sviluppando una nuova generazione di ‘principi ereditari’. Nelle storie raccontate nel mio studio, la tensione tra la versione ufficiale della realtà e quella esperienziale si risolve raffigurando gli eventi accaduti come situazioni patriarcali, senza però analizzarli in questi termini. Una strategia testuale diversa si trova nei racconti italiani: Discorso femminista: una narrazione italiana Il nuovo capo dell’ufficio non aveva esperienza nel campo in questione, provenendo da un passato professionale in un ambito molto diverso rispetto a quello richiesto per la gestione di questo ufficio. Decise di organizzare e di gestire sia il personale che l’ufficio come una struttura burocratica, piena di rituali. Il personale si trovò costretto a lavorare con un’impostazione che differiva significativamente dalla precedente. Le conseguenze furono la mobilitazione da un lato e la mancanza di comunicazione dall’altro. Lo stile del nuovo capo, che era rivolto a conquistare quanti più collaboratori possibile, portò risultati dopo alcuni mesi. Gli abiti di alcune persone diventarono più formali. Quelli delle donne più seducenti. E così la battaglia tra professionalità e sessualità ebbe inizio. Il nuovo capo, un uomo di bell’aspetto, non nascondeva il suo atteggiamento sciovinista, chiamando le donne ‘signora’ e ‘signorina’, … cioè in un modo molto diverso da ‘dottore’ o ‘professore’. Pertanto, c’era un atteggiamento cerimonioso e formale verso gli uomini. Cosa accadeva con le donne? Coloro che nella precedente gestione si erano sentite emarginate perché troppo talentuose, e perciò troppo pericolose, pensavano di aver finalmente trovato uno
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spazio adatto a loro. Presto, però, questo spazio cominciò a ridursi. Le allean ze, le doppie alleanze e gli intrighi invadevano il campo … Questo episodio, in cui fui coinvolta fino ad un certo punto, illustra come, anche nelle organizzazioni di oggi, il ruolo di una professionista donna è tutt’altro che privo di problematiche. Diventa ancora più evidente quando il potere, con i suoi vari meccanismi, accentua la linea di confine tra maschio e femmina, come se fossero due territori distinti da conquistare, il primo con la professionalità (anche solo superficiale) e il secondo con la pura e semplice sessualità.
Come potete vedere, ho usato la parola ‘narrazione’ e non ‘storia’ o ‘racconto’ nel titolo dell’estratto: anzi, sebbene il narratore parli di “un evento”, non ce n’è neanche uno. Il testo è già un’interpretazione, che si presta ad un’interruzione. Il narratore si colloca “all’interno dell’intervallo di ‘rottura’ tra le nozioni di ‘apparenza’ e ‘realtà’” (Silverman e Torode, 1980: 1960). Il testo è di una specializzanda in sociologia, che analizza la sua esperienza lavorativa nel linguaggio del femminismo, che sembra essere un discorso legittimo nel suo gruppo, e parla dal punto di vista di una donna (Smith, 1987). Ma non è un discorso legittimo o un punto di vista tipico nel mainstream della sociologia delle organizzazioni. Fino a poco tempo fa, il tema della sessualità era un tabù in discorsi sulle organizzazioni ed era utilizzato solo in ‘discorsi sovversivi’ o in opinioni critiche, come hanno fatto Burrell (1984) o Gherardi (1995). Gli studenti italiani (maschi e femmine) hanno dichiarato apertamente la propria posizione fondamentalmente critica e politica nel giudicare le pratiche organizzative. È stato interessante confrontare i loro racconti con quelli degli studenti finlandesi che hanno anch’essi sollevato il tema del gender, nonostante il loro tono quasi di scusa nel descrivere le organizzazioni. In aggiunta, nei racconti finlandesi il gender è visto come un attributo individuale e biologico (alcuni dipendenti sono femmine e alcuni sono giovani) che acquisisce un significato sociale solo in un contesto specifico. Inoltre, il gender non è correlato alla sessualità. (Ho riassunto la mia interpretazione interrotta nella tabella 7.1.)
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Tabella 7.1. Che cosa dicono i testi e cosa fanno i testi? Polacco
Finlandese
Italiano
Che cosa dicono i testi Apparenza
Regole burocratiche
Ordine organizzativo
Ordine burocratico e organizzativo
Realtà
Oppressione
Sfruttamento
Sessismo e manipolazione
Cosa fanno i testi
Denunciano l’ipocrisia (dimensione morale)
Stabiliscono norme ed eccezioni
Denunciano la strumentalità della seduzione (dimensione politica)
Fonte: Czarniawska-Joerges (1994: 244)
Ho trovato questo esercizio di interruzione interessante e produttivo. Ne ho ricavato due ulteriori insegnamenti sull’analisi narrativa. Per cominciare, gli scienziati sociali (nonché i semiotici, i critici letterari, i linguisti) non sono gli unici a interpretare, interrogare e interrompere i testi. Tutte le persone lo fanno, alcune più spesso, alcune meno; il mondo è pieno di lettori semiotici. Leggere semioticamente è una sfida interessante, un po’ da capogiro e che richiede molta cautela, ma comunque molto soddisfacente. La cautela riguarda la necessità di mantenere una posizione neutrale: avere la consapevolezza che gli autori del testo, analizzato dagli scienziati sociali, potrebbero risultare essi stessi degli analisti ancora più abili. La sensazione di vertigine invece proviene dal tentativo di mantenere un equilibrio verso il testo analizzato, tra lo ‘stare sopra’, lo ‘stare sotto’ e il ‘sostituire’. L’‘atteggiamento naturale’ di uno scienziato sociale è di stare sopra, di spiegare (come ho fatto sopra anch’io). Un’esplicazione piena di ammirazione è un atteggiamento che dovrebbe essere applicato più spesso.
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Il secondo insegnamento riguarda la questione della lingua. Sebbene praticamente tutti i narratologi riconoscano una posizione centrale al ruolo costitutivo del linguaggio, il problema di analizzare narrazioni scritte una lingua straniera non suscita molta attenzione. Anche autori accorti come Silverman e Torode presumono che la traduzione non crei problemi. Ma invece essa è qualcosa di altamente problematico – specialmente in questo genere di analisi. Una soluzione è fare una prima traduzione letterale e una comprensibile dopo. Ciò significa introdurre un gran numero di annotazioni, con il rischio di rendere incomprensibile il testo. Un’altra soluzione è tradurre solo il risultato dell’analisi, come ho fatto io, sperando che il lettore sospenda la sua incredulità, nonostante che il contratto referenziale lo autorizzerebbe a esercitarla. Comunque, il fatto che essa sia difficile non dovrebbe essere inteso come motivo per non intraprendere una traduzione. Si ricorderà che le origini della semiotica sono nella linguistica comparativa e che la linguistica comparativa è un frutto della necessità. Infatti, Jan Baudouin de Courtney, uno dei suoi fondatori (Jakobson, 1978), era un polacco di origini francesi che ha vissuto e lavorato in Estonia e in Russia, dove insegnava in russo e tedesco. 7.3 Decostruzione ‘Decostruire’ un testo significa estrarre le logiche conflittuali del senso e dell’implicazione, con l’obiettivo di mostrare che il testo non significa esattamente ciò che dice o non dice quello che intende. (Norris, 1988: 7)
La decostruzione è una tecnica e una filosofia di lettura, caratterizzata da un’ossessione per l’ambizione e il potere. Usata da Jacques Derrida (1976; 1987) per la lettura di testi filosofici, è diventata una sorta di filosofia essa stessa (Rorty, 1989). Utilizzata dagli studiosi di genere, essa diventa uno strumento di sovversione (Johnson, 1980). Usata dagli studiosi delle organiz-
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zazioni, diventa una tecnica di lettura mediante l’estraneazione (Feldman, 1995). Vi è un’eccellente introduzione ad essa in quanto tecnica di lettura in un articolo di Joanne Martin, Deconstructing organizational taboos (1990). Martin partecipò ad una conferenza di una grande università statunitense dedicata a definire i modi in cui individui e imprese possono contribuire a risolvere i problemi della società. Uno dei partecipanti, l’amministratore delegato di una grande azienda internazionale, raccontò ai partecipanti la seguente storia: Abbiamo una giovane donna che è straordinariamente importante per il lancio di una grande novità [un prodotto]. Ne parleremo martedì prossimo in occasione del lancio mondiale. Ha programmato di partorire con taglio cesareo, in modo da essere pronta per questo evento. Abbiamo insistito che rimanga a casa e l’evento verrà ripreso da una televisione a circuito chiuso, perciò lo faremo via TV per lei. Rimarrà a casa per tre mesi e stiamo cercando i mezzi per riempire il vuoto che si creerà da noi perché pensiamo che sia una cosa importante per lei (Martin, 1990: 339).
A differenza delle storie presentate nel capitolo 2, questa storia non è inserita nel suo contesto originale, ma ricontestualizzata nello spazio della conferenza. Di conseguenza, invece di seguire le sue connessioni spazio-temporali, Martin ha deciso di decostruire e ricostruire la storia da un punto di vista femminista (in alternativa avrebbe potuto usare, ad esempio, un punto di vista politico di sinistra oppure razionalistico). Per farlo, ella ha compilato un elenco di atti decostruzionistici. Questa lista, oltre ad essere un aiuto utile a chiunque voglia provare la decostruzione, rivela anche le radici storiche della decostruzione o, piuttosto, i suoi sedimenti storici. Si tratta di un ibrido che contiene elementi di lettura interpretativa, di analisi retorica, di analisi drammatica, di riscrittura radicale. Pertanto, non ha molto senso parlare di un ‘decostruzionismo rigoroso’ o di un ‘uso corretto dell’analisi strutturale’. Le tecniche letterarie debbono qui servire da fonte di ispirazione, non come prescrizione da seguire alla lettera:
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Strategie di analisi utilizzate nella decostruzione [(Adattato da Martin, 1990: 355)] 1 Smantellare una dicotomia, presentandola come falsa distinzione (ad esempio pubblico/privato, natura/cultura, ecc.). 2 Esaminare i silenzi, ossia ciò che non viene detto (ad esempio, fare emergere chi o cosa viene escluso dall’uso di pronomi come ‘noi’). 3 Esaminare digressioni e contraddizioni, cioè i punti in cui il testo non sembra avere senso oppure è discontinuo. 4 Mettere a fuoco l’elemento che è più estraneo o peculiare nel testo, per trovare i limiti di ciò che è concepibile o consentito. 5 Interpretare le metafore come una ricca fonte di molteplici significati. 6 Analizzare i doppi sensi che possono indicare un sottotesto inconscio, spesso con contenuti a sfondo sessuale. 7 Separare le fonti di pregiudizio specifiche di un gruppo da quelle più generali, ‘ricostruendo’ il testo attraverso la sostituzione dei suoi elementi principali.
Di seguito, trovate dei brevi esempi della decostruzione di Martin: 1 Dicotomia pubblico/privato: “Abbiamo una giovane donna …” (piuttosto che: “c’è una giovane donna che lavora per noi”). Il testo stesso mostra la consapevolezza dell’azienda che tale distinzione non può essere mantenuta e rivela allo stesso tempo che “la donna sta al privato come l’uomo sta al pubblico” e che le azioni intese come miglioramento della sfera privata finiscono per contribuire al bene della sfera pubblica; in altre parole, la sfera pubblica invade quella privata sotto l’egida dell’’aiuto’. 2 Voci messe a tacere: “Abbiamo insistito perché restasse a casa …”. Una voce che non si sente mai nel racconto è quella del medico, sebbene ce lo si possa aspettare in questo contesto. Alla donna viene data una voce (“Ha deciso di partorire con taglio cesareo…”) ma non è chiaro se lo abbia fatto su sug-
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gerimento dell’azienda o spontaneamente. La parola finale è comunque della società: “abbiamo insistito”. Digressioni: “…stiamo cercando i mezzi per affrontare le spese per coprire il vuoto che si creerà da noi”. Questa deviazione, sottolinea Martin, si verifica al momento in cui si discute nel testo dei costi dell’accordo, rivelando così l’ambiguità del relatore sui vantaggi della situazione. L’elemento più estraneo: è la gravidanza, dice Martin, elemento estraneo in un’azienda con prevalenza maschile. La visibilità della gravidanza richiama l’attenzione su tutta una serie di tabù organizzativi: manifestazione di sentimenti, nutrimento, rapporto sessuale. Metafore: figlio come prodotto, prodotto come figlio (“Perché un prodotto può essere lanciato e un bambino non può”: Ivi, 351). Doppi sensi: “Abbiamo una giovane donna …” Ricostruzione: Martin ne crea varie, ma ne cito solo una, quella che io giudico la più azzeccata, ottenuta cambiando il genere del protagonista e, di conseguenza, il tipo di operazione: Abbiamo un giovane che è straordinariamente importante per il lancio di una grande novità [prodotto]. Ne parleremo martedì prossimo in occasione del lancio mondiale. Ha programmato il suo intervento di bypass coronarico, in modo da essere pronto per questo evento. Abbiamo insistito che rimanga a casa, perciò l’evento verrà ripreso da una televisione a circuito chiuso, perciò lo faremo via TV per lui. Rimarrà a casa per tre mesi e stiamo cercando i mezzi per riempire il vuoto che si creerà da noi perché pensiamo che sia una cosa importante per lui.
L’assurdità di questo testo ricostruito conferma ciò che la decostruzione ha rivelato: l’evidenza di un conflitto di genere represso negli ambienti di lavoro, punti deboli nella pratica manageriale e, infine, il sistema che alimenta il conflitto, tenendolo nascosto alla vista.
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Marta B. Calás e Linda Smircich (1991), seguendo un suggerimento di Jean Baudrillard, hanno messo in rapporto la nozione di leadership con quella di seduzione usando effettivamente tre approcci post-strutturalisti – la genealogia di Foucault, la decostruzione di Derrida e il post-strutturalismo femminista – per rileggere quattro classici della teoria dell’organizzazione. Martin Kilduff (1993) ha decostruito altri testi classici – di Chester Barnard, James G. March e Herbert Simon. La sua decostruzione di Organizzazioni di March e Simon ha dimostrato che questo famoso testo contiene simultaneamente un rifiuto e un’accettazione delle tradizioni che gli autori cercavano di superare. Kilduff concluse la sua decostruzione con un altro prestito dalla letteratura – una sorta di fiaba confessionale che esplicita le sue motivazioni nell’intraprendere un’impresa del genere. Heather Höpfl (2003) ha utilizzato decostruzione come metodo principale per affrontare i problemi organizzativi. In questo modo, era capace di dimostrare il carattere eterogeneo dei testi organizzativi, e il diverso status delle diverse interpretazioni. Anche se la decostruzione ‘pura’ non sembra più di moda nelle scienze dell’organizzazione, il suo impatto è visibile nella varietà dei tipi di interpretazione testuale. Alla fine di questo capitolo è importante sottolineare che sia l’analisi strutturalistica che quella poststrutturalistica hanno rappresentato un’importante svolta nell’ermeneutica tradizionale: sono riuscite a modificare la domanda centrale da “che cosa dice il testo” a “come lo dice?”. Gli studiosi scettici nei confronti delle analisi narrative non sono ancora convinti, dal momento che, dal loro punto di vista, resta irrisolta una questione: perché? Perché le persone raccontano storie? Perché raccontano quel tipo di storia in quel momento e in quel luogo? Perché raccontano storie in un dato modo? Una risposta a queste domande può essere data al livello di una teoria sul fenomeno considerato, non al livello di un’analisi
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di testi. Il tipo di risposta dipenderà, in primo luogo, dall’obiettivo dello studio stesso: comprendere la natura del genere umano? Le reazioni al fallimento di una nuova economia? Il modo in cui le persone danno senso alla loro vita? In secondo luogo, la risposta dipende dalla corrente di pensiero a cui appartiene lo studioso: gli oggettivisti legheranno la risposta alle relazioni di potere, i soggettivisti al funzionamento della mente umana e i costruttivisti mostreranno che il ‘come’ contiene un ‘perché’. In altre parole, un’analisi narrativa dà forma a un’altra narrazione che, per diventare una storia completa, deve ricevere un intreccio. La teoria è la trama di un testo di ricerca. Perciò, ora parlerò di questa speciale tipologia di narrazione, ovvero dei testi scritti dagli studiosi.
Esercizio Esercizio 7.1: decostruzione Prendi un breve testo (o il frammento di un testo) da un quotidiano o settimanale e analizzalo utilizzando le strategie elencate da Joanne Martin.
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8. Leggere le scienze sociali
Questo capitolo sostiene che tutti gli approcci analitici discussi nei capitoli precedenti possono essere, e in effetti sono stati, applicati ai testi scientifici. Pertanto l’attenzione si sposta dal tipo di approccio all’area in cui viene applicato. La scienza è un campo di pratica come qualsiasi altro, e quindi le sue storie, la loro produzione e la loro divulgazione, possono essere studiati allo stesso modo. L’analisi di Misia Landau sulle storie evolutive (capitolo 6) aveva già preannunciato questa possibilità e sebbene molte analisi narrative si concentrino sui testi di scienze naturali (si veda, ad esempio, Mulkay, 1985; Latour, 1988), ce ne sono altre che esaminano le storie presenti nei testi di scienze sociali. Le presenterò in ordine cronologico, perché così seguiremo anche gli sviluppi del metodo di riflessione nelle scienze sociali verificatori nel corso del tempo.
8.1 Analisi drammatica di un inchiesta sul consumo di alcool tra i guidatori Joseph Gusfield (1976) è stato uno dei primi autori ad applicare l’analisi retorica alla ricerca di scienze sociali. Il suo articolo inizia profeticamente: “La Retorica della Ricerca! Il titolo introduce l’evidente contraddizione. La Ricerca è Scienza; la scoperta o comunicazione del reale stato delle cose. La Retorica è Arte” (1976: 16). Non sapeva che gli anni successivi sarebbero stati dedicati a demolire questa contraddizione.
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Ricca Edmondson scrisse Rhetoric in Sociology in 1984 e D. N. McCloskey pubblicò The Rhetoric of Economics nel 1985. Nel 1987, fu pubblicatoThe Rhetoric of the Human Sciences: Language and Argument in Scholarship and Public Affairs (curato da Nelson, Megill and McCloskey), seguito dalla raccolta redatta da Herbert Simons, Rhetoric in Human Sciences nel 1988. Invece nel 1976 ad essere dominante era ancora l’idea della scienza come finestra sulla realtà e del linguaggio scientifico come vetro di questa finestra. Di conseguenza, Gusfield sosteneva che fosse utile esplorare la teoria letteraria. Non sosteneva che la scienza fosse letteratura, ma che trattarla come letteratura fosse produttivo – che è poi l’assunto stesso su cui si basa questo capitolo e questo intero libro. Il materiale di Gusfield contiene 45 pubblicazioni riguardanti il consumo di alcool e la guida in Europa e negli Stati Uniti ed egli ne ha scelto uno come il più rappresentativo per una lettura ravvicinata. L’analisi è stata divisa in tre parti (chiamati atti): lo stile letterario della scienza, l’arte letteraria della scienza e la rilevanza dell’arte nella scienza. Nel primo atto, Gusfield impiega l’analisi drammatica di Burke. Tale analisi cerca le congruenze – o le incongruenze – di cinque elementi, noti come la pentade di Burke (Burke, 1945/1969): Scena (nel senso di un ambiente, di un contesto, ecc.), Atto (nel senso di un’azione, di un atto o di un programma d’azione), Agente (attore, agente), Attività (i mezzi con i quali l’Atto è compiuto) e Scopo. Ecco i risultati: Scena Tutte e 45 le ricerche sono state pubblicate in riviste scientifiche: la maggior parte in riviste mediche, alcuni in riviste dedicate alla sicurezza alla guida o alla sicurezza in generale. Questa collocazione “fa sì che l’articolo venga considerato come un fatto autorevole e non come testo di fantasia” (1976: 18-19).
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8. leggere le scienze sociali
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Atto Ci sono in realtà due atti che, riprendendo i termini utilizzati in questo libro, potrebbero essere distinti in atto nel testo (cosa dice il testo?) e atto del testo (cosa fa il testo?). L’atto nel testo è una storia collegata in maniera causale: “un significativo numero di guidatori che consuma alcool è un bevitore incallito invece che un bevitore occasionale; pertanto è necessario utilizzare nuovi metodi di prevenzione”. Oppure se trasformiamo il testo dandogli un intreccio minimo: 1 Un tempo, chi si metteva alla guida dopo aver bevuto era ritenuto un bevitore occasionale. 2 Nuovi metodi di identificazione hanno permesso di riconoscere nei guidatori ubriachi dei bevitori incalliti. 3 Occorre trovare nuovi metodi di prevenzione contro la guida in stato di ebbrezza. L’atto del testo è nella struttura dell’articolo. Esso inizia con la creazione di una sfida: la vecchia teoria sulla guida in stato di ebbrezza è sbagliata. Essa prosegue con la descrizione dei metodi usati per identificare i bevitori incalliti tra i conducenti che consumano alcoolici e, infine, espone i risultati ottenuti con questi metodi e conclude con una raccomandazione: “La centralità del metodo e la scarsa rilevanza data alle informazioni sono i fattori chiave per la storia” (p. 19). Agente La questione dell’agente, ovvero della voce, non è facile. Da un lato, l’autore di un testo scientifico è la realtà stessa e quindi nessuna voce umana dovrebbe intromettersi. D’altra parte, la struttura della pubblicazione rivela che questa voce esiste: è un osservatore e uno scrittore, e questa persona reclama credibili-
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tà e fiducia. Il problema si risolve, dice Gusfield, introducendo l’autore mediante il suo ruolo (appartenenza organizzativa) ed evitando la voce attiva: “Recenti rapporti hanno suggerito…” (autore, data); “È sempre più evidente …”; “Sono state trovate delle differenze…”. Aggiungerei a quanto dice Gusfield che viene spesso usata un’altra tecnica, l’introduzione della voce passiva, ossia scrivendo di se stessi in terza persona, con effetto inevitabilmente comico: “Come ha sottolineato Czarniawska…”. Attività Come risultato della rappresentazione dell’Agente, la responsabilità principale dell’azione si sposta sull’Attività – a dimostrare ulteriormente l’utilità del termine ‘attante’. In questo caso, si tratta del metodo. Scopo Lo scopo dell’atto è quello di convincere, ma, a causa del carattere specifico dell’agire, solo alcune tecniche di persuasione sono ammesse. Pathos (compassione) deve essere escluso, a vantaggio di logos (studio); ethos (etica) si insinua sempre, anche solo in modalità di citazione. L’autore “intende persuadere, ma vuole farlo presentando un mondo esterno al pubblico e lasciando che sia quella realtà a compiere la persuasione” (Gusfield, 1976: 20). Nel secondo atto, Gusfield analizza l’uso dei tropi nella pubblicazione: metonimia, metafora, mito e archetipo, il cui utilizzo rende la pubblicazione simile ad una forma letteraria nota come operetta morale, “in cui la guida in stato di ebrezza è un’arena per l’espressione del carattere personale e morale” (p. 26). In questo dramma, il guidatore è stato trasformato da bevitore occasionale tollerabile in un degenerato stigmatizzato. Così, nel terzo atto, Gusfield mostra che l’autore dell’articolo ha eseguito uno sposta-
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8. leggere le scienze sociali
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mento nella gerarchia degli attori principali: quello che era posto in basso è salito in alto e viceversa. I bevitori occasionali sono ora non solo tollerabili ma sono anche benevoli; dopotutto, non causano incidenti di guida in stato di ebbrezza. I guidatori ubriachi diventano bevitori incalliti e non sorprende che vengano dallo strato più basso della struttura sociale. Quindi, un documento non emozionale ha di fatto prodotto un bel po’ di emozioni, inscenando uno spettacolo teatrale. Gusfield stesso sapeva bene che tutti i suoi commenti potrebbero essere applicati al proprio testo e credo sia per questo che egli lo ha strutturato come opera in tre atti. Era convinto che una riflessione letteraria, compresa l’autoriflessione, sarà utile non solo ai testi scientifici ma anche alle politiche pubbliche che dai testi scientifici traggono informazione. Dopotutto, “la capacità di riconoscere il contesto di ipotesi inesplorate e di concetti riconosciuti è tra i contributi più preziosi delle scienze sociali, ed è grazie ad essa che queste consentono agli esseri umani di trascendere il convenzionale e di creare nuovi approcci e nuove politiche” (Gusfield, 1976: 32). Vorrei che un maggior numero di attori politici leggesse Gusfield.
8.2 L’antropologo come autore In questo paragrafo, mi concentrerò sul noto lavoro di Clifford Geertz (1988), ma vorrei sottolineare che, nello stesso anno, John Van Maanen ha pubblicato il suo Tales of the Field. Non tratterò anche lui, al fine di mantenere una distribuzione equa tra esponenti di varie discipline di scienze sociali, ma il libro di Van Maanen è, ed è stato, di grande importanza per tutti gli etnografi. Geertz inizia affermando che, al momento della stesura del suo testo, era diventato evidente che l’etnografia non avesse lo scopo di ordinare fatti inusuali in categorie familiari, ma che fosse a tutti gli effetti un tipo di scrittura. Ci sono state tuttavia delle
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esitazioni sulla correttezza di tale concezione. Uno di questi dubbi nasceva dalla convinzione che la riflessione letteraria non fosse un dovere degli antropologi, che dovrebbero essere invece impegnati nella ricerca sul campo. Un altro dubbio era legato all’impressione che i testi antropologici, a differenza dei testi letterari, non meritassero tale attenzione. Il terzo, condiviso da tutti gli scienziati sociali, aveva a che fare con il sospetto che un’analisi di questo tipo potesse minacciare lo status scientifico di questi testi: “se il carattere letterario dell’antropologia venisse compreso meglio, alcuni miti dominanti nella professione circa il modo in cui essa riesce a persuadere non potrebbero sopravvivere” (Geertz, 1988/1990: 11). Secondo Geertz, dietro tutti questi dubbi si cela un’apprensiva ricerca della soluzione a due problemi: il problema della firma – ovvero dei testi in cui l’autore è presente rispetto a testi in cui l’autore è assente – e il problema del discorso – della scelta del vocabolario, della retorica, modello dell’argomentazione. Questa soluzione è subordinata al compito principale degli antropologi, ossia creare una sensazione convincente dell’’essere là’. Egli decide di analizzare come i grandi autori di antropologia, coloro che hanno optato per una chiara firma e un lampante ‘teatro del linguaggio’, siano riusciti in questo compito. Il primo di loro è lo strutturalista Claude Lévi-Strauss e il lavoro analizzato da Geertz è Tristi Tropici (1955). Geertz lo ha fatto da una prospettiva che definisce “di riconoscenza ma non di conversione” (1988/1990: 34-35): egli non approva la concezione di mente universale ed è scettico verso lo strutturalismo come approccio, ma ammira Lévi-Strauss come autore. Nel testo di Tristi Tropici, Geertz ravvisa una commistione di generi. Per cominciare, si tratta di un diario di bordo (traveloque): “Mi sono recato di qua, sono andato di là; ho visto questa e quell’altra cosa strana; sono stato sorpreso, annoiato, eccitato, deluso; mi sono venute le piaghe sul sedere…” (Ivi: 41). In secondo luogo, si tratta di etnografia: il testo ha una sua tesi, ossia che le abitudini delle persone formino dei sistemi (qui è chiaramente visibile una
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categorizzazione strutturalistica). In terzo luogo, si tratta di un testo filosofico che si occupa del tema delle basi naturali della società umana. Questo concetto si collega ad un altro filone, quello del pamphlet riformatore, basato su una sconvolgente critica della società occidentale che rovina l’ordine naturale nel suo sconsiderato sforzo di modernizzare. Infine, il libro è anche un testo letterario simbolico, com’è stato notato dai critici letterari. L’intero miscuglio, secondo Geertz, dà luogo alla costruzione mitica dell’”antropologo-come-ricercatore”. Agli occhi di Lévi-Strauss, l’antropologia empirica anglosassone sbagliava, l’“impressione di stare lì” è una frode o un autoinganno. Lévi-Strauss, il mitologico ricercatore, scopre invece solo i miti degli altri popoli: il mondo risiede nei testi. Geertz va avanti analizzando un autore anglosassone: sir Edward Evan Evans-Pritchard da lui definito come “ uno degli scrittori stilisticamente più omogenei che si siano mai visti” (Ivi: 57). Il testo che egli sceglie di analizzare è il poco conosciuto Operations on the Akobo and Gila Rivers, 1940-41, pubblicato su un giornale militare britannico nel 1973, dove Evans-Pritchard aveva descritto le sue ricerche sul campo in Sudan. Secondo Geertz, questo breve testo mostra tutto i tratti caratteristici della dialettica di Evans-Pritchard. La metafora che Geertz usa è quella della ‘proiezione di diapositive’, che potrebbe avere come titolo generale “Immagini africane”. Il tono staccato è uno dei dispositivi usati per dare una sensazione di certezza assoluta, che Geertz chiama tono ‘assertivo’. Si prediligono frasi semplici soggetto-predicato-oggetto, i segni di punteggiatura sono scarsi, non esistono frasi straniere o allusioni letterarie: “questo atteggiamento conduce ad una serie di giudizi pieni di luminosa chiarezza, di enunciazioni incondizionate e presentate con tale perspicuità che nessuno […] potrà respingerle” (Ivi: 70). L’unico tropo, appena percepibile, è l’ironia, che serve a creare distacco tra l’autore e gli eventi descritti nel testo; ciononostante, l’effetto è fortemente visivo, di qui la definizione di ‘proiezione di diapositive’.
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Qual è lo scopo di questo stile (Geertz vede in Evans-Pritchard un autore dotato di uno stile compiuto)? Evans-Pritchard era curioso di capire come fosse possibile avere un ordine cognitivo senza la scienza, un ordine politico senza lo stato, un ordine spirituale senza la chiesa, in breve, una società senza le moderne istituzioni occidentali. La sua risposta era che la stregoneria, l’organizzazione per clan, nonché svariati modi alternativi di immaginare la divinità, funzionano altrettanto bene. Il tono di sicurezza testimonia l’autenticità del suo parere, facendone venir meno la bizzaria apparente. Secondo Geertz, Evans-Pritchard aveva descritto la popolazione nilotica dei Nuer come persone ‘non altre, ma che agiscono altrimenti, in modo abbastanza sensibile quando uno li conosce, hanno un loro modo di fare le cose’ (Ivi: 77). Geertz continua: “L’aspetto meraviglioso di questo approccio piuttosto dialettico all’etnografia è che avvalora la forma di vita dell’etnografo così come giustifica quelle dei suoi soggetti – e facendo una cosa ottiene l’altra”. Purtroppo, un dispositivo di questo genere non è più disponibile per gli etnografi di oggi, nell’età della “fiducia perduta”. Geertz passa poi ad analizzare l’opera dell’antropologo Bronislaw Malinowski, utilizzando il suo diario per contestare il famoso credo d’antropologia. Malinowski è conosciuto per la sua fiducia nell’osservazione partecipante, “immersa nella vita degli indigeni” come unico metodo valido di lavoro sul campo. Il suo diario, pubblicato postumo, ha destato grande sconcerto, rivelando l’ipocondria dell’autore, la sua xenofobia, nonché molti altri atteggiamenti non propriamente coraggiosi né scientifici. Per Geertz, il diario svela molto più che una serie di debolezze umane. Esso mostra che: quando si tenta questo approccio di totale immersione all’etnografia, non è solo nella vita indigena che occorre tuffarsi. C’è il paesaggio. C’è l’isolamento. C’è la popolazione europea locale. C’è il ricordo di casa e di quello che si è lasciato, il senso della vocazione, e del dove si sta andando. E c’è, ciò che turba maggiormente, la ca-
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pricciosità delle proprie passioni, la debolezza della propria costituzione e il vagabondaggi dei propri pensieri: qualcosa che nereggia, il se stessi. Non è questione di vivere da indigeno … È questione di vivere una vita molteplice: navigare contemporaneamente in diversi mari. (Geertz 1988/1990: 84-85)
Se l’interferenza del sé rende le cose più complicate, qual è il modo migliore per esprimerle e rappresentarle? Geertz chiamò la soluzione di Malinowski ‘io-testimonianza’, ovvero: rendere credibile il proprio racconto rendendo credibili prima di tutto se stessi. Questo, secondo Geertz, non è un risultato psicologico, ma letterario. Nella versione di Malinowski, questo risultato viene realizzato mediante la proiezione di due immagini antitetiche e tuttavia complementari: quella del Cosmopolita Assoluto e quella dell’Investigatore Perfetto, la prima che fa appello al romanticismo e la seconda che fa appello alla scienza. Il Cosmopolita Assoluto è tutt’uno con gli indigeni, l’Investigatore Perfetto è completamente distante da loro. In effetti, l’ossimoro ‘osservazione partecipante’ comunica abbastanza apertamente questa dualità. E sebbene la teoria strutturale-funzionale di Malinowski sia considerata obsoleta, i dilemmi dell’io-testimonianza restano tuttora centrali nell’antropologia contemporanea, come mostrano molti esempi di Geertz. Il quarto esempio era Ruth Benedict. Ispirata da Swift e da I Viaggi di Gulliver, Benedict presentava la cultura che le era familiare come strana e arbitraria, mentre l’esotico come logico ed evidente. Geertz la chiama strategia testuale ‘Noi/non-Noi’ e sottolinea che l’ironia di Benedict spesso è stata poco apprezzata (a differenza di quella di Ervin Goffman, ad esempio), in parte perché si trattava di una donna e si ritiene che le donne non siano capaci di essere ironiche. Una giustapposizione del familiare e dell’esotico è ovviamente una sofisticata strategia letteraria, ma tende a generare sconcerto, anche per via del suo effetto comico. Secondo Geertz, le due opere che hanno raggiunto maggiore
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popolarità – Modelli di Cultura e Il Crisantemo e la Spada. Modelli di Cultura Giapponese – son quelle in cui Benedict è riuscita a reprimere l’aspetto umoristico, presentando se stessa come ingenuamente sincera. Geertz sottolineò che il miglior risultato di Benedict non fu né nel lavoro sul campo, di cui si occupò poco, né nell’ambito della teoria sistematica, “a cui era poco interessata” (Ivi: 117), ma la sua “stupefacente e distintiva ridescrizione” (Ivi: 120). Ci sono almeno due ragioni per cui le riflessioni di Geertz sulla scrittura antropologica sono rilevanti per tutte le scienze sociali. La prima è che l’antropologia è diventata di moda, non in quanto cartolina da terre esotiche come un tempo, ma come modo per “essere sul posto”, per citare ancora Geertz. Gli antropologi sono tornati a casa, non da ultimo per via del mutato clima politico, e hanno infettato tutti noi con i loro metodi e i loro dubbi. La seconda ragione (che è anche una conseguenza della prima) è che è diventata comune a tutte le scienze sociali una stessa premessa: “lo scarto tra l’accattivarsi gli altri, là dove stanno e vivono, e il descriverli là dove non ci sono, che del resto è sempre stato molto forte, ma assai poco preso in esame, ha acquistato ora all’improvviso un’evidenza estrema. Ciò che una volta appariva come una semplice difficoltà tecnica, immettere le ‘loro’ vite nelle ‘nostre’ opere, ad un tratto s’è rivelata un’operazione moralmente, politicamente, ed anche epistemologicamente delicata” (Ivi: 140). L’Altro è qui, è dotato di una cultura e ha una voce – non stupisce che la teoria della rappresentazione sia in crisi. Sono molti gli insegnamenti che arrivano dallo studio di Geertz su altri autori, ma uno è particolarmente significativo: “il peso dell’autorità del testo non può essere eluso… né è possibile che il peso di cui diciamo si possa scaricare sul ‘metodo’, sul ‘linguaggio’ o (un espediente oggi assai popolare) ‘sulla gente’, sulle stesse persone oggetto dell’etnografia, chiamate in causa (‘fatte proprie’ è forse il termine) come co-autori.” (Ivi: 149).
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8.3 Lo storytelling in economia Si potrebbe obiettare che l’antropologia e la sua discendente, l’etnografia, anche nella loro manifestazione più ‘scientifica’, restano sempre un po’ più vicine alle belles lettres rispetto alle altre scienze sociali. A questo punto, un buon esempio da prendere in esame è l’economia che di rado è sospettata di essere in alcun modo vicina alla letteratura. Deirdre McCloskey ha analizzato accuratamente la retorica dell’economia (1985/1988; 1994), ma ha anche dedicato una certa attenzione proprio al ruolo della narrazione nell’economia (Mc Closkey 1990a, 1990b). “Gli economisti sono narratori di storie e creatori di poesie e, riconoscendolo, riusciamo a comprendere meglio cosa fanno gli economisti” (1990b: 5). Metafore (modelli) e storie (narrazioni) sembrano essere due metodi di conoscenza in competizione tra loro ma, allo stesso tempo, complementari. Una metafora può esaltare un punto cruciale di una storia, mentre una storia può esemplificare una metafora. Nelle scienze, le metafore sono tipiche della fisica e le storie della biologia. L’economia, secondo McCloskey, presenta una miscela equilibrata di entrambe. Metafore e storie funzionano meglio in settori specifici: le metafore nelle previsioni, nelle simulazioni e negli scenari controfattuali; le storie quando occorre spiegare qualcosa che è effettivamente accaduto. È facile notare quando le loro aree di competenza si incrociano: un ciclo economico è una storia, che descrive il passato. Se viene applicato come modello e quindi ad una previsione di futuro, esso muore della sua stessa contraddizione: se i cicli economici fossero prevedibili, non accadrebbero (una conclusione da considerare nel contesto della crisi 2008-2010). Guardare l’economia come un’attività di narrazione, afferma McCloskey, ci aiuta a capire perché gli economisti siano in disaccordo, senza necessariamente essere ‘cattivi economisti’. Nell’ambito di un’opinione tradizionale che reputa i testi economici trasparenti (considera cioè la scrittura economica come “rappresentazione di scenari teorici e risultati empirici”), la divergenza di
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opinioni è inspiegabile, se non come cattiva volontà. Nella stessa visione tradizionale, ma ammettendo un qualche sforzo autoriale, si ritiene che i disaccordi siano malintesi derivanti dal fatto che lo scrittore non abbia avuto abbastanza tempo e spazio (ad esempio, in un semplice articolo) per spiegare tutto correttamente. Ma, sostiene McCloskey, anche se gli scrittori avessero avuto abbastanza tempo e spazio, non ne avrebbero avuto i lettori. C’è un’intera pletora di testi che si contende l’attenzione dei lettori e i testi economici devono combattere come tutti gli altri. Un’ultima spiegazione tradizionale del disaccordo è il sospetto che il lettore non sia in grado di comprendere il punto di vista dell’autore a causa di un limite puramente intellettuale. Secondo McCloskey, questo sospetto verso i lettori svanisce nel momento in cui gli autori economici capiscono che l’economia e le scuole economiche parlano lingue a sé stanti, o quantomeno differenti dialetti, che molte volte i lettori leggono come fossero testi in una lingua straniera. McCloskey iniziò quindi a leggere l’economia come una narrazione abbellita da metafore, sottolineando che una lettura strutturalista non è un’opzione dal momento che “l’economia è già strutturale” (1990b: 13). Le ‘funzioni’ nei testi economici non arriveranno mai ad essere 31 come quelle di Propp; ci sono entrate, uscite, impostazione dei prezzi, ordini di una ditta, acquisti, vendite, valutazioni e non molto di più. “Propp … ha identificato sette personaggi … David Ricardo nel suo esame sulle storie economiche ne ha trovati tre” (1990b: 14). Le storie economiche mostrano anche una preferenza per una trama “centrata sul finale” [ending-embedded] l’ha chiamata Jean Matter Mandler (cfr. capitolo 6): “Arrivate fino al terzo atto” (1990b: 14). Anche per le storie di economia esiste una forma di trama, composta da trasformazione dell’equilibrio in disequilibrio e poi in un successivo e rinnovato equilibrio: La Polonia era povera, poi adottò il capitalismo e di conseguenza divenne ricca.
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Quest’anno la massa monetaria è aumentata; come conseguenza, la produttività lo scorso anno è cresciuta e il ciclo economico in tre decenni ha raggiunto il picco. (McCloskey 1990a: 26)
In termini di analisi di genere, sono due quelle che possono essere applicate più comunemente ai testi economici. Il lavoro teorico in economia è simile al genere fantasy; il lavoro empirico è come un romanzo realistico. McCloskey ha citato molti esempi per corroborare la sua analisi; io ne riporto due. Il primo riguarda un testo letterario che ha introdotto e reso popolare il concetto principale dell’economia classica, l’homo economicus. L’altro è un testo contemporaneo di un economista, noto e citato ampiamente in altre scienze sociali e nella stampa di massa. Il primo testo è Robinson Crusoe di Daniel Defoe1. Anche se il concetto ufficiale di Homo economicus è stato introdotto in ambito economico alla fine del diciannovesimo secolo in analogia con le leggi del cosmo, il testo di Defoe lo presenta già in pieno. Robinson Crusoe percepisce il mondo come una serie di opportunità tra cui scegliere sulla base del loro costo. McCloskey notò che il concetto di ‘costo-opportunità’ fu ampiamente sviluppato dagli economisti austriaci negli anni ’70, ma sembra che fosse da sempre noto ai poeti e, in un secondo momento, anche ai romanzieri. La situazione di Robinson Crusoe rappresenta la quintessenza della scarsità – un’altra nozione nota prima in letteratura che in economia: Ogni volta che Crusoe o qualsiasi homo economicus si trova ad affrontare una scelta, redige un bilancio nella sua testa … ma più comunemente usa metafore commerciali, specialmente quelle di con-
1 Questa non è una lettura sofisticata da parte di una mente colta. Defoe era un giornalista e scrittore di pamphlet, famoso per il suo Giving Alms No Charity and Employing the Poor. A Grievance to the Nation, pubblicato nel 1704 (Polanyi 1944).
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tabilità … Questo è il modo razionale di procedere: consapevolezza ‘razionale’ significa semplicemente un sensato adattamento di ciò che si può ottenere rispetto a ciò che si desidera avere. Quindi la persona razionale è un calcolatore, come Crusoe, che fa scelte molto pragmatiche su cosa portare sulla barca … I dettagli stilistici in tutto il libro contribuiscono a dar evidenza della penuria, in contrasto con le storie di naufragi nell’Odissea o nell’Eneide, su cui si librano in volo dèi disposti ad intervenire per compiere miracoli di abbondanza. (McCloskey 1990a: 145)
McCloskey analizza diverse opere di storici economici (Gershenkron, Fogel) per mostrare in quale modo hanno costruito le loro storie. Il suo studio offre anche un’interessante lettura de The Zero-sum Solution: Building a World-class American Economy di Lester Thurow (1985) come esempio di collaborazione difficile tra storie e metafore. Il libro è stato scritto negli anni del ‘miracolo giapponese’ ed esamina i modi in cui gli Stati Uniti avrebbero dovuto affrontarlo. La storia di Thurow si regge su tre metafore: il ‘gioco internazionale a somma-zero’ il ‘problema domestico’, che danneggia le prestazioni statunitensi nel gioco e ‘noi’ che dobbiamo affrontare il problema. Patrimoni e ricchezza devono essere tolti ai non americani poiché “ogni gioco competitivo ha i suoi perdenti”. “Per una società come l’America che ama gli sport di squadra…è sorprendente che non riesca a vedere la stessa realtà di un gioco di squadra proiettata nel gioco più importante, ossia l’economia internazionale” (McCloskey, 1990a: 156). Quando è meno benevolo, Thurow cambia la metafora sulla competitività sportiva con una metafora di guerra, vedendo il commercio estero come l’equivalente economico della guerra. Le metafore sportive e persino le metafore di guerra sono vecchie quanto l’economia moderna, sottolinea McCloskey: alla fine del diciannovesimo secolo, i giornalisti economici inglesi parlavano di ‘pericolo americano’ e di ‘minaccia tedesca’. I giornalisti statunitensi utilizzano continuamente metafore simili. Il problema, però, è che le metafore di Thurow non si adattano al suo racconto.
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Il tema del suo racconto è lo scambio di beni e servizi: macchine giapponesi in cambio di legname americano, tubi in acciaio tedesco in cambio di gas naturale sovietico. Tale scambio è in sintonia metaforica con l’idea di Adam Smith di sistema volontario di scambio: tutti vincono e per questo continuano a commerciare. La metafora di gioco a somma zero riguarda solo una parte del commercio: il lato della vendita. McCloskey afferma che questa è una prospettiva ovvia per un uomo d’affari del Massachusetts ma non dovrebbe esserlo per un economista, la cui prospettiva (persino nel caso di un economista del Massachusetts) dovrebbe essere più approfondita. Dopotutto, gli economisti sostengono di vedere l’economia nell’insieme e dalla base (“alla base di tutto” è infatti una delle espressioni preferite dagli economisti) e di renderne conto alla società. Un’altra metafora (o etichetta?) che necessita attenzione è il misterioso ‘noi’. Chi è ‘noi’ nel racconto di Thurow? ‘Noi americani’? Non necessariamente, sottolinea McCloskey: … i problemi hanno soluzioni, chiamate “politiche”, che “dobbiamo adottare”. Non è difficile indovinare chi è il Solutore: salve, vengo da parte del governo e sono qui per risolvere i vostri problemi… non è vero che gli economisti sono cosí competenti che la pianificazione di ricerca e sviluppo dovrebbe essere delegata a un organizzazione del tipo MIT? (Mc Closkey 1990a: 158)
E qual è il ‘problema domestico’ che impedisce agli Stati Uniti di vincere il gioco a somma zero? È un ‘problema di produttività’ e McCloskey ha molto da dire al riguardo: Il ‘problema della produttività’ non è un’invenzione della recente storia americana… Ma in ogni caso la produttività non ha nulla a che fare con la competitività internazionale e la bilancia dei pagamenti. Come qualsiasi economista sarà lieto di chiarire, il modello di commercio dipende dal vantaggio comparato, non dal vantaggio assoluto … Il livello complessivo di produttività non ha alcun effetto sulla bilancia commerciale americana. Nessuno. E la bilancia commer-
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ciale non è un indicatore di eccellenza. Per nulla. I due non hanno niente a che fare l’uno con l’altro. Domani si potrebbe raggiungere un enorme surplus commerciale e una bilancia commerciale positiva senza ricercare l’eccellenza, proibendo le importazioni. Ma gli americani vogliono commerciare con Tatsuro [il capo di Toyota, BC] ed è meglio che lo facciano: questo è tutto. (Ivi: 160-1)
Ne possiamo dedurre che Lester Thurow sia un cattivo narratore e faccia un uso scorretto della metafora? Al contrario: è un abile narratore che risparmia ai suoi lettori la fatica di esaminare le sue metafore e le sue storie. Non solo usa metafore già note, ma costruisce la legittimità della sua storia con l’analogia. Il suo racconto è il parallelo di una storia già nota della Gran Bretagna della tarda era vittoriana: “nel tramonto dell’egemonia, la Gran Bretagna si rilassa compiaciuta mentre gli altri sgobbano” (McCloskey, 1990a: 158). Come abbiamo visto negli studi di Mandler (1984) e Davies (1989), i lettori riconoscono facilmente narrazioni che gli sono familiari e accettano senza problemi la loro struttura e a volte la ricostruiscono. Quindi è in un’ottica totalmente decostruzionistica che McCloskey pone le domande finali: E perché si dovrebbe desiderare che l’egemonia americana resti salda per sempre? È il piano di Dio che gli Stati Uniti d’America siano in eterno la miglior nazione? Perché dovremmo desiderare la continua povertà per i nostri amici cinesi e latino-americani? È a questo che ci porta l’etica economica? (Ivi: 159)
Il libro di Thurow è stato scritto nel 1985, lo studio di McCloskey è del 1990. Da allora, il Giappone ha cessato di essere una minaccia. Nel 2002, il presidente Bush era più che mai dedito al gioco a somma zero (avrebbe addirittura potuto adottare i consigli di McCloskey e vietare totalmente le importazioni), ma Joseph E. Stiglitz, premio della Banca di Svezia in onore di Alfred Nobel nel 2001, ha usato una retorica molto diversa da quella di Thurow:
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La leadership globale richiede di essere non solo contro qualcosa, ma anche a favore di qualcosa. Abbiamo un’alleanza contro il terrorismo. Dovremmo averne una anche per una migliore giustizia globale e per un migliore ambiente. La globalizzazione ci ha reso più interdipendenti e questa interdipendenza rende necessario intraprendere un’azione globale collettiva. (Stiglitz 2002: 28)2
Con l’elezione di Trump questi testi sembrano solamente storici, di un’altra epoca. L’egemonia americana deve restare salda per sempre… È stato evidenziato da McCloskey che ‘scrivere bene’ è antieconomico, che troppa consapevolezza delle proprie storie e metafore, troppi sforzi per l’autoriflessione e la scrittura stessa non pagano in termini di carriera accademica. La sua risposta è stata, ancora una volta, formulata in termini etici: Non è etico scrivere male quando si può far meglio con poco sforzo e soprattutto non è etico coltivare l’ignoranza per ottenere qualche beneficio materiale…direi, come Socrate nel Gorgia, che è meglio soffrire il male (mancanza di promozione) che perpetuarlo (scrivendo nello stile ufficiale solo per un vantaggio egoista). (McCloskey 2000: 138-9)
Esistono due vizi da evitare messi in luce nel ‘manuale di scrittura’ di McCloskey: scrivere bene in modo da ingannare i lettori (come nel caso di Thurow) e scrivere male in modo da ingannare i giudici (offuscamento). La richiesta è ardua da soddisfare, ma del resto gli interessi in ballo in economia sono alti. 8.4 Leadership come seduzione: decostruire la teoria delle scienze sociali L’ultimo esempio di analisi riguarda un testo di teoria organizzativa, su un argomento di interesse per molte scienze sociali: la Anche se la nozione di egemonia statunitense rimane anche qui indiscussa.
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leadership. Come già menzionato nel capitolo precedente, Marta B. Calás e Linda Smircich, seguendo un suggerimento di Baudrillard, hanno giustapposto le nozioni di leadership e di seduzione: Volevano che credessimo che tutto è produzione. Il filo conduttore del cambiamento mondiale, il gioco delle forze produttive, è regolare il flusso delle cose. La seduzione è solo un processo immorale, frivolo, superficiale e superfluo: un processo del regno dei gesti e apparenze, dedicato al piacere e allo sfruttamento di inutili corpi. Cosa succederebbe se, contrariamente alle apparenze – di fatto in accordo alla regola segreta delle apparenze – tutto fosse guidato dal [principio di] seduzione? (Baudrillard, citato da Calás-Smircich 1991: 567)
Che cosa succede se la leadership è seduzione? Calás e Smircich hanno usato tre approcci poststrutturalisti – la genealogia di Foucault, la decostruzione di Derrida e il poststrutturalismo femminista – nella rilettura di quattro classici di teoria organizzativa: The Functions of the Executive di Chester Barnard (1938), The Human Side of the Enterprise di Douglas McGregor (1960), The Nature of Managerial Work di Henry Mintzberg (1973) e In Search of Excellence di Thomas J. Peters e Robert H. Waterman (1982). Questi testi sono importanti perché sono stati scritti per un pubblico di professionisti (dirigenti) ma hanno avuto anche un forte impatto sulla comunità accademica. Dal momento che nel corso del libro ho già citato esempi di analisi poststrutturalista e decostruttivista, mi concentrerò sull’utilizzo della genealogia di Foucault da parte di Calás e Smircich. Com’è ben noto, Foucault ha utilizzato l’analisi storica per mostrare come diverse strutture di potere interconnesse producono, e sono riprodotte da, una rete di pratiche e discorsi che sono comunemente chiamati conoscenza3. L’ambizione di Calás e Smircich è di dimostrare che la successione al potere si legittima annunciando un cambiamento e una trasformazione delle idee del precedente 3
Si veda Using Foucault’s Methods di Kendall-Wickham (1998).
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assetto, pur riproducendo e mantenendo la stessa rete di produzione di conoscenze-sulla-leadership. Calás e Smircich hanno cominciato opponendo tra loro le definizioni di ‘leadership’ e ‘seduzione’. Di fatto i due termini sono molto vicini, se intendiamo ‘sedurre’ come ‘condurre lontano’ (o ‘sulla cattiva strada’). La seduzione è una leadership che conduce a cattivi risultati, mentre la leadership è una seduzione andata a buon fine. Si noti che la parola ‘seduttore’ è ritenuta obsoleta, mentre ‘seduttrice’ è l’unica forma attuale. Calás e Smircich hanno arricchito la loro genealogia con questi approcci etimologici. I testi che hanno scelto coprono un periodo di quasi 50 anni di teoria delle organizzazioni, un periodo che, secondo Calás e Smircich, non mostra praticamente alcun cambiamento, contrariamente a quanto sostengono gli autori dei testi presi in esame. L’opera disegna un cerchio di seduzione dove le pratiche e i discorsi di leadership cambiano, ma mantengono le stesse relazioni di potere/conoscenza. Nel testo di Barnard, il motivo della seduzione è presente per la sua assenza, per il silenzio mantenuto su di esso. Molte volte il testo si avvicina a questo confine pericoloso (“La leadership, naturalmente, spesso sbaglia e spesso fallisce”, afferma Barnard, citato in Calás – Smircich 1991: 576), pericoloso per il mantenimento di una struttura sociale, come è un’organizzazione, nonché per la successione alla leadership. Nel linguaggio di Barnard la moralità è utilizzata per descrivere il leader: (fede, sacrificio, astensione, riverenza) richiamano alla mente l’immagine di un prete (che usualmente è chiamato ‘Padre’) – un individuo di volontà superiore, la cui resistenza e coraggio si evincono da quello che evita, ossia da ciò che non fa: cedere alla tentazione e avere rapporti sessuali. La seduzione, in quanto tale, è nemica delle corrette relazioni di vita tra uomini/tra esseri umani (Calás-Smircich 1991: 577).
Il libro di McGregor è stato salutato come l’introduzione della psicologia umanistica in ambito dirigenziale. Rivolgendosi ai
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top manager delle aziende statunitensi negli anni ’60, cerca di rispondere a una domanda: chi può essere un leader? Il libro si allontana dall’idea di Barnard di un direttore solitario chiuso nella sua stanza ai piani alti: la leadership postulata da McGregor è egualitaria, relazionale e situazionale. Eppure secondo Calás e Smircich, McGregor non fece altro che ampliare e abbellire il ragionamento omosociale e ‘paterno’ di Barnard. L’innovazione di McGregor è ritenuta sostituire la ‘teoria X’ – la teoria di gestione tradizionale proposta da Taylor e Barnard – con una ‘teoria Y’ – la teoria delle relazioni umane. Perché la scelta di queste lettere e non, ad esempio, ‘teorie A e B’o ‘A’ e ‘Z’? Calás e Smircich hanno affermato che fu proprio in quel periodo che si iniziò ad utilizzare la definizione cromosomica per donne (XX) e uomini (XY). Il libro di McGregor può pertanto essere letto, con metodo decostruttivo, come un tentativo di muoversi da un mondo XY a un puro mondo YY: un ordine omosociale. In alternativa, secondo me, potrebbe essere visto come una sua volontà di presentare le precedenti teorie come “troppo femminili” (seducenti) da sostituire con una più maschile (XY). Il lavoro di Henry Mintzberg è un’elaborazione della sua tesi di dottorato, uno studio che consisteva nell’osservare i dirigenti nella loro quotidianità di lavoro. The Nature of Managerial Work è una versione stilizzata della tesi e tenta di rispondere alla domanda: cosa fanno i dirigenti? Calás e Smircich hanno osservato che nei 13 anni trascorsi tra i due libri, il leader orientato alle relazione umane di McGregor si è trasformato nel leader di Mintzberg “solitario e narcisista, ma onnipotente, senza pazienza per nient’altro che l’incontro più diretto possibile…” (Calás-Smircich 1991: 586-7). Per comprendere questa trasformazione, Calás e Smircich hanno allargato la loro genealogia includendo altri testi dello stesso periodo: il problema di un crescente narcisismo durante quei 13 anni stava diventando il tema centrale nella letteratura riflessiva statunitense. Philip Slater ne ha parlato nel suo
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Footholds (1977) e The Culture of Narcissism di Christopher Lasch è diventato un bestseller nel 1979. Il leader narcisista di Mintzberg era dunque un buon rappresentante del suo tempo. Il narcisismo non è limitato agli uomini: le donne sono perfettamente in grado di sostenere un comportamento narcisista. Citando Karen Horney, Calás e Smircich sostengono, tuttavia, che le azioni narcisiste e seduttive in età adulta differiscono tra uomini e donne. Gli uomini rafforzano la loro autostima e affermano il loro potere sminuendo le donne, riaffermando in questo modo il credo narcisista sulla loro posizione superiore nella società. La seduttività femminile, d’altra parte, è una trasformazione della paura in desiderabilità, un modo per incoraggiare un’identità sottomessa in modo da evitare l’aggressione. Di conseguenza, “le azioni narcisiste femminili contribuiranno a mantenere – attraverso sottomissione e imitazione – l’ordine omosociale” (Calás-Smircich 1991: 588): Il leader di Mintzberg – compulsivamente virile nella sua seduzione narcisista – ha un gioco facile nelle condizioni della moderna società occidentale. Coloro per i quali la mascolinità compulsiva non è un valore, si sottometteranno egualmente alle regole di essa. In mancanza di altre opzioni all’interno del sistema, essi perpetueranno le condizioni dalle quali desiderano fuggire. (Ivi: 589)
Subito dopo l’articolo di Calás e Smircich, Organization Studies ha pubblicato ‘Lettera a Marta Calás e Linda Smircich’ di Henry Mintzberg. Amaramente ironico, il testo mostra un autore profondamente ferito. Come Gusfield (1976) aveva già sottolineato, qualunque ‘lettura ravvicinata’ fa del lettore ‘uno sgamato’ e dello scrittore ‘un fesso’. Ma Mintzberg fece anche una considerazione importante: anche noi – scrittori accademici – tentiamo di sedurre i nostri lettori e “in una maniera che farebbe vergogna a quasi tutti i leader mortali” (Mintzberg, 1991: 602). Alcuni autori risolvono questa difficoltà offrendo una riflessione sui propri testi, anticipando le possibili letture interpretati-
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ve. Ma nessun autore può anticipare tutte le letture e una riflessione su una riflessione perde rapidamente di attrattiva, come ha brillantemente dimostrato Malcolm Ashmore nel suo libro The Reflexive Thesis (1989). Tornando alla leadership, per Calás e Smircich il bestseller di Peters e Waterman chiude il cerchio della seduzione. Peters e Waterman confessano fin dall’inizio che trovavano esagerata l’importanza attribuita alla leadership: in altre parole, tutti i loro predecessori sbagliavano. Tuttavia emerge che ad ogni azienda eccellente è associato un leader forte (o due). In azienda negli anni ’80 c’erano molte donne, ma le relazioni di base non erano cambiate, anche se nel testo vengono debitamente introdotti pronomi personali maschili e femminili. Quando si tratta di definire il leader degli anni ’80, Peters e Waterman ritornano alle origini, parlando di un ‘leader di transizione’. Questo leader è un maschio, almeno grammaticalmente, ed è occupato in attività che Barnard avrebbe approvato: far raggiungere ai propri subordinati un livello più alto di motivazione e di moralità (e crescere con loro, per riconoscere a McGregor ciò che gli spetta) nonché esercitare una leadership che possa “elevare, scuotere, ispirare, esaltare, nobilitare, esortare, evangelizzare” (citato in Calás – Smircich 1991: 592). Al momento della stesura di questo libro, la leadership seduttiva ha perso molta popolarità dopo una lunga serie di frodi, remunerazioni eccessive etc. Henry Mintzberg (1999), chiaramente irritato dai leader narcisisti, ha proposto di ‘essere manager con discrezione’. Ma non è possibile che il cerchio della seduzione si ricrei così ancora una volta?
8.5 Le storie di casa Si può concludere che le narrazioni presenti nel proprio ambito professionale possono essere analizzate come tutte le altre,
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se non addirittura con maggiore audacia (dopotutto, l’analista opera su un terreno sicuro almeno epistemologicamente se non sempre politicamente). Anzi, esse possono essere effettuate con rigore ancora maggiore, dal momento che il narratore parla in prima persona ed è sempre riconosciuto e riconoscibile. Vi sono tante altre possibili scelte oltre quelle che ho presentato. Ci sono opere e antologie che si concentrano sull’analisi di una disciplina specifica: psicologia (Herman 1995), antropologia (Clifford – Marcus 1986), sociologia (Brown 1977; Edmondson 1984), studi sociali della scienza e della tecnologia (Ashmore 1989), gestione e organizzazione (Czarniawska 1999; Rhodes 2001). Ci sono opere e antologie che presentano una gamma di analisi sulle scienze sociali o, come sono talvolta chiamate, scienze umane (Nelson et al. 1987; Brown 1989, 1995, 1998; Simons, 1989, 1990; Agger 1990; Nash 1990). Esistono comparazioni tra fiction e scienze sociali (ad esempio, Cappetti 1993). È ormai superato il momento di iniziale sorpresa e sconcerto nell’applicare tali analisi narrative alle scienze sociali; si è aperta la strada ad una nuova opportunità di riflessione e di apprendimento.
Esercizio Esercizio 8.1: analisi di un testo di scienze sociali Prendi tre testi della tua disciplina che si occupano dello stesso argomento. Confronta le differenze e le somiglianze. Quindi scegli l’approccio che ti sembra più appropriato (analisi retorica, genealogia, decostruzione o lettura interpretativa che usi la combinazione di diversi approcci) e tenta un’analisi comparativa dei tre testi.
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Come ho indicato nel capitolo 2, ci sono tre elementi in una narrazione: cronaca, mimesi e intreccio. Poiché la cronaca solitamente non rappresenta un problema nella scrittura scientifica, la lascerò da parte per concentrarmi su mimesi e intreccio1.
9.1 Mimesi ovvero come rappresentare il mondo In questo libro, la nozione di mimesi, intesa come rappresentazione del mondo in un testo, è legata a due ambiti: il campo della teoria e il campo della pratica in esame. In altre parole, non farò una grande distinzione tra una rassegna dedicata a testi scientifici e un testo dedicato a un lavoro sul campo2. Entrambi cercano di rap-presentare una letteratura scientifica o momenti di vita quotidiana ed entrambi hanno bisogno di creare un intreccio per le loro rappresentazioni. 9.1.1 Problemi con la rap-presentazione La risposta che il senso comune dà alla domanda ‘’come rappresentare qualcosa?’ è: fedelmente. La realtà dovrebbe essere ri1 Questo capitolo è in parte basato sulla mia “Scrittura di una monografia di scienze sociali”, in Clive Seale, et al. (eds) Qualitative Research Practice (in bibliografia: Czarniawska 2003c). 2 Esistono fonti eccellenti che le trattano separatamente: Becker (1986), Clifford – Marcus (1986), Hart (1998).
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creata nel testo. Un testo scientifico dovrebbe rispecchiare ciò che descrive, meglio se con una corrispondenza biunivoca. Il che non dovrebbe costituire un problema dal momento che “i fatti parlano da soli” e i testi possono riprodurre fedelmente le intenzioni degli autori. Se ciò sia possibile è una domanda che fu posta già dagli impressionisti in arte, da Jorge Luis Borges – tra gli altri – in letteratura3 e che infine si è posta anche nelle scienze umane4. Sono emersi i seguenti problemi: • L’incompatibilità tra mondi e parole (Rorty 1979, 1989): come possono le parole essere paragonate a ciò che presumibilmente descrivono? Una corrispondenza diretta è impossibile se variano i mezzi di comunicazione5. È quindi ragionevole pensare alla rappresentazione di un oggetto come “produzione di un altro oggetto che è volutamente legato al primo da una specifica convenzione di codificazione, che stabilisce in maniera appropriata ciò che vale come simile” (Van Fraassen – Sigman 1993: 74). La rappresentazione non rispecchia, ma crea. • La politica della rappresentazione (Latour 1999): considerando che vi sono sempre in circolazione varianti contrastanti del mondo, chi ha il diritto di giudicarle e sulla base di quali criteri? Questo secondo problema è già la ricerca di una soluzione per il primo: se i fatti non parlano da soli, chi lo farà per loro? Come nascono le convenzioni di codificazione? Chi ha il diritto di giudicare qual è la maniera appropriata? 3 Nel suo “Del rigor en la ciencia” (Historia universal de la infamia, 1935/1967) Borges racconta la storia dei cartografi che hanno creato una mappa identica all’impero che vi era rappresentato. La generazione successiva gettò via la mappa e dimenticò la cartografia. 4 Tre volumi particolarmente consigliati a un lettore interessato sono Levine (1993), Brown (1995), Van Maanen (1995). 5 Questo è rilevante anche per le rappresentazioni pittoriche del mondo.
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Poiché si tratta di quesiti complessi, inizio dall’estremo opposto: qual è lo scopo di un’abile mimesi in una monografia di scienze sociali? Una risposta accademica sensata è: nel caso di materiale raccolto sul campo, lo scopo della mimesi è far sentire i lettori come se fossero lì, sul campo; nel caso di una revisione letteraria, far sentire i lettori come se stessero leggendo loro stessi il testo. Come ottenere questi risultati, se i fatti rifiutano di parlare per se stessi e un resoconto veramente fedele del testo scritto da qualcun altro è un plagio? Non c’è una regola. Rispondo alla domanda in maniera descrittiva: posso dire ai lettori come gli autori cercano di ottenere questo effetto. Le parole non possono essere paragonate a non-parole, ma solo ad altre parole. Questo significa che, come ha scritto Hayden White (White 1999), tutte le descrizioni di oggetti storici (egli oggetti sociali sono storici) sono necessariamente figurative. Al fine di evocare nei lettori l’immagine di qualcosa che non hanno visto, questa immagine deve essere collegata a qualcosa che hanno già visto, e i tropi – figure retoriche – sono i mezzi linguistici per ottenere questo effetto. La parola metafora che, in greco, significa trasporto da un luogo ad un altro, nella pratica autoriale significa esattamente questo: il lettore viene spostato da ‘qui’ a ‘lì’, che sia un diverso scenario fisico o un altro libro. Inoltre, non per niente i tropi sono figure retoriche: sono strumenti per visualizzare, per “dipingere con le parole”. White discute di ‘realismo figurale’’ che, a mio avviso, è la stessa cosa di ciò che Richard H. Brown ha chiamato ‘realismo simbolico’ (Brown 1977), ma con una differenza importante. Mentre Brown considerava il realismo simbolico come una sorta di realismo, contrapposto ad esempio, al realismo scientifico, White sottolinea che tutto il realismo è necessariamente simbolico, cioè figurativo. Il realismo si differenzia da altri stili letterari per la preferenza di alcuni tropi: sottostima piuttosto che sovrastima, per usare un esempio lampante. Tuttavia, la questione rimane: come produrre una rappresentazione realistica?
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9.1.2 L’ambientazione [setting] Se la mimesi è un compito da svolgere per tutta la durata dell’esposizione, essa entra in scena in primo luogo nella descrizione dell’ambiente. Purtroppo, l’ambientazione tende ad essere la parte meno attraente di tutte le opere a tesi, che prendono il ritmo quando si tratta di presentare ciò che è accaduto, piuttosto che nel momento in cui bisogna dire ‘come appariva’. Sembra che molti autori siano eccessivamente consapevoli dell’esistenza di un contratto referenziale: “Scrivo per istruire, non per intrattenere, e potrai andare a controllare che la mia descrizione sia corretta, se lo desideri”. Il problema è che, come tutti gli educatori sanno, i contratti ‘fittizi’ e quelli ‘referenziali’ non sono mai separati; essi assumono soltanto una priorità diversa in testi diversi. In altre parole, è difficile, se non impossibile, istruire senza divertire, intrattenere o commuovere i lettori. L’ambientazione, come indica il termine, descrive il contesto del fenomeno studiato, in termini spazio-temporali. Un contesto letterario è rappresentativo di diverse teorie su fenomeni uguali o simili ed è importante collocarli nel tempo e luogo corretti. Non ci sono teorie universali; ma ci sono solo teorie con rivendicazioni universali. Tutte provengono da un determinato posto in un determinato tempo – si veda il mio esercizio di contestualizzazione del testo di Bittner nel capitolo 5. Cattive prassi frequenti sono ad esempio ignorare la data della pubblicazione originale (così che gli scritti di Max Weber sembrano essere sotto l’influenza di autori di molto successivi, come ad esempio James G. March e Herbert Simon), o ipotizzare implicitamente che le opinioni in voga negli Stati Uniti siano valide in tutto il mondo. Ogni testo, anche quello di un classico, è come una lettera, scritta in risposta ad un altro testo con la speranza di suscitare a sua volta una risposta. Non è sempre facile scoprire tra chi avvenga questa corrispondenza, ma di solito la parte dei ringraziamenti e l’introduzione sono un buon posto percercare indizi in merito. Inoltre,
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a volte una de-contestualizzazione è una mossa arricchente, ma deve essere preceduta da una contestualizzazione. Queste difficoltà si presentano anche quando si deve descrivere l’ambientazione di uno studio sul campo. Anche qui il contesto è sia spaziale che temporale. Sebbene i due contesti possano essere presentati congiuntamente come due aspetti della stessa descrizione, li separerò ai fini della spiegazione. In entrambi i casi, ci sono due strategie alternative. Nel caso di descrizioni temporali si tratta del ‘feedforward’ e ‘feedback’. Nella strategia del feedforward, viene presentata una storia del fenomeno (“la storia fino a quel momento”). A volte si crea una semplice cronaca; se invece viene riportata una storia completa, scritta da qualcun altro, è importante prestare attenzione al lavoro di costruzione dell’intreccio in modo da non incorrere nel rischio di acquisire un intreccio preconfezionato. La scelta della fase iniziale è cruciale, come ho spiegato nel Capitolo 2. La scelta di una strategia di feedback significa porre l’accento sulla descrizione del ‘qui e ora’. La narrazione evolve a ritroso nel tempo in maniera selettiva: deve essere incluso solo ciò che avrà rilevanza per il futuro intreccio. Tale selettività è più difficile in una strategia feedforward in cui una cronaca deve essere completa per essere comprensibile, sebbene la rilevanza sia sempre pertinente. Esistono due strategie analoghe per descrivere la dimensione spaziale, chiamate in termini fotografici ‘ingrandimento’ e ‘rimpicciolimento’. L’ingrandimento si muove dallo spazio al luogo: dalla descrizione di un grande contesto (un paese, un’industria, l’economia globale) al campo effettivo in esame o addirittura ad uno specifico posto, ad esempio una scuola in un sobborgo di una grande città. Il rimpicciolimento esegue un’operazione opposta: da una descrizione dettagliata di un luogo concreto passa, ancora una volta in maniera selettiva, a descrivere tutto il mondo, se necessario. Paul Atkinson, nella sua The Ethnographic Imagination (1990), ha fornito molti esempi di descrizioni di ambientazioni da parte degli
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etnografi richiamando l’attenzione su una figura retorica chiamata ipotiposi: “l’uso di una scrittura descrittiva altamente grafica, che ritrae una scena o un’azione in modo vivace e vigoroso” (p. 71). In questo modo, secondo Atkinson, un autore redige un contratto narrativo con il lettore che definirei un ibrido tra contratto fittizio e referenziale: “smetti di stupirti e lascia che ti istruisca!” Un modo straordinario di combinare tutte e quattro le strategie descritte e creare così un incentivo – anzi, un vero impulso – a leggere oltre, lo si trova nel prologo di Mike Davis nel suo libro Città di quarzo. Indagando sul futuro a Los Angeles (1990). Intitolato in maniera appropriata “Vista dal futuro passato”, inizia con la strategia di ingrandimento e la modalità di feedback. L’autore – o il lettore – si trova “sulle rovine di un futuro alternativo [di Los Angeles]… le fondamenta del Palazzo dell’Assemblea Generale della città socialista di Llano del Rio – antipodo utopico di Open Shop di Los Angeles…” (p. 3). In piedi da lì, si può vedere tutta la contea di Los Angeles e vederne il passato. Mentre l’obiettivo della telecamera si allarga rimpicciolendo l’immagine, il tempo va indietro fino al 1914, anno in cui ha inizio la storia dell’utopia di Llano. Il luogo, Llano, determina l’inizio della storia. Ora il tempo comincia a muoversi in avanti, arrivando al 1990, quando un’inaudita violenza si scatena sulla città mettendo fine definitivamente al mito di ‘santuario deserto’. Questo spostamento temporale in avanti traccia solo una storia: quella dei coloni e dei loro sogni. La macchina del tempo torna di nuovo indietro allo stesso punto e va avanti ancora una volta, seguendo il percorso di politici, pianificatori e sviluppatori. A questo punto l’attenzione è sul ‘qui e ora’, a questo punto correttamente contestualizzato. È il momento dell’ipotiposi: Un giorno del maggio 1990 … sono tornato alle rovine di Llano del Rio per vedere se le mura mi avrebbero parlato. Invece, ho trovato la Città Socialista abitata da due muratori di vent’anni di El Salvador, accampati tra le rovine del vecchio caseificio e desiderosi di parlare con me nelle nostre due opposte lingue stentate. (Davis 1990: 12)
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Il palcoscenico è pronto: i lettori sanno che l’azione avrà luogo nella contea di Los Angeles nel 1990, sullo sfondo di un altro luogo, un’Utopia che non è mai esistita, e di un altro tempo (il periodo 1914-90). Ora, chi racconterà la storia? 9.1.3 Le voci La scelta di strategie e strumenti descrittivi è una questione di abilità o stile. Per contro, la scelta delle voci da utilizzare ha un carattere più politico. Poiché la mappa non deve essere uguale al territorio che rappresenta, è necessario zittire alcune delle voci che costituiscono la polifonia del mondo e dare più spazio ad altre. In questo caso esiste un chiaro parallelismo tra la gestione di un campo teorico e uno pratico. Il problema è comune: chi includere, chi escludere e chi merita un’attenzione particolare? Nel campo della teoria, per aiutare lo scrittore esistono un insieme di convenzioni e un insieme di pratiche, più o meno raccomandate6. In breve, sono due i modo principali con cui esaminare i testi di altri autori. Uno è il modo esegetico, ovvero una spiegazione o un’interpretazione critica di un testo. Seguendo questa modalità, ci si concentra sul testo dell’altro autore, come modello o come oggetto di critica. La parte centrale è la ri-presentazione al meglio del testo, cioè scegliendo i tropi appropriati per collegare l’analisi al testo analizzato. A quel punto, chi analizza prende una posizione, che può essere ammirazione, scusa, oppure un atteggiamento critico, andando un ‘passo oltre’ il testo dell’altro autore. L’altro, molto più comune nella pratica, ma raramente menzionato nei manuali su come-scrivere-di-scienza, è il modo ispirato, molto vicino all’idea di lettura come pratica di bracconaggio di de Certeau (1984/1988). Nel 1992, Rorty ha opposto questa lettura del testo a quella che ha definito una ‘lettura metodica’. In un modo ispirato, il testo viene ri-contestualizzato ai fini del Ne parlo in A Narrative Approach to Organization Studies (1998).
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la monografia. L’autore prende in prestito – riconoscendo che si tratta di un prestito – nozioni e termini coniati dagli altri per utilizzarli nella monografia. Affermare che, nell’analisi di testi di altri autori, il modo ispirato sia più frequente di quello esegetico non è una dimostrazione del lassismo presente nei costumi del mondo accademico; infatti, a meno che l’esegesi non sia lo scopo dello studio, il modo ispirato è molto più pertinente al compito da svolgere. E che cosa accade nel campo della pratica, con la sua infinita molteplicità di voci e vocabolari, strutturata secondo relazioni di potere che includono lo scrittore di scienze sociali?7 La difficoltà di rappresentare voci multiple in studi sul campo8 è emersa con forza in antropologia. Dopo decenni di testi antropologici onniscienti che spiegavano tutto dal ‘modo di essere degli aborigeni’ alle ‘civiltà più sviluppate’, un’ondata di dubbi politici ed etici si è impossessata della disciplina (riassunta al meglio nei volumi editi da Clifford-Marcus 1986 nonché Marcus-Fischer 1986). Molti degli antropologi che avevano collaborato a questi volumi, hanno optato per un’etnografia polifonica, all’interno della quale ogni persona parla con la propria voce. Di qui è nato un dibattito sulla fattibilità e sull’efficacia di questo approccio. Vale la pena ricordare che questi antropologi si sono ispirati a Mikhail Bachtin (1981) il quale però non aveva in mente una polifonia in cui parlassero molte persone, ma piuttosto una eteroglossia o ‘discorso variegato’. Si tratta di una strategia autoriale consistente nel fatto che nel testo l’autore parla lingue diverse (dialetti, slang, ecc.). Non c’è bisogno di creare l’illusione che queste persone parlino da sé; di fatto, non lo fanno. Nessun letto-
7 Non sto suggerendo che il campo della teoria non sia strutturato politicamente, ma è di solito più facile capire la sua struttura e scegliere la propria strategia (aderire al mainstream, unirsi all’avanguardia, opporsi al mainstream, ecc.). 8 Approfondisco questo tema in Narrating the Organization (1997: tr. it. 2000) e in Writing Management (1999).
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re sospetta che nel romanzo di Iain Pears (cfr. capitolo 5) siano i quattro narratori a parlare in prima persona. Anzi, l’autore rende il lettore perfettamente consapevole del fatto che le diverse lingue, dialetti, idioletti (lingue individuali) sono parlati in una sola e unica tradizione linguistica. Da questa prospettiva è più facile ammettere la correttezza di un suggerimento proveniente dalla sociologia della scienza e della tecnologia, ossia adempiere al dovere di rappresentazione dando voce anche ai non-umani (Woolgar 1988; Latour 1992). Latour ha messo in pratica questo suggerimento nel suo studio del 1996 – di cui discuterò più a lungo nel prossimo paragrafo –, dove ‘Aramis’ (un treno automatizzato) ha una voce propria. A un certo punto della storia, il maestro e l’allievo, che stanno studiando la ‘vita’ di Aramis, hanno un’animata discussione sulla ragionevolezza di questa decisione: “Pensi che non sappia” sbraita il maestro all’allievo dubbioso “che dare una voce ad Aramis non è altro che un’antropomorfizzazione, che significa creare un burattino con una voce?”(Latour 1996: 59). Dunque, le scienze sociali intavolano una conversazione in cui la finalità politica della rappresentazione deve vivere fianco a fianco con la consapevolezza che si stia eseguendo un atto di ventriloquismo. Ciò significa rinunciare all’ambizione di parlare per conto dell’Altro in senso letterale e all’ambizione di “porsi come tribuno per conto di chi rimane inascoltato, come colui che rappresenta agli altri ciò che essi non vedono e comprende ciò che viene male interpretato” (Geertz 1988/1990: 142). Ma la natura fittizia di questa polifonia, una volta svelata, sottrae gli scienziati sociali alle critiche sul mettere a tacere alcune voci. Gli scienziati sociali fanno un danno maggiore quando impongono le loro interpretazioni a ciò che dichiarano essere ‘autentiche voci dal campo’. Se lo scopo è presentare queste voci, il modo migliore per farlo è abbandonare le scienze sociali facendo tacere la propria voce e impegnarsi nell’attività politica di creare le condizioni per dar voce a chi non è ascoltato.
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La mimesi dunque non è cosa facile ma non è l’unico problema da affrontare quando si scrive una monografia. Nella tradizione retorica si distingue tra la mimesi, che è una descrizione, e l’intreccio [emplotment], che è un arrangiamento. Ma questa differenziazione ha solo un significato analitico: è ovvio che ogni descrizione deve essere organizzata. Il suo specifico arrangiamento può essere coerente con quello dell’intero testo, oppure incoerente. In altre parole, la mimesi può corroborare l’intreccio oppure opporvisi. Sebbene sia possibile pensare ad una mimesi che si oppone all’intreccio, contribuendo al sorgere di una sorta di meta-intreccio, si può di certo affermare che in una monografia di scienze sociali la ricerca della coerenza è auspicabile. Inoltre, come ho sottolineato nel capitolo 6, il metodo di descrizione giustifica l’intreccio (i principi non sposano principesse sporche). Aggiungo che la descrizione deve essere subordinata alle esigenze dell’intreccio: il materiale descrittivo che non è necessario in questo ruolo di sostegno può essere salvato in un’appendice. Da tutto ciò è evidente che, dal mio punto di vista, la costruzione dell’intreccio [emplotment] è la parte cruciale della scrittura di una monografia di scienze sociali ed è anche la più difficile.
9.2 L’intreccio o come rendere una storia ricca di teoria Il termine emplotment (intrecciamento) fu introdotto nel 1978 da Hayden White secondo il quale gli storici non trovano un intreccio nella storia ma sono essi stessi a crearlo. Creare un intreccio significa introdurre una struttura che consenta di dare un senso agli eventi raccontati. Per tradizione, risponde alla domanda ‘perché?’: in una prospettiva positivistica, la risposta dovrebbe essere formulata in termini di leggi causali; in una prospettiva romantica, in termini di motivazioni; nel discorso post-positivistico e post-romantico (Brown, 1989), la domanda più adatta è ‘come mai?’ e la risposta assume una forma ibrida in cui le leggi della natura, le intenzioni umane e gli eventi casuali si mescolano.
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9.2.1 Strutture ereditate Il modo più semplice di strutturare un testo è attraverso la cronologia, o ciò che Mandler ha chiamato una connessione temporale (Capitolo 6). Esistono vari tipi di cronologie che possono essere utilizzati. Ecco una forma classica di tesi, termine con cui si chiama un’orazione formale nella retorica greca: 1 Exordium: cattura l’interesse del pubblico introducendo il soggetto. 2 Narrazione: illustra i fatti. 3 Esposizione (o Divisione): espone i punti già stabiliti e quelli oggetto di contestazione (espone il caso). 4 Prova: espone le argomentazioni a sostegno della posizione sostenuta. 5 Confutazione: rigetta le argomentazioni degli oppositori. 6 Perorazione: riassume le argomentazioni e risveglia l’interesse del pubblico. (Lanham, 1991)
Questo è un interessante esempio di come una struttura efficace possa diventare automatizzata e una teoria diventare pura cronologia. La struttura è diventata tale perché considerata come la più efficace (nel senso che assolve al lavoro di persuasione); anche se nel tempo, tuttavia, si è trasformata in semplice cronologia di un discorso. Cito questo esempio per mostrare quanto sia vicino a quella che è considerata la struttura convenzionale di una tesi e come dispositivi persuasivi efficaci possano diventare meccanici quando vengono ripetuti spesso. Di seguito, riporto la struttura tradizionale di una “tesi” scritta, cioè quella che seguiamo in egual misura sia per un articolo che per una monografia. La sola differenza è che un articolo deve compattare il materiale in uno spazio molto più breve e il lettore deve ‘spacchettarlo’, come un grande file che arrivi zippato: 1 2 3 4
Problema/Materia/Obiettivi (Exordium) Rassegna della letteratura Ipotesi (proposta) Metodologia
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196 5 Risultati (Narrazione) 6 Discussione (Prova) 7 Conclusione (Perorazione)
La somiglianza è evidente e non è una coincidenza dal momento che la struttura di una tesi scritta si sviluppa a partire dalla struttura dell’orazione. Ma una tesi, per usare i termini di Ricoeur, è un discorso scritto, non parlato (quando si prepara l’esposizione orale di una tesi di laurea, conviene tenere a mente la struttura tradizionale!). Una tesi contemporanea è fondata sulla retorica forense con qualche aggiunta di retorica deliberativa: di qui la ‘rassegna della letteratura’. È importante analizzare ciò che è già stato scritto sull’argomento trattato, come è prassi studiare i precedenti quando si discute un caso in tribunale. La vera aggiunta moderna a questa struttura è la ‘metodologia’: un contributo del positivismo alla retorica classica. Non tutte le monografie sono conformi a questa struttura, che può essere definita come la struttura di una tesi deduttiva. Invece una tesi induttiva, scritta basandosi sull’approccio della Grounded Theory (GT) di Glaser – Strauss (1967), potrebbe apparire come segue: 1 2 3 4
Esiste qualcosa di strano nel mondo … (Exordium). Qualcuno lo ha spiegato? (Rassegna di letteratura). Altrimenti: Sarà meglio saperne di più. Ma come? (Metodologia). Ora che ho capito, cercherò di spiegarlo agli altri. Quindi, lascia che ti racconti una storia … (Narrazione). 5 Che cosa mi ricorda? C’è qualcun altro che la pensa allo stesso modo? (Prova). 6 Questa è la fine (e il punto) della mia storia (Perorazione).
Si tratta chiaramente di un’altra variante sia dell’orazione classica che dell’addenda moderna. Come i loro predecessori classici, queste strutture puntano a persuadere. Come i loro predecessori classici, tuttavia, seguono anche la cronologia, non quella dell’esposizione, ma quella della ricerca stessa.
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Questo tipo di strutturazione temporale comporta non pochi problemi. Innanzitutto, i novizi nell’arte della ricerca (Booth et al., 1995) spesso soffrono la sua insincerità. È noto che la ricerca raramente va come previsto. Che cosa fare? Riportare ogni singolo passaggio avanti e indietro, tutte le esitazioni e gli errori? La si può trasformare in un’arte, ma spesso non è possibile. Perciò qual’è l’alternativa? Mentire e soffrire? Questo problema (la ricerca così come è avvenuta o fittizia?) è comunque secondario. La domanda principale è sempre quella classica: convincerà? E, anche se a questa domanda non si può dare una risposta definitiva, si può suggerire che questo tipo meccanico di strutturazione del testo è di solito meno efficace di un buon intreccio. Ma come è fatto un buon intreccio? Suggerisco che come intreccio si deve considerare la teoria che spiega il fenomeno studiato. La teoria può servire a strutturare una tesi nella sostanza e non solo nella forma. 9.2.2 Intrecci Già Aristotele distingueva tra un semplice racconto, inteso come ‘una narrazione di eventi disposti nella loro sequenza temporale’, e un intreccio [plot] che organizza tali eventi secondo un senso di causalità (Encyclopaedia Britannica, 1989: 523). Come si è riportato nel Capitolo 1, Donald Polkinghorne (1987) ha dedicato molta attenzione al ruolo dell’intreccio e dei suoi possibili usi nelle scienze umane: “Un intreccio trasforma una cronaca o un elenco di eventi in un insieme schematico, evidenziando e riconoscendo il contributo che determinati eventi hanno sullo sviluppo dell’insieme”(pp. 18-19). Ma esso non si limita a questo: esso può inserire nella vicenda il contesto storico e sociale, informazioni su leggi fisiche, pensieri e sentimenti delle persone. “Un intreccio ha la capacità di articolare e rafforzare complessi fili tra molteplici attività per mezzo della sovrapposizione di sottointrecci” (p. 19). Questa è una peculiarità impor-
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tante dal punto di vista degli scienziati sociali, che spesso constatano che, poiché molte cose accadono simultaneamente, una semplice cronologia non è sufficiente a raccontare una storia. Di conseguenza, la maggior parte dei testi di scienze sociali – ma anche dei romanzi – contiene più intrecci che debbono essere collegati tra loro. Questo si puo ottenere, secondo Todorov (1971/1977), con una di queste due strategie: il collegamento (coordinazione), cioè l’aggiunta di semplici intrecci uno accanto all’altro in modo che si adattino l’un all’altro; oppure l’incastro (subordinazione), cioè lo sviluppo di un intreccio all’interno di un’altro. Si può aggiungere, seguendo Hayden White, che, come lo storico, anche lo scienziato sociale si confronta con “un vero e proprio caos di eventi già costituiti, tra cui deve scegliere gli elementi della storia che vuole raccontare” (White 1973/1978: 6, nota 5). Pertanto egli necessita di due ulteriori espedienti: esclusione ed enfasi (così che anche l’incastro può contribuire sia alla combinazione che alla selezione). Le storie centrate sulle evenienze [outcome-embedded] hanno intrecci subordinati l’uno all’altro in una sequenza (l’esito di un episodio determina l’intreccio del successivo), mentre le storie centrate sul finale ([end-embedded] hanno tutti gli intrecci subordinati a quello centrale che viene rivelato alla fine (Mandler, 1984). Le connessioni temporali non bastano: un racconto i cui elementi sono collegati solo per successione non è una storia – “Lunedì pioveva, martedì ho comprato una macchina”. Per diventare una storia con una trama, gli elementi o gli episodi devono essere correlati con una trasformazione (Todorov, 1993). Lo si può fare aggiungendo un terzo episodio: “ne ho avuto abbastanza di bagnarmi sempre quando sono in bicicletta”. Gli episodi sono ancora sequenziali, ma la cronologia ora rappresenta anche la causalità. Una narrazione intrecciata non implica perciò solo una dimensione sintagmatica anche una paradigmatica: le azioni e gli eventi non sono solo connessi ma anche trasformati (sostituiti). L’aggiunta di nuovi elementi è un esercizio di mimesi; esso
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non fa di una narrazione una storia. Questo è il significato della critica tradizionale dei testi scientifici che sono ‘solo descrittivi’. La teoria è la trama di una tesi. Marie-Laure Ryan (1993, si veda Capitolo 1) ha creato un utile elenco di passaggi da seguire nell’emplotment: • Creare i personaggi (che spesso nei testi di scienze sociali sono non-umani: il declino economico, la crescente disoccupazione, una nuova tecnologia). • Attribuire ruoli a singoli eventi ed azioni. • Trovare un tema interpretativo.
La successione cronologica di questo elenco è un po’ intricata: mentre il tema interpretativo si trova attraverso la costruzione dei personaggi e l’attribuzione di ruoli a eventi e azioni, una volta trovato, è il tema stesso a dominare sugli altri due. In altre parole, un tema interpretativo emerge mentre lo scrittore sta testando personaggi e ruoli ma, una volta definito il tema, il testo ha bisogno di una rigorosa revisione: vale a dire che dopo aver scritto l’ultimo capitolo, bisogna tornare indietro e riscrivere il resto. Come ho già detto, c’è una tendenza nei testi di scienze sociali, non solo in economia, verso gli intrecci centrati sul finale [ending-embedded]. Tutto il testo è pensato per essere orientato alle ‘conclusioni’. Eppure esiste la possibilità che l’esito di un episodio cambi la struttura dell’episodio successivo o dell’intero testo. Lo scrittore potrebbe ammettere con i suoi lettori che la prima ipotesi non ha funzionato e che l’intero studio è stato modificato di conseguenza. Nel prossimo paragrafo citerò un esempio di un intreccio complesso e inatteso. 9.2.3 Una storia ricca d’intrecci Adesso esaminerò un lavoro che contiene diversi intrecci, che usa sia connessioni temporali (sequenzialità) sia connessioni causali (causalità e intenzionalità), che unisce successione e
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trasformazione. Ha tre personaggi principali: Aramis, il Maestro e il suo Allievo; il suo tema interpretativo è che, quando gli esseri umani non amano adeguatamente le macchine, le macchine muoiono. Tutti gli eventi e le azioni sono subordinati a questo tema. Aramis or the Love of Technology (Latour, 1996) è la storia di un treno automatizzato che è stato testato a Parigi e poi abbandonato. La storia inizia, in maniera abbastanza ingenua, come combinazione di due generi classici, un poliziesco (chi ha ucciso Aramis?) e un Bildungsroman, romanzo di formazione in cui un Allievo impara dal Maestro. Il primo intreccio è incentrato sull’attirare la curiosità dei lettori sul ‘chi è stato?’: Aramis è morto e sepolto nel Museo della Tecnologia e si sta indagando sulla causa. Il secondo intreccio, incorporato nel primo, si basa sulla spinta di una leggera suspence: vista la sete di conoscenza dell’Allievo e il profondo sapere del Maestro, i lettori si aspettano quasi sicuramente di trovare un Allievo illuminato alla fine, ma incontrano varie complicazioni lungo il percorso. Le complicazioni, quando arrivano, non sono gestibili come il genere di intoppi che si trova nelle favole. Gli ostacoli intralciano non solo gli eroi o i loro programmi d’azione ma anche gli intrecci stessi. L’intreccio principale di individuare chi fosse colpevole di aver ucciso un’innovazione, si dimostra irrealizzabile. Ad un certo punto sono venti le interpretazioni contraddittorie offerte per la scomparsa del progetto Aramis e sono tutte corrette. È lo stesso Latour a contarle altrove. Appena prima che venga prodotta la relazione finale, il Maestro scompare, non perché l’Allievo debba imparare l’autonomia ma perché ha cose più importanti a cui pensare. A questo punto, il poliziesco si trasforma in una storia d’amore tragica. Aramis non è stato ucciso; è solo che nessuno lo amava abbastanza per mantenerlo in vita. Il suo rivale meno attraente, il sistema metropolitano VAL, è amato e vive felicemente a Lille; un nuovo Aramis è nato a San Diego: continuerà a vivere?
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Anche il Bildungsroman si trasforma nel suo opposto, un tormentato viaggio interiore del Maestro nell’autoriflessione, nell’incertezza e nella paura. L’Allievo si diploma e cerca di ignorare gli sproloqui del suo ex Maestro, la cui eccessiva riflessione lo ha spinto a ribellarsi ai valori sacri della scienza. Di certo non è un finale convenzionale per uno studio di scienze sociali. Cambiare cavallo mentre si sta guadando il fiume – cioè trasformare gli intrecci principali della storia – è una mossa insidiosa. Un primo pericolo è evidente: l’autore potrebbe fallire. Aramis, il Maestro e il loro autore sopravvivono al viaggio molto bene, ma è un viaggio che richiede un cavaliere provetto. Un altro pericolo è legato ai lettori, che potrebbero non gradire il gioco d’intrecci, come dimostrato nello studio di Bronwyn Davies (1989; cfr. il capitolo 6). I lettori potrebbero ricorrere all’omicidio pur di salvare i ‘propri’ intrecci, almeno simbolicamente. Latour si è salvato trasformando gli intrecci in maniera rivoluzionaria, ma allo stesso tempo attingendo ad un insieme di intrecci riconoscibili e validi. Il suo testo coinvolge un lettore che abbia familiarità con la grande varietà d’intrecci esistenti sia nella narrazione che nella sociologia. Di certo non tutti i lettori avranno colto questi trucchi, ma quello principale è un intreccio esemplare. Quali sono le caratteristiche di questo intreccio? Il testo è coerente: azioni ed eventi hanno ruoli coerenti con il suo schema interpretativo. In nessun momento del testo, il lettore si trova a chiedersi: “Perché mi sta dicendo questa cosa?” Il testo ha un intreccio di base e l’autore ci gioca complicandolo, introducendo sottointrecci e intrecci contrastanti. In altre parole, un ricco intreccio equivale ad una teoria ben congegnata, che nelle monografie di scienze sociali, a differenza che nei romanzi, viene chiaramente esplicitata (alla fine o all’inizio). Ciò significa dunque che la struttura convenzionale deve essere abbandonata? Non necessariamente. Il mio appello è che gli
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scrittori comprendano la finalità della struttura convenzionale e smettano di usarla meccanicamente. Una volta capito questo punto, la struttura convenzionale può essere seguita, abbandonata o raggirata: può diventare una cornice all’interno della quale inserire una storia con un buon intreccio. 9.2.4 Un intreccio semplice che funziona Mentre il testo di Latour è una monografia che riporta uno studio sul campo, l’altro testo che ho scelto come esempio è generalmente classificato come un saggio di storia delle idee. Si tratta de Le passioni e gli interessi di Albert O. Hirschman (1977/1979). Lo si potrebbe anche definire uno studio sul campo o una monografia sulla storia del pensiero economico. Considero produttiva una simile mescolanza di generi: in effetti, nella fase di definizione di un documento di ricerca, non esiste una sostanziale differenza tra campo di pratica e campo di teoria, nel momento in cui quest’ultima è considerata essa stessa una pratica. Una frase pronunciata da un ingegnere francese nella storia di Latour può essere analizzata allo stesso modo di una pronunciata da Montesquieu in Hirschman. Il libro di Hirschman propone una sorprendente tesi (o schema interpretativo) che viene dimostrata nel corso del testo: contrariamente al pensiero contemporaneo, ‘gli interessi’ non sono l’opposto delle ‘passioni’. L’interesse personale, pietra fondante del capitalismo, venne eletta come la passione meno nociva, in grado di arginare le altre. I personaggi del libro di Hirschman sono le scuole di pensiero, rappresentate da scrittori famosi che ne sono i portavoce (tra loro non c’è nessuna donna). La struttura del libro è lineare. Contiene tre parti: (1) Come si fece ricorso agli interessi per fronteggiare le passioni; (2) Come si sperava che l’espansione economica migliorasse l’ordine politico; (3) Riflessioni su un capitolo della storia delle idee (si osservi come i titoli raccontino praticamente già la storia).
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La prima parte è ambientata nel Rinascimento, poiché fu un’epoca caratterizzata da una svolta nella teoria della Ragion di Stato. Si percepiva che la religione non fosse più capace di limitare le passioni distruttive degli esseri umani. Erano state considerate tre possibilità: 1) la coercizione e la repressione, 2) l’educazione, intesa sia come socializzazione che come indottrinamento, 3) la lotta alle passioni con le passioni. Hirschman esaminò diverse situazioni, che aiutarono a stabilire il predominio di quest’ultima alternativa nel XVII secolo. Machiavelli fu una fonte importante in questo contesto. L’attenzione si è spostata sul cercare di identificare una passione che possa avere un effetto benevolo. Il risultato è ben noto: “una categoria di passioni sino ad allora note come avidità, cupidigia, amore del lucro, poteva essere utilmente impiegata per contrastare e imbrigliare altre passioni come l’ambizione, la brama di potere, la lussuria” (Hirschman 1977/1979: 36). La seconda parte spiega perché questa tesi ha attirato poco l’attenzione delle scienze politiche e del pensiero economico delle epoche successive. Hirschman mostrò che, mentre, ad esempio, Montesquieu in Francia sviluppava e sosteneva una linea di pensiero secondo la quale il conseguimento di traguardi economici ha un impatto positivo sul governo politico, Adam Smith separò i due concetti, dando una giustificazione economica, non più politica, al perseguimento dell’interesse personale. A suo avviso, “la politica è la provincia in cui regna la ‘follia umana’, mentre il progresso economico, come il giardino di Candido, può essere coltivato con successo a patto che questa follia non superi certi limiti, anche se abbastanza ampi e flessibili”(Ivi: 78). Nella terza parte, Hirschman ha brevemente ripreso gli sviluppi economici e il pensiero politico di cui aveva parlato in precedenza (egli ha esteso in seguito la sua analisi al diciannovesimo e ventesimo secolo in Rival Views of Market Society, 1992). Egli mostrò come le attuali opinioni su mercato ed economia siano differenti da quelle antecedenti. La sua riflessione riguardava,
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innanzitutto, un fenomeno su cui raramente si sono concentrati altri studiosi: le conseguenze, sperate ma non realizzate, di idee e decisioni. Possono essere messi in evidenza diversi aspetti del modo in cui Hirschman costruisce l’intreccio della sua storia. Tanto per cominciare, anche se la cronologia è chiaramente un elemento chiave in un saggio storico, qui non ha una funzione strutturante. Il saggio è strutturato con una causalità limitata alla singola evenienza [outcome-bounded]: nella prima parte sul pensiero politico l’autore ha presentato il primo episodio, che è la base del secondo. Il secondo episodio, tuttavia, cambia l’esito e di conseguenza l’intreccio futuro. Il secondo episodio si conclude con una trasformazione: quello che era iniziato come un modo per risolvere un problema politico finisce per essere una giustificazione per l’autonomia dell’economia. La terza parte rende questa trasformazione scontata e ironica: “insomma, il capitalismo avrebbe dovuto fare esattamente quello che presto gli sarebbe stato imputato a sua più grave colpa”(Ivi: 95). Come sono costruite internamente le prime due parti se non in sequenza? Come disse Hirschman stesso, nella prima parte, egli ha messo insieme la sua tesi con un “laborioso procedimento…necessario per ricostruirla in base agli sparsi elementi intellettualmente probanti. Basandomi su una vasta gamma di fonti … “ (Ivi: 55). Una volta assemblata la tesi, essa viene posta a confronto con le varie scuole di pensiero successive per mostrarne le tracce. Il genere tende qui alla satira. Vi sono molte ragioni per cui ho scelto il libro di Hirschman come esempio. La più ovvia è che Hirschman era uno scrittore eccellente, com’è stato definito da Amarthya Sen in una prefazione alla riedizione del 1997, e tutti i suoi testi possono essere suggeriti come modello per aspiranti scienziati sociali. La seconda ragione è che Hirschman era realmente uno scienziato sociale: benché praticamente tutte le discipline che ha trattato rivendichino la sua appartenenza, egli non vedeva alcun motivo per
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rispettare i confini disciplinari. In terzo luogo, Le Passioni e gli Interessi ha riacquisito un’incredibile importanza quando è diventato tristemente chiaro che l’avidità non argina la violenza. Dopo che anche la coercizione e l’indottrinamento hanno fallito, quali alternative rimangono? Ne emergeranno di nuove? Il testo di Hirschman è importante per i suoi contenuti e per la sua forma. Prestare attenzione a quest’ultima non farà altro che valorizzarne i contenuti. Anche se i lettori di questo libro non ambiranno alle vette stilistiche di Hirschman e Latour, la mia speranza è convincerli a sviluppare un’abitudine alla lettura semiotica. Dopo aver ammirato un testo scientifico per ciò che dice, è utile domandarsi come lo dice. Quando diventa un’abitudine, questo tipo di riflessione può ripagare generosamente nel proprio ambito lavorativo. I testi di scienze sociali, in quanto sottogenere letterario, dovrebbero dunque fare abile uso delle storie, e non solo. Essi potrebbero anche utilizzare gli assiomi della teoria letteraria come aiuto nell’autoriflessione. Si potrebbe in tal modo facilitare il superamento dell’idea radicata che le scienze sociali siano (ancora) una scienza naturale lacunosa. Non sto suggerendo che esse si debbono trasformare in letteratura di finzione, ma voto per la creazione consapevole e riflessiva di una famiglia di generi che riconosca la propria tradizione senza esserne paralizzata; che cerchi ispirazione in altri generi senza imitarli; che tragga fiducia dall’importanza della propria materia e dalle proprie crescenti capacità.
Esercizio Esercizio 9.1: scrivi la tua tesi!
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10. Narrativizzare le scienze sociali
Le scienze sociali sono scienze che parlano, ed è solo nei testi, non altrove che possono conseguire l’osservabilità e l’oggettività dei fenomeni che studiano. Ciò si fa per mezzo di attività letterarie che usano l’arte della lettura e della scrittura di testi, … e ‘spargendo in giro le parole’. (Garfinkel et al., 1981: 13)
Lo dovevano sapere bene Garfinkel, Lynch e Livingston che hanno osservato pratiche di laboratorio abbastanza a lungo per vedere cosa le differenzia dalle scienze sociali e in cosa sono simili ad esse. Ma non tutti sono così ferrati sull’argomento delle ‘scienze che parlano’. Anche se l’attrazione verso i dispositivi narrativi sembra stia crescendo tra gli scienziati sociali da un bel po’, ci sono ancora molte perplessità circa il loro uso. Vediamo alcune delle più comuni.
10.1 Storie pericolose dal campo Una delle preoccupazioni comuni, anche tra autori dediti all’approccio narrativo, è la valenza del materiale narrativo raccolto sul campo. “Fatti, finzioni e fantasie” è il sottotitolo del libro di Gabriel sullo storytelling nelle organizzazioni. Egli ha messo in guardia i suoi lettori, potenziali collezionisti di storie, dal pericolo
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di permettere alla nostra attuale attrazione verso testo e narrazione di tralasciare questioni più profonde di giustizia, politica e sofferenza umana…Trattare una storia semplicemente come testo, non tener conto della misura in cui si discosta o distorce i fatti e ignorare lo sforzo e l’acume che richiede, significa fare un grave torto sia alla storia che al narratore. (Gabriel 2000: 241)
In questo monito di Gabriel ci sono diverse preoccupazioni, che cercherò di esporre una ad una. La prima è che le storie fittizie non informano i lettori sullo stato del mondo. Questa critica diventa particolarmente rilevante alla luce del fatto che molti sostenitori di un approccio narrativo sottolineano il fatto che si dà una grande varietà di narrazioni fittizie in diversi campi di pratica (Waldo 1968, Coser 1963/1972; Czarniawska-Joerges-Guillet de Monthoux 1994). La critica della finzione nel lavoro scientifico è spesso fondata sulla confusione tra i due modi in cui è concepita: finzione come ciò che non esiste e finzione come ciò che non è vero (Lamarque 1990). Se teniamo separate queste due concezioni, diventa evidente che il Castello di Kafka non esisteva, eppure tutto ciò che è stato detto al suo riguardo potrebbe essere vero, in quanto appare arguto e credibile alla luce di altri testi che trattano l’argomento della burocrazia e delle sue assurdità. Ma la preoccupazione di Gabriel (2000) riguardava l’impossibilità di raccontare i fatti, partendo dalla finzione, nel caso delle storie dal campo. È d’accordo che le storie fittizie siano interessanti e che valga la pena analizzarle, ma ha paura che siano prese per fatti. In effetti, è stato sottolineato che non esistono differenze strutturali tra narrazioni fittizie e fattuali (Veyne, 1984; capitolo 1). Come può un ricercatore sapere di quale si tratta? Un ricercatore di scienze sociali sa che i fatti sono fatti (Latour 1993b; Knorr Cetina 1994) e desidera sapere come sono fatti. Sta quindi al ricercatore verificare il certificato di produzione (metodo ben conosciuto da molti che consiste nel confrontare storie, controllare documenti scritti, analizzare le fonti, ecc.) oppure prendere parte alla produzione, cioè rendere questo processo di
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verifica parte dei risultati della ricerca stessa. “Bersi una frottola” non è un requisito dell’approccio narrativo. Un’altra possibilità è spostare l’attenzione da ‘cosa dice un testo?’a ‘che cosa fa un testo?’, ‘come lo dice?’, eliminando così la domanda: fatto o finzione? Ma questo “trattare una storia semplicemente come un testo” sembra a Gabriel fare torto alla storia e al narratore, cioè al mondo sociale. Tuttavia, questo pericolo è difficile da comprendere. ‘Cercare mondi nei testi’ non è una manifestazione di disinteresse verso la giustizia, la politica e la sofferenza umana; piuttosto, si fonda sull’idea condivisa da etnometodologisti e poststrutturalisti che i testi fanno parte del mondo e come tali vanno analizzati. Si può pensare o meno che l’analisi del testo sia un buon modo di avvicinarsi al mondo, ma non deve essere scambiata per indifferenza verso il mondo.
10.2 Storie preoccupanti dal campo Ma le preoccupazioni riguardo la validità del materiale narrativo sono relativamente piccole rispetto a quelle legate alla ‘narrativizzazione’ delle scienze sociali. Qualsiasi cosa può andare bene nelle scienze sociali? La prima preoccupazione riflette quella formulata sopra, ma stavolta riguarda le “storie dal campo”. Come si può sapere se un documento di ricerca sia ‘vero’, se ammette apertamente l’uso di dispositivi narrativi, di impiego di metafore e l’invenzione di storie? Si vuol obiettare, e con veemenza spesso, con un argomento … e cioè con il fatto che scrivendo di etnografia si fanno per ciò stesso racconti, si creano per ciò stesso delle immagini, si confezionano dei simbolismi e si dispiegano dei tropi. Il che a sua volta proviene dalla confusione, endemica in Occidente almeno a partire da Platone, fra immaginato e immaginario, finzione e falso, l’interpretare le cose e il truccarle. (Geertz 1988/1990: 149)
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Tradizionalmente, ci si aspettava che un testo di scienze sociali dimostrasse la propria ‘validità’ (cioè la sua corrispondenza con il mondo) e la propria ‘affidabilità’ (la garanzia che lo stesso metodo porterà gli stessi risultati). Ahimè, la teoria corrispondentista della verità è insostenibile perché le uniche cose con cui è possibile confrontare le dichiarazioni sono altre dichiarazioni (Rorty, 1980). Che si affermi di parlare di realtà o di fantasia, il valore di un’affermazione non può essere stabilito confrontandola con l’oggetto di cui parla, ma solo confrontandola con altre affermazioni. Le parole non possono essere confrontate con i mondi che rappresentano e uno sguardo alle attuali pratiche di convalida svela che consistono sempre nel verificare un testo ponendolo a confronto con altri testi. Si potrebbe obiettare che l’osservazione stessa ci mostra un’affidabilità intesa come ripetibilità. Tuttavia, dalla prospettiva che stiamo sostenendo, si può affermare che i risultati si ripetono non perché il metodo corretto sia stato ripetutamente applicato allo stesso oggetto di studio, ma perché le pratiche di ricerca istituzionalizzate tendono a produrre risultati simili. Si può andare ancora oltre, sostenendo che i risultati sono parte della pratica esattamente come lo sono i metodi. È forse più appropriato parlare di “conformità” piuttosto che di affidabilità; non sono i risultati ad essere affidabili ma lo sono i ricercatori, che si conformano alle regole predominanti. L’insoddisfazione verso i criteri positivistici per identificare ‘buoni testi scientifici’ e il desiderio di linee guida alternative hanno portato a ricercare un nuovo insieme di criteri all’interno della tradizione interpretativa. Così Guba (1981) ha parlato di ‘attendibilità’ a proposito degli studi naturalistici, dove si comporrebbero valore di verità, applicabilità, coerenza e neutralità; Fisher (1987) ha parlato di ‘probabilità narrativa’ (coerenza) e di ‘fedeltà narrativa’ (valore di verità), che costituirebbero la ‘razionalità narrativa’; mentre Golden-Biddle-Locke (1993) hanno suggerito che l’autenticità, la plausibilità e la criticità siano i modi con cui i testi etnografici con-
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vincono il loro pubblico. Sfortunatamente, come i criteri positivistici che ci criticano, questi sono ancora criteri ostensivi del successo di un testo (cioè gli attributi di un testo che possono essere dimostrati e quindi applicati a priori per determinarne il successo). La teoria della “risposta del lettore” si è opposta a queste teorie oggettivistiche della lettura (Iser, 1978/1987), ma, a sua volta, ha soggettivizzato l’atto del leggere, trascurandone la ripercussione istituzionale. Per contro, ogni repertorio di testi e risposte in un dato momento e luogo è limitato: vi sono risposte più o meno legittime e la tendenza del momento fa da meccanismo di selezione. La teoria pragmatistica della lettura a cui sono fedele dà la preferenza ai criteri performativi (Rorty 1992/1995). Non si tratta di regole che, se osservate da uno scrittore, garantiranno l’accoglienza positiva del suo lavoro, ma di descrizioni che riassumono le giustificazioni tipiche date quando si verifica un’accoglienza positiva. Tali descrizioni non riguardano il testo, ma piuttosto le risposte dei lettori date nel linguaggio riconosciuto in quel momento. Ma le preoccupazioni non finiscono. Come fa il lettore a dire che sta leggendo un testo di scienze sociali e non un romanzo? Forse non è un caso che sia un altro antropologo, Margery Wolf, a preoccuparsi di “come differenziare l’etnografia dalla finzione, al di fuori della prefazione, delle note e di altri strumenti autoriali “ (1992: 56). Esiste qualcosa di specifico per la scrittura nelle scienze sociali, almeno in termini di uso frequente se non di caratteristiche intrinseche? Esiste qualcosa che possa considerarsi essenziale in questo genere letterario? Come sottolineato da McCloskey (1990a), le scienze sociali utilizzano l’intero repertorio di dispositivi letterari: fatti e metafore, logica e storie. Mentre le metodologie di associazione tendono alla logica senza mai raggiungerla (si potrebbe parlare di ‘stilizzazione logica’), i metodi di sostituzione sono collocati tra metafora e analogia. Tuttavia, nell’analisi di genere, i metodi di sostituzione attirano molta più attenzione rispetto a quelli di associazione. Una ragione potrebbe risiedere nel fatto che l’idea-
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le settecentesco di scienza ha spinto le scienze sociali in un’area fatta di cose, dove a contare sono i sostantivi (nomi). Si può dire che, una volta che la metafora è usata correttamente, la storia si racconta da sola. Tuttavia, se la ‘sociologia dei verbi’ postulata da John Law (1994) prendesse mai il sopravvento, vaghe locuzioni come ‘esso causa’, ‘esso influenza’, ‘si riferisce a’, diventerebbero il centro focale delle scienze sociali. Causa che cosa? Influenza in che modo? Come Dvora Yanow (1996) ha domandato provocatoriamente: “Qual è il significato di una politica?”. Una riflessione sulle metodologie di associazione deve essere ancora sviluppata nei testi di scienze sociali. Dunque, sembra piuttosto lontano il pericolo che le scienze sociali siano prese per finzione letteraria. I casi conosciuti riguardano la situazione contraria, ossia quando opere presentate come scienze sociali sono sospettate di essere romanzi, come il caso di Castaneda1. Di conseguenza, non è particolarmente rilevante la preoccupazione che, impegnandosi nel lavoro letterario, gli scienziati sociali diventino critici letterari, mettendo a repentaglio la credibilità del loro impegno e/o venendo penalizzati dalla competizione con i teorici letterari. Questo timore è una reminiscenza storica di una preoccupazione simile emersa quando le scienze sociali imitavano in maniera quasi impeccabile le scienze naturali; un’imitazione che, come ogni processo di traduzione, ha portato alcuni risultati molto interessanti e altri meno. Nessuna disciplina scientifica è, o è mai stata, autarchica. Perciò la domanda non è se imitare, ma chi e come. È quindi tempo di considerare i vantaggi che un approccio narrativo, e il conseguente riavvicinamento con la letteratura e la teoria letteraria, potrebbe portare alle scienze sociali.
1 Gli insegnamenti di Don Juan (1968) di Carlos Castaneda era una dissertazione sulla sociologia della conoscenza dove lo sciamano Don Juan introduceva Castaneda a un sistema di conoscenza alternativo a quello occidentale (ma mediato dall’effetto allucinogeno di alcune piante).
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10.3 Le narrazioni speranzose Per me, un approccio narrativo alle scienze sociali apre almeno tre opportunità. La prima opportunità è data dall’incremento dell’uso di testi come materiale di studio, connesso con la grande varietà delle tecniche che consentono l’analisi di un testo. Che essi siano fattuali o fittizi, i testi sono il pane quotidiano degli scienziati sociali e la loro tradizionale preferenza per la creazione di testi piuttosto che per la loro raccolta potrebbe essere in parte dovuta all’incertezza su che cosa farne. La soluzione tipica a questo problema era quella di fare una descrizione quantitativa dei testi (o di qualsiasi cosa nei testi che valesse la pena contare) e successivamente procedere come si faceva di consueto nelle scienze sociali (l’analisi del contenuto è, dopotutto, un primo esempio di uso dello strutturalismo nelle scienze sociali). Ora, se la quantificazione dei testi e di elementi del testo può avere un senso in molti contesti, d’altro lato essa non risolve il problema dell’interpretazione. Un “testo descritto” è un nuovo testo che deve essere interpretato. Qui riappare la domanda ‘come imitare’. Ho dichiarato la mia posizione quando ho ironizzato sulle idee di ‘corretta decostruzione’ e ‘analisi strutturale correttamente applicata’. Qui in realtà è necessario fare una distinzione tra teoria della letteratura e teoria della società. Mentre gli studenti di letteratura devono solo mostrare di essere degni seguaci di Derrida e Barthes, gli studenti di teoria della società devono poter dire qualcosa di interessante sulla società stessa. E per farlo, hanno bisogno di muoversi come tutti gli altri lettori, che, per citare una metafora di de Certeau, “si muovono su terre appartenenti a qualcun altro, come nomadi che sconfinano in campi che non hanno arato, saccheggiando la ricchezza dell’Egitto per goderne loro stessi” (1984/1988: 174). Catturare metodi e tecniche del campo di studio di qualcun altro ma impostandoli a proprio uso. Non ritengo che esista qualcosa che deve o dovrebbe essere ‘fatto’ alle narra-
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zioni. Ogni lettura è un’interpretazione e ogni interpretazione è un’associazione, che lega il testo, che è stato interpretato, ad altri testi, altre voci, altri tempi e luoghi. Molto più importante di una specifica tecnica interpretativa o analitica è il risultato: una interessante ri-contestualizzazione. La seconda opportunità è l’acquisizione creativa della scrittura stessa. “Rendere ibrido un genere” forse sarebbe un’espressione appropriata: Alle poche lingue di legno sviluppatesi nelle riviste accademiche, dovremmo aggiungere i molti generi e stili di narrazione inventati da romanzieri, giornalisti, artisti, fumettisti, scienziati e filosofi. Il carattere riflessivo del nostro settore sarà riconosciuto nel futuro per la molteplicità di generi, non per la noiosa presenza di ‘circuiti riflessivi’. (Latour, 1988: 173)
Quello che Margery Wolf ha detto dell’antropologia potrebbe essere applicato a tutte le scienze sociali. Ognuna di esse “è una disciplina con confini molto permeabili, che raccoglie metodologie, teorie e dati provenienti da qualsiasi fonte, che possa fornire risposte alle nostre domande” (Wolf, 1992: 51). Tutti questi ‘prestiti’ arrivano sotto forme tipiche del genere da cui provengono. Tradizionalmente, tuttavia, gli scienziati sociali tendevano a ignorare ‘la forma’, insistendo che venissero intercettati i ‘puri contenuti’. Il parere di Latour suggerisce la creazione della virtù da un vizio, di un’arte da un comportamento impulsivo. La terza opportunità è pertanto la riflessione e l’analisi del genere. Il dibattito su ciò che è buona e cattiva scrittura può essere sostituito o almeno aiutato da una discussione sui generi letterari, cioè forme istituzionalizzate di scrittura. Un’analisi di genere rivelerà come sono fatte le classificazioni istituzionali, rendendo così le opere scientifiche più comprensibili. Ma l’analisi di genere è anche una costruzione, è la creazione di un’istituzione e come tale necessita di controllo: qualcuno deve ‘proteggere il fulcro’ del genere in esame. Come ha dimo-
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strato l’analisi di genere in letteratura, tuttavia, nel peggiore dei casi questo controllo porta al soffocamento di un genere; in molti casi non porta a nulla; nel migliore dei casi allo sviluppo di un genere, come accadde nel caso del poliziesco (Czarniawska, 1999a). Né la paradossalità né il conflitto indeboliscono un genere; al contrario, ne aumentano il potere di controllo. E tra gli autori, quelli che operano nelle zone grigie sono gli innovatori: rinvigoriscono e riformano il genere. Ottenere un inventario e una descrizione dei generi non solo consente stime probabilistiche sul successo di un’opera, ma ci permette anche di comprendere le deviazioni. Ogni avanguardia, ogni estremismo, ogni discorso edificante, trae nutrimento dalle tendenze dominanti, dalla scienza, dalla sistematizzazione del discorso. Analogamente, la sopravvivenza della ‘tradizione canonica’ (MacIntyre, 1981) dipende dalle deviazioni e deve a loro anche la sua eventuale rovina. Nella mia interpretazione, l’approccio narrativo alle scienze sociali non offre un ‘metodo’; né ha un ‘paradigma’, un insieme di procedure per verificare la correttezza dei suoi risultati. Dà accesso ad un ampio numero di trucchi – dalla critica tradizionale, passando per il formalismo, fino alla decostruzione – ma rifiuta l’idea che una procedura ‘rigorosamente’ applicata renda i risultati ‘verificabili’. L’uso di dispositivi narrativi nelle scienze sociali dovrebbe portare a letture più ispirate, come le ha chiamate Rorty (1992), e ad una scrittura ispirata e ispiratrice. Questo libro, come dovrebbe essere ormai evidente, si basa sulla credenza che le scienze sociali, per assumere maggior peso nella vita delle società contemporanee2, debbano raggiungere lettori esterni al proprio ambiente. Mentre i testi di autoriflessione disciplinare resteranno interessanti e rilevanti solo per gli scienziati sociali (il che non significa che debbano abbandonare 2 Si veda anche la appassionata richiesta di Flyvbjerg di ‘una scienza sociale che conti’ (2001).
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qualsiasi pretesa letteraria – anche gli scienziati sociali amano i bei testi), la parte principale delle scienze sociali ha bisogno di essere costruita con abilità. E domande come: ‘è fondato?’ ‘È affidabile?’ ‘È Scienza?’ dovrebbero essere sostituite da domande come: È interessante? È rilevante? È bello? In altre parole, suggerisco che gli scienziati sociali concludano con i propri lettori un doppio contratto, fittizio e referenziale: sospendi il tuo scetticismo, perché intendo divertirti, ma allo stesso tempo attiva il tuo scetticismo, perché intendo istruirti. Non ho dubbi che i lettori li gestiranno entrambi: dopotutto, lo fanno sempre.
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Glossario
Analisi drammaturgiche Uno schema analitico proposto da Kenneth Burke (1945/1969) che verifica la congruenza tra cinque aspetti di una storia: Scena, Atto, Agente, Attività e Scopo (la cosiddetta “Pentade di Burke”). Apologia Un discorso o un testo che presenta una difesa o una giustificazione (di qualcuno o qualcosa) contro un’accusa reale o potenziale. Ad esempio, a volte si afferma che le scienze sociali sono apologetiche sull’uso del potere. È diverso dall’elogio perché ammette la potenzialità di una critica. Attante Una nozione centrale nella versione di Algirdas Greimas’ dell’analisi strutturale. “colui/cio’ che compie o che sottostà a un atto” (Greimas and Courtés, 1982: 5). Questo concetto è stato introdotto per sostituire il concetto di “carattere” e di dramatis persona, in quanto si applica non solo agli esseri umani ma anche agli animali, agli oggetti e ai concetti. Bildungsroman (Romanzo di formazione) Un romanzo che descrive gli anni formativi del protagonista, l’educazione spirituale o una ricerca di conoscenza. Riguarda l’educazione, ma la sua intenzione è educare il lettore. Circolo ermeneutico (anche spirale ermeneutica, arco ermeneutico) L’assunto, nella teoria dell’interpretazione, che l’ignoto possa essere compreso solo attraverso la mediazione di ciò che è già noto. Diario di bordo Un testo, un film o una lezione illustrata sui luoghi e le persone incontrate nel corso del viaggio.
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Elogio (anche lode) Un discorso o un testo denso di elogi e lodi per una persona o una cosa; opposto della critica (vedi anche Apologia). Enplotment (Costruzione dell’intreccio, ‘intrecciamento’) Termine derivato da Hegel e dalla sua “teoria dell’intreccio storico”, resa popolare da Hayden White (1973/1978). Originariamente utilizzato nel contesto di opere storiche, significava l’introduzione di una struttura letteraria in un resoconto cronologico, trasformandolo in una “storia”. Ermeneutica Originariamente il termine afferiva alla teoria dell’interpretazione delle Scritture, oggi viene usato più in generale per indicare la filosofia e la teoria dell’interpretazione. Esegesi Un’esposizione completa di precisazioni e spiegazioni. In origine, l’interpretazione critica di un testo biblico per scoprire il suo significato più intimo. Eteroglossia Discorso variegato (Bachtin 1928/1985): in un testo non solo ci sono molte voci, ma anche dialetti diversi. Firma La presenza visibile della voce dell’autore in un testo, o la mancanza di esso. Geertz (1988) distingue i testi in testi “autorialmente saturi” (firma visibile) e testi “autorialmente svuotati” (firma cancellata). Formalismo Il termine deriva dalla matematica e indica che questa disciplina si fonda sulla manipolazione dei simboli secondo prescritte regole strutturali. Applicato alle arti, il formalismo è un approccio che afferma che, nelle interazioni con le opere d’arte, occorre dare il primato alla forma. Questa visione fu abbracciata da un gruppo russo di teorici della letteratura negli anni ’20.
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Intentio auctoris Una teoria dell’interpretazione che presuppone che lo scopo della lettura sia di dedurre le intenzioni dell’autore. Originariamente si riferiva all’interpretazione delle intenzioni di Dio nelle Scritture. Intentio lectoris Una teoria dell’interpretazione che suggerisce di cercare le intenzioni del lettore, ovvero le modalità di ricezione di un testo da parte del lettore. Intentio operis Un termine coniato da Umberto Eco (1992) in opposizione all’idea di una “semiosi illimitata” per cui ogni testo può essere interpretato in un numero illimitato di modi. Anche se un testo esprime contemporaneamente di più e di meno ciò che l’autore intende, i lettori raramente lo interpretano in modo davvero completamente idiosincratico o casuale. Intreccio centrato sul finale (End-embedded plot) Una storia in cui la connessione logica tra vari episodi diventa visibile alla fine e il finale giustifica la struttura della trama (vedi anche: intreccio centrato sulle evenienze). Intreccio centrato sulle evenienze (Oucome-embedded plot) Una storia in cui i contenuti di un episodio sono la conseguenza dell’esito dell’episodio precedente e la struttura della storia è condizionata da ciò che accade nella storia stessa (vedi anche: intreccio centrato sul finale). Iperbole Un dispositivo retorico che consiste nell’uso dell’enfasi, attraverso termini esagerati o stravaganti. Ipotiposi Una descrizione visivamente potente e vivida. Kairos Il dio greco del tempo “giusto” o “proprio”, diverso da Chronos, che si occupava invece del tempo “lineare”. “Il tempo kairotico” è quindi
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scandito da eventi chiave, non da unità temporali: non “passa”, ma “corre avanti” o “sta fermo”. Metonimia Una figura retorica che sostituisce la causa all’effetto o l’effetto alla causa (dove la causalità è talvolta dedotta dalla prossimità nello spazio o nel tempo), o un nome proprio a una delle qualità della persona o viceversa. Mimesi Imitazione delle parole o delle azioni di un’altra persona, ma anche rappresentazione del mondo in poesia, in prosa e in arte. Paradigma Nel contesto della narrativa, il modo in cui gli elementi di una narrazione possono essere sostituiti l’uno con l’altro. È la modalità della sostituzione (vedi anche sintagma). Polifonia Molte voci che parlano in un testo (al contrario della monofonia, dove solo il narratore ha una voce). Vi si connette il concetto di discorso variegato (eteroglossia) di Bachtin (1928/1985) in cui non solo ci sono molte voci, ma anche dialetti diversi. Post-strutturalismo Una reazione, ma anche una continuazione, rispetto allo strutturalismo. Un approccio decostruttivo ai testi, che rivela la loro struttura come imposta o costruita, nonostante – spesso – le intenzioni dichiarate dell’autore. Semantica Una teoria del significato; diverso da semiologia/semiotica. Semiologia/semiotica La teoria dei segni. Il primo termine è spesso usato nel contesto continentale (il termine fu introdotto dal linguista svizzero Ferdinand de Saussure), il secondo nel contesto anglosassone (il termine fu introdotto da John Locke ed elaborato da Charles Peirce).
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Sineddoche Una figura retorica che sostituisce una parte per l’intero, il genere per la specie o viceversa. Sintagma Il modo in cui gli elementi di una narrazione sono collegati tra loro; la modalità di associazione (vedi anche paradigma). Strutturalismo Una scuola di pensiero al tempo stesso riconoscibile e permeante per le scienze sociali e umane. È possibile parlare dello strutturalismo americano (iniziato dal linguista, Leonard Bloomfield e reso popolare da Noam Chomsky) e dello strutturalismo europeo (che inizia con il linguista svizzero Ferdinand de Saussure e continua con Claude Lévi-Strauss, Algirdas Greimas et al.). Lo strutturalismo ricerca “strutture profonde” nei discorsi e nei testi che dovrebbero esprimere “la natura umana”, “la struttura di base del linguaggio” o “il carattere di una società”. Teoria della risposta del lettore La teoria dell’interpretazione secondo cui il significato è il prodotto di un’interazione tra un testo e un lettore (Iser, 1978/1987). Pertanto, il testo o l’autore non determinano l’interpretazione del testo, ma nemmeno i lettori sono liberi di interpretare come desiderano. Il termine è vicino all’intentio operis di Eco, ma dà uguale importanza al testo e al lettore. Traiettoria narrativa Uno dei concetti nella versione di analisi strutturalista di Algirdas Greimas: una catena logicamente connessa di programmi narrativi (cambiamenti di stato prodotti dagli attanti).
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Indice analitico
analisi - conversazionale 81, 88 - drammatica 33, 136-41, 161-2 - retorica 44-6, 137, 156, 161, 171-7 - strutturale 74, 102, 125-8, 136-8, 156 annali 39-42, 49-50 archetipo 164 autobiografia 19-20 Bildungsroman 200-1, 217 circolo ermeneutico (si veda anche arco ermeneutico) 110, 118, 217 commedia 13, 45-7 conoscenza - logico-scientifica 23, 245, 30, 87 - narrativa 23-5, 28 contratto tra autore e lettore - fittizio 26, 190, 216 - referenziale 26, 155, 188, 216 criteri - ostensivi 211 - performativi 211 cronaca/cronache 39-41, 48-50, 53, 73, 77, 189, 197
decostruzione 102, 111, 124, 143, 155-8, 159-60, 176, 178 diario di bordo 166, 217 discorso 25, 29, 35, 41, 116-8, 137, 144, 148, 149-53, 166, 195-6, 215 distanziazione 109, 117-8 ermeneutica 14, 15, 17, 101-2, 1069, 218 esegesi 107, 192, 218 esplicazione 101-5, 106-7, 122-4, 148, 154 esplorazione 101-2, 105-6, 113, 119-21, 122-4 eteroglossia 105, 192, 218 etnometodologia 18-9, 112, 137, 148 fedeltà narrativa 29, 185, 210 femminismo 150, 152-4 fenomenologia 17, 18, 123 firma 166, 218 formalismo 14, 23, 28, 215, 218 gender 119-21, 150-1, 153 genealogia 159, 178-80, 183 genere (letterario) 19, 20-1, 22, 26, 28, 46-7, 115, 116, 173, 204, 205, 211, 214-5 incidente critico 76-7 intentio auctoris 106-8, 117, 219
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242 intentio lectoris 106, 114, 219 intentio operis 113-4, 135, 219 interazionismo simbolico 18, 84 interruzione 30, 148-54 intervista 49-58, 76-9, 81-99, 105 111n, 117 intreccio (plot, emplotment) 23-4, 39, 41-3, 47, 48-9, 54-9, 656, 75, 104, 130, 135-40, 146, 160, 163, 185, 189, 194-205 iperbole 75, 219 ipotiposi 190-219 intreccio centrato sul finale / sulle evenienze 128, 132, 135, 198 ironia 44, 47, 120, 167, 169 lettore - semantico (o ingenuo) 101, 114 - lettore semiotico (o critico) 114 lettura - come pratica di bracconaggio 191 - interpretativa 94, 156-8, 160, 214 - ispirata 114, 119 - metodica 114, 119, 191-2 - novella 104 logica della rappresentazione 84, 90-3 marxismo 110 metafora 44-5, 72, 164, 167, 171, 174-6, 187, 211, 212, 213 metanarrazioni 23, 32-3 metonimia 44-5, 164, 220 mimesi 48-9, 58-9, 74, 185-7, 194 mistificazione 92 mito 13, 45, 128, 164
indice analitico
modello attanziale 131-3, 137, 140, 149n mondi-di-lavoro 70, 75 morfologia 125-6, 128 narrazione messa in atto (enacted narrative) 16-8 narrazioni fattuali/fittizie, 26, 208 operetta morale 164 paradigma narrativo 28-30, 215 paradigma/sintagma 132, 198, 220, 221 pentade di Burke 137, 162-5, 217 percorso narrativo 130, 131 polifonia 105, 191-3, 220 poststrutturalismo 143-7, 178 pragmatismo 18, 30, 113-4 probabilità narrativa 29 racconto - come modalità di conoscenza 22-8 - come modalità di comunicazione 28-31 - come cronaca e come storia 39-40 - orale e scritto 62-7, 69-70 razionalità narrativa 29 realismo 187 romanzo cavalleresco (romance) 44-6 saga 66 satira 45-6, 47 scambio di identità 74, 92-3 sceneggiatura (script) 134-5 schema narrativo 23, 130, 134-6 seduzione 154, 159-60, 177-82 semiotica/semiologia 101-2, 114, 135, 137, 144, 148, 154, 155 sineddoche 44, 45, 221 sintagma vedi paradigma
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indice analitico
243
spiegazione 24-5, 27 - costruttivistica 112-5 - istituzionalistica 115-6 - oggettivistica 109-12 - soggettivistica 106-9 storytelling - nelle organizzazioni 68, 74 - nelle scienze 171-2, 207-9 strutturalismo 14, 15, 23, 111, 130136, 143, 166-7 tempo - ciclico 88-9 - cronologico 50, 89 - kairotico 89 teoria della risposta del lettore 113-4, 211, 221 teorie evolutive 128-9 tradizione orale 61-5 tragedia 13, 21, 45-6, 138 trama (vedi intreccio) triade ermeneutica 101-2 tropi 44-5, 46n, 187, 191
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Indice degli autori citati
Abelson, Robert 134 Agger, Ben 183 Akins, Kathleen 119n Apolito, Paolo 61 Ashmore, Malcolm 182-3 Atkinson, Paul 84-5, 189-90 Audi, Robert 121 Bachtin (o Bakhtin), Mikhail M. 105, 125, 192, 218 Barnard, Chester 159, 178-82 Barthes, Roland 13, 15, 111, 213 Bartlet, Frederick C. 134 Baudouin de Courtenay, Jan Niecislaw 14, 155 Becker, Howard S. 18, 185n Benedict, Ruth 169-70 Berger, Peter 18, 86 Berman, Marshall 30 Bitner, Egon 6, 121-4, 188 Blumer, Herbert 18 Boje, David 68-71, 76 Boland, Richard J. Jr 68, 79 Booth, Wayne C. 197 Borges, Jorge Luis 186 e n Bourdieu, Pierre 90 Brown, Richard H. 15, 23n, 345, 68-71, 76, 102. 183, 186n, 187, 194
Bruner, Jerome 15, 23, 25-6, 75, 129, 134 Bruss, Elisabeth W. 19, 22, 115 Buhr, Regina 66-7 Burke, Kenneth 91, 137, 162, 217 Burrell, Gibson 153 Calás, Marta B. 159, 178-82 Cappeti, Carla 183 Castaneda, Carlos 212 e n Chomsky, Naom 15, 221 Cicourel, Aaron 18 Clark, Burton R. 66 Clifford, James 183, 185n, 192 Colomb, Gregory G. 197 Connerton, Paul 61, 73n, 88 Cooren, François 130n Corvellec, Hervé 49 Coser, Lewis A. 208 Courtés, Joseph 130, 217 Culler, Jonathan 137 Curtis, Ron 16 Davies, Bronwyn 20, 144-7, 201 Davis, Mike 190 e n de Certeau, Michel 79, 148, 191 Defoe, Daniel 173 e n Derrida, Jacques 155, 159, 178 DeVault, Marjorie L. 104, 115
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246 Dewey, John 113 Eco, Umberto 62-4, 101-2, 106, 107, 113-4, 122 Edmondson, Ricca 162, 183 Edwards, J.A. 85 Eräsaari, Leena 152 Evans-Pritchard, Edward E. 167-8 Feldman, Martha 156 Fineman, Stephen 75 Fischer, Michael M.J. 192 Fish, Stanley 115 Fisher, Walter R. 15, 28-31, 35 Flanagan, John C. 76-7, 94 Flyvbjerg, Bent 215n Foucault, Michel 178 e n Fournier, Valérie 98 Frye, Northrop 14, 101 Fukuyama, Francis 32 Gabriel, Yiannis 49, 70, 71, 72-6, 85, 93, 94, 104, 207-9 Gadamer, Hans-Georg 15, 108109, 110, e n, 112, 113, 116 Gagliardi, Pasquale 71 Garfinkel, Harold 18, 29, 71, 123, 207 Geerb, Clifford 16, 102, 165-9, 170, 193, 209, 218 George, Kenneth M. 61 Gherardi, Silvia 9, 153 Gibson, William 118 Gilbert, G. Nigel 93 Glaser, Barney 196 Glassner, Barry 86 Goffman, Erving 169 Golden-Biddle, Karen 210
indice degli autori citati
Goody, Jack 62, 64 Graff, Agnieszka 150 Greimas, Algirdas Julien 14, 111, 130-4, 137, 149n, 217, 221 Guba, Edwin G. 210 Gubrium, Jaber F. 84, 87 Guillet de Monthoux, Pierre 208 Gumbrecht, Hans Ulrich 29 Gusfield, Joseph 161-5, 181 Gustavsen, Bjørn 31 Habermas, Jürgen 31, 110, 116, Hammersley, Martyn 85 Haraway, Donna 119-20, 130n Harré, Rom 17, 18, 20, 144n Hart, Chris 185n Hayles, Catherine 130n Helmers, Sabine 66-7 Herman, Ellen 183 Hernadi, Paul 6, 101-5 Hirschman, Albert O. 202-5 Holstein, James A. 84, 87 Horney, Karen 181 Iser, Wolfgang 15, 112-3, 211, 221 Jakobson, Roman 14, 155 James, William 113 Jameson, Fredric 110-1, 129 Jauss, Hans Robert 15, 112 Johnson, Barbara 86, 126 Johnson, JeYrey C. 93 Jones, Jill 18 Kartvedt, Sindre 118 Kendall, Gavin 178n Kilduff, Martin 159 Knorr Cetina, Karin 208
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indice degli autori citati
Kostera, Monika 78 Kranas, Grazyna 78n Kunda, Gideon 79 Kundera, Milan 21 Kvale, Steinar 81-2 Labov, William 15, 125 Lamarque, Peter 208 Lampert, Michelle D. 85 Landau, Misia 128-9, 132, 161 Lanham, Richard A. 44, 75, 195 Lasch, Christopher 181 Latour, Bruno 19, 90, 131-4, 137, 148, 161, 193-202, 205, 208, 214 Law, John 112 Lejeune, Philippe 103 Lenoir, Timothy 130n Levine, George 186n Lévi-Strauss, Claude 15, 125, 1667, 221 Livingston, Eric 207 Locke, Karen D. 210 Luckmann, Benita 70 Luckmann, Thomas 18, 86 Lyman, Stanford M. 91-2 Lynch, Michael 207 Lyotard, Jean-François 22, 32-3 MacIntyre, Alasdair 16-7, 10-1, 28, 29, 35, 215 Malinowski, Bronislaw 168-9 Mandler, Jean Mater 134-6, 147, 172, 176, 195, 198 Mangham, Ian L. 16, 137 Marcus, George E. 104, 183, 185n, 192 Martin, Joanne 102, 156-60
247 McCloskey, D.N. 16, 72, 162, 1717, 211 McGregor, Douglas 178-82 Megill, Allan 162 Miller, Jody 86 Minbberg, Henry 178-82 Mishler, Elliot G. 93, 102, 125 Mulkay, Michael 93, 161 Nagel, Thomas 119-20 Narayan, Kirin 61 Nash, Cristopher 183 Nelson, John S. 162, 183 Norris, Christopher 155 Orr, Julian E. 64, 70-1, 76 Overington, Michael A. 16, 137 Pears, Iain 104-5, 193 Peirce, Charles 113, 120 Peters, Thomas 178, 182 Polanyi, Karl 173n Polkinghorne, Donald E. 14, 15, 23-4, 197 Propp, Vladimir 14, 15, 125-8, 129, 130, 134, 137, 140, 172 Psathas, George 85 Rhodes, Carl 183 Richardson, Laurel 16 Ricoeur, Paul 15, 108, 109, 110, 116-8, 124, 130, 137, 196 Riessman, Catherine Kohler 86, 125 Robichaud, Daniel 130n Robinson, G.D. 107, 116 Rorty, Richard 30-3, 35, 105, 114, 115, 186, 191, 211, 215
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248 Ryan, Marie-Laure 48-9, 199 Sacks, Harvey 18, 42, 68 e n, 123 Saussure, Ferdinand de, 14, 125, 220-1 Schank, Richard C. 134 Scheyt, Tobias 78 Schleiermacher, Friedrich E.D. 107, 110n Scholes, Robert 14 Schütz, Alfred 17, 18, 30, 70n, 112, 123 Scott, Martin B. 91-3 Seale, Clive 185n Selden, Raman 110-11 Sen, Amarthya 204 Sennet, Richard 35 Sigman, Jill 186 Silverman, David 18, 84-5, 143, 148-9, 155 Silvers, Robert B. 16 Simonen, Leila 151 Simons, Herbert 162, 183 Sköldberg, Kaj 46-7, 74 Slater, Philip 180 Smircich, Linda 102, 159, 178-82 Smith, Dorothy E. 102, 111-2, 153 Solow, Robert 72 Søderberg, Anne-Marie 130n Spradley, James P. 93 Stiglib, Joseph E. 176-7
indice degli autori citati
Todorov, Tzvetan 14, 15, 26, 41-2, 130, 137, 198 Torode, Brian 102, 143, 148-9, 153, 155 Turner, Victor 16 Van Fraassen, Bas C. 186 Van Maanen, John 102, 165, 186n Veyne, Paul 208 Vico, Giambatista 21 Waldo, Dwight 208 Waletzky, Joshua 15, 125 Waterman, Robert H. 178, 182 Watson, Karen Ann 125 Wat, Ian 65 Weick, Karl 64, 69, 77 Weller, Susan C. 93 White, Hayden 15, 39-43, 49, 74, 136, 187, 194, 198, 218 Wickham, Gary 178n Wolf, Margery 211, 214 Woolgar, Steve 193 Yanow, Dvora 212
ten Have, Paul 85 Tenkasi, Ramkrishnan V. 68, 79 Thompson, E.P. 61 Thompson, James D. 123 Thompson, John B. 116 Thompson, Paul 61 Thurow, Lester 174-7
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Tavola rotonda
Le pagine che seguono esprimono, nella forma idealizzata di una “tavola rotonda”, le ragioni che hanno portato a proporre questo libro di Barbara Czarniawska all’attenzione dei lettori del progetto internazionale puntOorg. Proprio perché provenienti da diverse sensibilità, gli autori delle seguenti note hanno proposto linee di lettura volutamente diverse, che però passano tutte per nodi centrali di questo testo, generandone immagini che non hanno alcuna pretesa di esemplarità, ma che suscitano, si spera, ulteriori curiosità e ipotesi di ricerca a proposito di una tematica, quella del rapporto tra saperi “umanistici” e organizzativi, che è cruciale nella ricerca puntOorg sulle fonti dei saperi manageriali e organizzativi. ***
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tavola rotonda
Mauro Gatti1 Barbara Czarniawska definisce la narrativa come fondata su almeno tre elementi: “uno stato delle cose originario, un’azione o un evento ed un conseguente stato delle cose” (1998: 2). A questi elementi, tuttavia, deve essere aggiunto un quarto, essenziale: l’intreccio, l’elemento, cioè, che conferisce ai primi tre un significato compiuto. Di conseguenza, una storia è “un intreccio che contiene episodi causalmente correlati che culminano nella soluzione ad un problema” (1997: 78, trad. ns.). Le storie, sostiene ancora l’autrice nel presente volume, possono essere analizzate secondo due prospettive (2004: 6, vers. orig.): 1) come modalità per conoscere 2) come modalità per comunicare. Due prospettive che assumono validità tanto nel mondo della ricerca organizzativa, quanto in quello della pratica all’interno delle organizzazioni. Le storie, infatti, possono rappresentare l’oggetto di una ricerca in campo organizzativo, così come possono essere utilizzate come strumenti manageriali. Nell’ambito della ricerca “narrativa” (narrative inquire), l’analisi attraverso la raccolta, l’elaborazione e l’interpretazione di storie è importante per comprendere e spiegare una molteplicità di fenomeni che accadono nella realtà sociale delle organizzazioni. L’individuazione delle proprietà emergenti che, per effetto dell’interazione sociale, danno vita alla cultura organizzativa, all’identità, al potere e la comprensione di processi quali il cambiamento organizzativo, l’apprendimento, l’identificazione, la discriminazione di genere e la marginalizzazione di gruppi minoritari, solo per citarne alcuni, possono acquistare una luce diversa attraverso i racconti – scritti, orali e oggi anche visivi – dei diretti protagonisti, specie se si mettono a confronto punti di 1 Professore ordinario di Organizzazione aziendale, Sapienza, Università di Roma.
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tavola rotonda
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vista e angolazioni differenti. Diversa, perché più ricca di dati riferiti al contesto rispetto a un’analisi quantitativa basata sulle tecniche statistiche, sebbene all’apparenza la narrative inquiry possa sembrare meno rigorosa. Più ricca perché permette, attraverso la molteplicità di possibili interpretazioni che spesso le storie consentono, di procedere in direzioni impreviste rispetto all’intento originario della ricerca, di rilevare inattesi collegamenti con altri fenomeni, di perorare nessi causali alternativi durante l’elaborazione e l’analisi del materiale raccolto. Anche all’interno delle organizzazioni, le storie vengono raccolte e utilizzate per conoscere quanto accade in uno specifico contesto organizzativo. Rispetto alle “fredde” risultanze delle indagini di clima, ad esempio, le narrazioni degli attori organizzativi consentono di effettuare analisi in profondità sullo “stato” del sistema sociale, così come sull’efficacia di nuove politiche e prassi organizzative. Le storie raccontate direttamente da quanti sono impegnati in un processo di cambiamento organizzativo possono dar conto di come effettivamente stia procedendo l’attuazione del piano impostato dal management, di come e quanto si siano modificati i comportamenti e se tali modifiche vadano nella direzione prevista o meno. Ancora, le storie prodotte dai vertici aziendali possono consentire di dare un senso al passato, di ripensare criticamente alle esperienze vissute, di apprendere dagli errori commessi, di confermare l’adesione a valori comuni, di impostare i futuri corsi d’azione. Molte imprese, oggi, adottano il metodo narrativo per pianificare la propria attività (Shaw et al., 1998; Denning, 2006; Van Hulst, 2012), per costruire scenari futuri (Bowman et al. 2013), per generare senso critico ed evitare le trappole della polarizzazione nelle decisioni strategiche. Le storie, oltre che una modalità per conoscere, sono anche uno strumento di comunicazione. Nel campo della ricerca, un autore può impiegare un approccio narrativo per rappresentare l’esito delle proprie analisi, ad esempio riportando la ricerca effettuata in forma di caso di studio, per renderla più gradevole
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tavola rotonda
anche ad un pubblico più esteso rispetto a quello, in genere ristretto, dell’ambito scientifico di riferimento. Tuttavia, le storie come modalità di comunicazione appartengono più propriamente alla strumentazione adottata dal management per orientare e modificare i comportamenti di attori tanto esterni quanto interni all’organizzazione stessa. In questo caso, l’uso che delle storie si fa può essere indirizzato a conseguire scopi particolari e diversi. Ad esempio, un imprenditore o un gruppo di manager possono elaborare una storia credibile della propria organizzazione da presentare agli investitori per ottenere finanziamenti, per sovvertire l’immagine negativa di cui l’impresa gode all’esterno o per ricevere, più in generale, consenso e legittimazione sociale presso tutti i vari interlocutori presenti nel contesto esterno (media, associazioni ecologiste, consumatori, organi governativi, rappresentanze sindacali, ecc.). Oppure, in un processo di cambiamento organizzativo, nuove narrazioni possono essere sviluppate per far passare presso tutti i dipendenti quei messaggi che contengono gli elementi costitutivi della nuova cultura e del nuovo modo di lavorare, per far loro comprendere la direzione e le modalità di attuazione del cambiamento perseguito. È evidente, in questo caso, la possibilità manipolatoria dello storytelling, che diventa così strumento di persuasione, di indottrinamento, al fine di ottenere un più rapido adeguamento dei comportamenti degli attori organizzativi al nuovo credo imposto dalla direzione d’impresa. Gli scopi e le modalità con cui le storie vengono utilizzate come strumento di comunicazione possono essi stessi diventare oggetto di analisi e di ricerca. Fondamentale, in tal caso, è l’atteggiamento del ricercatore, il quale, a fronte di difficoltà di natura etica ed epistemologica, deve essere dotato di una specifica preparazione (Gabriel & Griffiths, 2004:115). Per queste ragioni, la lettura di un testo metodologico essenziale, come quello di Barbara Czarniawska, ora offerto nella traduzione italiana, appare indispensabile.
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tavola rotonda
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Francesco Piro2 Partirò in questo mio intervento soprattutto dall’espressione di una certa invidia nei confronti della capacità di Barbara Czarniawska di dare una forma accessibile, degna di essere proposta a una platea studentesca, di quello che è il complesso “passaggio di paradigma” che questo testo racconta. Con McIntyre e con Ricoeur, la teoria della narrazione cessa di essere semplicemente una parte delle scienze del linguaggio e diventa una parte delle scienze della vita sociale e personale. Proprio per questo motivo, quello di Czarniawska è un “manuale” nel senso alto del termine: esso parte dai punti alti del dibattito filosofico sull’arte dell’interpretare, facendoci ripercorrere larga parte delle vicende della filosofia europea del secondo Novecento. Gadamer, Ricoeur, Rorty, Mc Intyre (ma anche Propp, Greimas, Iser e tanti altri) occupano molte pagine le quali raccontano a un lettore, prevedibilmente non studioso di filosofia o di teoria della letteratura, le idee centrali di questi autori. Ma subito queste idee vengono messe alla prova, vengono confrontate con esperienze, casi, interviste, ricerche, nelle quali il modello teorico viene riarticolato e diviene produttivo di conoscenze e giudizi locali. Immagino che così debba essere se si vuole convincere lo studente di scienze sociali a coltivare le arti dell’interpretazione. Ma ciò ha anche un interessante effetto secondario: il libro diviene spendibile anche in un contesto alternativo, per esempio per spiegare a una classe di studenti di filosofia o di scienze della comunicazione quali conseguenze pratiche possano avere dibattiti apparentemente solo filosofici o per mostrare loro in quali settori (oltre che nel circuito tradizionale della intellectual history) essi potrebbero usare le loro competenze. Questo è ovviamente l’aspetto che mi interessa di più: il libro di Czarniawska può mostrare come temi dibattuti Professore ordinario di Storia della Filosofia, Università degli Studi di Salerno.
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tavola rotonda
al livello di conflitti tra argomentazioni ricompaiano poi come problemi pratici su cui prendere una decisione, il che è illuminante pur con tutte le differenze che pongono questi diversi contesti. E ancora giudico istruttivo il modo in cui Czarniawska prova ad analizzare gli stessi testi di ricerca alla luce di categorie narrative: è un suggerimento da applicare anche al di là delle scienze sociali, per far capire a uno studente come strutturare un testo proprio o come invece si può fare una critica appropriata (magari con una adeguata vena decostruzionistica) di un documento – proporrei per esempio i documenti ministeriali o le griglie pedagogiche per l’insegnamento della filosofia. Ma non mi soffermerò sui possibili usi del libro, perché una tavola rotonda è anche l’occasione per esprimere domande e dubbi e non solo plausi. Vengo ora al mio. Il libro di Czarniawska è centrato sugli atti del “leggere” e dello “scrivere”, così come lo era d’altronde la silloge a partire dalla quale si manifestò al pubblico il progetto puntOorg (Sicca, 2010): Leggere e scrivere organizzazioni a cura di Luigi Maria Sicca (Editoriale Scientifica, 2010). Ciò che viene così affermato è la possibilità di usare gli strumenti dell’indagine letteraria per analizzare comportamenti e motivazioni di agenti reali. La scienza di riferimento resta l’etnografia che per prima ha scoperto la necessità di dover trattare i comportamenti come un “manoscritto” (Geertz 1973/1987: 47). Questo approccio viene difeso da Czarniawska attraverso l’analogia azione/testo stabilita da Paul Ricoeur e attraverso la concezione dell’azione come enacted narrative di Alisdair Mc Intyre. Vi sarebbe insomma un continuum di pratiche umane – di pratiche comunicative, ma anche di gestione e accrescimento della conoscenza, di invenzione o giustificazione di una decisione, di definizione di ruoli e di identità – che la teoria del testo (letterario o filosofico o scientifico) ci permette di osservare, ma che non sono situate esclusivamente nei testi letterari o filosofici o scientifici. Esse sono situate nella vita stessa. Questa dottrina ha la conseguenza che l’osservatore di fatti sociali è sempre anche lettore o interprete
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del comportamento osservato: Czarniawska accompagna il lettore del suo libro a vivere questo ruolo senza disagio alla luce di una prospettiva al tempo stesso pragmatistica (non vi è una lettura che non sia un “uso” del testo) e istituzionalistica (i canoni di lettura dipendono da ciò che vogliamo fare del testo, ma anche ciò che vogliamo farne è socialmente mediato). Ma non mi soffermo sulla problematica della “scientificità” che ne deriva: la lascio alle considerazioni ulteriori di Sicca e Boncori e, d’altronde, concordo abbastanza con ciò che ne dice Czarniawska (cfr. il mio Piro 2010, 220-1). Ora, la domanda è se questo approccio non sia anche molto legato a una nostra identità intellettuale di “buoni lettori”, possessori di libri tradizionali, abituati a una buona e meditata lettura. Possiamo applicarlo anche a documenti nati per una lettura più veloce? È suscettibile di analisi stilistica o strutturale un sito web? E la comunicazione sui social network “racconta” qualcosa, stabilisce delle identità? Sembrerebbe di sì, dal momento che essa è diventata protagonista anche della vita politica e non si comprende la vittoria di Trump o dei Cinque Stelle senza tener conto della capacità di produrre identificazioni per mezzo dei social network. Eppure ciò potrebbe implicare un ripensamento più radicale di quanto non ce l’abbiano imposto la televisione o altri media, più tendenti a riprodurre le dinamiche del testo letterario, delle nostre categorie. La fluidità di questo mezzo mi sembra in qualche senso “oralizzare” la scrittura stessa, renderla più sbadata, più imprecisa, ma magari capace di operare ancor più sul profondo nell’assorbimento del messaggio. Forse mi sbaglio, eppure questa mi sembra una questione decisiva per il futuro degli studi sociali basati sulla prospettiva narrativa. In conclusione, non posso che ribadire che il libro di Czarniawska non è utile soltanto per chi voglia studiare le organizzazioni, è una proposta di revisione del nostro abituale modo di vedere le partizioni disciplinari e di tracciarle, condotta nello
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spirito di uno storico delle idee che anch’io ammiro, Albert O. Hirschmer. Inoltre, è una richiesta di inventare ibridazioni e contaminazioni adatte alla complessità dei problemi che viviamo. In questo senso, era un testo imperdibile per la rete internazionale di ricerca puntOorg.
Ilaria Boncori3 e Luigi Maria Sicca4 Come si è letto nelle precedenti pagine, il ricorso alla narrazione negli studi organizzativi e, più in generale, nelle scienze sociali si è arricchito negli ultimi venti anni, fino a diventare sia oggetto di un ampio dibattito teorico, sia metodo (quindi mezzo e strumento) ovvero forma mentis per un approccio di ricerca orientato alla comprensione delle prassi organizzative. Dal 2004, anno di pubblicazione del testo di Barbara Czarniawska5 che qua si propone nella prima edizione italiana, alcuni termini come narratives o storytelling sono diventati di senso comune nel gergo della comunità degli studiosi di Organizzazione. Parallelamente, numerose imprese (da quelle più tradizionalmente studiate in letteratura, come le imprese industriali e di servizi, alle nuove forme anche in contesti connotati dalle tecnologie emergenti) costruiscono narrazioni e le “contengono”. Nella duplice accezione del verbo contenere (Sicca, 2013a, 2016; Oliverio et al., 2015): “nei” confini dell’azione organizzativa, ma anche narrazioni (siano oggetto o metodo), che hanno la funzione di 3 Senior Lecturer (Associate Professor) in Management, Marketing and Entrepreneurship, Deputy Dean Education (Facolty of Humanities), University of Essex (UK). 4 Professore ordinario di Organizzazione aziendale e Organizzazione e gestione delle risorse umane, Università degli Studi di Napoli, Federico II. 5 Czarniawska, B. (2004), Narratives in Social Science Research, London, Sage Publications .
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arginare (attraverso l’azione di contenimento di marca infantile à la Bion) ansie individuali e collettive6. *** A partire dal narrative turn degli anni ’80 (Fisher, 1987; Boje, 1991, 2001; Gabriel, 2000), questa impostazione ha acquisito grande risonanza accademica, con crescente accento su metodologie di stampo qualitativo, per una conoscenza caleidoscopica e, dal nostro punto di vista, più approfondita, dell’azione organizzativa (a dispetto di una idea reificata dell’organizzazione aziendale) filtrata attraverso il cristallino degli attori: individui, gruppi, azienda e reti di aziende (de Vita et. al, 2007). Fu quella (lo segnala in apertura anche il collega Gatti), una risposta da parte di chi conduce ricerca qualitativa (orientata alla comprensione di plurali soggettività, all’esplorazione delle motivazioni e all’interpretazione delle spiegazioni) alla ricerca quantitativa (prevalente e di marca mainstream), tesa invece a insistere sulle analisi di scenario e sul forecasting, attraverso misurazioni e generalizzazioni orientate da una epistemologia talvolta anodina e comunque oscillante lungo la polarità binaria dell’induzione e della deduzione. Se ammettiamo che dibattiti antagonistici tra due “fazioni” (quantitativi e qualitativi) sono ormai probabilmente obsoleti (Corbetta, 2014), possiamo altresì affermare che quello che oltre un decennio fa era considerato “la continua tensione fra storie e scienza” (Rhodes, Brown, 2005) può essere oggi tematizzato come una preferenza di metodo, di posizionamento epistemolo-
6 Assunto che le organizzazioni “sono” (fuori di metafora, non “come”) strutture narrative (Sicca, 2010), consideriamo le organizzazioni dei contenitori di ansia, nella polisemia che si può attribuire al verbo con-tinére: qualcosa che è dentro qualcos’altro. Quindi fermare, tenere insieme che, per traslato, è trattenere, tenere in sé, arginare.
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gico e ontologico, prima ancora che una dicotomia inconciliabile. Entrambi gli approcci offrono contributi significativi per la ricerca in materia aziendale e, più in generale, per le scienze sociali, in ragione degli obiettivi di ricerca e dell’orizzonte temporale assegnato ai processi di osservazione. E, dal nostro punto di vista, anche in ragione della “narrazione” che ciascun ricercatore assegna a se stesso e al processo di interpretazione dei dati (siano essi qualitativi o quantitativi) scegliendo di volta in volta il linguaggio ritenuto più adeguato per descrivere e comprendere l’oggetto di studio. Di qui l’importanza di lavorare, per esempio, sulle metafore organizzative, sul non detto e sui silenzi, sul rhetoric come sul poetics dell’esperienza organizzativa (Höpfl, 1994), secondo quell’approccio di critical managment (laddove si faccia riferimento, nella lingua inglese, a critique e non a criticism), per affrontare le questioni che afferiscono al potere, alla diversità, al potenziale, alle resistenze quali fonti preziose per gestire la drammaticità del cambiamento (Sicca, 2013b; 2018)7. *** È nel raccontare che i segni, le tracce del vissuto, si compongono e acquisiscono un senso compiuto. Il disegno di una vita o di un evento scaturisce retrospettivamente, quando il pensiero si fa riflessivo, si flette su se stesso per comporre una narrazione, dare una forma a quanto era indistinto. La narrazione è un dono, è il disegno consegnato alla bambina quando il racconto della cicogna è terminato e il disegno materializza la volatilità delle parole. Disegno e storia sono in questo caso inscindibili, così come le pratiche discorsive che costruiscono il narrare sono inscindibili dalle pratiche materiali che
7 Sul delicato tema delle resistenze al cambiamento abbiamo lanciato, nell’ambito dei tavoli di lavoro di puntOorg International Research Netowork, una “Proposta di manifesto” in collaborazione con la Divisione Government, Health Care and Non Profit della SDA Bocconi e il Forum P.A. Per approfondimenti: http://www.puntoorg.net/it/com-admirorgallery-templates/symposia.
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ne sedimentano il significato negli artefatti, nella tecnologia, nell’ambiente fisico delle organizzazioni, nel sistema delle retribuzioni, degli incentivi, della presenza e assenza (Gherardi, 2018, XVI-XVII).
Sin dall’infanzia impariamo a narrare e, attraverso la narrazione, a stare nelle cose del mondo: interiorizziamo gli archetipi, per esempio le categorie del “bene” e del “male” che ci vengono narrate. Grazie ai miti che giungono a noi dal mondo classico, come anche attraverso favole della buonanotte, apprendiamo come raccontare a noi stessi le storie di cui abbiamo bisogno per darci una collocazione tra gli affetti primari e poi adulti. Trovando una rotta per gestire le nostre ansie: per dare un significato alle azioni o curare le nostre ferite. Per mediare, “perdere pezzi”, per conoscere noi stessi e cosa (riconoscendo chi) ci circonda. Le nostre azioni – e quelle delle organizzazioni che “ci contengono”, in cui lavoriamo, trascorrendo il maggior tempo della nostra vita adulta, o che osserviamo con i panni degli studiosi – sono “intenzioni narrative”: in altri termini, sono generate e tessute dalle narrazioni interiorizzate e con esse esprimono il proprio potere e i limiti individuali o organizzativi. Le narrazioni interiorizzate e istituzionalizzate assurgono a “senso comune”: basti pensare, anche solo con un rapido sguardo sul presente, peraltro sfuggente, a come interpretiamo il significato delle narrazioni, associato alla natura capillare dei social media e dell’instant messaging, anche quello audiovisivo. Ne proponeva un proprio punto di osservazione, appena poche pagine fa, Francesco Piro, intorno a questa “Tavola rotonda”. Quella proposta da Barbara Czarniawska è una questione di fondo, insomma, non relegata esclusivamente all’analisi organizzativa in senso stretto: divisione del lavoro, coordinamento, comunicazione, organizzazione delle risorse umane e gestione degli stakeholder (Kuhn, 2008), ma innanzitutto comprensione delle abilità di un’impresa rispetto all’innovazione (Bartel and Garud, 2009), attraverso la costruzione di identità manageriali
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(Clark and Salaman, 1998; Clarke et al., 2009), attraverso processi di change management (Dunford and Jones, 2000). Punto di riferimento, quindi, anche in relazione alla dimensione strategica dell’azione, nella misura in cui la nozione di “strategia come pratica” (Fenton, Langley, 2011; Laine, Vaara, 2007; Jarzabkowski, Spee, 2009; De la Ville, Mounoud, 2010) e la dimensione dialogico-narrativa consentono di rendere evidente la distanza dall’idea – prevalente nella ricerca di marca harvardiana e punto di riferimento nei processi di sviluppo industriale dal Secondo Dopoguerra in poi – di strategia come pianificazione, progettazione o forecasting della performance aziendale. *** Perché proporre in lingua italiana un testo già disponibile nella lingua ufficiale della comunità scientifica? La teoria della narrazione di Czarniawska, costruita dall’interno di un amplio dibattito internazionale, adotta categorie di pensiero espresse, nel testo originale, attraverso codici che non sono immediati nelle prassi della lingua italiana. Per questo, a nostro avviso, vanno “messe-in-opera”, per essere climatizzate in quel contesto di vita – economica e sociale – caratterizzante la struttura del nostro Capitalismo industriale. La risposta risiede, insomma, nel posizionamento, portato avanti con pazienza e incisività da circa dieci anni, di puntOorg come motore italiano di una internazionalizzazione che sappia fare leva su un duplice registro: da un lato la ferma convinzione che internazionalizzare significhi – prima ancora di usare una lingua condivisa (l’inglese, per esempio, su cui fonda il dibattito accademico) – impegno costante al radicamento nella tradizione, che è quindi anche traduzione (e tradimento) dei codici e dei significati che orientano una popolazione accademica o professionale; dall’altro l’idea per cui ogni ricerca non è mai solo il punto di arrivo di uno studioso o di un gruppo di ricerca, ma sempre
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anche punto di partenza per una ampia circolazione delle idee e dei concetti, moltiplicando il cristallino attraverso cui leggere e scrivere il mondo. O quelle porzioni che siamo portati a vivere e/o narrare. Con questo volume sperimentiamo un approccio alla ricerca organizzativa impostato lungo una frontiera non eludibile (Sicca, 2007) tra progettazione (organizational design) delle macro e micro strutture da un lato e analisi del comportamento (organizational behaviour) dall’altro. In questi casi, in questo caso, occorre assumere una metodologia in grado di radicare; occorre “leggere oltre ciò che è scritto” e interpretare per formare. E l’atto di interpretare è, al tempo stesso, esperienza di traduzione, che è anche, tradire, ovvero dare (altro) senso, rispetto a un testo originario, per generare una nuova stesura, una differente possibile (form)azione (Eco, 2002). Un testo, dal latino textus, è tessuto o trama, che non nasce, meccanicisticamente, dalla somma di fili correttamente intrecciati, ma richiede tecnica di costruzione e decostruzione. Come è possibile, allora, non assegnare alla traduzione un ruolo di potente apprendimento? E se, spingendoci oltre, questo terreno di ricerca fosse fertile per verificare, testi alla mano, l’ipotesi per cui ciascuno di noi (come ogni persona: un capo o un subordinato o un pari, una moglie o un marito, un figlio, un genitore, un amico) può rintracciare nella traduzione dall’altro e dell’altro la condizione esistenziale per avviare i più significativi processi di avanzamento nello sviluppo della propria conoscenza di sé e del Se (Galimberti, 2004)? *** Se tradurre (e il lettore lo ha ampiamente constatato nelle precedenti pagine) significa, per definizione, attingere al gesto dell’interpretare non solo significati e parole, ma strutture profonde del linguaggio che aderiscono alle culture e ai contesti che generano e coltivano i testi (Malinowski, 1935; House, 2005); allora questo,
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come qualunque testo tradotto, è immagine del pensiero dell’autore e al tempo stesso necessaria eco della menzionata esperienza del tradurre e dei traduttori, nel proprio ruolo di mediatori e demiurghi (Pym, 2006). Ruolo espresso attraverso le specifiche storie di significati e di linguaggi. Hatim (2009) marca in tal senso il ponte fra linguaggio e contesto nella “testualizzazione”, fra idiomi e significati lungo le tradizionali colonne del register, genre, text e discourse. Con tale approccio, la traduzione di questo libro di Barbara Czarniawska esprime il modello della traduzione culturale, in contrapposizione al modello meccanico e a quello politico (Blenkinsopp e Shademan Pajouh, 2010), con la consapevolezza che a volte concetti o significati possono essere persi o modificati (Wierzbicka, 2001) e che alcune parole rimangono comunque “intraducibili” (Blenkinsopp e Shademan Pajouh, 2010). *** In conclusione, la narrazione, negli studi e nelle pratiche organizzative, consente di comprendere sfere dell’esistenza spesso tenute separate e che in futuro sarà sempre più necessario connettere nella costruzione dei nostri “contenitori”: siano organizzazioni in senso ampio, oppure (con sguardo sul passato prossimo) “imprese”, con riferimento a un sottoinsieme tutto sommato recente, presente (futuro?), comunque appena centenario, la cui matrice latina è impresum, participio passato di imprendere: ovvero, prendere su di sé. Quindi prefiggersi, che nel mondo antico fu il riconoscimento di un precetto, quindi intento morale, norma, in ogni esperienza di organizzazione e in organizzazione, laddove si intendano carpire e capire le nuance emotive, razionali e sensoriali all’interno delle strutture che abitiamo: siano quelle snelle e impalpabili che si formano sotto i nostri occhi a ritmo di discontinuità tecnologiche, siano le tradizionali burocrazie weberiane e post-weberiane che continuano a regolare il funzionamento dei nostri “contenitori”.
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27. I. Boncori (ed.)xi, LGBT+ Perspectives – The University of Essex Reader, (with a foreword by A. Forster), 2017. 28. A. Papa, “… Una cappella cavata dentro il monte…”. Storia minima del complesso monastico di S. Lucia al Monte (con prefazione di L. D’Alessandro), 2017. 29. R. Diana, L.M. Sicca e G. Turaccioxii, Risonanze. Organizzazione, musica, scienze (con prefazione di A. Strati e postfazione di A. Solbiati), 2017. 30. F. D’Errico, Armonia funzionale e modalità. Rudimenti per l’improvvisazione a indirizzo jazzistico (con introduzione di F. Piro e prefazione di R. Grisley), 2017. 31. M. Calcagno, Interpreting Innovation. Design Creativity Art (con introduzione di F. Izzo; prefazione di A. Moretti e postfazione di J. Metelmann), 2017. 32. G. Balirano, Gardaí & Badfellas: The Discursive Construction of Organised Crime in the Irish Media, 2017. 33. M.C. Mason e A. Moretti, Tattoo Management. Mercati, attori, valore, 2017. 34. P. Testa, Innovazione del modello di business. Le dimensioni latenti nella letteratura di management (con prefazione di L. Cantone), 2017. 35. L. Massa, Viva ’o re! Municipio e dintorni (con introduzione di L.M. Sicca; prefazione di E. Borgonovi e postfazione di C. Mochi Sismondi), 2017. 36. F. Pavan, Memini. Piccole storie di storia della musica (con introduzione di E. Mazzarella; prefazione di R. Alessandrini e postfazione di V. Moroni), 2017. 37. C. Mallozzi e D. Tortoraxiii, La bottega del suono. Mario Bertoncini. Maestri e allievi (con prefazione di M. Nicodemi e postfazione di L.M. Sicca), 2017. Con scritti di Alison J. Taylor-Lamb, Jamie Raines, Thomas Currid and Carl Chandra, Martin Harrison and Peter Martin, Rainer Shulze, Fleur Jeans and Teresa Eade, Tuesday Wats, Amy Anderson, Sco Lawley. xii Con scritti di Davide Bizjak, Dario Casillo, Rosario Diana, Umberto Di Porzio, Agostino Di Scipio, Chiara Mallozzi, Mario Nicodemi, Lorenzo Pone, Rosalba Quindici, Sonia Ritondale, Tommaso Rossi, Bernardo Maria Sannino, Luigi Maria Sicca, Cristian Sommaiuolo, Giancarlo Turaccio, Paolo Valerio. xiii Con scritti di Mario Bertoncini, Davide Bizjak, Gianmario Borio, Pietro Cavallotti, Andrew Culver, Francesco D’Errico, Charles de Mestral, Michelangelo Lupone, xi
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38. G. Melis, Collaborazione e apprendimento nei processi di co-creazione di valore. Il caso delle destinazioni turistiche (con prefazione di M.R. Napolitano e postfazione di B. Argiolas), 2018. 39. G. Viglia e A.C. Invernizzi, Il ruolo dell’hubris nella gestione imprenditoriale (con prefazione di C. Mauri), 2018. 40. T. Russo Spena e C. Mele, Practising innovation: a socio-material view (with a preface by J. Spohrer), 2018. 41. I. Boncori, Race, Ethnicity and Inclusion. The University of Essex Reader (with a foreword by A. Forster and a postface by M. Śliwa), 2018. 42. K.E. Russo, The Evaluation of Risk in Institutional and Newspaper Discourse: The Case of Climate Change and Migration (with a preface by G. Bettini), 2018. 43. R. Pera, When consumers get creative. Cocreation in the individual and collective realm (with a preface by D. Dalli), 2018. 44. F. Piro, L.M. Sicca, P. Maturi, M. Squillante e M. Strianoxiv (a cura di), Sfide didattiche. Il pensiero critico nella scuola e nell’università, 2018. 45. Renato Quaglia, Bravi ma basta! Su certe premesse, promesse e catastrofi culturali (con introduzione di L.M. Sicca; prefazione di J. Mills e postfazione, F. Barca), 2018.
Chiara Mallozzi, Alessandro Mastropietro, Mario Nicodemi, Luigino Pizzaleo, Lorenzo Pone, Ingrid Pustijanac, John Rea, Bernardo Maria Sannino, Luigi Maria Sicca, Daniela Tortora. xiv Con scritti di Maura Striano, Rosaria Capobianco e Maria Rita Petitti, Francesco Piro, Roberta Gimigliano, Monica Mollo, Gerarda Fattoruso, Maria Incoronata Fredella, Maria Grazia Olivieri, Massimo Squillante e Antonia Travaglione, Pietro Maturi, Fabio Maria Risolo, Luca Marano, Luigi Maria Sicca, Giuseppe Recinto, Mario Nicodemi, Chiara Mallozzi e Luigi Marolda, Luigi Proserpio, Davide Bizjak, Paolo Canonico, Stefano Consiglio, Ernesto De Nito e Teresa Anna Rita Gentile, Natascia Villani.
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Finito di stampare nel mese di maggio 2018 dalla Grafica elettronica - Napoli
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