Storia della filosofia antica. Dalle origini a Socrate [Vol. 1] 8843080431, 9788843080434

L'opera non è rivolta solo agli specialisti, ma propone uno strumento di studio e di informazione culturale accessi

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Storia della filosofia antica. Dalle origini a Socrate [Vol. 1]
 8843080431, 9788843080434

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I quattro volumi di questa nuova Storia

della filosofia antica offrono il quadro critico più completo e aggiornato del pensiero filosofico e scientifico greco-romano oggi disponibile in lingua italiana . L'opera non è rivolta solo agli specialisti. ma propone uno

Mario Vegetti

è professore emerito dell'Università di Pavia. dove ha insegnato Storia della f:tlosofia antica.

Franco Trabattoni

strumento di studio e di informazione

è professore ordinario di Storia

culturale accessibile a un pubblico colto

della filosofia antica all'Università

e agli studenti. Il suo intento consiste

degli Studi di Milano.

infatti nel riportare alla luce. e riproporre all'attenzione della cultura contemporanea, quel ricco giacimento di razionalità critica. di opzioni etico-politiche. di prospettive teoriche.

Mauro Bonazzi

insegna Storia della filosofia antica all'Università degli Studi di Milano.

che quel pensiero ha elaborato con una potenza argomentativa e una libertà intellettuale che hanno pochi paralleli nella storia della filosofi.a occidentale. Dalle coste dell'Asia Minore a quelle della Sicilia e dell'Italia meridionale, passando per Atene, i numerosi pensatori che siamo soliti chiamare filosofi. presocratici si distinguono per una curiosità quasi inesauribile, che li conduce a indagare la realtà in tutti i suoi più disparati aspetti. Si assiste così a una prima riflessione sulla natura e sul suo rapporto con gli dei; sull'uomo e sulla politica; sul linguaggio e sull'arte dei ragionamenti. Temi che s'intersecano e con cui anche i filosofi successivi dovranno confrontarsi.

Progetto grafico: Falcinelli & Co. In copertina: Kouros funerario attico (particolare). 540-520 a.C.

Frecce· �09

Piano dell'opera

Volume I. Dalle origini a Socrate A cura di Mauro Bonazzi Contributi di: Mauro Bonazzi, Filippo Forcignanò, Francesco Froncerotta, Emidio Spinelli, Franco Trabattoni, Mario Vegetti

Volume II. Platone e Aristotele A cura di Franco Trabattoni Contributi di: Elisabetta Cattanei, Riccardo Chiaradonna, Francesco Froncerocca, Alberto Jori, Franco Trabattoni, Mario Vegetti

Volume III. L'età ellenistica A cura di Emidio Spinelli Contributi di: lhomas Bénacoui:l, Mauro Bonazzi, Riccardo Chiaradonna, T iziano Dorandi, Carlos Lévy, Federico Petrucci, Emidio Spinelli, Mario Vegetci, Francesco Verde

Volume IV. Dalla filosofia imperiale al tardo antico A cura di Riccardo Chiaradonna Contributi di: Francesca Alesse, Mauro Bonazzi, Aldo Brancacci, Francesca Calabi, Riccardo Chiaradonna, Alessandro Linguiti, Federico Petrucci, Emidio Spinelli, Mario Vegetti, Marco Zambon

Storia della filosofia antica Direzione scientifica di Mario Vegetti e Franco Trabattoni I.

Dalle origini a Socrate

A cura di Mauro Bonazzi

Carocci editore

@ Frecce Mauritius_in_libris

1' edizione, aprile 2016 ©copyright 2.016 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino Finito di stampare nell'aprile 2.016 da Eurolit, Roma

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art.

171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633)

Siamo su: www.carocci.it www.facebook.com/ caroccieditore www.cwitter.com/ carocciedirore

Indice

I.

2.

Premessa di Mario Vegetti e Franco Trabattoni

13

Tavola cronologica

17

Fonti, trasmissioni e critica dei testi di Mauro Bonazzi

21

Frammenti e citazioni dirette

22

Testimonianze indirette

23

Il problema delle origini della filosofia antica di Mario Vegetti

29

Quando è nata la filosofia ?

3.

Perché in Grecia ?

34

Dal sapiente al filosofo : figure sociali e ambienti culturali fra VI e v secolo di Mario Vegetti

39

Tipologie di sapienti

39

L'ambiente ateniese

43

8 4.

5.

STORIA D E LLA F I LO S O FIA ANTICA

Il debutto della filosofia: i primi dibattiti cosmologici a Mileto di Mauro Bonazzi

47

Talete: sapiente, filosofo, consigliere

47

Anassimandro e l' invenzione della natura

52

Anassimene, un epigono da rivalutare

59

Alla ricerca della giustizia: il pensiero etico-politico tra VI e v secolo di Mauro Bonazzi L' invenzione della politica L'Iliade, poema della forza ? Giustizia divina, giustizia naturale, giustizia cosmica Giustizia umana

6.

7.

Il pitagorismo di Mauro Bonazzi

79

La questione pitagorica

81

Filolao, pitagorico e presocratico

83

I numeri e la matematica

86

Orfismo e pitagorismo

88

Alcmeone di Crotone

91

Riflessione teologica e critica delle tradizioni religiose: da Senofane di Colofone ai sofisti di Mauro Bonazzi

93

Appropriazione e revisione : Senofane di Colofone e la tradizione presocratica

95

I negazionisti: la "teologia" dei sofisti e la religione tradizionale

99

INDICE

8.

9.

IO.

II.

9

Eraclito di Efeso di Mauro Bonazzi

105

La vita, l'opera e le polemiche

105

Il logos di Eraclito

108

Il flusso e l'unità dei contrari

109

Una meditazione esistenziale

1 14

Parmenide e gli "eleati" di Francesco Fronterotta

119

La "scuola" eleatica

119

Parmenide

121

Zenone

134

Melisso

136

Empedocle di Agrigento e Filistione di Locri di Filippo Forcignano

139

La vita e le opere di Empedocle

139

Fisica, cosmologia, biologia

142

Daimon, anima, etica

146

Medicina e filosofia: Empedocle e Filistione

147

Anassagora e la filosofia della natura nell'Atene del v secolo di Filippo Forcignano

149

Da Clazomene ad Atene : vita e opera

149

Il "circolo di Pericle" e il sapere "laico" di Anassagora

152

Separazione e mescolanza: cosmogonia, cosmologia e formazione dei corpi

155

L' intelletto domina e conosce tutte le cose

158

STORIA D E LLA F I LO S OFIA ANT ICA

IO

12.

13.

L'uomo : percezione, conoscenza, valori Diogene d i Apollonia e Archelao d i Atene

160 161

La nascita dei saperi scientifici nel v secolo di Mario Vegetti

165

Archeologia del sapere scientifico Lo sviluppo delle tecniche e la nascita dei saperi scientifici L a medicina e l e scienze della natura vivente I sac eri tecnici alle origini delle "scienze esatte": are itettura, geografia, astronomia La nascita della geometria

165 166 168

Atomisti antichi: Leucippo e Democrito di Emidio Spinelli

177

Il quadro storico e biografico Fisica e cosmogonia/ cosmologia atomistiche Psicologia ed epistemologia atomistiche Etica, teologia, politica ed economia atomistiche

177 180 184 188

14. I sofisti di Mauro Bonazzi Una filosofia delle apparenze, un'apparenza di filosofia Quante realtà ? Il linguaggio: un mondo di parole La città e l'uomo Physis e nomos, la realtà e la legge 15.

173 174

195 195 199 203 205 207

Socrate e i socratici minori di Franco Trabattoni

215

La vita di Socrate

215

INDICE

II

La "questione socratica"

216

Il Socrate di Platone e il Socrate di Senofonte

220

La "filosofia" di Socrate

221

Il metodo socratico

222

L'etica di Socrate

228

Socrate e la religione

232

Il processo e la morte di Socrate I filosofi socratici

Note

247

Bibliografia

279

Indice dei nomi

309

Gli autori

313

Premessa di Mario Vegetti e Franco Trabattoni

In ogni stagione della cultura europea, le grandi storie della filosofia antica hanno intrattenuto un rapporto significativo con lambiente intellettuale e filosofico dell'epoca. Così l'impresa di Eduard Zeller era in stretta relazio­ ne con la filosofia hegeliana, di cui verificava ed estendeva le prospettive sul pensiero greco, e lopera di Theodor Gomperz si proponeva come un con­ tributo alla storia degli sviluppi del positivismo nella filosofia occidentale. Oggi una simile integrazione di prospettive filosofiche e storiografiche non appare più possibile né peraltro auspicabile. Non avrebbe senso, ad esempio, costruire una storia del pensiero antico come preludio all'avvento della metafisica occidentale, o come incunabolo della filosofia analitica, o ancora come esercizio di riduzionismo sociologico e antropologico. Que­ sto non può tuttavia significare che sia possibile, e desiderabile, sottrarsi all'interlocuzione con le grandi tendenze della cultura contemporanea. La via più praticabile e fruttuosa appare quella di un'indagine storiografica rigorosa e non pregiudicata, che non si risolva però nella hegeliana "fila­ strocca delle opinioni". L' intento di una rinnovata indagine complessiva sul pensiero antico, aperta a quella interlocuzione, sembra dover dunque consistere nel riportare alla luce, e riproporre all'attenzione della cultura contemporanea, quel ricco giacimento di razionalità critica, di opzioni eti­ co-politiche, di prospettive ontologiche e cosmologiche, che quel pensiero ha elaborato con una potenza argomentativa e una libertà intellettuale che hanno pochi paralleli nella storia della filosofia occidentale; un giacimento da esplorare tenendo presenti le domande teoriche che nascono sul terreno del mondo contemporaneo, alle quali lantico non può offrire direttamen­ te risposte, ma certo stimoli di riflessione e prospettive di pensiero affasci­ nanti proprio in ragione della loro differenza e della loro distanza. L'opera che qui presentiamo - in un momento in cui la cultura con­ temporanea sembra sperimentare una crisi di orientamento - mira a ripri-

14

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANT ICA

stinare un circolo virtuoso tra storiografia dell'antico e questioni aperte della contemporaneità, senza fare della prima uno strumento al servizio di opzioni filosofiche precostituite, ma anche senza dimenticarne la respon­ sabilità culturale di fronte a tali questioni. Si è avvertita l'opportunità di rispondere a questa esigenza perché, ad avviso comune dei coordinatori e dell'editore, manca oggi nel campo degli studi italiani di storia della filosofia antica - a fronte dello sviluppo im­ petuoso delle ricerche di ambito specialistico - uno strumento di ampio respiro che sia in grado di offrire a studiosi, studenti e persone di cultura una visione esauriente e aggiornata dello "stato dell'arte" della disciplina, delle conoscenze acquisite e delle prospettive di ricerca maturate a livello internazionale. I quadri storiografici complessivi devono infatti venire pe­ riodicamente rielaborati perché possano tenere conto, in una prospettiva integrata, delle innovazioni esegetiche sperimentate nei singoli settori di studio. Non si tratta soltanto di aggiornare l'esposizione del pensiero dei diversi filosofi antichi sulla base delle più recenti acquisizioni filologiche e storiche ; si tratta anche, e soprattutto, di ricostruire e discutere le strutture argomentative, i nodi teorici, i contesti problematici che formano la trama di quel pensiero e ne assicurano il perdurante interesse filosofico anche per il lettore del nostro tempo. Questi compiti non potevano più in ogni caso venire affidati all'opera di un singolo autore - com'è il caso pur meritorio dei vasti ma datati ma­ nuali di storia della filosofia antica oggi disponibili - perché la complessità e la ricchezza degli studi renderebbe oggi impossibile e persino impensabile una simile impresa. Si è quindi fatto ricorso a una pluralità di contributi scritti da autorevoli studiosi, italiani e stranieri, nei singoli settori di ricerca; non per questo però l'opera che qui presentiamo ha assunto il carattere di un reading antologico. Gli autori coinvolti hanno certamente portato nelle trattazioni di loro competenza le prospettive e gli esiti maturati nel corso delle rispettive ricerche specialistiche, di cui si assumono la piena responsa­ bilità, senza la pretesa di una implausibile "oggettività", definitiva e imper­ sonale, delle tesi esegetiche sostenute (benché al lettore vengano forniti gli strumenti per sviluppare eventualmente punti di vista diversi). Resta però il fatto che l'opera mantiene una sua unitaria organicità, che è stata assicurata dal costante lavoro di confronto e di verifica condotto collegialmente fra i due coordinatori, i curatori dei quattro volumi e i singoli autori. I caratteri di originalità di questi volumi sono dovuti all' impostazione progettata dai coordinatori, ma sono stati resi possibili soltanto dal lavoro

P REMESSA

15

di équipe di curatori e autori. Si tratta in primo luogo di un sostanzia­ le riequilibrio degli spazi dedicati a epoche e pensatori. Nelle esposizioni tradizionali, a Platone e Aristotele viene assegnato un ruolo del tutto do­ minante, a scapito soprattutto delle filosofie ellenistiche e tardo antiche. Questo squilibrio non è più compatibile né con lo stato degli studi storio­ grafici né con gli attuali interessi teorici rivolti al pensiero antico. Platone e Aristotele, com'è giusto, sono fatti oggetto di un'ampia trattazione, che occupa la maggior parte del secondo volume, ma altrettanta attenzione è dedicata sia al pensiero presocratico e socratico, esposto nel primo volume, sia, e soprattutto, alle filosofie posteriori alle quali sono dedicati i volumi terzo e quarto dell'opera. Le rilevanti novità intervenute nella storiografia degli ultimi decen­ ni - a proposito ad esempio di Platone e del neoplatonismo, per citare alcuni dei casi più rilevanti - hanno naturalmente ispirato il resoconto dei rispettivi ambiti di ricerca. Per gli autori che hanno svolto un ruolo decisivo nella tradizione filosofica, come Platone e Aristotele, si è inoltre ritenuto opportuno integrare l'esposizione del loro pensiero con quadri della storia delle interpretazioni e dell'attuale dibattito esegetico, in modo da presentare al lettore e allo studioso lo sfondo problematico sul quale si costruiscono le opzioni storiografiche di volta in volta adottate. Abbiamo inoltre creduto che fosse necessario premettere alle diverse epoche della storia del pensiero filosofico un quadro delle condizioni so­ ciali e culturali all' interno delle quali la filosofia, e la stessa figura sociale del filosofo, si sono via via venute costituendo e definendo : è ben chiaro, ma troppo spesso ignorato, ad esempio, che lambiente sociale della filo­ sofia e della figura del filosofo nel mondo presocratico è del tutto diverso dall'epoca delle scuole nel mondo tardo antico, e questo non è certo indif­ ferente per l'assetto della prima e della seconda. Nello stesso intento di superare i limiti tradizionali assegnati alla storia del pensiero filosofico - senza peraltro metterne affatto in discussione la specificità teorica - è stata concessa un'attenzione inconsueta agli sviluppi della riflessione politica da un lato, scientifica dall'altro : politica e scienza sono infatti, dal versante pratico e da quello teorico, i due grandi territori di pensiero confinanti con l'ambito proprio della filosofia in senso stretto. Quest 'opera si propone dunque di offrire un contributo al consolida­ mento e allo sviluppo degli studi di filosofia antica in Italia, offrendone un bilancio aggiornato e delineandone le prospettive di ricerca, da cui emer­ gano anche i motivi che tuttora ne giustificano l interesse in un contesto

16

STO RIA D ELLA F I L O S O FIA ANTI C A

culturale complessivo. Ci si augura inoltre di proporre uno strumento uti­ le all' insegnamento universitario, evitando sia di indulgere alla tentazione di sguardi eccessivamente sintetici e quindi semplificatori sia di appesanti­ re l'esposizione con l'esibizione di un apparato accademico in questa sede superfluo. La stessa partizione dell'opera in quattro volumi, dedicati rispettiva­ mente agli inizi della filosofia fino a Socrate, al pensiero del IV secolo, alla filosofia ellenistica e infine a quella dell'epoca imperiale e tardo antica, è intesa ad agevolarne la consultazione secondo particolari interessi ed esi­ genze didattiche. Per favorire la leggibilità, il corredo di note è limitato alle informazioni essenziali, e le bibliografie che corredano ogni volume sono intese come strumento di servizio, praticabile per eventuali approfondi­ menti, non come esibizione di un'erudizione che è già garantita dall'auto­ revolezza e dalla competenza degli autori. Se l'opera che ora presentiamo avrà raggiunto anche solo alcuni degli scopi che ci eravamo proposti, gran parte del merito va appunto agli au­ tori dei singoli capitoli, nonché ai curatori dei volumi, ed è a loro che va in primo luogo il ringraziamento dei coordinatori, oltre che all' impegno profuso dall'editore nella realizzazione di un progetto complesso e diffici­ le come il nostro.

Tavola cronologica

STORIA D E LLA F I LO S O FIA ANT I C A

Presocratici

Scienziati

Omero (vm sec.)• Esiodo ( VII sec.) Solone (638-558) Talete (fine VII-inizio VI sec.)

Anassimandro (inizio VI sec.) Anassimene (metà VI sec.) Pitagora (572-494 ca.) Senofane (570-470) Eraclito (vI-v sec.) Parmenide (544/541-450 ca.) Zenone (504/501-440 ca.) Ippaso (vI-V sec.) Anassagora (500/ 499-428/ 427) Empedocle (484/ 480-424/ 420 ca.) Melisso (v sec.) Erodoto (480-425 ca.) Democrito (470/ 460-380 ca.) Filolao (470-390 ca.) Tucidide (460-400 ca.) Archelao (V sec.) Diagora di Melo (v sec.) Diogene di Apollonia ( v sec.) Leucippo (v sec.) Archita (420-3 50 ca.)

Ippodamo di Mileto ( v sec.) Policleto ( v sec.) Ippocrate di Chio (metà v sec.) Ippocrate di Cos (460-375 ca.) Metone (metà v sec.)

Filistione (IV sec.)



Tutte le date si intendono a.C.

In corsivo gli autori non filosofi di cui si tratta nel volume.

19

TAVOLA C R O N O LO G I CA

Sofisti

Socrate e i socratici

Protagora (490-4i.o ca.) Antifonte (489 ca.-411) Gorgia (480-3 80 ca.) Prodico (470-390 ca.) Trasimaco (460-400 ca.) Crizia (460 ca.-403) Ippia ( 440-340 ca.)

Socrate (470/ 469-399) Antistene (465-365) Aristippo (v-1v sec.) Euclide di Megara (v-1v sec.) Fedone (v-1v sec.)

Diogene di Sinope (412./403-Ji.4/32.1 ca.) Eubulide (1v sec.) Diodoro Crono (1v-m sec.) Stilpone di Megara (1v-m sec.)

Avvertenza Anche se recenti scoperte papiracee hanno aumentato le nostre conoscenze, a tutt 'og­ gi l'edizione fondamentale per i filosofi presocratici è Die Fragmente der Vorsokratiker di Hermann Diels, poi riveduta e corretta da Walter Kranz ( sesta edizione, Berlino 1952; abbreviato in DK) . Per ciascun autore ( indicato da un numero) i capitoli si ar­ ticolano in "testimonianze" e "frammenti", indicati rispettivamente con le lettere A e B ( questa suddivisione non è presente sempre, ma solo quando il numero dei passi raccolti lo permette ) ; in alcuni casi è presente anche una terza sezione C, contenente le "imitazioni". Così 12 A 6 indicherà la testimonianza 6 di Anassimandro ( che cor­ risponde al numero 12), mentre So B 3 segnalerà il frammento 3 di Protagora, e via di seguito. Dove non è indicato altrimenti, le traduzioni dei testi antichi sono degli autori dei singoli capitoli.

I

Fonti, trasmissioni e critica dei testi di Mauro Bonazzi

Nell' immenso naufragio che ha segnato la letteratura antica, la produzio­ ne dei cosiddetti filosofi presocratici' è tra quelle maggiormente colpite: oltre a due declamazioni di Gorgia (l'Encomio di Elena e l'Apologia di Pa­ lamede) e ai cosiddetti e anonimi Discorsi duplici, per intero non si è salvata alcuna opera e pochissimi sono i frammenti diretti che ci conservano le parole autentiche di alcuni dei più grandi pensatori antichi, da Parmenide a Democrito, da Eraclito a Protagora. Per limitarsi a un esempio eloquente: praticamente nulla rimane di Pitagora e del movimento pitagorico, che pur tuttavia ha dominato la vita culturale e politica della Magna Grecia per lun­ ghi decenni. E senza alcuni fortuiti ritrovamenti papiracei non sapremmo nulla neppure di Antifonte, uno dei sofisti più sottili, da molti identificato con quell'Antifonte di Ramnunte promotore, secondo Tucidide, del colpo di Stato contro la democrazia ateniese del 4 1 1 a.C. Fortunatamente, però, il fascino di questi autori non ha smesso di atti­ rare lattenzione dei lettori antichi e moderni: se i frammenti scarseggiano fino a risultare quasi assenti, il lettore moderno può comunque contare su una mole ingente di testimonianze che provengono dai testi e dagli scrittori più disparati in un arco di tempo che va dal IV secolo a.C. al VI secolo d.C. Dei presocratici ci si è comunque continuati a occupare in tutte le epoche e negli ambienti culturali più diversi. Queste testimonianze, a volte meri rias­ sunti e parafrasi, a volte resoconti più dettagliati contenenti (in modo più o meno fedele) citazioni autentiche, costituiscono una guida di inestimabile importanza, da trattare però con le dovute cautele. L' idea di una storia della filosofia oggettiva e imparziale è infatti un' idea che si è fatta strada solo in tempi recenti, grazie al potente stimolo della filologia tedesca del XIX secolo. Nell'antichità la storia della filosofia è stata invece sempre considerata come parte integrante dei dibattiti e delle po­ lemiche tra filosofi o tra scuole1. E in questi dibattiti, durati per secoli in

22

STORIA D E LLA F I LO S O FIA ANT ICA

certi casi, i presocratici sono stati spesso usati, o per meglio dire sfruttati, tirati da una parte e dall'altra in difesa delle tesi più diverse. Ancora una volta per limitarsi a qualche celebre esempio, è noto che praticamente tutti, prima gli stoici e gli accademici, poi i pirroniani e i neoplatonici, cercarono di appropriarsi di Eraclito presentandolo come un predecessore della loro filosofia, insistendo di volta in volta su aspetti diversi del suo pensiero. Non meno eloquenti sono il Parmenide scettico degli accademici ellenistici o il Democrito neopitagorico del platonico pitagorizzante Trasillo. Per quan­ to importanti, le testimonianze rarissimamente possono essere considerate davvero imparziali e in quanto tali usate. Per potersi muovere con qualche fiducia nel vasto e imprevedibile labirinto presocratico, il lettore moderno deve dunque conoscere le tracce che lo aiuteranno a condurre a buon fine il suo cammino. Dei principali si cercherà di rendere conto nelle pagine che seguono (cfr. Mansfeld, 1999; Runia, 2008; Brisson, 2012 ) .

Frammenti e citazioni dirette

Data la distanza temporale che ci separa dal variegato mondo dei pensatori presocratici, non sorprenderà che pochissimi siano i ritrovamenti papira­ cei capaci di restituire parti dei loro scritti. Sostanzialmente, due sono i documenti più significativi: un papiro ritrovato nel 1904 a Panopoli ( Egit­ to ) , ma finalmente pubblicato solo nel 1994, che conserva circa 74 versi di Empedocle ( 20 dei quali già conosciuti; cfr. Martin, Primavesi, 1999 ) ; e tre frammenti di un papiro ritrovato nel 1905 a Ossirinco ( Egitto ) che ci informano della riflessione del sofista Antifonte sul tema nomos/physis, probabilmente il tema più vivacemente discusso nell'Atene del v secolo a.C.3• Insieme alle due declamazioni di Gorgia e ai Discorsi duplici4 questi sono i documenti diretti più corposi. Non si tratta comunque di soli papiri, perché diversi autori antichi si distinguono per la tendenza a citare alla lettera i filosofi di cui discuto­ no: sono queste le fonti più importanti per iniziare il cammino, e la loro varietà costituisce una conferma eloquente dell' interesse che si è sempre mantenuto costante nei confronti dei pensatori presocratici. Tra tutti, una menzione speciale merita probabilmente uno degli ultimi rappresentanti della filosofia greca, il neoplatonico Simplicio, autore di alcuni monumen­ tali commentari ad Aristotele. In particolare, due sono i commentari che qui interessano, quello al trattato De caelo e quello alla Fisica: secondo una

FONTI, TRASM I S S I O NI E CRITICA DEI TESTI

suggestiva ipotesi essi sarebbero stati composti dopo il 532 d.C. nella cit­ tà di Carre, in Siria, dove Simplicio si era rifugiato dopo aver peregrinato tra Atene e la Persia in seguito all'editto di Giustiniano del 529 d.C. ( Tar­ dieu, 1990 ) . L' ipotesi è difficile da confermare e non è neppure sicuro che Simplicio disponesse davvero della ricchissima biblioteca di cui sembra in possesso. Ma è grazie alla sua consapevolezza di essere alla fine di una tradi­ zione bimillenaria e alla sua strenua volontà di conservarla1 che conosciamo passi di autori altrimenti destinati a rimanere per noi poco più che nomi: Simplicio è la sola fonte per Melisso e Zenone, a lui dobbiamo il famoso frammento di Anassimandro (12 B 1 DK) e molti passi di Anassagora e Diogene di Apollonia, oltre che di Parmenide ed Empedocle. Senza dimenticare gli altri commentari neoplatonici ( importante per Parmenide è ad esempio il commento al Parmenide di Proclo ) , meritano inoltre di essere ricordati i nomi dello scettico pirroniano Sesto Empirico ( forse II-III sec. d.C. ) , di Clemente Alessandrino ( seconda metà del II sec. d.C. ) e di Giovanni Stobeo (v sec. d.C. ) . Al primo dobbiamo il prologo del poema di Parmenide e, prevedibilmente, molti testi riguardanti il problema della conoscenza; al Protrettico e agli Stromata (traducibile indicativamen­ te come Miscellanea) di Clemente, uno dei cristiani più direttamente im­ pegnati nel tentativo di conciliare la nuova fede con il pensiero greco, im­ portanti frammenti di Eraclito, Parmenide ed Empedocle ( per questi tre un'altra fonte importante è Plutarco di Cheronea) ; all' immensa Antologia di Giovanni risale infine la maggior parte dei frammenti etici di Democri­ to. Se solo si pensa a che cosa si ridurrebbe la filosofia dei presocratici se non conoscessimo passi di Parmenide, Eraclito, Empedocle .e Democrito, si comprenderà che non mancano motivi per essere riconoscenti al pazien­ te lavoro di compilazione di questi eruditi antichi.

Testimonianze indirette

Se pure non ci restituiscono i testi autentici, anche le testimonianze indirette costituiscono una fonte indispensabile per ricostruire il pensiero dei preso­ cratici. Molto importanti, a questo proposito, sono l'attività di ricerca dei filosofi, fin da Platone e Aristotele, nonché lo sviluppo di alcuni generi lette­ rari specifici, quali quello delle dossografie, delle successioni e delle biografie. Per quanto sappiamo, la pratica di raccogliere e organizzare le dottrine dei pensatori delle epoche precedenti risale a due sofisti, Ippia e Gorgia

( Mansfeld, 1986). Di Ippia viene riferito che sarebbe stato il primo a com­ porre una specie di antologia con testi in prosa e in versi, di filosofi e poeti, probabilmente come strumento da usare per fini retorici; strumentale alle polemiche di Gorgia, di cui il trattato Sul non essere o sulla natura è testi­ monianza esemplare, era invece l' insistenza sulle aporie insolubili cui era­ no condannati i suoi predecessori ( « i discorsi dei meteorologi, i quali, eli­ minando un'opinione e producendone un'altra, hanno fatto apparire agli occhi dell'opinione cose incredibili e oscure » , 82 B u, 13 DK) : per meglio evidenziarle, egli aveva preso l'abitudine di presentarle ordinatamente se­ condo opposizioni disgiuntive. Entrambe queste due tendenze furono ri­ prese dai filosofi delle epoche successive, a partire da Platone e Aristotele. Platone, in particolare, sfruttò a più riprese l'espediente di organizzare le tesi dei predecessori secondo coppie opposte al fine di introdurre sé stesso come il giudice capace di trovare una soluzione convincente (cfr. Barany, 2006). La testimonianza più eloquente è probabilmente un celebre passo del Teeteto, in cui Socrate contrappone il filosofo dell'"essere" Parmenide alla tradizione del "divenire" incarnata da Protagora, Empedocle, Eraclito, Epicarmo e Omero: Nessuna cosa è in sé e per sé, né potresti correttamente designarla "qualcosa" né "di una certa qualità", ma se la chiami grande, apparirà anche piccola e se pesante, leggera e così per tutto, in quanto nulla è uno né qualcosa né di una certa qualità. A partire dalla traslazione, invece, e dal movimento e dalla mescolanza reciproca divengono tutte le cose che noi appunto diciamo che "sono� impiegando un termine scorretto, dato che mai nulla è, ma sempre diviene. E su questo punto si deve riconoscere che tutti i sapienti sono d'accordo uno dopo l'altro, a eccezione di Parmenide, concor­ dano Protagora, Eraclito, Empedocle e tra i poeti i sommi nell'uno e nell'altro ge­ nere di poesia, nella commedia Epicarmo e nella tragedia Omero, il quale dicendo "Oceano degli dei generatori e la loro madre Teti" volle dire che tutte le cose sono generazioni del flusso o del movimento. O non ti pare che voglia dire questo ? ( Theaet. 152.d-e ; trad. Cambiano, 1981)

Ma non meno brillante è questa pagina del Sofista: Ognuno di loro ci ha raccontato una favola [ mythos] come se fossimo bambini, l 'u­ no dicendo che gli enti sono tre, e talvolta alcuni di loro si combattono a vicenda, ma poi, diventati amici, combinano matrimoni e nascite e allevamento della prole [Ferecide di Siro, Ione di Chio ?] ; un altro dichiara invece che sono due - l'umido e il secco o il caldo e il freddo -, li fa abitare insieme e li congiunge [Alcmeone ? Archelao ?]. La nostra stirpe eleatica, che comincia con Senofane e forse ancor

FONTI, TRASM I S S I ONI E CRITICA D E I TESTI

prima di lui, viene favoleggiando che quelle che si dicono "tutte le cose" non sono che un solo ente [Parmenide]. Certe Muse della Ionia e poi della Sicilia pensarono che fosse più sicuro tessere insieme entrambe le tesi, dicendo che l'essere è uno e molteplice, e che è tenuto insieme dall'odio e dall'amore. La discordia infatti sempre si ricompone, dicono le Muse più tese [Eraclito] , ma quelle più rilassate [Empedocle] allentarono questa perenne tensione, dicendo che il mondo a turno talvolta è uno e in amicizia per opera di Afrodite, talaltra molteplice e ostile a se stesso a causa di una sorta di odio. Sarebbe difficile stabilire se tutti questi detti rispondano o meno alla verità, e sgarbato mostrare così poca stima per uomini celebri e antichi (Soph. z.4z.d-z.43a; trad. M. Vegetti).

Davvero, non sbaglierebbe chi intravedesse in questo passo un compendio di storia della filosofia presocratica ! Una volta che si sia compreso che il confronto di Platone con i predecessori risponde sempre a strategie pole­ miche ben precise, si potranno usare i suoi dialoghi come una delle fonti più importanti per ricostruire il pensiero dei presocratici: senza il Fedone e il Teeteto la nostra conoscenza rispettivamente di Anassagora e Prota­ gora si ridurrebbe drasticamente ( più sistematicamente, cfr. Brancacci, Dixsaut, 2002). Nella sua vocazione alla classificazione ordinata, Aristotele è solo ap­ parentemente meno "impegnato" di Platone6. Perché sono le scelte di Aristotele che hanno determinato il canone di che cosa si possa intende­ re legittimamente come filosofia presocratica e che cosa invece si debba escludere. Fondamentale a questo proposito è il I libro della Meta.fisica: una volta stabilito che il soggetto eminente della filosofia è lo studio delle cause e dei principi, Aristotele passa a elencare i contributi dei predeces­ sori, stabilendo di fatto un "canone", con prese di posizione nette e foriere di grandi conseguenze. Che Talete sia da considerare !'"inventore" della filosofia perché per primo si preoccupò di stabilire una causa materiale, in­ dividuando nell'acqua il principio di tutte le cose, è una delle affermazio­ ni che aprono lo scritto aristotelico ( cfr. CAP. 4) ; ma è dubbio che Talete abbia mai parlato dell'acqua come principio di tutte le cose, e già Platone, come si è visto nel passo appena citato del Teeteto, aveva attribuito una tesi analoga nientemeno che a Omero ... Sia come sia, il merito di Aristotele e della sua scuola rimane incon­ trovertibile, e non solo per le numerose informazioni che si ricavano dai suoi scritti. Aristotele prima e Teofrasto poi hanno stabilito un metodo di ricerca, che sarebbe durato per secoli e che avrebbe assicurato la con­ servazione di una mole ingente di dati e testimonianze. In diversi scritti, e

STORIA D E LLA FILO S O FIA ANT I C A

nei Topici in particolare, questo metodo si delinea con grande chiarezza. Per affrontare correttamente una questione, si tratta innanzitutto di orga­ nizzare ordinatamente il materiale, individuando le questioni pertinenti e disponendo le varie tesi (doxai o areskonta in greco, ma anche problemata e protaseis, "affermazioni") secondo il genere di problema cui appartengono : Bisogna dunque scegliere le proposizioni secondo tanti aspetti, quanti sono stati distinti nel trattare della loro natura, e presentare concretamente o le opinioni di tutti, o quelle della grande maggioranza delle persone, o quelle dei sapienti [ ... ] . Occorre infine esercitare la scelta anche partendo dai discorsi scritti, e fare delle descrizioni riguardanti ogni genere, assunto separatamente - ad esempio il bene o l'animale, come pure tutti gli oggetti buoni - cominciando dall'essenza. Si debbono notare altresì le opinioni di individui, ad esempio l'affermazione di Empedocle, che quattro sono gli elementi dei corpi [ ... ]. Alle proposizioni e alle formulazioni di una ricerca si applica poi - ci limitiamo ad accennare la cosa - una tripartizione. In effetti, alcune proposizioni sono etiche, altre fisiche, altre ancora logiche (Top. I 14 105a 34-105b i.1; trad. Colli, 1973).

Una conferma esemplare dell' influenza aristotelica si ritrova nelle ricerche di Teofrasto, le cui Dottrine.fisiche (oppure Dottrine deifisici) si configu­ rano come « una raccolta sistematica per problemi delle tesi dei pensatori della natura [i physiologoi di Aristotele, vale a dire quelli che oggi chiamia­ mo presocratici] e forse di alcuni medici secondo una divisione per genere e specie » (Mansfeld, 1 9 9 9 , p. 30 ). Non meno importante fu la monografia Sui sensi, che si articolava sull'opposizione "conoscenza secondo il simile/ conoscenza a partire dal dissimile" (cfr. Baltussen, 2000 ). L'opera di Aristotele e Teofrasto fornì un impulso decisivo allo stu­ dio dei presocratici, che possiamo misurare nello sviluppo di un vero e proprio genere letterario dedicato alla raccolta delle opinioni filosofiche dei pensatori antichi sui vari problemi: è il genere della dossografia (dal già citato termine greco doxa ). Secondo l ipotesi del filologo tedesco Her­ mann Diels (cui dobbiamo il neologismo di "dossografià'), nel corso dei secoli ellenistici lopera di Teofrasto fu risistemata e usata da tutte le scuo­ le filosofiche per fini didattici e polemici, fino a raggiungere una sorta di codificazione nella raccolta aggiornata di un altrimenti sconosciuto Aezio (probabilmente I sec. d.C.)7• Questa raccolta avrebbe costituito da quel momento in poi la fonte per eccellenza dei filosofi presocratici, e non sol­ tanto nell'antichità: un aspetto interessante, non ancora indagato fino in fondo e da cui potrebbero provenire nuove testimonianze, è la posterità

FONTI, TRASM I S S I ONI E CRITICA D E I TESTI

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di questa tradizione nel mondo arabo8• Ancora oggi la raccolta per eccel­ lenza in uso, la sesta edizione dei Fragmente der Vorsokratiker dello stesso Diels con il contributo ulteriore di Walther Kranz ( 19 526 ) , segue proprio il modello di Aezio9• Ma la tradizione dossografica non è la sola fonte di informazioni: più interessata agli autori che alle dottrine, anche la letteratura delle "succes­ sioni" e delle "biografie" è ricca di notizie importanti che ci permettono di arricchire le nostre conoscenze. Sulla falsariga delle ricerche erudite di età ellenistica, Sozione di Alessandria (inizio del II sec. a.C.) scrisse un'opera intitolata Successioni dei filoso.fi'0• Di fatto l'opera riproduceva l'organiz­ zazione delle scuole del suo periodo, rette di volta in volta da un diado­ co eletto o nominato : l'obiettivo era quello di ritracciare l'origine delle principali scuole ellenistiche risalendo fino agli albori dell'età presocratica (quando in realtà non esistevano scuole organizzate). Non si trattava di una pratica così neutrale come pure potrebbe sembrare a prima vista, per­ ché le più importanti scuole del periodo furono a loro volta bene attente a rivendicare alcuni dei principali presocratici come predecessori della loro filosofia in polemica contro le altre scuole : un caso eloquente, di cui si è già fatto cenno, è Eraclito, presentato come uno stoico dagli stoici, come uno . scettico dall'accademico Arcesilao e dal pirroniano Enesidemo, e come un platonico dai platonici di età imperiale. Ancora una volta è interessante osservare che i primi tentativi in questo senso si possono rintracciare in Platone e Aristotele : se a Platone risale l' idea di una stirpe "eleatica" fonda­ ta Senofane, Parmenide e Zenone (Soph. 242d e Parmenide), ad Aristotele si deve la designazione dei pitagorici come italikoi (Metaph. I s 987a 10; I 6 987a 31 ) . Non si tratta di una scelta di poco conto, perché uno dei risultati più interessanti di queste ricerche sulle successioni condusse proprio alla grande divisione della filosofia presocratica in due linee principali che op­ pone gli ionici agli italici". Questa divisione di massima struttura anche l'opera di Diogene Laer­ zio (11-m sec. d.C.), le cui Vite deifilosofi costituiscono una fonte inesauri­ bile di informazioni che vanno ben oltre ai dati meramente biografici: per gli antichi, del resto, non aveva senso separare vita e opere1•. Il problema è, se mai, la pratica di "integrare" (ma sarebbe meglio dire "inventare") i dettagli quando le informazioni mancavano: si spiega così l'origine degli aneddoti inverosimili che accompagnano le vite di ogni presocratico che si rispetti, dalla coscia d'oro di Pitagora a Empedocle morto nell' Etna. Ma, nonostante questi limiti, anche il testo di Diogene è utile. In particolare,

S T O RIA D ELLA F I LO S O FIA ANT I C A

decidendo di non prendere mai nettamente posizione nei casi ambigui, Diogene ha la saggia abitudine di registrare i casi di divergenza tra gli eru­ diti che lo precedono'l: niente più di questa congerie di ipotesi, che si sono affastellate in modo più o meno fantasioso nel corso dei secoli, conferma meglio la passione che gli antichi hanno sempre provato per i presocra­ tici. Ed è grazie a questa passione che anche oggi, a più di due millenni di distanza, possiamo ancora occuparci delle loro fondamentali intuizioni filosofiche.

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Il problema delle origini della filosofia antica di Mario Vegetti

Quando è nata la filosofia ?

La domanda sullo stato anagrafico della filosofia (data e luogo di nascita, nome proprio, tratti caratteristici ) dispone fin dall'antichità di due rispo­ ste alternative. La prima, e di gran lunga la più tradizionalmente autorevo­ le, è stata formulata da Aristotele nel I libro della Metafisica, tradotta per la modernità nelle Lezioni di storia dellafilosofia di Hegel, e consolidata in quel monumento della filologia classica che è costituito dai Vorsokratiker di Diels ( in seguito aggiornati da Kranz ) . Secondo questa tesi, la filosofia sarebbe nata verso l' inizio del VI secolo a.C. a Mileto, sulla costa ioni­ ca dell' Egeo, e il suo fondatore sarebbe stato Talete. Le mancava ancora il nome, perché la forma di conoscenza inaugurata da Talete si chiama­ va allora sophia, "sapienza" ( la parola philosophia, "amore" o "desiderio di sapere� sarebbe stata coniata più tardi, in ambiente pitagorico secondo alcuni, o più probabilmente in quello socratico secondo altri; cfr. Burkert, 1960 ) ; ma non un suo preciso ambito di indagine, che secondo Aristote­ le consisteva nella ricerca sui principi originari (archai) e sulle cause (ai­ tiai) da cui dipende la formazione del mondo naturale, e che ne spiegano i processi. A dire il vero, Aristotele non nutriva grande stima per quelli che veniva identificando come i suoi remoti predecessori, i naturalisti ionici (Anassimandro e Anassimene oltre che Talete ) e gli altri sapienti preso­ cratici, come i pitagorici ed Empedocle. Considerava i loro sforzi un po' primitivi, come quelli di certi pugili inesperti che « vanno scorrazzando qua e là e vibrano sovente buoni colpi ma senza rendersene conto » , cioè cogliendo aspetti della verità pur senza sapere bene quello che dicevano e perché (Metaph. I 4 985a 1 3-17; trad. Rossino, in Berti, Rossino, 1993). Restava però il fatto che essi, a partire appunto da Talete, si collocavano agli inizi di un processo che avrebbe portato al compimento aristotelico

S T O RIA D ELLA F I L O S O F I A ANT ICA

della filosofia, contenendone le potenzialità, come da un seme informe si sviluppa alla fine la quercia. Con questa costruzione retroattiva di una tradizione e di una genea­ logia della filosofia, Aristotele compieva un gesto di grande potenza teo­ rica, che ne spiega la durevole affermazione. Con precisione chirurgica, egli separava infatti Talete e i suoi successori dal loro retroterra culturale, mitico-religioso e poetico, nonché dal loro ambiente storico, per ricollo­ carli in un nuovo ambito di senso e di riconoscibilità, il processo omo­ geneo che avrebbe nel tempo condotto alla filosofia ateniese e da ultimo aristotelica. Questa drastica operazione presentava naturalmente aspetti del tutto arbitrari, che la critica della seconda metà del Novecento ha più volte indicato. In primo luogo, essa dipende interamente dalla concezione aristotelica di ciò che costituisce il nucleo centrale della filosofia, vale a dire la ricerca sulla struttura causale del mondo naturale. Basterà osservare, a titolo di esempio, che questa decisione teorica di Aristotele ha durevol­ mente escluso dal campo della filosofia un pensatore arcaico come Solone, che potrebbe essere considerato il fondatore del pensiero etico-politico greco con ragioni forse più solide di quelle che inducono a vedere in Talete l' iniziatore della filosofia della natura. Per quanto riguarda lo stesso Tale­ te, e i suoi successori tanto ionici quanto magno-greci e siciliani, la loro assegnazione aristotelica agli incunaboli della ricerca dei principi e delle cause porta senza dubbio ad abusi di sovrainterpretazione da una parte (è dubbio che i sapienti arcaici si ponessero domande secondo la categoria epistemologica della causalità: il loro linguaggio è piuttosto quello del po­ tere e del comando)', dall'altro a selezioni arbitrarie (come quella che, nel caso di Empedocle, riconosce come appartenente alla "filosofia" il poema Sulla natura, ma non quello sulle Purificazioni)•. Questa, e molte altre simili difficoltà, sembrano rendere consigliabile il ritorno alla seconda delle risposte antiche alla domanda circa le origini della filosofia, quella formulata da Platone. La filosofia, di nome e di fatto, sarebbe nata con il gruppo socratico, e non prima della sua comparsa. Il non-sapere proclamato da Socrate ne faceva, a differenza dai suoi prede­ cessori, un non-sophos, ma proprio per questo desideroso di conoscenza, insomma appunto un philo-sophos, un filo-sofo. Vale la pena di leggere per esteso la memorabile pagina del Sofista in cui Platone compie un'opera­ zione esattamente inversa a quella di Aristotele: se questi aveva separato i pensatori presocratici dal background mitologico, inserendoli nell'omo­ geneità della tradizione filosofica in progress, Platone invece li risospinge

IL P ROBLEMA D ELLE ORIGINI D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

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impietosamente anche se con ironico rispetto nella dimensione del mito, e attribuisce loro linguaggi favolosi che risultano intraducibili in quello della nuova razionalità filosofica: M i sembra che Parmenide, e tutti quelli cui è accaduto di avventurarsi in giu­ dizi miranti a definire quanti e quali siano gli enti, ci abbiano trattato con un po' di leggerezza. Ognuno di loro ci ha raccontato una favola [mythos] come se fossimo bambini, l'uno dicendo che gli enti sono tre, e talvolta alcuni di loro si combattono a vicenda, ma poi, diventati amici, combinano matrimoni e nascite e allevamento della prole [Ferecide di Siro, Ione di Chio ?] ; un altro dichiara invece che sono due - l'umido e il secco o il caldo e il freddo -, li fa abitare insieme e li congiunge [Alcmeone ? Archelao ?]. La nostra stirpe eleatica, che comincia con Senofane e forse ancor prima di lui, viene favoleggiando che quelle che si dicono "tutte le cose" non sono che un solo ente [Parmenide] . Certe Muse della Ionia e poi della Sicilia pensarono che fosse più sicuro tessere insieme entrambe le tesi, di­ cendo che l'essere è uno e molteplice, e che è tenuto insieme dall'odio e dall'amo­ re. La discordia infatti sempre si ricompone, dicono le Muse più tese [Eraclito] , ma quelle più rilassate [Empedocle] allentarono questa perenne tensione, dicen­ do che il mondo a turno talvolta è uno e in amicizia per opera di Afrodite, talaltra molteplice e ostile a se stesso a causa di una sorta di odio. Sarebbe difficile stabilire se tutti questi detti rispondano o meno alla verità, e sgarbato mostrare così poca stima per uomini celebri e antichi. Però una cosa, senza offesa, si può almeno os­ servare. Hanno avuto troppo poca considerazione per tutti noi, guardandoci un po' dall'alto in basso : senza per nulla preoccuparsi che potessimo seguire i loro discorsi o che restassimo indietro, ognuno è andato dritto per la sua strada (Soph. 242c-243b ).

Naturalmente, anche la risposta platonica dipende da una decisione teo­ rica circa la natura della filosofia, che appare ora come la tecnica raziona­ le dell'argomentazione dialettica intesa a produrre effetti di verità, di cui però devono venire chiarite le condizioni epistemologiche di validità. Agli occhi di una parte della storiografia moderna (di orientamento analitico piuttosto che hegeliano), questa concezione della filosofia è apparsa più rassicurante e quindi la risposta platonica decisamente più convincente di quella aristotelica. Essa lascia tuttavia aperto un problema che non può venire eluso. Qual è la posizione da assegnare ai pensatori presocratici, se si tratta di figu­ re pre-filosofiche (di filosofi prima della filosofia)3 che tuttavia risultano a prima vista non identificabili con la tradizione mitico-poetica alla ma­ niera di Omero e di Esiodo ? Se è chiara la differenza che li separa, a valle,

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dalla filosofia propriamente detta, inaugurata dal gruppo socratico, quali sono d'altra parte le differenze ( se esistono ) che li distinguono a monte dal resto della tradizione culturale arcaica ? In effetti, è probabilmente solo attraverso l' individuazione di un reticolo di differenze progressivamente emergenti rispetto alla continuità di questa tradizione che si può ricono­ scere la definizione, inizialmente incerta, di quella nuova forma di attività intellettuale, di quel nuovo modo di porre domande e tentare risposte, che nel corso di due secoli avrebbero raggiunto, con Platone e Aristotele, l' autoconsapevolezza di sé in quanto "filosofia"4• Se si vuole tentare di rubricare in modo schematico queste problema­ tiche differenze per voci principali, la prima può riguardare la forma di elaborazione e trasmissione della nuova "sapienza". Essa compare presso i naturalisti ionici nella veste di scrittura in prosa, ma non si può dire che la scrittura, e tanto meno la prosa, ne costituiscano agli inizi un tratto de­ cisamente distintivo. Alcuni dei primi sapienti, come Pitagora, non scris­ sero nulla (del resto non lo fece neppure il vero fondatore della filosofia secondo Platone, cioè Socrate ) . Altri, come Parmenide ed Empedocle, composero le loro opere ricorrendo alla forma poetica dell'esametro epico ( occorre ricordare che in esametri parlavano anche gli dei quando profferi­ vano gli oracoli ) . Ed è probabile che molti sapienti arcaici comunicassero i loro testi, benché scritti, nella forma di una performance orale davanti a un pubblico più o meno ampio. Da questo punto di vista, la scrittura poetica garantiva certamente un maggiore prestigio, un'autorità tradizionalmente più riconoscibile ai loro messaggi. Resta vero, d'altra parte, che il testo scritto, e progressivamente desti­ nato alla lettura più che ( oppure: oltre che ) all'ascolto, costituisce un sup­ porto adatto alla formulazione e all'esposizione di un pensiero astratto, e stimola non tanto la memorizzazione ripetitiva quanto la comprensione e la riflessione critica sulle tesi esposte. Ed è inoltre vero che nel corso del V secolo la scrittura in prosa si è venuta affermando come il veicolo pri­ vilegiato di tutti i saperi che si stavano progressivamente differenziando rispetto alle vecchie "enciclopedie" poetiche, dalla storiografia alle technai, e quindi anche la forma espressiva indispensabile per la sapienza in via di diventare "filosofia". Alla fine, dunque, la differenza segnata fin dall' inizio dai vecchi ionici come Anassimandro e Anassimene avrebbe prevalso, no­ nostante un percorso tutt 'altro che lineare. Un altro tratto ricorrente nella sapienza arcaica è quello di delineare visioni universali dell'origine del mondo, della struttura fondamentale

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dei processi naturali, della condizione umana: insomma, ciò che in se­ guito si sarebbe rubricato come cosmogonia, cosmologia e antropologia. Narrazioni di questo tipo sono però diffuse nella mitologia poetica tanto greca quanto orientale ( così il tema delle origini del mondo dalle acque, che sembra sia stato centrale in Talete, è presente sia in Omero sia in miti mesopotamici ) . A differenza della tradizione mitico-poetica, si può tutta­ via dire che i racconti cosmogonici e cosmologici dei sapienti presocratici tendono a rimpiazzare quelli precedenti, adducendo motivi che li dovreb­ bero far preferire alle versioni rivali. E soprattutto nelle grandi visioni cosmiche dei sapienti ionici scompare qualsiasi riferimento all'opera di divinità personali, alla quale si sostituisce lautonoma legalità e regolarità dei processi naturali. È vero, al contrario, che Parmenide ed Empedocle mettono i loro messaggi sotto il segno di una rivelazione o un' ispirazione divina, come avevano fatto Omero ed Esiodo in rapporto alle Muse. È altrettanto vero però che il loro discorso procede mostrando le proprie regole di costruzione ( dai nessi inferenziali ai procedimenti analogici ) e rivendica quindi garanzie di validità indipendenti dall' iniziale riferimen­ to divino, tanto che questo sembra - al pari dell ' impiego dell'esametro epico - più destinato ad assicurare l'autorità del sapiente che la verità del suo discorso. E proprio qui sta probabilmente il tratto che segnala in modo più ni­ tido il graduale emergere di un nuovo stile di razionalità, nel quale, no­ nostante l ironico distanziamento platonico, si possono riconoscere le premesse del discorso fìlosofìco vero e proprio. Come si è visto, le altre differenze - l'universalità dei racconti cosmogonici, la marginalizzazione delle persone divine, il ricorso alla scrittura e alla prosa - erano ancora intrecciate con elementi forti di continuità con lo sfondo culturale miti­ co-poetico. La novità più radicale consiste invece nella riflessivita del na­ scente discorso fìlosofìco, cioè nel suo sforzo di autolegittimarsi offrendo le proprie garanzie di verità che risultano indipendenti sia dall'eventuale ispirazione divina sia dalla stessa autorità personale del sapiente che lo propone ( i riferimenti all'una e all'altra avranno allora un valore preva­ lentemente retorico, preliminare ma non indispensabile all'accettazione del messaggio ) : questo sembra essere il senso del motto di Eraclito che chiede di « ascoltare non me, ma il logos» (B 50 DK). I criteri di valida­ zione così formulati consentono ai sapienti di rivendicare la preferibilità del proprio discorso rispetto a quelli precedenti o rivali ( ciò che appare tra le righe nei naturalisti ionici, ma emerge con grande chiarezza nelle

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polemiche di Parmenide, di Eraclito e di Empedocle) ; al contrario delle narrazioni mitiche, ogni nuovo messaggio di sapienza conquista così il proprio spazio sottoponendo a critica e a falsificazione le tesi alternative, con quell'atteggiamento competitivo e agonale che caratterizza la cultura greca, non solo filosofica, del v secolo. In questo quadro si vengono elaborando i primi strumenti dell'argo­ mentazione teorica: l'analogia che rende intelligibile ciò che non è osser­ vabile a partire da aspetti noti dell'esperienza quotidiana, sia essa tecnica o giuridica e politica (come è chiaro negli ionici da un lato, in Empedocle dall'altro) ; l'inferenza che si appoggia sulla sua forma più incontrovertibi­ le, quella tautologica, in Parmenide, o sul ragionamento per assurdo negli altri eleati; il rapporto con saperi diversi, come le matematiche e la musica, nel pitagorismo. Tutto ciò appare radicalmente innovativo rispetto alla cultura arcaica, e consente di dare almeno parzialmente ragione ad Aristo­ tele malgrado la sferzante ironia platonica: la "sapienza" dei presocratici presenta davvero aspetti che rendono la sua forma di razionalità non del tutto disomogenea rispetto a quella della "filosofia" matura, nonostante l' innegabile presenza di tratti di arcaismo che ne costituiscono la linea di discontinuità.

Perché in Grecia ? È stato ampiamente dimostrato che la "sapienzà' greca arcaica ha accolto importanti lasciti dalle culture anatolica, mesopotamica e iraniana: così ad esempio sono riscontrabili nelle cosmogonie ioniche tracce rilevanti delle mitologie babilonesi, e nella concezione pitagorica ed empedoclea del ciclo delle reincarnazioni di un'anima immortale influenze di dottrine proprie del Vicino Oriente (nonché, secondo una dubbia testimonianza di Erodoto, dell'antico Egitto)1• È tuttavia altrettanto indubbio che lo stile di razionalità che caratteriz­ za il nascente pensiero filosofico - come del resto è accaduto in altri campi del sapere, come quelli della geometria e della medicina - sia propriamen­ te greco, e non conosca paralleli in altre aree culturali. Questa peculia­ rità non discende naturalmente da un presunto "genio greco", ma da un insieme di fattori storico-culturali che si possono definire con sufficiente precisione, a partire da un sistema di assenze o di vuoti che costituisce il

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tratto distintivo della cultura arcaica greca in rapporto a quelle del Vicino Oriente. La prima assenza è quella di un sistema dogmatico e unificato di cre­ denze religiose fondate su una rivelazione divina o un libro sacro, e co­ munque sostenuto dall'autorità di una casta sacerdotale in grado di im­ porre un'ortodossia. I Greci erano perfettamente consapevoli delle recenti origini poetiche, dunque profane, della loro religione. Scriveva Erodoto: «Da chi nacque ciascuno degli dei, se tutti esistessero da sempre e quali siano le loro forme, fino a poco fa - per così dire fino a ieri - non si sapeva. Ritengo infatti che Esiodo e Omero mi abbiano preceduto in età di quat­ trocento anni, e non di più. Sono essi ad aver composto per i Greci una teogonia, dando agli dei gli epiteti, dividendo gli onori e le competenze, indicando le loro forme » ( n 53; trad. Lloyd, Fraschetti, 1989 ) . Riassumeva criticamente questa convinzione Adimanto nel II libro della Repubblica di Platone : « Conosciamo gli dei e ne abbiamo sentito parlare da nessun'altra fonte se non dai costumi rituali e dai poeti autori di genealogie; ma questi stessi dicono che gli dei sono disponibili a farsi influenzare e convincere da "sacrifici, amabili suppliche" [Il. I X 4 99] e offerte votive. Ad essi si deve prestar fede o su entrambe le cose o su nessuna delle due » ( 366e; trad. Vegetti, 2007 ) . Il pacchetto proposto dalla religione dei poeti comprende dunque conseguenze tanto moralmente inaccettabili ( la corruttibilità del­ la divinità) che Adimanto propende per rifiutarlo nel suo insieme. Per evitare questa conclusione estrema, Aristotele avrebbe proposto di isolarne la parte accettabile: Gli uomini antichissimi delle origini hanno colto nella forma del mito e hanno tramandato ai posteri che questi astri sono dei, e che il divino circonda la natu­ ra intera. Il resto è stato aggiunto in seguito, sempre miticamente, allo scopo di convincere i molti al rispetto delle leggi e per ragioni di utilità. Dicono infatti che queste divinità sono antropomorfe e simili a certi altri animali, e altre cose che conseguono a questi racconti o somigliano loro. Ma se si prescindesse da queste aggiunte, e si cogliesse solo il senso primario - cioè la convinzione che le entità prime fossero dei - si dovrebbe pensare che hanno parlato in modo divino [ ... ] . Solo questo c i è chiaro nelle patrie credenze trasmesse da quei primi uomini (Me­ taph. XII 8 1074b ss.).

In questo modo il filosofo tuttavia salvava nella tradizione poetica il nu­ cleo di una teologia razionale, e abbandonava tutte le credenze propria­ mente religiose e cultuali alla sfera dell'opportunità politica.

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

È certo dunque che nella Grecia arcaica era assente tanto un corpus di dottrine religiose quanto una casta sacerdotale preposta alla loro interpre­ tazione e alla conservazione dell'ortodossia, e questo apriva uno spazio vuoto alle possibilità di pensare il mondo, la condizione umana, i modi della conoscenza. Una seconda assenza, resa ancora più evidente dal confronto con il mondo orientale, è quella di un apparato statale centralizzato : non esiste­ vano in Grecia, dopo il crollo dei regni micenei che avevano costituito su piccola scala una continuazione in terra ellenica delle grandi monarchie orientali, né una monarchia dinastica né un apparato statale, un esercito e un sistema giudiziario centralizzati. La terza assenza, infine, è quella di una tradizione culturale secolare e autorevole. La sola tradizione culturale cui tutti i Greci potevano fare ri­ ferimento è la memoria leggendaria della "guerra di Troià', un' invenzione letteraria tramandata dai poemi omerici, altrettanto poetica dunque quan­ to lo era la loro teologia. Platone racconta che il primo legislatore di Ate­ ne, Solone, avrebbe visitato l' Egitto, e che i sacerdoti di quell'antico paese gli avrebbero detto : « Solone, Solone, voi greci siete sempre dei ragazzi, un greco non è mai vecchio [ ... ] . Siete tutti giovani d'animo perché non avete nelle vostre anime nessuna opinione antica trasmessa attraverso una tradizione che proviene dal passato né alcun sapere ingrigito dal passare del tempo» ( Tim. 22b ; trad. Fronterotta, 2003). E in effetti, rispetto alle società e alle culture del Vicino (e del lontano) Oriente, quelle greche era­ no davvero "infantili'', per la brevità del loro passato storico, la novità della loro formazione, la leggerezza, temporale e istituzionale, della tradizione in cui potevano riconoscersi. Il vuoto di statualità, di autorità religiosa, di tradizione in cui prese forma la cultura greca può riassumersi in una formula: si tratta dello spazio aperto dalla crisi di sovranita tipica dell'epoca post-micenea, e connessa del resto alla posizione periferica della Grecia rispetto alle grandi formazioni statali dell'Oriente. Questo spazio fu riempito, a partire dai secoli I X e VIII a.C., da un gran numero di piccole comunità cittadine indipendenti, le poleis. La cosa più interessante dal nostro punto di vista è che i ruoli di potere, da chiunque fossero detenuti (all' inizio aristocrazie terriere e/ o mercantili, poi talvolta "tiranni", infine strati progressivamente più ampi della cittadinanza), non erano legittimati né da un' investitura divina e sacerdotale né dal diritto ereditario delle dinastie monarchiche. Il potere doveva dunque venire ogni volta legittimato da ragioni convincenti (il ri-

IL PROBLEMA D ELLE O RI G I N I D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

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corso diretto alla forza era in ogni caso difficile per la debolezza degli stru­ menti repressivi), e risultava negoziabile nel confronto politico fra gruppi sociali contrapposti. Il celebre logos tripolitikos di Erodoto (m 80-82), che rappresenta un' immaginaria discussione fra dignitari persiani sui rispetti­ vi meriti della monarchia, dell'oligarchia e della democrazia, costituisce la più limpida espressione della consapevolezza, nella cultura greca del v se­ colo, di questa negoziabilità delle forme del potere; ma già agli inizi della storia di Atene il protolegislatore dellapolis, Solone, argomentava in modo del tutto secolarizzato la validità politica della sua legislazione, che veniva significativamente posta per iscritto, e così almeno in linea di principio proposta alla lettura e alla riflessione dell' intera comunità. Il confronto politico si svolgeva dunque nelle assemblee cittadine e attraverso le discussioni che vi vedevano confrontarsi tesi rivali, argo­ mentazioni contrapposte sul governo della polis. Lo stesso si può dire per l'amministrazione della giustizia. A giudicare non erano né sovrani né sa­ cerdoti, ma i rappresentanti della comunità cittadina, e a prevalere era il giudizio fondato non sull'autorità ma sulla forza persuasiva della parola, degli argomenti formulati nel discorso. Ed è appunto nelle assemblee politiche e nelle giurie dei tribunali che prese forma il carattere dominante nella cultura greca fra il VI e il IV se­ colo : la competizione e il confronto fra tesi diverse, che richiedevano una decisione presa sulla base della capacità persuasiva e sulla forza argomen­ tativa dei loro sostenitori. Il progressivo allargamento della base di citta­ dini coinvolti nella discussione e nella deliberazione politica e giudiziaria portò, nel v secolo, alla nascita di quell'esperienza politica greca originale e senza precedenti che è stata la democrazia. In questo stesso spazio e in questo contesto, prese progressivamente forma la riflessione filosofica6• Essa tentava di rispondere a problemi che lo spazio vuoto di autorità statale, sacerdotale, tradizionale lasciava insoluti. Se la verità sul mondo, gli dei, la natura, la vita umana, la giustizia, fosse stata codificata e imposta dall'autorità del potere o di una tradizione im­ mutabile, non ci sarebbe stato alcun posto per l' interrogazione filosofica. Al contrario, essa nacque quando la ricerca della verità si pose come una possibilità aperta e un compito da assolvere. Naturalmente, la pretesa del nuovo discorso filosofico di "dire la verità" doveva cercare in sé, cioè nella forza dei propri argomenti, la propria fonte di legittimità; tanto più in presenza di una pluralità di tesi rivali che si venivano tenacemente con­ frontando, proprio come quelle politiche nelle assemblee e quelle giudi-

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ziarie nei tribunali. In questo senso, si può davvero dire che la filosofia, come la democrazia, è una figlia della polis; ma si tratterà di due sorelle spesso in conflitto fra loro, perché la democrazia troverà spesso eccessiva la libertà di pensiero dei filosofi ( come accadde ad Atene per Anassagora e per Socrate ) e dal canto suo la filosofia stenterà ad accettare il diritto al governo di maggioranze incompetenti e facile preda della demagogia. Ma questo non basta a nasconderne la comune appartenenza allo stesso spazio storico-culturale.

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Dal sapiente al filosofo : figure sociali e ambienti culturali fra VI e v secolo di Mario Vegetti

T ipologie di sapienti

Chi erano i filosofi antichi, qual era la loro condizione sociale e profes­ sionale ? Una domanda di questo genere non è suscettibile di una risposta univoca, per la perdurante assenza di istituzioni pubbliche (quali sono sta­ te, a partire dal Medioevo, le università) all' interno delle quali fosse possi­ bile elaborare e insegnare il pensiero filosofico. Nel mondo antico, anche quando si può cominciare a parlare di "scuole filosofiche", cioè a partire dal Liceo aristotelico e poi soprattutto in epoca ellenistica (cfr. VOL. I I I , CAP. 1 ) , occorre comunque tener conto che si tratta di comunità del tutto private e su base volontaria; solo nel periodo imperiale romano, con I' isti­ tuzione di alcune cattedre di filosofia nelle capitali culturali dell' impero, si assiste a una prima, e solo embrionale, istituzionalizzazione statale della filosofia (cfr. VOL. IV, CAP. 1 ) . Per il periodo arcaico, che per questo aspetto si può dire duri fino a Pla­ tone, il problema è reso ancora più complesso per l'estrema varietà di stili di pensiero destinati, come si è visto (cfr. CAP. 2), a dare progressivamente luogo alla "filosofia", e anche delle correlate forme di vita: una varietà che dipende in parte dalle diverse aree sociali e culturali sulla cui scena si affac­ ciavano le nuove figure di "sapienti". I naturalisti ionici del VI secolo facenti capo a Mileto - Talete, Anas­ simandro e Anassimene - costituiscono certamente, anche se non una scuola, un caso del tutto particolare. Nonostante le scarne notizie biogra­ fiche di cui disponiamo, e lassenza di autoattestazioni, sembra certo che si trattasse di uomini di notevole prestigio per le loro competenze, ma che non godevano di un'autorità eccezionale né la rivendicavano, e tantome­ no vantavano alcuna legittimazione a governare la loro comunità. Nella Repubblica Platone definisce Talete come sophos eis ta erga, « sapiente nelle

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cose pratiche » , nonché eumechanos eis technas, « abilissimo nelle tecni­ che » ( x 6 oo a) , e questo sembra confermare lattendibilità dell'aneddoto riferito da Erodoto, secondo il quale Talete avrebbe realizzato un'audace opera idraulica deviando il corso di un fiume per consentire il passaggio dell'esercito di Creso (1 75). Sapienti nelle tecniche sembrano essere stati anche gli altri Milesi: sia Anassimandro sia Anassimene vengono ricordati come abili inventori di gnomoni e orologi (12 A 6 DK; 13 A 14a DK), e al primo viene anche attribuita la paternità della prima carta geografica (più tardi perfezionata da Ecateo, anche lui milesio). Questi interessi tecnici e geografici vanno sicuramente posti in relazione con una società cittadina di mercanti e na­ vigatori, al centro di vivaci scambi commerciali e culturali sia con I' Oc­ cidente sia con l'Asia (che spiegano tra laltro le forti influenze orientali nelle cosmologie ioniche). Ai tre grandi Milesi può essere accostato per alcuni aspetti un altro sa­ piente ionico, Senofane di Colofone, più tardi migrato verso l'Occidente italico. Di professione rapsodo, animato da un pungente spirito critico verso la tradizione poetica, l'antropocentrismo religioso (21 B 14-16 DK), la predilezione aristocratica per gli agoni sportivi, cui contrapponeva la propria "sapienza", utile al buon ordine della città e a « impinguarne le cas­ se » (21 B 2 DK), Senofane condivide dunque alcuni caratteri peculiari di questo gruppo di sapienti arcaici, orgogliosi delle proprie competenze, capaci di spirito critico e di audaci visioni universali, ma legati al mondo delle pratiche cittadine e alieni dall'attribuirsi un sapere e una condizione eccezionali. Accanto a queste figure ioniche, esiste però un'altra e più influente ti­ pologia di sapienti arcaici. Diversi fra loro per ambiente geopolitico e per estrazione sociale, essi sono però accomunati dalla rivendicazione di una propria condizione eccezionale: muovendo dall'opposizione alla folla dei "molti� ignoranti e stolti, essi si spingevano fino ad attribuirsi, in modo più o meno esplicito, una dignità più che umana, e di conseguenza il dirit­ to a guidare, spiritualmente o anche politicamente, la comunità di coloro che spesso venivano definiti "i mortali'". Eraclito era di Efeso, e quindi apparteneva alla stessa area geografica dei Milesi. A differenza di questi, Eraclito discendeva però da una famiglia aristocratica, depositaria di un'antica dignità regale. Aveva un particolare legame con il tempio di Artemide, in cui pare avesse depositato i suoi scrit­ ti e si fosse rifugiato lui stesso in spregio della comunità cittadina ( 2.2. A 1 '

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D K). Scriveva in forma di aforismi oracolari, in cui erano ricorrenti il tema dell' ignoranza e della follia dei "molti" (cfr. ad esempio B 17, i.9, 33 DK) e la polemica contro la polis democratica ( « uno è per me diecimila se è il migliore » , B 49 DK; cfr. anche B 1i.1, 12.sa DK) e contro la tradizione culturale comune, da Omero ( «degno di essere scacciato dagli agoni e fru­ stato » , B 42. DK) a Esiodo ( « non sapeva neppure cosa fossero il giorno e la notte » , B 57 DK). Ma questa tipologia di sapienti trovò il suo terreno di coltura più ade­ guato in Magna Grecia e in Sicilia, dove tensioni religiose, profetismo e settarismo mistico erano assai più radicati che nella Ionia mercantile e de­ mocratica3. Qualche decennio prima di Eraclito, Pitagora, anch'egli ioni­ co e a quanto pare di origini non aristocratiche, aveva abbandonato l' isola natale di Samo (forse per ragioni politiche) e si era rifugiato a Crotone. Qui aveva raggiunto un grande prestigio come profeta mistico-religioso e sapienziale, come attesta Isocrate ( 14 A 4 DK), forse anche ricorrendo a qualche espediente poco ortodosso (secondo un aneddoto malevolo si sarebbe fatto rinchiudere per qualche tempo in una caverna onde simulare una katabasis agli inferi seguita da una miracolosa rinascita: cfr. Diogene Laerzio V I I I 41 ) +. Pitagora raccolse intorno a sé una setta autorevole, con­ nessa più o meno strettamente alla tradizione orficaS, che gli riconobbe presto una natura immortale, forse discendente da Apollo, facendone così un essere intermedio fra dei e uomini "mortali" ( 14 A 7 DK), in grado di percorrere una lunga serie di reincarnazioni secondo il modello sciamani­ co6 (Empedocle gli attribuiva conoscenze cumulabili solo in dieci o venti generazioni, 3 1 B i.9 DK). I pitagorici conquistarono il potere a Crotone e in altre località della Magna Grecia, dando così forma alla duratura pretesa del diritto al gover­ no da parte dei detentori della sapienza religiosa e morale. La setta venne finalmente espulsa da una o più sollevazioni popolari, in cui lo stesso Pi­ tagora sembra abbia trovato la morte (o una delle sue morti, A 16 DK). Ma la sconfitta e l'esilio dei pitagorici non risultarono definitivi. Ancora nel IV secolo a.C. il matematico pitagorico Archita era tiranno a Taranto, ed ebbe modo di aiutare Platone nel corso delle sue avventure siracusane (contribuendo probabilmente a trasmettergli il fascino di quella connes­ sione fra sapere e potere che aveva caratterizzato la setta). Pretese di una condizione e di un sapere sovrumani, opposti alla mol­ titudine dei "mortali", aspirazione a esercitare potere o almeno a guida­ re una riforma intellettuale e morale, contraddistinsero di qui in poi la

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tipologia dei sapienti arcaici di ambiente magno-greco e siciliano. L'eleate Parmenide era legato direttamente al pitagorismo mediante il suo maestro Aminia, che egli considerava « uomo sacro, forgiato dai cieli » (fr. 20 Cerri). Egli presentava il suo messaggio sapienziale (peraltro sviluppato in una rigorosa forma logica) come frutto della rivelazione concessagli da una dea (forse Persefone, la signora degli inferi)7• Un' iscrizione di epoca romana lo definisce come pholarchos e ouliades, termini che possono rinviare a un suo ruolo eminente in un culto apollineo (cfr. Pugliese Carratelli, I963; 1965; 1970 ). Al versante religioso e iniziatico si accosta in Parmenide, come nei pitagorici, quello politico : secondo testimonianze che risalgono a Speu­ sippo egli avrebbe imposto alla sua città una legislazione duratura e consi­ derata intangibile (28 A 1, 12 DK). Ancor più netta che in Eraclito è la con­ trapposizione parmenidea fra il sapiente ispirato e la moltitudine stolta e ignorante, i « mortali dalla doppia testa (dikranoi) che nulla sanno » (28 B 6 DK; cfr. B 1 e B 8), perché sostengono tesi contraddittorie prestando fede alla testimonianza dei sensi. Parmenide scriveva in esametri, come avrebbe fatto, in pieno V secolo, l'agrigentino Empedocle, forse l'esempio più straordinario di una figura di sapiente "sciamanico" che al tempo stesso era naturalista, mago, profeta religioso. Ben più di Parmenide, Empedocle presenta chiare ascendenze orfico-pitagoriche, che vanno dal vegetarianesimo al rifiuto dei sacrifici cruenti, entrambi dovuti alla credenza nella reincarnazione delle anime. Empedocle apparteneva certamente a una grande famiglia aristocrati­ ca; gli si attribuiscono posizioni ami-tiranniche (proprie dell'aristocrazia) qualche volta equivocate con un improbabile atteggiamento filodemocra­ tico (Diogene Laerzio VIII 64, 72, in 31 A 1 DK). Se Pitagora venne consi­ derato dai discepoli una figura divina, Empedocle imbocca decisamente la via dell'autodivinizzazione. «Vestiva di porpora e portava un serto aureo [ ... ] e calzari di bronzo e una corona apollinea. Aveva lunga chioma e servi che l'accompagnavano, era sempre severo e di aspetto impassibile » (Dio­ gene Laerzio VIII 73, in 3 1 A 1 DK). Così si annunciava ai concittadini di Agrigento (o forse agli stessi dei della città) : «O Amici, che la città presso il biondo Akragas abitate sul sommo della rocca [ ... ] io tra voi come un dio immortale, non più mortale, mi aggiro fra tutti onorato, come si conviene, cinto di bende e corone fiorite » (31 B 112 DK; trad. Giannantoni, 1993). Empedocle si considerava infatti come un demone divino e immortale, esiliato per una colpa originaria (31 B 115 DK), che, dopo aver attraversato un lungo ciclo di reincarnazioni ( « fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello

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e muto pesce che salta fuori dal mare » , 31 B 117 DK), è finalmente rinato come uno fra gli « indovini, poeti, medici e principi » , prossimi a tornare all'originaria condizione divina (31 B 146 DK). La menzione di indovini e poeti rinvia alla figura arcaica dello iatro­ mantis, guaritore e indovino, nella quale Empedocle si identifica senza incertezze8• Racconta di essere seguito da una folla di seguaci, dei quali « gli uni hanno bisogno di vaticini, altri invece per mali di ogni genere chiedono di ascoltare una voce di facile guarigione » (31 B 1 1 2 DK) ; e la loro speranza non è mal riposta, se Empedocle afferma di essere capace non solo di insegnare « i rimedi e la difesa della vecchiaia » , ma anche il modo di resuscitare i morti; a tutto questo si aggiungono opere di magia, come il dominio dei venti e delle piogge (31 B rn DK). Lo spettacola­ re suicidio che Empedocle sembra abbia inscenato gettandosi nel cratere dell' Etna (Diogene Laerzio VIII 69-70, in 31 A 1 DK) appare come un ade­ guato compimento di questa strategia di autorappresentazione demonica e magica: forse una via per varcare la soglia del ciclo delle reincarnazioni e tornare alla pienezza della condizione divina. Con Empedocle si conclude, nel modo più sensazionale, la vicenda della seconda tipologia dei sapienti arcaici, profeti sorretti da un' ispirazio­ ne divina, intenti a esibire una propria condizione eccedente quella della moltitudine dei "mortali", da cui risulta legittimata laspirazione alla guida delle rispettive comunità, come Crotone, Elea, Agrigento.

L'ambiente ateniese

A partire dalla metà del v secolo, una nuova scena geopolitica viene a sostituire la tradizionale polarità fra Oriente ionico e Occidente magno­ greco e siceliota. È questa l'epoca dell'affermazione di Atene come centro politico, economico e culturale, la cui attrazione agisce sugli intellettuali di ogni parte del mondo greco. È vero che una parte significativa della dia­ spora pitagorica, con Filolao, si stabilì a Tebe, e che grandi eredi della fisica ionica, come Leucippo e Democrito, sembra siano restati nella periferica Abdera9• Tuttavia, la tradizione del naturalismo dei Milesi fu trapiantata in Atene dagli ionici Anassagora di Clazomene e (probabilmente) Dio­ gene di Apollonia, autori di scritti in prosa sui principi e i processi della natura, ed entrambi alieni sia da ambizioni politiche10 sia da atteggiamenti sovrumani.

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Lo sviluppo sociale ed economico di Atene, e lallargamento della par­ tecipazione politica promosso dalle riforme democratiche di Clistene e Pericle, ponevano però ali' attività intellettuale della città esigenze di nuo­ vo tipo: si trattava soprattutto della formazione di un nuovo ceto dirigen­ te, più ampio dell'aristocrazia tradizionale, in grado di intervenire con efficacia nei processi decisionali ora sottoposti al dibattito pubblico e al confronto argomentativo fra tesi rivali. Questa esigenza promosse lo svi­ luppo di un movimento intellettuale del tutto originale rispetto alle forme tradizionali della "sapienza", tanto ioniche quanto magno-greche e sice­ liote. Ne furono attratti in Atene intellettuali di professione (e ora, fatto inaudito in precedenza, retribuiti dai loro allievi per le prestazioni cul­ turali) provenienti da ogni area del mondo greco: essi vennero designati con lappellativo non più di sophoi ma di sofisti, "maestri di sapienza" o "di conoscenza". Si trattava di figure estranee all'aristocrazia tradizionale, per giunta stranieri in Atene, ciò che li escludeva dalla partecipazione alla vita politica, se non nella veste di consiglieri ed "esperti" (sembra che Protago­ ra abbia appunto svolto il ruolo di consulente di Pericle nella redazione della costituzione per la colonia di Turii, So A 1 DK). Compare in questo ambiente, per la prima volta nella storia della Gre­ cia, una ricca letteratura genericamente "culturale". I sofisti scrivono na­ turalmente trattati sulla retorica e sul buon uso del linguaggio (Gorgia, Prodico), opere morali (Prodico) e di istruzione enciclopedica (lppia). Ma c 'era in questa letteratura qualcosa di più, un aspetto inquietante che Platone avrebbe denunciato come pericoloso per la città (Leg. IX 858c ss.; x 886c-d). Essa recava in sé una forte impronta critica nei riguardi delle cre­ denze tradizionali, in campo politico, morale e religioso, e delle convinzio­ ni diffuse (Protagora fu autore di uno scritto dal titolo Discorsi sovvertitori, e di un altro intitolato Antilogie). Gli orientamenti prevalenti in questa critica erano da un lato il relativismo etico e antropologico (Protagora, Di­ scorsi duplici)'\ dall'altro lo scetticismo gnoseologico (ancora Protagora1• e, se può venirgli attribuito lo scritto Sul non essere o sulla natura, Gorgia). Questo atteggiamento si accorda perfettamente con il clima di discussioni politiche, morali, giuridiche13, di cui era teatro la vita sociale quotidiana in Atene: discussioni in cui erano decisive le capacità di criticare le tesi rivali e di sostenere le proprie senza il ricorso ad alcun principio di autorità che non fosse la forza argomentativa della critica e dell'asserzione. In questo stesso contesto culturale, condividendone il primato del con­ fronto dialettico e dell'argomentazione razionale, ma rifiutandone quello

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che appariva come un nichilismo gnoseologico ed etico, si formò il grup­ po dei "filosofi" socratici. Come i sofisti, questi intellettuali non appar­ tengono per lo più alla grande aristocrazia (con la notevole eccezione di Platone ) ; essi sono però cittadini ateniesi, perciò non praticano l' insegna­ mento come attività professionale e retribuita, e sono esposti alle vicende politiche della polis (con le note conseguenze tragiche nel caso di Socrate ) . Il sostantivo "filosofia" venne probabilmente coniato, o almeno specializ­ zato nel significato, proprio in questo ambito intellettuale. Definendosi "filosofi", i socratici demarcavano la loro posizione verso i sapienti arcai­ ci, negando di possedere un sapere concluso, ma al tempo stesso anche verso il nichilismo sofistico, perché dichiaravano pur sempre l'aspirazione a ricercare un sapere e un ordine di valori dotati di stabilità e di validità oggettiva. Toccò certamente a Platone di codificare la specificità di questo nuovo stile intellettuale, determinandone sia le modalità di pensiero sia gli ambiti problematici. In questa operazione, Platone si poneva in una posizione di crinale fra presente e passato. Da un lato, egli faceva interamente proprie le nuove forme critico-argomentative tipiche dell'epoca sofistica e socratica; la forma dialogica, che egli impose fino alla metà del IV secolo come la modalità specifica del discorso filosofico, costituiva il terreno per il con­ fronto dialettico fra tesi rivali, il gioco delle argomentazioni contrapposte, sia pure rivolti allo scopo costruttivo della ricerca della verità. Dall'altro lato, gli ambiti di ricerca assegnati alla filosofia includevano larghi lasciti del pensiero presocratico, dall'ontologia parmenidea alla cosmologia em­ pedoclea alla teoria pitagorica dell'anima. La condizione sociale di Platone, ateniese a differenza dei sofisti, aristo­ cratico a differenza di Socrate e dei suoi, comportava una simile posizione di crinale anche per quanto riguarda la condizione e le pretese del filosofo nella società. Se i sofisti svolgevano al più il ruolo di consiglieri degli uomi­ ni di governo, e i socratici miravano a una riforma morale della comunità, il socratico Platone, che discendeva da Solone, tornava invece a dar vita a quella « tradizione imperiosa della filosofia » di cui ha parlato Louis Gernet (1968, p. 4 29 ) : la regalità dei filosofi preconizzata nella Repubblica era un richiamo inequivocabile alla tradizione degli antichi sapienti, alla maniera di Pitagora, Archita, Parmenide ed Empedocle, che in forme diverse ave­ vano riunito, o preteso di riunire, il sapere e il potere. Per tutti questi aspetti, il grande allievo di Platone, Aristotele, si sa­ rebbe decisamente collocato al di là del crinale platonico. Se il maestro,

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secondo le parole ironiche di Karl Popper (1966S, p. 155), aveva sognato un regno dei filosofi e aveva finito per fondare soltanto la prima cattedra di filosofia, Aristotele (non ateniese e non aristocratico) avrebbe tenuto que­ sta cattedra senza delusione e senza imbarazzo. Il dominio della filosofia si esercitava ormai sull'universo del discorso, non su quello della città. E se il dialogo socratico rifletteva la discussione sui valori della città, il discorso della cattedra non avrebbe potuto che assumere la forma monologica del trattato.

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Il debutto della filosofia : i primi dibattiti cosmologici a Mileto di Mauro Bonazzi

Nel VI secolo a.C. Mileto fu una delle più importanti e vivaci città greche : grazie alla sua posizione strategica sulla costa ionica, che ne faceva uno dei principali sbocchi sul mare per l' immenso Impero persiano, essa divenne un luogo di scambio tra il mondo greco e quello orientale. Crocevia di commerci, ricchezze, uomini e idee, Mileto fu un vero « gioiello della Io­ nia » , come ebbe a scrivere lo storico Erodoto ( v i.8). Ed è qui, tra la fine del VII secolo e l' inizio del VI, mentre Atene era ancora una città periferica e sostanzialmente marginale, che insieme a tante altre cose nacque la filo­ sofia. O almeno questa fu la convinzione di Aristotele e di tutti quelli che, condividendo la sua posizione, hanno riconosciuto in Talete - e nella tesi che l'acqua è principio di tutte le cose - il primo vagito di quel nuovo sape­ re che sarebbe stato la filosofia. È inutile dire che non meno numerosi sono quelli che al giudizio di Aristotele si sono opposti, in modo più o meno deciso. In effetti, in gioco è un problema di non poco conto : in discussione non è tanto la data di nascita della filosofia, quanto la natura stessa della filosofia, di cosa essa sia e di cosa la distingua dagli altri saperi, nonché la sua presunta specificità greca ( e poi occidentale ) '. Pretendere di trova­ re una risposta univoca a questioni millenarie è forse ingenuo ; cercare di chiarirne le coordinate concettuali è invece necessario per comprendere la portata dei problemi.

Talete : sapiente, filosofo, consigliere

Da molti punti di vista Talete sembra essere stato un precursore : primo tra i Sette Sapienti, archegeta della filosofia, primo a mettere le proprie compe­ tenze a disposizione della sua città, scopritore di importanti teoremi scien­ tifici e provetto astronomo, Talete è ben presto assurto a una posizione

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quasi divina nell' immaginario dei Greci. Particolarmente impressionante fu, agli occhi dei suoi contemporanei, la previsione di un'eclissi di sole\ e il motivo di tanta ammirazione è facile da comprendere, se solo si considera che la capacità di prevedere il futuro era tradizionalmente ritenuta appan­ naggio di personalità divine (si pensi ad esempio a Tiresia o a Cassandra). Ma sarebbe un errore ricondurre Talete a un mondo magico e mitico: la sua novità sta altrove. In seguito a un'altra eclissi, il poeta Archiloco ave­ va scritto che « ormai tutto è credibile » , perfino che i delfini andassero a vivere sulla terra e le belve nelle profondità del mare (fr. 74 Diehl) : quello che l'eclissi rischiava di mettere a repentaglio era la possibilità stessa di un ordine delle cose. Riconoscendo in anticipo il fenomeno Talete ha blocca­ to l ' irrompere del caso, salvaguardando la regolarità della natura, e l' idea stessa di una natura ordinata: ed è in questa nuova concezione della natu­ ra, che inizia a farsi strada con Talete, il vero motivo della sua importanza (cfr. Trabattoni, 1 9 9 2, pp. 2 0 - 1 ) . « Ma questo è un Talete ! » è una battuta che si legge negli Uccelli di Aristofane (v. 1 0 0 9 ), a eloquente conferma di una fama capace di diffondersi per tutto il mondo greco. Non è dunque per caso che l' ideale dell' intellettuale greco (se è lecito usare un anacronismo) in tutte le sue tensioni e ambiguità si sia venuto sviluppando proprio intorno alla sua figura. Due celebri aneddoti, ripor­ tati da Platone e Aristotele, lo confermano nel modo più significativo. Nel Teeteto Platone rievoca il riso di una serva tracia « intelligente e spiritosa » , allorché Talete era caduto in un pozzo di cui non s i era accorto, intento com'era a osservare il cielo e le stelle ( «preoccupandosi di conoscere le cose del cielo, non si accorgeva di quelle che aveva davanti e tra i piedi » , Theaet. 1 74c = I I B 9 DK). Per ristabilire l'onore d i Talete, o forse della fi­ losofia tutta ( « Siccome, povero com'era, gli rinfacciavano l' inutilità della filosofia ... » ) , Aristotele rivela invece che lo studio del cielo può condurre a esiti diversi, molto più concreti: avendo previsto un abbondante raccol­ to di olive, Talete si sarebbe accaparrato tutti i frantoi della regione per riaffittarli poi « al prezzo che voleva » , dimostrando « che per i filosofi è davvero facile arricchirsi, se lo vogliono - e invece non è di questo che si preoccupano » (Pol. I II 1 2 5 9 a = II B IO DK)3. Anche di questo Talete è dunque precursore, della contrapposizione tra un ideale di vita contem­ plativo e un ideale di vita pratico che avrebbe impegnato filosofi, poeti e scienziati nei secoli a venire4• Proprio questa fama però costituisce un ostacolo insidioso, perché la tendenza tipica degli antichi ad attribuire a figure carismatiche invenzioni

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e dottrine rende poi difficile, se non impossibile, il compito di chi vorrebbe ricostruire con più precisione i contorni storici e i veri interessi di questo affascinante personaggio1• A parte un' indicazione cronologica di massima (che lo colloca tra la fine del VII e l' inizio del VI sec. a.C., se l'eclissi di sole fu quella del 585 a.C.), e oltre alla notizia di un'origine fenicia, di un possi­ bile viaggio in Egitto e di un probabile impegno politico, sappiamo poco : è ad esempio dubbio che abbia davvero scritto tutti i testi che gli vengono attribuiti ( 1 1 A 1 DK) e non meno incerto è il tentativo di determinare quali contributi scientifici possano davvero essergli attribuiti6• Se ci si concentra sul suo possibile apporto allo sviluppo della "filoso­ fia", è inevitabile richiamarsi alla testimonianza di Aristotele, che di Talete riporta alcune interessanti idee. La più celebre è certamente quella che si legge nel I libro della Metafisica, da molti considerato un primo abbozzo di storia della filosofia: Talete, che è il progenitore di questa specie di filosofia, dice che quel principio è l'acqua, e perciò affermava che anche la terra galleggia sull'acqua. Forse si è for­ mato questa opinione vedendo che il nutrimento di tutte le cose è umido e che perfino il caldo deriva dall'umido e vive di esso; ora, in tutti i casi, ciò da cui una cosa deriva è anche il suo principio. Per questa ragione Talete si formò questa opi­ nione e anche perché i semi di tutte le cose hanno natura umida: ora l'acqua è il principio della natura delle cose umide. Vi sono alcuni i quali ritengono che anche gli antichissimi, di molto anteriori all'attuale generazione, che per primi hanno svolto considerazioni sulla divinità, abbiano condiviso questa credenza intorno alla natura: essi infatti considerarono Oceano e Teti autori del divenire, e ritenne­ ro che il giuramento degli dei venisse fatto sull'acqua, quella che essi chiamavano Stige ; ora ciò che è più degno di onore è anche più antico, e si giura su ciò che è più degno di onore (Metaph. I 3 983b i.0-34; trad. Viano, 1974 ) .

Questo passo va analizzato con grandissima cautela, per evitare di attribuire retroattivamente a Talete idee e posizioni di Aristotele. Il linguaggio usato, in effetti, è tipicamente aristotelico, perché è nei suoi scritti che la filosofia è presentata come la scienza che si occupa dei principi (arche/archai), de­ gli elementi (stoicheia) e delle cause (aitia) (cfr. da ultimo Frede, 2.004). Del resto, è lo stesso Aristotele a riconoscere che, propriamente parlando, Talete non fu il primo in assoluto, perché su posizioni analoghe si erano precedentemente assestati anche i poeti (ad esempio Omero, cfr. Iliade XIV 246 e Platone, Theaet. 152d-e, citato nel CAP. 1). Quest 'ultima affer­ mazione ha trovato ulteriori conferme nelle ricerche di molti studiosi mo-

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derni, i quali hanno mostrato il debito profondo che Talete contrasse con le ricerche precedentemente condotte nelle regioni del Vicino Oriente7• Dunque non è la tesi dell'acqua di per sé che fa di Talete il "fondatore" della filosofia. Cosa giustifica allora I' idea di Aristotele ? Una risposta è suggerita non tanto da ciò che si legge quanto da ciò che manca, dalle assenze di questa pagina: gli dei. Rispetto alle tradizioni mitologiche con cui la tesi di Talete va messa in relazione, una grande novità è la presa di distanza da qualsivoglia tentativo di spiegazione implicante l' intervento di divinità antropomorfe8• E questo non è senza conseguenze, nella misura in cui apre la via a un nuo­ vo stile di pensiero e a un nuovo sguardo sulle cose, che si fonda su argo­ mentazioni e ragionamenti e non sul rinvio a un'autorità divina sotto il velo del racconto mitico. Come ha ben osservato Michela Sassi ( 2009, p. 59), «la chiarezza della sua formulazione [scil di Talete] sottintende un nuovo contenuto: nel proiettare sulla natura uno sguardo che tende a espungere il ricorso al divino, Talete non si è comportato come recettore passivo del quadro del mondo trasmesso dal sapere mitico» . Gli studiosi hanno a lungo discusso sull'attendibilità della testimonianza di Aristotele : ma che la sua pagina ci presenti questa novità è cosa che s'impone agli occhi di ogni let­ tore, segnando un passaggio importante nella storia del pensiero filosofico. Se sotto questa luce la testimonianza di Aristotele è imprescindibile, più delicato è invece il compito di chi voglia definire con maggiore preci­ sione l'obiettivo perseguito da Talete e più in generale dai cosiddetti pre­ socratici. Nel passo che immediatamente precede Aristotele aveva suggeri­ to una risposta, ma essa, come già accennato, non manca di ambiguità: « l più tra quelli che per primi praticarono l a filosofia credettero che i principi materiali fossero gli unici principi di tutte le cose : infatti essi dissero che elemento e principio delle cose che sono è ciò da cui tutte le cose sono co­ stituite, da cui traggono il primo inizio del loro divenire e che costituisce il termine ultimo, procedendo verso il quale, esse si distruggono, mentre la sostanza permane, pur mutando nelle sue proprietà. Per questo essi cre­ dono che nulla né nasca né si distrugga, in quanto permane sempre questa natura » (Metaph. I 3 983b 6-13; trad. Viano, 1974). Secondo Aristotele, la specificità di Talete, la mossa che ne fa l 'archege­ ta della filosofia, è la capacità di astrazione, grazie a cui egli fa un passo ol­ tre la mera fenomenalità empirica, interrogandosi su qualcosa di più gene­ rale, cercando di individuare quella sostanza più fondamentale e durevole che sottende a tutti i mutamenti, la materia da cui le cose provengono e di

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cui sono fatte. Come già osservato, il linguaggio di questa pagina è chiara­ mente aristotelico, e non meno aristotelici sono i problemi in discussione. Ma i problemi e gli obiettivi di Talete sono i medesimi di Aristotele o no ? Detto più chiaramente, quando afferma che tutte le cose sono « dal!' » (ek) acqua, Talete vuole determinare che esse sono costituite d'acqua o che derivano dall'acqua ? Su questo problema, che è poi il problema centrale nella speculazione dei presocratici, gli studiosi si dividono : Aristotele, e molti altri con lui, propendono per la prima opzione, e si parla allora di monismo materialista; come più tardi Aristotele, Talete e gli altri preso­ cratici si sarebbero insomma occupati della causa materiale, ricercando cioè la sostanza fondamentale di cui le cose sono fatte9• Recentemente non sono però mancate osservazioni interessanti in difesa della seconda opzione, che Daniel Graham (2006) ha proposto di intendere come una teoria della sostanza generativa, il cui obiettivo principale sarebbe stato quello di individuare la sostanza individuale da cui tutto il resto sarebbe derivato. Il senso più probabile dell'affermazione di Talete (quale che sia la sua formulazione esatta) sarebbe dunque che l'acqua è origine di tutte le cose e non che tutte le cose sono acqua'0• Il che ci aiuta a meglio com­ prendere il legame di Talete con la tradizione dei poeti che lo precede (e di cui Aristotele fa menzione) : anche costoro, nella misura in cui presentano Oceano e Teti come genitori, sembrano interessati al problema dell'origi­ ne. Una continuità non può dunque essere negata e contribuisce a meglio chiarire la portata della riflessione di Talete: non qualcosa di radicalmente nuovo, ma una riformulazione, in un linguaggio e con argomenti diversi, della tradizione mitologica. Come l'universo dall'acqua, così la filosofia si origina e si distingue dal mito. Altre, purtroppo brevi, testimonianze ci permettono di precisare le idee di Talete e ci offrono qualche spunto in più sul suo pensiero. Sempre Aristotele tramanda che egli avrebbe affermato che l'anima «è mescolata al tutto » (11 A 22 DK). Anche in questo caso Aristotele non sembra trop­ po sicuro delle sue fonti, ma la sua testimonianza rimane comunque atten­ dibile e i ragionamenti che riproduce sostanzialmente genuini (cfr. Barnes, 1 9 7 9 , pp. 5-9 ). Talete avrebbe affermato che l'anima è presente ovunque, osservando che anche un oggetto apparentemente privo di vita come la calamita è in realtà capace di muovere : ora, se la capacità di muovere è ciò che caratterizza propriamente i viventi, che proprio per il possesso dell'a­ nima si distinguono (in greco, come in italiano, "animato" e "vivente" si equivalgono), se ne può concludere che tutto dunque è pieno di vita: si

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parla a questo proposito di "ilozoismo" (da hyle che significa "materia", e zoe che significa "vita"), nel senso di una concezione vitalista della materia; «la materia, e dunque l'acqua, non è inanimata ma vive e trasmette vita, così ponendosi all'origine della generazione » (Perilli, 2 0 1 2, p. 86). Anche in questo caso si può osservare che un tratto distintivo della riflessione di Talete è la capacità di distanziarsi dall'osservazione particolare in cerca di una regola più universale. Probabilmente qualche logico potrà storcere il naso di fronte all'inferenza di Talete: partendo dal presupposto che tutto ciò che muove ha un'anima, si può forse accettare che una calamita abbia un'anima; più difficile è però sostenere, come sembra fare Talete, che sic­ come la calamita è una roccia, tutte le rocce hanno un'anima. Sia come sia, rimane comunque il fatto che la concezione che ne risulta non manca di un suo interesse, riuscendo a cogliere un aspetto importante della real­ tà, vale a dire la sua intrinseca dinamicità (un aspetto che le teorie plato­ niche e aristoteliche di una materia inerte avrebbero dovuto spiegare in altro modo). Quella che emerge timidamente è una concezione organica della natura, che troverà una presentazione più compiuta in Anassiman­ dro, come vedremo subito. Senza che questo debba però indurre il lettore a eccedere in un' interpretazione troppo razionalizzante o illuminista di questi pensatori: in parallelo alle affermazioni sull'anima Talete avrebbe anche sostenuto che « tutte le cose sono piene di dei » ( 1 1 A 22 DK) ; a essere rifiutata era insomma la concezione antropomorfica della divinità, non la presenza del divino.

Anassimandro e l' invenzione della natura

Talete non fu il solo prodotto del vivace ambiente milesio : ancora più sug­ gestive e interessanti furono le riflessioni di Anassimandro, che del primo fu forse allievo ( 1 2 A 9 DK), e di cui si è conservata (più o meno : in realtà non è facile distinguere con precisione le sue parole dai commenti della sua fonte, il neoplatonico Simplicio) una citazione testuale, ricavata forse da uno scritto Sulla natura ( 1 2 B 1 DK; A 7 DK) : Anassimandro, figlio di Prassiade, di Mileto, successore e discepolo di Talete, af­ fermò che principio ed elemento delle cose che sono

è l ' indeterminato, introdu­ è né lacqua

cendo per primo questo termine principio. Dice che principio non

né nessun altro dei cosiddetti elementi, ma una certa altra natura infinita, da cui

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divengono cucci gli universi e le regioni cosmiche che sono in essi: dalle cose da cui è la generazione delle cose che sono, lì è anche la distruzione secondo il do­ vuto : essi sconcano infatti reciprocamente [allelois] la pena e il fio dell' ingiustizia secondo l'ordine del tempo, dicendo queste cose con nomi troppo poetici. Ma è chiaro che egli, riconosciuta la reciproca trasformazione dei quattro elementi, non ritenne opportuno fare di uno di questi il sostrato, ma pensò ad un'altra cosa oltre a questi. Costui inoltre fa derivare la generazione non dalla trasformazione dell 'e­ lemento, ma dalla separazione dei contrari attraverso il movimento eterno. - I contrari sono caldo, freddo, secco, umido e le altre cose di questo tipo ( Simplicio, In Phys. z.4 13-z.5; 150 z.4-z.5 Diels = 1z. B 1 + A 9 DK) .

Per lungo tempo, grazie soprattutto al contributo di alcuni importanti fi­ losofi (da Nietzsche a Heidegger), di questo passo ha dominato un' inter­ pretazione molto suggestiva, di volta in volta definita "mistica", "orfica" o "tragicà'11• Il problema, evidentemente, era di stabilire chi fosse il soggetto destinato a patire la pena per l' ingiustizia commessa, e l' idea dominante era che Anassimandro si stesse riferendo semplicemente a tutto, a tutte le cose: a tutto ciò che veniva all'essere separandosi dal principio dell' in­ determinato (apeiron; sulla traduzione di questo termine torneremo più avanti). La colpa era insomma delle cose che, nel momento stesso in cui si attualizzavano, venivano a impadronirsi egoisticamente di alcune pos­ sibilità, sottraendole ad altre. Un' idea, questa, che a Friedrich Nietzsche, giovane filologo a Basilea, aveva subito ricordato quelle dell' « unico mo­ ralista serio» del suo secolo, vale a dire Arthur Schopenhauer ( « l'esatto criterio per giudicare un qualsiasi uomo consiste nel ricordare che si tratta di un essere che non dovrebbe esistere affatto, e che paga il fio della sua esistenza con molte forme di sofferenza e con la morte [ ... ] . Noi espiamo la nostra nascita, in primo luogo con la vita, e in secondo luogo con la mor­ te » , Nietzsche, 1 9 7 3 , p. 286) e che ad altri pensatori aveva invece suggerito suggestivi paralleli ora con il cristianesimo ora con le religioni orientali, e in particolare quella indiana - l'unico punto critico rimanendo quello di stabilire se una simile posizione potesse essere compatibile con la tra­ dizione greca o non fosse piuttosto da intendere come il primo frutto di un' influenza proveniente da Oriente. Per quanto autorevolmente sostenuta, questa interpretazione è però scorretta, per un banale errore testuale. La fonte di questo passo è, come detto, il neoplatonico Simplicio, letto per gran parte dell'Ottocento nell 'edizione aldina del 1526, in cui mancava una parola: allelois (sopra tra­ dotto con "reciprocamente"). Questo errore sarebbe stato emendato solo

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nel 1882 grazie alla nuova edizione di Simplicio curata da Hermann Diels ( ma già nel 1835 il filologo Christian August Brandis aveva segnalato la mancanza) . Come avrebbero realizzato presto o tardi quasi tutti i lettori, questa piccola aggiunta era destinata a provocare un grande cambiamento. Il conflitto non è più contro il principio indeterminato, bensì tra gli opposti; la possibilità dell' ingiustizia si dà allora solo tra questi opposti, vale a dire tra gli elementi costituenti dell'universo, i poteri opposti del caldo e del freddo : ogni trasformazione naturale implica l'affermarsi di una qualità e la temporanea soppressione del suo opposto, ma questa pre­ varicazione viene poi sanata nel corso del tempo. Lungi dal celebrare la tragica rivolta delle cose contro il loro principio, Anassimandro descrive allora il processo ordinato e necessario che regola il movimento dell'uni­ verso e la sua vita: è l' incessante alternanza del giorno e della notte, delle stagioni calde e fredde e dei cicli astronomici che scandiscono la vita degli uomini". L'ambizione di Anassimandro è di mostrare la regolarità dell'u­ niverso, un universo che proprio perché spazialmente e temporalmente ordinato può essere detto kosmos: dimenticato ormai il pensatore tragico, quello che ora emerge è il cantore dei ritmi regolari inscritti nel mondo dei contadini e dei mercanti'3• Di più, con Anassimandro si assiste alla scoper­ ta dell' idea stessa di "naturà: intesa come qualcosa di regolato - meglio : di autoregolato -, come un equilibrio dinamico, immanente, garantito dai rapporti dei suoi elementi costituenti. Una volta chiarita l' intuizione di fondo, resta da ricostruire il segui­ to della riflessione di Anassimandro, che si dispiegava nella descrizione dell'universo nelle sue diverse fasi costitutive : dal principio dell' indeter­ minato (apeiron) si sarebbe inizialmente distaccato un seme generatore (gonimon), che produce gli opposti del caldo e del freddo ; il caldo ( fiam­ me ) e il freddo ( umidità) si sarebbero poi progressivamente separati con il fuoco che circonda ( come una corteccia) il freddo, che a sua volta, sec­ candosi in parte, diventa terra; la tensione tra i due opposti sarebbe poi diventata così forte da far esplodere l' intera struttura dando così vita a una serie di anelli di fuoco, avvolti dal vapore, che si allontanano dal nucleo terroso originario. Il risultato è una serie di anelli concentrici che circon­ dano a distanze regolari la terra, descritta come un cilindro ( o come una colonna tronca; cfr. 12 B 5 DK ) al centro del tutto ( 12 A 1; n ; 26 DK ) : il cerchio più esterno è quello del sole e misura ventisette volte il diametro terrestre, il cerchio più vicino è quello delle stelle, con un diametro nove volte maggiore'+, mentre in posizione intermedia, con un diametro diciot-

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ss

to volte più grande, si trova lanello della luna. Non sfugga l insistenza su questi precisi rapporti geometrici, che tradiscono la volontà di descrivere un « universo elegante » : in questo almeno Anassimandro si sarebbe trova­ to d'accordo con il fisico contemporaneo Brian Greene (1999 ). L'universo di Anassimandro è uno spazio matematizzato, armoniosamente costruito secondo proporzioni geometriche ben definite, che si dispiega come uno spettacolo (questo uno dei significati originari di theoria) davanti agli oc­ chi dei suoi spettatori. Il discorso di Anassimandro, del resto, non si fermava a queste pur in­ teressanti osservazioni: la sua ricostruzione ambiva anche a spiegare non solo la formazione dell 'universo, ma anche la genesi del nostro mondo e della vita: il graduale prosciugamento dell'umidità primordiale serviva a spiegare non solo l'emergere delle terre asciutte'1 ma anche, con una cu­ riosa "teoria evoluzionista", la formazione degli uomini, che si sarebbero sviluppati a partire dai pesci (dominanti nella fase umida; cfr. 12 A II-12, 29 DK)16. Questo progressivo riscaldamento della terra e dell'universo avrebbe poi scatenato una sorta di effetto serra su scala cosmica ( 12 A 27 DK), di cui purtroppo non siamo in grado di ricostruire le conseguenze (e gli eventuali rapporti con l 'apeiron, su cui torneremo a breve) a causa della scarsità di frammenti: si può ritenere che lalternanza degli elementi sarebbe proseguita indefinitivamente, ma non è da escludere un' ipotesi "dissipativa". Una possibilità è che le varie potenze originarie (caldo, fred­ do ecc.) sarebbero poi tornate progressivamente alle loro identità irrelate ; alternativamente si può pensare che una volta consumatasi tutta l'umidità, anche il fuoco sarebbe mancato per mancanza di nutrimento facendo col­ lassare anche la terra (cfr. 12 A 27 DK)17. Che si prenda posizione in un senso o nell'altro, il senso complessivo dell'operazione di Anassimandro conserva senza dubbio spiccati elementi di originalità, che diventano ancora più chiari se li si confronta con la tra­ dizione del mito, testimoniata ad esempio nei poemi di Omero ed Esio­ do18. Certo, a una prima lettura si potrebbe obiettare che i problemi e le conclusioni non siano troppo differenti. Anche nelle teogonie si tratta di spiegare il modo in cui il cosmo si è generato a partire da una situazione di caos primordiale ; e analogo è il risultato : da uno stato di indistinzione (caos da un lato, indeterminato dall'altro), emergono coppie di opposti (luce/buio o caldo/freddo), che unendosi e mescolandosi producono la realtà - una realtà che vede al centro dell 'universo la terra, visto che anche nei poemi mitologici (così come per la tradizione babilonese) la terra è un

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disco circondato da un fiume circolare (Oceano) e sovrastato dai cieli in cui abitano gli dei. Ma le linee di divergenza sono più significative dei punti di continuità. Una prima differenza riguarda il metodo e le diverse modalità argomenta­ tive adottate: mentre il poeta ricava la sua autorità da un contatto privile­ giato con la divinità che gli trasmette un sapere da cui gli altri sono esclusi ( il poeta è insomma colui che media tra la verità divina e il mondo umano delle opinioni fallaci), Anassimandro cerca di difendere la sua posizione con argomenti che prendono spunto da ragionamenti che tutti possono seguire: la sua autorità dipende dalla sua capacità di collegare correttamen­ te i fenomeni, offrendone spiegazioni plausibili. Un esempio illuminante di questo nuovo atteggiamento si ricava dai tentativi di giustificazione della posizione centrale occupata dalla terra nell'universo - un' idea, a pensarci bene, che si fondava su due constata­ zioni di fatto, evidenti ma incompatibili: chiaramente (agli occhi degli antichi, beninteso) la terra è stabile, immobile e sospesa al centro di tutto. Perché non cade allora (Aristotele, De caelo 294a 1 2-20) ? Nelle tradizioni mitologiche, riprese anche da Talete, la terra poteva restare al centro per­ ché era sorretta da altro: se Esiodo descriveva la terra come il coperchio di una giara ( il Tartaro o lo spazio dei morti), Talete aveva ripreso l' idea, tipi­ ca del mondo mesopotamico, di una terra che galleggia sulle acque come una zattera ( u A 14 DK). Come risposte non sembrano molto soddisfa­ centi, visto che il problema diventerebbe poi quello di spiegare su che cosa si reggano questi "reggitori", come avrebbe osservato Aristotele (De caelo 294a 32-33 = I I A 14 DK). Completamente diversa è invece la spiegazione di Anassimandro : la terra non cade perché, trovandosi a distanza uguale da tutti i punti della circonferenza dell'universo, non ha alcun motivo per dirigersi in una direzione piuttosto che in un'altra (12 A 26 DK). Dire che troviamo qui una prima anticipazione del principio di ragion sufficiente di Leibniz o del paradosso dell'asino di Buridano è forse eccessivo, ma non si potrà negare che questo ragionamento a priori presenta un'evidente novi­ tà rispetto alle descrizioni dei suoi predecessori'9• Sintomatica, in questo contesto, diventa inoltre la scelta letteraria com­ piuta da Anassimandro, per primo a quanto pare, di scrivere in prosa (e non più nei versi esametrici della tradizione epica e didascalica)10• Non si tratta di un problema solo formale : questa scelta riflette l'esigenza di una nuova - più rigorosa, più chiara, più oggettiva - indagine (historia) della realtà (physis) e presuppone anche un nuovo rapporto con il pubblico, in

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cui lautore si pone consapevolmente in primo piano ; quello a cui si assiste è lemergere di una nuova figura di sapiente, in cerca di un proprio spazio sociale e culturale. Le novità di Anassimandro sono del resto evidenti anche quando si considera l' immagine dell'universo che deriva dalle sue osservazioni: allo spazio gerarchizzato del mito, che distingue tre piani della realtà (il cielo, dominio degli dei; la terra, in cui vivono gli uomini; la giara, regno della morte), si sostituisce lo spazio omogeneo e geometrizzato di Anassiman­ dro, il cui ordine è garantito dall' interno, dai rapporti dei suoi costituen­ ti e non più dall' intervento esterno, soprannaturale e arbitrario, degli dei impegnati in cruente battaglie; all' instabilità permanente del mito si so­ stituisce dunque l idea di uno spazio stabile e regolare - uno spazio natu­ rale. Si crede spesso che labbandono del mito coincida con la nascita della ragione, ma questo è sbagliato, perché anche il mito segue una sua logica. Rimane però vero che la logica del mito è altra cosa rispetto alla logica di Anassimandro e degli altri pensatori di Mileto, impegnati nel tentativo di spiegare e non più rivelare le cause che sottendono alla costituzione dell'u­ niverso (cfr. Algra, 1 9 99, pp. 46-7 ). Che Anassimandro sia stato allievo di Talete è difficile da provare ; che abbia proseguito lungo il cammino che lui aveva inaugurato sembra la conclusione più ragionevole che si ricava dalle testimonianze superstiti: e la strada percorsa inizia a essere cospicua. Naturalmente, con questo non si vuole affermare che tutto sia stato chiarito. Al contrario, è facile osservare che una ricostruzione come quella che ha goduto di maggiore fortuna negli ultimi anni (e di cui si è offerta in questa sede una veloce presentazione) solleva un importante problema in­ terpretativo : quanto più si celebra l'ordine autoregolato dell'universo, tan­ to più diventa ambiguo il ruolo del principio dell' apeiron da cui tutto sem­ bra provenire. Gli studiosi discutono se l impiego del termine arche possa essere fatto risalire ad Anassimandro, come sembra suggerire Simplicio, o vada datato a epoche posteriori. Quel che è certo è che tanto arche quanto apeiron contengono una molteplicità di significati che rischia di produrre situazioni ambigue, difficili da decifrare e tale da rendere oscura, almeno in parte, la posizione di Anassimandro. Arche, principio, può essere infatti inteso in senso temporale, causale, materiale e logico, ed è probabile che queste diverse sfumature non fossero distinte troppo nettamente nella ri­ flessione dei primi presocratici. Altrettanto numerosi sono poi i significati di apeiron (formato da alpha privativo e peras, "limite"): se in Omero esso indica ciò che, avendo un'estensione immensa, è "inattraversabile", altrove

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esso può indicare "illimitato" (temporalmente e spazialmente), "indeter­ minato" o (meno probabilmente, perché connotato negativamente) "infi­ nito". Cercare di attribuire un senso solo all'espressione di Anassimandro è forse eccessivo, e il problema rimane aperto. Qual è il rapporto tra gli elementi costituenti dell'universo e questo principio ? Riprendendo la teoria del monismo materialista, alcuni studiosi hanno pensato che esso coincidesse con gli opposti, nel momento in cui essi sono così bene amalgamati da non essere più distinguibili: apeiron indiche­ rebbe in questo senso l'indefinitezza interna del principio, che mancherebbe cioè di determinazioni o delimitazioni interne. L' insistenza sull'alterità di questo principio rispetto all'universo sembra però suggerire che esso sia altro rispetto agli elementi. Ciò concorderebbe con la lettura che fa del principio ciò da cui le cose provengono (e non ciò di cui sono fatte), apeiron indican­ do quindi l'indeterminato che è esterno al mondo (tanto in senso spaziale quanto in senso temporale), una sorta di indistinto primordiale, concepito però come pieno e non come vuoto, da cui si producono le realtàu. Se si accetta questa seconda ipotesi (di fatto una versione della teoria della sostan­ za generativa di cui si è fatto cenno in precedenza), è interessante osservare che il principio, la cui caratterizzazione pure manca di caratteri personali o antropomorfici, verrebbe a occupare il posto che nel mito era riservato agli dei. In effetti, come aveva osservato già Aristotele, molti dei termini usati per definire l 'apeiron sono quelli tradizionalmente riservati alla divinità (ad esempio, immortale e incorruttibile; non meno importante è poi l'uso del verbo kybernan, "guidare� "reggere") (Aristotele, Phys. i.0 3b 1 0 - 1 5 = 12. A 1 5 DK; cfr. Jaeger, 1953, pp. 37-48; cfr. CAP. 7 ). Il problema è indubbiamente spinoso e di non facile soluzione>'. Ma almeno ci aiuta a mettere in chiaro un rischio da cui bisogna guar­ darsi. Il discorso di Anassimandro si pone certamente agli albori della ri­ cerca scientifica (e tecnica), senza però esaurirsi in essa: il ricorso a immagi­ ni politiche, che trasferiscono a un linguaggio cosmico l'esperienza umana della legge e del suo esercizio, tradisce l'esigenza di trovare un senso in ciò che accade - di giustificare e non solo spiegare. Come ha ben scritto Wer­ ner Jaeger, questo passo è « qualcosa di più di una spiegazione della natura nel senso della "scienza moderna": è la prima teodicea filosofica » ; « non è una mera descrizione di fatti, è giustificazione dell'essenza del mondo » '3. Anche in questo, dunque, Anassimandro e Talete sono precursori, perché la tensione tra teologia da un lato e scienza dall'altro sarà una costante del discorso filosofico antico, e non solo antico.

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Anassimene, un epigono da rivalutare

Ultimo e buon ultimo: dei tre pensatori milesi, Anassimene (tradizional­ mente ritenuto allievo di Anassimandro vissuto nella metà del VI sec.) è quello che ha goduto della stampa peggiore. È stata a lungo opinione con­ divisa che la sua speculazione abbia segnato un arretramento rispetto allo sforzo di astrazione di un Anassimandro, capace di pensare a un principio alternativo a quelli esperiti quotidianamente : Anassimene, ben lontano dalle profondità teoriche dell' apeiron, sarebbe tornato a una posizione più vicina a Talete, affermando che il principio è l'aria (13 A 4; s DK). Indubbiamente ad Anassimene, per quanto possiamo ricostruire, man­ ca l'audacia di un Anassimandro. Ma non per questo conviene affrettare conclusioni: anche le sue osservazioni presentano numerosi elementi d' in­ teresse, che aiutano a meglio comprendere questioni e difficoltà rimaste in ombra con il suo predecessore. A partire dalla più importante: come si è appena visto, uno dei meriti cardinali di Anassimandro è quello di aver in­ dividuato in un cambiamento ordinato la regola che sovraintende alla vita dell'universo. Anassimandro, però, non era stato capace di suggerire spie­ gazioni adeguate di questo fenomeno: perché questa regolarità? Come spiegarla ? La teoria di Anassimene riesce proprio dove il predecessore si era arenato : Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, fu amico di Anassimandro. Anch'egli dice che una è la sostanza che fa da sostrato e infinita, come l'altro, ma non indeterminata come quello, bensì determinata - la chiama aria. L'aria differisce nelle sostanze per rarefazione e condensazione. Attenuandosi diventa fuoco, condensandosi diventa vento, e poi nuvola, e, crescendo la condensazione, acqua e poi terra e poi pietre e il resto, poi, da queste. Anch'egli sostiene eterno il movimento mediante il quale si ha la trasformazione (Simplicio, In Phys. i.4 i.6-i.5 1 Diels = 13 A s DK; trad. R. Lau­ renti in Giannantoni, 1979).

Anassimene non solo ha trovato un principio, ma ha anche saputo spie­ gare in che modo esso dia origine all'universo. Individuando il principio nell'aria, egli ha isolato non solo un singolo elemento, ma anche alcune caratteristiche specifiche; ed è grazie a queste proprietà che egli può se­ guire il percorso di evoluzione dell'aria nei suoi diversi passaggi, secondo processi di rarefazione e condensazione : rarefacendosi, l'aria si riscalda e diventa fuoco ; condensandosi, diventa più fredda e si trasforma progressi­ vamente in vento, nubi, acqua, terra, pietra (13 A s DK). Siamo insomma

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molto lontani dal rapporto che avrebbe tenuto insieme I ' apeiron, miste­ rioso e inaccessibile, e gli elementi familiari dell'universo'4• In piena sintonia con l ilozoismo di cui si è già fatto cenno, un ulteriore elemento di conferma dell' importanza di questo principio era poi dato dal fatto che anche nel caso particolare dell'uomo l'aria appariva essere il principio capace di dare vita al corpo : « come l'anima nostra, che è aria, ci tiene insieme, così il soffio e laria abbracciano tutto il mondo » ( 13 B 2. DK ) . Se, come pare, questo è un frammento autentico, abbiamo qui una prima testimonianza sul parallelo tra macrocosmo ( l'universo ) e micro­ cosmo ( l'uomo ) che tanta fortuna avrebbe avuto nei secoli. E se uno dei meriti delle dottrine dei Milesi rispetto alle descrizioni mitologiche con­ siste nella capacità di spiegare i fenomeni in un modo più chiaro, unita­ rio ed economico, bisogna riconoscere che anche la teoria di Anassimene non manca di un suo valore "scientifico". A conclusioni analoghe si arriva del resto una volta che si prenda in considerazione la spiegazione offerta da Anassimene del fenomeno della posizione centrale occupata dalla ter­ ra nell'universo: «Anassimene dice che la terra per la sua forma piatta si sostiene sull'aria » ; « come un coperchio» (13 A i.o DK) . La spiegazione si basa insomma ancora una volta sul movimento dell'aria e sui suoi cam­ biamenti'5: una spiegazione probabilmente meno affascinante di quella di Anassimandro, ma anche più scientifica, nella misura in cui si fonda sulle proprietà degli elementi presi in analisi. Negli ultimi anni, le teorie di Anassimene in particolare, e dei pensatori di Mileto in generale, sono state grandemente rivalutate. In particolare, è stato osservato che, se è corretta l interpretazione della sostanza generati­ va'6, ne consegue che i loro problemi e il loro programma di ricerca furono i problemi e il programma di tutti i presocratici successivi. Il che costi­ tuisce un' indubbia rivalutazione rispetto alle interpretazioni tradizionali che, facendo dei Milesi dei semplici "monisti materialisti", indicavano poi in Parmenide l'autore di una svolta decisiva: criticando l impossibilità di tenere insieme l'unità e la molteplicità, egli avrebbe stimolato il tentativo di chi, come Empedocle, Anassagora e Democrito ( i cosiddetti "plurali­ sti" ) , proprio per « salvare i fenomeni » avrebbe postulato l'esistenza di una pluralità di principi. Prendere posizione su questo complicato pro­ blema, che in parte sembra dipendere da interessi più contemporanei che antichi, è difficile e non sono mancate, anche in tempi recenti, difese ag­ giornate dell' interpretazione tradizionale'7• E rimane certo che i pensatori milesi continuarono comunque a esercitare una certa influenza, come si

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ricava ad esempio dalla ripresa della teoria dell'aria in Diogene di Apollo­ nia nel v secolo ateniese>8• Sia come sia, sarebbe difficile negare la loro importanza nella storia del­ la filosofia greca. In fondo, quale che sia la loro dipendenza dal mito e dal mondo del Vicino Oriente, due punti almeno possono essere ricondotti alle loro ricerche e alle loro riflessioni: da un lato ! ' "invenzione della natu­ ra", per riprendere una celebre espressione di Geoffrey Lloyd (1991, trad. it. pp. 719-50 ), vale a dire la considerazione della realtà che ci circonda come un tutto autonomo, stabile e regolare ; e dall'altro la pratica della critica e dell'argomentazione razionale (ora fondata sull'osservazione empirica, ora su procedimenti deduttivi) come strumento privilegiato per difendere le proprie idee e la propria autorità. In entrambi i casi non si tratta di no­ vità di poco conto.

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Alla ricerca della giustizia : il pensiero etico-politico tra VI e

v

secolo

di Mauro Bonazzi

L' invenzione della politica

Che i Greci abbiano inventato la politica è un'affermazione quasi sconta­ ta, se solo si considera l'origine del termine : "politica" è la disciplina che si occupa delle cose della polis. Ma per comprendere appieno la portata dell'"invenzione" bisogna poi chiedersi che cosa significhi veramente po­ litica, a quale sapere e a quale pratica si riferisca. Indubbiamente i Greci hanno giocato un ruolo decisivo nel definire una serie di problemi di cui il sapere politico deve occuparsi, a partire dalla delicata questione delle co­ stituzioni, vale a dire stabilire quale sia la forma di governo migliore. Non sono certo problemi astratti, perché le movimentate vicende della storia greca rivelano nel modo più eloquente la convinzione che il sapere politi­ co deve produrre risultati tangibili e concreti. Il caso di Platone, con i suoi ripetuti viaggi in Sicilia, mostra quanto a fondo fosse radicata questa idea'. Ma queste problematiche non rendono adeguatamente conto dell' im­ portanza della politica nel mondo antico : per i Greci l' indagine sulla po­ litica non si risolve soltanto in discussioni specialistiche sulle leggi e sulle costituzioni, ma è un modo privilegiato per sollevare questioni di portata più generale sulla natura dell'uomo e sul senso della sua esistenza. È in questo senso, in questa convinzione che la politica costituisca un elemen­ to fondante della natura umana, che i Greci hanno davvero inventato la politica: la celeberrima definizione di Aristotele secondo cui l'uomo è un animale politico (zoon politikon: Polit. 1253a 1-5 ) è il punto di arrivo di una riflessione di lunga durata, che può in qualche modo essere fatta risalire fino a Omero, prima ancora che si fosse compiutamente sviluppata la polis. Tra gli altri, il tema più significativo per cogliere la portata di queste discussioni è probabilmente quello riguardante la giustizia: la sua origine, la sua natura, le sue condizioni di possibilità, e ciò che le si oppone, la for-

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za, la violenza e l' ingiustizia. Concentrandosi su questo problema sarà più facile comprendere che nel mondo greco la trattazione politica è lo snodo per indagini più generali che investono in ultima istanza la riflessione sul senso stesso dell'esperienza umana. L'Iliade, poema della forza ?

Come sempre per i Greci, il punto di partenza è Omero. Ma, come sem­ pre, Omero è un punto di partenza problematico, e non soltanto perché i due poemi che gli sono attribuiti più che un punto di partenza rappresen­ tano semmai lo stadio finale di una civiltà precedente a quella della polis, quel mondo palaziale di cui sappiamo grazie ai ritrovamenti archeologici di Creta'. La difficoltà principale è un'altra, ed è più radicale : della giu­ stizia nei poemi omerici, e in particolare nell'Iliade, quasi non si parla. Come regolarsi allora ? Se Omero è la guida, quali indicazioni ricavare da questo silenzio ? Tutta la riflessione dei Greci non sarà che un tentativo di rispondere a questo interrogativo. Pur non offrendo una risposta esauriente, Omero permetteva almeno di aver chiaro il problema da fronteggiare : la centralità del conflitto nella vita degli uomini. In fondo è difficile trovare una testimonianza dell 'onni­ pervasività del conflitto più eloquente dell'Iliade, che sullo sfondo di una guerra tra le due grandi potenze del tempo racconta di un conflitto scop­ piato all' interno di uno dei due gruppi, concentrandosi poi sullo scontro tra due uomini, indagando al contempo le motivazioni conflittuali che albergano nell'animo dei due eroi, e dunque in ciascuno di noi. Una lunga e autorevole tradizione di studi ha ritenuto che in Omero al problema del conflitto non ci fosse risposta, semplicemente perché non ci poteva essere risposta, essendo la forza il valore centrale nell'universo degli eroi schierati in battaglia: dove dominano valori competitivi come il successo e l'affermazione di sé è evidente che non rimane spazio per la giustizia, la virtù collaborativa per eccellenza, come si verifica proprio nel­ lo scontro tra Agamennone e Achille in quella « città impossibile » che è l'accampamento acheoi. Se l'obiettivo dell'eroe, la sua sola ragion d'essere perché la sola legittimazione del ruolo privilegiato che gli tocca, è la con­ quista dell'onore (time) che dà gloria (kleos ) , è evidente che non c 'è spazio per la collaborazione e per il rispetto delle regole; perché per affermare sé stesso e la sua time l'eroe non può fare altro che violare l'onore altrui ( cfr.

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ad esempio Il. X I I 3 10-328 ) . Ma questa immagine del mondo omerico è fuorviante. Tutto al contrario, la lezione che si può ricavare dallo scontro tra Agamennone e Achille è che la forza da sola non basta. Se le decisioni iniziali di Agamennone sono mosse dal semplice desiderio di affermare la sua forza ( « mi prendo Briseide guancia graziosa, I [ . . . ] che tu sappia I quanto sono più forte di te, e tremi anche un altro I di parlarmi alla pari, o di levarmisi di fronte » , Il. I 184-187; trad. Calzecchi Onesti, 1990 ), ben altre saranno le sue considerazioni quando gli toccherà assistere al tracol­ lo del suo esercito o quando finalmente si dovrà riconciliare con Achille (Il. XIX 85 ss.). La competizione e il successo personale sono indubbia­ mente importanti, ma ancora più importante, il vero segno del valore, è la capacità di adattarsi alle situazioni, trovando di volta in volta la soluzio­ ne più vantaggiosa: questo è ciò che Nestore, un altro eroe, a più riprese rimprovera ai due contendenti di non aver saputo fare4• L'obiettivo non è insomma quello di dominare le situazioni e il destino : i poemi ci rivelano piuttosto i limiti dell'uomo che si scopre debole in un mondo in cui tutto è incerto ( « come le stirpi di foglie, così le stirpi di uomini » , Il. VI 146; trad. Calzecchi Onesti, 1990 ). Non tutti gli eroi ne saranno consapevoli, ma nei poemi non c 'è alcuna celebrazione della forza, perché la forza non è in grado di risolvere i conflitti; semmai li acuisce. E se la vera virtù è quella di chi sa risolvere i problemi, le tensioni e gli scontri, allora anche la giustizia - e non solo la forza - può trovare un suo spazio, nella misura in cui si rivela capace di regolare la vita non conflittuale di una comunità. La giustizia sarà dunque intesa in senso molto pragmatico : non come valore astratto che stabilisce le ragioni e i torti, ma come ciò che può promuovere una soluzione efficace a un conflitto o a una divergenza, favorendo così la prosperità e la pace (cfr. Il. XVI I I 497-508 ) (Havelock, 1978, trad. it. pp. 1 51-70; Gagarin, 1974, pp. 81-94 ) . Aver ritagliato uno spazio di legittimità anche per la giustizia non basta però a risolvere tutte le difficoltà. La giustizia può essere un valore importan­ te: ma fino a che punto riesce a imporsi e a valere ? Il racconto dell'Iliade in fondo mostra che le persone troppo spesso ritengono la scorciatoia della forza più appetibile della strada della giustizia, nella convinzione - erro­ nea ma umana - che la prevaricazione sia più vantaggiosa. Qual è allora la forza coercitiva della giustizia ? Come fare a convincere gli uomini a segui­ re la strada più lunga ? Sono queste le domande cui i poemi omerici non rispondono o rispondono ambiguamente : se in alcuni passi sembra che la giustizia dipenda direttamente da Zeus, altrove essa sembra risultare piut-

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tosto dalle decisioni umane. Probabilmente entrambe le opzioni sono cor­ rette, nel senso che c 'è una giustizia (themis) che riguarda verticalmente i nostri rapporti con le potenze divine e un'altra (dike) che serve a regolare i rapporti orizzontali tra gli uomini1• Quello che è ambiguo è dunque la possibile relazione che corre tra i due concetti. Perché è evidente che la giustizia umana trarrebbe grande forza se fosse messa in dipendenza da quella divina: rispettare la giustizia vorrebbe dire rispettare il volere degli dei, ed è difficile negare che si debba rispettare il volere degli dei6• L'opzio­ ne omerica sembra però laltra. Almeno nell'Iliade l intervento degli dei sembra dipendere dall'esigenza di preservare l'ordine delle cose, senza che questo riguardi direttamente la giustizia umana: dike sembra invece rife­ rirsi a qualcosa di esclusivamente umano, e dunque di fragile (Dodds, 1 9 5 1, trad. it. pp. 3 9 -40 ) . Ma allora perché rispettare la giustizia, quando pare che una soluzione più vantaggiosa possa essere guadagnata con un'azione di forza ? Come fare a convincere gli uomini che Nestore ha più ragione di Agamennone e Achille ? Più che un'apologia della forza, lIliade è piuttosto una riflessione sulla debolezza della giustizia.

Giustizia divina, giustizia naturale, giustizia cosmica

Omero non fu il solo grande poeta educatore : altrettanto importante fu anche Esiodo di Ascra. Insieme i due si completano : se Omero cantò lari­ stocrazia degli eroi che combattono, Esiodo cantò il popolo dei contadini e dei lavoratori - quella massa che nell'Iliade non ha voce ; e se Omero è il poeta della forza, pur con tutte le precisazioni di cui si è detto, Esiodo è, senza esitazioni e incertezze, il poeta della giustizia -, della difesa acco­ rata della giustizia in opposizione alla forza, che viene svalutata a violenza bestiale. Il tema della giustizia innerva tutta la produzione esiodea, e in partico­ lare il suo poema più noto, Le opere e i giorni, che trae spunto dal conflitto tra il poeta e suo fratello Perse in seguito a un processo male amministra­ to : il poema esiodeo si configura come una grandiosa esortazione, rivolta all' indirizzo del fratello e per suo tramite a tutti gli uomini, a seguire la giustizia, impegnandosi nel lavoro e abbandonando violenza e ingiustizia. Non diversamente da Omero, dunque, anche in Esiodo compare tutta la gamma di significati concreti tradizionalmente associati al concetto della

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giustizia: dike è il processo, la rivendicazione dei propri diritti, la sentenza e la punizione. Ma in Esiodo compare esplicitamente una significativa no­ vità: nel rifiuto della sentenza sbagliata (quella che concretamente avrebbe favorito il fratello Perse) affiora, per la prima volta in modo consapevole, un' idea universale di giustizia come qualcosa che vale per tutti e che sta a monte del processo giudiziario. Nel linguaggio mitologico, la giustizia passa insomma sotto il controllo divino : affermando che Dike è figlia di Zeus e sorella di Pace ed Eunomia (il buon governo, Op. 248-273; Th. 901903), Esiodo ribadisce con forza la convinzione che la giustizia non è più soltanto il risultato degli accordi tra gli uomini; essa è qualcosa di perma­ nente e immutabile, che non è creato dagli uomini né dipende soltanto da loro ; al contrario, la giustizia è ciò cui essi devono conformare le proprie decisioni, rispettando l'equilibrio delle parti e concedendo a ognuno quel­ lo che gli spetta (Neschke-Hentschke, 1995, pp. 29-44). La tesi esiodea acquista maggiore interesse e profondità se solo si con­ sidera che non si tratta soltanto di un problema politico: la difesa della giustizia divina implica anche una nuova presa di posizione sulla realtà che ci circonda e sulla natura dell'uomo. Del primo problema tratta la Teo­ gonia: enucleando le genealogie divine e rievocando le battaglie che han­ no impegnato gli dei nelle generazioni precedenti l'avvento del regno di Zeus, Esiodo descrive il progressivo emergere di un mondo ordinato, retto secondo giustizia. Questa è la cifra del mondo in cui viviamo : il concetto di giustizia viene così a rappresentare la regolarità e l'armonia della realtà; la giustizia è il principio di coordinazione e armonia delle cose, così come garantito dall' intervento e dal controllo di Zeus. E ancora più rilevante è ciò che ne consegue per l'uomo : anche l'uomo deve conformarsi a questo ordine giusto delle cose, perché anche l'uomo è parte di questa realtà or­ dinata. Alla concezione della realtà corrisponde dunque un'antropologia ben definita, che riconosce come tratto distintivo dell'essere umano la giu­ stizia (cfr. ad esempio Vernant, 1965a, pp. 15-47). A differenza degli ani­ mali, condannati alla legge della forza, l'uomo ha in sé la capacità di vivere secondo giustizia, conformandosi così all'ordine divino, riscoprendo così la sua natura divina (Op. 10 8): O Perse, tali cose nel cuore riponi e ascolta giustizia, e violenza dimentica. Tale è la legge che agli uomini impose il figlio di Crono : ai pesci e alle fiere e agli uccelli alati

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di mangiarsi fra loro, perché fra loro giustizia non c 'è; ma agli uomini diede giustizia che è molto migliore (Op. 274-279; trad. Ercolani, 2010 ).

Nella convinzione che la violenza non sia fatalmente iscritta nel destino degli esseri umani (e che è anzi rifiutando l' ingiustizia che essi possono riscoprire la loro vera natura) sta il senso ultimo dell'esortazione a Perse a vivere secondo giustizia. Le nuove risposte risolvono vecchi problemi, ma ne aprono di nuovi. Di contro alla difesa ambigua di Omero, le idee di Esiodo sembrano ri­ servare un posto importante alla giustizia. Ma allo stesso tempo aprono nuovi interrogativi di cui Omero non si era dovuto preoccupare. A partire dal più fondamentale, che in epoca moderna sarebbe stato rubricato sotto il titolo di teodicea: se la giustizia esiste e gli dei ne sono garanti, come valutare l' ingiustizia ? L' ingiustizia, evidentemente, non dovrebbe esistere tra gli uomini, e l'obiettivo del poema è proprio quello di invitare gli uo­ mini a estirparla, seguendo piuttosto la giustizia: se la giustizia è garantita dagli dei, andare contro di essa vuol dire andare contro gli dei, incorrendo nell' inevitabile punizione. Come poi si realizzi concretamente la punizio­ ne divina, se per intervento divino (scatenando ad esempio una carestia) o per una conseguenza per così dire naturale (nel senso che Zeus avrebbe sistemato le cose in modo cale che una violazione della giustizia avrebbe prodotto automaticamente la sua punizione : ad esempio se non si rispet­ tano le regole, non si collabora; e se non si collabora non si lavora; e se non si lavora, non si coltivano i campi; dunque non c 'è cibo e nella città si scatena una carestia), non è chiaro. Quello che è chiaro è che così deve an­ dare, pena l' implosione di tutto il sistema esiodeo di credenze. Ma il punto è: davvero le cose vanno così ? Davvero la nostra esperienza rivela che gli dei puniscono gli ingiusti ? Il ragionamento di Esiodo non manca di una sua efficacia se riferito alla collettività: in una città in cui nessuno rispet­ tasse la giustizia, è corretto affermare che tutto andrebbe presto in rovina. È giusto affermare dunque che la giustizia è meglio dell' ingiustizia e che la seconda viene inesorabilmente punica: dove prevalessero gli ingiusti la città andrebbe incontro a un collasso, e questo conferma nel modo più eloquente la tesi della superiorità della giustizia7• Ma questo ragionamento basca a convincere che è sempre meglio essere giusti ? Che gli ingiusti sono sempre punici ? Il mondo di Esiodo, non diversamente dal nostro, non è fatto secondo la logica oppositiva secondo cui tutti o sono giusti o sono

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ingiusti; il mondo umano è un mondo in cui giusti e ingiusti si mescolano. E dove la presenza dei giusti basta a garantire la sopravvivenza della comu­ nità, il problema dell' ingiustizia riaffiora sotto una luce più inquietante : perché nel nostro mondo non è vero che l ingiustizia è sempre punita. Ma allora, se né gli uomini né gli dei puniscono sempre gli ingiusti, perché essere giusti ? Non è forse più vantaggiosa l' ingiustizia ? Anche solo per scacciarlo subito, Esiodo è consapevole del problema, e della sua gravità: Ora io - neppure io ! - tra gli uomini giusto vorrei essere, e neppure mio figlio, poiché è male essere uomo giusto, se chi è più ingiusto otterrà migliore sentenza. Ma spero che questo non lo manderà a compimento Zeus assennato (Op. 270-27 3 ; trad. Ercolani, 2010, corsivo mio ) .

Ma basta sperare (273) ? Nella lunga e appassionata difesa della giustizia si apre una crepa che sarà difficile richiudere. Esiodo non fu il solo a interrogarsi su questi problemi, difendendo la giustizia. Non meno importante fu la riflessione di Solone, uno dei grandi uomini politici ateniesi, e di alcuni presocratici. In Solone, in particola­ re, abbiamo una ripresa e un approfondimento delle idee esiodee8• Egli riprende la concezione esiodea di una giustizia assoluta per difenderla con nuovi argomenti, con una consapevolezza rinnovata. Pur non rinnegando l' importanza degli dei ( cfr. ad esempio fr. 4, 14-16 West ) , Solone elabo­ ra infatti una concezione naturalizzata della giustizia9, chiarendo alcune ambiguità del suo predecessore: c 'è un ordine intrinseco delle cose che garantisce per l'esistenza della giustizia e comporta una inevitabile puni­ zione di ogni sua violazione, nella misura in cui la violazione è già di per sé una punizione. La giustizia può essere intesa come il corretto funziona­ mento di un organismo, che funziona bene quando ogni organo rispetta le funzioni degli altri; dove invece si produce un'alterazione dell'equilibrio, ecco che automaticamente si avrà la malattia, uno stato doloroso che altro non è che lalterazione dell'equilibrio, con il prevalere di una parte sulle altre. Lo stesso discorso vale per quell'organismo sociale che è la città: l' ingiustizia è come una ferita (helkos, fr. 4, 17 West ) , e come la ferita signi­ fica danni e sventure ; l' ingiustizia, intesa come la prevaricazione di una parte, si traduce immediatamente e concretamente in patologie come la guerra, il conflitto civile, la schiavitù. E proprio questa è la punizione per lingiustizia commessa ( fr. 4, 17-20 West; cfr. anche fr. 9 ), una punizione

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che è dunque inevitabile perché corrisponde con l'atto stesso dell' ingiusti­ zia, perché coincide con il disordine stesso prodotto dalla violazione della giustizia. Molto più decisamente di Esiodo, Solone, invece di ricorrere al terrore atavico della divinità, costringe gli uomini a considerare la storia, a valutare i nessi di causa ed effetto (Vlastos, 1995a, p. 33). In altre parole, rimane una concezione teologica della giustizia (gli dei rimangono co­ munque garanti della giustizia), ma non nel senso di un intervento diretto degli dei che puniscono con cattive raccolte o pestilenze : la punizione di­ vina si compie sempre in modo immanente mediante lo sconvolgimento dell'organismo sociale causato da ogni violazione del diritto (Jaeger, 1953, p. i.66). In Solone la dimensione politica raggiunge piena maturità. In un celebre saggio Werner Jaeger aveva ipotizzato che dietro la con­ cezione naturalizzata della giustizia di Solone ci fosse la speculazione dei fisici presocratici: è la grande "scopertà' dell'esistenza di un ordine na­ turale delle cose che conferma pensatori come Solone nella convinzione dell'esistenza di una giustizia naturale cui occorre conformarsi (Jaeger, 19i.6, pp. 69-95). L' ipotesi di Jaeger è sicuramente affascinante, ma non del tutto corretta, perché le regolarità naturali cui Solone fa riferimento non sembrano alludere ai problemi cosmologici di cui si stavano occupan­ do i filosofi presocratici. Rimane però il fatto di un importante parallelo tra le concezioni di un Solone e la nuova idea di natura, physis, come or­ dine ed equilibrio, che sta alla base della riflessione di molti presocratici (cfr. ad esempio Vlastos, 1995b; CAP. 4) ; e non meno significativo è poi che anche presso molti presocratici si trovano tracce di un interesse per l'universo concettuale della politica e dei suoi problemi. Che lo sviluppo del nuovo mondo della polis avesse almeno in parte influito sulla nuova concezione geometrizzante dell'universo è una celebre tesi di Jean-Pierre Vernant (196i.), che trova conferme autorevoli nell'adozione da parte di molti presocratici di un linguaggio che risente chiaramente dei dibattiti politici del tempo : il caso più celebre è Anassimandro, che descrive l'or­ dine naturale delle cose ricorrendo proprio al vocabolario della giustizia; ancora più eloquente è poi Alcmeone di Crotone, in riferimento alla me­ dicina: «Alcmeone dice che la salute dura fintantoché i vari elementi, umido secco, freddo caldo, amaro dolce, hanno uguali diritti [isonomian] , e che le malattie vengono quando uno prevale sugli altri [ monarchian] . Il prevalere dell'uno sull'altro, dice, è causa di distruzione. [ ... ] La salute è l'armonica mescolanza delle qualità opposte » (i.4 B 4 DK; trad. A. Mad­ dalena in Giannantoni, 1979 ).

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Il mondo della politica viene a più riprese usato per chiarire i proble­ mi complessi che le ricerche scientifiche dovevano affrontare : il risultato è una specularità di fondo in cui al nuovo spazio politico della polis, uno spazio egualitario e simmetrico, costruito intorno all' agora, corrisponde lo spazio geometrizzato e simmetrico dell'universo'0• Se quello che si registra in questi autori è un parallelo tra indagine co­ smologica e riflessione politica, più interessante è invece il caso di Eraclito, che va oltre e cerca di saldare i due campi. Non si tratta più di adottare un linguaggio politico per chiarire problemi cosmologici. Di più: la riflessio­ ne cosmologica deve valere anche come guida per il mondo della politica. In Esiodo e Solone si trovava la tesi dell'esistenza di una giustizia assoluta senza che però il fondamento naturale e divino fosse adeguatamente di­ scusso ; in Anassimandro e Alcmeone la discussione dell'ordine naturale presentava un'eco politica senza però che da ciò se ne traessero espressa­ mente delle conseguenze politiche. Eraclito salda i due filoni. Nonostante le numerose espressioni ambigue o paradossali, la discussione sull'armonia dell'universo, l' individuazione del principio di regolarità che sovraintende all'esistenza del cosmo, la scoperta della giustizia che conserva la recipro­ cità degli opposti ( 2 2 B 80; 94 DK) comportano una presa di posizione esplicita in favore delle conseguenze politiche che da questa scoperta de­ vono derivare : «Tutte le leggi umane si nutrono della legge divina, perché la legge divina domina nella misura in cui vuole, basta per tutte le cose e ha prevalenza su di esse » ( 2 2 B 114 DK ) ; « Si deve spegnere la tracotanza [hybris] ancor più che un incendio » ( 2 2 B 43 DK; cfr. Solone, fr. 1, 1415); «Bisogna che il popolo combatta per la legge come per le mura della città » ( 2 2 B 44 DK) . Non sfugga il riferimento alla legge : la legge politica non è fatta dagli uomini e neppure bisogna pensare che sia una convenzione; la legge è l'e­ spressione sociale della giustizia che regola la vita dell'universo. Di fatto il pensiero politico di Eraclito non fa che sviluppare lantica esortazione di Esiodo, secondo cui compito degli uomini è di seguire il precetto di Zeus ( si pensi ai versi delle Opere e i giorni sopra citati ) , rifiutando la violenza (hybris, cfr. fr. 44) e sposando la giustizia. Come è stato autorevolmente osservato, in questo tentativo di saldare la legge umana e la giustizia uni­ versale si ha un impulso decisivo per lo sviluppo della teoria del diritto naturale ( Kahn, 1979, p. 15). Tesi come quelle di Solone ed Eraclito permettono indubbiamente di fare importanti passi in avanti rispetto al tentativo di difesa della giustizia

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che era stato compiuto da Esiodo. Ma non risolvono certo tutti i problemi che già Esiodo aveva dovuto fronteggiare. In effetti, è facile osservare una certa ambiguità tra il piano osservativo della descrizione scientifico-natu­ ralistica e il piano prescrittivo dell'esortazione politica: che cosa giustifica questo slittamento ? Si considerino le seguenti affermazioni (cfr. Barnes, 1979, p. 134): - qualunque evento è regolato dalla legge dell'universo e non può essere altrimenti da come è ; - questa legge vale anche per gli uomini, che sono parte dell'universo ; - dunque gli uomini devono seguire questa legge ; - del resto, se gli uomini non rispettano questo ordine giusto saranno inevitabilmente puniti. Chiaramente, le prime due affermazioni ( descrittive ) non sono compa­ tibili con la terza ( prescrittiva) : se la legge dell'universo domina su tutto, se in altre parole le azioni degli uomini sono necessitate come lo sono le orbite dei pianeti o il comportamento degli animali, che senso ha spingere gli uomini a seguire questa legge ? E quanto alla quarta affermazione : che senso ha ammettere la possibilità che alcuni non agiscano di necessità se­ condo la legge cosmica, se si è detto che questa vale per tutti ? Bisogna forse concludere che non è vero che la legge cosmica regola necessariamente le azioni umane ? Ma se è così, perché dovremmo conformare le nostre azioni a questa giustizia cosmica ? In fondo, il problema è sempre quello dell' ingiustizia - della constata­ zione fattuale dell' ingiustizia. Ma se Eraclito non sembra aver molto da dire in proposito ( se tutto è secondo necessità, non ha senso parlare di ingiu­ stizia, cfr. 22 B 102 DK), Solone non ha molto da aggiungere a Esiodo. La migliore difesa della giustizia - del fatto che bisogna comportarsi giusta­ mente - sembra consistere nella convinzione che solo i giusti potranno pro­ sperare mentre gli ingiusti pagheranno inesorabilmente la colpa della loro ingiustizia ( frr. 1, 8 « in ogni caso poi giustizia arriva » ; trad. Noussia, 2001; 25-32; 4, 15-1 6, 28). Come abbiamo visto, l' idea soloniana che la violazione dell'ordine politico innesca automaticamente un processo che condurrà alla distruzione della comunità politica attraverso guerre, conflitti civili e schiavitù riprende e rinforza l' idea già esiodea che l ingiustizia è in ulti­ ma istanza svantaggiosa per i membri di un gruppo ( fr. 4, 26). Ma anche Solone deve poi spiegare perché gli ingiusti a volte non sono puniti. Su questo punto si era incagliata la difesa di Esiodo e il nuovo contributo di Solone, che riprende l' idea tradizionale dell'ereditarietà della colpa, non

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sembra di grande aiuto: che i figli o i discendenti debbano pagare per le colpe dei padri garantiva l' inevitabilità della punizione (il problema che più premeva a Solone) e poteva certo esercitare un discreto impatto su un mondo come quello greco, in cui la casata aveva importanza centrale. Ma i problemi teorici che ne risultavano rischiavano di sollevare questioni ancora più complesse. Perché la tesi dell'ereditarietà della colpa implicava che venissero punite anche persone innocenti, o comunque non responsa­ bili (fr. 1, 31-n: « senza colpa pagano i figli o la discendenza in seguito» ; trad. Noussia, 2001). E questo non vale solo nel futuro, come conseguenza delle mie azioni di ora; questo può valere anche per me adesso, come con­ seguenza imperscrutabile di qualche atto ingiusto compiuto da qualche mio avo (frr. 1, 33-36 e 65-70 ). Ma allora, se le cose stanno così, se non è detto che un comportamento giusto mi possa salvare, perché mi dovrei comportare giustamente ? Come Esiodo, anche Solone non può che affi­ darsi al volere, in ultima istanza imperscrutabile, degli dei (fr. 1, 3-6) (cfr. Manuwald, 1989 ) : cedendo alla sensazione di amechania la coscienza sgomenta dell' impotenza umana di fronte ali' imperscrutabilità divina (Lloyd-Jones, 1971, p. 3 6, citando Dodds, 1951, trad. it. p. 34; Lewis, 2006, p. 92) neppure Solone ha saputo trovare una risposta ai problemi su cui già Esiodo si era interrogato. -

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Giustizia umana

Nel campo della riflessione politica una novità sostanziale si deve alla sofi­ stica. Ma per cogliere il senso di questa novità bisogna che si rilevino non soltanto le affinità che accomunano i diversi sofisti, bensì anche le diver­ genze. A partire da Protagora la concezione della giustizia subisce infatti una radicale revisione, diventando qualcosa di esclusivamente e consape­ volmente umano; ma le conseguenze che i diversi sofisti ricaveranno da questa concezione divergono radicalmente, traducendosi ora in un rinno­ vato tentativo di difesa della giustizia ora in un'apologia dell' ingiustizia che offre una soluzione paradossale agli interrogativi di Esiodo e Solone. La concezione di Protagora dipende strettamente dal suo relativismo di base: per una trattazione approfondita conviene dunque rimandare al capitolo dedicato ai sofisti (cfr. CAP. 14). Qui basterà ripercorrere i punti salienti del ragionamento protagoreo: la difesa del relativismo ontologico implica di necessità la tesi che nella realtà (la physis dei presocratici e dei

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poeti) non sia iscritto alcun ordine di valori cui conformare le nostre de­ cisioni e le nostre azioni. La giustizia, insomma, non è un valore assoluto, oggettivo o divino, ma il risultato di decisioni umane, il complesso di rego­ le che gli uomini stabiliscono insieme, e che si traducono concretamente nella promulgazione delle leggi (il nomos, cfr. 80 A 2 1 a DK). Se nel prece­ dente paragrafo abbiamo assistito ai primi passi di quella che nel pensiero moderno sarebbe diventata la tesi giusnaturalista, con Protagora si ha una prima elaborazione della concezione positivista della giustizia (Neschke­ Hentschke, 1 9 9 5 , p. 5 7). Quello che rende particolarmente intrigante la tesi di Protagora è poi il modo in cui si riappropria della tradizione precedente: pur scartando l ' i­ dea dell'esistenza di una giustizia assoluta, Protagora fa propria la convin­ zione che la giustizia sia ciò che più distingue 1' essere umano. La capacità di creare un mondo giusto è il culmine dell'attività politica, e nell'attività politica - nella capacità di creare un mondo umano - è la cifra dell'attività umana. Per Protagora, ancor prima che per Aristotele, 1 'uomo è 1 'animale politico11• Così facendo, Protagora poteva affinare una risposta più sottile ai problemi di Esiodo e Solone. Costruire un mondo giusto significa co­ struire un mondo in cui gli uomini possano realizzare al meglio, nel modo per loro migliore e più vantaggioso, la propria natura, soddisfacendo i loro bisogni: essere giusti, ovvero rispettare le leggi, di conseguenza, conviene tanto a livello collettivo quanto a livello individuale. Questa riappropriazione comporta inoltre interessanti conseguenze anche in relazione a un problema "costituzionale" più specifico : il v seco­ lo, come noto, è anche il secolo della democrazia, e Protagora può essere legittimamente inteso come uno dei primi difensori di questo modello di governo". Se l'uomo è un animale politico, se realizza la sua natura co­ struendo un mondo politico, è chiaro che la democrazia sarà non una forma di governo tra le altre, ma la migliore, perché la sola propriamente umana, che permettendo a tutti di partecipare permetterà anche di rea­ lizzare le proprie esigenze. La democrazia non è il governo della maggio­ ranza, ma il governo di tutti, del demos inteso non come la parte popolare (come volevano gli aristocratici) ma come collettività - il populus e non la plebs, per adottare la terminologia latina posteriore (cfr. Tucidide VI 3 9 40: « "democrazia" [demos] è il nome di tutta la collettività, mentre "oli­ garchia" è una parte » ) . Passi come l'epitaffio di Pericle in Tucidide ( I I 3 5 46, in particolare 37, l ) o il dibattito sulle tre forme costituzionali che si legge in Erodoto e altre testimonianze ancora, in particolare il cosiddetto

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"anonimo di Giamblico" ( resti di un trattato databile al V-IV secolo, che si conservano in uno scritto del neoplatonico Giamblico), mostrano che della democrazia si discusse animatamente ad Atene e nel mondo greco. In questo contesto la tesi protagorea si configura come una prima teoria democratica della democrazia, come una teoria cioè che non si limita ad analizzare il nuovo fenomeno della democrazia ma ne propone anche una difesa ragionata. Non stupisce dunque il legame con il grande Pericle : dav­ vero Protagora ambiva a presentarsi come il nuovo maestro della Grecia, capace di dispensare un insegnamento che faceva tesoro della tradizione ma che si sapeva anche adattare ai bisogni dei nuovi tempi. La presa di posizione protagorea non era però l'unico sviluppo possibi­ le della tesi convenzionalista. Nel corso del v secolo la convinzione che la giustizia dipendesse dalle leggi e che le leggi fossero stabilite dagli uomini divenne di dominio pubblico, suggerendo diverse possibilità e scatenando numerose reazioni. Tra tutte, particolarmente sottili sono le analisi di una serie di pensatori che potrebbero essere ricondotti sotto la comune eti­ chetta del realismo : in particolare, spiccano i nomi di due sofisti, Antifon­ te e Trasimaco, accanto a quello del grande storico Tucidide. In estrema sintesi costoro accettano le premesse protagoree, secondo cui la giustizia e la legge dipendono dagli uomini e sono stabilite in vista dell'utile, ma le conseguenze che essi ritengono di poter ricavare da un'analisi spassionata della realtà sono totalmente opposte. La realtà dei fatti rivela infatti che Protagora aveva tralasciato un aspetto decisivo del problema, vale a dire la centralità della forza e del potere: sono la forza e il potere ciò che in ultima istanza determina la giustizia e la legge. Secondo 1' icastica definizione che Platone mette in bocca a Trasimaco, la giustizia altro non è che l'utile del più forte (Resp. 3 3 8c = 85 B 6a DK). La giustizia è sì un criterio regolatore, ma non è il risultato di uno sforzo condiviso : è quello che chi detiene il potere impone agli altri per tutelare il proprio vantaggio. Ecco quello che si ricava dalla realtà dei fatti: questa è la lezione che Tucidide ha tratto da quel « maestro violento » ( m Si.) che è la guerra, e questo è ciò che, sem­ pre all' interno del resoconto tucidideo, gli Ateniesi cercano vanamente di far capire agli Spartani ( I 7i.-76) e ai Meli ( v 84-105). Il problema, evi­ dentemente, non si limita alle relazioni internazionali, ma investe anche la vita della comunità al suo interno; che esista una comunità armonica che si ritrova nella condivisione di alcuni valori è una pia illusione, e lo scatenarsi a ripetizione delle guerre civili, da Corcira ad Atene, lo avrebbe inesorabilmente confermato : «i capi delle fazioni cittadine, facendo uso

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gli uni e gli altri di parole speciose, preferendo parlare di uguaglianza di diritti politici del regime popolare, e di governo moderato dell'aristocra­ zia, a parole servivano lo Stato, in realtà lo consideravano alla stregua del premio di una gara; e lottando senza esclusione di colpi per poter avere il sopravvento gli uni sugli altri, essi osarono le azioni peggiori » ( Tucidide III 82 8; trad. Canfora, 1996 ) . Di più, proprio lanalisi del comportamento degli uomini in tali contesti rivela poi che queste stesse dinamiche con­ flittuali non investono soltanto le relazioni tra i singoli cittadini, ma al­ bergano poi ali' interno di ciascun essere umano: al di là delle belle parole protagoree, lanalisi dei fatti rivela insomma che la cifra più propria della « natura umana » ( nI 82-83 ) non consiste nella tensione alla giustizia ma, tutto al contrario, si riduce piuttosto in un impulso alla prevaricazione e all'affermazione di sé. Il termine chiave in molti testi dell'epoca, quello che meglio descrive questo incoercibile desiderio di avere di più, è pleone­ xia ( letteralmente "avere di più" ) . Ed è facile verificare che questa antropo­ logia della pleonexia ( Vegetti, 2002 ) , contrapponendosi all'antropologia collaborativa di un Protagora, conduce a un'immagine dell'uomo molto più vicina al mondo degli animali ( cfr. Platone, Gorg. 483d; Aristofane, Nub. 1427-1429 ) : il lungo cammino che la giustizia aveva compiuto da Esiodo a Protagora si trova così cancellato d'un tratto nel nuovo mondo del realismo politico. Come è facile prevedere, queste tesi non sono solo teoriche, ma com­ portano conseguenze pratiche. Intanto si consideri il problema della de­ mocrazia, che nei realisti trova una critica sottile e più pericolosa rispetto alle polemiche tradizionali: mentre gli aristocratici obiettano alla demo­ crazia di essere il governo della massa ignorante, i realisti riconoscono in prima battuta una legittimità anche al regime democratico, che come gli altri regimi è una forma di governo tesa a tutelare gli interessi di una parte del corpo sociale (così ad esempio Trasimaco in Platone, Resp. 33 8e339a) ; ma questa legittimità comporta poi lo smantellamento delle fon­ damenta sui cui poggiava l ideologia democratica. Perché la democrazia non è il governo della collettività in cui tutti partecipano per far valere le proprie idee, ma è soltanto una possibile configurazione dei rapporti di forza all' interno di una comunità ( segnatamente, quella secondo cui la forza è della parte popolare ) . Viene così meno la pretesa universalità del governo democratico : la democrazia non è il governo solo umano, non è il governo di tutti e tantomeno il governo capace di tutelare l'utile di tutti. Non diversamente da quello aristocratico o da quello monarchico,

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anche il regime democratico è un regime di parte, che si fonda sulla sola forza del demos, come avrebbe osservato un altro esponente della reazione anti-democratica della seconda metà del v secolo, l'anonimo autore di una Costituzione degli Ateniesi, e Alcibiade « in un dialogo d' insolita lucidità » (Vegetti, 19 89, p. 64) nei Memorabili di Senofonte ( I 2 40-45)13• Del resto, anche in questo caso il comportamento pratico della democrazia ateniese (si pensi soltanto alla vicenda paradigmatica di Melo) avrebbe fornito la conferma più eclatante che questa era la realtà delle cose, al di là e a pre­ scindere da quello che la propaganda ufficiale andava proclamando. Ancora più inquietanti sono infine le conseguenze per il problema del­ la giustizia: di fatto, le analisi di molti sofisti hanno rivelato che la giustizia altro non è che un' ideologia, tesa a mascherare i reali rapporti di forza. Ma allora, stante questa idea di giustizia, che senso ha essere giusti ? Nella misura in cui si fa l' interesse di un altro, non è forse vero che un compor­ tamento giusto è un comportamento stupido (cfr. Platone, Gorg. 491d-e; Resp. 343d; Tucidide I I I 82 8) ? E perché allora essere giusti ? Negli anni finali del V secolo, nel pieno della crisi e della guerra, l'unica risposta pos­ sibile all' interrogativo che aveva impegnato le migliori intelligenze della Grecia sembra condurre verso un esito totalmente negativo : l'unica giusti­ zia è l' ingiustizia di chi afferma e cerca di realizzare il proprio interesse e la propria felicità (cfr. Platone, Gorg. 491e-492c; Hobbs, 2000) ! Questa, se­ condo Callicle, un personaggio noto grazie alla penna di Platone, è l'unica risposta che si sarebbe dovuta dare alla domanda di Esiodo. Ma è facile verificare che la presa di posizione di Callicle, questo invito a una rottura totale del patto che tiene insieme la comunità, per quanto capace di affa­ scinare non poche persone nel corso dei secoli, è in realtà irrealizzabile'4• E diversa sarà infatti la soluzione cui arriveranno gli altri realisti. Consa­ pevoli che l'uomo non può fare da solo, ma ormai disillusi sulla possibilità di poter risolvere le contraddizioni del vivere associato vuoi fondandosi sull'esistenza di improbabili valori divini o naturali (Esiodo, Solone, Era­ clito) vuoi esaltando troppo ottimisticamente la capacità umana di essere artefice del proprio destino ; ormai edotti sulla natura profonda dell'uo­ mo, e coscienti che la giustizia non è in grado di risolvere i problemi che da questa natura scaturiscono ; a un passo insomma dal rompere il patto sociale, ma consci che al patto sociale non c'è alternativa; prendendo fi­ nalmente atto che alla domanda sul perché della giustizia non è possibile rispondere, autori come Antifonte e Tucidide sembrano così ripiomba­ re, seppur dopo un percorso diverso e senza più la possibilità di confidare

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nell' imperscrutabile volere divino, in quel pessimismo di fondo in cui già si era arenato prima di loro Solone'1• Un pessimismo che a molti, da Frie­ drich Nietzsche a Bernard Williams, è parso contenere il tesoro più vero della saggezza greca, e che Platone avrebbe invece tentato di rovesciare completamente, fin dalle radici: il problema che guida il movimento ar­ gomentativo della Repubblica, l'opera probabilmente più importante del filosofo ateniese e quella sicuramente più ambiziosa, è proprio mostrare che solo il giusto è felice - il solito vecchio problema cui Platone offrì una risposta radicalmente nuova portando il problema della giustizia dentro l'anima dell'uomo, e ricollegando poi l'anima alla realtà vera che sta fuo­ ri di noi. Un tentativo certo difficile, che avrebbe implicato una radicale trasformazione delle concezioni degli uomini sulla vera natura dell'uomo, su cosa è la realtà e sul compito della politica, e di cui si dirà nel prossimo volume ( cfr. inoltre Ostwald, 1977, pp. 41-63; Neschke-Hentschke, 2.005, pp. 2.2.7-45). Al lettore attento toccherà poi valutare se la soluzione plato­ nica sia stata in grado di risolvere i problemi su cui si erano incagliati i suoi predecessori.

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Il pitagorismo di Mauro Bonazzi

Venerato per le sue doti soprannaturali, stimato per le sue indagini scien­ tifiche e rispettato per la sua eccellenza politica, Pitagora è stato per secoli una figura quasi leggendaria: « di nessuno si sono credute cose più grandi e straordinarie » , scriveva Porfirio tra il I I e il III secolo d.C., in una delle tante biografie dedicate al "divino" maestro ( V. Pyth. 12 28). I motivi per tanta ammirazione non mancavano certo, se si considera che, tra le altre cose, a Pitagora veniva fatto risalire il primo impiego del termine "filoso­ fia"; una prima riflessione sistematica di carattere matematico-geometrico che aveva condotto a stabilire alcuni importanti teoremi ( tra cui quello che portava, e porta ancora, il suo nome ) ; o ancora l' identificazione dell'a­ nima come il vero sé e la difesa della sua immortalità; ed era sempre Pi­ tagora che aveva mostrato concretamente come solo i sapienti potessero garantire un giusto governo della città. Davvero, era difficile resistere alla conclusione che quanto di meglio la civiltà greca avesse saputo produrre dipendesse dal suo insegnamento e dalla tradizione che da lui aveva preso le mosse - una tradizione che non includeva soltanto i suoi allievi, ma anche personaggi del calibro di Platone e Aristotele, filosofi il cui unico merito era stato quello di lavorare nel solco di quella tradizione ( cfr. Ano­ nimo, V. Pyth. , apud Fozio, Bibliotheca cod. 249 438 b -439•). Degna figlia di un'epoca mal disposta nei confronti delle agiografie, la storiografia moderna ha sistematicamente e meticolosamente sman­ tellato questa storia pezzo per pezzo, facendo emergere una situazione completamente differente, in cui il pitagorismo appare come un fenome­ no ricco e molteplice, non più frutto "miracoloso" del sapere greco, ma probabilmente anche più affascinante. Tra tutti è uno studioso svizzero, Walter Burkert, colui che più ha fatto per chiarire la complessità della stratigrafia pitagorica1• In particolare, Burkert ha chiarito in un modo

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pressoché definitivo due punti di decisiva importanza. Il primo riguarda l' intervento platonico-accademico : nel IV secolo, prima Platone poi, più sistematicamente ancora, i suoi allievi Speusippo e Senocrate si appro­ priarono di molte dottrine pitagoriche, adattandole a un nuovo contesto metafisico e producendo uno stravolgimento delle teorie originarie (di cui si conserva invece traccia in Aristotele). Il risultato fu l'elaborazione di una dottrina metafisica dei numeri come costituenti e principi ultimi della realtà: ed è questa dottrina, tanto duramente criticata da Aristotele, che nei secoli successivi fu recepita come l'autentica dottrina pitagori­ ca - un'autentica dottrina pitagorica che poco o nulla aveva a che fare con la dottrina dei veri pitagorici ! Grazie all'analisi di Burkert si è così potuto fare chiarezza sulle fonti e testimonianze antiche, selezionando solo quelle che realmente ci mettono in condizione di ricostruire le teo­ rie pitagoriche originali. Ancora più importante è poi probabilmente una seconda conclusione cui le ricerche di Burkert hanno condotto, la presa d'atto che il pitago­ rismo antico, anche lasciando da parte il problema della deformazione platonico-accademica, rimane un fenomeno complesso : la storia del pita­ gorismo si snoda nel corso di almeno due secoli circa, dalla metà del VI se­ colo, quando Pitagora approdò sulle coste della Magna Grecia in fuga da Samo, alla metà del IV secolo, quando gli ultimi pitagorici, in fuga da quelle stesse coste, girovagarono per tutta la Grecia, cercando inutilmente di tenere in vita un pensiero di cui si stavano intanto appropriando intan­ to Platone e i suoi allievi. Un certo settarismo tipico di questa scuola, ben riassunto nella celebre formula ipse dixit (in greco autos epha, cfr. Diogene Laerzio V I I I 46), ha spesso confermato il pregiudizio che tutte le dottrine pitagoriche risalissero a Pitagora. Al contrario, le ricerche promosse da Burkert e numerosi altri studiosi hanno mostrato un'eterogeneità di in­ dirizzi all' interno della tradizione pitagorica veramente notevole, di cui è difficile trovare eguali nelle altre scuole. È solo chiarendo i differenti strati che costituiscono la tradizione pitagorica che si potrà arrivare dunque a comprendere questo fenomeno nella sua complessità, cogliendone i nu­ merosi motivi di interesse. Perché, anche se l' immagine di un "miracolo" pitagorico non è più accettabile, rimane fuori discussione che i pitagorici antichi furono capaci di spunti e intuizioni notevoli, che fanno del pita­ gorismo uno dei punti culminanti nella storia della filosofia presocratica (e non solo).

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La questione pitagorica

Esposto sinteticamente, il problema principale che ostacola una ricostru­ zione attendibile del pensiero del Pitagora storico ( 572-494 a.C. ca. ) e del suo valore filosofico è che, come Socrate, egli non scrisse nulla. E neppure abbiamo un corrispondente di Platone o Senofonte che ci possa guidare nelle ricerche. Fortunatamente, non mancano però numerose testimo­ nianze, che, se analizzate accuratamente, ci permettono di inquadrare la figura di Pitagora nel suo contesto storico e filosofico. Un primo elemento che s' impone all'attenzione di ogni lettore è che l' insegnamento di Pita­ gora si concretizzava nell'adozione di una precisa scelta di vita. Pitagora nacque a Samo, un' isola posta di fronte ai grandi centri ionici in cui avevano brillato astri del calibro di Talete, Anassimandro e Anas­ simene, e questo potrebbe suggerire l' ipotesi che Pitagora fosse stato in­ fluenzato da questi pensatori, elaborando a sua volta delle risposte ai gran­ di problemi cosmologici. Ma il suo insegnamento in Magna Grecia ( che aveva raggiunto nel 532 dopo che a Samo Policrate aveva conquistato il potere ) si distinse per ragioni differenti: non per questi interessi teoretici, bensì, come osservava Platone, per alcune scelte di vita ben precise, e netta­ mente distinte rispetto al modo di vivere tradizionale ( cfr. Resp. 6ooa-b) 1• L' insegnamento di Pitagora favorì lo sviluppo di una florida comunità che viveva nel culto della persona divina del fondatore, seguendo rigide pre­ scrizioni, soprattutto alimentari ( in particolare l'astinenza dalla carne ) , e originali precetti politici ( su tutti quello di mettere ogni cosa in comune ) i. Pitagora si fece insomma propugnatore di una nuova morale puritana, ca­ pace di promuovere un modello alternativo alla morale tradizionale con un tale successo che per un lungo periodo alcuni dei principali centri della Magna Grecia, da Crotone a Taranto, furono governati da pitagorici. Nel senso neutrale della moderna sociologia delle religione si può insomma parlare di "sette" pitagoriche, nella misura in cui questi gruppi si caratte­ rizzavano per la presenza di un fondatore carismatico, di rigide strutture organizzative, di una spiccata integrazione spirituale che favorirono un certo elitismo ( cfr. Riedweg, 2002, trad. it. pp. 164-71 ) . Più controverso è il ruolo politico giocato da questi gruppi nel conte­ sto magno-greco, a volte esteso a dismisura a volte negato radicalmente. Indubbiamente, la vicenda di Pitagora e dei pitagorici è legata ad alcuni im­ portanti episodi della storia politica del tempo, come ad esempio la guerra vittoriosa di Crotone contro Sibari su consiglio di Pitagora ( e pitagorico se-

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condo alcune fonti fu anche 1 'atleta Milone che guidò la spedizione ) ; è una vittoria che avrebbe segnato un momento di egemonia della città, ma che avrebbe anche condotto in seguito a diffusi tumulti contro i circoli pitago­ rici. Sia come sia, è stato correttamente osservato, riconoscere che l' inse­ gnamento pitagorico ha influenzato la storia politica del tempo e prendere atto della presenza di pitagorici che hanno rivestito cariche politiche ( su tutti spicca il caso di Archita a Taranto) non giustifica di per sé la conclu­ sione che le comunità pitagoriche vadano intese nei termini di associazioni politiche simili alle eterie aristocratiche4• Del resto, per comprendere appieno il senso dell' insegnamento pita­ gorico non bisogna limitarsi alla sola dimensione morale e politica, tra­ scurando 1 'aspetto religioso: nell' interpretazione di Burkert la tradizione da cui Pitagora sembra dipendere maggiormente è quella dello sciama­ nesimo1. Come le tribù siberiane, in cui più a fondo questo fenomeno è stato studiato, così anche la comunità pitagorica sembra costruita intorno al potere di un leader religioso, che deriva la sua autorità ( e le sue cono­ scenze sterminate ) dalla capacità di entrare in un rapporto privilegiato con le potenze divine, staccando 1' anima dal corpo e compiendo viaggi iniziatici nell'aldilà. Per quanto possa sembrare strano, è proprio questo aspetto dell' insegnamento pitagorico quello che meglio aiuta a chiarirne l' importanza. Strettamente collegata a queste credenze, anche se non di­ rettamente derivante da esse, era infatti una celebre dottrina, quella della trasmigrazione delle anime o metempsicosi. E questa tesi è di decisiva im­ portanza in una prospettiva tanto storica quanto filosofica6• Dal punto di vista storico è facile realizzare che la metempsicosi se­ gnava una rottura radicale rispetto al sentire comune greco : ad Achille, che nell'xI canto dell' Odissea si lamentava della sua misera condizione nell'Ade - un'ombra senza nessuna capacità di azione -, Pitagora avrebbe potuto promettere la possibilità di ritornare sulla terra e addirittura, gra­ zie al ciclo delle reincarnazioni, una forma di immortalità che lo avrebbe assimilato agli dei. Con Pitagora si ha una presa di posizione audace e gravida di conseguenze rispetto a un problema, quello della morte, di cui gli uomini hanno sentito e sempre sentiranno il peso. Non è un caso se è proprio su questo punto che si registrano le reazioni più veementi, ora negative ( Senofane B 7 DK; Eraclito B 81 DK ) ora positive ( Ione di Chio B 4 DK; Empedocle B 129 DK ) . Anche questa capacità di scatenare re­ azioni estreme è tipica di personalità carismatiche ( cfr. Riedweg, 2 0 0 2, trad. it. p. 119 ).

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Ancora più rilevante è poi la portata filosofica di questa tesi. La dottri­ na della metempsicosi introduce prepotentemente un protagonista desti­ nato a calcare a lungo le scene dei dibattiti filosofici: l'anima. Purtroppo le fonti in nostro possesso lasciano molte questioni insolute ( non è chiaro se la metempsicosi valesse per tutti o solo per alcuni privilegiati, se compor­ tasse reincarnazioni in esseri umani soltanto o anche in piante e animali, se il ciclo fosse infinito o prevedesse solo un numero limitato di passaggi ) , e ancora più gravi sono i problemi teorici che conseguono da questa teoria: che rapporto c 'è tra un'anima e l' identità individuale - in altre parole tra l'anima intesa come il vero sé e il vissuto storico che ci determina come individui ? Ricostruire la risposta di Pitagora non è semplice, e si potrebbe persino dubitare che ce ne sia stata una coerente7. Ma aver contribuito a porre il problema basta per riconoscere l' importanza storica e filosofica di Pitagora. Filolao, pitagorico e presocratico

Anche accettando le recenti interpretazioni sciamanistiche di Pitagora, non sarebbe corretto concludere che il pitagorismo costituisca un corpo estraneo rispetto alla grande tradizione di ricerca scientifica inaugura­ ta sulle coste ioniche di Mileto da Talete e Anassimandro. Il catalogo di Giamblico ( Iv sec. d.C. ) , una lista di ( quasi ) tutti gli allievi diretti e indi­ retti di Pitagora, conta 218 nomi: molti sono per noi sconosciuti, e alcuni probabilmente persino inventati. Ma di altri è ormai chiaro il valore, e tra tutti è la figura di Filolao che spicca : con Filolao di Crotone (470-39 0 a.C. ca. ) , d i cui Platone s i sarebbe ricordato nel Fedone, i l pitagorismo si confronta a pieno titolo con le ricerche degli altri filosofi presocratici, rag­ giungendo risultati di grande rilievo8• I legami di Filolao con gli altri presocratici emergono chiaramente fin dall'esordio del suo trattato. I libri Sulla natura iniziano in questo modo : «la natura nel cosmo risulta dall'accordo tra gli illimitati e i limitanti; così il cosmo nel suo insieme e tutto quanto è in esso » ( Diogene Laerzio VIII 85 = 44 B I DK ) . L' importanza programmatica di questo passo non deve sfuggire : tutti i concetti che qui vengono introdotti (physis, kosmos, harmonia) mostrano chiaramente che Filolao con il suo scritto ( il primo testo scritto di un pita­ gorico e probabilmente la fonte principale di Aristotele ) era intenzionato

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a inserirsi nei grandi dibattiti cosmologici cui avevano partecipato le gran­ di personalità delle generazioni precedenti. I suoi predecessori avevano dimostrato che la physis, la realtà che ci circonda, era un tutto coerente e ordinato, e si trattava ora di spiegare le ragioni di questo ordine, dell'ar­ monia che faceva di questo tutto un "cosmo". A questo problema Filolao tentò di offrire una nuova risposta, che rovesciava le tesi di fondo dei fi­ losofi ionici (cfr. Huffman, 1999 ). La linea dominante - si pensi al caso esemplare di Anassimandro - aveva rintracciato I' arche in un principio infinito, illimitato (apeiron ), inteso come la fonte originaria da cui tutto il resto si generava e che tutto conteneva. Da Anassimandro ad Anassagora l illimitato, che rimane identico a sé, è primo rispetto alle cose determi­ nate9. Filolao, memore probabilmente della lezione parmenidea (cfr. 22 B 8; 26; 30-3 1 ; 42-43; 49 DK), invertì le priorità, insistendo invece sulla preminenza di ciò che limita (perainon ), come ciò che dà ordine alla real­ tà indeterminata, e ordinandola la porta all'essere. Il cosmo è il risultato dell'azione ordinante di questi principi limitanti. Se la posizione di Filolao nella scacchiera presocratica è evidente, meno chiaro è cosa intendere realmente con i principi limitanti. Significativa­ mente, di questi principi nei frammenti superstiti si parla sempre al plura­ le; non si tratta cioè di principi astratti, come poi avrebbero inteso Platone e i platonici, ma dei costituenti concreti del cosmo e di ciò che il cosmo contiene, analogamente alle radici di Empedocle o ai semi di Anassago­ ra: siamo ancora alle prese con quella che Alexander Mourelatos ( 1973 ) ha definito una « metafisica nai"ve delle cose » . Più precisamente, però, in che cosa consistano esattamente questi principi limitanti nei frammenti non viene detto, e le opinioni degli studiosi divergono. Secondo Burkert ( 1962, trad. ingl. pp. 258-9 ) , Filolao si era limitato a stabilire una tesi di fondo senza poi approfondirla; ma se si considera l importanza del pro­ blema l' ipotesi è poco verosimile. Per altri, sulla base dell'assunto che per i pitagorici tutto va ricondotto ai numeri, i principi limitanti sarebbero i numeri dispari (cfr. 44 B 7 DK) 10, ma come vedremo questo assunto è tutt 'altro che fondato e niente autorizza questa conclusione. Più ragione­ volmente, Jonathan Barnes ( 1979, pp. 3 87-92 ) aveva ipotizzato che questi principi limitanti fossero le figure (shapes) che determinano gli elementi originari e indeterminati. Ma probabilmente non si tratta delle figure ge­ ometriche soltanto ; principi limitanti sono tutti quei principi che fissano dei limiti in un continuum indeterminato (Huffman, 1993, pp. 37-53 ) : così il continuo sonoro si articola in una scala musicale grazie alle note, e una

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quantità continua di acqua e terra può diventare rispettivamente un lago o una montagna a seconda che venga strutturata secondo limiti determinati. Tutti gli oggetti particolari che esistono nel cosmo, e il cosmo stesso, sono dunque il risultato della combinazione di questi principi limitanti e illimitati secondo precise regole armoniche: chiarito il principio, analoga­ mente ai suoi predecessori, Filolao proseguiva poi nella spiegazione della configurazione dell'universo, passando all'esposizione di teorie astrono­ miche, psicologiche e mediche. In particolare, è nella trattazione dei pro­ blemi cosmologici che emerge più decisamente l'originalità di Filolao : la generazione del cosmo avrebbe avuto inizio con un fuoco ( illimitato) al centro di una sfera (limitante); questo fuoco poi avrebbe come ispirato un'altra serie di limitanti (il tempo e il vuoto) che si sarebbero combinati con gli altri illimitati dando così origine all'universo. Rispetto agli altri, la novità di questa ricostruzione non era di poco conto : al centro del co­ smo non stava più la terra, ma questo fuoco centrale attorno a cui la terra ruotava insieme agli altri pianeti (il sole, la luna, i cinque pianeti, il cielo delle stelle fisse, e un altro pianeta per noi invisibile, chiamato anti-terra) in orbite circolari e a differenti distanze. Di questo si sarebbe ricordato Niccolò Copernico, che in Filolao avrebbe ritrovato un autorevole predecessore nella sua opposizione alle tesi geocentriche (il sistema di Filolao, del resto, è anche il primo ad aver individuato e distinto i cinque pianeti). Ma davvero Filolao può essere considerato un predecessore di Copernico ? Ancora una volta gli studiosi divergono radicalmente, senza che sia possibile decidersi definitivamente in un senso o nell'altro. In effetti, non è mancato chi sulla scorta di Aristo­ tele ha fatto osservare che l impianto cosmologico di Filolao dipendeva da motivi che poco hanno a che spartire con la ricerca scientifica e che andrebbero piuttosto fatti dipendere da una mistica del numero tipica dei pitagorici: siccome il numero IO era per i pitagorici il numero perfetto, Fi­ lolao si sarebbe affrettato a trovare un decimo pianeta, quel!' anti-terra che, in quanto invisibile, non può essere oggetto di alcuna osservazione em­ pirica. Ma a questa interpretazione è stato giustamente rimproverato che se si considera anche la sfera delle stelle fisse (e non si vede perché non si dovrebbe), si arriverebbe a 11 corpi celesti, non IO (cfr. Kingsley, 1995, trad. it. p. 176) ! Alternativamente, si potrebbe dunque considerare scientifico il sistema di Filolao nel senso in cui ne parlava Popper: come il risultato di ipotesi audaci che ambivano a rendere conto della realtà nella sua com­ plessità e non, baconianamente, di ciò che risultava dalla generalizzazio-

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ne di osservazioni circoscritte ( Popper, 1958-59 ) . Per quanto affascinante, anche questa è però un' ipotesi difficile da dimostrare pienamente, e non è mancato chi ha difeso con dovizia di argomenti una ricostruzione com­ pletamente diversa delle testimonianze in nostro possesso, sostenendo che l' interesse prioritario di Filolao sarebbe stato un' interpretazione mitica: il fuoco centrale non sarebbe altro che il Tartaro infernale e l 'anti-terra l'Ade ( letteralmente, "ciò che non si vede" ) di cui parlavano Omero, Esiodo e i poeti orfici ( Kingsley, 1995, trad. it. pp. 174-93). Ma questa tesi è fin trop­ po radicale, nella misura in cui significherebbe una separazione netta di Filolao rispetto al mondo della speculazione cosmologica degli altri pre­ socratici, in contraddizione con le testimonianze e i frammenti di cui di­ sponiamo. Insomma, numerosi sono ancora i problemi che impediscono un'adeguata valutazione di Filolao, ma almeno le coordinate in cui inserire il suo pensiero sembrano definite : come suona il titolo della fondamentale monografia di Carl Huffman, Filolao fu pitagorico e presocratico. È di qui che bisogna partire per indagare il senso e il valore dei suoi sforzi « d ' im­ maginazione scientifica » ( Guthrie, 1962, p. 282). I numeri e la matematica

Il lettore che abbia avuto la pazienza di spingersi nella lettura fino a qui potrebbe finalmente decidersi a chiedere qualche delucidazione sui grandi assenti di questa presentazione: la matematica e i numeri. Pitagora e i suoi allievi non erano celebri per l' impegno dedicato allo studio della matema­ tica e per l' interesse tributato ai numeri ? Testimonianze in questo senso non mancano, fin da Aristotele, che a più riprese aveva attribuito ai pita­ gorici la tesi che le cose sono i numeri. Che poi lo studio della matematica fosse importante sembra trovare numerose conferme, a partire dalla cele­ bre vicenda di lppaso". Per chi, come Pitagora e i suoi allievi, aveva trovato la chiave per spiegare l'armonia dell'universo mediante l' identificazione di rapporti proporzionali, la scoperta che la diagonale di un quadrato è incommensurabile poteva in effetti apparire distruttiva per tutto il siste­ ma: come conciliare la tesi che le cose sono fatte di numeri con il fatto che nessun numero o rapporto numerico fra interi può esprimere la diagonale ? Ecco perché, secondo una diffusa tradizione, Ippaso, per aver divulgato questa drammatica scoperta, sarebbe stato espulso dalla scuola. Ma non è detto che le cose siano andate proprio così. Ippaso fu proba-

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bilmente coinvolto nelle tensioni che a un certo punto opposero i mate­ matici agli acusmatici (cfr. supra, nota 3 ) , ma il problema riguardava vero­ similmente l' indirizzo di maggiore o minore apertura che la scuola doveva seguire", e non presunte rivelazioni matematiche. Anche perché, come ha scritto recentemente Fabio Acerbi sulla scorta di Walter Burkert, il sorgere della leggenda della rivelazione dell' irrazionalità del rapporto fra lato e diagonale di un quadrato può spiegarsi con « un bisticcio linguistico tra le grandezze irrazionali, qualificate come arreta "inesprimibili" sin da Plato­ ne, e l' "inesprimibilità" del segreto pitagorico» (Acerbi, 2010, p. 150; cfr. Burkert, 1962, trad. ingl. pp. 461-2 ) : la colpa di Ippaso, se vi fu, riguarda l'atteggiamento spregiudicato rispetto al nucleo originario dei precetti pi­ tagorici. Del resto, le testimonianze di cui disponiamo presentano Ippaso più interessato a questioni fisiche (cfr. 18 A 7 DK, in cui il pitagorico è associato a Eraclito nella tesi che principio di tutto è il fuoco) che mate­ matiche (senza con questo escludere che anch'egli abbia potuto occuparsi di problemi armonici e musicali). Quanto ad Aristotele, è stato osservato che la sua testimonianza è meno chiara di quanto non appaia a prima vista (Zhmud, 2012, pp. 41556 ) : la tesi attribuita ai pitagorici che principio di tutto sono i numeri è presentata in modi diversi e addirittura contraddittori (dire che le cose sono fatte di numeri - Metaph. I 5 986a 16 è ben diverso dal dire che le cose sono simili ai numeri 985b 27 o li imitano 987b 10-13 ) , e si ha l' impressione che egli stesse adattando le teorie pitagoriche alle sue ricer­ che, producendo così un parziale fraintendimento di quelle stesse teorie. Il caso di Filolao aiuta a chiarire il senso di questi fraintendimenti. Si legga il seguente frammento: «Tutte le cose che si conoscono hanno nu­ mero; senza il numero non sarebbe possibile né pensare né conoscere nul­ la » ( 44 B 4 DK). Filolao non aveva affermato che i numeri sono le cose (perché queste risultano dall' interazione tra i principi limitanti e illimi­ tati), bensì che i numeri servono a conoscerle. In altre parole, che ciò che si conosce di una cosa ha a che fare con i numeri, con i rapporti numerici. Ora, siccome per Aristotele ciò che si conosce di una cosa è la sua essenza, egli si sentì in qualche modo legittimato a concludere che per i pitagorici i numeri sono l'essenza delle cose - un' inferenza che chiaramente distorce­ va il senso della tesi (gnoseologica) di Filolao. Perché il punto era piuttosto la presa d'atto che il cosmo come un tutto, e ogni cosa che esso contiene, sono conoscibili mediante la determinazione di precisi rapporti numerici: una cosa è conoscibile nella misura in cui ne comprendiamo la struttura e i -

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rapporti tra le parti che la compongono (il che spiega anche l' importanza delle proporzioni). Così riconfigurata, la teoria pitagorica appare molto più ragionevole1i. D 'altro canto, non si deve neppure esagerare nella direzione opposta, riducendo eccessivamente il ruolo dei numeri e della matematica nella tra­ dizione pitagorica. Senza dubbio, ricostruzioni che fanno di Pitagora l' in­ ventore della matematica non appaiono più fondate (cfr. Burkert, 1962, trad. ingl. pp. 401 ss. e 449 ss.), e anche il valore della testimonianza di Aristotele necessita di essere calibrato. Ma l'analisi delle testimonianze di cui disponiamo, come si è appena visto a proposito di Filolao, mostrano un grande interesse per le scienze matematiche e non soltanto per una mi­ stica dei numeri (che pure fu parte delle speculazioni pitagoriche e non necessariamente risulta incompatibile con un interesse più rigorosamente scientifico ) '4• Quello che davvero appare "rivoluzionario" (Huffman, 1993 ) in Filolao è l'uso dei numeri e della matematica per risolvere problemi fi­ losofici. A questo bisogna poi aggiungere il contributo delle generazioni successive al pro gresso delle ricerche scientifiche. L'esempio più illustre è quello di Archita ( 420-350 ca. a.C.), originario di Taranto, rinomato al suo tempo per i numerosi incarichi politici svolti a capo della sua città e ancora oggi ricordato per i suoi rapporti con Platone (è lui che lo avrebbe aiutato nei difficili soggiorni a Siracusa), se sono attendibili le testimonianze che gli attribuiscono la risoluzione di importanti problemi matematici, qua­ le ad esempio il raddoppiamento di un cubo (il famoso problema delio), e musicali11• È probabilmente in conseguenza di questa fama (e dei suoi rapporti con Platone) che molti dei trattati anonimi composti nei secoli successivi furono attribuiti proprio a lui, contribuendo potentemente alla diffusione della leggenda pitagorica. Una leggenda affascinante, che ha oscurato per secoli la storia, di per sé non meno affascinante, delle ricer­ che, delle intuizioni e delle speculazioni dei pitagorici delle origini. Orfismo e pitagorismo

L'interesse per l'anima e il suo destino, la convinzione della sua immorta­ lità e la teoria della metempsicosi sono caratteristiche del movimento pi­ tagorico ma non solo. Una focalizzazione altrettanto decisa per le vicende dell'anima si ritrova anche nell'orfismo, una religione misterica di origine orientale, associata alla figura leggendaria del cantore tracio Orfeo. L'orfi-

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smo esercitò un profondo impatto sul mondo greco e presenta importanti punti di tangenza con la filosofia greca. Fin dal XIX secolo questi evidenti paralleli hanno suscitato vivaci dibattiti tra gli studiosi, che si sono divisi tra chi insisteva sulla priorità dell'orfismo sul pitagorismo (e la filosofia) e chi al contrario aveva sostenuto la tesi opposta - il punto in discussio­ ne essendo, come sempre, il grado di purezza della cultura greca rispetto alle "contaminazioni" orientali. Ma non si tratta di dibattiti solo moderni, perché la stessa divergenza si registra nell'antichità: la prima opzione può sembrare più ragionevole, ma a favore della seconda si erano già schierate figure di primo piano quali ad esempio Erodoto e lsocrate'6• In epoca contemporanea, il dibattito si è poi ulteriormente acceso con la sensazionale scoperta a Derveni (in Macedonia) di un rotolo di papiro datato al IV secolo a.C. e contenente parti di un commento a un poema orfico pieno di riferimenti filosofici (in particolare, Empedocle, Anassago­ ra, Archelao, Diogene di Apollonia)'7• Fino al 1962 il problema principale degli studiosi era stata la difficoltà di ricostruire il nucleo autentico dell'or­ fismo, liberandolo da tutte le aggiunte posteriori (in particolare neoplato­ niche); grazie a questa scoperta le nostre conoscenze circa la teogonia e la cosmogonia orfica sono nettamente progredite, con una crescita esponen­ ziale di pubblicazioni scientifiche. Sostanzialmente due sono i temi che più significativamente legano 1' or­ fismo di età arcaica e la filosofia greca. Come mostra inequivocabilmente il papiro di Derveni, anche negli ambienti orfici ci fu un potente impul­ so alla speculazione cosmologica. Questo tipo di interessi trova del resto un' importante conferma in una delle più celebri commedie di Aristofane, Gli uccelli (vv. 693-703), che attribuisce agli uccelli una teoria cosmogoni­ ca dagli evidenti tratti orfici. Anche se, in generale, le affinità più spicca­ te sono con il poema di Esiodo, gli espliciti rinvii del papiro alle autorità presocratiche rivelano 1' evidente desiderio di confrontarsi con le tradizio­ ni filosofiche e sembrano risentire della pratica razionalizzante tipica di Anassagora e del suo circolo. Non meno importante è poi, come già anticipato, 1' insistenza sull' a­ nima e sulla sua immortalità. A essere particolarmente significativo non è soltanto l'aspetto teorico (per cui l'anima emerge come il vero io), ma anche le conseguenze pratiche, che si traducono in una pratica ascetica simile, sotto molti punti di vista, alle scelte di vita pitagoriche (si pensi ad esempio al vegetarianismo). Di fatto, tanto a proposito dei gruppi orfici quanto a proposito di quelli pitagorici si è parlato di "sette" portatrici di

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istanze politiche, sociali e culturali apertamente alternative al mondo delle poleis (il rifiuto di uccidere esseri viventi comporta ad esempio il rifiuto del sacrificio) e che come tali, nonostante il fascino esercitato, sono state guardate con una certa dose di sospetto'8• Detto questo, non bisogna però compiere indebite generalizzazioni e concludere che non ci sono differenze tra lorfismo e il mondo della filoso­ fia presocratica: l'orfismo è prima di tutto un culto religioso misterico or­ ganizzato intorno alla promessa di salvezza individuale per le anime degli adepti. Questa ambizione emerge in modo particolarmente affascinante nelle numerose laminette auree che sono state ritrovate in tombe sparse in diverse parti del mondo greco. Una delle più eloquenti è quella ritrovata a Hipponion (Vibo Valentia in Calabria), che non si sbaglierebbe a definire una vera e propria guida per il viaggio oltremondano (ma non diverso è il testo di numerose altre laminette): A Mnemosyne è sacro questo [dettato] : [per il mystes] , quando sia sul punto di morire. Andrai alle case ben costruite di Ade : v 'è sulla destra una fonte accanto ad essa si erge un bianco cipresso ; lì discendono le anime dei morti per avere refrigerio. A questa fonte non accostarti neppure ; ma più avanti troverai la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi custodi, ed essi ti chiederanno, in sicuro discernimento, perché mai esplori la tenebra dell'Ade caliginoso. Di': " [Son] figlio della Greve e del Cielo Stellato; di sete son arso e vengo meno : ma datemi presto da bere la fredda acqua che viene dal lago di Mnemosyne". Ed essi ti daranno da bere [l'acqua] del lago di Mnemosyne; e tu quando avrai bevuto percorrerai la sacra via su cui anche gli altri mystai e bacchoi procedono gloriosi (trad. Pugliese Carratelli, i. 0 0 1 ) .

Certo, l idea del viaggio iniziatico è ben presente anche in numerosi filo­ sofi: si è rintracciato un parallelo nel prologo di Parmenide (cfr. Burkert, 1969) e molte pagine di Platone, dal mito conclusivo del Fedone a quello della Repubblica, rivelano un'evidente influenza di questa tradizione (cfr. ad esempio Edmonds, 2004). Le somiglianze con Platone sono anzi così forti che nei secoli tardo antichi del neoplatonismo si consolidò la convin­ zione di una stretta dipendenza tra la filosofia dei dialoghi e l'orfismo, una

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convinzione sentita con uguale forza anche in epoca umanistica e rina­ scimentale (grazie soprattutto a Pico della Mirandola e Marsilio Ficino). Sarebbe però difficile ridurre la filosofia di Platone o quella dei pitagorici (e di altri filosofi presocratici) a un culto iniziatico votato alla salvezza in­ dividuale, come ben vide proprio Platone, cui si deve, in alcune pagine della Repubblica, un giudizio sprezzante dell'orfismo, presentato come un' impostura di ciarlatani: Preti, mendicanti e indovini, andando alle porte dei ricchi, l i convincono che gra­ zie a sacrifici e incantesimi essi sono dotati del potere, proveniente dagli dei, di far ammenda per ogni ingiustizia commessa da qualcuno o dai suoi antenati [ ... ] . Esibiscono poi un bailamme d i libri d i Museo e d i Orfeo, figli, a quanto dicono, di Selene e delle Muse : secondo le loro prescrizioni officiano i sacrifici, convincendo non solo i singoli ma persino città che esistono purificazioni assolutorie per gli atti ingiusti, ottenibili mediante sacrifici e piacevoli giochi da chi è ancora in vita, e ve ne sono anche per i morti, che essi chiamano iniziazioni, le quali ci liberano dai mali di laggiù, mentre cose tremende attendono chi non abbia compiuto sa­ crifici (Resp. 364a-365a; trad. Vegetti, 2.007 ) .

Alcmeone di Crotone

Diversamente dagli antichi, gli studiosi moderni hanno di solito negato che Alcmeone di Crotone (attivo all' inizio del v sec. a.C.) andasse con­ siderato come un membro della comunità pitagorica. Ma l'originalità di alcune sue tesi, che presentano interessanti affinità con le dottrine pita­ goriche, merita di essere ricordata'9• Per brevità ci si limiterà ai passi più significativi. Famoso soprattutto per le sue ricerche mediche (in partico­ lare la teoria encefalocentrica, 24 A s DK), Alcmeone seppe esprimere la regolarità dei fenomeni naturali - l'obiettivo della ricerca della stragrande maggioranza dei pensatori presocratici - in una formula incisiva, in cui linguaggio politico e linguaggio scientifico erano mirabilmente uniti: «Alcmeone dice che la salute dura fintantoché i vari elementi, umido sec­ co, freddo caldo, amaro dolce, hanno uguali diritti [ isonomian] , e che le malattie vengono quando uno prevale sugli altri [ monarchian] . Il prevale­ re dell'uno sull'altro, dice, è causa di distruzione. [ ... ] La salute è l'armoni­ ca mescolanza delle qualità opposte » (24 B 4 DK; trad. A. Maddalena in Giannantoni, 1 9 7 9 ) . Un secondo motivo di interesse, probabilmente dipendente dai suoi

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interessi medici, riguarda il problema della conoscenza umana, indagato da un punto di vista rigorosamente fisiologico (si considerino le testimo­ nianze 24 A 5-10 DK sulla sensazione) e in senso più generale. Anche in questo caso ad Alcmeone si devono delle formule incisive che colgono perfettamente la consapevolezza crescente, in opposizione alla concezione sapienziale della verità (cfr. Detienne, 1967), delle difficoltà che ostaco­ lano il cammino umano e al tempo stesso lo rendono unico. Perché, se è vero che «l'uomo differisce dagli altri animali perché lui solo comprende, mentre gli altri viventi hanno sensazioni ma non comprendono » (24 B 1a = A s DK), non meno vero è che « delle cose invisibili, delle mortali, gli dei hanno certezza, mentre agli uomini non resta che congetturare » ( 24 B I DK). Ma la tesi più importante è forse un'altra e riguarda la convinzione dell' immortalità dell'anima, che Alcmeone avrebbe affermato in base a un collegamento con il suo movimento sempiterno, analogo a quello osserva­ to nei corpi celesti: « dice che l'anima è immortale, per il fatto che asso­ miglia alle cose immortali; e somiglia in quanto muove sempre, giacché le cose divine si muovono tutte ininterrottamente sempre, luna, sole, le stelle e tutto quanto il cielo » (24 A 12 DK). Ad Alcmeone, dunque, potrebbe risalire una prima versione della pro­ va in favore dell' immortalità dell'anima che Platone avrebbe in seguito sviluppato nel Fedro (e poi ancora nelle Leggi) : è la prova unanimemen­ te riconosciuta come la più riuscita in tutto il corpus dei dialoghi. Molto meno filosoficamente impegnativa, ma non per questo meno profonda e vera, è infine un'ultima affermazione, riguardante il mestiere di vivere : « è più facile guardarsi d a un nemico che da un amico» ( 2 4 B s DK).

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Riflessione teologica e critica delle tradizioni religiose : da Senofane di Colofone ai sofisti di Mauro Bonazzi

Un'opposizione in cui capita spesso di incorrere è quella che distingue tra fìlosofìa e scienza da un lato e teologia e religione dall'altro : la si ritrova quando si discute di Galilei o Spinoza, e riaffiora puntualmente nei dibattiti odierni più disparati. Ma simili classificazioni non vanno usate come cate­ gorie astoriche, valide in ogni tempo e luogo : adatte all'età moderna e con­ temporanea, esse rischiano di produrre risultati fuorvianti, se applicate in modo indiscriminato ad altri contesti e in particolare all'antichità'. Questo per due ragioni almeno. Intanto perché teologia e fìlosofìa non sono neces­ sariamente distinte nel mondo greco: un'opposizione tra fìlosofìa e teologia non ha ad esempio senso nel caso di Platone e di tutta la tradizione che da lui ha preso le mosse. Una tradizione che si ritrova in una celebre afferma­ zione delle Leggi, «dio è misura di tutte le cose » ( 716a), e che fa dell' assi­ milazione a dio il compito ultimo della fìlosofìa. Un discorso analogo vale poi nel caso di un movimento per molti versi antitetico al platonismo, ossia lo stoicismo, se solo si pensa al celebre Inno a Zeus di Cleante : anche nello stoicismo fìlosofìa e teologia tendono a conciliarsi. L' interesse per il divino rimane una parte fondamentale della ricerca fìlosofìca. Secondariamente, occorre poi tenere presente la complessità della rela­ zione che corre tra religione e teologia: nel mondo antico il rapporto tra credenze religiose e speculazione teologica è molto meno stretto di quanto non sarà in epoca moderna e contemporanea. La religione antica, intesa come insieme di culti e miti, è sotto molti punti di vista una tradizione "aperta", priva di un apparato concettuale unitario, che predetermina rigi­ damente inclusioni ed esclusioni. Tutto al contrario, l'assenza di un'orto­ dossia e di un' istituzione deputata alla sua difesa si traduce in una grande libertà, che permette le indagini più disparate senza che questo compor­ ti lesplodere di contrasti insanabili. Detto altrimenti, e forzando solo in parte, si potrebbe osservare che il mondo antico tollera la presenza tanto

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di una religione senza teologia, come è ad esempio il sistema di credenze contenuto nei poemi di Omero, quanto di una teologia senza religione, quale si ritrova ad esempio in alcune celebri pagine di Aristotele. Di più, niente impedisce l'adozione simultanea di entrambe le opzioni. Proprio in conseguenza delle sue idee su dio Aristotele è stato a volte accusato di ateismo, ma l'accusa si rivela figlia di una diversa temperie culturale': nel IV secolo a.C. l'elaborazione di una "teologia" come quella del XII libro della Metafisica non comportava di per sé il rifiuto delle credenze e delle pratiche religiose tradizionali. Al contrario, il caso di Aristotele mostra bene come teologia e credenze tradizionali, per quanto divergenti, possa­ no aver convissuto senza problemi. Valida per Aristotele, questa affermazione si applica a molti altri pen­ satori antichi, ma non esaurisce la complessità del problema, soprattutto quando ci si riferisce all'età dei cosiddetti pensatori presocratici - si inten­ dano con questo termine i physiologoi o i sofisti. A differenza di Aristotele, infatti, questi pensatori si muovevano ancora su un terreno incerto e ambi­ guo : mentre Aristotele poteva lavorare in relativa sicurezza all' interno di una disciplina dai confini definiti quale era ormai la filosofia, ben diversa era invece la situazione dei presocratici, che stavano invece cercando di emanciparsi dalle forme abituali del sapere, dominate dalle tradizioni mi­ tologiche. Il che, concretamente, si tradusse in un atteggiamento più "ag­ gressivo", per cui la nuova indagine sulla physis si sviluppò appropriandosi di termini e nozioni normalmente riservati alla presentazione degli dei: da Anassimandro ad Anassagora è una pratica corrente applicare ai principi primi che fondano l'universo attributi normalmente riservati alla divinità ( cfr. Morgan, 2 0 0 0, pp. 15-88). Sfruttando termini e concetti tipici della tradizione mitologica, questi pensatori produssero nel corso del tempo una discussione potentemente originale, dando luogo a quella che sarebbe diventata la filosofia. Anche questo si intende quando si parla della celebre opposizione tra mythos e logos ( cfr. Nesde, 1940 ). Ma è qui che si pone il problema più spinoso : come valutare queste ap­ propriazioni e questi adattamenti ? Si tratta di un uso contestuale che non implica alcuna volontà di contrapporsi alle credenze tradizionali ( come era per Aristotele ) o è vero piuttosto il contrario ? Su questo punto gli stu­ diosi si dividono e una soluzione definitiva del problema è spesso ostaco­ lata dallo scarso numero di frammenti. Ma in alcuni casi almeno quello che sembra affiorare è una situazione particolare in cui la riflessione per così dire "teologica" si accompagna espressamente a una presa di posizione

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critica rispetto alle credenze tradizionali. Indubbiamente, si tratta di un fatto significativo, che si distingue dalla situazione fino a qui abbozzata: ricostruire anche questo capitolo di storia delle idee, un capitolo normal­ mente poco considerato, servirà dunque a meglio comprendere la vivacità culturale di questi secoli. Appropriazione e revisione : Senofane di Colofone e la tradizione presocratica

Uno degli esempi più interessanti di queste tensioni è Senofane di Colofo­ ne (570-470 a.C. ca.), tra tutti i filosofi presocratici quello maggiormente interessato a un' indagine sul divino e a un confronto con l' insieme delle credenze tradizionali. Nato in Asia Minore ma attivo in Italia meridiona­ le, rapsodo autore di canti simposiali ma anche adepto delle nuove ricer­ che naturaliste nonché presunto maestro di Parmenide e della cosiddetta "scuola eleatica"\ apprezzato da alcuni per il rigore logico delle sue argo­ mentazioni (Barnes, 1979, pp. 84-94) e da altri per le sue intuizioni misti­ che (Jaeger, 1953, trad. it. pp. 67-87 ), che lo avvicinerebbero addirittura al mondo persiano (Gemelli Marciano, 2005), Senofane illustra perfetta­ mente le difficoltà che attendono chiunque voglia adottare classificazioni anacronistiche e troppo unilaterali. Perché è vero che Senofane ha passato le credenze tradizionali al vaglio impietoso di un'analisi razionalistica; ma non meno vero è che questa stessa propensione per l indagine razionale lo ha poi ricondotto a una nuova considerazione del fenomeno divino. In al­ tre parole, più che di opposizione tra filosofia e religione conviene parlare di una volontà di rivedere e riformare le credenze tradizionali in modo più conseguente. Indubbiamente, Senofane è, tra i filosofi presocratici, colui che più de­ cisamente ha attaccato le forme della religiosità tradizionale, mettendone in rilievo ambiguità e contraddizioni. Più specificamente, la sua polemica si muove in due direzioni, toccando il problema della moralità divina e sollevando la questione dell'aspetto degli dei, il loro presunto antropo­ morfismo. Nel primo caso, lattacco coinvolge anche i grandi poeti della tradizione greca, vale a dire coloro che erano tradizionalmente riconosciu­ ti come i depositari del sapere religioso : « Quante cose fra gli uomini sono motivo di biasimo I e di vergogna, Omero ed Esiodo tutte hanno ascrit­ to I agli dei, furto, adulterio e vicendevole inganno » (i.1 B 1 1 DK)4•

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Nel secondo caso, la critica è generalizzata, e si passa da singole po­ polazioni all'umanità generalmente intesa: « Gli Etiopi dicono che i loro dei siano neri e con il naso I schiacciato, i Traci che siano biondi e con gli occhi celesti » (i.1 B 16 DK). « I mortali credono che gli dei siano nati da parto I che come loro siano vestiti, e come loro abbiano voce e figura » (i.1 B 14 DK). « Ma se buoi, cavalli e leoni avendo le mani I e con le mani sa­ pessero dipingere e compiere opere I come gli uomini, i cavalli ai cavalli e i buoi ai buoi I simili dipingerebbero immagini degli dei, I e corpi costrui­ rebbero di quella specie I di cui pure ciascuno di loro possieda figura » (i.1 B 15 DK). Come valutare prese di posizione tanto polemiche ? Un'opzione legit­ tima è certamente quella di chi, di fronte a una situazione tanto confusa, iniziasse a dubitare della liceità di parlare del fenomeno divino. Questa sarebbe stata ad esempio la posizione del sofista Protagora, il quale, pren­ dendo atto dell' impossibilità di dirimere la questione, avrebbe professato una prima forma di agnosticismo : « Riguardo agli dei non sono in grado di sapere né che sono né che non sono né quali siano nell'aspetto : molte infatti sono le difficoltà che lo impediscono, l'oscurità dell'argomento e la brevità della vita umana » (So B 4 DK)1• Altri avrebbero poi potuto spin­ gersi oltre, affermando che dietro a questa confusione e a queste assurdità non c 'è nulla di reale, ma solo la proiezione di paure, desideri e bisogni degli uomini: come vedremo, anche se la categoria di "ateismo" è foriera di equivoci, non sono mancate prese di posizione in questo senso. Per quanto possibili, queste non furono però le opzioni scelte da Senofane, che preferì seguire una terza via, sfruttando queste difficoltà per un'originale riflessio­ ne sull'uomo e le possibilità conoscitive di cui dispone. Insieme alla polemica contro le credenze religiose tradizionali, di Seno­ fane è infatti celebre un frammento che riguarda le possibilità (e i limiti) della conoscenza umana: « La chiarezza non vide mai nessun uomo, ne alcuno sarà I che conosce quante cose io dico intorno agli dei I e a tutte le cose; gli accada pure di compiere con la parola I quanto possibile, ugual­ mente non sa: I l'opinione sovrasta per natura ciascuno» (i.1 B 34 DK). A una prima lettura quest 'affermazione di Senofane sembra lasciare poche speranze agli uomini di trovare la verità, nelle altre questioni così come in quelle che riguardano gli dei6• Il problema è infatti quello dell' im­ possibilità di discernere il vero dal falso e l'unico esito possibile sembra al­ lora essere una forma di agnosticismo quale quella professata da Protagora nel frammento appena citato. Del resto, non è escluso che il sofista fosse

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influenzato proprio da Senofane7 e non è un caso che quest'ultimo fos­ se annoverato nei secoli successivi tra i precursori dello scetticismo8• Ma, come già osservato, non è la lettura scettica la descrizione migliore della posizione di Senofane, che in altre testimonianze insiste sulla necessità della ricerca, di una ricerca ben condotta: «Non mostrarono certo gli dei ai mortali tutte le cose I fin dall' inizio, ma essi scoprono il meglio I con una ricerca che dura nel tempo» (21 B 18 DK). Detto altrimenti, il problema non sono le credenze o le opinioni: il problema è l'accettazione pedissequa di qualsivoglia opinione senza che essa sia stata adeguatamente vagliata. Perché è vero che dobbiamo accon­ tentarci delle opinioni, ma non meno vero è che ci sono opinioni migliori e peggiori, opinioni adeguatamente giustificate e assolutamente infondate (cfr. ad esempio Warren, 2007b, p. 77). E il punto, evidentemente, è pro­ prio quello di promuovere forme di conoscenza sempre più consapevoli, anche se mai definitive. Nel momento stesso in cui riconosce i limiti delle conoscenze umane, Senofane celebra anche le potenzialità della ragione e, come si vedrà, inaugura quella che altri avrebbero chiamato teologia razio­ nale (cfr. Broadie, 1999, pp. 209-12). Purtroppo, tornando agli dei, bisogna riconoscere che dalle testimo­ nianze superstiti è difficile ricostruire con esattezza la natura dei ragiona­ menti di Senofane9• Ma le sue critiche trovano significativi paralleli nelle pagine di molti filosofi successivi, da Platone a Epicuro agli stoici, ed è pro­ babile che alcuni almeno dei ragionamenti di questi ultimi riprendessero proprio affermazioni originali di Senofane. Il punto centrale è la nozione di perfezione insita nella concezione del dio : quello che resta da stabilire è cosa sia compatibile con questa nozione e cosa no. Per Platone e per tutti gli altri qualunque presentazione "immoralista" degli dei risultava total­ mente incompatibile con la loro perfezione: e che ogni forma di immorali­ tà sia bandita nel rapporto che unisce uomini e dei sembra essere implicato anche da Senofane quando descrive il banchetto genuino, in cui a dio ci si deve rivolgere « con racconti pii e con parole pure » (21 B 1 DK). Un ragionamento analogo sembra giustificare anche la critica contro l'antropomorfismo. Le concezioni antropomorfiche attribuiscono infat­ ti alla divinità caratteri superflui in un modo del tutto ingiustificato, che servono solo a rivelare i pregiudizi di chi questi caratteri ha stabilito : se i Traci li immagineranno biondi di capelli, gli Etiopi li descriveranno neri e camusi; e se i buoi potessero disegnare li avrebbero rappresentati in for­ ma di bue. Affermazioni come queste sono evidentemente prive di qualsi-

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voglia fondamento e non meritano secondo Senofane alcuna attenzione. Al contrario, una valutazione corretta della divinità è quella che parte da premesse adeguate, vale a dire da una corretta valutazione della sua natura perfetta'0: « Fra gli dei e gli uomini è un unico sommo dio I ai mortali simile in nulla, né figura o pensiero » (21 B 23 DK). «Tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto intero ascolta » (21 B 24 DK). «Lontano dalla fatica agita tutte le cose I con l' intimo del suo pensiero» (2 1 B 25 DK). « Saldo sempre rimane nel medesimo stato, in nulla mosso, I né gli si addi­ ce trascorrere nello spazio e nel tempo » (21 B 26 DK). Ecco una prima descrizione del dio dei filosofi, un dio che appare molto più potente dello Zeus della tradizione mitologica: questo è il dio di cui si fa banditore Senofane in un modo epistemologicamente originale, sulla base non della verità ma di un'opinione fondata. Perché, strettamente par­ lando, se ci atteniamo a quanto Senofane aveva affermato nel fr. B 34 DK, si potrà anche negare che le sue siano le parole definitive in proposito ; ma si dovrà altresì riconoscere che questa rimane la posizione più ragionevole tra le tante in cui gli uomini hanno creduto. E questo basta a confermare la superiorità del rapsodo riformatore Senofane sui falsi maestri - Ome­ ro, Esiodo e anche Pitagora - che troppo a lungo hanno imperversato nel mondo greco (cfr. anche Morgan, 2000, pp. 47-53). Così facendo, Senofane testimonia in modo esemplare un certo modo di confrontarsi con il problema del divino, che ha per obiettivo non la sua negazione, bensì una sua riforma": non si tratta di negare l'esistenza della divinità, ma di ripensarne coerentemente i caratteri e la natura. Nel caso di Senofane la riflessione teologica sembra animata dall' intento di riformare le credenze religiose tradizionali. Si tratta di un caso isolato o possiamo rintracciare anche in altri pensatori un simile atteggiamento ? Nonostante l'autorevole parere di alcuni importanti studiosi''-, la scarsità di testimo­ nianze impedisce una risposta chiara nel caso di molti autori: una vocazio­ ne autenticamente riformista si trova quasi sicuramente in Empedocle (si pensi ad esempio alla polemica contro i sacrifici)'3 e probabilmente anche in Eraclito (cfr. ad esempio Adomenas, 1 9 9 9 , pp. 87-113). Negli altri casi rispondere è più complicato. Sia come sia, è inutile aggiungere che tutte queste precisazioni e sfu­ mature non bastarono a evitare polemiche e accuse, come provano le scoppiettanti battute delle Nuvole di Aristofane. Anche se, nell'offensiva di Aristofane, il vero bersaglio non sono in realtà questi bizzarri filosofi che, parlando di aria, acqua o fuoco, e pregando solo le nuvole ( « Perché

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soltanto le Nuvole sono dee, tutto il resto sono fole [ ... ] . Quale Zeus ? Non dire sciocchezze. Zeus non esiste » , vv. 365-367; trad. Del Corno, i.005), avevano forse cercato di riformare il sistema delle credenze popolari. Al tempo di Aristofane circolavano teorie molto più spregiudicate sugli dei ed è contro questa spregiudicatezza che il commediografo vuole in realtà mettere in guardia il suo pubblico. Se una colpa si poteva imputare ai pre­ socratici non era quella del teismo, ma di aver aperto le porte all'ateismo, come si sarebbe presto scoperto.

I negazionisti : la "teologia" dei sofisti e la religione tradizionale

I problemi di Senofane sono i problemi di un mondo in rapida espan­ sione, che si apre alle altre società e così facendo scopre la complessità e realizza che i valori in cui crede non sono necessariamente eterni o divini o comunque insindacabili. Tutto al contrario, quello che si impone è la presa d'atto della forza delle convenzioni, delle abitudini e dei pregiudi­ zi: il nomos, vale a dire la convenzione, è « re di tutte le cose » (Pindaro, fr. 169 Snell-Maehler). In un mondo che cambiava velocemente, obiettivo di Senofane e probabilmente anche di altri presocratici era stato quello di ripensare criticamente il senso della tradizione in vista di una rifondazione più coerente dei suoi valori, senza con questo prendere apertamente posi­ zione contro l'esistenza della divinità. Con il passare del tempo non man­ carono però prese di posizione teologicamente più spregiudicate, capaci di condurre in una direzione inaspettata e probabilmente non voluta questa tradizione critica: è il momento dei sofisti'4• Come abbiamo visto, le discussioni di Senofane avevano sollevato due tipi di problemi: il primo riguardava il ruolo degli dei e della tradizione mitologica in un mondo ormai completamente naturalizzato; il secondo, e più problematico, investiva il sistema dei valori etici tradizionali, la sua coerenza e soprattutto la presunta immoralità degli dei. In nessuno dei due casi i presocratici sembrano essersi spinti su posizioni apertamente atee ; questo è invece quanto si verifica in diversi autori del v secolo15• Nel primo caso, accanto a tanti passi di Euripide e Aristofane'6, è la ricostruzione dell'anonimo ateniese delle Leggi platoniche quella che meglio descrive la temperie culturale dell'Atene dominata dai sofisti. Ai suoi interlocutori che vorrebbero risolvere il problema dell'ateismo con

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il semplice rinvio all'ordine e alla bellezza del mondo, che non può che dipendere da una causa intelligente e divina, 1 'ateniese risponde rievocan­ do una dottrina che a molti dei suoi concittadini era apparsa come «la più saggia » e che per lui è invece una forma suprema di ignoranza (886b; 888e) : l'universo altro non è che il risultato dell' incontro tra gli elementi naturali secondo rapporti interni di forza che non rispondono ad alcuna finalità né tantomeno dipendono da alcun disegno provvidenziale. Que­ sta è l'unica realtà, una realtà che non ha alcuna necessità dell'esistenza degli dei: nell'opinione dell'ateniese il lungo cammino del naturalismo termina inevitabilmente in un aperto ateismo'7• Quanto alla questione etica, di gran lunga il problema più appassionan­ te del tempo, le idee che circolavano non erano meno disincantate. Mano a mano che si diffonde nella società la consapevolezza dell' importanza di virtù collaborative quali la giustizia, virtù che erano rimaste in secondo piano nel mondo dei valori competitivi della società arcaica, cresce an­ che la consapevolezza del problema dell' incompatibilità tra il male, l' in­ giustizia e la divinità: di fronte alla straripante presenza del male come è possibile credere ancora negli dei ? Un frammento di Euripide spiega bene il problema: « Qualcuno sostiene che nel cielo ci sono gli dei ? No, non ci sono, a meno che non si voglia stupidamente credere a vecchie storie. Ri­ Aettete da voi, se non volete basarvi su quanto dico io. Posso senza dubbio ricordare che la tirannia uccide un gran numero di persone, confisca i loro averi e rompendo i giuramenti distrugge le città. E mentre si comportano così i tiranni sono più felici di coloro che, giorno dopo giorno, osservano in tranquillità i loro doveri religiosi. Conosco piccole città, che venerano gli dei, schiacciate in battaglia da moltissimi nemici e sottomesse da grandi città, più empie di loro » (fr. 286 Kannicht). Ed Euripide non fu isolato, perché non è da escludere che egli stesse riprendendo il ragionamento dell'ateo per eccellenza del mondo antico, Diagora di Melo18: l'esistenza del male è incompatibile con l'esistenza di una divinità onnipotente e benevola; e visto che non ci sono ragioni per negare 1'esistenza del male, la conclusione più ragionevole è la negazione dell'esistenza della divinità. Per quanto ragionevole, questa conclusione non è però l'unica e altri autori suggerirono altre soluzioni - ma sempre soluzioni che sollevavano problemi sostanziali. Si può infatti osservare che l'esistenza del male è in­ compatibile non con l'esistenza della divinità, bensì con la sua benevolen­ za: dunque si può concedere che essa esista, ma si deve altresì riconoscere

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che essa è indifferente (Trasimaco B 8 DK). E ci si può anche spingere oltre : nelle Storie di Tucidide, e più precisamente nel dialogo tra gli Ate­ niesi e i Meli, si legge una variazione originalissima sul tema della teodi­ cea, anche se inspiegabilmente poco considerata dagli studiosi19• Verso la conclusione dell' incontro, quando ormai è chiaro che un accordo tra le due parti è impossibile, i Meli rinfacciano agli Ateniesi la loro ingiustizia, dichiarandosi dunque fiduciosi in un intervento provvidenziale degli dei (che avrebbero in qualche modo costretto gli Spartani, di cui i Meli sono coloni, a intervenire in loro aiuto) : Meli: « Anche noi, sappiatelo, pensiamo che sia duro combattere contro la vostra potenza e contro la fortuna, se non vorrà essere equanime. Nondimeno confidia­ mo nella buona sorte che promana dalla divinità: che non ci verrà meno perché noi, senza colpa, ci troviamo ad affrontare degli ingiusti [ ... ] » . Ateniesi: « Quanto al favore degli dei, neanche noi saremo da meno : ne sia­ mo persuasi. Giacché, quello che facciamo, quello che pretendiamo, non si pone affatto fuori dalla concezione che gli uomini hanno del mondo divino né della reciproca loro disposizione. Non solo tra gli uomini, come è ben noto, ma, per quanto se ne sa, anche tra gli dei, un necessario e naturale impulso spinge a do­ minare su colui che puoi sopraffare. Questa legge non labbiamo stabilita noi né siamo stati noi i primi a valercene; l'abbiamo ricevuta che già c 'era e a nostra volta la consegneremo a chi verrà dopo, ed avrà valore eterno [ ... ] . Ecco perché, per quel che riguarda il divino, abbiamo motivo di ritenere che non verrà meno neanche a noi » (Tucidide V 104-105; trad. Canfora, 1996).

Si può essere in disaccordo con le parole degli Ateniesi, ma non si può negare la loro originalità: costoro non si rifugiano nel rifiuto di credere ali' intervento provvidenziale degli dei, come avrebbe potuto ad esempio fare un Trasimaco, e neppure si trincerano dietro alla negazione dell'esi­ stenza degli dei, come nel Bellerofonte di Euripide o in Diagora. Tutto al contrario : gli Ateniesi rivendicano la loro pietà, elaborando una sorta di teologia al contrario. Il punto di partenza del loro ragionamento si fonda sulla contrapposizione tra conoscenza e opinione, sfruttando riflessioni come quelle di un Protagora o di un Senofane : la certezza riguarda solo i fatti umani, mentre a proposito degli dei possiamo fondarci solo su opi­ nioni, sulle opinioni che costituiscono la tradizione greca. Ma che cosa si ricava da queste opinioni ? Qual è il loro insegnamento ? Che si legga Omero o le teogonie, i poeti lirici o i tragici, la morale è sempre la stessa, che gli dei sono più forti e dunque comandano ; e questa è la conclusione

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cui si arriva ( senza dubbi ) se si considerano le vicende umane. Così è a par­ tire dalle opinioni condivise, oltreché dal comportamento fattuale degli uomini, che gli Ateniesi traggono conferma per la loro tesi: la giustizia, degli uomini e degli dei, consiste nel prevalere del più forte; e se la giustizia consiste nell'esercizio della forza, la conseguenza sarà che sono gli Ateniesi quelli che seguono più fedelmente gli dei, proprio nella misura in cui im­ pongono la loro forza'°. Ma c 'è di più: in realtà, la prova più significativa del distacco che il nuovo mondo della sofistica ha ormai maturato rispetto alle credenze tra­ dizionali non si ricava dai passi appena citati, in cui l'obiettivo è mettere in discussione e persino negare l'esistenza degli dei. La testimonianza più si­ gnificativa è forse nella riflessione di chi, come Prodico e l'autore del Sisifo ( Crizia o forse Euripide ) , non si preoccupa tanto di negare l'esistenza degli dei quanto di spiegare in che modo si sia potuta formare questa credenza. Che gli dei non esistano, in altre parole, è dato per scontato, e l'unica que­ stione interessante diventa capire come gli uomini possano aver sviluppato queste idee. Se per il primo si tratta di un processo di divinizzazione delle cose naturali che ci sono utili ( « Secondo Prodico fu considerato alla stre­ gua della divinità tutto ciò che giova alla vita, come il sole, la luna, i fiumi, i laghi, i prati, i frutti e via di seguito» , 84 B 5 DK) e il rinvio è dunque alla questione del naturalismo ( cfr. Henrichs, 1976, pp. 15-21 ), per il secondo tutto dipende invece dall'esigenza, ingenua e fin troppo umana, di trovare un garante per la giustizia in un mondo in cui prevale la forza ( « In seguito però, poiché le leggi impedivano agli uomini I di compiere violenze aper­ tamente, I ma quelli le compivano di nascosto, allora a me sembra I che un uomo di acuto intelletto e sapiente di mente I per primo, per i mortali, inventò il timore degli dei, affinché I ci fosse una paura per i malvagi, an­ che quando di nascosto I agissero, complottassero o tramassero. I Di qui fu introdotta dunque la divinità » , 88 B 25 DK) - e qui si ritorna ai pro­ blemi morali (cfr. ad esempio Kahn, 1997, pp. 247-62). Ciò che veramente colpisce non sono le spiegazioni proposte, ma l'assunto da cui si parte : in entrambi i casi la prospettiva adottata è una prospettiva totalmente secola­ rizzata, in cui è dato per scontato che gli dei non esistono. Indubbiamente, molte delle tesi riconducibili ai sofisti comportavano almeno in teoria conseguenze radicali rispetto al mondo della religione tradizionale. Si ritorna così al problema di cui già si è trattato a proposito di Senofane : come valutare la relazione tra queste dottrine "teologiche" e le credenze religiose ? Paradossalmente, la posizione dei sofisti sembra

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molto più ambigua di quella che si è creduto di rintracciare in Senofane e qualche altro presocratico : se anche molte delle loro tesi ricordano le po­ lemiche dei filosofi clandestini del Seicento, niente ci conferma che il loro obiettivo fosse quello di "illuminare" le menti dei loro contemporanei. Piuttosto, a caratterizzare i sofisti sono il gusto per il ragionamento con­ dotto fino alle estreme conseguenze e il gusto della provocazione. «Writes to shock » è stato detto di Tucidide : difficilmente si potrebbe trovare una descrizione più appropriata dei sofisti. Ma, quando si tratta degli dei, provocare è sempre pericoloso : alla fine del v secolo si registra uno dei rari momenti di intolleranza nei confron­ ti di chi si poneva in modo critico rispetto alla religione tradizionale. Se anche i sofisti non nutrirono alcuna ambizione di riformare le credenze religiose, fu opinione diffusa che le loro tesi comportassero di fatto con­ seguenze concrete sulle pratiche cultuali della città. Si spiega in questo modo la violenta reazione che accompagnò questi dibattiti, negli ultimi anni del v secolo, in un'epoca di guerra e di crescente nervosismo. L' in­ cendio del pensatoio del "sofista" Socrate con cui si concludono Le nuvole di Aristofane trova un sinistro riscontro in alcuni episodi della vita di Ate­ ne: dall'editto di Diopite del 437 al rogo dei libri di Protagora in seguito alla lettura del suo scritto Sugli dei, ai vari processi intentati contro lo stes­ so Protagora, contro Anassagora, Prodico, Diagora, per tacere di Socrate11• In realtà, la storicità di molti di questi episodi è stata recentemente negata dagli studiosi». Ma il cumulo di testimonianze di questo tenore è di per sé significativo della reazione scatenata dalla "teologia" dei sofisti. Potrebbe ben darsi che costoro non avessero alcuna intenzione di confrontarsi seria­ mente con la religione tradizionale, ma questa non fu l'opinione dei loro contemporanei. Persino nel tollerante contesto del politeismo antico, caso più unico che raro, le tesi dei sofisti risultarono troppo radicali per essere sopportate.

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Eraclito di Efeso di Mauro Bonazzi

Per i Greci Eraclito era l'oscuro per antonomasia; secondo Socrate per capi­ re quello che diceva ci sarebbe voluto un tuffatore, tanto profondo era il suo discorso: «Ciò che ho capito è eccellente, e penso che lo sia anche ciò che non ho capito; ma forse bisognerebbe essere un tuffatore delio» (Diogene Laerzio II 2.2. = 2.2. A 4 DK). Per altri tutta questa oscurità e profondità non fu altro che una fonte di perplessità o fastidio: così Aristotele, sempre con i piedi per terra, si lamentava sconsolato del fatto che nei testi di Eraclito non si riusciva a mettere neppure la punteggiatura (Reth. 1407b = 2. 2. A 4 DK), mentre è facile prevedere che molti si siano ritrovati e sempre si ritroveran­ no nel giudizio sferzante che Cicerone mette in bocca a Cotta: «lasciamo perdere chi non voleva che fosse capito quel che diceva » (De nat. deor. I I I 35). Ma il disappunto è passeggero: i detti di Eraclito esercitano un fascino troppo potente e ogni lettore spera di poter arrivare a condividere il giudizio che Diogene Laerzio aveva messo in versi alla fine della sua biografia: Non srotolare in fretta fino alla verga il libro di Eraclito di Efeso : assai difficile a percorrersi è il cammino. Oscurità e notte profonda è in esso; ma, se un iniziato ti conduce, è più luminoso del sole splendente (22 A 1 DK = Diogene Laerzio IX 16).

Qual è questa luce splendente ? Quale il posto di Eraclito nella scacchiera della letteratura presocratica ?

La vita, lopera e le polemiche

Come nel caso di tanti altri presocratici, non sappiamo quasi nulla della vita di Eraclito. In tutta probabilità visse a Efeso, sulle coste dell'Asia Mi­ nore, intorno al 500 a.C., in un momento di grande tensione politica, con

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le colonie greche che stavano cercando di affrancarsi dal dominio persiano: la rivolta del 500 è tra le cause che condussero all' invasione persiana della Grecia nel 490. Ma questo fermento politico non sembra aver interessato Eraclito : membro di una famiglia reale, egli avrebbe lasciato il trono al fratello per disprezzo della massa, ritirandosi a giocare con i bambini nel tempio di Artemide ; e agli Efesini che gliene chiedevano ragione avrebbe risposto che era « molto meglio fare questo che occuparsi della città » con loro ( 2 2 A 1 DK = Diogene Laerzio IX 3). Il tono di altero disprezzo con cui Eraclito si sarebbe opposto alle novità politiche del suo tempo è una costante delle testimonianze antiche : «Uno per me vale diecimila, purché sia il migliore » ( 2 2 B 49 DK). « Prendono per maestro la folla; non sanno che la moltitudine è inetta e solo pochi hanno valore » ( 22 B 104 DK; sul contributo di Eraclito al pensiero politico, cfr. CAP. 5)1• Ma una delle difficoltà principali, quando si studia Eraclito, riguarda proprio il cortocircuito tra frammenti e testimonianze biografiche : I' im­ pressione è che spesso le informazioni sulla vita altro non siano che inven­ zioni costruite a partire dalla lettura dei testi, una pratica peraltro diffusa nell'antichità (cfr. CAP. 1). Il fascino di Eraclito fu grande e gli aneddoti abbondano ; ma raramente sembra che essi possano rivendicare una qual­ che attendibilità. Si può certo concedere che il lignaggio aristocratico si accompagnasse a un aperto disprezzo per le richieste popolari, ma è ad esempio difficile prendere sul serio le testimonianze sulla sua presunta malinconia (da cui l immagine di Eraclito che piange) e ancora meno il dibattito, che pure impegnò diversi storici e biografi antichi (Diogene La­ erzio cita Ermippo di Smirne, Neante di Cizico, Aristone, lppoboto ), sulle cause della sua morte ( 22 A 1 DK = Diogene Laerzio IX 3-5). Insofferente verso gli uomini (ancora il tema dell'alterigia), Eraclito si sarebbe ritirato sui monti, dove però, cibandosi di erbe e piante, si sarebbe ammalato di idropisia; ritornato in città avrebbe chiesto ai medici (di cui non aveva grande opinione : 22 B 5 8 DK) se sapevano fare in modo che dall' inonda­ zione (un'allusione all'eccesso d'acqua presente nel suo corpo; sull'anima umida cfr. ad esempio 22 B 36 e 7 7 DK) venisse siccità (cfr. 22 B u8 DK), e irritato perché questi neppure comprendevano il senso delle sue parole si sarebbe seppellito in una stalla sotto il calore dello sterco animale : « stan­ do così disteso, il secondo giorno morì » . Questa è la versione di Ermippo, mentre Neante sostiene che la causa della morte furono i cani che lo sbra­ narono dopo che lo sterco lo aveva reso irriconoscibile. Aristone sostiene invece che sarebbe guarito dall' idropisia e morto per altre cause - ma que-

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sta, a pensarci bene, è delle tre l' ipotesi più inverosimile : 1' assalto dei cani può sembrare troppo truculento, ma 1' idea che con il trattamento di sterco potesse guarire è ancora più difficile da credere. Sia come sia, il lettore ha qui un esempio illuminante dei numerosi aneddoti di cui si compone la vita di Eraclito. Altrettanto incerto è se Eraclito abbia composto lo scritto Sulla natura che le fonti gli attribuiscono ( e che secondo Diogene era diviso in tre par­ ti: sul tutto, sugli uomini, su dio ) ; per alcuni studiosi si tratterebbe di una collezione di gnomai, di sentenze isolate, probabilmente orali, raccolte successivamente da qualche suo seguace. L' ipotesi più probabile rimane però la prima. Che ci fosse un testo scritto non è implicato soltanto dal­ la critica di Aristotele cui abbiamo fatto cenno: è un'analisi complessi­ va dell'alto livello di elaborazione formale delle sentenze a suggerire che Eraclito si rivolgesse a un pubblico di lettori disposto a tornare continua­ mente su testi scritti per coglierne i continui effetti di risonanze. In effetti, è noto che gran parte della celebre oscurità di Eraclito dipende proprio dalle sue scelte stilistiche, che si distinguono nettamente da quella ricerca di chiarezza tipica di molti altri presocratici: giochi di parole, enigmi, una propensione per espressioni volutamente ambigue colorano i testi eraclitei di una tinta profetica e oracolare, perché proprio come l'oracolo di Delfi anche le sue sentenze non dicono né nascondono, ma alludono per segni (semainei: 22 B 93 DK) ( cfr. Snell, 1926). Non si deve però sopravvalutare il contrasto con la ricerca program­ matica di chiarezza degli altri pensatori: anche la polisemia di Eraclito ri­ sponde allo stesso desiderio di offrire un discorso capace di rispecchiare la realtà. Come i suoi predecessori Eraclito è convinto che il linguaggio, se ben impiegato, sia in grado di rappresentare la realtà. La divergenza è dun­ que nella diversa concezione che Eraclito ha del mondo che lo circonda, un mondo, come vedremo subito, che si caratterizza per tensioni e con­ flitti e che pertanto rifugge da presentazioni piane o lineari. L'adozione di uno stile apparentemente oscuro e polisemico è dunque la conseguenza della necessità di dare conto della complessità del reale, andando al di là delle apparenze ingannevoli, in cerca di una natura che « ama nasconder­ si » (22 B 123 DK ) ; perché «più potente è l'armonia nascosta di quella che appare » (22 B 54 DK ) . È solo in questo modo, ricorrendo a uno stile volutamente ambiguo, che Eraclito ritiene di poter svegliare gli uomini dormienti, aiutandoli a raggiungere quella comprensione intuitiva (noos) che sola può rendere conto della complessità del reale'.

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Un aspetto interessante che emerge dai frammenti superstiti è il grande numero di personalità menzionate. Eraclito si era altezzosamente isolato dai suoi concittadini, ma conosceva bene i suoi contemporanei più rino­ mati e non mancò loccasione di attaccarli, contrapponendo alla sua ricer­ ca autentica e personale ( « ho indagato me stesso» , 2. 2. B 101 DK) la loro vuota erudizione (polymathia: 2.2. B 40 DK; 129 DK), un sapere posticcio che non serve a capire (ad avere noos)3. Poeti come Omero, Esiodo e Ar­ chiloco, filosofi come Senofane, Pitagora, logografi come Ecateo : nessuno si salva dal sarcasmo di Eraclito. Questa combinazione di poeti e prosatori ci aiuta a collocare una figura apparentemente solitaria come Eraclito : di fatto, egli si trova al crocevia delle due grandi tradizioni culturali, da un lato la tradizione sapienziale dei maestri di verità (Omero ed Esiodo su tutti) e dall'altro la nuova cultura scientifica dei pensatori di Mileto. In effetti, mentre la polemica contro i poeti è ripetuta ed esplicita, è ipotesi interessante che molte delle sue prese di posizione si pongano in dialogo implicito anche con gli alfieri milesi della rivoluzione scientifica - Talete, Anassimandro e Anassimene - e con la nuova idea di cosmo che essi erano venuti definendo. Ma questa ripresa non è fine a sé stessa, e ambisce invece a promuovere una meditazione originale sulla vita e sul destino umano4• È su questo sfondo, fatto di riprese e di adattamenti polemici, che Eraclito ha presentato la novità di cui era portatore. Il logos di Eraclito

L'ambiguità delle sentenze di Eraclito è tanto grande che Hermann Diels aveva deciso, unico caso in tutta la raccolta dei Vorsokratiker, di non or­ ganizzare in alcun modo il materiale, limitandosi a presentarlo secondo l'ordine alfabetico delle fonti1• Soltanto di due frammenti Diels aveva ra­ gionevolmente azzardato un' ipotesi di collocazione. Si tratta di due passi citati dallo scettico pirroniano Sesto Empirico ; in tutta probabilità, il pri­ mo soprattutto, figuravano all'esordio del libro di Eraclito : «Di questo discorso [logou] che è sempre gli uomini non possiedono intelligenza, né prima di udirlo né subito dopo averlo udito ; per quanto ogni cosa infatti accada secondo questo discorso, sembra non ne abbiano avuto esperienza, pur avendo fatto la prova e delle parole e dei fatti esattamente quali io li descrivo, distinguendo ogni cosa secondo la sua natura e dicendo come è.

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Ma agli altri uomini rimane nascosto tutto quello che fanno da svegli, così si dimenticano di quello che fanno dormendo» (22 B 1 DK). In questo passo, dal sapore chiaramente programmatico, il termine chiave è logos: le parole sprezzanti rivolte contro la massa degli uomini dormienti si giustificano proprio per la loro incapacità di cogliere questo logos, un logos che nel secondo frammento viene detto « comune » , e di cui Eraclito si fa banditore. Questa è una delle prime occorrenze di un termine denso di significati e destinato a giocare un ruolo fondamentale nei secoli successivi della riflessione filosofica: logos indica il discorso ma anche il ragionamento e persino la struttura e i rapporti che costituiscono la natura di qualcosa6• Tutti questi significati vanno tenuti presenti nel frammento eracliteo, che ogni traduzione è in un modo o nell'altro con­ dannata a tradire. Ben lungi dal voler accreditare una prospettiva propria sul mondo che ci circonda, l'obiettivo di Eraclito è quello di far emergere la struttura profonda che regge l' intera realtà, la cifra segreta che permette di tenere insieme, di raccogliere in unità la pluralità di cui noi facciamo esperienza senza comprenderne il senso. Ed è nella capacità di compren­ dere e di far emergere questa vera realtà, nella capacità di dire veramente il modo in cui le cose sono, che il logos di Eraclito può rivendicare un'auto­ revolezza che sarebbe altrimenti appannaggio dei poeti ispirati dagli dei. Il problema è dunque di comprendere con Eraclito la verità profonda del suo logos. Il flusso e l'unità dei contrari

Tradizionalmente, i lettori antichi e gli studiosi moderni hanno creduto di rinvenire il senso ultimo del pensiero di Eraclito nella tesi del diveni­ re universale di tutte le cose, una tesi resa celeberrima dal detto, ma non una citazione testuale, secondo cui « tutto scorre » (panta rhei)7• Fin da Platone si è così venuta definendo l'opposizione tra Eraclito filosofo del divenire e Parmenide filosofo dell'essere8• Per quanto diffusa, questa in­ terpretazione non sembra però capace di rendere conto della speculazio­ ne eraclitea. Per verificarlo basta concentrarsi proprio su quei frammenti del « fiume » che più di ogni altro hanno contribuito a diffondere una simile immagine di Eraclito. In particolare si consideri il fr. 1 2, della cui autenticità possiamo dirci certi: «Acque sempre diverse scorrono intorno a quanti pure si immergono nei medesimi fiumi [potamoisi toisi autoisi

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embainousin] » (22 B 12 DK). Questo frammento costituisce un esem­ pio illuminante dello stile denso e ambiguo di Eraclito : la frase ha due significati differenti a seconda di come si intenda toisi autoisi ("gli stessi"). Se lo si lega a ciò che segue (embainousi, participio dativo plurale di em­ baino ), il senso della frase sarà che per le stesse persone che entrano nei fiumi, scorrono acque differenti - e questo è un significato possibile, visto che l'ambiguità di Eraclito è voluta (sarebbe bastato collocare l'aggetti­ vo in una posizione diversa per fugare ogni equivoco)9• Ma più utile per comprendere il pensiero di Eraclito, almeno per il momento, è il risultato che si ottiene legando toisi autoisi a ciò che precede, vale a dire ai fiumi: Eraclito verrebbe a intendere che per quelli che entrano negli stessi fiumi scorrono acque differenti. Così letto, il testo presenta un messaggio for­ te : le acque scorrono, ma i fiumi rimangono gli stessi. O meglio: proprio perché le acque scorrono il fiume rimane lo stesso, vale a dire continua a essere quello che è. Se infatti non ci fossero acque non ci sarebbe un fiume ma un greto ; e se ci fossero acque che non scorressero non ci sarebbe un fiume ma un lago. L'esempio del fiume mira insomma a mostrare plasticamente un punto decisivo : che dietro il divenire c 'è la stabilità e che dietro la molteplicità c'è l'unità. E questo in virtù di un legame necessario : per quanto possa sembrare paradossale è proprio perché le acque si modificano che il fiu­ me rimane un fiume. L'osservazione di un fiume serve dunque a Eracli­ to per evidenziare l'esistenza di una realtà stabile dietro i cambiamenti. Da Platone in poi si tende a leggere Eraclito come se sostenesse che come scorrono le acque così tutto cambia: ma il messaggio di Eraclito sembra invece essere che, siccome le acque cambiano, il fiume permane in una sua identità (Kahn, 1979, p. 167; Graham, 2008, p. 174). Il che conduce inevi­ tabilmente a un ripensamento dell' interpretazione di un Eraclito filosofo del divenire. Ovviamente non si tratta di negare l'enfasi che Eraclito pone sul fatto del cambiamento: numerosi frammenti testimoniano che questo è un punto decisivo della sua riflessione. Ma la constatazione dell'esistenza del cambiamento non è fine a sé stessa, perché è volta a evidenziare un'u­ nità sottesa al cambiamento. L'analisi di altri frammenti in cui si parla del divenire aiuta a meglio comprendere il senso di questa ricerca di unità che altrove è presentata come unità degli opposti: « La medesima cosa il vivente e il morto, lo sve­ glio e il dormiente, il giovane e il vecchio : questi infatti mutando son quel­ li, e quelli di nuovo mutando questi » (22 B 88 DK). «Le cose fredde si

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III

riscaldano, quelle calde si raffreddano ; le cose umide s i asciugano e quelle aride si inumidiscono » (22 B 126 DK). Anche in questi frammenti il tema centrale sembra quello del divenire, ma a una lettura più attenta si comprende invece che quello che preme a Eraclito è una verità più profonda delle trasformazioni. Il tema del di­ venire si accompagna qui a un motivo diffuso nella letteratura presocra­ tica: l'opposizione tra i contrari. E il tema del divenire diventa allora un modo possibile per evidenziare ciò che più importa, vale a dire la stretta interrelazione tra i contrari, che secondo la provocatoria affermazione di Eraclito sono la stessa cosa. I contrari sono la stessa cosa non nel senso di un' identità assoluta (che del resto comporterebbe la negazione del movi­ mento), ma nel senso di una unità necessaria tra gli opposti che devono la propria esistenza proprio all'esistenza del loro opposto : non ci sarebbe la luce senza il buio, il freddo senza il caldo e così via. L'esempio più celebre e la descrizione più chiara di questa armonia segreta sono nel frammen­ to dell'arco e della lira: «Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde, armonia contrastante, come quella dell'arco e della lira » (22 B 5 1 DK). Qual è infatti la realtà dell'arco ? Apparentemente abbiamo a che fare con un oggetto stabile, statico e privo di tensioni interne; in realtà, l'arco esiste soltanto nella misura in cui si dà opposizione, conflitto, tensione tra la corda e il legno. L'arco è questo conflitto, perché la sua esistenza dipen­ de dalla tensione: se la corda riuscisse a incurvare il legno fino a spezzarlo non ci sarebbe più un arco, e neppure si potrebbe parlare di arco quando legno e corda non fossero più in tensione. L'arco è questa tensione di op­ posti. Lo stesso discorso vale per tutte le cose: la realtà consiste in questo equilibrio di un conflitto che può essere inteso in senso sincronico come nel caso dell'arco o in senso diacronico come nel caso di alcuni esempi del divenire (ad esempio il giovane e il vecchio). La concezione della realtà di Eraclito inizia allora a chiarirsi e con essa si spiega anche l' importanza del tema del conflitto : « Occorre sapere che il conflitto fpolemos) è comune, che la contesa è giustizia, e che tutte le cose accadono secondo contesa e necessità » (22 B 8 0 DK). « Contesa fpolemos] è padre di tutte le cose, di tutte è re: alcuni dimostrò dei e altri uomini, alcuni fece schiavi e altri liberi » (22 B 53 DK). Di tutte le affermazioni di Eraclito queste sono probabilmente le più provocatorie10• In questo caso, soprattutto nel secondo testo, il primo re­ ferente polemico è Omero, che a più riprese condanna il conflitto (Achil-

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le in Iliade XVI I I 1 0 7 ), consapevole che questo è il destino comune della guerra: il vincitore di oggi sarà lo sconfitto di domani; «Ares è comune [xynos] . e chi uccide viene ucciso » (Il. XVI I I 3 0 1 , trad. Calzecchi Onesti, 1 9 9 0, dove Ettore predice la propria morte). Eraclito rovescia il sentire tradizionale, dando un nuovo significato al termine xynos, che va inteso nel senso di "universale": xynos è ciò che pervade tutto, che tutto unifica (e non ciò che divide : oggi muoio io, domani tu). Xynos, del resto, come abbiamo osservato in precedenza è usato nel fr. 2 in riferimento al logos. Il logos xynos della realtà, il senso universale delle cose di cui il discorso di Eraclito è portavoce verace, è il conflitto. Così facendo, Eraclito attri­ buisce un senso più profondo alla guerra, che diventa un'altra immagine del reciproco trasformarsi delle cose e dell'unità dei contrari. La realtà è la guerra, il conflitto degli opposti, perché se non ci fosse questo conflitto non ci sarebbe neppure la realtà. In questo senso si spiega l'affermazione secondo cui il conflitto è padre - che è poi un'altra frecciata polemica contro Omero in cui è Zeus a essere padre di tutte le cose - e l' identifica­ zione tra discordia (eris) e giustizia - con una critica all'altro grande ma­ estro Esiodo, celebre per la sua condanna della discordia, ma che secondo Eraclito « non conosce neppure il giorno e la notte; sono infatti una cosa sola » ( 2 2 B 57 DK). Come abbiamo precedentemente osservato, un aspetto importan­ te della riflessione di Eraclito fu la polemica contro gli altri "maestri di verità": abbiamo appena visto alcuni esempi riguardanti i due grandi po­ eti educatori e ancora più interessante è il confronto con la tradizione dei pensatori naturalisti, rappresentata in particolare da Anassimandro e Pitagora. Una volta calata in questo contesto, la riflessione di Eraclito guadagna ulteriormente in profondità, presentandosi come un tentativo di portare le tesi di questi interlocutori alle estreme conseguenze fino a rovesciarle. Naturalmente non si deve con questo pensare a un Eraclito impegnato nello stesso tipo di ricerche di un Talete o di un Anassimene": affermazioni come quelle secondo cui il sole « ha la larghezza di un piede umano» ( 2 2 B 3 DK) e «è nuovo ogni giorno» ( 2 2 B 6 DK) bastereb­ bero a mostrare che Eraclito non sembrava nutrire grande fiducia nelle speculazioni cosmologiche dei suoi predecessori; niente sembra del resto suggerire che anche egli si cimentò nel tentativo di ricostruire i vari pas­ saggi che hanno scandito la storia dell'universo da una fase primordiale ai tempi presenti - uno dei problemi che maggiormente interessarono inve­ ce i pensatori di Mileto. Quanto alle numerose allusioni al fuoco, non si

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tratta, come pure aveva creduto Aristotele, del contributo d i Eraclito al dibattito sul principio primo (arche) della realtà"; più probabilmente il fuoco, che rimane comunque un elemento importante del sistema eracli­ teo, era sfruttato anche per la sua capacità evocativa, come simbolo della dinamicità dell'universo'3• Il confronto diventa invece pregnante a un li­ vello più generale, dove in questione è l' immagine complessiva del cosmo che i predecessori avevano elaborato - un' immagine che Eraclito riprende e presenta sotto una luce nuova. In effetti, è facile osservare che la descrizione dell'universo proposta da Eraclito non si discosta da quella dei suoi predecessori'4• A risultare vera­ mente nuova, rispetto ai predecessori presocratici, è la diversa valutazione che Eraclito propone di questo scontro tra opposti che regola la vita dell' u­ niverso. Di fatto anche un Anassimandro o un Pitagora avevano descritto la realtà come ciò che risultava dallo scontro degli elementi costituenti. Ma quello che costoro non avevano saputo comprendere, e i poeti con loro, era l' importanza di questo scontro, del conflitto. Si pensi ad esempio al celebre fr. 1 2 B 1 DK di Anassimandro (cfr. CAP. 4). Lì, l' idea è che la realtà esiste nonostante le prevaricazioni dei singoli elementi costituenti che pa­ gano di volta in volta il fio per la loro ingiustizia; non diversa era l'armonia pitagorica, secondo cui la realtà si costituiva nel momento in cui i principi dell'ordine davano forma a ciò che era indistinto (cfr. CAP. 6). Ma questo costituisce agli occhi di Eraclito una descrizione gravemente fuorviante della realtà, che esiste proprio perché c 'è il conflitto e non perché il conflit­ to è stato regolato. Ad Anassimandro, che aveva affermato che c 'è la guerra tra gli opposti e tuttavia un giusto ordine è preservato, Eraclito risponde spiegando che c 'è la guerra tra gli opposti e per questo un giusto ordine è preservato. Contro Esiodo e Anassimandro, non ha insomma senso dire che la giustizia regola il conflitto e la discordia: giustizia e discordia sono la stessa cosa e il conflitto è ciò che è comune ( 2 2 B 80 DK) . Insistendo su questo punto, Eraclito sembra così emanciparsi dal pro­ blema che aveva assillato i pensatori di Mileto, impegnati nella ricerca di un principio primo (arche) da cui tutto il resto proverrebbe. Nei Milesi, si pensi ancora ad Anassimandro, si registra una tensione costante tra la constatazione dell'ordine intrinseco della realtà e l'esigenza di postulare un' arche, da cui tutto deriva e su cui ricade in qualche modo la necessità di esercitare la giustizia; Eraclito risolve alla radice il problema negando l'esistenza di un principio primo provvisto di tali caratteristiche : il mondo si autoregola in conseguenza dell'ordine dei suoi cambiamenti ( cfr. Kahn,

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1979, p. 137; Graham, 2006, pp. 142-4 ) : « Quest'ordine universale, che per tutte le cose è il medesimo, non lo fece nessuno degli dei né degli uomini, ma sempre era ed è e sarà, fuoco sempre vivente, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne » ( 22 B 30 DK). Anche questo frammento è un beli'esempio della densità stilistica di Eraclito e della sua voglia di provocare. Nel mondo antico l idea di ordine (questo il senso di kosmos) era fatta dipendere da un intervento ordina­ tore : Agamennone è in Omero ordinatore di genti (kosmetor laon), e or­ dinatori per eccellenza sono proprio gli dei (visto che i Greci non hanno mai pensato a un dio che creasse il mondo dal nulla). Come può esserci allora un ordine senza ordinatore ? La frase di Eraclito fa propria la gran­ de scoperta dei pensatori di Mileto - l'ordine dell'universo è un ordine naturale, che si autoproduce - liberandosi allo stesso tempo dell'esigenza di trovare un primo principio. Come il fiume, così anche l'universo, la sua esistenza e la sua unità, dipende dal flusso ordinato ( « secondo misura » ) dei suoi costituenti, che rimangono complessivamente gli stessi ( 22 B 3 i a e 31b DK)11• Ironicamente, il cosmo esiste, eternamente, grazie a queste trasformazioni: « mutando permane » ( 22 B 84a DK). Eraclito è uno dei pochi presocratici ad aver elaborato una cosmologia senza cosmogonia, e il suo cosmo risulta il più stabile di tutti gli altri'6• Una meditazione esistenziale

A rendere affascinante la figura di Eraclito non è solo la capacità di ripren­ dere e disarticolare credenze tradizionali e ricerche scientifiche. Ancora più suggestiva è la capacità di sfruttare tutto ciò per una meditazione ori­ ginale sulla condizione originale dell'essere umano. Un lettore ellenistico di nome Diodato aveva osservato che il libro di Eraclito non riguarda tan­ to la natura delle cose (peri physeos) quanto il mondo degli uomini (peri politeias) (Diogene Laerzio IX 15 ) . L'affermazione è forse esagerata, ma rimane certo che Eraclito è interessato non soltanto a come le cose sono, ma anche (e forse soprattutto)'7 a come gli uomini reagiscono di fronte al mondo che li circonda. Un tema privilegiato dell' indagine di Eraclito, e un punto di mediazio­ ne tra speculazione cosmologica e meditazione esistenziale, è senza dubbio la psyche, lanima, un'altra nozione destinata a giocare un ruolo di primo piano nella storia della filosofia dei secoli successivi'8• Come tutto il resto,

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anche l'anima è parte della realtà materiale: in Eraclito, non diversamente dagli altri presocratici, vale l'assunto fisicalista e non si dà ancora una di­ stinzione netta tra ciò che è corporeo e ciò che è spirituale o intellettuale. Più precisamente l'anima consiste in una certa condizione della materia: è un'esalazione, un'evaporazione che corrisponde a uno stato intermedio tra il fuoco e l'acqua ( cfr. Betegh, 2007, pp. 3-32); e tanto più secca sarà tanto migliore sarà la sua qualità e dunque la sua capacità di vivere, agire e anche pensare (22 B 1 17-1 18 DK) . Nella misura in cui il fuoco costituisce l'aspetto materiale del logos ( Guthrie, 1962, p. 432 ) , si dà infatti anche una relazione tra quest 'ultimo e l'anima; fatta della stessa materia del cosmo, l'anima è in contatto con la realtà che la circonda. Diversamente da quan­ to si legge in Omero ( e probabilmente nei Milesi, cfr. Anassimene 13 B 2 DK; cfr. CAP. 4), l'anima non è soltanto il principio della vita, bensì anche il soggetto della conoscenza umana. Ma proprio perché parte di questo tutto, l'anima ne condivide anche il destino. Di norma la psyche è associata alla nozione di vita e non sono po­ chi i filosofi, da Pitagora a Platone e oltre, che cercheranno di difenderne l' immortalità. Diversa è invece la posizione di Eraclito, convinto che l' ap­ partenenza dell'anima al processo universale di trasformazione elementa­ re implica di necessità la sua mortalità: le singole vite non sono altro che configurazioni particolari del fuoco, in quanto tali destinate a dissolversi, la morte .non essendo altro che un aspetto della trasformazione continua cui è sottoposto il tutto; semmai, a permanere non saranno le singole ani­ me individuali, ma l'anima in quanto tale19• Ma non è in questa scoperta della mortalità la lezione ultima di Eracli­ to : la presa d'atto della mortalità prelude a una rinnovata considerazione della vita. Ancora una volta un aiuto arriva dall' immagine del fiume. In precedenza abbiamo già osservato che il fr. 22 B 12 DK si presta a una duplice lettura, a seconda che ci si concentri sul fiume o su chi nel fiume entrava. E se prima ci si è focalizzati sul fiume, adesso conviene concen­ trarsi sugli uomini, visto che la sofisticata costruzione della frase invita espressamente a prendere in considerazione entrambe le opzioniw. A prima vista, l'affermazione secondo cui per le stesse persone che entrano nei fiumi scorrono acque diverse, potrebbe sembrare banale ( Robinson, 1987, p. 84). Ma a uno sguardo più attento non è così, se solo si identifi­ cano il fiume e l'uomo ( come la struttura della frase invita a fare ) : come l' identità del fiume è garantita dallo scorrere delle acque, così l' identità di un uomo è garantita dal flusso delle sue esperienze". Il che verrebbe a

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significare che non bisogna commettere l'errore di pensare all' identità delle persone come se si trattasse di qualcosa di assoluto e indipendente - un errore che tutti tendono a compiere quando pensano a sé stessi e che nella polemica di Eraclito trova come bersaglio privilegiato Pitagora, convinto fautore dell' immortalità di un'anima individuale che rimane tale nel tempo a prescindere dai suoi cambiamenti,.. Tutto al contrario : noi siamo le esperienze che facciamo, nel senso che ciò che siamo, ciò che diveniamo, non può prescindere da ciò che ci capita e da come reagiamo di fronte a ciò che ci capita. Tutto questo è parte costituente della nostra anima. Il problema diven­ ta allora quello di trovare un modo per affrontare in maniera corretta gli eventi, ed è probabilmente questo l'obiettivo di Eraclito : offrire un aiuto, aiutare a comprendere e dunque mettere in condizione di sapersi con­ frontare con il mondo ( l'unica immortalità rimanendo quella della gloria tributata dai posteri, cfr. 22 B 24 DK e 29 DK)'3. In questo, Eraclito fa sua la sfida di tutta la filosofia, e cerca di rendere l'uomo padrone del suo destino : « il carattere per l'uomo il destino» (ethos anthropoi daimon: 22 B 119 DK). Come interpretare questa frase ? Arrivato a questo punto, il lettore non si stupirà di scoprire che la sentenza si presta a due letture specularmente divergenti. Ma in questo caso tutto induce a pensare che solo una delle due letture sia quella fatta propria da Eraclito, in opposizione ali' altra che riflette invece un punto di vista tradizionale. Un lettore greco contempo­ raneo di Eraclito avrebbe infatti inteso la frase nel senso di una negazione delle possibilità umane : facendo di daimon ( letteralmente "demone", nella traduzione "destino" ) il soggetto della frase si verrebbe ad affermare che è il demone, vale a dire il destino, ciò che non dipende da noi, il vero motore della nostra vita e dunque l'unico vero responsabile della possibilità di una vita felice. Cosa sarà di noi non dipende insomma da noi: questa era un' i­ dea diffusa nel mondo antico. Ma la lettura di Eraclito è in tutta probabilità quella opposta: è il ca­ rattere il nostro demone, il nostro destino. Siamo noi i responsabili di ciò che siamo e della vita che condurremo, dove "noi" non va inteso in senso astratto o assoluto : come appena osservato, quello che noi siamo dipende dalle esperienze che facciamo e da come le affrontiamo, perché è questo che forma il nostro carattere, la nostra persona. E la sfida di Eraclito è tutta qui: aiutarci a capire le cose per affrontarle correttamente e costruire così un "carattere" che sia demone di una vita davvero realizzata, e dunque fe-

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lice ( in greco : eudaimonia, letteralmente "buon demone" ) , nonostante i nostri limiti e la nostra mortalità ( cfr. Kahn, 1979, p. 261). In fondo, non si tratta della sfida di Eraclito soltanto, perché questa è la sfida di tutta la filosofia, come mostra una testimonianza del peripatetico Alessandro di Afrodisia sull'allievo di Platone, l'accademico Senocrate : « Se per ciascuno l'anima è il suo demone, come ritiene Senocrate, felice è chi ha una buona anima; ma è il saggio che ha un'anima buona; quindi il saggio è felice » (Alessandro di Afrodisia, In Top. 176 13 ss. = Senocrate, fr. 237 Isnardi Parente ; cfr. anche Democrito B 171 DK) . Altezzoso e solitario, Eraclito ha in realtà inaugurato un cammino che una numerosa compagnia avrebbe continuato a percorrere nei secoli a ve­ nire.

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Parmenide e gli "eleati" di Francesco Fronterotta

La "scuola" eleatica

Che sia esistito un movimento di pensiero unitario e riconoscibile dal pun­ to di vista dottrinario, o perfino una vera e propria scuola filosofica, ricon­ ducibile alla città di Elea, in Italia meridionale, è questione assai dubbia'. Platone per primo, nel Sofista ( 242d ) , evoca un Eleatikon ethnos, una "stir­ pe", o "famiglia", eleatica, chiamata in causa con lo scopo evidente di esal­ tare il pedigree intellettuale dello Straniero, appunto, di Elea, cui Platone affida, in quel dialogo, il ruolo principale nella discussione. La genealogia di questo ethnos, di cui Parmenide è considerato il rappresentante di mag­ gior rilievo, affonda le sue radici in un passato semileggendario, giacché esso « discende da Senofane e anche da più lontano » , e « racconta i suoi miti, secondo cui ciò che si indica con "tutto" è uno » ( 242d ) . Lasciando da parte lallusione, in realtà difficilmente decifrabile e forse dettata da un tentativo di autonobilitazione attraverso il riferimento all'antichità delle sue origini, ai "più lontani" esponenti del gruppo, precedenti perfino a Se­ nofane, dal passo del Sofista possono essere tratte due indicazioni, entram­ be da valutare con estrema prudenza: 1. la possibilita ( che resta incerta, giacché Platone non si esprime qui esplicitamente in tal senso ) di un rap­ porto "di scuolà' fra i pensatori chiamati in causa - Senofane e Parmenide in primo luogo, ma poi anche Zenone, che il Fedro ( 261d ) e il Parmenide ( 1 27b; 128a-e ) dicono allievo, paladino e amante di Parmenide, e Melisso, che il Teeteto ( 18oe; 183e ) associa a Parmenide come sostenitore della tesi dell'unità e dell' immobilità del tutto ; 2. il dato difatto ( che Platone pone come indubbio ) di un rapporto dottrinario fra questi pensatori, appunto accomunati da un'unica dottrina filosofica, monista e immobilista - di cui Senofane, Parmenide e Melisso sarebbero aperti partigiani, e Zenone sol­ tanto un indiretto difensore, come emerge dai passi citati, rispettivamente,

del Sofista, per Senofane e Parmenide, del Fedro e del Pannenide, per Par­ menide e Zenone, e del Teeteto, per Parmenide e Melisso. Ora, al di là dell' interpretazione delle tesi eleatiche da parte di Plato­ ne, e delle motivazioni storiche e filosofiche di quest 'ultimo nell 'approc­ cio al pensiero dei suoi predecessori, che rimangono completamente al di fuori degli obiettivi di questa presentazione, torneremo più avanti sulla valutazione dell'effettiva consistenza di tali dottrine e della loro possibi­ le omogeneità teorica, eventualmente nella forma monista e immobilista suggerita da Platone. Ciò di cui pare fin d'ora plausibile dubitare è la linea di una successione "scolastica" diretta fra i quattro membri della "fami­ glia" eleatica. Per quanto riguarda Senofane, originario di Colofone, in Io­ nia, già Aristotele esita a considerarlo maestro di Parmenide (Metaph. I 5 986b i.i. ) , mentre Diogene Laerzio fornisce indicazioni assai contrastanti: dapprima (1 15), sembra porlo come maestro di Parmenide, aggiungendo tuttavia in seguito ( ix 2.1 ) che questi non ha però aderito alla sua dottri­ na, essendo stato piuttosto vicino al pitagorico Aminia; altrove ( ix i.o ) , Diogene fa di Senofane un pensatore "isolato", cioè collocato al di fuori di ogni successione maestro-discepolo e, nonostante gli sforzi profusi da­ gli studiosi, privo di qualunque collegamento diretto con la città di Elea ( ix 18)' e dunque con Parmenide, dal quale lo separa perciò una significa­ tiva distanza geografica. D'altro canto, sulla base dei frammenti pervenu­ tici e delle testimonianze delle fonti antiche, è soprattutto l'appartenenza organica di Senofane allo schema dottrinario eleatico ad apparire assai discutibile, giacché la sua riflessione è essenzialmente rivolta alla divinità, cui egli conferisce gli attributi della totalità e dell'unità, tingendosi inoltre di tendenze scettiche almeno dal punto di vista della sua concezione della conoscenza accessibile agli uomini3. Anche per quanto riguarda Melisso, il più giovane rappresentante della "famiglia" eleatica, un semplice sguardo alle coordinate spazio-temporali solleva dubbi sulla possibilità di un suo rapporto di discepolato diret­ to con Parmenide o con Zenone : originario di Samo, all'altro capo del mondo greco, sarebbe nato, secondo Diogene Laerzio ( ix i.4 ) , intorno al 485 a.C., quando Parmenide avrebbe già avuto all' incirca sessant 'anni ( ix i.3 ) e Zenone circa vent'anni ( ix i.9 ) ; inoltre, lo stesso Diogene ne fa talo­ ra un allievo tanto di Parmenide quanto di Eraclito, in ogni caso non di Zenone ( i x i.4 ) , mentre altrove (1 14-15) non lo menziona in nessuna delle linee di sviluppo della riflessione antica, né di area ionica né di area italica. Fra l'altro, a Melisso è attribuito un ruolo politico importante, come am-

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miraglio della flotta di Sarno che, nel 441/ 440 a.C., inflisse una pesante sconfitta agli Ateniesi guidati da Pericle4, il che ne accentua il radicamento nell' Egeo orientale e rende ancor meno probabili eventuali contatti diretti con l' Italia meridionale ; a complicare ulteriormente il quadro cronologi­ co, vi è pure notizia, per quanto scarsamente credibile, di un rapporto di Melissa con Leucippo, padre dell'atomismo, che sarebbe stato suo disce­ polo1. Non rimangono allora che Parmenide e Zenone, i soli per i quali la nascita e la cronologia, attestati in modo sostanzialmente concorde dalle fonti antiche, consentono di accogliere l' ipotesi di un relazione diretta, se non di "scuolà' in senso proprio, certo di frequentazione assidua. Entram­ bi eleati e con una differenza di età di circa quarant 'anni (come emerge per esempio da Diogene Laerzio I X 23 e 29 ) , la tradizione li dice infatti strettamente legati per dottrina e arnicizia6• Abbandonata così l' immagine di una scuola filosofica eleatica a qua­ lunque titolo istituzionalizzata, come pure l' idea di una successione line­ are e continua fra i suoi principali esponenti, e lasciato da parte Senofane, di cui né la biografia né la riflessione sembrano favorire l'accostamento a questa corrente di pensiero, occorre esaminare se le informazioni dispo­ nibili giustifichino invece, per Parmenide e Zenone in primo luogo, e di seguito, eventualmente, per Melissa, la prospettiva teorica unitaria in cui, da Platone in poi, una significativa parte della tradizione antica e degli studi moderni tende a collocarli. Parmenide

Parmenide di Elea visse fra il VI e il v secolo a.C.; secondo Diogene Laerzio ( Ix 23 ) avrebbe raggiunto la sua maturità, che corrisponde nell'uso greco ai quarant'anni di età, nel corso della LXIX Olimpiade ( 504-501 ) , e sareb­ be quindi nato nel 544/ 541, dunque ali'epoca della fondazione stessa di Elea a opera dei cittadini di Focea, che avevano abbandonato la loro città, situata sulla costa ionica dell'Asia Minore, in seguito all'invasione persia­ na del 545. Non disponiamo di informazioni precise sulla sua vita, se non per il fatto che ebbe un importante ruolo politico nella sua città, di cui fu pure legislatore (cfr. Plutarco, Adv. Col. 1126a-b = 28 A 12 DK) . Platone, nel Parmenide ( 1 27a-b ) , racconta di un viaggio ad Atene di Parmenide, all'età di circa sessantacinque anni, accompagnato dall'allievo e amico Zenone, a sua volta quarantenne: i due Eleati avrebbero allora incontrato un Socrate

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giovane e discusso con lui. Questa testimonianza non può essere verificata e contraddice inoltre la cronologia di Parmenide attestata da Diogene Laer­ zio e generalmente accolta, perché fisserebbe la sua nascita trent'anni più tardi (Socrate, nato nel 470/ 469, avrebbe partecipato a questo incontro all'età di vent 'anni circa, cioè nel 450/ 449; ora, per poter avere sessantacin­ que anni a quella data, Parmenide dovrebbe essere nato nel 515/514). L'opera di Parmenide consisteva di un poema in esametri, il metro im­ postosi con la poesia epica, di cui la tradizione indiretta, ossia l' insieme di citazioni trasmesse da autori posteriori, ci ha conservato un certo numero di versi. Possediamo oggi circa centocinquanta versi, raggruppati in dician­ nove frammenti considerati autentici nell'edizione di Diels-Kranz (nella quale segue un piccolo numero di frammenti dubbi). Il poema parmeni­ deo si apre con un proemio, che ne introduce il progetto filosofico : un giovane, verosimilmente il poeta stesso, è guidato, su di un carro condotto da sagge cavalle lungo la via di una divinità, dalle figlie del Sole (vv 1-9 ), uscite dalla dimora della notte verso la luce ( vv 9-10), fino alle porte dei sentieri della notte e del giorno (v. u ) , cui sovrintende la Giustizia (v. 14). Per intercessione delle fanciulle divine, che pregano la Giustizia di apri­ re le porte (vv 15-17), il viaggio può proseguire fino all' incontro con una dea, lasciata innominata, che accoglie il giovane benignamente (vv 22-23), felicitandosi per il suo viaggio che, benché lontano dal cammino degli uo­ mini, è stato ispirato da diritto e giustizia (vv 24-28). La dea promette al giovane che gli insegnerà « ogni cosa » (v. 28), istruendolo innanzitutto sul « cuore della verità » (v. 29), poi sulle «opinioni dei mortali » (v. 30) che sono prive di verità, in modo che egli comprenda da dove tali opinioni provengano e perché possano assumere lapparenza del vero. Fin dal suo citatore, Sesto Empirico, e ancora nel dibattito critico attuale, sono state avanzate proposte assai diverse e contrastanti, di cui è impossibile trattare qui nei dettagli, per tentare di cogliere il significato del proemio, specie rispetto all'evidente difformità fra il linguaggio utilizzato, ricco di meta­ fore poetiche e mitologiche talora accostate alle forme della rivelazione divina o delle iniziazioni misteriche, e l'andatura argomentativa dei fram­ menti seguenti, che invece assumono a tratti un carattere propriamente dimostrativo. Basti ricordare che Sesto Empirico (Adv. Math. VII m-u4), nel citarlo, ne prospetta una lettura integralmente allegorica (influenzata da impegnativi elementi platonici) : il viaggio descritto corrisponderebbe infatti al percorso conoscitivo da compiere, dall'oscurità della percezio­ ne sensibile alla luce della ragione, attraverso una via che coincide con un .

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metodo filosofico capace di sottomettere le pulsioni irrazionali dell'anima (identificate con le cavalle) e di correggere le sensazioni (associate alle fi­ glie del Sole), per giungere alla conoscenza razionale (simboleggiata dalla Giustizia). Ora, anche senza assumerla in questa versione così radicale, un' interpretazione allegorica del proemio ha avuto non pochi sostenitori negli studi moderni, almeno nel senso più debole che il suo contenuto non va preso alla lettera, ma allude a un'esperienza di tipo diverso, che sia stata oppure no effettivamente compiuta da Parmenide e che sia oppure no ri­ petibile da parte di altri: in tal caso, prevale l' idea che Parmenide intenda comunque riferirsi, per via di metafora, a un'esperienza di tipo conoscitivo che, in termini generali, riproduce il passaggio dall' ignoranza (rappresen­ tata dall'oscurità, eventualmente ricondotta alla sensazione) alla cono­ scenza (rappresentata dalla luce, eventualmente ricondotta alla ragione)7• Una diversa linea di studi si è mossa invece alla ricerca delle fonti let­ terarie (epiche e liriche), religiose (orfico-pitagoriche) ed eventualmen­ te filosofiche (pitagoriche) del proemio, contribuendo con significativo successo a rendere via via più concreto l' insieme dei riferimenti e delle immagini in esso contenuti e così indebolendo progressivamente alla sua radice l' interpretazione allegorica8• Tale linea di ricerca ha condotto a pri­ vilegiare una comprensione letterale del proemio, secondo la quale quello descritto da Parmenide deve essere inteso come un viaggio effettivamente compiuto di cui occorre allora indagare il concreto percorso e le tappe. Questa interpretazione letterale, oggi prevalente, non esclude di per sé la presenza di elementi simbolici nel proemio, ma ne ridimensiona drastica­ mente la funzione, e mi sembra abbia assunto due forme distinte: secondo alcuni, Parmenide descriverebbe un viaggio che parte dalla terra e, attra­ verso la porta del cielo, giunge oltre i confini del mondo, nel cielo, dove il protagonista riceve dalla dea l' insegnamento della verità, concepita allora come contenuto trascendente di una rivelazione (alla maniera delle tavole della legge ricevute da Mosè direttamente dalla divinità sul monte Sinai), destinata a un personaggio d'eccezione, ma che può poi essere da questi comunicata a tutti gli uomini; mentre, secondo altri, si tratterebbe di un viaggio che conduce il giovane protagonista nell'Ade, dove, in sintonia con il modello omerico della visita di Ulisse alle anime dei morti, egli può acquisire conoscenze speciali e riservate a pochi, così accentuando i tratti iniziatici e misterici dell'esperienza narrata, forse da accostare alla tradi­ zione che riguarda Pitagora, che implica di conseguenza l' impossibilità, se non il divieto, di una sua divulgazione. Va detto tuttavia che, allo stato

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attuale delle nostre conoscenze, anche questa interpretazione letterale del proemio non appare del tutto convincente, perché neanche essa è in grado di spiegare esaustivamente i riferimenti che vi sono contenuti, né mi sem­ bra che sia stata finora suggerita una prova convincente in favore dell'una o dell'altra destinazione del viaggio del protagonista, in cielo o nell'Ade, nessuna delle quali rende conto in ultima analisi dello stile e degli argo­ menti della dottrina parmenidea quale emerge dai frammenti seguenti, che non pare avere molto in comune né con i contenuti di una rivelazione divina né tantomeno con le pratiche iniziatiche e misteriche�. Comunque sia di tutto ciò, nei trentadue versi del proemio, che ci è pervenuto nella sua interezza (28 B 1 DK), due parti del poema sono annunciate; si stima che i restanti centoventi versi conservati contengano più o meno i quattro quinti della prima parte del poema, mentre non rimangono della seconda parte che delle porzioni difficili da ripartire e situare con esattezza. Nella sua totalità, il poema di Parmenide doveva contare probabilmente da due­ cento a duecentocinquanta versi. Nella prima parte del poema (28 B 2-8 DK) 10, la dea dichiara al suo discepolo che vi sono soltanto due « vie » o «percorsi » , nel contesto della ricerca della verità, che risultino « concepibili » (hodoi mounai dizesios eisi noesai, fr. 2, 2). Il loro contenuto consiste, rispettivamente, nella semplice affermazione, quindi nella semplice negazione del verbo essere, espresso alla terza persona singolare del presente e senza un soggetto determinato : « è » ( estin) oppure « non è » ( ouk estin). Ciascuno di questi due termini è accompagnato da una precisazione modale : « è e non è possibile che non sia » (estin te kai hos ouk estin me einai, fr. 2, 3), il che impone che essere è necessario e, allo stesso tempo, che è impossibile non essere ; « non è ed è necessario che non sia » (ouk estin te kai hos chreon estin me einai, fr. 2, 5), il che impone che, se non essere è necessario, essere è impossibile. La precisa­ zione modale associata alla prima via di ricerca esplicita dunque la necessi­ tà del suo contenuto ed esclude il contenuto della seconda; la precisazione modale associata alla seconda via di ricerca esplicita anch'essa la necessità del suo contenuto ed esclude perciò il contenuto della prima. Ne segue evidentemente che le due vie sono in contraddizione fra loro e che è ine­ vitabile scegliere l'una o l'altra; e poiché la dea aggiunge immediatamente che la prima via di ricerca conduce alla verità ( fr. 2, 4), mentre la seconda non produce nessuna conoscenza ( fr. 2, 6), perché ciò che « non è » non può essere oggetto di conoscenza e di discorso (fr. 2, 7-8), non rimane da scegliere che la prima via di ricerca e seguirla con rigore".

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Si incontra così il primo, difficile problema nell' interpretazione del pensiero di Parmenide, perché i commentatori hanno tentato di sopperire all'assenza di un soggetto esplicito per il verbo essere nell'enunciazione della prima e della seconda via di ricerca ipotizzando uno o più soggetti sottintesi. Per la prima via: l'essere (o ciò che è), tutto ciò che è, ciò che è conoscibile (o pensabile), qualcosa, o basandosi su ciò che si trova nel seguito del poema ( «l'essere [ciò che è] è » , fr. 6, 1 ; l'essere è « tutto inte­ ro» , fr. 8, 5, 1 1, 22, 2 4 - 2 5 ; l'essere «è la stessa cosa che ciò che si pensa » , fr. 3 ) , ma che non è tuttavia esplicitato i n questo fr. 2 , oppure suggerendo la seguente correzione del v. 3 del fr. 2: he men hopos estin t, «la prima via che è qualcosa » , dunque correggendo la congiunzione T nel pronome indefinito t, congetturando così un t indeterminato come soggetto di estin. Simili ipotesi divengono ancora più problematiche nel caso della se­ conda via di ricerca, perché il soggetto di « non è » non può evidentemen­ te essere né l'essere o tutto ciò che è, perché si tratterebbe di un'afferma­ zione contraddittoria ed erronea, nella misura in cui tende a ricondurre la seconda via ( « non è » ) alla prima ( « è » , « essere » ) , né il non essere, perché si tratterebbe semplicemente, in tal caso, di ripetere due volte lo stesso concetto ( « non è » , « non essere » ) che la dea dichiara nel segui­ to immediato del fr. 2 come del tutto inconsistente (appare chiaro, del resto, che 1' affermazione « ciò che è conoscibile [o pensabile] non è » risulterebbe a maggior ragione incomprensibile). La soluzione che pare più ragionevolmente imporsi consiste perciò nel riconoscere che nessun soggetto è assegnato al verbo essere nelle due vie di ricerca nel fr. 2, e ciò, verosimilmente, in quanto Parmenide intende sottolineare a questo livello dell'analisi il carattere delle due vie, la necessità di essere e l' impossibilità di non essere, e la loro reciproca esclusività, e non l'eventuale soggetto che "è" e/o che "non è". Sarà solo più avanti che il ragionamento di Parmenide giungerà ad attribuire un soggetto alla prima via, nella forma dell' infinito sostantivato o del participio presente neutro del verbo essere (elvat, TÒ Mv, frr. 6, 1; 8, 3 2 ) , laddove nessun soggetto potrà essere assegnato alla seconda via di ricerca, giacché si tratta di una via impossibile, che non è di conse­ guenza suscettibile di nessuno sviluppo né della semplice esplicitazione di un soggetto che ne sia il protagonista". La medesima opposizione fra le due vie di ricerca si ritrova ancora nel seguito del discorso della dea: «è possibile essere, mentre non è possibile che sia ciò che non è nulla » (estin gar einai, meden d'ouk estin, fr. 6, 1 - 2 ) .

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Ne deriva nuovamente che, se non vi sono che due vie, di cui la seconda non conduce a nessuna conoscenza nella misura in cui si basa su un enun­ ciato ( « non è » ) che assume come proprio oggetto qualcosa di impossi­ bile (ciò che « non è » , ciò che « non è nulla » ) , non resta che intrapren­ dere la prima via, se si vuole giungere alla verità. Dal momento che sono contraddittorie, le due vie si rivelano infatti rigorosamente alternative e la scelta fra esse risulta necessariamente esclusiva, ciò che i mortali non com­ prendono in quanto, lasciandosi ingannare dai messaggi erronei e illusori dei sensi (frr. 6, 5-9; 7, 3-5), « non riescono a decidere » (akrita, fr. 6, 7) fra l'una e laltra e persistono a tentare di congiungerle, giudicando allo stesso tempo « essere e non essere come un' identica cosa e come una diversa » (to pelein te kai ouk einai tauton nenomistai kou tauton, fr. 6, 8-9 ), e a ripe­ tere l'affermazione che « sono delle cose che non sono » (einai me eonta, fr. 7, 1 ) : l'errore fondamentale dei mortali consiste allora nel fatto che essi non scelgono fra due vie o due affermazioni che sono inconciliabili, per­ ché, incapaci di cogliere il senso reale e l'estensione della loro opposizione, cercano senza sosta di coniugarle'3• Ma per quale ragione, se è necessario scegliere fra l'una o l'altra delle due vie di ricerca, occorre optare per la prima ( « è » ) ? Parmenide intende forse sostenere che la seconda via ( « non è » ) riguarda un oggetto (ciò che « non è » , ciò che « non è nulla » ) impossibile e puramente contraddit­ torio ? La dea si spiega a tale proposito nei frr. 3, 6, 7 e 8: «è la stessa cosa, infatti, che si pensa e che è» (to gar auto noein estin te kai einai, fr. 3); « bisogna dire e pensare che essere è, perché è possibile essere, mentre non è possibile che sia ciò che non è nulla » (chre to legein te noein t 'eon emme­ nai: esti gar einai, meden d'ouk estin, fr. 6, 1 - i. ) ; « è la stessa cosa il pensare e il pensiero che "è", giacché non troverai il pensare senza lessere nel quale esso è espresso» (tauton d'esti noein te kai houneken esti noema: ou gar aneu tou eontos, en ho pephatismenon estin, eureseis to noein, fr. 8, 34-36) 14• Al contrario, ciò che « non è » , o ciò che « non è nulla » , non può essere oggetto del pensiero e del discorso (fr. 2., 7-8), perché, trattandosi di un « qualcosa » di cui si afferma che « non è » , si giunge così a una formula contraddittoria che pone un soggetto (che « è » qualcosa) di cui si affer­ ma, in virtù del predicato che gli è attribuito, che « non è » ; in aggiunta, ciò che « non è » , appunto nella misura in cui « non è nulla » (fr. 6, i. ) , non è in nessun modo un essere che esiste e di cui si possa sostenere che è il con­ tenuto o l'oggetto di un pensiero o di un discorso. Ne segue che pensiero e

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discorso sono possibili soltanto di « ciò che è » , in quanto tale espressione implica un sintagma coerente che associa un soggetto (che « è » qualcosa) a un predicato, « è » , che lo conferma. Inoltre, « ciò che è » esiste e può dunque costituire l'oggetto o il contenuto di un pensiero e di un discorso. Pertanto, confondere « è » e « non è » , come avviene ai mortali che non colgono l'esclusività delle due vie di ricerca, e la conseguente necessità di scegliere la prima via, è innanzitutto logicamente impossibile, poiché uno dei due termini, semplicemente, « non è » ; in secondo luogo, perseveran­ do in questa associazione impossibile, i mortali finiscono per costruire un sapere solo apparente e privo di verità, precisamente nella misura in cui, se il suo contenuto non esiste, tale sapere non ha di fatto nessun conte­ nuto: l'origine dell'errore dei mortali, che fabbricano questo impossibile percorso misto, sono i sensi, di cui la dea denuncia le illusioni e gli inganni, come pure l'assenza di ragionamento, che sarebbe invece in condizione di svelare tale errore (frr. 6, 5-9 ; 7, 3 - 5 ) . Ora, la nozione stessa di un simile percorso misto, logicamente con­ traddittorio, che i mortali giungono (erroneamente) a produrre e tentano (illusoriamente) di percorrere, conduce a un secondo fondamentale pro­ blema nell' interpretazione del poema parmenideo, formulato nel modo più chiaro, in età moderna, da Karl Reinhardt: quante sono in realtà le vie di ricerca di cui parla Parmenide ? In effetti, a partire da una lettura del fr. 6, 3-5 basata su una fortunata congettura di Hermann Diels, Reinhardt ha ipotizzato che occorra ammettere, accanto alle prime due, una terza via di ricerca, che consisterebbe appunto nell' impossibile mescolanza che i mortali determinano quando, inconsapevoli del loro carattere alternati­ vo, confondono « è » e « non è » , e che sarebbe perciò la causa delle loro false opinioni. I versi 3 - 5 del fr. 6, come ci sono trasmessi da Simplicio, che li riporta verosimilmente con una lacuna (In Phys. 1 1 7 6-8 Diels), re­ citano così: « infatti, da questa prima via di ricerca < ... > , I e poi anche da quest'altra, che fabbricano i mortali che non sanno I nulla ... » . Diels (2003\ p. 1 5 3 ) ha proposto di colmare la lacuna al v. 3 con il verbo eirgo ( « io ti allontano » ) , il che indurrebbe a ritenere che, se vi sono due vie di ricerca che la dea qui esclude ( « infatti, da questa prima via di ricerca , I e poi anche da quest 'altra, che fabbricano i mortali che non sanno I nulla ... » ) , nessuna di esse può essere identificata con la prima via enunciata nel fr. 2, che va al contrario intrapresa, sicché le vie di ricerca non sarebbero più due soltanto, ma tre :

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- « è » , cioè la prima via del fr. 2, da adottare ; - « non è » , cioè la seconda via del fr. 2 di cui si farebbe nuovamente menzione nel fr. 6, 3, da respingere ; - « è e non è » , cioè appunto una terza via, ibrido prodotto dei mortali a partire dalle prime due, di cui il fr. 3, 4-5 affermerebbe che è anch'essa da respingere come la seconda11• Si può tuttavia osservare a questo proposito che l' interpretazione di Reinhardt si rivela assai discutibile. In primo luogo, sono state suggerite congetture alternative a quella proposta da Diels per colmare la lacuna del v. 3 del fr. 6, che porterebbero ad attribuire un significato sensibilmente diverso ai vv. 3-5 - ad esempio introducendo la seconda persona singo­ lare del futuro del verbo arxei ( « tu comincerai » ) : « infatti, da questa prima via di ricerca < tu comincerai> , I e poi anche da quest 'altra, che fabbricano i mortali che non sanno I nulla ... » , il che permetterebbe di intendere che la prima via dalla quale bisogna « cominciare » corrisponda alla prima via del fr. 2, mentre « quest 'altra, che fabbricano i mortali » , corrisponderebbe alla seconda via del fr. 216• Inoltre, non è affatto certo che la lacuna del v. 3 possa essere colmata con 1' inserzione di un unico termine a completare la proposizione, perché si potrebbe supporre qui un salto di un numero non precisabile di parole o di versi da parte del citato­ re del frammento, Simplicio, che può aver riunito porzioni fra loro non in sequenza continua nel testo originale in base ai suoi fini argomentativi. Infine, e soprattutto, non va dimenticato che, nel fr. 2, ossia nell'unico passo a noi pervenuto in cui si trovi un'esplicita e programmatica indi­ cazione delle vie di ricerca, la dea ne annuncia due soltanto e in nessun altro luogo del poema parmenideo viene apertamente introdotta una ter­ za via di ricerca. Muovendo da tale indubbia constatazione, e comunque sia della lacuna del v. 3 del fr. 6, è inevitabile dedurne che non vi sono che due vie di ricerca - « è » e « non è » - di cui il fr. 2, 2 spiega che sono le sole « concepibili » e che si escludono reciprocamente, il che rende im­ possibile ogni ipotesi di una terza via. Sono quindi i mortali, appunto in quanto non comprendono che, le due vie essendo fra loro alternative, bisogna scegliere l'una o l'altra, che tentano di conseguenza di percorrer­ le entrambe, così fabbricando di fatto un percorso misto (fr. 6, 5 - 9 ) che a sua volta, nella misura in cui dipende dall'errore che consiste nel non scegliere fra due vie inconciliabili, non si presenta come una via realmente « concepibile » , come le prime due, ma come un cammino semplicemen­ te apparente. Se ne deve concludere che, in relazione alle due vie di ricerca

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del fr. 2, il fr. 6, 3-5 si riferisce, se si accoglie la congettura di Diels, dappri­ ma alla seconda via del fr. 2, poi al cammino solo apparente prodotto dai mortali, oppure, se si accetta una congettura diversa da quella proposta da Diels o se si rifiuta di colmare la lacuna del v. 3, dapprima o alla prima o alla seconda via del fr. 2, poi al cammino solo apparente prodotto dai mortali'7• Per rafforzare la sua dimostrazione, la dea espone, nel fr. 8, i « segni» (semata, fr. 8, 2), o i criteri a un tempo ontologici e logici, che assicurano la coerenza della prima via di ricerca, con l'essere che ne costituisce il con­ tenuto, escludendo simmetricamente ogni forma e ogni possibilità di non essere e, con esso, ogni riferimento alla seconda via di ricerca: « ciò che è » non conosce n é generazione né corruzione, perché, se fosse generato, lo sarebbe a partire da ciò che « non è » ancora, mentre, se si corrompesse, darebbe luogo a ciò che « non è » piu ( fr. 8, 2-10 e 19-21)18; è inoltre uno, continuo e intero'9, giacché partizione e molteplicità introdurrebbero in esso il non essere nella forma di una distinzione fra le sue parti, se non fosse continuo o intero, o rispetto ad altro, se fosse più di uno - e ciò nella misura in cui, se « sono » , ciascuna parte dell'essere e ciascun essere, in quanto distinti, rispettivamente dalle altre parti dell'essere o dagli altri "es­ seri", « non sarebbero » le altri parti dell'essere o gli altri "esseri" ( fr. 8, 5-6, u-15 e 22-25) ; è pure immobile nello stesso luogo, senza principio né fine, perché, se si muovesse, subirebbe un mutamento della sua condizione e, se avesse principio o fine, non sarebbe completo e onnicomprensivo ( fr. 8, 26-33); è infine paragonabile a una sfera, ciò che ne sancisce l'equilibrio e il carattere di perfezione ( fr. 8, 42-49 ) . Ed è precisamente affidandosi a que­ sti « segni » , insiste la dea, che diviene possibile eliminare ogni eventuale riferimento al non essere e a ciò che « non è » , così evitando l'errore dei mortali (fr. 8, 3 8-41 ). Di tale errore, però, di cui è stata già diagnosticata la causa, è opportuno esaminare anche le implicazioni ed è appunto per questa ragione che, alla conclusione del fr. 8, 50-61 e nei pochi versi che ci rimangono della seconda parte del poema ( frr. 9-19, per circa trentacin­ que versi ) , la dea istruisce il suo discepolo sulle opinioni dei mortali, per completare la sua formazione e scongiurare il rischio che si lasci sovrastare e sviare dai tratti ingannevoli del sapere apparente, benché perfettamente « verosimile » (eoikota, fr. 8, 60 ) , che gli uomini diffondono. Il contenuto di queste opinioni, per quel che si può giudicare, prefigura una sorta di cosmogonia, che riconduce la nascita e la composizione di tutte le cose alla mescolanza di due principi opposti, la luce e l'oscurità

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(fr. 9 ), da cui provengono gli astri e l intero universo (frr. 10-11 e 14), in base a una necessità che presiede pure all'unione dei sessi, da cui derivano gli esseri viventi, maschi e femmine (frr. 12, 17 e 18). Il significato di questa parte del poema è stato oggetto di un ampio dibattito, fin dal!' antichità; il suo scopo era quello: - di una revisione polemica o di una vera e propria confutazione delle cosmogonie precedenti; - oppure di una dimostrazione del carattere solo illusorio di ogni cosmo­ gonia possibile ; in entrambi i casi, allora, alla luce dei « segni» dell'essere e della prima via di ricerca che la dea ha elencato nel fr. 8, che stabiliscono la condizione di radicale estraneità al vero dell'opinione umana che a essi sfugge ; - o infine della presentazione della sola cosmogonia che Parmenide con­ siderasse, se non propriamente fondata, almeno accettabile, ancora, even­ tualmente, in base ai « segni » dell'essere, questa volta utilizzati però alla maniera di un metodo critico e di analisi scientifica20 adatto a vagliare po­ sitivamente i dati di esperienza ?21 La risposta più plausibile a queste domande mi pare la seguente: ogni cosmogonia, quali che siano la sua origine e le sue fonti, possiede soltanto i tratti dell'opinione (doxas broteias, fr. 8, 5 1 ; kata doxan, fr. 19, 1) e non della verità, giacché si costruisce secondo i nomi che gli uomini, cioè i mortali soggetti all'errore denunciato dalla dea nella prima parte del poe­ ma, hanno introdotto (frr. 8, 53; 19, 3). Ciò sembrerebbe confermare al di là di ogni ragionevole dubbio lo scopo essenzialmente confutatorio della seconda parte del poema, che dà seguito ali' intento della dea di istruire il suo giovane discepolo compiutamente e sotto ogni profilo, perché non cada vittima delle illusioni e degli inganni che potrebbero confonderlo, come dichiarava già la conclusione del fr. 8, 60-61. Se le cose stanno in questi termini, non rimane che la prima via di ricer­ ca, collocata al cuore della prima parte del poema, a indicare l'unico per­ corso conoscitivamente corretto per giungere all'unico contenuto ogget­ tivamente coerente, ossia all'unico essere che, solo, sia dato pensare. Siamo ricondotti così nuovamente alle implicazioni del nesso fra pensare ed esse­ re che Parmenide pone alla base della sua teoria della verità (specie nei frr. 3; 6, 1-2; 8, 34-36), stabilendo che, da un lato, il pensiero esige un oggetto che "è" come proprio contenuto, perché soltanto un oggetto che "è" risulta pensabile, mentre, simmetricamente, non è possibile pensare ciò che "non è": mi pare insomma da privilegiare la tendenza interpretativa, del resto

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prevalente negli studi, che riconosce un contenuto proprio ed esclusivo del pensare e dell'essere della prima via di ricerca, che non si risolve perciò soltanto nella definizione di una serie di criteri puramente metodologici da applicare ai dati di esperienza". Ma l'affermazione del nesso fra pensa­ re ed essere resta in certa misura ambigua, finché non si tenti di precisa­ re quale concezione del pensare (noein) e dell'essere (einai) - potremmo dire : quale epistemologia e quale ontologia - sia ragionevole attribuire a Parmenide. In termini estremamente schematici, si può rilevare che, nella tradizione antica e moderna, sono state prospettate a tale proposito essen­ zialmente tre opzioni esegetiche, di cui mi limito a fornire le coordinate generali. 1 . Se il verbo noein allude a una forma di pensiero e conoscenza puramen­ te intellettuale, come un'apprensione immediata e intuitiva che prescinde dai sensi per cogliere l'essenza reale dei propri oggetti, l' einai che gli corri­ sponde come suo contenuto indicherà l'esistenza piena di ciò che sussiste oltre le apparenze sensibili, di ciò che, appunto, "è" veramente e al più alto grado. Questa interpretazione di Parmenide, formulata con chiarezza da Plotino (cfr. ad esempio Enn. v 1 10 8 1 7 ; v 9 s s 2 9 - 3 0 ) , presuppone quel caratteristico argomento ontologico, ampiamente utilizzato da Platone, che segna l'atto di nascita della metafisica classica: la presenza di una fa­ coltà puramente intellettuale che opera in esclusivo contatto con i propri oggetti rimanda all'esistenza di tali oggetti intelligibili e da essa a un tem­ po dipende. Non pochi commentatori, almeno a partire dall' influente let­ tura di Hegel, sono ancora oggi disposti ad accettare questa impegnativa ricostruzione della riflessione parmenidea. 2 . Se invece il verbo noein esprime una capacità di ragionamento discorsi­ vo, un'attitudine alla concettualizzazione tramite lo strumento linguisti­ co, l' einai che ne rappresenta il necessario contenuto significherà in primo luogo le funzioni logiche e verbali della copula, sicché il pensare si concre­ tizza in ultima analisi nell'articolazione di una proposizione, la cui verità dipende dalla connessione fra soggetto e predicato operata dall"'è" della copula"3• Con un lieve approfondimento dell'opzione esegetica 2, avre­ mo l'opzione 2 bis secondo la quale, se il noein è la capacità di costruire discorsivamente una proposizione vera, a tale capacità corrisponderà un significato dell'essere inteso come verità del suo contenuto. Pensare l'esse­ re significherà in tal caso conoscere ciò che è vero, donde l' impossibilità di pensare (e di dire) ciò che non è, ossia di conoscere ciò che non è vero"4• 3 . Se infine il noein conserva, in Parmenide, una certa prossimità alla

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gamma di significati che possiede nella lingua epica e nella letteratura presocratica ( "constatare'', "accorgersi", "realizzare� "riconoscere" ) •s, esso farà riferimento a una forma percettiva immediata che, pur senza marcare un'effettiva discontinuità rispetto all'attività dei sensi, va tuttavia al di là dei sensi e della loro unità operativa, almeno in quanto riesce a cogliere le cose che sono nel loro insieme, anche se e quando sono assenti, come presenti a sé stessa e senza modificarne la condizione e lo statuto"6• Fac­ ciamo un esempio : si può vedere il cielo nuvoloso, udire il soffio del vento, sentire al tatto il suo calore ed eventualmente coglierne l'odore, come pure avvertire il gusto delle gocce d'acqua della pioggia; queste singole perce­ zioni, o la loro unità, dipingono il quadro di una notte piovosa. Non è tuttavia la semplice somma delle percezioni a fornire la nozione dell'uni­ verso come totalità dei cieli e delle stelle o dell'atmosfera e dei fenomeni che essa ospita, perché occorre una capacità di generalizzazione del dato di esperienza che, pur senza trascendere l'ambito sensibile, ne restituisca una rappresentazione astratta o, appunto, generale : noein significa pertanto, in tale ottica, "generalizzare" i dati di esperienza"7• Ma nella misura in cui la totalità dell'universo o l'atmosfera non sono realtà al di là del mondo sensibile, o meta-jisiche, il loro essere (einai) sarà il semplice darsi al pen­ sare ( al noos) di ciò che gli è immediatamente presente: questo senso di einai si distingue dall'essere della copula, perché implica l'esistenza reale di qualcosa che sussiste davvero, ma anche dall'essere pieno che connota gli oggetti intelligibili, perché si tratta dell'esistenza ordinaria di ciò di cui si può constatare, semplicemente, che c 'e, dunque degli oggetti dell'esperien­ za comune di cui appunto Parmenide invita a determinare le condizioni di realtà e di pensabilità. Mi pare si tratti della condizione minimale di un'e­ pistemologia realista, secondo la quale, per pensare o concepire qualcosa, occorre che ci sia qualcosa che si dà al pensiero per essere pensato o conce­ pito, senza che sia però compiuto il passo che porta a separare il pensiero dai sensi, né tantomeno il passo che, nell'ambito dell'esame dei « segni » dell'essere nel fr. 8, porta a separare gli oggetti dei sensi dagli oggetti del pensiero, inaugurando così una prospettiva metafisica"8• L'esame dei frammenti di Parmenide e l'assenza in essi di un' indica­ zione esplicita in favore delle opzioni 1 e 2 suggeriscono di adottare l'op­ zione 3, che implica a mio avviso la lettura più verosimile da un punto di vista linguistico, storico e filosofico, nella misura in cui permette di rico­ noscere in Parmenide il pensatore presocratico che egli effettivamente fu, che ha riflettuto peri physeos e non, ad esempio, sulle forme intelligibili -

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o sull'essere o sull'uno in sé - pur dislocando la sua analisi dalla cono­ scenza della physis come tale alle condizioni omo-epistemologiche della sua pensabilità, la cui applicazione produce come oggetto di pensiero una realtà esente da generazione, corruzione e mutamento, da ogni forma di molteplicità e discontinuità, un ente esistente che rappresenta una versio­ ne astratta della physis nella sua totalità, cui corrisponde, nel noein, una facoltà di astrazione capace di oltrepassare i dati sensibili immediati e di operarne una sintesi concettuale unitaria e stabile19• A partire da questa conclusione diviene allora possibile segnalare almeno alcune delle tesi di Parmenide che hanno esercitato un' influenza considerevole sulla filosofia posteriore : - 1' indicazione, per quanto implicita, di un principio logico di non con­ traddizione, come premessa e risultato dell'opposizione esclusiva fra essere e non essere ; - la distinzione che ne segue fra essere e non essere, che diverrà la con­ dizione necessaria della costituzione di una scienza fisica e di una scienza metafisica, attraverso la distinzione fra la realtà piena dell'essere, oggetto e contenuto del pensiero e del discorso veri, e della non-realtà, o dell'appa­ renza, che dipende dalla mescolanza di essere e non essere ed è oggetto di un'opinione soltanto verosimile; - una forma di realismo logico ed epistemologico, che dà luogo a un'on­ tologia derivante dall'esigenza di una riflessione sugli esseri che rappresen­ tano gli oggetti del pensiero e del discorso. Non è difficile constatare come la riflessione posteriore, specie di Pla­ tone e di Aristotele, abbia assunto come termine di riferimento, da questi punti di vista, la filosofia di Parmenide. Pare altrettanto agevole rilevare come, alla luce dell' interpretazione proposta, la presentazione offerta da Platone e da Aristotele appaia almeno in parte unilaterale, perché proba­ bilmente dettata dall' impostazione teorica loro propria, specie rispetto a quei tratti monisti e immobilisti che, come ricordato all' inizio di queste pagine, Platone in particolare riconosce come caratteristici e distintivi della cosiddetta "famiglia" eleatica: non che, beninteso, Parmenide non enumeri, fra i « segni » dell'essere del fr. 8, anche l' immobilità ( fr. 8, 26, 29-30) e l'unità ( fr. 8, 6, ma cfr. supra, nota 19 ); a mio avviso, però, lungi dall'acquisire un ruolo primario, i « segni » dell' immobilità e dell'unità appartengono ali'essere e a ciò che è alla pari di tanti altri, sicché nulla rende immediatamente evidente 1' etichetta concettuale e storica del mo­ nismo come adeguata definizione del pensiero parmenideo.

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Zenone

Originario di Elea, Zenone avrebbe raggiunto la maturità, secondo Dioge­ ne Laerzio ( Ix 29 ) , nel corso della LXXIX Olimpiade ( 464-461 ) , e sarebbe nato perciò fra il 504 e il 501; avrebbe avuto dunque quarant 'anni circa meno di Parmenide, di cui fu discepolo. Le informazioni sulla sua vita sono scarse: Diogene Laerzio ( I x 26 ) riporta che fu un fiero avversario dei tiranni e che dovette sopportare per questo feroci torture e mutilazioni. Il viaggio che, secondo Platone (Parm. 127a-b ) , avrebbe compiuto con Par­ menide ad Atene, e in occasione del quale avrebbe incontrato un Socrate giovane, non è affatto certo. Nei dialoghi di Platone, Zenone è presenta­ to fondamentalmente come un sofista o come un erista, che insegnava ai suoi allievi, dietro compenso, a divenire « sapienti e illustri » (Alc. 1 119a) , ispirato nella sua attività e nella sua opera da un « desiderio di vittoria » (Parm. 128d ) ; la sua abilità consisteva soprattutto nell'attitudine a far apparire «la stessa cosa simile e dissimile, una e molteplice, in quiete e in movimento » (Phaedr. 261d ) , appunto alla maniera dell'arte retorica e dimostrativa propria dei sofisti. Di una simile abilità, Zenone doveva far uso nell'opera che gli è attribuita, il cui titolo era forse Disputel0: secondo Proclo (In Parm. I 694 23-26 = 29 A 15 DK) , si componeva di quaranta argomenti, che miravano a confutare gli avversari della dottrina di Parme­ nide, perché l'unico scopo di Zenone sarebbe stato di mostrare che coloro i quali sollevano obiezioni contro le tesi di Parmenide cadono a loro volta in contraddizioni ancora più assurde, come insiste a sottolineare Plato­ ne (Parm. 128c-d ) . Ora, è probabile che questa presentazione di Zenone sia piuttosto riduttiva, perché i quattro frammenti della sua opera che ci sono stati conservati, e più ancora le testimonianze sulla sua riflessione31, lasciano emergere argomenti assai sottili, che non appaiono fra l'altro tutti in relazione diretta con le tesi di Parmenide, ed è verosimilmente per tali spiccate capacità argomentative che Aristotele considerava Zenone « in­ ventore della dialettica » 3". Gli argomenti di Zenone, che avevano forma di antinomie, erano di­ retti, alcuni, contro l'esistenza della molteplicità, e ciò in relazione con l'aporia della divisibilità o dell' indivisibilità degli enti ( 29 B 1-3 D K )n, altri contro il movimento ( 29 B 4 DK) 34• Non è possibile procedere in questa sede a un esame dettagliato di ognuno di essi3', ma la nozione chiave loro sottesa è quella di infinito, o più esattamente di divisione all' infinito, applicata al caso della grandezza, dello spazio e del tempo. L'argomento

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contro l a molteplicità dice i n sintesi che, s e l a molteplicità esiste, sarà com­ posta di elementi che devono possedere, ciascuno, grandezza e spessore, sicché si troveranno ad avere una parte esterna rispetto a un'altra interna; ma quest 'ultima sarà dotata a sua volta di grandezza e spessore, e dunque composta anch'essa da una parte esterna rispetto a un'altra interna, e così via all' infinito: il che conduce all'assurda conseguenza che ciascun ele­ mento che compone la molteplicità, e la molteplicità come tale, essendo equivalente alla somma delle sue parti, sarà infinito in grandezza. D 'altra parte, se si sostenesse che la molteplicità e ciascun elemento che la compo­ ne non possiedono grandezza e spessore, e che sono quindi indivisibili, ne seguirebbe, con un paradosso altrettanto inaccettabile, che l'aggiunta di un qualunque elemento alla molteplicità di partenza non produrrebbe in essa nessun accrescimento, in modo che sarebbe priva di grandezza e per­ ciò non sarebbe affatto (frr. 1-2). Analogamente, il primo argomento con­ tro il movimento spiega, nella versione che ne riporta Aristotele (Phys. VI 9 239b 10-12 = 29 A 25 DK), che, per spostarsi dal punto di partenza fino al punto di arrivo di un percorso, un oggetto dovrà giungere prima in un punto intermedio di tale percorso, poi in un punto intermedio fra quest 'ultimo e il punto finale, e così via all' infinito se lo spazio è infini­ tamente divisibile, senza che riesca mai ad arrivare alla fine del percorso; ma se l'oggetto in questione non arriva alla fine del percorso, non si potrà affermare che si è mosso36• Il terzo argomento contro il movimento, detto della freccia, applica la medesima procedura al tempo : se si lancia una frec­ cia, essa resterà immobile nel corso del suo movimento, perché, essendo il tempo composto da una serie infinita di istanti, la freccia occuperà in ogni istante la stessa posizione nello spazio, senza poter quindi mai compiere il suo cammino infinito per giungere all'obiettivo, e dunque senza muoversi realmente (cfr. ancora Aristotele, Phys. VI 9 239b 30-32 = 29 A 27 DK). È agevole vedere come il concetto di divisione all' infinito della gran­ dezza, dello spazio e del tempo susciti, negli argomenti zenoniani, temi­ bili paradossi; se ne deduce che o si ammette che nessuna divisione della grandezza, dello spazio e del tempo è possibile, accettando di conseguenza che la molteplicità e il movimento non esistono, oppure si riconosce che grandezza, spazio e tempo sono divisibili, accettando di conseguenza che la molteplicità e il movimento, per esistere, implicano serie infinite di stati e di azioni a loro volta irriducibili a una grandezza, a uno spazio e a un tempo finiti. Ecco la sfida che, sul piano logico e argomentativo, Zenone lancia alla storia della filosofia e della scienza; e non è difficile constatare

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pure come ridimensionare il senso e lo scopo della sua attività alla semplice difesa del pensiero di Parmenide, che Zenone avrebbe perseguito attraver­ so la reductio ad absurdum dei suoi rivali, sostenitori della molteplicità e del movimento delle cose che sono - come, lo si è ricordato poco sopra, vuole soprattutto Platone -, rappresenti un' implausibile e in fin dei con­ ti inaccettabile diminutio. Va da sé che, così stando le cose, è altrettanto inverosimile seguire Platone nella collocazione di Zenone all' interno del­ la "famiglia" eleatica, se tale "famiglia" è contraddistinta essenzialmente dall'assunzione di una prospettiva monista e immobilista: non che Zeno­ ne non polemizzi, lo si è visto, contro l'ammissione della molteplicità e del movimento, ma ciò avviene senza dubbio nel contesto più ampio, e meto­ dologicamente più fecondo, di un esame, tanto dialetticamente accurato quanto logicamente paradossale, della questione dell' infinito e della sua estensione spazio-temporale. Melisso

Nativo dell' isola di Samo, nel mar Egeo, Melissa guidò la flotta vittoriosa contro gli Ateniesi nel 44I/ 440 a.C., il che porta a porre la sua nascita fra l' inizio del V secolo e il 484/ 481 (in base a Diogene Laerzio I X 24), facendone un contemporaneo di qualche anno più giovane di Zenone ; come già ricordato in precedenza, le fonti antiche lo dicono seguace di Parmenide, ma anche di Eraclito, e lo pongono pure in relazione con Leu­ cippo. Pare difficile ammettere che abbia intrattenuto rapporti diretti con Parmenide, anche se i frammenti della sua opera evidenziano un'esplici­ ta ripresa delle tesi di quest'ultimo. Di tale opera, il cui titolo era forse Sulla natura o Sull'essere (cfr. Simplicio, In Phys. 70 1 6 Diels ) , ci rimane una decina di frammenti; inoltre, una lunga testimonianza dello scritto pseudo-aristotelico De Melisso Xenophane Gorgia (capp. 1 - 2 = 30 A s D K ) ci informa nell' insieme sulla sua dottrinai7• Pur riprendendo la descrizione di «ciò che è » che emerge soprattutto dal fr. 8 DK di Parmenide, Melissa sembra averne riformato significativa­ mente le tesi su due aspetti fondamentalil8: l'essere è eterno nel tempo e infinito nello spazio (30 B 1-4 DK) e, come tale, è anche unico (30 B 5-6 DK) . Infatti, soltanto ciò che non ha limiti e confini nello spazio e nel tempo, ed è quindi infinito ed eterno, può essere davvero unico, perché, se fosse limitato o incontrasse dei confini nello spazio o nel tempo, lascerebbe

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libere porzioni di spazio e tempo per l'esistenza di qualcos'altro e non sa­ rebbe allora più unico : « se infatti 3, non sono in balia di un caos inspiegabile. Anzi, poiché die­ tro ogni evento e dietro il venire all'essere di ogni aggregato c 'è sempre un motivo, cioè più esattamente un qualche moto precedente, appare legitti­ mo andare a cercare con cautela la ragione, il logos o elemento esplicativo razionale che renda conto di tale situazione. Nel caso della formazione di ogni kosmos si tratta di quel vortice, che per gli atomisti deve essere identi­ ficato con la legge primaria e necessaria, fattore determinante della genesi delle cose. Il quadro che emerge è quello di una forma forte di meccani­ cismo e di determinismo, in cui la necessità sembra giocare, almeno nella fase successiva a quella pre-cosmica, un ruolo centrale, ineliminabile. Ana­ lizzando con cautela più di una testimonianza, appare tuttavia emergere un qualche spazio di legittima azione perfino per il caso, visto che soprat­ tutto Democrito « riserva ai fatti di sorte o di caso uno statuto specifico, all' interno del regime di spontaneità che regola l'universo e che esclude ogni intervento provvidenziale » (Morel, 2005, p. 3 5)'4• Psicologia ed epistemologia atomistiche

In un sistema che, con forte opzione riduzionistica, riconosce esistenza, e dunque valore di verità, unicamente agli atomi e al vuoto appare inevitabi­ le, se non si vuole cadere in grossolani errori di prospettiva, attendersi una spiegazione materialistica anche dei meccanismi psicologici e conoscitivi che caratterizzano la struttura degli esseri umani e la loro relazione con il mondo. Di fronte al crescente peso ontologico di una realtà come quella dell 'a­ nima, già esaltata in ambito orfico nonché da alcune dottrine pitagoriche e avviata a diventare assolutamente centrale non solo nella prospettiva so­ cratica ma anche e soprattutto nella riflessione platonica, i primi atomisti (e in questo caso le nostre testimonianze inclinano soprattutto verso De­ mocrito) non recedono di un passo dal loro radicale materialismo. Anche la psyche, infatti, al pari di ogni altro aggregato interno al nostro kosmos, è formata da atomi. Essi hanno tuttavia uno statuto speciale, essendo ca-

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ratterizzati come particolarmente piccoli, ignei, di forma sferica e dunque naturalmente adatti a produrre il movimento e a muoversi essi stessi, in modo rapido e facilmente onnipervasivo, per tutto il corpo senziente (cfr. 68 A lOI-105 DK e soprattutto Morel, 1996, pp. 136-54 ) . In modo diffe­ rente da quel che sarà teorizzato in ambito platonico o anche aristotelico e soprattutto in opposizione a quanto accadrà per la successiva tradizione atomistica di stampo epicureo e lucreziano, inoltre, Democrito rifiuta di distinguere parti diverse dell'anima. Da ciò derivano due corollari im­ portanti, ben attestati già da Aristotele (cfr. 68 A 101 DK, dal De anima; cfr. anche il testo di Aezio in 68 A 102 DK) : da una parte la conclusione per cui anima e intelletto sarebbero la stessa cosa e dall'altra, tramite una spiegazione naturalistica del fenomeno della respirazione, la convinzione secondo cui 1 'anima stessa presiederebbe a funzioni biologiche essenziali, prime fra tutte quelle di vita e morte (cfr. 6 8 A 10 6 D K, dal De respiratione aristotelico). Se non esiste una sfera a sé e privilegiata dell' intelletto, ma tutto deve essere ricondotto alla struttura materiale di un'unica realtà psicologica, an­ che il meccanismo del pensiero e della produzione di atti conoscitivi deve passare in primo luogo per una teoria percettiva altrettanto materialistica. Il pensare, insomma, diventa una forma di esperienza, garantita sul piano materialistico dalla nota dottrina atomistica degli eidola. Si tratta di effluvi di atomi o sottili pellicole atomiche che, staccandosi continuamente dai corpi aggregati, vanno a colpire gli organi di senso, attraversando 1' aria quale mezzo interposto e fissandosi in quelli che sono più omogeneamen­ te vicini, nella loro struttura altrettanto atomica, ali'oggetto da percepire'1• Grazie a questo meccanismo percettivo a base materialistica cogliamo dunque alcune qualità dei corpi a noi esterni, ma è proprio qui che sembra annidarsi una difficoltà all' interno del sistema atomistico. Le qualità di cui stiamo parlando nel caso della conoscenza sensibile appartengono al livello degli aggregati e non a quello (primario e fonda­ mentale) degli atomi e del vuoto, sottratti invece alla soglia della percezio­ ne. Tali qualità (come ad esempio il colore) sono piuttosto determinazioni "secondarie" dei corpi aggregati, soprattutto legate alle condizioni pecu­ liari dell'osservatore e dunque segnate da un' inevitabile dose di sogget­ tività, che mina alla base il loro presunto valore conoscitivo16• In questa direzione, del resto, sembra muoversi una serie di frammenti conservati da Sesto Empirico (cfr. 68 B 6-II DK) che sin dall'antichità sono stati sfrut­ tati per dipingere l' immagine di un Democrito "proto-scettico", impegna-

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to a negare attendibilità ai sensi e a ribadire una visione della conoscenza molto negativa, una sorta di rinuncia radicale alla verità, che dimorerebbe nel profondo di una sorta di pozzo irraggiungibile>7• La questione è molto delicata e ha dato luogo a una serie di dibattiti e di contrapposizioni criti­ che di cui è qui impossibile rendere conto in dettaglio. Alcuni elementi di chiarificazione vanno in ogni caso apportati, soprattutto nella direzione di una possibile conciliazione fra il ruolo riconosciuto da Democrito alla percezione sensibile e il piano di un'autentica forma di conoscenza, che si inserisca coerentemente nel più generale quadro materialistico del sistema atomistico antico. In primo luogo occorre fare chiarezza, una volta per tutte, sul presunto scetticismo di Democrito. Appare infatti davvero difficile, se non incredi­ bile, considerare scettico un pensatore che proprio in uno dei frammenti sestani appena ricordati ( 68 B 9 DK) afferma con forza totalmente dog­ matica di sapere benissimo quale sia la vera natura della realtà (ovvero: atomi e vuoto)'8• Dai passi sestani tratti dal I libro del Contro i logici, che andrebbero tuttavia contestualizzati all' interno di un ambito polemico ben circoscritto, teso unicamente ad analizzare le varie e conflittuali po­ sizioni dogmatiche in merito al problema del criterio di verità, sembra al massimo emergere un ridimensionamento della conoscenza sensibile. Come si legge in uno dei testi più importanti ( 68 B 11 DK), infatti, De­ mocrito avrebbe distinto due tipi di conoscenza. Quella affidata ai cin­ que sensi (vista, udito, odorato, gusto e tatto), incapace di cogliere con sicurezza il vero, viene giudicata « bastarda » e bollata con un aggettivo (skotie) che vale "avvolta nella tenebra': "tenebrosa"'9 e che perciò richiama subito l immagine dell'abisso di un approccio gnoseologico inaffidabile. Quella che si attua tramite la dianoia ("mente" o "intelletto"), al contrario, indicata come « genuina » (gnesie), può vantare piena credibilità nel suo essere in grado di fornire un giudizio di verità attendibile. Nel presentare e nel valutare questa netta distinzione di modalità conoscitive, comunque, Democrito sembra preoccuparsi anche, stando sempre al passo sestano, di differenziare gli oggetti cui esse si applicano. La conoscenza bastarda, infatti, si muove nell'ambito degli aggregati visibili, che risultano domi­ nabili, potremmo legittimamente integrare, sul piano dei meccanismi per­ cettivi garantiti dalla teoria degli eidola. Quella genuina, invece, separata o ben distinta dalla prima, entra in gioco proprio nel momento in cui i sensi tradizionalmente intesi non sono più in grado di spingersi verso ciò che è più piccolo, che si sottrae alla soglia della visibilità e della percezione.

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Il testo sestano presenta purtroppo qui un guasto, una probabile lacuna, e non consente quindi di acquisire ulteriori informazioni certe sul modo di funzionamento della conoscenza più pregiata. Se tuttavia accettiamo la ricostruzione di Diels, che arriva a proporre un' integrazione per attribuire alla conoscenza genuina il possesso di un organo più raffinato (organon [ ... ] leptoteron) per l'esercizio adeguato dell' intelletto'0, o se in ogni caso riteniamo che Democrito potesse qui alludere alla necessità di chiamare in causa uno strumento diverso dai sensi - e di nuovo non possiamo non pensare all' intelletto - per ottenere la conoscenza legittima di ciò che è più fine (leptoteron )' allora avremmo un quadro più chiaro e meno con­ traddittorio. Se infatti questo organo altro e più efficace ( « che svolge la funzione di un senso molto più raffinato» , Mansfeld, Primavesi, 2 0 1 1 , p. 646, ma che Sesto, alquanto sbrigativamente e piegando forse ai suoi interessi polemici l'originario intento democriteo, identifica, nella chiusa del passo, con il logos, da lui inteso come criterio di verità non solo superiore, ma opposto ai sensi) non può che essere l' intelletto, che cosa possiamo concluderne ? Coerentemente con quanto è stato già detto, cioè con I ' identificazione fra intelletto e anima e, ancora, richiamando la dimensione unicamente e radicalmente materiale di quest'ultima, dovremmo supporre che De­ mocrito stia qui proponendo, per la conoscenza delle realtà più piccole (piccolissime, sottratte alla vista e in generale alla percezione normale/ quotidiana), l'uso di uno strumento sicuramente più potente, ma fatto alla stessa maniera dei sensi, non ontologicamente altro o in qualsivoglia senso "ideale". Ciò vorrebbe insomma dire che il pensare altro non è che una forma particolare di percezione a base materiale, solamente molto più raffinata. Questo implicherebbe anche, tuttavia, accettare un' immagine di Democrito come un riduzionista coerente, forse ben accetto per alcu­ ne posizioni interne all'odierno dibattito sulle neuroscienze, ma di certo molto, molto radicale : qualsiasi elemento che ci circonda (perfino quelli intellettuali e/o emozionali) dovrebbe infatti essere ricondotto a una ma­ trice di carattere fisico-materiale. In tal caso, vi sarebbe sì una differenza di livelli conoscitivi, data an­ che dalla diversità degli oggetti sottoposti a indagine, ma si manterrebbe una sostanziale continuità fra le rispettive strutture e il conseguente lavoro svolto da una parte dalla sensazione, grazie alle immagini atomiche ricevu­ te dagli aggregati, e dall'altra dall'anima, materialisticamente intesa, grazie al contatto che solo essa può stabilire con i veri principi della realtà, atomi '.

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e vuoto. Si potrebbe inoltre tener conto di un altro passo sestano, che se­ gue immediatamente quello registrato in 68 B 11 DK: esso ( 68 A I I I DK), in continuità con un noto principio anassagoreo (opsis adelon ta phaino­ mena, ovvero "sguardo sulle cose oscure sono i fenomeni")3\ attribuisce a Democrito, come primo criterio di giudizio, quello secondo cui i fenome­ ni sarebbero ciò che consente di comprendere o, meglio, potremmo dire di gettare un ponte verso ciò che si sottrae all'evidenza e alla visibilità. Sarebbe allora più facile e meno oscura anche l' interpretazione di un testo molto discusso di Galeno ( 6 8 B 12.5 D K). In esso sembra infatti es­ sere rivendicata proprio questa forma di continuità, contro ogni minaccia di scetticismo verso lapporto dei sensi33: «Ben conscio di questo, anche Democrito, quando svaluta i dati del senso, dicendo : "opinione è il colore, opinione il dolce, opinione l'amaro, verità gli atomi e il vuoto", immagina poi che i sensi si rivolgano alla ragione [dianoia] con queste parole: "o misera ragione, tu, che attingi da noi tutte le tue prove, tenti di abbattere noi ? Il tuo successo significherebbe la tua rovina" » . Etica, teologia, politica e d economia atomistiche

Qualora si tenti di ricostruire in modo adeguato la riflessione etica dei pri­ mi atomisti (e in particolare di Democrito, visto il silenzio delle fonti su possibili teorie leucippee in proposito), ci si scontra con una difficoltà og­ gettiva, grave ma non per questo insormontabile. Tale aspetto della rifles­ sione democritea, infatti, ci è purtroppo giunto in maniera estremamente frammentaria, spezzettato, per così dire, in una serie di sentenze - spesso brevissime, comunque decontestualizzate, quasi sempre senza alcuna indi­ cazione delle opere da cui furono tratte - di difficile interpretazione e, so­ prattutto, di difficile collocazione. Tale peculiarità dei frammenti morali, unita anche allo strano silenzio di Aristotele e di altri peripatetici rispetto a questa sezione del pensiero democriteo (cfr. tuttavia Spinelli, 1989 ) , ha spinto molti interpreti a pronunciarsi contro lautenticità di tutto o della maggior parte del corpus etico democriteo, pur quantitativamente consi­ stente. Abbiamo infatti quasi 300 frammenti, conservati soprattutto tra le cosiddette Massime di Democrate (Demokratou gnomai: 68 B 35-115 DK), in modo ancor più rilevante da Stobeo ( 68 B 1 69-i.97 DK) e, in minor parte, da altre fonti, più o meno ostili34• Grazie a una serie di studi volti a riconoscere l importanza o meglio il genuino valore filosofico del materia-

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le democriteo, anche in virtù di un accurato confronto con le tesi etiche presocratiche, socratiche e platoniche35, la conclusione opposta è la più probabile. Tranne qualche rarissima eccezione, le massime di Democrito sono genuine, anche se, ovviamente, filtrate da mediazioni storiografiche e dossografiche di cui si deve tener conto nello sforzo di ricostruzione della genesi del suo corpus etico (e politico e perfino economico)36• Nonostante tali difficoltà legate ali' autenticità e alla corretta esegesi di brevi frammenti, da cui primafacie appare difficile trarre l' idea di un vero e proprio sistema etico37, è forse nondimeno legittimo tentare di individua­ re alcuni nuclei tematici centrali dell'etica democritea, provando anche a rispondere alla questione, sempre e ancora aperta, dell'eventuale nesso che la lega alla speculazione fisica atomistica. Volendo tenere insieme questi due nodi problematici, sullo sfondo di una soluzione che li contempli entrambi e che miri a schierarsi a favore di un legame fra teoria fisica e dottrina morale atomistica38, potremmo in­ nanzitutto chiederci: che cosa vuole dire dunque per un atomista come Democrito, coerentemente convinto della propria opzione radicalmente materialistica, essere felice ? Se accettiamo il modo in cui le fonti ci pre­ sentano la sua risposta, possiamo provare ad ammettere, pur con la mas­ sima cautela, un punto di partenza39: egli, benché senza laccuratezza e la precisione delle teorizzazioni che saranno successivamente proposte dalle filosofie ellenistiche, pare essere il primo a rendersi conto che se vogliamo parlare di etica dobbiamo fissare e individuare per ciascun soggetto morale un fine (un telos), ovvero qualcosa in vista di cui facciamo tutto il resto e tutto il resto viene fatto in vista di esso. Se di eudaimonia si vuole parlare, quindi, occorre in primo luogo ricordare che essa, così come il suo contra­ rio (l' infelicità o kakodaimonie), è possesso esclusivo dell'anima (cfr. 68 B 170 e 171 DK, nonché B 159 DK), e che si concretizza nel raggiungimento unicamente di valori davvero buoni e veri, universalmente validi (cfr. 68 B 69 DK). La felicità democritea, però, non può né deve essere caratterizzata come un concetto astratto o un atteggiamento quasi spirituale, che trava­ lica lorizzonte dato di un mondo atomisticamente organizzato. Il nostro essere ben indirizzati moralmente non può che coincidere con il modo corretto in cui noi siamo e sussistiamo sul piano fisico-materiale. Quando Democrito indica il fine in virtù di cui questa vita vale la pena di essere vissuta, egli si serve di più di un sostantivo, anche se in primo luogo egli sembra identificarlo con una sorta di specialissima condizione di ciò che più ha valore per noi, cioè dell'anima: essa deve godere di una

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solida tranquillità, ovvero di quella che in greco si chiama euthymie. Al di là della chiara sottolineatura della bontà di un simile stato, come mostra la presenza dell' iniziale eu, è con l'evocazione del thymos che entra in gioco la dimensione ampia e moralmente onnicomprensiva del "carattere", cioè della disposizione o diathesis di un' intera esistenza. Essere felici non rap­ presenta un evento occasionale, ma ha a che fare con la struttura comples­ siva del nostro essere, con il modo in cui noi siamo fatti e in cui ci poniamo rispetto al mondo40• Appare allora legittimo chiedersi: ma quando assumiamo nei confronti del mondo un atteggiamento eticamente in grado di condurci alla felicità ? La risposta di un atomista (e la soluzione che infatti propone Democrito) non ammette dubbi: quando la nostra costituzione fisica è talmente tanto ben costituita, talmente ben strutturata da non crearci alcun problema e da non essere soggetta ad alcun tipo di turbamento o angoscia o paura41• L' euthymie è quindi un fine che impegna il nostro essere in toto, è la realiz­ zazione atomisticamente garantita di un individuo che non può né deve sfuggire alla costituzione materiale che lo contraddistingue. Sono questi i tratti essenziali della dottrina democritea del fine, anch'essa legata, come nel caso del corretto atteggiamento da assumere sul piano epistemologico, all'uso buono del proprio intelletto (o noos), ovve­ ro, come già sappiamo, della propria anima intesa in tutta la forza della sua struttura fisica. In tal senso va interpretata quella euthymie, quello « stabile assetto dell'anima » , per dirla con Seneca (De tranquillitate animi II 3), quella positiva "bonaccia" interiore (cfr. l'uso dell'avverbio galenos, unito a eustathos in Diogene Laerzio IX 4 5 = 68 A 1 DK) cui più volte nei suoi frammenti Democrito si richiama e intorno a cui si deve far ruotare tut­ ta la sua riflessione morale. Benché molti dei suoi frammenti potrebbero essere citati, al fine di recuperare ulteriori particolari indispensabili alla ca­ ratterizzazione di questo basilare concetto, la presentazione più esaustiva del telos morale democriteo si trova probabilmente in 68 B 1 9 1 DK41• Qui la stabilità dell'anima viene esplicitamente connessa, sul piano generale e con allusione quasi matematizzante, ai concetti di misura (metriotes) e di simmetria (symmetrie). Qualunque situazione contrassegnata dall'eccesso e dal difetto non va bene, poiché in una simile condizione - di pleonexia sfrenata, potremmo aggiungere - si producono nell'anima movimenti di grande entità e difficilmente controllabili, al punto che essa, "sballottata" da una parte all'altra, viene a perdere la propria tranquillità43• L'anima della cui euthymie qui si parla è naturalmente fatta di atomi e dunque sta

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bene, salda e solida, se e solo se gli atomi che la compongono non schiz­ zano fra estremi opposti. Il fine morale da raggiungere si configura perciò come una necessaria fermezza fisica, da conquistare rimodulando la pro­ pria attitudine nei confronti dei valori comportamentali di riferimento ( cfr. anche 68 B 31 DK ) e da garantire dunque alla nostra anima ( mate­ riale ) , stabilizzandone gli atomi fino a far loro conquistare un equilibrio fisico-meccanico privo di movimenti eccessivi ( benché non assolutamente o quietisticamente privo di qualsiasi movimento ) . Ecco perché Democrito invita ad accontentarsi di quel che si ha, a non guardare o peggio invidiare chi ha di più, a mantenersi sempre nei limiti di un moderato coinvolgimento ( in primo luogo atomico, direi ) rispetto alle vicende che si muovono intorno a noi (cfr. anche 68 B 2u DK, nonché B 7 0 - 74 DK ) , pur senza rinunciare, come emerge da altri passi, a far valere alcune posizioni di fondamentale importanza e di notevole interesse filo­ sofico. Si pensi, in primo luogo, alla sua concezione dell'amicizia (philia), nuova e radicalmente altra rispetto alle visioni tradizionali precedenti, perché fondata sulla "identità del sentire" ( sulla homophrosyne celebrata in 68 B 186 DK ) che nasce da una scelta consapevole, da un accordo libe­ ro e sincero (cfr. 68 B 107 DK) , da un identico esercizio soggettivo della capacità dell' intelletto (cioè, ancora una volta, del noos) applicato alla de­ terminazione di ciò che realmente è utile per l'uomo. Tale utilitarismo, del resto, è di alto profilo, poiché si muove nella direzione di una sorta di "edonismo illuminato" capace di vagliare accuratamente i piaceri (visto che « una vita senza divertimenti è simile a una lunga strada senza alber­ ghi » : 68 B 230 DK; cfr. anche B 2 0 0 DK ) , distinguendo quelli elevati, che rientrano a pieno titolo nella categoria dell'utile e che fanno capo tutti alla sfera concettuale dell'anima o psyche, da quelli bassi e volgari, che lungi dall'arrecare utilità sono fonte solo di turbamento e quindi di irreparabile danno per il ben-essere (euesto, di nuovo ) equilibrato e misurato della no­ stra vita morale44• Non può inoltre essere trascurato l'atteggiamento di Democrito nei confronti della divinità, che appare distante tanto dalle posizioni ben più radicali di un Senofane quanto dalla successiva e più articolata teologia epicurea41• Pur avversando i miti dell'oltretomba, vere e proprie « favo­ le menzognere » improponibili alla luce della spiegazione materialistica dell'anima umana e dunque della sua inevitabile « dissoluzione » (68 B 2 9 7 DK ) 46, infatti, egli non sembra disconoscere alcune delle caratteristi-

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che tradizionalmente attribuite agli dei: ad esempio una grande longevità (che tuttavia non sembra essere intesa tout court come immortalità), un certo potere di intervento, di contatto con il mondo e perfino di previ­ sione nei confronti degli esseri umani, un loro probabile antropomorfi­ smo. Alla luce di tutto ciò, « si spiega quindi come gli antichi, ricevendo le rappresentazioni sensibili di questi esseri, immaginarono che ciò rappre­ sentasse la divinità, non esistendo altro dio fornito di natura immortale all' infuori di questi esseri » ( 68 B 166 DK)47• La visione che emerge dall' insieme dei frammenti etici democritei, lun­ gi dal poter essere trasformata in un mero o precettistico catalogo di buo­ ne intenzioni quasi moralistiche e muovendosi ben oltre il campo ristret­ to di un individualistico self-interest48, sembra avere consistenza e ragion d'essere se, e solo se, la pensiamo legata alla struttura fisica della psyche. Dobbiamo puntare a raggiungere una stabilità che è data dall'equilibrio e dal rispetto del limite, nel senso (delfico) di un saper conoscere noi stessi, i confini delle possibilità di azione che riguardano il nostro composto ato­ mico e che dalla sua buona condizione fisica dipendono (cfr. anche War­ ren, i,0 0 2, p. 54). In questo orizzonte vanno collocati anche i molti fram­ menti che, quasi socraticamente, sottolineano il valore di sanzione morale interiore e autonoma da riconoscere all'autocoscienza individuale, poiché « non ci si deve vergognare più dinanzi agli uomini che dinanzi a se stessi; e non si deve fare il male più facilmente quando nessuno verrà a saperlo che quando lo sapranno tutti; ma bisogna vergognarsi soprattutto dinan­ zi a se stessi ed imprimersi nell'anima questa norma, onde non far nulla di sconveniente » ( 68 B 264 DK)49• Un simile richiamo viene poi esteso, nella sua applicazione, anche al terreno della vita associata e alla dimen­ sione politica: l' interiorizzazione delle norme, che intende forse rispon­ dere in modo forte al dilemma posto dall'anello di Gige (Platone, Resp. 3 59c-36oc), supera ogni astratto contrasto fra nomos e physis50• Ciò che va garantito è il naturale benessere individuale e il buon funzionamento della comunità politica, esito finale di un processo (e, se si vuole, di un progres­ so) di incivilimento nato dalla necessità di soddisfare, grazie all'esperienza e in direzione dell'utilità, le necessità umane e le cui tappe sembrano essere ben chiare alla riflessione di Democrito1'. Contro ogni perniciosa e sedi­ ziosa forma di discordia intestina (o stasis)1\ egli è convinto che l'ottimo funzionamento della polis debba passare per una gestione affidata agli ele­ menti più preparati e più dotati di prestigio o capacità. Essi sono i "miglio­ ri" (kressones), così spesso menzionati in molti dei suoi frammenti, capaci

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di "congelare" la situazione politica, richiamando ogni membro della co­ munità al rispetto del proprio ruolo, anche grazie alla promozione di una sorta di "moderatismo economico" che possa costituire la base operativa in vista di un concreto accordo fra gli opposti interessi del "partito" dei ricchi e di quello dei poverill. Nonostante questa inclinazione verso una sorta di gestione politica elitaria, rispetto al quadro costituzionale la pre­ ferenza democritea sembra andare comunque al regime democratico (cfr. 68 B 251 DK), privato certamente di qualsiasi eccesso di radicalismo e forse addirittura temperato dall'embrionale apertura a una forma di "cosmopo­ litismo dei sapienti" (cfr. 68 B 247 DK). Il rispetto della legalità e la forza di una giustizia intesa come « il fare ciò che deve essere fatto » ( 68 B 256 DK) diventa allora una condizione essenziale, cui ci si appella spesso, senza tirarsi indietro di fronte alla necessità di salvaguardare il lavoro dei magi­ strati giusti e di proporre dure sanzioni nei confronti di quelli corrotti14• L' insieme di queste considerazioni consente a Democrito di mante­ nere un rapporto costante fra le varie parti del suo pensiero. Diventa in tal senso illuminante la conclusione del sopracitato fr. 191, dove troviamo un'esortazione, la cui validità spazia dall'ambito etico a quello politico : «E se tu effettivamente ti atterrai a questo modo di considerare le cose, vivrai con animo più tranquillo [ euthymoteron] e respingerai da te duran­ te la vita non poche funeste ispiratrici, come l invidia, lambizione e la malevolenza » . A chiudere il quadro di un'etica che non predica rassegna­ zione, ma impegno costante (e progressivo, come segnala la presenza del comparativo euthymoteron) a trasmutare i propri valori e profondo senso di responsabilità, può forse essere utile richiamare non solo il ruolo mo­ ralmente imprescindibile di una buona, cioè equilibrata, disposizione da garantire alla nostra struttura naturale (e naturalmente atomistica), ma anche la funzione di interazione dialettica che rispetto alla physis svolge il processo educativo11• La didache, ovvero lo sforzo educativo, infatti, « tra­ sforma l'uomo e trasformandolo ne costituisce la natura » ( 68 B 33 DK) : abbiamo qui una prova ulteriore, e forse decisiva16, come segnala con ine­ quivocabile chiarezza l'uso del verbo metarhysmein, che non si può com­ prendere letica democritea senza legarla a doppio filo alla sua concezione fisico-ontologica (cfr. anche 68 B 138-139 DK, nonché 197 e 266 DK). Proprio al processo educativo, infatti, è riconosciuta la capacità di avere un impatto sulla struttura materiale della nostra psyche, fino al punto di ripla­ smare, di dare una nuova configurazione, un nuovo rhysmos agli atomi che costituiscono la nostra natura.

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I sofisti di Mauro Bonazzi

Una filosofia delle apparenze, un'apparenza di filosofia

Nella storia non si può dire che i sofisti abbiano goduto di buona fama. Certo, Hegel li aveva definiti «i maestri della Grecia » , ma il suo giudizio lusinghiero risulta isolato': i sofisti, è stato giustamente osservato, sono in fondo dei "perdenti", non tanto perché non avessero riscosso successo al loro tempo, quanto perché fin da subito la loro immagine fu segnata da risvolti negativi, che permangono ancora oggi persino nei vocabolari. Da "esperto nel sapere" ( questo il significato originario di sophistes, formato a partire da sophos) il termine è venuto acquisendo connotazioni sempre più negative per designare chi argomenta in modo capzioso al solo fine di prevalere nelle discussioni: anche nei vocabolari è scritta dunque la storia di questo pregiudizio. Del resto, della necessità di fronteggiare pregiudi­ zi ostili erano consapevoli i sofisti stessi, che si trovarono spesso a dover giustificare la propria posizione. Afferma Protagora nel dialogo platonico che porta il suo nome : «Uno straniero che va in grandi città e vi convince i giovani migliori a lasciare le altre compagnie di familiari e di estranei, di anziani e di giovani, per frequentare soltanto lui, nella certezza che il suo insegnamento li renderà migliori, un uomo che agisce così deve essere cauto, perché suscita invidie, ostilità e insidie non irrilevanti. lo affermo che la tecnica sofistica è antica, ma che gli antichi che l'hanno esercitata, temendo l'avversione che essa può procurare, l'hanno mascherata » (Prot. 31 6c-d ) . Il senso di questa orgogliosa rivendicazione acquista tutta la sua importanza se messo in relazione con l'accusa principale che ha sempre gravato su di loro : quella di essere cattivi maestri, educatori d' immoralità. Le ragioni di una simile accusa non sono difficili da comprendere e hanno a che fare con la loro attività principale, l' insegnamento: i sofisti si presentano come educatori di professione, maestri che girano per la

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Grecia offrendo il loro sapere a chiunque sia disposto a pagarlo, « come prostituti » ( 79 u DK e 87 A 3 DK). Il loro statuto di stranieri e la richie­ sta di un compenso sono i motivi che continuamente alimentano il fuoco della polemica, ma a ben guardare le cause sono più profonde e riguardano problemi storici, sociali e culturali. Nella società arcaica, ma non solo, l'e­ ducazione è lo strumento che serve a trasmettere di padre in figlio valori e credenze secondo un meccanismo che si propone di riprodurre ordine e continuità. Con i sofisti questo circolo s' interrompe: l'estraneità sociale dei sofisti significa anche un' indipendenza rispetto alla comunità in cui essi si trovano di volta in volta a insegnare. Come stranieri, outsiders rispet­ to alle città che li ospitano, essi si sentono liberi di mettere in discussione, di sottoporre ad analisi valori che invece erano tradizionalmente sentiti come assoluti, immutabili e insindacabili. Con i sofisti si fa strada l' idea della relatività delle tradizioni, la consapevolezza che i valori di una società non sono i valori in senso assoluto, ma il prodotto storico di quella data società. Se a questo aggiungiamo anche che i sofisti, da parte loro, ricerca­ vano spesso la provocazione e il paradosso per motivi "promozionali� per richiamare l'attenzione dei potenziali clienti, non sarà difficile compren­ dere come in breve tempo si fece strada l'accusa, tanto scontata quanto banale, di provocare un sovvertimento di valori, di essere i responsabili della crisi che sconvolge Atene, e più in generale la Grecia, nella seconda metà del v secolo a.C. Di essere cattivi maestri, insomma. Le nuvole di Aristofane costituisce una testimonianza esemplare del modo in cui buona parte della città recepiva la loro lezione : cialtroni, spregiudicati, ipocriti e capziosi (cfr. l'elenco ai vv. 441-451 ) , i sofisti sono i maestri del « discorso peggiore » , del discorso che « con argomenti in­ giusti butta giù il discorso migliore » , che sa contraddire le leggi facendo trionfare l' ingiustizia (vv. 882-884 ) 1. Naturalmente questo insegnamento non riguarda problemi astratti, ma comporta conseguenze concrete, che toccano la società nel vivo - o meglio la sovvertono : la commedia termina infatti con il figlio che picchia il padre, il gesto che più di tutti testimonia il rovesciamento di valori (i sofisti del resto avevano trattato in modo pro­ vocatorio anche questo tema: cfr. Antifonte 87 B 44 DK). Così parla Fi­ dippide sempre nelle Nuvole prima di passare alle vie di fatto : «Dolce cosa è vivere con fatti nuovi e pieni d' intelligenza: si può disprezzare le leggi consuete [ ... ] . Perché a me non dovrebbe essere lecito istituire una nuova legge per il futuro ? Una legge per i figli di restituire le botte ai padri » (vv. 1399-1400 e 1423-1424; trad. Del Corno, 2005 ) . Questa è la morale

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dei sofisti, e non stupisce allora che Strepsiade, il povero protagonista della commedia, picchiato e sbeffeggiato dal figlio, decida alla fine di bruciare la scuola del "sofista" Socrate per metterne finalmente a tacere 1' insolenza e per impedirgli di corrompere i giovani. E come il contadino così il filoso­ fo : la reazione di Aristotele di fronte a questi problemi non sarebbe stata molto diversa: « coloro che si pongono la questione di sapere se bisogna o no onorare gli dei e amare i propri genitori hanno bisogno solo di una buona correzione » ( Top. 1 0 5 a 5-7 ) . Il problema però non riguarda soltanto la morale : l'accusa più grave è quella di non essere veri filosofi, di non promuovere un pensiero autentico, ma soltanto strategie argomentative tanto sottili quanto ingannevoli, « un ragionamento verbale senza solidità e senza serietà » , secondo la definizio­ ne di Lalande ( 2 0 1 0 ). Questo è il punto su cui Platone e Aristotele non si sarebbero stancati di insistere3• In linea generale almeno, è facile consta­ tare in entrambi un atteggiamento critico, che avrebbe poi condiziona­ to il giudizio di quanti sarebbero seguiti nei secoli. Nel Sofista platonico vengono proposte ben sei definizioni della sofistica - tutte negative (cfr. Soph. 79 2) : la sofistica assomiglia alla filosofia « come il lupo al cane » (23ia 6), ma in fondo non ne è altro che una contraffazione, un sapere che sembra tale ma che non è. In Aristotele il giudizio è ancora più drastico: se la filosofia è quella disciplina che si occupa dei principi primi delle cose, delle cause e dell'essere, è chiaro che per i sofisti, esperti di ragionamenti capziosi e cultori dell'apparenza fuggevole, non c 'è posto. La sofistica in­ fatti si occupa dell'accidente, e « Platone non faceva male a classificarla tra le attività che vertono intorno al non essere » (Aristotele, Metaph. VI 2 1026b 1 0 - 1 5 ; trad. Viano, 1 9 74 ) . Non è un caso dunque se la trattazione loro riservata è in genere circoscritta alle pagine degli scritti logici, qua­ li i Topici e le Confotazioni sofistiche, perché quello che davvero importa nel caso della sofistica è svelare i trucchetti eristici che sembrano rendere invincibili i loro ragionamenti tanto paradossali quanto banali. Una filo­ sofia delle apparenze, appunto, e dunque un'apparenza di filosofia, come ha osservato Barbara Cassin ( 1 9 9 5 ) prendendo spunto da un passo di Ari­ stotele ( « La sofistica è una sapienza apparente ma non reale, e il sofista è un trafficante di sapienza apparente, ma non reale » : Soph. el. 165a 21 = 79, 3 D K). Nel I libro della Metafisica, la prima storia della filosofia scritta in Occidente, dei sofisti non c 'è traccia. Date simili premesse non stupisce allora che questa fosse l'opinione corrente nei secoli successivi, quando, se possibile, il giudizio peggiorò

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ancora. Del resto, neppure la sostanziale rivalutazione di Hegel sarebbe riuscita a invertire completamente questa tendenza negativa: il filosofo te­ desco si era sì proposto di reintegrare la sofistica nella storia della filosofia, ma lo fece in modo tale da permettere ai suoi successori di rimanere at­ taccati ai vecchi pregiudizi. La sofistica rappresenta il momento della sog­ gettività: questo giudizio nel contesto idealistico che domina la filosofia tedesca ottocentesca non fa che confermare le accuse di deformare la verità e la realtà. La monumentale storia della filosofia di Eduard Zeller, che da un lato considera i sofisti degni di trattazione, ma dall'altro li critica per le conseguenze solipsistiche del loro insegnamento, è la testimonianza più significativa dell' influenza esercitata da Hegel4• Mentre questo era il giudizio in Germania, un primo momento di ri­ valutazione si ha in area inglese, in un mondo tradizionalmente in con­ correnza con l' idealismo tedesco, più sensibile alle istanze empiriste. Nel­ la History oJ Greece di George Grate, sodale di Jeremy Bentham e James Stuart Mill, per la prima volta leggiamo un'appassionata difesa dell' inse­ gnamento dei sofisti. Si trattava principalmente di una reazione contro l'accusa di immoralismo, che non entrava però nel merito delle più spi­ nose questioni filosofiche. Ma almeno era stato condotto a buon fine un primo tentativo per rendere ai sofisti quello che loro spettava: su questa linea, nel Novecento, avrebbero proseguito Havelock e Popper, che arri­ vò a parlare della « great generation » . Del resto, sul finire dell' Ottocento la linea inglese ormai non era più l'unica: il rapido sviluppo delle Alter­ tumswissenschaften ("scienze dell'antichità") aveva promosso una più ap­ profondita conoscenza del mondo antico, permettendo di fare chiarezza su molti equivoci, aprendo così la strada a una più meditata valutazione della sofistica anche dal punto di vista filosofico. In questa prospettiva una figura di rilievo è senza dubbio quella di Friedrich Nietzsche, che nella sua polemica violenta contro la metafisica e l'ontologia arrivò a rivaluta­ re proprio quegli aspetti del pensiero dei sofisti che per secoli erano stati oggetto di biasimo. L'apprezzamento per l' immediato, il contingente, il fuggevole; l'accettazione della realtà per quello che è senza la pretesa di trovarvi leggi assolute: questa è la verità di cui si sono fatti portatori i so­ fisti. «I sofisti non sono altro che dei realisti. [ ... ] La tattica del Grate per difendere i sofisti è sbagliata: vuole elevarli al grado di uomini d'onore e di vessilliferi della morale - ma il loro onore fu quello di non imbrogliare nessuno con le grandi parole e le grandi virtù » (La volonta di potenza 4 29 ). Come noto, la filosofia di Nietzsche, dopo un periodo di iniziale

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disinteresse, fu oggetto di violente polemiche e appassionate difese; ma intanto la sofistica si era finalmente emancipata, e rappresentava ormai un momento della storia antica degno di rilievo. Le ricerche portate avanti dagli studiosi nel xx secolo non hanno fatto altro che confermare I' im­ portanza del suo significato. Quante realtà ?

Un luogo comune della storiografia afferma che con i sofisti la filosofia cessa d' interessarsi alla realtà esterna per rivolgersi all'uomo. Come tutti i luoghi comuni, anche questo contiene una parte di verità. L' interesse per l'uomo - per i problemi etici e politici, per il linguaggio e per le tecniche argomentative - trae spunto da un'attenzione per la realtà che spesso pone i sofisti in rapporto con i più importanti pensatori che li avevano prece­ duti. La testimonianza più chiara è certamente quella di Gorgia, proba­ bilmente allievo di Empedocle, il cui Sul non essere o sulla natura allude polemicamente fin dal titolo alla scuola di Elea, e in particolare a uno degli allievi di Parmenide, Melisso, autore di un Sulla natura o Sull'essere. Del resto il riferimento alla physis, "natura� ha una portata ancora più gene­ rale e coinvolge implicitamente anche i restanti filosofi presocratici, che proprio nella physis avevano cercato, ognuno a modo proprio, il principio ultimo della realtà, di ciò che è. Nella stessa direzione procede anche Pro­ tagora, di cui le fonti conservano una polemica sull'essere e l'uno (80 B :z. DK ) , e che il comico Eupoli infatti irrideva come « fisico » esperto di fenomeni celesti (80 A I I DK) ; e ancora più significative, come vedremo, sono le dettagliate analisi che Antifonte dedica al concetto di physis, tanto quella dell'uomo quanto quella delle realtà che lo circondano (87 B 4 4 DK) . Nonostante lo scarso numero di frammenti, un interesse analogo per questi problemi si registra anche nel caso degli altri sofisti, da Prodico a Trasimaco a Ippia ai Discorsi duplici ( cfr. 8 4 B 3 DK; 85 A 9 DK; 86 A I I e 90, 8 DK ) . In linea generale, dunque, non è corretto sostenere che i sofisti non avrebbero coltivato interessi "scientifici", distinguendosi radicalmente dagli altri pensatori presocratici. Piuttosto, come è stato sottolineato, le polemiche e le discussioni dei sofisti contribuirono a diffondere e far cir­ colare in tutto il mondo greco, e in particolare ad Atene, le dottrine della scienza ionica e in parte magno-greca. Non meno vero però è che molto spesso le indagini dei sofisti si carat-

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terizzano anche per lo spirito polemico con cui essi si confrontano con i loro predecessori, in particolare Parmenide e la sua scuola: accanto alle argomentazioni polemiche di Gorgia sul non essere e di Protagora sull'es­ sere, si possono ricordare anche le tesi di Seniade, una figura purtroppo quasi sconosciuta, che negava radicalmente il principio fondamentale del­ la scuola di Elea - non è vero che dal nulla non può nascere nulla, perché « tutto ciò che nasce nasce dal non essere e tutto ciò che perisce perisce nel non essere » (81, 1 DK). In questo atteggiamento si constata la consa­ pevolezza, o quantomeno la pretesa, da parte dei sofisti di essere portatori di radicali novità1• Chiarire il senso di queste novità servirà a comprendere la posizione e l' importanza dei sofisti nel contesto storico-filosofico del loro tempo. I sofisti sembrano difendere una nuova concezione della realtà. Ma di quale concezione si tratta? Un aiuto di fondamentale importanza ci viene dalle testimonianze di Protagora e Gorgia ( senza per questo pretendere che le loro tesi valessero come dottrine di "scuolà' ) . Entrambi muovono da un' intuizione filosofica fondamentale, la consapevolezza di una frattura tra noi e la realtà, tra il soggetto e l'oggetto. Non c 'è alcuna garanzia di un rapporto certo con le realtà che ci circondano, ed è in questo senso che si comprende allora la novità dei sofisti rispetto ai predecessori. Parmenide aveva stabilito la piena convergenza di pensiero, parola e realtà, e così pure Eraclito aveva parlato di un intelletto comune a tutti, di un unico logos in grado di dire le cose così come sono. Per loro il problema era trovare il metodo giusto per avvicinarsi alle cose, dopodiché la verità, unica e incon­ trovertibile, si sarebbe mostrata in tutta la sua evidenza. Con i sofisti, que­ sta armonia di parola, pensiero e realtà si rompe e la sua ricomposizione diventa precaria o addirittura impossibile. I sofisti, ha osservato Enzo Paci, sono i filosofi di una realtà « ambigua » ( Paci, 1957, p. 12.6). La tesi più nota di Protagora è anche quella che ha suscitato le discus­ sioni più vivaci: «l'uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono come sono, di quelle che non sono come non sono » (8 0 B 1 DK). Se­ condo Platone, che nel Teeteto discute approfonditamente la filosofia di Protagora, la tesi dell"'uomo misura" ci riconduce in prima istanza a un ambito gnoseologico : ogni singolo uomo è giudice ultimo e inappellabile delle proprie esperienze conoscitive, per cui quello che appare a ciascuno tale è veramente per lui, e non è possibile, nel caso si crei un disaccordo, risolvere il conflitto tra le sensazioni di persone diverse. Così il vento sarà caldo per quelli a cui apparirà caldo, e freddo per quelli a cui apparirà

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freddo : tutte le sensazioni in quanto tali sono infallibili. Ovviamente, con questo non s' intende negare l'esistenza del mondo esterno : c 'è un vento, ma questo vento possiede qualità diverse, come l'essere caldo e l'essere freddo. La realtà non è unica, ma molteplice, complessa : non la Realtà as­ soluta che sta al di sotto della superficie, ma la realtà delle apparenze con­ flittuali che condizionano l'esperienza umana. Quello che viene messo in crisi allora non è lesistenza della realtà, ma la possibilità di conoscerla al di fuori di ciò che appare, di ciò che si manifesta a ciascuno di noi: la realtà è l' insieme di fenomeni che costituisce le nostre esperienze, e non invece quella chimera di cui sono in cerca metafisici e scienziati al di sotto della superficie delle apparenze conflittuali. E questo non è senza conseguenze in rapporto alla verità: se neppure la realtà è unica e assoluta, parlare di verità al singolare e in assoluto non ha senso. La molteplicità della realtà significa infatti che non esiste una verità assoluta e valida universalmente a cui ci si deve conformare. La verità non è oggettiva, ma soggettiva: la co­ noscenza accade nell'uomo, non fuori di lui, e dunque l'uomo, con tutti i suoi condizionamenti soggettivi, è l'unico vero strumento di misura per la verità; e la verità consiste proprio in questo, nel « rapporto dialettico con i fatti, con la realtà, che ogni singolo individuo instaura di volta in volta » (Casertano, 2004, p. 44). Fuori di ciò non esiste alcun criterio di riferimento superiore o assoluto : in questo senso in Protagora si leg­ ge una prima professione di relativismo6• Non a caso degli dei Protagora affermava di non sapere né se esistessero né se non esistessero : l'oscurità dell'argomento e la brevità della vita rendevano impossibile risolvere que­ sto problema (80 B 4 DK). Non meno significative sono le tre tesi che aprivano il trattato di Gor­ gia Sul non essere o sulla natura: 1. nulla esiste ; 2.. se anche esiste qualcosa non è comprensibile all'uomo ; 3. se anche è comprensibile, è incomuni­ cabile e inspiegabile agli altri. In passato si è spesso creduto che questa tesi tripartita non fosse altro che un gioco verbale, ma la situazione non è così semplice. Il ragionamento teso a dimostrare che nulla esiste prende le mosse da alcune coppie tradizionali di opposti (uno e molteplice, ge­ nerato e ingenerato, finito e infinito ecc.), mostrando che, sia attribuen­ do all'essere uno solo dei due attributi contrastanti sia attribuendoglieli entrambi, risultano comunque conseguenze assurde. Così, ad esempio, l'essere può essere o eterno, o generato, o eterno e generato insieme : ma se è eterno non ha principio e non avendo principio è illimitato, e dun­ que non è in nessun luogo ; e se non è in nessun luogo neppure è. D 'altro

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canto, non può neppure essere generato, perché in tal caso risulterebbe generato o da ciò che è o da ciò che non è: ma l'essere non può essere ge­ nerato da ciò che è perché ciò che è è, nel senso che ciò che è non può né divenire né trasformarsi in qualcos'altro; e neppure può essere generato da ciò che non è, perché ciò che non è non è e non può generare nulla (nihil ex nihilo). Infine, l'essere non può risultare neppure eterno e gene­ rato insieme, perché i due termini si escludono a vicenda: dunque l'essere non è né eterno né generato né eterno e generato insieme - l'essere non è. Ma dire che l'essere non è equivale a dire il contrario, ossia che niente è: e questa è appunto la prima tesi. Intendere la tesi tripartita di Gorgia come una manifestazione di "nichilismo" sarebbe tuttavia errato : il punto sa­ liente non è la negazione della realtà, ma la presa di consapevolezza della sua problematicità. Il senso della sua polemica si chiarisce ulteriormente nel seguito del suo ragionamento. Come già si accennava, l'obiettivo è la presunta identità tra essere (realtà), pensiero e linguaggio che stava alla base dell'eleatismo e che invece dopo Gorgia non può più essere sostenuta come se fosse un fatto pacifico : la corrispondenza tra l'essere e il pensiero non è garantita (è la seconda tesi: se anche esiste non è conoscibile), come testimonia il fatto che è possibile pensare anche ciò che non è (ad esempio cocchi che volano sul mare). E la difficoltà riguarda anche il linguaggio, perché il mezzo attraverso cui comunichiamo è la parola, che non è né può essere identificata con gli oggetti della realtà: in altre parole, non si comunicano le cose, ciò che è, ma il discorso che costruiamo su di esse, che è distinto dagli oggetti che sono fuori di noi (terza tesi: se è conoscibile non è comunicabile). Il discorso di Gorgia riflette dunque sul contrasto che separa la ragione umana (intesa come pensiero e come linguaggio : come logos) e l a realtà. Ovviamente, questa problematicità comporta anche che sia difficile, per non dire impossibile, costruire un rapporto stabile con il mondo che ci circonda. «Ed in questo consiste la drammaticità della posizione umana: non ci sono significati già dati, belli pronti, ma ognuno deve costruirseli con le proprie capacità nella diversità delle situazioni » (Casertano, 2004, p. 54). Scrive Gorgia: «le cose che vediamo non possiedono la natura che noi vogliamo, ma quella che a ciascuno tocca in sorte » (Hel. 82 B ua, 15 DK). Si tratta di dare significato alla realtà, e per fare questo l'uomo dispone di un solo strumento, la parola. Il problematico rapporto tra noi e la realtà si arricchisce dunque di un nuovo elemento, il linguaggio, la cui importanza proprio i sofisti sottolinearono per primi con forza.

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Il linguaggio : un mondo di parole

In una società dominata da assemblee e tribunali è chiaro che la capacità di ben parlare costituiva un vantaggio decisivo, e non stupisce allora che ad Atene, nel v secolo, il linguaggio fosse oggetto di studio e attenzione. La ri­ flessione dei sofisti fornì le basi teoriche a questo studio: con essi il problema del linguaggio acquista un ruolo centrale nel dibattito filosofico. Le testimo­ nianze in nostro possesso ci informano che i sofisti indagarono il problema del linguaggio in tutte le direzioni, con un'ampiezza e una competenza dav­ vero notevoli. Un primo campo di applicazione investiva problemi di carat­ tere grammaticale: lppia, ad esempio, si era interessato della correttezza delle lettere (86 A 12 DK), mentre Protagora avrebbe distinto per primo i generi del nome (maschile, femminile, neutro) e i modi del verbo (indicativo, con­ giuntivo, ottativo, imperativo), collegandoli a quattro tipi di discorso (pre­ ghiera, domanda, risposta, comando; 80 A 1 DK; A 24-27 DK). In generale, questo interesse per la correttezza dei nomi si fondava sulla convinzione di una naturalità delle parole, sulla possibilità di legare nomi e cose. Così, senza mancare della solita carica di provocazione, Protagora aveva cercato di cor­ reggere la grammatica: i femminili menis ("ira") e pelex ("elmo"), vuoi perché più adatti al mondo maschile vuoi sulla base di criteri morfologici, sarebbero dovuti essere maschili. Anche i numerosi neologismi coniati da Antifonte rispondono allo stesso obiettivo di esattezza, mentre Prodico era celebre e apprezzato per l'impegno con cui studiava sinonimi ed etimologie. Un'altra manifestazione dell' interesse riservato al linguaggio si ritrova nello studio della poesia, soprattutto la poesia omerica, che costituiva per i Greci il punto di riferimento del sistema dei valori. Nel dialogo platoni­ co a lui intitolato Protagora afferma che «per un uomo, la parte più im­ portante della sua educazione consiste nella capacità di capire la poesia » (Prot. 33 8e-339a). Molte testimonianze confermano in pieno la centralità che la poesia aveva nel pensiero dei sofisti (cfr. ad esempio Protagora 80 A 28-30; 25 DK; Ippia 86 A 11 DK; B 20 DK). Ma l' idea della correttezza dei nomi non riusciva comunque a garantire una conoscenza vera e definitiva della realtà, perché la realtà, come abbiamo visto, non era qualcosa di stabile e immutabile o di unico. Afferma Gorgia: «Certo, se grazie ai discorsi la verità dei fatti diventasse pura e chiara per gli ascoltatori, il giudizio sarebbe semplice [ ... ] . Ma visto che le cose non stanno così... » (82 B ua DK); il problema insomma non è più la verità. Ancora una volta è Protagora a chiarire la portata della sfida7• La tesi dell'uomo misura

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implica che tutte le apparenze sono vere e dunque, di conseguenza, che veri sono anche tutti i logoi. È chiaro che questa tesi presuppone una concezio­ ne particolare della realtà che ci circonda: il mondo dell'esperienza, il solo mondo che interessa ai sofisti, è caratterizzato dal fatto che le cose sono e non sono. E se il linguaggio deve adattarsi a questa realtà dovrà allora in qualche modo riprodurne anche la struttura mutevole, molteplice: «intorno a ogni fatto ci sono due logoi» (So B 6a DK). Il problema insomma non è dire l'u­ nica verità di una realtà unica e stabile, ma è fare in modo che il logos esprima correttamente (orthos) l'opinione che vuole esprimere. I discorsi non si di­ stinguono più in veri e falsi, ma in corretti e scorretti, esatti e inesatti. Anche la distinzione tra il discorso «più debole » e quello «più forte » acquista tutto il suo senso in questo contesto: il discorso migliore non è quello vero, ma quello logicamente e formalmente più corretto: dunque inconfutabile. Questo interesse per il logos in tutte le sue accezioni permette così di in­ dividuare un nuovo elemento comune ai sofisti. Ciò che in qualche modo unisce la loro riflessione e la loro produzione non è tanto la condivisione di alcune dottrine, ma l' impiego di una stessa metodologia, che sulla base di tecniche argomentative rigorose arriva spesso a sostenere tesi provoca­ torie e paradossali rispetto al sentire tradizionale del mondo greco : è il di­ scorso «più debole » che s' impone8• Tra tutte la tecnica più caratteristica è quella che procede per argomentazioni contrastanti, dove a ogni tesi o opinione ne viene opposta una contraria. Di nuovo, è facile immagina­ re come questo gusto per la provocazione potesse dare adito all'accusa di sovvertire i valori tradizionali, ma non si può fare a meno di osservare che proprio questo atteggiamento critico contribuì a promuovere un nuovo sguardo sulla realtà e i suoi problemi di cui avrebbero dovuto tenere conto anche i pensatori e gli scrittori dei secoli successivi. Se tale è l'importanza del linguaggio, diventano anche chiare le ragio­ ni dell' interesse per la retorica, l'arte di parlare bene, l'oggetto privilegiato dell' insegnamento dei sofisti. In genere, i sofisti sono considerati dalle fonti antiche in prima istanza come retori, maestri e autori di trattati di retorica. Tra tutti è Gorgia la personalità tenuta in più alta considerazione, quasi fosse il padre della retorica. Ma il suo contributo più importante non va ricercato nella codificazione di regole di una disciplina, la retorica, in via di costituzione, bensì nella giustificazione filosofica della retorica stessa: in assenza di una verità assoluta, quello che conta è la persuasione, che non è nelle cose, ma nelle parole. Al « maestro di verità » (Detienne, 1967) che ricerca le strutture profonde dell'essere si sostituisce il maestro di retorica,

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che insegna a usare le parole e il linguaggio per avere successo nel conses­ so umano. La parola non ha più il compito di descrivere la realtà con la mediazione della ragione, ma deve convincere. E può ottenere i suoi scopi perché, a dispetto della sua apparente inconsistenza, è potentissima: l' Enco­ mio di Elena rappresenta una delle prime analisi della potenza della parola, un phannakon dagli effetti ambigui ( il termine è traducibile come "medi­ cinale� ma anche come "veleno" o "filtro magico" ) , « un grande sovrano, che con un corpo piccolissimo e invisibile compie imprese massimamente divine » (82. B ua, 8 DK). La tesi di fondo dell'Encomio non è diversa da quella espressa nel trattato Sul non essere o sulla natura. La spaccatura che separa le parole dalle cose rende vano ogni discorso sulla verità intesa come conformità tra logos e realtà. Il che - giova ripeterlo ancora una volta - non conduce alla negazione della realtà esterna, ma alla consapevolezza della sua problematicità: gli uomini si trovano di fronte a una realtà indifferente a cui devono dare un significato con l'ausilio del solo logos, che a sua volta è sempre altro dalla realtà stessa. Esclusi dalla realtà, gli uomini non potran­ no fare altro che interpretarla, consapevoli che ogni interpretazione com­ porta sempre un'alterazione, una presa di posizione, o meglio, per usare le parole di Gorgia, un inganno (apate, che è altra cosa dal falso, pseudos ). Un inganno però che va coltivato perché è proprio l' inganno che ci permette di costruire una relazione con la realtà delle cose e con la realtà del nostro essere stesso: il logos non serve a raggiungere una verità universale, ma ad « arricchire il nostro universo, potenziando la nostra conoscenza, la nostra cultura, in una parola il nostro essere trasparenti a noi stessi, la nostra capa­ cità di darci le ragioni del nostro essere » ( Casertano, 2. 0 0 4 , p. 83). E tutto ciò avviene tramite il linguaggio, il modo per rapportarsi alle cose, il mezzo con cui si costruiscono i significati: il linguaggio appare allora davvero ciò che costituisce l'uomo. Si spiega di conseguenza l' importanza della retori­ ca, e anche di altri generi letterari come la tragedia, « Un inganno per cui chi inganna è più giusto di chi non inganna, e chi è ingannato è più saggio di chi non si lascia ingannare » (82. B 2.3 DK).

La città e l'uomo

Le lezioni dei sofisti trattavano numerose discipline, ma l'obiettivo dei giovani che li frequentavano era solo uno: prepararsi alla vita politica. La sofistica è, prima di tutto, un fatto politico, e non soltanto perché eserci-

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tandosi nella retorica i loro allievi ponevano le premesse per il successo nella competizione politica (che appunto su discorsi, dibattiti e assemblee era costruita)9• A Gomperz, che voleva ridurre la sofistica a retorica, si può obiettare che la retorica a sua volta dipendeva dalla politica. Ancora di più: la sofistica è il primo momento consapevole di teorizzazione del po­ litico in quanto tale, e delle sue condizioni logiche di possibilità. Il rifiuto di una verità unica, la scoperta della molteplicità del reale, la convinzione che il discorso non debba riprodurre le cose ma crearle sono le premesse per pensare il momento politico nella sua indipendenza e autonomia: «la presenza dell' Essere, l' immediatezza della Natura e l'evidenza di una pa­ rola che ha il compito di dirle adeguatamente, svaniscono insieme: il fisico che scopre la parola lascia spazio al politico che crea il discorso» (Cassio, 1 9 9 5 , p. 81). Il problema insomma non è riprodurre nella vita politica una verità assoluta cui tutti debbano adeguarsi, ma costruire un consenso che renda possibile la vita della polis. La costituzione del politico come catego­ ria autonoma e irriducibile al fisico, all'ontologico, al metafisico dipende strettamente proprio dalle tesi ontologiche dei sofisti, nella convinzione che tra realtà e soggetto c 'è una frattura: «per dirlo in modo ancora più provocante, la matrice della politica dei sofisti è il trattato Sul non essere» (Cassio, 1 9 9 5 , trad. it. p. 8 1 ) 10• Espresso nei termini del v secolo, il problema era quello d' insegnare l'arete, la virtù: « Socrate, sai dirmi: la virtù s' insegna ? oppure non s' in­ segna, ma la si acquisisce con la pratica ? oppure né la si pratica né la s' im­ para, ma si viene formando negli uomini per natura o in qualche altro modo ? » (Platone, Meno. 7oa). La traduzione abituale di arete con "virtù" rischia di oscurare l importanza del dibattito; con arete si intendono tutte le qualità che favorivano il successo di un uomo nella società: arete è una capacità prestazionale, che suscita l'ammirazione negli altri e porta van­ taggi anche materiali, giustificando la posizione di rilievo che si viene a occupare nella città. Come afferma Protagora nel dialogo platonico a lui dedicato, loggetto vero del suo insegnamento non sono la matematica, l'astronomia, la geometria o la musica, discipline che rischiano di rovinare i giovani e che possono servire al massimo come materiale propedeutico : « Oggetto del mio insegnamento è la capacità di prendere decisioni accor­ te tanto nelle faccende private - come amministrare nel modo migliore la propria casa - quanto in quelle pubbliche - come si possa essere più capaci a trattare gli affari dello stato con la parola e con l'azione » (Platone, Prot. 318d-e = 8 0 A 5 DK). In altre parole, l'arete politica (322e). Sia nel dialo-

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go di Platone sia nelle altre testimonianze", il dibattito sull' insegnabilità o meno dell' arete solleva una questione fondamentale per qualunque so­ cietà - se la partecipazione alla vita politica debba essere aperta a tutti o se invece sia preferibile restringerla a una cerchia ridotta di persone che per dono divino o ereditario possiedono queste capacità (evidentemente la posizione degli aristocratici). A prescindere dalle simpatie politiche dei singoli sofisti (del resto non sempre facilmente ricostruibili), è evidente che l'attualità di questo problema era vitale soprattutto ad Atene, dove la nuova esperienza democratica aveva posto al centro dell'attenzione ap­ punto la questione della partecipazione politica. Non è un caso allora che proprio ad Atene i sofisti abbiano suscitato il massimo interesse. E si capi­ sce anche, come osservavamo già prima, perché i gruppi più conservatori osteggiassero i sofisti con laccusa di sovvertire i valori tradizionali; I' arete era un dono di natura legato alla nobiltà di nascita che i giovani svilup­ pavano dentro di sé con l'esercizio e seguendo l'esempio dei padri: l' idea che potesse essere insegnata a pagamento a chiunque era un « anatema » ( Guthrie, 1971b, pp. 25 e 250-60 ) Ma a ben pensare - ed è in questo paradosso che si comprende tutta la ricchezza della sofistica - la sofistica è tanto "sovversiva" quanto "ortodossa� perché l'attacco alle credenze che si fondano sulla presunta esistenza di valori assoluti di cui la comunità si ritiene detentrice non è un attacco fine a sé stesso, ma mira alla creazione di una nuova ortodossia, di un nuovo consenso che possa essere condiviso da tutti i cittadini ( Cassin, 1995). u.

Physis e nomos, la realtà e la legge

Per ricostruire le dottrine politiche dei sofisti conviene concentrarsi sul­ la contrapposizione tra la realtà e la legge, tra physis e nomos, la coppia concettuale che meglio caratterizza il dibattito del v secolo, ad Atene ma non solo. Nel corso del v secolo a.C. tra i Greci si fa sempre più forte la consapevolezza che leggi, tradizioni e convenzioni (nomos) non facevano parte dell'ordine immutabile delle cose (physis, termine tradizionalmente tradotto con "natura'', ma che in questo contesto conviene tradurre con "realtà''). I sofisti approfondiscono questo contrasto in una prospettiva più spiccatamente filosofica. Mentre physis esprime il modo in cui le cose sono, la realtà così come essa è a prescindere dall' intervento dell'uomo, nomos indica ciò che dall'uomo dipende, ciò la cui validità è determinata dall'uo-

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mo e dalle sue decisioni, con un ventaglio di significati assai esteso : la leg­ ge, sia orale sia scritta, ma anche la tradizione, 1' abitudine, le convenzioni. I fatti e i valori, la realtà e la convenzione, la verità e 1 'opinione : il problema di fondo della sofistica è sempre il contrastato rapporto tra la realtà e l'uo­ mo, tra la realtà così come essa si presenta e il bisogno dell'uomo di dare un senso alla sua esperienza e alle cose che lo circondano. Nella contrapposi­ zione tra physis e nomos, una contrapposizione ritenuta esaustiva, si danno dunque le condizioni per affrontare la realtà, e parlarne. Anche se mancano accenni espliciti nelle scarse testimonianze super­ stiti, Protagora certamente sfruttò questa coppia concettuale (si noti che physis compare in 80 B 3 DK). La testimonianza più interessante è il mito che il sofista racconta nel Protagora platonico (So e I DK), delineando tre tappe nella storia dell'umanità: una prima in cui gli uomini rimango­ no senza le facoltà necessarie alla sopravvivenza per colpa dell' imperizia di Epimeteo ; una seconda in cui gli uomini, grazie al furto di Prometeo, cercano di sopravvivere con la sapienza tecnica, ma non riuscendo a unirsi cadono comunque preda degli altri animali; e una terza in cui gli uomini, successivamente all' intervento di Zeus, entrano finalmente in possesso tutti della tecnica politica che permette loro di associarsi e di fondare città in cui poter vivere e prosperare. La scansione cronologica del racconto di Protagora non deve però trarre in inganno : il mito non intende ripercorre­ re le tappe della civilizzazione dell'umanità, ma serve a individuare e circo­ scrivere alcune caratteristiche essenziali dell'umanità stessa; non di mito genetico dunque si tratta, ma di un mito di struttura13• Lo stato di natura in cui gli uomini si trovano a vivere dopo la creazione esprime infatti una situazione impossibile, e può essere inteso come un esempio controfattua­ le per dimostrare e contrario che l'uomo è animale essenzialmente politico, dove "politico" - costruito a partire da polis - è sinonimo di "sociale" o "comunitario": a differenza degli altri animali 1 'uomo non può prescindere dai suoi simili, non può vivere isolato, ma ha bisogno degli altri uomini. Non c 'è sopravvivenza fuori della comunità. Ecco perché la tecnica poli­ tica che permette agli uomini di associarsi e di vivere non può essere un dono riservato a pochi, ma deve essere un possesso comune: tutti gli uo­ mini hanno questa predisposizione politica e questo è il fondamento e la condizione di possibilità per il vivere associato e dunque per la vita umana. E d'altro canto, una simile predisposizione è realizzata solo all' interno di una comunità: uomo e cittadino sono due termini che si equivalgono14• Questa posizione si spiega chiaramente facendo ricorso alla coppia

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concettuale nomos!physis: per Protagora la physis dell'uomo, a differenza di quella degli altri animali, non è un qualcosa di dato da sempre e sempre uguale a sé stesso, ma si realizza pienamente solo nel nomos, che porta in atto la potenzialità specifica dell'uomo - la potenzialità politica. Mentre gli animali si comporteranno sempre allo stesso modo, l'uomo può deci­ dere cosa fare di sé, se ripiombare nella dinamica di violenza del mondo animale o se costruirsi un mondo di valori. Nomos - vale a dire : la realiz­ zazione della società politica - non contrasta dunque con physis, ma ne costituisce «l' inveramento » (Casertano, 1971, p. 124) e garantisce l'esi­ stenza degli individui. E ancora di più: nomos non è soltanto la garanzia di sopravvivenza, ma anche e soprattutto la condizione di possibilità perché gli uomini possano esplicare appieno le proprie potenzialità. L' individuo, ogni singolo uomo, è il prodotto della società e nella società si realizza: dunque la sua massima realizzazione dipende dall'esistenza di una comu­ nità ordinata. Di conseguenza si chiarisce anche il ruolo del sofista: il so­ fista, così come il politico e ogni buon cittadino, esercita una funzione fondamentale per la comunità, nella misura in cui stimola questa presa di coscienza collettiva, contribuendo in tal modo a un perfezionamento della comunità, che può e deve essere migliorata (cfr. Decleva Caizzi, 1999, p. 319 ). In altri termini, occorre che si promuova una riflessione critica sul­ le scelte della comunità: gli uomini stabiliscono insieme dei nomoi che permettono la sopravvivenza della comunità, e queste leggi valgono finché essi lo ritengano (Platone, Theaet. 1 67c 4-5 = 80 A 21a DK)11• Ma in assen­ za di criteri di riferimento validi in assoluto niente garantisce che i nomoi stabiliti siano davvero vantaggiosi, ossia contribuiscano davvero alla salva­ guardia e al progresso della comunità (Platone, Prot. 334a 3-c 5). Compito del sofista e di ogni cittadino è dunque quello di vigilare e di « fare sì che alla città appaia giusto ciò che è utile e non ciò che è dannoso» ( Theaet. 1 67c 2-4 = 8 0 A 21a DK). Come il medico, il sofista è capace di ristabilire per sé e per gli altri un rapporto più vantaggioso con le cose. Nella sua rap­ presentazione ideale la città si configura così come un apparato educativo permanente (Prot. 325c 5-326e 5) (cfr. Vegetti, 1989, p. 5 1 ) , e la legge, il no­ mos, viene a coincidere con l'utile del singolo e della comunità: rispettare e favorire i nomoi avvantaggia tutti perché salvaguarda la comunità: la teoria elaborata da Protagora appare così in grado di offrire una risposta a uno dei problemi principali su cui discute la filosofia politica, quello dell'ob­ bligazione, del perché bisogna obbedire alle leggi. Se la posizione di Protagora si caratterizza per il tentativo di trovare

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una conciliazione tra physis e nomos, gli altri sofisti tendono invece a sotto­ lineare l' insanabile contrasto che separa i due concetti: le loro tesi vanno considerate sullo sfondo della posizione protagorea, di cui costituiscono un rovesciamento polemico. Una prima testimonianza riguarda lppia: tutti gli uomini sono parenti, familiari, concittadini per natura e non per legge ; per natura infatti il simile è parente del simile, mentre la legge, ti­ ranna degli uomini, impone diversità e differenze (86 C 1 DK; cfr. anche B 17 DK). Purtroppo non è facile cogliere appieno tutte le implicazioni di questo passo, ma probabilmente è corretta l' interpretazione di quanti osservano che esso non va inteso come una prima dichiarazione dell'u­ guaglianza tra uomini, come se gli uomini fossero uguali per natura, ma diversi per colpa delle leggi. Il discorso di Ippia si rivolge a un gruppo di sapienti, la cui somiglianza dipende appunto dal loro essere tutti saggi, e non dal solo fatto che sono membri del genere umano: « ma, se si tratta di una reciproca attrazione fra uomini simili per natura in quanto saggi, ci troviamo di fronte non ad un'affermazione della parentela universale degli uomini tutti, ma ad una proiezione idealizzante dell'antico motivo aristocratico secondo cui il simile ama il suo simile senza limiti di confine cittadino e di leggi stabilite » (Isnardi Parente, 1975, pp. 9-10 ). Del resto, che il richiamo a physis contro nomos non comportasse automaticamente una difesa dell'uguaglianza degli uomini è testimoniato da un celebre per­ sonaggio platonico - forse realmente esistito, forse solo frutto della fanta­ sia di Platone - le cui idee però certamente riflettono l' insegnamento della sofistica: Callicle. L'umanità è naturalmente divisa in forti e deboli, men­ tre le leggi sono un' invenzione ingiusta dei deboli per cercare di arginare il giusto dominio dei più forti (Platone, Gorg. 482.c-484c; cfr. Gastaldi, i. o o o, pp. 85-105). Le critiche di Callicle implicano certamente un'opposizione contro Protagora, ma non costituiscono la linea di attacco più insidiosa. Rispetto a questo assalto frontale sono le tesi di Trasimaco e Antifonte ad appari­ re molto più sottili e interessanti. Nella Repubblica, Platone attribuisce a Trasimaco una definizione di giustizia che di fatto delegittima qualunque pretesa normativa del nomos: la giustizia « non è nient 'altro che l'utile del più forte » (85 B 6a DK)16• La forza di questa affermazione è data dal fatto che essa non contesta il pensiero tradizionale, ma ne smaschera le dinami­ che più profonde. La tesi che identificava legge e giustizia era saldamente radicata nella cultura del tempo : obiettivo di Trasimaco è mostrare che dietro a questo legame affiora una logica della forza, per cui si sanziona

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come giusto ciò che è utile alla stabilità del proprio potere. La giustizia è il prodotto della forza. La tesi di Trasimaco rovescia così anche Protagora e la sua idea di comunità: secondo Protagora, infatti, l'utile era il risultato che la comunità otteneva dalla sua politica di collaborazione; obiettivo di Trasimaco è mostrare invece che l'utile non è il risultato, ma il movente che determina le azioni politiche e che l'unica fondazione politica possi­ bile è quella della forza. Non è possibile dunque un' idea di comunità ar­ monica e coesa, perché la società non è altro che parti in lotta per il potere e il proprio utile'7• Se già con Trasimaco i nodi della posizione protagorea vengono al pettine, ancora più inquietanti sono le osservazioni di Anti­ fonte, che alla logica protagorea della comunità contrappone una logica dell' individuo (87 B 44 DK) . In Antifonte troviamo lanalisi più lucida del contrasto che separa physis e nomos. La natura è il luogo della necessità e dei bisogni primari di cui non si può fare a meno per vivere, ma questo non significa che essa vada intesa come la fonte di alcun valore o diritto : per natura gli uomini sareb­ bero tutti uguali ( «per natura in tutto tutti egualmente siamo fatti per essere e barbari e Greci » , 87 B 4 4 , fr. A 22-27 DK ) , ma questa uguaglianza determina una situazione potenzialmente conflittuale in cui tutti deside­ rano e vogliono le stesse cose. Data questa situazione, si potrebbe allora pensare che il nomos, le leggi, abbia un qualche valore, nella misura in cui servisse a disinnescare questo conflitto potenziale, e in questo si potrebbe vedere un primo accenno alla teoria del contratto sociale, una teoria in qualche modo rintracciabile anche in Protagora, Crizia e Licofrone'8• Ma alla prova dei fatti neppure questa proposta risulta soddisfacente, perché le leggi a ) non solo ci impediscono di perseguire i nostri bisogni primari, ma b) in realtà non sono neppure capaci di tutelare chi al loro imperio si piega. a ) Rispettando le leggi spesso si va contro i propri interessi naturali più immediati, subendo così un danno reale, perché le disposizioni della legge sono convenzionali e valgono soltanto in pubblico, mentre quelle della natura sono necessarie e non possono essere trasgredite senza subire una privazione. b) Per di più, il funzionamento concreto della società ri­ vela anche che non sempre le leggi sono in grado di tutelare chi le rispetta. L'esempio più significativo si ha nei tribunali: nei processi si concede pari opportunità ad accusa e difesa, a chi ha subito e a chi ha commesso l'of­ fesa, a chi rispetta e a chi viola la legge, e l'esito del processo dipende più dalla capacità di persuadere che dall'accertamento della verità; non meno discutibile è poi l istituto giuridico della testimonianza, perché chi testi-

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monia si espone a vendette di tipo personale (cioè mette a rischio i propri interessi) senza trarne alcun vantaggio. Più in generale ancora, il rispetto di valori tradizionali come la deferenza verso i genitori anche quando sono malvagi o il mantenimento della parola data risultano spesso « ostili alla natura » , e « comportano una sofferenza maggiore, essendone possibile una minore, e un piacere minore, essendone possibile uno maggiore » (87 B 4 4 , fr. B v 1 3- 2 5 DK). Analizzando la vita dell'uomo in società, Antifonte mostra che gli inte­ ressi di ciascuno sono sempre individuali prima che collettivi, riguardano l'uomo in quanto individuo e non in quanto cittadino. Il nomos, attraver­ so la sua impostazione astrattamente egualitaria, sancisce in realtà dise­ guaglianze e violenze che vanno contro la più genuina natura umana. Se rapportata alla verità di Protagora, la verità di Antifonte si distingue per la capacità di smontarne dall' interno i presupposti. Riportando all' interno della società il conflitto potenziale di tutti contro tutti che il sofista di Ab­ dera aveva esiliato in un impossibile stato di natura, Antifonte non sembra infatti scostarsi troppo dal suo predecessore. Come si è precedentemente osservato, il mito di Prometeo serviva infatti non tanto a delineare le tappe della civilizzazione quanto a evidenziare i tratti caratterizzanti della physis umana. Ed è proprio in ciò che la critica di Antifonte appare più incisiva: la diversa presentazione di Antifonte permette di far emergere un'altra im­ magine dell'uomo, in cui accanto alla dimensione legale e morale s' impone la componente animale e conflittuale che Protagora invece aveva troppo facilmente occultato. Di certo, secondo Antifonte, non è un'antropologia collaborativa quella che si ricava da un'osservazione attenta della realtà: se Protagora aveva analizzato l'uomo come "non ancora sociale" per mostra­ re che i suoi interessi sono eminentemente sociali, Antifonte analizza la vita dell'uomo in società per mostrare che i suoi interessi sono individuali e in fondo asociali - in altre parole, riguardano l'uomo in quanto indivi­ duo e non in quanto cittadino (Farrar, 1988, p. 1 1 7 ). Questa è la verità che Antifonte ricava da un'analisi imparziale della realtà. Un'ultima critica alla debolezza del nomos è infine quella di Crizia, sempre che il Sisifo vada attribuito a lui e non a Euripide : gli dei furono inventati da qualche uomo sapiente come instrumentum regni, per ovviare ai limiti della legge, che non è in grado di tenere a freno gli uomini. Anche Crizia, si può inoltre osservare, presuppone un'antropologia conflittuale non diversa da quella di Antifonte. Il tema della debolezza del nomos, che gli oratori spregiudicati possono insozzare a loro piacimento, ritorna poi

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altrove nei suoi frammenti (88 B 22 DK) e, come vedremo, non manca d' implicazioni politiche. Quanto agli dei, la razionalizzazione dei sofi­ sti investe ormai anche il concetto di divino: se Prodico negli dei vedeva degli uomini particolarmente importanti che erano stati deificati per le invenzioni con cui avevano contribuito al progresso dell'umanità, Crizia, sfruttando la coppia physis/nomos, ne mette in dubbio persino lesistenza, li degrada a prodotto del nomos, arrivando a infrangere la prima "legge non scritta", il rispetto degli dei. Nulla sfugge ali' analisi lucida e spregiudicata della realtà'9• L' interesse del dibattito su nomos e physis non ci permette solo di chia­ rire le diverse teorie politiche dei sofisti, ma ci aiuta anche a far emergere alcune costanti della loro riflessione, grazie a cui è possibile trattare alcune questioni più generali. Un primo elemento riguarda la centralità dell'uo­ mo: questo è il problema principale di cui s' interessano i sofisti, il proble­ ma intorno a cui vertono tutte le loro polemiche e discussioni. Del resto, questa non è una caratteristica della sola sofistica, ma di tutta l'epoca, dai medici agli storici, dai tragici agli scienziati, al punto che si potrebbe parla­ re del v secolo come dell'epoca che per prima elabora una "scienza dell 'uo­ mo". E discutere di antropologia, ricercare le costanti e i tratti caratteristici della natura umana, permette ancora una volta di sottolineare il motivo di fondo della sofistica: il tentativo di dare un senso all'esperienza umana rispetto alla realtà che la circonda, non soltanto da un punto di vista teore­ tico, ma anche in una prospettiva pratica, esistenziale. Senza ampliare il discorso, come pure andrebbe fatto, a un confronto con le ricerche delle altre discipline, soprattutto la medicina e la storia, in questa sede basterà rilevare che sono almeno due i modelli antropologici oggetto di discussione : da un lato l'antropologia "collaborativa" di Prota­ gora, in questo vero precursore di Aristotele, che dell'uomo sottolinea la dimensione politica e sociale, e dall'altro un'antropologia che continua a insistere sull' inestirpabilità delle componenti passionali e degli istinti di sopraffazione in polemica con Protagora ma anche con il razionalismo in­ tellettualista di Socrate1°. Come ha osservato Nestle (1948) a proposito di Crizia, i sofisti hanno sperimentato la profondità « abissale » della natura umana. La preferenza di una prospettiva rispetto all'altra comporta conseguen­ ze decisive anche dal punto di vista etico e politico. L'adesione al modello protagoreo significa anche il rispetto e l'obbedienza dei valori e delle leggi della città in cui ci si trova a vivere nella convinzione che linteresse della

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collettività coincide con il benessere del singolo. Di fatto questo non com­ porta automaticamente una limitazione alla propria felicità, come mostra anche il celebre apologo di Prodico (84 B 2 DK) , perché virtù, bene e pia­ cere non sono contrapposti: il problema è saper scegliere il piacere vero, che produce un vero godimento. Sul versante opposto, la crisi della polis significa anche una crisi delle scelte individuali: lattacco al nomos e I ' in­ sistenza sulla complessità dell'esperienza umana conducono a un rifiuto dell' idea che si debbano rispettare le regole della società in cui si vive se queste ostacolano il perseguimento del successo e della felicità. Chi rispet­ ta le leggi sacrificando le proprie passioni o i propri desideri, osserva Calli­ cle, è uno stupido che non merita la felicità•'. Con Callicle, Platone poteva anche radicalizzare le tesi al limite del paradosso, ma questa consapevolez­ za inquieta del rapporto che intercorre tra la legge e la morale da un lato, e la felicità e la realizzazione di sé dall'altro, è un problema che ritorna continuamente nelle pagine degli scrittori del v secolo, da Aristofane a Euripide a Tucidide e nei comportamenti disinibiti di personaggi quali Alcibiade o Crizia. Ed è di qui che dovrà ripartire Platone per rifondare le basi della politica.

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Socrate e i socratici minori di Franco Trabattoni

La vita di Socrate

Socrate nacque nel 470/ 469 a.C. da Sofronisco, scultore, e da Fenarete, che si dice facesse la levatrice (ma non è impossibile che questa informazione sia stata modellata sulla base di quanto Socrate dice di sé nel Teeteto platonico). Si sposò con Santippe, che una leggenda malevola (quasi certamente infon­ data) dipinge come una donna fastidiosa e bisbetica, da cui ebbe dei figli. Trascorse la sua vita ad Atene, in modeste condizioni economiche (ma non era indigente). Non è chiaro, anche se sembra poco probabile, se almeno all' inizio della sua formazione filosofica si sia accostato a studi di carattere naturalistico (lo stesso dicasi del suo supposto discepolato presso il filosofo presocratico Archelao ). Ma se anche fosse, è certo che li abbandonò molto presto, per dedicarsi esclusivamente a problemi di carattere morale. Fu ami­ co di alcuni personaggi molto influenti e discussi, come Crizia, Carmide e Alcibiade. Di lui inoltre sappiamo che servì coraggiosamente la sua patria come soldato semplice durante la guerra del Peloponneso, partecipando a tre campagne militari (che poi corrispondono anche agli unici viaggi da lui compiuti fuori da Atene) : l'assedio di Potidea (432-430), quando salvò la vita ad Alcibiade; la sconfitta di Delo, nel 424; la battaglia di Anfipoli, nel 422. Manifestò apertamente il suo dissenso sia contro il regime democra­ tico sia contro quello oligarchico, e corse per questo dei grossi rischi per­ sonali. Nel 406, vigente il regime democratico, fu l'unico, in assemblea, a opporsi alla proposta illegale di condannare collettivamente a morte i ge­ nerali colpevoli di non aver salvato i naufraghi in occasione della battaglia navale alle isole Arginuse. Due anni dopo, quando in seguito alla sconfitta nella guerra del Peloponneso governava ad Atene il regime filospartano dei cosiddetti "Trenta Tiranni", si rifiutò di obbedire all'ordine che gli fu im­ partito, insieme ad altri quattro cittadini, di arrestare illegalmente Leone

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di Salamina; e questa volta riuscì a farla franca solo perché il governo dei Trenta fu rovesciato poco dopo. Nel 3 9 9 fu accusato e processato con I' im­ putazione di corrompere i giovani e di introdurre nuove divinità in luogo di quelle tradizionali. Nonostante la sua strenua e dignitosa difesa, fu rico­ nosciuto colpevole e giustiziato mediante la cicuta. La "questione socratica"

Come tutti sanno, Socrate non scrisse nulla. In casi di questo genere la ricostruzione dell'effettivo pensiero di un filosofo deve dipendere da fonti indirette, e ciò necessariamente indebolisce l'oggettività e la precisione del risultato. Ma per quanto riguarda Socrate questo problema è gravato da alcune circostanze accessorie. Mentre a proposito di altri filosofi che non scrissero nulla ( ad esempio Arcesilao o Epitteto ) le fonti indirette sono o praticamente uniche (è il caso di Epitteto) o nella sostanza concordi (è il caso di Arcesilao ) , non accade così nel caso di Socrate : non solo abbiamo più fonti (Aristofane, Senofonte, Platone, i cosiddetti "socratici minori", Aristotele ) , ma queste fonti sembrano in disaccordo fra loro su molte que­ stioni essenziali. L'estrema incertezza dei dati storici si sposa, d'altra parte, alla straordinaria importanza che viene riconosciuta al magistero di Socra­ te già nell'ambiente dei suoi contemporanei e dei suoi immediati succes­ sori: è stato giustamente osservato, in proposito, che quasi tutte le scuole filosofiche greche, con la sola eccezione dell'epicureismo, hanno assunto Socrate come un importante ispiratore del proprio indirizzo ( Nehamas, 1 9 9 9 , p. 99 ) . Si profila dunque un contrasto assai singolare tra l'evanescen­ za storica della figura di Socrate e il rilievo eccezionale che viene attribuito al suo pensiero filosofico. Per cercare una via d'uscita da questa impasse consideriamo più da vicino le cinque fonti sopra menzionate. Prima in ordine di tempo è la testimonianza di Aristofane, contenuta soprattutto nella commedia Le nuvole, rappresentata per le Grandi Dioni­ sie ad Atene nel 4i.3 ( ma è opportuno notare che il testo in nostro possesso è un rifacimento posteriore, al quale Aristofane pose mano tra il 4i.o e il 4 1 7, a causa dell' insuccesso ottenuto dalla prima versione ) . Ora, benché si sia fatto giustamente notare che alcuni tratti caricaturali si attagliano in modo accettabile a quanto è noto di Socrate per altra via, è fin troppo chiaro che per Aristofane Socrate è la figura emblematica della nuova fi­ losofia nel suo complesso, sofistica compresa. Basti dire, in proposito, che

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il Socrate di Aristofane si fa pagare i suoi corsi, quando la gratuità dell' in­ segnamento pare proprio il tratto che con più sicurezza lo distanziava dai sofisti. Dunque, sembra nonostante tutto confermata l' ipotesi che dalla testimonianza di Aristofane non ci sia molto da ricavare. Molto più attendibile pare invece, almeno a prima vista, la testimo­ nianza di Senofonte. Storico, scrittore e uomo d'azione eminente nell'A­ tene tra il v e il IV secolo a.C., diede uno spazio importante alla figura di Socrate in quattro dei suoi scritti: i Memorabili, in cui raccoglie una serie di conversazioni avute da Socrate con i suoi interlocutori; un'Apologia di Socrate e un Simposio (che ricalcano le tematiche degli analoghi scritti pla­ tonici: da qui il problema di capire l'ordine di precedenza) ; l'Economico, in cui si parla di amministrazione della casa. Quella che è tradizionalmente considerata la fonte più importante di tutte è costituita però dai dialoghi di Platone, in cui il grande filosofo ate­ niese erige una sorta di monumento (per citare le parole usate da Natorp per il Fedone: cfr. Natorp, 1903, p. 1 67 ) al suo antico maestro. Lungo quasi tutto l'arco del testo platonico la figura di Socrate è presentata in una serie di ruoli non sempre sovrapponibili, tanto da dare l' impressione che vi sia una differenza di sostanza tra il Socrate aporetico, ironico e provocato­ rio (oltreché limitato nei suoi interessi) di alcuni scritti (che si suppone siano i più antichi) e il Socrate più assertorio e propositivo (oltreché di orizzonte più vasto) che compare in altri (che si suppone siano i più ma­ turi). Chi valorizza soprattutto la testimonianza di Platone, dunque, quasi senza eccezioni (segnatamente quella della cosiddetta "scuola scozzese": cfr. Burnet, 1914, pp. 102-56; 1915-16, pp. 235-59; Taylor, 1932; in proposito cfr. infra, p. 219 ) rintraccia il Socrate storico solo o prevalentemente negli scritti giovanili di questo autore. Accanto a Senofonte e Platone dobbiamo collocare anche la testimo­ nianza dei cosiddetti "socratici minori" (detti "minori" soprattutto perché molto meno ne sappiamo rispetto a Senofonte e a Platone). Con questo termine si indicano altri discepoli di Socrate, che hanno descritto la figura del maestro in modo diverso da quello tramandato dai sue socratici mag­ giori; spiccano, tra di essi, i nomi di Eschine di Sfetto, Antistene, Aristip­ po, Euclide (di Megara, da non confondere con il matematico). Purtrop­ po, però, le opere di questi autori non ci sono rimaste ; per cui il materiale "socratico" su cui fare un confronto è davvero molto ridotto (abbiamo frammenti apprezzabili di scritti socratici praticamente nel solo caso di Eschine).

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Ultima fonte utilizzata dagli storici è Aristotele, il quale, soprattutto in un passo della sua Meta.fisica ( I 6 987b 1-4), tratteggia a brevi e grandi linee gli interessi e i meriti speculativi del pensiero di Socrate, mettendo anche in chiaro le differenze in rapporto a Platone. Abbiamo già anticipato come il principale problema che pongono queste fonti sia la loro sostanziale difformità. Le due testimonianze più ricche, ossia quelle di Senofonte e di Platone, pur attribuendo a Socrate sul piano pura­ mente formale un buon numero di caratteristiche comuni (ad esempio il ri­ ferimento al segno divino, l'identità tra virtù e conoscenza, l' invito "delfico" a conoscere sé stessi ecc.), da un lato interpretano tali caratteristiche spesso in modo assai diverso, dall'altro sono in totale disaccordo su altre (ad esem­ pio la professione di ignoranza o la pratica dell' elenchos, presenti in Platone ma non in Senofonte). Inoltre, mentre il Socrate di Platone, anche volendo limitarsi ai cosiddetti "dialoghi giovanili� appare sempre come un filosofo estremamente originale e sottile, lo stesso non si può certo dire del Socrate di Senofonte. Costui, in particolare nei Memorabili, sembra talmente preoc­ cupato di mostrare che gli Ateniesi avevano accusato e giustiziato Socrate a torto, al punto da ricondurre sovente il suo insegnamento morale all' interno del più piatto convenzionalismo: con il risultato che non si capisce più non solo perché mai gli Ateniesi abbiano potuto chiamare in giudizio un uomo dalla mentalità tanto comune; ma ancor meno come sia stato possibile che una figura così scialba sia stata l' ispiratrice di fondo di filosofie profonde ed elaborate come quella di Platone e quella degli stoici. Si è dunque diffu­ sa l' idea che Senofonte e Platone siano inattendibili per ragioni opposte: il primo, intellettualmente poco attrezzato, sottrae a Socrate ogni pensiero filosofico degno di questo nome; il secondo, viceversa, ne fa un filosofo di primaria importanza soprattutto perché gli attribuisce tesi sue proprie. Ma se queste due testimonianze non sono affidabili, che dire delle al­ tre ? Nemmeno quella di Aristotele può essere considerata al riparo da ogni sospetto : primo, perché si sa che il modo aristotelico di fare storia della filosofia era tendenzioso ; secondo, perché Aristotele non ha conosciuto di persona Socrate, e dunque dipende in gran parte da quanto ha letto negli scritti di Platone. Questo difficile stato di cose non ha impedito agli studiosi di tutti i tempi di cimentarsi comunque nell'opera di ricostruire il pensiero del So­ crate storico. e 'è chi ha cercato, seguendo quello che è sicuramente dal punto di vista storiografico il metodo più corretto, di ricucire un Socra­ te attendibile mettendo insieme, con opportuni accorgimenti, elementi

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tratti da tutte le testimonianze in nostro possesso'. Ma poiché si tratta di un' impresa davvero difficile, la via maestra seguita dagli storici ottimisti consiste nel privilegiare una o più fonti a scapito delle altre. Singolare, a questo proposito, è la storia della valutazione degli scritti socratici di Se­ nofonte. Mentre fino a quasi tutto l'Ottocento Senofonte era ritenuto la fonte più attendibile sul conto di Socrate, già a partire dalla fine di quel se­ colo si è sviluppata una massiccia corrente di studi, che è poi divenuta lar­ gamente maggioritaria, tesa a screditare 1' affidabilità e 1' intelligenza dello storico ateniese. Ora, benché in questi ultimi anni si siano sollevate molte autorevoli voci in difesa di Senofonte ( cfr. i numerosi lavori di studiosi quali Morrison, 1995; 2008; Dorion, 2000; Narcy, 1995; 2004; Rossetti, 201 1; Gray, 2010; 2011 ; Bevilacqua, 2010), quest 'opera di rivalutazione ri­ guarda non tanto la possibilità di accedere, attraverso Senofonte, al Socra­ te storico, quanto invece l' interesse letterario e filosofico degli scritti di Se­ nofonte in quanto tali. Per cui chi è convinto di poter trovare in una delle testimonianze su Socrate tracce affidabili del Socrate storico si rivolge pur sempre, come in passato, a Platone. Anche qui, tuttavia, esistono differenti opzioni. e 'è quella, per così dire, minima, rappresentata soprattutto da Doring, secondo cui il Socrate storico sarebbe soprattutto quello descritto dall'Apologia platonica'. Agli antipodi di questa posizione stanno ipotesi ben più ambiziose, come quelle della già citata "scuola scozzese", secondo cui il Socrate storico è solo e tutto ( o quasi ) il Socrate di Platone, o quella molto tradizionale di chi ritiene di poter produrre una sintesi filosofica forte del pensiero di Socrate combinando la testimonianza di Platone con quella di Aristotele3• Ma l' idea di gran lunga oggi più diffusa, se non fra gli specialisti di Socrate e della tradizione socratica almeno tra gli studiosi di Platone, è che il Socrate storico sia in massima parte quello descritto nei dialoghi giovanili di Platone (cfr. Van der Waerdt, 1994, p. 9; seguo­ no questo orientamento, fra gli altri, Maier, 1913; Vlastos, 1991; Santas, 1979; Kraut, 1984; Penner, 1992; Sedley, 2004). A supporto di questa li­ nea esegetica, indubbiamente pregiudiziale, c'è una considerazione molto semplice. Tanto i contemporanei di Socrate quanto i successori e i posteri, come dimostra la sua mai tramontata fortuna in tutto l'evo antico, sono d'accordo nel dire che Socrate fu un grande filosofo; ma l'unico Socrate grande filosofo che noi conosciamo sembra essere quello che traspare dalle pagine di Platone. La sola accortezza da tenere presente sarà allora quella di distinguere, dentro al testo di Platone, il Socrate che espone la filosofia di Socrate dal Socrate che espone la filosofia di Platone4•

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Ma resta vero, in ogni caso, che dal punto di vista storiografico si tratta di una scelta arbitraria. A questa considerazione si può aggiungere anche il fatto, ormai assodato, che tanto gli scritti di Senofonte quanto quelli di Platone (oltre, ovviamente, a tutti quelli dei socratici minori) appar­ tengono a un ben preciso genere letterario, ossia quello dei cosiddetti "di­ scorsi socratici", di cui ci parla Aristotele in un celebre passo della Poetica (1447b u ) , fiorito in modo lussureggiante dopo la morte di Socrate ; ed è anche assodato che questo genere letterario lasciava agli autori la più gran­ de libertà creativa, ossia non li vincolava per nulla a parlare di Socrate con attendibilità storica. Questa libertà, d'altra parte, è riscontrabile anche ne­ gli scritti di Senofonte e Platone : nel!' Economico e nel Filebo, per fare due esempi eclatanti, i due autori attribuiscono a Socrate interessi a un tempo troppo simili ai loro e troppo lontani da quanto risulta da altre fonti per­ ché si possa davvero credere alla fedeltà storica di questi scritti. Le ultime considerazioni che abbiamo svolto sono alla base di un modo assai radicale di trattare la questione socratica, che ultimamente sembra aver guadagnato terreno: poiché non esiste alcun elemento storiografica­ mente attendibile per ricostruire la figura del Socrate storico, non resta che rassegnarsi al fatto che la questione socratica è un falso problema: sul Socrate storico, semplicemente, nulla si può sapere1• Non a caso uno dei più recenti e acuti sostenitori di questa tesi, ossia Louis-André Dorion, ha strutturato una sua breve monografia su Socrate in quattro distinti capito­ li, che descrivono rispettivamente il Socrate di Aristofane, di Platone, di Senofonte e di Aristotele (Dorion, 2004). Il Socrate di Platone e il Socrate di Senofonte

A mio parere il disimpegno circa la questione socratica non è però accet­ tabile, né sotto il profilo del metodo né sotto il profilo dell'oggetto. Le evidenti divergenze tra le fonti suggerirebbero di privilegiarne una (o due) per poi valutare in qualche modo anche le altre; ma, osservano gli scettici, quest' impresa è irrimediabilmente circolare. Indubbiamente hanno ragio­ ne ; ma la pratica ermeneutica contemporanea ha ampiamente mostrato che la circolarità è inevitabile in qualunque contesto, anche in quelli assai più definiti della questione socratica. Il compito dello storico, dunque, an­ che in questo caso consiste nello sforzo di rendere il circolo il più possi­ bile virtuoso anziché vizioso. Non è vero, in altre parole, che la questione

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socratica sia intrattabile sotto il profilo del metodo. Quanto all'oggetto, è fuori discussione che si richiamino fortemente a Socrate due etiche filoso­ fiche molto articolate e complesse (quella di Platone e quella stoica) ; e se è vero, come vedremo, che queste etiche sono profondamente diverse (quel­ la stoica si ritiene tradizionalmente derivata dal Socrate di Senofonte), piuttosto che dichiarare inconoscibile il filosofo che le ha esplicitamente ispirate sembra più pertinente verificare se non è possibile delineare una sorta di etica preplatonica e prestoica in cui entrambi gli sviluppi restava­ no in qualche modo possibili. Il Socrate che stiamo per presentare, dunque, è un ennesimo tentativo di combinazione tra quello di Senofonte e quello di Platone. Ma con una differenza importante. Invece di tentare un' impossibile conciliazione fra un Socrate, quello di Senofonte, e un altro, quello di Platone (un tentativo che darebbe frutti modesti anche se compiuto all' interno del solo Socrate di Platone), si cercherà di raggiungere quel Socrate virtuale con cui le in­ terpretazioni, le accentuazioni, le omissioni ecc. di Senofonte e di Platone potrebbero combaciare. Del resto nella storia della filosofia, e in partico­ lare di quella antica, non v 'è nulla di più comune. Da Arcesilao a Proclo, ad esempio, pullulano le interpretazioni di Platone diverse o addirittura contraddittorie; ma questo non impedisce che alle spalle di queste diver­ genze vi sia un pensatore unico che in qualche modo le ha rese possibili. Quello che si tratta di capire, con Socrate, è se si può risalire all'archetipo in assenza di accessi diretti (o, come detto sopra, tramite un circolo er­ meneutico virtuoso e non vizioso). Presupposto fondamentale di questa operazione è il seguente: poiché l' intento principale di Senofonte è quello di difendere Socrate di fronte agli Ateniesi6, e più in generale mostrare che era molto più utile che dannoso alla cittadinanza, mentre l' intento principale di Platone è quello di vedere in Socrate il codice genetico della sua propria filosofia, le rispettive deformazioni devono in qualche modo essere ricondotte a questa differenza di fondo. La "filosofia" di Socrate

Una frase spesso citata di Cicerone dice che « Socrate fu il primo che fece scendere la filosofia dal cielo, a collocarla nelle città, a introdurla nelle case e a costringerla a occuparsi della vita e dei costumi, del bene e del male » ( Tusc. disp. v 1 0 ) . Cicerone intende marcare in tal modo la svol-

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ta che Socrate introdusse nella filosofia in rapporto alla speculazione dei cosiddetti "filosofi della physis", che si erano occupati prevalentemente del cosmo, delle sue caratteristiche essenziali e delle sue cause ultime ( mentre avevano lasciato relativamente in secondo piano le cose umane ) . Sebbene in questa sua valutazione Cicerone abbia il torto di dimenticare i sofisti, per quanto riguarda Socrate esprime un' importante verità. Tanto Seno­ fonte quanto Platone sono d'accordo nel dire che Socrate, diversamente da quanto appare nella caricatura di Aristofane, non si interessò mai di questioni fisiche (Mem. I 11-16; Apol. l9b-d ) . E i nostri due testimoni ( cfr. ad esempio Mem. I 1 6 ; Phaedr. 23od ) concordano anche nel riferire che l'unica attività che interessava davvero a Socrate era quella di conversare con i suoi simili, interrogando e rispondendo ( a questo fine frequentava d'abitudine i luoghi di incontro dell'Atene di allora, come piazze, mercati palestre, ginnasi ecc. ) . La ragione di questa preferenza risiede nel fatto che il desiderio di sapere di Socrate ( e la parola philo-sophia significa appunto questo ) non si dirigeva indiscriminatamente a contenuti qualsiasi, ma in un modo molto specifico alle cose umane, proprio come risulta dalla cita­ zione di Cicerone ( e come è confermato anche dalla celebre affermazione di Aristotele, secondo cui Socrate si sarebbe occupato solo di problemi etici; Metaph. I 6 987b 1-4). Per Socrate, in altre parole, la filosofia non è quell'aspetto della nostra vita che riguarda il desiderio di conoscenza, ma coincide con la vita stessa, nel senso che l' indagine filosofica è stretta­ mente legata al problema "di come bisogna vivere" ( cfr. Gorg. sooc; Resp. 352d ) . Il metodo socratico

Le fonti sono concordi nel sostenere che il metodo di ricerca privilegiato da Socrate fosse quello della conversazione dialogica fatta di domande e ri­ sposte. Se questo metodo è inteso in modo sufficientemente generico, esso è ben attestato non solo da Platone, ma anche da Senofonte. In Platone però troviamo anche una descrizione del metodo socratico ben più tec­ nica e specifica ( e, per così dire, regolamentata) , sintetizzabile soprattutto nell'esercizio dell'elenchos ( o "confutazione" ) , che invece in Senofonte è del tutto marginale. Ciò fa sorgere il legittimo sospetto che la formaliz­ zazione platonica sia una forzatura del metodo adottato dal Socrate sto­ rico. Tuttavia è possibile che essa colga elementi che furono in qualche

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modo importanti, se non essenziali, nel suo insegnamento. È infatti del tutto logico che Senofonte, il cui intento è quello di presentare un Socrate propositivo, in accordo con la tradizione, e non un Socrate polemico e critico verso tutti i saperi tradizionali, tenda in vari modi a minimizzare gli aspetti più negativi e dissolventi del suo pensiero. Questa impressione è confermata dal fatto che la pratica dell' elenchos è ascritta a Socrate non solo da Platone, ma anche da Eschine di Sfetto (l'unico socratico oltre ai due maggiori, come sappiamo, di cui possiamo leggere ancora qualche porzione di dialogo socratico). Identiche considerazioni si possono fare per la celebre ignoranza socratica, che è un aspetto essenziale del metodo di Socrate in Platone, mentre non è mai attribuita a Socrate da Senofonte: non è ovviamente di un Socrate ignorante che Senofonte ha bisogno, ma di un Socrate che soccorre positivamente gli amici con i suoi insegnamenti e consigli. Ma in questo caso abbiamo anche per una volta la spia del fatto che la forzatura è accreditabile più a Senofonte che a Platone. In un singo­ lare passo dei Memorabili ( Iv 4 9 ), Senofonte sembra compiere una specie di svista, perché attribuisce a Socrate la professione di ignoranza come un fatto assodato, dimenticandosi di aver sistematicamente occultato tale fat­ to per tutto il resto dell'opera. Aristotele, laddove scrive che Socrate si occupò di questioni etiche, aggiunge che in questo ambito muoveva alla ricerca dell'universale che si manifesta nella definizione (Metaph. I 6 987b 1-4). Se prescindiamo dalla strumentazione tecnica di Aristotele (non è affatto sicuro che il Socrate storico avesse già bene in chiaro le nozioni aristoteliche di "universale" e di "definizione"), questo dato corrisponde sia a quanto sappiamo dai dialoghi platonici, sia a quanto risulta da Senofonte (Mem. I 16): la tipica domanda socratica si esprime nella formula "che cos'è", avente per oggetto soprattut­ to nozioni etiche come la giustizia, il coraggio, il sacro ecc. Questa domanda ha una certa parentela con il metodo di ricerca adot­ tato da Prodico e da altri sofisti, che mirava a stabilire il corretto uso del­ le parole (si dice in effetti che Socrate sia stato discepolo di Prodico ; ma la testimonianza di Platone in proposito è palesemente ironica7). Che in questo ci fosse qualcosa di genuinamente socratico lo si ricava anche da quanto sappiamo del discepolo di Socrate Antistene, che appunto aveva fatto della "correttezza dei nomi" (come vedremo) uno dei suoi principali campi di ricerca. Il Socrate platonico, invece, non era interessato a proble­ mi di carattere linguistico, né voleva studiare il linguaggio in quanto stru­ mento della retorica. Secondo Platone, Socrate usava il linguaggio come

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mezzo per porre l'attenzione sull'universale, e questo spiega perché il suo metodo, sofistico nella sua origine, potesse poi rivolgersi anche contro gli stessi sofisti. Il significato corretto delle parole, in effetti, non può essere stabilito senza la conoscenza delle nozioni universali che esse nominano. Ma si tratta di una conoscenza straordinariamente difficile, che mette in crisi la pretesa avanzata da alcuni sofisti di poter rispondere a qualunque domanda: in una lunga sezione dell'Jppia maggiore platonico (286c-293c) lppia mostra di non saper rispondere alla domanda, da lui all' inizio giudi­ cata banale, « che cos'è la bellezza ? » . È probabilmente da qui che prende le mosse la venatura scettica della posizione di Socrate, quella sua ricor­ rente confessione di ignoranza per cui egli al massimo, come si legge nella platonica Apologia di Socrate, ammetteva di sapere di non sapere (21d-e). Questo scetticismo è ben documentato nei cosiddetti "dialoghi socratici" di Platone, in cui non si giunge mai a risolvere mediante una definizione il problema proposto. In ogni caso, indipendentemente da quanto sia dato sapere dell'uni­ versale, resta il fatto che questa è la strada che deve percorrere una ricerca filosofi.ca seria. Ma ovviamente questa ricerca può essere intrapresa solo da chi preliminarmente si riconosca ignorante, cioè ammetta, come Socrate stesso, di non sapere : chi crede di sapere, infatti, non sente il bisogno di cercare, e non è evidentemente disposto a imparare. Un momento fonda­ mentale dell' indagine filosofi.ca sarà dunque costituito per Socrate dalla confutazione (elenchos), cioè dal procedimento mediante il quale si con­ vince qualcuno della sua ignoranza. Genericamente parlando, per confu­ tazione si può intendere qualunque procedimento che abbia l'effetto di demolire la tesi sostenuta da un interlocutore. Ma nel Socrate platonico la confutazione ha un obiettivo più specifico, che consiste nell' indurre l'av­ versario in contraddizione. In questo caso l'analisi non dimostra nulla di positivo, ma si limita a mostrare che l' interlocutore sostiene delle posizio­ ni tra loro incompatibili. Nella sua struttura tipica questa confutazione si sviluppa a partire da una domanda di Socrate e dalla relativa risposta. Attraverso una serie più o meno lunga di domande intermedie Socrate perviene alla fine dell' interrogatorio a far enunciare dall'avversario una proposizione in palese contrasto con la sua tesi iniziale. Che questa sia la forma tipica della confutazione socratica (beninteso, parliamo sempre del Socrate di Platone) si ricava dal fatto che solo in un caso del genere Socrate può tenere fede alla sua professione di ignoranza. Se infatti egli dimostrasse che la tesi dell' interlocutore è falsa, per ciò stes-

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so ammetterebbe di avere delle opinioni sull'argomento in questione, in base alle quali poter dire che cosa è vero e che cosa è falso. Ma se Socrate si limita a rilevare che le opinioni dell' interlocutore sono contraddittorie, il suo coinvolgimento personale è nullo. E la sua confutazione avrebbe suc­ cesso anche se, eventualmente, la tesi del suo interlocutore fosse vera. Strettamente collegata al metodo dell' elenchos e alla professione dell' i­ gnoranza è la pratica, anch'essa tipica del Socrate platonico ( ma ovviamen­ te assente nel Socrate di Senofonte ) , dell' ironia. Come hanno dimostrato studi recenti ( Vlastos, 1991, pp. 21-44), l' ironia socratica è un fenomeno molto complesso, che da un lato si nutre di simulazione e dissimulazio­ ne, dall'altro non è equiparabile all' inganno. L' ironia di Socrate a volte si configura come semplice antifrasi, del tutto scoperta nel suo significato ( come quando si dice, ad esempio, che il leone è un animale notoriamente pauroso ) . Altre volte, invece, contiene una parte di vero insieme a una par­ te di falso. È questo il caso, per l'appunto, della professione di ignoranza. Socrate sa bene di essere molto meno ignorante degli altri, ma è anche consapevole di essere davvero ignorante in rapporto alla verità; mentre per lo più i suoi interlocutori, pur essendo ignoranti, si credono sapienti. In questo caso l' ironia di Socrate si manifesta nel duplice atto mediante il quale egli esalta il preteso sapere degli esperti con cui si trova a parlare e contemporaneamente si schermisce minimizzando il proprio. Entrambi questi atteggiamenti sono funzionali allo scopo di sollecita­ re gli interlocutori alla discussione, e di mettere al centro dell' indagine le loro mal fondate opinioni. Riconoscendosi in partenza come ignorante, Socrate può evitare di venire attaccato a sua volta, ed essere costretto a rivelare quello che pensa, cosicché l'attenzione rimane concentrata esclu­ sivamente sugli errori di chi dialoga con lui. La lode dell' interlocutore, in secondo luogo, è utile per blandire l'orgoglio dei personaggi importanti con cui Socrate dialoga, e sollecitarli a una discussione che avrebbe loro permesso di fare bella figura davanti a un pubblico ( alle conversazioni so­ cratiche normalmente assistevano altre persone ) . Il fatto che queste tematiche siano presenti in Platone ma praticamente assenti nel Socrate di Senofonte collima con le differenze di intenti che abbiamo richiamato sopra: mentre Senofonte ha sottolineato in Socrate soprattutto i motivi accordabili con la tradizione, Platone ha piuttosto ac­ centuato in Socrate le movenze critiche, con lo scopo di utilizzare il suo pensiero come stadio preliminare per la costruzione di un nuovo sapere ; ma questo lascia supporre che il Socrate storico dovette essere critico e

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propositivo al tempo stesso, e come al solito tutto sta a dove si decide di mettere l'accento. Si può spiegare in questo modo, sapendo cioè che Platone si serve di Socrate come personaggio soprattutto per fare valere determinate istanze teoriche, anche il fatto che il Socrate di Platone discuta esclusivamente con personaggi autorevoli, mentre da Senofonte e da altre tradizioni sap­ piamo che frequentava le botteghe degli artigiani e si intratteneva anche con gente umile. Che Socrate potesse fare anche questo, d'altra parte, è ammesso dallo stesso Platone, a margine di un celebre episodio raccontato da Socrate nell'Apologia. L'amico di Socrate Cherefonte chiese una volta all'oracolo di Delfi se in Grecia ci fosse un uomo più sapiente di Socrate, e la Pizia rispose negativamente. Sollecitato da questa richiesta, e conscio della propria ignoranza (con la solita sfumatura ironica), Socrate iniziò a esaminare quelli che avevano fama di essere sapienti per capire che cosa mai volesse dire il dio (così si legge nell'Apologia platonica), e in partico­ lare politici, poeti, artigiani abili in qualche campo ecc. Nessuno di loro, come prevedibile, superò l'esame : poeti e politici (e sofisti, possiamo ag­ giungere) mostrarono di credere di essere sapienti senza esserlo ; solo gli artigiani furono in grado di esibire un certo sapere, inerente al loro campo di attività, ma anch'essi pretendevano di possedere conoscenze relative ad argomenti, come la politica, di cui erano del tutto ignoranti (21b-22e). È interessante notare, di nuovo, il modo assai differente in cui lo stesso episodio è raccontato da Senofonte (Ap. Soc. 14) : in primo luogo l'oracolo di Delfi mette in scena un vero e proprio panegirico delle virtù di Socrate (non c 'è nessun uomo che sia più giusto, più libero e più saggio) ; in secon­ do luogo, l' indagine svolta da Socrate dopo il responso è completamente omessa. Le ragioni di questa differenza sono sempre le stesse : mentre Pla­ tone vuole mostrare che Socrate ha un sapere positivamente modesto, ma dirompente sul piano critico, Senofonte vuole far vedere che egli posse­ deva, anche a detta del dio, tutte le virtù tradizionali. Quello che è essen­ ziale capire, a mio avviso, è che è perfettamente immaginabile un Socrate storico capace di fare da archetipo, soprattutto mediante accentuazioni e omissioni, a entrambe queste immagini. Certo è che una volta imboccata la strada non si può più tornare indie­ tro, per cui tanto le omissioni quanto le accentuazioni devono procedere con coerenza: se in Senofonte un'omissione ne produce necessariamente un'altra, lo stesso si deve dire delle accentuazioni platoniche. Per il Socra­ te senofonteo, descritto come un sapiente tradizionale, le omissioni della

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professione di ignoranza, dell'esercizio dell'elenchos e dell'uso dell' ironia si giustificano da sé. Ma una volta che se ne è fatta menzione, come in Platone, si è anche costretti ad andare oltre, ossia a integrare il punto di vista puramente critico e ironico con un percorso di carattere propositivo; altrimenti la polemica resta fine a sé stessa, e il Socrate ami-tradizionale di Platone rischia di confondersi semplicemente con i sofisti. Questo percorso, di cui non a caso si parla solo in Platone, è la cosiddet­ ta "arte della maieutica" (cioè l'arte della levatrice) che Socrate diceva di esercitare metaforicamente sull'anima dei suoi interlocutori: come la ma­ dre di Socrate, Fenarete, era levatrice dei corpi, così Socrate aiuta le anime a partorire le idee che celano al loro interno. Né questa è l'unica analogia: allo stesso modo delle levatrici, Socrate è di per sé sterile (ancora l' igno­ ranza) ed è anche in grado di giudicare se la gravidanza è reale o fittizia (Platone, Theaet. 148d-151d). In teoria la confutazione e la maieutica dovrebbero costituire due mo­ menti separati (critico il primo, costruttivo il secondo). In realtà non è pro­ prio così, perché la confutazione coincide con la maieutica di esito negativo. Alle donne non capita, spiega Socrate, di partorire indifferentemente esseri reali o fantasmi. Questo invece succede nel caso delle idee, e dunque Socrate, a differenza delle levatrici, ha anche il compito di valutare se i suoi interlocu­ tori sono gravidi di un pensiero valido o inconsistente ( Theaet. 15oa-c). Ma non abbiamo nessun esempio, nella testimonianza platonica, in cui il giudi­ zio di Socrate sia positivo. Come al solito occorre tenere conto degli intenti filosofici di Platone (che spesso utilizza la figura di Socrate per inscenare le sue polemiche filosofiche). Resta però il fatto che nel metodo socratico così come è descritto da Platone la parte negativa sembra eccedere di molto quel­ la costruttiva. Sembra quasi che l'obiettivo della ricerca di Socrate finisca per coincidere con l'esercizio della ricerca stessa, con un'assidua e tenace opera di demolizione delle opinioni scorrette. Questa impressione potrebbe tro­ vare riscontro in un passo dell'Apologia in cui Socrate identifica una ipote­ tica felicità ultraterrena non nel momento in cui le domande trovano rispo­ sta, ma nel luogo in cui la ricerca potrà essere proseguita indefinitamente (41b-c). Non è un caso, d'altra parte, che già nella cultura antica Socrate fosse considerato da alcuni come uno dei padri della tradizione scettica. Il sostanziale fallimento della maieutica socratica potrebbe dunque ri­ proporre, nonostante tutto, la solita netta dicotomia tra il Socrate "positi­ vo" di Senofonte e quello "negativo" di Platone. In realtà questa dicotomia può essere ragionevolmente attenuata nei modi che già conosciamo. Il So-

2.2.8

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crate di Platone, in primo luogo, non è solo critico ma anche costruttivo. E se è vero che questo Socrate costruttivo di Platone sembra spesso assai lontano dal Socrate storico, non è impossibile che Platone, per perseguire gli obiettivi teorici in vista dei quali ha ritenuto utile servirsi della figura di Socrate, abbia preferito conservare del Socrate storico solo gli aspetti cri­ tici, mentre per quanto riguarda quelli propositivi abbia pensato bene di sostituirli largamente con i propri. In secondo luogo la confutazione so­ cratica non ha solo una valenza negativa. Il lungo e faticoso lavoro di de­ molizione delle opinioni irriflesse, o poco fondate, costituisce già di per sé un progresso non indifferente sulla strada che porta alla verità: viene così progressivamente chiarita la natura dei problemi e la rimozione delle tesi sbagliate articola e restringe il campo di ricerca, favorendo lo sviluppo di opinioni più solide. Questo significa che lo "scetticismo" di Socrate non è tra quelli che bloccano la ricerca, ma piuttosto tra quelli che la favoriscono. In tal senso si profila una chiara differenza tra il pensiero di Socrate e quello dei sofisti, in particolare Protagora e Gorgia: essi infatti ponevano al centro della loro riflessione alcuni presupposti che minavano alla radice la possi­ bilità di organizzare una ricerca seriamente rivolta alla scoperta del vero. L'etica di Socrate

Anche sul terreno dell'etica (ossia, se ha visto giusto Aristotele, quello che era l'unico vero interesse filosofico di Socrate) le differenze tra Senofon­ te e Platone sembrano abbastanza palmari. Ci si può chiedere, anzitutto, come possa il Socrate "ignorante" confesso di Platone possedere qualche dottrina etica positiva. In realtà la professione di ignoranza del Socrate platonico va intesa anzitutto come strumento polemico contro i pretesi sapienti, e in secondo luogo come una consapevole rinuncia a un sapere ambizioso e sicuro di sé; non come la rinuncia a qualunque tipo di sape­ re in generale. Nell'Apologia platonica, in effetti, Socrate accompagna la propria professione di ignoranza con la rivendicazione di possedere una certa sapienza umana (2.od) ; allo stesso modo, quando Socrate nel Menone dice di ignorare che cosa sia la virtù (?Ia-b), questo significa che non è in grado di darne una definizione precisa, non certo che non sia in grado di distinguere un uomo virtuoso da uno vizioso. Dunque un'etica socratica esiste non solo nel Socrate propositivo di Senofonte, ma anche nel Socrate "ignorante" di Platone.

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In un primo senso il valore etico è già implicito nella ricerca in quanto tale. In altre parole, per Socrate la ricerca ha un valore etico non tanto e non solo come strumento per determinare teoricamente i valori morali cui attenersi, ma anche come azione buona di per sé, capace di migliorare le qualità di chi la pratica. Per Socrate, insomma, chi spende tutta la sua energia per cercare di capire che cosa davvero significa essere virtuoso in un certo senso sta già praticando la virtù. Ma 1' etica del Socrate platonico non si esaurisce qui. Il suo metodo di ricerca presuppone in effetti alcune assunzioni di carattere etico non ri­ ducibili al metodo stesso. Fondamentale in primo luogo è la contrappo­ sizione tra valori esterni e interni in esso implicata. Le fonti ci dicono che Socrate aveva fatto proprio il motto delfico "conosci te stesso': ma secon­ do Platone egli 1' aveva riformulato in una nuova accezione. Mentre con queste parole l'oracolo voleva più che altro invitare l'uomo a riconoscere i propri limiti, per Socrate esse alludono a un lavoro di ricerca interiore volto a scoprire qual è la vera essenza dell'essere umano. Il modo in cui Socrate rispose a questa domanda è documentato so­ prattutto dai dialoghi platonici, ma sostanziali conferme provengono an­ che da Senofonte (e forse addirittura da Aristofane). Per Socrate l'uomo è essenzialmente la sua anima, cioè in primo luogo la sua coscienza. È pro­ babilmente con Socrate, in effetti, che si stabilisce e consolida un significa­ to di anima intesa come 1' identità psicologica della persona, responsabile dei suoi pensieri e dei suoi progetti. Perciò il motto "conosci te stesso" si trasforma nell' invito, spesso ripetuto da Socrate ai suoi concittadini, a «prendersi cura della propria anima » (cfr. Platone, Apol. 29d-e). In tal modo il baricentro della persona, e delle qualità che ne deter­ minano il valore, si sposta automaticamente dall'esterno ali' interno. Se prendiamo il prototipo dell'eroe omerico, tutta la sua vita appare come proiettata all'esterno : il suo valore (la sua virtù) dipende dalle azioni che compie e dal grado di riconoscimento che riesce a ottenere dagli altri. Per Socrate, al contrario, tanto più un uomo vale quanto più è virtuosa la sua anima. Questo ripiegamento sull'anima si traduce, di conseguenza, in un drastico ridimensionamento del valore dei beni esterni come la ricchezza, il potere o la fama e in un corrispettivo privilegiamento dei valori morali, intellettuali e spirituali. Al di là di questi elementi generici, caratteristici del Socrate di Platone sono i due apparenti paradossi secondo i quali "la virtù è conoscenza" e "nessuno commette il male volontariamente". È possibile chiarire queste

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due affermazioni solo alla luce del cosiddetto "eudemonismo etico" (la posizione per cui il fine unico della morale è la felicità dell'agente), tipico di gran parte del pensiero greco e di quello socratico-platonico in parti­ colare. Nella prospettiva dell'eudemonismo etico non esistono né di fatto né di diritto motivazioni cogenti per spingere gli uomini a compiere de­ terminate azioni se non la convinzione che solo quelle azioni, e non altre, riusciranno a procurare la vita buona e felice. Non si dà il caso, in partico­ lare, che certe azioni siano prescritte dal senso del dovere anche se sono dannose per chi le compie. Se a questi presupposti aggiungiamo l'ovvia constatazione che nessuno si rende volontariamente infelice, i paradossi dell'etica socratica diventano dei principi assolutamente naturali. Se il bene morale coincide con la felicità dell'agente, non esiste qualcosa come la cattiva volontà, perché questo bene è perseguito indistintamente da tutti, sia quelli che noi chiamiamo buoni sia quelli che chiamiamo cattivi. Ma allora dove sta la differenza tra gli uni e gli altri ? Nella conoscenza: il virtuoso è quello che sa con quali mezzi può essere felice (così come il medico sa con quali mezzi far guarire il malato), mentre il vizioso lo ignora. Ecco dunque perché e in che senso la virtù è conoscenza: dal momento che nessuno si rende volontariamente infelice, la conoscenza del bene/felicità è condizione non solo necessaria, ma anche sufficiente per la realizzazione del bene stesso. Ed è anche chiaro perché nessuno compie il male volontariamente: se il male coincide con l' infelicità, non è possibile che qualcuno se lo procuri intenzionalmente. Per cui, quando qualcuno si trova a essere infelice, è ovvio che ha sbagliato i suoi calcoli per ignoranza: di certo la situazione in cui si trova non era quella che voleva, e dunque le azioni che ha messo in atto per realizzarla devono essere considerate a tutti gli effetti "involontarie" (appunto nel senso di non volute). Per quanto in Platone la dottrina morale ora descritta non abbia certo lo scopo di giustificare i malvagi, essa contiene tuttavia indubbi elemen­ ti paradossali e controintuitivi: elementi, si potrebbe supporre, che non dovrebbero trovare posto nel Socrate di Senofonte. Ma, di nuovo, le cose non sono affatto così chiare. In un passo del I I I libro dei Memorabili (9 4) Senofonte accredita a Socrate una visione utilitaristica della morale forse ancora più pesante dell'eudemonismo che gli è attribuito da Platone8• Ma è interessante notare che la sua spiegazione del vizio morale in un contesto del genere è solo in parte analoga a quella platonica. Platone, come ab­ biamo visto, direbbe che si deve tutto all' ignoranza; Senofonte, viceversa, dice che le cause sono a pari titolo l' ignoranza e l' intemperanza (o assenza

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di "padronanza di sé", in greco enkrateia), senza accorgersi che si tratta di due spiegazioni in contrasto fra di loro. Se infatti virtù e vizio non sono altro, come nel Socrate platonico, che sapienza e ignoranza, non resta più nessuno spazio per la padronanza di sé. Questa infatti entra in gioco come una forma non razionale di autocontrollo ; ma quando tutto è determina­ to dal sapere, anche l'autocontrollo è un derivato del sapere medesimo, e non ha più alcun ruolo autonomo. In effetti non è un caso che mentre nel Socrate di Platone (ci riferiamo sempre a quello dei dialoghi giovanili) l'autocontrollo non ha un ruolo etico decisivo, esso è invece uno dei punti forti del Socrate di Senofonte : un chiodo sul quale egli batte con ripetuta insistenza (cfr. Dorion, 2004, pp. 102-13). Se applichiamo il metodo che abbiamo proposto all' inizio, che cosa ci può essere di "storico" dietro queste incongruenze ? Un' ipotesi plausibile potrebbe essere la seguente. L'etica "paradossale" del Socrate platonico è probabilmente l'esito di una serie di accentuazioni non innocenti. Tut­ tavia si tratta di accentuazioni possibili, rese lecite da un utilitarismo di fondo che è documentato anche da Senofonte. Il quale, dal canto suo, non aveva né l' interesse pratico, né probabilmente la penetrazione teorica per cogliere in Socrate le tracce di un pensiero etico in ultima analisi para­ dossale. Per cui preferisce concentrarsi sulle qualità morali che risultavano in qualche modo evidenti sia dalla vita sia dall' insegnamento di Socrate : una delle quali era proprio la temperanza, o la padronanza di sé, che non a caso è una virtù che viene spesso accreditata a Socrate anche da Platone. Con la differenza essenziale che mentre in Senofonte essa è un valore in sé, in Platone dipende interamente dal tenore fortemente intellettualistico dell'etica che egli gli attribuisce (e per il quale Senofonte, viceversa, non prova alcun interesse). Una situazione sostanzialmente analoga governa le differenze che esi­ stono tra l'etica di Socrate che fa da sfondo all'etica stoica (eventualmente derivabile dal Socrate di Senofonte) e l'etica assai diversa del Socrate di Platone. La differenza più importante consiste nella difforme interpreta­ zione dell'autosufficienza della virtù: mentre per Platone la virtù è auto­ sufficiente in quanto è quella conoscenza in grado di produrre la felicità (dunque la virtù è un mezzo), negli stoici è autosufficiente in quanto coin­ cide con il bene in quanto tale (dunque la virtù è il fine). Anche qui la differenza, per quanto davvero cospicua, è almeno in parte un problema di accentuazione. Se nel Socrate platonico la virtù è prevalentemente un mezzo, non mancano però occasioni in cui sembra avere un valore di per

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sé (ad esempio nell'Apologia o nel Critone9). Il contrario accade in Seno­ fonte. Questi non doveva certo nutrire molta simpatia per una dottrina etica in cui la nobile arete greca veniva ridotta a conoscenza, o peggio a calcolo meschino (come sembra ricavarsi da Prot. 3 5 1 e-357e). Né sarebbe stato così facile difendere, come egli intendeva fare, lortodossia etica di questo Socrate di fronte agli Ateniesi. Tuttavia Senofonte non può non registrare, come abbiamo visto, sia l'utilitarismo sia l' incidenza di sapienza e ignoranza riguardo la virtù. Ciò detto, poi fa prevalentemente tutt 'altro. In Senofonte l'etica di Socrate coincide soprattutto con una corretta di­ sposizione interiore, intellettuale e morale, maturata anche e soprattutto esercitando la padronanza di sé nei confronti delle pulsioni corporee. E sebbene in quanto ora detto non ci sia nulla di inaccettabile per il Socra­ te di Platone, se a questo quadro non si accompagna lo sfondo tecnico­ utilitaristico della morale socratica, ciò che in tal modo viene descritto è la morale degli stoici, non quella del Socrate platonico (che poi, a mio avviso, coincide largamente con quella di Platone stesso). Infatti ogni volta che si è preteso, nella storia, di accostare letica stoica a quella di Platone, ciò è accaduto perché si è volutamente messo da parte questo sfondo'0• Socrate e la religione

Come sappiamo, Socrate fu accusato di non rispettare gli dei della religio­ ne tradizionale. In realtà questo non è del tutto vero. È vero che Socrate intendeva razionalizzare la religione in senso etico. Infatti per lui la sfera del divino coincide in un certo senso con quella della morale, poiché gli dei sono anzitutto coloro che possiedono la conoscenza della virtù e la realizza­ no in modo perfetto. Nella rappresentazione di Senofonte troviamo anche il primo abbozzo di un argomento per la "dimostrazione" dell'esistenza di dio che avrà larga fortuna nei secoli successivi: se la natura appare come un insieme organico e orientato verso il bene, si deve necessariamente pensare a un' intelligenza provvidente che l'ha ordinata a questo scopo ( Iv 3 1-14). Ma laspetto più interessante, e per certi versi più enigmatico, della re­ ligiosità di Socrate è probabilmente un altro. Socrate diceva di udire una specie di voce interiore, da lui chiamata "segno demonico" (daimonion), che si faceva sentire di quando in quando per distoglierlo dal compiere de­ terminate azioni (nella testimonianza di Platone) o anche per suggerirgli certi comportamenti (così Senofonte). Pur tenendo presente che esperien-

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ze di questo genere non avevano in Grecia carattere eccezionale (si pensi alle pratiche della mantica o dell' interpretazione dei sogni), in Socrate il segno demonico sembra a volte una metafora per indicare la voce della coscienza. Ma le nostre fonti ci documentano anche dei casi di intervento del segno in cui non è percepibile alcun significato morale. Pare perciò corretto vedere in questo fenomeno anche la presenza di una vera espe­ rienza religiosa, non riducibile al puro esercizio della filosofia. Del resto, quando nell'Apologia platonica Socrate spiega perché non potrebbe accettare di vivere senza praticare il suo metodo inquisitorio con chiunque gli capiti a tiro, risponde che questo compito gli è stato assegnato dal dio, e che egli preferisce obbedire a lui piuttosto che agli uomini (28e; 37e). Anche questa è una testimonianza che non deve essere sottovalutata. Nel Socrate che identifica la virtù con la cura della propria anima e che non possiede nessun tipo di verità da consegnare agli altri, il pervicace e ostina­ to impegno nel beneficare il prossimo, costringendolo a occuparsi del suo vero sé e a purificarsi della sua ignoranza, non è facilmente comprensibile. Il comando divino potrebbe dunque coprire la funzione di giustificare la preferenza accordata a un bene di cui è difficile, mostrando con la sola ragione i motivi per cui dovrebbe essere perseguito, specificare i contorni. Non ci sono, in fondo, argomenti non circolari per dimostrare in modo razionale che il fine dell'esistenza è l'esercizio della ragione. Il processo e la morte di Socrate

Per quanto siano corsi in proposito i tradizionali fiumi di inchiostro, i contorni della vicenda che ha condotto Socrate prima al processo e poi alla morte non sono stati mai completamente chiariti. L' ipotesi più imme­ diata è che si sia trattato di un processo politico, voluto dai democratici, tornati da poco al potere dopo la parentesi del regime dei Trenta Tiranni imposto da Sparta alla fine della guerra del Peloponneso. Si fa spesso nota­ re, in quest'ottica, che Socrate aveva avuto come amici e discepoli perso­ naggi assai compromessi con il passato regime, quali ad esempio Carmide e Crizia (per tacere dei suoi rapporti con Alcibiade). Ma ci sono varie ra­ gioni che indeboliscono questa ipotesi. In primo luogo Socrate si era aper­ tamente dissociato dalla politica dei Trenta, anche rischiando di persona, e si era sempre dimostrato fedele agli ordinamenti democratici. In secondo luogo, come ammette lo stesso Platone nella VII Lettera (325b), il rinnova-

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to regime democratico agì con molta moderazione nei confronti degli av­ versari politici sconfitti, evitando vendette e proscrizioni. Perché dunque fare eccezione proprio per Socrate, che non era certo in cima alla lista di coloro contro i quali sarebbe stata ragionevole una ritorsione ? Infine, coz­ za contro questa interpretazione anche la natura dei capi d'accusa: "non credere alla religione tradizionale" e "corrompere i giovani" non sembra­ no proprio i primi rimproveri che vengono in mente a un democratico nei confronti di un "conservatore". Al contrario, se ne dovrebbe ricavare piuttosto che Socrate sia stato accusato "da destra", ossia dalla parte della cultura tradizionale che vedeva in lui un pericoloso sofista (in accordo con l' immagine che ne aveva dato il conservatore Aristofane, che non a caso il Socrate dell'Apologia platonica menziona implicitamente tra i suoi princi­ pali accusatori, cfr. 18d). Alla luce di tutto questo, sembra che una lettura strettamente politica della vicenda di Socrate sia quantomeno problematica. Il che non signifi­ ca, tuttavia, che la politica non vi abbia avuto alcun peso; purché questa valenza politica non sia intesa come mera contrapposizione di partiti av­ versi. In effetti le forze politiche che si contrapponevano nell'Atene del v secolo a.C. non erano così ideologicamente distanti come potrebbe sembrare. Il vecchio ideale eroico-agonistico promosso dagli aristocratici (l' arete omerica) non era stato per nulla eliminato dai nuovi orientamenti socio-culturali, ma aveva anzi trovato nell'aggressiva condotta dei demo­ cratici una nuova e aggiornata formulazione. Non è un caso che i sofisti, assertori del principio della competizione e del legittimo prevalere del più abile (se non del più spregiudicato), abbiano potuto offrire i loro servi­ gi sia ai "conservatori" sia ai "progressisti". È sufficiente leggere il celebre dialogo, in Tucidide, tra i Meli e i rappresentanti dell'Atene democratica (V 84-1 1 1 ) per rendersi conto che la democrazia non poteva vantare alcuna vera superiorità morale nei confronti dei regimi tirannici. Sia questi che quella, in effetti, applicavano indistintamente il celebre principio promul­ gato dal sofista Trasimaco: la giustizia non è che l'utile di chi comanda. Se quanto detto è plausibile, allora si può comprendere come la voce di Socrate fosse l'unica davvero controcorrente. Questa ipotesi peraltro collima con una delle caratteristiche attribuite a Socrate da Platone, cioè la sua atopia (letteralmente, "assenza di luogo"; cfr. Platone, Symp. 215a). Socrate, dovunque si trovi, non è mai nel suo luogo ; il suo comportamen­ to manifesta sovente delle stranezze, che denunciano la sua estraneità al modo di pensare e di agire comune ; se interviene in un dibattito in cui si

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oppongono due tesi, la cosa più frequente è che egli non parteggi né per l'una né per l'altra. Questa estraneità di Socrate si concretizza, sul piano teorico, in una ricerca ideale relativa ai valori, testimoniata anche da Se­ nofonte, del tutto estranea agli interessi di parte ; sul piano pratico, in un modo personale di parlare e di agire che non solo non garantisce alcuna collaborazione e alcun atteggiamento preconcetto nei confronti dei movi­ menti politici e degli apparati culturali vigenti, ma addirittura lo qualifica come inquietante e indefessa coscienza critica, secondo il celebre ritratto che egli offre di sé nell'Apologia platonica: una sorta di tafano che dedica tutte le sue energie a mettere in chiaro la cattiva coscienza dei suoi con­ cittadini (soprattutto se autorevoli), a denunciare i falsi saperi, a smentire coloro che pretendono di apparire migliori di quello che sono, a incitare costantemente tutti a prendersi cura di ciò che più conta nell'uomo, ossia la sua interiorità e la sua anima (29c-3oc). Quello che voglio dire è che, se c'è un modo accettabile per spiegare il processo e la morte di Socrate, il luogo migliore dove cercare sono alcuni tratti del suo carattere così come sono stati descritti da Platone: al di là dei toni sempre ragionevoli e pacati, poteva facilmente insinuarsi lapparenza di un'allarmante e fastidiosa arroganza. Dopotutto, se Socrate fosse riusci­ to a convincere la parte più influente della gioventù ateniese, il rischio che la prassi politica tradizionale venisse completamente rovesciata non era poi così peregrino. Per cui può essere comprensibile che gli attori e i fautori di quella prassi volessero in qualche modo neutralizzarlo. Detto questo, riten­ go improbabile che il vero intento dei suoi accusatori fosse quello di metter­ lo a morte. Per azzerare il magistero critico di Socrate, che si concretizzava non meno nelle sue azioni che nelle sue parole, sarebbe stato sufficiente scre­ ditarlo in qualche modo. E ciò sarebbe successo, se Socrate avesse abboccato a una delle tante esche che si è trovato davanti: chiedere clemenza ai giudi­ ci, dichiararsi colpevole e pagare una multa ragionevole, proporre lesilio, fuggire dal carcere quando poteva (e sappiamo da Platone che la faccenda era piuttosto semplice). Ma Socrate ha preferito accettare la morte piuttosto che rischiare di adulterare anche in misura minima la sua coerenza morale. In questo modo abbiamo trovato anche l'ultimo tassello mancante. Come mai il moderato regime democratico ha messo a morte un uomo mite e apparentemente innocuo come Socrate ? In primo luogo, come ab­ biamo cercato di mostrare, Socrate non era così innocuo come si potreb­ be pensare. In secondo luogo, il tragico esito della vicenda ha il sapore grottesco della cronaca di una morte annunciata: l'ultimo anello di una

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meccanica catena di cause ed effetti che nessuno ha voluto o potuto inter­ rompere ; ma che nessuno, né gli accusatori di Socrate né i suoi amici né Socrate stesso, voleva che accadesse davvero. I filosofi socratici

La cerchia di Socrate era composta da numerosi amici e discepoli, che vengono comunemente chiamati "socratici" dagli storici e dai biografi posteriori. La denominazione però è ambigua, perché da un lato sembra comprendere tutti coloro che hanno scritto discorsi o dialoghi socratici, anche se scarsamente interessati alla filosofia (come Senofonte o Eschine di Sfetto ); dall'altro personaggi che si distinsero per aver professato dottri­ ne filosofiche in qualche modo dipendenti da Socrate, a prescindere dalla forma con cui le hanno espresse. Per quanto oggi si sia fatta strada l' idea che anche Senofonte debba essere ritenuto filosofo a pieno titolo, a mio parere la sua "filosofià' (non diversamente da quella di Eschine) rimane estranea al significato tecnico del termine, che orienta le trattazioni stori­ co-filosofiche come questa. Dunque, pur concordando con chi ritiene che la letteratura socratica meriti di essere studiata anche come un fenomeno unitario (cfr. Rossetti, 2008), ci atterremo all'uso comune di non include­ re tra i filosofi tutti gli autori di scritti socratici11• Le fonti antiche, nella loro smania costante di identificare delle scuole e di costruire delle successioni, hanno elaborato uno schema storiografico che oggi è stato ragionevolmente messo in dubbio. Alcuni discepoli di So­ crate, verosimilmente quelli più dotati sotto il profilo filosofico, avrebbero fondato delle vere e proprie scuole: Fedone di Elide la scuola cosiddetta "eliacà' o "eretriaca" (nome che deriva da Menedemo di Eretria, nipote e supposto successore di Fedone; anche se per la verità da quel poco che sappiamo dei due le affinità non sono affatto evidenti), Antistene la scuola cinica, Aristippo la scuola cirenaica, Euclide di Megara la scuola megarica (o dialettica). Le ultime tre scuole sarebbero poi state all'origine dei tre principali orientamenti del pensiero ellenistico: dal cinismo si sarebbe svi­ luppato lo stoicismo, dalla scuola cirenaica l'epicureismo, mentre la scuola megarico-dialettica avrebbe avuto qualche influenza sullo scetticismo. Nella critica più recente prevale, come detto, un diverso orientamento. Si è osservato in primo luogo che le dottrine di Antistene, Aristippo ed Euclide devono essere interpretate in stretta connessione con l' insegna-

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mento di Socrate, e che pertanto nessuno di loro può essere ritenuto l' i­ niziatore delle correnti ellenistiche. Si è constatato, in secondo luogo, che questi personaggi, per quanto ovviamente non fossero privi di discepoli, non fondarono scuole paragonabili all'Accademia o al Liceo, e che non vi fu un rapporto di filiazione diretta tra i pretesi fondatori dei vari indirizzi e molti dei personaggi che venivano annoverati nella loro scuola. Come già sappiamo, i filosofi di questo gruppo sono sovente chiamati socratici minori, così come spesso si parla di "scuole socratiche minori". Que­ sta "minorità" si riferisce ovviamente al confronto con Platone, considera­ to il fondatore della scuola socratica maggiore (l'Accademia). Ora, anche ammesso che i socratici non platonici abbiano uno spessore speculativo più debole in rapporto a Platone, in queste denominazioni si riflette il pregiudi­ zio che l'unico sviluppo appropriato e coerente del pensiero di Socrate sia il platonismo. Ma questo non può facilmente essere ammesso. I primi socratici rappresentano una visione del socratismo la quale, sia pure nelle differenze reciproche, costituisce una reale alternativa teoretica sia alla metafisica di Platone sia all'ontologia di Aristotele (che deve anch'essa qualcosa all' inter­ pretazione della domanda socratica come ricerca dell'universale). In Anti­ stene, Aristippo ed Euclide, infatti, è ben visibile il primato dei temi socratici della virtù e della felicità. Ciò che manca, viceversa, è l'esigenza di fondare queste ricerche su principi di carattere ontologico e metafisico. Se poi allarghiamo lo sguardo agli esponenti delle cosiddette "scuole socratiche'', all'eredità del socratismo si aggiunge anche quella della sofisti­ ca (alla quale, del resto, non era estraneo lo stesso Socrate), cioè di quello spirito critico e dissolvente che non si stancava mai di sollevare ostaco­ li o argomenti paradossali contro le pretese generalizzanti della ragione. L'alternativa nei confronti di Platone e Aristotele si manifesta dunque in alcuni casi, al di là di effettive polemiche incrociate storicamente poco verificabili, come sfiducia in un'organizzazione scientifica del conoscere intesa come dialettica fruttuosa tra universale e particolare. Pedone, Antistene, Aristippo, Euclide Pedone di Elide è celebre soprattutto per aver dato il suo nome a uno dei più importanti dialoghi di Platone. Da quest 'opera si desume che all'epoca della morte di Socrate doveva essere ancora piuttosto giovane. Diogene Laerzio racconta (Socratis et Socraticorum Reliquiae, SSR I I I A 1 ) che Pedone fu por-

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tato ad Atene come schiavo, dove fu costretto a lavorare in un bordello; riscattato dalla schiavitù grazie alla conoscenza di Socrate (che mobilitò amici abbienti in suo favore), divenne suo discepolo e da lì in poi si dedi­ cò interamente alla filosofia. Sempre da Diogene sappiamo che si ritene­ vano autentici due soli scritti di Pedone, ossia i dialoghi Zopiro e Simone ( s s R I I I a 8). Nel primo si trova il famoso aneddoto secondo cui Zopiro, un esperto di fisiognomica, avendo visto l'aspetto fisico di Socrate avrebbe diagnosticato che si trattava di una persona viziosa. Ciò avrebbe suscitato le risa di chi conosceva bene il filosofo; ma fu Socrate stesso a confermare la diagnosi, dicendo che da giovane aveva dovuto combattere aspramente contro le passioni. Questo aneddoto, unito a quello biografico riportato so­ pra, sembra indicare che il principale interesse pratico e teorico di Pedone riguardasse il problema di armonizzare i rapporti tra i desideri corporei, da un lato, e la virtù e la filosofia dall'altro. Pedone avrebbe inteso sottolineare, a tale proposito, l'utilità della filosofia per la vita, anche (e soprattutto) nel caso di persone non particolarmente provviste di doti naturali. Antistene (vissuto più o meno tra il 445 e il 365 a.C.) è il filosofo socra­ tico sul quale siamo relativamente meglio informati. Tra le numerose opere che gli vengono attribuite, alcune si occupano di questioni epistemologico­ linguistiche ( Verita, Satone o Sul contraddire, Sull'educazione o Sui nomi, Sull'uso dei nomi, Sulla domanda e la risposta, Sull'opinione e la scienza). Le testimonianze in proposito non sono facili da armonizzare, ma nel com­ plesso pare che Antistene tentasse una descrizione della dialettica socratica alternativa agli sviluppi che avevano condotto Platone a postulare I' esisten­ za delle idee". La caratteristica indagine socratica, infatti, non giunge per Antistene a definire entità invarianti anteriori al linguaggio, ma si limita a individuare per ciascuna cosa il discorso proprio. Questo punto può forse essere chiarito da una testimonianza di Aristotele, secondo cui Antistene non riteneva possibile definire il "che cos'è" di ciascuna cosa (si tratta di un «discorso lungo»), ma solo enunciarne correttamente le qualità. Se poi col­ leghiamo tutto questo alla celebre frase anti-platonica «vedo il cavallo, non vedo la cavallinità » ( s s R v A 149), il progetto di Antistene sembra essere quello di affermare che la ricerca socratica è efficace quando si propone di determinare gli attributi appropriati delle cose, è invece impraticabile e inu­ tile quando si mette alla ricerca di concetti universali "invisibili" o di defini­ zioni che non sono mai conclusive. L' interesse per questi argomenti doveva comunque essere sollecitato, come in Socrate, da problemi di carattere etico. Ed è infatti soprattutto

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in ambito etico che possediamo il maggior numero di informazioni. Spic­ cano a questo proposito i principi di schietta ascendenza socratica, come l' insegnabilità della virtù e l' identificazione di virtù e conoscenza. Anti­ stene ha però particolarmente sottolineato l'aspetto dell'autarchia, cioè il fatto che la virtù deve bastare a sé stessa ( e per questo è necessario saper prendere le distanze dai bisogni corporei e dai beni esterni ) . In questo qua­ dro deve essere inteso anche il rifiuto del piacere, che Antistene pare abbia affermato con una certa veemenza polemica ( s s R v A 1 2 2 ) . Ma l' impor­ tanza di questo motivo non deve essere esagerata, perché era probabilmen­ te connesso a una distinzione tra piaceri veri e piaceri falsi. E anche quest'ultimo principio può essere agevolmente riportato all' in­ segnamento di Socrate. È interessante notare, in proposito, che Antistene nelle sue declamazioni (Aiace e Odisseo, che sono poi gli unici scritti inte­ gri a noi pervenuti ) interpreta alcuni personaggi omerici ( in particolare Odisseo ) come casi esemplari della morale socratica, forse per mostrare che l'etica del suo maestro non era così contraria alla tradizione come ave­ vano pensato i suoi accusatori. Nel contempo il socratismo di Antistene si distanzia una volta di più da quello di Platone, perché la morale di Socrate appare in lui del tutto scollegata dai motivi metafisico-escatologici. Anche in Aristippo ( nativo di Cirene, in Africa settentrionale, e vissuto tra gli ultimi anni del v e la metà del IV sec. a.C.; c 'è molta incertezza su quanti e quali scritti avrebbe prodotto ) prevalgono i temi etici di carattere socratico, e in particolare la concezione della filosofia come ricerca della felicità. Nella rappresentazione tradizionale egli era considerato l'edonista per eccellenza, nettamente contrapposto all'ami-edonista Antistene. Ma questa immagine mal si accorda con il fatto che entrambi si richiamavano all' insegnamento di Socrate, per cui nelle interpretazioni recenti preval­ gono toni più sfumati. È vero infatti che Aristippo non aveva in genera­ le preclusioni contro il piacere, ma questa sua posizione deve essere vista all' interno di un concetto di autonomia e di libertà dal mondo esterno in fondo non dissimile da quello antistenico. La differenza consiste nel fatto che l'adesione al piacere in Aristippo non coarta la libertà ma la pro­ muove, purché l'uomo rimanga sempre padrone dei suoi bisogni e dei suoi desideri. Emblematica in proposito è una frase tra le tante che gli viene at­ tribuita. A un tale che gli chiedeva conto dei suoi rapporti con una famosa cortigiana, pare che abbia risposto : « La posseggo, non ne sono possedu­ to» ( s s R IV A 96). Ben venga anche il piacere, dunque, se viene salvato l'unico vero obiettivo che procura la vita felice, cioè la libertà.

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Euclide ( nativo di Megara, vissuto tra la seconda metà del v e la pri­ ma metà del IV sec. a.C.; secondo Diogene Laerzio sarebbe autore di sei dialoghi socratici: Lampria, Eschine, Fenice, Critone, Alcibiade, Erotico) è probabilmente il filosofo socratico su cui la storiografia recente ha operato la revisione più profonda. Secondo la tradizione ci sarebbe infatti nella filosofia di Euclide uno sfondo ontologico, ricavato dal pensiero di Par­ menide, che si esprime nell' identificazione del bene socratico con l'unico vero essere. Ciò sarebbe documentato da una testimonianza secondo cui Euclide avrebbe detto non solo che il bene è uno, ma anche che le cose contrarie al bene non sono reali ( sono non essere ; SSR I I A 30 ) . Gli studi più aggiornati hanno molto ridimensionato il rapporto con l'eleatismo : anche se non lo si vuole escludere completamente, è infatti del tutto su­ bordinato ai motivi di carattere socratico. Euclide giunge in effetti ad ammettere che l'opposto del bene non è rea­ le non speculando sulla natura dell'essere, ma muovendo dalla concezione socratica del bene : esiste per l'uomo un unico vero bene, che è scienza, virtù e felicità a un tempo. Chi infatti ritiene che esistano obiettivi diversi da questo bene, semplicemente si sbaglia, e con ciò si dimostra che tali obiettivi, dal punto di vista del bene, non sono nulla. È probabile, infine, che per dimostrare queste sue tesi Euclide si servisse del metodo dialettico di Socrate, poiché una testimonianza ci dice che egli confutava partendo non dalle premesse ma dalle conclusioni ( s s R II A 34). Non è difficile im­ maginare un'applicazione di questa tecnica al principio etico che abbiamo ora esposto : la premessa che esistano beni diversi dal bene morale si con­ futa in base alla conclusione che chi persegue tali supposti beni non trova in effetti né bene né felicità. Cinici, Cirenaici e Megarici Diogene cinico nacque a Sinope, colonia di Mileto sul mar Nero, tra il 412 e il 403 a.C., e morì presumibilmente tra il 324 e il 321; gli vengono attribuiti scritti di vario genere, tra cui dialoghi, lettere e tragedie, ma la tradizione è molto incerta. Diogene è uno dei filosofi più singolari e più emblematici di tutto il pensiero antico. Su di lui si è a lungo sbizzarrita la tradizione biografica, sia perché è stato ben presto annoverato dagli stoici tra i precursori del loro indirizzo filosofico ( che si richiamava al cinismo ) sia perché ha rappresentato per molti secoli il tipo classico del filosofo an-

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tico, che gira senza fissa dimora con bastone, bisaccia e mantello, incuran­ te dei valori e dei beni riconosciuti. In tal modo si è diffusa l' idea che la filosofia fosse per Diogene più che altro un atteggiamento pratico, senza il conforto di una vera e propria dottrina. Ora, se questo in realtà non è vero, è vero però che alcuni tratti salienti della filosofia di Diogene sono ricavabili dal suo comportamento. Nella tradizione antica Diogene era considerato un socratico discepolo di Antistene, che sarebbe il vero fondatore dell' indirizzo cinico. In realtà, come abbiamo visto, ciò non è storicamente corretto. È possibile che Dio­ gene abbia contestato, come Antistene, l' immagine di Socrate proposta da Platone, ma è praticamente certo che il cinismo si sviluppa solo con Diogene. Egli infatti fu il primo a essere chiamato "il cane" e ad accettare di buon grado questo appellativo (da cui il termine "cinico"). Questo di­ pende probabilmente dal fatto che la sua vita si ispirava ad atteggiamenti tipici del cane, come l'indifferenza e la mancanza di pudore (anaideia) : si narra infatti che Diogene, come i cani, era solito compiere in pubblico atti indecenti. In tal modo Diogene voleva mostrare che nelle cose naturali non c 'è nulla di realmente vergognoso, mentre ciò che è davvero fonte di vergogna lo deve essere sempre, sia in pubblico sia in privato. Un altro motivo ricavabile dallo stile di vita di Diogene è quello dell'autosufficienza. Ciò risulta da una lunga serie di aneddoti, dove la ricca fioritura della leggenda non può tuttavia mettere in dubbio alcuni dati fondamentali. Del resto si tratta di un ideale di schietta derivazione socratica, e poi fatto proprio da quasi tutti i filosofi ellenistici. Leggenda­ ria, inoltre, era la sua parrhesia, cioè la sua libertà di parlare come voleva di fronte a chiunque. Le sue biografie raccontano come egli abbia dato prova di questa disinvoltura di fronte a potenti come Filippo il Macedone o suo figlio Alessandro. Anche su questi fatti, però, il giudizio degli storici moderni è divenuto molto più cauto. Quello che è certo è che la parrhesia di Diogene non ha più nulla del significato politico che aveva nella Grecia classica (dove indicava la libertà di parola concessa a tutti i cittadini liberi nelle assemblee). Come detto, il contenuto della filosofia diogeniana si ricava non solo dalla sua vita, ma anche dalle sue dottrine. Sembra, in primo luogo, che egli abbia ripreso la classica antinomia sofistica tra nomos (associato alla doxa, intesa sia come onore sia come opinione corrente) e physis. La natura mostra agli uomini come devono agire, sia indicando negli animali il giu­ sto modello di comportamento (come già abbiamo visto) sia selezionando

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quegli esercizi e quelle fatiche che meritano davvero di essere compiute. È da stolti, ad esempio, sottoporsi a fatiche per ottenere qualcosa di con­ venzionale come la buona fama, mentre è saggio affaticarsi per conseguire la virtù. La virtù, d'altra parte, non è niente di diverso dal vivere secondo natura e dall'autosufficienza che il saggio si procura in questo modo. Tutto ciò è collegato a una prospettiva eudemonistica, perché l'autosufficienza e la libertà sono gli ingredienti fondamentali di una vita buona e piacevole. Diogene, infine, aveva un'alta opinione del compito del filosofo (che si pone l'obiettivo di stabilire chi sia veramente l'uomo), e non mancano nel suo pensiero spunti critici contro la politica corrente (Diogene si ispirava al cosmopolitismo) e la religione tradizionale. Così come Antistene non può essere considerato il fondatore della scuola cinica, Aristippo non può essere ritenuto il fondatore di quella ci­ renaica. I motivi filosofici che tradizioni molto posteriori attribuiscono comunemente ad Aristippo e alla scuola cirenaica si sono probabilmente sviluppati ali' interno di un gruppo di filosofi di Cirene ormai indipenden­ ti dall' insegnamento del discepolo di Socrate: un secondo Aristippo (det­ to "metrodidatta", cioè "maestro di misura e moderazione"), Anniceride, Teodoro l'ateo ed Egesia (detto "persuasore di morte"). Il principio fondamentale della filosofia cirenaica, che si concentrava sull'etica'\ consiste nel dire che il massimo di tutti i beni è il piacere, senza distinzione tra piaceri convenienti o sconvenienti. Infatti per i Cirenaici, così come per Diogene e per una certa sofistica, ciò che conta è quello che è appetibile per natura, non ciò che appare bello o brutto alle opinioni o alle convenzioni comuni. Chi dunque vuole vivere una vita buona deve sce­ gliere quelle azioni che, a conti fatti, gli procurano più piacere che dolore (ed è per questo, ad esempio, che il saggio non farà nulla contro le leggi). Il piacere era spiegato dai Cirenaici in coppia con il suo opposto, il dolore, e inteso come un lieve movimento dei sensi (mentre il dolore costituisce un movimento violento). Ed è probabile (anche se le fonti non sono del tutto concordi) che il piacere dei Cirenaici fosse soprattutto quello del corpo : non tanto perché non ammettessero lesistenza di altri piaceri, ma perché ritenevano che le sensazioni fisiche sono in un certo senso la condizione di ogni tipo di piacere. Il movimento cirenaico, tuttavia, non presenta una sviluppo concorde e compatto. Con Egesia, ad esempio, compare una forte sfumatura pessi­ mistica, fondata sulla constatazione che nella vita umana i dolori eccedo­ no nettamente i piaceri. Anniceride accolse parte delle riflessioni di Ege-

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sia, ma osservò da un lato che nella vita ci sono altri beni oltre al piacere, dall'altro che si può essere felici godendo anche di piaceri piccoli. Ricor­ diamo infine Teodoro l'ateo, che intese la gioia soprattutto come saggezza e felicità interiore (al punto da dire che i saggi non hanno bisogno nem­ meno di amici). Tra i cosiddetti "Megarici" importante in primo luogo è Eubulide (vissuto presumibilmente nell'arco del IV secolo, autore di scritti di cui non sappiamo praticamente nulla), un filosofo che sembra ormai difficile ricondurre all ' insegnamento di Euclide. Eubulide è famoso soprattutto per aver ideato (o anche solo formalizzato) una serie di argomenti dialet­ tici paradossali. Il più famoso è il paradosso del mentitore, che dice più o meno così (gli antichi ce ne hanno lasciato numerose versioni'4) : chi dice di mentire, mente o dice la verità ? Se dice la verità, allora è vero che egli mente, e dunque dice il falso ; se invece dice il falso, allora è falso che egli stia mentendo, dunque sta dicendo il vero. Altri argomenti sono meno profondi, e altri ancora semplicemente sofistici. Citeremo come esempi ri­ spettivi il cosiddetto "sorite" (cioè "mucchio") e il "cornuto" ( s s R I I B 30 ). Quando un certo numero di oggetti può essere detto un mucchio ? Un solo oggetto certamente non basta, ma forse nemmeno due o tre. Ma in ogni caso, qualunque sia il momento in cui si inizia a parlare di mucchio, il risultato è che la differenza tra un mucchio e un non mucchio è di una sola unità. Il "cornuto" suona invece così. Se si chiede a uno : "hai o non hai perso le corna ?'', comunque questi risponda l'esito è paradossale; se infatti risponde che ha perso le corna, ciò significa che le aveva, e se invece risponde che non le ha perse ciò significa che le ha ancora (l'argomento è sofistico perché l'asserzione "non ho perso le corna" non implica affatto, dal punto di vista logico, l'asserzione "ho ancora le cornà'). I tentativi di collegare il pensiero di Eubulide a una ripresa dell'elea­ tismo, se non attraverso la supposta scuola megarica almeno mediante le analogie con Zenone, sono probabilmente destinati a rimanere nebulosi. Più sicura sembra invece la vicinanza di Eubulide alla tarda sofistica, in particolare agli eristi (come dimostrato anche dall'affinità di certi suoi ar­ gomenti con quelli che si leggono nell'Eutidemo platonico). Ma non per questo la sua posizione è da sottovalutare, perché Platone prese gli eristi molto sul serio e Aristotele trovò necessario menzionare e confutare, come abbiamo visto, il paradosso del mentitore. Un discorso parzialmente analogo vale per Diodoro Crono (morto verso la fine del IV e gli inizi del I I I sec. a.C.; non abbiamo notizia di suoi

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scritti, anche se questo non significa che non ne esistessero ) , di cui si con­ serva un celebre argomento relativo al possibile ( detto "argomento do­ minatore"11 ) . Sembra che Diodoro negasse l'esistenza del possibile sulla base di questo ragionamento. L'unico modo per sapere se un'eventualità è possibile o no consiste nel sapere che in un dato tempo questa eventua­ lità si è verificata. Se ciò non accade mai, allora si tratta di un'eventualità impossibile ; se viceversa prima o poi accade, allora è necessaria. Dunque tutti gli eventi finiscono per dividersi in due sole classi, gli impossibili ( che non si verificano mai ) e i necessari ( che prima o poi si verificano ) . Sparisce, invece, il possibile. Si è spesso pensato che questo argomento fosse rivolto da Diodoro contro Aristotele. Di recente questa ipotesi è stata messa in dubbio, soprattutto in base al fatto che Diodoro, per mo­ tivi cronologici, difficilmente poteva conoscere il capitolo 9 del De inter­ pretatione, in cui Aristotele studia a fondo questo genere di problemi (è stata proposta, in alternativa, una polemica di Diodoro contro il proprio discepolo Filone ) . Tuttavia è indubbio che l'argomento di Diodoro tocchi oggettivamen­ te un punto sensibile della filosofia di Aristotele, collegato sia all'ambito logico della modalità sia alla sua concezione del divenire come passaggio dalla potenza all'atto sia a questioni metafisiche come il destino e il deter­ minismo. È invece documentabile il fatto che le ricerche di questi filosofi interessarono gli stoici. Pare addirittura che Zenone di Cizio, fondatore della Stoa, sia stato condiscepolo di Filone presso Diodoro: vedremo più avanti ( cfr. VOL. I I I , CAP. 6) quale importanza abbia nello stoicismo il tema del determinismo e lo studio delle proposizioni condizionali ( cui si dedicava soprattutto Filone ) . Ultimo esponente dei Megarici è Stilpone ( nato a Megara e vissuto tra la seconda metà del IV sec. a.C. e i primi decenni del successivo ; è autore di sette dialoghi ) , con il quale entriamo pienamente nel periodo ellenistico. Nella tradizione antica Stilpone è considerato non solo un esponente della scuola megarica, ma anche una specie di crocevia tra megarismo, cinismo, stoicismo e scetticismo. Data la scarsità delle testimonianze, è impossibi­ le districare con chiarezza questo intreccio, e perciò ci limiteremo ai dati relativamente più sicuri. Anche Stilpone, non meno degli altri Megarici, può essere considerato un rappresentante esemplare della dialettica eristi­ ca. Valgano in proposito due discusse testimonianze: la prima di Plutarco, che accredita a Stilpone l' idea che esistano solo giudizi tautologici ( s s R I I O 28); la seconda di Diogene Laerzio, da cui si ricava che a suo parere

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i termini universali non significano nulla ( S S R I I O 27). È qui evidente la sensibilità ami-platonica e ami-aristotelica di cui abbiamo parlato sopra. In Stilpone questa corrosività dialettica si sposa ai temi etici dell' imperturba­ bilità e dell'autosufficienza, che erano patrimonio comune a vari indirizzi filosofici contemporanei (perciò neanche queste informazioni favoriscono il suo inserimento in una determinata scuola). Quel poco che sappiamo del suo pensiero suggerisce di ascrivere alla stessa sensibilità megarica di Stilpone anche Menedemo di Eretria (cfr. SSR III F 18), che sopra abbiamo citato come discepolo di Pedone.

Note

I

Fonti, trasmissioni e critica dei testi l. Vale la pena di osservare fin da queste prime battute che la nozione di filosofia presocratica è tutto fuorché chiara: di questi problemi si tratterà diffusamente più avanti, nel capitolo 2.. 2.. Per una presentazione d' insieme, cfr. Cambiano (2.013, pp. 165-2.09). 3. Poxy 1364 + 3647 e POxy 1797; in generale, il lettore interessato ai papiri filosofici può riferirsi al Corpus deipapirifilosoficigreci e latini, 3 voli., Olschki, Firenze 1989-99. Un altro documento papiraceo di cui molto si è discusso recentemente e che presenta diversi punti di tangenza con la letteratura presocratica è il cosiddetto "papiro di Derveni� contenente il commento a una teogonia orfica in cui si discutono numerosi filosofi, Eraclito e Anassa­ gora in particolare. Cfr. Kouremenos, Parassoglou, Tsantsanoglou (2.006) e l'importante monografia di Betegh (2.004). 4. Diversi studiosi hanno però sollevato dubbi sulla reale collocazione di questo te­ sto, contestando l' idea tradizionale che potesse essere considerato opera di un sofista del V secolo a.C. (cfr. Burnyeat, 1998). 5. Cfr. Simplicio, In Phys. 39, 2.0-2.1 e 144, 2.5-2.9 Diels. 6. Su Aristotele e i presocratici rimane fondamentale il classico studio di Cherniss (1935). Tra le opere più importanti si segnalano la Metafisica, la Fisica, De caelo, De anima; vanno poi ricordate anche numerose opere purtroppo perdute, di cui conser­ va memoria Diogene Laerzio nel suo catalogo di opere aristoteliche (v 2.5-2.6); falsa­ mente attribuito ad Aristotele, ma fondamentale per lo studio della filosofia presocra­ tica, è infine il trattato Su Me/isso, Senofane e Gorgia. 7. Le ricerche di Diels sono poi confluite nella memorabile edizione dei Doxographi Graeci (Diels, 1879 ). Più recentemente le indagini di Diels sono state riprese e appro­ fondite da Mansfeld, Runia (1997-2.010 ). Una posizione critica rispetto a queste ricer­ che si legge in Zhmud (2.001 ), il quale, in opposizione alla tesi di Mansfeld, secondo cui l'origine delle dossografie sarebbe da rintracciarsi nella dialettica peripatetica, ha insistito piuttosto sulla tesi tradizionale che individua la fonte di questo genere negli interessi storiografici degli antichi. 8. A proposito del cosiddetto Aetius arabus, ossia la traduzione araba della dossografia

STORI A D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

di Aezio, cfr. Daiber (1980). Non meno affascinante è la tradizione alchemica, in cui si conservano numerose tracce della filosofia presocratica; particolarmente interessante, a questo proposito, è la cosiddetta Turba philosophorum (X sec. d.C. ). Cfr. Plessner ( 1975). 9. Per una riflessione critica su questa edizione, un punto di riferimento fondamentale per chiunque si interessi del pensiero presocratico, si può consultare Burkert (1999b). 10. Cfr. von Kienle (1961); una traduzione in italiano di Sozione è in Giannattasio An­ dria (1989). Strettamente collegate al genere delle successioni sono poi le trattazioni per "scuole" (particolarmente importanti per i secoli ellenistici), di cui offre una testi­ monianza interessante il I libro della Confotazione di tutte le eresie dello scrittore cri­ stiano Ippolito di Roma ( n-m sec. d.C.), che tentò di confutare tutte le eresie cristiane mostrando che le loro tesi non facevano che riprendere le idee delle "sette" filosofiche greche (cfr. Osborne, 1987b; Mansfeld, 199z.). 11. La diadochia ionica, se ci si concentra sul periodo presocratico, è Talete, Anassi­ mandro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Socrate e i socratici; la diadochia italica è invece duplice: da una lato si ha la linea pitagorica (Pitagora, pitagorici, Empedocle, Filolao, Archita, pitagorici tardi), dall'altro la linea eleatica (Senofane, Parmenide, Ze­ none, Melisso, Leucippo, Democrito, Protagora). Cfr. ad esempio Brisson (z.012., p. 2.2. ) . 12.. Su questo autore, i lettori interessati possono consultare con profitto la mono­ grafia di Mayer (1978) e gli articoli pubblicati nel numero monografico della rivista "Elenchos" del 1986. La struttura delle Vite di Diogene era la seguente: introduzione e sapienti ( 1 libro); la tradizione ionica e Socrate ( n libro) ; Platone ( m libro) ; l'Acca­ demia fino a Clitomaco ( 1v libro) ; Aristotele e i peripatetici (v libro) ; Antistene e i cinici (v1 libro) ; stoici (vn libro) ; la tradizione italica (vm libro) ; Pitagora, Empedo­ cle, Eraclito, Protagora, Pirrone ( 1x libro) ; Epicuro ( x libro). 13. Cfr. ad esempio la discussione sulla dipendenza di Parmenide da Senofane o dai pitagorici ( 1x z.1): questi stessi problemi ritornano ciclicamente anche negli studi mo­ derni, come si può ricavare ad esempio dallo studio di Kingsley (1995).

2 Il problema delle origini della filosofi.a antica

1. Ho discusso questo aspetto in Vegetti (1999). z.. La critica classica alla ricostruzione aristotelica è quella di Cherniss (1935). Per una valutazione equilibrata della posizione di Aristotele, intesa come dialettica e non dos­ sografica, cfr. Berti (1986). 3. Riprendo l'espressione usata in Vegetti (1998c). 4. Su questo insieme di problemi è da vedere l'ottima discussione di Sassi (z.009). Importante il saggio di Laks (z.ooz.a). Cfr. anche i saggi raccolti in Sassi (z.oo6a). Un' interessante rassegna delle concezioni greche sull'origine della filosofia è in Ca­ sertano (z.007>). 5. Le influenze orientali sono state trattate in varie opere da Walter Burkert; cfr. in particolare Burkert (1999a; z.008). Una sintetica riconsiderazione del problema si leg­ ge anche in Gemelli Marciano (z.012., pp. 3-34).

249

NOTE

6. Sul rapporto fra società della polis e nascita della filosofia è classica l'opera di Ver­ nant (1962.). Sul nesso tra il dibattito politico-giudiziario e il carattere agonale del pensiero greco ha scritto a più riprese Geolfrey Lloyd; cfr. in particolare Lloyd (1987 ) .

3 Dal sapiente al filosofo : figure sociali e ambienti culturali fra

VI

e v secolo

1. È vero che nel Teeteto (174a) Platone fa invece di Talete il prototipo del filosofo contemplativo, ignaro della realtà empirica. Ma Aristotele racconta un altro aneddo­ to che conferma il talento pratico di Talete : avendo previsto le condizioni meteorolo­ giche favorevoli a un eccezionale raccolto di olive, avrebbe fatto incetta di frantoi, in perfetto stile crematistico (Polit. I II 12.59a 6 ss.). 2.. Su queste figure cfr. intanto Detienne ( 19 67). 3. L'aspetto iniziatico e misterico di figure come Empedocle e Parmenide è stato sottoli­ neato in modo interessante, ma con molti eccessi interpretativi, in Kingsley ( 1995; 1999 ). 4. Su questa e altre "simulazioni di immortalità" cfr. Burkert (1969) e Vegetti (2.001). 5. Su questo rapporto, molto discusso, resta importante Burkert (1982.); più recente­ mente cfr. Bernabé (2.002.). 6. Su questo tema è classico Dodds (1951). 7. Su questo e altri problemi del proemio di Parmenide cfr. l' introduzione a Cerri (1999). 8. Su questa figura cfr. Vegetti (1996). 9. Di un difficile rapporto di Democrito con la cultura ateniese è forse testimone il fr. 68 B I I 6 DK ( « Andai ad Atene e là nessuno mi conobbe » ) . 10. Anassagora era amico d i Pericle, e forse il processo d i empietà che gli venne in­ tentato era animato da un'intenzione anti-periclea, ma era famoso per il suo vivere appartato (cfr. ad esempio Diogene Laerzio II 6-7 = 59 A 1 DK). II. L'interpretazione platonica del relativismo protagoreo, che interpreta il famoso fr. 80 B 1 DK (l'uomo "misura di tutte le cose"), è nel Teeteto (167a ss., 172.b). Per i Discorsi duplici cfr. 90 DK. 12.. Al quale va riportato il suo celebre agnosticismo religioso (So B 4 DK). 13. Ne sono un vivace documento i discorsi giudiziari contrapposti che costituisco­ no le Tetralogie di Antifonte (non incluse in DK per il pregiudizio, ormai superato, dell 'esistenza di due differenti personaggi di nome Antifonte, il sofista e il retore­ politico).

4 Il debutto della filosofia : i primi dibattiti cosmologici a Mileto

1. Per una discussione di questi problemi, cfr. il capitolo 2.. 2.. Sempre che di previsione si possa davvero parlare, visto che per alcuni studiosi

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANT I C A

Talete avrebbe potuto predire soltanto l'anno dell'eclissi (come scrive Erodoto I 74 = l i A 5 DK) ; su questo complicato problema, il lettore interessato è rimandato all'ana­ lisi approfondita di Zhmud (2.006, pp. 2.40-3). 3. Particolarmente rilevanti circa un possibile impegno pratico di Talete sono tre te­ stimonianze di Erodoto, da cui si ricava indicazione di un suo coinvolgimento nelle vicende politiche del suo tempo: cfr. li B 4-6 DK. Nella stessa direzione, cfr. anche Platone, Resp. 6ooa. 4. Uno studio classico è quello di Jaeger (192.8). 5. Un problema ben presente nel (fin troppo) ottimistico tentativo di ricostruzione proposto da O 'Grady (2.002.). 6. Nel campo della geometria si ricorda ad esempio il teorema che ancora oggi porta il suo nome, in cui si dimostra che un fascio di linee parallele, se intersecato da due trasversali, determina su di esse classi di segmenti direttamente proporzionali. 7. L' importanza delle culture del Vicino Oriente ha trovato un grande sostenitore in due celebri studi di Cornford (1912.; 1952.), e più recentemente nella nuova edizione di Gemelli Marciano (2.007c). Cfr. anche Gemelli Marciano (2.012., pp. 17-9 ), dove si afferma che Talete non avrebbe mai « trattato in generale il tema della cosmogonia e della cosmologia » : « Molto probabilmente la famosa osservazione rientrava come accenno secondario nella spiegazione dei terremoti: questi si produrrebbero perché la terra fluttua sull'acqua come un pezzo di legno o qualcosa di simile » (ivi, p. 18); ma l' idea secondo cui il cosmo si sarebbe generato da un'acqua primordiale era già presente proprio in queste tradizioni vicino-orientali (cfr. Perilli, 2.012., p. 86), e non si capisce dunque perché non si possa attribuirla a Talete, sconfessando completamente la testimonianza di Aristotele. Una discussione equilibrata di questo annoso e com­ plicato problema si trova ora in Sassi (2.009, pp. 2.7-66). 8. Da questa osservazione di Aristotele si origina di conseguenza la distinzione tra teologia e physiologia che avrebbe poi dominato in tutta la tradizione peripatetica, come si ricava in particolare da Teofrasto, che avrebbe escluso le tesi dei poeti dalla sua raccolta Dottrinefisiche o Dottrine deifisici (e che un altro peripatetico, Eudemo, si sarebbe preoccupato di raccogliere separatamente). 9. Tra i moderni, cfr. in particolare Barnes (1979). 10. Cfr. Algra (1999, p. 51): più che di cosmologia, si dovrebbe dunque parlare di cosmogonia. li. Per una ricostruzione accurata delle interpretazioni ottocentesche del frammento di Anassimandro, cfr. ora Mansfeld (2.009 ). 12.. Fondamentale, per ricostruire la posizione di Anassimandro a partire dal testo corretto, è la pionieristica monografia di Kahn ( 1960 ). Altri due celebri esponen­ ti di questa lettura di Anassimandro sono Vlastos (1995a) e Vernant (1962., trad. it. pp. 107-19 ). 13. Come ha ben scritto Vernant (ivi, p. 94) : «l'originario, il primordiale si spogliano della loro maestà e del loro mistero ; essi hanno la banalità rassicurante di fenomeni familiari » .

NOTE

14. Che il cielo delle stelle sia più vicino alla Terra che al Sole non è una teoria altrimenti attestata nel mondo greco, mentre trova un interessante parallelo in un testo assiro; in generale, su questo argomento, cfr. Burkert (1963) e West (1971, trad. it. pp. 115-43). 15. Come Talete, del resto, anche Anassimandro fu autore di una carta della Terra, cui forse fa riferimento Erodoto ( 11 33; IV 36 e 49); cfr. Jaeger (1936', trad. it. pp. 2.96-7). 16. Un'altra teoria non attestata in Grecia, ma diffusa in Oriente ; cfr. Black e Green (1998). 17. Cfr. Mansfeld (2.011a). Ugualmente complicato è stabilire se Anassimandro abbia concepito l'esistenza di mondi multipli o no; cfr. Furley (1987, pp. 2.9-30) e McKirahan (2.001, pp. 49-65). 18. Ancora utili, a questo proposito, sono le pagine classiche di Vernant (1962., trad. it. pp. 93-119 ). 19. Cfr. Warren (2.007b, trad. it. p. 48): « Ciò che è più notevole nel ragionamento di Anassimandro, se questa ricostruzione è corretta, è che non dipende da nessuna prova empirica o da qualche principio generale derivato dall'osservazione. [ ... ] Si tratta di un principio che [ . .. ] costituisce una parte importante di una concezione complessiva del mondo secondo cui ciò che accade in esso è in linea di principio spiegabile : ciascun effetto ha qualche causa che fa sì che esso, piuttosto che qualcos'altro, avvenga. Qua­ lunque cosa accada, ci deve essere qualche ragione perché accada, e possiamo quindi in­ cominciare a cercare quelle ragioni, fiduciosi che qualche spiegazione ci debba essere » . 2.0. Sull' importanza della scrittura in prosa per lo sviluppo della filosofia, cfr. Laks (2.001, pp. 131-51). Scegliendo di scrivere in prosa, Anassimandro fu probabilmente influenzato dalla letteratura tecnica (architettura, legislazione, geografia) ; cfr. Cou­ prie, Hahn, Naddaf (2.003) e Sassi (2.oo6a). Quanto ai destinatari possibili, cfr. Sassi (2.009, pp. 139-44). 2.1. In questa direzione, cfr. Graham (2.006, pp. 31-3); cfr. anche Perilli (2.012., p. 88). È facile osservare che le due diverse ricostruzioni modificano i termini di numerosi pro­ blemi, a partire dalla questione riguardante la fine del ciclo cosmico. 2.2.. Di più, questo problema comporta anche conseguenze rispetto a quello dell'evo­ luzione o dissipazione cui prima si è fatto cenno: se il modello "immanente" sembra favorire la lettura di un'alternanza infinita degli opposti (oltre ai già citati studi di Vlastos, Kahn e Vernant, cfr. ad esempio Asmis, 1981), il secondo modello sembra in­ vece implicare una dissipazione e dunque un nuovo intervento da parte del principio dell 'apeiron. Questa seconda interpretazione ha recentemente trovato molti difenso­ ri, come, oltre al già citato Mansfeld, Freudenthal (1986). Ma quello che resterebbe da chiarire sono le modalità di intervento del principio dell' apeiron. 2.3. Jaeger (1953, p. 51; 1936', p. 300 ). Sull'eventuale influenza che il nuovo mondo della politica avrebbe esercitato su Anassimandro e il suo universo, meritano ancora di essere letti gli studi classici di Vlastos (1995a) e Vernant (1965b, pp. 2.18-42.) ; per una riconsiderazione critica, cfr. ora Sassi ( 2.007 ). 2.4. Come osserva Graham (2.006, p. 83). 2.5. A proposito di questo problema, cfr. Perilli (1996, pp. 2.7-34).

STORIA D ELLA FILO S O FIA ANTI C A

2.6. Come ha cercato di mostrare Graham (2.006, in particolare pp. 1 8-2.7 e 2.94-307 ). 2.7. Particolarmente importante per Anassimene è ad esempio Barnes (1979, pp. 3 856); su Parmenide e i Milesi, cfr. ora Palmer (2.009, pp. 31 8-49). 2.8. In generale, su Diogene di Apollonia, cfr. Laks (2.0082a).

5 Alla ricerca della giustizia: il pensiero etico-politico era VI e v secolo

r. Un tentativo recente di affrontare il pensiero politico greco a partire da una pro­ spettiva pratica è quello di Cartledge (2.009 ). 2.. Sui poemi omerici intesi come l'enciclopedia in cui si condensa tutto il sapere dei Greci, si considerino ad esempio le brillanti osservazioni di Havelock (1978, trad. it. pp. 7-108). Più in generale, per una sintetica introduzione a Omero e a tutti i proble­ mi dipendenti dalla cosiddetta "questione omerica", cfr. Fowler (2.004). 3. Indicativo di questa tendenza è Adkins (1960 ); l'espressione « città impossibile » è ricavata da Vegetti (1989, p. 19 ). 4. Cfr. Lloyd-Jones (1971, p. 13). Osservazioni interessanti, anche se a volte troppo radicali, si leggono in Collobert (2.ou, p. 98). 5. Una sintetica presentazione è in Bearzot (2.008, pp. 15-2.2.). 6. Cfr. in particolare Il. XVI 3 84-38 8, e più in generale Allan (2.006, pp. 1-36). 7. Un'utile discussione è in Sihvola (1989). 8. Due studi recenti meritevoli di attenzione sono Almeida (2.003) e Lewis (2.006). 9. Ricavo questa espressione da Vlastos (1995a, pp. 32.-56). 10. Secondo la celebre tesi di Vernant (1962., trad. it. pp. 100-8). Per un ripensamento di questa idea, cfr. ora Sassi (2.009, pp. 138-9). u. Particolarmente importante a questo proposito è la rivisitazione del mito di Pro­ tagora che Platone fa raccontare a Protagora nel dialogo che porta il suo nome, cfr. Bonazzi (2.012.a). 12.. Cfr. Farrar (1988). In generale, sul problema della democrazia in Grecia, cfr. Mu­ sti (1995). 13. In generale, sulla reazione anti-democratica, cfr. Ostwald (1986) e Ober (1998). 14. Un'analisi raffinata delle numerose contraddizioni che minano la coerenza del discorso callicleo si legge in Fussi (2.006, pp. 2.03-2.0 ). 15. Su pessimismo e tradizionalismo di Tucidide, cfr. ad esempio Stahl (1966), Lo­ rawc: (2.005, pp. 81-107) e Crane (1998); quanto ad Antifonte, cfr. Decleva Caizzi (1999, pp. 32.3-8) e Bonazzi (2.006). 6 Il pitagorismo

r. Cfr. Burkert (1962.). Una messa a punto italiana aggiornata è in Centrone (1996). Una discussione critica del fondamentale studio di Burkert si deve ora a due impor-

NOTE

25 3

tanti scudi di Zhmud ( 1997; 2012 ) . Una ricognizione del vasto dibattito storiografico sul pitagorismo dal XIX secolo a oggi si legge in Cornelli ( 2013 ) . 2. Per una presentazione d' insieme, che aiuta a comprendere i tratti di originalità, cfr. Vegetti ( 1989, pp. 73-83 ) . 3. Più controversa, perché attestata in fonti tarde e difficili da valutare, è invece la consistenza, all' interno della comunità, della distinzione tra acusmatici, il cui dovere si risolveva nella pedissequa applicazione dei precetti del maestro, e matematici, cui era riservato l'accesso alle dottrine più importanti e che partecipavano alla loro ulte­ riore elaborazione. 4. Cfr. Centrone ( 1996, pp. 45-6 ) , cui si rinvia per un'analisi accurata di tutte le testi­ monianze riguardanti il coinvolgimento politico dei pitagorici. 5. Cfr. Burkert ( 19 62, trad. ingl. pp. 1 20-65 ) ; ma già in precedenza cfr. le pagine clas­ siche di Dodds ( 1951, trad. it. pp. 178-82 ) . Una ricostruzione del pensiero di Pitagora più sensibile alle istanze filosofiche si legge invece, oltre che nello studio citato di Riedweg, in Zhmud ( 2012 ) . 6. Per una presentazione equilibrata di questi problemi cfr. ora Sassi ( 2009, pp. 1 65-202) . 7. Cfr. Barnes (1979, pp. 100-14 ) . Per Pitagora almeno il problema non si poneva, visto che ricordava tutte le sue precedenti incarnazioni; cfr. 14 A 8 DK. 8. Accanto al già citato libro di Burkert ( 1962 ), un contributo fondamentale per riva­ lutare l' importanza di Filolao è l'edizione commentata di Huffman ( 1993 ) . 9. Le testimonianze più significative sono Talete ( I I A 13 DK) ; Anassimandro ( 1 2 B l DK) ; Anassimene ( 1 3 A 7 DK) ; Senofane ( 21 B 28 DK); Anassagora ( 59 B l-2; 12 DK). ro. Cfr. Kirk, Raven, Schofield ( 1983\ p. 326 ) . Ai numeri aveva pensato anche Guchrie ( 19 62, pp. 240 ss.). I I. Cfr. Giamblico ( V. Pyth. 88 246-247; Comm. math. 25 77 ) ; Pappo di Alessan­ dria (In x Eucl. 1.1 ) ; Plutarco (V. Num. 22 3-4 ) . Questo aneddoto è a volte riferito a Ippaso (che avrebbe rivelato il segreto sugli irrazionali svelando le caratteristiche del dodecaedro) o più genericamente a un anonimo pitagorico. 12. Più precisamente, la controversia avrebbe riguardato lo scontro tra gli acusmatici e i matematici, i primi rifiutando le innovazioni dottrinali suggerite dai secondi. Non a caso alcune testimonianze indicano Ippaso come il capo dei matematici ( 18 A 2 DK). 13. Cfr. Huffman ( 1993, pp. 54-77 ) ; Zhmud (19 89, pp. 270-92 ) . Una difesa della te­ stimonianza aristotelica e dell'importanza della teoria tradizionale dei numeri è in Kahn ( 2001, pp. 26-)8 ) . 14. Così i pitagorici avrebbero associato il numero 4 alla giustizia perché risultava da due uguali ( 2 x 2 ) e il matrimonio al 5, perché risultante dal primo numero dispari (maschile) e pari (femminile ; il numero l non era considerato un numero come gli altri), cfr. Aristotele, Magna Mor. I I82a I I. Questo tipo di ragionamenti spiegherebbe l' importanza della tetraktys, la tetrade, che era composta dalla somma dei primi quat­ tro numeri, che conteneva gli intervalli musicali principali ( 2:1 il rapporto di ottava, 3:2 il rapporto di quinta, 4:3 il rapporto di quarta) e veniva rappresentata nella forma di un triangolo equilatero :

254

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

o o

o

o o o o o o o 15. Fondamentale, a proposito di Archita, è adesso l'edizione di Huffman (2005). 16. Cfr. Erodoto II 8 1 (un testo malauguratamente trasmesso in una duplice redazio­ ne) e Isocrate, Orazioni xv 268 (citando Ione di Chio, cfr. 36 A 6 DK). Per una sin­ tetica ma chiara presentazione, cfr. Burkert (1962, trad. ingl. pp. 125-36); una messa a punto, con ricca bibliografia, è nei due volumi curati da Bernabé e Casadesus (2008). Una difesa recente, affascinante ma non interamente convincente, delle strette inter­ relazioni che corrono tra pitagorici e orfici si legge in Kingsley (1995). 17. Le vicende che hanno condotto alla pubblicazione di questo papiro sono state tortuose e non prive di polemiche: scoperto nel 1962, il papiro è stato pubblicato una prima volta senza l'autorizzazione degli editori in forma anonima (ma si scoprì presto che si trattava del celebre filologo tedesco Rudolf Merkelbach) nel 1982 sulla presti­ giosa rivista "Zeitschrift fiir Papyrologie und Epigraphik"; solo nel 2006, dopo tante discussioni e altre edizioni parziali (Janko, 2002; Jourdan, 2003; Betegh, 2004), si è avuta la pubblicazione ufficiale, grazie alla mediazione dei colleghi italiani riuniti intorno al progetto Corpus dei papirifilosofici greci e latini; cfr. Kouremenos, Parasso­ glou, Tsantsanoglou (2006). 18. Molto utili, a questo proposito, sono le pagine di Vegetti (1989, pp. 73-83). 19. Due buone presentazioni d' insieme sono in Guthrie (19 62, pp. 341-59) e Barnes ( 1979, pp. 1 1 4-21, per la prova dell' immortalità dell'anima). 7

Riflessione teologica e critica delle tradizioni religiose : da Senofane di Colofone ai sofisti

1. Due utili introduzioni sono quelle di Most (2003) e Betegh (2006b). 2. Il più illustre accusatore dell'ateismo di Aristotele fu non a caso il platonico At­ tico, vissuto nel II secolo d.C. e fautore di un' interpretazione in chiave teologica del pensiero di Platone (cfr. VOL. IV, CAP. 2). 3. Su questo annoso problema, cfr. il capitolo 9. 4. Le traduzioni di Senofane sono di Trabattoni (1985). 5. Sull'agnosticismo di Protagora (e sulle sue possibili relazioni con Senofane), cfr. Bonazzi (2010, pp. 135-8) e Sassi (2013). 6. L' interpretazione corretta di questo frammento, senza dubbio una delle testimo­ nianze presocratiche più interessanti di cui disponiamo, è stata oggetto di veementi discussioni tra gli studiosi. Semplificando, due sono le letture più accreditate. Frankel, in un celebre articolo del 1925 (tradotto in italiano nel 19 82), aveva perorato la causa di un Senofane empirista: quello che sfugge alla possibilità della nostra conoscenza è semplicemente quello che sfugge alla nostra esperienza; alternativamente c'è poi la lettura fallibilista per cui quello che a Senofane preme sottolineare è il fatto che gli

NOTE

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uomini non dispongono di un criterio infallibile in grado di garantire la correttezza delle loro conoscenze (tra gli altri cfr. Guthrie, 1962, pp. 39 5-401). Un celebre sosteni­ tore di questa seconda interpretazione è Popper (1998b, pp. 33-67 ). Una discussione esaustiva è in Lesher (1992, pp. 155-69); cfr. anche Warren (2007b, trad. it. pp. 72-8 1), che distingue tra letture internaliste ed esternaliste. 7. Insieme ai testi citati in nota 5, cfr. Sassi (20u). 8. Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp. I 224-225 e Adv. Math. VII 49; su Senofane e lo scet­ ticismo, cfr. Spinelli (2000). 9. Considerazioni interessanti su questo problema, anche se non sempre condivisibi­ li, sono in Mogyor6di (2002). 10. Una questione forse troppo dibattuta riguarda il presunto monoteismo di Seno­ fane. In realtà, da frammenti come B 23 D K, quello che sembra emergere è l' interesse di Senofane a evidenziare la supremazia di un dio rispetto agli altri, una teoria eno­ teista che non stona con le concezioni mitologiche tradizionali del politeismo, greco e non, cfr. Sassi (2013). II. Su Senofane come riformatore religioso, cfr. tra gli altri Heitsch (19 83, pp. 126 ss.) e Schafer (1996, pp. 147 ss.). 12. Una linea continuista è ad esempio difesa nel celebre studio di Jaeger (1928); rilie­ vi molto opportuni si leggono anche in Kahn (1997, pp. 250-3). 13. Su Empedocle, cfr. ad esempio Morgan (2000, pp. 59-62) e il controverso studio di Kingsley (1995). 14. Sui sofisti e la religione, cfr. Muir (1985) e Ostwald (1986, pp. 274-90 ). Frutto della medesima temperie culturale sono anche i vari tentativi di "salvare" Omero e i miti elaborandone interpretazioni allegorizzanti o razionalizzanti, cfr. Giannantoni (1992, pp. rn-5). 15. Per una presentazione d' insieme, cfr. ivi, pp. 208-28. 16. Oltre a quelli già citati dalle Nuvole, cfr. ad esempio Euripide, Le troiane 884-887. 17. Da tempo è oggetto di vivaci discussioni l' identità dei filosofi cui l'ateniese sta­ rebbe facendo riferimento (da Antifonte e Democrito all'eventualità che si tratti in­ vece di un pastiche platonico) ; per una discussione cfr. Bonazzi (2012a, pp. 21-40 ). 18. Guthrie (197 1b, p. 236). Su Diagora e l'ateismo antico, cfr. Winiarczyk (1990, pp. I-15). 19. Riprendo qui quanto osservato in Bonazzi (2010, pp. 145-6). 20. Un parallelo interessante, un'altra spregiudicata variazione sul tema, è nel discor­ so di Adimanto nella Repubblica platonica (365d-e); cfr. Vegetti (199 8a, pp. 221-32). 21. Sono famose su questo punto le pagine di Dodds (1951, trad. it. pp. 227-42). 22. Cfr. la messa a punto di Ostwald (1986, pp. 528-36).

8 Eraclito di Efeso

1. Cfr. anche 22 B 121 DK: « Sarebbe giusto che gli Efesii vadano tutti ad impiccarsi, quanti sono di età adulta, e lascino lo Stato ai fanciulli; essi che hanno mandato in esi-

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTI C A

lio Ermodoro, l'uomo fra loro più abile, dicendo : "Non ci sia fra noi un singolo uomo che sia più abile di tutti; e se per caso ve n'è uno, vada a stare altrove e con altri" » . Le traduzioni di Eraclito, a volte con leggere modifiche, sono di Trabattoni (1989 ). Per le testimonianze, si segue invece Giannantoni (1979 ). 2.. Sul problema della conoscenza in Eraclito, cfr. Hussey (19 82., pp. 33-59) e Graham (2.008, pp. 176-84). 3. Osservazioni interessanti si leggono in Gemelli Marciano (2.002., pp. 96-103). 4. Questa è la tesi di fondo di Kahn (1979), autore di uno degli studi più importanti pubblicati su Eraclito nel Novecento. 5. Tra le edizioni principali, oltre a quella già menzionata di Kahn (ibid. ) si segna­ lano : Kirk (1954); Marcovich (1967); Bollack, Wismann (1972.); Mondolfo, Taran (1972.); Diano, Serra (1980 ); Robinson (1987 ); Pradeau (2.004); Fronterotta (2.013). Una raccolta di tutte le testimonianze è ora disponibile in Mouraviev (1999-2.011). 6. Un'analisi approfondita dei numerosi significati di logos si legge in Gurhrie (19 62., PP· 419-2.4). 7. Una tesi in cui si sarebbero riconosciuti i cosiddetti "eraclitei" (Diogene Laerzio x 6), non propriamente allievi ma seguaci, tra cui spicca il nome di Cratilo di Atene. 8. Cfr. Platone, Iheaet. 152.e, citato nel capitolo 1. 9. La traduzione della frase diventerebbe dunque : « [ ... ] alle stesse persone che si im­ mergono nei fiumi » . 10. Molto utili sono i commenti d i Kahn (1979, pp. 2.05-10 ) . 1 1 . Questa affermazione trova però una parziale smentita i n un frammento di papiro recentemente riscoperto (Poxy 3710) da cui sembra di potersi ricavare anche per Era­ clito un qualche interesse per l'astronomia; cfr. West (1987, p. 16). 12.. L' importanza del tema del fuoco ha inoltre giocato un ruolo di primo piano nella ricezione stoica di Eraclito ; cfr. Long (1996a). 13. Così Kahn (1964, p. 196); Graham (2.006, p. 141). Considerazioni interessanti sul fuoco si leggono anche in Verdenius (1975, pp. 1-8). 14. Per un confronto approfondito tra Eraclito e Anassimandro, cfr. tra gli altri Kahn (1979, pp. 16-2.3); Vlastos (1995b, pp. 12.7-50 ). A proposito di Pitagora, cfr. Petit (1995, pp. 55-6 6). 15. Cfr. Graham (2.008, p. 171). 16. Occorre però riconoscere che altri frammenti sembrano mostrare che anche Eraclito ricadeva nella stessa aporia dei pensatori di Mileto, cfr. in particolare 2.2. B 63 DK. Rendere conto coerentemente di tutti i testi di Eraclito è del resto impresa quasi impossibile. 17. Almeno secondo la tesi del già citato Kahn (1979). 18. Per una presentazione chiara ed esaustiva dei problemi riguardanti la concezione eraclitea dell'anima, cfr. Centrone ( 2.007, pp. 131-49) ; insiste sull'originalità di Eracli­ to anche Nussbaum (1972.a). 19. Cfr. ad esempio Pradeau (2.004, p. 71). Più in generale, Kahn (1979, pp. 2.2.0-7 ); Nussbaum (1972.b).

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i.o. Cfr. l'analisi di Kahn ( 1979, p. 1 67 ). i.1. Graham (i.006, pp. 133-5). Più in generale, cfr. Mackenzie (1988). 2.2.. Cfr. 2.2. B 8 1 DK e 40 DK con Schofield (1991, pp. i.5-7) e Centrone (i.007, pp. 147-8): questo sarebbe l' inganno principale di Pitagora; in generale, osservazioni molto pertinenti su questo problema si leggono in Betegh (i.oo6a, pp. i.7-50), che distingue tra due modelli di anima, un portion model che vede l'anima come una parte del tutto, o più precisamente come una parte del principio di cui il tutto è costituito, e unjourney model, che insiste invece sulla persistenza di un'entità capace di conservare la propria individualità nel corso del tempo e a dispetto di tutte le esperienze. i.3. Su questa gloria, cfr. Nussbaum (197i.b, pp. 162.-3). 9 Parmenide e gli "eleati"

l. Sul problema storico e filosofico dell'esistenza di un'effettiva scuola eleatica, o quantomeno dell'omogeneità dottrinaria di un gruppo di pensatori a qualche tito­ lo catalogabili come "eleati" (specie a partire dalla testimonianza di seguito citata di Platone), di cui fornisco qui solo gli essenziali dati informativi, cfr. rispettivamente Cordero (1991) e Fronterotta (1998, pp. 17-i.4; 2.000). 2.. Cfr. ancora Cordero (1991, pp. 105-9), che illustra, con gli opportuni riferimenti bibliografici, gli sforzi di quanti, a partire da Diels, hanno tentato di correggere il testo di Diogene Laerzio per introdurvi almeno un'allusione a un possibile soggiorno di Senofane nella città di Elea, al fine di rendere plausibile un suo rapporto diretto con Parmenide. 3. Cfr. Senofane B i.3-i.6 DK; 34 DK; Simplicio, In Phys. i.i. 30 Diels (= A 31 DK) ; [Ip­ polito] , Ref. I 14, p. 17 19 Wendland (= A 33 DK) ; Sesto Empirico, Pyrrh. Hyp. I i.44 ( = A 35 DK); ma già Aristotele, Metaph. I 5 986b i.1-i.5 (= A 30 DK), e Pseudo Aristotele, De Melisso Xenophane Gorgia 3-4 (= A i.8 DK), fornisce una testimonianza univoca in tale direzione. Sempre a proposito di Senofane, cfr. inoltre, supra, capitolo 7. 4. Cfr. ancora Diogene Laerzio IX i.4, e Plutarco, Vita di Pericle i.6-i.7 (= A 30 DK). 5. Cfr. Giovanni Tzetzes, Chiliades II 980 ( = 67 A 5 DK). In effetti, anche a Zenone e allo stesso Parmenide viene talora attribuito il ruolo di maestri di Leucippo, la cui nascita è allora collocata, oltre che ad Abdera (o a Mileto), anche a Elea, allo scopo evidente di rafforzare su base scolastica e geografica una relazione teorica fra eleati­ smo e atomismo : cfr. Diogene Laerzio IX 30; Simplicio, In Phys. i.8 4 Diels ( = 67 A 8 DK). 6. Platone, in Parm. l i.7b, fornisce la precisazione, ripresa ad esempio da Diogene Laerzio IX i.5, che Parmenide e Zenone fossero legati da una relazione amorosa: in­ dipendentemente dall'attendibilità della notizia, essa mira certamente a rinforzare l' idea di un rapporto particolarmente intimo fra i due. 7. Questa tesi, ben formulata ad esempio da Frankel (1960\ pp. 157-97; 19693a, pp. 39 8-4i.i.), e ancora sostanzialmente maggioritaria nella prima metà del secolo

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANTICA

passato, ha tuttavia il difetto di suggerire una lettura piuttosto sommaria del proe­ mio di Parmenide, cioè senza riuscire a rendere conto di tutti gli elementi che in esso compaiono e accentuando invece in modo esclusivo e probabilmente inappropriato la contrapposizione fra l'oscurità e la luce, che fra l'altro, nei vv. 9-10, non è esente da ambiguità, giacché non è chiaro se siano le figlie del Sole a uscire dalla dimora della notte e verso la luce, per scortare poi il giovane protagonista presso la dea che lo atten­ de, contraddicendo così la possibilità che oscurità e luce siano immagini utilizzate in riferimento al protagonista e alla sua esperienza, o se sia invece il giovane stesso a com­ piere questo passaggio, come sarebbe richiesto dall' interpretazione appena evocata. 8. Cfr. innanzitutto Diels (20031, pp. 7-22), seguito da una lunga serie di studiosi, come Schuhl, Mondolfo, Zafiropulo, Jaeger, Untersteiner, Deichgraber, per non ci­ tare che i più illustri. 9. Cfr., per la prima opzione, Mansfeld (1964) e, per la seconda, Morrison (1955) e Burkert (1969 ) ; sulla linea di Burkert, e come suo approfondimento, vanno collocati pure i contributi di Sassi (1988), Cerri (1999, pp. 96-110) e, più recentemente, Palmer (2009, pp. 5 1-62); mentre mi pare abbia ecceduto nel sottolineare i tratti sapienziali del proemio Kingsley (1999). Decisamente a parte, e con un consapevole carattere di eccentricità, si pone la lettura di Capizzi (1975), che, essa pure suggerendo una comprensione letterale del proemio, ne trae un' indicazione di natura "urbanistica" e politica: il percorso che Parmenide tratteggia corrisponderebbe infatti alla descri­ zione di alcune vie e quartieri della città di Elea (portati alla luce dagli scavi condotti in loco nel 19 62), con lo scopo di ristabilire un'unità tra i quartieri della città divisi da un conflitto etnico o sociale. Sottolinea infine il carattere trasfannativo del proemio, come introduzione a un sapere dalle profonde implicazioni esistenziali, Robbiano (2006, pp. 62-79). 10. Per comodità di lettura, da questo momento in poi le citazioni dirette di Parme­ nide, tratte dall'edizione Diels-Kranz, verranno indicate soltanto con il numero di frammento preceduto da "fr." e seguito dall'eventuale numero di verso. 11. Un' interpretazione del poema basata su una forte valorizzazione di queste preci­ sazioni modali è difesa particolarmente da Palmer ( 2009 ), per il quale il contenuto delle due vie di ricerca non sarebbe tanto riconducibile all' "è" e al "non è", ma appun­ to all'oggetto delle due precisazioni modali, ossia a ciò che "è impossibile che non sia" e a ciò che "è necessario che non sia": dalla necessità della prima via e dall 'impossi­ bilità della seconda via discende la determinazione di due modi di essere, che a loro volta designano rispettivamente il percorso per giungere a cogliere il vero essere, vin­ colato dalla necessità, e a respingere il falso non essere, cui si oppone l' impossibilità (ivi, pp. 83-105). In tale quadro esegetico, Palmer prevede una terza opzione modale, quella della possibilità o della contingenza, che andrebbe riferita a un terzo modo di essere, e quindi a una terza via di ricerca, appunto riconducibile all'essere possibile di ciò che non è né necessario, come nella prima via, né impossibile, come nella seconda via (ivi, pp. 69-73), e ciò permetterebbe di spiegare l'attenzione di Parmenide, nella seconda parte del poema, agli enti mutevoli e plurali, né necessari né impossibili, che

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sussistono nel mondo dell'esperienza quotidiana e costituiscono l'oggetto delle opi­ nioni dei mortali, distinte tanto dalla vera conoscenza quanto dall'assoluta contrad­ dittorietà del falso (ivi, pp. 117 e 166). Su entrambe le questioni, del numero delle vie di ricerca e dell' interpretazione della seconda parte del poema, tornerò nel seguito di queste pagine; basti ricordare qui che già Owen ( 1960) aveva introdotto una terza via di ricerca, associata alla nozione della possibilità, accanto alle prime due. Cfr., per un esame critico, O ' Brien (1987, pp. 1 87-92 e 283-301). 12. Cfr. su tutto ciò l'ampia disamina, corredata dagli opportuni riferimenti critici e bibliografici, in O ' Brien (ivi, pp. 143-7 e 157-69 ). 13. Tale diagnosi dell'errore dei mortali ha prodotto, fra gli studiosi, l'ulteriore in­ terrogativo intorno a un'eventuale polemica di Parmenide nei confronti di Eraclito, forse identificabile, per le sue tesi relative all'unità dei termini opposti e al divenire, come il campione delle opinioni contraddittorie contro cui Parmenide si scaglia qui. Lasciando da parte l'ampissimo dibattito critico sollevato in proposito, che - sulla base di una serie di congetture sulle rispettive cronologie di Eraclito e di Parmenide e di un esame del linguaggio che quest 'ultimo utilizza nella sua condanna delle opinio­ ni dei mortali, e della sua pertinenza in chiave polemica nei confronti di Eraclito - ha fortemente oscillato da una convinzione quasi fideistica sull'effettiva relazione fra i due filosofi (che si trova recentemente riecheggiata in Cerri, 1999, pp. 205-9) alla sua radicale negazione (cfr. ad esempio i notevoli argomenti proposti da Mansfeld, 1964, passim), la questione pare oggi sopita, in quanto tutto sommato non decisiva per la comprensione della posizione di Parmenide e fondamentalmente, a mio avviso, in­ decidibile (un equilibrato status quaestionis, benché prudentemente favorevole alla possibilità che Eraclito sia quantomeno coinvolto nella polemica parmenidea contro le opinioni dei mortali, si trova in Taran, 1965, pp. 61-72). 14. La traduzione di questi versi, e particolarmente del fr. 3, è assai controversa: cfr. ancora in generale O ' Brien (1987, pp. 19-20, 26-7 e 54-5); e, per il fr. 3, Fronterotta (2007, pp. 3-19, in particolare pp. 4-1 1 ) . Assumo personalmente gli infiniti noein ed einai non come soggetti, ma come completivi del sintagma to auto ... estin, attribuen­ do loro una sfumatura di significato consecutiva. 15. Mi riferisco a Reinhardt (19591, in particolare pp. 32-5 1 ) . 1 6. Questa l a proposta d i Cordero (19971, pp. 132-44). 17. Cfr. ancora una volta, su tutto ciò, O ' Brien (1987, pp. 139-43 e 216-25). 1 8. Una seria difficoltà interpretativa è sollevata dal verso 5 del fr. 8: oude pot ' en oud' estai, epei nun estin, « non era allora né sarà un giorno, perché è ora ... » . Il significato esplicito del verso è che « ciò che è» non può avere, come detto, generazione e corru­ zione, nel passato o nel futuro, ma non è chiaro se esso implichi pure un riferimento al tempo come tale: in questo caso, infatti, la negazione dell'essere nel passato e nel futu­ ro potrebbe indurre a situare « ciò che è » in un presente atemporale (cfr. in proposito Owen, 1966); oppure a intendere che « ciò che è» « non era allora » soltanto, nel passato, « né sarà un giorno » soltanto, nel futuro, perché si estende invece nell 'eterna durata (cfr. in proposito Taran, 1965, pp. 175-89). Queste due posizioni alternative,

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che saranno tratteggiate e distinte in modo chiaro soltanto nel Timeo di Platone (37e3 8b), non mi sembrano però trovare, né l'una né l'altra, nessun fondamento chiaro nei frammenti di Parmenide che ci sono pervenuti. Cfr. su questo dibattito O ' Brien (1987, pp. 135-62). 19. I versi 5-6 del fr. 8 pongono un altro problema rilevante, in primis sul piano te­ stuale, ma con significative ricadute rispetto all' interpretazione monista che, del pen­ siero parmenideo e della "scuola" eleatica, è suggerita da Platone e di cui si è fatto cenno all' inizio di queste pagine : di « ciò che è» si dice infatti qui che è homou pani hen, suneches, "tutto intero", "uno", "continuo", e si tratta dell'unica attribuzione del predicato dell'unità all'essere - peraltro in una posizione subalterna e secondaria ri­ spetto alla dimostrazione condotta da Parmenide - che sia reperibile nei frammenti pervenutici. Tuttavia, alla lezione hen, suneches, "uno", "continuo� che si trova nella citazione che del frammento ha fornito Simplicio (In Phys. 78 15; 145 6 Diels), si con­ trappone la lezione houlophues, "di natura intera", che è riportata invece da un altro citato re del frammento, Asclepio (In Metaph. 42 30-3 1 ) . La seconda alternativa, difesa particolarmente da Untersteiner (1955, pp. 5-23) - cfr. pure, in proposito, il dibattito fra Spinelli (199ia) e Trabattoni (1991) - porterebbe evidentemente a espungere dal­ la riflessione parmenidea qualunque riferimento all'unità dell ' "essere" (e tantomeno del "tutto"). Ora, pur concordando con questa conclusione rispetto al rifiuto di una riduzione monista del pensiero di Parmenide, tendo a credere che la lezione hen, su­ neches sia da preferire. Infatti, benché sospettato di rappresentare una manipolazione ideologica, da parte di Simplicio, in chiave neoplatonica, l'aggettivo suneches è utiliz­ zato nelle Enneadi di Plotino, padre del neoplatonismo, in riferimento alla continuità propria della realtà sensibile, laddove laggettivo houlophues pare compatibile con una descrizione della realtà intelligibile. Ora, poiché secondo i neoplatonici Parmenide è di fatto un precursore di Platone, che avrebbe distinto l'essere intelligibile dal mondo sensibile, è poco verosimile che un commentatore neoplatonico come Simplicio ab­ bia sostituito, in un verso in cui si parla dell'essere parmenideo, houlophues (che può essere riferito all' intelligibile) con suneches (che si applica alla realtà sensibile), mentre proprio questa - da suneches a houlophues - sarebbe stata invece la manipolazione ideologica operata da Asclepio, lui pure neoplatonico ; il che mi fa propendere per la scelta di suneches, come meno carico di implicazioni teoriche introdotte dal citato re. 20. Sostenitori di un' interpretazione di Parmenide in generale, e rispetto al fr. 8 in particolare, come ideatore di una rigorosa metodologia scientifica, più che di una teo­ ria dell'essere o della conoscenza della realtà, finalizzata a una spiegazione razionale e non mitica dei fenomeni naturali, sono per esempio Casertano (1989\ pp. 230-43) e, più radicalmente ancora, Cerri (1999, pp. 25-6, 52-67 e 69-77 ), che giunge a intendere la seconda parte del poema come enunciazione dei « risultati provvisori della ricerca scientifica » (ivi, p. 69), «l' illustrazione sistematica ed enciclopedica della realtà, alla luce del sapere scientifico più aggiornato » (ivi, p. 73); ma mi sembra che precursore di questa interpretazione sia, con la carenza di nuances storico-ermeneutiche che gli è caratteristica e al di fuori di ogni prospettiva filologica, Popper (199 8a), che raccoglie saggi in parte inediti e in parte già noti dalla fine degli anni Cinquanta.

NOTE

21. La prima delle ipotesi citate è stata difesa da Diels (2003', p. 63); la seconda e la terza si trovano già tratteggiate e discusse in Zeller (1892S, pp. 580-4), che fondamen­ talmente si esprime per la terza. Il dibattito posteriore, nella maggior parte dei casi, non ha fatto che riprendere, in forme più o meno esplicite, o rielaborare una delle ipotesi appena segnalate : cfr. in proposito, fino al 1965, lampissima nota bibliografica nella versione italiana dell'opera di Zeller (Zeller, Mondolfo, 1967, pp. 292-319); cfr. pure la nota precedente e, supra, nota 11. Va infine segnalata per la sua peculiarità la tesi interpretativa proposta da Nietzsche, soprattutto nel corso di lezioni su Ifilosofi preplatonici, tenuto presso l' Università di Basilea a più riprese fra il 1872-73 e il 1876 (ora in Nietzsche, 1995), ma anche, in forma filologicamente meno accurata, ma con toni assai vividi, nella Filosofia nell'epoca tragica dei Greci, secondo la quale Parmenide avrebbe dapprima composto la sua cosmogonia, influenzato dall'insegnamento dei fi­ losofi milesi, per poi abbracciare, in età avanzata, la filosofia dell'essere che, con la sua logica stringente, nega ogni veridicità al mondo sensibile dell'esperienza; egli avrebbe dunque mantenuto gli esiti della sua riflessione giovanile nella seconda parte del poe­ ma, forse considerandoli come l'unica illustrazione possibile, benché strutturalmente manchevole, della realtà naturale. Questa tesi, scarsamente credibile e ancor meno fortunata negli studi parmenidei, è oggi generalmente abbandonata. 22. Tale mi pare invece l'esito, che non condivido, delle interpretazioni di Casertano e di Cerri evocate supra, nota 20. Ma anche la lettura di Palmer (per la quale cfr. supra, nota 11), in quanto sottolinea in maniera pressoché esclusiva il carattere modale delle vie di ricerca, giunge piuttosto a valorizzare i modi di essere di ciò che deve essere e di ciò che non puo affatto essere che non a indicare cosa effettivamente sia o non sia, risultando così alquanto insoddisfacente dal punto di vista della determinazione dei contenuti propri del "pensare" e dell' "essere". 23. Si tratta, nei suoi termini generali, dell' interpretazione logico-analitica resa ce­ lebre da Owen (1960; per una critica radicale di questa posizione cfr. O' Brien, 1987, pp. 187-206), che a sua volta dipende dalla riflessione di Bertrand Russell sulla natura della predicazione e particolarmente sullo statuto degli enunciati esistenziali negativi; ma già Calogero (1932) ipotizzava, per I' einai, un significato esclusivamente copulati­ vo, collocando così la riflessione parmenidea nell'ambito dell'analisi logico-linguisti­ ca, mentre successiva sarebbe invece «l'ontologizzazione di ciò che egli (Parmenide) ha scoperto come universale entità logico-verbale » (ivi, p. 17 ). Cfr. pure Mourelatos (2008', pp. 48-7 1) e, sulla stessa linea, anche Curd (1998): entrambi intendono l'"è" di Parmenide come riferito a una forma di predicazione essenziale capace di deter­ minare l'essenza reale di qualcosa, stabilendo così le meta-condizioni per la formula­ zione di un'ontologia, cioè individuando l' insieme di caratteristiche necessarie a che un qualunque ente "sia" propriamente e argomentando perciò che qualunque ente che "è" è sottoposto a simili, strette, condizioni di predicabilità, indipendentemente dall'esatta determinazione di quanti e quali enti siano effettivamente. 24. Mi riferisco così, forse semplificandola eccessivamente, ali' interpretazione pro­ posta da Charles Kahn in una serie di studi successivi, ora raccolti in Kahn (2009, PP· i43-217 ).

STORIA D E LLA FILO S O FIA ANTICA

25. Rimangono classici a questo proposito gli studi di von Fritz (1943; 1 945; 1946). Cfr. pure, più recentemente, i successivi studi di Lesher (19 81 ; 1994; 1999). La mia ricostruzione dipende inoltre da Leszl (1988, pp. 281-311, in particolare pp. 298-300 ). 26. Come spiega soprattutto 28 B 4 DK: « fissa lo sguardo su , pur se assenti, come ben presenti al pensiero [ noo], I perché esso non interromperà la continuità dell'essere, I che sia disperso ovunque e da ogni parte nel tutto I o che sia concentrato in se stesso » . L' interpretazione di questo frammento è controver­ sa; per quanto mi riguarda, mi limito a segnalare che non mi pare opportuno tra­ durre il sostantivo noos (al dativo : noo, v. 1) con "intelletton, "intelligenzan o anche "mente� come fa la gran parte dei traduttori, perché penso che una traduzione del genere supponga già l'attribuzione a Parmenide di una concezione particolarmente elaborata del soggetto del pensare e delle sue modalità operative, di cui invece non si trova traccia nei frammenti. Considero dunque qui il termine noos come una forma sostantivata del verbo noein, cioè come la facoltà di pensare che consiste precisamente nell'atto di pensare. 27. Cfr. l'interessante parallelo stabilito da Casati e Varzi (2002', p. 194) : « Consi­ deriamo per un momento le astrazioni, che sono curiosi oggetti percettivi. Non tutti gli oggetti astratti sono percepibili, e se noi percepiamo in generale delle astrazioni non le percepiamo direttamente, ma solo attraverso la percezione di qualche oggetto o entità materiale (che le rappresenti o con cui esse potrebbero essere colocalizzate). Quindi percepiamo il Polo Nord percependo, diciamo, una porzione di ghiaccio si­ tuata al Polo Nord » . 28. H o sviluppato nei dettagli questa interpretazione della concezione parmenidea del pensare e dell'essere in Fronterotta (2007, pp. 1 1-8). 29. È lecito chiedersi a questo punto se, ad ammettere la concezione del noein che ho tentato qui di difendere, non sia opportuno abbandonare la sua abituale tradu­ zione con "pensaren, utilizzando invece, ad esempio, verbi quali "concepiren, "capiren, "riconosceren ecc. Mi pare tuttavia che, scegliendo una diversa traduzione, si incorra nel rischio di una certa confusione e preferisco pertanto conservare il più familiare "pensaren, accompagnandolo con le opportune precisazioni. 30. Il lessico bizantino Suda (s.v. Zenone) indica quattro titoli: Dispute, Interpreta­ zione di Empedocle, Contro ifilosofi, Sulla natura, ma gli ultimi tre sono forse varianti del primo. Simplicio (In Phys. 134 2-1 1 = 29 A 23 DK) non sembra conoscere che un'unica opera di Zenone. 31. Una raccolta ancora da tenere presente, benché non recente, dei frammenti zeno­ niani e delle relative testimonianze è quella di Untersteiner (1970). 32. Questa notazione deriva dal perduto dialogo di Aristotele intitolato Sofista: cfr. fr. 1 Ross ( = 29 A 1 DK; 10 DK). 33. Cfr. pure, per questi argomenti, le testimonianze di Aristotele (Phys. I 3 187a 1-10; Metaph. III 4 1001b 7-16); Simplicio (In Phys. 40 19; 97 12; 99 10; 134 2; 183 3 Diels) ; Filopono (In Phys. 42 9; So 23: tutti riuniti in 29 A 21-23 DK). È di questi argomenti che Platone presenta, in Parm. 1 27d-e, una versione semplificata.

NOTE

34. Secondo Aristotele (Phys. VI 9 2.39b 5-2.4oa 19 = 2.9 A 2.5-2.8 DK), questi argo­ menti erano quattro : l'argomento dell 'inesistenza del movimento, i celebri argomen­ ti di Achille e della freccia e l'argomento delle masse uguali. 35. Una buona introduzione agli argomenti zenoniani, e alle loro implicazioni filoso­ fiche e scientifiche, si trova in Caveing (19 82.) e in Ferber (1981). 36. Il secondo argomento contro il movimento, detto "di Achille", si costruisce allo stesso modo : infatti, affinché Achille, che marcia più velocemente, possa raggiungere una tartaruga, che marcia più lentamente, dovrà innanzitutto arrivare nella posizione in cui si trova la tartaruga che, nel frattempo, avrà compiuto un altro piccolo passo ; e quando Achille sarà giunto in questa seconda posizione, la tartaruga avrà compiuto un altro piccolo passo e così via all' infinito, se lo spazio è infinitamente divisibile, il che mostra che il più lento non sarà mai raggiunto dal più veloce. 37. Per i frammenti di Melisso e le relative testimonianze si potrà consultare la raccol­ ta curata da Reale ( 1970 ), che ha fra l'altro contribuito, da un punto di vista critico e interpretativo, a una significativa rivalutazione del ruolo di Melisso nell'ambito della tradizione filosofica presocratica. 3 8. Sulla relazione teorica fra Melisso e Parmenide, sui suoi limiti e la sua estensione, cfr. gli studi di Sedley (1999) e Palmer (2.004). 39. La connessione fra le tesi eleatiche e l'ammissione del vuoto da parte degli atomi­ sti è stabilita già da Aristotele (Degen. et con: I 8 32.5a 2.3-32.). IO

Empedocle di Agrigento e Filistione di Locri

1. Per le informazioni sul contesto archeologico e culturale, cfr. Martin, Primavesi (1999, pp. 2.9-5 1). Quanto all'edizione del testo, si tenga conto di Janko (2.004) e Pri­ mavesi (2.008). 2.. Cfr. Kingsley (1995), secondo cui Empedocle sarebbe lontano dall'essere uno "scienziato� in qualsiasi accezione moderna del termine, perché il modello di sapien­ te da lui rappresentato, così come Pitagora, era portavoce di una visione del mondo in cui l'elemento razionale e quelli misterico, magico e alchemico si mescolavano in modo inscindibile. Le citazioni dirette di Empedocle tratte dall'edizione Diels-Kranz (in cui la parte dedicata a Empedocle è compresa nella sezione 2.1), per comodità di lettura verranno indicate soltanto con il numero di frammento preceduto da "fr." e seguito dall'eventuale numero di verso. 3. Cfr. Long (1 949 ), Barnes (1967) e soprattutto Osborne (1987b), alla cui tesi "uni­ tarista" ha aderito, tra gli altri, lnwood (2.001), cui si è allineato Trépanier (2.004), che ha proposto di ricollocare alcuni frammenti delle Purificazioni all' interno del proe­ mio del Sulla natura (cfr. però la recensione di Schofield, 2.006). 4. Ad esempio del fr. 139, di due versi, che nell'edizione DK compare come frammen­ to delle Purificazioni e, con una non banale variante testuale, compare nel papiro come parte del Sulla natura. Va notato che alcuni dei frammenti di quello che Martin e Pri-

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

mavesi chiamano "ensemble a" integrano e sembrano proseguire il già noto fr. 17, di tono indubbiamente cosmologico, mentre il materiale dell' ensemble contiene anche aspetti religiosi e un apparentemente bizzarro utilizzo della prima persona plurale che sembra coinvolgere "noi" all'interno del ciclo cosmico. Cfr. Nucci (2.005) e Laks (2.002.b). 5. In primo luogo, Diogene Laerzio è molto chiaro nel distinguere due opere (vm 77) di 5.000 versi. Poi, come rimarcato da Sedley (1998, p. 3), le fonti antiche espres­ samente attribuiscono alcuni frammenti a un'opera e altri all'altra. Infine, Mansfeld (1994b) ha portato, tra gli altri, un argomento di storia testuale piuttosto forte : è documentato che l'umanista Giovanni Aurispa possedesse un manoscritto greco del­ le Purificazioni empedoclee a Venezia nel 142.4, andato perduto. La spiegazione più naturale di questo fatto è l'esistenza di una tradizione del secondo poema empedocleo; altrimenti, bisognerebbe ipotizzare che il poema fosse sì uno, ma tramandato (da una parte della tradizione) con il titolo alternativo Purificazioni. 6. Questo è il fondamento della cosmologia empedoclea già per gli antichi: cfr. A 2.8 D K. 7. Cfr. fr. 6: «Le quattro radici di tutte le cose in primo luogo ascolta: I Zeus abba­ gliante, Era vivificatrice, ed Edoneo I e Nesti, che di lacrime distilla la fonte mortale » . Verosimilmente, i parallelismi sono i seguenti: Zeus-fuoco, Era-aria, Edoneo-terra, Nesti-acqua (cfr. Alleg. Hom. Script. apud Giovanni Stobeo, Ecl. I rn11b; [Ippolito] , Ref. VII 2.9 5-6 = A 33 DK). Empedocle è lungi dal tecnicizzare i nomi delle radici, come colto già da Aristotele (Degen. et corr. 315a 10-11) e Simplicio (In Phys. 32. 3-4; 159 10-12. Diels). 8. Cfr. Warren (2.007b, pp. 194 ss.). Warren considera di primaria importanza il fr. 2.3, interpretando la forma duale del verbo come un'allusione alle due forze di Amore e Odio : questo vorrebbe dire che una qualche forma di "volontà" è ascrivibile anche alle due forze, sebbene nessuna delle due voglia il mondo come è ora, né come lo vuole l'altra forza. Se dunque i pittori sono le due forze, non bisogna immaginare due forze che concorrono alla realizzazione dell'opera, ma a un'opera che sia il risultato di «due pittori litigiosi, uno intento a sfumare l'uno nell'altro tutti i colori sulla tela, l'altro a dipingere strisce separate di ciascun pigmento puro » . 9 . S i tratta del problema più complesso dell' intero pensiero d i Empedocle. L e dif­ ficoltà sono molte e non possono essere discusse qui, ma tre sono di primaria im­ portanza: 1. che cosa permette la distruzione dello Sfero ? Ovvero, è già presente in esso una componente, ancorché minima, di Odio ? E, se così, come può essere lo Sfe­ ro ?; 2.. quando si formano le masse omogenee ? Subito e in contemporanea, oppure dopo che si è raggiunta la massima disgregazione e si è riavviato il ciclo in virtù dell'A­ more ?; 3. nella fase di dominio dell' Odio vi è quiete o movimento ? IO. Platone, in Soph. 2.42.d 7-2.43a 1, distingue le Muse di Eraclito, «più intonate » , che prevedono un accordo armonico tra unità e molteplicità (cfr. 2. 2. B 5 1 DK), dalle Muse di Empedocle, la cui spiegazione prevede un'alternanza a turno di unità e mol­ teplicità. Analogamente, l'alternanza cosmica è chiara in Aristotele, Metaph. I 4 985a 2.5-2.9 e Phys. V I I I 1 2.5ob 2.3-2.9.

NOTE

11. Cfr. Holscher (1965; 1968). Questa opzione è seguita anche da Bollack (1965-69) e Van der Ben (1975, in particolare pp. 3 1 ss.). 12. Così presenta la questione Primavesi ( 1998, pp. 250 ss.). Oltre a Primavesi, la lettura standard è riscontrabile, tra gli altri, in Guthrie (1965), Solmsen (1965), O'Brien (1969), Long (1974), Wright (1981), Barnes (1979) e Inwood (2001). 13. Questa linea, proposta già da Panzerbieter (1 844), è seguita dalla maggior parte degli interpreti. È stata però proposta un' interpretazione che nega due distinte zoo­ gonie, come suggerito già da von Arnim (1902). 14. Cfr. su questi aspetti Wright (1981, pp. 58 ss.). 15. Si segnalano, come approfondimenti al problema del rapporto tra ciclo cosmico e daimonologia, i seguenti recenti saggi in Pierris (2005): Curd (2005), Laks (2005), Osborne (2005). In aggiunta, gli eccellenti contributi di Primavesi (2001; 2008). 16. Cfr. la testimonianza di Censorino ( 6 1 = A 84 DK) sul cuore come prima parte a formarsi nello sviluppo, quella di Sorano sul nutrimento dell'embrione ( Gynaec. I 57 p. 42, 1 2 Ilberg = A 79 DK), quella di Porfirio (De Styge apud Giovanni Stobeo, Ecl. I 49 53 p. 424, 1 4 = fr. 105) e quella di Teofrasto (De sens. 10 = A 86 DK) sul sangue intorno al cuore come sede dell' intelletto. 17. Cfr. Vegetti (1998b). La più recente analisi del capitolo 20 di Antica medicina è in Schiefsky (2005, pp. 293 ss.). 18. Si tratta di un papiro di oltre 1.900 linee, molte delle quali provenienti dalla Menoneia, una collezione di opinioni mediche menzionata da Galeno e attribuita a Menone, allievo di Aristotele. Per il testo cfr. Jones (1947) e la più recente edizione Manetti (2011). 19. Sul dibattito tra cardiocentrismo ed encefalocentrismo cfr. Manuli, Vegetti (1977 ). II

Anassagora e la filosofia della natura nell 'Atene del v secolo

1. Per le fonti cfr. Sider (2005', pp. 1-2, nota 2). 2. Clève (1965, pp. 171 e 291) è tra i pochi ad aver mantenuto la nascita di Anassagora attorno al 534 a.C. (su cui, almeno, cfr. Lanza, 1966, p. 4). 3. Diogene Laerzio ( 11 7) riporta i seguenti aneddoti: a) un giorno un tale rimpro­ verò Anassagora per il suo disinteresse verso la patria; il filosofo rispose, indicando il cielo : « Fai silenzio ! Mi importa, e molto, della patria » ; b) davanti alle insistenze dei familiari, che gli chiedevano perché non si occupasse delle sostanze paterne, replicò : « Perché non ve ne occupate voi ? » , e se ne andò. 4. Aristotele (Metaph. I 3 9 84a 11 = 59 A 43 DK) scrive che Anassagora per età era proteros a Empedocle, ma hysteros per l'attività: la lettura più naturale del testo inten­ de proteros come "anteriore" e hysteros come "posteriore cronologicamente"; tuttavia, sia Alessandro di Afrodisia (In Metaph. 27 26; 28 2-3 Hayduck) sia Asclepio (In Me­ taph. 25 25) intendono che Anassagora fu "inferiore" a Empedocle. O 'Brien (1968,

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STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTICA

p. I I 3 ) ritiene che Empedocle scrisse dopo Anassagora e ne fu influenzato, ma un' in­ fluenza dell'uno sull'altro è questione indecidibile (cfr. Mansfeld, 1990; lo studio­ so inoltre ritiene si debba leggere la coppia proteros/hysteros in senso esclusivamente temporale). Alcidamante (apud Diogene Laerzio VIII 56 = 31 A 1 DK) riporta che, dopo aver ascoltato Parmenide, Empedocle si mise a seguire le lezioni di Anassagora e Pitagora: la notizia non può essere presa alla lettera per l'evidente errore cronologico circa Pitagora (ma cfr. Sider, 20052, p. 7, per la vicinanza temporale tra Alcidamante, Anassagora ed Empedocle) . 5. Nonostante l a fermezza con cui alcuni studiosi fanno dipendere il pensiero di Anassagora sulla divisione e sull' infinito da Zenone (ad esempio Raven, 1954, pp. 1 2.337; Ferber, 1981, pp. i.9-3 1), Furley (19 89, pp. 47-65) ha mostrato come Anassagora avrebbe potuto elaborare i medesimi argomenti direttamente contro Parmenide, sen­ za la mediazione di Zenone. In ogni caso, nessuna fonte antica parla di un rappor­ to - diretto o filosofico - tra Anassagora e Zenone. 6. Cfr. Turner (195i., p. i.1). È stato dunque ipotizzato si tratti di un prezzo ironico, oppure che il libro fosse venduto anche di seconda mano, oppure ancora che occupas­ se meno di un rotolo. Quest 'ultima ipotesi non è un mero interesse erudito, perché potrebbe suggerire un dato interessante sulla lunghezza dell'opera di Anassagora: cal­ coli approssimativi, ma non inaffidabili, stimano la lunghezza di un rotolo antico in venti fogli, che rapportati a una moderna edizione Oxford di testi greci equivalgono a un numero di pagine tra le 3 5 e le 55. Se il prezzo modesto del libro di Anassagora fosse dovuto alla lunghezza, questa sarebbe stimabile in mezzo rotolo, ovvero tra le 15 e le i.8 pagine attuali. Se questo è vero, noi possediamo non più di un quarto dell'opera, ma più verosimilmente molto meno. Cfr. le considerazioni di Sider (i.0052, pp. 1i.-5). 7. Cfr. Vitruvio V I I praef I I (= A 39 DK). Per la prospettiva in Anassagora e la possi­ bilità di diagrammi cfr. Frank (19i.3, pp. i.0-3) e Sider (19n 12.8-9). 8. Cfr. già Burnet (19304, p. i.57, nota 5) e, più recentemente, Sider (i.005', p. i.o). 9. Codex Monacensis [xv secolo] 49 0, fol. 48f (= A 40 DK), che trova una possibile conferma in Gregorio di Nazianzo, In Iul. I 4 7i. (Migne 35 597 ), dove si parla delle Anaxagorou himanta, ma Sider ( i.005 , p. i.o) ha ipotizzato in modo convincente che si possa trattare di un episodio, originariamente presente in una commedia, di cui dà notizia Filodemo, Reth. 4 ( = PHerc. i.45 fr. 7 ) : « che percosso mostrò le ecchimosi ai giudici » (cfr. Acosta Méndez, Angeli, 199i., p. 155 per il testo, p. 184 per la traduzione e pp. i.31-4 per il commento). 10. Cfr. Podlecki (1998, in particolare i capp. 3 e 8), ma con la recensione di Balot (1999 ). Nega che Pericle riunì intorno a sé un gruppo di "intellettuali" Stadter ( 1991, pp. m-i.4). Quanto al rapporto con Anassagora, cfr. anche Macé, Therme (i.ooi., in particolare pp. 150-i.). I I . Tale spiegazione torna frequentemente nelle tragedie : cfr. Eschilo, Supplici 559 Wil., fr. 300 N; Sofocle, fr. 797; Euripide, Elena 3, fr. 2.2.8. Le citazioni dirette di Anassagora tratte dall'edizione Diels-Kranz (in cui la parte dedicata ad Anassagora è compresa nella sezione 59 ), per comodità di lettura verranno indicate soltanto con il numero di frammento preceduto da "fr.� '

NOTE

12. Il primo ad aver sostenuto una simile prospettiva è stato Tannery (1886, pp. 255-74), seguito da Burnet (1930•). Poi, tra gli altri, Cornford (1930); Vlastos (1950); Mugler (1956, in particolare pp. 359-60); Schofield (1980, pp. 107-21); lnwood (1986); e da ultimo Sedley (2007 ). 13. Tra i critici della tesi degli opposti, cfr. soprattutto Bailey (1928, pp. 538-42); Strang (1963, pp. uo-1); Stokes (1965, pp. 4-9 ) ; Mann (1980 ) ; Teodorsson (1982, pp. 30-3); Curd (2002, pp. 153-5); Graham (2004). 14. La tradizione aristotelica ha definito i principi di Anassagora "omeomerie", lette­ ralmente "parti uguali": un qualcosa è omeomero se ogni sua parte è uguale al tutto, come nel caso dell'oro, mentre non lo è se questo non si verifica (ad esempio, un'auto­ mobile non è omeomera). Se l interpretazione aristotelica sia legittima e se realmente Anassagora ponesse alla base della realtà entità omeomere è argomento discusso dalla critica: cfr. almeno Mann (1980), Graham (1994) e, per una prospettiva differente, Sisko (2009). 15. La testimonianza dello pseudo-aristotelico De plant. I 1 815a 15 è controversa, ma da essa si apprende che (forse) Anassagora (come altri) attribuiva anche ai vegeta­ li sensazioni, desiderio ( « autem [ ... ] desiderio eas moveri dicunt, sentire quoque et tristari delectarique, asserunt » ), intelletto e intelligenza ( « intellectum intelligen­ tiamque habere dicebant » ). 16. Ad esempio, per Barnes (1979, pp. 407-8) il nous è a tutti gli effetti un ingrediente del tutto e, sebbene non sia mescolato alle cose, in alcune di esse è presente come parte o porzione; Curd (2007, pp. 192 ss.) lo tratta come una forza, dal momento che assume che esso non possa che essere immateriale. Se sia possibile accettare l'esistenza di entità non materiali prima di Platone è questione aperta: Renehan ( 1980 ), ad esempio, lo nega. 17. Sedley (2007) ritiene che sia implicito nel fr. 12 e, più in generale, nel pensiero di Anassagora che il nous operi secondo un fine, ma non è ipotesi convincente : cfr. Sisko (2010). 18. Plutarco (DeJort. 3 98f) riporta un giudizio di Anassagora per cui l'uomo, pur inferiore in diverse doti agli altri animali, è capace di usare « esperienza, memoria, sapere e arte » . Raccolto da DK come frammento (B 21), appare oggi più corretto considerarlo una testimonianza, come proposto da Sider (20052, p. 168), seguito oggi da Schofield (1980) e Curd (2007 ). Già Lanza (1966, pp. 250-1) aveva mostrato come la tesi del progresso del pensiero umano attribuita ad Anassagora fosse un topos lette­ rario. È però verosimile che Anassagora attribuisse all'esperienza umana e al rappor­ to pratico, manuale, dell'uomo con il mondo un ruolo di primo piano, secondo un modello non teleologico di sviluppo. Una simile posizione gli è infatti attribuita e criticata da Aristotele, con la successiva approvazione di Galeno: l'uomo non è il più sapiente perché ha le mani, come vorrebbe Anassagora, ma ha le mani perché è il più sapiente dei viventi (A 102). 19. Cfr. 64 e I DK, che riporta i versi 255 ss. e 828 ss. delle Nuvole. Una conferma è nell' importante edizione Dover (19 68, pp. XXXVI ss. e 127). Recentemente Betegh (2004, cfr. nota successiva) si è chiesto se non sia più economico pensare invece, come bersaglio fantasma, ad Archelao (che era certamente ad Atene) : cfr. sulla questione

STO RIA D ELLA F I L O S O F I A ANTI CA

Fazzo (2.009). Già Kahn (1997) sottostima la fama (buona o cattiva che fosse) di Dio­ gene nell'Atene del v secolo. 2.0. Ritrovato nel 1962. a Derveni, vicino a Salonicco, il papiro conserva il commen­ tario a un'opera orfica. In esso è possibile reperire materiale di taglio filosofico, in cui si rintracciano forti echi eraclitei e anassagorei. Cfr. Jourdan (2.003) e Kouremenos, Parassoglou, Tsantsanoglou (2.006). Per il valore filosofico del papiro cfr. Laks, Most (1997) e Betegh (2.004). Per i rapporti tra Diogene e il papiro di Derveni, oltre allo studio di Betegh, cfr. Laks (2.0081a, pp. 2.69-74) e Janko (1997 ). 2.1. Non figura, ad esempio, in Mansfeld (1987) e in Dumont (1991); in Rapp (1997, p. 2.40 ), Diogene è considerato come uno dei primi autori a recepire il pensiero pre­ socratico in modo eclettico. Sulla fortuna di Diogene cfr. Laks (2.00 81a, pp. 2.1-36). 2.2.. Laks (1983). Per Barnes (1979, cap. xxv) , Diogene è invece « the Last of the Line » ed è un « eclectiC >> . 2.3. Oltre al capitolo di Graham appena citato, cfr. Waterfield (2.ooo, pp. 194-2.02.) e il recente Laks (2.oo8b). 2.4. Per un'ampia valutazione delle fonti e dei relativi problemi cronologici cfr. Til­ man (2.ooo). 2.5. Fa eccezione il capitolo su Diogene e Archelao nel volume di Gabor Betegh ci­ tato. Il suo pensiero è però totalmente taciuto, ad esempio, anche in eccellenti in­ troduzioni al pensiero dei presocratici, quali (tra le altre): Graham (2.00 6); Warren (2.007b) ; Sassi (2.009); Casertano (2.009); Palmer ( 2.009); Curd (2.011). In Long (1999) è menzionato in una nota, così come in Waterfield (2.ooo), e in tre note in Curd, Graham (2.008). 2.6. Cfr. per la pluralità in Anassagora e Archelao 60 A 13 OK, in Diogene 64 A 1 ; 6; 10 OK. Stobeo (Ecl. I 2.2. 2.b = Aezio II 1 2.-3) considera Anassagora sostenitore dell'u­ nicità del mondo, mentre Archelao e Diogene della pluralità. Simplicio (In Phys. 112.1 12.-15) attribuisce invece a Diogene l'unicità, e nega che il fr. 4a di Anassagora - che cita tre volte (In Phys. 34 2.9-35 9; 157 9-16; In Cael. 609 5-1 1 ) - alluda a una qualche pluralità dei mondi. 2.7. Negano l'esistenza di altri mondi Cornford (19 34, in particolare pp. 6-10 ); Vla­ stos (1970 ) ; Frankel (1969b, pp. 2.84-93). Quest 'ultimo ritiene che si tratti di un controesempio, la cui natura ipotetica sarebbe provata dalla formula chredokein con infinitiva. Accetta questa opzione, anche se solo parzialmente, Sider (2.005', p. 101), mentre è criticata in Mansfeld (1980) e in Louguet (2.002.). 2.8. È la tesi di Mansfeld (1980 ), ripresa soprattutto da Schofield (1996).

12 L a nascita dei saperi scientifici nel v secolo

1. Per una valutazione critica dell'apporto pitagorico alla nascita delle matematiche l'opera di riferimento è quella di Burkert (1962.). 2.. Cfr. in questo senso Szab6 (1969).

NOTE

3. Quadri d' insieme sulla formazione dei saperi scientifici in Grecia sono tracciati nelle opere collettive a cura di Vegetti (1992>), Brunschwig, Lloyd (1996) e soprattut­ to Lloyd, Cambiano, Vegetti (2001). 4. Una celebre eco culturale del successo delle technai si trova nel primo stasimo dell'Antigone di Sofocle, rappresentata nel 442 a.C. (vv. 332 ss.) : «Nulla è più pro­ digioso dell'uomo [ ... ] . Apprese la parola /e l'aereo pensiero /e impulsi civili I e come fuggire i dardi I degli aperti geli e delle piogge. I D'ogni risorsa è armato, né iner­ me I mai verso il futuro si avvia: I solo dall'Ade I scampo non troverà; I ma rimedi ha escogitato I a morbi immedicabili. I Scopritore mirabile d' ingegnose risorse, I ora al bene I ora al male s' incammina » (trad. Ferrari). Sofocle insiste qui sulla necessità che il progresso tecnico rispetti le norme della legge e della giustizia. Un simile elogio del progresso tecnico è tessuto dal suo mitico promotore, il titano Prometeo, nel Prometeo incatenato di dubbia attribuzione a Eschilo (vv. 476 ss.). Le tecniche sono anche l'ele­ mento decisivo nello sviluppo della civiltà umana tracciato da Democrito (B 5 DK) ; un tema simile sviluppa Protagora nel "mito" da lui narrato nell'omonimo dialogo platonico (Prot. 32oc ss.), ma per Protagora lo sviluppo tecnico deve venire integrato e governato dall'arte politica. Sulla cultura delle technai resta importante il quadro tracciato da Cambiano (19912, cap. 11); per i riflessi culturali cfr. anche Lanza (1979). 5. Su questo aspetto sono fondamentali le ricerche di Lloyd (1979; 1987 ). 6. La collezione, che comprende circa settanta opere, venne probabilmente formata dai bibliotecari alessandrini, che la attribuirono interamente a Ippocrate, il più famo­ so medico del v secolo. La "questione ippocratica", cioè il tentativo di riconoscere le opere autentiche di Ippocrate, è stata una delle più dibattute e anche delle più irrisolte nell'ambito della storia della filologia classica. La fonte esterna principale è il passo relativo al "metodo ippocratico" nel Fedro platonico (27oc-d), a sua volta suscettibile di interpretazioni contrastanti. La maggior parte degli studiosi concorda nel ritenere più vicini al nucleo originario dell' insegnamento ippocratico questi scritti: Arie, ac­ que, luoghi (medicina climatologica ed etnologica) ; il Prognostico; le Epidemie I e III (raccolta di casi clinici) ; forse il Male sacro (polemica contro le terapie superstiziose e magiche dell'epilessia). Su altre opere importanti, come Antica medicina, il Regime e la Natura dell'uomo, i pareri invece divergono. Una messa a punto aggiornata del­ la questione si può trovare in Jouanna (1992). L'unica edizione integrale del Corpus hippocraticum è ancora quella curata da Émile Littré in dieci volumi con traduzione francese (Paris 1839-61; ristampa anastatica Hakkert, Amsterdam 1962). Molte edi­ zioni critiche sono state nel frattempo pubblicate nella collana "cuF/Série grecque, collection Budé" di Les Belles Lettres, Paris, sotto la direzione di Jacques Jouanna. Una scelta di scritti ippocratici è tradotta in italiano a cura di Mario Vegetti (1995'). 7. Sul suo ruolo cfr. Nutton (1995). 8. Cfr. in questo senso Netz (2001). 9. Sulla critica di Platone alla geometria cfr. Cattanei (2003). ro. Le testimonianze su Ippocrate di Chio e su Archita sono raccolte e ampiamente commentate da Timpanaro Cardini (1962).

2.70

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANTI C A

13 Atomisti antichi : Leucippo e Democrito

1. Per il caso del tutto particolare della valutazione di Democrito (o meglio della sua svalutazione rispetto a Epicuro) nella giovanile dissertazione di Marx, cfr. Marx (i.014), mentre più in generale, per un utile panorama della storia della critica, cfr. Brancacci, More! (i.007, pp. 1-6). i.. Si tratterebbe, in tal caso, del gran « finale dell'epoca eroica della fisica greca » (Mansfeld, Primavesi, i.011, p. 64i.); molto più critico, in proposito, Barnes (1979, PP· 34i.-6). 3. Primo fra tutti Teofrasto; per il presunto debito di Aristotele verso Democrito, soprattutto riguardo la teoria della definizione, cfr. anche Jaulin (i.007 ). Sulla tra­ dizione dossografica relativa al primo atomismo cfr. Leszl (i.009, pp. XIII-XXII ) ; cfr. anche More! (1996) e Gemelli Marciano (i.007a). 4. Senza per questo attribuire credibilità alla notizia (verosimilmente malevola, ri­ portata in Diogene Laerzio IX 40, sulla scorta dell'autorità di Aristosseno) secondo cui Platone avrebbe voluto bruciare gli scritti democritei; cfr. anche Diogene Laerzio III i.5. Né si può escludere che almeno nel Timeo Platone tentasse di fornire una sua risposta atomistica, teleologica e matematico-geometrica alla soluzione materialistica leucippo-democritea: oltre a Ferwerda (197i.) e Gigon (197i.), cfr. Mansfeld, Prima­ vesi (i.011, p. 655), nonché Nikolau (1998), More! (i.ooi.) e O ' Brien (i.007, in parti­ colare p. i.56). Sulla relazione fra l'atomismo fisico democriteo e quello geometrico di Senocrate cfr. infine Gemelli Marciano (i.007a, cap. 5). 5. Per un primo orientamento bio-bibliografico cfr. Goulet (i.005). 6. Cfr. almeno Tarrant (1993, pp. 85-9), nonché Mansfeld (1994b, pp. 97 ss.) e More! (1996, pp. 3 68-74). 7. Per l'analisi del catalogo democriteo cfr. Leszl ( i.007 ) ; sulla ricercata tecnicità del­ la sua prosa cfr. anche Gemelli Marciano (i.010, p. 489 ). 8. Soprattutto su questo aspetto della filosofia democritea, intrecciato a un'analisi accurata delle tradizioni dossografiche che lo confermano, cfr. l'ottima monografia di More! (1996); cfr. anche Lee (i.005, pp. 19 1-i.). 9. Sulle opere dedicate alla mousike, e in particolare sull'estetica e sulla critica lettera­ ria democritee, cfr. Brancacci (i.007 ). 10. Cfr. Stiickelberger (1984), nonché Salem (1996, cap. 5), Gemelli Marciano (2.007b) e Perilli (i.007), che si occupa a lungo anche delle questioni zoologiche in Democrito. 11. Benché per i riferimenti di questo capitolo ci si attenga ali'edizione classica dei frammenti dei Vorsokratiker di Diels e Kranz (Diels, 195i.6, voi. II, capp. 67 e 68 su Leu­ cippo e Democrito), è opportuno ricordare almeno altre due edizioni, che, in modo diverso e quantitativamente significativo, hanno arricchito il panorama delle testimo­ nianze e dei frammenti sui primi atomisti, ovvero Luria (1970) e ora Leszl (i.009 ) ; da consultare senz'altro, benché parziali, anche la traduzione inglese di Taylor (1999, con

NOTE

27 1

ricco commentario) ; quelle tedesche di Jiirss, Miiller e Schmidt (19 881), di Stiickel­ berger (1979) e soprattutto ora di Gemelli Marciano (i.010, con una puntuale sintesi interpretativa alle pp. 486-54i.); e quella italiana di Alfieri (1936); meno utile si rivela invece quella di Andolfo ( 1999 ). 12.. Cfr. anche Bodnar (1998), Hasper (1999) e ancor prima Lobi (1989). 13. Cfr. 68 A l, 43, 56 e 57 DK; ancora utili, in proposito, le considerazioni di Calo­ gero (i.012., pp. i.59-74). 14. E nonostante, al di là dell'interpretazione di Alfieri (19791), gli atomi vengano da più fonti definiti anche come ideai: cfr. paradigmaticamente 68 A 57 DK. 15. Si tratterebbe, se si dà fede a Filopono ( 67 A 7 DK, nonché In Phys. 494 19-i.5, assente dal DK e su cui esprime tuttavia sensati dubbi Mansfeld, i.007 ) , di un' aggre­ gazione non per contatto diretto, ma per « attrazione quasi magnetica » : cfr. Taylor (1999, pp. 186-8). 16. Sul concetto di vuoto, nelle varianti leucippo-democritea e poi epicurea, cfr. Sedley (198i.); cfr. anche Gemelli Marciano (i.010, pp. 500-1 ). 17. Oltre a 68 B 1 2.5 DK e 156 DK, cfr. in particolare 67 A 6-8 DK, nonché alcune utili indicazioni in Ordii (1996). Sulla formula ou mallon cfr. almeno Graeser (1970) e Burkert (1997). 18. Per questa spiegazione cfr. in particolare Taylor (1999, pp. 162-4). 19. Come invece si legge in un passo del vescovo Dionisio di Alessandria (cfr. 68 A 43 DK) o in testimonianze di provenienza diversa, ad esempio aristotelica (67 A i.8 DK) o araba (su cui cfr. Strohmaier, 1968); sulla questione cfr. anche O' Brien (i.007). i.o. Si tratta di un'ulteriore conferma, credo, di un profondo interesse, soprattutto democriteo, per la riflessione sul linguaggio, che si spinge fino ali' adozione di posi­ zioni convenzionalistiche rispetto all'origine dei nomi: cfr. perciò 68 B i.6 DK e so­ prattutto le utilissime osservazioni di Brancacci (1986); cfr. anche Ademollo (i.003) e Bertagna (i.007 ). i.1. Per due posizioni opposte sulla questione peso atomico/moto nel primo atomi­ smo cfr. O ' Brien (1981) e Furley (19 89, capp. 7-9). 2.2.. Per una descrizione accurata di questa legge, valida per le cose fisiche in generale, ma estesa anche allo stare insieme antropologicamente vincolante degli esseri umani, cfr. anche 68 B 167 DK. Per una serie di possibili analogie di tale spiegazione cosmo­ gonica atomistica con il modello embriologico ippocratico cfr. inoltre Orelli (1996). i.3. Contra cfr. Barnes (1984) ; più in generale cfr. Hirsch (1990) e Sedley (i.007, cap. 5.1). i.4. Per una posizione diversa e molto più critica nei confronti della presunta coeren­ za degli atomisti antichi di fronte al problema del caso cfr. Taylor (1999, pp. 188-95). Sul ruolo della spontaneità cfr. anche Guthrie (1962., pp. 417-9). i.5. Cfr. laccurata descrizione di Teofrasto, relativa ad esempio al funzionamento della vista: 68 A 135 DK, § 50. Sulla questione, oltre a von Fritz (1971), cfr. anche Burkert (1977), Furley (1993) e ora Rudolph (i.ou). Alla teoria della percezione (su cui resta basilare il lavoro di Sassi, 1978; cfr. ora anche Salem, 2007) si legano an­ che altri aspetti del pensiero di Democrito, come la sua spiegazione dei sogni ( cfr. in

27 2

STORIA D ELLA F I L O S O F I A ANT I C A

particolare Cambiano, 1980) e quella di determinati influssi "demonologici" e quasi "parapsicologici" (cfr. 68 A 74 DK e 77 DK). Cfr. anche Bicknell (1969; 1970) e ora Warren (2.007a). 2.6. Su questo tema cfr. anche Pasnau (2.007 ). 2.7. Per quest' immagine cfr. ad esempio 68 B 117 DK. Più in generale, sulla strategia di appropriazione e "arruolamento" nelle fila scettiche di molti filosofi presocratici, fra cui anche Democrito, messa in atto soprattutto dall'Accademia di Arcesilao, cfr. Brittain e Palmer (2.001) e Spinelli (2.010). 2.8. Cfr. inoltre Pyrrh. Hyp. I 2.13-2.14 (non in DK) ; 68 B 117; 12.5; A 49 DK e so­ prattutto Plutarco, Adv. Col. moe (non in DK) ; utili precisazioni anche in Gemelli Marciano (2.010, pp. 493-4). 2.9. Per il senso non totalmente negativo da attribuire a skotie cfr. ora Salem (2.007, p. 135); per la traduzione qui proposta cfr. Leszl (2.009, p. 193, nota 443). 30. Cfr. Diels (1952.6, voi. II, p. 141); per una ricostruzione molto diversa del passo, che evita di supporre una lacuna nel testo, cfr. invece Sedley (1992., pp. 40-2.) . 31. Per questa seconda ipotesi cfr. Bett (2.005, p. 30, nota 65). 32.. Cfr. 59 B 2.la DK (ma su tale formula cfr. ora Wolbergs, 2.012.). 33. Di parere ben diverso è Barnes (1979, cap. XXIV, e). Per una formula di compro­ messo fra razionalismo e sensualismo si pronuncia ora Salem ( 2.007, pp. 13 8-40 ) ; cfr. anche Gemelli Marciano (2.010, pp. 52.6-30 ). 34. Per la preferenza da accordare alla testimonianza di Stobeo cfr. Taylor (1999, pp. 2.2.3-7 ). Per una recente traduzione italiana delle Massime di Democrate, con relativo commento e buona difesa della loro autenticità democritea, cfr. ora Ruiu (2.011). Sulla tradizione gnomologica cfr. infine Gerlach (2.008), nonché Bertini Malgarini (1984). 35. Cfr. perciò soprattutto Kahn (1985), nonché alcune utili osservazioni in Jiirss, Miiller e Schmidt (1988\ in particolare pp. 41-2. e 493, note 2.90 e 2.92.) ; cfr. infine Voros ( 1973) e soprattutto il positivo quadro d' insieme offerto da Annas ( 2.002. ). 36. In questa direzione vale la pena ricordare i lavori di Stewart (1958) e, sulla sua li­ nea, di Brancacci (1980 ), i quali pensano a un tramite cinico (cfr. anche Gigante, 1992., pp. 2.3-5; Salem, 1996, p. 305), nonché la posizione di Luria (1964, in particolare p. 4), il quale ipotizza invece una mediazione in ambito stoico (Crisippo ?). Più in generale cfr. ora Leszl (2.009, in particolare pp. XXXI-xxxv) . 37. Di questo avviso era già Bailey (192.8, p. 52.2.); altrettanto critico è Barnes (1979, in particolare pp. 530-5); ora cfr. anche Gemelli Marciano (2.010, pp. 537-8). Contra, con argomenti buoni e anzi a mio avviso decisivi, cfr., oltre al pionieristico Natorp (1970, ma 1893'), la nota introduttiva di Gregor Damschen a Ibscher (1996, in particolare pp. 14-5), nonché Tortora (1983, in particolare pp. 12.5-7) e Salem (1996, pp. 305-7 ). 38. Accetto qui l'opzione interpretativa già presente in von Fritz (1938, in partico­ lare pp. 33-6) e poi argomentata, in modo fine e convincente, soprattutto da Vlastos (1945-46); cfr. anche Luria (1964, pp. 13-5); Miiller (1980 ); Sassi (1978); Farrar (1988). Decisamente contrari sono invece Barnes (1979) e Taylor (1999) (cfr. tuttavia infra, note 52. e 56), mentre, pur inclinando cautamente verso la prima opzione, dichiara la questione "irrisolvibile" Warren (2.002., in particolare pp. 71-2.).

NOTE

2.7 3

39. Contro tale accettazione e dunque molto critico sulla tesi qui difesa è invece War­ ren ( 2.002., pp. 32.-44 ) . 40. In tal senso, un altro sostantivo (con i suoi derivati) sembrerebbe essere parti­ colarmente adatto a definire il telos democriteo, inteso nel senso di "stare bene nella condizione dell'essere": eu-esto (per cui cfr. 68 A l e 167 DK; B 4 e 140 DK, ovvero il bono esse animo ciceroniano : 68 A 169 DK), che dava il titolo all'opera Sul benessere, forse perduta già ai tempi di Trasillo (cfr. 68 A 33 DK = Diogene Laerzio IX 46, con le osservazioni di Mansfeld, l994b, p. 102., e i dubbi, molto forti, invece, di Warren, 2.002., in particolare pp. 39-44 ) . 41. Un sinonimo democriteo di euthymie sembrerebbe essere proprio athambia, ov­ vero "assenza di terrore" (che diventerà tout court il telos per Nausifane, su cui cfr. War­ ren, 2.002., cap. 7 ) : cfr. 68 A 169 DK, nonché B 4 e 2.15-2.16 DK e A l DK (= Diogene Laerzio IX 45 ) . 42.. A completamento e integrazione di B 191 DK cfr. almeno : 68 B 3, 4, 170-174, 188-189, 194, 2.15-2.1 6, 2.31, 2.33, 2.85-2.8 6 DK e le testimonianze A 166-169 DK, oltre, naturalmente, a Diogene Laerzio IX 45 ( = 68 A l DK). Per una ricostruzione accurata del passo, inoltre, cfr. almeno Warren ( 2.002., in particolare pp. 44-64 ) ; utili spunti in Ibscher ( 1996, pp. 176 ss.). 43. A sostegno di tale prospettiva, quasi un'anticipazione della norma epicurea, che impone di seguire unicamente i desideri naturali e necessari (cfr. Epicuro, Ep. Men. 12.7-12.8 e 130, oltre alla Massima Capitale XXIX, nonché le pagine sull'etica epicurea, VOL. III, CAP. 4 ) , cfr. anche 68 B 176, 2.02., 2.35, 2.46, 2.83-2.84, 2.89 DK oltre a B 102. DK; cfr. inoltre i rinvii alla nota precedente. 44. Per questa prospettiva di lettura riguardo alle tematiche del peculiare edonismo e utilitarismo democriteo cfr. soprattutto Kahn ( 1985 ) e Warren ( 2.002., pp. 48-58, con ricchi rinvii testuali) ; cfr. anche Casertano ( 1983 ) . Per una prima analisi della conce­ zione democritea dell'amicizia cfr. Spinelli ( 2.006 ) . 45. Cfr. le pagine dedicate alla teologia epicurea, VOL. III, CAP. 4; sull'essenza e sull'azione della divinità in Democrito cfr. inoltre Eisenberger ( 1970 ). 46. Sul timore della morte nutrito dagli stolti (anoemones) cfr. soprattutto 68 B 1972.06 DK, mentre per alcune utili osservazioni al riguardo cfr. Warren ( 2.002., pp. 36-9 ) e Taylor ( 2.007 ). 47. Per un'interpretazione in senso ateistico della "teologia" democritea cfr. Barnes ( 1979, cap. XXI, c) ; contra cfr. già Vlastos ( 1945-46, pp. 579-81 ) ; per un giudizio più equilibrato, relativo proprio alle testimonianze sestane conservate in 68 B 166 DK e A 75 DK, cfr. ora Gemelli Marciano ( 2.010, pp. 5 18-2.1 ) . 48. Su questo aspetto cfr. soprattutto Nill ( 1985, cap. Iv) . 49. Cfr. anche B 84 e 2.44 D K. Per una singolare vicinanza al paradosso socratico del nemo sua sponte peccat cfr. anche 68 B 83 DK: « L' ignorare qual è il partito migliore è la causa degli errori » . 50. S u tale aspetto cfr., a titolo diverso, 68 B 47, 62., 107, 12.4, 164, 174, 1 8 1 DK, non­ ché altri testi ricordati in.fra, nota 54. Per la storia dell'anello di Gige cfr. soprattutto

2.74

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANTI C A

Platone, Resp. 359b-36od; più in generale sul pensiero politico democriteo cfr. Farrar ( 1988, pp. 2.54 ss. ) e Procopé ( 1989; 1990 ) , nonché Ciriaci ( 2.013 ) . 51. Almeno se alle sue idee, e addirittura alla sua opera Piccola cosmologia, si può ri­ condurre un lungo brano conservato da Diodoro Siculo : cfr. 68 B 5 DK; cfr. anche Brancacci ( 2.007, pp. 192.-3 e relative note ) , nonché, più in generale, Cole ( 1967 ) . Cfr. infine 68 A 171 DK e uno scolio al De sectis di Galeno ( = 102. A Gemelli Marciano) , su cui cfr. Garofalo ( 2.008 ) . 52.. Un altro parallelo importante fra la fisica, o meglio la cosmogonia, democritea e la sua dottrina della formazione delle comunità politiche, intese anch'esse come kosmoi, si può forse intravvedere in 68 B 2.58-2.59 DK: cfr. Taylor ( 1999, pp. 2.33-4 ) . 53. Per la superiorità dei migliori cfr. almeno 68 B 47; 49; 75; 9 5 ; 2.38 DK. Sul legame fra pensiero economico e progetto politico in Democrito cfr. Spinelli ( 199 1b, con ulteriori rinvii testuali ) . 54. Cfr. ad esempio 68 B 2.52. DK, nonché B 174; 1 8 1 ; 2.15; 2.45; 2.48-2.50; 2.53-2.63; 2.65-2.67; 2.93 DK. 55. Su questo aspetto insiste una serie di frammenti: B 59, 180, 2.42., nonché 157, 178179, 1 82., 185 DK e, in polemica contro ogni inutile "multiscienza" /polymathie, B 64, 85, 169 DK; oltre alle lucidissime pagine di Vlastos ( 1945-46, in particolare il paragra­ fo che è significativamente intitolato Man Makes Himsel/J, cfr. soprattutto Tortora ( 1984 ) e ora Morel ( 2.007 ) , che analizza in modo più vasto e accurato la nozione di physis nell' incero corpus democriteo. Per alcuni frammenti che si occupano di que­ stioni legate alla famiglia e di temi collegati alla sua gestione ( donna/ moglie, figli, schiavi ecc. ) cfr. 68 B 7, 2.2.8, 2.70, 2.73-2.79 DK. 56. Sembra ammetterlo ora perfino Taylor: cfr. perciò Taylor ( 1999, p. 2.33 ) .

14 I sofisti

1. Il presente capitolo riprende in forma sintetizzata quanto già esposto in Bonazzi

( 2.007; 2.0IO ) . A Bonazzi ( 2.007 ) si rimanda anche per le traduzioni.

2.. L'allusione, non molto velata, è a Protagora, che prometteva di « rendere più forte il discorso più debole » ( So B 6b DK) : un'affermazione provocatoria nella sua ambi­ guità, perché più debole poteva anche indicare meno giusto. 3. In realtà, le posizioni dei due filosofi rispetto a quel variegato fenomeno che è stata la sofistica non sono così concordi come una cerca tradizione tende stancamente a ripetere, perché in Platone la critica non prescinde mai da un'attenta considerazione delle tesi avanzate dai principali sofisti, Protagora e Gorgia su tutti; cfr. ad esempio Casertano ( 1996 ) e Trabattoni ( 1998 ) . La condanna invece è senza appello nel caso delle seconde leve, come Eutidemo e Dionisodoro nell'Eutidemo o Polo nel Gorgia, eristi ritenuti incapaci di qualunque progresso nella ricerca della verità. Inoltre, nel caso di Platone, il problema è complicato da fattori di ordine sociale e politico, e dipende dalla necessità di affrancare Socrate dall'accusa di "fare il sofista", di corrom­ pere i giovani e sovvertire i valori - le accuse di Aristofane nel 42.3 a.C., che costitui-

NOTE

275

ranno la base del processo del 399. Nel caso di Aristotele, invece, sarebbe interessante approfondire alcuni punti di convergenza con le dottrine di Protagora, in particolare quelle politiche. 4. Su Hegel, Zeller e poi Grote, cfr. Kerferd (1981, trad. it. pp. 15-i.o ). 5. Naturalmente, questa impostazione di fondo comune non significa che i diversi sofisti non polemizzassero tra loro - al contrario. Nella scena iniziale del Protagora, Platone descrive in modo molto divertente lo spirito di competizione che serpeggiava tra Protagora, lppia e Prodico : che così fosse, del resto è prevedibile se si pensa all'esi­ genza dei sofisti di attirare l'attenzione dei potenziali allievi. Una situazione analoga affiora molto chiaramente anche negli scontri tra Socrate e Antifonte descritti da Se­ nofonte (87 A 3 DK). A questo primo livello segue poi un livello più propriamente concettuale, in cui la polemica riguarda tematiche filosofiche : così ad esempio è stato giustamente ipotizzato che le tesi sul non essere di Gorgia prendessero di mira anche Protagora: cfr. Di Benedetto (1955, pp. i.87-307 ); Caston (i.ooi., pp. 2.05-3i.). 6. In realtà, la questione del relativismo elaborato da Protagora è molto più com­ plessa e ha dato origine a un vivace dibattito tra gli studiosi, cfr. ad esempio Burnyeat (1976), Bett (1989) e Woodruff (1999). 7. Cfr. Brancacci (i.ooi., pp. 183-90 ); cfr. anche, a proposito di Prodico, De Romilly (1986) e Tordesillas (i.004). 8. Fondamentale in proposito è Gagarin (i.ooi., pp. 9-31). 9. Del resto, i sofisti stessi furono spesso impegnati in politica in prima persona. Di Ippia e Gorgia si ricordano importanti ambascerie per conto delle loro città (cfr. 86 A 6 DK), Protagora appare a più riprese coinvolto nella cerchia di intellettuali che si ritrova attorno a Pericle, ed è da Pericle stesso che riceve l' incarico di redigere la costi­ tuzione della colonia panellenica di Turii nel 443 a.C. La passione politica di Crizia e forse di Antifonte avrebbe condizionato la loro vita - e la loro morte. 10. Va peraltro osservato che la riflessione politica è la parte meno originale del pensiero di Gorgia, che si faceva beffe di chi pretendeva di insegnare le virtù politiche (82. A 2.I DK), limitando il suo insegnamento all'arte dell'eloquenza. Che però anche il suo in­ segnamento implicasse conseguenze politiche è tesi condivisibile di Platone nel Gorgia. 11. Cfr. in particolare Discorsi duplici 6: « Sulla sapienza e sulla virtù, se siano inse­ gnabili » . 12. . Ancora una volta è esemplare il caso delle Nuvole: i n fondo questa commedia non è altro che il racconto delle disavventure di un contadino, da sempre escluso dalla vita politica, che aveva avuto la malaugurata idea di pagare i sofisti per insegnare a suo figlio l'arte dell' ingiustizia. 13. Per un approfondimento di queste tematiche e per ulteriori riferimenti bibliogra­ fici, cfr. Bonazzi (i.004, pp. 333-59). 14. Successivamente, Protagora parlerà della virtù politica come della "virtù dell'uo­ mo" (andros areten) tout court (Prot. 3i.5a). 15. La decisione di una comunità è "misura delle cose", possiede cioè lo stesso status incontrovertibile delle opinioni del singolo circa la temperatura del vento e il sapore del miele.

STORIA D ELLA F I L O S O FIA ANTI C A

16. Una questione ancora aperta è il problematico rapporto tra questa tesi e le altre testimonianze su Trasimaco, che non a tutti sono sembrate compatibili con il passo platonico ; cfr. il punto di Vegetti (1998d, pp. 233-7). 17. Per un confronto di queste tesi con Tucidide, cfr. Bonazzi (2011). 18. A questo proposito la testimonianza più significativa sembra quella di Licofrone (83 3), ma la difficoltà nel distinguere le sue affermazioni dai commenti di Aristotele rende molto difficile il tentativo di chiarire il senso della sua proposta. Quello che è certo è che propugnava una teoria «protezionistica dello stato, secondo la quale esso esiste per garantire i diritti reciproci degli uomini» (Kerferd, 1981, trad. it. p. 191). L' idea del contratto sociale sarà poi ripresa e approfondita da Platone nel Critone e nel grande discorso di Glaucone che apre il II libro della Repubblica: anche questo vale a conferma del suo interesse per le analisi dei sofisti. 19. Più in generale, su sofistica e religione e sul presunto ateismo di alcuni sofisti, cfr. Guthrie (197 1b, pp. 226-49 ). 20. A questo proposito sono particolarmente interessanti le polemiche di Antifonte contro Socrate « maestro d' infelicità » (87 A 3 DK). 21. Su questo motivo della "stupidità", cfr. oltre a Gorg. 491e-492a, anche Trasimaco in Resp. 343c, 348c, e Tucidide III 82 7.

15 Socrate e i socratici minori

1. Appartengono a questa corrente, fra gli altri, Praechter (1926"), Stenzel (1927 ), Jaeger (1944, trad. it. pp. 40-129), Guthrie (197 1a) e Giannantoni (1971). 2. Tra i suoi numerosi studi socratici citiamo la sintesi in Déiring (1998). Secondo Do ring lattendibilità dell'Apologia platonica sarebbe confermata anche dai riscontri incrociati con la restante letteratura socratica (Antistene, Aristippo, Eschine ecc.). 3. Questa posizione è stata sostenuta soprattutto da studiosi tedeschi fra Ottocento e Novecento, quali Zeller (18921), Péihlmann (1899) e Joel (1893-1901). 4. Posizioni emblematiche favorevoli alla presenza di due diversi Socrate in Platone sono quelle di Vlastos (1991) e Giannantoni (2005). 5. Tra i rappresentanti principali di questa corrente menzioniamo Dupréel (1920-21), Gigon (1947) e Dorion (2000). 6. In proposito i pareri degli studiosi contemporanei di Senofonte sono nella sostan­ za concordi. Cfr. ad esempio Dorion (2000) e Bevilacqua (2010 ). 7. Cfr. Crat. 3 84b-c, in cui Socrate dichiara di aver ascoltato solo il corso da una dracma, e non quello da cinquanta dracme. 8. Secondo l'opinione di Morrison (2008, p. 13). 9. Apol. 29b; Crit. 47d-49b. Cfr. in proposito Trabattoni (2015). I O . Un caso emblematico di questa omissione lo troviamo nel saggio di Long (1996b ). Qui l'autore afferma che a partire da Socrate e Platone i filosofi greci ritengono che la felicità sia generata, in tutto o in parte, dalla virtù etica (ivi, p. 183). Ma questo per il

NOTE

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Socrate di Platone è del tutto inesatto. Per questo Socrate non esiste una virtù etica, praticando la quale l'uomo sarebbe felice. A suo parere, infatti, la stessa nozione di virtù etica (che non a caso è di origine aristotelica) non ha alcun senso : per il Socrate platonico esiste la virtù, senza aggettivi, che coincide con la conoscenza strumentale dei mezzi adatti a procurare la felicità. Cfr. Euthyd. 278e-282e. 11. Sui cosiddetti "socratici minori" segnaliamo anzitutto l' imponente edizione di Giannantoni (1990 ), corredata da numerose schede di commento (d'ora in avanti ssR) . Cfr. anche, tra le sintesi più recenti, Doring (1998) e Decleva Caizzi (200 6). 12. Cfr. in proposito i numerosi studi di Brancacci, in particolare Brancacci (1990 ). 13. Interessanti sono anche le prese di posizione epistemologiche indagate da Tsouna (1998). 14. Il "mentitore" è attribuito a Eubulide da Diogene Laerzio ( ssR II B 30 ). Varie ver­ sioni dell'argomento si trovano in Aristotele (che cerca in qualche modo di risolverlo : Soph. el. 25 18oa 34-b 7) e in Cicerone, mentre abbiamo notizia del fatto che sia stato discusso a lungo da Teofrasto e da Crisippo. 15. Ne abbiamo varie versioni (cfr. SSR II F 24-3 1), non pienamente congruenti fra loro, per cui c 'è fra gli studiosi un notevole disaccordo sulla sua originaria formula­ zione.

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