Storia della filosofia antica. Platone e Aristotele [Vol. 2] 884308044X, 9788843080441

L'opera non è rivolta solo agli specialisti, ma propone uno strumento di studio e di informazione culturale accessi

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Storia della filosofia antica. Platone e Aristotele [Vol. 2]
 884308044X, 9788843080441

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I quattro volumi di questa nuova Storia

della filosofia antica offrono il quadro critico più completo e aggiornato del pensiero filosofico e scientifico gTeco-romano oggi disponibile in lingua italiana. L'opera non è rivolta

Mario Vegetti è professore emerito dell'Università

di Pavia, dove ha insegnato Storia della filosofia antica.

solo agli specialisti, ma propone uno

Franco Trabattoni

strumento di studio e di informazione

è professore ordinario di Storia

culturale accessibile a un pubblico colto

della filosofia antica all'Università

e agli studenti. Il suo intento consiste

degli Studi di Milano.

infatti nel riportare alla luce, e riproporre all'attenzione della cultura contemporanea, quel ricco giacimento di razionalità critica, di opzioni etico-politiche, di prospettive teoriche, che quel pensiero ha elaborato con una potenza argomentativa e una libertà intellettuale che hanno pochi paralleli nella storia della filosofia occidentale. Il volume ha per oggetto il periodo classico della filosofia greca (il

rv sec.

a.C.), dominato dalle grandi figure di Platone e Aristotele, ossia i pensatori che più di tutti hanno condizionato e influenzato gli sviluppi della filosofia occidentale. Nel libro si offrono anche un quadro della storia delle interpretazioni novecentesche e contemporanee dei due filosofi, una originale introduzione sui modi di praticare la filosofia in quell'epoca, la storia delle scuole platonica e aristotelica subito dopo la morte dei loro fondatori, e un profilo sintetico del pensiero matematico

Progetto grafico, Falcinelli & Co.

e dei suoi progressi.

Fidia e aiuti. ca. 445-435 a.C.

In cope1i ina, Fregio est del Pa1ienone (pa1iicolare).

Frecce•

210

Piano dell'opera

Volume I. Dalle origini a Socrate A cura di Mauro Bonazzi Contributi di: Mauro Bonazzi, Filippo Forcignanò, Francesco Fronterotta, Emidio Spinelli, Franco Trabattoni, Mario Vegetti

Volume II. Platone e Aristotele A cura di Franco Trabattoni Contributi di: Elisabetta Cattanei, Riccardo Chiaradonna, Francesco Fronterotta, Alberto Jori, Franco Trabattoni, Mario Vegetti

Volume III. L'età ellenistica A cura di Emidio Spinelli Contributi di: Thomas Bénatoui:l, Mauro Bonazzi, Riccardo Chiaradonna, T iziano Dorandi, Carlos Lévy, Federico Petrucci, Emidio Spinelli, Mario Vegetti, Francesco Verde

Volume IV. Dalla filosofia imperiale al tardo antico A cura di Riccardo Chiaradonna Contributi di: Francesca Alesse, Mauro Bonazzi, Aldo Brancacci, Francesca Calabi, Riccardo Chiaradonna, Alessandro Linguiti, Federico Petrucci, Emidio Spinelli, Mario Vegetti, Marco Zambon

Storia della filosofia antica Direzione scientifica di Mario Vegetti e Franco Trabattoni II.

Platone e Aristotele

A cura di Franco Trabattoni

Carocci editore

@ Frecce Mauritius_in_libris

1' edizione, aprile 2016 ©copyright 2016 by Carocci editore S.p.A., Roma Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino Finito di scampare nell'aprile 2016 da Eurolic, Roma

Riproduzione vietata ai sensi di legge

{are. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)

Siamo su: www.carocci.ie www.facebook.com/ carocciedicore www.cwiccer.com/ carocciedicore

Indice

I.

2..

Premessa di Mario Vegetti e Franco Trabattoni

li

Tavola cronologica

15

Le scuole di filosofia: dal filosofo re al professore di Mario Vegetti

17

I filosofi re e la loro scuola

17

Dalla regalità filosofica al primato della teoria: Aristotele e il Liceo

2.1

Platone di Franco Trabattoni

2.7

La vita e le opere

2.7

Il dialogo platonico, tra oralità e scrittura

30

L' incontro con Socrate : filosofia e vita

34

Platone e la cultura tradizionale

36

Platone e l a sofistica

38

Relativismo, nominalismo, materialismo, sensismo : difficoltà e contraddizioni

43

Gli argomenti a favore delle idee: dalla "domanda socratica" alla "teoria della reminiscenza"

45

8

3.

S T O RIA D ELLA F I L O S O F I A A N T I C A

In che senso le idee sono gli oggetti propri della conoscenza ?

51

La metafisica della Repubblica: la metafora della linea e l'allegoria della caverna

55

La metafisica di Platone : una dottrina ontologica generale o una teoria del valore ?

62

L'uomo : anima e immortalità

65

Eros, filosofia e conduzione dell'anima

68

Etica e politica: la Repubblica

76

La Repubblica: la giustizia e le altre virtù, nello Stato e nell'anima

80

Giustizia e felicità: gli esiti etici e politici della Repubblica

84

I dialoghi dialettici: Teeteto, Parmenide ( e Filebo)

88

I dialoghi dialettici: i l Sofista

97

Etica e politica nei dialoghi dialettici: il Filebo e il Politico

103

Il Timeo

109

Le Leggi

115

Gli orientamenti della critica platonica contemporanea di Francesco Fronterotta

125

L'orientamento logico-analitico

126

L'orientamento continentale

133

L'approccio dialogico e la "terza via" 4.

L'Accademia antica di Franco Trabattoni La scuola di Platone Speusippo Senocrate Gli ultimi sviluppi dell'Accademia antica

143

INDICE

5.

6.

7.

9

Astronomia e geometria da Eudosso a Euclide di Elisabetta Cattanei

165

Una fase d i "normalizzazione"

165

L'astronomia: i l cerchio, l a sfera e i "fenomeni"

166

L a geometria: l a "razionalizzazione" dell' irrazionale, la duplicazione del cubo, la quadratura del cerchio

169

Aristotele di Franco Trabattoni

175

La vita e le opere

175

La dottrina delle categorie

181

Aristotele critico d i Platone

190

La logica

198

L e scienze teoretiche : l a fisica

215

Le scienze teoretiche : la filosofia prima

239

La filosofia pratica: l'etica

250

La filosofia pratica: la politica

262

Poetica e Retorica

269

Quadro storico-critico delle interpretazioni di Aristotele nel Novecento di Alberto ]ori

273

L'Aristotele di Werner Jaeger

273

Da Brentano a Heidegger

275

Studi più recenti sulla metafisica di Aristotele

278

La "riabilitazione della filosofia pratica"

279

L'etica aristotelica in Gran Bretagna e negli Stati Uniti

28 1

La filosofia dell'analisi del linguaggio

283

La logica, la retorica e la poetica di Aristotele nel Novecento

285

IO

8.

S T O RI A D ELLA F I L O S O F I A ANT I C A

Aristotele nell'epistemologia e nella scienza del Novecento

288

Bilancio complessivo

292

Teofrasto e il Liceo di Riccardo Chiaradonna

293

Teofrasto Eudemo Aristosseno e Dicearco

299

Note

303

Bibliografia

315

Indice dei nomi

337

Gli autori

Premessa di Mario Vegetti e Franco Trabattoni

In ogni stagione della cultura europea, le grandi storie della filosofia antica hanno intrattenuto un rapporto significativo con l'ambiente intellettuale e filosofico dell'epoca. Così l' impresa di Eduard Zeller era in stretta relazio­ ne con la filosofia hegeliana, di cui verificava ed estendeva le prospettive sul pensiero greco, e l'opera di Theodor Gomperz si proponeva come un con­ tributo alla storia degli sviluppi del positivismo nella filosofia occidentale. Oggi una simile integrazione di prospettive filosofiche e storiografiche non appare più possibile né peraltro auspicabile. Non avrebbe senso, ad esempio, costruire una storia del pensiero antico come preludio all'avvento della metafisica occidentale, o come incunabolo della filosofia analitica, o ancora come esercizio di riduzionismo sociologico e antropologico. Que­ sto non può tuttavia significare che sia possibile, e desiderabile, sottrarsi ali' interlocuzione con le grandi tendenze della cultura contemporanea. La via più praticabile e fruttuosa appare quella di un' indagine storiografica rigorosa e non pregiudicata, che non si risolva però nella hegeliana "fila­ strocca delle opinioni". L' intento di una rinnovata indagine complessiva sul pensiero antico, aperta a quella interlocuzione, sembra dover dunque consistere nel riportare alla luce, e riproporre all'attenzione della cultura contemporanea, quel ricco giacimento di razionalità critica, di opzioni eti­ co-politiche, di prospettive ontologiche e cosmologiche, che quel pensiero ha elaborato con una potenza argomentativa e una libertà intellettuale che hanno pochi paralleli nella storia della filosofia occidentale; un giacimento da esplorare tenendo presenti le domande teoriche che nascono sul terreno del mondo contemporaneo, alle quali l'antico non può offrire direttamen­ te risposte, ma certo stimoli di riflessione e prospettive di pensiero affasci­ nanti proprio in ragione della loro differenza e della loro distanza. L'opera che qui presentiamo - in un momento in cui la cultura con­ temporanea sembra sperimentare una crisi di orientamento - mira a ripri-

12.

S T O RI A D ELLA F I L O S OF I A ANT I C A

stinare un circolo virtuoso tra storiografia dell'antico e questioni aperte della contemporaneità, senza fare della prima uno strumento al servizio di opzioni filosofiche precostituite, ma anche senza dimenticarne la respon­ sabilità culturale di fronte a tali questioni. Si è avvertita l'opportunità di rispondere a questa esigenza perché, ad avviso comune dei coordinatori e dell'editore, manca oggi nel campo degli studi italiani di storia della filosofia antica - a fronte dello sviluppo im­ petuoso delle ricerche di ambito specialistico - uno strumento di ampio respiro che sia in grado di offrire a studiosi, studenti e persone di cultura una visione esauriente e aggiornata dello "stato dell'arte" della disciplina, delle conoscenze acquisite e delle prospettive di ricerca maturate a livello internazionale. I quadri storiografici complessivi devono infatti venire pe­ riodicamente rielaborati perché possano tenere conto, in una prospettiva integrata, delle innovazioni esegetiche sperimentate nei singoli settori di studio. Non si tratta soltanto di aggiornare 1'esposizione del pensiero dei diversi filosofi antichi sulla base delle più recenti acquisizioni filologiche e storiche ; si tratta anche, e soprattutto, di ricostruire e discutere le strutture argomentative, i nodi teorici, i contesti problematici che formano la trama di quel pensiero e ne assicurano il perdurante interesse filosofico anche per il lettore del nostro tempo. Questi compiti non potevano più in ogni caso venire affidati all'opera di un singolo autore - com'è il caso pur meritorio dei vasti ma datati ma­ nuali di storia della filosofia antica oggi disponibili - perché la complessità e la ricchezza degli studi renderebbe oggi impossibile e persino impensabile una simile impresa. Si è quindi fatto ricorso a una pluralità di contributi scritti da autorevoli studiosi, italiani e stranieri, nei singoli settori di ricerca; non per questo però 1'opera che qui presentiamo ha assunto il carattere di un reading antologico. Gli autori coinvolti hanno certamente portato nelle trattazioni di loro competenza le prospettive e gli esiti maturati nel corso delle rispettive ricerche specialistiche, di cui si assumono la piena respon­ sabilità, senza la pretesa di un' implausibile "oggettività� definitiva e imper­ sonale, delle tesi esegetiche sostenute (benché al lettore vengano forniti gli strumenti per sviluppare eventualmente punti di vista diversi). Resta però il fatto che l'opera mantiene una sua unitaria organicità, che è stata assicurata dal costante lavoro di confronto e di verifica condotto collegialmente fra i due coordinatori, i curatori dei quattro volumi e i singoli autori. I caratteri di originalità di questi volumi sono dovuti all' impostazione progettata dai coordinatori, ma sono stati resi possibili soltanto dal lavoro

PREM E S S A

13

di équipe di curatori e autori. Si tratta in primo luogo di un sostanzia­ le riequilibrio degli spazi dedicati a epoche e pensatori. Nelle esposizioni tradizionali, a Platone e Aristotele viene assegnato un ruolo del tutto do­ minante, a scapito soprattutto delle filosofie ellenistiche e tardo antiche. Questo squilibrio non è più compatibile né con lo stato degli studi storio­ grafici né con gli attuali interessi teorici rivolti al pensiero antico. Platone e Aristotele, com'è giusto, sono fatti oggetto di un'ampia trattazione, che occupa la maggior parte del secondo volume, ma altrettanta attenzione è dedicata sia al pensiero presocratico e socratico, esposto nel primo volume, sia, e soprattutto, alle filosofie posteriori alle quali sono dedicati i volumi terzo e quarto dell'opera. Le rilevanti novità intervenute nella storiografia degli ultimi decen­ ni - a proposito ad esempio di Platone e del neoplatonismo, per citare alcuni dei casi più rilevanti - hanno naturalmente ispirato il resoconto dei rispettivi ambiti di ricerca. Per gli autori che hanno svolto un ruolo decisivo nella tradizione filosofica, come Platone e Aristotele, si è inoltre ritenuto opportuno integrare l'esposizione del loro pensiero con quadri della storia delle interpretazioni e dell'attuale dibattito esegetico, in modo da presentare al lettore e allo studioso lo sfondo problematico sul quale si costruiscono le opzioni storiografiche di volta in volta adottate. Abbiamo inoltre creduto che fosse necessario premettere alle diverse epoche della storia del pensiero filosofico un quadro delle condizioni so­ ciali e culturali all' interno delle quali la filosofia, e la stessa figura sociale del filosofo, si sono via via venute costituendo e definendo : è ben chiaro, ma troppo spesso ignorato, ad esempio, che l'ambiente sociale della filo­ sofia e della figura del filosofo nel mondo presocratico è del tutto diverso dall'epoca delle scuole nel mondo tardo antico, e questo non è certo indif­ ferente per l'assetto della prima e della seconda. Nello stesso intento di superare i limiti tradizionali assegnati alla storia del pensiero filosofico - senza peraltro metterne affatto in discussione la specificità teorica - è stata concessa un'attenzione inconsueta agli sviluppi della riflessione politica da un lato, scientifica dall'altro : politica e scienza sono infatti, dal versante pratico e da quello teorico, i due grandi territori di pensiero confinanti con l'ambito proprio della filosofia in senso stretto. Quest 'opera si propone dunque di offrire un contributo al consolida­ mento e allo sviluppo degli studi di filosofia antica in Italia, offrendone un bilancio aggiornato e delineandone le prospettive di ricerca, da cui emer­ gano anche i motivi che tuttora ne giustificano l' interesse in un contesto

14

S T O RI A D ELLA F I L O S O F I A A N T I C A

culturale complessivo. Ci si augura inoltre di proporre uno strumento uti­ le ali' insegnamento universitario, evitando sia di indulgere alla tentazione di sguardi eccessivamente sintetici e quindi semplificatori sia di appesanti­ re l 'esposizione con l'esibizione di un apparato accademico in questa sede superfluo. La stessa partizione dell'opera in quattro volumi, dedicati rispettiva­ mente agli inizi della filosofia fino a Socrate, al pensiero del IV secolo, alla filosofia ellenistica e infine a quella dell'epoca imperiale e tardo antica, è intesa ad agevolarne la consultazione secondo particolari interessi ed esi­ genze didattiche. Per favorire la leggibilità, il corredo di note è limitato alle informazioni essenziali, e le bibliografie che corredano ogni volume sono intese come strumento di servizio, praticabile per eventuali approfondi­ menti, non come esibizione di un'erudizione che è già garantita dall'auto­ revolezza e dalla competenza degli autori. Se l'opera che ora presentiamo avrà raggiunto anche solo alcuni degli scopi che ci eravamo proposti, gran parte del merito va appunto agli au­ tori dei singoli capitoli, nonché ai curatori dei volumi, ed è a loro che va in primo luogo il ringraziamento dei coordinatori, oltre che all' impegno profuso dall'editore nella realizzazione di un progetto complesso e diffici­ le come il nostro.

Tavola cronologica

Platone Scienziati e gli accademico-platonici

Aristotele e gli aristotelici

Eudosso di Cnido (v-rv sec.) Teeteto di Atene (v-rv sec.) Ermodoro ( 1v sec. ) Filippo di Opunte ( 1v sec. ) Senocrate ( rv sec. ) Speusippo ( rv sec. )

Callippo ( rv sec.) Dinostrato ( rv sec. ) Leodamante di Taso ( rv sec.) Menecmo ( rv sec. )

Aristotele (3 84/3-32.2.) Teofrasto (3?2./o-i.88/6) Aristosseno ( 1v sec. ) Eudemo ( rv sec. )

Crantore di Soli (rv-m sec.) Autolico di Pitane (rv-m Clearco di Soli (rv-m sec.) Cratere di Atene (rv-m sec.) sec.) Demetrio del Falero (1v­ m sec.) Polemone (1v-m sec.) Euclide di Alessandria (rvIII sec.) Dicearco (1v-m sec.) •

Tutte le date si intendono a.C.

I

Le scuole di filosofia: dal filosofo re al professore di Mario Vegetti

I filosofi re e la loro scuola In quello che è probabilmente il passo più celebre della Repubblica, Pla­ tone faceva esporre a Socrate la propria terapia dei mali, politici e morali, della città. Si tratta di correggere l'errore diffuso nelle città storicamente esistenti, introducendovi un « cambiamento minimo» - uno solo, invero « non piccolo né facile, però possibile » , sufficiente comunque ad avviare l' intero processo di trasformazione etico-politica (v 473b-c). Questa mutazione, condizione necessaria e sufficiente per la creazione della città giusta, la kallipolis, riguarda i vertici del potere : essa comporta la disponibilità della forza politica indispensabile all'attuazione del progetto di riforma, e il suo corretto impiego per questo scopo. In altri termini, se la città è malata e se la sua terapia consiste nella nuova forma costituziona­ le, occorre individuare i medici che possiedano 1' autorità e la competenza necessarie a prescriverla. È questa la celeberrima "terza ondata" socratica. I mali delle città e dell' intero genere umano non cesseranno finché (1a) « i filosofi non re­ gnino nelle città » , oppure (1b) « re e potenti non si diano a filosofare con autentico impegno» , e (2) « non giungano a riunificarsi il potere politico e la filosofia » , impedendo per il futuro le forme di vita di chi sia solo poli­ tico o solo filosofo (v 473b-d; trad. Vegetti, 2007 ) . Il Socrate platonico era perfettamente consapevole dello scandalo che una simile proposta avrebbe suscitato presso il pubblico ateniese : esso nutriva una comprensibile diffidenza tanto nei riguardi delle stravaganti speculazioni cosmologiche dei physiologoi, quanto del ruolo corrosivo dei sofisti verso le tradizioni cittadine. Platone si assumeva allora il difficile compito di legittimare la pretesa dei suoi "filosofi" - dietro i quali non è difficile riconoscere lui stesso e i suoi compagni dell'Accademia - di venire investiti del governo della città. Egli poteva appellarsi a buoni argomenti, '

18

S T O RIA D ELLA F I L O S OFIA A N T I C A

derivati sia dalla tradizione storica dei Greci sia dal nuovo statuto episte­ mologico che lui stesso aveva conferito al sapere filosofico. La tradizione, in primo luogo. Dietro la filosofia rinnovata stava una tra­ dizione di sapienza dalla quale la prima ereditava, ha scritto Louis Gernet ( 1975, p. 237), una sua « vocazione imperiosa » . Nella memoria remota di questa tradizione comparivano figure ecce­ zionali e potenti come il re di giustizia, lo sciamano, il maestro di verità; storicamente, una traccia se ne poteva ancora riconoscere nell'esperienza pitagorica, che coltivava simultaneamente un'aspirazione al potere sul­ la città (fino ad Archita) e l'eccezionalità di una forma di vita con tratti mistico-ascetici. Ma l'alleanza fra potere e sapienza era in qualche misura anticipata da una tradizione più vicina ad Atene e allo stesso Platone, ed era riconoscibile nelle figure archegetiche di Codro e Solone, l'ultimo re e il protolegislatore di Atene, entrambi capostipiti rivendicati alla propria genealogia dalla famiglia di Platone (Diogene Laerzio III 1 ) . Lo scandalo degli Ateniesi poteva dunque considerarsi ingiustificato almeno rispetto a una secolare tradizione di potere dei sapienti, una tradi­ zione che, come si è detto, raggiungeva la stessa famiglia di quel Platone che ora osava riproporne una replica in un contesto moderno. Lo stesso Plato­ ne però lo considerava comprensibile in relazione alla figura dei "filosofi" contemporanei noti ai suoi concittadini, temibili sofisti o bizzarri "meteo­ rologi". Non erano tuttavia questi i filosofi cui egli proponeva di affidare la terapia dei mali della città. La nuova filosofia, come veniva ora costruita da Platone, garantiva loro strumenti intellettuali del tutto diversi e tali da legittimare un'aspirazione al governo della comunità. Essa era costituita, da un lato, da una tecnica dell'argomentazione razionale (elenchos) in grado di confutare le opinioni diffuse e condivise sui valori pubblici e privati, mo­ strandone l' inconsistenza e l' infondatezza. Dall'altro lato, essa era in con­ dizione di argomentare l'esistenza di valori oggettivi, tali da orientare la vita della comunità (le idee di bene, giustizia, saggezza e così via), indipendenti dall'arbitrio di maggioranze incompetenti o dalla coercizione della forza tirannica, contro il relativismo sofistico da Protagora a Trasimaco. La nuova filosofia possedeva un sapere procedurale (la dialettica) che indicava la via per una progressiva comprensione di questi valori ideali oggettivi; e in que­ sto modo forniva ai filosofi il modello paradigmatico per un governo del mondo umano orientato verso la realizzazione, anche se inevitabilmente parziale, di quell'ordine di valori nella dimensione storica. Questo nuovo sapere, assai più del richiamo implicito alla tradizione

LE S CU O L E DI F I L O S O F I A

19

sapienziale, offriva dunque la legittimazione dell'aspirazione dei filosofi platonici al governo sulla città, come argomenta ampiamente il libro VI della Repubblica. Perché questo governo risultasse possibile, Platone indi­ cava, come si è visto, due possibilità: lascesa diretta dei filosofi al potere, oppure la conversione alla filosofia di dynastai che già lo detenessero. La prima alternativa implicava l improbabile ( benché in linea di principio non impossibile ) convinzione delle maggioranze democratiche : ma Plato­ ne, realisticamente, non esperì mai in Atene il minimo tentativo in questo senso. La seconda comportava invece la persuasione dei governanti in ca­ rica ad accettare la guida dei filosofi: meglio se uno solo, meglio ancora se dotato di un potere assoluto. Ancora nel libro IV delle Leggi ( 709e-710d ) Platone avrebbe ribadito che la via «più rapida e più efficace » per la ri­ forma politica e morale della città sarebbe stata rappresentata dalla coppia del tiranno e del suo consigliere-legislatore filosofo. Nella misura in cui si può prestare fede alla ( auto ) testimonianza della V I I Lettera, questa sareb­ be stata la via effettivamente sperimentata da Platone nei suoi rapporti con i tiranni siracusani, Dionisio padre e figlio. La tormentata e anche ambigua vicenda di questi rapporti si concluse con un sostanziale fallimento, almeno per quanto riguarda gli intenti di Platone ( diverso, come si vedrà, il caso del suo allievo siracusano Dione ) . Ha dunque ragione Popper quando parla della forzata rinuncia del filo­ sofo al suo "sogno regale". Al contrario, Popper ( 1 9 6 65, p. 155 ) non rende ragione a Platone quando vede nell'Accademia platonica soltanto I' istitu­ zione della prima cattedra di filosofia. In realtà l'Accademia, che Platone cominciò a formare a partire dagli anni intorno al 385, non fu mai un' istituzione destinata primariamen­ te all' insegnamento ( cfr. Berti, 2010; Vegetti, 2003; Trabattoni, 1 9 9 8, pp. 20-3 ) . Si trattava piuttosto di una comunità di ricerca, tanto in ambito filosofico quanto scientifico; è legittimo pensare che i dialoghi di Platone costituissero da un lato proposte di problemi da sottoporre alla discus­ sione accademica, dall'altro il risultato di questa discussione. Ma oltre a questo, l'Accademia nei suoi primi decenni fu senza dubbio anche il luogo di formazione di un gruppo panellenico di intellettuali che aspiravano a svolgere un ruolo politico di primo piano, dall'esercizio diretto del potere all'attività di legislatore nelle poleis di appartenenza'. La doppia vocazio­ ne degli accademici, filosofico-scientifica da un lato, politica dall'altro, è confermata dalle notizie sulla composizione e sull'attività della loro co­ munità3.

2.0

S T O RI A D E LLA F I L O S OFIA ANT I C A

Se ne possono individuare tre diversi profili. Il primo comprende co­ loro che ci sono noti soprattutto per la loro attività filosofica: i futuri sco­ larchi, Speusippo e Senocrate, e il meteco Aristotele. Il secondo include importanti figure di matematici e astronomi, come Eudosso, Teeteto, Laodamante di Taso, Teudio di Magnesia, Helikon di Cizico, Filippo di Opunte (o di Medna), Eraclide Pontico, Leone. Con la sola eccezione di Aristotele, anche i membri di questi due gruppi non erano tuttavia rimasti estranei all'attività politica dell'Accademia. Speusippo e Senocrate furo­ no direttamente coinvolti nell'avventura siracusana di Dione (Plutarco, Dione 2.2. ) ; Senocrate fu inoltre impegnato nell'opposizione al governatore macedone Antipatro (protettore di Aristotele) fino a rifiutare la cittadi­ nanza ateniese (Filodemo, Index Academicorum col. vm ) . Eudosso avreb­ be scritto le leggi della sua città, Cizico (Plutarco, Adv. Col. 3i. u i.6c s.). Nel terzo profilo si possono inscrivere gli accademici dei quali ci è nota solo, o prevalentemente, l'attività politica. In primo luogo c 'è naturalmen­ te il siracusano Dione, che Platone sembra aver considerato il migliore dei suoi discepoli, destinato a diventare tiranno di Siracusa grazie alla spe­ dizione militare del 357, che coinvolse numerosi accademici (in seguito Dione venne ucciso da un altro accademico, Callippo ). Ma il gruppo è numeroso: si possono menzionare, fra quelli attivi durante la vita di Pla­ tone, soprattutto Erasto e Corisco, legati a Ermia, tiranno di Atarneo, che avrebbero governato la città di Asso; Pitone ed Eraclide, uccisori del ti­ ranno trace Cotys; Clearco, diventato tiranno di Eraclea e ucciso da altri due accademici, Chione e Leone ; Eveone di Lampsaco e Timeo di Cizico, impegnati nel tentativo di conseguire la tirannide nelle rispettive città; ma la lista potrebbe essere ancora ampliata. Le convulse e per lo più fallimentari avventure politiche degli accademi­ ci, spesso coinvolti nelle vicende delle tirannidi greche del IV secolo, pos­ sono venire interpretate come un tentativo di mettere in pratica l' insegna­ mento del maestro, oppure come un suo fraintendimento e persino un suo tradimento. Esse vanno comunque viste sullo sfondo della tormentata fase della storia politica greca che intercorre fra la crisi delle grandi poleis tradi­ zionali, come Atene e Sparta, e la normalizzazione conseguita al dominio macedone. I ripetuti fallimenti di queste avventure, l'aura sinistra di aspira­ zione al tyrannein che esse avevano riverberato sull'Accademia, contribui­ scono certamente a spiegare l'atteggiamento di distacco e di rifiuto che Ari­ stotele avrebbe maturato nei riguardi del diretto coinvolgimento politico dei filosofi. Del resto non va dimenticato che la sua scuola, il Liceo, sarebbe

LE S C UOLE DI F I L O S O F I A

21

stata fondata nel 335, cioè tre anni dopo quella battaglia di Cheronea che aveva sancito il dominio panellenico di Filippo di Macedonia, e con esso la fine dell'autonomia delle poleis ora incluse in più vaste compagini statali.

Dalla regalità filosofica al primato della teoria : Aristotele e il Liceo Nei vent 'anni della sua permanenza presso l'Accademia ( dal 3 67 I 3 6 6 fino alla morte del maestro ) , Aristotele ne era certamente diventato uno dei membri più autonomi e più autorevoli; in alcuni dialoghi tardi di Platone, e soprattutto nelle Leggi, è possibile rinvenire l'eco delle posizioni che egli avrebbe poi sostenuto nelle discussioni accademiche4• Nonostante questo, una sua successione a Platone alla guida della scuola era esclusa: Aristotele non apparteneva all'aristocrazia ateniese, e non era neppure cittadino del­ la polis, ciò che lo escludeva dalla possibilità di ereditare la proprietà degli edifici dell'Accademia; un ulteriore motivo della sua marginalità consiste­ va senza dubbio nella sua estraneità alla politica, almeno se essa veniva in­ tesa come aspirazione al potere e non come oggetto di studi teorici. La presa di distanza di Aristotele da quella che considerava come la confusione accademica tra filosofia e politica cominciò probabilmente quando egli faceva ancora parte della scuola, visto che non lo troviamo menzionato in alcuna delle imprese politiche di questa. Il suo severo stile intellettuale, che lo differenziava dall'esaltazione di molti accademici, pre­ se in seguito forma nella teoria - sviluppata tanto nelle Etiche quanto nella Politica1 - della distinzione radicale tra forma di vita politica e forma di vita teoretica, in diretta opposizione dunque al motto platonico secondo il quale « finché questo non giunga a riunificarsi, il potere politico cioè e la filosofia [ ... ] non vi sarà, caro Glauco ne, sollievo ai mali delle città, e neppure, io credo, a quelli del genere umano» (Resp. v 473d; trad. Veget­ ti, 2007 ) . Ma non si trattava solo di una distinzione : per Aristotele - pur nel rispetto per la vita del polites, che costituiva l'oggetto principale della sua riflessione etica - la vita teoretica, la dedizione allo studio filosofico, godevano di una netta supremazia dal punto di vista dell'attuazione della suprema arete umana, e del conseguimento della più alta forma di felicità, prossima a quella divina, come egli avrebbe scritto con molta enfasi nel libro x dell'Etica Nicomachea. A questi principi e a queste motivazioni si ispirò la scuola fondata in

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S T O RI A D ELLA F I L O S OF I A A N T I C A

Atene da Aristotele nel 335, il Liceo o Peripato ( cfr. Grayeff, 1974; Natali, 1991 ) . Il carattere di questa scuola differiva profondamente dall'Accade­ mia platonica, nella sua organizzazione e nei suoi intenti. È certo che il Liceo non ha mai avuto un riconoscimento istituzionale, né lo statuto di una pubblica struttura educativa. Ma è probabile che Ari­ stotele abbia affittato un edificio antistante il ginnasio omonimo : l' ipotesi è convincente perché sappiamo che il Liceo aristotelico disponeva di ric­ chi materiali didattici e aule attrezzate per l' insegnamento. Si trattava, in­ nanzitutto, dell' importante biblioteca raccolta da Aristotele. È probabile che essa comprendesse gli scritti dei filosofi presocratici, come Empedocle e Democrito spesso citati nelle sue opere, i dialoghi platonici, altri testi di medicina, storia, politica ( su di essi Aristotele si sarà basato, tra l'altro, per compilare la sua imponente analisi storico-politica di 158 costituzioni, di cui ci è pervenuta solo la parte relativa ad Atene ) . Ci saranno state anche compilazioni dossografiche tratte a scopo di discussione dialettica dai vari autori e ordinate per problemi; altri materiali didattici e dimostrativi, cui Aristotele rinvia spesso nelle lezioni trascritte nei suoi trattati, riferendo­ visi come se gli ascoltatori li avessero sott 'occhio, comprendevano senza dubbio tavole anatomiche, mappe geografiche, la rosa dei venti, carte stel­ lari, modelli astronomici: nell' insieme, una strumentazione decisamente moderna ed enciclopedica, com'era l' insegnamento aristotelico, che pre­ suppone l 'esistenza di una sede stabile e ben attrezzata. Ci si deve chiedere perché Aristotele sentì il bisogno di fondare una sua scuola, e in che cosa consistesse precisamente l'attività di questa scuola. L'esigenza "scolastica" ci è spiegata dalle parole stesse di Aristotele. So­ stenendo nell' Etica Nicomachea la preferibilità della vita dedita allo studio rispetto a quella politica, in virtù della sua maggiore autosufficienza, Ari­ stotele aggiungeva: « il sapiente è in grado di condurre ricerche teoriche anche da solo, e tanto più quanto più è sapiente : certo però lo farà me­ glio se disporrà di collaboratori [synergoi] » ( x 7 1 177a 32 ss.; trad. mia) . La scuola è dunque in primo luogo il punto di raccolta di questi synergoi, perché vi possano - secondo le efficaci parole del testamento di Teofra­ sto - « trascorrere insieme il tempo dedicato ai comuni studi filosofici [syscholazein kai symphilosophein] » ( Diogene Laerzio v 5 2; trad. mia) . Siamo in grado di ricostruire una lista di questo gruppo di stretti collabo­ ratori di Aristotele nel Liceo, intellettuali certamente agiati, meteci come il caposcuola, che si dedicavano agli studi per una decisione interamente personale, disinteressata e volontaria. Si tratta dunque di Teofrasto ( filo-

LE S C U O L E DI F I L O S O F I A

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sofo a tutto campo, che avrebbe però sviluppato in modo particolare gli studi di botanica) , Eudemo di Rodi ( che fu autore di una storia della ma­ tematica ) , Aristosseno di Taranto ( teorico della musica) , Dicearco di Mes­ sene ( interessato soprattutto alla teoria politica) , Stratone di Lampsaco ( impegnato nei problemi della fisica ) , Clearco di Soli ( cui si devono stu­ di di anatomia) ; era anche in relazione con la scuola l' importante uomo politico Demetrio del Falero, che per un certo periodo svolse le funzio­ ni di governatore di Atene, e più tardi ebbe un ruolo di consulente per la fondazione della biblioteca di Alessandria. Come già risulta da questo elenco, i "collaboratori" di Aristotele, a differenza di quanto accadeva per i "compagni" accademici di Platone, avevano decisamente imboccato la via della specializzazione dei campi di ricerca, pur mantenendo naturalmente un comune riferimento alla filosofia del maestro e alla discussione dei suoi problemi teorici generali. Più difficile è rispondere alla seconda domanda, relativa al funziona­ mento effettivo della scuola. Oltre alla ricerca, a differenza che nell'Ac­ cademia vi si doveva svolgere senza dubbio un' intensa attività di insegna­ mento : ne sono prova gli stessi trattati di Aristotele, che derivano più o meno direttamente da corsi di lezioni (.pragmateiai, methodoi) e lasciano trasparire spesso la destinazione orale del testo. Ma a chi era indirizzato questo insegnamento ? È possibile escludere la presenza di un pubblico cittadino, come sarebbe invece più tardi accaduto a Teofrasto, le cui le­ zioni arrivavano a contare duemila uditori ( Diogene Laerzio v 37 ) . Una formazione di tipo "universitario" avrebbe conosciuto i suoi esordi solo alla fine del IV secolo, e del resto non è immaginabile che l'estrema com­ plessità teorica dei corsi aristotelici, e la tematica strettamente scientifica di molti di essi, potessero contare su un interesse pubblico così esteso. Si sarà trattato piuttosto di intellettuali interessati a una formazione filoso­ fica complessiva, provenienti ad esempio dalla cerchia socratico-platonica o da quella isocratea. A uditori di questo tipo si può immaginare fossero indirizzati corsi di logica, di fisica, di metafisica, di etica e di politica; ma è difficile pensare che essi potessero essere sensibili ad esempio alle nozioni di zoologia e di anatomo-fisiologia comparata che occupano circa un terzo dei corsi-trattati di Aristotele, e più in generale a un'attività di ricerca e di insegnamento fortemente specializzata come quella che veniva praticata nel Liceo. Non conosciamo risposte documentabili a questi interrogativi. È solo possibile ipotizzare che il pubblico dei corsi aristotelici fosse più vicino al

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S T O RIA D ELLA F I L O S O F I A ANT I C A

limite dei dieci synergoi del maestro che ai duemila allievi di Teofrasto; al nucleo centrale si saranno aggiunti, di volta in volta, uditori interessati ai singoli temi trattati (politici cittadini, maestri di retorica, studiosi di me­ dicina e di scienze naturali, intellettuali di varia provenienza itineranti nei centri culturali del mondo greco). Si può essere certi, comunque, che non esistesse una domanda sociale diffusa per una specializzazione dei saperi quale quella praticata nel Liceo: essa si deve soprattutto a una decisione dello stesso Aristotele, che corrispondeva sia alle sue concezioni epistemo­ logiche sia al suo stile intellettuale. La realtà è articolata in diversi ambiti, non immediatamente ricondu­ cibili l'uno all'altro, e i relativi saperi godono dunque di una larga auto­ nomia di principi e di metodi: non è pensabile ad esempio, nel!'orizzonte aristotelico, quell' inestricabile intreccio tra dialettica, matematica, astro­ nomia, filosofia della natura che Platone aveva intessuto nel Timeo. L' au­ tonomia dei saperi si traduceva, nella pratica dell' insegnamento presso il Liceo, in una pluralità di corsi, articolati in sezioni disciplinari unificate da una prospettiva enciclopedica più che deduttiva e sistematica, come mo­ stra chiaramente il capitolo 1 del libro I dei Meteorologici. Questi corsi davano poi luogo all'esposizione scritta in "trattati": qual­ cosa più di una dispensa, perché spesso presentano segni di un'accurata rielaborazione sia stilistica sia logica, e meno di un trattato moderno, dato che ovviamente non ne esisteva un'edizione definitiva ed erano sempre soggetti ad aggiunte e parziali rifacimenti. Le pragmateiai aristoteliche non perdono comunque mai la traccia della lezione, come risulta dalle allusioni agli astanti, da esempi brachilogici che a noi restano oscuri, dai riferimenti a diagrammi, tavole, figure che dovevano essere sotto gli occhi degli allievi. La forma di questi trattati aristotelici influiva però a fondo sulla costitu­ zione disciplinare dei saperi indagati: essi fornivano spesso, ali' inizio del discorso, una rassegna delle opinioni precedenti (costruendo quindi tra­ dizioni dossografiche specializzate), un'agenda dei problemi specifici della disciplina, l individuazione della sua peculiare collocazione nel!' ambito della realtà, dei suoi metodi e dei suoi principi (cfr. Vegetti, 1998). In questo modo, Aristotele avrebbe durevolmente influito sui modi di formazione, organizzazione e trasmissione del sapere filosofico e scientifi­ co; dopo di lui, tanto la filosofia quanto le scienze si sarebbero affidate alla forma del trattato, la quale a sua volta avrebbe generato, nel!' ambito delle tradizioni e delle rispettive scuole, la pratica intellettuale del commento, destinata a dominare il lavoro filosofico nell'antichità post-ellenistica.

LE SCUOLE DI FILOSOFIA

Con Aristotele, era dunque comparsa sulla scena della storia una figura di filosofo radicalmente nuova, e destinata a una lunga posterità. Egli non aveva più nulla del sapiente arcaico che si proclamava detentore di una co­ noscenza negata ai "mortali"; e che rivendicava, in nome di questa sapien­ za, un diritto alla regalità sugli uomini, come aveva fatto una lunga tradi­ zione che dai pitagorici raggiungeva lo stesso Platone. Con lui, e dopo di lui, l'aspirazione alla sovranità della filosofia si sarebbe limitata all'ambito del pensiero e dei saperi teorici; la politica sarebbe diventata un oggetto di studio fra gli altri. Il filosofo re si sarebbe dunque metamorfizzato nel caposcuola, il grande professore di filosofia capace di governare il dominio della conoscenza e della riflessione.

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Platone di Franco Trabattoni

La vita e le opere Platone' nacque ad Atene nel 428/ 427 a.C. La sua famiglia apparteneva ali' aristocrazia economica, intellettuale e politica della città. Ricevette un'educazione consona al suo rango, fondata soprattutto sulla musica (intesa come insieme delle discipline umanistico-letterarie) e la ginnasti­ ca. Oltre a ciò, grande importanza dovette avere per lui la frequentazione dei personaggi colti e influenti con cui la sua famiglia era in contatto (ad esempio Crizia, che era suo parente). La notizia di Aristotele, secondo cui sarebbe stato compagno dell'eracliteo Cratilo, è difficile da valutare. È certo invece che l' incontro decisivo fu quello con Socrate, che inaugurò una frequentazione protrattasi fino alla morte di questi. La condanna di Socrate ebbe nella vita di Platone un' importanza decisiva, e segnò l' inizio della sua attività filosofica vera e propria. Nei primi decenni del nuovo secolo Platone compì dei viaggi, su alcuni dei quali (come quelli in Egitto e a Cirene) la tradizione è incerta. È molto probabile invece che si sia recato presso le comunità pitagoriche dell' Italia meridionale (in quest 'occasione potrebbe aver conosciuto Archita, il pi­ tagorico tiranno di Taranto), ed è certo che andò per tre volte a Siracusa. La prima volta fu nel 388, su invito del tiranno Dionisio il Vecchio. L'an­ no dopo, rientrato ad Atene, fondò l'Accademia, una specie di istituto di studi superiori in cui si insegnava e studiava conducendo una vita in comune, dedicata sia alla ricerca sia alla preparazione di uomini politici e legislatori. Nel 367 Platone si recò di nuovo a Siracusa, per verificare se il nuovo tiranno Dionisio II il Giovane (successo al padre) fosse davve­ ro propenso alla filosofia così come gli assicurava il suo amico siracusano Dione : in tal caso c 'era qualche speranza di creare le condizioni perché si sviluppasse un regime filosofico e buono. Fu però un'esperienza negativa.

STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA

Tuttavia Platone si lasciò convincere a ritentare l' impresa sei anni dopo. Ma anche questa andò male, e anzi Platone poté salvarsi solo grazie ali' in­ tervento di Archita. Rientrato definitivamente ad Atene, Platone trascor­ se il resto della sua vita scrivendo e insegnando nell'Accademia. Morì nel 348/347 a.C. La tradizione ci ha conservato tutto quanto Platone ha scritto, e anzi ci ha tramandato sotto il suo nome anche opere non sue. Ci riferiamo in primo luogo alle cosiddette Definizioni e a 6 dialoghi che già gli antichi consideravano spuri. Il resto dell'opera platonica fu ordinato dal gramma­ tico Trasillo, all' inizio del I secolo d.C., in 9 tetralogie, cioè gruppi di 4, e questo ordinamento si conserva anche in molte edizioni e traduzioni moderne. Di questi 36 scritti 34 sono dei dialoghi, uno è un monologo (l'Apologia di Socrate) e uno una raccolta di Lettere. Ma neppure tutto questo materiale può considerarsi autentico. Delle 13 lettere, infatti, for­ se solo una o due sono state scritte da Platone (in particolare la VII, che è anche quella di gran lunga più interessante). Inoltre si ritiene comune­ mente che l' Epinomide sia stato scritto dal discepolo di Platone Filippo di Opunte. Molti dubbi, inoltre, sono stati sollevati sulla quarta tetralo­ gia (Alcibiade I, Alcibiade II, Ipparco, Amanti), sul Clitofonte, sul Teage e sull'Ippia maggiore. Noi riteniamo, in ogni caso, che l'Ippia maggiore e probabilmente l'Alcibiade I debbano essere considerati autentici. Gli storici della filosofia hanno da sempre cercato di stabilire l'esatta cronologia degli scritti platonici (sotto questo profilo l'utilità dell'ordi­ namento di Trasillo è nulla). A questo fine sono stati tentati vari metodi, da quelli empirici (ad esempio l' incidenza della figura di Socrate) a quel­ li quasi-scientifici (come l'analisi computerizzata dello stile'). In base a queste ricerche risulta che l'opera platonica si può dividere approssima­ tivamente in tre gruppi: 1. dialoghi del primo periodo, prevalentemente polemici contro la cultura tradizionale e la sofistica, spesso aporetici (cioè apparentemente incapaci di risolvere i problemi proposti), molto legati al metodo e ai temi dell' insegnamento socratico ; 2. dialoghi della maturità, prevalentemente costruttivi, in cui si riconosce la presenza di vere e pro­ prie dottrine attribuibili a Platone ; 3. dialoghi della tarda maturità e della vecchiaia, in cui Platone si concentra soprattutto sulla dialettica (da cui il titolo di "dialoghi dialettici" che si suole attribuire ad alcuni di essi) e rie­ labora le sue dottrine etiche e politiche. Qui di seguito elencheremo tutti gli scritti di Platone ritenuti autentici, indicando sommariamente l'argo­ mento di ciascuno.

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PLATONE Primo periodo

- Apologia di Socrate: è messo in scena Socrate che si difende davanti ai giudici. - Critone: Socrate in carcere rifiuta la proposta di fuggire fat­ tagli da Critone. - Euti.frone, Liside, Camzide, Lachete, Ippia maggiore, Menone, libro della Repubblica: in tutti questi dialoghi Socrate condu­

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ce l'indagine su un concetto di carattere generale, confutando le risposte dei suoi interlocutori. Questi concetti sono, in ordi­ ne rispettivo, il santo (o sacro), lamicizia, la temperanza (so­ phrosyne), il coraggio, la bellezza, la virtù e la giustizia. - Ione: tratta della poesia. - Alcibiade I: sul primato dell'anima e dell'educazione interiore. - Ippia minore: confronto tra Achille e Odisseo. - Gorgia: Socrate dialoga con Gorgia, Polo e Callicle sulla natura della retorica e sulla felicità del giusto. - Protagora: Socrate duella con il sofista sulla natura della virtù e sulla sua insegnabilità. - Eutidemo: Platone contrappone il modo socratico di fare filosofia ai trucchi dialettici dei sofisti meno seri. Menesseno: forse una parodia della retorica corrente. Maturità

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Cratilo: sul linguaggio e i problemi gnoseologici connessi. Fedone: sull'immortalità dell'anima e la dottrina delle idee. Simposio: sull'eros. Repubblica (libri n-x ) : dialogo lungo e impegnativo, sul

modello ideale di Stato e sui principi metafisico-gnoseologici che governano la realtà e la conoscenza. - Fedro: sull'eros, la conduzione dell'anima, la critica alla scrittura. Tarda maturità o vecchiaia

- Teeteto: sul relativismo protagoreo e la natura della cono­ scenza in generale. - Pamzenide: Parmenide espone alcune critiche alla dottrina delle idee e poi si lancia in un lungo esercizio dialettico sull'u­ no, i molti e i loro rapporti reciproci. - Sofista: protagonista è lo Straniero di Elea, che prima si interroga sulla natura del sofista, poi studia le caratteristiche generali dell'essere e del non essere. - Filebo: sulla vita buona e sulle sue radici metafisiche (pro­ blema del rapporto uno/molti, limite/illimitato). - Timeo: la generazione provvidenziale del cosmo, le caratte­ ristiche fisiche della realtà e dell'uomo.

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STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA - Crizia: incompiuto, contiene il mito di Atlantide. - Politico: definizione del politico e rivalutazione della legge. - Leggi: è l'ultima e più lunga opera di Platone, in cui si descrive uno Stato ideale meno irrealistico di quello della Re­ pubblica, per quanto fondato sugli stessi principi, e si dimostra l'ordinamento divino del cosmo. - VII Lettera: autobiografia intellettuale di Platone, con un resoconto del suo impegno in Sicilia e una breve esposizione dei principi della conoscenza. - VIII Lettera: ancora sugli eventi siracusani, con consigli po­ litici agli amici di Sicilia.

Quasi tutte le traduzioni moderne dell'opera di Platone riportano, nel testo o a margine, la numerazione delle pagine secondo la fondamentale edizione di Henry Estienne o Stephanus (Lione 1578): essa è composta da un numero, che corrisponde alla pagina, da una lettera, che corrisponde al paragrafo, eventualmente un altro numero (che indica la riga), e permette facilmente di individuare i passi del testo indipendentemente dall'edizio­ ne o dalla traduzione che si usa.

Il dialogo platonico, tra oralità e scrittura Gli scritti di Platone, come detto, sono quasi tutti dei dialoghi; ma in essi l'autore non figura mai come personaggio (nella maggioranza dei casi la parte di conduttore è attribuita a Socrate). Questa situazione crea il pro­ blema di capire come riconoscere l'opinione di Platone, o addirittura di stabilire se ne avesse davvero una. Un secondo problema è costituito dal fatto che in due punti della sua opera (Phaedr. 275c-e; VII Lettera 341c) Platone sembra criticare il mezzo della scrittura in modo tanto radicale da mettere in dubbio che egli abbia davvero esposto nei suoi scritti le sue personali opinioni. A ciò si aggiunge l'esistenza di una tradizione indiretta (derivante soprattutto da Aristotele) che ci riporta una serie di dottrine esposte da Platone oralmente all' interno dell'Accademia. Ora, poiché il contenuto di tali dottrine non corrisponde se non in modo parziale a ciò che si legge nei dialoghi, non si capisce bene quale rapporto ci sia tra le due fonti, e come orientarsi per conoscere ciò che effettivamente Platone pensava. E soprattutto : con quale scopo Platone ha scritto i dialoghi ?

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D a u n passo della Poetica d i Aristotele (cfr. pp. 269-70) sappiamo che il « discorso socratico » era divenuto, nel corso del IV secolo, quasi un gene­ re letterario a sé stante (1447b). È possibile che questa letteratura sia stata suscitata almeno in parte dall'esigenza, condivisa da molti socratici, di di­ fendere il maestro dalle accuse che gli aveva rivolto un certo Policrate, con un famigerato libello reso noto intorno al 390. In questo caso dovremmo pensare che i discorsi socratici obbedissero a un intento sia agiografico sia descrittivo. Naturalmente questo motivo non può essere escluso, e anzi è evidente anche in Platone. Ma non costituisce una risposta completa. È in­ fatti praticamente certo che la descrizione di Platone non abbia di mira la fedeltà storica, e in molti casi non la rispetti affatto. Si ritiene, invece, che almeno nelle opere della maturità Platone utilizzi il personaggio Socrate semplicemente come portavoce delle sue idee. Sulla base di questi dati si è sviluppata una soluzione al problema del dialogo che potremmo chiamare tradizionale. Fatta astrazione dai dia­ loghi giovanili (che, si ritiene, si limitano a riprodurre il metodo critico­ confutatorio del Socrate storico), si selezionano e si ordinano, ali' interno dei dialoghi più costruttivi e maturi, le affermazioni del personaggio che conduce la discussione : in primo luogo Socrate, ma anche lo Straniero di Elea nel Sofista e nel Politico, Timeo nel dialogo omonimo, l'Ateniese nelle Leggi. Questa ipotesi ha certo una sua validità, perché spesso sembra inevi­ tabile ritenere che quello che dice il conduttore del dialogo sia proprio l'o­ pinione di Platone. Tuttavia non può valere come regola. In primo luogo non si capisce perché Platone avrebbe utilizzato lo stesso personaggio So­ crate come portavoce in un caso di un atteggiamento aporetico-scettico, nell'altro di dottrine positivamente asserite. In secondo luogo non sembra esservi una piena coerenza neppure tra le affermazioni dei personaggi che conducono dialoghi assertori. A volte, infine, lattiva collaborazione dei deuteragonisti impedisce di credere che la « dottrina » platonica sia espo­ sta esclusivamente dal personaggio privilegiato\ A causa di queste difficoltà si è fatta strada negli ultimi decenni un' ipo­ tesi diametralmente opposta: Platone ha scritto dialoghi senza introdurre sé stesso come protagonista perché lo scopo delle sue opere era analogo a quello della poesia drammatica, cioè descrivere come in un teatro I' incon­ tro e il confronto tra determinate posizioni, non esporre le sue tesi perso­ nali4. Ma questa ipotesi è anche meno accettabile della sua antagonista. I dialoghi platonici, infatti, non sono paragonabili sino in fondo alle opere teatrali o agli scritti puramente descrittivi, ma appaiono fortemente orien-

STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA

tati, propositivi, spesso polemici, ironici o addirittura tendenziosi. Alle spalle del testo, insomma, si intravede la presenza dell'autore, che costru­ isce e regge con sapienza il gioco del dialogo, fa esplodere delle contrad­ dizioni, lancia segnali spesso molto sottili e coperti, suggerisce implicita­ mente al lettore determinati percorsi, a volte si accontenta anche solo di metterlo in crisi per provocare in lui determinate reazioni. L'autore, in altre parole, è materialmente assente dal dialogo, ma dal punto di vista filo­ sofico è ben presente, come un invisibile burattinaio che muove i pupazzi sulla scena per perseguire determinati scopi. Queste osservazioni ci portano a formulare l ipotesi che riteniamo più plausibile. È vero che nel dialogo platonico c 'è sempre un personaggio che dirige la discussione, e che appare più abile e più sapiente degli altri. Bi­ sogna però stare attenti a non confondere la comunicazione che va dal protagonista del dialogo al suo interlocutore con la comunicazione che va dall'autore all'ascoltatore o al lettore (cfr. Trabattoni, 2003b, pp. 47-70; Rowe, 2007, p. 31). Quello che Socrate dice a un certo personaggio, infatti, non rappresenta necessariamente quello che lautore vuol dire a chi legge il suo scritto. Per trovare nei dialoghi il pensiero di Platone non basta dun­ que attenersi a singole affermazioni, anche se sono affermazioni di Socrate (e degli altri conduttori). Occorre invece analizzare nel suo complesso la struttura dialogica, composta sia dalle domande del protagonista sia dalle risposte dell' interlocutore, e cercare di capire che cosa Platone voleva dire al lettore costruendo un dialogo di un certo genere, in cui chi interroga formula certe domande e chi risponde lo fa in quel determinato modo. Stabilito questo, passiamo ora al problema della critica alla scrittura e a quello relativo alle dottrine orali (che del resto è strettamente intreccia­ to al primo). Anche qui la storia degli studi platonici vede il conflitto di due posizioni opposte. Nella visione tradizionale vengono minimizzati sia i passi in cui Platone prende le distanze dalla scrittura (si dice ad esempio che questa cautela non riguarderebbe la forma specifica dello scritto plato­ nico, cioè il dialogo) sia le testimonianze indirette (si tratterebbe di frain­ tendimenti di Aristotele, che oltretutto attribuirebbe a Platone dottrine di altri accademici)1• Diametralmente contraria è l'opinione di altri studiosi (alludiamo alla cosiddetta "scuola di Tubinga-Milano"6), i quali ritengono che Platone abbia volutamente riservato le sue dottrine più elevate all' insegnamento orale, mentre ai dialoghi spetterebbe un ruolo di carattere protrettico/di­ vulgativo. Questo accadrebbe perché la parola scritta non è in grado di sce-

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gliere i destinatari e corre il grave rischio di non essere compresa, mentre esistono dei contenuti che possono essere rivelati solo a chi possiede una preparazione specifica. Corollario di questa tesi è che i dialoghi possono essere pienamente capiti solo alla luce delle dottrine che Platone insegnava nell'Accademia, e che in qualche modo noi possediamo ancora per mezzo della tradizione indiretta. Noteremo di nuovo che le posizioni estreme difficilmente sono affida­ bili. Ali' interpretazione che abbiamo chiamato tradizionale si può obiet­ tare che un insegnamento orale di Platone deve certo essere esistito, che la testimonianza di Aristotele non può essere semplicemente squalificata e che le critiche alla scrittura, per come sono formulate, difficilmente pos­ sono escludere il dialogo. Contro la tesi secondo cui Platone non avrebbe messo per iscritto i cardini del suo pensiero si deve invece dire che la con­ trapposizione, in Platone, di oralità e scrittura, non ha (o non ha solo) lo scopo contingente di dividere le dottrine in cose che possono essere dette a tutti e in cose che possono essere dette solo a qualcuno. Nella preferen­ za che Platone manifesta nei confronti dell'oralità, infatti, è determinante un motivo di carattere filosofico : lo stesso che spinge Platone a scrivere dei dialoghi senza prendervi parte, a fare largo spazio nella sua opera a un Socrate che lavora in modo critico-scettico, a disseminare le sue pagine di omissioni, di rimandi e di formule di cautela. Ciò che entra in gioco in questo problema, insomma, è il persistere nel­ la filosofia di Platone di una vena socratica. L' invadenza nell'opera platoni­ ca della figura di Socrate e del suo metodo dialogico confutatorio è docu­ mento di una continuità di vedute, che corre lungo il filo della maieutica e della ricerca interiore : il sapere nasce e si sviluppa all' interno dell'anima di ciascuno. I mezzi esterni, di conseguenza, possono avere al massimo la funzione di stimolare e favorire questa nascita. Dunque risulta poco inte­ ressante articolare il sapere filosofico in trattati sistematici e impersonali, come se avessimo a che fare con una scienza unica e uguale per tutti. Lo strumento più efficace è invece il colloquio orale, come quello che Platone attuava direttamente con i suoi discepoli. Ma in mancanza di meglio, cioè con chi si può raggiungere solo con lo scritto, il modo migliore di scrivere è il dialogo. Il dialogo impegna, anzitutto, Socrate e gli altri protagonisti delle conversazioni platoniche ; ma coinvolge attivamente anche il lettore, che dal testo così costruito ricava stimoli per la ricerca personale molto maggiori di quelli che potrebbe ricavare dall'esposizione di una dottrina (cfr. Trabattoni, 1994; 2005).

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Due parole, infine, su un'altra annosa questione. I dialoghi di Platone presentano un contenuto coerente e unitario, oppure sono riscontrabili, nel corso del tempo, delle modifiche sostanziali del suo pensiero ? Il punto di vista che qui si predilige è quello di un "unitarismo" moderato, e que­ sto sulla base di due presupposti. In primo luogo, l' ipotesi che Platone abbia cambiato idea nel corso del tempo non spiega nulla (bisognerebbe anche chiedersi perché l'abbia fatto) ; ed è spesso un modo assai comodo di cavarsi d' impaccio in presenza di elementi che non si riesce a far com­ baciare. In secondo luogo, pur ovviamente non negando che in tanti anni di riflessione Platone abbia modificato alcune sue convinzioni, è possibile intravedere nella sua opera un disegno generale piuttosto organico. Ma la valutazione di questa ipotesi dipende dal grado di coerenza che si vorrà attribuire alla ricostruzione che stiamo per proporre7.

L' incontro con Socrate : filosofia e vita Per introdurre la filosofia di Platone la cosa più utile da fare sembra essere quella di partire dalla vn Lettera (chi scrive parte dal presupposto, ampia­ mente accettato dalla critica, che sia autentica) : un testo che Platone scrive in tarda età, con lo scopo di giustificare al cospetto dell'opinione pubblica ateniese il suo operato in relazione alle vicende siciliane, ma in cui apre an­ che uno squarcio prezioso sulle circostanze e le motivazioni che lo hanno condotto alla filosofia. Di famiglia aristocratica, allevato ed educato nel migliore dei modi, il giovane Platone considerava l'attività politica come lo sbocco naturale della sua vita. Dopo la caduta del governo democratico (estate del 404), egli si accosta al governo filospartano dei Trenta Tiranni, al quale partecipavano alcuni suoi familiari e conoscenti (ad esempio lo zio materno Crizia). Pla­ tone sperava che il nuovo governo « avrebbe riordinato la città conducen­ dola dall' ingiustizia a un giusto modo di vivere » (324d; trad. mia). Ma la delusione fu cocente. Tante e tali furono le malefatte dei nuovi padroni di Atene che essi « in poco tempo fecero apparire oro il governo precedente » (trad. A. Maddalena, in Giannantoni, 1971). E come esempio emblematico Platone cita un episodio relativo alla vita di Socrate (da lui definito « l'uomo più giusto di quelli del suo tempo» , 324e; trad. mia), cioè il tentativo fallito, da parte dei Trenta, di avere il filosofo come complice nell'assassinio di un

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uomo. Quando poi dopo poco più d i un anno il regime dei Trenta cadde e tornò la democrazia, Platone sentì di nuovo il desiderio di occuparsi della cosa pubblica. Ma ne fu distolto dalla vicenda del processo e della condanna a morte di Socrate: il regime democratico, che pure si era dimostrato nel complesso tollerante, accusava di empietà proprio l'uomo che per non appa­ rire empio si era a suo tempo rifiutato di rendersi complice dei tiranni (p.5c). Platone mostra così che nell'atto di scegliere a quale scopo indirizzare la sua esistenza la vicenda socratica giocò un ruolo determinante. Egli con­ siderava altamente significativo il fatto che l' integerrima morale di Socrate si era più di una volta opposta alla prassi politica impura corrente in Atene sullo scorcio del v secolo. Decidendo di fare filosofia sulla scia di Socrate, e con l'occhio concentrato sugli esiti negativi della prassi etica e politica corrente, Platone inaugura dunque un' idea di filosofia in cui il sapere che si ricerca (ricordiamo che la parola "filosofià' significa "amore del sapere") non è tanto un sapere fine a sé stesso, orientato al puro conoscere, ma è un sapere diretto a conoscere quei principi generali di fondo che soli posso­ no promuovere il benessere dell'uomo (ovvero la sua felicità) sia nella vita privata sia in quella pubblica8• Una delle più importanti eredità che Socrate consegna a Platone è dunque la stretta connessione tra filosofia e vita. Ma Platone accoglie in­ teramente anche il modo in cui Socrate (o meglio, il Socrate come egli lo interpretava) articolava questo rapporto, in cui il fine dell'esistenza è la felicità e l'unico mezzo disponibile all'uomo per conseguirla è la cono­ scenza (da cui i celebri paradossi socratici, cfr. VOL. I, pp. 229-31). Se così stanno le cose, la filosofia si configura allora come quel tipo particolare di tecnica, formalmente analoga a tutte le altre, che ha lo scopo di produrre la vita buona. L'aspetto essenziale di questa analogia è che il conseguimen­ to del sapere diviene necessario non solo e non tanto per il suo supposto valore intrinseco (sempre discutibile, soprattutto se si intende parlare di un obiettivo comune a tutti gli uomini), quanto perché esso costituisce il presupposto necessario per ottenere ciò che tutti inderogabilmente desi­ derano, ossia la felicità (cfr. Euthyd. 278e, 282a). Gli orientamenti teorici che abbiamo ora riassunto costituiscono le li­ nee portanti dell'agenda filosofica di Platone. Se la filosofia è una tecnica come tutte le altre, il suo primo e principale compito è quello di rintrac­ ciare dei principi universali che possano essere applicati ai casi particolari. Per ciò che concerne la filosofia questi principi sono costituiti da valori universali come il bene o il giusto, e la filosofia è quel sapere che dovreb-

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be essere capace, almeno in qualche modo, di individuarli e conoscerli. Ma questi presupposti sono soggetti a due importanti obiezioni. In primo luogo si potrebbe osservare che i valori universali non sono oggetto di trat­ tazione filosofica, ma piuttosto sono consegnati agli uomini dalla divinità, dai costumi, dalla tradizione. In secondo luogo, in modo ancora più radi­ cale, si potrebbe dire che i valori universali non esistono affatto, sia perché ciascuno ha un modo suo personale di concepire la felicità (e tutti sono legittimi), sia perché diverse a seconda delle persone e dei gruppi sono le stesse nozioni di "bene" e di "giusto". Queste due obiezioni corrispondono a due sfide che Platone ha dovuto affrontare durante l'elaborazione del suo pensiero : la prima ha di mira la cultura tradizionale, la seconda la sofistica (in particolare protagorea).

Platone e la cultura tradizionale Che cosa si intende per "cultura tradizionale" ? Come dice un celebre frammento di Senofane, « tutti, da principio, hanno imparato da Ome­ ro » (9 DK; trad. mia). I poemi omerici costituivano per i Greci non solo il testo base per acquisire le conoscenze linguistiche primarie, ma anche la fonte principale della religione, del diritto e della morale. Ne era nata una cultura che qualche studioso ha chiamato epico-omerica, in cui ve­ nivano esaltati il culto del coraggio, della forza, dell'onore ; erano elogiati il servizio che si deve rendere alla patria, la devozione verso gli anziani, la cortesia nei confronti dell'ospite e dell'amico; ma anche la capacità di farsi rispettare, di nuocere ai nemici, di acquistare potere e prestigio nella società mediante le proprie opere. Questo modello culturale trovava la sua positiva sanzione nel comportamento degli dei olimpici, niente affatto di­ verso da quello degli uomini, che offriva una comoda giustificazione per le azioni umane : passioni come la lussuria, l' ira, l'avidità sono comuni anche agli dei di Omero, e perciò potevano apparire come aspetti leciti e naturali della natura umana. Esponenti di spicco della cultura tradizionale erano per Platone, anzi­ tutto, i poeti e gli uomini politici. In dialoghi come il Gorgia o la Repub­ blica Platone conduce la sua critica in modo diretto, agendo sul piano dei valori e dei contenuti. Nell'Apologia, nello Ione e nel Menone troviamo invece le tracce di una strategia più neutra, oltre che più consona al meto-

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do confutatorio di Socrate : senza entrare nel merito dei prodotti di quella cultura (siano essi testi poetici o provvedimenti politici), e anzi ammetten­ do almeno provvisoriamente che siano buoni, Platone si limita a mostrare che gli autori di queste cose "buone" le hanno portate a compimento senza possedere un vero sapere. Tanto basta, infatti, a provare che poeti e poli­ tici non hanno alcun diritto ad assumere ruoli normativi all' interno della società, in quanto ha titolo di stabilire le norme, e dunque di insegnare quali sono i valori, solo chi dispone di un vero e proprio sapere (nell'esatta misura in cui ne dispone). Questa compresenza di un'efficace capacità di fare cose buone insieme all' ignoranza del modo in cui le si è prodotte è tematizzata da Platone da un lato, in particolare per quanto riguarda la poesia, con la nozione tradi­ zionale di "ispirazione o sorte divinà', dall'altro con il grado gnoseologico della "retta opinione". L' ispirazione divina è accreditata da Socrate ai poeti (così come ai rapsodi, che erano i loro ripetitori) nello Ione (533d-535a). Ma questo riconoscimento non deve essere preso troppo sul serio. Ciò che importa a Platone nel concetto di ispirazione è il fatto che il poeta, quan­ do compone, si comporta come un profeta, ossia (secondo l'etimologia del termine) come qualcuno che parla in nome di un altro; ed è chiaro che quest'altro che parla per lui (la divinità), affinché possa servirsi del poeta come di un canale affidabile e non deformante, deve azzerare la sua mente e la sua personale capacità di elaborazione. Dunque il poeta, se ispirato dalle Muse, per definizione non possiede alcun sapere in proprio, con il risultato che il suo preteso ruolo normativo deve essere considerato nullo. In questo senso l' ispirazione divina è del tutto analoga al grado di co­ noscenza che Platone chiama "retta opinione". La retta opinione, si legge nel Menone, non si distingue dal sapere sotto il profilo pratico (all'occor­ renza tanto chi ha retta opinione quanto chi ha sapere può produrre buoni risultati), ma sotto quello teorico : solo chi sa è anche in grado di rende­ re ragione dei suoi successi (97a-9 8b). Se applichiamo questo discorso a quella tecnica particolare che è la politica, se ne deve concludere che solo chi abbia un qualche sapere riguardo il bene e il male può esercitare una funzione normativa; non chi è in grado, felicemente e occasionalmente, di fare o dire delle cose buone (come i poeti e i politici tradizionali). Di fatto, tuttavia, Platone non insiste troppo a concedere che la cultura tradizionale produca davvero cose buone. È infatti ben più realistico pen­ sare che all' ignoranza delle procedure corrisponda anche la negatività dei contenuti. Per cui Platone sviluppa il suo attacco anche e soprattutto su

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questo piano. Il documento più chiaro in proposito è costituito dai libri II e III della Repubblica. I poeti ( soprattutto Omero, Esiodo e i tragedio­ grafi ) sono accusati di avere imposto un' immagine erronea della divinità ( 377e ) . Secondo Esiodo, ad esempio, Urano, suo figlio Crono e il figlio di questi Zeus avrebbero compiuto non poche violenze reciproche, e si tratta indubbiamente di un comportamento assai poco idoneo a delle divini­ tà, che in quanto tali non possono essere ritenute responsabili o causa dei mali, ma solo e unicamente dei beni ( 379c-39oc) . Neppure si addice agli dei mutare natura, o assumere forme molteplici, perché ciò che è buono e perfetto potrebbe cambiare soltanto verso il peggio ; tanto meno hanno ragione i poeti quando raccontano che gli dei si trasformano con lo sco­ po di ingannare gli uomini ( 381b ss. ) . Nel III libro, poi, Socrate rincara la dose mostrando che anche nella descrizione degli uomini la poesia tradi­ zionale è ben lontana dal proporre esempi affidabili di buon comporta­ mento morale. Tutto questo, ovviamente, non avrebbe nulla di scanda­ loso, se la poesia avesse un significato puramente estetico. Ma di fatto ( e nell' intenzione dei poeti e dei loro interpreti spesso anche di diritto) la cultura poetica esprimeva dei modelli di comportamento che poi valevano, presso la cultura tradizionale, come normativi ( emblematico è il caso del sacerdote Eutifrone, nel dialogo omonimo) ( Verdenius, 1943; Trabattoni, 1985-86 ) . Platone sviluppa contro questa cultura nel suo complesso lo stes­ so procedimento confutatorio che Socrate esercitava contro i suoi singoli esponenti: si può sperare di costruire un sapere vero ed efficace sul piano pratico solo dopo aver previamente sgombrato il campo dai saperi che si pretendono tali ma non lo sono ; perché solo chi ammette la sua ignoranza è davvero disposto ad apprendere.

Platone e la sofistica Nel periodo della formazione filosofica di Platone la cultura tradizionale non era più l'unico paradigma intellettuale e morale dell'uomo greco. Tale cultura era stata da tempo aggredita da un modello almeno all'apparenza alternativo, ossia dalla cosiddetta "sofistica''. Tra i sofisti che avevano calca­ to la scena ateniese nella seconda metà del v secolo i due più importanti sono indubbiamente Protagora e Gorgia; e non a caso Platone intitolò con questi due nomi i due dialoghi più impegnativi da lui scritti nella prima fase della sua carriera. Tuttavia il pensiero di Protagora stimolò la riflessio-

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ne di Platone (in gran parte polemica, ma non solo) molto più di quello di Gorgia. Nel Gorgia Platone si confronta non tanto con Gorgia ma soprattut­ to con quei personaggi (rappresentati in modo esemplare da Callide) che sfruttavano la loro abilità retorico-persuasiva per ottenere un potere e un prestigio personale, all' interno di una concezione etica immoralistica e ci­ nica per la quale l'unica legge efficace è quella che invita a soddisfare in massimo grado i propri desideri e bisogni. Questi sofisti rappresentano per Platone una minaccia molto pericolosa, che egli cercherà di sventare lungo tutto il corso del suo pensiero, in particolare nella Repubblica. Ma in realtà siamo in presenza di due posizioni che non concedono molto al dialogo, né alla possibilità di convinzione reciproca. Alla loro base, in effetti, vi sono due opposte opzioni di fondo sulla natura della vita buona, e dunque riguardo i modi che rendono l'uomo felice. Ma con quali mezzi si può dimostrare, in una materia apparentemente soggettiva come questa, che c 'è un solo e unico modo in cui si può conseguire questo obiettivo ? come convincere l'uomo ingiusto che si dichiara felice del fatto che non lo è ? Quanto a Gorgia, il personaggio che nel dialogo porta il suo nome mo­ stra, almeno all'apparenza, di non condividere le posizioni immoralistiche dei suoi ammiratori Polo e Callide. In effetti Socrate lo può confutare solo perché abbandona per un attimo la difesa tecnico-formale della retorica e ammette di insegnare anche la giustizia, dando così a Socrate il diritto di esigere da lui un sapere oggettivo (46oa). Ma questo cedimento non è obbligato, ed è molto probabile che il Gorgia storico abbia evitato la trappola. Egli infatti rifiutava di definirsi maestro di virtù, e più in gene­ rale negava qualunque accesso alla realtà e alla verità mediante il pensie­ ro e la parola. Per il Gorgia storico 1' arte della parola pare proprio che si riducesse al virtuosismo formale, e che consistesse interamente nella sua forza di seduzione e di inganno, senza altro fine dell' inganno medesimo. Questa più coerente impostazione è confutata da Platone nel Fedro, dove Socrate farà sensatamente osservare che chi inganna può ingannare (cioè far credere il falso) solo se possiede la conoscenza del vero (i.6i.a). Ma nel Gorgia di questo argomento non v 'è traccia. Non si può nemmeno dire, rigorosamente parlando, che Gorgia venga confutato, o che venga posto in questione l'universo morale in cui crede. Egli viene qui chiamato in causa solo come scopritore e banditore di una tecnica pericolosa, indifferente ai contenuti e ai valori etici, e anzi particolarmente adatta a favorire e diffon­ dere concezioni morali spregiudicate.

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Diverso è il caso di Protagora. A lui Platone ha dovuto dedicare un'at­ tenzione ben maggiore, soprattutto perché egli si vantava apertamente, come risulta dal Protagora, di saper insegnare la virtù politica (318e-319a). Ma, obietta Socrate, siamo sicuri che la virtù si possa trasmettere mediante l'insegnamento ? Perché, se così fosse, i figli degli uomini insigni per virtù si sono dimostrati molto inferiori ai padri ? E dove sono, nella città, i mae­ stri di virtù ? Protagora si difende, nel dialogo platonico, in parte con un mito e in parte con argomentazioni. Il mito racconta che Zeus ha concesso a tutti gli uomini le pre-condizioni minime per l'acquisizione della virtù, ossia un certo sentimento della giustizia e del pudore : dunque, nessuno è per principio negato al miglioramento morale. Non è vero, in secondo luogo, che nessuno insegna la virtù. È vero invece che l' insegnamento non ha con tutti lo stesso successo. Ma la stessa cosa vale anche per le tecniche. Il figlio di un grande flautista potrebbe diventare abile come suo padre solo se pos­ sedesse le medesime doti naturali; altrimenti, nonostante tutto l' impegno che il genitore avrà messo nell ' insegnamento, gli rimarrà inferiore. Lo stes­ so vale anche per la virtù (politica). Questa difficoltà non impedisce, tutta­ via, la trasmissione della virtù da generazione a generazione: la comunità insegna le regole della convivenza ai suoi membri più piccoli, più o meno come insegna loro a parlare, e non c 'è perciò da stupirsi del fatto che non sia possibile individuare in modo preciso i maestri (32oc-328d). La replica di Socrate non sembra di primo acchito pertinente. Socrate vorrebbe fare ammettere a Protagora che la virtù è una sola, ma il sofista cerca di escludere da questa unità almeno il coraggio (3s1b). Che scopo ha questo tentativo ? Per Platone dire che la virtù è una sola equivale nella sostanza a dire che è conoscenza. Si può parlare di una sola virtù, in effetti, solo se la virtù è conoscenza del bene e del male. In questo caso le diverse virtù hanno soltanto la funzione di specificare gli ambiti in cui il bene e il male si particolarizzano. Nel Protagora Socrate si sforza di far ammettere al sofista che la virtù è una sola appunto per fargli ammettere che la virtù è conoscenza, perché solo in questo caso la virtù può essere insegnata. Una volta fissato questo punto (che Platone ribadisce anche nel Me­ none), saltano agli occhi i difetti della concezione di Protagora. Se la sua ambizione è quella di insegnare la virtù, dovrebbe possedere la scienza cor­ rispondente ; e questa dovrebbe avere per oggetto il bene e il male. Ma è in grado Protagora di dimostrare il possesso di una scienza siffatta ? A parere di Platone la risposta non può che essere negativa. Per Protagora la cono-

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scenza di ciò che è bene in parte deriva dagli dei e in parte viene assorbita dagli uomini più o meno come si apprende la lingua materna. Ciò che Protagora realmente insegna, invece, non ha molto a che fare con tutto questo, e si riduce, in parole povere, all'arte della parola ( 3 1 2d ) . Anche per Protagora, in definitiva, si conferma il giudizio generale che Platone formula nei confronti della cultura del suo tempo : indipendentemente dal fatto che ci avessero pensato o no, sia che ritenessero possibile questa ricer­ ca o no, nessuno aveva seriamente tentato di capire che cosa sono il bene e il male per l'uomo. Nel caso di Protagora questo relativo disinteresse, d' al­ tra parte, è del tutto coerente con il relativismo implicito nella sua dottrina dell' "uomo misura" ( cfr. VOL. I, pp. 200-1 ) ( se questa dottrina è vera, come sarà possibile cercare un bene in generale ? ) . Di conseguenza, per recidere alla base il problema e aprire uno spazio per un' indagine universale sui valori capaci di promuovere la vita buona sia sul piano individuale che su quello politico, è essenziale per Platone dimostrare che la tesi di Protagora è insostenibile e contraddittoria. Platone espone le sue argomentazioni a questo proposito nella prima parte del Teeteto, in cui Socrate discute 1' ipotesi secondo cui la conoscenza sarebbe sensazione. Per Socrate ciò equivale a dire, con Protagora, che 1 'uo­ mo è misura di tutte le cose ( 151e ) . Punto medio tra le due definizioni è la nozione di apparire. Protagora vuol dire infatti che ogni cosa è per ciascu­ no tale come gli appare, e questo "appare" non significa altro che "averne la sensazione". Ad esempio, non potremmo dire se un vento è freddo o caldo in generale, ma solo che è freddo o caldo per qualcuno, in conseguenza della diversità delle sensazioni. Perciò è corretto dire che ciascun uomo è misura di ciò che prova, in quanto il singolo è giudice inappellabile delle proprie sensazioni. Ma la diversità delle sensazioni dipende, a sua volta, da una ben precisa teoria generale sulla realtà, e cioè il mobilismo universale di stampo eracliteo. La sensazione, infatti, è un incontro tra il soggetto senziente e la cosa sentita in cui queste due cose si modificano a vicenda; perciò è chiaro che ogni sensazione sarà sempre diversa da un'altra, e an­ che nello stesso soggetto in tempi diversi. Così viene meno la possibilità di collegare in modo stabile un soggetto con un predicato. Il risultato di questa posizione, solo apparentemente paradossale, è che tutte le opinioni sono vere, anche se sono in contrasto tra di loro. La tesi di Protagora sembra di primo acchito incompatibile con la pra­ tica. Tutti gli uomini sono costretti quotidianamente a compiere delle scelte, e nel fare questo cercano di orientarsi secondo ciò che pare meglio

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per loro. Dunque sono ben lontani dal ritenere che tutte le opinioni siano ugualmente valide. Ma questa obiezione, secondo Protagora (di cui So­ crate nel dialogo si fa per un momento l' immaginario portavoce), è assai grossolana. Dicendo che la sensazione è sempre vera, Protagora non vuole negare che ci sono cose buone e cattive, utili e inutili; anzi, l'abilità del sapiente consiste proprio nel mostrare che sono buone, cioè utili, le cose che appaiono cattive. Questa difesa si regge sul presupposto che la verità e il sapere possano essere tenuti separati dal bene e dall'utile. Demolire questa posizione è in generale tutt'altro che facile. Si può certo osservare, come in effetti fa Socrate nel Teeteto, che l'efficacia e l' inefficacia ogget­ tive sembrano presupporre una reale distinzione tra il vero e il falso (chi riesce a guarire un malato, ad esempio, dimostra con ciò stesso che le sue opinioni in medicina sono vere). Ciò nondimeno non sembrano esistere né una verità né un'efficacia assolute : come lo stesso Platone riconosce al­ trove, ogni cosiddetto "bene" è tale solo se usato correttamente (Euthyd. 278e-28 1e) e persino la salute, all'occorrenza, potrebbe non essere un bene (Lach. 19 5c). In realtà tutto questo può essere ammesso senza tuttavia dar ragione a Protagora. Il fatto che non siano rintracciabili situazioni "assolu­ te" non significa che tutto sia equivalente. Ammesso che la malattia talvol­ ta possa essere un bene, nella maggioranza dei casi è sicuramente un male, e dunque le opinioni di un medico, anche se non sono "vere" in assoluto, sono "più vere" di quelle di un profano di medicina. Questa distinzione (tra più e meno vero/efficace), essenziale sul piano pratico, è proprio ciò che la teoria di Protagora non consente di fare. Nel contesto del dialogo l'obiezione di cui parliamo viene espressa in modo un po' differente, ma nella sostanza analogo. A chi, come Protagora, sostiene che l'unico criterio di verità è l'opinione, fino al punto di dire che tutte le opinioni sono vere, non può non creare qualche imbarazzo il fatto che la stragrande maggioranza delle opinioni (tutte, si può dire, tranne la sua) concorda nel sostenere che ci sia una reale differenza tra il vero e il falso, e che tale differenza si applichi anche all'utile e al dannoso. Non si tratta, beninteso, di una confutazione logicamente rigorosa. Platone vuole semplicemente mettere a confronto la fiducia che Protagora dimostra nei confronti dell'opinione con il dato macroscopico secondo cui la sua per­ sonale opinione non è condivisa praticamente da nessuno. Il dibattito con la filosofia di Protagora si rivela per Platone molto in­ teressante e fruttuoso. Confutando la posizione protagorea egli dimostra che evadendo la domanda su ciò che è vero e falso in generale non è pos-

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sibile comprendere e giustificare il modo in cui gli uomini effettivamente pensano e agiscono. Se la tesi di Protagora non riesce ad annullare il fatto che alcune tesi siano più efficaci e più vere di altre, anche se non riusciamo a vedere chiaramente gli estremi di questa scala (il vero o il bene assolu­ ti), dobbiamo in qualche modo postulare che tali estremi esistano (ossia, in termini platonici, che esista la verità oltre l'opinione, l'universale oltre l' individuale, l' immobile oltre il mobile) ; altrimenti la scala non sussiste­ rebbe. La confutazione di Protagora, in altre parole, non ha solo significa­ to negativo, ma è anche la premessa migliore per la costruzione della teoria di Platone.

Relativismo, nominalismo, materialismo, sensismo: difficoltà e contraddizioni La relazione che abbiamo visto istituita nel Teeteto tra il relativismo e il soggettivismo conoscitivo e la concezione mobilista della realtà implica, per Platone, che il problema della conoscenza non possa essere affrontato muovendosi solamente all' interno del pensiero e del discorso, ma debba anche coinvolgere loggetto a cui quel discorso si riferisce. Il grado di sta­ bilità e di certezza di una conoscenza non dipende infatti solo da criteri interni alla conoscenza stessa, ma piuttosto dalla natura degli oggetti ai quali questa conoscenza è rivolta. La tesi generale di Platone è che al fondo di tutti gli errori teorici e pratici c 'è una scorretta concezione della realtà, che è appunto quella era­ clitea, a sua volta legata (per Platone) al soggettivismo e al relativismo pro­ tagoreo. Come abbiamo visto, i comportamenti comunemente adottati da tutti presuppongono in modo implicito l'esistenza di criteri universali di valutazione (ovvero di principi che sono intrinsecamente veri da un punto di vista generale). Questo però non vuol dire che a tali comportamenti si accompagni un'uguale consapevolezza teorica. Al contrario, la maggio­ ranza delle persone è convinta che esistono sì cose giuste e buone, ma non vuole sentir parlare di un bene o di un giusto in sé, indifferenti ai tempi e alle prospettive (cfr. Resp. 478e-479a) ; e in tal modo dimostra di accettare implicitamente il punto di vista eracliteo, secondo il quale tutto è partico­ lare, transitorio, diveniente. Dunque l'obiettivo di Platone sarà quello di mostrare che la concezione eraclitea è errata e contraddittoria.

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Le critiche di Platone all'eraclitismo sono esposte, oltre che nel Teeteto, nella parte finale del Cratilo. Il problema da cui questo dialogo prende le mosse è la natura dei nomi che si danno alle cose, se siano da considerarsi convenzionali (come ritiene Ermogene) o naturali (come pensa Cratilo). Attraverso la confutazione di entrambe le tesi emerge quella che è per Pla­ tone la soluzione corretta. Il ricorso ai nomi (e più in generale al linguag­ gio) è collegato a una dottrina convenzionalista del sapere, che a sua volta ha rapporti con lo sfondo eracliteo di cui abbiamo detto. Se tutto scorre incessantemente; se, come diceva Eraclito, non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume (e anzi neppure una volta, come sosteneva Cra­ tilo ), perché il fiume è sempre diverso, come sarà possibile tener ferma la realtà almeno quel tanto che basta per gli scopi della vita pratica ? Sarà possibile, così argomenta il nominalista, se almeno convenzionalmente si decide di usare lo stesso nome : i cambiamenti che avvengono nella realtà sono abbastanza lenti, infatti, per consentire di chiamare una cosa con lo stesso nome per parecchio tempo. Ma per Platone si tratta di una soluzione inefficace. Il linguaggio viene creato solo dopo che il processo conoscitivo si è già compiuto, e ha appunto la funzione di fissare in modo stabile quegli aspetti della realtà che si sono conosciuti come invarianti (anche relativamente). Ma se l'unica realtà a cui la conoscenza può rivolgersi è la mobile materialità delle cose, non c 'è nulla che possa venire nominato per la prima volta, perché non v 'è nulla di inva­ riante. Tale non può essere il nome, sotto pena di un evidente circolo vizioso : «quale conoscenza [ ... ] possiamo dire che costoro avessero quando posero i nomi e furono legislatori, prima ancora che alcun nome fosse stato dato e che quelli lo conoscessero, se non è possibile imparare le cose altrimenti che dai nomi ? » (438b; trad. L. Minio-Paluello, in Giannantoni, 1971). Di conseguenza, delle due l'una: o il linguaggio è convenzionale, dunque non contiene nessuna verità; oppure la verità che appare nel linguaggio deve di­ pendere da una verità ulteriore, di carattere non linguistico. Deve esistere, in altre parole una realtà stabile, non mutevole né transitoria, a cui la verità che appare nel linguaggio possa in qualche modo essere collegata. Ma un discorso analogo deve essere fatto anche dalla parte del sogget­ to. Se ci sono un pensiero e un linguaggio vero che descrivono la realtà, ci deve essere anche un soggetto che ne è titolare. Questo principio emerge già nel Cratilo, ma è chiarito più ampiamente nel Teeteto. Anche se ci limi­ tassimo alla conoscenza di carattere sensibile, potremmo ugualmente con­ statare che tale conoscenza non sarebbe possibile senza un soggetto che ne

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sia responsabile. Chi vede i colori, infatti, non sono gli occhi, così come non sono le orecchie il referente ultimo dei suoni. Tale referente è per Pla­ tone una soggettività immateriale, capace di discernere certe cose « da sé mediante sé stessa, altre invece mediante le facoltà del corpo » (185e; trad. M. Valgimigli, in Giannantoni, 1971), che Platone identifica tradizional­ mente con lanima. In altre parole, lanima è mediatamente responsabile della conoscenza sensibile, ma è anche, immediatamente, il soggetto di una conoscenza sua propria: la prima è la conoscenza di oggetti particola­ ri, mentre la seconda ha come referente degli universali (ad esempio essere, simile, dissimile, altro, identico, bello, brutto, buono, cattivo). Nel percorso teorico che stiamo descrivendo (che non corrisponde all'ordine cronologico di stesura dei dialoghi) Platone sta dunque ten­ tando di mostrare che certi ben precisi dati di esperienza ci impongono di postulare l'esistenza di entità non materiali, come l'anima e le nozioni universali a cui essa si riferisce, la cui natura è qualitativamente distinta da quella empirica, nella misura in cui devono essere in qualche modo esenti dall' incessante divenire di stampo eracliteo. Platone, in altre parole, sta qui ponendo le premesse per quella cosiddetta "teoria delle idee" in cui consiste in ogni caso, comunque la si voglia interpretare, lasse portante del suo pensiero : la realtà vera, che costituisce anche l'oggetto proprio di una conoscenza depurata da ogni contatto con la percezione sensibile e i suoi errori, è formata da "entità" puramente immateriali come il bello in sé, la giustizia in sé, l'uguale in sé ecc. Queste realtà, a differenza di quelle sensibili, sono esattamente, perfettamente ed eternamente quello che sono (ad esempio la bellezza in sé è la pura qualità dell'essere bello, priva di ogni altra caratteristica) : non nascono né muoiono, non divengono, non mu­ tano mai, né possono mai apparire in modo differente da quello che sono.

Gli argomenti a favore delle idee : dalla "domanda socratica" alla "teoria della reminiscenzà' Per il momento abbiamo visto laspetto dialettico, o per così dire negati­ vo, del percorso platonico : ossia come e perché secondo Platone le teorie che cercano di spiegare la realtà (eraclitismo) e la conoscenza (relativismo, nominalismo) senza ammettere l'esistenza di entità universali e invarianti sono inefficaci o addirittura contraddittorie. Ma esistono anche argomenti diretti a favore dell'esistenza delle idee ? Prima di rispondere a questa do-

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manda dobbiamo mettere bene in chiaro i termini della questione. Che cosa intende Platone con il termine "idea" (in greco idea o eidos) ? Non in­ tende semplicemente un termine universale, esistente solo come contenuto della mente (o dell'anima) e dunque eterno e indistruttibile solo sotto il profilo logico (così come diciamo, ad esempio, che è "eterno" un teorema di geometria). Per Platone le idee esistono come realtà effettive in un mondo separato e diverso da quello sensibile (chiamato nel Fedro « iperuranio» , ossia "sopraceleste"). La domanda corretta che dobbiamo porci, di conse­ guenza, è perché mai Platone abbia ritenuto necessario elaborare una teoria così impegnativa, e metafisica in senso proprio (nella misura in cui suppone l'esistenza di entità superiori a quelle fisiche); e non abbia invece ritenuto sufficiente, una volta accertata la necessaria esistenza degli universali, teorie meno impegnative sul piano ontologico (e in generale meno controverse). Per tentare di rispondere partiamo dalla cosiddetta "domanda socra­ ticà'. Socrate, come documentato in abbondanza dai dialoghi di Platone, soleva porre domande con la formula "che cos'è x", con l' intenzione di cogliere la caratteristica universale posseduta da tutti gli enti che sono cor­ rettamente chiamati "x"; nel Menone, ad esempio, Socrate fa il caso delle api, che pur essendo individualmente tutte diverse sono identiche nel loro essere api ( 72b ) . Ora, indipendentemente dal fatto che gli interlocutori di Socrate sbaglino sistematicamente la risposta (soprattutto perché, invece di tentare di dire che cos'è x in generale, si limitano a elencare dei casi par­ ticolari di x), e anche dal fatto che in nessuno dei dialoghi platonici l' inda­ gine ha un vero e proprio successo (ne parleremo fra un attimo), la pratica della domanda socratica è comunque in grado di far emergere già da sola un dato positivo. Alla domanda, ad esempio, "che cos'è la giustizia" (che viene posta nel I libro della Repubblica), nessuno degli interlocutori di So­ crate risponde dicendo "non so di che cosa stai parlando"; ma ognuno pro­ pone una sua definizione, dimostrando con questo che tutti possiedono gia una certa nozione della giustizia "in generale". E infatti, nei casi non infre­ quenti in cui Socrate pone una domanda ancora più generica del tipo "tu ritieni che la giustizia sia qualcosa o niente del tutto ?" (cfr. Phaed. 65d), la risposta che ottiene punta sempre sulla prima alternativa. Questo vuol dire che il riferimento all'universale, e dunque in un certo modo la sua "esisten­ za'', sono impliciti nel modo di parlare e di pensare di cui tutti si servono, indipendentemente da che cosa essi pensino o dicano in proposito. Anche se questo ancora non significa, ovviamente, che questi universali debbano avere le caratteristiche "impegnative" delle idee platoniche.

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Se tuttavia analizziamo più a fondo il contesto della domanda socra­ tica emerge un secondo elemento interessante. Quello che di fatto si ve­ rifica nei cosiddetti "dialoghi socratici" è che mentre è quasi inevitabile che chi venga direttamente interrogato in proposito accetti l 'esistenza dei concetti universali, pare tuttavia difficilissimo darne una definizione. L'opinione più diffusa nella critica è che questi dialoghi siano stati scritti da Platone proprio con lo scopo di trovare il metodo corretto per indi­ viduare le definizioni, nella persuasione che a suo parere l'obiettivo im­ prescindibile della filosofia sia appunto quello di conseguire questo tipo di conoscenza. Ma se così fosse, dal momento che nel testo di Platone le definizioni non vengono mai trovate9, dovremmo concludere che I' im­ mane lavoro del filosofo ateniese si è risolto in un clamoroso fallimento. Le cose diventano un po' più chiare, invece, se proviamo ad adottare la prospettiva inversa. Trascinandoci nell' infruttuosa ricerca delle defini­ zioni Platone vuole farci arrivare a capire quali sono le condizioni di pos­ sibilità di una situazione che potrebbe facilmente risultare paradossale : noi ammettiamo l'esistenza di concetti universali, ma non siamo in grado di definirli. Ora, se questi concetti si esaurissero appunto nel loro essere "concetti", ossia dei contenuti mentali, l impossibilità di definirli sareb­ be inspiegabile. Se invece fossero oggetti che appartengono a un mon­ do diverso dal nostro, al quale non abbiamo (e non abbiamo avuto mai) accesso, anche così gli sviluppi della domanda socratica non sarebbero giustificabili. Alla domanda "che cos'è la giustizia ?" noi dovremmo pro­ prio rispondere, come ipotizzato sopra, "non so di che cosa stai parlando". Il contesto della domanda socratica, dunque, per Platone rende necessa­ ria non solo l'esistenza degli universali, ma anche una loro collocazione ontologica compatibile con il fatto che possiamo dire che esistono ma che non possiamo definirli: le idee, in altre parole, devono essere assenti dall'esperienza attuale degli uomini (altrimenti saremmo in grado di de­ finirle) , ma non possono essere del tutto estranee alla nostra conoscenza (altrimenti le nozioni universali non avrebbero per noi alcun significato). In parole povere, come a mio parere è documentato dalla prima parte del Menone, la condizione di possibilità della domanda socratica e di tutti i suoi sviluppi (sia positivi sia negativi) è per Platone la "dottrina della reminiscenza". Questa teoria, che può essere sinteticamente espressa nel principio se­ condo cui "conoscere è ricordare", è esposta da Platone nel Menone e nel Fedone, e richiamata poi nel Fedro. Nel Menone è introdotta per risolvere

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lapparente paradosso insito nell'atto dell'apprendere. Come si può ap­ prendere quello che si ignora del tutto ? E se non lo si ignora, allora sarà già noto, per cui apprendere diviene superfluo (8 oe). In questo dialogo Socrate dimostra la sua tesi con un esperimento pratico. Uno schiavo, che nulla sa di matematica, riesce a risolvere correttamente un problema di geometria solo rispondendo alle domande di Socrate, il quale peraltro non gli fornisce alcun contenuto positivo ( 82b-85b ). Ciò dimostra che lo schia­ vo ha messo a frutto delle conoscenze di cui già disponeva dalla nascita. Il che significa, come volevano le antiche mitologie, che lanima umana esisteva già prima di incarnarsi nei corpi. È questo l'aspetto della dottrina che promuove la sua utilità nell'ambito del Fedone, che ha infatti per og­ getto soprattutto l immortalità dell'anima. Ma la sua trattazione presente in questo dialogo ( 72e-77b) ora ci interessa soprattutto perché qui Plato­ ne tenta di dimostrare che la teoria della reminiscenza, resa necessaria dal contesto della domanda socratica, impone a sua volta che gli universali siano proprio le "idee", ossia oggetti reali che trascendono la dimensione sensibile. Si dice "rammemorare" quell 'esperienza mediante la quale la nozione di una certa cosa ne fa venire alla mente un'altra, da essa diversa. Ad esempio, vedendo un oggetto appartenente a una certa persona, ci sovviene di quel­ la persona, anche se al momento non la vediamo. Questo tipo di ramme­ morazione avviene tra due cose dissimili. Ma ve n'è anche uno analogo che accade tra cose simili. Ad esempio, se uno vede Simmia dipinto, subito il suo ricordo muove verso l immagine del Simmia in carne ed ossa. Lo stesso genere di relazione può essere applicato al rapporto tra idee e cose. Noi diciamo ad esempio che l'uguale è qualcosa, intendendo non la concreta uguaglianza di legni o pietre, ma qualcosa di diverso e di ulteriore in rap­ porto a tutte queste uguaglianze, cioè luguale in sé, e conosciamo anche che cos'è ( 74a-b ). Questo uguale ci viene in mente, cioè "ce ne ricordiamo", a partire dalle uguaglianze che vediamo nel mondo empirico (più o meno come il ritratto di Simmia ci ricorda il Simmia reale) . D'altra parte l'esperienza non può essere l a vera fonte d a cui appren­ diamo la nozione dell'uguale in sé, perché i casi di uguaglianza che in essa possiamo vedere sono tutti manchevoli in rapporto all'uguaglianza per­ fetta, e noi ci accorgiamo di tale manchevolezza (75d-e). Questo accorger­ si è possibile, però, solo se si possiede in anticipo la nozione dell'uguale in sé, senza la quale non potremmo dire che gli uguali concreti sono difettivi. Ciò significa che «prima di nascere e subito nati conoscevamo già non

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solo l'uguale e quindi il maggiore e il minore, ma anche tutte insieme le cose di questo genere ; perché non tanto dell'uguale stiamo ora ragionan­ do quanto anche del bello in sé e del buono in sé e del giusto e del santo, e insomma, come dicevo, di tutte le cose a cui noi, interrogando e rispon­ dendo, attribuiamo come sigillo l'espressione "ciò che è" » (?sc-d; trad. M. Valgimigli, in Giannantoni, 1971). È dunque necessario che all'atto della nascita l'uomo possieda già in qualche modo le idee. L'esperienza attesta che non può trattarsi di un in­ natismo perfetto, cioè di un sapere compiuto fin dall' inizio, perché gli uo­ mini nascono ignoranti e imparano le cose nel corso del tempo. Ma poiché non può essere neppure una condizione di ignoranza completa (altrimenti l'apprendimento sarebbe inspiegabile, dal momento che esso prende ne­ cessariamente le mosse da qualcosa che si sa già), si deve pensare a una certa forma intermedia tra il sapere e il non sapere, appunto come nel caso di chi ha avuto una volta una conoscenza piena, ma ora se ne è dimen­ ticato. Causa di questa dimenticanza è il trauma della nascita, che però non annulla del tutto le tracce del sapere, che può essere in qualche modo rammemorato mediante il contatto con l'esperienzarn. Ecco dunque trovata la via media di cui andavamo in cerca. Non c 'è nulla da stupirsi del fatto che gli uomini non riescano a rispondere con­ clusivamente alla domanda socratica, né del fatto che negli scritti platonici non si trovi mai la definizione di un' idea. Gli oggetti a cui questa domanda si riferisce, infatti, hanno natura metafisica, e dunque non sono attualmen­ te disponibili alla conoscenza dell'anima incarnata. Il che non significa, tuttavia, che gli uomini non ne abbiano assolutamente alcuna nozione. Infatti nella loro anima sono pur sempre presenti i ricordi sbiaditi di quan­ to hanno visto prima di nascere. Questo spiega sia perché essi riescono a capire di che cosa si parla quando si allude ai concetti universali, pur non avendone un'esperienza attuale, sia perché sono in grado di esprimere opi­ nioni sensate a loro riguardo (pur non potendo mai conoscerli in modo esaustivo). L'analisi di altri passi del Fedone ci permetterà di confermare questa conclusione. Nell'ultima parte del dialogo l'ospite tebano Cebete chiede a Socrate di dimostrare che l'anima è indistruttibile in senso assoluto, e non solo immortale. Per fare questo Socrate fa un giro piuttosto largo, il cui senso tuttavia è chiaro : se egli riuscirà a dimostrare a Cebete l'esistenza delle idee, è convinto di potergli dimostrare che l'anima è indistruttibile. In al­ tre parole, l' indistruttibilità dell'anima può essere dimostrata aggancian-

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dola in qualche modo all' indistruttibilità delle idee; ed è chiaro qui che le idee, se l'argomento funziona, devono proprio essere entità metafisiche separate come le intende Platone. La dimostrazione di Socrate, in sinte­ si, è la seguente. I fenomeni di divenire che appaiono all'esperienza (ad esempio una cosa che da piccola diventa grande o viceversa) non possono essere spiegati con le sole cause materiali. Infatti noi non vediamo solo, nell'esempio menzionato, aumento o diminuzione di materia. Vediamo anche l'apparire e lo scomparire di "cose" come il "grande" (che lascia il posto al "piccolo" e viceversa) e il "piccolo". Ora, che il grande e il piccolo siano delle cose Platone lo aveva desunto da Parmenide : sono infatti og­ getto di pensiero e di parola, e tali possono essere solo le cose che sono (cfr. Soph. 258a). Ma poiché, ancora in accordo con Parmenide, nessuna cosa può nascere dal nulla o perire nel nulla, è necessario che la comparsa (o presenza) e la scomparsa (o assenza) nell'esperienza del "grande" e del "piccolo" siano causate dalla partecipazione (o mancata partecipazione) alle idee rispettive (Phaed. 9 6 a-102a). E anche qui, come nel caso della reminiscenza, il fatto che non siamo in grado di definire la grandezza (e nemmeno di capire che cosa di preciso succede quando un certa cosa par­ tecipa all' idea corrispondente) non ha alcun effetto negativo sulla teoria. Il ragionamento svolto, infatti, è sufficiente a dimostrare che l'analisi di un certo aspetto dell'esperienza (qui si tratta del rapporto causale, così come prima si trattava della domanda socratica) richiede la necessaria esi­ stenza di enti che hanno le caratteristiche delle idee platoniche : non solo sono eterni, immutabili ecc., ma devono anche essere enti reali, perché al­ trimenti non sarebbero in grado di essere causa delle cose sensibili, ovvero di essere quelle entità a cui le cose sensibili partecipano (nel Parmenide le ipotesi che le idee siano solo concetti viene scartata per la stessa ragione, 1 3 2b-c)11• La conclusione che abbiamo raggiunto è dunque analoga a quella che si evince dall'esame della domanda socratica. Platone ritiene necessario, per spiegare in modo sufficiente eventi che accadono nell'esperienza, po­ stulare l'esistenza di enti dotati di caratteristiche talmente pure e assolute (immaterialità, eternità, immobilità, incorruttibilità) da renderli qualita­ tivamente diversi dalla dimensione sensibile, ed esistenti per così dire in un altro mondo: al punto che la loro conoscenza piena e completa è acces­ sibile solo all'anima disincarnata, mentre nella dimensione presente è pos­ sibile soltanto la conoscenza approssimativa, e strutturalmente imprecisa, fornita dal ricordo (reminiscenza).

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In che senso le idee sono gli oggetti propri della conoscenza ? Se quello che abbiamo detto sin qui è accettabile, è necessario tenere separati il problema dell'esistenza delle idee dal problema della loro co­ noscibilità. Per quanto riguarda il primo punto, vi sono per Platone dei procedimenti argomentativi che conducono a postulare l'esistenza di enti provvisti di determinate caratteristiche, che poi sono esattamente (ossia né più né meno di) quelle che si richiedono affinché siano causa sufficiente degli effetti che sono deputati a spiegare. Se ad esempio, come nel caso del­ la reminiscenza, l'effetto da spiegare è un tipo di conoscenza che l'anima non può aver maturato nella dimensione sensibile, allora le idee appar­ teranno necessariamente alla dimensione soprasensibile. In questo senso, dunque, le idee sono certamente conoscibili. Ben più difficile è stabilire come e quanto siano conoscibili in quanto enti indipendenti, in sé e per sé, al di là dell' impianto ipotetico-postulatorio che abbiamo descritto. In proposito la strategia adottata da Platone sembra essere la seguente. Da un lato egli è assai drastico nelle affermazioni di principio: non solo le idee devono essere conoscibili, ma grazie al loro superiore statuto ontologi­ co sono conoscibili in sé, senza gli ostacoli procurati dalla materia, e dunque lo sono ben di più delle cose sensibili (cfr. Resp. 477a 3). E infatti Platone fa talvolta riferimento (ad esempio in Phaed. 66a-67b, e in Phaedr. i.46b247e) a una situazione ideale in cui l'anima del tutto separata dal corpo conosce pienamente e perfettamente la realtà ideale, fino a conseguirne il completo possesso. Ma siccome è chiaro che una situazione del genere, per quanto uno si sforzi di fare astrazione dal corpo, non è riproducibile nel­ la vita incarnata, alle ottimistiche affermazioni di principio si affiancano molte cautele sul piano pratico. Appartiene a questo ordine di idee il celebre tema - che troviamo sem­ pre nel Pedone, nella prosecuzione della risposta a Cebete di cui abbiamo parlato sopra - della cosiddetta "seconda navigazione" (99d). Come ab­ biamo visto, in quel passo Socrate dimostra che le uniche cause sufficienti per spiegare determinati eventi materiali sono cause immateriali come le idee. Ed è appunto questo mutamento di rotta ciò che egli avrebbe chia­ mato "seconda navigazione". Tuttavia questa espressione, che aveva carat­ tere proverbiale, indica una sorta di ripiego di fortuna che si adotta nel caso non sia disponibile la via migliore (cfr. Martinelli Tempesta, 2.003); e pare strano che il passaggio dal sensibile all' intelligibile sia caratteriz­ zato in questo modo. E in effetti il passo non deve essere interpretato in

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tale maniera. La seconda navigazione riguarda il metodo, non l'oggetto. Quello che Socrate testualmente dice è che per risolvere il problema della causa ha dovuto « fuggire nei logoi» (99e), ossia nei discorsi; ed è appunto questa fuga (o ripiego) nei logoi ciò che costituisce la seconda navigazio­ ne. Quello che Platone vuol dire è che sarebbe molto meglio, dal punto di vista della certezza e della ricchezza del conoscere, apprendere le cose direttamente, senza bisogno di affidarsi ai discorsi che le descrivono ( Crat. 439a-b ). Purtroppo però questa "presa direttà' è disponibile all'uomo, nel­ la sua condizione incarnata, solo in rapporto al mondo sensibile ; mentre per quanto riguarda le cause qui in oggetto, ossia le idee, è necessario rifar­ si ai discorsi. I quali discorsi, a loro volta, rispecchiano ciò che l'anima di ciascuno riesce a esprimere una volta che venga interrogata sulle conoscen­ ze che essa ha avuto prima di incarnarsi. Il quadro interpretativo che abbiamo tratteggiato suppone che per Pla­ tone la conoscenza intellettiva si articoli in due diverse tipologie : la prima, intuitiva, diretta e infallibile, però disponibile solo all'anima disincarnata; la seconda, discorsiva, indiretta (in cui usa il tramite dei logo i) e fallibile, disponibile all'uomo anche nella sua condizione mortale. Questo quadro permette a mio avviso di interpretare, in modo altrettanto plausibile, an­ che i passi in cui Platone affronta problemi relativi alla conoscenza senza fare alcun accenno ai due mondi o alla differenza tra anima incarnata e disincarnata. L' idea di fondo è che se la prospettiva metafisica non è messa in gioco, allora la conoscenza umana è destinata a rimanere imperfetta e fallibile. Emblematico a questo proposito è l' intero sviluppo del Teeteto (sul qua­ le dovremo ritornare). Ma il Teeteto è decisivo anche perché contiene un passo importante (la cui importanza è confermata dal fatto che Platone lo replica quasi identico nel Sofista, ossia in un dialogo non sospetto, perché non socratico e dichiaratamente costruttivo), in cui la relativa debolezza dei logoi viene chiarita all' interno dello schema generale che regge tutta l'epistemologia platonica12.. Questo quadro contempla una netta distinzio­ ne tra il dominio della doxa (che qui possiamo tradurre semplicemente con "opinione") e quello della scienza (o episteme), sulla base del fatto che mentre la prima è fallibile la seconda no (cfr. Resp. 477e). Ebbene, nei passi menzionati Platone stabilisce uno stretto rapporto tra il pensiero (diano­ ia) e l'opinione (doxa ). Il pensiero, scrive Platone nel Teeteto, è una sorta di discorso interiore che l'anima conduce con sé stessa, quando ragiona, in­ terrogandosi e rispondendosi. La doxa, invece, è l'atto con cui il soggetto

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dà il proprio consenso a un certo discorso, dicendo tra sé e sé, "sì, io ritengo che ( è mio opinione che ) S è P". Lo schema che Platone ha in mente è dunque il seguente : data una real­ tà X e dato un discorso ( o una proposizione ) P che la vorrebbe descrivere con verità, l'opinione è il giudizio ( G) con cui si afferma che P corrisponde correttamente aX. Ma poiché G può essere infallibile solo se enunciato da un punto di vista terzo che in realtà non esiste, ben si capisce perché Plato­ ne denomini G con una parola, ossia doxa, che nel suo lessico epistemolo­ gico ha il compito di introdurre un elemento di debolezza. Il giudizio po­ trebbe essere infallibile solo se formulato da un soggetto diverso da quello che produce il pensiero ; se viceversa il soggetto è lo stesso, il giudizio ( per quanto possa essere più o meno argomentato e fondato ) non è mai una ve­ rità che si impone da sé, ma sempre e soltanto l'opinione di qualcuno, ossia di quello stesso soggetto che pensa ( cfr. Trabattoni, 201 3a, pp. 69-107 ) . Alla luce di quanto detto si possono spiegare anche certi passi del Sim­ posio, che altrimenti sarebbero assai problematici. Per chiarire la natura intermedia di eros ( ci torneremo sopra) , Diotima fa l'esempio della retta opinione, che è lo stato intermedio tra ignoranza e sapienza; dopo di che, qualche pagina più avanti, spiega che eros è filosofo, "in quanto il filosofo è intermedio tra il sapiente e l' ignorante" ( 204b ) . Da qui risulta, come è evidente, che la dimensione propria del filosofo è quella dell'opinione ( per quanto retta) , non quella della scienza (o episteme). L'episteme, viceversa, è appannaggio esclusivo degli dei; e non a caso Diotima aggiunge che nessun dio è filosofo. Ora, una conclusione di questo genere diviene comprensi­ bile solo sulla base della sequenza teorica che abbiamo abbozzato sopra. Il filosofo dispone soltanto del pensiero discorsivo, che a differenza di quello intuitivo è gravato dalla debolezza tipica dei logoi, la quale a sua volta de­ riva dalla connessione di logos e doxa, intesa come giudizio di un soggetto. Dunque, essendo anch'egli un soggetto che formula giudizi, il filosofo non dispone di alcun mezzo per elevare il suo sapere al di là della doxa. Si suppo­ ne, viceversa, che gli dei e le anime disincarnate non subiscano questa limi­ tazione : il che corrisponde esattamente alla situazione descritta nel celebre mito del Fedro ( 246a-249d ) , in cui gli dei sono enti immateriali che abita­ no stabilmente nell' iperuranio, dove sono direttamente in contatto con le idee, mentre gli uomini attingono questa dimensione solo a intermittenza, quando la loro anima si stacca dal corpo e sale anch'essa in quel luogo. È vero che nel Simposio dell' iperuranio, così come dell' immortalità dell'anima o della reminiscenza, non c 'è alcuna traccia; ed è anche vero

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che Diotima, verso la fine del suo discorso, sembra indicare una strada che conduce alla conoscenza piena delle idee (in questo caso, del bello in sé) senza dire che è riservata all'anima disincarnata (2.1oe-2ub). Ma sarebbe davvero ingenuo pensare che Platone debba esporre tutte le sue teorie in tutti i suoi scritti, e che in caso contrario il lettore sia autorizzato a ritenere che egli non creda più alle tesi di cui di volta in volta tace (visto oltre tutto che alcune delle tesi citate, come dimostrato dal Fedro, ricompaiono più tardi, ciò comporterebbe l'assurdità di attribuire a Platone un pensiero "in­ termittente"). È vero piuttosto che la presenza o lassenza di certe tesi da un lato è dovuta ai differenti scopi a cui i singoli dialoghi obbediscono (è natu­ rale che a un dialogo consolatorio come il Fedone non siano appropriate le stesse movenze che convengono a un dialogo politico come la Repubblica), dall'altro devono essere valutate caso per caso, nel loro insieme, per vedere quale ruolo hanno (se ne hanno uno) in una ricostruzione il più possibile coerente del pensiero di Platone. Ora, il punto è che dottrine platoniche come il bimondismo, l' immortalità dell'anima o la reminiscenza sembra­ no essenziali affinché possa tenere insieme un disegno che altrimenti, data la compresenza frequente di ottimismo e pessimismo epistemologico, ap­ parirebbe senz'altro contraddittorio. Per quanto poi riguarda in particola­ re il Simposio, alcuni importanti segnali avvertono che il percorso verso la conoscenza del bello in sé è una specie di iniziazione misterica eccedente i limiti della filosofia (o almeno del filosofo Socrate : cfr. 209e-21oa13). Questa struttura polare è del tutto evidente anche in un altro testo, os­ sia il cosiddetto excursus.filosofico della VII Lettera (342a-344d). In questo brano Platone dice che esistono quattro strumenti per conoscere ciascuna cosa: il nome, la definizione, l immagine e la conoscenza propriamente detta. Importante è soprattutto l'ultimo di questi elementi, che compren­ de la scienza, l intelletto e l'opinione vera. Esso rappresenta laspetto sog­ gettivo della conoscenza, quello per cui ogni conoscenza è sempre scienza, intellezione e opinione di qualcuno. Secondo Platone nessuno di questi elementi, e nemmeno tutti e quattro presi insieme, corrisponde perfetta­ mente al quinto, cioè alla cosa in sé stessa. Questo perché tali elementi mostrano sempre, insieme all'essenza della cosa, anche la qualità (342e), cosicché non esiste discorso capace di dire la cosa nella sua purezza, così com'è in sé e per sé. Platone parla a questo proposito di "debolezza dei logoi (discorsi) ". La debolezza dei discorsi, che è del tutto coerente con la il passo del Fedone in cui la "fuga nei logoi" è dichiarata seconda navigazione, può costituire nella VII Lettera il generale elemento di debolezza comune a

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tutti gli strumenti conoscitivi se e solo se, come abbiamo ipotizzato sopra, nessuno di questi strumenti (neppure il nous, di cui qui si parla, così come la noesis, descritta nella Repubblica) dispone di un accesso al sapere diretto e superiore a quello discorsivo. Tuttavia anche in questo testo, così come accade nel Simposio, alle forti limitazioni di cui si è detto fa seguito un pas­ so in cui si affaccia l' ipotesi che tutte le difficoltà possano essere in qualche modo superate, e che la verità riguardo la natura migliore (presumibilmen­ te le idee) appaia alla natura migliore (ossia gli uomini più dotati) come per una sorta di illuminazione (343e-344c). Per cui, di nuovo, la coerenza del discorso platonico può essere salvata solo alla luce dell' interpretazione (e assumendosi i rischi che questo comporta) ; in questo caso non tanto leggendo il testo come se volesse alludere a un sapere accessibile all'uomo, ma sfruttando alcune ben precise formule limitative, alla luce delle quali la presunta "illuminazione" non è nient'altro che un modo poetico per alludere a una conoscenza meditata e plausibile, ancorché non completa o incontrovertibile, della realtà'4•

La metafisica della Repubblica: la metafora della linea e l'allegoria della caverna L'interpretazione dell'epistemologia platonica che abbiamo proposto sembra contrastare con il testo che normalmente viene considerato nor­ mativo in proposito, ossia con i libri centrali della Repubblica ( v-vn ) . In queste pagine Platone non soltanto mostra di distinguere molto netta­ mente tra doxa ed episteme, ma costruisce anche un modello epistemo­ logico (la celebre metafora della linea divisa) che non solo non fa cenno all'alternativa anima incarnata/ disincarnata, ma sembra anche essere igna­ ro delle limitazioni di cui abbiamo detto sopra. Per quanto riguarda la separazione tra doxa ed episteme vale quanto già abbiamo detto : la nettezza di questo scarto, per Platone, non è mai in que­ stione, anche perché la scienza e la doxa, qualunque cosa siano, sono per definizione una infallibile e l'altra fallibile. Ciò che è in questione, invece, è la reale possibilità da parte dell'uomo, anche se filosofo, di acquisire una conoscenza infallibile. E a questo proposito la Repubblica non solo non si pronuncia mai in modo chiaro, ma contiene anche dei segnali che induco­ no a formulare una risposta negativa. Prima di affrontare questo problema vediamo però come funziona la metafora della linea.

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Per chiarire la differenza tra sensibile e intelligibile Socrate imma­ gina di disegnare un segmento e dividerlo in due parti (corrispondenti appunto al sensibile e all' intelligibile), e poi ciascuna parte di nuovo in due. Nella parte bassa del segmento, che corrisponde alla realtà sensibile, trovano posto la facoltà inferiore dell' immaginazione ( eikasia) e quella relativamente più elevata della credenza (pistis). All' immaginazione cor­ rispondono le ombre e i riflessi, cioè le immagini degli oggetti materiali e naturali (animali, piante ecc.), i quali invece sono oggetto di credenza. Questo insieme rappresenta il mondo della doxa, per cui in prima istanza la metafora della linea conferma la scansione principale della gnoseologia platonica (doxa : sensibile = episteme : intelligibile) . L a seconda parte della linea presenta dei problemi d i non facile solu­ zione. Alla fine della sua esposizione (sud-e) Socrate definisce le due fa­ coltà intellettuali, muovendo dal basso verso l'alto, con i termini dianoia e noesis (che significano entrambi "pensiero") . Secondo l' interpretazione più diffusa la dianoia sarebbe un pensiero di carattere discorsivo, e avrebbe per oggetto gli enti matematico-geometrici, mentre la noesis sarebbe un pensiero di carattere intuitivo, e avrebbe per oggetto le idee vere e pro­ prie. In realtà questo modo di interpretare la differenza tra dianoia e noesis è tutt'altro che persuasivo. Non si capisce, in generale, perché proprio i geometri dovrebbero utilizzare un pensiero discorsivo, dal momento che conducono le loro dimostrazioni attraverso le figure. Né si capisce perché coloro che studiano le idee, esercitando quel modo di conoscenza più ele­ vato che nel seguito del libro verrà costantemente definito dialettica (con chiaro riferimento ali' atto del dia-legesthai, cioè dello "scambiarsi discor­ so"), dovrebbero rifuggire dal pensiero discorsivo e attenersi all' intuizio­ ne. In effetti l' interpretazione che abbiamo menzionato non ha riscontro nel testo. In primo luogo gli enti matematici sono qui citati da Socrate solo a titolo di esempio, anche se significativo, per farsi capire da Glaucone, ma non hanno un ruolo essenziale nello schema (5 10c-e). La noesis, in secondo luogo, non è descritta come conoscenza intuitiva, bensì come conoscen­ za che si esercita attraverso il logos e la capacità di discutere ( s I I b). Ma, soprattutto, la differenza tra dianoia e noesis non ha nulla a che fare con la differenza tra conoscenza proposizionale e conoscenza non proposizio­ nale. Dianoia, in primo luogo, significa "pensiero" in generale. Il termine noesis è introdotto da Socrate per distinguere, all' interno del pensiero in generale, un pensiero di tipo particolare : si tratta del pensiero che non

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muove dalle ipotesi (di natura sensibile) verso il basso, cioè verso il mondo dell'esperienza, ma verso l'alto, e poi si sviluppa come processo alternato di sintesi (dal molteplice all'uno) e di analisi (dall'uno al molteplice), in­ teramente compreso nell'ambito delle idee (511b; ma cfr. anche 532a-b). Si capisce dunque perché è utile, anche se non essenziale, mostrare la differenza tra le due forme di pensiero con l'esempio della geometria. Esi­ ste un metodo che pone i suoi principi come pure ipotesi, e poi, servendosi di figure e di immagini, deduce le proprietà delle ipotesi che ha stabilito. Ma questo non è il pensiero nel suo grado più alto. Infatti assume l'esisten­ za di certe cose (le figure geometriche) senza dimostrarne la necessità ed è ancora legato alle rappresentazioni date dalle figure (che ovviamente sono tolte dal mondo sensibile). Queste caratteristiche, tradotte in negativo, dicono come l' intelletto debba invece accostarsi alle idee : non deve assu­ merle come ipotesi (deve mostrare piuttosto che esistono necessariamen­ te, come Platone ha cercato di fare con la dottrina della reminiscenza) e deve servirsi solo del logos, senza fare uso di figure, né sensibili né mentali '5• Dall'analisi di questo passo possiamo dunque ricavare le seguenti due conclusioni: 1. la forma di sapere più elevata (noesis) ha carattere discorsi­ vo/proposizionale, e non intuitivo; 2. non c 'è una reale differenza tra gli oggetti trattati dalla dianoia e quelli studiati dalla noesis: poiché entrambe le nozioni indicano il pensiero, e poiché il pensiero non può che rivolger­ si agli intelligibili, l'oggetto delle due facoltà deve essere il medesimo. La differenza, perciò, riguarderà il metodo, e consiste precisamente nel fatto che solo la noesis considera gli intelligibili come delle pure idee e li tratta di conseguenza. Una prima osservazione che si può fare in proposito è la seguente. Se nella metafora della linea anche la forma più elevata di conoscenza ha ca­ rattere discorsivo, la connessione messa in luce nel Teeteto e nel Sofista tra il pensiero/discorso e la doxa, intesa come giudizio dell'anima, potreb­ be nella Repubblica essere semplicemente implicita. Inoltre esistono nel dialogo elementi ben precisi che confermano la validità della prospettiva emersa dal Pedone, dal Teeteto e dal Simposio. In un importante luogo del libro IV, ad esempio, Socrate definisce il dire (o pensare) la verità come un corretto opinare (413a). Ciò dimostra che anche nella Repubblica, nono­ stante che nella metafora della linea non ve ne sia traccia, Platone ha ben presente l'accezione di doxa come "giudizio" che compare nei passi sopra citati del Teeteto e del Sofista. In secondo luogo, nelle celebri pagine in cui Socrate esalta la superiorità del pensiero filosofico non è certo un caso che

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il filosofo non sia opposto all' ignorante, bensì al "filodosso", ossia ali' a­ mante dell'opinione (48oa). Ciò significa che anche nella Repubblica, così come nel Simposio, il filosofo è definito in modo essenziale più in relazione al suo desiderio che in relazione al suo effettivo sapere. In un contesto in cui qualunque tipo di sapere, genericamente parlando, ha comunque la natura della doxa (nel senso che è un'opinione dell'anima), la differenza si gioca tra chi della doxa si accontenta, e non pretende nulla di più (i filodossi), e chi invece ambisce a un sapere più stabile di quello garantito dalla semplice opinione (come si legge in un famoso passo del Meno. 9 Sa, le opinioni sono sfuggenti come le statue di Dedalo), usando a questo fine il logos (eventualmente nella forma della confutazione socratica) per stabi­ lire quali opinioni hanno un fondamento razionale e quali invece ne sono prive. Alla luce di tutto questo il quadro dell'epistemologia platonica, che a molti è parso, se non proprio contraddittorio, quantomeno ai limiti dell' incoerenza (o redimibile solo alla luce di un sostanziale processo evo­ lutivo), acquista una fisionomia armonica ed equilibrata. Presupposto di questa armonia è, per così dire, lo sdoppiamento della nozione di episteme (o scienza). Se si intende per episteme un sapere infallibile, allora bisogna ammettere che nulla del genere è disponibile all'uomo. Se invece si decide di mettere da parte la scienza infallibile, e di concentrare l'attenzione sulle possibilità effettivamente disponibili all'uomo, pur ammettendo che ogni forma di conoscenza è pur sempre una doxa si potrà ugualmente parlare, sia pure in modo relativo, di episteme; e questa scienza consisterà nella retta opinione suffragata dai ragionamenti: che dovranno essere tanto complessi, lunghi e approfonditi quanto si estendono le capacità del pen­ siero umano. Tale in effetti, con trascurabili differenze, è la definizione di scienza che troviamo sia nel Menone (9 8a) sia nel Teeteto (201c-d ) : è una definizione da rigettare, se - come nel Teeteto - loggetto della ricerca è lepisteme intesa come scienza infallibile ; è una definizione che invece si può accettare se - come nel Menone - l intento è piuttosto quello di ca­ pire che cosa si aggiunge alla retta opinione per renderla il più possibile stabile. Quanto detto apre uno squarcio sull'articolata complessità della filo­ sofia di Platone, troppo spesso appiattita su dicotomie semplicistiche. Se l'episteme disponibile all'uomo è anch'essa comunque una forma di doxa, per quanto argomentata, allora la battaglia della filosofia contro altre for­ me di sapere (poesia, retorica, sofistica ecc.) non può mai essere conside-

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rata vinta una volta per tutte. La dimostrazione filosofica, non avendo il possesso dell'evidenza o della coercizione propria della logica, si configura necessariamente come una forma di persuasione argomentata, che sempre e di nuovo deve essere ripetuta, in particolare quando è necessario affron­ tare nuovi avversari e nuove obiezioni16• Ed è proprio da qui, nell'esigenza che la teoria resti aperta a ogni imprevedibile forma di adattamento (e non nella volontà di nascondere un preteso sapere interaccademico ), che ha origine il privilegio platonico accordato alla comunicazione orale (di cui il dialogo è la forma di scrittura più somigliante) rispetto a quella scritta. Ed è ancora da qui, infine, che nasce la caratteristica ambiguità del discorso platonico, in cui debolezza e forza, aporia ed euporia, pessimismo e otti­ mismo (ecc.) sembrano alternarsi in maniera problematica. Platone da un lato ritiene di avere i titoli per affermare la forza dell'argomentazione e del sapere filosofico contro i saperi e le norme irriflessi, tradizionali, o addirit­ tura illogici e irrazionali; dall'altro è costretto ad ammettere che questo sapere condivide con tutti gli altri il fatto che i suoi portatori sono pur sempre soggetti appartenenti ali' imperfetta condizione mortale, e dunque non avrà mai la forza indiscutibile dell'evidenza oggettiva. Questa ambiguità è ben presente anche nella Repubblica, a partire dalla stessa tessitura letteraria dell'opera. In realtà potremmo anche supporre che la noesis rappresenti un sapere ultimo e definitivo (nella metafora della linea si parla di fondamento anipotetico, 5 10b). Ma chi potrebbero esse­ re - occorre chiedersi - i titolari di questo sapere ? Non gli interlocutori di Socrate, ovviamente; ma nemmeno Socrate, che nel dialogo dichiara di essere in grado di dire, circa i principi ultimi, solo la propria opinione ( 506b-e ). Questo Socrate, in altre parole, sembra essere assai simile a quel­ lo del Simposio: per accedere alla conoscenza ultima della realtà è necessa­ ria l' epopteia, la visone diretta e intuitiva dell' idea; mentre il filosofo, di cui Socrate rappresenta in Platone la misura ideale, non può che servirsi del pensiero discorsivo, e dunque è dipendente dalla doxa. Il sapere perfet­ to, nella Repubblica, è invece ascritto agli ipotetici governanti dello Stato ideale. E la ragione è ben comprensibile. Alla città perfetta corrisponde un perfetto sapere. Ma la città perfetta è realizzabile concretamente ? No, an­ che se può essere oggetto di imitazione. Ed ecco che appare in tutta chia­ rezza perché è necessario parlarne, anche diffusamente, pur non essendo realizzabile : perché chi vuole agire in modo razionale non può fare a meno di un modello a cui riferirsi. Se infatti non ci fosse una verità assoluta, non ci sarebbe alcun criterio per stabilire che un'affermazione è più o meno

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vera ( certa, probabile ecc. ) di un'altra. Ma poiché non vi sono dubbi, con buona pace di Protagora, sul fatto che certe affermazioni sono più vere di altre, dobbiamo supporre che una verità assoluta esista: anche se in quanto tale ( ossia come assoluta) non ci è nota ( o non ci è più nota, come vuole la dottrina della reminiscenza) . Il che equivale a dire che l'uomo ha accesso alla verità, ma non alla certezza di essere nel vero'7• Il quadro interpretativo che abbiamo ora proposto non è smentito, ma piuttosto confermato, anche dalla celebre allegoria della caverna ( con cui nella Repubblica si apre il libro VII, dopo che la metafora della linea aveva chiuso il VI ) . Platone immagina una caverna nella quale stanno, incatenati così da poter guardare solo verso il fondo, dei prigionieri. Alle loro spalle, verso l'apertura, corre un muretto affiancato da una strada, e lungo questa strada si muovono degli uomini che portano degli oggetti, tenendoli alti al di sopra del muro, e parlano tra di loro. Ancora dietro di essi vi è un fuoco, cosicché i prigionieri possono vedere sul fondo della parete le ombre degli oggetti, e ascoltare le voci rilanciate dall'eco. Ora, se i prigionieri da sempre abituati a vedere solo le ombre fossero improvvisamente slegati, costretti ad alzarsi e a guardare gli oggetti di cui prima vedevano solo il riflesso e la luce che li illuminava, ne sarebbero come abbagliati, non riuscirebbero a vedere bene, e continuerebbero a ritenere che la vera realtà sia quella che vedevano prima, non quella che vedono ora. Se poi venissero addirittu­ ra condotti all'aperto, i loro occhi sarebbero accecati dai raggi del sole, e non riuscirebbero a vedere gli oggetti che noi consideriamo appartenenti al mondo reale : dovrebbero perciò abituarsi lentamente, prima guardando le cose nei loro riflessi, poi di notte i corpi celesti come le stelle e la luna, e infine contemplerebbero il sole, non più nelle sue immagini riflesse nell 'ac­ qua, ma così com'è nella sede sua propria. L'aspetto dell'allegoria su cui Socrate si concentra all' inizio ( 5 1 4a) è la condizione di estraneità e di incomprensione reciproca tra filosofi ( « edu­ cati » ) e non filosofi ( « non educati » ) : il non filosofo è abituato al suo mondo ( la caverna) e non vorrebbe uscirne ; quando è portato all'aperto, colpito dal dolore e dalla fatica della nuova esperienza, non trova nulla di gratificante, e vorrebbe tornare indietro. Il filosofo, viceversa, vive ormai in un modo tutto suo, e non vorrebbe avere più nulla a che fare con il mondo degli altri uomini ( così come si legge anche nel celebre ritratto del filosofo che troviamo in Iheaet. 173b-177c ) . È però seducente, e in parte autorizzato anche dalle spiegazioni che Socrate darà successivamente ( cfr. Resp. 532a-c ) , vedere se tra la caverna e

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la linea ci sia qualche corrispondenza. Il mondo interno alla caverna, ad esempio, è chiaramente quello sensibile, mentre il mondo esterno è quello intelligibile. Il fuoco, di conseguenza, simboleggerà il sole, e il sole l' idea del bene (che nel libro VI è appunto descritta con questa metafora, e di cui parleremo fra poco). Restano poi nell'allegoria della caverna quattro elementi significativi, esattamente come i gradi della linea: le ombre sulla parete, gli oggetti recati dai portatori, le ombre e i riflessi fuori della caver­ na, le cose reali nel mondo esterno. Qui però il tentativo di trovare delle corrispondenze precise fallisce. Le ombre sulla parete della caverna do­ vrebbero corrispondere ai riflessi e alle ombre oggetto dell' eikasia, ma ciò è impedito dall'esplicita affermazione di Socrate secondo cui la condizione dei prigionieri è identica alla nostra attuale (5 15a) : eppure noi vediamo an­ che le cose reali, non solo i riflessi e le ombre. Bisognerebbe perciò ritenere che le ombre sulla parete corrispondano alle cose sensibili: ma allora non sapremmo che ruolo dare agli oggetti che passano sopra il muro. Anche la corrispondenza con gli elementi esterni è problematica. Essa dipende infatti dall' ipotesi che le due facoltà intellettuali della linea abbiano due oggetti diversi, e in particolare che la dianoia si riferisca agli enti matema­ tici: ci potrebbe essere così una corrispondenza tra questi enti e i riflessi e le ombre esterni alla caverna. Ma, come abbiamo visto, l idea che nella metafora della linea si parli veramente di oggetti intelligibili diversi dalle idee è tutt 'altro che sicura. Questa difformità non deve però essere sopravvalutata. Da un lato la natura e la funzione dell'allegoria in quanto tali impediscono che il suo contenuto sia perfettamente traducibile in concetti astratti. Dall'altro, come abbiamo visto, scopo precipuo di questa allegoria è quello di mostra­ re la differenza di « educazione » tra i non filosofi e i filosofi. Ed è proprio questo motivo ciò che aiuta a comprendere il suo vero significato. Come meglio vedremo più avanti, in una parte precedente della Repubblica (473c-d) Socrate aveva sostenuto che in un supposto Stato perfetto il go­ verno spetta ai sapienti (qui indicati come "filosofi"). Questa tesi, tuttavia, si scontrava con l' immagine comune che la gente si era fatta dei filosofi: gente del tutto inesperta del mondo, dedita ad attività teoriche astruse e di nessuna utilità pratica. L'allegoria vuole appunto rendere conto di que­ sta impressione, mostrando che è la conseguenza normale delle differen­ ti esperienze da cui i non filosofi e i filosofi, rispettivamente, sono stati formati: i primi sono sempre rimasti aderenti alla terra, mentre i secondi portano sulla terra la visione delle realtà puramente intelligibili che hanno

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contemplato in una dimensione superiore. In questo senso l'allegoria della caverna trova riscontro nel grande mito del Fedro: benché tutte le anime, nella loro condizione disincarnata, abbiano potuto viaggiare nell' iperura­ nio e contemplare direttamente le idee (249b), nella condizione incarnata si sviluppano notevoli differenze tra coloro che ricordano poco o niente, ossia i non filosofi, e coloro che hanno la memoria più viva, ossia i filosofi (248c-d). In altre parole, il mondo fuori della caverna di cui si parla nella Repubblica corrisponde all' iperuranio del Fedro, ossia a una condizione che non è conseguibile all'uomo nella sua dimensione mortale.

La metafisica di Platone : una dottrina ontologica generale o una teoria del valore ? L' ipotesi che la metafora della linea e l'allegoria della caverna non voglia­ no significare proprio la stessa cosa è confermata da una differenza impor­ tante che si riscontra tra di esse: in quest 'ultima compare un elemento in più, ossia l' idea del bene (rappresentata attraverso l' immagine del sole). Questo principio era stato introdotto da Socrate, nella stessa Repubblica, subito prima di esporre la metafora della linea, e anzi rappresenta in un certo senso la cerniera tra i temi etico-politici che occupano i primi libri ( I -v ) e quelli epistemologico-metafisici che sono oggetto dei libri centra­ li (v-vn). Socrate aveva sostenuto, come sappiamo, che solo chi possiede un vero sapere ha titolo per governare. Un buon governo, a sua volta, ha come compito principale quello di produrre la vita buona, per cui ciò che i governanti devono in primo luogo conoscere è la natura del bene. Le costi­ tuzioni difettose, non meno che la mentalità comune, ispirano anch'esse la loro opera al bene, ma ne hanno una conoscenza molto ridotta: si crede in generale che esistano cose buone senza ritenere necessaria per questo l'esistenza di un bene in sé come misura assoluta, in base alla quale le altre cose sono dette buone (giuste, utili ecc.) (sosa). L'esistenza delle cose buone implica invece per Platone l'esistenza di una gerarchia metafisica dei beni, in cima alla quale sta un principio che è soltanto bene, che è l' idea bel bene (o il bene in sé : 504a-509b ). L'eccellen­ za e la superiorità di questo principio sono ben documentate dalla celebre asserzione, ancorché molto variamente interpretata, secondo cui l' idea del bene sarebbe superiore all'essere/essenza (ousia) per dignità e poten­ za (so9b). Sembra chiaro, dunque, che ci troviamo di fronte non solo al

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principio più elevato di tutta la gerarchia ontologica ideata da Platone, ma anche a quello che sarebbe più necessario conoscere per poi conoscere anche tutto il resto. Tuttavia Socrate, richiesto di dire chiaramente di che cosa si tratta, ne parla in modo molto vago e reticente, e si cava d' impac­ cio con una metafora: come il sole è ciò che dà vita e visibilità alle realtà materiali, l' idea del bene è ciò che impartisce l'essere e la conoscibilità agli oggetti ideali. E poche pagine prima, in un passo che già abbiamo citato, aveva detto di poter dire al massimo la propria opinione. Il che significa, ancora una volta, che nemmeno il filosofo possiede una conoscenza chiara e infallibile dei principi ultimi della realtà. Quanto detto non contrasta con quello che Socrate asserisce altrove nella Repubblica, ossia che l' idea del bene è conoscibile (533a), e che in particolare deve essere conosciuta dai sapienti che hanno il compito di governare lo Stato ideale. Che l idea sia conoscibile in sé lo si ricava sem­ plicemente dalla sua primarietà ontologica, dal momento che per Platone ciò che è ontologicamente più elevato è anche più conoscibile. Ma ciò non significa, in accordo con un principio spesso ripetuto da Aristotele, che ciò che è più conoscibile "in sé" sia tale anche "per noi". Il contesto ideale in cui il bene è perfettamente conosciuto (è il caso della kallipolis, ossia della città ideale descritta nella Repubblica) stabilisce le regole che devono valere, mutatis mutandis, anche nella realtà: se nello Stato ideale è giusto che governino i sapienti (sophoi), allora è giusto che negli Stati reali, in cui sapienti perfetti non ve ne sono, governi chi è piu sapiente degli altri (anche di poco)18• Le pagine che Platone dedica al bene nella Repubblica sono impor­ tanti anche da un altro punto di vista. Socrate, quando parla dell' idea del bene, sembra considerarla come un' idea alla stessa stregua delle altre ; dunque dovrebbe appartenere all'essere in senso eminente, non trovarsi al di là dell'essenza'9• Si potrebbe pensare che l idea del bene sia il risultato dell'applicazione alla molteplicità delle idee dello stesso procedimento applicato alla molteplicità del sensibile. L' idea del bene sarebbe dunque l'unità delle varie idee come l' idea della bellezza sarebbe l'unità delle varie cose belle. Ma anche questo schema va preso con cautela. Perché infatti, se l idea del bene è l'unificazione delle varie idee, Platone l'ha chiamata idea del bene? Perché non ha usato, come nel caso delle altre idee, un termine che esprime ciò che ha di comune il molteplice a cui essa si riferisce ? Il fatto è che la metafisica di Platone non era precipuamente interessata a stabilire una gerarchia neutra di gradi ontologici, ma piuttosto a mostra-

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re che tutta la realtà è determinata dal valore, che il bene rappresenta in modo assoluto. Non è un caso, in effetti, che le idee citate più spesso da Platone siano le idee di valore (cfr. Phaed. 75c-d). Ponendo le idee sotto l'egida del bene Platone voleva svelare qual era la natura dei principi di cui andava in cerca: le idee non rappresentano semplicemente l'unità logica di un molteplice, ma anche e soprattutto il segnale che la realtà è orientata in vista del bene. D 'altra parte Platone era propenso a vedere un nesso tra l'unità e il valore (e tra la molteplicità e il suo contrario) sulla base di uno schema pitagorico che egli mostra in più modi di accettare : ciò che è buono è uni­ tario, precisamente delimitato, organizzato, proporzionato ecc.; ciò che è cattivo è molteplice, indefinito, disorganizzato, sproporzionato ecc. È tut­ tavia facile constatare che i motivi logici per cui ci deve essere una sola idea per ogni molteplice corrispondente valgono per ogni oggetto, anche per quelli privi di rilevanza etica (ad esempio: non solo per l' idea di giustizia ma anche per quella di ingiustizia). Sorge dunque un problema. Le idee rappresentano il valore proprio in quanto idee, nella misura in cui sono superiori alle realtà sensibili ? Oppure il mondo delle idee è una formaliz­ zazione della realtà sensibile complessivamente presa, all' interno del quale si riproduce lo stesso contrasto di valore e disvalore (ad esempio tra l' idea di giustizia e l' idea di ingiustizia) che esiste in quella ? Che il mondo delle idee sia superiore alla realtà sensibile anche in ter­ mini di valore non può, per Platone, essere messo in dubbio. Nel Fedone si dice che la realtà ideale è invisibile ( 79a), pura, eterna, immortale, invaria­ bile (?9d), divina, intelligibile, uniforme, indissolubile (8ob). Sono tutte caratteristiche cariche di valore e tutte possono essere dedotte in ultima analisi dall'unità dell' idea: il molteplice è impuro, mutevole, corruttibile, variabile, materiale, sensibile, difforme ecc. Ma come si ricava da un passo del Parmenide (13ob-d), Platone non sembra molto propenso ad ammet­ tere che esistano idee anche di cose che non hanno valore (o peggio che hanno caratteristiche negativew). E Aristotele ci conferma, d'altra parte, che Platone e gli accademici non ritenevano che esistessero idee di tutte le cose (Metaph. I 9 99ob 8-u). Pare dunque che Platone si sia accorto della possibile collisione tra le esigenze etiche che governano la teoria delle idee e le caratteristiche epistemologiche e ontologiche ad essa inerenti; e che abbia deciso di privilegiare il primo aspetto contro il secondo. Se questa scelta gli abbia consentito di salvare la coerenza della dottrina, non è qui il caso di indagare. Quello che è certo è che questo ambiguo stato di cose

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h a dato occasione a i suoi successori d i interpretare l a sua metafisica come una forma di ontologia incoerente ed errata ( Aristotele ) , o comunque bi­ sognosa di essere esplicitata e completata ( i neoplatonici ) ( cfr. Trabattoni, 2013b ) .

L'uomo: anima e immortalità L'antropologia è uno dei temi in cui la posizione di Platone è meno facil­ mente distinguibile da quella di Socrate. Infatti i dialoghi in cui si legge che l'uomo è essenzialmente la sua anima, e dunque i valori genericamente spirituali vengono anteposti a quelli materiali e sensibili, sono soprattutto quelli in cui si ritiene che la figura di Socrate sia ritratta con maggiore fe­ deltà. Su questo punto, dunque, qui non aggiungeremo nulla. Per quanto riguarda invece la dottrina generale dell'anima, la posizio­ ne platonica appare molto più articolata e impegnativa di quella di So­ crate. Platone, in primo luogo, ha fortemente sottolineato la sostanzialità dell'anima e la sua piena separabilità dal corpo. A questo fine ha anche restituito importanza ad alcuni dei tratti « fisiologici » dell'anima tipici della concezione tradizionale, di cui invece Socrate non si era interessato. Nell' Alcibiade I troviamo la celebre affermazione secondo cui l'anima si serve del corpo come di uno strumento ( 129b-e ) . Se il corpo è strumento, ciò significa che l'anima e il corpo sono due entità distinte e separabili. Ma quali ragioni abbiamo per affermare una cosa simile ? Non è possibile che l'anima sia come un accordo tra le varie parti del corpo ( così obietta il pitagorico Simmia a Socrate nel Fedone) ? Che sia cioè un attributo del corpo, superiore sì dal punto di vista del valore, ma da esso dipenden­ te quanto alla sua esistenza ( 85e-86d ) ? Nel Fedone la risposta platonica prende soprattutto le mosse dall'etica. Se l'anima fosse un'armonia del corpo in primo luogo non sarebbe in grado di comandargli certi compor­ tamenti. Ma in tal modo le azioni dell'uomo sarebbero necessariamente determinate dai suoi bisogni materiali, e non ci sarebbe più spazio per la scelta morale. A questo argomento etico si può affiancare l' argomen­ to "gnoseologico" tolto dal Teeteto ( secondo cui, come si ricorderà, cer­ te esperienze conoscitive impongono l'esistenza di un soggetto unitario chiamato anima, 184b-185e ) . Un altro tema su cui Platone va molto oltre il suo maestro è quello dell' immortalità dell'anima: mentre Socrate, se stiamo a quanto si legge

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nella platonica Apologia di Socrate, ne parlava solo come di una mera pos­ sibilità (4oc-d), Platone la afferma con decisione e tenta anche di dimo­ strarla con vari argomenti. Alla base di questo sforzo vi è con tutta pro­ babilità un movente etico : l' immortalità dell'anima, con il corollario di premi e castighi che porta con sé, è utile per mostrare 1 ' assunto che solo l'uomo virtuoso è - in ultima analisi - felice. La maggior parte di questi argomenti si trova nel Fedone. Il primo, la co­ siddetta antapodosis (contraccambio, 7oc-72e ), prende spunto dal fatto che in natura ogni processo deve essere reversibile (ad esempio alla veglia succe­ de il sonno e viceversa), altrimenti tutte le cose si troverebbero prima o poi in uno stato di totale immobilità (ciò che invece non si verifica). Dunque non ci può essere solo un passaggio dalla vita alla morte, ma ci deve essere anche un passaggio contrario dalla morte alla vita (cioè rivivere). Socrate però ben capisce che con ciò si dimostra solo la cosmica eternità della vita, non l'immortalità individuale (che prevede la continuità della coscienza). Così aggiunge a questo argomento quello derivato dalla dottrina della remi­ niscenza (cfr. pp. 47-9): se essa è vera, l'anima è immortale (72e-77d). C 'è poi nel Fedone un terzo argomento, in cui si rileva la generica af­ finità dell'anima con ciò che è immateriale, perfetto, immortale ecc. Si tratta ovviamente delle idee, e questa affinità fa pensare che anche 1 ' anima, come le idee, sia esente da corruzione (78b-8ob). La debolezza di questo argomento, che si fonda su una semplice analogia, è messa a fuoco dalle obiezioni dei due ospiti tebani Simmia e Cebete. Cebete, in particolare, si dichiara non persuaso fino a che Socrate non dimostrerà che 1' anima è indistruttibile proprio per la sua natura di anima. Segue dunque l'ultimo argomento del dialogo, che è poi il più elaborato fra quelli escogitati da Platone (10u-106d). Un oggetto scaldato e il fuoco sono "caldi" in maniera diversa. Infatti l'oggetto può essere indifferentemente caldo o freddo, men­ tre il fuoco è caldo per natura. Pertanto, all'avvicinarsi del freddo, mentre l'oggetto caldo semplicemente si raffredda, il fuoco deve o perire o fuggire via intatto. Ora, tra 1' anima e la vita c 'è una relazione identica a quella che c 'è tra fuoco e calore. L'anima, insomma, è viva in modo essenziale, e dun­ que non potrà mai essere "morta'' (così come il fuoco non potrà mai essere freddo). Resta però la possibilità che 1' anima, ali' avvicinarsi della morte, perisca. Ma - conclude Socrate con un rapido passaggio da cui in realtà dipende tutto 1' argomento -, se 1' anima è immortale per natura (non acco­ glie su di sé la morte), questo la differenzia in modo decisivo da cose come il fuoco, e dunque possiamo ritenere che se ne fugga via intatta ( 105e-106d).

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Ci sono poi una prova nella Repubblica ( 6o8d-6na) e una nel Fedro (245c-246a). La prima è molto semplice. La malattia propria dell'anima è il vizio morale. Ma questo morbo non ha leffetto di farla morire. Dunque, se non fa questo il male suo proprio, nessun'altra causa lo può fare. Più elaborata è la prova del Fedro. Come nel Fedone si parla di vita in modo essenziale, come vita capace di dare la vita ad altro, così c 'è un moto capace di far muovere le altre cose. È precisamente il moto che muove anzitutto sé stesso. Se non ci fosse un tale principio, prima o poi tutto diverrebbe immobile. Ma questo principio non può essere che lanima, che dunque è eterna e immortale. La dottrina dell' immortalità dell'anima implica che essa sia una spe­ cie di sostanza immateriale (e invisibile) capace di esistere anche separa­ tamente dal corpo. Sappiamo poi, dagli argomenti che Platone ha pro­ dotto, che lanima è legata in modo essenziale (come del resto accadeva nella tradizione greca attestata già da Omero) alla nozione di vita. Ma si può dire qualcosa di più sulla sua natura ? In proposito il pensiero plato­ nico si sdoppia, per così dire, in due prospettive diverse. Quando si tratta di parlare dell'anima in senso psicologico o etico, o anche quando è in gioco l' immortalità, Platone lascia la sua natura sostanzialmente nel vago. Quando invece si tratta di illustrarne in qualche modo le caratteristiche (e questo accade soprattutto nei dialoghi più maturi), Platone descrive l'a­ nima come un ente tripartito. Nella Repubblica, ad esempio, si distingue tra la parte più alta (razionale), la parte più bassa (concupiscibile, ossia responsabile dei desideri) e la parte mediana ("animosa", ossia responsabile della forza d'animo, eventualmente intesa come coraggio). Non è illecito paragonare questa divisione a quella che troviamo nel mito del Fedro, dove l'anima è paragonata a un cocchio alato condotto da un auriga (compara­ bile alla parte razionale) e trainato da due cavalli, uno buono e docile (la parte animosa) e uno riottoso e violento (la parte concupiscibile). Infine, una tripartizione analoga è riprodotta anche nel Timeo, con due differen­ ze importanti: primo, le tre parti sono localizzate in tre diverse zone del corpo (la testa, la sezione che va dal collo al diaframma, quella che va dal diaframma all'ombelico) ; secondo, nel Timeo solo l'anima razionale è di­ chiarata davvero immortale ( 6 9c-7 1a). Spesso si dice che la tripartizione dell'anima sarebbe stata introdotta da Platone in un secondo momento, con lo scopo di conferire sia all'etica sia alla psicologia un aspetto più realistico a quello che risultava dal razionali­ smo socratico (cfr. ad esempio Irwin, 1995). Per quanto riguarda la comples-

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sità psicologica, non c'è dubbio che le cose stiano così: se è vero che l'uomo è essenzialmente la sua anima, la tripartizione intende mostrare che i fattori e gli impulsi non razionali appartengono alla natura più intima dell'uomo, e non possono essere messi tutti a carico delle resistenze del corpo. Diversa­ mente stanno le cose, invece, sul piano etico. La tripartizione non elimina affatto 1' idea che la virtù sia conoscenza e il vizio ignoranza ( un principio che non a caso viene ripetuto nelle ultime opere di Platone, Timeo e Leggi); è segnale di ignoranza, infatti, non solo scambiare il male per il bene, ma anche permettere che la propria ragione sia subordinata agli istinti più bassi.

Eros, filosofia e conduzione dell'anima Legato al tema dell'anima è il celebre motivo dell'eros ( amore ) , che si suo­ le appunto indicare con 1 'espressione "amore platonico". Nel linguaggio comune queste parole indicano un amore puramente ideale, che non ha corrispettivo sul piano fisico. Si tratta indubbiamente di un aspetto im­ portante dell'eros così come lo intendeva Platone. Ma non è l'aspetto decisivo sul piano filosofico. Il concetto dell'eros, e questo non solo per Platone, coglie un dato essenziale della natura umana, ossia la sua tensione dinamica verso il conseguimento di un determinato obiettivo. Si tratta, in altre parole, di ciò che potremmo chiamare "tensione" o "desiderio". Non è difficile vedere come questo elemento sia davvero essenziale nel­ la vita di tutti gli esseri umani ( e non solo di loro ) . La vita è movimento, dinamismo, tensione verso qualcosa e desiderio di qualcosa: più in parti­ colare, tensione a conseguire quelle cose che paiono appetibili e buone al soggetto che le desidera. Se poi si tratta di un soggetto razionale, è chia­ ro che questo soggetto impegnerà la sua intelligenza e la sua capacità di discernimento per conseguire obiettivi davvero soddisfacenti. In questo senso per Platone 1' eros si collega strettamente alla filosofia, perché il desi­ derio di vivere una vita buona, comune a tutti, non si può realizzare senza tentare di conoscere in qualche modo che cosa sia il bene. Il tema dell'a­ more è trattato da Platone soprattutto nel Simposio e nel Fedro. Il Simposio narra di un banchetto tenuto in casa del poeta Agatone per festeggiare la sua vittoria in un agone tragico. I commensali decidono, alla fine della cena, di pronunciare a turno un discorso in lode di Eros. Parlano, nell'ordine, Fedro ( che già conosciamo dal dialogo omonimo ) , il retore e avvocato Pausania, il medico Erissimaco, il poeta comico Aristofane,

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poi lo stesso Agatone e infine Socrate, e tutti imprimono al loro discorso tratti del loro carattere e della loro professione. Tra i discorsi precedenti a quello di Socrate è celebre soprattutto il racconto di Aristofane. Gli uomi­ ni erano all' inizio degli esseri mostruosi e potenti, provvisti di due teste, quattro gambe, quattro braccia ecc., ed erano di tre sessi (uomo-uomo, donna-donna, uomo-donna). La loro forza e superbia era tale da arrivare a minacciare gli stessi dei, cosicché Zeus decise di dividerli in due. Ben presto però si accorse che così separati uomini e donne si cercavano per ricongiungersi, e quando si ritrovavano si lasciavano morire abbracciati. Allora Zeus decise di donare agli uomini la procreazione mediante la co­ pula, di cui fino a quel momento erano stati privi. Così uomini e donne poterono congiungersi per la procreazione o per produrre quel senso di rilassatezza utile per rivolgerli alle incombenze pratiche della vita. Ecco spiegato il motivo per cui, da allora, uomini e donne sono presi tutti dal sentimento amoroso, per ricongiungersi con la loro « metà » (189c-194c). Dopo l' intervento di Agatone prende la parola Socrate. Egli anzitutto apprezza, con evidente ironia, la perizia oratoria e stilistica degli oratori che lo hanno preceduto. Ma poi aggiunge una critica pungente : se si vuole davvero lodare qualcuno, bisogna dire sempre e solo la verità, non raccon­ tare menzogne per abbellire in ogni modo il soggetto. Forse anche perché partivano dal presupposto tradizionale che eros è un dio, tutti gli oratori si sono sentiti in obbligo di dimostrare che amore è una cosa buona. Me­ diante un breve dialogo con Agatone Socrate dimostra che così non è, cioè che amore non può essere buono. Infatti amore è desiderio di bellezza e bontà (questi due concetti sono come assimilati), e c 'è desiderio solo di ciò che non si possiede. L'amore in quanto tale si esaurisce perciò nella forza di attrazione che spinge qualcosa verso qualcos'altro : la bellezza e la bontà di amore derivano non dall'amore in quanto tale, ma da ciò che l'amore desidera (199c-2.01c). Esaurito questo preambolo, Socrate inizia il suo intervento vero e pro­ prio raccontando di essere stato istruito nelle cose d'amore, quando era ancora inesperto e succube dei pregiudizi comuni, da una mitica donna di Mantinea di nome Diotima. Costei gli ha anzitutto spiegato, come So­ crate ha già detto ad Agatone, che eros non è né bello né buono. Non per questo si deve dire però che sia brutto e cattivo. Eros è infatti un essere intermedio tra uomo e dio, tra mortale e immortale, e cioè, nei termini tradizionali della religione greca, è un demone (daimon) . Su questa defi­ nizione Diotima costruisce una genealogia allegorica di eros. Suo padre

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è Poros, termine traducibile con "Espediente", che è figlio a sua volta di Metis ("Sagacia"). Dal padre viene quanto di bello e di buono c 'è in lui. La madre invece è Penia, cioè "Povertà" o "Privazione": a lei si devono le qualità negative. Così si spiega la natura media di amore. Dal padre eros riceve la capacità e il desiderio di procurarsi le cose buone e belle : cose che desidera appunto perché non le possiede, essendo sua madre la Povertà. È in condizione di desiderare, in effetti, solo chi non è tanto ricco da pos­ sedere già, né tanto povero e privo di espedienti da non desiderare nem­ meno. Più precisamente l'eros consiste nel desiderio di possedere le cose belle e buone, perché tale possesso rende il possessore felice (20sa). Viene istituito così un collegamento tra quel tipo di desiderio che è l'eros e il de­ siderio della felicità, che nell 'Eutidemo era stato dichiarato comune a tutti gli uomini (Euthyd. 278e, 282a). Questo collegamento permette a Platone di conferire al suo discorso la massima generalità. Sarebbe difficile ritenere che tutti gli uomini siano sempre « innamorati » , nel senso strettamente psicologico di questo termine (Symp. 205a-b). Ma se l'eros viene inteso in senso lato come desiderio di possedere ciò che è bene, allora è chiaro che tutti gli uomini ne partecipano, perché tutti desiderano essere felici, e la felicità consiste appunto nel possesso di ciò che è buono. Al momento di stabilire che cos'è questo "bene" sembrano affiorare al­ cune difficoltà. Il discorso per così dire si sdoppia, muovendosi verso due differenti obiettivi tra cui non è sempre chiara la congruenza: da un lato lo scopo dell'eros è quello di raggiungere il possesso del bene in quanto tale, dall'altro è quello di ricavare dall'eros dei frutti buoni, diversi dal bene in sé, che abbiano una ricaduta positiva sulla vita relazionale, etica e politica. Questo secondo obiettivo è chiamato da Diotima «procreare nel bello » secondo l'anima, per analogia con la procreazione che avviene attraverso il corpo. E così come il desiderio di procreare dei figli è mosso dall' impul­ so verso l' immortalità, anche il desiderio di procreare secondo l'anima è mosso dall' impulso che gli uomini hanno di rendersi eterni con le loro opere (206b-207a). Il frutto della procreazione nel bello secondo l'anima può assumere diverse figure. I veri amanti genereranno discorsi sulla virtù e indicazioni etiche su come deve essere e comportarsi un uomo veramente buono. Ma ancora di maggior pregio sono i figli che gli uomini partoriscono per il puro amore del sapere e del bene ; tali sono i figli di Licurgo e di Solone, cioè le leggi che essi hanno lasciato rispettivamente a Sparta e ad Atene, e che a buona ragione li coprono di gloria immortale (209d-e). Secondo

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questa prospettiva l'amore del bene che eros rappresenta è diffusivo di sé, non si esaurisce nel puro possesso, ma ricade all' indietro sulla vita civile e politica, e diviene benefico per tutti gli uomini. Ma accanto a questo percorso, che piega verso il basso, c 'è il percorso che muove verso l'alto, che si appaga semplicemente e soltanto quando è stato raggiunto il culmine della conoscenza. Per compiere questo cammi­ no occorre passare attraverso quattro stadi: 1. l'amore dei bei corpi; 2. la convinzione che in tutti i corpi la bellezza sia sempre la stessa, che spinge ad abbandonare l'amore per un solo individuo ; 3. la persuasione che la bellezza dell'anima è superiore alla bellezza del corpo ; 4. la capacità di vedere la bellezza nelle opere dell'uomo e negli oggetti intellettuali, fino a comprendere che la bellezza è sempre uguale a sé stessa. Dopo aver supe­ rato questo tirocinio, l' innamorato sarà finalmente in grado di vedere la bellezza in quanto tale, che qui Diotima descrive con i tratti caratteristici dell' idea platonica (210e-21 1b). Come già anticipato sopra (cfr. pp. 54-60 ), esistono ottime ragioni per ritenere che il percorso ora descritto sia più un modello ideale utile a orien­ tare la ricerca che un obiettivo realisticamente conseguibile nel corso del­ la vita terrena. Se questa interpretazione è giusta, possiamo riconsiderare da un punto di vista più generale tutto il problema dei frutti dell'eros. La contemplazione dell' idea è indubbiamente funzionale alla procreazione nel bello (21 u), ossia all'agire etico-politico, perché senza una conoscenza preventiva di ciò che è bene il bene non può essere realizzato. Una volta, tuttavia, che la visione dell' idea è stata raggiunta, non è forse inevitabile che il filosofo (ossia l'amante del sapere) si fermi in quella condizione, e non senta più il bisogno di tornare a occuparsi della vita pratica ? L'agire etico-politico non si configura forse come una deviazione che distoglie l' interesse dal vero scopo della filosofia (ossia la conoscenza) ? Nei termini che poi saranno comuni nella cultura medievale : la vita activa e la vita contemplativa non sono forse due obiettivi antitetici ? Questi problemi sarebbero certamente insolubili se Platone credesse davvero disponibile per l'uomo nella sua condizione mortale la visione delle idee. Se viceversa, come abbiamo proposto, così non è, allora il ri­ piegamento dell'attività del filosofo sull'atto di generare nel bello, cioè sul mondo dell'etica e della politica, non ha carattere dispersivo, ma finisce per rappresentare l'attività più elevata che l'uomo ha a disposizione. Il pro­ blema diventa piuttosto quello di mostrare che l'uomo, anche se non può attingere l'ultimo gradino dell' iniziazione misterica, ha una conoscenza

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del bello almeno sufficiente per governare la sua attività procreativa. Que­ sto problema verrà ripreso nella Repubblica e nel Filebo. Il Fedro si apre con l' incontro, fuori dalle mura di Atene, tra Fedro e Socrate. Fedro, grande appassionato di retorica, porta con sé un discor­ so che ha appena udito, composto dal grande logografo (ossia scrittore di discorsi, per lo più giudiziari, per conto terzi) Lisia, dove si cercava di dimostrare che a un giovane conviene concedersi più a chi non lo ama che a chi lo ama. Entusiasta di quanto ha appena udito, Fedro rilegge il testo a Socrate. Inizialmente questi si diverte a gareggiare con Lisia nel comporre un discorso sullo stesso tema (237b-241d), ma poi si pente di quanto ha fatto (cioè ha parlato male di eros, che è un dio), e pronuncia un secondo discorso, di tenore ben diverso, che costituisce la ritrattazione del primo. Nel suo primo discorso Socrate aveva fatto notare che non si può parla­ re bene di un argomento, in particolare se si ha per oggetto questioni su cui è difficile trovare un accordo, senza partire da una certa definizione della cosa di cui si parla. Perciò Socrate si era impegnato anzitutto a stilare una definizione di amore ; eros è un desiderio particolarmente forte, stimolato dalla visione della bellezza, proteso a realizzare il piacere fisico (238b-c). Per chi conosce il Simposio non è difficile accorgersi che, se tale è lo scopo di amore, il giudizio a riguardo non può che essere negativo. Se invece si ritiene che eros sia buono (poiché divino), è chiaro che la definizione ora proposta è sbagliata. Ciò sembrerebbe preludere a un discorso simile a quello già svolto nel Simposio, dove viene realizzata una purificazione dell'amore in senso razionale e spirituale. Ma nel Fedro Platone introduce delle significative varianti. Socrate non nega che l'amore sia una forma di pazzia; nega piuttosto che la pazzia sia sempre un male. Esistono infatti forme di pazzia buo­ ne e benefiche, come la poesia, la profezia e lo stesso amore (244a-245a). Questo motivo segna la principale differenza tra le teorie sull'eros esposte nei due dialoghi. Nel Fedro, pur ribadendo l'universalità del sentimento amoroso già stabilita nel Simposio, Platone ha interesse a mostrare che la strada che conduce alla filosofia richiede comunque un salto, un difficile e delicato passaggio a una dimensione diversa, che non si può compiere se non infiammati da un desiderio violento, come è appunto quello che anima la follia d'amore. Tutto ciò diviene ben chiaro rilevando che nel suo secondo discorso Socrate accenna alla dottrina della reminiscenza. A margine di questo tema egli osserva che « risalire col ricordo dalle cose terrene alle realtà ultraterrene non è impresa facile per tutte le anime »

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(25oa; trad. L. Untersteiner Candia, in Trabattoni, 1995). Questa risalita sembra in effetti particolarmente innaturale, perché allontana l'uomo da quello che pare essere il mondo suo proprio. L'eros interviene appunto per correggere lapparente innaturalità della conversione alla filosofia che lo stesso Platone aveva sottolineato in alcuni testi, come il Pedone e il Teeteto. In che maniera l'eros riesce ad assolvere questo compito ? Platone se la cava con un' immagine, che se pure ha il sapore inconfondibile dei racconti mitici, tuttavia contiene una verità psicologica e filosofica difficile da nega­ re. L' idea della bellezza è l'unica di cui si conserva una traccia nella realtà sensibile, cioè è l'unica che in qualche modo si vede : perché la bellezza è l' immagine umana che più si avvicina alla perfezione dell' idea (25oc-e). E non solo. Di fronte alla bellezza l 'uomo, per usare un modo di dire qui particolarmente appropriato, si sente come trasportato in un altro mondo, migliore di quello in cui si trova; sospetta inconsapevolmente che quello che l'ha colpito provenga da una dimensione più elevata, che in quel bello si nasconda un bene puro, non contaminato dagli scopi e dalle faccende per cui l'uomo si agita quotidianamente. Sotto questo profilo la filosofia di Platone è segnata da una sottile am­ biguità. Da un lato egli vorrebbe, come vedremo analizzando la Repubbli­ ca, che l'educazione alla filosofia sia un percorso lineare, pianificabile in senso tecnico come un normale curriculum di apprendimento. Dall'altro si accorge che questa tranquilla tecnicità è un obiettivo irrealizzabile, per­ ché il percorso educativo dipende da principi invisibili, che non posso­ no essere esibiti come oggetti e teoremi; perciò l'educazione alla filosofia deve accontentarsi di rimanere un procedere a sbalzi, non alieno da pos­ sibili ricadute, debitore per il suo compimento di un'energia che la pura ragione, legata com'è alla finitezza della condizione mondana, da sola non può dare. La differenza tra Simposio e Fedro è marcata anche dal fatto che in quest'ultimo dialogo è presente la prospettiva ultraterrena. Per sollevarsi da terra occorre un vettore particolarmente potente. Non è un paragone azzardato, dal momento che Platone stesso usa a questo proposito la me­ tafora dell'ala. La vita mortale inizia quando l'uomo perde le ali, e ricade così sulla terra. Ma anche nella sua vita terrena, se opportunamente edu­ cato, l'uomo può recuperare almeno il sentore della realtà ideale che ha visto a suo tempo. L'eros è appunto una di queste forme di educazione. Sollecitato dalla visione della bellezza, a poco a poco l'uomo riprende le ali (249e), anche se non sempre e non facilmente esse gli consentono di spie-

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care il volo. Occorre che il desiderio si rivolga verso l'alto, ossia dalla bel­ lezza e dal piacere fisico alla bellezza dell' idea e al piacere che essa procura. Il tema dell'ascesa ricongiunge il Fedro con il Simposio. Ma brevemente, perché la scala amoris non ha nel Fedro la stessa ordinata scansione. Qui Platone si concentra soprattutto nel mostrare la complessa fenomenologia del sentimento amoroso, l'ambiguo impasto, mai completamente risolto, di impulsi elevati e di desideri sensibili (il cavallo buono e quello cattivo, cfr. p. 67 ). Inoltre Platone riserva nel Fedro un posto di rilievo anche ali' a­ mante che non sempre riesce a rimanere ali' altezza del suo amore (256c-e), cioè al filosofo che resta sempre un po' troppo « amante » {.philos) e un po' troppo poco « sapiente » (sophos). In questo dialogo, insomma, Pla­ tone sembra guardare con più indulgenza alla vischiosità dell'esperienza umana, sembra maggiormente consapevole del fatto che nella vita dell'uo­ mo si insinua sempre qualche elemento di impurità, qualunque sforzo egli faccia". L'eros non è il solo argomento di cui si occupa il Fedro. Il secondo grande argomento è la retorica; il dialogo si chiude poi con alcune pagine enigmatiche in cui Platone svaluta il discorso scritto ed esalta in sua vece la comunicazione orale. Ci occuperemo ora di questi temi perché essi stanno in piena armonia con la dottrina dell'eros e anzi costituiscono un impor­ tante approfondimento del suo significato filosofico. Il tema portante in cui convergono le varie parti del Fedro è la psicago­ gia, cioè la conduzione dell'anima (cfr. in proposito Trabattoni, 1995). La seconda sezione del dialogo è un tentativo di rispondere alla domanda su come debbano essere composti i discorsi per essere belli (258d), nel soli­ to senso etico comune in Platone : cioè come i discorsi devono essere per essere davvero psicagogici, per condurre l'anima al bene. Per rispondere alla domanda Socrate sgombra innanzitutto il campo dai discorsi che non sono davvero tali. Sono i discorsi dei retori e dei politici (ma anche dei poeti, dei sofisti ecc.), che non hanno lo scopo di condurre chi li ascolta al bene, ma a fare ciò che i loro autori o committenti desiderano (259d26od). Posto dunque che solo la filosofia conduce l'anima al bene, questo cammino può essere meccanicamente compiuto mediante un apprendi­ mento metodico, un corso di studi, o la lettura di determinati testi ? Così sarebbe se la filosofia non comportasse uno stacco qualitativo dal mondo sensibile al mondo ideale. Ma è proprio questo divario ciò che rende il pro­ blema della psicagogia e dell'educazione, cioè il problema della formazio­ ne della società etico-politica in senso filosofico, particolarmente spinoso.

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L'espediente dell'eros, in altre parole, ha lo scopo di superare l' impasse che deriva dal fatto, enunciato nel Simposio (204a) e ripetuto nel Fedro (278d), che al massimo gli uomini possono essere philo-sophoi e non sophoi. Lo scopo è quello di far sì che l'uomo, pur non avendo più quel sapere delle idee che possedeva quando la sua anima era nell' iperuranio, possa tuttavia recuperare qualche barlume della verità che ha visto una volta. Questo re­ cupero è anche lo scopo dei discorsi filosofici (logoi). Il loro compito è quel­ lo di supplire alla mancanza di una vera e propria intuizione intellettuale, stimolando nell'anima un esercizio dialettico che eternamente si muove dall'uno ai molti e viceversa (265c-266c), fino a che l'anima sia persuasa che il molteplice presuppone l'unità, che l'agire e il conoscere umano pre­ suppongono una dimensione ultraterrena perfetta. Così la filosofia muove verso la persuasione, e in questo senso si ricongiunge con l'eros. L'eros e la persuasione assolvono lo stesso ruolo di colmare lo iato che separa l'uomo da una conoscenza razionale completa e del tutto trasparente. Alla luce di quanto detto si spiega anche la svalutazione della scrittura. Un testo scritto è valido nella misura in cui fa riferimento a un sapere con­ tenuto altrove, cioè nell'anima (278a). Dunque il discorso filosofico, che non a caso Platone articola sempre in forma di dialogo, non ha il compito imitativo di rispecchiare la verità, ma quello « erotico » e psicagogico di suscitare nell'anima la persuasione, mediante l'esercizio della dialettica. In questo senso, e solo in questo, la comunicazione orale è superiore a quella scritta: poiché il testo scritto, in quanto fisso e immodificabile, è incapace di dialogare e rispondere (275d-e). Dunque, da un lato la sua capacità di stimolo alla persuasione è molto ridotta in rapporto alla comunicazione orale e veramente dialogica; dall'altro appare assai ingannevole, perché si presenta come una subdola contraffazione della fissità e conclusività della scienza, che invece è unicamente appannaggio della visione intellettuale delle idee (e dunque non può comparire in nessun tipo di "testo", né scritto né orale) (cfr. Trabattoni, i.005). Platone è consapevole sia del fatto che la filosofia, insieme alle ricadute pratiche che la caratterizzano, può fondarsi solo sulla conoscenza del vero, sia del fatto che questa verità è in certo senso altrove, e non immediata­ mente e completamente disponibile alla presa diretta dell'uomo. Perciò nella nozione platonica di filosofia, anche se un posto centrale è occupato da quella verità che essa desidera scoprire, assumono una parte di rilievo anche la condizione dell'anima, la qualità dei suoi desideri e l'orientamen­ to delle sue convinzioni.

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Etica e politica : la Repubblica È caratteristico del pensiero antico, almeno per quanto riguarda l'epoca classica, che non vi sia una distinzione netta tra etica e politica; e que­ sto vale, in particolare, proprio per Platone. Di conseguenza sarebbe ab­ bastanza ozioso tentare di distinguere, all' interno dei dialoghi, quelli che hanno per oggetto l'etica e quelli che hanno per oggetto la politica; non sembra accettabile, in particolare, l' idea sostenuta da alcuni studiosi (ad esempio Annas, 1981), secondo cui i veri scritti platonici di politica sareb­ bero il Politico e le Leggi, mentre il tema della Repubblica sarebbe piuttosto l'etica. Perciò inizieremo la trattazione delle dottrine politiche di Platone proprio da quest 'ultimo dialogo. Il primo libro della Repubblica ha la struttura di un tipico dialogo so­ cratico di definizione. Il tema è la natura della giustizia. Socrate qui si limi­ ta a confutare alcune opinioni correnti sull'argomento: quella molto tra­ dizionale esposta da Polemarco, secondo cui la giustizia consiste nel fare del bene agli amici e del male ai nemici (n1e-33u), e quella provocatoria del sofista Trasimaco, secondo cui la giustizia sarebbe l'utile di chi di volta in volta comanda (338c). Ma, fedele al comportamento del Socrate dei pri­ mi dialoghi, non dà alcuna risposta in proprio, e dunque fa per andarsene, come se avesse esaurito il suo compito. Se tuttavia la discussione non finisce qui, è perché Adimanto e Glau­ cone (i due fratelli di Platone, con cui Socrate dialoga nei libri restanti) non si accontentano, e chiedono a Socrate, all' inizio del II libro, di non limitarsi alla confutazione, ma di tentare di risolvere il problema in modo positivo. In particolare, essi pongono la questione seguente (anche in mar­ gine alla tesi di Trasimaco) : è proprio vero che la giustizia è desiderabile di per sé (ossia procura la felicità dell'agente) ? o non è forse vero, come molti ritengono, che convenga piuttosto apparire giusti esteriormente, ma che in concreto sia molto più felice chi pratica l' ingiustizia ? Per stimolare una risposta soddisfacente da parte di Socrate, Glaucone e Adimanto espon­ gono provocatoriamente una lunga serie di argomenti a favore di questa seconda posizione. In tal modo vengono precisati i confini della ricerca, che si muove tut­ ta all' interno dell'eudemonismo etico che ben conosciamo. La risposta di Socrate alle obiezioni di Glaucone e Adimanto (che poi costituisce il nu­ cleo filosofico della Repubblica) non è altro che il tentativo di mostrare un modo possibile in cui virtù e felicità coincidano, sia a livello individuale

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sia a livello sociale. E poiché l'obiettivo in entrambi i casi è il medesimo, si può verificare ancora una volta l'osmosi perfetta tra etica e politica. È appunto sulla base di questa simmetria tra individui e società che Socra­ te può proporre di cercare anzitutto la giustizia nello Stato, più o meno come si fa quando ci si serve di una lente di ingrandimento (368c-369a) . L o Stato è necessario perché nella società vi sono molti bisogni, fr a cui in primo luogo quelli materiali (la casa, il cibo, il vestiario ecc.). Per soddisfa­ re tali bisogni occorre operare una rigida divisione dei compiti, in modo che ciascuno si occupi solo delle attività per le quali è portato e che perciò gli riusciranno nella maniera migliore (369b-371b). È necessario quindi stabilire una classe di cittadini deputata a soddisfare i bisogni materiali: ad essa verranno affidate le attività produttive e commerciali. Ma i bisogni aumentano e si complicano progressivamente. Gli uomi­ ni non si accontenteranno della pura sussistenza (questa sarebbe, osserva causticamente Glaucone, una città di "porci", 37i.d) e avranno desiderio di beni maggiori. Così nasceranno nuove attività e nuove classi di produttori, fino a che il territorio non sarà più sufficiente a contenere gli abitanti dello Stato. Da questo contrasto di interessi nascono le guerre tra le nazioni. L' inevitabilità della guerra impone la nascita di una seconda classe, quella dei guardiani o guerrieri, che avranno il compito di difendere lo Stato. I guardiani non sono però soltanto dei soldati tecnicamente esperti nell 'ar­ te della guerra. Tanto meno sono sufficienti determinate qualità fisiche. Come i cani ben addestrati, devono essere capaci di durezza verso i nemici, di mitezza e benevolenza verso gli amici. Da un punto di vista puramente naturale, sembra che tali qualità siano opposte, e perciò incompatibili. In­ fatti la natura non basta. Affinché possa essere mite e violento a seconda dei casi, è chiaro che il guardiano deve sapere quando e con chi esercitare queste due opposte attitudini. Deve conoscere chi è amico e chi è nemico, perciò (così potremmo integrare il dettato platonico) deve conoscere ciò che è bene e ciò che è male. Dunque è necessario che il guardiano sia filo­ sofo (376c), e perciò che si trovi un modello educativo adatto allo scopo. I guardiani devono essere educati mediante la ginnastica e la musica (dove musica comprende tutte le discipline artistico-letterarie). Questa divisione si basa sul fatto che 1' anima umana è sempre legata a un corpo, che influisce su di essa. La ginnastica e la musica sono necessarie e devono collaborare allo stesso fine, ossia a produrre negli individui 1' armonia psi­ cofisica, un'equilibrata uniformità di intenzioni e comportamenti. Ecco perché Platone sostiene che nella "musica" non solo devono essere esclusi

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quegli argomenti che risultano dannosi alla salute dell'anima, come de­ scrizioni irriverenti degli dei e degli eroi, o rappresentazioni di modelli comportamentali negativi; ma devono essere anche escluse le armonie la­ mentose o languide, e raccomandate al loro posto quelle austere, capaci di incitare al coraggio e alla fermezza. Così devono essere evitati i ritmi irre­ golari, che si addicono e si accordano ai vizi, e promossi i ritmi di qualità contraria ( 3 99c-403c ) . Allo stesso modo la cura del corpo deve mirare non solo alla salute, ma anche a sviluppare nell'uomo determinati atteggiamenti morali, come l'equilibrio e la temperanza. In questo senso Socrate può dire che sia la musica che la ginnastica hanno come loro obiettivo soprattutto lanima ( 410c ) , il che significa che il corpo conserva la sua natura essenzialmente strumentale. Ma in rapporto ai dialoghi precedenti questa funzione risulta decisamente ampliata, tanto che il corpo può addirittura diventare stru­ mento dell'educazione. E se nella Repubblica vi è un giudizio profonda­ mente negativo di quanti coltivano la ginnastica senza occuparsi della mu­ sica, è negativo anche il giudizio di chi fa lopposto, perché diviene troppo molle e rilassato. Resta ora da dire come verranno scelti, all' interno dei guardiani, coloro che dovranno governare. A questo fine Platone enuncia uno dei principi fondamentali di tutto il suo pensiero politico. Sappiamo che i governanti, se veramente sono tali, devono tendere a fare il bene dello Stato. Ma si sentirà veramente sollecitato a fare il bene dello Stato solo chi ritiene che il benessere ( o felicità ) dello Stato coincida con il suo benessere ( o felicità) personale ( 412d ) . Socrate riconosce che è vano attendersi un comporta­ mento giusto e corretto da un governante il quale ritenga che tra il suo bene e quello dello Stato vi sia qualche differenza: questo governante agirà in modo giusto solo nella misura in cui teme di pagarne le conseguenze, ma in tutti gli altri casi seguirà infallibilmente ciò che crede che sia il suo interesse, e metterà da parte quello dello Stato. Esattamente per tale motivo Platone riteneva che non tutti gli uomini avessero le qualità richieste per diventare governanti. I candidati a questo ruolo devono essere scelti con cura in base alle attitudini naturali, educati con la massima attenzione perché tali qualità si sviluppino e non si corrom­ pano, e poi esaminati periodicamente. Platone però si rendeva conto che questa selezione attitudinale può facilmente apparire odiosa. A questo fine egli inventa l'utile menzogna del mito delle razze, riadattando un racconto di Esiodo. La divinità ha creato tutti gli uomini fratelli, ma ne ha distinto

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i caratteri: a chi era destinato a governare ha mescolato dell'oro nella gene­ razione, agli ausiliari (cioè ai guardiani non governanti ) dell'argento, ferro e bronzo ai lavoratori. Ora, se d'ordinario bisogna aspettarci che il figlio di uomini d'oro abbia le stesse caratteristiche del padre, questa non è tuttavia una regola assoluta, perché può ben succedere che i figli siano migliori o peggiori. Allora sarà necessario inserire ciascuno nella classe che gli spetta per natura, e non in quella che gli spetterebbe per nascita ( 414b-415d ) . È dunque falso ritenere che per Platone la divisione del lavoro e il mito delle razze esprimano una concezione grettamente aristocratica della so­ cietà. Al contrario le ipotesi platoniche tengono conto di esigenze che sono ancora quanto mai attuali: che ciascuno abbia la possibilità di fare davvero ciò per cui ha attitudine, indipendentemente dal ceto in cui è nato. Ma c 'è ancora di più. La divisione secondo le attitudini corrisponde in Platone a una divisione secondo i bisogni, per cui chi non ha l' indole per diventare filosofo-governante è comunque una persona che non vor­ rebbe diventarlo mai, perché nella vita del filosofo non troverebbe nulla di utile alla sua felicità. Una dimostrazione implicita di questo fatto si trova nelle ultime pagine del III libro, laddove Socrate teorizza quello che poi è diventato celebre con il nome di comunismo platonico. I guardiani ( e dunque anche i governanti ) non devono possedere alcun bene in proprio, come case o denaro, e riceveranno quanto serve alla loro sussistenza dagli altri cittadini, con riguardo unicamente alla necessità ( 415d-417b ) . Il fine di queste disposizioni è quello di far sì che l' interferenza di interessi privati non corrompa la purezza del fine al quale governanti e guardiani si devo­ no interamente dedicare : custodire lo Stato e promuovere il suo bene. Né Platone voleva con questo demonizzare il denaro e le ricchezze. Egli voleva semplicemente dire che chi mira alle ricchezze materiali non ha titolo per fare il governante, perché diventerebbe un padrone odioso agli altri citta­ dini; ma potrà legittimamente esercitare la sua attitudine alle attività eco­ nomiche e promuovere il proprio guadagno appartenendo alla classe dei produttori. La divisione in classi non dovrebbe perciò creare nessun odio o invidia reciproci, perché niente è sottratto a nessuno, e tutti si trovano proprio nel posto dove vorrebbero stare. Ma siamo sicuri che sia proprio così ? Non è forse vero, come suggerisce Adimanto all' inizio del IV libro ( 419a-42oa) , che i guardiani sono alquan­ to penalizzati ? Socrate risponde che nella costruzione dello Stato bisogna badare alla felicità dell' insieme, e se tale obiettivo richiede il parziale sacri­ ficio della felicità di poche persone, non bisogna esitare ( 42ob-421c ) . Il ti-

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rocinio educativo dei guardiani descritto nelle pagine precedenti acquista così un significato inquietante. Governanti e guardiani saranno indotti, dall'educazione e dall'abitudine, ad assumere e mantenere i comporta­ menti adatti al benessere dello Stato, e a credere che solo tali comporta­ menti siano in grado di renderli felici. Platone sembra dunque consapevo­ le del fatto che il problema di conciliare gli interessi individuali con quelli collettivi è almeno in una certa misura insolubile. Seguendo l' impianto generale della sua etica egli è spinto da un lato a mettere l'accento sul mo­ tivo della felicità; dall'altro proprio questo motivo rappresenta in tutta la sua costruzione un pericoloso detonatore, ove si riconosca che la felicità dell'uomo ( anche se filosofo ) non può essere contenuta nei limiti piut­ tosto angusti della virtù e del bene intesi in senso platonico. Che cos'è che rende un uomo felice, e quando si può dire che una cosa è buona ? Per rispondere a questa domanda Platone segue un principio tutt'altro che evidente, che però ha agito in profondità nella tradizione culturale e fi­ losofica dei Greci: l' immobile è migliore del mobile, il semplice del com­ plesso, l'uniforme del vario, l'unità del molteplice ecc. In base a questo principio si può dimostrare che i "beni" a cui i guardiani rinunciano non sono davvero dei beni (e in particolare non lo sono per loro ) . La risposta di Socrate all'obiezione di Adimanto dimostra però che lo stesso Platone doveva nutrire almeno qualche dubbio in proposito. Ma questi dubbi ven­ gono subito messi a tacere, perché troppo forte è l'esigenza di dimostrare che la virtù pura è appetibile di per sé : condizione senza la quale non v 'è, per Platone, né etica né politica. Nel Politico e nelle Leggi, come vedremo, il rigorismo della Repubblica verrà in qualche misura attenuato. Ma il prin­ cipio di fondo rimarrà il medesimo.

La Repubblica: la giustizia e le altre virtù, nello Stato e nell'anima Una volta individuata la natura della costituzione ideale Socrate può sta­ bilire che cos'è la giustizia nello Stato. Si può istituire un'approssimativa corrispondenza fra le tre classi di cittadini e determinate virtù. Tipica dei governanti, che sono filosofi ( cioè amanti della sapienza) , è la sophia, che significa appunto "sapienza" ( 428c-429a ) . Naturalmente un siffatto sapere è appannaggio di pochi e perciò la classe dei governanti è particolarmen­ te esigua. Caratteristica dei guardiani, che hanno il compito di difendere

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l o Stato, è l' andreia, parola che s i significa "coraggio", m a che comprende dentro di sé la forza e la saldezza d'animo in generale. Anche il coraggio è una certa forma di sapere, poiché consiste nella capacità di conservare sal­ da la propria opinione sulle cose che sono da temere e sulle cose che non lo sono (429c), e dunque dipende dalla conoscenza del bene. La terza virtù, cioè la sophrosyne ("saggezza" o "temperanza") non appartiene a una sola classe, ma in vario modo a tutte ; si tratta infatti della virtù che reca ordine e moderazione nell'universo dei desideri e degli appetiti (431d). La tempe­ ranza è perciò conoscenza di ciò che è migliore e peggiore nel mondo dei desideri e l'accordo tra i medesimi, fondato sul fatto che i desideri migliori governino sui peggiori (432a). La giustizia si ricava per esclusione dalle tre virtù sopra individuate. Essa non è tanto una virtù specifica, ma è la dote che permette alle altre virtù di nascere e di conservarsi (433b) : è la virtù per la quale ciascuno nello Stato esercita solo il suo compito, quello che appositamente a lui è stato assegnato perché lo svolga nel modo migliore. L' ingiustizia, per contrasto, nasce quando i cittadini svolgono compiti che non sono di loro pertinenza. La divisione delle virtù rispecchia la divisione in classi dei cittadini, dovuta al fatto che il sapere più elevato è proprio solo di pochi, mentre la maggioranza degli uomini può al massimo possedere questo sapere come rifratto dalle proprie caratteristiche individuali. Così l'artigiano tempe­ rante non ha una conoscenza del bene pari a quella del filosofo, ma (pos­ siamo supporre) sufficiente a sapere che bene è precisamente ciò che il filo­ sofo gli indica, e non quello che potrebbe apparire tale al suo superficiale giudizio». Stabilito che cos'è la giustizia nello Stato si può chiarire che cos'è la giustizia nell' individuo, cioè nell'anima. L'analogia funziona perché an­ che l'anima, come già sappiamo (cfr. p. 67 ), è divisa in tre parti, razionale, animosa e concupiscibile. Ad esse corrispondono le stesse tre virtù carat­ teristiche delle classi di cittadini: sapienza per la parte razionale, coraggio per la parte animosa e temperanza per la parte concupiscibile (anche se la temperanza è virtù comune a tutto lo Stato e a tutta l'anima). La giustizia consisterà, allo stesso modo, nel mantenimento dell'ordine gerarchico, cosicché la ragione governi sulle altre due. È necessario, in particolare, che la parte razionale e quella animosa si alleino nel modo più stretto pos­ sibile per contenere gli impulsi sfrenati della parte concupiscibile (441c443b). La dottrina della tripartizione dell'anima ha un importante significato

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politico. Nella Repubblica esistono indizi del fatto che la vicenda socratica aveva in qualche modo giustificato la dissociazione tra filosofia e politica, tra la limpida razionalità di Socrate ( che salva sé stesso ma non la città) e il torbido mondo di istinti e desideri in cui si dibatte la gente comune ( cfr. 496d-e ) . Fino a che questa dissociazione non viene in qualche modo composta, il problema politico non può essere risolto. Secondo Platone è dunque necessario non solo che la politica si accomodi a seguire la filo­ sofia, ma anche che la filosofia tenga conto di come sono fatti davvero gli uomini: cioè che non sono e non possono essere pura ragione. Se è vero, come risulta dalla tripartizione, che gli impulsi irrazionali sono dentro I' a­ nima, allora è chiaro che il filosofo non può più fuggire, con la sua linda e lucente razionalità ( come accadeva al Socrate del Fedone, che non a caso imputava tali impulsi ai disturbi del corpo ) , via dal mondo malvagio dei desideri, perché tali desideri sono parte integrante del suo essere stesso. Dunque il filosofo non potrà più sottrarsi alla vita politica, perché è la natura stessa della sua anima ciò che gli impone la necessità del governo: anzitutto dentro di sé ; poi, per analogia, nello Stato. Ali' inizio del v libro Socrate, dopo aver parlato delle virtù, si accinge a descrivere anche i modi errati di ordinare I' anima e lo Stato ( che sono quattro ) . Ma la sua esposizione viene interrotta di comune accordo dai suoi interlocutori, che desiderano avere dei chiarimenti su quanto detto in precedenza. A un certo punto della discussione Socrate aveva detto infat­ ti, come di passaggio, che tra gli amici le cose e le donne sono in comune ( 424a) , ma non aveva spiegato bene che cosa intendesse, in particolare parlando della comunanza delle donne. La discussione che segue è articolata da Socrate in tre "ondate", cioè nel tentativo di dimostrare, resistendo all'urto inevitabile che verrebbe oppo­ sto dall'opinione comune, tre principi politici apparentemente parados­ sali. Socrate si chiede anzitutto ( prima ondata) se le donne appartenenti alla classe dei guardiani debbano svolgere le stesse attività che fanno gli uomini, e dunque ricevere la stessa educazione. La risposta è affermativa, perché le differenze naturali in molti casi sono irrilevanti. Ad esempio non avrebbe senso stabilire che i calvi potranno fare i calzolai e i chiomati no, perché questa differenza non ha alcuna relazione con l'attività del calzo­ laio. Lo stesso vale per le differenze tra uomo e donna. Il principio che Platone stabilisce, del quale non può sfuggire la modernità, è che le donne compiranno le stesse attività degli uomini nei casi e nel!'esatta misura in cui le differenze naturali non sono significative ( 4s1c-457b ) .

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Ancora più difficile è superare la seconda ondata. Platone propone che i guardiani si accoppino, per procreare, sotto la rigida sorveglianza dei gover­ nanti, che ricorrendo talvolta anche all' inganno regoleranno la generazione con metodi che oggi chiameremmo eugenetici. Non diversamente staranno poi le cose per quanto riguarda i figli: solo quelli di buona costituzione po­ tranno essere allevati in modo pubblico e dignitoso, mentre gli altri verran­ no nascosti in luoghi appartati. Né si potrà parlare di vere e proprie famiglie, perché il governo farà in modo che nessuno sappia chi è veramente suo fi­ glio, stabilendo che tutti i nati in un certo periodo chiamino padre e madre tutti coloro che hanno generato nel periodo corrispondente, e che questi ultimi ritengano i primi, indifferentemente, come loro figli (4s7b-461e). I principi che abbiamo esposto appartengono ai più discussi e conte­ stati di tutta la costruzione politica della Repubblica. Non è impossibile, tuttavia, cogliere le ragioni per cui Platone non arretra nemmeno davanti a esiti apparentemente così paradossali e irrealistici. L'obiettivo di fondo è quello di promuovere, nella misura del possibile, l' identità tra interesse pubblico e privato (46sd-466d). A chi obietta che questa identità è prati­ camente irrealizzabile, Platone potrebbe replicare che è ancora più irreali­ stico, ove questa coincidenza non vi sia, sperare che i governanti operino in favore della comunità piuttosto che di sé stessi. Né bisogna dimenticare, in secondo luogo, che qui si tratta più che altro di trovare un modello da cui dedurre delle linee-guida; non di costruire uno Stato che sia fatto esattamente così. Quanto abbiamo ora detto trova nella Repubblica dei precisi riscontri. Quando Socrate enuncia per la prima volta la legge sul­ la comunanza delle donne, Glaucone obietta che tale legge potrebbe non essere utile né realizzabile (457d). Nella sua risposta Socrate invita il suo interlocutore a tenere distinti i due problemi, e chiede licenza di trattare il secondo dopo aver esaurito il primo. E quando alla fine della discussione della seconda ondata Glaucone osserva che è inutile fantasticare in astrat­ to, senza preoccuparsi della concreta realizzabilità del progetto, Socrate rammenta che la discussione è pervenuta a delineare lo Stato perfetto con lo scopo di stabilire che cos'è la giustizia, ossia per individuare un modello ideale (472b-e). Il conseguimento di questo obiettivo è la premessa ne­ cessaria per affrontare il discorso della realizzabilità. Non si dovrà preten­ dere che l'uomo e lo Stato giusto si conformino esattamente al modello (473a-b). Ma la definizione del modello è il passo obbligato per trovare un criterio in base al quale stabilire la misura della giustizia: tanto più giusti saranno un uomo e uno Stato quanto più si avvicinano al modello descrit-

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to, e tanto più ingiusti quanto più se ne discostano (identica concezione è esposta anche nelle Leggi; cfr. ad esempio 746a-d)'3•

Giustizia e felicità : gli esiti etici e politici della Repubblica Anche la "terza ondatà', ossia il suggerimento di attribuire il governo ai filosofi, deve essere difesa contro le critiche (o, peggio, lo scherno) della mentalità comune, secondo cui i filosofi sono persone inette dal punto di vista pratico (cfr. Gorg. 484c-486d; Phaed. 64a-b ; Theaet. 174c-175b). L' idea di Platone, del resto già abbozzata in altri dialoghi, è che proprio in quella che al volgo pare inettitudine si celano le caratteristiche decisive per dire che il filosofo è l'unico vero politico (cfr. Trabattoni, 2007b). Chi è dunque il filosofo ? Il filosofo è colui che desidera il sapere nella sua totalità e completezza, perciò può essere definito come chi ama contemplare la verità (Resp. 475e). Tale definizione è poi chiarita mediante la teoria delle idee : il vero filosofo differisce dall'uomo contemplativo di basso profilo perché l'oggetto del suo amore sono le cose che si colgono con l' intelletto e il pensiero, e consistono nel giusto, nel bene e nel bello in sé. Questa è la ragione decisiva per fare di lui l'unico vero uomo politico. Inoltre il filosofo è naturalmente sincero, perché ama la verità; è disinteressato nei confronti dei beni materiali, perché apprezza solo i piaceri dell'anima; è in grado di guardare le cose dal punto di vista dell'universale, e non solo dalla sua particolare prospettiva; apprende facilmente, perché è proprio a questo che tende il suo desiderio ; è amante dell'equilibrio e della misura, perché tale è il modo di essere affine alla verità (484a-487b). Se il filosofo può apparire un inetto, è semplicemente perché la gente comune non è in grado di comprendere la sua vera natura e perché egli è effettivamente inadatto a vivere in modo attivo nella corruzione morale e politica di cui sono pervasi tutti i regimi correnti. La descrizione del filosofo presentata nella Repubblica oscilla tra I' imma­ gine, che già conosciamo dal Simposio, del filosofo come colui che desidera un sapere che non possiede, o possiede solo in parte (in questo senso ciò che lo distingue dal volgo non è tanto la qualità del suo sapere, quanto la qualità del suo desiderio), e limmagine di quello che sarebbe invece il filosofo nella condizione ideale che vi è descritta, ossia un ipotetico sapiente "compiuto", in grado di conoscere in modo pieno lidea del bene e il cosmo noetico che da essa dipende. Ma se il discorso che abbiamo svolto sin qui è accettabi-

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le, questa oscillazione non costituisce affatto un problema: ciò che appare perfetto nel modello ideale diviene il criterio per valutare le situazioni con­ crete, per cui la pura idealità del modello, non che essere un difetto, è al contrario condizione necessaria per orientare al bene la vita etico-politica. Questo principio di proporzionalità è chiaramente all'opera anche in rapporto alle tesi della Repubblica sull'educazione dei filosofi. Nel model­ lo ideale, così come il filosofo è in realtà un sapiente perfetto, allo stesso modo è possibile ipotizzare una tecnica ideale altrettanto perfetta (dun­ que infallibile) per programmare la sua indefinita riproducibilità. Così Platone delinea uno specifico corso di studi dedicato esclusivamente ai filosofi-governanti. Esso si incentra principalmente su quel complesso di scienze che nel Medioevo verrà chiamato "quadrivio": aritmetica, geome­ tria, astronomia e musica. Quinta, e più alta di tutte le scienze, è poi la dialettica. Le scienze matematiche hanno infatti uno scopo preparatorio: quello di condurre lanima verso la comprensione puramente intellettiva (523a). A questo fine è particolarmente adatto lo studio di cose che susci­ tano impressioni contraddittorie. Poiché con laiuto dei soli sensi lanima non è in grado di uscire da queste strettoie, è costretta a vedere il grande e il piccolo separatamente, per mezzo dell' intelletto (524c). Mediante tale esercizio essa impara la necessità di porre una realtà e un ordine intelli­ gibile accanto alla realtà e all'ordine sensibile, e in questo consiste il suo straordinario valore educativo. Quanto alla dialettica, nella Repubblica Platone è piuttosto parco di informazioni. Ma c 'è una caratteristica generale che viene particolarmente sottolineata. Già nella trattazione delle altre scienze, così come nel mito della caverna, la dialettica si configura più come latto del dialegesthai, cioè del "discutere", che come una scienza noetica pura (525d, 528a). Allo stesso modo, quando Platone inizia a parlare direttamente della dialettica come del genere di sapere più alto, egli utilizza per definirla una formula in cui l'allusione all'atto concreto del dialogare, dell' interrogare e rispon­ dere, non potrebbe essere più chiara: è escluso dal sapere più elevato (cioè dall'oggetto della dialettica) chi (letteralmente) « non è capace di dare e ricevere ragione - o discorso [logos] » (53 1e). È proprio questa capacità la tecnica che permette agli uomini, con riferimento al mito della caverna, di raggiungere con l intelletto il limite di ciò che è intelligibile, così come la vista giunge ai limiti del visibile (532a-b ). Il fatto che linfallibile "tecnica" politica descritta nella Repubblica abbia carattere puramente ideale è documentato, non senza un pizzico di ironia,

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da quella specie di abbozzo di "filosofia della storia" che leggiamo nel libro VIII. Qui Socrate immagina che la costituzione perfetta si sia in qualche modo già realizzata e illustra il suo progressivo disfacimento in forme politi­ che sempre peggiori. Ma come è possibile, in generale, questo decadimento ? In un passo apparentemente singolare Socrate afferma che verrà necessaria­ mente il momento in cui i governanti non saranno in grado di conoscere il « numero nuziale » che regola le procreazioni (546d), cosicché nasceran­ no degli uomini inadatti al compito che verrà loro affidato. In realtà non è difficile capire che cosa Platone vuol dire. Secondo i cardini della sua me­ tafisica ciò che è perfetto e ideale è anche eterno e immutabile. Lo Stato ideale descritto nella Repubblica, se pensato come reale, diviene un tentativo contraddittorio di collocare qualcosa di eterno nel mondo di ciò che divie­ ne, ossia qualcosa capace di riprodursi indefinitamente senza mai decadere. Ma questo è impossibile, perché il mondo sensibile è l'ambito in cui le cose nascono e muoiono. Platone era ben consapevole di questa contraddizio­ ne fin dall' inizio, laddove ha spiegato in che modo la città ideale potrebbe "nascere": ciò che ha una nascita, infatti, non può essere eterno (e dunque nemmeno ideale), perché è per natura destinato a corrompersi (546a). Dal decadimento della città ideale (o aristocrazia, cioè "governo dei migliori", 544e) si sviluppano, secondo un processo di peggioramento con­ tinuo, la timocrazia (dove il valore dominante è la time, ossia l' "onore"), l'oligarchia (dove il valore dominante sono le ricchezze), la democrazia (dove il valore dominante è la libertà), la tirannide. L'analisi di questi pas­ saggi è assai suggestiva, e per certi versi richiama le dinamiche in atto nei sovvertimenti politici comuni nel mondo antico (e non solo). Ma non ci soffermeremo su questi sviluppi. Facciamo soltanto notare che l'obiettivo di questo lavoro consiste nel cogliere finalmente i risultati che permettono di rispondere al quesito posto da Glaucone e Adimanto nel II libro, che aveva per oggetto la felicità del giusto. Con la sua analisi delle costituzioni "degenerate" Platone dimostra che laddove regna la tirannide quivi è anche il massimo di rovina, di ingiustizia e di discordia in uno Stato, in tutto e per tutto l'opposto del buon regime « aristocratico » . Poi nel libro IX, ripercor­ rendo a ritroso l'analogia anima-Stato proposta nel II libro, Platone spiega che il filosofo (ossia l' individuo di riferimento per quanto riguarda lo Stato ideale, o aristocratico) è infinitamente più felice del tiranno (ossia l' indi­ viduo emblematico della costituzione corrispondente, ossia la tirannide). L' idea di fondo, ovviamente, è che la felicità non può non consistere nella razionale e naturale (a un tempo) armonia delle funzioni e delle parti dell'a-

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nima (e dello Stato) ; per cui la condizione del tiranno, dove regna un totale sovvertimento di questo ordine, sarà necessariamente infelice. Il tiranno, infatti, essendo schiavo della sua parte peggiore, non si può dire che faccia davvero quello che vuole (qui Platone riprende e definisce meglio un pro­ blema che aveva già discusso nel Gorgia); in secondo luogo, alla luce della tripartizione dell'anima che conosciamo, il filosofo è l'unico che abbia pro­ vato tutti i tipi di piaceri (dunque sia quelli sensibili sia quelli intellettuali) : perciò sarà indubbiamente il miglior giudice; infine, mentre i piaceri sensi­ bili rappresentano solo la cessazione di un dolore corrispondente, e dunque innescano una dialettica infinita e mai risolta tra bisogno e soddisfazione (Platone rivedrà parzialmente nel Filebo questa posizione, cfr. p. 106), i pia­ ceri dell'anima sono invece puri e dunque totalmente buoni (577c-586c). Affermando la massima felicità del filosofo e la massima infelicità del tiranno, la Repubblica ripropone la stessa tesi del Gorgia, ma in modo più efficace e filosoficamente fondato. Nel Gorgia, infatti, da un lato la posi­ zione immoralista e filotirannica di Gorgia non è mai veramente sconfitta, e dall'altro sembra che la soluzione definitiva sia affidata ai premi e ai ca­ stighi ultraterreni di cui parla il mito finale. È significativo, invece, il fatto che nella Repubblica questa strada non sia imboccata. Il dialogo si chiude anch'esso, è vero, con un mito di carattere escatologico (il celebre mito di Er, libro x ) . Ma in primo luogo Socrate ha cura di osservare che il nesso felicità-virtù sussiste anche senza "coperture" ultraterrene. In secondo luo­ go il mito di Er ha in realtà un altro scopo. Platone immagina che Er, un uomo valoroso originario della Panfilia, abbia avuto la possibilità di vedere quello che accade dopo la morte, con lo scopo di riferirne poi agli altri: gli uomini malvagi sono puniti nelle viscere della terra per un tempo pari a dieci volte la vita umana (cioè, ap­ prossimativamente, mille anni), mentre ai buoni tocca un destino ugua­ le e contrario nel cielo. Allo scadere del ciclo tutti gli uomini (tranne i malvagi incurabili) sono ricondotti a nuova vita. Qui viene introdotto il secondo motivo, quello della libertà: le vite successive non sono assegnate dal destino, ma sono scelte da ciascuna anima. L'unico elemento lasciato al caso è l'ordine dei turni nella scelta, che viene stabilito per sorteggio. Ma l' incidenza del caso non è determinante, perché il numero delle vite è maggiore di quello delle anime, cosicché anche chi sceglie per ultimo ha la possibilità di ricevere una vita, se non ottima, almeno non cattiva. Il motivo per cui Platone ha escogitato questo bizzarro racconto della scelta della vita futura appare con chiarezza da quello che Lachesi (una del-

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le tre Parche, presenti nel mito) dice alle anime che devono reincarnarsi: «Anime dall'effimera esistenza corporea, incomincia per voi un altro perio­ do di generazione mortale, preludio a nuova morte. Non sarà un demone a ricevervi in sorte, ma sarete voi a scegliervi il demone. Il primo che la sorte designi scelga per primo la vita cui sarà poi irrevocabilmente legato. La virtù non ha padrone; secondo che la onori o la spregi, ciascuno avrà più o meno. La responsabilità è di chi sceglie, il dio non è responsabile » ( 617d-e; trad. F. Sartori, in Giannantoni, 1971). Platone intende qui stabilire un presup­ posto indispensabile per tutta la sua costruzione etico-politica: ossia che l'uomo dispone di una significativa libertà di scelta'4• Se infatti così non fosse, il retroterra profondamente umanistico (nel senso che l'uomo è il vero artefice della sua felicità) che regge la struttura della Repubblica, e più in generale tutta l'etica e la politica di Platone, non starebbe in piedi. A ben guardare, non sembra un caso che nell'ultimo libro della Repub­ blica questo mito sia accostato a una severa critica della poesia. Infatti il libro si era aperto con la famosa tesi secondo cui i prodotti dell'arte oc­ cupano un livello ontologico molto basso, poiché sono copie (l'arte, in effetti, è imitazione) di oggetti (quelli sensibili) che sono a loro volta copie delle idee. Qual è il senso, ci si potrebbe chiedere, di questo accanimento (ricordiamo che la poesia era già stata criticata a fondo nei libri II e III ) ? Il fatto è che per Platone i poeti sono in un certo senso i responsabili di tutte le idee storte che gli uomini hanno sulla loro vita, sul modo di condurla e sul suo significato ultimo. Tra cui lo stesso problema del destino : i motivi del fato irrevocabile, la tragica visione degli uomini come vittime di una sorte che gli dei hanno scelto per loro erano luoghi comuni sui quali la po­ esia, soprattutto epica e tragica, aveva insistito con particolare frequenza. Nell'ultimo libro della Repubblica, dunque, Platone critica la poesia sotto un profilo generale, in quanto lontana dalla verità filosofica; ma allo stesso tempo offre un esempio, con il mito di Er, di come si può fare una poesia che rispetti nella forma (la prosa) e nel contenuto i dettami della filosofia.

I dialoghi dialettici: Teeteto, Parmenide (e Filebo) Secondo l' ipotesi cronologica più plausibile, poco dopo aver ultimato la

Repubblica Platone comincia a scrivere i dialoghi dialettici, iniziando dal Teeteto e dal Parmenide. Si tratta di dialoghi complessi, sia nella tematica sia nelle argomentazioni, in cui Platone affronta sottili questioni ontolo-

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giche ed epistemologiche, secondo uno stile di pensiero che a molti lettori è apparso assai diverso da quello più appassionato ed eticamente militante tipico della produzione precedente. Sarebbe inesatto, tuttavia, parlare di una vera e propria svolta. In realtà la sequenza ideale dell'argomentazione platonica non manca di una sua precisa linearità. Lo scopo fondamentale della filosofia di Platone è e rimane pur sempre quello del rinnovamento etico e politico. Ma questo rinnovamento, come illustrato chiaramente dalla Repubblica, si fonda sul sapere. Stabilito questo, non è più sufficiente né denunciare i falsi saperi (operazione di cui si erano incaricati i dialoghi giovanili) né alludere indicativamente a un sapere filosofico (la dialettica) capace di garantire a chi lo possiede un ruolo direttivo nella vita etica e politica (come accade nella Repubblica) . Ora è necessario mostrare positi­ vamente in che cosa questo sapere consista, qual è il suo contenuto e quali sono i metodi per acquisirlo. Questa operazione si rivela, tuttavia, tutt 'al­ tro che semplice, come mostrato dal fatto che i dialoghi dialettici in parte non sono conclusivi (così il Teeteto e il Parmenide), in parte appaiono dif­ ficili da decifrare ; e in generale non sono ben chiare le articolazioni che li legano luno ali' altro. Una possibile spiegazione di questo fatto deriva dalle caratteristiche della metafisica e dell'epistemologia platonica che abbiamo illustrato nelle pagine precedenti. In un contesto teorico in cui i principi metafisici (le idee) sono postulati come ipotesi necessarie per spiegare le contraddizioni dell'esperienza, o per rappresentare l'unica valida alternativa alle dottrine contraddittorie di altri filosofi (ad esempio Eraclito o Protagora), è molto più facile elaborare laspetto negativo e critico del sapere filosofico piutto­ sto che quello costruttivo. In altre parole, la parte costruttiva della filosofia platonica è negativamente segnata dal fatto che le idee sono comunque og­ getti trascendenti, che non si offrono all' intelletto con evidenza. Questo fatto comporta alcune conseguenze importanti. In primo luogo la stessa esistenza delle idee non si può considerare dimostrata una volta per tutte, ma è necessario tornarci sopra sempre e di nuovo (cfr. il Parmenide). L'esi­ stenza delle idee, in secondo luogo, può essere in qualche modo mostrata solo eseguendo concretamente il lavoro che conduce almeno parzialmente a conoscerle (la dialettica) ; e questo procedimento, oltre che fondarsi su un metodo di conoscenza necessariamente indiretto, non può non avere un carattere circolare (solo chi accetta previamente l'esistenza delle idee può ritenere che esse siano oggetti di conoscenza; solo chi già conosce in qualche modo le idee può sapere che oggetti di questo genere esistono)•\

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Infine, e sempre per la stessa ragione, la battaglia contro falsi saperi quali la retorica e la sofistica in realtà non può mai considerarsi vinta una volta per tutte. Una volta chiarito che l'evidenza non è patrimonio di nessuno, l'operazione di distinguere tra la vera filosofia e i falsi saperi appare sempre meno come un netto colpo di scure, e sempre più come l' individuazione, straordinariamente complessa, di differenze che devono essere significati­ ve pur nell'apparente prossimità. Ed ecco perché il Platone più tardo torna di nuovo a confrontarsi con la retorica (nel Fedro) e con la sofistica (nel

Sofista). Verificheremo la fondatezza del quadro che abbiamo proposto dialogo per dialogo, iniziando dal Teeteto'6• Possiamo considerare questo dialogo un tentativo di esecuzione dell'agenda proposta dalla Repubblica. Qui si era mostrato che il buon governo pubblico e privato dipende dalla scienza (episteme), nell'esatta misura in cui la si possiede. Ma poiché, per il solito argomento dei gradi, le misure intermedie dipendono dalla misura mas­ sima, e poiché nel nostro caso la misura massima è una scienza perfetta e infallibile (cfr. Resp. 477e), ecco che il Teeteto tenta di chiarire in che cosa questa scienza consista, ponendo appunto la domanda "socratica" "che cos'è lepisteme?". Tre sono le risposte offerte dal dialogo, ma nessuna si dimostra soddi­ sfacente; così il dialogo sembra riproporre la struttura aporetica caratte­ ristica dei primi dialoghi cosiddetti "di definizione". In realtà l'analogia è solo apparente, perché l'esito aporetico nel Teeteto nasconde una conclu­ sione tutt'altro che negativa. Da un punto di vista generale questo dialogo rappresenta nel modo migliore, insieme al Parmenide, l idea sostanzial­ mente media che ha Platone del sapere filosofico, compreso tra la scoperta delle sue possibilità e la contemporanea consapevolezza dei suoi limiti. Il tema delle "possibilità" emerge nell'esame della prima risposta nel Teeteto, ossia che lepisteme è sensazione (cfr. p. 41). Quivi Socrate dimostra che se è necessario che l'uomo si ponga sulle tracce dell'episteme, ossia del sa­ pere vero, deve obbligatoriamente cercare questo sapere al di fuori della conoscenza sensibile, perché questa conoscenza non possiede per natura i requisiti richiesti. Il tema dei "limiti'', invece, viene alla luce nel modo in cui Socrate discute (e confuta) le altre due proposte di Teeteto, ossia che episteme sia "retta opinione" o "retta opinione accompagnata dal logos". Il passaggio dalla sensazione alla retta opinione è stigmatizzato, nel dia­ logo, come un passaggio verso quel processo che si attua quando «l'anima si affatica in sé stessa intorno agli enti » ( 'Jheaet. 187a; trad. mia). Il fatto

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che si parli ancora di doxa, anche se la conoscenza sensibile è ormai fuori gioco, non deve creare problemi, perché ora questa parola significa sem­ plicemente "giudizio" (cfr. p. 53). Quello che il dialogo cerca di capire, una volta scoperto che l episteme non è data dalla sensazione, è se l intelletto (lanima) la può trovare da sé, come prodotto autonomo della sua riflessio­ ne. Ma la risposta è negativa (ecco dunque l'enunciazione del limite). La definizione di episteme come retta opinione cozza contro la constatazione che l'esistenza dell'opinione falsa sembra impossibile. O meglio, ci può essere opinione falsa ladovve il problema sia un' interazione scorretta tra l' intelletto e i sensi. Sembra invece che sia impossibile laddove l intelletto lavora tra sé e sé: non si capisce infatti come uno possa scambiare, tra sé e sé, una cosa che sa con una cosa che non sa; e ancor meno con una cosa che non sa ( Theaet. 1 87d-20oc). Poiché sembra davvero difficile ritenere che Platone contestasse l'esi­ stenza di una cosa tanto evidente come "l'opinione falsa': per capire questa parte del Teeteto è necessario procedere dialetticamente (ossia ricavare la tesi di Platone, in negativo, dall'apparente assurdità di quanto affermato). A quali condizioni, ci si può chiedere, qualcosa come }"'opinione falsa': intesa come "giudizio falso': sarebbe impossibile ? Questo accadrebbe qualora si verificasse un contatto diretto e immediato tra l' intelletto e I' in­ telligibile. Se lepisteme, intesa come scienza infallibile, fosse disponibile all'uomo, questo contatto vi sarebbe, e dunque diventerebbe impossibi­ le giudicare falsamente. Il Teeteto, che ha per oggetto appunto la ricerca di questo sapere infallibile, immagina che questa ricerca sia coronata da successo, e mostra che in questo caso l 'opinione falsa sarebbe impossibi­ le. Ma è chiaro che la lettura dialettica non consente di fermarsi qui. Il lettore non può non rendersi conto che la possibilità di opinare il falso è un fatto ovvio e assodato. Di conseguenza l'analisi di Platone lo spinge a trovare il senso del discorso muovendo a ritroso : se è evidente che l'opinio­ ne falsa è possibile, allora è necessario negare che lepisteme, intesa come sapere infallibile, sia veramente disponibile all'uomo'7• Ecco dunque che alla possibilità si congiunge il limite: la prima parte del Teeteto invita a cer­ care lepisteme nel pensiero e non nella sensazione; la seconda avverte che sarebbe tuttavia illusorio pretendere che questo percorso possa concedere all'uomo un sapere assoluto, completamente al riparo dall'errore. Il tema del limite domina anche la terza definizione di episteme propo­ sta: "retta opinione accompagnata dal logos". Questa definizione è confutata perché in nessuna delle tre accezioni di logos che Socrate prende in conside-

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razione il logos sembra poter aggiungere qualcosa di veramente decisivo per superare il giudizio (doxa), quando questo è corretto. Molti studiosi hanno spiegato questo fallimento dicendo che qui Platone tace volutamente la vera accezione di logos, che renderebbe la definizione esatta. Ma il problema vero è un altro. Come abbiamo mostrato a suo tempo (cfr. p. 53), il logos non ha di per sé il potere di superare completamente la doxa, perché è pur sempre sottoposto a quella forma di doxa che è il giudizio. Il logos umano, in altre parole, è fallibile per natura: per cui, se è vero che un'opinione vera fondata sul logos è incomparabilmente preferibile a una che non lo è e all'occor­ renza, per contrasto, può essere chiamata episteme deve anche esser chiaro che l'episteme come sapere infallibile non è appannaggio dell'uomo. Una tensione sostanzialmente analoga tra possibilità e limiti, per quan­ to diversamente orientata, troviamo nel Parmenide. Quivi Platone crea un dialogo immaginario ambientato ad Atene tra il vecchio Parmenide ( ac­ compagnato dal suo discepolo Zenone) e un giovanissimo Socrate. Zeno­ ne ha appena terminato di leggere il suo libro, in cui tenta di difendere Parmenide mostrando che le tesi sostenute dai suoi oppositori sono alme­ no altrettanto paradossali di quelle sostenute dall'eleate. Ad esempio, chi sostiene che l'essere è molteplice e non uno si imbatte nel problema di do­ ver spiegare come mai le stesse cose appaiano simili e dissimili al medesimo tempo. Socrate interviene facendo capire che questi problemi sono facil­ mente risolvibili: basta postulare l'esistenza di un secondo piano dell'es­ sere, quello delle idee, a cui le cose sensibili partecipano. In tal modo una stessa cosa può essere detta simile e dissimile perché partecipa allo stesso tempo di entrambe queste idee, e così il simile e il dissimile non entrano più, come pensava Zenone, in contraddizione fra loro (128e-13oa). Parme­ nide replica a Socrate esponendo un certo numero di obiezioni contro la dottrina delle idee. Secondo questa teoria le idee sono quelle cose di cui partecipano gli oggetti che da esse traggono il nome, per cui vengono dette belle le cose che partecipano della bellezza, grandi quelle che partecipano della grandezza e così via (13oe-131a). La prima critica scaturisce diretta­ mente da questa definizione. Se l' idea della piccolezza è quella cosa unica di cui partecipano le molte cose piccole, avremmo o che l' idea si moltipli­ ca per ognuno degli oggetti partecipanti, con il risultato che non sarebbe più una (o sarebbe separata da sé stessa), oppure che si divide, in modo che ciascuno di tali oggetti partecipa solo di una sua parte. Ed entrambe le cose sono impossibili, perché l' idea è unica per definizione (131c-e). La seconda critica è quella cosiddetta del "terzo uomo". Se l' idea x (ad esempio -

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l' idea di grande) viene posta per spiegare il fatto che molti diversi oggetti hanno x come caratteristica comune, si può sempre pensare a un insieme che contenga, oltre agli oggetti che hanno la qualità x, anche la stessa idea x, con il risultato che sarà necessario porre una seconda idea (dunque un "terzo" x) capace di giustificare il fatto che gli oggetti qualificati con x e l' idea x hanno x come caratteristica comune ( 132.a-b) : nell'esempio che poi farà Aristotele, quando citerà questo stesso argomento contro Platone, sarà necessario ipotizzare l'esistenza di un "terzo uomo". Da questa prima parte della discussione si ricava che le idee sono pen­ sate come una sorta di oggetti o di cose ; e questo vale sia che le si intenda direttamente come oggetti che si moltiplicano o dividono nelle cose sen­ sibili (cfr. la prima critica), sia che le si intenda come modelli ai quali le cose assomigliano, perché questa relazione di somiglianza implica il fatto che le idee siano delle "cose" provviste di determinati attributi. Questo sfondo permette di capire il motivo per cui Socrate (132b) formula l ' ipo­ tesi che le idee esistano soltanto nell'anima dell'uomo : perché in questo modo entrambe le obiezioni ora enunciate non sarebbero più pertinenti. Ma in questo modo entra in crisi la nozione di partecipazione (che invece è essenziale mantenere per risolvere i paradossi di Zenone). Se affermiamo che le cose partecipano realmente delle idee, è assurdo ritenere che le idee esistano solo nell'anima (cioè siano solo pensieri), perché un rapporto di partecipazione tra cose e pensieri è impossibile (a meno che le cose non siano in qualche modo pensieri, 1 3 2c). C 'è infine una terza obiezione, di tenore più generale. Nell' ipotesi di Socrate le idee e le cose costituiscono due mondi separati e diversi, così che saranno possibili solo rapporti tra cose e idee tra di loro, ma non tra le cose e le idee. Ad esempio, mentre nel mondo delle cose il servo avrà rapporto con il padrone, nel mondo ideale il rapporto sarà tra le idee corrispon­ denti; allo stesso modo la conoscenza delle idee sarà accessibile solo alla conoscenza in sé, cioè all' idea della conoscenza: dunque sarà appannaggio di una cosa che noi non possediamo, perché le idee non dimorano presso di noi (134b). E allora il bello, il bene e tutte le altre idee saranno incono­ scibili dall'uomo. Questa parte del Parmenide ha creato problemi agli interpreti di tutti i tempi, perché a prima vista non si capisce bene a che pro Platone faccia criticare la propria teoria delle idee da Parmenide, senza poi dare alcuna risposta alle sue obiezioni, né qui né altrove"8• Un modo abbastanza co­ mune consiste nel trovare argomenti "platonici" in grado di dimostrare o

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che le critiche di Parmenide non sono fondate, o che esse non riguarda­ no precisamente la dottrina "platonica'' delle idee. Ma anche nel caso che un'operazione del genere sia legittima, resterebbe comunque misterioso il motivo per cui Platone ha scritto queste pagine : solo per stimolare l'ar­ guzia del lettore ? Non sembra plausibile. La chiave di lettura di questa parte del Parmenide risiede nella stessa medierà fra euporia e aporia che abbiamo già visto all'opera nel Teeteto. L' euporia consiste nel fatto, assoda­ to in base all'accordo tra Socrate e Parmenide, che l' ipotesi dell'esistenza delle idee è necessaria. Lo è sia per disinnescare i paradossi eleatici, sia per giustificare l'esercizio della dialettica (ossia, più in generale, l'uso razio­ cinante del pensiero), che non sarebbe possibile (come invece è), se i ter­ mini universali rappresentati dalle idee non esistessero (135b-c). L'aporia consiste nel fatto, invece, che il modo puramente inferenziale con cui si è dimostrata l'esistenza delle idee non consente una conoscenza diretta delle medesime; dunque, a parte il fatto che le idee rappresentano l'esatto ribaltamento delle limitazioni sensibili, non è possibile dire positivamente che tipo di oggetti sono, quali sono i rapporti precisi che hanno con il sensibile, che cosa esattamente significhi "partecipazione" ecc. (cfr. Tra­ battoni, 2003d). Ecco allora qual è lo scopo per cui Platone mette in bocca a Parmenide alcune critiche alla "sua" teoria: per mostrare che la nostra conoscenza dell'oggetto "idea" non va oltre la constatazione che si tratta di valori universali e assoluti; e che dunque, quando si pretende di andare al di là e intenderle come un ben preciso genere di cose, analogo agli oggetti sensibili, nascono necessariamente problemi insolubili. C 'è però un'aporia, tra quelle esposte da Parmenide, che sfugge a que­ sto schema; e non a caso è quella che lo stesso Parmenide definisce come più importante, che ha per oggetto la cosiddetta "separazione delle idee": se questa separazione fosse assoluta, la metafisica di Platone perderebbe ogni significato teorico e pratico. Qui ben si vede lo stretto crinale che la filosofia di Platone è costretta a percorrere dopo la Repubblica. Le ragioni che conducono a postulare l'esistenza delle idee implicano che esse siano trascendenti; ma ove lo fossero in modo completo si darebbero inconosci­ bili sul piano teorico e dunque inutili su quello pratico. Questo problema è spesso articolato da Platone nello schema della dia­ lettica uno/ molti (tradizionale fin dagli albori del pensiero greco) : il sensi­ bile, pur essendo molteplice, presenta uniformità parziali che rimandano all'unità dell' idea; l'unità dell' idea, a sua volta, pur essendo una realtà in sé (dunque separata dal sensibile), è anche l'unità del sensibile. Una possibile

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chiave d i lettura per comprendere l a prima parte del Parmenide potrebbe dunque essere la seguente. Se è vero che per Platone le idee in sé stesse sono separate, non è certo in quanto tali che possono essere oggetto fruttuoso di conoscenza da parte dell 'uomo. Come abbiamo visto sopra, Platone non ha l'ambizione di costruire un'ontologia intesa come scienza dell'ente ideale. In questo senso, per usare un concetto kantiano, il Parmenide po­ trebbe essere una specie di "dialettica trascendentale", ossia il luogo in cui compaiono le conseguenze inaffidabili dell'uso erroneo (metafisico) della ragione. Se vogliamo viceversa costruire una filosofia che dica qualcosa di importante sulla vera natura della realtà, ma che sia al contempo pratica­ bile, è necessario puntare sul fatto che le idee, come detto sopra, sono pur sempre unità che intrattengono rapporti naturali con un certo molteplice ; e dunque dirigere l'attenzione non direttamente verso l' idea, ma piuttosto verso ciò che dell' idea nel molteplice necessariamente si manifesta. In questo modo si può forse spiegare anche la seconda parte del Par­ menide (che è ancora più enigmatica della prima) in cui il filosofo eleate scarta l'una dopo l'altra, a causa degli esiti contraddittori, una lunga serie di ipotesi, del tipo "se l'uno è", "se l'uno non è", "se i molti sono", "se i molti non sono": è possibile che le antinomie risultanti (non a caso abbiamo scelto di nuovo un termine kantiano) derivino proprio dal fatto che l' ana­ lisi considera l'uno e i molti come entità indipendenti, tra loro separate, e dunque in un certo senso "metafisiche". Questo non significa che Platone abbia archiviato, con il Parmenide, l'ambizione di individuare dei principi metafisici intesi come unità sepa­ rate. Non solo in questo stesso dialogo si dice, come abbiamo visto, che l' i­ potesi delle idee è impossibile da rimuovere. Tanto il Filebo e le cosiddette "dottrine non scritte"'9 indicano il limite, l'uno, la misura come principi assoluti della realtà, in associazione alla sua controparte "molteplice" ("illi­ mitato"; ovvero, secondo la testimonianza di Aristotele, "diade indefinita" o "grande e piccolo"). Significa piuttosto, come ormai abbiamo suggerito più volte, che se abbiamo buone ragioni per affermare che la realtà è gover­ nata da principi unitari e assoluti, non ne abbiamo invece per pretendere di conoscerli in maniera diretta, pura e completa. Infatti l'ambito di ciò che è davvero conoscibile per l'uomo, almeno nella sua condizione mor­ tale, coincide con l'ambito in cui l'uno si mescola, sia pure in proporzione variabile, con il molteplice. Molto importanti, a questo proposito, sono le riflessioni che Platone mette in bocca a Socrate nella prima parte del

Filebo.

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Il problema consueto è quello di capire che cos'è che consente di rac­ cogliere con un solo concetto e mediante un'unica denominazione cose che appaiono differenti o che almeno hanno nomi diversi. Con un chia­ ro accenno a un luogo del Parmenide che già conosciamo (129d), Socrate scarta la versione di questo problema che specula semplicemente sul rap­ porto tutto/parti caratteristico delle cose sensibili. La vera difficoltà nasce quando si parla di unità come l'uomo, il bue, il bello o il bene (Phil. 15a): bisogna vedere anzitutto se è necessario porle, poi se esistono davvero in quanto unità pur essendo prive di generazione e di corruzione (non è diffi­ cile ammettere che questo uomo sensibile esista come unità, mentre è dub­ bio che esista come una cosa singola l'uomo in generale), infine come deve essere pensato il loro rapporto con le cose sensibili. L'analogia con le obiezioni sollevate nel Parmenide contro la dottrina delle idee è evidente. Nel Filebo si tratta di stabilire con maggiore chiarez­ za la natura del rapporto uno/molti; ma soprattutto si tratta di mostrare che questo rapporto rappresenta il principio primo e fra tutti più genera­ le, perché attivo senza esclusione in tutto quello che esiste (15d). Quello che Platone vuol dire è che il rapporto uno/molti presenta una sorta di stupefacente stranezza, perché mentre secondo una logica elementare si dovrebbe affermare che ciò che è uno non è molti e viceversa, si può in­ vece constatare che nell'ambito del reale abbiamo sempre a che fare con molteplicità che sono anche, al tempo stesso, delle unità; e con delle unità che sono anche, al tempo stesso, delle molteplicità. E questo non accade soltanto a livello delle cose sensibili, ma anche a livello delle entità intel­ ligibili. In altre parole, per usare un esempio preso dallo stesso Filebo, se è vero che l idea del "piacere" è una in rapporto ai molti piaceri sensibili, è anche vero che questa stessa idea è molteplice perché comprende e unifica dentro di sé diverse specie di piaceri. Per tentare di cogliere correttamente la natura delle cose, che ovviamente passa attraverso la conoscenza delle idee (nella misura in cui la si possiede), è dunque necessario prendere accura­ tamente in conto questa duplicità caratteristica non solo di ogni cosa ma anche di ogni idea, e individuare caso per caso gli esatti confini dell'unità e della molteplicità ad essa relativa. Occorre, in altre parole, fare « uno e molti » nella maniera giusta. La difficoltà e l' importanza dell'arte dialetti­ ca che qui si prospetta sono enfatizzate da Socrate laddove dice che essa è come un dono divino, un fuoco abbagliante che gli dei hanno donato agli uomini (1 6c-d). Questo dono fa capire che tutte le cose sono composte di limite e di illimitato (ossia di unità e di molteplicità) : compito dell' inda-

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gine, qualunque sia il problema di cui si discute, è cogliere il limite, cioè l'unità, in modo esatto, e poi dividendo trovare tutti quei sottoinsiemi che a tale unità partecipano. L'analisi non deve né arrestarsi prima di essere completata, né proseguire quando non ce n'è più bisogno.

I dialoghi dialettici: il Sofista Una parte essenziale dello schema che abbiamo proposto, anche se il dia­ logo si occupa di altri temi importanti, si trova nel Sofista. Il dialogo si interroga sulla natura del sofista, e già questo solo fatto permette di mo­ strare la presenza in filigrana di un tema a cui abbiamo accennato sopra. Il Sofista torna a parlare di sofistica, così come il Fedro torna a parlare di retorica, perché la natura del sapere filosofico lo costringe sempre e di nuo­ vo a marcare la differenza con gli altri saperi ( cfr. p. 9 o ) . Nella prima parte del Sofista c 'è una spia interessante di questo fatto ; tra le definizioni del sofista che vengono proposte, tutte negative, ve n'è tuttavia una ( quella della cosiddetta "sofistica purificatrice" ) che ritrae correttamente il meto­ do confutatorio di Socrate ( 23ob-d ) . E lo Straniero di Elea ( la figura che qui, come poi nel Politico, conduce il dialogo ) osserva argutamente che il cane assomiglia molto al lupo ( 231a) . Il che di nuovo significa, fuor di metafora, che il filosofo non è mai definitivamente protetto dal rischio di essere scambiato per un sofista ( come, sia detto per inciso, la polemica ami-platonica di Isocrate dimostrava anche nei fatti ) . Il fatto stesso che Platone abbia scelto un non meglio identificato Stra­ niero di Elea come conduttore del dialogo fa sospettare che il Sofista ab­ bia una relazione importante con il pensiero eleatico. E infatti è così, al punto che il tema dichiarato del dialogo ( rispondere alla domanda "chi è il sofista ?" ) potrebbe apparire come un mero pretesto per parlare d'al­ tro. Per trovare chi è il sofista lo Straniero propone un metodo di ricerca, cosiddetto "dicotomico" ( ossia "della divisione" ) , che poi verrà applicato anche nel Politico. Ecco come funziona. Anzitutto si identifica una classe molto generale in cui l'oggetto da definire sia compreso senz'altro ; tale classe viene poi divisa in due sottospecie esaustive dell' intero, in una delle quali è contenuto l'ente cercato ; per quest 'unica specie verrà poi ripetuta un'analoga divisione, procedendo così di seguito fino a che si sarà giunti a una specie che non dovrà più essere divisa, perché corrispondente all'og­ getto di indagine.

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Quando questo metodo viene applicato al sofista (dopo l'esempio ini­ ziale del "pescatore con la lenza") si scopre con imbarazzo che sono possi­ bili diversi percorsi definitori. Per fare qualche passo avanti lo Straniero di Elea decide di focalizzare l'attenzione su una caratteristica particolare del sofista, ossia la sua abilità nell' imitare e nel contraffare, da cui deriva il suo virtuosismo nel contraddire. Ma la possibilità che una cosa appaia tale ma non lo sia, così come più in generale la possibilità che esistano asserzioni false, implica l ipotesi che ciò che è non sia. Questa ipotesi contravviene però ai principi stabiliti dall'eleatismo, secondo i quali è impossibile dire e pensare che l'essere non è (23 8d-241b). In questo modo l' indagine, che pure era partita dall'esigenza limitata di definire il sofista, ha assunto un carattere molto più generale : la possi­ bilità di dire il falso, ossia ciò che non è, riguarda infatti qualsiasi discorso, compresi il linguaggio comune e lo stesso discorso filosofico. È dunque essenziale che tale problema sia in qualche modo risolto. Ci sia avvia, così, al celebre tema del "parricidio": lo Straniero di Elea, accettando che il non essere esista, sia pensato e sia detto, compirebbe in questo modo un omi­ cidio nei confronti di suo "padre" Parmenide. In realtà spesso si trascura il fatto che lo Straniero dichiara più o meno il contrario, ossia non vorrebbe che quello che sta per fare venga scambiato per un parricidio (241d). Le ragioni di questo avvertimento sono presto dette. Lo Straniero è d' accor­ do con Parmenide nell'affermare che si può pensare e dire solo l'essere ; ma poiché è stato lo stesso Parmenide, nel suo poema, a parlare del non essere, in base ai suoi stessi principi (e non contro di essi) è necessario dire che il non essere in qualche modo è (anche se Parmenide esplicitamente lo negava). In altre parole, quello che Platone qui osserva è che l'ammissione di un certo tipo di non essere è condizione necessaria di qualunque discor­ so, compreso quello di Parmenide (e infatti il discorso di Parmenide, non importa quello che egli ne dica, non fa eccezione). Per capire qual è il tipo di non essere che può essere pensato e detto lo Straniero compie un giro piuttosto lungo. A suo parere, infatti, è im­ possibile comprendere il non essere se non si capisce che cosa sia lesse­ re. Lo Straniero decide dunque di analizzare le posizioni che sono state assunte su questo problema. Dopo una rapida panoramica di alcune tesi presocratiche (tutte ritenute inefficaci), lo Straniero prende in considera­ zione le opinioni di coloro che usano nel discorso l'espressione « ciò che è » (243d). I primi a essere esaminati sono pluralisti e monisti, e li confuta entrambi con vari argomenti. Particolarmente interessante, in vista degli

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sviluppi futuri del dialogo, è una delle obiezioni sollevate contro i plurali­ sti. Se tutti i principi (ma lo Straniero assume per comodità che siano solo due) di cui essi parlano « sono » , bisognerà porre insieme ad essi almeno un terzo principio, cioè l'essere stesso. Ma anche il monismo è ugualmente insostenibile : ad esempio, se vi fosse una cosa sola, questa cosa non potreb­ be essere neppure chiamata « ente » perché allora avremmo almeno due cose, cioè la cosa stessa e il nome « ente » . Dunque l'essere è originaria­ mente molteplice, e se pure la sua vera essenza è costituita dall'unità, deve comunque trattarsi di un'unità che è unità del molteplice, cioè che lo lascia essere in quanto molteplice, e che non lo annulla in una sintesi superiore : ossia nell'esistenza di una cosa o di un essere solo, in accordo con il modo in cui veniva comunemente inteso il pensiero eleatico. Diverso è il criterio che distingue la seconda coppia di posizioni. I so­ stenitori della prima tesi sono coloro che ritengono che ogni cosa sia cor­ po, e che se una cosa non può essere afferrata e toccata non esiste. I secondi (gli « amici delle forme » ) invece ritengono che il vero essere abbia natura invisibile, e sia costituito dalle idee intelligibili e incorporee (246a-c). I materialisti sono confutati costringendoli ad ammettere che non tutto può essere corporeo (cose come la giustizia, ad esempio, non lo sono). Ma se v 'è qualcosa di incorporeo, allora sarà necessario trovare quell'elemento comune, che è appunto l'essere, per cui si dice parimenti che « sono» sia le cose corporee sia quelle incorporee. Per risolvere questo problema, lo Straniero di Elea propone la celebre definizione dell'essere come ciò che possiede una qualunque e anche minima potenza di agire o patire (247e). Questa definizione non può essere accolta dagli « amici delle forme » : le idee sono la realtà vera, invisibile e immobile, e dunque esse risultano escluse da qualunque divenire, da qualunque rapporto di azione e passio­ ne. Ma non è forse questo il motivo per cui le idee, nel Parmenide, appa­ rivano impermeabili a qualunque genere di conoscenza ? Gli amici delle forme non accettano naturalmente questa conseguenza, e ritengono in­ vece che lanima possa conoscere le idee. Ma questa forma di contatto è forse altra cosa da un'azione fatta e subita (248d) ? Non è forse vero che se l'anima è soggetto di conoscenza, le idee sono oggetto, e che perciò anche le idee sono inserite nella forma generale dell'essere come potenza e movi­ mento, in quanto capaci di subire un'azione ? Platone non sta ritrattando in alcun modo i suoi attacchi contro la con­ cezione eraclitea della realtà. Al contrario, poche righe più avanti lo Stra­ niero ribadisce la conclusione raggiunta nel Teeteto, per cui, se tutte le cose

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si muovono, non v 'è possibilità alcuna di conoscenza intellettiva (2.49b). Quello che qui si afferma è che la realtà più elevata, e cioè le idee, deve par­ tecipare almeno a quel tipo di divenire che consiste nell'essere conosciuta. La conoscenza intellettuale è infatti un'attività dinamica, che si sviluppa attraverso operazioni di unione e di divisione, nel corso delle quali si può anche insinuare quel particolare tipo di non essere che è l'errore e il falso. Così si capisce la celebre affermazione dello Straniero, secondo la quale non ci si può facilmente persuadere che ciò che è in senso assoluto sia privo di moto, vita, anima e intelligenza (2.49a). Platone vuole escludere l ' ipo­ tesi che il modo di essere delle idee sia uguale a quello dell'essere parmeni­ deo, segregato dalla vita dell'uomo e dalla sua attività di conoscenza; per­ ché « delle cose che sono immobili, non vi è in nessuna, in nessun luogo, intelletto assolutamente » (2.49b; trad. A. Zadro, in Giannantoni, 1971). Il risultato saliente dell'analisi appena riassunto consiste nell'elimina­ zione delle posizioni estreme, o assolute, alle quali indulgeva volentieri il pensiero ingenuo dei presocratici. La realtà ha una natura troppo com­ plessa per essere detta assolutamente una o assolutamente molteplice, as­ solutamente mobile o assolutamente immobile. Infatti è una e molteplice al tempo stesso, mobile e immobile al tempo stesso. Riappare, di nuovo, la via media di cui abbiamo più volte parlato. Se è vero che l' indagine fi­ losofica ha come suo punto di fuga un'unità immobile che trascende la dimensione molteplice e diveniente, ciò non toglie che nella complessità della nostra esperienza quello che è uno appaia sempre come unità di un molteplice e quello che è immobile appaia anche come mobile (almeno nella misura in cui può essere conosciuto). Questa complessità, a sua volta, implica l'esistenza almeno di un non essere relativo, perché solo in questo modo una realtà può essere allo stesso tempo molteplice e una (e dunque, in quanto una, "non molteplice"), immobile e mobile (e dunque, in quan­ to mobile, "non immobile"). Ma se esistono sia la quiete sia il moto (se anche del mobile, come dell' immobile, si può dire che è), che cosa sarà mai l'essere di cui entram­ bi partecipano ? L'essere è forse una terza cosa diversa ed estranea sia alla quiete che al moto (2.5od) ? Sotto il profilo linguistico e semantico, l'essere è quella cosa che lega insieme cose diverse. In questo modo il problema dell'essere risulta identico al problema della predicazione e della comu­ nione dei generi, nella misura in cui l'essere (la particella « è » ) è ciò che " produce tale comunione (quando dico "x è y sto enunciando un legame che unisce questi due termini). Si può constatare, a questo proposito, che

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ancora e di nuovo le posizioni estreme si rivelano inammissibili. Si potreb­ be tentare di espellere il non essere o dicendo che tutto si predica di tutto (dunque che ogni cosa e ogni cosa) o dicendo che ogni cosa si predica solo di sé stessa (x è x; mentre se invece si ammettesse che per certi aspetti x è y, si dovrebbe anche ammettere che per certi altri non lo è). Ma è facile dimostrare che così non è: qualcosa si predica di qualcosa (e dunque di qualcosa no). Se dunque vi è mescolanza parziale dei generi, v 'è anche una scienza capace di scoprire quali sono i modi di mescolanza corretti. Quest 'arte, che è fra tutte la più importante, è quella esercitata dal filosofo, e si chia­ ma dialettica (i.53d). Lo Straniero abbozza un primo tentativo di indagine intorno ai generi e ai loro modi di comunicazione, avvertendo che questo lavoro non potrà interessare tutti i generi, ma solo quelli più importanti, per non lasciare incompleto il discorso pur nell' impossibilità di portarlo davvero a conclusione definitiva (i.54c). Platone individua, accanto all'es­ sere e ai generi già menzionati del moto e della quiete, altri due generi som­ mi, cioè l'identico e il diverso, così che in tutto ne risultano cinque. Un' at­ tenzione particolare, per risolvere il problema dell'errore e del falso, deve essere posta al genere del diverso. Di esso, come dell' identico, partecipano tutti gli altri generi, nella misura in cui ogni genere è identico a sé stesso e diverso da tutti gli altri. Ad esempio il moto è identico a sé stesso ma assolutamente diverso dalla quiete o dall' identico (i.56e-i.57a). Dunque si può dire che sia identico e non identico nel medesimo tempo ; ma non v 'è scandalo, perché il moto è identico per la sua partecipazione all' identico, e non identico per la sua partecipazione al diverso. Dunque la partecipazione di tutti i generi al diverso è il motivo che fonda la loro relazione con il non essere. Così si può dire che ogni genere partecipa al genere dell'essere (in quanto è) ma non è l'essere (in quanto è un genere diverso dall'essere). Perciò tutti i generi, in quanto sono diversi dal genere dell'essere, in tanto « non sono » ; e non sono tante volte quante sono le differenze che li distinguono dagli altri generi. Di conseguenza Platone può dire (i.56e) che per ciascuno dei generi l'essere è « molto» (nel senso che ciascun genere si predica di molti altri), ma il non essere è infinito (perché infiniti sono i suoi legami di diversità). Così è risolto anche il problema del non essere come falso. Quando si dice di qualche cosa che "non è", non si intende pensare o esprimere quel non essere che è opposto all'essere, ma il non essere come diverso, che fa parte dell'essere allo stesso titolo dell ' identico, così come tutto ciò che non

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è il bello fa parte dell'essere non meno del bello. Il compito del filosofo dialettico è evidentemente quello di cogliere i legami di partecipazione veri e reali che esistono tra i generi, dicendo correttamente quello che è e quello che non è. La breve analisi dei dialoghi dialettici che abbiamo condotto sopra ci permette di dire ora qualche parola di sintesi, in relazione con quello che ci è parso essere il progetto generale che regge questo gruppo di dialoghi. Secondo una linea esegetica nel recente passato molto influente, i dialoghi dialettici rappresenterebbero l'abbandono, da parte di Platone, del rigido dualismo metafisico dei dialoghi della maturità: le idee, anziché essere og­ getti separati dalla realtà sensibile, sono ora pensate come nozioni univer­ sali aperte all'analisi linguistica e concettuale. Questa ipotesi, tuttavia, si scontra con alcune decisive evidenze contrarie. In primo luogo nel Timeo, che è sicuramente più tardo dei dialoghi dialettici, il dualismo metafisico è ribadito con forza (2.7d-2.8b)30• In secondo luogo Aristotele, che pure è disposto a riconoscere un'evoluzione nel pensiero platonico, non mostra mai di ritenere che Platone abbia cambiato parere sulla separazione delle idee. Se dunque nei dialoghi dialettici i temi dualistici e metafisici appa­ iono nel complesso attenuati, o addirittura inesistenti, la ragione consiste nel fatto che qui Platone (come abbiamo suggerito sopra) si concentra sull'aspetto per cui le idee sono conoscibili, almeno parzialmente ; e que­ sto aspetto non è ovviamente lo stesso che viene in primo piano quando l' interesse è quello di sottolineare, come nel Fedone e nel Fedro, che le idee appartengono a un mondo diverso da quello sensibile. Tuttavia questa struttura metafisica rimane all'opera, sia pure negativa­ mente, anche nei dialoghi dialettici, come condizione che esclude la pos­ sibilità di accedere in modo diretto e intuitivo alla conoscenza delle idee, e che correlativamente impone la necessità di usare un metodo indiretto, basato sullo studio delle relazioni (che è, appunto, la dialettica) : almeno se è vero, come abbiamo suggerito nei capitoli precedenti (cfr. pp. 51-2.), che ciò che possiamo conoscere delle idee è sempre all' interno della loro rela­ zione con altro. Per usare una terminologia moderna, scartando un' inef­ ficace concezione "corrispondentista'' della conoscenza (inefficace perché l'oggetto del conoscere è assente, e dunque la correttezza della corrispon­ denza non può mai essere verificata), Platone opta in favore di una più duttile concezione coerentista, in cui la correttezza di una teoria si misura piuttosto in base alla coerenza relativa delle descrizioni che l'esercizio dia­ lettico riesce a offrire3'.

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L'unica cosa che cambia, in questa prospettiva, è che ora la figura che rappresenta l'obiettivo impossibile di una piena e completa conoscenza dell' idea non è quella del contatto diretto e intuitivo tra un soggetto im­ materiale puro (l'anima disincarnata) e l'oggetto intelligibile in quanto tale, ma la padronanza completa di tutti i rapporti, positivi e negativi, che collegano le idee fra di loro. Si tratta di un cambiamento molto importan­ te. Se la conoscenza piena dell' idea è possibile solo tramite un' intuizione immediata, sembra non esserci un'alternativa praticabile tra la conoscen­ za perfetta che si sviluppa ove questa intuizione sia ritenuta possibile e la perfetta ignoranza che deriva dall'opzione contraria. In altri termini, o l' idea non è separata dal sensibile, e allora la si può conoscere fino in fon­ do; oppure è separata, e allora (come nella critica più pungente contro le idee formulata da Parmenide nel dialogo omonimo) non se ne può sapere assolutamente nulla. Se viceversa la conoscenza perfetta dell' idea consiste nella comprensione della totalità dei rapporti in cui essa si trova inserita, da un lato l'obiettivo di un sapere esaustivo rimane ugualmente irrealisti­ co (Platone fa intravedere la sostanziale impossibilità di pensare realisti­ camente a una dialettica esaustiva sia nel Parmenide 1 3 6c, che nel Sofista 254c e nel Filebo 19a-20a), ma dall'altro si apre la possibilità intermedia di un' indefinita approssimazione : più e meglio le relazioni vengono chiarite (unendo e dividendo, facendo uno e molti in modo corretto, studiando i rapporti di comunanza tra i generi ecc.), più e meglio si rivela il contenuto noetico dell' idea. Questo è appunto il programma che Platone abbozza a grandi linee nei dialoghi dialettici, e in particolare nel Sofista (e che pro­ babilmente era poi proseguito più in dettaglio, a seconda degli obiettivi, nell'esercizio della dialettica che si svolgeva all' interno dell'Accademia).

Etica e politica nei dialoghi dialettici : il Filebo e il Politico I dialoghi dialettici non rappresentano affatto una messa in disparte della filosofia pratica. Ciò è dimostrato, fra le altre cose, dalla presenza in questo gruppo del Filebo e del Politico, dedicati, rispettivamente, a temi di etica e di politica. Troviamo in entrambi questi scritti la matrice che abbiamo visto essere caratteristica dei dialoghi dialettici in generale, ossia quella di individuare le possibilità del discorso filosofico mediante la consapevolez­ za dei suoi limiti. Il problema che viene posto all' inizio del Filebo è quello di stabilire

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« la condizione e la disposizione dell'anima in grado di procurare a tutti gli uomini una vita felice » (ud; trad. mia). Qui si scontrano due diverse posizioni: quella di Polemarco (che ha ereditato la tesi da File bo) secondo cui il bene sarebbe dato dal godimento e dal piacere, e quella di Socrate, secondo cui sarebbe dato dalla conoscenza. Ma in entrambi i casi sorge una difficoltà analoga: se i piaceri (e le conoscenze) sono fra loro diversi, che cosa indica il nome che li accomuna ? È per risolvere questo problema che Socrate introduce la dialettica esaustiva a cui abbiamo accennato nel precedente paragrafo (cfr. p. 103). Tuttavia chi si aspettasse che l' indagine intorno al piacere venga con­ dotta sulla base di questo metodo rimarrebbe deluso. Socrate dice, è vero, che solo una conoscenza completa di tutte le unità renderebbe l'uomo de­ gno (axios) di qualche cosa (19b). Ma la replica di Protarco è importante, per capire l ' intento di Platone, tanto quanto le parole di Socrate (cfr. Tra­ battoni, 2003a). Molto ragionevolmente egli fa notare che se è bello per il saggio conoscere tutte quante le cose, pare che la "seconda navigazione" sia almeno conoscere sé stessi ( 19c). È una metafora che già conosciamo : la se­ conda navigazione è quella in assenza di vento, più faticosa ma necessaria in mancanza di un mezzo migliore. Anche la menzione del motto "cono­ sci te stesso" è significativa; qui c 'è un' inestricabile fusione tra il significa­ to originario dell'espressione (un invito a riconoscere il proprio limite) e quello introspettivo poi aggiuntovi da Socrate : il quale Socrate, in Platone, fa da parte sua molte allusioni alla limitatezza delle capacità conoscitive dell'uomo. Il problema che qui viene posto è quello del rapporto tra ideale e reale, tra il modello perfetto e la sua riproduzione empirica. L'osservazione sui limiti della conoscenza umana serve a Protarco per convincere Socrate, nell' impossibilità di applicare il metodo esaustivo da lui descritto, a tentare ugualmente di cogliere la natura del piacere (20c). La premessa generale del discorso è che il bene è « sufficiente » ( 20d ) : cioè che il bene è la cosa che gli uomini desiderano di per sé, che fa sì che le cose desiderate appaiano appetibili, e che una volta posseduta fa sì che non manchi più nulla. È evidente da questa definizione che il bene è compren­ sivo della felicità. Ma né il piacere né l intelligenza possono essere il bene perché non sono « sufficienti » (sottinteso "per la felicità"). Infatti da un lato la coscienza del piacere, passato e presente, è essenziale al piacere stes­ so, dall'altro non è appetibile una vita fatta solo di intelligenza, del tutto priva di emozioni e passioni. Dunque non resta che pensare a un genere di vita « misto» di piacere e di intelligenza. Ma attenzione : Socrate ha cura

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di precisare che così stanno le cose per lui, mentre per gli dei sarebbe assai diverso (2.2.c). Una vita interamente consacrata alla conoscenza e al sapere è certo una vita divina, ma gli uomini non sono dei. Ecco perché Socrate può dire a Protarco che la gara dei beni si fa per il secondo posto (23d), perché all'uomo può toccare al massimo una felicità seconda in rapporto a quella divina. Però ci si può chiedere che rapporto ci sia tra piacere e conoscenza, e se per caso non sia proprio la conoscenza ciò che rende i piaceri buoni (dal momento che, come ha ammesso Protarco, esistono anche piaceri non buoni). Per rispondere a questa domanda è necessario porre in questione la natura del bene. Se la mancanza di una conoscenza esaustiva significasse per l'uomo anche la totale ignoranza riguardo al bene, egli non avrebbe nessun criterio per stabilire in che cosa consistono la vita buona e la felicità (cfr. Delcomminette, 2006, p. 12). È dunque necessario che vi sia almeno una traccia, in base alla quale dirimere la controversia tra conoscenza e piacere, per capire quale dei due comandi e domini l'altro (cfr. Phil. 61a). Platone individua tale traccia nel concetto di limite. Richiamando quanto detto in precedenza, Socrate distingue nella realtà anzitutto i due generi del limite e dell' illimitato. Terzo genere è il misto dei due, mentre quarto è la causa della mescolanza (23c-27c). Nell'analisi dell'esperienza si può distinguere ciò che ha natura di limite da ciò che ha natura di illimi­ tato: al secondo genere appartengono le cose che possono fluttuare senza limite quantitativo in un senso o in un altro, al primo quelle caratterizzate da una determinazione precisa, come le figure geometriche. Il piacere, in quanto disponibile alle variazioni in più o in meno, appartiene al genere dell' illimitato (27e). Quello che Platone vuol dire è che il piacere è di per sé privo di misura, perché tende a svilupparsi in modo assolutamente ca­ suale e disordinato. Il passo successivo consiste nell' indicare il limite come la causa di ciò che è buono in tutte le cose. È chiaro perciò che la descrizione dei principi metafisici si colorisce di un'essenziale venatura teleologica. La presenza del bene (che Socrate descriverà più avanti come bellezza, proporzione e verità, 65a) rende ne­ cessaria una comprensione finalistica e « intelligente » della realtà: quella comprensione che i filosofi della physis non avevano. Ecco dunque spiega­ ta la necessità del quarto genere, cioè della causa della mescolanza. Essa è quella cosa che non appartiene né al genere del limite né a quello dell' il­ limitato, ma mescola l'uno con l'altro con lo scopo di produrre l'ordine migliore possibile. Che vi sia un ordine di questo genere lo si ricava, d'altra

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parte, dalla contemplazione del cosmo e delle sue meravigliose armonie. Ciò induce a pensare che l'universo sia regolato da un' intelligenza ordina­ trice, cosicché il terzo genere appare appunto come quello dell' intelletto. Abbiamo così scoperto qual è il genere a cui appartiene la conoscenza: mentre il piacere appartiene al genere dell' illimitato, la conoscenza appar­ tiene al genere della causa (31a) . Sulla base d i questi presupposti metafisici i l dialogo s i accinge a rispon­ dere al quesito da cui aveva preso le mosse : in che cosa consiste la vita buo­ na per l'uomo ? A questo fine Socrate analizza minuziosamente i piaceri e le conoscenze, giungendo a dire che mentre tutte le conoscenze sono buone, tra i piaceri sono buoni solo quelli puri (cioè quelli che non han­ no alcun rapporto con il dolore), sia dell'anima sia del corpo. Dunque la vita buona sarà data da una mescolanza asimmetrica di conoscenza (che è comunque prominente) e piacere. Nella complessa costruzione del Filebo, che abbiamo sommariamente descritto, è ben visibile lo sforzo compiu­ to da Platone per individuare un ideale realistico di vita buona, dunque commisurato alle imperfezioni della natura umana, pur tenendo conto del principio generale secondo cui l'esercizio dell' intelligenza, ovvero la filo­ sofia, rimane pur sempre l'obiettivo più elevato e più degno dell'uomo. Formalmente parlando il Politico si presenta come una continuazione del Sofista: gli interlocutori sono i medesimi, il conduttore è lo Straniero di Elea e analoghi sono anche metodo e obiettivi: così come nel Sofista si applicava il metodo della divisione per individuare il sofista, ora lo stesso procedimento è usato per trovare il politico. Mediante una prima divi­ sione si giunge a definire il politico come il pastore di uomini (267b-c). Ma l'esito non è soddisfacente. Se infatti si definisce politico chi nutre, alleva ed educa gli uomini (questo fa appunto il pastore), possono ambire a chiamarsi politici anche commercianti, medici, pastai, maestri di ginna­ stica, nella misura in cui anche loro hanno l' incarico di allevare e nutrire (268c-d). Per correggere il tiro lo Straniero introduce un mito cosmico­ storico sulle età del mondo, in cui alternativamente governano gli uomini e il dio Crono : in questo secondo caso il mito suppone che il tempo marci in senso contrario al normale. Il mito è introdotto per mostrare che la defi­ nizione del politico come «pastore di uomini » è adeguata solo nel tempo in cui regna la divinità, ma non durante il tempo e la generazione attuale (274e-275a). Il politico è un uomo che deve governare altri uomini e perciò il suo ruolo non è paragonabile né a quello di un dio che regna sugli uomi­ ni né a quello di un pastore che governa un gregge. Questo motivo trova

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un preciso riscontro nel libro IV delle Leggi, dove è abbozzato un racconto dell'età di Crono che ha qualche analogia con quello del Politico. È dunque di nuovo all'opera lo scarto tra ideale e reale di cui tante volte abbiamo parlato. Fuori dalla finzione mitica il governo degli dei indica il governo di qualcuno che sia in possesso di un sapere perfetto. Ma poiché questo non si verifica, occorre, pur senza rinunciare a imitare il modello nel limite del possibile, mettere in atto tutta una serie di mediazioni, affinché la buona vita etica e politica si possa realizzare in modo almeno parziale. L'opera di mediazione di cui ora si è detto trova nel Politico diverse modalità di espressione. Particolarmente significative in proposito sono l' importanza che il Politico ascrive alle leggi e la differente maniera, in rap­ porto alla Repubblica, in cui vengono ordinate le diverse costituzioni. Tali forme di governo sono anzitutto classificabili secondo il numero, come governo di uno, governo di pochi e governo di molti (291d). Ma né que­ sta né altre variabili sono determinanti in rapporto al valore. L'elemen­ to che distingue la costituzione politica ideale è l'assunzione al governo di uno o più uomini in possesso della tecnica politica, cioè della scienza capace di stabilire caso per caso quello che è bene, sulla base della giusta misura. Ed è ovvio per Platone che se questi uomini esistono, essi hanno titolo di governare sia che siano molti o uno solo, sia che lo facciano con la persuasione o con la forza, sia con le leggi o senza: infatti saranno in grado di produrre infallibilmente quel bene e quella felicità a cui tutti gli uomini aspirano per natura (293d-294c). In questo senso il piano ideale descritto nella Repubblica non è certo negato, ma piuttosto confermato. Poiché tuttavia il modello di una scienza politica perfetta e infallibile non si può realizzare (la scienza politica potrebbe essere in ogni caso posseduta da pochissimi: 293a), diviene essenziale individuare le forme concrete che al modello perfetto più si avvicinano. Se è vero che sbagliano quelli che appoggiano incondizionatamente la democrazia, perché ritengono possi­ bile lagire etico-politico anche in assenza di una norma e di un modello buono al quale ispirarsi, chi per converso ritiene possibile l instaurarsi di un governo tirannico buono, affidato a un tecnico della politica infalli­ bilmente esperto del bene e del male, si dimostra troppo ottimista. For­ se anche a causa delle cattive esperienze vissute alla corte dei tiranni di Siracusa, ora Platone appare più preoccupato dai pericoli di un governo illegale (cfr. 3ooa) che dalla necessità di definire la politica come una pura scienza del bene superiore a qualunque legge (come accadeva invece nella Repubblica). Se dunque nell ' ipotetico, ma irrealistico, Stato ideale la legge

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non serve, essa è invece necessaria negli Stati reali, in quanto sono tutti, quale più quale meno, necessariamente imperfetti. La presenza o l'assenza della legge è dunque il criterio che ci serve per ordinare in base al valore le costituzioni "reali". Il governo di uno e il go­ verno di pochi, a seconda del rispetto o del mancato rispetto per le leggi, si dividono così da un lato in monarchia e aristocrazia, dall'altro in tirannia e oligarchia. La stessa distinzione, anche in assenza di nomi specifici, si può fare naturalmente anche per la democrazia. Ora che le costituzioni sono diventate sei, si può procedere a stabilire anche la loro bontà e cattiveria reciproca. Questa classificazione è singolarmente asimmetrica, perché ai due estremi stanno la tirannia (la peggiore) e la monarchia (la migliore), poi vengono, da ciascun lato, l'oligarchia (che è la peggiore dopo la tiran­ nia) e l'aristocrazia (che è la migliore dopo la monarchia). Le due forme di democrazia, con e senza il conforto delle leggi, occupano rispettivamente il terzo e quarto posto secondo il metro del meglio e del peggio (302b303a). Il criterio che presiede a questa classificazione è dato dalla potenza dei regimi che vengono esaminati. Più potente di tutti è il governo di un solo uomo, per cui, se il governante è buono, da esso deriverà il massimo bene; ma se è cattivo, anche il massimo male (cfr. Euthyd. 28oe-281c) . Per lo stesso motivo la democrazia è incapace sia di grandi beni che di grandi mali: se da essa non si possono attendere risultati eccellenti, si può almeno essere sicuri che non produrrà danni irreparabili. La necessità di accomodarsi a un regime imitativo di quello perfetto costituisce la traduzione in termini politici di quella che nel Fedone, nel Filebo e nello stesso Politico è chiamata la « seconda navigazione » . Nel Po­ litico la seconda navigazione consiste appunto nell'organizzare il governo mediante le leggi, e nel non permettere ad alcuno, né individui né gruppi, di dire nulla contro di esse (3ooc). Le leggi infatti hanno dalla loro parte il prestigio dell'antichità e della tradizione, si basano su una lunga espe­ rienza e sul consiglio di uomini che le hanno meditate nei particolari e che hanno persuaso la popolazione a votarle (3oob ). Interessante è soprattutto questo motivo della persuasione. In fondo ciò che distingue, tra i governi imitativi, quelli legali da quelli illegali, è l'uso della persuasione al posto della violenza. Se il governante è il tecnico perfetto padrone del bene, agli uomini converrà accettare anche la sua violenza. Ma se è cattivo, l'unico possibile antidoto è la libertà. E poiché Platone sapeva che non c 'è mai la sicurezza di aver trovato un uomo davvero in possesso della scienza, la per­ suasione e la libertà costituiscono il destino inevitabile dell 'uomo3•.

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Il Timeo Nel Timeo è contenuta quella che si potrebbe chiamare la "fisica" di Pla­ tone, nell'accezione antica di questo termine : cioè come descrizione della realtà sensibile e vivente, dal cosmo all'uomo, della sua struttura e dei suoi principi. Gli interlocutori del dialogo sono, oltre a Socrate, il filosofo pi­ tagorico Timeo, il sofista e uomo politico Crizia e il generale e politico siracusano Ermocrate. Il Timeo si presenta come una prosecuzione e un completamento del programma proposto nella Repubblica. Anzitutto So­ crate riassume, in modo per la verità non del tutto fedele, il contenuto del dialogo maggiore, e poi annuncia il compito che resta ancora da svolgere: far vedere nella sua concretezza, dandole vita, quella città ideale che nella Repubblica era stata descritta solo in teoria ( 19b-c ) . Prende la parola a questo scopo Crizia, che accenna ad antiche leg­ gende, da lui udite tramite il suo nonno omonimo ma in ultima analisi di fonte egizia, sull'antica civiltà ateniese e sul mito di Atlantide. È sulla base di queste storie, narranti appunto dell'ottimo governo di un' antichis­ sima Atene, che Crizia dovrebbe poi mostrare la città ideale nella sua vita effettiva. Ma questo discorso viene rimandato a più avanti ( abbiamo in proposito il Crizia, purtroppo incompleto ) , perché bisogna premettere un discorso più generale: la descrizione della realtà dalla generazione del co­ smo fino alla natura degli uomini. Di questo lavoro si incarica Timeo, cioè quello che tra i presenti è più esperto di fisica e di cosmologia. Il discorso di Timeo inizia con un richiamo alla distinzione della real­ tà in due generi ( 27d-28a) : quello che è sempre, non avendo generazione, ed è coglibile dall' intelletto mediante il logos; quello che sempre diviene, che non « è » mai in senso proprio perché soggetto a nascita e morte, ed è percepibile solo mediante i sensi, in modo opinativo e irrazionale ( cioè alogos). Mediante questo richiamo Platone manifesta, come già sappiamo ( cfr. p. 102 ) , la sua intenzione di conservare e confermare la struttura me­ tafisica esposta nelle opere della maturità: esiste una dimensione perfetta, che ha natura di modello ideale, mentre la dimensione sensibile ha natura di copia, che assomiglia al modello nei limiti consentiti dalla sua confor­ mazione materiale. Il rapporto tra copia e modello richiede però anche un intervento at­ tivo, cioè un soggetto razionale che si incarichi di costruire la copia in maniera conforme. Così procedono le tecniche artigianali, e non è cer., to un caso che Timeo chiami il dio « creatore » del cosmo con il nome

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di « demiurgo » , che significa "artefice" o "artigiano". L'artigiano, infatti, agisce con lo scopo di creare un'opera buona: buona anche nel senso che ha questa parola in greco (e che conserva in parte in italiano), cioè utile a qualcosa, a realizzare un determinato scopo. Prima di entrare direttamente nell'argomento, Timeo enuncia un' im­ portante premessa metodologica. Partendo dal presupposto che la qualità di un discorso è legata alla natura dell'oggetto che esso descrive, egli spie­ ga che per quanto riguarda la realtà stabile i discorsi devono essere stabili e inconfutabili, nella misura in cui è possibile che lo siano ; mentre per quanto riguarda la realtà costruita su quel modello, i discorsi saranno pro­ porzionalmente meno precisi, poiché la generazione sta all'essere come la credenza (pistis) sta alla verità. Di conseguenza gli ascoltatori non devono aspettarsi da lui altro che un racconto (mythos) probabile (29b-d). In realtà l' imperfezione del mondo sensibile non è l'unica ragione di questa cautela (del resto il discorso di Timeo non riguarda solo il cosmo sensibile). Essa dipende, come Timeo esplicitamente afferma, anche dal fatto che il suo discorso è pur sempre un discorso fatto da uomini, capace dunque di avvicinarsi all' immobile e all' inconfutabile, ma mai di conse­ guirlo per intero. L'uomo deve accontentarsi che nulla manchi a quello che può effettivamente fare (29c 1 ) . Questo principio è poi ribadito molto più avanti, laddove Timeo dice che solo dio possiede in misura adeguata la conoscenza di come le cose passano da unità a molteplicità e viceversa, e la potenza di realizzare tale passaggio, mentre nessun uomo è o sarà mai in grado di fare né l'una né l'altra cosa (68d). E questo esito è del tutto coe­ rente, come si rammenterà, con quanto risultava dall'esame dei dialoghi dialettici (cfr. pp. 102-3). Sia pure all' interno di questi limiti, Timeo si impegna a fornire una spiegazione causale e genetica di tutto quello che esiste, in cui sia mostrato in azione il principio del buono e dell'ottimo. Essendo buono, e volendo dunque fare una cosa buona (29d-e), il demiurgo fece in modo anzitutto di trasformare il disordine in ordine. Giudicando poi che ciò che ha vita è più perfetto di ciò che non l'ha, stabilì che il mondo dovesse essere un vivente, provvisto di anima e di intelletto (3oc). Poiché inoltre il tutto è migliore delle parti, il demiurgo prese a modello per il suo vivente cosmico il vivente ideale che comprende in sé tutte le forme viventi, così che anche il mondo è un unico vivente visibile, che ha dentro di sé tutti quanti gli esseri viventi. Che poi il mondo sia uno solo, si ricava da un semplice ragio­ namento logico. Se fossero più di uno, i vari mondi sarebbero comunque

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pensabili come parti di un insieme più vasto, e così il mondo resterebbe uno in ogni caso (31a-b). Il mondo, essendo generato, è sensibile. Ma ciò che è sensibile deve pos­ sedere sia la terra (cioè 1 'elemento solido, che lo rende percepibile al tatto) sia il fuoco (che ne permette la visibilità). Gli altri due elementi vengono dedotti in base all'esigenza di stabilire fra i primi una perfetta proporzione matematica. Si tratta, naturalmente, dell'aria e dell'acqua. Il cosmo con­ tiene la totalità di questi quattro elementi, in modo che nulla vi sia fuori di esso : in particolare nulla che possa corromperlo, così come avviene con tutti gli altri corpi, che subiscono l'azione del caldo, del freddo ecc. Così il mondo è immune dalle malattie e dalla vecchiaia. Sempre con un occhio rivolto a ciò che è meglio, il demiurgo fece il cosmo di forma sferica, che fra tutte è la migliore ; e lo creò in modo che non fosse bisognoso di nulla (essendo il bastare a sé stesso più bello e buono del bisogno), dunque lo fece all'esterno perfettamente liscio, senza braccia né gambe. Quanto poi al movimento, anche in questo caso gli attribuì il migliore, ossia quello circolare, fra tutti più simile all' intelligenza e alla sapienza (34a). La ferrea necessità del suo discorso conduce infine Timeo a postulare un'anima anche per il mondo; perché il mondo deve essere un vivente, e non esiste vita senza il suo principio, che è appunto 1' anima. L'anima del mondo è costruita dal demiurgo tramite la mescolanza di tre essenze, cioè l'essere, l' identico e il diverso (3 sa). Timeo descrive questa mescolanza mediante una procedura matematica assai complessa, che non approfon­ diremo, accontentandoci di mettere 1' accento sul principio generale che ne è alla base. L'anima deve essere un'accurata mescolanza di identico e di diverso perché deve assolvere alla doppia funzione di porsi come punto medio tra la realtà visibile e quella invisibile, e permettere fra 1 'una e 1 'altra una comunicazione dal punto di vista della conoscenza. Ma qual è il rapporto dell'anima con l' identico, l'eterno e l' immobile ? Per rispondere a questa domanda dobbiamo prendere in considerazione la concezione del tempo esposta da Platone nel Timeo. Dice Timeo che il demiurgo, dopo aver creato il cosmo e averlo visto in moto e vivente, pensò di farlo ancora più simile al vivente eterno. Tuttavia il mondo, in quanto generato, non poteva essere eterno in modo perfetto. Perciò il demiurgo decise di creare il tempo come un' immagine mobile dell'eternità (37d-e). La difficoltà di questo passo dipende dal fatto che Platone fa fatica a tro­ vare le parole adatte a distinguere ciò che è eterno perché dura sempre da ciò che è eterno perché è fuori dal tempo. Tale distinzione è adombrata

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nelle due specie di eterno di cui qui parla Timeo, una che permane in uno (è l' intemporalità) e una che procede secondo il numero, o la molteplicita (l'eternità come durata). Questa differenza è spiegata poche righe sotto, laddove Platone, alludendo proprio alle difficoltà di linguaggio di cui si è detto, afferma che le forme generate del tempo come I ' « era » e il « sarà » sono spesso erroneamente riferite alla realtà « eterna » , della quale si deve invece dire sempre e solo che è ; mentre I ' « era » e il « sarà » si possono usare, rigorosamente parlando, solo per parlare delle cose che si generano nel tempo (37e-38a). ln rapporto al tempo abbiamo dunque, in sintesi, tre modi di essere : a) un esistere eterno fuori dal tempo (l'eterno che permane in uno) ; b) un esistere eterno nel tempo (l'eterno che si muove secondo il numero) ; c) un esistere non eterno nel tempo, nel senso della generazione e della corruzione. Mentre al primo e al terzo modo di essere corrispondo­ no, rispettivamente, la realtà intelligibile e la realtà sensibile, il secondo è il moto caratteristico dell'anima (anche in accordo con quanto si legge in Phaedr. 245c-246a, e in Leg. 8 9 3b-896b ) : esso diviene attributo del mondo solo nella misura in cui il mondo è partecipe di quel moto e di quella vita eterni di cui lanima è portatrice. Dopo aver creato lanima e il tempo, il demiurgo forma i pianeti, che sono segni del tempo, e con essi il sole e la luna, la notte il giorno ( Tim. 3 8c). Poi è la volta delle forme viventi, che sono già nel modello ideale distinte in quattro generi: in primo luogo gli dei, e poi, nell'ordine, le specie che vivono nell'aria, nell'acqua e sulla terra. Per quanto riguarda gli dei, Timeo ne distingue due specie : la prima, realizzata nel fuoco, che corrisponde agli astri; la seconda che corrisponde invece agli dei della mi­ tologia tradizionale (39e-41b). L'azione congiunta del demiurgo e degli dei olimpici ha poi l'effetto di creare le anime e i corpi dei viventi mortali. Alla fine di questa prima parte del dialogo Timeo osserva, però, che le cause della generazione del cosmo non sono ancora state individuate in modo completo. Per il momento, infatti, sono state esposte solo le opere prodotte dall' intelligenza, mentre ora bisogna completare il discorso con quelle prodotte dalla necessità (47e-48a). Non è difficile capire il moti­ vo per cui Platone senta il bisogno di introdurre questa causa ulteriore. Sappiamo che il demiurgo è buono, e che nella costruzione del mondo si è ispirato al modello migliore e perfetto. Tuttavia la sua opera soffre di im­ portanti limitazioni, dal momento che la copia non può per natura essere identica al suo modello. Nell'opera dell'artigiano c 'è dunque una compo­ nente di sforzo, un impegno costante nel superare una resistenza che deve essere in qualche modo piegata.

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Non è facile, invece, delineare un' immagine chiara del principio che qui viene introdotto. La prima rappresentazione che possiamo farci del­ la causa necessaria (o "errante") è quella di una materia primordiale, an­ teriore alla differenziazione nei quattro elementi (48b). Poiché i quattro elementi sono in continuo movimento e in continua trasformazione l'uno nell'altro, e così pure tutte le forme in cui parzialmente si solidifica il flusso eterno della materia, sarebbe sbagliato affermare che le materie sono deter­ minatamente una data cosa. Esse non sono un « questo » ma un « tale » , cioè un momentaneo e transitorio modo d i essere in cui s i presenta la so­ stanza mobile e informe di cui sono fatte (49d-e) . Ma se ci fermassimo qui il discorso non sarebbe né preciso né comple­ to. Con immagini volutamente vaghe, Timeo definisce la causa necessa­ ria come « ricettacolo di tutto ciò che si genera, del tipo di una nutrice » (49a; trad. mia). Allo stesso mondo della procreazione egli attinge anche una rappresentazione molto più vivida ed efficace. Se il modello è il padre, e la realtà sensibile generata il figlio, la causa necessaria è la madre, che an­ ticamente nel rapporto procreativo veniva appunto considerata la materia o il luogo in cui si imprime il segno distintivo della forma, e del limite, prodotto dal padre (sod). Dunque la causa necessaria non è solo ciò di cui sono fatte le cose, ma anche e soprattutto ciò in cui esse sono fatte. Per que­ sto Platone la chiama anche chora, una parola che significa in primo luogo "regione'', e poi per estensione "luogo" e "spazio". La chora è dunque ciò che determina la materialità e la spazialità delle cose, il loro esistere in un mon­ do percepibile e soggetto a generazione. Per assolvere a questo compito, è chiaro che deve essere in quanto tale una materia priva di qualsiasi forma e uno spazio privo di qualsiasi traccia o limite che ne determini la figura: infatti deve essere disponibile ad assumere qualunque forma, e a diventare qualunque figura (sod). Le forme prime ed elementari sono i quattro elementi tradizionali, os­ sia terra, acqua, aria e fuoco. Spiega Timeo che il demiurgo le ha modellate mediante forme e numeri, con lo scopo di farne cosa bella e buona quanto possibile, traendole a questo stato da una condizione precedente che era completamente diversa ( 53b ). Vediamo di nuovo qui ali'opera l' idea "pita­ gorica" secondo cui il bene si manifesta nei termini matematici di ordine, proporzione e misura. Nella fattispecie, per dimostrare che una finalità buona è attiva già nelle prime forme di aggregazione della materia Timeo presenta una singolare teoria atomistica in cui gli elementi primi non sono masse corporee informi, ma figure matematiche pienamente intelligibili. Poiché i corpi hanno profondità essi devono essere composti di superfici.

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Tali superfici sono dei triangoli elementari, sia isosceli che scaleni, ed è appunto mediante la diversa composizione di tali triangoli che il demiur­ go ha dato origine alle figure geometriche solide : il tetraedro, l'ottaedro, l icosaedro e il cubo, che rappresentano rispettivamente la struttura ato­ mica di fuoco, aria, acqua e terra, secondo un criterio di mobilità decre­ scente (5 3c-55d). Definita la natura degli elementi, il resto del dialogo contiene la "fisica" platonica vera e propria, cioè la descrizione di vari modi in cui il demiurgo e gli dei creati hanno disposto la realtà naturale, con particolare riguardo all'uomo e alle sue funzioni fisiologiche. Relativamente a questa parte, il cui interesse è sovente più storico-documentario che propriamente filo­ sofico, qui non entreremo in dettaglio. Qualche parola merita invece di essere detta sulle ultime pagine del Timeo, dedicate alle malattie del corpo e dell'anima, alle cause per cui si generano e ai modi in cui possono essere curate. Parlando delle malattie dell'anima, Timeo spiega anzitutto che tut­ te derivano da mancanza di senno, e che tale mancanza di senno può essere intesa o come pazzia o come ignoranza (86b). È sempre valido, dunque, il principio socratico secondo cui nessuno compie il male volontariamente; ma ora tra le cause di questa involontarietà assumono un ruolo assai più importante i condizionamenti corporei. Timeo osserva, ad esempio, che se il corpo ha natura troppo eccitabile, esso può causare notevoli disturbi ali' anima, così da far credere che certe persone siano cattive, mentre invece non hanno colpa (87b). La stessa cosa accade se tra il corpo e l'anima non v 'è proporzione : se l'anima ha una vitalità eccessiva per il corpo in cui si trova ad abitare, essa lo agita e lo riempie di malattie ; se viceversa un corpo grande e forte è legato a un'anima piccola e debole di pensiero, l'anima si corrompe diventando ottusa e tarda ad apprendere. Il modo per evitare queste malattie consiste nel produrre un'equilibrata armonia tra anima e corpo, esercitandoli entrambi secondo misura. Ribadita con forza è an­ che l' importanza dell'educazione. Nel Timeo Platone però si spinge fino a dire, di nuovo in coerenza con il principio socratico dell' involontarietà del male, che la colpa della cattiveria degli uomini spetta soprattutto ai ge­ nitori e agli educatori, che non hanno saputo formare i giovani nel modo giusto : non hanno saputo, come si può facilmente supporre, indirizzare la naturale propensione di ciascuno alla felicità verso ciò che è davvero bene e davvero rende l'uomo felice. Tale obiettivo per Platone si raggiunge fa­ cendo sì che nell 'anima umana prevalga su tutte la parte razionale, l'unica veramente divina e capace di pensare cose immortali (ricordiamo che essa

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è i n contatto con i l cerchio dell' identico) : beninteso, nella misura i n cui l'uomo può avere parte di ciò che è immortale (9oc).

Le Leggi Le Leggi, l'ultima e più lunga opera di Platone ( 12. libri), ha suscitato pres­ so gli studiosi varie perplessità, tanto che le si è dedicata un'attenzione re­ lativamente modesta, e alcuni l'hanno addirittura dichiarata apocrifa. Ma le Leggi erano considerate opera di Platone anche dai testimoni antichi, e in primo luogo dallo stesso Aristotele. Che cosa c 'è di strano in questo dialogo ? Il problema più grosso è dato dal fatto che la tensione teoretica è complessivamente modesta e che non vi compaiono quasi mai i temi più caratteristici dell'epistemologia e della metafisica di Platone. Un'altra dif­ ficile questione concerne il rapporto delle Leggi con la Repubblica: poiché anche nelle Leggi Platone delinea i contorni di uno Stato ideale, così come aveva fatto nella Repubblica, quali sono le ragioni che lo hanno spinto a scrivere questa specie di doppione ? E quali sono precisamente i rapporti tra le due opere ? Non si tratta, tuttavia, di problemi insolubili. Per quanto riguarda il primo, sappiamo che nei dialoghi di Platone, a causa dei differenti obietti­ vi per cui furono scritti, non possiamo aspettarci di trovare sempre espresse tutte le sue tesi. Inoltre una struttura metafisica portante è presente (come vedremo) anche nelle Leggi: purché non si ritenga che tale struttura debba necessariamente assumere, in Platone, la forma della dottrina delle idee. Per quanto riguarda invece il rapporto con la Repubblica, l' ipotesi più semplice consiste nel ritenere che le Leggi siano una sorta di trascrizione più realistica della teoria platonica dello Stato ideale. Considerando inol­ tre che l'Accademia ebbe anche l' incombenza pratica di formare dei legi­ slatori, qualcuno ha addirittura pensato che questo dialogo sia una specie di manuale di scuola, scritto a uso di quegli accademici che si assumevano responsabilità legislative. Ma probabilmente questo è un po' troppo. In fondo anche nelle Leggi, non meno che nella Repubblica, Platone costrui­ sce un modello ideale (cfr. Leg. 746a-d). Nelle Leggi, per la prima e unica volta in tutta l'opera di Platone, So­ crate non compare fra i personaggi del dialogo. Che sono tre vecchi amici: lo spartano Megillo, il cretese Clinia e un non meglio identificato Atenie­ se (molti ritengono che in questo modo Platone intendesse alludere a sé

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stesso, ad esempio Mayhew, 2008 ) . Nei primi due libri Platone fa capire che le sue simpatie politiche prevedono un accorto temperamento dei vari modelli. Spartani e Cretesi, tradendo in parte le prescrizioni dei rispettivi mitici legislatori, hanno dato troppo spazio alle virtù militari, trascurando la coltivazione dell' intelligenza. Detto questo, un elemento molto positi­ vo delle loro costituzioni è lattenzione dedicata a educare correttamente i cittadini, affinché sappiano mantenere salda la loro virtù nonostante le prove a cui saranno sottoposti. Esse tuttavia hanno tralasciato di segnalare che occorre resistere anche di fronte ai piaceri; e qui si raccomanda in par­ ticolare l'uso ateniese dei pasti in comune, dove questo tipo di resistenza può essere efficacemente valutato e promosso. Più in generale, la pratica dei simposi diviene il simbolo di un'educazione volta a formare il carattere dell'uomo in modo completo, comprendente cioè anche quella urbanità e civiltà che può facilmente risultare mancante quando si addestrano gli uo­ mini solo a riuscire vittoriosi nelle guerre ( 641c ) . L'educazione alla virtù consiste infatti, prosegue l'Ateniese, nel suscitare nei fanciulli il desiderio e lamore di diventare ottimo cittadino, capace di comandare e di essere co­ mandato con giustizia ( 643e ) . A questo fine Platone riprende nelle Leggi l' idea, già proposta nella Repubblica, secondo cui l'arte e la poesia devono essere regolamentate ; ma lo fa con accenti più morbidi, sulla falsariga di quanto già detto nel Fedro, dove la poesia era stata rivalutata anche come fenomeno irrazionale, per lo slancio che può offrire alla stessa attività co­ noscitiva. Il III libro si apre con il problema dell'origine dello Stato. A questo proposito l'Ateniese introduce un mito, in cui immagina che la storia degli uomini proceda per cicli ricorrenti di catastrofi e ricostruzioni. Ali' inizio gli uomini vivono separati e si incontrano di rado, per cui larte politi­ ca ancora non serve. Diventerà utile invece più avanti, quando saranno cresciuti di numero. Sorgono perciò i primi Stati, le prime leggi e i primi legislatori ( 677a-681c) . La loro opera ali' inizio è facile, perché gli uomini conservano ancora una naturale bontà di costumi. Ma con landare del tempo le cose si complicano, e sopraggiunge l inevitabile decadenza. Essa è dovuta, sulla base di un principio che Platone applica dall' inizio alla fine della sua carriera, ali' ignoranza dei governanti e dei legislatori, e in parti­ colare all' ignoranza del bene. Ma in coerenza con lo sviluppo che questo tema ha negli ultimi dialoghi, il bene è ora identificato con la giusta mi­ sura, nel senso di quella armoniosa moderazione già visibile nel Filebo e nel Politico. Una prima applicazione di questo principio si ha nella deter-

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minazione del migliore regime i n assoluto. Posto che l e forme politiche principali sono la monarchia e la democrazia, la costituzione migliore sarà quella che accoglie un'equilibrata mescolanza delle due ( 6 9 3d ) . Al termine di questo libro il cretese Clinia rivela di aver ricevuto l' in­ carico, insieme ad altri, di redigere delle leggi per una colonia che i suoi compatrioti si apprestano a fondare nell' isola. Così i tre amici decidono di continuare il discorso come se stessero ponendo le basi per la creazione di un nuovo Stato, in modo che Clinia possa ricavare dalla conversazione una concreta utilità ( ?02d ) . L'Ateniese si occupa anzitutto di enunciare le condizioni di realizzabilità del modello che si accinge a descrivere. Po­ ste alcune basi di carattere materiale, egli ammette in primo luogo l' inci­ denza del caso ( ?09a-c ) . In modo analogo a quanto Platone aveva detto nella Repubblica ( ma con un pizzico in più di realismo ) , la possibilità che una costituzione diventi eccellente è sospesa al verificarsi di determinate contingenze, come la fortunata comparsa di un principe in possesso per natura delle qualità necessarie a farne un buon politico, cioè intelligenza e moderazione. Occorre, in altre parole, che il massimo di temperanza e d' intelligenza si sposino con il massimo di potere ( 7 1 2a ) . Stabilito questo, bisogna tentare di forgiare le leggi di questo Stato. La perfezione ideale sarebbe quella di un regime governato da un dio. A questo fine viene in­ trodotto un mito in cui si narra di un tempo in cui gli dei guidavano la vita degli uomini alla felicità e al bene. Invece negli Stati governati da mortali e non dagli dei non c 'è scampo al male e ai dolori; per questo i gover­ nanti devono cercare di sviluppare in maggiore misura possibile ciò che c 'è di divino in loro, imitando la vita felice dei tempi di Crono. Risultato di questa imitazione è appunto la legge, che è la traduzione normativa di quanto stabilisce l' intelligenza ( 7 1 4e ) ; cosicché il rispetto delle leggi, negli Stati concreti, terrà il posto dell'obbedienza agli dei nel regno di Crono, e permetterà agli uomini di realizzare un' imitazione efficace dello Stato ideale perfetto. Il principio secondo il quale vera misura delle cose non è l'uomo ma dio, che contiene una scoperta allusione polemica al celebre motto protagoreo ( 7 1 6c ) , è qui calato nella realistica sensibilità tipica degli ultimi dialoghi: il bene e la misura sono divini e perciò superiori al nomos ( che significa a un tempo "legge" e "convenzione" ) , ma è solo attraverso il nomos che questo bene si manifesta all'uomo. Ma il motivo di gran lunga più importante del libro è quello che subito segue. I principi sopra enunciati costituiscono una sorta di proemio alle leggi, che deve essere esposto prima della scrittura delle leggi vere e pro-

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prie. Mentre infatti le leggi prescrivono e puniscono senza spiegare nulla, il proemio ha lo scopo di convincere i cittadini della bontà della legge, e sarà lecito al governante utilizzare mezzi coercitivi solo dopo che egli abbia usato tutta la forza di persuasione in suo possesso ( ?22c-723b ) . Nel Gorgia e nel Politico l'arte medica è figura di un sapere tecnico perfetto che non ha bisogno della persuasione. Invece nelle Leggi Platone distingue fra due tipi di medici, gli uni che non prescrivono nulla senza avere prima persuaso il paziente ( sono i medici degli uomini ) , gli altri che si limitano a comandare ( sono i medici degli schiavi ) . Così come dei due medici è pre­ feribile il primo, che usa entrambi i metodi, allo stesso modo una politica fondata sulla persuasione oltre che sulla coercizione è preferibile a quella che si limita a comandare ( ?2ob-e ) . Il proemio sta alla legge, in altre paro­ le, come la persuasione al comando. In tal modo il paragone con il medico riallaccia il discorso che Platone sta facendo qui al taglio particolare con cui egli fa uso, negli ultimi dialoghi, del modello tecnico. Il sapere filoso­ fico e politico è sempre e solo imitazione del sapere divino, non possiede il potere coercitivo procurato dall'evidenza, e deve perciò affidare almeno una parte della sua efficacia al mezzo retorico della persuasione e dell'edu­ cazione dell'anima. Un ordinamento politico si costituisce anzitutto distribuendo le magi­ strature tra i vari gruppi di uomini. Prima però bisogna aver fatto sì che la popolazione sia purificata nel modo migliore possibile, se necessario anche con metodi dolorosi. L'Ateniese non nasconde la difficoltà di realizzare una simile operazione; ma come sempre la natura ideale del modello per­ mette al discorso di evadere dagli immediati vincoli pratici ( 736c ) . Il punto di partenza della politica e della legislazione è nelle Leggi identico a quello della Repubblica, e cioè l'economia. Fondamentale per il benessere di uno Stato è la giusta misura nel possesso e nell'uso delle ricchezze, perché le di­ suguaglianze e le ambizioni economiche sono la prima causa delle discor­ die tra i cittadini. L'Ateniese richiama in proposito il motto già invocato nella Repubblica per stabilire la comunità dei beni e poi delle donne, cioè che le cose degli amici sono comuni ( 739c ) , e precisa che la costituzione migliore sarebbe appunto quella organizzata in tal modo. Ma nelle Leggi il modello si articola in una pluralità di gradi, per cui occorre non solo stabi­ lire l'ottimo in assoluto, ma anche ciò che all'ottimo più si avvicina, e poi eventualmente determinare anche altri livelli inferiori ( ?39a-b ) . Un esem­ pio saliente riguarda appunto la proprietà privata. Mentre nella Repubbli­ ca, almeno per due classi superiori, Platone l'aveva abolita, nelle Leggi si

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accontenta d i regolamentarla: i beni immobili saranno dichiarati inaliena­ bili e i traffici ridotti al minimo; le disuguaglianze tra i patrimoni potranno oscillare solo in maniera limitata, in proporzione di uno a quattro - nessun cittadino dovrà mai possedere meno dell'unità né più del quadruplo di essa (in tal caso i beni in eccedenza andranno allo Stato) -; vi sarà una moneta corrente, ma solo per usi interni, e chi torni dall'estero con valuta straniera dovrà cambiarla con valuta del paese ( 739e-745a). La maggior parte del VI libro è dedicata alla descrizione delle magi­ strature. Il principio di fondo è che nella misura del possibile tutto deve essere regolato e nulla deve sfuggire alla vigilanza. Tuttavia non v 'è in que­ sto modello politico alcuna idolatria della legge, perché assai più impor­ tante è la virtù di chi ricopre le cariche ; d'altra parte le leggi devono essere continuamente messe alla prova e modificate nelle maniere richieste dal confronto con i fatti. Nel determinare gli accessi alle magistrature Platone mette in opera quel principio realistico di medierà di cui più volte abbia­ mo detto. Le cariche sono in linea di principio elettive, e tutti i cittadini possono contribuire con il loro voto. Ma sono previsti dei meccanismi che modificano in senso aristocratico questo principio. Anzitutto le votazioni avvengono in più turni, per far sì che le ripetute selezioni facciano emer­ gere davvero i più degni. In secondo luogo solo i cittadini delle prime due classi sono obbligati a partecipare alla vita politica, sotto pena di multa; mentre per i cittadini della quarta classe (e in certi casi della terza) tale partecipazione è facoltativa (7s6c-d). Con questa norma Platone vuole, pur senza togliere il diritto ad alcuno, filtrare verso l'alto l'accesso alle cariche di governo, e tenere così la costi­ tuzione nel giusto mezzo tra monarchia e democrazia ( 756e). Il medesimo orientamento è visibile anche nella determinazione della vera uguaglianza. Posto il principio, già enunciato nella Repubblica, che solo l'uguaglianza è causa della concordia (757a), esistono però due specie diverse di ugua­ glianza: una consiste nell'uguale distribuzione di ogni cosa, che si può re­ golamentare con il sorteggio ; l'altra, che è più vera, consiste nel dare di più a chi vale di più, cioè a chi è più virtuoso. Uno Stato ben ordinato dovrà mescolare con equilibrio questi due generi, e in particolare dovrà prevede­ re anche la distribuzione di alcune cariche per sorteggio. L'uso di questo metodo dovrà essere contenuto al massimo, ma è inevitabile per prevenire le sedizioni (7s7d-e). Interessanti, infine, sono le prescrizioni relative agli schiavi e alle don­ ne. Mentre per quanto riguarda le donne l'Ateniese ribadisce, con qualche

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precisazione in più, la stessa condizione di sostanziale uguaglianza già teo­ rizzata nella Repubblica (cfr. 7 83d-785b), qui troviamo una trattazione del ruolo e della natura dello schiavo, di cui nella Repubblica non si faceva pa­ rola (qualche accenno c 'era però in Polit. 289a-e) . La distinzione tra liberi e schiavi è ritenuta da Platone, in accordo con la mentalità del suo tempo, come necessaria. Ma è molto difficile da stabilire, perché non è agevole fare accettare agli schiavi il loro ruolo subordinato. Se perciò è doveroso che il padrone agisca con giustizia nei confronti negli schiavi, e anche a maggior ragione che con gli uomini liberi (perché la virtù si manifesta soprattutto nei comportamenti che gli uomini tengono con chi è alla loro mercé), il padrone dovrà però evitare ogni familiarità, e userà il comando piuttosto che la persuasione, perché in caso contrario guasta il carattere dello schiavo e gli rende difficile l'obbedienza ( 777d-778a) . L'argomento del VII libro è l'educazione. Anche qui Platone ripren­ de il disegno della Repubblica, non senza qualche ulteriore irrigidimento. L' idea è che l'educazione debba avvolgere totalmente la vita dell'uomo dall' inizio alla fine : si accenna addirittura a una specie di ginnastica prena­ tale, perché i bambini appartengono prima allo Stato che ai loro genitori (804d), e le norme che regolano la società costituiscono la misura del bene per tutti. Platone tuttavia era troppo realistico per ignorare che le norme troppo minuziose difficilmente possono essere imposte (e controllate). La soluzione di questo problema consiste nel trovare una via media tra la legge scritta e l'arbitrio, attraverso la formazione del costume e della consuetudine ( 8o 8a). Al di là di qualunque valutazione di merito, bisogna riconoscere che Platone ha colto qui un problema di grande rilievo. Nulla possono fare le leggi se il costume di un popolo non è già orientato in un certo modo ; né si può pensare di modificare i costumi semplicemente in­ troducendo delle prescrizioni: occorre invece una lunga pratica educativa e un costante rispetto di certe tradizioni, affinché i comportamenti corret­ ti si producano regolarmente, per abitudine. L'vm e il IX libro contengono casistiche legislative piuttosto speci­ fiche, riguardanti la vita sociale e civile e l'amministrazione della giusti­ zia, che qui lasceremo da parte. Nel IX libro c 'è però una discussione sul concetto di giustizia che merita almeno qualche accenno (857c-864a). Il principio fondamentale è che la repressione del crimine deve avere carat­ tere educativo e non punitivo (862d). Tale principio si regge sulla celebre massima socratica, che qui viene ripetuta per l'ennesima volta, secondo la quale nessuno compie il male volontariamente. Questo stato di cose non

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esclude però il ricorso alla pena capitale, ove la corrotta condizione del reo risulti inguaribile (8 62e). Lo schema ora delineato lascia aperti però alme­ no due gravi problemi: a ) se il male è comunque involontario, la legge non farà differenza tra le varie azioni, e non terrà conto della consapevolezza di chi agisce ? b) se il male è ignoranza, l'unico rimedio sensato è quello di impartire la conoscenza; perché allora la pena di morte ? Riguardo al primo punto l'Ateniese spiega che il male comunemente chiamato "invo­ lontario" (come ad esempio un danneggiamento inavvertito di un bene) non rappresenta affatto un caso di ingiustizia, ed è male solo nella misura in cui procura un danno ; perciò può essere semplicemente riparato con un risarcimento. L' ingiustizia ha invece a che fare con il bene (862a-b), nel senso che si dice ingiusto colui che tenta di procurare, a sé stesso o ad altri, un bene che non è tale. L'azione educativa delle leggi ha perciò il compito di spiegare a chi non lha ben capito in che cosa consistono il vero bene e la vera felicità. Quanto al secondo problema, l'Ateniese ammette che talvolta l ingiustizia deriva non già dall' intelletto ma dalle passioni, che possono corrompere un'anima talmente in profondità da renderla inguaribile. Per le anime così degenerate la rieducazione non sarebbe di nessuna utilità, e dunque non resta che la pena di morte : la quale sarà in questo caso dop­ piamente utile, perché purifica la città dai malvagi e serve di esempio agli altri (8 62e). Il x libro delle Leggi è il più filosofico di tutta l'opera. Prendendo le mosse dalla necessità etica e politica di convincere i cittadini dell'esistenza degli dei, Platone dedica questo libro a dimostrare che gli dei esistono e che esercitano un'azione provvidenziale nei confronti del mondo e degli uomini. Chi infatti compie azioni empie o parla contro le leggi agisce così o perché non crede agli dei (885b), o perché non crede che essi abbiano influenza sulla vita degli uomini, o infine perché ritiene che i decreti degli dei possano essere modificati con sacrifici e preghiere. Ma è lecito imporre per legge la convinzione che gli dei esistono, oppure bisogna usare la per­ suasione ? Naturalmente il metodo giusto è il secondo. Mai come in questo caso, in effetti, la legge ha bisogno di un proemio : un proemio della cui lunghezza non è davvero il caso di preoccuparsi, perché esso costituisce in un certo senso il proemio di tutta la costruzione legislativa ( 887a-c). Se infatti nei campi ordinari in cui si esercita la legislazione può anche essere sufficiente l'osservanza di un comportamento esterno, sia pure sor­ retto da una persuasione in qualche modo incompleta, la fede negli dei è qui l'emblema di quella persuasione interiore circa l'ordine buono e giusto

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del mondo che agisce direttamente sull'anima e la muove, e senza la quale nessuna norma particolare alla lunga può risultare efficace. Platone sa bene che nella società a lui contemporanea la fede ingenua negli dei, un tempo assorbita attraverso i miti fin dalla bocca delle nutrici (887d), è praticamente svanita. Colpevoli di questa perdita, assimilati da Platone in un unico gruppo di perversi demolitori, sono i filosofi della na­ tura, i sofisti e gli immoralisti in genere. I primi sono responsabili di aver trovato nella materia e negli agenti meccanici le cause di tutto quello che esiste, e di aver negato 1' esistenza di cause divine, intelligenti e provviden­ ziali. Ma su questa stessa linea si sono posti alcuni sofisti, per i quali gli dei non esistono per natura ma sono frutto della convenzione e invenzione degli uomini. Il privilegiamento della convenzione ha prodotto, a sua vol­ ta, effetti etici devastanti. Eliminato il divino, che era la garanzia metafisica per la stabilità e l'osservanza della giustizia, la gente si è abituata a pensare che il concetto di giusto si possa mutare secondo le circostanze, fino a dire che il massimo della giustizia consiste nel riuscire a imporsi con la violenza (889e-89oa: dove si vede una chiara allusione alle etiche "tiranniche" di Trasimaco e Callicle)33• Il punto di partenza della confutazione platonica consiste nell' indivi­ duare ciò che propriamente può essere detto « natura » . Per gli empi filo­ sofi « naturalisti » natura sono i quattro elementi (891d). Ma l'Ateniese spiega che se 1' anima fosse anteriore e più vecchia di tutti questi elementi, a lei spetterebbe il primato, e sarebbe la realtà che a maggior diritto deve essere detta «per natura » (892c). Platone fa uso qui delle espressioni « natura » e «per natura » per indicare, nei modi rispettivamente carat­ teristici della filosofia presocratica e della sofistica, ciò che è fondante in rapporto a ciò che è fondato (comprendendo in ciò che è fondato sia la realtà che deriva, secondo i naturalisti, dalla composizione degli elementi o nature, sia tutto ciò che i sofisti consideravano convenzionale, come ad esempio il nomos, perché secondario in rapporto alla materialità dei bisogni e dei desideri). Se poi si riuscirà a dimostrare che 1' anima precede il corpo, si sarà anche dimostrata 1' anteriorità di tutto ciò che la riguarda (opinione, cura, intelletto, arte e legge) in rapporto a ciò che riguarda il corpo ( 892b). L'eccellenza dell'anima è dimostrata a partire dal moto. Partendo dal presupposto (già usato nel Fedro per dimostrare 1' immortalità dell'anima) che ci deve essere un moto originario ed essenziale che muove sé stesso, Platone osserva che di questo moto non può essere responsabile la mate-

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ria (che è inerte, e dunque si muove solo se è mossa da altro). Perciò deve esistere un ente immateriale che sia il soggetto di questo moto primario ; e questo ente è appunto l'anima. Il passaggio dall'anima agli dei non presen­ ta particolari difficoltà. Se è vero che in ogni cosa che si muove da sé biso­ gna supporre la presenza di un'anima immateriale, e poiché il movimento circolare degli astri è fra tutti il più ordinato e perfetto, è necessario che i corpi celesti siano delle divinità possedute da anime incomparabilmente migliori di quelle umane : cosicché può essere confermato il celebre detto di Talete, secondo cui « tutto è pieno di dei » (899b). Dimostrata l'esistenza degli dei, occorre ora provare che essi si occupa­ no delle vicende umane. L' ipotesi che gli dei non se ne interessino nasce dalla considerazione del male che accade nel mondo, dell' ingiustizia per cui spesso si vedono prosperare i malvagi e i virtuosi dibattersi tra le sven­ ture. D 'altra parte non si può ritenere che esseri sapienti e perfetti come gli dei, pur interessandosi del mondo e degli uomini, non sappiano o non possano porre un rimedio ai mali. Per risolvere questo problema Platone in primo luogo dichiara che il bene dell'universo riguarda il tutto prima dell' individuo e che il singolo serve al benessere della totalità (903c). Ma questo argomento, qui come nel luogo della Repubblica in cui era già sta­ to menzionato (cfr. p. 79 ), non è del tutto soddisfacente. Così l'Ateniese introduce l'altro grande motivo che in seguito è stato spesso utilizzato per sollevare dio dalla responsabilità di causare il male, ossia la libertà umana. È vero che dio governa tutte le cose secondo il meglio. Però egli ha lasciato agli uomini la libertà di modellare e di educare la loro anima a loro piacimento, così da farla diventare buona o cattiva a seconda dei casi (9 04c) . Perciò, come già nel mito di Er nella Repubblica, la responsabilità del male ricade in ultima analisi sull'uomo ; mentre gli dei, al contrario, si incaricano di ripristinare la giustizia violata distribuendo premi e ca­ stighi dopo la morte a seconda dei meriti e dei demeriti. La terza cosa da dimostrare, cioè che gli dei non si lasciano piegare dalle preghiere dei malvagi, non presenta problemi, perché la disponibilità a lasciarsi cor­ rompere è naturalmente incompatibile con la natura di dio. Terminato il lungo proemio, il libro si chiude con lenunciazione delle leggi relative alla religione. Negli ultimi due libri il discorso riprende a trattare aspetti particolari della legislazione civile (di cui, di nuovo, tralasceremo di parlare). L'unica questione fìlosofìcamente rilevante è affrontata nella parte finale del XII libro. Come fare in modo, domanda l'Ateniese, che le leggi così stabilite

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si perpetuino in eterno, e che la buona costituzione non si modifichi e non vada distrutta ? A questo fine deve provvedere il Consiglio supremo dei custodi delle leggi, che si riunisce di notte (96Ia-c). Anziché insistere sugli aspetti inquietanti di questa istituzione (come molti studiosi sono soliti fare), è opportuno osservare che il ruolo del Consiglio notturno cor­ risponde in sintesi al ruolo che nella Repubblica era stato affidato ai gover­ nanti. I membri nel Consiglio, fatta salva una certa differenziazione delle funzioni, rappresentano in rapporto allo Stato quello che in un organismo è l' intelletto. Essi hanno il compito e la prerogativa di conoscere la virtù, e in particolare sanno in che modo la virtù, che pure è una sola, si articola in quattro diversi aspetti (che sono i soliti: sapienza, coraggio, temperanza e giustizia). Ma questa conoscenza è solo l'applicazione di un sapere più generale, che consiste nel riconoscere l'unità del molteplice, l'universale nell' individuale. Insomma, si tratta ancora una volta di quella conoscenza che è per Platone il grado più elevato della filosofia: un render ragione, fondato sul procedimento di analisi e sintesi, capace di individuare il bello e il buono presente in ciascuna cosa.

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Gli orientamenti della critica platonica contemporanea di Francesco Fronterotta

Gli orientamenti principali che la critica platonica ha abbracciato in età contemporanea, dunque dalla metà del XIX secolo e fino all' inizio del XXI, corrispondono per grandi linee alle più marcate tendenze che la riflessione filosofica ha tracciato nello stesso arco di tempo, innanzitutto sancendo una netta distinzione fra analitici e continentali. Specie a partire dall' influenza esercitata dalla teoria semantica e del riferimento dei segni logici e linguistici di Gottlob Frege, dalla teoria dei tipi e dalla riflessione sulla predicazione di Bertrand Russell, e più avanti, naturalmente, dalla filosofia del linguaggio di Ludwig Wittgenstein per quel che concerne forme e modi della relazione fra i termini linguistici e le cose (o gli "stati di cose") esistenti nel mondo', un numero significativo di scholars - soprattutto, ma non esclusivamente, di origine e formazione anglosassone - si è accostato alla lettura di Platone con un approccio genericamente qualificato come "analitico': in quanto im­ prontato essenzialmente ali' analisi degli aspetti logici e linguistici, dunque in primo luogo formali e argomentativi, dell'opera platonica. Sull'opposto versante, gli studiosi appartenenti alla tradizione filosofica dell' Europa con­ tinentale (di origine e formazione "europea': ma non solo), eredi della linea di pensiero che si richiama alla filosofia della storia di matrice hegeliana e particolarmente alla grande storiografia tedesca del XIX secolo, hanno in generale valorizzato lesigenza di una comprensione rigorosamente storica e testuale degli scritti di Platone e della sua dottrina, che si basa dunque ne­ cessariamente sull'esame dei suoi contenuti e sulla loro collocazione nel con­ testo storico e culturale loro proprio: è sufficiente evocare i nomi di Eduard Zeller e di Hermann Diels per ricordare le figure dei protagonisti di maggior rilievo della prima fase di questo approccio, appunto storico e filologico, alla cultura classica'. È quindi attenendosi a una simile distinzione di base che si può procedere a una ricognizione degli indirizzi fondamentali della ricerca contemporanea su Platone.

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L'orientamento logico-analitico Vanno innanzitutto segnalate alcune caratteristiche d' insieme che con­ traddistinguono le interpretazioni logico-analitiche di Platone, per il metodo e per il contenuto. Prevale infatti in esse la tendenza metodolo­ gica a isolare determinati passi o sequenze argomentative dei dialoghi, in modo che, indipendentemente dal contesto narrativo e filosofico in cui si trovano collocati, consentano di essere sollecitati da un punto di vista immediatamente concettuale, fornendo così altrettanti spunti teorici ri­ spetto ai quali stabilire un confronto e un dialogo, per giungere a formu­ lare una valutazione che ne misuri 1 'efficacia e la consistenza. In un simile quadro esegetico, Platone diviene un interlocutore "attuale" e la sua opera è esaminata essenzialmente per i contributi che da essa si traggono in re­ lazione alla prospettiva nella quale 1' interprete la interroga, cioè facendo astrazione dall'eventuale cornice retorica e letteraria che di tale opera pure costituisce parte integrante ; ne segue evidentemente che l' intero appara­ to concettuale platonico, con molte delle sue implicazioni metafisiche, fisiche o psicologiche, può risultare tutto sommato marginale, in quanto dipendente da un approccio filosofico sostanzialmente ingenuo e ancora primitivo, ad esempio perché quantomeno tributario di una forma espres­ siva connessa al racconto mitologico, ed è solo e necessariamente attraver­ so una ben precisa selezione, a un tempo tematica e argomentativa, che possono emergere quegli elementi teorici che suscitano 1' interesse del let­ tore contemporaneo. Saranno allora in particolare gli aspetti logici o epi­ stemologici della riflessione di Platone a essere collocati al centro dell 'at­ tenzione, per considerare il loro apporto all'esame di problemi inerenti la teoria della conoscenza o della proposizione, ma anche, più recentemente, di carattere etico, lasciando invece da parte come sovrabbondanti e ines­ senziali o del tutto mute all'orecchio dei contemporanei questioni come quelle del ruolo e della funzione dell 'anima immortale, della natura e dei fondamenti di una scienza fisica e della struttura ontologica della realtà, perché di fatto sorpassate come semplici ipotesi proto-scientifiche, o come la dottrina politica di Platone, che nulla avrebbe da offrire, né in termini critici né, tantomeno, in termini propositivi, alla moderna sensibilità de­ mocratica e liberale. Così descritta nelle sue linee assolutamente generali e schematiche, 1' interpretazione logico-analitica di Platone si distingue specialmente per il suo spiccato carattere ami-metafisico ( che esso riguardi lo statuto delle

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cose esistenti, dell'anima o dei valori morali) e dunque per la tendenza a ridimensionare, o comunque a reinterpretare, ogni assunto platonico che appunto a tale esito possa indirizzare3• Da questo punto di vista, pare plausibile supporre qui un' influenza significativa, consapevole o inconsa­ pevole, dell'esegesi neokantiana di Platone, ossia della lettura dei dialoghi promossa e via via elaborata tra la seconda metà del XIX e l' inizio del xx secolo, a Marburgo, da filosofi come Hermann Cohen e Paul Natorp, che, appunto alla luce del pensiero di Kant, proposero di intendere la filosofia di Platone, e la sua teoria delle idee in primis, in chiave strettamente gno­ seologica, associando di fatto le idee intelligibili, con i loro tratti genui­ namente metafisici, alle categorie intellettuali kantiane, dunque a criteri a priori di classificazione dei dati provenienti dalla percezione sensibile, certo sussistenti e operanti sul piano della conoscenza soggettiva e inter­ soggettiva, ma privi di qualunque esistenza oggettiva ed esterna, cioè, ap­ punto, "metafisicà'4• Ora, passando alla storia delle interpretazioni logico-analitiche di Plato­ ne, un ruolo di primo piano va indubbiamente attribuito al seminai paper che Gilbert Ryle dedicò al Parmenide nel 1939, che fece appunto di questo dialogo l'essenziale "crocevia" di un ripensamento critico di Platone e una tappa decisiva nell'evoluzione del suo pensiero'. Le critiche sollevate nella prima parte del Parmenide nei confronti della teoria delle idee, non a caso presentata come una dottrina elaborata e proposta da un Socrate ancora giovane e inesperto e sottoposta a una serie di obiezioni apparentemente insuperabili da un Parmenide anziano e carismatico, mostrerebbero infatti l'assoluta inadeguatezza di una concezione metafisica degli intelligibili: se le idee vengono considerate come enti davvero esistenti e separati dalle cose sensibili che ne partecipano, in nessun modo sarà possibile sfuggire ai gravi paradossi e alle contraddizioni che gettano Socrate nella più grande confusione. Solo riconoscendo che le idee sono invece termini generali e universali che si predicano di soggetti particolari e concreti e che la par­ tecipazione fra le cose e le idee coincide in realtà con il meccanismo logi­ co della predicazione, solo a queste condizioni, dunque, si può sciogliere l'ambiguità insita nella natura dei generi ideali e comprendere la discus­ sione svolta nella seconda parte del dialogo, che rimarrebbe, secondo Ryle, irrimediabilmente oscura, se si attribuisse alle ipotesi che vi sono svolte ed esaminate intorno all' "uno" e al "molteplice" un significato meramente esistenziale ("se l'uno è" = "se l'uno esiste"; "se l'uno non è" = "se l'uno non esiste" ecc.). Anche l'esercizio dialettico della seconda parte del dialogo,

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allora, avrà un obiettivo esclusivamente logico che consiste nell'elabora­ zione di una teoria dei "tipi" linguistici: Platone avrebbe cioè cominciato a distinguere fra le diverse categorie generali dei predicati e dei concetti, con il « comportamento logico » (logica! behaviour) che a ciascuna conviene. Una prima differenza indicata da Ryle è quella fra concetti "specifici" e concetti "generici", collocati in una gerarchia che, deduttivamente, passa dal "più generico" al "più specifico" ( ad esempio : creatura vivente - anima­ le - uomo ; figura piana - triangolo - triangolo isoscele ) ; analoga a questa è la distinzione fra concetti "complessi" e concetti "semplici" ( ad esempio armonia è concetto complesso perché comprende sotto di sé i concetti semplici di proporzione, equilibrio e così via) . In entrambi i casi, Platone avrebbe scoperto come i concetti e i termini generali del linguaggio non possono essere disposti su un piano orizzontale di equivalenza semantica, perché il loro significato ( e quindi il valore che assumono nella proposi­ zione ) li struttura in una gerarchia verticale, secondo l'estensione logica e semantica propria di ognuno di essi. Una terza differenza, di fondamenta­ le importanza, è poi quella fra predicati che manifestano le qualità di un singolo ente e predicati di relazione, che esprimono il rapporto fra due o più enti. Infine, la seconda parte del Parmenide distinguerebbe fra termini "formali" e termini "propri" o "non formali": "non formali" sono quei ter­ mini che possono essere predicati solo di soggetti specifici, appartenenti a un particolare ambito semantico ( ad esempio triangolo è predicato solo di una ben precisa figura geometrica; catapulta è predicato solo di un certo strumento di guerra) ; "formali" sono invece i termini adatti a qualunque tipo di predicazione ( ad esempio esistenza, alterità da, identità ecc. posso­ no essere predicati di ogni ente, indistintamente ) . In un' ipotetica sintassi generale del discorso, i concetti "propri" coinciderebbero con le singole lettere che compongono le parole, mentre i concetti "formali" costituireb­ bero i modi di combinazione delle parole che danno significato al discor­ so. Come si può constatare, il Parmenide diviene, nella lettura di Ryle, un puro esercizio logico, una grammatica filosofica che intende svelare alcune delle ambiguità del linguaggio, cercando di precisare la sfera di "signifi­ catività" di ogni termine e concetto; il dialogo non porrebbe affatto in questione, invece, né i problemi connessi alla presentazione del monismo eleatico né le difficoltà sollevate da Parmenide contro la teoria delle idee e l'ontologia platonica, appunto e precisamente nella misura in cui proprio tali problemi e difficoltà costituirebbero la spia di una svolta radicale nella riflessione del Platone maturo che, compresa I' indifendibilità e l ingenuità

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di ogni prospettiva metafisica, a partire dalla propria, si sarebbe rivolto, nell'ultima fase della sua ricerca, a un esame della funzione soltanto logica e semantica delle idee, non più concepite come enti esistenti al di fuori dello spazio e del tempo, ma come nozioni, concetti, categorie generali di significato. Un simile postulato esegetico è divenuto ben presto patrimonio comu­ ne e premessa indiscussa fra i commentatori analitici, giungendo a un tale grado di generalizzazione da indurre alla conclusione che, mentre nei dia­ loghi giovanili e della maturità sarebbe possibile attribuire a Platone l' in­ tento di comprendere il senso del mondo sensibile in divenire postulando l'esistenza delle idee, realtà metafisiche di cui le cose sensibili partecipano, invece, nei dialoghi tardi, il compito affidato alla filosofia consisterebbe piuttosto nell' indagine delle relazioni fra i concetti, attraverso un paziente studio del linguaggio e delle combinazioni di parole che rendono signifi­ cativo il discorso, con il fine specifico di svelare le ambiguità normalmen­ te sottese al parlare comune. A partire dal Parmenide e dalle insuperabili obiezioni mosse da Parmenide alla versione "classicà' della dottrina delle idee, emergerebbe insomma, con una netta cesura, un nuovo orientamen­ to : le idee, private ormai di un preciso status ontologico, sarebbero invece concepite come paradigmi del linguaggio, strumenti a priori per la defini­ zione del significato delle parole ( « cose stabilite per garantire la signifi­ catività del discorso [ ... ] concetti fissi - i significati dei termini generali » , Akrill, 1970, pp. 207-9, trad. mia). In tal caso, pare senz'altro legittimo e ragionevole ritenere che l'analisi filosofica e dialettica si riduca a una teoria semantica dell' ambiguità6• Peraltro, benché raramente rimesso in discussione o sottoposto a un'adeguata verifica, tanto rispetto alla sua fon­ datezza storico-testuale quanto per le sue implicazioni interpretative im­ plicite o esplicite7, l' impianto esegetico logico-analitico appena descritto ha comportato una serie di conseguenze notevoli nello studio di Platone. Si constata innanzitutto il tentativo di operare una sistematica rilettura dei dialoghi "metafisici", appunto per depurarli, nei limiti del possibile, da ogni indebita implicazione ontologica, prestando particolare attenzione a quelle opere appartenenti alla riflessione tarda di Platone (il Teeteto, il Sofista, il Politico e il Filebo ), nelle quali si manifesta uno spiccato interesse per gli aspetti metodologici, logici e dialettici, della pratica filosofica, in un quadro teorico che privilegia senza dubbio l'esame dei problemi connessi alla dottrina della conoscenza e della definizione. Ne consegue, almeno in linea generale, se non l'esclusione, quantomeno un' assai inferiore con-

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siderazione per i dialoghi che a un simile schema interpretativo risultano sostanzialmente irriducibili perché costruiti secondo una trama narrativa e un intreccio concettuale che appaiono indissolubilmente vincolati a una forma espressiva connessa al racconto mitologico e al ricorso a presupposti teorici ingiustificati dal punto di vista scientifico, come è soprattutto il caso del Timeo, con il suo grandioso exposé fisico-cosmologico che Platone pre­ senta esplicitamente con i tratti di un discorso solo verosimile (eikos logos o mythos), cioè privo di requisiti rigorosi sotto ogni profilo8• Si produce così un'evidente selezione "ideologicà' dei temi filosofici ai quali gli studiosi logico-analitici hanno prevalentemente dedicato la loro attenzione nella lettura di Platone e un esempio ben rappresentativo di questa attitudine è costituito dalla questione della natura della conoscenza, che vale la pena evocare qui brevemente. L' interpretazione tradizionale dell'epistemologia di Platone riconosce abitualmente la scansione gerarchica di diversi livelli ontologici nei qua­ li collocare gli oggetti di altrettanto distinte forme di conoscenza: a "ciò che è pienamente", le idee intelligibili, si rivolge infatti la facoltà razionale dell'anima che realizza una forma di conoscenza compiuta e stabile, cui spetta la denominazione di "scienza" (episteme) ; a "ciò che è e non è insie­ me", che coincide con 1' ambito della realtà sensibile in divenire e costitui­ sce una dimensione intermedia fra l'essere pieno e immutabile delle idee e 1 'assoluto non essere di ciò che non è affatto, conduce la facoltà percettiva dell'anima che può aspirare soltanto a una forma di conoscenza relativa e mutevole, che ha il nome di "opinione" (doxa) ; per "ciò che non è", in­ fine, in quanto è concepito come ciò che non esiste affatto, ossia come il puro nulla, non sussiste nessuna facoltà dell'anima e di esso non è possi­ bile se non }"'ignoranza" (agnoia). Una volta riconosciuta l' inconsistenza di quest 'ultimo livello ontologico e conoscitivo, tale gerarchia finisce per distinguere esclusivamente due piani di realtà e due corrispondenti forme di conoscenza, la scienza degli oggetti intelligibili e 1'opinione delle cose sensibili. A fronte di una simile ontologia, almeno in una certa misura "esi­ stenzialistà' ( solo nel senso che prevede a qualche titolo l'esistenza degli onta), viene proposta un'epistemologia fondamentalmente realista, per cui a oggetti distinti appartenenti a piani di esistenza diversi si addicono facoltà conoscitive distinte e forme di conoscenza diverse, secondo uno schema rigido che dispone la corrispondenza della scienza, sempre vera e stabile, con ciò che è ed esiste e dell'opinione, mutevole e perciò talora vera e talora falsa, con ciò che a un tempo è e non è9•

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Ora, questa interpretazione standard ha incontrato forti opposizio­ ni in ambito logico-analiticow. In estrema sintesi, è stato suggerito che il fondamento individuato da Platone per distinguere scienza e opinione sa­ rebbe di natura non oggettuale, bensì proposizionale, perché, come vuole ampia parte del!'epistemologia contemporanea, ostile a ogni assunto me­ tafisico, ciò che costituisce l'orizzonte della nostra conoscenza non sono propriamente degli oggetti esistenti al di fuori di noi, ma delle proposizioni che formuliamo intorno a determinati oggetti: sembra del resto una po­ sizione assai ragionevole quella per cui verità e falsità vanno individuate nei giudizi sulle cose e non nelle cose stesse, che di per sé, né vere né false, semplicemente sono. Per giungere a questo esito, tuttavia, occorre inoltre sostenere che, quando Platone distingue fra diversi livelli di essere degli oggetti che costituiscono il contenuto della conoscenza, egli non intenda stabilire altrettanti gradi ontologici del reale, ma soltanto differenti gradi di verità e falsità delle proposizioni e dei giudizi in cui si articola la cono­ scenza stessa". Nel quadro di un'epistemologia "proposizionale", insomma, l' indicazione di "ciò che è pienamente" e di "ciò che è e non è insieme" non rinvia a una distinzione fra qualche genere di oggetti, ma fra "ciò che è vero" e "ciò che può essere sia vero sia falso". Da una simile impostazione teorica discendono alcune conseguenze particolarmente impegnative : in primo luogo, la distinzione platonica fra scienza e opinione, non più fon­ data su una differenza ontologica fra oggetti della scienza e dell'opinione, ma esclusivamente sull'opposizione fra proposizioni vere e false, consiste semplicemente nel fatto che, mentre le proposizioni scientifiche sono soltanto vere, le proposizioni doxastiche possono essere sia vere sia false. Scienza e opinione vanno perciò concepite, secondo un' interpretazione logico-analitica, come ambiti proposizionali che ammettono, l'una, sol­ tanto proposizioni vere, laltra, tanto proposizioni vere quanto proposizio­ ni false, costruendo così un ambito scientifico che è, per così dire, puro e omogeneo, e un ambito doxastico, invece, misto e "bastardo"; ma ciò che è davvero importante qui è che l'opinione, quando è vera, si rivela costituti­ vamente identica alla scienza, a essa equivalente quanto al suo valore e alla sua utilità pratica, ma, prima ancora, rispetto alla sua struttura e alla sua consistenza. In secondo luogo, se non si pone nessuna differenza fra oggetti di scienza e oggetti di opinione, ma solo fra proposizioni vere e proposizio­ ni false, avremo che, sul piano ontologico, non avrà senso ammettere due piani separati di realtà e di esistenza o, se ci si vuole esprimere così, due mondi distinti dell 'essere e del divenire, delle idee intelligibili e delle cose

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sensibili: questo esito genuinamente metafisico dell'omo-epistemologia di Platone potrà essere senz'altro archiviato, quasi come un arcaico e ingom­ brante residuo di un' ipoteca pre-filosofica primitiva e ingenua, più intima­ mente connessa a un' immaginifica fantasia mitologica che alla riflessione razionale e dialettica. Date queste premesse, si comprenderà come, di conseguenza, il terreno privilegiato per una simile interpretazione finisca per trovarsi nel Teeteto, dialogo interamente dedicato ali' indagine intorno alla natura dell'episteme e che, soprattutto, affronta la questione senza chiamare in causa, almeno apparentemente, alcun riferimento alle idee intelligibili o comunque a real­ tà extra-mentali, che si collochino cioè al di fuori dell'anima individuale del soggetto conoscente". Di fronte all' insuccesso della ricerca condot­ ta, che porta alla formulazione e all'esame di tre successive definizioni di conoscenza, via via confutate da Socrate, e alla conclusione aporetica del dialogo, ancora una volta, gli studiosi continentali suppongono che Plato­ ne intenda mostrare come, prescindendo dalla postulazione dell'esistenza delle idee, si riveli appunto impossibile formulare una definizione della co­ noscenza - perché il concetto stesso di conoscenza è intimamente connesso alla natura dei suoi oggetti, e vera è esclusivamente la conoscenza che assu­ me come proprio contenuto le idee immutabili e pienamente essenti13. Al contrario, l' interpretazione logico-analitica giudica l'assenza delle idee nel Teeteto come una radicale autocritica da parte di Platone, che abbandone­ rebbe qui la teoria metafisica delle idee, con una vera e propria svolta nella sua riflessione, così sottoponendo al lettore un invito o una sfida a costru­ ire una prospettiva alternativa'4 oppure presentando egli stesso l'abbozzo di una teoria essenzialmente logico-proposizionale della conoscenza e del giudizio, che individua il suo criterio di verità in un principio di coerenza semantica che prescinde interamente da ogni fondamento ontologico, cioè da qualunque riferimento allo statuto degli oggetti conosciuti'\ e che trove­ rebbe più ampia illustrazione nella ben nota distinzione fra discorso "vero" e discorso "falso" argomentata con maggior rigore nella sezione conclusiva del So.fista'6• Il Platone logico-analitico si prefigurerebbe insomma essen­ zialmente come precursore di un approccio proposizionale alla questione della conoscenza e di una soluzione coerentista del problema della sua veri­ tà, la sua metafisica risolvendosi in ultima analisi, nelle opere tarde, in una riflessione sul tema della predicazione e dei principi logici che la governano. Appaiono confermati, da questo pur breve e parziale resoconto, quei trat­ ti segnalati inizialmente come caratteristici delle letture logico-analitiche:

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una ben precisa selezione di brani e tematiche dei dialoghi platonici suscet­ tibili di essere sollecitati in una prospettiva filosofica in certa misura omoge­ nea e perciò comparabile con quella dell' interprete ; un'ovvia preferenza per tutto ciò che appartiene all'ambito dell'argomentazione, della metodologia di ricerca e della riflessione sulla consistenza logica dei costrutti linguisti­ ci e semantici, con l'altrettanto evidente esclusione di quanto invece viene confinato nella sfera solo mitologica di modelli esplicativi proto-scientifici o di paradigmi politici incorrect; l' intenzione, esplicita o implicita, di fare in ultima analisi di Platone un interlocutore "attuale� delle cui tesi risulta dunque legittimo e sensato valutare la validità e la fondatezza.

L'orientamento continentale Passando al fronte continentale, è bene prendere nuovamente le mosse da una rapida sintesi delle tendenze generali che, nel metodo e nei contenuti, permettono di individuarne gli elementi peculiari e i lineamenti unificanti. In linea di massima, emerge nelle letture continentali di Platone una spic­ cata propensione a privilegiare un approccio complessivo, se non, talvolta, propriamente sistematico, all'esame e all' interpretazione del corpus plato­ nico, le cui singole parti s' intendono come inevitabilmente contestualizza­ te nell' insieme che esso costituisce, in base al principio esegetico secondo cui non gioverebbe alla comprensione del pensiero di Platone un'eccessiva frammentazione esplorativa - dialogo per dialogo o perfino brano per bra­ no - perché un'indagine paziente dell' intero corpus permette certamente di individuare una serie più o meno numerosa di tesi o dottrine filosofiche che, se non si lasciano ricondurre, sempre e necessariamente, nella rigida forma di un "sistemà: consentono tuttavia di fissare dei limiti oltre i quali l' interpretazione diviene arbitraria o propriamente infondata'7• Il princi­ pale criterio di valutazione, e metro di misura, per evitare un simile esito, consiste senza dubbio nella metodica collocazione storica dell'opera pla­ tonica nella cultura, non solo filosofica, ma anche letteraria e scientifica, del suo tempo, in base alla quale stabilire un confronto che conduca ad apprezzarne adeguatamente, appunto in termini comparativi e non in as­ soluto, la forma espressiva come i contenuti: ne emerge ad esempio, dal punto di vista formale, un significativo recupero dei tratti mitologici che talora caratterizzano l'esposizione e l'argomentazione dei dialoghi, che non compongono il quadro di una semplice favola primitiva, ma assurgo-

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no appunto al rango di vera e propria forma letteraria attraverso la quale una certa epoca si è espressa e che va dunque esaminata come tale. Un ana­ logo atteggiamento si manifesta rispetto ai contenuti fìlosofìci del corpus, che, situati nella più generale storia del pensiero, cui appartengono come momento fondativo e indipendentemente dalla loro immediata "attualità': acquistano piena e integrale rilevanza: tutto ciò che costituisce l'oggetto della riflessione di Platone si rivela allora degno dell'attenzione e dell' inte­ resse dell' interprete, ivi compreso quanto appare a occhi moderni e a una mentalità scientifìca evoluta come irrimediabilmente "superato". Non solo, dunque, quegli aspetti logici ed epistemologici che delineano una metodo­ logia o quantomeno un indirizzo di ricerca che si presume anticipino alcu­ ne posizioni contemporanee, ma anche e soprattutto l' insieme di tesi che attengono all'ambito della metafìsica, della fìsica e della cosmologia, come pure dell'etica e della politica, che tanta parte hanno, con ogni evidenza, nella riflessione di Platone e che vanno comprese e commisurate secondo i parametri loro propri sul piano storico e non certo alla luce di un' inge­ nua concezione progressiva della vicenda del pensiero di cui appunto la contemporaneità sarebbe apice e giudice'8• Almeno per quel che attiene alla sua ispirazione storicistica, tale prospettiva esegetica trova plausibil­ mente le sue lontane origini, mi pare, nelle hegeliane Lezioni sulla storia della .filosofia, che mirano appunto a reintegrare la riflessione antica nella più generale vicenda della storia dello spirito : in questo senso, il pensiero di Platone, che trova la sua espressione defìnita nei dialoghi, non si lascia con­ fondere con una sorta di astratta philosophia perennis, l' incontestabile ipse dixit dell'antico maestro, ma costituisce solo un momento determinato della storia della fìlosofìa. Storicizzare Platone signifìca infatti, per Hegel, cogliere nella dottrina del fìlosofo di Atene il movimento dialettico della ragione nella storia o, più banalmente, il contributo che Platone diede al progresso delle scienze fìlosofìche della propria epoca ( cfr. Hegel, 1833 ) 19• Negli studi platonici novecenteschi, una genealogia delle interpreta­ zioni continentali, almeno nei loro assunti essenziali e più largamente condivisi, non può prescindere dal riferimento ad alcuni studi fondamen­ tali che, per quanto ormai datati, continuano a rappresentare a mio avvi­ so altrettanti modelli critici, nei quali, soprattutto, si possono facilmente riconoscere alcune caratteristiche premesse esegetiche di fondo10; è per­ ciò a maggior ragione notevole che si tratti di opere in lingua inglese e provenienti dall'area anglosassone, a conferma del fatto che la distinzione fra analitici e continentali ha piuttosto un carattere "fìlosofìco" che non

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propriamente "geografico". Occorre innanzitutto ricordare i lavori in certa misura pionieristici di Paul Shorey (cfr. Shorey, 1903; 1933), che, insieme a una significativa valorizzazione degli aspetti artistici e letterari dell 'o­ pera platonica e alla sua messa in relazione con la prosa contemporanea, forniscono, per un verso, una sintesi filosofica che identifica I' incontesta­ bile unity of Plato's thought nella convergenza della problematica etico­ politica, finalizzata alla definizione paradigmatica della giustizia sul piano individuale e collettivo, della teoria metafisica delle idee - intesa come una « modalità realistica di descrivere l'universo » secondo le « essenze sostan­ ziali delle nozioni generali che costituiscono le unità ontologiche ultime del reale, cui ci riconducono l'analisi psicologica e logica » ( Shorey, 1903, trad. mia leggermente modificata) - e della dottrina dell'anima che, in vir­ tù della sua natura immortale e del suo statuto affine, o congenere, alle idee intelligibili, rappresenta l' indispensabile condizione di accesso, per il soggetto conoscente, alla conoscenza delle idee intelligibili e, attraverso di essa, alla comprensione dell'universo. Senza, per altro verso, rinunciare a una minuziosissima ricerca testuale che permetta di radicare queste gene­ rali linee di riflessione nella lettera dei dialoghi platonici, ossia esponendo propriamente what Plato said. Al di là del metodo d' indagine e dello stile che ne caratterizza lapproccio esegetico al corpus platonico, si vede bene come Shorey abbia formulato con estrema chiarezza, e collocato al centro della sua lettura di Platone, quel nesso essenziale, che contraddistingue in modo peculiare la quasi totalità delle posteriori letture continentali, fra la metafisica delle idee - concepite come termini universali ontologica­ mente sussistenti - il realismo logico ed epistemologico della definizione e della conoscenza vera che alle idee necessariamente si rivolgono - che si fonda al livello psicologico sull'altrettanto metafisica concezione dell' ani­ ma immortale - e l'esigenza fondazionale di un'etica basata su un sistema valoriale inequivocabilmente universale e oggettivo, che affonda anch'esso le sue radici nella metafisica delle idee. Di simili tematiche, e delle loro sfumature mitologiche o perfino poetiche, Shorey dà conto facendo astra­ zione da qualunque valutazione di merito, cioè alla luce della filosofia con­ temporanea, ma mostrandone la pertinenza e il significato in relazione alla cultura e alla visione del mondo in cui sono radicate. Di un simile orientamento interpretativo, e della sua specifica metodo­ logia di analisi, sono esempio e concreta applicazione i raffinati running commentaries che Francis M. Cornford ha dedicato ad alcuni fra i più im­ portanti dialoghi platonici, in cui la traduzione e la dettagliatissima spiega-

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zione del testo, in ogni sua minima sfumatura, si accompagnano costante­ mente allo sforzo di giungere alla loro comprensione facendo riferimento alla tradizione filosofica, scientifica e letteraria del loro tempo, mantenendo d'altro canto un'attitudine "deflazionista", che resista cioè alla tentazione di estrapolare dai singoli dialoghi o da specifici passi di essi determinate tesi filosofiche che valgano, isolate dal loro contesto, in un confronto astratto e immediato con l'attualità ( cfr. Cornford, 1935; 1937; 1939 ). Ma è soprattutto l'opera di Harold F. Cherniss che si impone come modello delle contemporanee letture continentali di Platone, in primo luogo dal punto di vista metodologico, quindi sul piano dei suoi contenuti teorici. A Cherniss si deve infatti la prima e più approfondita esplorazio­ ne sistematica del corpus aristotelico come fonte di informazioni intorno alle dottrine dei pensatori presocratici e di Platone, un'esplorazione intesa precisamente come premessa indispensabile per cogliere il significato di quelle dottrine nell'orizzonte loro proprio, dunque applicando esaustiva­ mente un principio di "contestualizzazione" che permetta di misurarne storicamente, ed entro questi limiti "oggettivamente", i tratti effettivi e la reale consistenza ( mi riferisco a Cherniss, 1 9 3 5 ; 1944). Ma, più ancora, è in un suo breve saggio che Cherniss ha proposto una sintesi efficace, e tut­ tora per grandi linee condivisa dagli studiosi continentali, dei principali nuclei metafisici, epistemologici ed etici della riflessione di Platone ( cfr. Cherniss, 1 9 3 6 ) . Secondo Cherniss, di fronte all'esigenza di rendere conto di un'ampia serie di fenomeni naturali, particolari e apparentemente privi di legge o principio, Platone non si sarebbe limitato a "duplicare" il mondo sensibile per trasferire ingenuamente nel mondo delle idee intelligibili i problemi relativi alla determinazione dell 'universalità del giudizio e del­ la struttura fisico-cosmologica della sfera empirica - come implica la ben nota critica aristotelica contenuta nel capitolo 9 del libro I della Metafisi­ ca. Al contrario, egli avrebbe pensato di individuare con la postulazione delle idee un piano di realtà immutabili e autoreferenziali, capaci di co­ stituire innanzitutto il criterio "standard" per una valutazione di carattere etico-politico contro il radicale relativismo morale professato da Protago­ ra e dai sofisti in generale : l'elaborazione di un metodo della definizione dei valori e delle virtù nei dialoghi giovanili di Platone rappresenterebbe precisamente il tentativo di fondare la legittimità del giudizio morale ri­ correndo a certi enti primi e autonomi, non ulteriormente riconducibili ad altro e perciò a loro volta inderivati e universali. La costruzione di un simile sistema etico sarebbe inoltre intrinsecamente connessa alla formula-

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zione di un'adeguata teoria della conoscenza, se, come appare nel Menone, la possibilità stessa dell' identificazione della virtù e delle norme universali dell'agire virtuoso dipende da una preliminare conoscenza della virtù in sé. Ora, per essere vera, la conoscenza deve distinguersi essenzialmente dall'opinione mutevole e instabile e possedere l'eternità e l'autoevidenza assolute di una concatenazione causale stabile e necessaria; d'altra parte, la distinzione fra verità e opinione trova il suo fondamento nella teoria delle idee, giacché soltanto le idee - enti eterni, immobili ed esenti dal di­ venire spazio-temporale - si rivelano davvero conoscibili e perciò oggetto di pensiero e scienza, che è possibile realizzare in virtù della facoltà più elevata dell'anima, che, dotata di uno statuto ontologico affine a quello delle idee, è di conseguenza in grado di accedere a esse. Infine, al di là della sfera etica dei valori e del problema epistemologico della vera conoscenza, rimane ancora da considerare l insieme dei fenomeni fisico-cosmologici che sembrano sfuggire di per sé a qualunque ordine o principio regolatore. Ed ecco che, nel Timeo, Platone rappresenta il divenire e la processualità del mondo sensibile come un' immagine imperfetta e derivata dell'eterni­ tà delle idee: alle idee appartiene dunque anche il ruolo di causa prima e "non causata" dei fenomeni naturali e della struttura del cosmo. La teoria delle idee sarebbe insomma caratterizzata, secondo Cherniss, da una coe­ rente e rigorosa "economià' filosofica, che si manifesta evidentemente nel tentativo di rendere conto di fenomeni fra loro diversi e di diversa natura attraverso l'unica e semplice ipotesi dell'esistenza delle idee: I fenomeni fisici [ .. . ] considerati in sé stessi e non come oggetto di sensazione o co­ noscenza possono essere salvati soltanto dall' ipotesi di idee separate e sostanziali. Che l'ipotesi necessaria e sufficiente per la sfera fisica si riveli essere la stessa per l'etica e l'epistemologia fa sì che si possano considerare le tre sfere dell'esistenza, della conoscenza e dei valori come un unico cosmo unificato. I fenomeni appa­ rentemente disparati di questi tre ordini [ . . . ] dovevano essere spiegati da un'unica semplice ipotesi, che non solo rendesse intelligibili questi fenomeni presi sepa­ ratamente, ma che ne stabilisse allo stesso tempo l interconnessione ( Cherniss, 1936, pp. 26-7, trad. mia) ".

Ora, le linee essenziali che emergono dalla pur schematica sintesi interpreta­ tiva prospettata da Cherniss, quali che siano le osservazioni o le critiche che possono esserle rivolte e che le sono state effettivamente rivolte, hanno trac­ ciato senza dubbio i confini dei principali filoni del dibattito continentale su Platone nella seconda metà del xx secolo e nel primo decennio del XXI :

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- si constata infatti che, per quel che riguarda la struttura e larticola­ zione della metafisica platonica e i suoi rapporti con la concezione fisico­ cosmologica dell'universo sensibile, particolarmente vivo e costantemente rinnovato appare il confronto intorno al tema della causalità eidetica, vale a dire al ruolo che alle idee intelligibili è riservato come "cause" delle cose sensibili, specie rispetto all'esatta determinazione della natura della loro azione causale - solo formale e paradigmatica o propriamente efficiente e alla possibilità stessa che enti esistenti al difuori del mondofisico, le idee appunto, possano esercitare un'efficace azione causale nel mondofisico"; - come anche, sul piano psicologico dello statuto dell'anima immortale, rimane profondamente controverso l'esame della sua funzione di princi­ pio di animazione, movimento e vita del vivente, individuale e cosmico, specie in rapporto con il suo ruolo di soggetto epistemologico ed etico, della conoscenza e dell' azione'3; - pure assai intensa prosegue la discussione intorno alla teoria etico-po­ litica di Platone, dalla Repubblica alle Leggi, e alla rilevanza che in essa assume il riferimento alla metafisica delle idee come paradigma universale dell'agire individuale e collettivo e della costituzione di un sistema statuale concretamente attuabile nella realtà del divenire e della storia umana, della sua plausibilità e della sua desiderabilità>+. Bisogna d'altro canto rilevare che, in seno all'orientamento continen­ tale, al di là di questa descrizione d' insieme che ne contraddistingue le tendenze generali, sono emerse, nel corso del xx secolo, alcune correnti interpretative dai tratti più marcati che consentono di individuare vere e proprie scuole definite da una specifica connotazione esegetica. Particolar­ mente in relazione alla componente metafisica della riflessione di Platone, è stata proposta di essa una sistematica rilettura alla luce di alcune (non sempre lineari) testimonianze antiche, in primo luogo aristoteliche, che, in apparente o reale contraddizione con il contenuto dei dialoghi, sembra­ no suggerire l'esistenza di certe "dottrine non scritte" che Platone avrebbe professato all' interno dell'Accademia. In effetti, la possibilità di un simile insegnamento orale è stata al centro di numerose discussioni che risalgono verosimilmente ai primi discepoli di Platone e che sono state rilanciate, fin dai primi anni del Novecento, da studiosi come Robin e Gomperz ( cfr. so­ prattutto Robin, 1908, e Gomperz, 1928), i quali tentarono di ricostruirne i contenuti appunto attraverso i riferimenti aristotelici. Questa posizione era motivata, da un lato, dalla svalutazione della scrittura a favore dell'o­ ralità dell'attività filosofica, che sarebbe attestata in alcuni passi del Fedro

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(274b-279c) e della VII Lettera (34ob-345c) e , dall'altro, dall'esigenza di giungere a una ricostruzione del "sistema" filosofico di Platone che certo non traspare come tale dai dialoghi scritti. Una lettura del genere, inizial­ mente piuttosto isolata, è stata accolta e pressoché interamente rielaborata da un nutrito gruppo di commentatori attivi presso l' Università di Tu­ binga: Kramer e Gaiser alla fine degli anni Cinquanta e, più di recente, Szlezak; successivamente, è stata diffusa altrove, e in particolar modo in Italia, da Giovanni Reale'5• La prospettiva esegetica delineata dalla "scuola di Tubinga'' (o "Tubinga-Milano") consiste, per un verso, nella decisa sva­ lutazione di ogni comunicazione "scritta" che Platone sosterrebbe, sancen­ do così l'esclusione dallo scritto, in ogni sua possibile forma, dei contenuti più autentici della sua riflessione: ciò non solo, o non tanto, per esigenze di segretezza, ma per una strutturale irriducibilità alla codificazione rigida e per evitare la possibilità di fraintendimenti e di pericolose deviazioni da parte di lettori sprovveduti, così associando la sfera filosofica più alta e compiuta all'attività dialettica che si esaurisce nella conversazione diretta fra maestro e discepoli e con modalità essenzialmente esoteriche. Per altro verso, dei contenuti di tale dialettica orale questi commentatori propon­ gono una ricostruzione, sulla base delle testimonianze aristoteliche, da cui emergerebbe una dottrina dei principi primi costituita su due livelli distin­ ti, l ' Uno, causa dell'essere, e la Diade del grande e del piccolo, causa della molteplicità del mondo sensibile e del divenire : a partire da questa fonda­ mentale polarità duale si determinerebbe la generazione dei numeri e infi­ ne delle idee intelligibili, al di sotto delle quali si colloca la realtà naturale dell'universo fisico. Non è difficile comprendere come le linee lungo le quali si articola l' immagine esoterista di Platone mirino quindi essenzial­ mente a tre obiettivi: innanzitutto, quello di comprendere, nel suo com­ plesso, il "sistema" filosofico di Platone al di là della visione frammentaria e provvisoria dei singoli dialoghi; in seguito, quello di cogliere l'autentico significato degli stessi dialoghi che risultano, da questa lettura, "inverati", ossia superati nella loro parzialità e compresi nell'effettivo significato che a essi Platone attribuiva; infine, quello di valutare la filosofia platonica, appunto il suo "sistema'', da un punto di vista teoretico che ne permetta il confronto con i grandi sistemi di pensiero della tradizione occidentale. Su un versante per molti aspetti opposto a quello metafisico, e rigoro­ samente sistematico, appena delineato, e tuttavia in stretta relazione con il principio, anch'esso caratteristico delle interpretazioni continentali, di una lettura di Platone attenta agli aspetti formali e letterari del corpus del-

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le sue opere, al fine di determinare le condizioni necessarie per coglierne gli esiti e le acquisizioni ponendosi in dialogo con esso nel rispetto della sua propria Weltanschauung, si situa l'approccio ermeneutico indissolubil­ mente legato al nome di Hans-Georg Gadamer e, attraverso quest 'ultimo, di Martin Heidegger'6• Leggere Platone da un punto di vista ermeneuti­ co significa, secondo Gadamer e i suoi seguaci, entrare direttamente in relazione con il suo pensiero, cioè assumendo un punto di vista fenome­ nologico che colloca la comprensione di esso all' interno di una pre-com­ prensione che è, sì, inevitabilmente stabilita in base alle categorie lingui­ stiche e concettuali dell' interprete, ma che, appunto per questo motivo, risulterebbe più efficace per condurre a un autentico e genuino "dialogo" più che a un'equivocamente oggettiva e soltanto erudita "ricostruzione". E sono proprio gli aspetti dialogici della riflessione platonica che Gadamer ha soprattutto valorizzato, sottolineando il carattere aporetico e "aperto" della dialettica di Platone, che manifesta un'evidente prossimità all'ere­ dità socratica piuttosto che a qualunque forma di metodologia rigida e definitivamente fissata che la tradizione posteriore potrà qualificare come "platonicà'. È infatti nel domandare e nel rispondere, secondo una serie di regole condivise che sanciscono tanto la libertà e la spontaneità degli interlocutori, quanto il loro comune e sincero impegno nella discussione, che si fonda lo stesso procedimento ermeneutico, che mira appunto a in­ trecciare con l'autore esaminato e la sua opera un dialogo "per domande e risposte", che è possibile solo a patto di fissare delle coordinate linguisti­ che e concettuali riconoscibili e commensurabili, pur nella consapevolezza della distanza storica che rimane incolmabile ; ma se nei "discorsi" si situa la verità dell' interpretazione, è precisamente a questo livello e in questa prospettiva che diviene lecito e auspicabile sollecitare i dialoghi platonici, senza che sia plausibile attendersi che tale verità si trovi definitivamente fissata in una dottrina conclusa e dogmaticamente compiuta. Spingendo ai suoi limiti l'orientamento interpretativo continentale, anche nel caso dell'approccio ermeneutico Platone diviene un interlo­ cutore da interrogare e sollecitare "attualmente", non però, come avvie­ ne in ambito logico-analitico, per misurarne e giudicarne le tesi alla luce dell'attualità dell' interprete, bensì, al contrario, per restituire l' interprete all'attualità di Platone, ossia rendendosi contemporanei di Platone e pren­ dendo sul serio le questioni che egli solleva, le risposte che fornisce loro e le verità che ritiene di aver stabilito. Si tratta in tal caso non tanto di sto­ ricizzare Platone, per consegnarlo al suo tempo e farne così un oggetto di

LA CRITICA PLATONICA CONTEMPORANEA

ricerca documentaria, ma di storicizzare il suo lettore, se così si può dire, per ricondurlo a un dialogo vivo con l'opera platonica.

L'approccio dialogico e la "terza via" A margine della distinzione fra analitici e continentali vanno almeno bre­ vemente menzionate alcune proposte esegetiche fiorite negli studi plato­ nici degli ultimi decenni, generalmente considerate solo parzialmente in relazione con l'uno o l'altro dei due orientamenti principali e da intendere piuttosto come alternative a essi. Alle interpretazioni ermeneutiche si riallaccia per certi aspetti il co­ siddetto dialogica/ approach, che tende a sfumare, se non a dissolvere del tutto, gli elementi propriamente dottrinari della riflessione di Platone, prestando particolare attenzione alla cornice letteraria delle sue opere e alla ricostruzione del loro contesto narrativo. Viene così stabilito un prin­ cipio di autonomia dei singoli dialoghi ( diversamente dall'attitudine con­ tinentale a una comprensione d' insieme del corpus platonico ) , non però considerandone astrattamente e in assoluto determinati passi specifici ( come è caratteristico delle letture logico-analitiche ) , bensì valorizzan­ done l'unità e la compiutezza da un punto di vista letterario e filosofico. In questa misura, rispetto alla focalizzazione degli aspetti argomentativi e della presentazione drammatica dei dialoghi, pare ragionevole risalire agli studi di Leo Strauss, che ha ritenuto di individuare una caratteristica mo­ dalità "dissimulatoria" che Platone avrebbe messo in atto nei suoi scritti, allo scopo di evitare il rischio di urtare la morale prevalente e la communis opinio dei suoi contemporanei, di incorrere in contrasti o punizioni da parte dell'autorità. Non si tratta soltanto di nascondere, tramite pruden­ te reticenza, le proprie tesi autentiche, ma di proporre alternativamente, dissimulandone i contenuti attraverso un complesso schema dialogico che ne cela ironicamente i contenuti effettivi, un progetto ben preciso, i cui contorni risultano identificabili e accessibili ai lettori che sappiano ol­ trepassare l' immediatezza letterale di quanto Platone scrive, per cogliere i riferimenti esoterici che egli tratteggia attraverso gli articolati scambi dialogici fra i suoi personaggi'7• Incontriamo qui il nucleo originario del dialogica/ approach, che prende le mosse dalla constatazione che Platone non si esprime mai in prima persona nei suoi scritti, sicché, anche am­ mettendo che egli si serva di alcuni dei suoi personaggi come portavoce,

STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA

rimane una più o meno profonda asimmetria o discrasia fra l'autore e gli attori dei dialoghi, specialmente nel caso di Socrate, che è l' indubbio pro­ tagonista della maggior parte di essi e il cui ruolo di portavoce di Platone deve comunque fare i conti con la ben nota attitudine all' ironia che tradi­ zionalmente viene associata al suo nome. Questo intreccio di portavoce e di interlocutori implica la stratificazione, nei dialoghi, di punti di vista e di livelli di comunicazione distinti, ed è appunto dalla decifrazione di questo meccanismo di stratificazione di personaggi e di piani di comunicazione che dipende la possibilità di apprezzare l'autentico contenuto esoterico del pensiero platonico. È dunque l"'anonimità" dei dialoghi che si pone al centro dell'attenzione, come in un gioco di maschere che Platone avrebbe costruito per sancire l' indissolubile connessione fra la ricerca filosofica e l' indagine dialettica da condurre necessariamente in comune>8• Pur senza coincidere interamente con il dialogica! approach, all'atten­ zione esegetica che questo rivolge agli aspetti formali dell'opera platonica si collega la proposta recente di una "terza via'', che si è posta in alternativa tanto al Platone "sistematico" che emergerebbe dalle interpretazioni con­ tinentali, quanto al Platone "ami-metafisico" tratteggiato nelle interpre­ tazioni logico-analitiche, valorizzando particolarmente quegli aspetti dei dialoghi che appaiono mirati a definire le condizioni a priori dell' indagi­ ne filosofica piuttosto che a indicare tesi e contenuti dottrinari positivi. Elaborata programmaticamente da Francisco J. Gonzalez19, la "terza via" intende perciò rappresentare anche una mediazione esegetica rispetto alla classica e netta contrapposizione fra letture "dogmatiche" e letture "scettiche" di Platone, suggerendo che egli si sarebbe dedicato a una ri­ flessione di carattere metodologico e dialettico più che alla formulazione di una o più teorie definite. Non si tratterebbe quindi di escludere dall'o­ rizzonte della filosofia l'obiettivo ultimo del raggiungimento della verità, che rimane, contro ogni forma di scetticismo, di per sé accessibile, ma di sottolineare, in chiave ami-dogmatica, che Platone non avrebbe tuttavia precisato realmente le effettive condizioni di accesso a essa, concentran­ dosi invece sulle differenti modalità in cui deve articolarsi la sua ricerca. Come mostra anche solo schematicamente questa breve rassegna, i di­ versi orientamenti filosofici della critica platonica contemporanea giustifi­ cano oltre ogni dubbio la varietà delle interpretazioni di Platone, che forni­ scono a loro volta un'evidente testimonianza, più che dell'assenza di fattori di unanime consenso, della ricchezza e della vitalità del suo pensiero.

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L'Accademia antica di Franco Trabattoni

La scuola di Platone La data presunta della fondazione dell 'Accademia risale, secondo la mag­ gioranza degli studiosi, al decennio che va dal 390 al 3 8 0 a.C., poco dopo il ritorno di Platone ad Atene dopo il suo primo soggiorno siracusano'. Questo, peraltro, sembra essere uno dei pochi elementi davvero assoda­ ti a proposito di questa per certi versi misteriosa istituzione'. Mentre in passato gli storici della filosofia antica si sono incautamente abbandonati a supposizioni di vario genere, le indagini più recenti hanno imposto or­ mai da tempo una doverosa prudenza. Sono state abbandonate, in primo luogo, ipotesi chiaramente anacronistiche, come quella secondo cui l'Ac­ cademia sarebbe stata una sorta di modello arcaico, ma sostanzialmente analogo, delle moderne università (con la presenza, per intenderci, di aule, corsi, professori, laboratori di ricerca ecc.). Ma anche altre supposizioni, storicamente più accertabili, sono state radicalmente ridimensionate. Una di queste è che l'Accademia fosse, sotto il profilo giuridico, una sorta di as­ sociazione religiosa (tiaso) avente come scopo formale il culto delle Muse3• Un'altra informazione sicuramente leggendaria è quella secondo cui l'Ac­ cademia si aprisse con un portico sopra il quale troneggiava la scritta "Non entri chi non è matematico". In realtà, anche se sembra fuori discussione il fatto che Platone abbia stimolato i suoi discepoli e collaboratori a con­ durre ricerche in quest'ambito del sapere (cfr. in proposito Vegetti, 2004, pp. 74-5), non siamo nemmeno certi che nell 'Accademia esistessero corsi regolari di discipline matematiche, sul modello di quanto previsto nella Repubblica per i governanti della kallipolis. Il problema di fondo che lo storico deve affrontare è che le testimonianze in nostro possesso per lo più non sono recenti, e dunque hanno la tendenza a retrodatare ali' antica Ac­ cademia fatti e situazioni che in realtà appartengono a periodi posteriori

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(l'Accademia fondata da Platone - dunque escludendo le riedizioni tardo antiche - restò in vita sino all ' 8 8 a.C.). Cerchiamo dunque di attenerci ai fatti assodati e a qualche ragionevole ma limitata supposizione. Diogene Laerzio racconta che 1 'Accademia platonica è sorta in un luo­ go fuori delle mura di Atene dove già esistevano una specie di parco pub­ blico (con boschetto e giardino) e un ginnasio (ossia un luogo dedicato agli esercizi fisici). Quivi usavano riunirsi già prima di Platone (si pensi ai luoghi in cui si svolgono i dialoghi socratici) sofisti e filosofi, con i loro di­ scepoli, per conversare e discutere. Platone si sarebbe limitato a comprare, o a costruire, uno o più edifici nelle vicinanze di questo giardino, in cui poi si sarebbe svolta la parte principale dell'attività della scuola. Benché, come detto, non si trattasse di un cenobio religioso, non è escluso che alcuni membri dell 'Accademia vivessero al suo interno, mentre siamo abbastanza certi che altri (ad esempio Aristotele, che fu membro dell'Accademia per vent 'anni) avessero una casa fuori. Un altro dato piuttosto sicuro è che l'Accademia non era una setta così elitaria e impermeabile da non far pas­ sare all'esterno un' idea sufficientemente attendibile di quello che accadeva dentro. In proposito abbiamo le testimonianze della cosiddetta "comme­ dia di mezzo", una delle quali è opportuno riportare per intero (l'autore è Epicrate) : A. Che dire di Platone, e di Speusippo e Menedemo ? A che attendono ora ? Quali cure, quale discorso è oggetto del loro investigare ? Questo, saggiamente, se qual­ cosa ne sai, dimmi, per la Terra ... B. So chiaramente che dire di loro : vidi infatti alle Panatenee la schiera di quei giovani nei ginnasi dell'Accademia, tenervi discorsi indicibili, assurdi. Dando de­ finizioni [aphorizomenoi] sulla natura, separarono la natura degli animali e quella delle piante e le specie dei vegetali. Poi fra questi la zucca presero in esame, di che genere [geneJ sia. A. E che definizione diedero del genere a cui appartiene la pianta ? Spiegamelo, se lo sai. B. Dapprima tutti, muti, stettero intenti e curvi, e rifletterono per lungo tempo. Poi d' improvviso [ exaiphnes) , mentre ancora eran curvi e investigavano i giovani, uno di loro disse che è un vegetale rotondo, uno ch'è verdura, uno ch'è albero. Ascoltando ciò un medico venuto dalla Sicilia si rivoltò loro contro, dicendo che deliravano. A. Si adirarono allora per la derisione e gridarono ? Far così in una riunione è sconveniente. B. Non se la presero molto i giovani. Platone poi, ch'era presente, molto dolce­ mente e senza adirarsi, fece loro di nuovo . Brentano propone qui una nuova interpretazione dell'ontologia aristotelica. Dopo aver ricostruito la "tavola" dei significati dell'essere secondo Aristotele l'essere per accidente o in sé, l'essere come vero e come falso, l'essere se­ condo le categorie e l'essere secondo la potenza e l'atto -, e aver mostrato che di questi il significato più importante è il terzo, Brentano individua il fondamento unitario dell' intero sistema aristotelico nella prima categoria, quella della sostanza (ousia). L'ontologia viene da lui reinterpretata, quin­ di, come "ousiologià', ossia come dottrina della sostanza e dei suoi attribu­ ti: Brentano giunge anzi a prospettare la possibilità di una deduzione di tutte le altre categorie dalla sostanza (cfr. ivi, trad. it. pp. 9 5-8). Ora, la dissertazione brentaniana ha costituito il punto di partenza del-

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la formazione filosofica di Martin Heidegger ( 1 8 8 9-1976) che la lesse già negli anni del liceo : grazie ad essa, la riflessione del filosofo di Messkirch s' imperniò fin dal principio sul problema ontologico. Nelle diverse fasi del suo pensiero, infatti, Heidegger saggiò in successione ciascuno dei signifi­ cati dell'essere distinti da Aristotele, e illustrati da Brentano, in rapporto alla sua capacità di fungere da fondamento unitario di tutti gli altri ( cfr. Volpi, 1 9 84). Nella sua prima fase, quella "scolastica", il significato dell'es­ sere individuato da Aristotele che egli prese in considerazione in tale pro­ spettiva fu quello già indicato come fondamentale da Brentano, vale a dire l'essere secondo le categorie. Lungo tale linea, Heidegger ( seguendo anche qui Brentano ) giunse a interpretare l'omonimia pros hen come riduzione di tutte le categorie alla sostanza, intesa quale genere "comune" (cfr. Hei­ degger, 1 9 8 9 ) . Nella seconda fase del pensiero heideggeriano, iniziatasi con l' incon­ tro, avvenuto nel 1 9 1 6, con la fenomenologia husserliana, diviene centra­ le un altro significato dell'essere colto da Aristotele. Si tratta dell'essere come vero, ossia come aletheia: questa viene interpretata da Heidegger come il manifestarsi dell'essere all' intuizione immediata ( cfr. Heidegger, 1963, trad. it. pp. 1 83-90 ) . Nel cosiddetto Natorp-Bericht3, il filosofo tede­ sco sostiene che per Aristotele il senso fondamentale dell'essere è quello degli oggetti prodotti, usati nella pratica ( cfr. Heidegger, 1990, p. 525). In questa stessa prospettiva, Heidegger preciserà in seguito la propria inter­ pretazione della metafisica in generale, e di quella aristotelica in partico­ lare, come "onco-teologia". A suo giudizio, infatti, la metafisica aristotelica è scissa fin dall' inizio in scienza dell'ente in quanto ente, da un lato, e scienza della sfera più eminente dell'ente, ossia di dio, dall'altro ( cfr. Hei­ degger, 1929-30 ). Sempre in questa fase, Heidegger mette in relazione, in modo inedito quanto suggestivo e proficuo, la trattazione aristotelica del tempo, che rientra nella filosofia della natura, sia con la teoria delle forme del sape­ re illustrata nell' Etica Nicomachea ( vI e x 6-7; cfr. pure Metaph. I 1-2), sia con la discussione sull 'essere come vero svolta nella Metafisica ( I v 7; VI 4; I X 10) ; questo, nel quadro di un' interpretazione "integrale" la qua­ le, oltrepassando la tradizionale separazione dell'ontologia dall'etica, fa emergere un'analisi dell'esistenza pre-filosofica che viene elevata al livello di "ontologia fondamentale". Sein und Zeit, il capolavoro, pubblicato nel 1927, in cui si condensa la riflessione svolta dal filosofo tedesco su Ari­ stotele a partire dagli inizi degli anni Venti, può così essere considerato

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« il sostituto di un libro su Aristotele che non vide mai la luce » (Brague, 19 88, p. 55). Anche nelle fasi successive del suo pensiero, Heidegger continuò a cer­ care in Aristotele il significato fondamentale dell'essere. Dopo la svolta (Kehre) , Io individuò nell'essere secondo la potenza e l'atto. Nel saggio Vom Wesen und Begriffder physis. Aristate/es, Physik B 1, del 1939 (ora in Heidegger, 1967 ), dopo aver affermato che « la Fisica aristotelica è il libro fondamentale della filosofia occidentale, un libro occultato e quindi mai pensato sufficientemente a fondo» (ivi, trad. it. p. 196), egli spiega che in quest 'opera Aristotele, pur concependo la physis come natura, cioè come un genere particolare di enti, mantiene ancora leco della sua concezione originaria. Questa si manifesta soprattutto nella concezione aristotelica della physis come principio interno di movimento, ossia come "motilità". In tal modo, la physis, e quindi I' energeia che la definisce, costituirebbero il significato fondamentale dell'essere (cfr. ivi, trad. it. p. 255). Sulla linea interpretativa tracciata da Heidegger si collocano vari im­ portanti studi pubblicati a partire dagli anni Trenta, come quelli di Wal­ ter Brocker (1902-1992) (cfr. Brocker, 1935), Karl Ulmer (1915-1981) (cfr. Ulmer, 1953) e soprattutto Ernst Tugendhat (n. 1930) (cfr. Tugendhat, 1958). Di notevole rilievo, inoltre, le pagine sull' « Attualità ermeneutica di Aristotele » in Wahrheit und Methode di Hans-Georg Gadamer (19002002), anch'egli discepolo di Heidegger (cfr. Gadamer, 1960). Qui Ga­ damer individua nella filosofia pratica di Aristotele il modello della pro­ pria ermeneutica; peraltro, egli tende a ricondurre quella che il filosofo di Stagira chiamava "scienza politica" alla phronesis, ossia alla virtù esaminata nel VI libro dell' Etica Nicomachea. In effetti, è precisamente dall'analisi aristotelica della phronesis che Gadamer desume quei caratteri del sape­ re pratico che a suo giudizio corrispondono ad altrettanti aspetti dell'er­ meneutica (cfr. Gadamer, 1 9 6 0, trad. it. 1983 pp. 3 6 5 ss.). Riconducendo la dimensione pratica di Aristotele al sapere del phronimos, il quale a sua volta si fa espressione dell'ethos dominante - vale a dire delle convinzioni, valutazioni e abitudini condivise da tutti -, l interpretazione gadameriana tradisce peraltro un conservatorismo di fondo+. Tra gli interpreti di Aristotele influenzati dalla prospettiva heideggeria­ na vanno altresì citati l' italiano Leo Lugarini (1920-2005) (cfr. Lugarini, 1961) e soprattutto il francese Pierre Aubenque (n. 1929 ), autore di due monografie di grande valore : Le probleme de l'etre chez Aristate (Auben­ que, 19 62) e La prudence chez Aristate (Aubenque, 1963).

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Studi più recenti sulla metafisica di Aristotele L' interpretazione di Heidegger ha svolto un' importante funzione di sti­ molo anche per la riflessione più recente sulla metafisica aristotelica, la quale si è concentrata sui due problemi della sostanza prima e dell'unità della scienza dell'essere. A fondamento di quest'ultima si trovano da un lato l'affermazione aristotelica della polivocità dell'essere (to on leghetai pollachos: Metaph. IV i. 1003a 3 3 ; VI i. 10i.6a 3 3 ; 10i.6b i.; V I I 1 10i.8a IO ) , dall'altro la connessa questione dell'unità dell'essere. In tale prospettiva, si discute soprattutto il concetto aristotelico di ousia. Christoph Rapp (n. 1964) ha rilevato che la traduzione consueta di questo termine con "sostanza" è fonte di fraintendimenti, in quanto richiama il concetto di so­ stanza elaborato nel quadro della dottrina delle categorie, conformemente al quale sostanza è la cosa concreta, intesa come portatrice di proprietà soggette a mutamenti (cfr. Rapp, 1996, p. 8). Nella Meta.fisica, invece, Aristotele convoglia nel concetto di ousia aspetti differenti e non agevol­ mente conciliabili (almeno primafacie) : da una parte, infatti, l' ousia deve essere definibile come sostanza, dall'altra, però, le definizioni si riferisco­ no agli universali, mentre essa non può essere l'universale (cfr. Metaph. VII 13 1038b 9 ). Michael Frede (1940-i.007) e Giinther Patzig (n. 19i.6) nell'edizione da loro curata del libro V I I , che ha segnato una svolta negli studi sulla Meta.fisica (cfr. Frede, Patzig, 1988), hanno mostrato che Ari­ stotele cerca di risolvere tale problema mediante un ampliamento e una revisione dell'originaria teoria delle categorie. Nel formulare la pregnante espressione to ti en einai - da loro resa con "ciò che significa essere que­ sto" (das, was es heisst, dies zu sein) - , Aristotele ricerca la causa dell'essere delle sostanze individuali, che chiama egualmente sostanza (ousia). Que­ sta sostanza prima, egli la individua non nella materia priva di forma e neppure nell'universale, bensì - sottolineano Frede e Patzig - da un lato nella forma individuale, e dall'altro nella forma specifica che sta alla base di tutti i mutamenti, ma non esiste accanto alle sostanze individuali (cfr. ibid.) . In tempi più recenti, Thomas Buchheim (n. 1 9 57) ha precisato che questa forma corrisponde a ciò che Aristotele definisce come physis (cfr. Buchheim, 2.001). Da menzionare anche le indagini sulla metafisica aristotelica svolte da Enrico Berti (n. 1935) il quale, richiamandosi alla caratterizzazione della dialettica e dei suoi diversi usi formulata da Aristotele all' inizio dei Topici ( I 2. 101a 3 6-b 4), ha mostrato che il metodo dialettico può avere anche una

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funzione dimostrativa "forte", in particolare se impiegato in relazione a tesi contraddittorie. In tal modo, la dialettica può svolgere un ruolo fon­ dante anche per la metafisica, come Aristotele ha posto in luce dimostran­ do dialetticamente sia la validità, intesa come innegabilità, del principio di non contraddizione, sia l' impossibilità di una spiegazione immanentistica del cosmo (cfr. in particolare Berti, 1977; 1989 ) .

La "riabilitazione della filosofia pratica" Negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, alcuni filosofi tedeschi di origine ebraica emigrati negli Stati Uniti opposero la "filosofia politicà' di Platone e Aristotele alla moderna scienza politica ispirata da Max Weber. Si tratta degli esponenti della Nuova filosofia politica, i quali possono essere considerati gli iniziatori della vera e propria rinascita della filosofia pratica di orientamento aristotelico (cfr. Volpi, 1980 ). Tra loro, Leo Strauss (18991973) ha sottolineato come la filosofia della politica debba costituire un sapere eminentemente pratico : in quanto tale, essa ha il compito di formu­ lare dei giudizi di valore e di esercitare una funzione direttiva. A giudizio di Strauss, il metodo della "filosofia politica classica" era fornito dalla vita politica stessa. Su tale linea, Strauss tende a identificare la filosofia politi­ ca di Aristotele con la saggezza (phronesis), intesa precisamente come la virtù dell'uomo politico (cfr. Strauss, 1959 ). Anche un altro esponente di questa corrente, Eric Voegelin (1901-1985), insiste sulla centralità del­ la phronesis: essa rappresenterebbe la "virtù esistenziale" e coinciderebbe con la scienza politica di cui Aristotele parla ali' inizio dell' Etica Nicoma­ chea (cfr. Voegelin, 1 9 6 6 ) . Per Hannah Arendt (1906-1975), allieva d i Heidegger e autrice d i The Human Condition (Arendt, 1 9 58), lapraxis, intesa quale forma di vita, cioè come bios praktikos o politikos, rappresenta la condizione umana autentica. Il primato della vita pratica, da intendere quale discussione e deliberazione assieme agli altri sul modo in cui vivere insieme, avrebbe trovato la propria realizzazione nell'anticapolis (cfr. ivi, trad. it. pp. 30 ss.). Secondo Arendt, tuttavia, quella connessione fra praxis e logos che caratterizzava la vita della polis ed era ancora presente in Socrate venne infine spezzata da Platone e Aristotele. Essi, infatti, avrebbero sancito la scissione tra filosofia e vita politica, affermando il primato della theoria sulla praxis. Nel contempo, avrebbero privilegiato il sapere poietico, produttivo, su quello pratico, in

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quanto avrebbero considerato il primo, inteso quale realizzazione di un eidos previamente contemplato, come più vicino alla pura theoria (cfr. ivi, trad. it. pp. 3 1 2 ss.). Si è già visto ( cfr. p. 277) come Gadamer abbia individuato nella filo­ sofia pratica aristotelica il modello dell'ermeneutica. Significativamente, il saggio gadameriano dal titolo Hermeneutik als praktische Philosophie è stato compreso nel primo dei due volumi curati da Manfred Riedel (19362009) sotto il titolo Rehabilitierung der praktischen Philosophie, editi nei primi anni Settanta (cfr. Riedel, 1972-74), con i quali la corrente della "ria­ bilitazione" della filosofia pratica aristotelica ha ricevuto una sorta di rico­ noscimento ufficiale. Tra gli esponenti di tale movimento, troviamo anche un discepolo di Gadamer, Riidiger Bubner (1941-2007 ). Non diversamen­ te dal maestro, anch'egli tende a ridurre il sapere pratico alla phronesis: questa, intesa quale ragione che media tra l'universalità dell'orientamento a uno scopo e le situazioni contingenti in cui si colloca l'azione, costituisce per lui l'unica vera forma di razionalità pratica (cfr. Bubner, 1976). A giu­ dizio di Bubner, inoltre, l'ethos, in quanto espressione di una razionalità radicata nella tradizione e dunque preesistente alla razionalità puramente filosofica, rappresenta per Aristotele il criterio ultimo di fondazione dei fini (cfr. Bubner, 1984). Nel suo saggio Politik und Ethik in der praktischen Philosophie des Aristoteles, anche Joachim Ritter (1903-1974) pone l'accen­ to sulla dimensione dell'ethos quale luogo di realizzazione della prassi: si tratta, precisa, di quello sfondo in certo modo preetico di cui i valori pro­ priamente etici costituiscono la manifestazione. A un discepolo di Ritter, Giinther Bien (n. 1936), si deve un' importante monografia sulla Politica (cfr. Bien, 1973): ivi egli dimostra che non Platone, bensì Aristotele è il vero fondatore della filosofia pratica quale forma di sapere diversa dalla filosofia teoretica. La soluzione del problema normativo nell'etica aristo­ telica è poi costituita, a giudizio di Bien, dalla presenza immanente del bene negli uomini, nella forma della virtù di coloro che sono considerati buoni, ossiaphronimoi (cfr. Bien, 1972). In tal modo, questi pensatori sembrano considerare lethos vigente in una determinata comunità come il criterio della moralità, secondo un orientamento che si traduce in una sostanziale giustificazione del sistema socio-politico esistente. Per contro, un altro esponente del movimento, Otfried Hoffe (n. 1943) il quale ha dedicato la propria dissertazione di dottorato alla filosofia pratica di Aristotele (cfr. Hoffe, 1971) e anche in seguito ha continuato a vedere nel pensiero aristotelico (oltre che in -

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quello kantiano) un termine privilegiato di riferimento per la propria ri­ flessione -, ha distinto il piano della vita morale, al cui centro si trova la phronesis, che effettivamente si conforma all'ethos in vigore, da quello della riflessione etica, ossia della filosofia pratica. Quest 'ultima ha una funzione "liberante'', in quanto s' interroga criticamente sull'ethos medesimo, pro­ muovendone la costante revisione (cfr. Hoffe, 1979 ). Va infine ricordato che in Germania il richiamo all'etica e alla filosofia politica di Aristotele è stato anche utilizzato, ad esempio da Odo Marquard (n. 19i.8 ) , in polemica con quello che è stato considerato il carattere astrat­ to e astorico della "teoria critica della società'' di Horkheimer, Adorno e Marcuse.

L'etica aristotelica in Gran Bretagna e negli Stati Uniti Non diversamente da quanto è avvenuto nel contesto continentale (e in particolare tedesco), anche nel panorama filosofico di lingua inglese la fi­ losofia pratica di Aristotele, e soprattutto la sua etica, sono state oggetto nel Novecento di grande interesse e di vivaci discussioni. In Gran Breta­ gna, specie a Oxford, già nella seconda metà dell' Ottocento le opere di Aristotele erano intensamente studiate : in particolare l'Etica Nicoma­ chea, per la quale vanno menzionati i commenti di sir Alexander Grant e di John Burnet - sostenitori del carattere "dialettico" del metodo in essa utilizzato -, e quelli di John Alexander Stewart e di Harold H. Joachim, che parlavano invece di un metodo "statistico" (cfr. Hoffe, 1971, pp. i.4 ss.). Con l'Etica Nicomachea si confrontò anche un altro insigne aristotelista britannico, sir William David Ross ( 1 877-1971 ) , professore di filosofia mo­ rale a Oxford, direttore con John A. Smith ( 1 8 63-1939 ) della traduzione oxoniense di tutto il Corpus aristotelicum, iniziata nel 1 9 0 8 e completata nel 1 9 5 1, ed editore di alcune tra le opere principali di Aristotele, a partire dalla Meta.fisica. L' interesse per l 'etica aristotelica è rimasto vivissimo in Gran Breta­ gna anche nei decenni successivi. Gertrud Elisabeth Margaret Anscombe ( 1 9 1 9 - 2.001 ) , discepola dell' "ultimo" Wittgenstein, nel suo libro lntention (Anscombe, 1957 ) , un classico del pensiero analitico, si richiama esplici­ tamente al tipo di ragionamento che Aristotele ha illustrato in riferimen­ to all'azione, ossia a quello che tradizionalmente è chiamato "sillogismo pratico". Secondo Anscombe, la struttura logica di tale ragionamento è

la seguente : la premessa maggiore indica il fine dell'azione ; la premessa minore collega una particolare azione con questo fine ; la conclusione, in­ fine, consiste nel compiere tale azione. Così come in un' inferenza teorica l'accettazione delle premesse comporta necessariamente quella della con­ clusione, parimenti in un' inferenza pratica l'accettazione delle premesse implica necessariamente un'azione conforme ad esse (cfr. ivi, pp. 40 ss.). La tesi della Anscombe, secondo la quale con questo tipo di ragionamen­ to Aristotele ha formulato una logica della prassi essenzialmente diversa da quella della scienza, ha suscitato un vivace dibattito tra i filosofi ana­ litici1. Alla questione suddetta si è interessato anche Georg Henrik von Wright ( 191 6-2003 ) . Nella sua opera Explanation and Understanding (von Wright, 1971 ) , egli distingue la logica delle scienze naturali, la quale si conforma al modello della "spiegazione" (explanation) di tipo causale, da quella delle scienze umane, la quale s' ispira invece al modello della "com­ prensione" (understanding), ossia a un tipo di spiegazione non causale, bensì teleologico. Von Wright ritiene che il modello esplicativo costituito dall' inferenza pratica, quale è stata teorizzata da Aristotele, sia l'unico a poter essere utilizzato in riferimento alle azioni umane (cfr. ivi, trad. it. pp. 1 1 4 ss.). In questo contesto vanno menzionati pure Philippa Ruth Foot ( 19202010 ), discepola di Anscombe e sostenitrice di un'etica delle virtù che si richiama ad Aristotele, oltre che a Tommaso d'Aquino (cfr. Foot, 2001 ) e, su posizioni analoge, sir Anthony John Patrick Kenny (n. 1931 ) (cfr. Ken­ ny, 1978; 1992 ) . All' inizio degli anni Ottanta è uscita un'opera di vasto respiro sulla filo­ sofia pratica: Ajter Virtue di Alasdair Maclntyre (n. 1929 ) (cfr. Maclntyre, 1 9 8 1 ) . In polemica con le teorie etiche della modernità, l'autore sottolinea la validità del modello aristotelico ; individua infatti la radice dell"'amora­ lismo" che a suo giudizio caratterizza l'età moderna, nella perdita di quella visione della natura umana come fine (telos) che costituiva il fondamento dell'antropologia aristotelica. Per Aristotele, precisa Maclntyre, la liber­ tà comportava la possibilità della scelta razionale, vale a dire il primato della ragione sulle passioni; il naufragio del "progetto dell' Illuminismo" ha invece condotto nel vicolo cieco dell'emotivismo. Ora, pertanto, s ' im­ pone la domanda radicale, formulata nel capitolo centrale dell'opera: "Nietzsche o Aristotele ?'', cui l'autore dà una risposta "possibilista", pur se,

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nel contempo, non immune da un'ombra di pessimismo (cfr. ivi, trad. it. 1988 pp. 307-14 ) . Martha C. Nussbaum (n. 1947 ) , dal canto suo, integrando pienamen­ te nelle proprie riflessioni la dimensione etica e quella politica e contrap­ ponendosi al liberalismo di Rawls e Dworkin, ha riproposto la filosofia pratica aristotelica in varie opere, tra le quali The Fragility of Goodness: Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy (Nussbaum, 1 9 8 6 ) e

Cultivating Humanity: A Classica! Defonce ofReform in Liberal Education (Nussbaum, 1997 ) . In particolare, ha mostrato l'attualità di un'etica della felicità (eudaimonia), i cui tratti fondamentali sono appunto attinti alla riflessione aristotelica.

La filosofia dell'analisi del linguaggio Ancora nell'area di lingua inglese, la corrente dell'analisi del linguaggio e soprattutto la "scuola di Oxford" hanno concentrato la propria attenzione su diversi aspetti del pensiero aristotelico, quali l'analisi dei diversi signifi­ cati delle parole, la teoria e la pratica della critica del linguaggio, il metodo della discussione delle aporie (pur se va osservato che Aristotele era ben lungi dal voler risolvere l' intera speculazione filosofica in una terapia del linguaggio : cfr. Leszl, 1969 ) . Se già all' inizio del secolo scorso George Edward Moore ( 1873-1958 ) , professore a Cambridge, inaugurava la filosofia come analisi del linguag­ gio con i suoi Principia Ethica (Moore, 1903 ) , è soprattutto per opera di Ludwig Wittgenstein ( 1889-1951 ) che si è realizzato il passaggio dallo stu­ dio dei linguaggi formalizzati a quello del linguaggio ordinario, prosegui­ to dai suoi allievi prima a Cambridge, poi a Oxford. Ed è a Oxford che ha avuto luogo un confronto sistematico quanto proficuo con la filoso­ fia aristotelica. Al riguardo, va menzionato in primo luogo John Austin ( 1911-1960 ) , il quale, tra l'altro, promosse una nuova serie di traduzioni con commento delle opere di Aristotele, nota come "Clarendon Aristotle Series". Nel saggio The Meaning oJa Word, del 1940 (ora in Austin, 1970, trad. it. pp. 57-75 ) , egli si richiama alla dottrina aristotelica della relazio­ ne pros hen per confutare la teoria tradizionale del significato. Anche il contributo filosofico più rilevante di Austin, consistente nella fondazio­ ne della moderna teoria degli atti linguistici (cfr. Austin, 1962 ) , mostra un debito considerevole nei confronti di Aristotele. Dal canto suo, John

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L. Ackrill (192.1-2.007), successore di Austin alla direzione della "Claren­ don Aristode Series", ha interpretato la filosofia aristotelica essenzialmente come un'analisi del linguaggio, e in tale prospettiva ha presentato Aristo­ tele come un filosofo analitico tout court ( cfr. Ackrill, 1 9 8 1 ) . A Oxford h a insegnato anche i l grande aristotelista Gwilym E. L . Owen (192.2.-1982.). In un suo importante studio ( Owen, 1 9 57), questi dimostrò come già nell'Accademia platonica si praticasse l'analisi del linguaggio e si facesse uso di una tecnica la quale permetteva di individuare, tra i molti significati di una parola, un "significato focale" ifocal meaning) donde de­ rivano tutti gli altri. Secondo Owen, fu appunto la teoria del "significato focale", vale a dire la dottrina della relazione pros ben, a consentire ad Ari­ stotele di sottrarsi al dilemma tra sinonimia e pura omonimia, presente nelle sue opere giovanili, permettendogli in tal modo di costruire la scien­ za dell'essere in quanto essere, ossia la metafisica, come scienza unitaria. In un altro fondamentale contributo (cfr. Owen, 1961), Owen chiarì che i "fenomeni" da stabilire sono per Aristotele non solo i dati d'esperienza, ma anche e soprattutto ciò che appare all'opinione degli uomini e si mani­ festa nel linguaggio comune. Oltre a Austin, anche l'altro grande esponente della "scuola di Oxford", Gilbert Ryle (1900-1976), coltivò lo studio di Aristotele in profondità e con profitto. In The Concept ofMind ( Ryle, 1949 ) , egli critica la conce­ zione tradizionale, cartesiana, della mente, concepita come una sostanza analoga al corpo e vista in tal modo come una sorta di « spettro nella mac­ china » . Secondo Ryle, questa concezione trae origine da un errore catego­ riale, derivante a sua volta dal linguaggio comune. L'unico a sfuggire a tale errore sarebbe stato Aristotele, il quale avrebbe svolto una vera e propria analisi linguistica, allo scopo di chiarire le differenze tra i verbi usati per indicare, rispettivamente, le attività del corpo e quelle della mente ( cfr. ivi, trad. it. p. 12.5). Ad Aristotele si è poi richiamato anche un altro importante rappre­ sentante della filosofia analitica, Peter F. Strawson (1919-2.006). Nell'o­ pera Individuals ( Strawson, 1959 ) , questi si è proposto di delineare una « metafisica descrittiva » , ricostruendo la struttura della realtà a partire dal modo in cui ce la rappresentiamo, e in tale quadro ha mostrato come aspetti centrali della logica e dell'ontologia aristoteliche siano tuttora va­ lidi. Dopo aver analizzato i "particolari", ossia gli elementi che compongo­ no il mondo al quale fa riferimento il modo di pensare comune, espresso nel linguaggio ordinario, Strawson procede a spiegare la connessione tra

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l idea di un "particolare" e quella di un soggetto logico. A tale scopo, egli esamina la struttura della proposizione, articolata in soggetto e predicato, riproponendo la teoria esposta da Aristotele nelle Categorie (cfr. Berti, 1 992, pp. 159-60 ) . Sempre all' interno della filosofia analitica, l o studio e l interpretazione del pensiero aristotelico si sono rivelati particolarmente fruttuosi anche in relazione all'assai dibattuto problema del!' identità. Così, lamericano Saul Aaron Kripke (n. 1940) in tre sue conferenze risalenti al 1970 (ripubblica­ te in Kripke, 1980) ha in certa misura riproposto la distinzione aristotelica tra le proprietà essenziali e quelle accidentali, ammettendo l'esistenza delle essenze. Dal canto suo, David Wiggins (n. 1936), allievo di Strawson, si è proposto di elaborare una teoria dell' individuazione dei continuants, cioè degli enti che perdurano. A tale proposito, ha formulato la teoria della dipendenza "sortale" del!' individuazione, per la quale si è ispirato, almeno in parte, alla dottrina aristotelica della sostanza (cfr. Wiggins, 1980, ma anche le osservazioni di Witt, 1989 ).

La logica, la retorica e la poetica di Aristotele nel Novecento Logica Un vivo interesse per la logica di Aristotele, dopo che questa aveva co­ nosciuto a partire da Kant un lungo oblio, si è destato all' inizio del No­ vecento grazie all'articolo Vber den Satz des Widerspruchs bei Aristoteles del logico polacco Jan Lukasiewicz (1878-1956) (cfr. Lukasiewicz, 1993). In un' importante opera dal titolo Aristotle 's Syllogisticfrom the Standpoint of Modern Formai Logie (Lukasiewicz, 1951), lo stesso studioso ha poi dimostrato che la sillogistica aristotelica costituisce un sistema dedutti­ vo assiomatizzato, nel quale le proposizioni non primitive sono provate come teoremi mediante assiomi6• Altri importanti contributi sulla sillogi­ stica aristotelica e sulla teoria aristotelica della scienza si devono a Joseph M. Bochenski (19 02-1995) e a Mario Mignucci (1934-2004). Dal canto suo, l' inglese Jonathan Barnes (n. 1942) ha studiato a fondo il problema dell' intuizione dei principi in Aristotele (cfr. Barnes, 1993; 1994). Un discorso a parte spetta agli studi sulla logica modale esposta da Aristotele nel libro I degli Analitici Primi (capp. 8-22) : su di essa si sono susseguite nel Novecento interpretazioni e valutazioni discordanti. Da

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un lato, Oskar Becker ( 1 8 8 9 - 1 9 64) ha sostenuto che la logica modale aristotelica non si lascia trascrivere interamente né secondo la modalità de re, né secondo quella de dicto, e risente di tale fondamentale indeci­ sione. Lo stesso Lukasiewicz ha conseguito risultati poco persuasivi, nel suo tentativo di assiomatizzare la logica modale di Aristotele. Il sostan­ ziale insuccesso del logico polacco ha dato spazio a valutazioni scettiche, come quella di Nicholas Rescher ( n. 1928), il quale è giunto a prevedere un identico scacco per qualsiasi tentativo futuro di racchiudere in un'as­ siomatica la logica modale aristotelica (cfr. Rescher, 1974). Altri, come William C. Kneale e Martha Kneale ( rispettivamente 1 9 0 6-1990 e 19092001), hanno espresso dubbi sulla legittimità stessa di qualsiasi tentativo di costruire una teoria dei sillogismi modali analoga a quella dei sillogi­ smi assertori ( cfr. Kneale, Kneale, 19 62). Studi più recenti hanno tuttavia dimostrato come l'assiomatizzazione della sillogistica modale aristotelica non solo sia possibile, ma possa anche pervenire a risultati convincenti ( cfr. Nortmann, 1996). Retorica Dopo circa due secoli di diffuso scetticismo nei confronti della retorica, questo atteggiamento si è ribaltato nel Novecento in quello opposto : at­ tualmente, la teoria della "comunicazione persuasiva" è considerata con l' interesse più vivo nei settori disciplinari più diversi. Tale mutata dispo­ sizione ha avuto conseguenze di rilievo anche sulla ricezione del contribu­ to aristotelico. Da menzionare, in primo luogo, la New Rhetoric, avviata negli anni Cinquanta da Chaim Perelman (1912-1 9 84). Partendo da una formazione giuridica, Perelman ha studiato le tecniche di argomentazio­ ne e persuasione illustrate nei Topici e nella Retorica. Com'egli spiega in diverse opere (cfr. soprattutto Perelman, Olbrechts-Tyteca, 1 9 5 8 ; Perel­ man, 1977 ), è nelle argomentazioni di tipo dialettico e retorico esposte da Aristotele che va colta la forma di razionalità propria delle scienze morali, ossia l'etica, la politica e il diritto. Tali argomentazioni concernono infatti il verosimile ; in quanto fondate sugli endoxa, ossia sulle opinioni general­ mente accolte, esse sarebbero però prive di cogenza dimostrativa ( tipica invece delle scienze esatte ) . In sostanziale sintonia con le tesi di Perelman, in Germania Theodor Viehweg (1907-1988) ha mostrato che la giurispru­ denza si serve del metodo topico-dialettico teorizzato da Aristotele (cfr.

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Viehweg, 1953), mentre Wilhelm Hennis ( n. 19i.3) ha individuato in tale metodo il modo di procedere della filosofia politica ( cfr. Hennis, 1 9 6 8 ) . Peraltro, verso l a fine del Novecento i l movimento della New Rhetoric è approdato a esiti problematici, che vanno ben al di là di quanto soste­ nuto da Aristotele. Alcuni suoi esponenti di punta, come Alan G. Gross ( n. 1936) e Herbert W. Simons ( n. 1935), nell' intento di "decostruire" ogni pretesa di obiettività delle scienze umane, hanno infatti trasformato la stessa filosofia in una sorta di retorica di taglio relativistico ( cfr. Gross, 1990; Simons, 1990). Come si è già precisato ( cfr. supra, pp. i.78-9), l' ita­ liano Enrico Berti ha per contro rivendicato al metodo dialettico, quale viene teorizzato e praticato da Aristotele, la capacità di giungere, a certe condizioni, a risultati dotati del più alto grado di cogenza dimostrativa. Da segnalare infine il fatto che il rinnovato interesse per la retorica ari­ stotelica ha avuto effetti significativi anche sul piano storico-filosofico e filologico, sollecitando ad analisi approfondite della Retorica ( cfr. in par­ ticolare Rapp, 2.0oi.). Poetica Tra la fine del Settecento e 1' inizio dell' Ottocento, il Romanticismo san­ cì il definitivo tramonto delle cosiddette "unità aristoteliche" ( di tem­ po, di luogo e d'azione ) , dando inizio a un lungo periodo di oblio della Poetica. Anche rispetto a quest 'opera si è però destato nel Novecento un interesse nuovo. Nei primi decenni del secolo, sono stati soprattutto i filologi a riprenderla in esame, dando vita a un dibattito appassionato che si è concentrato sulla teoria della catarsi. In seguito, anche i teorici della poesia si sono accostati all'opera: da menzionare, in particolare, i cosid­ detti "critici di Chicago" o "critici aristotelici'', tra i quali Ronald Salmon Crane ( 1 8 8 6- 1 9 67) ed Elder Olson ( 1 909-199i.). Reagendo al soggettivi­ smo interpretativo dei new critics, essi si sono richiamati alla tradizione poetico-retorica occidentale traente appunto origine dalla Poetica ( peral­ tro non più fraintesa in senso aprioristico-normativo ) . Non privo d' in­ teresse è poi il fatto che il romanzo Il nome della rosa ( 1 9 8 0 ) di Umberto Eco ( 1 9 3i.-i.0 1 6 ) , che ha riscosso un successo internazionale, s' imperni sulla vicenda immaginaria della riscoperta e della successiva distruzione del secondo libro ( a noi non pervenuto e forse mai scritto ) della Poetica, dedicato alla commedia.

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Aristotele nell'epistemologia e nella scienza del Novecento Epistemologia Dopo un lungo periodo di eclissi, in cui la scienza di Aristotele è stata ritenuta completamente superata, quasi costituisse una sorta di reperto archeologico, negli ultimi decenni del Novecento hanno avuto luogo il recupero e la rivalutazione non solo delle metodologie utilizzate da Ari­ stotele per lo studio della natura, ma anche di alcune sue specifiche teo­ rie scientifiche. L'epistemologo e storico della scienza lhomas S. Kuhn (1922-1 996), nell'esaminare la natura delle rivoluzioni scientifiche, e in particolare il passaggio dal paradigma geocentrico a quello copernicano, ha posto in luce gli aspetti che hanno consentito al modello cosmologico e astronomico di Aristotele di mantenere un ruolo dominante dall'anti­ chità fino al principio dell 'età moderna. Al riguardo, ha chiarito come tale modello dia espressione, ancorché in termini altamente sofisticati, a una visione ingenua e "naturale" dei fenomeni (cfr. Kuhn, 1957 ). In segui­ to, Kuhn ha "riabilitato" anche la fisica di Aristotele, e in particolare la concezione aristotelica del moto (cfr. Kuhn, 1977 ) . Dal canto suo, un epi­ stemologo "radicale" come Paul Feyerabend (1924-1994) ha difeso, non senza buoni argomenti, l'assunzione aristotelica dell'esperienza sensoriale come base per l' interpretazione della natura, contro la scissione tra realtà e apparenza consumatasi nella scienza moderna (cfr. Feyerabend, 19 8 o ) . Nuovi approcci alla fisica e alla matematica di Aristotele Già alla fine dell'Ottocento il francese Émile Boutroux (1845-1921), pre­ correndo alcuni sviluppi della scienza contemporanea, si era richiamato ad Aristotele per formulare una visione della natura la quale, in polemica con il determinismo che dominava la cultura del tempo, assegnava spazi via via più ampi alla dimensione del non necessario, ossia alla contingenza ( cfr. Boutroux, 1895). È però soprattutto a partire dalla metà del Novecento che l'attenzione di molti scienziati si è rivolta alle opere di filosofia natu­ rale dello Stagirita, e soprattutto alla Fisica. Così, nel 1960 l'americano John H. Randall Jr. (1899-1980) poteva osservare che la filosofia naturale di Aristotele, a lungo considerata come d' interesse ormai meramente sto­ rico, stava riconquistando un'assoluta centralità nel dibattito scientifico, mentre la meccanica newtoniana, nonostante la sua importanza decisi-

INTERP RETAZIONI DI ARI STOTELE NEL N OVECENTO

va per la fondazione della scienza moderna, sembrava ormai destinata a perdere legemonia di cui aveva goduto negli ultimi secoli (cfr. Randall, 1960 ). Secondo il premio Nobel per la chimica Ilya Prigogine (1917-2003), la scienza aristotelica utilizza come modello di spiegazione dei fenomeni i processi che interessano le realtà terrestri, e in particolare gli organismi vi­ venti: sono, questi, processi irreversibili, dominati dalla freccia del tempo. Nella scienza newtoniana, invece, il modello esplicativo dell' intera realtà è costituito dal moto dei corpi celesti, concepito come assolutamente rever­ sibile (cfr. Prigogine, Stengers, 1979 ). Il secondo principio della termodi­ namica ha però mostrato che anche nei processi fisici, e non solo in quelli organici, si dà una forma d' irreversibilità: in tal modo, è emersa l'esigenza di una nuova alleanza tra filosofia e scienza, da attuarsi nel segno di una visione - analoga a quella aristotelica - imperniata sul ruolo determinante del tempo (cfr. ivi, trad. it. p. 52). A questo proposito, va anche rilevata l'esistenza di suggestivi punti di tangenza tra il "vitalismo cosmologico" di Aristotele (su cui cfr. Jori, 2009a; 2009b) e alcune correnti attuali di carattere ecologico-utopistico, imperniate sulla teorizzazione della natura "vivente" della Terra-Gaia (cfr. Sfez, 1995, trad. it. pp. 231 ss.). Viene ora considerata con interesse anche la concezione aristotelica dello spazio. Storici e filosofi della scienza, come Max Jammer (1915-2010) e Samuel Sambursky (1900-1990), hanno infatti mostrato come il cosmo finito e disposto in uno spazio qualitativamente differenziato di Aristotele presenti sorprendenti affinità con la visione dell'universo della teoria della Relatività generale (cfr. Jammer, 1954, trad. it. pp. no ss.; Sambursky, 1 956, trad. it. pp. 94 ss.). Tra la fine del Novecento e gli inizi del secolo attuale al­ cuni scienziati ed epistemologi si sono richiamati ad Aristotele anche per risolvere le difficoltà connesse con la concezione einsteiniana del conti­ nuum spazio-temporale : ad esempio, Tim Maudlin (n. 1958) ha proposto una forma di essenzialismo (essenzialismo metrico) di tipo parzialmente aristotelico (cfr. Maudlin, 1990; 1993; 2007). È stato altresì posto in luce come la cosmologia aristotelica si avvicini sotto molti aspetti alla visio­ ne dell'universo proposta dal fisico sir Robert Penrose (n. 1 9 3 1 ) (cfr. Jori, 2ou, pp. 203 ss.). Alla nozione aristotelica del continuo e alla concezione non discre­ ta della realtà formulata dallo Stagirita si è inoltre richiamato uno tra i massimi matematici del Novecento, René Thom (1923-2002), cui si deve la teoria delle catastrofi (cfr. Thom, 1974). A giudizio di Thom - che ha interpretato la fisica aristotelica come una "semiofisica", ossia come una

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fisica delle "forme significanti" -, lo schema ilemorfico di Aristotele esibi­ sce rilevanti punti di tangenza con il modello delle catastrofi da lui stesso elaborato (cfr. lhom, 1989). La rivalutazione della riflessione aristotelica sul continuo ha avuto effetti non trascurabili, tra la fine del Novecento e gli inizi del nuovo secolo, anche sullo studio e l ' interpretazione di sezioni importanti, ma finora poco comprese, della Fisica (cfr. Hasper, 2.003). Da alcuni decenni, anche l'analisi aristotelica dell' infinito è oggetto di attenzione da parte di matematici e filosofi della matematica: il già men­ zionato Oscar Becker ha chiarito che può essere ancor oggi estremamen­ te utile per la fondazione dell'analisi superiore (cfr. Becker, 1965, p. x n ) , mentre per Kurt von Fritz (1900-1985) essa va considerata una valida al­ ternativa alla teoria dell' infinito attuale di Georg Cantor (cfr. von Fritz, 1971, pp. 691 ss.). In tempi ancor più recenti, si è dimostrato che la teoria aristotelica dell' infinito potenziale può gettar luce sia sull' irrisolto proble­ ma della cardinalità del continuo, sia sui paradossi scaturenti dalla teoria degli insiemi (cfr. Jori, 2010, pp. 68 ss.). In tutt'altra prospettiva, Wolfgang Wieland (n. 1933) ha proposto una rilettura complessiva della Fisica di Aristotele ( cfr. Wieland, 19 62). Profon­ damente influenzato non solo dalla filosofia analitica, ma anche da altre correnti filosofiche orientate allo studio della natura del linguaggio (come l'ermeneutica), nella sua indagine egli ha inteso dimostrare che i principi della filosofia aristotelica della natura sono riconducibili a categorie lingui­ stiche di carattere riflessivo e funzionale. Benché questa posizione sia stata contestata da non pochi studiosi - tra i quali Oehler, Wagner e Happ -, è indubbio che l'opera di Wieland ha aperto nuove vie per la comprensione sia dello stile argomentativo di Aristotele, sia della formulazione linguisti­ ca dei suoi concetti. Nel contempo, essa ha fornito un contributo rilevan­ te, anche in virtù dell'accuratezza e profondità delle analisi testuali che propone, per un superamento del divario, fattosi più ampio negli ultimi decenni, tra l'approccio filosofico e quello filologico al pensiero e ai testi di Aristotele. Un rinnovato interesse per la biologia e la psicologia aristoteliche La biologia di Aristotele - con il suo spiccato taglio teleologico -, dopo essere stata a lungo considerata definitivamente superata, in seguito all 'af­ fermazione della teoria darwiniana dell'evoluzione, negli ultimi decenni

INTERPRETAZIONI DI ARI STOTELE NEL NOVECENTO

del Novecento è stata rivalutata dai genetisti. Questi hanno visto nella nozione aristotelica della forma quale principio organizzatore finalistica­ mente orientato una sorta di preannuncio del codice genetico (cfr. Jacob, 1970; Kullmann, 1991). Al riguardo, vanno menzionati anche gli impor­ tanti contributi di Wolfgang Kullmann (n. 1927) e della sua scuola, che attraverso una lettura filologicamente agguerrita delle opere aristoteliche di argomento biologico, hanno portato alla luce considerevoli punti di tangenza tra alcune dottrine di Aristotele e la biologia contemporanea (cfr. soprattutto Kullmann 1979; 1998). Dal canto suo, il gruppo di lavo­ ro Arbeitskreis Antike Naturwissenschaft und ihre Rezeption (AKAN ) , fondato da Georg Wohrle (n. 1953), prende in esame in simposi di alto livello a cadenza annuale la scienza antica - in particolare, ma non esclusi­ vamente, quella aristotelica - dal punto di vista dell'epistemologia attua­ le. Contributi di notevole valore alla comprensione del significato della scienza aristotelica, messa a confronto con i modelli di spiegazione della realtà proposti da civiltà extraeuropee, sono stati poi forniti, oltre che dal già menzionato Kullmann, da un altro insigne studioso di Aristotele, il britannico sir Geoffrey Ernest Richard Lloyd (n. 1933) (cfr. in particolare Lloyd, 1996). Anche la psicologia aristotelica è stata oggetto negli ultimi decen­ ni di una vera e propria riscoperta, soprattutto in relazione al comples­ so problema dei rapporti mente/corpo, a proposito del quale già Gil­ bert Ryle aveva fatto pionieristicamente riferimento ad Aristotele (cfr. p. 284). Al riguardo, va ricordata soprattutto la raccolta di contributi sul De anima curata dalla già menzionata Martha Nussbaum assieme ad Amélie Oksenberg Rorty (cfr. Nussbaum, Rorty, 1992), in cui Nussbaum, in consonanza con Hilary Putnam, propone un approccio interpretati­ vo di taglio funzionalista alla psicologia di Aristotele. Gli sviluppi più recenti della neurobiologia, portando alla luce le strettissime connessio­ ni esistenti tra i processi cognitivi e intellettivi della mente umana e la loro base organica, e mostrando altresì le relazioni tra la sfera emotiva e quella intellettuale, mentre orientano a un abbandono della visione (pla­ tonico- )cartesiana imperniata sulla scissione anima/ corpo, quale è stata riproposta in forme altamente sofisticate anche nella seconda metà del Novecento (ad esempio da Karl Popper), sollecitano a un recupero della visione "olistica" o "integrata" dell'uomo formulata da Aristotele (cfr. so­ prattutto Damasio, 1994).

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Bilancio complessivo Nel Novecento, gli studi su Aristotele ne hanno dunque modificato in profondità l immagine, cosicché oggi non è più considerato un pensatore sistematico e dogmatico, bensì è visto come un filosofo le cui riflessioni hanno un carattere essenzialmente problematico. Al tempo stesso, l' inda­ gine sempre più approfondita e filologicamente accurata condotta sulle singole opere del Corpus aristotelicum ha contribuito a mettere in luce la ricchezza incomparabile e la persistente validità delle intuizioni, del­ le analisi e delle metodologie di Aristotele : questo, non solo sul terreno propriamente filosofico, ma anche nell'ambito di tutte le scienze umane e delle scienze naturali. La vitalità degli stimoli impressi da Aristotele ai più diversi ambiti disciplinari è dimostrata, tra laltro, dai simposi aristo­ telici internazionali, che si svolgono ogni tre anni e prendono in esame ogni volta temi diversi, oppure diversi gruppi di opere del Corpus aristo­ telicum. Un'ulteriore testimonianza di tale vitalità è fornita dalle due più importanti collane internazionali di opere aristoteliche in traduzione, ove trovano espressione i risultati di maggiore rilievo della ricerca più recen­ te : da un lato la già menzionata "Clarendon Aristode Series", dall'altro la "Aristoteles - Werke in deutscher Obersetzung", pubblicata in Germa­ nia da Akademie Verlag, e diretta dapprima da Ernst Grumach, quindi da Hellmut Flashar e attualmente da Christoph Rapp. In particolare, le opere che compongono questa seconda collana, accompagnate da magi­ strali commenti, rientrano tra quanto di meglio ha prodotto la ricerca in­ ternazionale su Aristotele a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, e costituiscono degli assoluti punti di riferimento per ogni studioso dello Stagirita. Anche nel secolo attuale, dunque, Aristotele sembra destinato a rimanere al centro del dibattito filosofico e scientifico (cfr. Buchheim, Flashar, King, 2.003, e, per un' illustrazione più puntuale e approfondita dell'attualità del "costruttivismo aperto" di Aristotele, Jori, 2016).

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Teofrasto e il Liceo di Riccardo Chiaradonna

Teofrasto Scolarca del Liceo dopo Aristotele fu Teofrasto. Una fonte posteriore, lo scrittore latino Aulo Gellio ( n secolo d.C. ) , riferisce che la successione di Aristotele era incerta tra Teofrasto ed Eudemo, ma Aristotele subito prima di morire fece trasparire la preferenza per il primo (Aulo Gellio, Noct. att. X I I I 5 1-12) 1• L'aneddoto manca di basi storiche ( Aristotele non morì ad Atene nel Liceo, ma a Calcide, a seguito del movimento ami-macedone dopo la morte di Alessandro ) : esso rivela comunque la posizione dei due discepoli all' interno della scuola. Teofrasto nacque tra il 372 e il 370 a.C. a Ereso, nell' isola di Lesbo e, come testimonia Diogene Laerzio (v 36), prima che di Aristotele fu discepolo di Platone. La notizia non è certa, ma è coerente con il particolare interesse di Teofrasto per le discussioni condotte all' interno dell'Accademia, sul quale ci soffermeremo tra poco. Probabilmente Teofrasto faceva parte del circolo di Aristotele ad Asso ed era con lui quando nel 3 3 5 tornò ad Atene fondando il Liceo. Di Aristotele Teofrasto fu assiduo collaboratore. Visse a lungo : morì infatti a 85 anni tra il 288 e il 286 a.C. dopo essere stato a capo del Liceo per circa 35 anni. La vita di Teofrasto attraversa dunque tutta la grande stagione della fìlosofìa ateniese nel I V secolo arrivando ali' inizio dell'epoca ellenistica, quando nuove scuole occupavano ormai la scena. Il suo influsso sulla fìlosofìa el­ lenistica fu d'altronde considerevole ed è ancora fatto oggetto di ricerca. Certamente il Peripato prosperò sotto Teofrasto, diventando una scuo­ la ricca di allievi e di risorse ( cfr. Natali, 2013, pp. 90-1). Da questo punto di vista, egli ebbe notevole successo. Tuttavia, il suo contributo fìlosofìco non è semplice da valutare. Come si è prima accennato, Teofrasto godet­ te di grande fortuna nell'antichità. Ancora Galeno lo mette alla pari di Aristotele, considerandolo tra le massime autorità sulla teoria della dimo-

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STORIA D E LLA F I L O S O F I A A N T I C A

strazione scientifica ( cfr. De plac. Hipp. et Plat. v 213 Kiihn ) . Per noi, però, la situazione è molto differente. Gli scritti più specificamente filosofici sono perduti, eccezion fatta per un breve saggio comunemente chiamato Metafisica, sul quale torneremo in seguito. La maggior parte delle opere conservate riguarda la filosofia naturale, in particolare i trattati Historia plantarum e De causis plantarum, che fanno di Teofrasto il fondatore della scienza botanica ( cfr. Repici, 2000, pp. 182-242). Le due opere sono per le piante quello che, in Aristotele, Historia animalium e De generatione animalium sono per gli animali. Nella prima si offre dunque una classifi­ cazione e una trattazione delle parti delle piante ; nella seconda si indaga sulla generazione delle piante e sui fenomeni collegati come costituzione, crescita e riproduzione. Certamente nelle opere botaniche è percepibile il modello aristotelico, ma emerge anche il retroterra platonico-accademico di Teofrasto, soprattutto nell' interesse per la definizione e la classificazio­ ne. Gli scritti sono una preziosa fonte di notizie non solo sulla scienza antica delle piante, ma su aspetti collegati come la tecnica agricola. D 'al­ tronde qui, come altrove, non è sempre facile ricondurre Teofrasto alle dottrine formulate dal maestro e suscita ad esempio una certa sorpresa l'assenza di riferimenti allapsyche delle piante. Non è assolutamente sicuro che il silenzio sull'anima implicasse la negazione dell'esistenza dell'anima delle piante ; è anzi plausibile che non fosse così. Resta tuttavia il fatto che il silenzio di Teofrasto pone alcuni interrogativi e non è escluso che sia il segnale di una certa marginalizzazione dell'anima che, come vedremo, è propria anche di altri peripatetici. Vanno ricordati anche i Caratteri, una descrizione di tipi morali la cui fortuna nella cultura filosofica e letteraria occidentale sarà grandissima. L'operetta fornisce un vivido ritratto della società greca nel primo Ellenismo, con un'attenzione per i tipi psicologici paragonabile a quella della "commedia nuova" di Menandro (che, secondo la tradizione, fu allievo di Teofrasto, cfr. Diogene Laerzio v 37 ) . Sebbene certamente interessanti, simili scritti non rivelano una vera tempra filoso­ fica. Teofrasto appare piuttosto come un ricercatore empirico intento a classificare i fenomeni con spirito di osservatore. Un discorso analogo si può fare per l'opera, perduta ma ricostruibile attraverso fonti posteriori. sulle dottrine fisiche e intitolata Dottrinefisiche oppure Dottrine deifisici. Anche in questo caso, la fortuna di Teofrasto fu rilevante, poiché il sue trattato costituisce una tappa cruciale nell'elaborazione della "dossografià antica, il genere letterario in cui si raccoglievano e classificavano le dottri· ne o "opinioni" dei filosofi precedenti (cfr. Mansfeld, 1992). Valutate in

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questa prospettiva, le ricerche condotte nel Peripato ebbero notevole im­ portanza. D 'altronde, è inevitabile constatare un inaridimento rispetto ad Aristotele, le cui discussioni dei filosofi precedenti ( ad esempio nel I libro della Fisica e nel I libro della Meta.fisica) sono concettualmente ricchissime e del tutto incorporate nell'elaborazione filosofica. In Teofrasto può dunque vedersi l'organizzatore del Liceo e un infati­ cabile ricercatore su linee ben stabilite da Aristotele. La sua opera, almeno a un primo esame, appare improntata assai più alla precisione ( se non alla pedanteria) che alla creatività intellettuale. Si è osservato che Teofrasto sembra aver sofferto, rispetto ad Aristotele, una sorte analoga a quella dei figli di un genio : l'ombra del genitore uccide ogni capacità creativa nel fi­ glio e lo sforzo di difendere l' immagine del genitore finisce per creare un vero e proprio culto. Di conseguenza, il figlio viene a essere esattamente tanto noioso e pedante quanto il genitore era stato creativo e libero (cfr. Mignucci, 1998, p. 39 ) 2• Simili valutazioni sono state però in parte corrette negli ultimi decenni, durante i quali attenzione sempre maggiore è stata dedicata sia alla cosiddetta Meta.fisica di Teofrasto sia ai frammenti delle opere perdute. Ciò che, fondandoci sulla tradizione, chiamiamo Meta.fisica ( il titolo originario era forse Sui principi) è un breve trattato nel quale Teofrasto di­ scute sui problemi attinenti alla trattazione delle « realtà prime » ( ta prota: Metaph. 4a 1 ) ( cfr. Laks, Most, 1993; Gutas, 2012; Repici, 2013 ) . Uno scolio conservato in alcuni manoscritti e di interpretazione assai difficile rivela che lo scritto suscitava problemi già per gli interpreti antichi. Lo scolio informa che l' identificazione del suo autore con Teofrasto risalirebbe a Nicolao di Damasco ( probabilmente vissuto nel I sec. a.C., anche se la questione è dibattuta) , mentre gli esegeti precedenti ( Andronico ed Er­ mippo ) non conoscevano questo libro. Secondo gli interpreti moderni, ciò significa che prima di Nicolao si attribuiva erroneamente lo scritto ad Aristotele, giudicandolo come una sorta di introduzione alle questioni dibattute nella Meta.fisica ( cfr. Laks, Most, 1993, pp. x 1 -xv ) . Breve e par­ ticolarmente criptica, la cosiddetta Meta.fisica di Teofrasto merita un'at­ tenta considerazione. Non si tratta di un commento ( genere prediletto dai peripatetici più tardi ) ma di una discussione dei problemi affrontati da Aristotele e sollevati dalla sua dottrina relativa ai principi. Per que­ sto, Teofrasto si sofferma sulle difficoltà connesse alla dottrina del primo motore e alla teleologia ( aporie 6-12 e 1 6 : Metaph. sa 5-6a 14; 7b 9-8a 7; aporia 24: Metaph. 1 1 a 1-b 27 ) . Importante è la trattazione del moto rota-

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torio dei cieli, nella quale egli pone in luce le difficoltà insite nella dottrina di Metafisica XII e il carattere poco chiaro della causalità attribuita al mo­ tore immobile3• La questione è effettivamente controversa, ma probabil­ mente Teofrasto non intendeva respingere queste dottrine. Rilevandone delle aporie, egli non mirava tanto a confutare le tesi del maestro, quanto a proseguirne le ricerche. D 'altra parte, più di Aristotele Teofrasto aveva un'acuta consapevolezza dei limiti della conoscenza umana, che traspare da alcuni passi della Metafisica ed è confermata da alcuni frammenti in cui si rivela un certo pessimismo sulla condizione dell'uomo. L'uso del meto­ do aporetico potrebbe anche riflettere questo aspetto del suo pensiero ( cfr. Bénatoull, 2.012). Un altro punto notevole è dato dalla familiarità con i dibattiti condotti all' interno dell'Accademia ( in particolare la dottrina matematizzante dei principi ) , in rapporto ai quali la Metafisica di Teofrasto fornisce un'essen­ ziale testimonianza. Ciò sembra offrire conferma alla notizia, fornita da Diogene Laerzio, sul discepolato di Teofrasto presso Platone. In ogni caso, è certo che Teofrasto nutrì profondo interesse per simili argomenti e per la cosmologia del Timeo ( cfr. Simplicio, In Phys. 26 7-15 Diels; cfr. Sedley, 2.001). Parallelamente, colpisce nella sua Metafisica 1 ' assenza di riferimenti ai libri centrali ( Iv-Ix ) della Metafisica aristotelica e alle teorie che, per noi, ne costituiscono l' impalcatura: la scienza dell'ente in quanto ente, la sostanza, 1' ilemorfismo. La metafisica aristotelica presente a Teofrasto pre­ scinde, stranamente, da questi elementi ed è invece incentrata sui problemi teologici e relativi ai principi suscitati dal libro X I I . Si sono formulate varie ipotesi per spiegare una simile situazione ( cfr. Gutas, 2012, pp. 3-9 ). È possibile che la Metafisica sia uno scritto giovanile di Teofrasto, redatto quando Aristotele ancora non aveva composto i libri centrali della Metafisica. Il contesto accademico dell'opera sarebbe un' ul­ teriore conferma di ciò. Oppure, si potrebbe supporre che la personalità filosofica di Teofrasto lo rendesse particolarmente incline a recepire solo alcuni aspetti del pensiero del maestro passandone altri sotto silenzio. Un'obiezione più volte sollevata contro la redazione precoce della Me­ tafisica fa leva sulla presenza di argomenti critici verso Aristotele, volti a metterne in luce difficoltà e punti irrisolti. Sembra poco probabile che Teofrasto formulasse simili obiezioni mentre il suo maestro era ancora in vita: per questo si è ritenuto che la Metafisica sia un'opera tardiva o comunque posteriore alla morte di Aristotele. Si tratta, però, di un pre­ giudizio. Certamente sollevare problemi o obiezioni contro Aristotele

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sarebbe stata una procedura inconcepibile per i commentatori più tardi ( ad esempio Alessandro di Afrodisia, attivo all' inizio del I I I sec. d.C. ) , i quali ritenevano che le teorie esposte da Aristotele coincidessero con la verità nella sua forma definitiva, fossero sempre coerenti e avessero solo bisogno di commento ed esplicitazione. Niente però induce a credere che i primi discepoli di Aristotele nel Liceo ( e in particolare Teofrasto ) condividessero un simile principio di autorità. In realtà, come vedremo in seguito (v o L . IV, CAP. 1 ) , una siffatta concezione, collegata alla prati­ ca del commento, si impone tardi, a partire dal I secolo a.C., quando le scuole filosofiche ateniesi stabilite nel IV secolo cessano di esistere. Pro­ babilmente, invece, Teofrasto concepiva sé stesso come un collega di Ari­ stotele nella ricerca della verità e, proprio per questo motivo, non esitava a sollevare problemi nei confronti del maestro, mantenendo intatte le sue dottrine fondamentali ma correggendone alcune conclusioni particolari. In questo, d'altronde, Teofrasto seguiva fedelmente la lezione di metodo aristotelica, secondo la quale la ricerca filosofica è strettamente collegata alla discussione di problemi e aporie ( si veda, a questo proposito, il libro I I I della Meta.fisica; cfr. Laks, Most, 1993, pp. XVI I I -xx ) . In effetti, la Me­ ta.fisica di Teofrasto può essere interpretata anche come una discussione preliminare delle tensioni interne al progetto filosofico di Aristotele. At­ traverso l'uso delle aporie, Teofrasto finirebbe per tracciare idealmente le prospettive di ricerca entro cui, di fatto, si mosse la riflessione peripatetica posteriore : da un lato, il "concettualismo astratto", che assegna la priori­ tà a strutture universali rispetto ai particolari che le esemplificano ( come vedremo, sarà l'opzione difesa da Alessandro di Afrodisia ) , dall'altro il "concettualismo concreto", secondo cui sono invece i particolari ad avere priorità incondizionata, tanto che lesistenza stessa di strutture universali diventa problematica ( come vedremo, sarà l'opzione difesa da Boeto di Sidone ; cfr. Rashed, 2007, pp. 6-18). Nei campi prediletti della logica e della filosofia naturale Teofrasto for­ nì certamente contributi notevoli, restando nel solco della ricerca aristote­ lica ma mostrando anche una certa indipendenza. Sono conosciute aporie circa la dottrina del luogo ( Simplicio, In Phys. 604 5-1 1 Diels ) e alcuni frammenti sulla dottrina dell' intelletto, restituiti dai neoplatonici Temi­ stio e Prisciano di Lidia ( ma anche da fonti più tarde ) . Inoltre, siamo bene informati sulla logica di Teofrasto, che è stata ampiamente rivalutata dalla ricerca recente ( si noti, comunque, che nelle testimonianze sulla prima lo­ gica peripatetica il nome di Teofrasto è regolarmente associato a Eudemo ).

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Secondo interpreti autorevoli, la dottrina teofrastea dei sillogismi ipoteti­ ci anticiperebbe aspetti della dottrina stoica dell ' inferenza (Barnes, 1985). Alla logica modale è invece connessa la formulazione della cosiddetta "re­ gola del peiorem": secondo Teofrasto ed Eudemo, in un sillogismo modale misto la conclusione deve seguire la premessa più debole. Di conseguenza, diversamente da Aristotele che aveva ammesso in alcuni casi una simile eventualità, i suoi allievi consideravano non valido un sillogismo nel quale una conclusione necessaria seguisse da una premessa necessaria e da una assertoria (cfr. Alessandro di Afrodisia, In An. Pr. 124 8-30 Wallies). Questo resoconto va completato dalla posizione di Teofrasto sul trat­ tamento degli animali, che ricostruiamo in base ai frammenti riportati dal neoplatonico Porfirio nell'opera Sull'astinenza dalle carni degli animali. Teofrasto pone in evidenza l'affinità o parentela (oikeiotes) che lega gli uomini agli animali fondandola sulla stessa capacità di formulare ragio­ namenti (logismoi). Per questo, pur non accettando la dottrina pitagorica della reincarnazione, Teofrasto respingeva il sacrificio animale e (proba­ bilmente) difendeva il vegetarianesimo (Sorabji, 1998).

Eudemo Quando Aristotele lasciò Atene nel 323, Eudemo (nato forse intorno al 350 ) tornò a Rodi dove fondò una propria scuola. Le informazioni sono scarse e incerte4• Probabilmente la scuola di Eudemo non ebbe vita lunga. Tuttavia, forse proprio grazie alla tradizione stabilita da lui, Rodi restò un centro di studio della filosofia peripatetica. Non è forse un caso che alcu­ ni filosofi peripatetici ellenistici siano associati a Rodi: nel I I I secolo a.C. Prassifane (originario di Mitilene, ma vissuto per lungo tempo a Rodi) e leronimo (originario dell' isola), nel I secolo a.C. Andronico di Rodi (v o L . III, C A P. 8 ) . I dettagli sono destinati a rimanere nell'oscurità, così come nell'oscurità, purtroppo, rimane il ruolo editoriale che Eudemo po­ trebbe aver avuto nel preparare e nell'ordinare alcuni trattati di Aristotele (la Metafisica e la Fisica). Alcune testimonianze antiche lo suggeriscono (cfr. in particolare, Asclepio, In Metaph. 4 4-1 6 Hayduck), ma i dettagli sfuggono e le notizie non sono sicure. Come nel caso di Teofrasto, si ha con Eudemo uno spirito positivo, interessato principalmente alle questio­ ni logiche e scientifiche. Abbiamo frammenti di una sua Fisica, per la mag­ gior parte riportati nel Commento alla Fisica del neoplatonico Simplicio.

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Significativamente, Eudemo sembra essersi fondato sullo stesso materiale che compone la Fisica nella versione trasmessa fino a noi (a eccezione del libro vn) : un segno, forse, che egli svolse un ruolo nell'organizzare i libri scritti da Aristotele riunendoli in un trattato unico. Sappiamo che Eude­ mo scrisse degli Analitici (come si è già notato, il suo nome è generalmente associato a Teofrasto nelle testimonianze sulla logica peripatetica) e un trattato Sull'espressione linguistica nel quale discuteva gli aspetti logici del linguaggio. Mentre Teofrasto fa largo uso del metodo dell'aporia, Eudemo appa­ re, in base ai frammenti conservati, piuttosto come un sistematizzatore di Aristotele. Egli fu in effetti particolarmente apprezzato dai commentatori più tardi, che potevano trovare congeniale il suo metodo vedendovi anti­ cipate alcune loro soluzioni. La fortuna di Eudemo è però principalmente legata alle opere storico-scientifiche : egli è considerato il fondatore della storiografia scientifica. Mentre, nell'ambiente di ricerca del Peripato, Teo­ frasto si occupò di catalogare le dottrine fisiche, Eudemo si concentrò in­ fatti sulle scienze "esatte" scrivendo una serie di Storie (di aritmetica, geo­ metria, astronomia, ma anche teologia) delle quali possediamo frammenti desunti da fonti posteriori, per lo più neoplatoniche (cfr. Zhmud, 2006). Per gli storici, i frammenti di Eudemo sono particolarmente preziosi, per­ ché sono tra le pochissime fonti che permettono di ricostruire la storia delle scienze esatte tra v e IV secolo a.C.

Aristosseno e Dicearco Tra i discepoli di Aristotele attivi verso la fine del IV secolo, meritano di essere ricordati anche Aristosseno di Taranto e Dicearco di Messene5• Il primo fu principalmente un teorico della musica e applicò a questo campo i principi della filosofia peripatetica in opposizione al pitagorismo (Barker, 2007, pp. II3-260 ). Un altro suo interesse fu la biografia. Anche Dicear­ co ebbe vasti interessi, che comprendevano geografia, matematica, storia, politica. La sua opera Tripolitico, perduta, conteneva una formulazione della costituzione mista destinata ad avere grande fortuna, così come ce­ lebri sono le sue osservazioni sulla costituzione di Sparta. Inoltre, Cice­ rone attesta lesistenza di una controversia tra Dicearco e Teofrasto sulla gerarchia dei tipi di vita: mentre Teofrasto difendeva la tesi tradizionale circa la supremazia della vita teoretica, Dicearco sosteneva la superiorità

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della vita pratica (Cicerone, Ad Att. I I 1 6 3). Dal punto di vista filosofico, Aristosseno e Dicearco diedero avvio a un dibattito fondamentale nella storia dell'aristotelismo e relativo allo statuto ontologico dell'anima. Tan­ to Platone (Phaed. 85e-86d) quanto Aristotele (De an. I 4 407b 26-408a 17) fanno menzione, criticandola, della dottrina che concepisce l'anima come l'armonia dei componenti da cui è costituito il corpo ("armonià' è da intendersi come lo stato di accordo reciproco e proporzionato : l'ani­ ma sarebbe dunque paragonabile alla condizione in cui si trovano le corde di una lira quando essa è accordata mettendo le corde in tensione). Sia Platone sia Aristotele criticano questa dottrina (la cui origine pitagorica è suggerita nel Fedone, ma è materia di controversia; cfr. Trabattoni, 1 9 8 1 ) . Per Aristotele e i suoi discepoli, l a questione è particolarmente delicata, giacché la dottrina dell'anima-armonia sembra soddisfare molti requisiti stabiliti dall' ilemorfismo e va incontro all'esigenza aristotelica di non con­ cepire l'anima come una sostanza a sé stante. Tuttavia, la dottrina dell'ar­ monia finisce per presentare l'anima come un semplice accidente del cor­ po organico. Le condizioni d' identità del corpo potrebbero dunque essere specificate senza far riferimento all'anima, ed essa diventerebbe solo un attributo inerente a una sostanza indipendente da essa. Una lira, in effetti, può persistere anche se scordata, mentre per Aristotele ciò non vale per il corpo dei viventi. Se si toglie l'anima, anche il corpo vivente perde la sua identità. Inoltre, per Aristotele l'anima è principio di movimento, e ciò non può valere per l'armonia. Aristosseno e Dicearco, tuttavia, fecero pro­ pria la dottrina respinta da Aristotele. Per Aristosseno, l'anima è l'armonia delle membra di cui è composto il corpo (cfr. Cicerone, Tusc. disp. I 10 1 9 ; I 1 8 41; Lattanzio, Div. inst. V I I 1 3 ; Lattanzio, De op. dei 1 6), mentre per Dicearco essa è l'armonia delle quattro qualità elementari (caldo, freddo, umido e secco: cfr. Nemesio di Emesia, De nat. hom. II 17 5-9 Morani). Essi assimilavano dunque l'anima a un semplice stato accidentale del cor­ po dipendente da esso e privo di reale efficacia causale (cfr. Caston, 1997 ). Non è sorprendente che, per alcune fonti antiche, una simile posizione coincidesse con la semplice negazione dell'esistenza dell'anima. Questo dibattito attraversa tutta la tradizione aristotelica antica e si intreccia con quello relativo alla sostanza, alle categorie e all' ilemorfismo. Nel I secolo a.C. Boeto di Sidone diede una formulazione filosofica particolarmente raffinata alla posizione di Aristosseno e Dicearco (senza comunque men­ zionarli, almeno nei frammenti superstiti), escludendo che la forma appar­ tenesse alla categoria di sostanza e facendone così un semplice accidente

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della materia. Alessandro di Afrodisia, invece, difese una lettura rigoro­ samente essenzialistica di Aristotele tutta incentrata sulla forma. Da qui la sua ripetuta insistenza sulla tesi che il rapporto anima/ corpo non va in nessun modo assimilato al rapporto accidenti/ sostanza (per maggiori dettagli, cfr. V O L . IV, CAP. 3). I filosofi trattati in questo capitolo non esauriscono la lista dei discepoli e collaboratori di Aristotele nel Peripato, i quali però ebbero per lo più in­ teressi di tipo più erudito o politico che autenticamente filosofico. Si può ricordare, a questo riguardo, il caso di Clearco di Soli, autore di numerosi lavori di argomento storico e religioso. Clearco è interessante anche per il suo atteggiamento di ammirazione verso Platone : ne scrisse, infatti, un encomio (Diogene Laerzio I I I 2 ) e si interessò alla Repubblica. Al Peripato è associato anche il politico Demetrio del Falere, allievo di Teofrasto, che stabilì ad Atene un governo filomacedone dal 317 al 307 a.C. (cfr. For­ tenbaugh, Schiitrumpf, 1999 ) . Rimane però molto difficile individuare in queste figure i tratti di un'originale riflessione filosofica ispirata da Ari­ stotele. È un aspetto che, come vedremo (v o L . I I I , CAP. 8), caratterizza la storia del Peripato in epoca ellenistica e fu avvertito fin dall'antichità come un segnale di decadenza.

Note

I

Le scuole di filosofia : dal filosofo re al p rofessore 1. Sulla questione cfr. Vegetti (2000 ); sul sapere dei filosofi cfr. anche Trabattoni (1998, pp. 199-201). 2. Scriveva Platone nella V I I Lettera a proposito della propria giovanile impotenza politica: « senza amici e compagni affidabili non era possibile fare nulla; e non era facile trovarne nella cerchia consueta, perché la nostra città non era più governata secondo la morale e gli usi dei padri, mentre poi era impossibile acquisirne di nuovi con qualche facilità » (325d; trad. mia). L'Accademia rispondeva anche all'esigenza di formare un tale gruppo di « amici e compagni » . 3 . Molte testimonianze sull'Accademia antica sono raccolte e commentate i n Lasserre ( 19 8 7). Una completa rassegna critica delle fonti sull'attività politica dell'Accademia è in Trampedach (1994). Si veda in proposito Isnardi Parente (1988). 4. Sulle Leggi come risposta alle critiche aristoteliche nei riguardi della Repubblica (poi formulate nel secondo libro della Politica), cfr. Bodéiis (1985). Alle sue considerazioni si può aggiungere un'altra ipotesi. Ribadendo la tesi di origine socratica secondo cui « tutti commettono ingiustizia involontariamente » , Platone si rivolge polemicamente a «chi per amore di contesa o per ambizione afferma che vi sono ingiusti volontari, benché molti commettano ingiustizia involontariamente » (Leg. IX 86od-e; trad. mia) : sembra evidente il riferimento a tesi che Aristotele avrebbe sostenuto nelle sue Etiche. 5. Sulla discussione aristotelica nel libro VII della Politica, nel libro I dell'Etica Eude­ mia e nei libri I e x della Nicomachea cfr. Gastaldi (2003). Per la distanza fra l'atteg­ giamento di Aristotele e quello di Platone si veda anche Cambiano (1983, pp. 69-75). 2

Platone 1. Data la natura sintetica di quest'opera, e la mole sterminata di letteratura seconda­ ria esistente, si è preferito presentare in un capitolo a parte (lo si è fatto anche per Ari­ stotele) una sommaria panoramica delle diverse linee esegetiche ( CAP. 3), utilizzando le note a fine volume solo in casi eccezionali: qui soprattutto per segnalare al lettore

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gli studi analitici che stanno alla base delle scelte interpretative adottate, specialmente dove possono apparire originali e controverse ; va da sé che in questi studi il lettore troverà anche il confronto con la letteratura critica di riferimento. 2. Su questo argomento fa ancora testo Brandwood (1990 ). 3. Ho proposto qualche esempio in Trabattoni (2003a). 4. Segnaliamo in proposito il lavoro più recente di uno dei più accaniti sostenito­ ri dell 'approccio dialogico/drammatico al testo platonico : Press (2007). È tipico di questi interpreti l' idea di considerare i dialoghi platonici come genuine opere teatrali: Arieti (1991); Charalabopoulos (2012). 5. Questa è la posizione, grosso modo, di Harold Cherniss e di Margherita Isnardi Parente. 6. Gli esponenti principali di questa tendenza sono Hans Kramer, Konrad Gaiser, Thomas Szlezak, Giovanni Reale, Maurizio Migliori. 7. Tra gli studi più recenti si pronuncia decisamente a favore della tesi dello sviluppo Dancy (2004) ; altrettanto decisamente contrario, invece, è Rowe (2007 ). Ho espres­ so il mio punto di vista in Trabattoni (2014). 8. Cfr. VII Lettera. Di recente Schofield (2006) ha tentato di invalidare questa testi­ monianza sulla politicità originaria della filosofia platonica impugnando di nuovo l'autenticità della lettera; ma i suoi argomenti a favore dell'atetesi (pp. 1 4-7) sono debolissimi. Una decisa enfatizzazione dell'aspetto "pratico" della filosofia di Platone si trova in Allen (2010). 9. Persino la definizione della giustizia che compare nella Repubblica, e che apparen­ temente conclude per una volta in modo felice l' inane ricerca dei daloghi cosiddetti "definitori", è dichiarata da Socrate come provvisoria (443c). ro. Quanto ora detto implica che la dottrina della reminiscenza non voglia essere affatto, come molti ritengono (ad esempio Scott, 2007), un metodo per apprendere le idee. Cfr. Trabattoni (20u, pp. XXXIV-XLVIII) . I I . Per un'analisi più dettagliata di questo passo del Fedone cfr. Trabattoni (201 2a) . 12. I passi in questione sono Theaet. 189e-19oa e Soph. 263e-264a. 13. Una sintetica ma eccellente lettura del Simposio si trova in Scott, Welton (2000 ). 14. Per questa interpretazione dell'excursus cfr. Trabattoni (2005). 15. Riassumo qui le conclusioni raggiunte in Trabattoni (2003c) e (20roa). 16. Su questa stessa linea è il bel libro di McCoy (2008). 17. Si configura in questo modo una "terza via� intermedia tra la lettura scettica e quella dogmatica di Platone, in accordo con una tendenza oggi piuttosto diffusa. Cfr. Gonzalez (1995). Tra gli esponenti di spicco di questa "terza via", per quanto varia­ mente intesa, si possono annoverare Hyland (1995), Gonzalez (1998), Dixsaut (2001), oltre ai già citati Rowe, Press e McCoy. Per quanto riguarda in particolare la posizione espressa in queste righe cfr. Trabattoni (2009 ). 18. Cfr. la VII Lettera, in cui Platone, evidentementejàute de mieux, si accontenta di suggerire agli amici di Dione di dare il potere a chi ha solo anche una minima dose di retta opinione (336e; cfr. in proposito Trabattoni, 2007a). 19. Per due opposte valutazioni della celebre espressione platonica cfr. Ferber (2003) e Brisson (2000).

NOTE

lO. Così, diversamente da ciò che spesso si ritiene, va interpretato Parm. 13oe. Cfr. Trabattoni (2003a). l i . Questa è la tesi, ad esempio, di Martha Nussbaum (19 86, trad. it. pp. 339-48). l l . Questa supposizione potrebbe risolvere la "contraddizione" rilevata nella Repub­ blica da Bernard Williams in un suo celebre saggio (Williams, 1973), secondo la quale lo Stato, per essere giusto, ha bisogno che esistano cittadini non filosofi (dunque non virtuosi) . 23. Maggiori dettagli in Trabattoni (2010b). 24. Si è talvolta osservato che il mito di Er, poiché la scelta prenatale della vita futura è definitiva, non sarebbe efficace per contrastare l idea di destino. Cfr., in contrario, Trabattoni (2014). 25. Sul carattere autoreferenziale della filosofia per Platone cfr. Trabattoni (2003c). 26. Per la mia interpretazione complessiva di questo dialogo cfr. Trabattoni (201 3a). 27. Riassumo qui i risultati raggiunti in Trabattoni (2002). 28. Cfr. Fronterotta (2001) e Gonzalez (2003). Un approccio radicalmente diverso al Parmenide, e in generale alla teoria delle idee, è contenuto in Rickless (2007 ). 29. Una sintesi efficace di queste dottrine si legge in Kramer (19 82). 30. Per questa ragione George E. L. Owen, uno dei primi e più autorevoli sosteni­ tori della tesi citata, nel celebre articolo Ihe Piace ojthe Timaeus in Plato's Dialogues (Owen, 1953) ha sostenuto contro tutte le evidenze una datazione alta del Timeo, su­ scitando la ben motivata reazione di Harold F. Cherniss (1965). 31. Con questo non intendo dire che Platone sia passato da una fase "corrispondentista" (o "intuizionista") a una "coerentista"; il metodo di ricerca che Platone applica sistemati­ camente in tutti i dialoghi, compresi quelli giovanili, è quello di confrontare le nozioni tra loro. Ciò che appartiene specificamente ai dialettici è una riflessione tematica su que­ sto metodo. Una delle più autorevoli letture "coerentiste" dell'epistemologia platonica è quella di Gai! Fine (cfr. i saggi compresi in Fine, 2003). Cfr. in proposito, anche per gli spunti critici, Trabattoni (2008). 32. Non esiste, dunque il Platone "totalitario" di cui parla il titolo di una celebre opera di Karl Popper. Sulle distorsioni politiche del pensiero platonico cfr. Vegetti (2009). 33. Ma il diritto del più forte, come dimostra il celebre dialogo tra Ateniesi e Meli in Tucidide (v 84-1 14), non era estraneo neppure a chi si pretendeva tollerante e demo­ cratico.

3 Gli orientamenti della critica platonica contemp oranea 1. Una sintesi schematica ma efficace del quadro teorico di riferimento appena evo­ cato si trova in D 'Agostini, Vassallo (2002, pp. 77- 1 1 1 su Frege e la successiva filosofia del linguaggio, e pp. 1 1 2-56 su Russell) ; particolare attenzione al ruolo di Frege come principale esponente di un "platonismo" logico è prestata da Sacchi (2005, pp. 1 1-78). l . Si veda, per un abbozzo di ricostruzione delle origini di questa linea esegetica "sto­ ricista� Leszl (2011).

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3. Talora, anzi, la stessa formulazione di una prospettiva metafisica, caratteristica del pensiero platonico e più in generale della riflessione antica, è ricondotta a un ben preciso "errore" di cui sarebbe possibile fornire la diagnosi: ad esempio, Tugendhat (1976, trad. it. pp. i.8-43) ha illustrato il punto di vista secondo cui la questione onto­ logica in tutte le sue determinazioni - e le stesse nozioni di essere e non essere - di­ scendono da una riflessione semantica, che, incapace di svelare l'ambiguità derivante dai molteplici significati dello strumento linguistico, ricade immediatamente in una « reinterpretazione oggettivizzante che nasconde la dimensione linguistica della ri­ flessione » e privilegia invece l'effettiva e concreta "realtà esistente" degli oggetti di pensiero. Un « naturale orientamento » della mente umana indurrebbe, involonta­ riamente o inconsapevolmente, a considerare il contenuto della riflessione, anche se appartenente alla dimensione non oggettiva della comprensione semantica e dell'e­ spressione logico-linguistica, come un ente dotato di esistenza propria e autonoma. Questa tendenza sarebbe assai esplicita nella storia della filosofia greca: Parmenide per primo avrebbe frainteso le implicazioni della propria indagine sull 'essere e sul non essere, e la sua analisi, tutta incentrata sull'ambiguità semantica del verbo esse­ re e sul duplice significato della copula nella predicazione di identità e di esistenza, sarebbe inevitabilmente degenerata in speculazione su "ciò che è" e "ciò che non è� sull'esistente e sul non esistente, e, quindi, in ontologia. Platone avrebbe successi­ vamente elaborato una rigorosa teoria delle definizioni, dei predicati e dei concetti universali, ma esclusivamente nei termini di una dottrina degli enti ultrasensibili sog­ getti a definizione o a predicazione, ossia, come teoria metafisica delle idee eterne e immutabili. Lo stesso Aristotele, infine, non sarebbe riuscito a collocare la sua ricerca sulla natura e la struttura degli enunciati (legomena) se non nel contesto di una descri­ zione degli oggetti (onta) dell'enunciazione e del discorso. In questo modo, l'ontolo­ gia, che nella prospettiva logico-analitica rimane rigorosamente ali' interno della sfera semantica, si costituisce invece come ambito proprio e autonomo, lambito, appunto metafisico, di un' "illusione" filosofica, di un errore "naturale" del pensiero. Si può ricordare del resto che, in riferimento a Parmenide in particolare, già Calogero (193i., pp. 17 ss.) considerava il problema dell'essere, così come emerge nel pensiero greco, come sostanzialmente dipendente da un'ambiguità semantica, relativa all' impropria « ontologizzazione » di ciò che si pone originariamente come «universale entità logico-verbale » . Questo è, nuovamente, l'errore filosofico che gli interpreti analitici riconoscono nell' "illusione" della metafisica, causato dall' innata tendenza a un « na­ turale e ingenuo realismo» proprio della mente umana. 4. Per una presentazione dell' interpretazione neokantiana di Platone, i suoi presup­ posti e la sua evoluzione, sia lecito rimandare a Fronterotta (i.012.), mentre, per la sua influenza sulle posteriori letture analitiche, cfr. Fronterotta (i.ooo ). Alla ricostruzio­ ne della genesi dell' interpretazione neokantiana di Platone, tra Kant e Natorp, con particolare riferimento a Herbart e Lotze, si è dedicato Trabattoni (i.012.a) . 5. Cfr. Ryle (1939). Si veda anche, più recentemente, Pelletier (1990 ). 6. Cfr. ad esempio Ackrill (1955, soprattutto pp. i.07-9 ). Questo approccio è stato in seguito condotto alle sue estreme conseguenze da Owen (1970 ) Owen ha sostenuto .

NOTE

che, nel Sofista, con nuova consapevolezza filosofica, Platone sarebbe giunto infine a modificare profondamente la propria concezione dell'essere e del non essere : l'essere di qualcosa (ad esempio di un' idea) si ridurrebbe così all' insieme di attributi e di qua­ lità che esso possiede, mentre, al contrario, il non essere non solo non implicherebbe la non esistenza di "ciò che non è", ma indicherebbe semplicemente lassenza di uno o più attributi o qualità fra quelli che "ciò che non è" non possiede. Il non essere come tale non coinciderebbe quindi con il nulla assoluto, ma con la condizione di un ente privo di ogni possibile determinazione. Un'articolata e incisiva confutazione della posizione di Owen è quella di O ' Brien (1995, pp. 91-102). 7. Si ha infatti talora l impressione che un simile approccio implichi fra laltro la taci­ ta intenzione di attribuire a Platone l' improbabile ruolo di precursore e "padre nobi­ le" dell'analisi filosofica del linguaggio, come per primo denunciò Cherniss ( 1965, ed. 1977, pp. 233-4, trad. mia) : « Ora, gli analitici [ ... ] sono riusciti con loro soddisfazione a leggere i dialoghi che chiamano "critici" come dei saggi primitivi del loro metodo filosofico. L'autore di queste opere poteva da loro essere assunto come un degno pre­ cursore, se solo avesse potuto essere liberato dall' imbarazzante dottrina delle idee che egli aveva elaborato in tutta la sua assurdità metafisica ed epistemologica nel Fedone, nel Simposio, nella Repubblica e nel Fedro. E non si sarebbe potuto mostrare che si fos­ se egli stesso corretto da questo errore ? Attraverso la bocca di Parmenide, nella prima parte del dialogo che porta il suo nome, Platone stesso presenta una lista di rigorose obiezioni contro questa stessa dottrina delle idee e rappresenta il suo campione, So­ crate, come incapace di respingerle. Egli deve allora aver abbandonato la dottrina che sottopone a tale critica; [ ... ] sfortunatamente, questo è solo un metodo elegante per salvare Platone da sé stesso » . 8 . Il caso del Timeo è particolarmente rappresentativo dell 'attitudine prevalente fra gli studiosi logico-analitici di Platone. Già Brisson, nel suo commento al dialogo, la cui prima edizione risale ormai al 1974 (Brisson, 1974, p. 9 ), lamentava lo scarso inte­ resse per il Timeo negli studi platonici contemporanei; ma soprattutto Owen (1953) è giunto a suggerire, contro ogni evidenza testuale, di retrodatare il Timeo, che appar­ tiene certamente all'ultima fase dell'attività di Platone insieme alle Leggi, fra le opere della maturità, immediatamente dopo la Repubblica, in quanto presenta un' imma­ gine "classica" della teoria metafisica delle idee che, a parere di Owen, sarebbe stata sottoposta a una critica severa nel Parmenide, per essere poi abbandonata e superata nel Teeteto, nel Sofista e nel Filebo. 9. Si possono citare, in riferimento a questa prospettiva "onco-epistemologica", i cele­ bri passi di Resp. V 476d-479e e VI 507b; ma cfr. già Phaed. 65d-66a, 78e-79a; quindi Phaedr. 247c-e ; e Tim. 27d-29b e 5 1b-52a. 10. Cfr. soprattutto Fine (1978), le cui tesi sono riproposte in Fine (1990 ). Entrambi questi saggi sono stati ristampati in Fine (2003). La studiosa ha ulteriormente svi­ luppato la sua interpretazione del rapporto fra conoscenza e opinione in Platone nel recente articolo Fine (2004). 11. Questa distinzione è stata notoriamente suggerita e ampiamente illustrata soprat-

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tutto in alcuni successivi studi di Kahn, il cui lavoro principale in proposito rimane Kahn (1973); rispetto a Platone si vedano soprattutto Kahn (1981; 1988). 12.. Il tema dell'assenza delle idee nel Teeteto è anch'esso particolarmente controver­ so, anche se la maggioranza dei commentatori propende tendenzialmente per questa posizione. Si veda in proposito, per un aggiornato status quaestionis, Ferrari (2.oII, pp. 9-16 e pp. 134-42.). 13. L' interpretazione continentale, su cui si veda più oltre, trova la sua formulazione più compiuta in Cornford (1935) e Cherniss (1936, pp. 445-56, trad. mia) : « il tenta­ tivo del Teeteto di definire la conoscenza fallisce e questo fallimento dimostra che il logos, caratteristica essenziale della conoscenza, non può essere spiegato da nessuna teoria che assuma i fenomeni come oggetti di intellezione » . 14. Questa è l a celebre tesi argomentata nel fondamentale studio di Burnyeat (1990 ) 15. L' interpretazione analitica del Teeteto può essere ricostruita, con una certa conti­ nuità, attraverso Robinson (1950) e Ryle (1960 ); e ancora e soprattutto Fine (1979a; l979b). 16. Cfr. particolarmente Soph. 2.61e-2.64b, e in proposito, a puro titolo di esempio, Pippin (1979 ), McDowell (1982.), Jordan (1984), Ferejohn (1989 ), Frede (1992., che rielabora alcuni suoi precedenti lavori, in particolare l'assai influente Frede, 1967 ) Si veda infine, per una messa a punto, Fronterotta (2.013) e, assai più approfonditamente, Crivelli (2.012.). 17. Si pone in tale ottica un ulteriore problema interpretativo, ancora oggi ampia­ mente controverso, che riguarda la consistenza e la stabilità delle dottrine filosofiche, se non del "sistema� che si ritiene di poter individuare nell'esame del corpus platoni­ co : si tratta di tesi sottoposte a una più o meno profonda "evoluzione" nell' insieme dei dialoghi, la cui successione cronologica testimonierebbe dunque di un parallelo sviluppo teorico della riflessione di Platone, o si deve invece ammettere una prospet­ tiva rigorosamente "unitaria", che Platone avrebbe difeso nell' intera sua opera ? La tesi "evoluzionista", tradizionalmente maggioritaria, che è stata suggerita nei suoi termini classici in una lunga serie di articoli da Jackson (1 882.-8 6), e via via rielaborata, ad esempio, in Ross (1951, pp. 3 5-47 ), Allen (1970 ), fino a Dorion (1997, pp. 2.09-I I ), si trova in certa misura fissata da Vlastos (1991, pp. 45-131). Pur con sensibili oscillazioni e nuances, che ne accentuano o ne indeboliscono i diversi assunti, essa prevede che, mentre i dialoghi giovanili di Platone appaiono largamente influenzati dalla figura e dal pensiero di Socrate - così prescindendo di fatto da ogni riferimento alla teoria delle idee intelligibili, allo statuto dell'anima immortale e a un'epistemologia fondata su una gerarchia ontologica dei distinti oggetti che costituiscono il contenuto delle distinte forme di conoscenza -, nei dialoghi della maturità emergerebbe invece la caratteristica metafisica platonica, appunto incentrata sulla relazione fra l'anima im­ mortale e le idee collocate al di là del mondo fisico, a sua volta sottoposta a revisione e situata nel contesto di un 'approfondita analisi dialettica nei dialoghi della vecchiaia del filosofo. Le posizioni "unitarie", oggi difese con particolare radicalità dalla "scuola di Tubinga" (per la quale si veda più avanti), assumono invece un punto di vista op.

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NOTE

posto, secondo il quale nessuna significativa modifica dottrinaria caratterizzerebbe la riflessione di Platone nei suoi diversi momenti, perché essenzialmente stabile ri­ marrebbe il nucleo teorico in cui questa consiste e che costituirebbe il "sistema" co­ stantemente presupposto dai dialoghi. Si può segnalare infine, fra le interpretazioni "unitarie", la lettura "prolettica" avanzata di recente in Kahn ( 1996 ) , che intende !' "u­ nità" del pensiero platonico non tanto in termini dottrinari, quanto letterari, cioè tale per cui i dialoghi platonici andrebbero considerati, e letti, alla luce di un impianto argomentativo e narrativo unitario, sicché ogni dialogo anticipa, lasciandoli irrisolti, questioni e problemi che verranno ripresi in altri dialoghi posteriori, sicché soltanto un punto di vista d' insieme permetterebbe di apprezzarne, grado per grado, la strut­ tura complessiva e il valore artistico. 18. I principi esegetici così brevemente delineati si trovano già di fatto, quantomeno in nuce e specie rispetto all'approccio rigorosamente storico che si colloca alla base delle letture continentali di Platone, nelle grandi ricostruzioni ottocentesche, parti­ colarmente di scuola tedesca, del pensiero antico. Senza alcuna pretesa di esaustività e a puro titolo di esempio, va citato almeno, in primo luogo, il riconosciuto capostipite di questa stagione interpretativa, vale a dire Eduard Zeller, il cui monumentale lavoro (Zeller, 1844-52. ) , più volte riedito e ampliato, si propone appunto di esaminare la filosofia dei Greci « nel suo sviluppo storico » , cioè presentandone i diversi aspetti in relazione con il contesto sociale e culturale in cui fiorì e come svolgimento specifico di una più generale storia del pensiero. Ma è opportuno ricordare anche, più o meno negli stessi decenni e in una non dissimile prospettiva, Brandis ( 1 835-66 ) , Oberweg ( 1862. ) , Gomperz ( 1896-1909 ) . 19. Non è un caso, naturalmente, che parte significativa dei grandi storici tedeschi citati nella nota precedente, a partire da Zeller, siano stati profondamente influenzati dalla prospettiva hegeliana. 2.0. In quanto segue non posso che presentare una sintesi estremamente schematica, e certamente riduttiva, da cui ricavare i lineamenti fondamentali delle interpretazio­ ni continentali nel xx secolo ; vanno tuttavia almeno menzionate alcune imponenti opere d' insieme dedicate alla figura e al pensiero di Platone, per lo più appartenenti ai primi decenni del Novecento, che hanno segnato una svolta fondamentale nella critica e posto per molti aspetti le premesse indispensabili dell'approccio continenta­ le. Ricordo in particolare, ancora una volta senza pretese di esaustività, Robin ( 1908 ) che, pur proponendosi una ricostruzione della metafisica platonica sulla base della testimonianza di Aristotele, osservava tuttavia programmaticamente che « con gli an­ tichi come guida, non si rischia almeno di vedere in Platone un profeta della filosofia moderna » (ivi, pp. 4-5, trad. mia; il riferimento polemico di Robin è soprattutto a Natorp e alle interpretazioni neokantiane di Platone), e che fornì in seguito con il suo Platon (Robin, 1935 ) , un esame complessivo del pensiero platonico basato questa vol­ ta su una sistematica lettura diretta dei dialoghi. Cfr. anche le dettagliate monografie di Wilamowitz-Moellendorf ( 1919 ), Taylor ( 192.6 ) , Friedlander ( 192.8; 1930 ) 2.1. Le tesi di Cherniss, pur largamente recepite come sfondo teorico della discussio.

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ne continentale sull' interpretazione di Platone, sono state comunque ampiamente sottoposte ad analisi, critiche e correzioni: si vedano ad esempio Jordan (1983) e i sag­ gi compresi in Fronterotta, Leszl (2.005), particolarmente l'articolo di Leszl, Ragioni per postulare idee, pp. 37-74. 2.2.. Sia lecito rinviare su questo tema al mio Fronterotta (2.001) e alla rassegna da me presentata, con gli opportuni riferimenti bibliografici, in Fronterotta (2.008). Si vedano inoltre Ferrari (2.010a; 2.010b). 2.3. Si vedano ad esempio il volume collettivo Migliori, Napolitano Valditara, Ferma­ ni (2.007 ), quindi Karfik ( 2.004) e Finck (2.007 ). 2.4. Una messa a fuoco complessiva, aggiornata e penetrante dal punto di vista cri­ tico, della concezione etico-politica di Platone che emerge nella Repubblica, si trova nella monumentale opera coordinata da Vegetti (1998-2.007 ) ; per il dibattito sull 'e­ voluzione di queste tesi nelle Leggi, cfr. solo Lisi (2.001) e Scolnicov, Brisson (2.003). 2.5. Si vedano soprattutto Kramer (1959; 1982.), Gaiser (1959; 1963), Szlezak (1985), Reale (199110). L' intensa attività scientifica ed editoriale intrapresa particolarmente da Reale ha prodotto, in Italia, una certa diffusione di questa linea interpretativa e della sua applicazione alla lettura dei singoli dialoghi platonici, con il fine di giungere a una sua formulazione sistematica: si vedano soprattutto, ultimi in ordine di tempo, i due imponenti volumi di Migliori (2.013). 2.6. Gli studi platonici di Gadamer sono raccolti in Gadamer (1991); si vedano in proposito Van Ackeren ( 2.0 04), Barbarie (2.005) e Gill, Renaud (2.010 ). Sull' influen­ za esercitata da Heidegger su Gadamer, in particolare rispetto alla lettura di Platone (nella quale, vale la pena ricordarlo, Gadamer si discosta nettamente dal maestro), e dunque rispetto agli studi platonici di Heidegger, cfr. ora l'eccellente ricostruzione in Gonzalez (2.009). 2.7. Per quanto riguarda gli studi platonici straussiani, si può fare riferimento a Strauss (1952.; 19 64; 1983) e, come applicazione del metodo esegetico di Strauss, a Benardete (1991). 2.8. Il dialogica! approach non rappresenta naturalmente una linea di interpretazione del tutto omogenea e unitaria, ma ha evidenziato via via sviluppi differenti e peculiari. Si trova tuttavia di esso una descrizione elaborata e quasi programmatica in Griswold (1988), Hart, Tejera (1997 ), Michelini (2.003), Press (1993; 2.ooo; 2.007 ). 2.9. Si veda solo, in proposito, Gonzalez (1995). A intenti esegetici che possono esse­ re assimilati a quelli valorizzati dall'approccio ermeneutico e dalla "terza via", talvol­ ta come loro anticipazione, possono essere accostati, in Italia, i lavori di Casertano (1991; 1996) e soprattutto di Trabattoni (1994; 2.005).

4 L'Accademia antica 1. Nella lettura di questo capitolo si tenga presente quanto già scritto in proposito, in questo stesso volume, da Mario Vegetti (cfr. pp. 17-2.5), e la bibliografia ivi citata. 2.. È rimasto celebre, in proposito, il titolo di un libro di Cherniss, The Riddle oJthe

NOTE

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Early Academy (1945). Le più recenti esposizioni della storia dell'Accademia antica sono le seguenti: Kramer (2.004•), Dillon (2003), Berti (2010 ), El Murr (2012). Per Speusippo e Senocrate si vedano inoltre i due ottimi capitoli stesi da Dancy per la Stanford Encyclopaedia of Philosophy (Dancy, 20I I ; 2012). 3. Tutto quello che possiamo dire è che Platone ha consacrato nell'Accademia un altare alle Muse, e che Speusippo vi ha aggiunto statue delle Grazie. Sulla topografia dell'Accademia e sulla sua struttura "fisica" ora abbiamo a disposizione Caruso (2.01 3). 4. Secondo Ateneo (Deipnosophistai I X 50 8c-d), che riporta Teopompo di Chio, l'Accademia era stata una « fucina di tiranni » . 5. L'edizione d i Speusippo che utilizziamo è quella curata d a Margherita Isnardi Pa­ rente (1980 ); ma cfr. in proposito anche la successiva versione elettronica, però priva del testo greco : http ://rmcisadu.let.uniromax.it/isnardi/fronte.htm. 6. Dillon (2003, p. 49) nega che Speusippo abbia davvero rifiutato l'esistenza delle idee, affermando invece che le avrebbe collocate a livello dell'anima del mondo. Ma le evidenze testuali a favore di questa ipotesi sono davvero scarse. 7. Per Senocrate utilizziamo la raccolta di Margherita Isnardi Parente nella recente versione, aggiornata da Tiziano Dorandi (Isnardi Parente, 2.0Il). Anche qui c 'è l'edi­ zione elettronica, senza il greco, ma precedente a questa revisione : http://rmcisadu. let.uniroma1.it/isnardi/fronteo2.htm. 8. L' ipotesi di Sedley è sostanzialmente accolta sia da Dillon (2003, pp. 168 ss.) sia da El Murr (20Il, p. 264). s

Astronomia e geometria da Eudosso a Euclide l. L'unica raccolta del materiale relativo ai matematici legati alla scuola di Platone è quella a cura di Lasserre (1987); allo stesso Lasserre (1966) si deve la raccolta dei frammenti di Eudosso. 2. Per una dettagliata esposizione del sistema eudossiano delle sfere cfr. Heath (1981\ pp. 329-3 5). 3. I frammenti di Eraclide sono raccolti da Wehrli (196 9•a) . 4. L'edizione di riferimento è quella a cura di Aujac (1979). 5. I frammenti di Menecmo sono stati raccolti da Schmitt (1 884).

6 Aristotele l. Per un'accurata ricostruzione delle opere perdute di Aristotele cfr. Berti (1997•a). 2. Al contrario, abbiamo motivo di credere che egli considerasse questo strumento di comunicazione del tutto affidabile : cfr. De int. l6a 3-6; Top. lo5b 12-15. Cfr. in propo­ sito le osservazioni di Franz Dirlmeier, riportate in Berti (2004\ pp. I l7-8). 3. Cfr., più in generale, An. Post. I capp. 2-4: la scienza studia non ciò che è acciden­ tale, ma ciò che è necessario, e necessario (nel senso che vale sempre e in tutti i casi pertinenti) è solo l'universale.

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4. Desumo questo schema, a mio avviso assai persuasivo, soprattutto dalle esposizio­ ni di Aristotele prodotte da Enrico Berti (in particolare Berti, i.0041). 5. Così di nuovo Irwin (1988). Per un approfondimento di questi problemi cfr. anche Kal (1988). 6. L'errore ha luogo, qui, solo per accidente: in condizioni normali, quando il suo occhio percepisce il bianco come bianco, l'anima non commette errore; ma lo può commettere attribuendo il bianco all'oggetto sbagliato: De an. III 4i.8b 9-i.1. 7. Qui è utile dissipare un possibile equivoco. Se l'essere bianco (categoria della qua­ lità) è caratteristica accidentale di un uomo (categoria della sostanza), perché Ari­ stotele scarta dalla sua indagine l'essere per accidente e inserisce tutte le categorie, comprese quelle che sono accidentali in rapporto alla sostanza, nell'essere per sé ? Si può rispondere in questo modo. Il fatto che un uomo sia bianco è davvero un evento accidentale (dunque non interessa la filosofia) ; ma il fatto che nella realtà ci sia una divisione tra qualità essenziali e qualità accidentali degli oggetti non è un evento acci­ dentale ; esso anzi appartiene alla realtà di per sé. 8. Hanno sostenuto che la forma aristotelica è un universale soprattutto alcuni in­ terpreti anglosassoni (i cosiddetti "Londinenses") , nel corso di un celebre seminario tenutosi a Oxford nel 1979, i cui risultati sono raccolti in Burnyeat (1979 ) , mentre l' i­ potesi che la forma sia individuale è una delle tesi portanti del commento al libro VII della Metafisica curato da Frede e Patzig (1988). Una recente sintesi del dibattito criti­ co si trova ora in Galluzzo-Mariani (i.006). 9. Su questo problema cfr. Bodéiis (i.ooi., in particolare pp. xc-cx ) . IO. Aristotele ne parla, rispettivamente, nei capp. 4, 3 e 2. di Eth. Nicom. III. 11. Per un approfondimento di questa nozione si veda Natali (1989, in particolare pp. 59-142.). 12.. Cfr. in proposito il capitolo La rinascita della filosofia pratica, in Berti (199i., pp. 18 6-i.45) e Cortella (1987 ). 13. Sull'entimema e sulla retorica aristotelica in generale sono disponibili in italiano gli ottimi lavoro di Francesca Piazza (i.ooo; i.008). 7

Quadro storico-critico delle interp retazioni di Aristotele nel Novecento 1. Per un quadro generale degli orientamenti della critica del Novecento, si possono utilmente consultare anche Flashar ( 2.004 , pp. 388 ss.) e Berti (199i.). Mi si consenta di rinviare pure a Jori (i.0083, pp. 5 14 ss.). 2.. L'opera costituiva in origine la tesi di dottorato di Brentano, preparata sotto la guida di Friedrich Adolph Trendelenburg e presentata in absentia nel 1862. all' Uni­ versità di Tubinga. 3. Il testo, redatto nel 19i.i., venne pubblicato solo alla fine degli anni Ottanta: cfr. Heidegger (1989 ). '

NOTE

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4 . S i vedano l e critiche i n Habermas (19 84). 5. Tra gli interventi più interessanti: Mothersill (1962); Kenny (1965-66); Hare (1971); Hintikka (1974). 6. Questa tesi è stata ripresa e sviluppata, tra gli altri, dal tedesco Giinther Patzig (1959 ). 8

Teofrasto e il Liceo 1. Le fonti relative alla vita e al pensiero di Teofrasto sono raccolte in Fortenbaugh et al. ( 1992) (seguiti da più volumi di commento). Per un panorama complessivo, cfr. gli studi raccolti in Van Ophuijsen, Van Raalte (1998). Sul Liceo, la sua organizzazione e le sue vicende cfr. Natali (2013). 2. Mignucci, comunque, non condivide questa opinione, che formula solo per con­ futarla attraverso un'approfondita analisi delle teorie logiche di Teofrasto. 3. Sulla questione, cfr. Berti (2002), secondo cui Teofrasto criticherebbe non tanto Aristotele, quanto un' interpretazione platonizzante del suo testo. 4. Fonti: Wehrli (1969'a) ; interpretazione : Bodnar, Fortenbaugh (2002). 5. Su Aristosseno, cfr. Wehrli (1967') e Huffman (20u). Su Dicearco cfr. Fortenbaugh, Schiitrumpf (2001).

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WIELAND

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B I B L I O G RA F I A

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Indice dei nomi*

Alessandro di Afrodisia, 168, 196, 2.31, 2.97-8, 301 Alessandro Magno, 1 66, 175 Amicla di Eraclea, 1 6 6 Aminta di Macedonia, 175 Anassagora, 2.33, 2.35 Andronico di Rodi, 176, 178, 2.95, 2.9 8 Antifonte, 2.63 Antioco di Ascalona, 1 6 1 Antipatro di Macedonia, 2.0 Arcesilao, 162. Archimede, 161, 174 Archita di Taranto, 18, 2.7-8, 165, 170 Arendt Hannah, 2.79 Aristarco di Samo, 1 6 9 Aristofane, 1 4 5 Aristosseno, 2. 3, 1 4 5, 2.99-300, 3 1 3 Aristotele, 2.0-5, 30-3, 63-5, 95, 102., 145-6, 148-9, 151, 1 53-7, 1 6 0-1, 1 65-7, 1 6 9-70, 172., 175-301, 306, 309, 3 1 1-2. Asclepio di Tralle, 156, 2.98 Ateneo di Cizico, 166 Ateneo di Naucrati, 145, 311 Autolico di Pitane, 1 6 6, 169 Boeto di Sidone ( peripatetico ) , 300

Boezio Anicio Manlio Torquato Severino, 2.0I Brentano Franz, 2.75-6 Callippo di Cizico, 2.0, 1 67 Cartesio, 2.32. Chione, 2.0 Cicerone Marco Tullio, 1 61-2., 178, 2.99300 Clearco di Eraclea, 2.0 Clearco di Soli, 2.3, 301 Clemente di Alessandria (o Alessandrino ) , 160 Codro, 18 Cohen Hermann, 1 2.7 Corisco, 2.0 Cotys, re di Tracia, 2.0 Crantore di Soli, 1 62.-3 Cratete di Atene, 162. Cratilo, 2.7, 44, 195 Crizia, 2.7, 34, 109 Demetrio del Falero ( o Falereo ) , 2.3, 301 Democrito, 2.2., 2.19 Dicearco di Messene, 2.3, 2.99-300 Dinostrato, 16 6, 17 3-4

I riferimenti bibliografici non sono stati indicizzaci.

S T O RI A D ELLA F I L O S O F I A ANT I C A

Diogene Laerzio, 18, 22-3, 144, 147-8, 155, 1 62, 293-4, 296, 301 Dione di Siracusa, 19-20, 27 Dionisio r di Siracusa, 19, 27 Dionisio II di Siracusa, 19, 27

Hegel Georg Wilhelm Friedrich, 1 34, 273 Heidegger Martin, 140, 276-9, 3w, 3 1 2 Helikon d i Cizico, 20 Hume David, 219

Empedocle, 219 Epicrate, 144-6 Eraclide di Eno, 20 Eraclide Pontico, 20, 147-8, 155, 166, 1689, 3 1 1 Eraclito, 4 4 , 8 9 Erasto, 20 Ermia di Arameo, 20 Ermippo di Smirne, 295 Ermocrate di Siracusa, 109 Ermodoro di Siracusa, 149, 188 Ermotimo di Colofone, 166 Erone di Alessandria, 171 Esiodo, 37 Euclide di Alessandria, 165, 1 69-70, 172 Eudemo di Rodi, 23, 166-7, 293, 297-9 Eudosso di Cnido, 20, 155, 165-74, 237, 311 Eutocio di Ascalona, 173 Eveone di Lampsaco, 20

Ieronimo di Rodi, 298 Ippaso di Metaponto, 170 Ippia di Elide, 174 Ippocrate di Chio, 172, 174 Isocrate, 97, 146, 182

Filippo di Macedonia, 21, 175 Filippo di Opunte, 20, 28, 147, 1 6 5-6 Filodemo di Gadara, 20, 147, 155 Gadamer Hans-Georg, 140, 277, 280, 310 Galeno, 29 3 Galilei Galileo, 2.2.0, 232 Gellio Aulo, 293 Gemino di Rodi, 168 Giamblico, 149 Gorgia, 38-9, 87

Kant Immanuel, 12.7, 285 Laodamante di Taso, 20, 166 Lattanzio, 300 Leone accademico, 20, 166 Licurgo, 70 Linneo ( Cari von Linné ) , 235 Lisia, 72 Menandro, 294 Menecmo, 166, 173, 3 1 1 Menedemo d i Eretria, 144 Natorp Paul, 127 Nemesio di Emesa, 300 Neoclide, 166 Nicolao di Damasco, 295

Pappo di Alessandria, 174 Parmenide, 50, 92-4, 98, 194, 197, 217, 239 Pitone di Eno, 20

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INDICE DEI NOMI

Platone, 17-20, 24-5, 27-144, 146-54, 15662, 165-8, 170-1, 175-6, 179-86, 189-91, 19 3-8, 217, 220, 226-8, 230, 232, 235, 237-9, 244-6, 251-2, 254, 257-64, 2668, 270-2, 274, 279-80, 293, 296, 300-1, 303, 3 1 1 Plutarco d i Cheronea, 20, 1 6 3 Polemone, 161-3 Policrate retore, 31 Popper Karl Raimund, 19, 395 Porfirio, 159 Posidonio, 168 Prassifane di Mitilene, 298 Prisciano di Lidia, 297 Proclo, 157-9, 163, 1 66, 1 68, 173 Protagora, 18, 3 8, 40-3, 60, 89, 136, 192 Russe!! Bertrand, 125 Ryle Gilbert, 1 27-8 Senocrate, 20, 1 47-50, 155-63, 198-9, 3 1 1 Sesto Empirico, 160, 188

Simplicio, 168, 296-7 Socrate, 14, 17, 27, 31, 34-5, 195, 253-4, 261, 279, 308 Solone, 18, 70 Speusippo, 20, 144-5, 147-57, 161-2, 168, 173, 311 Stratone di Lampsaco, 23 Strauss Leo, 141, 179 Teeteto, 20, 166, 170 Temistio, 297 Teofrasto, 22-4, 175, 231, 293-9 Teopompo di Chio, 3 1 1 Teudio d i Magnesia, 20, 1 6 6 Timeo d i Cizico, 20 Trasillo di Mende, 28 Trasimaco di Calcedone, 1 8 Weber Max, 279 Wittgenstein Ludwig, 125, 219, 281 Zenone di Elea, 9 2-3, 159

Gli autori

è professore ordinario di Storia della filosofia antica È autrice di: Enti matematici e metafisica. Platone, Ari­ stotele e !:Acca demia antica a confronto (Vita e Pensiero, 1 9 9 6 / Loyola, 2005); Le matematiche al tempo di Platone e la loro rifòrma (in M. Vegetti, Platone, La Re­ pubblica, Bibliopolis, 2003); "Arithmos" nell"'Epinomide" (in F. Alesse, F. Ferrari, Epinomide. Studi sull'opera e la sua ricezione, Bibliopolis, 201 2); Il laboratorio ma­ tematico dei Greci. Platone, Aristotele, Euclide (Vita e Pensiero, in corso di stam­ pa). Ha curato la prima traduzione in lingua moderna del commento di Pseudo Alessandro ai libri XIII-XIV della Metafisica di Aristotele (in G. Movia, Alessan­ dro di Afrodisia, Commento alla Metafisica di Aristotele, Bompiani, 2007 ). È au­ trice di numerosi saggi sul rapporto fra pensiero matematico e filosofico in Plato­ ne e in Aristotele, nei CAG e in Proclo. ELISABETTA CATTANEI

all' Università di Cagliari.

RIC CARDO C H IARADO NNA insegna Storia della filosofia antica all' Università degli Studi Roma Tre. È autore di Sostanza movimento analogia. Plotino critico di Aristotele (Bibliopolis, 2002) e di Plotino (Carocci, 2009). Ha curato Studi sull'anima in Plotino (Bibliopolis, 2005); Physics and Philosophy of Nature in Greek Neoplatonism (Brill, 2009, con F. Trabattoni); Filosofia tardoantica (Ca­ rocci, 201 2); Il platonismo e le scienze (Carocci, 201 2); Universals in Ancient Phi­ losophy (Edizioni della Normale, 2013, con G. Galluzzo). È autore di studi su Galeno, Plotino, Porfirio e sulle tradizioni platonica e aristotelica in età post­ ellenistica e tardo antica. Inoltre si è occupato della posterità di Plotino nel pen­ siero rinascimentale. F RAN C E S C O FRONTEROTTA insegna Storia della filosofia antica alla Sapienza Università di Roma. È autore, fra gli altri, dei seguenti volumi: Guida alla lettura del Parmenide di Platone (Laterza, 1 9 9 8); Methexis. La teoria platonica delle idee e la partecipazione delle cose empiriche. Dai dialoghi giovanili al Parmenide (Edi­ zioni della Normale, 2001); Platone, Timeo ( BUR, 2003); Platone, Sofista ( BUR, 2007 ); Eraclito, Frammenti ( BUR, 2013). Si occupa prevalentemente del pensiero presocratico, di Platone e della tradizione platonica antica.

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S T O R I A D E LLA F I L O S O F I A A N T I C A

A L B E RT O JORI insegna Storia della filosofia antica all' Università di Ferrara e Fi­

losofia all' Università di Tubinga. Nel 2 0 0 3 ha vinto il premio dell'International Academy of the History of Science. Tra le sue opere : Medicina e medici nell'antica Grecia. Saggio sul Perì téchnes ippocratico (il Mulino-Istituto Italiano per gli Studi Storici, 1 9 9 6 ) , Aristotele (Bruno Mondadori, 2 0 0 81), Aristoteles, Uber den Him­ mel (Akademie-WBG, 2 0 0 9 ) . FRANCO T RABATTONI è professore ordinario di Storia della filosofia antica

all'Università degli Studi di Milano.

È autore, fra gli altri, dei seguenti volumi:

Scrivere nell'anima. Verita, dialettica e persuasione in Platone (La Nuova Italia, 1 9 94) ; Lafilosofia antica. Profilo critico-storico (Carocci, 20 0 3 ) ; Platone (Carocci, 20 0 9 ) ; Attualita di Platone (Vita e Pensiero, 2 0 0 9 ) ; Platone, Fedone (Einaudi, 2 0 u ) . Dirige la rivista internazionale di filosofia antica "Méthexis". MARIO VE G E T T I è professore emerito dell'Università di Pavia, dove ha insegnato

Storia della filosofia antica. È membro effettivo dell'Istituto Lombardo - Acca­ demia di scienze e lettere, dell'Accademia napoletana di scienze morali e del Col­ legium Politicum internazionale. Ha tradotto e commentato opere di Ippocrate e Galeno (tra cui i Nuovi scritti autobiografici, Carocci, 2 0 1 3 ) , e gli scritti biologici di Aristotele. Tra le sue opere più importanti: Il coltello e lo stilo (il Saggiatore, 1 9 9 6') ; L'etica degli antichi (Laterza, 1 9 9 6 ') ; Quindici lezioni su Platone (Einaudi, 2 0 0 3 ) ; Dialoghi con gli antichi (Academia, 2 0 0 7 ) ; Un paradigma in cielo. Platone politico da Aristotele al Novecento (Carocci, 20 0 9 ) ; un grande commento alla Re­ pubblica di Platone in 7 volumi (Bibliopolis, 1 9 9 8 - 2 0 0 7 ) e la traduzione di questo dialogo con ampia introduzione ( BUR, 2007 ) .