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Seminari internazionali del Centro interuniversitario per la storia e l’archeologia dell’alto medioevo
VII
Comitato scientifico: Giovanna Bianchi, Salvatore Cosentino, Stefano Gasparri, Sauro Gelichi, Maria Cristina La Rocca, Tiziana Lazzari, Vito Loré, Alessandra Molinari
Spazio pubblico e spazio privato tra storia e archeologia (secoli vi-xi) a cura di Giovanna Bianchi, Cristina La Rocca, Tiziana Lazzari
SAAME (Centro Interuniversitario per la Storia e l’Archeologia dell’Alto Medioevo) Università degli Studi di Padova; Università degli Studi di Siena; Università Ca’ Foscari Venezia; Università degli Studi di Bologna; Università di Roma Tre Dip. di Studi Umanistici Università Ca’ Foscari – Palazzo Malcanton Marcorà Dorsoduro 3484 30123 – Venezia email: [email protected] Direttore: Sauro Gelichi Vicedirettore: Chris Wickham Consiglio direttivo: Giovanna Bianchi, Salvatore Cosentino, Stefano Gasparri, Sauro Gelichi, Maria Cristina La Rocca, Tiziana Lazzari, Vito Loré, Alessandra Molinari Assemblea: Giuseppe Albertoni, Paul Arthur, Claudio Azzara, Irene Barbiera, Maddalena Betti, Giovanna Bianchi, Francesco Borri, François Bougard, Gian Piero Brogiolo, Federico Cantini, Alessandra Cianciosi, Roberta Cimino, Simone Collavini, Maria Elena Cortese, Salvatore Cosentino, Gianmarco De Angelis, Flavia De Rubeis, Paolo Delogu, Margherita Ferri, Clemens Gantner, Sauro Gelichi, Stefano Gasparri, Antonella Ghignoli, Nicoletta Giovè, Cinzia Grifoni, Richard Hodges, Maria Cristina La Rocca, Tiziana Lazzari, Vito Lorè, Federico Marazzi, Cecilia Moine, Alessandra Molinari, Massimo Montanari, John Moreland, Claudio Negrelli, Ghislaine Noyé, Annamaria Pazienza, Walter Pohl, Chiara Provesi, Juan Antonio Quiros, Anna Rapetti, Alessia Rovelli, Fabio Saggioro, Igor Santos Salazar, Riccardo Santangeli Valenzani, Marco Stoffella, Marco Valenti, Francesco Veronese, Giacomo Vignodelli, Giuliano Volpe, Bryan Ward Perkins, Veronica West-Harling, Chris Wickham
© 2018, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording or otherwhise, without the prior permission of the publisher. ISBN: 978-2-503-58104-0 e-ISBN 978-2-503-58147-7 D/2018⁄0095⁄182 10.1484/M.SCISAM-EB.5.116023 ISSN: 2565-893X e-ISSN: 2506-6560
Printed on acid-free paper
SOMMARIO
Sigle e abbreviazioni
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Giovanna Bianchi, Cristina La Rocca, Tiziana Lazzari Introduzione
9
Sezione 1. Una nuova dimensione del pubblico e del privato? Janet Laughland Nelson Public Space and Private Space: some historical evidence
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Carlos Machado The aristocratic domus of late antique Rome: public and private
37
Vito Loré Spazi e forme dei beni pubblici nell’alto medioevo. Il regno longobardo Stefano Gasparri Gli spazi del vescovo Vincenzo Fiocchi Nicolai Le chiese rurali di committenza privata e il loro uso pubblico (IV-V secolo)
59
89
107
Sezione 2. I luoghi del potere e gli spazi privati Andrea Augenti Architetture del potere: i palazzi urbani tra tarda Antichità e Medioevo
145
Régine Le Jan Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle : Publice/publicus dans les actes diplomatiques
173
Riccardo Santangeli Valenzani Spazi privati e funzioni pubbliche nell’edilizia residenziale altomedievale
199
Tiziana Lazzari Gli spazi delle famiglie fra dimensione privata e rappresentazione pubblica
213
Sezione 3. Gestione e controllo delle risorse Cristina La Rocca Materiali pubblici e edilizia privata nell’Italia teodericiana
233
Federico Cantini La gestione della produzione fra curtes fiscali e curtes private in età carolingia
261
Giovanna Bianchi Spazi pubblici, beni fiscali e sistemi economici rurali nella Tuscia post carolingia: un caso studio attraverso la prospettiva archeologica
293
Irene Barbiera Sudata marito fibula: oggetti di prestigio e identità di genere tra pubblico e privato in età tardo antica e altomedievale
327
Simone Collavini Qualche considerazione conclusiva
343
Tavole a Colori
353
Indice dei nomi
369
Sigle e abbreviazioni
CCSL
Corpus Christianorum, Series Latina
CIL
Corpus Inscriptionum Latinarum
CSEL
Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum
ICUR
Inscriptiones Christianae Urbis Romae
MGH
Monumenta Germaniae Historica SS rer. Lang.
Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum
SS rer. Merov.
Scriptores rerum Merovingicarum
PG
Patrologia Graeca
PL
Patrologia Latina
Giovanna Bianchi, Cristina La Rocca, Tiziana Lazzari Introduzione
Il volume che qui presentiamo nasce da un progetto comune fra le tre curatrici, frutto della collaborazione continua e sinergica fra storia e archeologia resa possibile dalle attività del Centro Interuniversitario di Storia e Archeologia dell’alto medioevo (SAAME), di cui tutte facciamo parte. Si tratta di un progetto che ha conosciuto una lunga gestazione e che si è realizzato in diverse tappe che, dall’ormai lontano 2012, conducono infine alla cura di questo volume. Il primo incontro si tenne infatti il 31 ottobre 2012 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e intendeva indagare La dimensione pubblica nelle fonti archeologiche1; il secondo, nel maggio del 2013 a Bologna, ha affrontato invece il problema della Rappresentazione della famiglia e della parentela nei primi secoli del Medioevo2. Infine, il seminario Spazio pubIntendiamo conservare memoria di tutti i contributi che hanno contribuito a realizzare questo progetto, anche nel caso in cui non abbiano poi dato luogo a testi presenti in questo volume. Al seminario veneziano parteciparono Cristina La Rocca con Paolo Pierobon, I dittici eburnei nella tarda antichità; Giovanni Cecconi, I patroni nell’Italia tardo-antica nelle fonti epigrafiche; Giovanna Bianchi con Jacopo Bruttini e Alessia Rovelli, Lo sfruttamento delle risorse argentifere in Toscana e i suoi riflessi sulla monetazione; Federico Cantini con Claudio Mangiaracina, I luoghi e la gestione della produzione ceramica tra pubblico e privato. 2 Al seminario bolognese intervennero Tiziana Lazzari, Alberi della parentela e alberi genealogici: il problema della rappresentazione dei legami familiari; Giacomo Vignodelli, Parentele aristocratiche del secolo X: riflessioni sui modelli grafici di rappresentazione; Laura Pasquini, Iconografia della coppia matrimoniale nell’alto medioevo occidentale; Giuseppe Albertoni, Comunità altomedievali e gruppi parentali: proposte per una ricerca rinnovata; Irene Barbiera, Le sepolture fra immagine della comunità e dei gruppi familiari; Fabio Saggioro, Sulla struttura delle abitazioni e sui modelli di house-groups. 1
Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 9-16 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116177
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Introduzione
blico e spazio privato tra storia e archeologia (secoli VI – XI), ha concluso la serie degli incontri a Bologna nel novembre 20143. Già i primi due seminari – si capisce bene dai loro titoli – si basavano sulla dicotomia pubblico/privato che ha costituito il cuore teorico della nostra riflessione, una riflessione che si è concentrata infine sugli spazi, materiali e simbolici, che sono stati il concreto campo di indagine sul quale abbiamo ritenuto utile valutare la potenzialità euristica di tali due concetti nella ricerca sia su fonti scritte sia su fonti archeologiche nei secoli altomedievali. Concetti scivolosi Nell’ultimo decennio sono state numerose le riflessioni sui concetti di pubblico e privato, soprattutto nel campo della filosofia politica, riflessioni sollecitate principalmente dalla volontà di tutela dei cosiddetti beni comuni, o beni pubblici4. Riflessioni che hanno condotto intellettuali come Raymond Geuss5 a storicizzare tale dicotomia, e a demolirla dal punto di vista concettuale, considerandola propria del sistema di pensiero liberale e mai univoca nei suoi significati e pericolosa, quindi, sempre, da impiegare. Pericolosa anche perché sfuggevole, aggiungiamo, persino dal punto di vista semantico. I due aggettivi, pubblico e privato, infatti, si contrappongono certo nella dicotomia, ma in realtà coadiuvano alla definizione l’uno dell’altro, in maniera spesso tautologica. Che cosa significa privato, infatti, se non “tutto ciò che attiene alla sfera della vita individuale, che non riguarda le attività e le funzioni pubbliche che ciascuno svolge nella vita sociale, politica, economica, amministrativa della collettività di cui fa parte”? Questa definizione è tratta dal dizionario TrecParteciparono allora, oltre agli autori dei saggi raccolti in questo volume, anche Chris Loveluck, Creation, use and control of public and private in early medieval northwest Europe, c. AD 600-1100: an archaeological overview, Nicolas Schroeder, A Few Thoughts in Public Space and Power in the Countryside e Antonio Sennis, Public and private in the monasteries of Medieval Italy, e Sonia Gutierrez che non hanno purtroppo fornito un contributo scritto per questo volume. 4 Sulla relazione tra beni pubblici e beni comuni si veda per i secoli successivi G. Alfani, R. Rao (a cura di), La gestione delle risorse collettive. Italia settentrionale, secoli XII-XVIII, Milano, 2011. 5 R. Geuss, Beni pubblici, beni privati. Origine e significato di una distinzione, Roma, 2005. 3
Introduzione
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cani e, come ognuno può intendere, è per l’appunto una definizione tautologica: privato, secondo questo autorevole dizionario, è soltanto tutto ciò che non è pubblico. Pubblico, d’altra parte, è un aggettivo che, già di per sé, ha un significato più articolato: da un lato è tutto ciò che riguarda la collettività, considerata nel suo complesso e in quanto parte di un ordine civile (lo stato). Oppure, pubblico è ciò che è accessibile a tutti, aperto a tutti, che tutti possono utilizzare, che non è di esclusiva fruizione privata, né riservato a persone o gruppi determinati. Sia la storicizzazione del concetto, sia la mancanza di univocità nei significati della dicotomia pubblico/privato creano problemi di metodo rilevanti nella sua applicazione alla ricerca storica, così come appare sempre necessario definire con precisione l’impiego – anche da solo – del concetto di pubblico, a causa proprio dei suoi slittamenti di significato che vanno dal semplice ‘disponibile per tutti’ alla piena sinonimia con ‘statale’. Significati entrambi che, comunque, sottendono inevitabilmente un concetto già ben presente nel pensiero classico mediterraneo – un nome per tutti, Cicerone – e cioè la differenza fra ciò che è res publica, i cui frutti devono andare a favore di tutti, e ciò che è res privata e che pertiene pertanto a uno o a pochi. Una differenza concettuale che nasce da quel processo giuridico identificato da Yan Thomas – e che Michele Spanò ha recentemente definito ‘santuarizzazione’ –, quel processo cioè che rese indisponibili al commercio, all’appropriazione e alla proprietà, un certo numero di cose che in tal modo diventarono allora disponibili a tutti, e quindi pubbliche6. In merito poi alla sinonimia del concetto di pubblico con quello di stato e al problema della sua applicabilità ai secoli dell’alto Medioevo, abbiamo potuto contare su un riferimento storiografico importante, la serie cioè di numerosi incontri coordinati dall’Institut für Mittelalterforschung, la sezione medievistica dell’Accademia delle Scienze di Vienna, che si sono conclusi nel 2007 con il convegno viennese Staat und Staatlichkeit im europäischen Frühmittelalter, 500-1050, Grundlagen, Grenzen, Entwìcklungen – che in italiano suona Stato e statualità nell’al-
‘Santuarizzazione (o messa in riserva)’ è la definizione proposta da Michele Spanò nel saggio Le parole e le cose (del diritto), in Y. Thomas, Il valore delle cose, Macerata, 2015, alle pp. 96-7, traduzione a cura dello stesso Spanò di Y. Thomas, Le valeur des choses. Le droit romain hors la religion, in Annales. Histoire, Sciences Sociales, 57, n. 6 (novembre-décembre 2002), pp. 1431-62. 6
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Introduzione
to Medioevo, Basi, limiti e sviluppi, i cui contributi sono stati pubblicati due anni più tardi, con un titolo solo lievemente mutato7. Il dibattito durante quegli incontri, più che incentrarsi sulla questione se si possa o meno parlare di ‘stato’ nei secoli che qui interessano (secondo parametri di riferimento, valutazione e comparazione derivati dagli stati bassomedievali), si è concentrato invece nel delineare la fisionomia specifica dello stato nell’alto Medioevo, verificandone le peculiari caratteristiche di funzionamento, di relazioni e di strutture di potere. L’ampia apertura cronologica, compresa fra il secolo VI e l’XI, ha consentito anche di riaffrontare temi tradizionali della medievistica, quale per esempio la struttura dello stato in età carolingia, che in precedenza erano stati osservati sulla base di una prospettiva prevalentemente giuridica. Accolta dunque la possibilità di riferirsi storiograficamente al concetto di ‘stato’, per l’alto Medioevo, seppure uno stato costruito e concepito con caratteri propri di quei secoli, anche l’uso del concetto di pubblico, pubblico nel senso di statale, può essere riabilitato – secondo noi – e utilmente impiegato, tenendo pur sempre presenti i limiti che impone la necessità di determinarlo come concetto storiografico. Gli spazi Questa sintetica esposizione delle premesse teoriche del nostro lavoro non si propone altro se non di esplicitare la chiara consapevolezza che abbiamo del rischio insito nell’applicare alla ricerca su fonti e periodi molto specifici concetti invece così ampi, che assumono, necessariamente e sempre, significati storicamente diversi e che, rischio ancora peggiore, possono indurre a interpretazioni attualizzanti. Nelle diverse tappe in cui – come si è detto – si è articolato il nostro percorso di ricerca, abbiamo proposto ad amici e colleghi che hanno accettato di partecipare ai nostri incontri una sola questione: se sia utile, cioè, dal punto di vista della loro ricerca, utilizzare questa dicotomia – e l’intera gamma di concetti che può sottendere – per indagare i secoli compresi fra il VI e l’XI nell’Europa occidentale. Oggetto del volume che esce in fine da questa esperienza è lo spazio, prima di tutto nella sua dimensione materiale, e ciò per proporre al dibattito storiografico contemporaneo che si incentra sui caratteri W. Pohl, V. Wieser (Hrsg.), Der Frühmittelalterliche Staat – Europäische Perspektiven, Wien, 2009 (Forschungen zur Geschichte des Mittelalters, 16). 7
Introduzione
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dello stato nel corso dell’alto medioevo e della loro trasformazione, una dimensione concreta, materiale, che non ci pare sia stata finora affrontata in modo sistematico8 e che invece riteniamo possa essere densa di spunti per nuove ricerche e, insieme, utile strumento di analisi su dati già acquisiti. Inoltre, proprio la dimensione concreta che sottende il concetto di spazio ci è parsa un campo di indagine estremamente coerente con le finalità del Centro che ha promosso i nostri incontri, perché rende esplicito e, speriamo, fruttifero, il confronto stretto tra storici delle fonti scritte e archeologici del medioevo. Spazio è concetto abbastanza elastico da comprendere altrettanto bene anche una connotazione sociale ed economica, certamente non meno concreta. L’indagine sulle strutture del potere specifiche dei secoli altomedievali ha assegnato una rinnovata importanza alle relazioni fra persone e gruppi e ha richiesto una specifica attenzione in merito alla definizione delle élite politiche e sociali, volta a identificare i segni di distinzione che le caratterizzavano e all’evoluzione in cronologie ristrette di quei segni. Inoltre, mentre la dimensione pubblica delle strutture familiari di tali gruppi appare oggi senz’altro piuttosto chiara – grazie soprattutto agli importanti lavori di Regine Le Jan9, impegnata com’era a tessere le reti delle alleanze politiche e volta ad assicurare la filiazione, la dimensione privata delle famiglie –, invece, può essere ulteriormente indagata, sia rispetto alle forme sociali che assumevano, sia in merito alle rappresentazioni – grafiche, abitative, funerarie, documentarie – che le riguardavano. Una discussione che non può prescindere da un approccio di genere che, identificando i ruoli culturalmente costruiti del maschile e del femminile, contribuisca a restituire, in una ricostruzione integrata, gli spazi specifici dell’azione delle donne e degli uomini. Il rapporto fra sato, élite, popolazione e territorio, trova inoltre una concreta linea di ricerca nelle forme della gestione e del controllo delle risorse economiche, sia per quanto attiene alla proprietà e al possesso dei mezzi di produzione, sia in merito ai processi e ai circuiti di manifattura e distribuzione delle merci. L’intervento in tali
Fatta dovuta eccezione per il recente V. Loré, G. Bührer-Thierry, R. Le Jan (dir.), Acquérir, prélever, contrôler: Les ressources en compétition (400-1100), Turnhout, 2017. 9 R. Le Jan, Famille et pouvoir dans le monde franc (VIIe-Xe siècle). Essai d’anthropologie sociale, Paris, 1995. 8
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Introduzione
processi e circuiti dell’iniziativa pubblica, dotata di risorse economiche e progettuali di scala non comparabile con le iniziative private, quando dimostrato dalle evidenze materiali, è un dato di estrema importanza che può indurre a rivedere in modo profondo le comuni nozioni in merito alle economie altomedievali. I contributi Sulla base di tali considerazioni, abbiamo deciso di ordinare in tre sezioni i contributi di questo volume. La prima, Una nuova dimensione del pubblico e del privato, raccoglie lavori che offrono quadri di insieme ampi, ciascuno su un problema di lunga tradizione storiografica, affrontato sulla base del questionario che abbiamo proposto. Contributi che ragionano cioè, sulla base della contrapposizione pubblico/privato, in merito alle trasformazioni subite nei secoli in questione dagli spazi cittadini e rurali e sulla stessa concezione di patrimonio pubblico, il fisco regio. La sezione si apre con il contributo di Janet Nelson che offre una larga sintesi in merito agli spazi dedicati all’esercizio del potere, con esempi tratti da un lungo corso di secoli, dal V all’XI, attenta sempre a sottolineare la perentoria necessità di contestualizzare i concetti di pubblico e privato nei casi specifici, con un’analisi continua del lessico impiegato dalle fonti, un lessico non sempre atteso e ovvio, soprattutto quando la sfera dei rapporti domestici si intreccia con quella dell’esercizio del potere o quando gli spazi religiosi ed ecclesiastici vanno ad assumere funzioni esplicitamente istituzionali. Carlos Machado affronta poi il tema della domus nella Roma tardoantica, nei secoli in cui gli aristocratici si impadronirono di spazi e di funzioni pubbliche e trasferirono all’interno delle loro abitazioni non solo tali funzioni, ma anche le forme degli spazi atte al loro esercizio. Il contributo di Vito Lorè si incentra sulle terre che occupavano, e sulle forme di gestione che assumevano, i beni del fisco regio nell’Italia longobarda, prestando particolare attenzione alle peculiari caratteristiche e alle differenze di gestione fra le diverse aree geografiche del regno. Stefano Gasparri dedica la sua attenzione agli spazi del vescovo, specialmente agli spazi urbani e alla domus episcopi, una residenza che le funzioni molteplici assunte dal potere vescovile nei primi secoli del Medioevo rendevano un luogo dallo statuto ambiguo, soggetto come tale a saccheggi rituali in occasione della morte del presule. Per quanto attiene infine
Introduzione
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alle chiese rurali, Vincenzo Fiocchi Niccolai affronta il problema del rapporto fra fondazioni private e fondazioni di iniziativa vescovile nelle campagne, concentrandosi sulle sinergie che entrambi i soggetti operarono nell’evangelizzazione tardoantica. La seconda sezione, I luoghi del potere e gli spazi privati, accosta strettamente contributi basati su fonti scritte e su fonti archeologiche, per meglio definire gli spazi destinati all’esercizio del potere e quelli relativi alla sfera domestica. Così, mentre Andrea Augenti analizza sulla base dei dati di scavo la trasformazione dei palatia in ambito urbano fra tardoantico e altomedioevo, Régine Le Jan rintraccia nei diplomi regi rivolti all’area germanica nel secolo VIII le attestazioni relative al concetto di pubblico, interrogandosi sul rapporto fra i luoghi in cui il potere veniva esercitato e la nozione stessa di spazio pubblico. Riccardo Santangeli Valenzani affronta il problema dell’edilizia residenziale e degli spazi urbani, spazi nei quali la distinzione fra pubblico e privato appare già assai sfumata fra IV e V secolo e infine pressoché annullata nei secoli VIII e IX. Tiziana Lazzari esamina quindi alcune fonti relative alla composizione dei nuclei familiari, interrogandosi sul rapporto fra la rappresentazione documentaria, e quindi pubblica, di quei rapporti e la loro dimensione privata. La terza sezione, infine, Gestione e controllo delle risorse, intende spostare la riflessione sul dato economico, per verificare se ragionare sull’opposizione pubblico/privato sia uno strumento concettuale utile per interpretare i dati materiali offerti dalle fonti, archeologiche e no, sia per quel che attiene la produzione primaria, sia per quella di manufatti. E ciò in relazione ai regimi proprietari e di sfruttamento delle risorse, alla creazione di riserve, alle forme di produzioni destinate o meno a una circolazione ristretta o a un controllo pubblico. Così Cristina La Rocca affronta il problema degli spolia, analizzando il reimpiego di materiali provenienti da edifici pubblici in contesti privati durante il regno di Teodorico, dove egli appare conservare il concetto tardoromano dei loca publica, da un lato autorizzando la circolazione dei materiali caduti al suolo da edifici pubblici, dall’altro concedendone l’uso per ripristinare edifici in rovina. Federico Cantini indaga attraverso il dato archeologico le forme di gestione della produzione nei secoli IX e X, mettendo in rilievo le differenze strutturali che emergono nei contesti di proprietà pubblica rispetto a quelli privati. Giovanna Bianchi si occupa su larga scala dei sistemi economici delle campagne toscane fra X e XII secolo, così come
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Introduzione
emergono dai risultati di più campagne di scavo condotte su aree non omogenee, che restituiscono contesti molto diversi fra loro, rispetto ai quali i concetti di pubblico e privato diventano strumenti interpretativi importanti. E infine Irene Barbiera indaga l’uso e i significati, sia sociali sia di genere, di un manufatto specifico, le fibule, interrogandosi sul ruolo ideologico di cui tali oggetti erano investiti e sulle modalità pubbliche e private del loro impiego. Chiude il volume una lettura, o meglio, una riflessione finale, affidata a Simone Collavini, uno storico delle fonti scritte che ha sempre mostrato grande attenzione al dato archeologico e materiale, cui abbiamo chiesto di proporre una sintesi critica di quanto emerso dal nostro lavoro e da quello dei colleghi tutti che hanno partecipato a questa impresa.
1. Una nuova dimensione del pubblico e del privato?
Janet Laughland Nelson Public Space and Private Space: some historical evidence
I begin with thanks to Cristina La Rocca for inviting me to this seminar and for her inspirational suggestion that all we participants “hold in tension a private dimension ensuring filiation [which I take to be vertical bonds] and a public dimension that has to weave networks of alliances [I take these to be more or less horizontal], and then reconsider their social forms and the ways those are represented” in time and also in space1. I want to invite you to the opening moments of a theatrical performance of Shakespeare’s Henry V in approximately 1599 and in the Globe Theatre, because space, especially public space, is so evocatively portrayed in Prologue’s question to the audience and then his own answer to it: “Can this cockpit hold The vasty fields of France? […]. […] […] let us […] On your imaginary forces work. Suppose within the girdle of these walls Are now confined two mighty monarchies, Whose high uprearèd and abutting fronts The perilous narrow ocean parts asunder: Piece out our imperfections with your thoughts; […] Think when we talk of horses, that you see them Printing their proud hoofs i' the receiving earth; For 'tis your thoughts that now must deck our kings, Carry them here and there; jumping o'er times, Turning the accomplishment of many years Into an hour-glass[…]”.
Cristina La Rocca has long been, for me, a dialogue partner and agenda-setter, and my thanks to her are therefore much more than conventional
1
Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 18-35 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116178
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Public Space and Private Space: some historical evidence
The imperfections are of course mine. The key words are “your imaginary forces” and “your thoughts” – for Cristina has asked us to think about early medieval public spaces, and imagination in this case, as in the theatre, is the pre-requisite to thought. She has also encouraged us to think about “the state in the Carolingian age”, “the nature of elites and their signs of distinction”; and, last but not least, the spaces of action, keeping gender in mind. First, then, as a thought-experiment, an invitation, in imagination, to a vasty field at Verdun, in August 843! Here is an assembly of thousands: on the hill beside the cathedral overlooking the Meuse, a large plateau with panoramic views, hundreds of horses, kings; their followings, stewards and servants, numbered in thousands, occupying hundreds of tents; and, in hundreds of satchels, breves, practical lists of estates and boundaries, to enable the Carolingian empire to be divided on the basis of fair shares for not just rulers but for their men too – breves that are also media, and signs of distinction. Here is a public space, a public of elites, flaunting their status along with their property rights, and also flaunting with their proud-hoofed horses their assertive masculinity, while kings move about “here and there”, meeting and greeting2. A text to channel thoughts is the De ordine palatii or “Palace Governance”. It survives in a revised form from September 882, written by Hincmar of Rheims for a young rex modernus, Carloman of West Francia, residing at the old palace of Quierzy, but the author of its main part – the part to be thought about now – was Charlemagne’s cousin Adalard abbot of Corbie, regent of Italy and general trouble-shooter, writing probably in 812, for an earlier youthful Carolingian, Bernard of Italy3. That HincFor bibliography, and some points about the special character of this assembly and the evidence for it, see J.L. Nelson, «Le partage de Verdun», in M. Gaillard, M. Margue, A. Dierkens, H. Pettiau (eds.), De la mer du Nord à la Méditerranée. Francia Media: une region au cœur de l’Europe, Luxembourg, 2011, pp. 245-58. 3 The introduction, translation, and notes to the standard edition, Hinkmar von Reims De ordine palatii, by T. Gross, R. Schieffer, in MGH Fontes iuris Germanici antiqui [III], Hannover, 1980, are now rather dated. See now B. Kasten, Adalhard von Corbie, Düsseldorf, 1986, p. 42-84; B. Bachrach, «Adalhard’s De ordine palatii: Some methodological observations regarding Chapters 29-36», Cithara, 39, 2001, pp. 3-36, esp. 6-14; J.L. Nelson, «Aachen as a place of power», in M. de Jong, F. Theuws (eds.), Topographies of Power in the Early Middle Ages, Leiden, 2001, pp. 217-41, at 226-32 (renouncing views on Hincmar’s revisory role 2
Janet Laughland Nelson
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mar thought fit to add to, recycle, and re-produce what for my purposes is the key part of Adalard’s treatise seventy years later suggests it hadn’t outlived its usefulness. Even though Quierzy was not Aachen, assembly politics were recognizably similar in both places which were also palaces and therefore ‘public’. Publica consilia, Hincmar hoped, still engaged the attention of good and wise men, boni et sapientes viri4. Hincmar’s sense of the Carolingian past stretched back to 768, when the first division of the Carolingian kingdom had, he thought, only been achieved without bloodshed by the mediation of Frankish boni barones5. In the De ordine, the word to focus on is familiaritas: not a word with a single sense, nor does it denote a specifically kingly trait. Familia and familiaris belong in the same semantic group. Familiaritas was relational, with a touch of parity, as when palatini exercised it vis-à-vis each other in discussions public, and more private, in c. 32: “[…] ex eorum assidua familiaritate tam in publicis consiliis quamque et domestica in hac parte allocutione, responsione et consultatione studium haberent […] aut consilium pleniter dare quid fieret, aut certe quomodo […] cum consilio et absqe ullo detrimento res eadem expectari vel sustentari potuisset” (my translation: “relying on their experience of working closely together in public councils as well as in the setting of the [royal] household, they were keen to have problems raised and responded to and to consult […] whether to give advice in full as to what should be done, or with counsel and without any loss, [foreseeing] how a particular matter might turn out or be coped with”)6.
In the assembly context, familiaritas denoted communication between the king and assorted others; and it both arose from and generexpressed by eadem, «Legislation and Consensus», in P. Wormald, D. Bullough, R. Collins (eds.), Ideal and Reality in Frankish and Anglo-Saxon Society: Studies presented to J.M. Wallace-Hadrill, Oxford, 1983, pp. 202-27, benefiting from the work of Kasten and others, but not until later from the rightly swingeing critique of Bachrach). R. McKitterick, Charlemagne. The Formation of a European Identity, Cambridge, 2009, pp. 113-14, 152, refloats the possibility that Adalard wrote in the 780s as baiulus of the young Pippin of Italy, but to my mind Adalard’s similar role vis-à-vis Bernard of Italy c. 812 remains a more likely context. 4 De ordine palatii, cap. 32, p. 88, l. 547, and Prologue, p. 32, l. 7. 5 Hincmar, Ep. ad Ludowicum Balbum sive novi regis instructio, J.-P. Migne, PL 125, col. 986C. 6 De ordine palatii, cap. 32, p. 88, ll. 546-52.
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Public Space and Private Space: some historical evidence
ated trust, as in c. 35, which describes what the king was doing while the leading counsellors primi senatores regni, conferred for two or three days on the list of substantive matters he had put to them: “[…] princeps reliquiae multitudini in suscipiendis muneribus, salutandis proceribus, confabulando rarius visis, conpatiendo senioribus, congaudendo iunioribus […] occupatus erat, ita tamen ut quotienscunque segregatorum [i.e. the senior counsellors in their separate meeting-place] voluntas esset, ad eos venire, similiter quoque quanto spatio voluissent, cum eis consisteret. Et omni familiaritate qualiter singula reperta habuissent, referebant […]. Sed nec illud praetermittendum quomodo si tempus serenum erat, extra […] erant […]” (my translation: “the ruler was occupied with the rest of the multitude, in receiving gifts, greeting great men, sharing stories with people he didn’t see often, sharing experiences with the older ones, sharing joys with the younger ones […] in such a way that whenever it was the wish of [the senior counsellors in their separate meeting-place], he would join them, and likewise stay with them for however long they wanted. And they told him in a spirit of openness and trust (omni familiaritate) about all the items they had found to discuss […] But it is important not to leave out the fact that if the weather was fine, they were in the open air (extra)7.
Extra is a kind of space Shakespeare conjured up for us in Henry V! In bad weather, various distinct spaces were available infra, indoors, where some of the above-mentioned persons were “habundanter segregati semotim et cetera multitudo separatim residere potuissent, prius tamen ceterae inferiores personae interesse minime potuissent” (my translation: “well-segregated and separate, and the rest of the crowd could sit separately, yet before other inferior persons could take any part”)8. Familiaritas, sympathetic chats, accessibility and all, included artifice, of course – that kept elites strategically distinct. It was a learned behaviour; and so far as the king was involved it was what the late Tim Reuter called a kingship style, in this case locating the king (and since these are Adalard’s words, the king is Charlemagne) in an assembly9. Assuming most summer assemblies had good weather, familiDe ordine palatii, cap. 35, pp. 92-4, ll. 591-600. De ordine palatii, cap. 35, p. 94, ll. 601-4. 9 See the brief but precious comments of T. Reuter, «Ottonian ruler representation», in his Medieval Polities and Modern Mentalities, Cambridge, 2007, ed. by J.L. Nelson, pp. 127-46, at 128-9, and in the same volume, «The medieval German Sonderweg», pp. 388-412, at 411, on medieval rulership and politics as ‘style rather than institution’; on assemblies, see now C. Wickham, «Consensus and assemblies 7 8
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aritas could function well in a relatively undifferentiated space of publica consilia. Infra has rather different implications and inherent possibilities of holding in tension managed and spontaneous action10. De ordine’s picture is an idealization, but not a fantasy. Chris Wickham rightly notes, first, that the historiography on royal assemblies “has become progressively less institutional and more transactional”, and second, that historians in the past half-century have “abandoned the assumed opposition between king and aristocracy”11. These are important observations. So far I have been thinking about big publics at kingdom level in the Carolingian period. I want to think now about more local public institutions at an earlier date, and about what happened to them in the later Roman Empire between the fourth century and the sixth. A term that early Byzantinists or historians of Late Antiquity happily reach for – though they put it in inverted commas to avoid infection – is “privatization”. Peter Sarris, who also writes of “the emasculation of the structures and institutions of municipal government”, explains how public archives ceased to exist in the late antique period. First, the state harnessed the social authority and clout of aristocrats by investing them with functions and responsibilities that had been municipal, such as exacting civic taxes and civic munera. In time, such aristocratofficials were keeping tax records among their private archives, and the estate managers were clerics (personally exempt from munera) who kept records in churches patronized by the aristocrat-officials, hence “privately-run”12. In 535, the emperor Justinian in Novel 15 noted that in the Romano-Germanic kingdoms: a comparative approach», in V. Epp, C.H.F. Meyer (bearb.), Recht und Konsens im frühen Mittelalter (Vorträge und Forschungen 82), 2017, pp. 388-424. 10 Wickham, «Consensus and assemblies», pp. 388-95, 404-13. 11 Wickham, «Consensus and assemblies», pp. 408-9, with works cited at n. 60. See further the papers of S. Airlie, now conveniently assembled in his Power and its Problems in Carolingian Europe, Farnham, 2012, and points made by Nelson, «Charlemagne and Empire», in J.R. Davis, M. McCormick (eds.), The Long Morning of Medieval Europe. New Directions in Medieval Studies, Aldershot, 2008, pp. 223-34, at 228-31, with the thought-provoking comments of S. Airlie, «The Cunning of Institutions», in Davis, McCormick, The Long Morning, pp. 267-71. 12 P. Sarris, «Lay archives in the Late Antique and Byzantine East: the implications of the documentary papyri», in W.C. Brown, M. Costambeys, M. Innes, A.J. Kosto (eds.), Documentary Culture and the Laity in the Early Middle Ages, Cambridge, 2013, pp. 17-35, at 23.
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“public registration of property transactions is no longer taking place because cities lack archives where the documents could be kept”. Sarris doesn’t directly connect this with his earlier comment that in 532 in Constantinople, “the praetorium of the praetorian prefect of the East along with its associated archive containing taxation and other financial records, was purposefully destroyed by a rampaging mob” and, further, that such “wanton destruction of archives” was common13. Wanton? That’s surely not what the citizens called it in Limoges in 579 as they very deliberately burned the new tax records of King Chilperic (though the new rate was 10%, as Wickham points out, a fraction of Roman levels)14. Alice Rio has followed the fortunes of gesta municipalia in Francia across a rather longer period for which the evidence is even more tricky: indeed there is no contemporary documentation, but only that of formularies whose earliest manuscripts are Carolingian15. The story partly replicates that of Sarris, but the tempo is different. The early eighth-century ‘semisecular’ Widerad founded the monastery of Flavigny on his own property, became its abbot, and looked to the king for defence rather than – or even against – the bishop16. The abbot’s testamentum was “to be in the gesta rei publici municipalia to be defended against persecutions, and kept in the church”17. At St.-Denis the archive housed “a diverse range of private documents […] and functioned as a locus credibilis lending its authority to the transactions”. Rio convincingly concludes that referencing gesta municipalia in documents kept in churches was not “a straightforward anachronism” but “the result of an active choice” on the part of scribes and their clients, and not, pace Wickham, a “meaningless civic ritual”, but both meaningful and useful. An “additional layer of archiving” gave what charter-users wanted: additional authority and protection for their documents18. Marios Costambeys finds similar “layers of archiv-
Sarris, «Lay archives», p. 19. C. Wickham, Framing the Early Middle Ages, Oxford, 2005, p. 108. 15 A. Rio, Legal Practice and the Written Word in the Early Middle Ages, Cambridge, 2009. 16 S. Wood, The Proprietary Church in the Medieval West, Oxford, 2006, p. 188, for the ‘semi-secular abbot Widerad’. 17 For this and what follows, see Rio, Legal Practice, p. 180-2; see also A. Rio, The Formularies of Angers and Marculf, Liverpool, 2008, esp. Appendix II, «The Gesta Municipalia», pp. 255-8. 18 Rio, Legal Practice, p. 182, contra Wickham, Framing, p. 111. 13
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ing”, in ninth-century Italian notitiae19. He takes a significant step from seeing notitiae as “an alternative to the archive”, to claiming that they “bridged the divide […] between public and private”20. This returns us to Sarris’s definitional question of how private archives came to replace public ones. Sarris’s response starts with “Perhaps”, and continues, “the best way to get around the problems of definition […] is simply not to worry about them too much and instead to fall back upon ‘the primacy of practical reason’”21.You may well think this a minimalist approach (and a very British one): a lay archive remains a lay archive even if housed in a church; yet somehow for formulary scribes and their patrons, a particular ecclesiastical space, the church of St. X., could stand in for a public institution, the municipality. Wickham, writing about Italy in the decades c.1100, opens his recent book (and awakens slumbering historians) with the dramatic scene in earthquake-stricken Milan in 1117 when the archbishop and the consuls together summoned the Milanese and the populi from other northern cities and their bishops to a great meeting in the large open space – as Adalard might have said, extra – between Milan’s two cathedrals where everyone would be safe from falling masonry, and two stages (theatra) had been set up, one for the archbishop and clergy, the other for the consuls and men of law. Another document from that same year, 1117, which may indeed refer to the same scene, shows archbishop and clergy on the one hand, and consuls, military aristocracy and people on the other, assembled “in the public arengo” to decide a court-case. With characteristic verve, Wickham lights on this episode as a representative moment when city leaders were “sleepwalking into a new world” of nascent communes. The availability of public spaces that were at once ecclesiastical and secular affected the staging, and reflected the style, of politics22. Moving back to the Carolingian world means thinking again about where public meetings met at regional and local levels. The fact that
M. Costambeys, «The laity, the clergy, the scribes and their archives: the documentary record of eighth- and ninth-century Italy», in Brown et al., Documentary Culture, p. 242. 20 Costambeys, «The laity», p. 246, 254. 21 Sarris, «Lay archives», p. 23. 22 C. Wickham, Sleepwalking into a New World. The Emergence of the Italian City Communes in the Twelfth Century, Princeton NJ, 2015, pp. 1-20. 19
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Carolingian capitularies repeatedly said that the courtyards (atria) of churches were ‘not to be used for iudicia saecularia, placita, malla, or fights or homicides’ does raise the suspicion that they were often used for exactly those purposes. Arguments from silence will have to do for the moment. Then there are the terms ‘public’ and ‘private’ tout court. They are not wholly anachronistic in the Carolingian world. In the forcing-house of political and personal crises in the early 840s, the historian Nithard used Roman-legal terms to contrast collective interest against individual interests, utilitas publica against proprii usus23. In what now seems a rather dusty debate in the 1980s over whether the state existed in ninth-century Francia, Johannes Fried saw the characteristic early medieval political form as a Herrschaftsverband, a group bonded by personal loyalty to a ruler and lord24. Fried attributed Nithard’s vocabulary to his classical education, but underplayed a contemporary elite audience’s familiarity with Cicero and Quintilian25. For Fried, a bundle of dyadic personal relationships that were mobile, fluid and fissile could not qualify as a state. For Hans-Werner Goetz, on the other hand, Nithard was a star witness for the state’s existence as a transpersonal concept and, still more, as a concentration of economic resources. Annals and histories, and also capitularies, depict a regnum as a concrete territory with boundaries so clear in the landscape that a traveller crossing from Francia into Italy needed to carry some Italian currency26. A regnum was an area ruled, with such institutional traits as offices (ministeria), accountability, and a literate administrative centre or centres27. The 1980s 23 Nithard, Historiarum Libri IIII, ed. with French translation as Histoire des fils de Louis le Pieux, ed P. Lauer, Paris, 1926, revd by S. Glansdorff, Paris, 2012, Book I, 4, p. 20, II, 5, p. 62, IV, 7, p. 156. 24 J. Fried, «Der Karolingische Herrschaftsverband im 9 Jht zwischen ‘Kirche’ und ‘Königshaus’», Historische Zeitschrift, 235, 1982, pp. 1-43. 25 See now M. Kempshall, Rhetoric and the Writing of History 400-1500, Manchester, 2011. 26 Lupus of Ferrières, Epistulae, no. 66, ed. P. Marshall, Leipzig, 1984, p. 72. 27 H.-W. Goetz, «Regnum: Zum politischen Denken der Karolingerzeit», Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 1987 (Germanistische Abteilung 104), pp. 110-89, now repr. in a volume of his collected papers, Vorstellungsgeschichte. Gesammelte Schriften zu Wahrnehmungen, Deutungen und Vorstellungen im Mittelalter, Bochum, 2007, pp. 219-72. See now W. Pohl, V. Wieser (bearb.), Der Frühmittelalterliche Staat – Europäische Perspektiven, Vienna, 2009, papers read at the conference on “Staat und Staatlichkeit im Früh- und Hochmittelalter”, Vienna, September 2007.
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debate had resonance then, because of the value judgements implicitly involved. A warrior-band following a patriarchal chieftain was a more primitive political form than a patrimonial empire in Max Weber’s sense of power divinely legitimized and wielded over a family writ very large28. In evolutionary terms, Goetz saw the regnum as “not only personal but institutional and spatially-defined”, “on the way to becoming a holistic concept (Gesamtbegriff)[…] a state […] which belonged not only to the ruler but to the ruled”29. At Vienna, in 2007, when ‘Staat und Staatlichkeit’ was the theme of a large conference mainly of German-speakers, the 1980s debate seemed to many participants a shade passé. The regnum was a territory with institutions and familial networks working within it, a web of alliances, but it was composed of many dyadic personal relationships and filiations operating at the same time. This thought came home to me when imagining oath-swearings, which in their simultaneously personal/vertical and collective/horizontal implications could be compared to university degree-ceremonies30. In 789, in the wake of a rebellion in 786 and subsequent claims on the part of some rebels that ‘they had not sworn fidelity to the king’, Charlemagne decided that general oath-swearings were ‘necessary’ and to be explained as in line with ‘ancient custom’31. M. Weber, Economy and Society. An Outline of Interpretative Sociology, ed. by G. Roth and C. Wittich, 2 vols, Berkeley and Los Angeles, 1978, I, pp. 231-41, II, pp. 1006-110. 29 Goetz, «Regnum», p. 268-9, 272. 30 J.L. Nelson, «How Carolingians created consensus», in W. Fałkowski and Y. Sassier (eds.), Le monde carolingien, Turnhout, 2009, pp. 67-81, at 78-80. For perceptive comments on connectivity and ritual, see C. Pössel, «Authors and Recipients of Carolingian Capitularies, 779-829», in R. Corradini, R. Meens, C. Pössel and P. Shaw (eds.), Texts and Identities in the Early Middle Ages, Vienna, 2006, pp. 253-74, and eadem, «The Magic of Early Medieval Ritual», Early Medieval Europe, 17, 2009, pp. 111-25. 31 MGH Capitularia regum Francorum I, ed. A. Boretius, Hannover, 1883, no. 25, c. 4, p. 67: “[…]cunctas generalitas populi […] sive pagenses, sive episcoporum et abbatissarum vel comitum, fiscalini quoque et coloni et ecclesiasticis adque servi qui honorati beneficia et ministeria tenent vel in bassallatico honorati sunt cum domini sui caballos, arma, et scuto et lancea, spata et senespasio habere possunt: omnes iurent”. This capitulary ends, c. 6, by spelling out “ut omnes generaliter hoc anno veniant hostiliter in solatio domni regis sicut sua fuerit iussio, et pacem in transitu custodian infra patria”. For the date, see M. Becher, Eid und Herrschaft, Sigmaringen, 1992, pp. 79-85, whose arguments are approved by Hubert Mordek, 28
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On the orders of counts, special officers (missi) were to come bringing with them relics of saints, to the court or meeting-place of each hundred (centena), then organize the receiving of the oaths on these relics from local pagenses and also any incomers who had taken service with a lord in the pagus, then register the names of all oath-swearers in lists to be sent on to the count. The oath-swearers bore their weapons, for this particular assembly was also a hosting and summons to war32. The connexion between oath and military obligation originated in the kingdoms that succeeded Later Roman Empire33. Evidence of the normality Bibliotheca Capitularium regum Francorum, Munich, 1995, p. 472. Note that this did not necessarily mean an annual call-out (and indeed, according to the Annales regni Francorum, ed. F. Kurze, MGH Scriptores rerum Germanicarum, Hannover 1895, s.a. 790, p. 86, “nullum fecit iter”, cf. Annales Nazariani, MGH Scriptores I, ed. G.H. Pertz, Hannover, 1826, s.a. 790, p. 44, “Franci quieverunt”; and also that the king was concerned for pax infra patria, until the frontier was crossed. A clear differentiation between ‘internal space’ and ‘external space’ was implied here. 32 The bearing of arms was a sign of status (even select servi could attain this through arms-bearing, see n. 31) and manliness. Swords were the essential part of equipment. Several barbarian law-codes assumed that men at court would have their swords to hand, in case needed for self-defence. Violence was forbidden at the court of the Bavarian duke, for this was a special space, a domus publica; and fighting there “through pride or inebriation” was a scandalum that carried a heavy fine. See e.g. Lex Baiuwariorum ed E. von Schwind, MGH LL nat. Germ., Hannover, 1926, II, 10, p. 304; Lex Ribuaria, MGH LL nat. Germ., eds F. Beyerle and R. Buchner, Hannover, 1951, c. XXXII, section 4, p. 62; Lex Alamannorum eds K. Lehmann and K.A. Eckhardt, MGH LL nat. Germ., Hannover, 1888, XXXIII, p. 304. For an actual case of fatal conflict at court, see Formulae Imperiales no. 49, ed. K. Zeumer, MGH Formulae merowingici et Karolini aevi, Hannover, 1889, p. 323, reporting on Queen Fastrada’s residence at the palace of Frankfurt late in 793 (before Charlemagne himself arrived) “and Hortlaic was slain in her presence by mischance (casu accidente) […] and all his property taken into the public fisc”. See the differing interpretations of the same evidence by J.L. Nelson and F. Staab, both in R. Bernd (Hrsg.), Das Frankfurter Konzil von 794, 2 vols. Mainz, 1997, vol. I, pp. 149-65, at 160 (Nelson), and pp. 183-217, at 195, n. 66 (Staab), with the well-tempered comments of M. Hartmann, Die Königin im frühen Mittelalter, Stuttgart, 2009, p. 102. In 806, Charlemagne ordered “De armis infra patriam non portandis, id est scutis et lanceas et loricis”, Capit. of Thionville, no. 44, c.5, p. 123, implying that swords constituted a different category from battlefield arma. 33 S. Esders, «Les implications militaires du serment dans les royaumes barbares (V ?-VII ? siècles)», in M.-F. Auzépy, G. Saint-Guillain (dir.), Oralité et lien social
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in practice of oaths made to kings on their accession comes from the Formulary of Marculf, Book I, no. 40. Here, the king installing his son as sub-king tells Count X “to summon all your pagenses living there [in your pagus], Franks, Romans or of whatever people (natio), and cause them to assemble in cities, rural settlements and fortified places (per civitates, vicos et castella)” in order that, in the presence of our agent (missus) the illustrious man Y, whom we have sent out from our side for this purpose, they should promise and swear fidelity and personal obedience (leudesamium) to our excellent son and to ourselves, in the places of the saints and on the relics which we have sent there through the said agent”34. Two lists of oath-swearers survive from the ninth century. One, made in or soon after 825, has 174 names of men who lived in various localities in northern Italy, listed in what was evidently a series of separate but closely related moments or stages, the equivalent of centena by centena. The scribe copied out the names, perhaps from a number of shorter lists, or directly from oral information, at the behest of a count, who was responsible for keeping a record of men liable for military service35. The other list, dated 3 July 854, gives the names of 64 men, 17 who had previously sworn, and 47 new swearers, who swore fidelity in mallo Remis. Hincmar had written to the count, who happened to be his kinsman, to make sure the oathswearing took place36. Among the 47 swearers, 9 lesser officials (a maior,
au Moyen Âge (Occident, Byzance, Islam): Parole donnée, foi jurée, serment, Paris, Association des amis du Centre d’histoire et civilization de Byzance, 2008, pp. 17-24. 34 The Formulary of Marculf (dating from c. 700) was edited by Zeumer, in MGH Formulae, Hannover, 1886, p. 68. See now also the excellent translation with commentary by Rio, The Formularies, pp. 175-6. Pace J.F. Niermeyer, Mediae Latinitatis Lexicon Minus, Leiden, 1997, s.v., I do not think ‘submission’ is the best translation of leudesamium. 35 S. Esders, W. Haubrichs, Verwaltete Treue. Ein oberitalienisches Originalverzeichnis (breve) mit den Namen von 174 vereidigten Personen aus der Zeit Lothars I, MGH Studien und Texten, Hannover, 2016. 36 MGH Capit. II, ii, no. 261, p. 278, a record of the oath-swearings in the mallus at Reims on 3 July 854, including the list of those who had sworn in the past, and a separate list of the new swearers; cf. Hincmar’s letter to his propinquus, Count Bertram of Tardenois, in Hincmari Epistolae no. 68, ed. E. Perels, MGH Epistolae Karolini aevi VI, Berlin, 1939, p. 36, and the short notice of the letter in Flodoard, Historia Remensis Ecclesiae, ed. M. Stratmann, MGH Scriptores XXXVI, Hannover, 1998, III, c. 26, p. 342. For the context, see J.L. Nelson, «Literacy in Carolingian Government», in M. McKitterick (ed.), The
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and 8 decani) were identified as such. Decani were secular officials who served under hundredmen (centenarii) and vicarii37. They had special responsibilities for organizing placita and fining those who didn’t turn up. Stefan Esders, glossing his and Haubrichs’ title and firmly discarding outmoded teleology, says that rather than an early medieval state depending only on personal bonds giving way to a later medieval state based on institutions and territory, the reverse could be asserted. Surely, though, fidelity and administration coexisted in both early and later medieval times, but in varying ratios according to time and place? The Carolingian Empire rested squarely on publicly administered performances of fidelity, with elements of both public and private effectively combined, or held in tension. Public and private need to be contextualized. If you think about penance, for example, the idea of ‘public’ was rendered in Latin as self-explanatory, whereas ‘private’ was more often rendered as ‘secret’ or ‘hidden’ (occulta, absconsa)38. Classical Latin publicus was glossed as offanlih in Old High German, and heimlih glossed as not privatus but civilis. Tassilo duke of Bavaria, ruthlessly ousted from power by his cousin Charlemagne, was made to come to the palace of Ingelheim, where “he had his weapons taken away from him, and was brought before the king […] He was ordered, against his will, to have the hair of his head shorn. But he begged the king with great entreaties that he might not be tonsured there in the palace, because of the shame and disgrace (confusio atque obprobrium) in which he would be held by the Franks”. That would have been a very public humiliation. “And the king sent him to [the monastery of ] St Goar and it was there that he was made a cleric, and from there he was exiled to the monastery of Jumièges [near Rouen]. And his sons were both tonsured and exiled. And his wife Liutbirga was exiled. […] All this happened to the honour and glory of the lord king, and to the shame and disgrace (confusio et opbrobrium)
Uses of Literacy in Early Medieval Europe, Cambridge, 1990, pp. 258-96, repr. in J.L. Nelson, The Frankish World, London, 1996, pp. 1-36, at 20-1. 37 A.L. Harting-Correa, Walahfrid Strabo’s Libellus de exordiis et incrementis. A translation and Liturgical Commentary, Leiden, 1996, p. 192, 194. 38 M. de Jong, «What was public about public penance? Paenitentia publica and justice in the Carolingian world», in La Giustizia nell’alto medioevo, Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’alto medieoevo XLIV, ii, 1997, pp. 863-902, at 864-5.
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of his enemies”39. Being tonsured in the palace, before a large audience, was terrible enough; but being tonsured in a monastery, secretly, had equally definitive results. Charlemagne had mastered the alternative techniques of public and private humiliation. In his letter to Louis the German (858), which was also intended to be read by Charles the Bald, Hincmar of Rheims wrote: “It behoves you to live, judge and act even in secret as if you were always in public […] Thus you will be the stronger to live, judge and act, if private love does not goad you on”. (“Oportet vos vivere, iudicare et et agere etiam in occulto, quasi sitis semper in publico […] Sic autem […] vivere, iudicare et agere praevalebitis, si vos non stimulaverit amor privatus […]”)40 Nikolaus Staubach used Hincmar’s ‘as if ’ to explore a thoroughly traditional Christian moralizing discourse. Ius publicum and ius privatum appear seldom in early medieval legal writing. But one context in which they do appear is that of wills and testaments. Brigitte Kasten, focusing on conflicting assumptions behind the disposition of property, endorsed the formulation of a legal historian Diethelm Klippel: “Familie versus Eigentum”, meaning that the collective interest of the family was bound to clash with the individual property interests of family-members. This could be seen as another case of concepts, and the social realities they reflected, held in tension rather than opposed. The testament of Charlemagne dealt only with movables, and we only have Einhard’s word for the details. Behind Einhard’s Charlemagne as usual lay Suetonius’ Augustus, as Toni Scharer has recently reemphasised. Augustus’s testamentum and breviarium showed how much of the emperor’s personal movable wealth there was in the treasury, the aerarium. Charlemagne had a camera and a vestiarium, a chamber and a wardrobe41. “Staatlichkeit” is everywhere in the capitularies, yet in the testamentum, what loom large are both ‘Familie’ and ‘Eigentum’. Annales Nazariani s.a. 788, ed. G.H. Pertz, MGH Scriptores I, Hannover, 1826, pp. 43-4. See M. Diesenberger, «Dissidente Stimmen zum Sturz Tassilos III», in Corradini et al., Texts and Identities, pp. 105-20, at 112-13, for the annalistic sources. 40 N. Staubach, «‘Quasi sitis semper in publico’: Öffentlichkeit als Funktions- und Kommunikations-raum karolingischer Königsherrschaft», in G. Melville, P. von Moos (bearb.), Das Öffentlich und Private in der Vormoderne, Norm und Struktur, Cologne, Weimar and Vienna, 1998, pp. 577-628. 41 A. Scharer, «Das Testamentum Karls des Großen», in A. Schwarcz, K. Kaska (bearb.), Urkunden – Schriften – Lebensordnungen. Neue Beiträge zur Mediävistik, Vienna, 2015, pp. 151-60. 39
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I promised not to leave gender out. I certainly haven’t left out the masculine gender – indeed my paper has focused on varieties of manliness in living, judging, and action in publico, in assemblies and oathswearings where men displayed their full martial array42. But I shall end with women. Even finding women isn’t easy; locating them in spaces takes us into homes and other holes and corners, searching against the grain of the evidence. In the Admonitio generalis of 789, women were banned from doing the laundry in public on Sundays43. But presumably laundry-work was done on weekdays at fountains in civitatibus, or on the banks of streams in vicis, in the company of other women. On the estates of the king, the genitia (or gynaecea), royal textile workshops where women worked, were to have “good fences round them and strong doors, so that they can do our work well”44. At Aachen and on nearby estates, in 819, a palace officer or trader in mercato or elsewhere might be suspected of hiding a vile fellow (igrotus, sic) or a whore in his residence (mansio). If found, gadales et meretrices, sluts and whores, were to be carried out of the house and ad mercatum, to the market-place, by whichever men they’d been with, and flogged45. A capitulary of 861 decreed that not only were men to be punished for refusing the king’s new coin but women as well, “because women too are accustomed to trade (barcaniare, to bargain in a market)”46. There were also royal worries about what women might get up to on pilgrimage47. Finally, there were Charlemagne’s daughters, and what they got up to. They and other women had formed a coetus permaximus femineus at Aachen that Charlemagne’s heir, Louis the Pious judged must be
Cf. above n. 32. Die Admonitio generalis Karls des Großen c.79, ed H. Mordek, K. Zechiel-Eckes, M. Glatthaar, Fontes Iuris Germanici in usum scholarum separatim editi XVI, Wiesbaden, 2013, p. 232. 44 Capitulare De Villis, c. 49, ed. A. Boretius, MGH Capit. I, no. 32 (and see also cc. 31 and 43), pp. 86-7. See now D. Campbell, «The Capitulare de Villis, the Brevium exempla, and the Carolingian court at Aachen», Early Medieval Europe, 18, 2010, pp. 243-64, at 260-4, suggesting a date ‘close to 794’. 45 MGH Capit. I, no. 146, pp. 297-8. 46 MGH Capit. II, no. 271, p. 302. 47 See J.L. Nelson, «Opposition to Pilgrimage in the Reign of Charlemagne?», in V.L. Garver and O.M. Phelan (eds.), Rome and Religion in the Medieval World. Studies in Honor of T.F.X. Noble, Farnham, 2014, pp. 65-82, at 67, 76, 81-2. 42 43
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expelled from the palace, according to Louis’s biographer, the Astronomer48. The daughters mentioned, equivocally, in Einhard’s Vita Karoli, are mentioned, also equivocally, in Charlemagne’s testamentum, and in differing accounts of how Louis carried out its terms as far as those women were concerned49. Matthew Innes’s article on Charlemagne’s will remains a thought-provoking entrée: “The four principal accounts of the aftermath of Charlemagne’s death [those of Einhard, Thegan, the Astronomer, and Nithard][…] do not directly contradict each other”50. Well, those four accounts, especially Nithard’s, certainly do say different things, which to me seem tantamount to contradicting. In Innes’s reconstruction, Nithard’s is the latest of the four accounts, and the least disinterested. But some points are beyond debate. Nithard is unique in saying that Louis provided for Charlemagne’s funeral51. Nithard alone says that Louis divided the second and third parts of his father’s treasure between himself and those of his sisters who were born in lawful wedlock (justo matrimonio)52. Nithard does not say, but Thegan does, that Louis gave each sister her “legal portion” (pars earum legalis)53. Nithard is silent on what the other accounts regard as the centrally important part of the will, the gifts to the 21 metropolitan churches in Charlemagne’s empire; and Nithard alone says that after dividing the parts of the treasure between himself and his sisters born of a just marriage, Louis “instantly commanded them (praecepit) to leave the palace and go to their convents”, which was different from the Astronomer’s statement that “each of Louis’s sisters withdrew to what property she had received from their father”54. A final point to note about Innes’s reading
Astronomer, Vita Hludowici Imperatoris, ed. E. Tremp, MGH Scriptores rerum Germanicarum 64, Hannover, 1995, c. 23, p. 352. 49 Einhard, Vita Karoli Magni, ed. O. Holder-Egger, MGH Scriptores rerum Germanicarum, Hannover and Leipzig, 1911, c. 33, pp. 37-41, dating the testamentum to 811; cf. Astronomer, Vita Hludowici c. 20, p. 344 (dating it apparently to 813; Thegan, Gesta Imperatoris Hludowici, c. 8, ed. E. Tremp, MGH SRG 64, p. 188); Nithard, Histoire I, c. 2, pp. 6-8. 50 M. Innes, «Piety, politics and the Imperial Succession», English Historical Review, 112, 1997, pp. 833-55, at 838. 51 Nithard, Histoire, I, 2, p. 6. 52 Ibidem. 53 Thegan, Gesta c. 8, p. 188. 54 Compare Nithard, Histoire I, 2, p. 6, with Astronomer, Vita, c. 23, p. 352. 48
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Public Space and Private Space: some historical evidence
is his suggestion that Nithard, “scarcely of an age to have been closely involved with the events of 814”, relied on the Astronomer’s text in the early 840s55. Nithard may well have come of age by 814. In any case, why should he have relied on the Astronomer when he surely had available a much better-informed and absolutely contemporary source of information, namely, his own mother Bertha, who was certainly still alive in 823 and maybe for years thereafter56. It is no accident, then, that Nithard is the sole witness for Louis’s expulsion of his sisters from the palace. Bertha had been the most influential of Charlemagne’s daughters at his court. Other daughters were perhaps Gisla, Bertha’s younger full-sister whose last mention in any source is in the Paderborn Epic (but remember that the poetic evidence diminishes sharply after c.800), and Bertha’s half-sister Theodrada, Fastrada’s daughter. These three were the daughters of queens. Theodrada became a nun only after her father’s death. She had already apparently been given control of the convent of Argenteuil but perhaps took up residence there only after 81457. There is no evidence that Bertha had owned, or had lived at, a convent before 814, but, as in Theodrada’s case, it is very likely, I think, that both these daughters of Charlemagne had been given proprietary rights in one or more convents58. If in 814 they had not yet been thus endowed, their brother Louis, the new emperor, gave them lands to which they now withdrew59. These women had had opportunities to play, collectively, a key role in Charlemagne’s Aachen regime60. The palace had been their home all their lives: their place of power, at the same time, public and private. Their father in his testament had contemplated a voluntaria M. Innes, «Charlemagne’s Will», p. 839. Bertha, born, at a plausible guess, in 779/780, is last recorded as alive in 823, but may well have lived longer: K.F. Werner, «Die Nachkommen Karls der Grossen», in W. Braunfels (ed.), Karl der Grosse. Lebenswerk und Nachleben, 5 vols, Düsseldorf, 1965-7, IV, pp. 403-79, at 444. 57 Hartmann, Die Königin, p. 199. 58 Theodrada is last mentioned in a charter of Louis the German dated 857, where she is mentioned as the king’s ‘late aunt’, and as having given the convent of Schwarzach to the church of Wurzburg: see MGH Die Urkunden Ludwigs der Deutschen, DD regum Germaniae I, no. 79, p. 115. 59 For the daughters, see Hartmann, Die Königin, p. 199. 60 See J.L. Nelson, «Women at the court of Charlemagne: a case of monstrous regiment?», in J.C. Parsons (ed.), Medieval Queenship, New York, 1993, pp. 43-61, repr. in Nelson, The Frankish World, pp. 223-42. 55
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saecularium rerum carentia – a voluntary withdrawal from the world. The death of the father, and their brother’s decisive use of his newlyacquired power, meant for the daughters an involuntary carentia, a farewell to Aachen, to public and private space, and to a “coetus permaximus”, “a very large group” of women. They were now displaced from the power-centre, the court, without losing their contacts with it. It’s only possible to guess how each of these daughters balanced losses and gains, or – to return to where, thanks to Cristina, I began – how they coped with holding the tension between filiation and network-weaving. Women as well as men had to find their own gendered and plural ways of operating between the public spaces and private spaces of a Carolingian world in which the religious and the political, and interests royal and aristocratic and ecclesiastical, were inseparably enmeshed61.
See Wood, The Proprietary Church; also P. Stafford, «Queens, nunneries and reforming churchmen. Gender, religious status and reform in tenth- and eleventh-century England», Past & Present, 163, 1999, pp. 3-35; R. Le Jan, Femmes, pouvoir et société dans le haut moyen âge, Paris, 2001; C. La Rocca, «Pouvoirs des femmes, pouvoirs de la loi», in S. Lebecq et al. (dir.), Femmes et pouvoirs des femmes, Villeneuve d’Ascq, 1999, pp. 37-50; Hartmann, Die Königin; S. MacLean, «Queenship, nunneries and royal widowhood», Past & Present, 178, 2003, pp. 3-38, and idem, Ottonian Queenship (forthcoming); and J.L. Nelson and A. Rio, «Women and Laws in Early Medieval Europe», in J. Bennett and R. Karras (eds.), Oxford Handbook of Women and Gender in Medieval Europe, Oxford, 2013, pp. 103-17. 61
Carlos Machado The aristocratic domus of late antique Rome: public and private
On the 25th of December, 438, the praetorian prefect and consul Anicius Acilius Glabrio Faustus convened the Senate of Rome for the ceremony of presentation of the Theodosian Code1. The work presented by Faustus had been commissioned by the emperor Theodosius II as a compilation of all imperial edicts and constitutions issued since the time of Constantine. Its aim was to bring order to the empire, to assemble in one single code the sacred decisions that regulated different aspects of life, from property rights to religious beliefs2. Roman law was not the product of the rational deliberation of representatives of the people, but the divinely inspired proclamation of a sacred emperor and his sacred councils. The senators who attended Faustus’ meeting were witnessing an event of – at least according to imperial ideology – cosmic resonances. Contrary to modern expectations, this meeting did not take place in the Curia, where the Senate still usually met. It did not take place in any of the imperial palaces of Rome, either – a location that would have been suitable, since emperors were at that time spending increasingly longer periods in Rome again. The meeting took place, instead, in a private house, the domus of an aristocrat, Faustus himself. We know this because this important political occasion was registered in the senatorial proceedings by Flavius Laurentius, secretary of the Senate, who The meeting is narrated in the so-called Gesta Senatus; see J. Mathews, Laying down the Law, New Haven, 2000, pp. 31-54. More recently, E. Dovere, «Epifania politica del Theodosianus. La pubblicazione romana del Codex», Mélanges de l’École française de Rome, Antiquité [online], 125-2, 2013 (URL: http://mefra. revues.org/1742). 2 The aims and criteria for the compilation of the Code were stated in Cod. Theod. 1.1.5 and 6. See now B. Salway, «The publication and application of the Theodosian Code. NTh 1, the Gesta Senatus, and the constitutionarii», Mélanges de l’École française de Rome, Antiquité [online], 125-2, 2013 (URL: http://mefra. revues.org/1754). 1
Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 37-57 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116179
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The aristocratic domus of late antique Rome: public and private
recorded the location of the meeting without showing any sign of how odd this could be. The aim of this chapter is to discuss some of the questions raised by the event presided over by Faustus. As Salway recently observed, […] the meeting […] afforded Faustus an opportunity for self aggrandisement in front of his fellows amongst the urban aristocracy. He was able to boast to them of the special distinction that communicating the Code to them conferred upon him. Faustus co-opted the senate to assist him in fulfilling the part in the process of dissemination per orbem that Theodosius had entrusted to him3.
The setting of the senatorial gathering allowed Faustus to assert his preeminence over his peers while communicating the imperial will. How could such an important senatorial meeting take place in a domestic space? Trying to make sense of this setting, André Chastagnol considered an exceptional occasion, but the notary’s silence suggest otherwise4. If this is correct, what can the use of a house for such a purpose tell us about the boundaries between categories like public and private in late antique Rome? Recent years have been marked by a renewed interest on the Roman domus as an interface between notions of public and private5. These have explored primarily the architecture of houses, its decoration and the setting of specific activities. The picture they have shown is one of complementarity – one could say interdependence between what we would call, in modern European languages, public and private. These issues were particularly pronounced in the case of late antique Rome, where powerful house-owners frequently occupied the most important offices in the Roman empire, identifying themselves with the state and the city itself, as Faustus did. In order to deal with these questions, I am going to discuss in the first place the impact of aristocratic domus on the city Salway, «The publication and application», p. 45. A. Chastagnol, Les fastes de la préfecture de Rome au Bas-Empire, Paris, 1962, p. 288. 5 See most recently the articles collected in K. Tuori, L. Nissin (eds.), Public and Private in the Roman House and Society, Journal of Roman Archaeology Supplementary Series, 102, 2015. For Late Antiquity, see L. Lavan, L. Özgenel, A. Sarantis (eds.), Housing in Late Antiquity. From palaces to shops, Late Antique Archaeology 3.2, Leiden, 2007. 3
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of Rome and its spaces. I will then consider the monumental character of these houses, and how they were defined as part of the personality and political standing of their owners. Finally, I will analyze the ways in which domestic spaces could be used for political purposes in late antique Rome. As I will argue, aristocratic domus played a crucial role in the definition of public life in the former imperial capital, helping to define not only the relationship between private and public spaces, but also that between private and public power. 1. Houses and public spaces The fourth century was marked by a remarkable boom in the Roman housing market. Although houses certainly occupied a prominent place in the early imperial city-scape, the evidence available suggests that house building had a different type of impact on the late antique urban space6. In different parts of the city, newly built houses incorporated public structures and monuments, as well as insulae and other types of utilitarian structures7. On the Oppian hill, a luxurious house was built on top of the Sette Sale cistern that supplied water to the baths of Trajan, adapting the earlier structure that occupied the site. The fourth century domus was provided with a nymphaeum, a large apsidal reception hall, and a hexagonal room that opened up to smaller rooms on each one of its sides, two of rectangular form and four with an apse at
On the impact of private houses on early imperial Rome’s urbanism, see the surveys of F. Guidobaldi, «Le abitazioni private e l’urbanistica», in A. Giardina (a cura di), Roma Antica, Bari, 2000, pp. 133-61; and A. Wallace-Hadri, «Case e abitanti a Roma», in E. Lo Casio (a cura di), Roma imperiale. Una metropoli antica, Firenze, 2000, pp. 173-220. I have discussed these issues in C. Machado, «Aristocratic houses and the making of late antique Rome and Constantinople», in L. Grig, G. Kelly (eds.), Two Romes. Rome and Constantinople Compared, New York, 2012, pp. 136-58. 7 Machado, «Aristocratic houses», pp. 143-7. This discussion is indebted to the work of F. Guidobaldi, esp. «L’edilizia abitativa unifamiliare nella Roma tardoantica», in A. Giardina (a cura di), Società romana e impero tardoantico, vol.2: Roma – politica, economia, paesaggio urbano, Bari, 1986, pp. 165-237; and «Le domus tardoantiche di Roma come ‘sensori’ delle trasformazioni culturali e sociali», in W.V. Harris (ed.), The Transformations of ‘Urbs Roma’ in Late Antiquity, Journal of Roman Archaeology Supplementary Series, 33, 1999, pp. 53-68. 6
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the short end – all decorated with coloured marble8. The beauty of the decoration and the architectural sophistication of the building attest to the care of its owner and commissioner. Far from being an exceptional example, the house on top of the Sette Sale cistern is a clear indication of a new relationship between domestic and public structures in late antique Rome. Not very far from the baths of Trajan, on the Caelian hill, a house was built incorporating two earlier insulae and blocking what seems to be a street next to it. The owner of the house is identified by a mosaic inscription found in the room identified as a triclinium: ‘Gaudenti v[ivas]’9. Across the Tiber, in the area of the Conservatorio di San Pasquale Baylon, in Trastevere, a large house was in the process of being built between the end of the fourth and the beginning of the fifth century when it was abandoned. The domus incorporated different earlier structures, including two insulae fronted by tabernae10. As houses were built adapting and taking over preexisting buildings and public spaces, the lay-out of the city was redefined, acquiring a decidedly aristocratic tone. This type of behavior should be seen in the context of the private appropriation of public resources, such as water from aqueducts and building materials11. Scholars have previously referred to it as a process of ‘privatization’of public spaces, but this is not certain. There are only three examples of public structures converted for domestic use: the domus on the Sette Sale, the domus on Largo Argentina, and that in the Porticus Curba, and they suggested a complicated process that
See, for this house, L. Cozza, «I recenti scavi delle Sette Sale», Rendiconti della Pontificia Accademia di Archeologia, 47, 1974-1975, pp. 79-101; also R. Volpe, «La domus delle Sette Sale», in S. Ensoli and E. La Rocca (a cura di), Aurea Roma. Dalla città pagana alla città cristiana, Roma, 2000, pp. 159-60. 9 See G. Spinola in C. Pavolini et al., La Topografia antica della sommità del Celio. Gli scavi nell’Ospedale Militare, Römische Mitteilungen, 100, 1993, pp. 473-83; also G. Spinola, «La domus di Gaudentius», in S. Ensoli, E. La Rocca, Aurea Roma, pp. 152-5. 10 S. Fogagnolo, «Testimonianze del sacco del 410 in un cantiere edilizio a Trastevere (Conservatorio de San Pasquale Baylon)», in J. Lipps, C. Machado, P. von Rummel (eds.), The Sack of Rome in 410 AD. The event, its context and its impact, Palilia 28, Wiesbaden, 2013, pp. 151-61. 11 Discussed in detail in Machado, «Aristocratic houses», pp. 147-52. 8
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does not fit the idea of privatization12. In the case of the Sette Sale, as we saw, the fourth century house incorporated an earlier structure of uncertain function and ownership, possibly a much humbler house or an office used by officials in charge of Trajan’s baths. We are poorly informed about the domus near Largo Argentina, and it is impossible to be certain about the nature of the structure over which it was built13. In the early 6th century, Theoderic addressed a letter to the vir illustris Albinus, granting him permission to incorporate the porticus Curba, a structure convincingly identified as the porticus Absidata that closed the forum Transitorium, into his domus. In this case, however, rather than an outright privatization, Theoderic emphasizes the fact that Albinus was performing a service to the city, beautifying and preserving a public monument that was in process of physical decay14. Furthermore, public authorities continued to be praised for curbing the encroachment of public structures, showing that this was not an irreversible process15. More importantly, fourth and fifth century houses frequently incorporated insulae, structures that were privately owned, even if occupied by more than one family. The construction and renovation of houses at the expense of the previously existing urban fabric was not just an irregular practice that became common; nor should it be seen as a sign of the decline of the ancient city either. It was the expression of a social change, a sign of a new type of relationship between the city and its elites. This practice
See, for a brief but useful discussion, R. Meneghini, «La trasformazione dello spazio pubblico a Roma tra tarda antichità e alto medioevo», Mélanges de l’École française de Rome, Antiquité, 115, 2003, pp. 10-60. 13 Identified as the Diribitorium in Guidobaldi, «L’edilizia abitativa unifamiliare», pp. 175-81; and Idem, «Le domus tardoantiche di Roma», p. 57. 14 Cass. Var. 4.30; see the comments of C. La Rocca and Y. Marano, in A. Giardina (a cura di), Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore. Variae, vol. 2, Libri III-V, Roma, 2014, pp. 356-7. For a discussion of the house, see F. Guidobaldi, «Domus: Albinus V. I.», in E.M. Steinby (ed.), Lexicon Topographicum Urbis Romae, vol. II, Roma, 1995, pp. 28-9 and Idem, «Una domus tardoantica e la sua trasformazione in chiesa dei SS. Quirico e Giulitta», in A. Leone, D. Palombi, S. Walker (a cura di), Res Bene Gestae. Ricerche di storia urbana su Roma antica in onore di Eva Margareta Steinby, Lexicon Topographicum Urbis Romae, Supplementum VI, Roma, 2007, pp. 55-78. 15 Amm. Marc. 27.9.10 praises the urban prefect Praetextatus (367) for removing the maeniana and the walls of houses that encroached onto temples. 12
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is also documented in other cities, as in Ostia: it is the case of the domus of Amore e Psiche, the domus del Ninfeo, and the domus of the Dioscuri, for example16. Roman aristocrats used their houses as a way of appropriating public spaces and public structures. They were doing it in different parts of the city of Rome, in very visible locations – in the case of the domus on top of the Sette Sale, it explicitly occupied a public structure that was still in use. 2. Personal monuments The irruption of domestic structures in late antique Rome’s urban fabric should be seen in the context of the renewed importance of these spaces as personal and family monuments17. Since the earliest history of Rome, houses were a focus for economic investment, a symbol of wealth and personal power, and a way of legitimizing the social position of aristocrats18. This was still true in Late Antiquity – in fact, the identification between houses and their owners seem to have become even more pronounced than in earlier periods19. This is well illustrated by the domus of the Valerii, on the Caelian hill (Fig. 1). The excavations that were carried out during the building of the Ospedale dell’Addolorata, in the early 20th c., revealed the remains of a magnificent late antique
It is the case of Ostia, for example: see the examples now discussed in C. Pavolini, «Un gruppo di ricche case ostiensi del tardo impero: trasformazioni architettoniche e cambiamenti sociali», in O. Brandt, P. Pergola (a cura di), Marmoribus Vestita. Miscellanea in onore di Federico Guidobaldi, vol. 2, Studi di Antichità Cristiana 63, Città del Vaticano, 2011, e.g., p. 1032 (domus di Amore e Psiche), pp. 1034-5 (domus del Ninfeo), and 1036-8 (domus dei Dioscuri). 17 The notion of houses as family monuments was criticised by J. Hillner, «Domus, family, and inheritance: the senatorial family house in late antique Rome», Journal of Roman Studies, 113, 2003, pp. 129-45; but see J. Dubouloz, La propriété immobilière à Rome et en Italie, Ier-Ve siècles, Roma, 2011, pp. 507-36. 18 See the seminal work of T.P. Wiseman, «Conspicui postes tectaque digna Deo: the public image of aristocratic and imperial houses in the late Republic and early Empire», in L’Urbs: espace urbain et histoire (Ier siècle av. J.-C. – IIIe siècle ap. J.-C.), Roma, 1987, pp. 393-413; also J. Bodel, «Monumental villas and villa monuments», Journal of Roman Archaeology, 10, 1997, pp. 5-36 19 As shown in C. Machado, «Between memory and oblivion: the end of the Roman domus», in R. Berhwald, C. Witschel (bearb.), Rom in der Spätantike. Historische Erinnerung im städtischen Raum, Stuttgart, 2012, pp. 111-38. 16
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domus20. Among the structures identified there was a porticus on the western side (Fig. 1: a), private baths, and a richly decorated aula on the northern side (Fig. 1: f ). Five inscribed marble bases recording the dedications of statues by a number of corporations to Lucius Aradius Valerius Proculus, urban prefect in the middle of the fourth century, were found in this area. Six bronze tabulae patronatus dedicated by African cities to his brother, Quintus Aradius Valerius Proculus, were also found in this same spot21. The most likely provenance for the inscriptions is the atrium of the house, where statues of famous historical characters, philosophers, and different herms were found22. It is possible that the porticus found in 1902 was part of this atrium, as three marble herms were found there in their original position, between columns and the wall23. Honorific statues and tabulae patronatus were prestigious objects that added to the honour of any house, celebrating the achievements of past and present family members and their social and political connections For the original publication of these discoveries, see the reports of G. Gatti in Notizia degli Scavi di Antichità, 1902, pp. 267-69, 356, 463-64; also Notizia degli Scavi di Antichità, 1903, 59 and 92; see A.M. Colini, Storia e Topografia del Celio nell’antichità, Memorie della Pontificia Accademia di Archeologia 7, Città del Vaticano, 1944, pp. 253-8; Guidobaldi, «L’edilizia abitativa unifamiliare», pp. 186-8. See C. Pavolini, «Nuovi contributi alla topografia del Celio da rinvenimenti casuali di scavo», Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma, 96, 199495, pp. 84-8 and C. Pavolini, «Archeologia e topografia della regione II (Celio). Un aggiornamento sessant’anni dopo Colini», Lexicon Topographicum Urbis Romae, supp. 3, Roma, 2006, pp. 65-6 for more recent works. Further excavation was undertaken in 2005, immediately to the N of the area excavated on previous occasions, revealing late republican and early imperial phases abandoned and buried in the course of the 3rd c.: see M. Barbera, S. Palladino, and S. Paterna, «La domus dei Valerii sul Celio alla luce delle recenti scoperte», Papers of the British School at Rome, 76, 2008, pp. 75-98, 349-54. 21 See for the statue-bases: CIL VI, 1690-94=Last Statues of Antiquity (LSA) 13961400; for the tabulae patronatus: CIL VI, 1684-89=Epigraphic Database Roma (EDR) 111462-66. For the findings, see R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma, vol. 3 (1550-1565), Roma, 1990, p. 77. 22 Cited by C. Hülsen, «Die Hermeninshriften Beruehmter griechen und die ikonographischen Sammlungen des XVI. Jahrhunderts», Römische Mitteilungen, 16, 1901, pp. 205-6. 23 G. Gatti, «La casa celimontana dei Valerii e il monastero di S. Erasmo», Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma, 30, 1902, p. 158. 20
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The aristocratic domus of late antique Rome: public and private
Fig. 1 – Domus of the Valerii (plan): from C. Pavolini, «Nuovi contributi alla topografia del Celio da rinvenimenti casuali di scavo», BullCom, 96, 1994-95, p. 83
– in the case of the Valerii, with the corporations of Rome and different cities in Africa. They were reminders of the family’s prestige and power, just as statues and other monuments in the Forum reminded citizens of the glories of Rome. The house was more than just the material expression of the family’s wealth; it was the arena where different groups, in Rome and in other parts of the empire, celebrated their political and social connections with powerful patrons and benefactors. The domus of the Valerii served different, complementary political functions, for the Valerii themselves as well as for their clients and allies. There was no opposition between public power and personal celebration, and houses were the interface where these two dimensions of aristocratic life could be combined. A good example of this combination is the magnificent apsidal hall conventionally called the ‘basilica of Junius Bassus’, a structure that has been convincingly identified as part of an aristocratic house24. The building, which was converted into the church of Sant’Andrea on the Esquiline in the late 5th century, was only
On the building and its history, see C. Hülsen, «Die Basilica des Iunius Bassus und die Kirche S. Andrea Cata Barbara auf dem Esquilin», in Festschrift für Julius Schlosser zum 60. Geburtstag, Zürich, 1927, pp. 53-67; G. Lugli, T. Ashby, «La basilica di Giunio Basso sull’Esquilino», Rivista di Archeologia Cristiana, 9, 1932, pp. 221-55. See also, more recently, Guidobaldi, «L’edilizia abitativa unifamiliare», pp. 184-85 and M. Sapelli, «La basilica di Giunio Basso», in Ensoli, La Rocca, Aurea Roma, pp. 137-9. 24
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demolished in the 1930s, but it was already in a bad state of preservation in the 15th century. All that survives of its decoration are magnificent opus sectile panels depicting animals, a mythological scene, and what is thought to be the ceremony of inauguration of Bassus’ term as consul, the circus games that took place at the beginning of the year and that he presided. The inscription that ran along the apse was copied in the later Middle Ages, and it records: “Iunius Bassus, v(ir) c(larissimus), consul ordinarius, propria impensa a solo fecit et dedicavit”25. It is worth paying attention to the official language of Bassus’ inscription. The language is typical of that employed in texts recording public works, and it accorded with the extraordinary position occupied by Bassus in Rome’s hierarchy of power. He was consul in 331, after having spent 13 years as praetorian prefect – in other words, a key player in the consolidation of the Constantinian regime26. There was no opposition between the aristocrat’s personal standing and public office. In fact, one was enhanced by the other. The magnificent hall constructed by the consul Bassus was located somewhere in-between the public and the private sphere, just as he was by virtue of his many years of close association with the court. The dedication of honorific statues by corporations and provincial cities, usually exposed in the atria of aristocratic domus, also enhanced the public character of domestic spaces. Since the time of Augustus, emperors and members of their families had dominated the dedication of statues in Rome, being frequently honoured in the most prestigious (public) spaces27. Senators were also honoured with statues in public and private contexts, but in much smaller numbers. Emperors and their families continued to receive the largest share of statue dedications in Late Antiquity, being honoured in 48 per cent of
CIL VI, 1737=ILCV 59=EDR111532. The copy was preserved in the Siena Codex K X 35, see CIL VI, p. xliii. 26 See PLRE I, Bassus 14, for his career. 27 As observed by W. Eck, «Onori per persone di alto rango sociopolitico in ambito pubblico e privato», in Tra epigrafia, prosopografia e arqueologia. Scritti scelti, rielaborati ed aggiornati, Roma, 1996, p. 311; see also J. Weisweiler, «From equality to asymmetry: honorific statues, imperial power, and senatorial identity in lateantique Rome», Journal of Roman Archaeology, 25, 2012, p. 322. 25
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the surviving dedications made in Rome between 270 and 53528. What is remarkable, however, is the fact that aristocrats were honoured in 43.4 per cent of the surviving dedications whose honrand can be identified (112 out of 258): a very high number that is in clear contrast with what is known for the early empire. Statues of members of the Roman elite occupied a much more prominent role in the city-scape than ever before, and houses had become a primary space for the setting up of these honours. It is not always easy to tell the provenance of these monuments, as often times we have no information about it. Some inscriptions, however, do mention the setting up of a statue in a domestic context, in one case going as far as specifying its location in the vestibule of the house29. In other cases, one or more dedications of a strong personal nature (set up by a client, or a member of the family) indicate that the original provenance was a house. Even when we consider these difficulties, the number of statues probably placed in domestic areas is remarkably high: 48 out of 112 bases. A few domus had a significant collection of statues, like the domus of the Valerii with five bases, mentioned above, as well as the residence of Memmius Vitrasius Orfitus near the Lateran, with four bases. Houses were important spaces for the setting up of honorific monuments, similar to those that adorned the fora of Rome and of many cities all around the empire. The identification between houses and their owners was one of the defining features of Rome’s city life30. Aristocratic houses were decorated with genealogical trees, inscriptions, and the images of their famous ancestors. These personal monuments served as their owners’ claim to historical greatness. It is impossible to know how old was this practice, but Roman writers like the elder Pliny associated it with a distant past:
I.e., 124 out of 258 inscribed dedications that can be identified included in the Last Statues of Antiquity database (I am excluding 93 dedications whose honorand cannot be identified). Although these numbers only reflect the information available at the time of publication of the database, they present a fairly accurate picture of the Roman statue habit. See http://laststatues.classics.ox.ac.uk for the data. 29 For example, CIL VI, 1675=LSA-1392; CIL VI, 32051=LSA-1253; CIL VI, 41383=LSA-1521. 30 I discussed these issues in greater detail in Machado, «Between memory and oblivion», pp. 113-15. 28
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In the halls of our ancestors it was otherwise; portraits were the objects displayed to be looked at, not statues by foreign artists, nor bronzes nor marbles, but wax models of faces were set out each on a separate sideboard, to furnish likenesses to be carried in procession at a funeral in the clan, and always when some member of it passed away the entire company of his house that had ever existed was present. The pedigrees too were traced in a spread of lines running near the several painted portraits. The tablina were kept filled with books of records and with written memorials of official careers. Outside the houses and round the doorways there were other presentations of those mighty spirits, with spoils taken from the enemy fastened to them, which even one who bought the house was not permitted to unfasten, and the mansions eternally celebrated a triumph even though they changed their masters. This acted as a mighty incentive, when every day the very walls reproached an unwarlike owner with intruding on the triumphs of another.31
The properties built and embellished by the late Republican senator Lucullus earned him the reputation of ‘Xerxes in a toga’, and were remembered in the 1st c. AD by Pliny the Elder as a sign of luxury and by Symmachus in the 4th c. as a sign of good taste in decoration32. Symmachus’ reference to Lucullus indicates that the memory of owners and builders of magnificent houses could survive for centuries. A century later, the Ostrogoth Odoacer confined Romulus Augustus in Lucullano Campaniae castello, referring to another property of the Republican senator, this time in Campania, in the vicinity of Naples33. In the case of Rome, the most illustrious example was the domus of Pompey the Great, the domus Rostrata. The location of this house is not certain, but we know from Cicero that Pompey had decorated it with the rostra of the pirates’ ships he defeated in 67 B.C34. According to the largely fictional account of the Historia Augusta, the family of the Gordiani owned it in the mid-3rd c., a fact that would attest to the family’s wealth
Pliny, Hist. Nat. 35.7 (transl. Rackham). On the splendour of Lucullus’ properties, the main source is Plut. Vit. Luc. 39.3-4; Pliny: HN 36.49; Symm.: Ep. 6.70. 33 See Jord. Romana 344 and Get. 46.242. The post-antique life of the villa of Lucullus was discussed by E. Savino, Campania Tardoromana (284-604 d.C.), Munera 20, Bari, 2005, 226 n. 415. 34 Cic. Phil. 2.68; for the location, see V. Jolivet, «Horti Pompeiani», in Steinby, Lexicon Topographicum, pp. 78-9. 31
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and power35. The biography of the emperor Tacitus (also in the Historia Augusta) suggests the same, stating that “[h]is [i.e., Tacitus’] image was placed in the property of the Quintilii, depicted in five different ways in one panel, wearing a toga, in a military cloak, in an armour, in a Greek mantle, and in the guise of a hunter”36. Although the historical accuracy of this information cannot be verified, it also suggests that memories could be added to properties. Houses were therefore symbols of the standing of present and previous owners, museums recording their political achievements and social connections. In late antique Rome, aristocratic domus gave a new meaning to the urban fabric, creating new centres of power that redefined the political map of the city. 3. The political use of houses Houses invaded and incorporated the surrounding urban space, at the same time that they served as a symbol of the public standing and ambitions of their owners. It is their use as venues for public and official functions, however, that marks the importance of domestic structures in the life of late antique Rome. This is best indicated by the importance attributed to apsidal halls like the one built by Junius Bassus, an architectural feature that frequently serves as the most conspicuous (sometimes unique) remain of late Roman houses in the Urbs 37. The senator Quintus Aurelius Symmachus illustrates the importance of spaces designed for receiving visitors, when he mentions in one letter the works that he was carrying out in his house, which were necessary “…because the previous owner had prioritized capacity of reception over the solidity of the building, as well as quickness in construction over safety”38. Although mainly concerned with the safety of the struc-
Gord. 2.3. SHA, Tac. 16.2: “Imago eius posita est in Quintiliorum, in una tabula quinquiplex, in qua semel togatus, semel chlamydatus, semel armatus, semel palliatus, semel venatorio habitu.” 37 E. De Albentiis E., «Abitare nella tarda antichità. Gli apparati di rappresentanza delle domus, le strutture absidate e i loro antecedente ellenistico-imperiali», Eutopia, 3, 2003, 119-89; the fundamental reference remains Guidobaldi, «L’edilizia abitativa unifamiliare». 38 Ep. 6.70: “[…] quia frequentationem soliditati conditor primus antetulit et antiquiori ei visa est celeritas utendi quam securitas succedentium”. 35
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ture, the reference to the room’s capacity of reception makes it clear that there was a connection between decoration and political function. The connection between domestic spaces (and their dimension) and the political strategies of the aristocracy was highlighted by Ammianus Marcellinus, in a passage in which he described a visitor’s entrance into an aristocratic domus: But nowadays, if as an honourable stranger you enter to pay your respects to some noble and well-to-do man (and therefore puffed up), at first you will be greeted as if you were a long-expected friend […]. When, encouraged by this affability, you make the same call on the following day, you will hang about unknown and unexpected, while the man who the day before urged you to call again counts up his clients, wondering who you are or whence you came.39
An aristocrat’s dwelling was the space where his social network was built, a space where social and political interactions were constantly taking place. This power-base was a very concrete resource that could be counted in the context of the domus. Ambitious aristocrats could thus enhance their standing in late Roman society by attracting people with gifts and the promise of benefactions to a space that was shaped according to his (or her) self-image. The house was not a public space, in the sense that it had an owner and that it was not open to all. Doors and nomenclatores helped to block the entrance and identify who was not allowed in, even if they could be bribed, and guests could turn up unexpectedly40. As a result, the social encounters that took place in aristocratic houses were of a very particular type, much more personal than those for which the streets and fora of Rome served as scenario, but much more public than those that we associate with domestic spaces in modern societies. As Wallace-Hadrill aptly put, “[a] public figure went home not so much to shield himself from the public gaze as to present himself to it in the best light”41. House-owners’ obsession with the size and decoration of reception rooms was not something new in Late Antiquity. This is a development that can be clearly seen in the late Republican period, as the influence Amm. Marc. 14.6.12-13 (Transl. Rolfe). As we are reminded by Ammianus himself: 14.6.15. 41 A. Wallace-Hadrill, Houses and Society in Pompeii and Herculaneum, Princeton, 1994, p. 5. 39
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of Hellenistic palatial architecture begins to appear more clearly in the material and literary evidence from Rome and – especially – that related to suburban and rural villae42. Vitruvius had already pointed out that prominent citizens should have their houses fitted with spatious and grand reception rooms, atria and basilicae43. The adoption of features usually associated with public buildings by house-builders can be seen in different late antique cities, as throughout the empire the upper strata of local elites asserted their dominance over their fellow citizens and their city councils44. Home to a powerful and well-connected senatorial elite, Rome was an ideal setting for this type of architecture, as the meeting of the Senate in the house of Faustus suggests. We can examine these issues more closely by considering in greater detail a particularly well documented late Roman house. The excavation of the domus of the Symmachi (Fig. 2), on the Caelian hill, revealed a complex that occupied an estimated area of c. 6,500-8,500 sqm, and therefore among the largest in late antique Rome45. The domus was adapted from an earlier building, probably from the late 2nd or early 3rd c. The house’s main reception room was a single space until the 4th c., when it was subdivided by the erection of walls and of a second, smaller apse (Fig. 3). These changes created an apsidal hall with a corridor running around it. Carignani suggests that the corridor might have
See P. Gros, L’architecture romaine du début du IIIe av. J.-C. à la fin du Haut-Empire, vol. 2: Maisons, palais, villas et tombeaux, Paris, 2006, pp. 72-7; and especially E. La Rocca, «Il lusso come espressione di potere», in M. Cima, E. La Rocca (a cura di), Le tranquille dimore degli dei. La residenza imperiale degli ‘horti’ Lamiani, Roma, 1986, pp. 3-35. 43 Vitruv. De Arch. 6.5.2. This is explored by A. Wallace-Hadrill, «The social structure of the Roman house», Papers of the British School at Rome, 56, 1988, pp. 43-97. 44 See, for useful surveys, K. Bowes, Houses and Society in the Later Roman Empire, London, 2010, pp. 35-60; G. Brands, L.V. Rutgers, «Wohnen in der Spätantike», in W. Hoepfner (bearb.), Geschichte des Wohnens, Band 1, Stuttgart, 1999, pp. 855918; and especially J.-P. Sodini, «Habitat de l’Antiquité Tardive», Topoi, 5, 1995, pp. 151-218 and Topoi, 7, 1997, pp. 435-577. 45 See Carignani, Pavolini et al., La Topografia antica della sommità del Celio, pp. 483-502, and A. Carignani, «La domus ‘dei Simmaci’», in Ensoli and La Rocca, Aurea Roma, op. cit., pp. 149-51; see also F. Guidobaldi, «Domus: Q. Aurelius Symmachus s. Eusebius», in Steinby, Lexicon Topographicum Urbis Romae, pp. 183-4. 42
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Fig. 2 – Domus of the Symmachi (plan): from C. Pavolini et al., La Topografia antica della sommità del Celio. Gli scavi nell’Ospedale Militare, RömMitt, 100, 1993, fig.16.
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been used by servants, but it is also possible that the walls were erected to bring solidity to the structure – a requirement that, as we saw, Symmachus was very much aware of46. The decoration of the pavement was very elaborate, with two different styles of marble opus sectile, and with the part corresponding to the apse on a higher level. These changes also transformed the setting that framed the appearances of the house-owner in public, placing him on a higher level, a tribunal, from where he greeted his visitors. Whereas the earlier exedra was decorated with niches for statues, the 4th c. apse masked it, being itself decorated with marble revetment and with a mosaic adorning the apse’s ceiling47. Symmachus’ interest in mosaics and opus sectile is well documented in his correspondence48, but what is interesting is that we can actually see a choice of one medium of self-display over another, probably with the same purpose, to cause an impression on viewers, but with different visual effects. Symmachus’ grand apsidal hall was part of an impressive series of elaborate spaces that formed the main reception area of the house, on the eastern part of the complex (Fig. 2)49. Here, a series of rooms were built opening up to an open courtyard surrounded by a colonnade (Fig. 2: I). It was probably in this part of the house that the honorific statues dedicated by his son Memmius dedicated to Symmachus and to Nicomachus Flavianus (Memmius’father-in-law)50. The rooms next to the apsidal hall probably served different functions. Whereas room M might have served as a connecting space, those on the East side, R and S, had different shapes, allowing the creation of articulated spaces limited by the outer wall of the house. The function of these rooms remains unknown, but perhaps their function can be illuminated by a passage of Seneca’s De Beneficiis, in which he tells us that it was Gaius Gracchus and Livius Drusus who first adopted the practice of separating the crowds that frequented their houses, clients and friends51. Carignani, Pavolini et al., La Topografia antica della sommità del Celio, p. 488. Carignani, Pavolini et al., La Topografia antica della sommità del Celio, pp. 488-9. 48 See Ep. 1.12; 6.49; 6.70; and 8.42. 49 The following description is indebted to Carignani, Pavolini et al., La Topografia antica della sommità del Celio, pp.483-502. 50 Respectively, CIL VI, 1699=LSA-270 and CIL VI, 1782=LSA-271. 51 Ben. 6.33.3-34.2. 46 47
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Fig. 3 – Domus of the Symmachi, apsidal hall (plan): from C. Pavolini et al., La Topografia antica della sommità del Celio. Gli scavi nell’Ospedale Militare, RömMitt, 100, 1993, p. 491.
To receive visitors of different status in more or less exclusive rooms was a mechanism of distinction, not only in terms of who was seen and recived, but also in terms of the importance and secrecy of what was discussed in such meetings. We can see an example of this in a passage of the life of bishop Silverius (536-537) in the Liber Pontificalis, in which the Christian bishop, having been accused of corresponding with the
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Ostrogoths, was summoned by the Byzantine commander Belisarius to the domus Pinciana: He [Belisarius] made the blessed pope Silverius come to him at the Pincian palace, and made all the clergy wait at the first and second curtains. When Silverius entered the inner chamber alone with Vigilius, the patrician Antonina was lying on a couch with the patrician Belisarius sitting at her feet. On seeing him, Antonina said: ‘Say, lord pope Silverius, what have we done to you and the Romans to make you want to betray us into the hands of the Goths?’ While she was speaking, John, the regionary sub deacon of the first region, entered, took the pallium from his [i.e., Silverius’] neck, and led him into the bedchamber. John stripped him, dressed him in a monastic habit, and hid him. Then Xystus, regionary sub deacon of the sixth region, seeing him as a monk, came out and announced to the clergy that the lord pope had been deposed and hade been made a monk. On hearing this they all fled52.
Although slightly later than the period that interests us, the events surrounding the deposition of Silverius illustrate perfectly the ways in which elaborate domestic spaces suited political occasions. Walls, doors, and curtains allowed the articulation and expression of hierarchies of personal status, filtering access to the inner parts of the domus and to the most important political decisions made. This is true also for other societies, such as Early Modern England, where the use of cabinets and antechambers became more common precisely for this reason53. Symmachus, who led an active political life, being involved in major debates (including conspiracies), is someone for whom this type of spatial differentiation would be well suited.
Lib. Pont. I, pp. 292-3: “Tunc fecit beatum Silverium papam venire ad se in palatium Pincis et ad primum et secundum velum retenuit omnem clerum. Quo ingresso Silverius cum Vigilio soli in musileo, Antonina patricia iacebat in lecto et Vilisarius [sic] patricius sedebat ad pedes eius. Et dum eum vidisset Antonina dixit ad eum: ‘Dic, domne Silveri papa, quid fecimus tibi et Romanis, ut tu vellis nos in manu Gothorum tradere?’ Adhuc ea loquente, ingressus Iohannis, subdiaconus regionarius primae regionis, tulit pallium de collo eius et duxit in cubiculum; expolians eum induit eum vestem monachicam et abscondit eum. Tunc Xystus, subdiaconus regionarius regionis sextae, videns eum iam monachum, egressus foras nuntiavit ad clerum, dicens quia domnus papa depositus est et factus est monachus. Qui audientes fugerunt omnes”. 53 A process analysed by M. Girouard, Life in the English Country House, New Haven, 1978. 52
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Macrobius’ Saturnalia illustrates how important such meetings and their spatial dimension could be. There we are told that an unexpected guest arrived at the house of Praetextatus during the banquet of the Saturnalia54. The guest, Evangelus, on seeing such important people gathered, remarked: “Has mere chance gathered all these men to you, Praetextatus, or is the meeting pre-arranged so you could conspire on some deep matter better left unwitnessed? If that’s the case (I judge it is), I’ll leave rather than get involved in your hidden goings-on, from which I’ll gladly distance myself, though I chanced to burst in upon them”55. The protection of the domus’ walls, the fact that only authorized people had access to this space, and the possibility of meeting friends of similar inclinations, opinions, and ambitions, made domestic space an ideal setting for conspiracies and political plots56. Those issues that senators could not discuss in the Curia could be agreed upon in private libraries and dining halls. Aristocratic houses were however associated to political life in a more fundamental sense. Vitruvius had already noticed this, when he observed that the houses of noble citizens should be both magnificent and luxurious, “[…] for in the homes of these people, often enough, both public deliberations and private judgements and arbitrations are carried out”57. Activities that we tend to associate with public life (and, accordingly, spaces seen as public) could also take place in the domestic sphere. Two laws issued by Constantine in 331 to ‘the provincials’ emphasized that officials should conduct hearings and trials in tribunals open to the public, instead of hiding themselves in their own chambers, appearing only to those willing to pay for it58. Although they do not mention the use of domestic spaces, this is explicitly referred to in a law addressed by the emperors Valentinian and Valens in 364 to Artemius, corrector Lucaniae et Brittiorum. This law established that judges should conduct audiences or pronounce sentences concerning the condition
Macrob. Sat. 1.7.1-2. Macrob. Sat. 1.7.4 (Transl. Kaster). 56 See discussion in L. Özgenel, «Public use and privacy in late antique houses in Asia Minor: the architecture of spatial control», in Lavan, Özgenel, Sarantis (eds.), Housing in Late Antiquity, pp. 239-81. 57 De Arch. 6.5.2: “quod in domibus eorum saepius et publica consilia et privata iudicia arbitriaque conficiuntur”. 58 Cod. Theod. 1.16.6-7. 54 55
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and patrimony of men in the public chambers of the fora, with all citizens being invited, instead of in the seclusion of their own houses59. Imperial legislation was concerned with making sure that officials used publicly owned buildings such as governors’ palaces60. However, a law issued by the emperor Leo in 471 insisting that governors should not abandon their official praetoria for their houses indicates that this practice remained common61. Houses could serve as spaces where public power was used, even if such a practice was against the law. 4. Conclusion Olympiodorus of Thebes famously remarked, in the early 5th century, that the domus of Rome contained everything that a city contained: baths, fora, and fountains62. This passage is usually taken as a simple example of the rhetorical exaggeration of late antique texts, but I would like to re-consider it for a moment, in light of what we have discussed so far. During the late antique period, aristocratic houses were not seen or used in opposition to public spaces, or to the rest of the city. Houses were a tool for the assertion of personal power over the city-space and the society that inhabited it. They incorporated previously existing structures and spaces, redefining the area around them. They were the arena where clients, be they slaves, officials, corporations or entire cities represented their social and political bonds with their powerful patrons, commemorating aristocrats and their lineages in the same way as they did in their hedquarters and fora. Houses provided the ideal setting for the personal exercise of public authority, as important officials heard cases and skilled politicians discussed issues of potential public interest with their friends, away from the ears of emperors and their spies. Olympiodorus was right, in a sense, and houses were cities because they were the focal point where Romans of different social background went to, where vertical and horizontal bonds of solidarity were established under the careful eyes of aristocrats and their servants.
Cod. Theod. 1.16.9. E.g., Cod. Theod. 15.1.8; 15.1.35; see L. Lavan, “The praetoria of civil governors in Late Antiquity”, in L. Lavan (ed.), Recent Research in Late Antique Urbanism, Journal of Roman Archaeology Supplementary Series 42, Portsmouth, 2001, p. 43 for discussion. 61 Cod. Iust. 1.40.15. 62 Frag. 41.1. 59
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Houses were not public or private spaces. Scholars have talked of different degrees of privacy within the house, setting it in a continuum that extended from the forum and the street to the inner chamber of the house owner. In the case of late antique Rome this is only partially correct. Roman aristocrats appropriated public spaces and functions, turning them into part of the physical and functional definition of their houses. Public and private were certainly important notions, but it is time we consider the ways in which they were combined in a given historical context, rather than trying to separate them.
Vito Loré Spazi e forme dei beni pubblici nell’alto medioevo. Il regno longobardo
I beni e i redditi pubblici nell’alto Medioevo sono un tema antico, sul quale si sono fermate più volte le attenzioni degli studiosi entro la prima metà del Novecento, in una prospettiva ‘statuale’ poi declinata1 per una sua rigidità di fondo, a favore di una pronunciata, diretta attenzione per le morfologie sociali. A lungo trascurato da gran parte della ricerca, il tema è stato solo di recente oggetto di nuovo interesse, rilanciato da punti di osservazione diversi, in particolare negli studi sull’Italia altomedievale fra l’VIII e il X secolo2.
I titoli più importanti di questa stagione di studi sull’Italia sono probabilmente P. Darmstädter, Das Reichsgut in der Lombardei und Piemont (568-1250), Strassburg, 1896; F. Schneider, Reichsverwaltung in Toscana von der Gründung des Langobardenreichs bis zum Ausgang der Staufer, 568-1268, I, Die Grundlangen, Roma, 1914 (tr. it. L’ordinamento pubblico nella Toscana medievale: i fondamenti dell’amministrazione regia in Toscana dalla fondazione del regno longobardo alla estinzione degli Svevi (568-1268), Firenze, 1975; C. Brühl, Fodrum, gistum, servitium regis. Studien zu den wirtschaftlichen Grundlangen des Königstums im Frankenreich und in den fränkischen Nachfolgestaaten Deutschland, Frankreich und Italien vom 6. bis zur Mitte des 14. Jahrhunderts, I-II, Köln, 1968, in particolare le pp. 350-92 sul regno longobardo. 2 C. La Rocca, «Les cadeaux nuptiaux de la famille royale en Italie», in F. Bougard, L. Feller, R. Le Jan (dir.), Dots et douaires dans le haut Moyen Âge, Roma, 2002 (Collection de l’École Française de Rome, 295), pp. 499-526; Eadem, «Monachesimo femminile e poteri delle regine tra VIII e IX secolo», in G. Spinelli (a cura di), Il monachesimo italiano dall’età longobarda all’età ottoniana (secc. VIII-X), VII Convegno di studi storici sull’Italia benedettina, Nonantola (Modena), 10-13 settembre 2003, Cesena, 2006, pp. 119-43; S.M. Collavini, «Duchi e società locali nei ducati di Benevento e di Spoleto nel secolo VIII», in I Longobardi dei ducati di Spoleto e Benevento, XVI Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo, Spoleto, 20-23 ottobre 2002, Benevento, 24-27 ottobre 2002, Spoleto, 2004, pp. 125-66; Idem, «Des Lombards aux Carolingiens: l’évolution des élites locales», W. Falkowski, Y. Sassier (dir.), Le monde carolingien: bilan, perspectives, champs de recherche. Actes du colloque International de Poitiers, Centre d’Études supérieures 1
Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 59-87 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116180
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In questo caso vorrei guardare al patrimonio pubblico soprattutto come fulcro del rapporto fra il potere centrale, i suoi agenti e i loro spazi di azione. Per alcuni aspetti questo tema si intreccia con un altro: le modalità di redistribuzione e di condivisione dei beni pubblici, in quanto tali nella disponibilità non esclusiva del re, ma di una platea più o meno ampia di soggetti, che con il re condividevano l’esercizio del potere. Per dare corpo al tema, mi concentrerò sui tre ambiti nei quali era articolato il mondo longobardo: la Pianura padana con la Tuscia, il ducato di Spoleto e il ducato di Benevento, questi ultimi rimasti di fatto indipendenti da Pavia, Spoleto fino alla metà dell’VIII secolo, Benevento fino alla conquista franca (e oltre). Come la storiografia ha messo in luce da tempo, la struttura istituzionale dei ducati meridionali era in larga parte originale e autonoma, centrata sulla figura del duca, che disponeva dell’intero patrimonio pubblico: a Spoleto e a Benevento non esisteva la curtis regia, il complesso dei beni pubblici nella disponibilità del re e dei suoi agenti, con a capo il palatium di Pavia, e ai duchi faceva riferimento la rete degli ufficiali, primi fra i quali i gastaldi. In questa prospettiva si giustifica il proposito di trattare Benevento e Spoleto come altri regni, distinti da quello con de Civilisation médiévale, 18-20 novembre 2004, Turnhout, 2009, pp. 263-300; T. Lazzari (a cura di), «Beni del fisco e politica regia tra IX e X secolo», sezione monografica di Reti Medievali Rivista, 13/2, 2012 (per le linee portanti dell’inchiesta vedi l’introduzione di Eadem, «Dotari e beni fiscali»); V. Loré, «I gastaldi nella Puglia longobarda», in Bizantini, Longobardi e Arabi in Puglia nell’alto Medioevo, XX Congresso internazionale di studio sull’alto medioevo, Savelletri di Fasano (BR), 3-6 novembre 2011, Spoleto, 2012, pp. 249-73; Idem, «Beni principeschi e partecipazione al potere nel Mezzogiorno longobardo», in M. Valenti, C. Wickham (a cura di), Italia, 888-962: una svolta, IV Seminario internazionale del Centro Interuniversitario per la Storia e l’Archeologia dell’Alto Medioevo, Cassero di Poggio imperiale a Poggibonsi (SI), 4-6 dicembre 2009, Turnhout, 2013, pp. 15-39. Importante, per la ripresa a livello internazionale del tema, W. Pohl, V. Wieser (Hrsg.), Der frümittelalterliche Staat – europäische perspektiven, Wien, 2009 (Forschungen zur Geschichte des Mittelalters, 16), in particolare i saggi di J. Barbier, «Le fisc du royaume franc. Quelques jalons pour une réflexion sur l’état au haut Moyen Âge», pp. 271-86, che riprende parte dell’ampia produzione dell’autrice in materia di beni fiscali, e di P. Fouracre, «Comparing the resources of the Merovingian and Carolingian states: problems and perspectives», pp. 287-97, poi anche in Idem, Frankish history: Studies in the Construction of Power, Aldershot, Ashgate, 2012 (Variorum collected series, 1024), parte VIII.
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capitale Pavia. La costruzione del percorso è guidata da alcuni ottimi studi di Stefano Gasparri e di Simone Collavini3. In tutti e tre i casi la base documentaria utile ad avere un quadro del patrimonio pubblico data dai decenni centrali dell’VIII secolo, con qualche décalage non insignificante. Al netto dei non pochi falsi, il dossier dei diplomi regi acquista un po’ di consistenza solo a partire da Astolfo e soprattutto con Desiderio e Adelchi4. A Spoleto i diplomi ducali sono continui a partire dagli anni quaranta, mentre a Benevento la serie data già dal secondo decennio del secolo, con un’interruzione negli anni 7305. Per gli studi di Collavini, riferimenti supra alla nota 2. L’autore sta ora tornando sul tema, con una prospettiva nuova, che tiene conto dei caratteri della tradizione documentaria e delle sue eventuali distorsioni: S.M. Collavini, P. Tomei, Beni fiscali e “scritturazione”. Nuove proposte sui contesti di rilascio e di falsificazione di D. OIII269 per il monastero di S. Ponziano di Lucca, in corso di stampa, disponibile in versione provvisoria all’indirizzo: https://pisa.academia.edu/SimoneMariaCollavini. Il tema è centrale anche in T. Lazzari, «La tutela del patrimonio fiscale: pratiche di salvaguardia del pubblico e autorità regia nel regno longobardo del secolo VIII», in Reti Medievali Rivista, 18/1, 2017, pp. 99-121. Ringrazio gli autori per avermi permesso di leggere i loro lavori ancora inediti. Stefano Gasparri è l’unico autore che abbia dedicato un’attenzione continua al tema dei beni pubblici in ambito italiano fra anni ottanta e novanta. Vedi in particolare S. Gasparri, «Il ducato longobardo di Spoleto. Istituzioni, poteri, gruppi dominanti», in IX congresso internazionale di studi sull’alto Medioevo, Spoleto, 27 settembre - 2 ottobre 1982, Spoleto, 1983, pp. 77-122; Idem, «Il ducato e il principato di Benevento», in G. Galasso, R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, II, Il Medioevo, 1, Napoli, 1988, pp. 85-146; Idem, «Il regno longobardo in Italia. Strutture e funzionamento di uno stato altomedievale», (1990), riedito in S. Gasparri (a cura di), Il regno dei Longobardi in Italia. Archeologia, società e istituzioni, Spoleto, 2004, pp. 1-92. 4 Prima dell’età di Astolfo si conservano solo ventidue diplomi, di cui sette sicuramente falsi e almeno altri tre fortemente dubbi. Cfr. Codice Diplomatico Longobardo, ed. L. Schiaparelli, C. Brühl (d’ora in poi CDL), III/1, a cura di C. Brühl, Roma, 1973 (Fonti per la Storia d’Italia, 64); fra Astolfo e Desiderio si contano sedici diplomi autentici, cui vanno aggiunti otto falsi. Sulla tradizione dei diplomi regi longobardi, iniziata probabilmente già con Alboino, vedi F. Bougard, A. Ghignoli, «Elementi romani nei documenti longobardi?», in J.-M. Martin, A. Peters-Custot, V. Prigent (dir.), L’héritage byzantin en Italie (VIIIe-XIIe siècle), I, La fabrique documentaire, Rome, 2011 (Collection de l’École Française de Rome, 449), p. 261-3. 5 CDL, IV/1, ed. C. Brühl, Roma, 1981 (Fonti per la Storia d’Italia, 65), per i diplomi dei duchi spoletini (il primo, isolato, è degli anni venti): solo due falsificazioni su trentotto documenti, fino al 787. Per Benevento vedi subito avanti. 3
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Con un itinerario inusuale inizierò da Sud, perché la documentazione beneventana e quella spoletina riservano grande spazio ai beni pubblici, alle modalità della loro amministrazione e alla loro condivisione a livelli sociali e istituzionali diversi; danno di conseguenza del tema un’immagine piuttosto chiara, sulla quale sarà poi opportuno confrontare i dati, meno numerosi e più frammentari, di cui disponiamo per l’Italia settentrionale. 1. Il patrimonio dei duchi di Benevento è noto da un numero piuttosto consistente di diplomi attendibili. Una parte notevole di essi è in realtà composta dalle donazioni effettuate da Arechi II nel 774, subito dopo l’assunzione del titolo principesco, in favore del monastero femminile di S. Sofia6. I diplomi ci parlano in effetti di due tipi di rapporto fra il duca, come autorità pubblica, e i beni fondiari. Proprietà modeste, rimaste senza titolare, erano dai duchi velocemente riconcesse ai loro clienti, come sappiamo da numerosi casi e soprattutto dal nucleo più antico di diplomi, relativo a un piccolo monastero all’interno della città, S. Sofia a Ponticello, fondato dall’abate Zaccaria e subito posto sotto la protezione del palatium beneventano7. A rigore si potrebbe dire che tali beni ‘in transito’ non entravano neanche a far parte del patrimonio Dei quarantanove diplomi ducali superstiti solo sei sono stati identificati come falsi, più uno interpolato: CDL, IV/2, I diplomi dei duchi di Benevento, ed. H. Zielinski, Roma, 2003 (Fonti per la Storia d’Italia, 65 bis). A questi bisogna aggiungere ventidue diplomi arechiani datati al 774, appena dopo la sua assunzione del titolo principesco, e i regesti di altri quarantotto diplomi perduti, riassunti nel grande falso in apertura del Chronicon di S. Sofia (d’ora in poi CSS), ma considerati attendibili dall’editore quanto al contenuto: Chronicon Sanctae Sophiae (cod. Vat. Lat. 4939), ed. Jean-Marie Martin, con uno studio sull’apparato decorativo di G. Orofino, Roma, 2000 (Rerum Italicarum Scriptores, 3*-3**), indice cronologico dei documenti alla p. 808. Su Arechi II rimangono fondamentali le pagine di P. Delogu, Mito di una città meridionale (Salerno, secoli VIII-XI), Napoli, 1977, capitolo I; vedi anche S. Gasparri, I duchi longobardi, Roma, 1978 (Studi Storici, 109), pp. 98-100, e soprattutto Idem, «Il ducato e il principato», pp. 108-11. 7 CDL, IV/2, nn. 8 (721), 9 (722), 10 (723), 11 (723), 12 (724), 14 (726), 16 (742), 17 (742), 18 (742), 24 (745), 25 (745), 34 (751). Sul monastero di Ponticello e la documentazione che lo riguarda vedi anche Gasparri, «Il ducato e il principato», pp. 106-7. 6
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pubblico: il duca era soltanto il tramite attraverso cui essi erano immediatamente redistribuiti alle élites locali8. Il grosso del patrimonio ducale, ciò che rimaneva stabilmente nella disponibilità dei duchi, costituiva la base economica del loro potere e, come vedremo, era in parte condiviso con i loro agenti. Le proprietà ducali erano inquadrate in una struttura sostanzialmente bipartita, formata da gai/gualdi e da actus. I primi erano estensioni di terra grandissime, dell’ordine di molti chilometri quadrati. La loro dimensione è desumibile da alcune concessioni ducali, in favore di S. Sofia o di altri monasteri e chiese. Erano concesse quote standard di terra, da un minimo di poche centinaia di moggi a un massimo di diverse miglia quadrate, ritagliate all’interno di un gaio, che dobbiamo quindi supporre ben più ampio9. Dal quadro che ne restituisce la documentazione scritta, i gai dei duchi beneventani erano presenti su un’area amplissima, con l’esclusione della sola Calabria settentrionale e della pianura fra Capua e Salerno, già allora dominata probabilmente nel suo insieme dal piccolo e medio allodio10. Anche all’interno dell’area così delimitata, tale presenza non era però omogenea: esisteva uno spazio di elezione coperto dalla documentazione sul fisco ducale, a cavallo fra il Molise e la Puglia del Nord attuali, dove si concentrava più di un terzo dei gai a noi Ulteriori dettagli di questo circuito sono visibili con grande chiarezza nella documentazione salernitana di IX secolo: vedi V. Loré, «La chiesa del principe. S. Massimo di Salerno nel quadro del Mezzogiorno longobardo», in G. Barone, A. Esposito, C. Frova (a cura di), Ricerca come incontro. Archeologi, paleografi e storici per Paolo Delogu, Roma, 2013, pp. 114-9. 9 Sui gai/gualdi nel Mezzogiorno longobardo J.-M. Martin, La Pouille du VIe au e XII siècle, Rome, 1993 (Collection de l’École Française de Rome, 179), pp. 194199; importante anche Feller, L’économie pp. 222-5. La chiesa di S. Maria nel gaio de Albuti, in Liburia, fu dotata con un’area di tre miglia quadre, stimabile in circa 6,5 km2 (CSS, I, 10), mentre quella di S. Angelo nel gaio Biferno fu dotata di due miglia quadre (circa 4,36 km2: ibidem, I, 1 [7]); estensioni di terra del perimetro di nove miglia (ibidem, I, 1 [8] e I, 1 [9]), furono concesse a S. Sofia. In alcuni altri casi l’estensione di terra concessa, ben più modesta, era invece intorno ai 200 moggi (circa 100 ettari): cfr. per es. ibidem, I, 1 [3]; I, 1 [5]; I, 1 [69]. Tutti i documenti citati in questa nota sono datati al 774. Per il valore presunto del moggio vedi riferimenti più avanti, nota 48. 10 Sull’ampia presenza del piccolo allodio in area salernitana vedi P. Delogu, «Il principato longobardo di Salerno. La prima dinastia», in Galasso, Romeo, Storia del Mezzogiorno, II/1, pp. 250-4. 8
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noti; diventano più di metà se consideriamo anche quelli testimoniati nella Puglia centro-meridionale e la proporzione non cambia, anzi cresce ulteriormente, tenendo in conto anche i gualdi testimoniati dopo il 77411. È probabile che lì e in molte parti dell’area sannitica, fino all’Irpinia, il palatium ducale fosse di gran lunga il maggiore proprietario terriero. Il taglio ‘alto’ della documentazione, quasi per intero composta da diplomi, non ci consente di conoscere nel dettaglio le modalità di amministrazione e di controllo dei gai, ma un punto appare certo: i gai non erano quasi mai compresi negli spazi affidati all’amministrazione di gastaldi, con pochissime eccezioni12. I gastaldi normalmente curavano la gestione dei beni pubblici compresi nelle altre partizioni strutturate del patrimonio ducale, distribuite in maniera diseguale sul territorio. Le poche sedi a noi note degli actus dalla documentazione I gai/gualdi noti dalla documentazione beneventana entro il 774 sono diciassette; due, confinanti e di dimensioni probabilmente ridotte, alle porte di Benevento (CDL, IV/2, n. 14 [726 o 711]); quattro fra Puglia meridionale e Basilicata orientale (CDL, IV/2, n. 31 [747] e CSS, I, 8 [774]; I, 1 [8] [774]; I, 1 [11] e [69] [774]; I, 1 [69] [774]); uno presso Avellino (CDL, IV/2, n. 41 [752-755]); uno in Liburia (CSS, p. 283 [774]); uno in Lucania (CSS, I, 1 [50] [774]); uno non localizzabile (CSS, I, 1 [57] [774]). I rimanenti sette sono tutti fra Puglia settentrionale e Molise: CSS, I, 2; I, 5; I, 6; I, 20 (774); I, 10 (774); I, 7 (774); I 1 [3] (774); I, 1 [6] (774); I, 1 [7] (774). I gualdi attestati dopo il 774 sono in: CSS, VI, [32] (833); due in III, 32 (833); due in III, 35 (839); III, 36 (840); uno in Registrum Petri Diaconi (Montecassino, Archivio dell’Abbazia, Reg. 3), a cura di J.-M. Martin, P. Chastang, E. Cuozzo, L. Feller, G. Orofino, A. Thomas, M. Villani, II, Roma, 2015 (Fonti per la Storia dell’Italia medievale. Antiquitates, 45**), n. 197 (837); due in A. Prologo, Le carte che si conservano nello archivio del capitolo metropolitano della città di Trani, dal IX secolo fino all’anno 1266, Barletta, 1877, n. 5 (980), notizia riferibile alla metà del IX secolo. La gran parte di essi insiste fra Puglia settentrionale e Molise e in diversi casi confinano fra loro, evenienza che non si dà nella documentazione di VIII secolo. 12 Il gastaldo Rotulus reggeva nel 747 un actus comprendente una selva con terra seminativa; selva e terra, nei pressi di Taranto, erano parte di un gaio: CDL, IV/2, n. 31 (747). In CSS, I, 1 [7] (774) il termine gastaldatus è applicato a un gaio: è un anacronismo rilevato da Collavini, «Duchi e società locali», nota 50, dovuto probabilmente alla confluenza del documento nella grande falsificazione in apertura del Chronicon. Il termine gastaldatus compare e si afferma nelle fonti meridionali solo a partire dal IX secolo, mentre è altrimenti del tutto ignoto nell’VIII. 11
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di VIII secolo si concentrano in prevalenza in Puglia: Siponto, Lucera, Canosa, più uno, forse due actus minori, noti dai soli nomi dei loro amministratori, nel Nord della regione e presso Taranto; sulla dorsale appenninica Conza e Cassano, rispettivamente nell’Irpinia meridionale e nel Nord della Calabria13. Si tende normalmente a colmare questo apparente vuoto documentario proiettando all’indietro l’esistenza di actus e gastaldati testimoniati solo più tardi. È effettivamente molto probabile che almeno Taranto e Acerenza, sicuramente sedi gastaldali nel IX secolo, lo fossero già nell’VIII14. Entrambe le città insistono per altro nelle due aree in cui già si addensano le sedi note. Non è però a mio parere opportuno generalizzare l’origine antica di sedi e distretti testimoniati successivamente: l’unico nucleo consistente di documentazione privata per il Mezzogiorno longobardo di inizio IX secolo (per l’VIII non c’è praticamente nulla) proviene da Salerno, nelle cui campagne erano numerosi gli agenti minori del principe, ma sembrano mancare del tutto dotazioni di beni pubblici di una qualche consistenza e, quindi, actus e gastaldi15. Bisogna dunque rifuggire dalla tentazione di retrodatare una struttura amministrativa articolata omogeneamente per distretti, definiti da un confine lineare e affidati ciascuno a un ufficiale; del resto tale struttura è attestata, anche per una fase più tarda, solo per alcune aree, non
Actus (ipotetico) retto dall’ “actionarius Annuni”: CDL, IV/2, n. 13 (724); Siponto: ivi, n. 15 (740) e CSS, I, 7 (774); Conza: CDL, IV/2, n. 21 (743) e CSS, I, 19 (774); actus retto dal gastaldo Rotulus, presso Taranto: CDL, IV/2, IV, n. 29 (747); Canosa: ivi, n. 29 (747) e CSS, I, 18 (774); Cassano: CDL, IV/2, n. 48 (764); Lucera: CSS, I, 9 (774). Come si vede, a capo dell’actus potevano esserci personaggi di rango inferiore rispetto al gastaldo, senza che ciò implicasse una gerarchia fra gli actus. Cfr. B. Figliuolo, «L’organizzazione circoscrizionale del territorio nell’Italia longobarda», in G. Archetti (a cura di), Desiderio. Il progetto politico dell’ultimo re longobardo, I convegno internazionale di studio del Centro Studi Longobardi (Brescia, 21-24 marzo 2013), Spoleto, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2015, in particolare alle pp. 431-3 e seguenti. L’autore è invece critico (p. 438) sull’idea di un’incoerenza spaziale di alcuni actus, argomentata qui di seguito e già in Loré, «I gastaldi». 14 Martin, La Pouille, pp. 227-9. 15 V. Loré, «I principi e i villaggi. Salerno, IX-XI secolo», Studia Historica. Historia Medieval, 31, 2013, in particolare le pp. 135-8, con bibliografia ulteriore e riferimenti alle fonti. 13
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ovunque nel Mezzogiorno longobardo 16. Per quanto possiamo vedere limitandoci alla documentazione di VIII secolo, gli actus erano per l’essenziale partizioni amministrative del patrimonio ducale: la loro diseguale distribuzione sul territorio rispondeva dunque alla presenza, più o meno consistente, di beni pubblici. E in effetti essi sono evocati solo sul piano dell’amministrazione patrimoniale. Normalmente dagli actus erano dunque esclusi i gai, anch’essi irregolarmente distribuiti, ma molto più numerosi. Gai e actus disegnavano dunque una struttura paratattica: nessuna subordinazione amministrativa dei primi ai secondi, ma contiguità all’interno di un patrimonio nel complesso dipendente dal palatium ducale. A questa altezza cronologica gli actus non devono infatti essere intesi come spazi coerenti di governo; non sempre, almeno. Con ogni probabilità aveva già allora caratteri di distretto l’actus, amplissimo, con centro Canosa (denominato normalmente in epoca successiva fines canusina17), esteso a buona parte della Puglia centrale e all’apparenza, non a caso, comprendente una dotazione relativamente modesta di beni pubblici, sparsi e frammisti a un allodio che si può ipotizzare già allora diffuso e altamente frammentato, com’era certamente già dalla prima metà del IX e poi per tutto il X e XI secolo18. Per quanto è possibile cogliere da documentazione più tarda, fisionomia analoga avevano forse già allora gli actus/fines di Conza e di Acerenza: quando nell’848-849 fu sancita la divisione fra Benevento e Salerno, al principato salernitano andò metà del gastaldato acerentino, “qua parte coniunctum est cum Latiniano et Consciam”19. È invece difficile pensare che disegnasse uno spazio coerente l’actus probabilmente più ricco di beni pubblici, quello di Lucera: nel 774 esso comprendeva una curtis a Pietrastornina, alle porte del territorio napoletano, separata da Lucera da una di-
Vedi in proposito Loré, «Beni principeschi», pp. 21-30, e Idem, «I principi e i villaggi». 17 Cfr. Martin, La Pouille, nota 440 a p. 231; discussione in Loré, «I gastaldi», pp. 272-3. 18 Sulla morfologia della proprietà nella Puglia centrale fra IX e XI secolo ancora Martin, La Pouille, pp. 293-301. 19 «Praeceptum concessionis sive capitulare», in J.-M. Martin, Guerre, accords et frontières en Italie méridionale pendant le haut Moyen Âge. Pacta de Liburia, Divisio Principatus Beneventani et autres actes, Rome, 2005 (Sources et documents d’histoire du Moyen Âge, VII), p. 205. 16
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stanza di un centinaio di chilometri, dalla dorsale appenninica e dalla stessa capitale del ducato, Benevento20. E non era probabilmente un caso unico: ancora nell’840 il gastaldato di Quintus Decimus, alle porte di Avellino, comprendeva una grande proprietà presso Larino, in Molise: fra le due l’Appennino, circa 120 chilometri e, ancora, Benevento di mezzo21. In questi casi l’actus disegnava con ogni probabilità un aggregato spazialmente incoerente di beni pubblici, non un ambito continuo di governo del territorio. Sembrerebbe quindi disegnarsi un parallelismo: gli ambiti di competenza amministrativa dei gastaldi assumevano carattere territoriale dove la densità dei beni pubblici era minore: così per Canosa, ma molto probabilmente anche per Conza e per Acerenza; Conza è l’unico actus che nell’VIII secolo sia denominato anche fines, con un termine divenuto comune solo in seguito. Che poi i gastaldi avessero localmente anche altre competenze è scontato: alla metà del VII secolo i conti di Capua, Transamondo e Mitola, avevano avuto un ruolo decisivo sul piano militare nell’ascesa al trono di Pavia del duca beneventano Grimoaldo e poi nella sua lotta contro l’imperatore bizantino Costante22. La prospettiva dei diplomi ducali è però spietatamente selettiva: essi ci mostrano gastaldi e ufficiali minori soltanto nelle vesti di amministratori di beni ducali. Ci sfuggono completamente le modalità, le forme, la definizione spaziale dell’esercizio di altre loro prerogative. La prosopografia della corte beneventana nei decenni centrali dell’VIII secolo sarebbe ben più povera, se si basasse soltanto sulle menzioni di gastaldi legate agli actus. Per parte maggiore, gastaldi e altri ufficiali di rilievo attivi a corte, come i marpahis, sono invece citati non in relazione agli actus, ma alle subactiones. Non erano con ogni probabilità circoscrizioni minori, come si è a lungo pensato, ma dotazioni di rendite assegnate agli ufficiali per lo più di alto rango (non solo gastaldi), composte normalmente da singole famiglie coloniche con il loro patrimonio, definite in relazione non a un capoluogo, ma al nome dell’ufficiale titolare23. In alcuni, rari casi, tali rendite comprenCSS, I, 9 (774). Ibid., III, 36. 22 Cfr. Pauli Diaconi Historia Langobardorum, IV, 51; V, 9 e 16, nell’edizione a cura di L. Capo, Storia dei Longobardi, Milano, Mondadori, 1992, pp. 234-9, 264-5 e 268-9. 23 CDL, IV/2, nn. 7 (720), 13 (724), 15 (740), 22 (744), 33 (749), 41 (751-754 oppure 752-755); dell’anno 774: CSS, p. 279; I, 5 e I, 15; I, 10; I, 18; I, 19; I, 1 [50]; I, 1 20 21
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devano invece dotazioni fondiarie ampie, tratte da gai, probabilmente a vantaggio di personaggi di particolare rilievo24. Come gli actus, le subactiones non avevano all’evidenza un coerente carattere territoriale. Erano uno strumento di condivisione delle risorse fondiarie pubbliche fra il duca e un’élite di governo probabilmente molto ristretta, in una modalità altamente centralizzata, che permette così di spiegare un elemento già da tempo notato dalla storiografia, in particolare in un fondamentale articolo di Jean-Marie Martin: l’assenza quasi totale non solo di rapporti di fedeltà personale formalizzati fra duchi e nobili, ma anche di concessioni ducali consistenti ai grandi beneventani 25 . Il duca, che pure era il fulcro di una continua redistribuzione fondiaria, basata sulla sua funzione di terminale delle terre senza titolare, concedeva poco ai suoi maggiorenti, perché essi detenevano già in godimento parti del patrimonio ducale, in un sistema pubblico ‘integrato’, nel quale alla titolarità di un ufficio corrispondeva una dotazione di ricchezza fondiaria. La segmentazione in senso non distrettuale, ma radiale, di questo amplissimo complesso di beni pubblici, che rimaneva per intero nella superiore disponibilità del duca, rispondeva dunque a una logica interna tutt’altro che elementare, alla quale non è opportuno guardare nella prospettiva dell’‘incompiutezza’: la condivisione di risorse, implicita nella compartecipazione al pubblico di ufficiali e duca, orientata dal centro. 2. Se ci spostiamo a Spoleto, troviamo un panorama in parte diverso, ma con alcune forti analogie. È possibile descriverne il modello in modo molto analitico, per i caratteri della sua stessa struttura, per l’abbon-
[69]; Per una discussione più ampia del significato di subactio, anche in relazione alla scomparsa del termine e all’evoluzione dell’istituto nella prima metà del IX secolo, vedi Loré, «I gastaldi», pp. 254-9. 24 CSS, I, 10; I, 1 [50]; I, 1 [69]. 25 J.-M. Martin, «Éléments préféodaux dans les principautés de Bénévent et de Capoue (fin du VIIIe siècle-début du XIe siècle): modalités de la privatisation du pouvoir», Colloque international... (Rome, 10-13 octobre 1978), 1980 (Collection de l’École Française de Rome, 44), p. 569; anche Collavini, «Duchi e società locali», nota 93.
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danza di testimonianze e di ottimi studi recenti26. Anche a Spoleto la documentazione sul patrimonio ducale si concentra in un’area specifica, compresa fra Rieti e la capitale. Pervenutaci per l’essenziale da Farfa, la documentazione spoletina è nel complesso poco più ricca di quella beneventana, ma tipologicamente molto più varia, composta com’è non solo da diplomi, ma anche da numerosi atti privati e da giudicati; lo spazio, piuttosto ristretto, su cui essa più vivamente si proietta coincide con l’area della più antica affermazione fondiaria farfense. Più che il raggio del patrimonio ducale, la documentazione reatina ci mostra in primo luogo l’importanza e il ruolo all’interno di una società locale di quel patrimonio, frammisto a un allodio diffuso e a sua volta frammentato; permette cioè di attingere a livelli destinati a rimanere sconosciuti per Benevento. L’elemento di base è costituito dalle case contadine, spesso aggrumate in casali, unità gestionali composte da pochi nuclei familiari e non necessariamente provviste di coerenza spaziale. La migliore testimonianza del carattere diffuso e disarticolato del casale, com’era in genere per la grande e media proprietà nel Reatino27, è probabilmente un diploma del 75028, con cui il duca Lupo concede a Farfa ventisei coloni, residenti in parte presso una curticella a Bitianus, in parte in altre località (Montagnano, Tauriano, Ortisiano, Maurianula, Negotianum), “cum portionibus eorum in casale qui dicitur Rentianus, simul et in Toraniano”. I due casali erano dunque le strutture, caratterizzate da un nucleo gestionale, che inquadravano coloni residenti in sei altre, diverse località. Le famiglie contadine Per questa parte fondamentali i lavori di Collavini e di Gasparri, citati sopra, alle note 2 e 3. Molto diversa la prospettiva del libro di M. Costambeys, Power and Patronage in Early Medieval Italy. Local Society, Italian Politics and the Abbey of Farfa, c.690-840, Cambridge, 2007, in cui la distinzione fra pubblico e privato è talmente sfumata da divenire quasi irrilevante; cfr. in particolare, per questo aspetto, le pp. 90-120. 27 È una morfologia proprietaria ampiamente studiata da Pierre Toubert, Les structures du Latium médiéval: le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle, Roma, 1973 (Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, 221), pp. 449-87. 28 CDL, IV/1, ed. C. Brühl, Roma, 1981 (Fonti per la Storia d’Italia, 65), n. 10. Su questo documento vedi di recente M. Costambeys, «Settlement, Taxation and the Condition of the Peasantry in Post-Roman Central Italy», Journal of Agrarian Change, IX/1, 2009, p. 99. 26
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componenti i casali erano tenute al versamento di censi29, sulla base della loro specifica dotazione fondiaria, come i condomae beneventani. Questo microelemento rimaneva spesso a sé stante, ma confluiva talvolta in aggregati fondiari maggiori, le curtes, o le massae, e i gualdi, fra i quali non esisteva un rapporto di tipo gerarchico, ma una giustapposizione, come a Benevento fra gai e actus30. Nel 766 il L’unica attestazione esplicita è relativa a un censo fisso: CDL, V, Le chartae dei ducati di Spoleto e di Benevento, ed. H. Zielinski, Roma, 1986 (Fonti per la Storia d’Italia, 66), n. 8 (747), p. 38: “ut amodo ipsum redditum persolvat in suprascripto monasterio, hoc est modia quinque”. Il modello non sembra differire da quello della gestione privata: censo fisso sul seminativo, ma parziario sul vino anche ibidem, n. 73 (777), patto agrario fra Farfa e un suo colono. In CDL, IV/1, n. 2 (740) il duca Transamondo II concede a Farfa le decime “de vino et de grano seu et de oleo vel de tertia, quę a populo colligitur de massa, ubi Mellitus actionarius est”. Difficile dire se tertia sia qui un canone parziario o, come mi pare più probabile, un censo consuetudinario aggiuntivo, non necessariamente parziario, come negli esempi nordeuropei riportati in C. Du Cange, Glossarium mediae et infimae Latinitatis, VI, Paris, 1736, col. 1087, s. v., 4. Sulla massa vedi più avanti, nota 31. 30 Considero qui anche la documentazione risalente alla primissima epoca franca, edita nei volumi dedicati a Spoleto del CDL, per un’evidente continuità di strutture politiche e sociali, e i documenti successivi, fino a Carlo Magno e Ludovico il Pio, compresi nel Regestum Farfense. Tale documentazione dà però solo sporadicamente indicazioni utili, perché vira decisamente, con una repentina riduzione dei riferimenti alla sfera pubblica e quindi anche ai patrimoni ducali. Massa “ubi Mellitus actionarius est” in CDL, IV/1, n. 2 (740); corte “ad Varianum” ibidem, nn. 8 (749) e 10 (750); corte “domnica” in Musileo, in CDL, V, n. 36 (763), p. 135; curtis Germaniciana in CDL, IV/1, nn. 19 (766), 26 e 28 (776) e CDL, V, n. 23 (756); curtis di Amiterno e curtis “in Interocro” (Antrodoco) in CDL, IV/1, n. 17 (763); “curtem unam et massam in Sextuno”, “curtem in Vallanti”, “curtem cum massa in Narnate, finibus reatinis”, in CDL, III/1, n. 43 (770-772); cfr. anche CDL, III/1, n. 44 (772), p. 255 = E. Barbieri, I. Rapisarda, G. Cossandi (a cura di), Codice Diplomatico della Lombardia Medievale. Le carte del monastero di S. Giulia di Brescia, I (759-1170), Pavia, 2008 (online all’indirizzo: http://cdlm.unipv.it/edizioni/bs/brescia-sgiulia1/, url consultato fino al 30 dicembre 2016), n. 22 e CDL, IV/1, nn. 24 e 25 [776]; “massa nostra in Sabinis… in qua est ęcclesia Sancti Viti super Pharpham” ivi, n. 24 (776); “curtem Corvianianum”, “curtem Sancti Viti”, curtem Sanctę Marię, quae est in Viconovo”, “curtem in Bariliano”, “curtem quę dicitur Pontiana” cedute dal duca Teodicio, ricordate in C. Manaresi (a cura di), I placiti del Regnum Italiae, I, Roma, 1955 (Fonti per la Storia d’Italia, 92), n. 38 (829). Gualdo di S. Giacinto in CDL, IV/1, nn. 4 (745-746), 5 (746), quest’ultimo rogato presso il gualdum Pontianum, 29
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casale di Paternione “in finibus sabinensis”, composto da due sole residenze/aziende contadine, dipendeva dalla curtis Germaniciana, anch’essa nel Reatino, già passata a Farfa per diploma di re Astolfo. Alla stessa corte faceva riferimento anche il casale Balberianus, oggetto qualche anno dopo di una contesa fra Farfa e il vescovo di Rieti31. e CDL, V, nn. 8 (747), 13 (749); gualdo Gallorum in CDL, V, n 23 (756); gualdum Tancies in CDL, III/1, n. 23 (751) e CDL, IV/1, n. 23 (773); gualdo Alegia, gualdo “Spoletanus qui dicitur Porcaricius et Cerquaricius et nominatur Longone”, “serram gualdi publici pecorum Spoletanorum qui dicitur Mollionice”, “gualdo reatino qui dicitur Felecte” in CDL, III/1, n. 28 (756); gualdo “in finibus Ciculanis… ad Sanctum Angelum in flumine” in CDL, IV/1, n. 16 (761); gualdi Alegia (cfr. altro riferimento supra, in questa stessa nota), Turrita, Ascle, Rivus Curvus, Mons Calvus in CDL, IV/1, n. 18 (765), con i nn. 20 (767) e 22 (772); “gualdum, qui dicitur Mogianus”, in CDL, V, n. 67 (766); gualdum Cusani, permutato con gualdum Laranu in CDL, IV/1, n. 36 (782). Con ogni probabilità dal patrimonio pubblico provenivano anche il gualdo “qui dicitur Coriose”, ceduto a Farfa dallo sculdascio Teodemondo (CDL, V, n. 68, a. 776) e quello “in Talli” (ivi, n. 91, a. 779), che era passato a Goderisio del fu Erfone “ab avunculo meo Aifredo seu Pertone maripasso”; gualdum Patianum in massa Eciculana, in Il regesto di Farfa compilato da Gregorio di Catino, a cura di I. Giorgi e U Balzani, Roma, Società romana di Storia patria, 1879-1914, II, n. 251 (821), con riferimento a un diploma del duca Ildeprando; gualdo di Pozzaglia: ivi, nn. 290-292 (853-854), 295 (855). Di altri gualdi abbiamo testimonianza nella documentazione successiva, nei primi decenni di dominio franco. Tali proprietà arrivano a Farfa da privati, senza altre specifiche, ma è molto probabile che fossero in età longobarda parti del patrimonio pubblico. Gualdum novum, in CDL, V, n. 100; gualdo in Neviano, in Il regesto di Farfa, II, n. 153 (792); gualdo del monastero del S. Salvatore di Rieti, ivi, n. 160 (794); corte e gualdo di S. Stefano, ivi, nn. 186 e 187 (808); gualdo de Auta ivi, n. 158 (802). Cfr. sulla localizzazione delle proprietà ducali nel Reatino, oltre alle introduzioni degli editori ai documenti citati, numerose indicazioni già in E. Saracco Previdi, «Lo ‘sculdhais’ nel territorio longobardo di Rieti (sec. VIII e IX). Dall’amministrazione longobarda a quella franca», Studi Medievali, s. III, 14, 1973, pp. 668-76; poi soprattutto E. Migliario, Strutture della proprietà agraria in Sabina dall’età imperiale all’alto Medioevo, Firenze, 1988, pp. 79-99, e Eadem, Uomini, terre e strade. Aspetti dell’Italia centroappenninica fra antichità e alto medioevo, Bari, 1995, in particolare il capitolo 1. 31 CDL, IV/1, nn. 19 (766) e 28 (776). Vedi anche: “casales duos territorii Reatini in massa Nautona, qui pertinuerunt in curte nostra reatina”, ivi, n. 33 (778) e “casales duos qui vocitantur Sibianus et Sucilianus, territorii reatini in Massa Prętorii, qui pertinuerunt ad curtem nostram reatinam”, ivi, n. 37 (783). In questi ultimi due casi la massa sembra però valere solo come riferimento
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Una caratterizzazione discreta, non continua, vale anche per l’altro pilastro del patrimonio ducale, i gualdi, che comprendevano normalmente casali al loro interno. Come a Benevento, i gualdi spoletini erano certamente articolati in spazi sia boschivi, sia coltivati. La constatazione di un carattere discontinuo del gualdo vale però non solo per gli usi del suolo e per le forme dell’insediamento, ma anche per il suo assetto proprietario: accanto a terre pubbliche, sicuramente prevalenti, unità minori erano detenute da altri soggetti, nella maggior parte dei casi per precedenti concessioni ducali o regie32. Era un mosaico difficile da controllare per gli stessi attori principali, a causa della stratificazione di diritti a livelli diversi, dovuta a una continua ridefinizione degli assetti proprietari e a un’ambiguità di fondo fra godimento del bene e sua piena disponibilità, come hanno messo in rilievo gli studi fondamentali di Giovanni Tabacco e di Chris Wickham. Ciò emerge con chiarezza soprattutto dalla documentazione relativa al gualdo spoletino meglio noto, quello di S. Giacinto33. A fronte di un carattere spesso così sgranato, direi quasi su base cellulare, del fisco ducale nel Reatino, gualdi e corti non appaiono così rigidamente separati, come a Benevento. Anche se le loro dimensioni non paiono minori rispetto a quelle dei gai beneventani, a giudicare dall’unico caso in cui ne abbiamo una misura34, i gualdi reatini non
topografico, perché i casali sono di pertinenza della corte ducale di Rieti. Al di fuori dell’ambito pubblico troviamo esempi di massae come strutture di coordinamento di casali (CDL, V, nn. 100 [786] e, meno esplicitamente, 56, a. 770); non altrettanto per le corti (ivi, ad indicem). Sulla massa in questo contesto e le sue ascendenze antiche vedi Migliario, Strutture della proprietà agraria, in particolare pp. 48-9 e Eadem, Uomini, terre e strade, pp. 41-9. 32 CDL, V, nn. 8, 9, 10 (747), 11 (748), 13 (749), 21 (754). 33 G. Tabacco, I liberi del re nell’Italia carolingia e postcarolingia, Spoleto, 1966, pp. 113-32; C. Wickham, Studi sulla società degli Appennini nell’alto Medioevo. Contadini, signori e insediamento nel territorio di Valva (Sulmona), Bologna, 1982 (Quaderni del Centro Studi Sorelle Clarke, 2), pp. 18 e seg.; Idem, European forests in the Early Middle Ages: landscape and land clearance (1989), riedito in Idem, Land and Power. Studies in Italian and European Social History, 400-1200, London, 1994, pp. 162-70. 34 Le proprietà Alegia e Turrita, cedute da Astolfo a Farfa nel 756 (CDL, III/1, n. 28) sono due gualdi, come risulta dal confronto con altri diplomi ducali, citati alla nota 30. Nel diploma di Astolfo se ne dà la misura complessiva di 1600 iugeri, circa 12,74 km2. Per gualdi confinanti fra loro vedi CDL, IV/1, nn. 5 (746); 18 (765), p. 53; 36 (782), p. 108.
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sono trattati come forme di definizione dello spazio pubblico, da cui ritagliare dotazioni di terre per chiese o monasteri, com’era invece a Benevento; spesso ceduti nel loro insieme e individuati con la descrizione dei loro confini lineari, almeno in alcuni casi essi erano compresi all’interno dei distretti, come lo erano le corti. Così, per esempio, il gualdo di S. Giacinto era nel territorio di Rieti, quello di S. Angelo si trovava nel Cicolano35. I distretti non definivano però in modo significativo il raggio d’azione degli ufficiali; non almeno nella gestione dei beni pubblici. È stato da tempo notato come a Spoleto gli ufficiali ducali mostrino una fisionomia territoriale debole, sia ai livelli alti, sia ai livelli di base; ciò vale per gli sculdasci, ma anche per i gastaldi36. Alcuni gastaldi avevano una sede specifica, in primo luogo quelli di Rieti, evocati nella datazione degli atti privati della città e dell’area circostante dopo i duchi stessi. Altri mancavano invece di uno specifico ambito di riferimento: erano parte di un corpo, dal quale il duca attingeva di volta in volta secondo necessità. Ciò è particolarmente evidente nell’amministrazione della giustizia, che aveva un carattere di solito spiccatamente collegiale, probabile garanzia della superiore autorità ducale, insieme al veloce avvicendamento nelle cariche maggiori: i gastaldi di Rieti rimanevano al potere per periodi brevissimi, talvolta meno ancora di un anno, con la possibilità di ricoprire il ruolo più volte, nella loro esistenza37. È possibile aggiungere qualcos’altro a questa caratterizzazione, articolandola nella prospettiva specifica di questo studio. Fin dall’inizio della serie documentaria, e per tutta l’epoca longobarda, i diplomi dei duchi spoletini portano spesso nell’escatocollo un riferimento all’ufficiale competente sui beni, o sulle prerogative oggetto della concessione38: “Data iussione mense Maii, per indictionem VII, sub Scaptolfo gastaldio” recita per esempio il primo diploma ducale pervenutoci (724), con cui Transamondo II cedeva a Farfa la chiesa di S. Getulio39. Il confronto fra le carte private reatine e i diplomi di concessione relativi alla Sabina mette in evidenza due CDL, IV/1, nn. 5 (746), 16 (761). Saracco Previdi, Lo ‘sculdhais’, pp. 633-57; Gasparri, «Il ducato longobardo di Spoleto», pp. 89-93; Collavini, «Duchi e società locali», in particolare le pp. 143-4. 37 Collavini, «Duchi e società locali»,pp. 141-3. 38 Ibidem, nota 71. 39 CDL, IV/1, n. 1, p. 4. 35
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elementi. In primo luogo, quando le due serie corrono parallele, i gastaldi citati nei diplomi relativi a beni dell’area reatina sono i titolari, in quel momento, della sede di Rieti40; così è con ogni probabilità per Pertone e Godifredo, certamente per Alifrido e poi per Ilderico41. I gastaldi reatini sembrano però agire su un’area ampia, che non coincideva con i soli fines di Rieti: nel 761 Alifrido è evocato a proposito del gualdo di S. Angelo, posto “in finibus Ciculanis”, come pure della corte di Amiterno e di Interocro, che la documentazione privata permette di identificare come centri esterni all’ambito reatino42. D’altra parte i complessi fiscali presenti nel Reatino non rispondono a un unico centro direzionale. Il casale Paternione si trovava nei fines di Rieti, ma era pertinenza della corte Germaniciana, distinta dalla corte di Rieti43; e non solo gastaldi, ma anche ufficiali minori erano preposti al controllo dei beni pubblici, anche nello stesso ambito reatino. Nella concessione a Farfa del casale Turris, compreso nei fines Sabinenses, cioè di Rieti, l’ufficiale evocato è l’actionarius Gundoaldo44. Nel 766 a proposito del casale Paternione è evocato l’actionarius Godescalco; l’anno dopo, a proposito di diritti di pascolo concessi a Farfa su terre pubbliche, la competenza è del marepahis Rimone, da identificare probabilmente con l’omonimo
Vedi H. Zielinski, Studien zu den Spoletinischen “Privaturkunden” des 8. Jahrhunderts und ihrer Überlieferung im Regestum Farfense, Tübingen, Max Niemeyer, 1972, pp. 224-242 sulla successione dei gastaldi di Rieti fra 718 e 751, dove si dà per scontato che i gastaldi, citati nei diplomi a proposito di beni pubblici situati nel Reatino, siano gastaldi di Rieti; Collavini, «Duchi e società locali», note 41 e 44, per la successione dei gastaldi reatini anche oltre quella data. 41 Il Bertone gastaldo di CDL, IV/1, nn. 4 (745 settembre-746 giugno) e 5 (746 ottobre) è da identificare con il Pertone di CDL, V, n. 7 (746 febbraio). Il Godifredo in CDL, IV/1, n. 7 (747 novembre 2) è gastaldo di Rieti in carica in CDL, V, nn. 9 e 10 (747 maggio). Alifrido (CDL, IV/1, n. 16-18 [761 aprile/765 marzo]) è gastaldo di Rieti in CDL, V, nn. 28,30-31, 33, 35, 37-43 (760 aprile/765 marzo), prima del noto Ilderico (cfr. Collavini, «Duchi e società locali», tavola V e passim). 42 CDL, IV/1, n. 19 (766). Sulla distinzione fra l’ambito spaziale reatino e Interocro vedi per esempio CDL, V, n. 55 (770), p. 196: “sive in Sabinis, sive in Marsis, sive in Interocro, sive in Pitiliano”; n. 57: “in Sabinis, in Similiano et in Saliano et in villa Aliena ibidem in Sabinis”; più avanti, nello stesso documento: “in Interocro loco, qui dicitur Pinguis”. 43 CDL, IV/1, n. 19 (766). 44 CDL, IV/1, n. 6 (747). 40
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gastaldo reatino, testimoniato qualche anno più tardi45. Il dossier può essere arricchito, prendendo in considerazione i numerosi casi in cui si concedono beni particolarmente ampi, o numerosi, e di conseguenza si evocano più ufficiali, a disegnare a mio parere non gerarchie, ma compresenze negli stessi spazi. Nella concessione a Farfa del gualdo di S. Giacinto si evocano il gastaldo Pertone, ma anche l’archiporcarius Causualdo e l’actionarius Gundoaldo; come detto, nella concessione del casale Turris è evocato il solo Gundoaldo. Gli esempi sono numerosi; se ne trovano anche nei non molti documenti relativi ad aree periferiche del ducato46. Tirando le somme, potremmo dunque dire che l’autorità dei gastaldi reatini sul patrimonio pubblico irraggiava dalla loro sede, ma estendendosi a un ambito più ampio, che comprendeva anche altri spazi amministrativi, non compresi nella loro specifica circoscrizione. D’altra parte la loro autorità sui beni dei duchi non è definibile come esclusiva, né spazialmente coerente: la competenza dei gastaldi appare affiancata da altri agenti del duca, alti ufficiali del palazzo e altri di rango minore. Con modalità differenti anche a Spoleto, come a Benevento, i quadri spaziali del potere ducale erano complicati da un’istanza di segmentazione, e quindi di controllo dal centro, delle risorse fondiarie pubbliche. CDL, IV/1, nn. 19, 20 (cfr. Collavini, «Duchi e società locali», nota 74). Ibidem, nn. 5 e 6. Cfr. anche n. 16 (761): gastaldo Alifrido e archiporcario Lupone, competenti su gualdo di S. Angelo e metà di un castagneto “in Sessiale”; n. 18 (765): gastaldo Alifrido e marepahis Rimone, competenti sui gualdi Alegia e Turrita e sui rispettivi diritti di pascolo; n. 32 (778): Rimone gastaldo e Teudemundo actionarius competenti su quattro casae in territorio reatino; nn. 33 e 37 (778, 783): Rimone gastaldo e Adeodato actionarius competenti sui casali Sibianus e Cicinianus; Gumberto e Ilpidio gastaldi e Lupone actionarius, competenti su una corte nel territorio di Penne, settanta olivi in Tronto e cinquecento moggi di terra da una corte in territorio marsicano. Non prendo qui in considerazione il dossier celebre relativo all’area di Valva perché difficile da usare nella prospettiva specifica di questo studio. I documenti di tradizione vulturnense su quest’area dell’Abruzzo interno non offrono grande spazio a un’analisi del rapporto fra duchi, ufficiali, beni e spazi pubblici. Cfr. comunque almeno Wickham, Studi sulla società degli Appennini e L. Feller, Les Abruzzes médiévales. Territoire, économie et société en Italie centrale du IXe au XIIe siècle, Roma, 1998 (Bibliothèque de l’École Française de Rome, 300), pp. 190-205; vedi anche le pp. 143-7 e 147-50 per amplissime proprietà pubbliche testimoniate da documentazione di epoca successiva nei territori di Teramo, Penne e nell’area della Maiella. 45
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3. Sul patrimonio pubblico nella parte settentrionale del regno sappiamo meno che per i ducati meridionali; ad alcune domande dobbiamo accontentarci di dare risposte più sfumate. Il fatto è che il numero dei diplomi regi genuini è molto limitato e non è possibile farsi un’idea più che approssimativa della geografia del fisco, anche perché la documentazione privata non fa quasi alcuno spazio al patrimonio pubblico, neanche dov’è più densa: è il caso dei fondi lucchesi. Alcuni elementi di grande interesse possono invece ricavarsi dai diplomi della prima età carolingia, piuttosto avari di informazioni sul tema che ci riguarda. Accanto a beni di minore rilevanza – famiglie contadine con la loro dotazione fondiaria, solo a volte aggregati in casali e mai in insiemi maggiori come le corti reatine47 – le poche attestazioni di blocchi fondiari di grandi dimensioni, i gai, insistono su un’area centrale della Pianura padana, a Nord del Po, fra Modena, Reggio e Brescia, con qualche appendice appenninica; è l’area di principale radicamento del S. Salvatore di Brescia, di S. Silvestro di Nonantola e di Bobbio. Queste poche tracce sono tuttavia sufficienti a far intravvedere disponibilità notevolissime. Nel 760 dieci casae massariciae, per complessivi quattrocento iugeri, furono tratte dalla corte regia sull’Oglio e cedute con altri beni da Desiderio al S. Salvatore di Brescia, destinatario nel 772 di un’altra, importante concessione: una quota del gaio di Reggio di quattromila iugeri, secondo le misure liutprandine corrispondente a oltre trenta chilometri quadrati, confinante con la corte di Migliarina, già in possesso del monastero48. Era una proprietà enorme, ben più ampia anche rispetto alle maggiori quote di gaio concesse parallelamente da Arechi di Benevento a S. Sofia, o ai gualdi Alegia e Turrita Vedi CDL, III/1, nn. 27 (755) e soprattutto 33 (760) = Le carte del monastero di S. Giulia di Brescia, I, n. 3: al S. Salvatore di Brescia sono cedute numerose casae rette da famiglie dipendenti, all’apparenza solo in due località organizzate in casali. 48 CDL, III/1, nn. 24, 33, 41 (gli ultimi due anche in Le carte del monastero di S. Giulia di Brescia, I, nn. 3 e 19). Per l’estensione dello iugero e del moggio in epoca longobarda vedi riferimenti in B. Andreolli, «Misurare la terra: metrologie altomedievali», in Uomo e spazio nell’alto Medioevo. Atti della L Settimana di studio del CISAM, Spoleto, 4-8 aprile 2002, Spoleto, 2003, p. 158 (valutazione Wickham e Feller del moggio) e 163 (valutazione Mazzi e Montanari dello iugero). 47
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ceduti a Farfa; e si consideri che al S. Salvatore andava solo una parte del gaio, la cui estensione era quindi ancora maggiore. Fra il 749 e il 751 Astolfo donò al vescovato di Modena la corte Gena, compresa nel territorio modenese e consistente in cinquecento iugeri di bosco, confinanti su tre lati con il gaio regio, dipendente dalla stessa corte oggetto della concessione. Conferma dell’amplissima disponibilità fondiaria dei re in quell’area, il documento sarebbe anche testimonianza di una gerarchia fra curtis e gaio senza paralleli nei ducati meridionali49. Il cuore della Pianura padana non era però l’unica area a grande densità di beni pubblici; la nostra idea della situazione al Nord è molto parziale, più di quanto non lo sia per Benevento e Spoleto, a causa della selettività del canale di trasmissione. Basta a testimoniarlo la più importante concessione della prima età carolingia. Nel 774, poco dopo la conquista di Pavia, insieme con altri beni Carlo concesse a S. Martino di Tours l’isola e il castrum di Sirmione e i redditi provenienti dalla val Camonica con il saltus Candinus, fino al passo del Tonale sul versante trentino e fino al confine con i territori bresciano e bergamasco; erano beni e redditi di pertinenza del palatium, come il testo del diploma ricorda in modo esplicito, ora passati al fisco del re franco50. Il diploma carolingio pone in evidenza un punto di grande importanza: il potere regio longobardo arricchiva la sua base economica con imposte e obblighi che ricadevano su soggetti non insediati sulle terre pubbliche. In due diplomi regi, uno del 755 per il vescovato di Bergamo, l’altro del 772 per il S. Salvatore, si fa riferimento a obblighi da cui sono esentati i dipendenti delle due chiese; il contesto non lascia dubbi sul fatto che si tratti di obblighi di lavoro, di corvées51, evidentemente da prestare su terre pubbliche; CDL, III/1, n. 24: “curtem nostram que dicitur Gena, territorio Mutinense, silva iugis numero quingentis coherentes ibi a tribus partibus a gaio nostro, qui pertinere videtur de ipsa curte Gena”. Almeno una parte di questo complesso di beni confluì nel patrimonio di S. Silvestro di Nonantola. Vedi sulla curtis S. Gelichi, M. Librenti, «Alle origini di una grande proprietà monastica: il territorio nonantolano tra antichità e alto medioevo», in T. Lazzari, L. Mascanzoni, R. Rinaldi (a cura di), La norma e la memoria. Studi per Augusto Vasina, Roma, 2004, pp. 25-41, in particolare le pp. 40-1. 50 M.G.H., Diplomata Karolinorum, I, Pippini, Carlomanni, Karoli Magni Diplomata, ed. A. Dopsch, J. Lechner, M. Tangl e E. Mühlbacher, Hannover, 1906,n. 81, pp. 116-7. 51 CDL, III/1, n. 27 (755): “omnes scuvias et utilitatis, quas homines exinde in 49
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si aggiungono nel secondo caso l’esenzione da altri prelievi per l’uso delle selve regie e da tributi sui commerci, teloneo e seliquaticum. L’esenzione da “omnibus causis et excubiis publicis” è anche in un diploma datato da Brühl al 770-772, con cui Desiderio confermò a Farfa tre corti donate da Adelchi nel Reatino52. Del ripatico e di altre tasse sul commercio troviamo testimonianza già nel celebre patto di Liutprando con i Comacchiesi53 e poi, in forma prima implicita, poi esplicita, in due diplomi di Ilprando e di Ratchis del 744 e del 746 per S. Antonino di Piacenza, con riferimento a un diploma più antico di Liutprando54. È probabile che l’imposizione di quegli obblighi, in particolare le corvées di lavoro, non fosse diffusa in modo omogeneo. Essa è però di per sé significativa di un’articolazione del prelievo al di là della sola base fondiaria, apparentemente specifica dell’autorità regia e ricadente sulle persone dei sudditi: per l’VIII secolo non ne troviamo traccia né a Benevento, né a Spoleto. Nella sola Spoleto sono attestate, come al Nord, tasse sull’uso dei boschi e dei pascoli compresi nei gai ducali, da cui in un’occasione Farfa viene esentata55, ma si rimane qui in un ambito interamente fondiario. Si tratta infatti di un corrispettivo per l’uso di beni pubblici, che il duca esige in quanto titolare di quel patrimonio, come farebbe un qualunque altro proprietario. Le corvées evocate nei diplomi regi esprimono invece una proiezione di tipo territoriale degli obblighi pubblici sulla popolazione rurale insediata in altre proprietà, in questo caso ecclesiastiche. E che uno dei diplomi regi in cui sono testimoniati questi obblighi su base ‘territoriale’ riguardi lo spazio spoletino sembra confermare, non attenuare la differenza fra il Nord puplico habuerunt consuitudinem faciendum, excepto quando utilitas fuerit cesas faciendum ubi consuitudinem habuerunt”; Ibidem, n. 44 (772), p. 258: “omnes scufias publicas et angarias atque operas et dationes”. 52 CDL, III/1, n. 43. 53 Edizione recente in Codice Diplomatico della Lombardia medievale (secoli VIIIXII). Privilegia episcopii cremonensis o Codice di Sicardo (715/730 – 1331), a cura di V. Leoni, Pavia, Università di Pavia – Scrineum, 2004 (online all’indirizzo: http:// cdlm.unipv.it/edizioni/cr/cremona-sicardo/, url consultato fino al 30 dicembre 2016), n. 2 (715 o 730). 54 CDL, III/1, nn. 18, dove si conferma al vescovo la cessione del porto, e 19, dove si cita esplicitamente l’esazione del ripatico. Sui due diplomi, pervenutici in copie di X secolo, vedi Gasparri, «Il regno longobardo», p. 35. 55 CDL, IV/1, n. 20 (767).
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e il ducato meridionale: l’evocazione di corvées pubbliche pare qui non una mera inerzia di formulario, ma la sintetica descrizione di un modo di esercizio del prelievo estraneo a Spoleto e lì introdotto dai re, da poco capaci di controllare in modo stringente il ducato e i patrimoni dei duchi56. La proiezione in senso territoriale degli obblighi dovuti al re era forse molto antica e appare connessa con il carattere anch’esso schiettamente territoriale che il potere dei gastaldi sembra avere nel Nord del mondo longobardo, se è possibile generalizzare le evidenze di un dossier celebre, quello della lite fra la curtis regia di Parma e quella di Piacenza57: nel 674 la pertinenza all’uno o all’altro dei gastaldi delle due città di un’ampia area, gravitante sulla valle del Taro e circoscritta da un confine lineare, fu assegnata a Piacenza, con una ricognizione sul terreno condotta dai messi di re Pertarito. Il riferimento per la soluzione della disputa (di contenuto essenzialmente economico, come mostra il riferimento a pignerationes) era la descrizione del confine fra Parma e Piacenza contenuto in precedente giudicato di Arioaldo (626-636), esplicitamente ricordato nel 674 e giuntoci in stato frammentario: l’area contesa nel giudicato più recente era effettivamente situata al di là del Taro, quindi di competenza del gastaldo piacentino. Nella chiusa del dossier, Pertarito stabilisce: “si liver homo intra ipsas fines possessionem aut de iura parentum aut de concessione regum habere videtur, excepto de tempore illo, quando Godebert invasionem fecit, liceat eum habere”58. L’area contesa non era dunque composta solo da proprietà pubbliche, ma aveva al suo interno anche beni di privati. Mi pare anzi probabile CDL, III/1, n. 43. Le tre corti donate da Adelchi compaiono nel novembre 774 (ibidem, n. 44 = Le carte del monastero di S. Giulia di Brescia, I, n. 22) come patrimonio del S. Salvatore. Almeno una delle tre, Sextuno, resta patrimonio del monastero bresciano anche successivamente. 57 Sul dossier e il suo contesto è tornato di recente C. Azzara, «Parma longobarda», in R. Greci (a cura di), Storia di Parma, III/1, Parma medievale. Poteri e istituzioni, Parma, 2010, pp. 28-31, con ulteriore bibliografia. 58 CDL, III/1, nn. 4 e 6 (citazione a p. 25). Cfr. Gasparri, «Il regno longobardo», pp. 16-22 sulla contesa Parma-Piacenza, in particolare qui le pp. 17-8, anche per il riferimento alle pignerationes. Godeperto, fratello di Pertarito, è evocato come usurpatore, quindi autore di concessioni nulle. Per una lettura in senso territoriale delle prerogative giurisdizionali degli ufficiali nelle leggi vedi Figliuolo, L’organizzazione circoscrizionale del territorio, pp. 431-3. 56
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che proprio la prevalenza di proprietà private degli uomini di Parma abbia costituito l’impulso alle pretese del gastaldo di quella città sull’area di confine. La competenza della locale curtis regia è definita in ogni caso in base a spazi precisi, probabilmente coincidenti con i territori cittadini di ascendenza tardoantica, e suggerisce una totale sovrapposizione nella figura del gastaldo fra l’amministratore di beni regi e il rettore di un distretto. Difficile dire se il caso sia significativo di una situazione generale, ma va detto che a livello di diocesi, e con l’attiva partecipazione di un gastaldo alla disputa, la tensione verso una dimensione compiutamente territoriale del potere a base cittadina è evidente in un altro celebre dossier, la lite fra Siena e Arezzo per la giurisdizione su alcune pievi rurali59. La caratterizzazione in senso territoriale, cioè in quadri spazialmente definiti e uniformi, della gestione dei beni pubblici nel Nord del regno va però sfumata. Ad articolare il patrimonio pubblico concorrevano le curtes dei duchi, composte da beni che affiancavano quelli dipendenti dalla curtis regia, a volte nei medesimi spazi, secondo modalità che sembrano richiamare direttamente la messa in comune di metà del fisco ducale per rafforzare la funzione regia dopo il decennio di interregno, riportata dal racconto di Paolo Diacono60; un livello ulteriore, rispetto a quelli testimoniati nei ducati meridionali. Ciò emerge in particolar modo dai diplomi di Adelchi, Ansa e Desiderio, dove le concessioni al S. Salvatore comprendono beni propri della famiglia regnante, beni della curtis regia, beni pertinenti a corti ducali e beni a pertinenza mista61, senza, quindi, che la distinzione fra corte regia e corti ducali limitasse la superiore disponibilità del re su tutti i beni pubblici. Va del resto ricordato che non abbiamo la minima traccia di diplomi ducali per il Nord: la facoltà di concedere era un’esclusiva regia e la posizione dei duchi settentrionali era in ciò del tutto distinta rispetto a quella dei duchi meridionali. È vero che Adelchi stesso aveva probabilmente già
Sulla lite vedi Gasparri, «Il regno longobardo», pp. 5-16, con riferimenti alle fonti e alla bibliografia più antica, e più di recente Idem, Italia longobarda, pp. 46-51. 60 Pauli Diaconi Historia Langobardorum, II, 31-32 e III, 16, nell’edizione Capo, pp. 115-7 e 145-7. 61 CDL, III/1, nn. 33 e 39 = Le carte del monastero di S. Giulia di Brescia, I, nn. 3 e 14. 59
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occupato la posizione di duca di Brescia62 e che i beni ducali donati al S. Salvatore dovevano essere nella maggior parte dei casi pertinenza di quella corte, ma le concessioni furono operate da Adelchi soltanto dopo l’assunzione del titolo regio. D’altra parte i diplomi in favore del S. Salvatore per beni pertinenti alla curtis ducalis non sembrano un’eccezione, dovuta alla sola preminenza familiare di Desiderio e dei suoi nell’area: una concessione di Adelchi al monastero di Sesto al Reghena, ricordata in un diploma di Carlo Magno del 781, riguardava i redditi dovuti alla corte ducale di Treviso: “quod in palacio nostro seu in curte ducali nostra Tarvisana consuetudo erat persolvendi de vico qui dicitur Sacco” 63. La divisione fra beni regi e competenza ducale non era così netta da impedire nel 754 a Lucca, al duca Alpert, di gestire per ordine del re Astolfo la permuta di alcuni beni fra la corte regia e la locale chiesa vescovile64. Se la corte ducale viene dunque più volte ricordata, le articolazioni locali della corte regia sono invece evocate nei diplomi solo eccezionalmente (la “curte nostra pestoriense” nel 77265), perché la corte regia è considerata come una sostanziale unità. L’espressione migliore di tale idea mi pare si trovi nella formulazione vagamente paradossale di un passo del giudicato Parma-Piacenza. Il re vi definisce contemporaneamente sia la parte piacentina, sia quella parmense come curtis nostra 66: l’opposizione fra le élite urbane che
62 CDL, III/1, n. 38 (766), p. 230, diploma di Adelchi per il S. Salvatore di Brescia: “… omnes res illas, quibus in nostra persona tempore ducati nostri predictus Arichis clericus per cartulam donationis contulerat”. Cfr. J. Jarnut, Prosopographische und sozialgeschichtliche Studien zum Langobardenreich in Italien (568-774), Bonn, 1972, p. 332 e anche P. Delogu, «Desiderio, re dei Longobardi», in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIX, Roma, 1991, p. 373. 63 CDL, III/1, Deperdita, p. 304, rif. a M.G.H., Diplomata Karolinorum, I, n. 134. Cfr. Tabacco, I liberi del re, pp. 157-61. 64 CDL, I, ed. L. Schiaparelli, Roma, 1929 (Fonti per la Storia d’Italia, 62), n. 113 = Chartae Latinae Antiquiores. Facsimile-Edition of the Latin Charters, ed. A. Bruckner e A. Marichal, XXXII (Italy XIII, Italia centrale: Lucca, 3), a cura di G. Nicolaj, Urs-Graf, Dietikon-Zurigo 1989, n. 942 (754-755); cfr. Gasparri, «Il regno longobardo», pp. 31-2. 65 CDL, III/1, n. 44, p. 257 = Le carte del monastero di S. Giulia di Brescia, I, n. 22. 66 CDL, III/1, n. 6, p. 23: “… dicebat Daghiberto, gastaldus noster, quod a civitatem Placentina et curte nostra pertinerent ipsa loca. Ad hec respondebat Immo, gastaldus noster, quod a Parmense civitate et curte nostra pertenerent ipsa loca”.
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si contendevano la gestione di quote rilevanti di risorse non aveva senso, nella prospettiva regia. Per questo motivo i gastaldi preposti al controllo dei singoli beni volta per volta ceduti non sono mai ricordati. Lo sono invece, in diverse occasioni, gli ufficiali specialmente preposti al controllo dei gualdi, tanto da far pensare che anche nel Nord, come nei ducati meridionali, quote del patrimonio pubblico particolarmente ampie e importanti fossero sottratte all’azione dei gastaldi e gestite dal re attraverso altri canali. Così nel 707, quando Ariperto dispose la donazione alla chiesa di Vercelli di una terra incolta, probabilmente di ampie dimensioni, “per Garimundum illustrem virum [qualificato come referendario nell’escatocollo del documento] Fuxione uualdeman noster tradere fecit”. Da ciò sembra di poter dedurre una competenza del referendario su quello specifico bene. Nella confinazione è citata la “fine publica vercellensi”, dalla quale la terra donata sembra distinta, quindi non inserita in un quadro territoriale di gestione67. Nel 747 Ratchis confermò a Bobbio alcuni beni sottratti al monastero all’epoca di Liutprando. La ricognizione sul terreno fu condotta da due messi regi, insieme con il uualdeman Giselberto e dai silvani regi Otone, Rachis e Pascasio68. Infine, nel 772, della trasmissione al S. Salvatore di Brescia dei quattromila iugeri tratti dal gaio di Reggio fu incaricato “Abono uualdeman suprascripti gagii nostri”. Il gastaldo di Reggio, Radoaldo, è ricordato in un diploma di quello stesso anno 772 per una sua donazione al S. Salvatore, non per il suo ruolo istituzionale69. Il canale diretto di gestione regia e di prelievo dei redditi da grandi complessi fondiari pubblici troverebbe una conferma nelle leggi di Rotari e di Liutprando, dove si prevede la destinazione di alcune composizioni direttamente al palatium, distinto in questi casi dalle articolazioni locali della curtis regia70. Un parallelo è nell’esistenza di una specifica curtis della regina, amministrata attraverso personale proprio e com-
Ibidem, n. 8, p. 33. CDL, III/1, n. 22, p. 110. 69 Ibidem, n. 41, p. 241 = Le carte del monastero di S. Giulia di Brescia, I, n. 19. Sugli ufficiali preposti ai gualdi vedi Gasparri, «Il regno longobardo», pp. 28-9. “Radoaldus, gastaldius civitatis nostrę Regiense”, citato come autore di una donazione al S. Salvatore in CDL, III/1, n. 44, p. 257 = Le carte del monastero di S. Giulia di Brescia, I, n. 22. 70 Alcuni esempi in Gasparri, «Il regno longobardo», p. 26. 67 68
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posta anche da terre lontane da Pavia, a giudicare dalla presenza di un giudicato di Banso, “gastaldio curti domne regine”, citato nel famoso breve di Ghittia, datato al 763-769 e conservato presso l’archivio arcivescovile di Pisa71. È un documento giustamente celebre, perché nella sua eccezionalità rivelatore di caratteri e limiti della tradizione archivistica di VIII secolo. I numerosi precepta ricordati nel breve, almeno sei dei quali direttamente indirizzati a un Alahis, identificato in modo convincente con il gastaldo e vir magnificus testimoniato a Lucca nel 716 e nel 722, gettano una luce vivida sul ‘margine esterno’ dell’oggetto analizzato in queste pagine: la concessione di beni pubblici e quindi la loro sottrazione al circuito condiviso fra vertice regio e ufficiali. Era un fenomeno di dispersione con ogni probabilità più ampio di quanto la documentazione scritta superstite non permetta di cogliere72. La fondazione di grandi monasteri connessi al vertice regio o ducale, spesso con spiccato carattere familiare, e la loro dotazione con grandi parti di patrimonio pubblico sono un’espressione macroscopica di questa forma di eccezione, promossa in quei casi dal vertice regio o ducale a suo proprio vantaggio, in un mondo longobardo che andava profondamente trasformandosi alla vigilia della conquista franca73. Sul documento vedi soprattutto A. Ghignoli, «Su due famosi documenti pisani dell’VIII secolo», Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 106/2, 2004, pp. 38-69 (pp. 42-5 per l’edizione del testo, pervenutoci in originale, con riferimenti alle edizioni più antiche, nel CDL e nelle Chartae Latinae Antiquiores, e pp. 52-3 sulla datazione); Gasparri, «Il regno longobardo», pp. 64-5; M. Stoffella, «Crisi e trasformazioni delle élites nella Toscana nord-occidentale nel secolo VIII: esempi a confronto», Reti Medievali Rivista, 8, 2007, pp. 9-11; C. La Rocca, «Carte laiche o carte ecclesiastiche? La natura ibrida delle carte di famiglia del secolo VII», in J. Escalona e H. Sirantoine (dir.), Chartes et cartulaires comme instruments de pouvoir. Espagne et Occident chrétien (VIIIe-XIIe siècles), Toulouse, 2014, pp. 79-84. Gastaldi della regina anche in CDL, III/1, n. 44 = Le carte del monastero di S. Giulia di Brescia, I, n. 22. Nel breve di Ghittia Ghignoli ritiene possibile anche la lettura “gasindio” (anziché “gastaldio”). La qualifica di Banso è definita in relazione con la curtis della regina, della quale egli era con ogni probabilità un amministratore; poiché il profilo dei gasindi è improntato a una fedeltà personale, non a compiti amministrativi, la lettura “gastaldio” mi pare preferibile perché più coerente con il contesto. 72 Sulla probabile diffusione di concessioni regie in forma non scritta nell’ambito della clientela personale vedi Gasparri, Il regno, i Franchi, il papato, pp. 56-59, che riprende e sintetizza altri studi dell’autore. 73 Sull’argomento sintesi recente in V. Loré, «Monasteri, re e duchi: modelli di relazione fra VIII e X secolo», in Monachesimi d’Oriente e d’Occidente nell’alto 71
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4. Il nodo dei rapporti fra beni pubblici, autorità centrale e fisionomia degli agenti rivela dunque una prospettiva interessante, perché mostra una fisionomia diversificata dei poteri di duchi e re, in particolare nella loro proiezione sullo spazio, con implicazioni sulla redistribuzione delle risorse e sulle reciproche limitazioni dei soggetti coinvolti. Nei secoli VIII-X la costruzione di quadri territorialmente definiti di esercizio del potere è spesso ancora di là da venire: una recente inchiesta collettiva sulla decima, coordinata da Michel Lauwers, lo ha efficacemente ricordato, mettendo in luce una quantità di percorsi distinti, in parte divergenti, verso una compiuta fisionomia territoriale costruita su quella forma di prelievo; e analoghe considerazioni possono trarsi dalle ricerche recenti di Florian Mazel sulla costruzione lenta e graduale di una territorialità del potere vescovile74. L’analisi che ho proposto mi pare utile a mostrare come le distinte modalità di rapporto del potere regio – o ducale – con lo spazio di dominio, visibili in maniera privilegiata attraverso la specifica prospettiva dei beni pubblici, acquistino peso e leggibilità se sottratte a un’ottica eccessivamente sintetica, quando non finalistica: Benevento e Spoleto non indicano a mio parere una forma ancora imprecisa di territorialità, ma modelli in parte alternativi a quello del Nord longobardo, più classicamente circoscrizionale, comunque anch’esso screziato dalla giustapposizione nelle medesime aree di fisco ducale e fisco regio e forse dalla speciale dipendenza dal re di complessi fiscali particolarmente ampi. A Benevento l’equilibrio poggiava su una separazione dei nuclei maggiori del patrimonio pubblico dalle figure dei gastaldi e sulla definizione del loro ruolo in prima istanza come amministratori del palatium; a Spoleto sull’unità di gestione del patrimonio ducale, affidata a gastaldi attivi su spazi ampi, che travalicavano la definizione dei fines, con un
Medioevo. Atti della LXIV settimana di studio, Spoleto, 31 marzo-3 aprile 2016, Spoleto, 2017, testo corrispondente alle note 3-18 e 25-48, con ampia bibliografia. 74 M. Lauwers (dir.), La dîme, l’église et la société féodale, Turnhout, 2012, in particolare Idem, «Pour une histoire de la dîme et du dominium ecclésial», ivi, pp. 11-64; F. Mazel, L’Évèque et le territoire. L’invention médiévale de l’espace (Ve-XIIIe siècle), Paris, 2016, in convergenza con alcune prospettive di S. Patzold, Episcopus. Wissen über Bischöfe im Frankenreich des Späten 8. bis frühen 10. Jahrhunderts, Ostfildern, 2008.
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livello di centralizzazione massimo, reso possibile dal frequentissimo avvicendamento dei gastaldi stessi, almeno a Rieti. È vero d’altro canto, ed è un’osservazione abbastanza banale, che tutti i casi presi in esame sono varianti di un modello unico, in cui la rendita fondiaria da terre pubbliche offriva il principale sostegno economico all’esercizio del potere, nel segno della centralità regia o ducale75. È forse meno banale osservare che nel senso ora delineato il ruolo cruciale del patrimonio pubblico ha un’origine relativamente recente. Com’è noto, nella tarda antichità la base economica del potere imperiale e della sua rete di magistrati e funzionari erano i redditi tratti dall’imposta fondiaria76. Al di là dell’eventuale continuità topografica fra complessi di beni pubblici altomedievali e proprietà imperiali, l’antecedente più diretto dei beni pubblici aveva nell’impero tardoantico una funzione molto diversa. Consolidatosi nel IV secolo a partire da una congerie di proprietà di varia origine ed estensione – dai beni dei templi a quelli delle città, dai grandi saltus alle proprietà dei morti senza eredi, ai beni confiscati, fino al patrimonio personale di ciascun imperatore – il patrimonio compreso nell’Aerarium imperiale era un complesso destinato soprattutto a sostenere gli alti costi di rappresentanza della corte77; solo in epoca tarda, come ha di recente mostrato in un brillante articolo Salvatore
Sul carattere profondamente pubblico della centralità regia nel mondo longobardo vedi le limpide pagine di P. Delogu, «Ritorno ai Longobardi», in Desiderio. Il progetto politico, pp. 21 e seguenti. 76 Basti il rimando a C. Wickham, Framing the Early Middle Ages. Europe and Mediterranean, 400-800, Oxford, 2005, pp. 270-1 (tr. it. Le società dell’alto medioevo. Europa e Mediterraneo, secoli V-VIII, Roma, 2009, pp. 298-300), in particolare il capitolo 3. 77 Il testo di riferimento rimane R. Delmaire, Largesses sacrées et res privata. L’Aerarium impérial et son administration du IVe au VIe siècle, Roma, 1989 (Collection de l’École Française de Rome, 121); sintetico, ma chiarissimo e illuminante, D. Vera, «Imperial estates in Late Roman southern Italy: land concentration and rent distribution», in A.M. Small (ed.), Beyond Vagnari. New themes in the Study of Roman South Italy, Proceedings of a conference held in the School of History, Classics and Archaeology, 26-28 october 2012, Bari, 2014, pp. 287-93; ulteriore bibliografia anche nell’articolo di S. Cosentino citato alla nota seguente. Sulla diversa articolazione fra Oriente e Occidente di Sacrae largitiones, Res privata ed Aerarium imperiale vedi Delmaire, Largesses sacrées et res privata, soprattutto le pagine introduttive e conclusive, 3-23, 699-701, 703-14. 75
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Cosentino, i proventi di quel patrimonio furono a volte usati, in Oriente, a fini più propriamente amministrativi, per supplire alle difficoltà di riscossione dell’imposta fondiaria78. La ‘chiusura’ nell’uso del patrimonio imperiale era in certo senso fiancheggiata da quella, parallela, nelle sue modalità di gestione. La gran parte di quelle proprietà era normalmente gestita in forma indiretta, con concessioni a conductores ed enfiteuti; la legislazione tardoantica prevedeva l’accertamento della solvibilità del concessionario e la revoca della concessione, in caso di mancata corresponsione del canone. La gestione indiretta era funzionale a patrimoni enormi e dispersi su uno spazio amplissimo, nel quadro di un’economia e di una struttura istituzionale segnate dall’uso pervasivo dello strumento monetario; l’amministrazione non era dunque per lo più direttamente implicata nella conduzione delle terre, ma si limitava a percepirne le rendite79. Erano eventualmente proprio le rendite a essere redistribuite – e in parte soltanto – sotto varie forme, ma non i grandi blocchi di proprietà imperiali, per altro regolarmente sottoposti al pagamento dell’imposta; elemento anch’esso di fondamentale differenza rispetto alle situazioni altomedievali. Anche se guardiamo ai beni confiscati o dei morti senza eredi, che transitavano nel patrimonio imperiale senza entrare stabilmente a farne parte (spesso erano alienati per fare cassa), ci accorgiamo che la logica del sistema tendeva a limitare la redistribuzione, piuttosto che a favorirla. Esisteva una procedura altamente complessa, che normava le richieste da parte dei privati, per le quali era anche fissato un numero massimo per persona: necessità di garanti, accertamento preventivo della fama del richiedente, richiesta dettagliata in forma scritta, secondo un iter preciso. Lo spirito della legge era chiaro: scoraggiare un numero eccessivo di simili istanze, che del resto furono in alcuni periodi, a più riprese, seccamente proibite80. S. Cosentino, «Fine della fiscalità, fine dello stato romano?», in P. Delogu, S. Gasparri (a cura di), Le trasformazioni del V secolo. l’Italia, i Barbari e l’Occidente romano, II Seminario del Centro interuniversitario per la Storia e l’Archeologia dell’alto Medioevo, Poggibonsi, 18-20 ottobre 2007, Turnhout, 2010, pp. 17-35; anche Vera, Imperial estates, pp. 286-7. 79 Sull’evoluzione della forma di gestione Delmaire, Largesses sacrées et res privata, pp. 661-74 sulle modalità di conduzione e la loro evoluzione nel tempo e Vera, Imperial estates, pp. 287-8. 80 Delmaire, Largesses sacrées et res privata, pp. 682-90 sulle esenzioni fiscali, solo parziali; pp. 603-31 sui beni “volatili”, acquisiti per confisca o per morte di titolari senza eredi, e sulle loro forme di redistribuzione. 78
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I beni della res privata erano dunque in certo senso esterni all’amministrazione imperiale; certo non ne costituirono la base economica, se non in modo suppletivo, in epoca tarda e in Oriente. Cercare su quel terreno forme di condivisione di risorse fondiarie fra imperatore, magistrati e, ancor meno, settori della popolazione rurale sarebbe probabilmente improprio; per gli stessi motivi sarebbe difficile trovare implicazioni strettissime quanto variabili fra potere centrale, agenti e spazi, come quelle che abbiamo provato a descrivere per l’Italia longobarda. In questo senso credo si possa dire che la dimensione pubblica del bene fiscale non è un’eredità romana, ma una creazione dell’alto Medioevo81.
Ringrazio Salvatore Cosentino per avere letto una prima versione di questo saggio e in particolare per alcune sue osservazioni sull’ultimo paragrafo; Pierfrancesco Porena per una discussione preliminare del tema, per me ricchissima di suggestioni, e per alcune precisazioni a valle sulla res privata; Simone Collavini e Paolo Tomei per alcune preziose indicazioni su documenti di area toscana, Tiziana Lazzari per la discussione di diversi punti sensibili dell’argomento. 81
Stefano Gasparri Gli spazi del vescovo
Per parlare in modo completo di spazi del vescovo ci si dovrebbe muovere su due piani diversi: negli spazi fisici dove effettivamente il vescovo agiva e negli spazi teorici (funzionali) nei quali la sua azione si concretizzava. Anche se riferiamo tutto questo solo all’Italia, come farò io, il tema rimane troppo vasto; per cercare di mantenere uno spessore cronologico non troppo limitato (di fatto i secoli VI-IX), metterò al centro il primo dei due piani, cercando per suo tramite almeno di guardare verso il secondo, che di per sé sarebbe, già da solo, troppo ampio per una breve relazione come questa, data la centralità assoluta della figura del vescovo nella società altomedievale. Ciò che potrò fare sarà, soprattutto, proporre degli spunti di riflessione: un’esemplificazione esaustiva ovviamente non è pensabile. È banale dire che lo spazio dell’azione del vescovo è la città: la controversa presenza di vescovi rurali, in Italia meridionale (e in Spagna) nella tarda antichità, peraltro poco testimoniati e poco studiati, non basta certo a indebolire questo legame che diamo per scontato1. E tuttavia il ricordo dell’appropriazione rituale dello spazio urbano di Roma, effettuata da Gregorio Magno nel 590 con la famosa laetania septiformis, una processione che coinvolse tutta la popolazione cittadina, suddivisa in sette stadi di purezza che alludevano però chiaramente, allo stesso tempo, alle sette regioni urbane, al di là dell’esito infausto dal punto di vista sanitario – giacché aumentò anziché diminuire il numero delle vittime della pestilenza –, rimane un’immagine potente di dominio episcopale sulla città, con la quale è giusto iniziare2. E che questa non fosse solo una prerogativa S. Gasparri, «Recrutement social et rôle politique des évêques en Italie du VIe au VIIIe siècle», in F. Bougard, D. Iogna-Prat, R. Le Jan (dir.), Hiérarchie et stratification sociale dans l’Occident médiéval (400-1100), Turnhout, 2008, pp. 137-59: 147-9; G. Volpe, «Vescovi rurali e chiese nelle campagne dell’Apulia e dell’Italia meridionale fra Tardoantico e Altomedioevo», Hortus Artium Medievalium, 14, 2008, pp. 31-47. 2 Paolo Diacono, Historia Langobardorum, ed. L. Bethmann, G. Waitz, MGH, SS rer. Lang., Hannover, 1878, 3, 24, pp. 104-5. 1
Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 89-106 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116181
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di un vescovo particolare come quello di Roma lo prova, ad esempio, la narrazione delle vite dei vescovi di Mérida (del secolo VII), dove si dice che le processioni pasquali collegavano la basilica di S. Eulalia, situata nei sobborghi, al centro della città dove era la cattedrale, e coinvolgevano anche queste tutta la popolazione, con in testa il clero e il vescovo3. Queste processioni, che disegnarono ritualmente la nuova topografia della città cristiana, cancellandone in modo definitivo l’antica eredità pagana, avevano una chiara natura di rituale civico, ossia pubblico4. Il legame profondo del vescovo con la città è ribadito dall’episodio di Felice di Treviso narrato da Paolo Diacono: il vescovo si fece incontro ad Alboino sul fiume Piave, quasi a fare schermo fisicamente alla sua città nei confronti degli invasori, che erano appena penetrati in Italia. Qui di processione non si parla, ma possiamo facilmente intuirne l’esistenza; il re si mostrò generoso e confermò a Felice tutti i possessi della chiesa trevigiana5. Si tratta di una sintetica replica – più storica e meno retorica e leggendaria – della processione con cui l’arcivescovo ravennate Giovanni avrebbe fermato Attila, secondo quanto racconta nel secolo IX Andrea Agnello6. Al pari di Giovanni, era la città tutta, più che i soli possessi della chiesa, che Felice evidentemente intendeva proteggere, svolgendo così quella funzione di defensor civitatis di cui per la verità, in Italia, non ci sono moltissime attestazioni esplicite. Esistevano però casi diversi, nei quali la natura urbana di alcuni vescovi era indebolita dalla povertà del contesto nel quale erano inseriti. Rimanendo nel VI secolo, è il caso di Bonifacio di Ferento, in Tuscia, che a stare al colorito racconto che ne fa Gregorio Magno nei Dialogi viveva in un ambiente esclusivamente rurale, al punto che il suo unico stipendium era una vigna, per di più duramente colpita dalla grandine, P.C. Diaz, «Mérida tardoantica: l’apoteosi di una città cristiana», in C. Eguiluz, S. Gasparri (a cura di), Le trasformazioni dello spazio urbano, Reti Medievali Rivista, 12/1, 2011, pp. 67-79. 4 Su questo argomento, in generale, v. i saggi raccolti in G.P. Brogiolo, B. Ward Perkins (eds.), The idea and the Ideal of the town between Late Antiquity and the Early Middle Ages, Leiden-Boston-Köln, 1999; e poi C. La Rocca, «Lo spazio urbano tra VI e VIII secolo», in Uomo e spazio nell’alto medioevo, Spoleto, 2003, pp. 397-436: 397-9, e S. Loseby, «Reflections on urban space: streets through time», in Eguiluz, Gasparri, Le trasformazioni, pp. 3-24: 5. 5 Paolo Diacono, Historia Langobardorum, ed. Bethmann, Waitz, 2, 12, p. 79. 6 Agnello, Liber pontificalis ecclesiae Ravennatis, ed. O. Holder-Egger, MGH, SS rer. Lang., 37, pp. 299-302. 3
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tanto da rendere necessario un intervento divino. Il vino così miracolosamente salvato venne suddiviso fra l’intera comunità, che, lo si capisce bene dal racconto, era una comunità costituita in gran parte da pauperes che dipendevano dal vescovo, in un ambiente che non aveva nulla di cittadino7. Da un certo punto di vista, per riprendere l’osservazione precedente circa la penuria di vescovi defensores civitatis presenti nelle fonti italiane, possiamo dire che Bonifacio, come altri vescovi dei Dialogi, svolgeva comunque una funzione di questo tipo, preservando la sua comunità dalle calamità naturali8. Che la povertà minasse la dimensione urbana di tanti vescovi del VI secolo è provato abbondantemente anche dalle lettere di Gregorio: è celebre il caso del vescovo Ecclesio di Chiusi, al quale il papa procurò una cavalcatura – perché il vescovo, che per di più era malato, doveva spostarsi all’interno della sua diocesi – e un mantello per ripararlo dai freddi invernali9. Non ci stupiamo quindi, per tornare all’esempio precedente, che Bonifacio allevasse galline nel vestibolo della sua abitazione: traduzione, quest’ultima parola, certo non perfetta di quella usata nei Dialoghi, hospitium, che indicava probabilmente qualcosa in più, ossia un edificio dove, accanto al vescovo, trovavano rifugio pauperes e pellegrini. Per quanto modesto, infatti, l’hospitium del vescovo di Ferentino ospitava al suo interno non solo il vescovo e suo nipote, ma anche altre persone, che pure vivevano con lui10: questo dal testo di Gregorio lo si deduce con sicurezza, anche se certo non si trattava della numerosa corte che attorniava un vescovo contemporaneo di Bonifacio come il milanese Dazio. La corte di Dazio seguiva quest’ultimo nei suoi spostamenti, tanto che il vescovo, giunto a Corinto sulla via per Costantinopoli, dovette affittare per la sosta una larga domus per accogliere tutto il suo comitatus, il suo seguito, e replicare così le condizioni abituali della sua residenza11. Questi spunti sono utili proprio per impostare la questione della residenza vescovile. Secondo Maureen Miller, che a questo tema ha de-
Gregorio Magno, Dialogi, ed. U. Moricca, Roma, 1924, 1, 9, pp. 50-8. Ibid., 1, 6, p. 42, e 3, 9 e 10, p. 153-6 (e cfr. Gasparri, «Recrutement social», pp. 140-1). 9 Gregorio Magno, Registrum Epistolarum, ed. P. Ewald, L.M. Hartmann, in MGH, Epistolae, 2, Berlin 1899, l.11, n. 3 (settembre 600), pp. 261-2 e l.14, n. 15 (gennaio 604), pp. 434-5. 10 Cfr. supra, nota 7. 11 Gregorio Magno, Dialogi, 3, 4, pp. 142-4. 7 8
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dicato un importante volume, nell’alto medioevo il termine per la residenza episcopale sarebbe passato da episcopium, caratteristico dell’età tardoantica e che sottolineava la contiguità, o addirittura l’unione tra dimora vescovile e chiesa, a quello di domus. Un cambio di definizione che corrisponderebbe ad una trasformazione e semplificazione degli ambienti rispetto a quelli della tarda antichità. Nello stesso tempo, il ruolo dominante del vescovo e della sua residenza rispetto alla cattedrale comincerebbe a diminuire, a causa della progressiva separazione dal clero che si avvia a diventare capitolo: un processo, questo, iniziato lentamente a partire dall’età carolingia, e che avrebbe portato la residenza ad allontanarsi anche fisicamente dal duomo. Nel X secolo poi, sempre secondo la Miller, le residenze vescovili diventerebbero residenze fortificate, in corrispondenza anche del cambio di funzioni del vescovo: come riconoscimento del suo accresciuto ruolo politico nella città, nell’XI secolo apparve la parola palatium per indicare la residenza vescovile12. Lasciando agli archeologi la verifica dell’evidenza materiale di queste trasformazioni, cercherò di seguire almeno gli inizi di questo processo sulla documentazione d’archivio, dalla quale in realtà anche la Miller trae la maggior parte delle sue conclusioni. Nel IX secolo gli esempi di citazioni nelle carte di domus vescovili sono molteplici e riguardano moltissime città dell’Italia centro-settentrionale. L’esempio forse più precoce è quello lucchese, dove domus si trova impiegato più volte già nell’VIII secolo, quando alcune carte, riguardanti proprietà o diritti della chiesa lucchese, risultano redatte proprio “in domo sancte ecclesie”. Dalla fine del secolo il termine ricorre soprattutto nei placiti, che erano spesso presieduti dai vescovi o tenuti in loro presenza: nel 785 un placito si tiene in “ecclesia Sancti Martini domo episcopali”; nel 786 il giudizio si svolge “in domo sanctae ecclesie”13. Lo stesso accade a Pisa nell’858, dove il vescovo e gli scabini giudicano “in domo huius episcopati Pisensis”14. Il tipo di espressioni
M.C. Miller, The bishop’s palace: architecture and authority in medieval Italy, Ithaca-London, 2000, pp. 16-85. 13 C. Manaresi, I placiti del «Regnum Italiae», 1-2, Roma, 1955-57, 1, nn. 6-7, pp. 14-23. 14 Ibid., n. 62, p. 223-7: all’inizio del placito, in presenza dei vassi e dei giudici imperiali, i membri del colegio giudicante sono “resedentes in iudicio in sala olim Aganoni comiti”; poi, partiti i primi, il vescovo e gli scabini si riuniscono “in domo huius episcopatui Pisensis”. 12
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impiegate non consente però di vedere il processo di cui parla la Miller, perché domus ed ecclesia appaiono inestricabilmente legate insieme nelle diverse formule impiegate. La domus è la casa del vescovo ed è strettamente collegata alla chiesa: due carte lucchesi del 759 parlano della chiesa di S. Martino (la cattedrale) “ubi est domo episcopii”, ovvero “ubi est domo episcoporum”15. È possibile provare a riempire di contenuto la domus vescovile, sempre in stretto legame con la chiesa. Nel 764 una carta che attestava la donazione da parte del chierico Osprando della chiesa di S. Maria, da lui stesso fondata, alla chiesa episcopale di S. Martino, risulta emessa in due copie: “unam emisi in arcio eclesiae Sancti Martini, ubi est domo episcoporum, alia uero in arcio suprascripte eclesiae Sanctae Marie”16. Interpreto arcio come archivio, e se l’interpretazione è corretta troviamo qui un’esplicita menzione dell’archivio episcopale, collocato nella domus del vescovo. C’è poi il caso del chierico Ilprando, che in una carta del 759 già citata, avendo ricevuto dal vescovo lucchese Peredeo per sé e per suo figlio la chiesa di S. Tommaso, promette di adempiere a tutti gli obblighi relativi rispetto al vescovo. Nella carta si dice che Peredeo aveva dato a Ilprando e al figlio la chiesa, con tutto ciò che ad essa era pertinente, “per cartis volumine”: torna quindi l’esplicito accenno all’attività di produzione di una documentazione scritta, da conservare poi nell’archivio situato nella chiesa episcopale o (forse meglio) nella domus ad essa annessa; accenno che torna implicito più avanti, quando Ilprando dice “promitto et manus mea facio tibi”, perché vuol dire che lui sottoscrive di sua mano, per iscritto, la sua promessa17. Questa intensa attività di produzione scrittoria e di conservazione archivistica, legata alla residenza vescovile, torna in un famoso documento, l’inchiesta effettuata nel 715 dal notaio Gunteram per conto di Liutprando nell’ambito della controversia fra le sedi episcopali di Siena e Arezzo. Qui sono parecchi i chierici che, ricordando di essere stati consacrati dal vescovo di Arezzo nella chiesa di S. Donato, usano un’espressione analoga a quella di Ilprando; due di loro specificano anche “promitto et manu mea scripsi”, a dimostrazione del fatto che il giuramento prestato al vescovo in occasione della consacrazione avveniva per L. Schiaparelli, Codice Diplomatico Longobardo, I-II, Fonti per la storia d’Italia 62-63, Roma, 1929-33, II, nn. 140 e 175. 16 Ibidem, n. 175. 17 Ibidem, n. 132. 15
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iscritto e confluiva quindi nell’archivio vescovile. Sempre all’interno dell’archivio confluivano probabilmente anche le epistolae che – è sempre l’inchiesta di Gunteram a rivelarlo – i chierici portavano con loro al momento della consacrazione, e che erano scritte dagli ufficiali pubblici locali (per esempio i gastaldi) per richiedere al vescovo di effettuare la cerimonia. Si tratta di una documentazione che in parte almeno viene prodotta materialmente nel corso dell’inchiesta, e che dunque era stata conservata nell’archivio vescovile18. Una funzione, questa della documentazione scritta e della sua conservazione, che si muoveva in una dimensione in bilico fra pubblico e privato, per quanto (a stento) quest’ultima dimensione possa essere applicata a un vescovo: in quanto si trattava sia di documentare gli obblighi – ecclesiastici, ma anche legati alla gestione patrimoniale – del clero collocato nelle varie chiese, sia di legittimare, consacrandola, la gerarchia ecclesiastica della diocesi, una funzione questa di tipo pubblico, visto il rilievo che il clero rivestiva nella vita sociale delle diverse comunità locali. Il binomio domus/ecclesia costituiva dunque lo spazio fondamentale nel cui ambito agiva il vescovo. In esso si svolgeva anche un’attività di formazione del clero: il vescovo Teodoaldo di Fiesole ricorda infatti, sempre in occasione dell’inchiesta di Gunteram del 715, che “per annos pluris in eclesia Sancti Donati notritus et litteras edoctus sum”: qui si dice ecclesia e dobbiamo ritenere invece che si parli piuttosto della domus, ma è comunque la prova che c’è una continuità assoluta tra queste due realtà, almeno nei più antichi esempi toscani che stiamo esaminando. Oltre alla consacrazione dei chierici, nella chiesa avveniva anche la consegna del sacro crisma, che costoro poi portavano nelle loro chiese: la trasmissione dell’olio consacrato costituiva un legame saldissimo tra vescovo e clero della diocesi, lo si vede perfettamente nello stesso documento di Gunteram, dove tutti i preti affermano di recarsi periodicamente a tale scopo nella chiesa di S. Donato. C’era perciò un movimento del clero in direzione della domus e della ecclesia vescovile; e non sempre era un movimento facile, se è vero che nel 770 il chierico lucchese Omulo dovette assumersi l’impegno di effettuare una vera e propria cavalcata in armi per recarsi nella cattedrale di Pisa, insieme con i locali presbyteri, per prenSchiaparelli, Codice Diplomatico Longobardo, I, n. 19; cfr. S. Gasparri, «Culture barbariche, modelli ecclesiastici, tradizione romana nell’Italia longobarda e franca», Reti Medievali Rivista, 6, 2005/2. 18
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dere il crisma destinato alla chiesa di S. Martino in Colline19. Il termine impiegato, cavallicatura o caballicatio, nelle leggi longobarde indica un pattugliamento o spedizione armata di tipo pubblico, e ciò colloca di nuovo queste attività che ruotano intorno al vescovo in una sfera che appare fortemente sbilanciata in senso pubblico20. Un’altra dimostrazione della caratterizzazione pubblica della residenza vescovile, stavolta però vista da una prospettiva diversa, ci viene da una lettera di Giovanni VIII del settembre 880. Scrivendo all’arcivescovo di Ravenna Romano, a proposito della causa da quest’ultimo intentata contro una nobile coppia ravennate, da lui accusata di matrimonio incestuoso, il papa dice che Maria, la sposa, a nome anche di suo marito Deusdedit rivendicava la legittimità della sua unione non solo con il fatto che suo padre era consenziente, ma anche perché il vescovo stesso “ad communem mensam saepe non solum admisisse, sed etiam invitasse” la coppia ora oggetto di inchiesta. In questo modo il papa, grazie alla testimonianza di Maria, ci rivela implicitamente che alla mensa episcopale – a Ravenna, ma probabilmente anche altrove – soleva riunirsi l’élite cittadina, che celebrava così delle riunioni comunitarie intorno al vescovo. Nel caso specifico trattato da Giovanni VIII, è evidente quindi che l’ammissione alla tavola vescovile aveva significato l’accettazione pubblica, davanti a tutti, da parte del vescovo stesso della liceità dell’unione matrimoniale fra Maria e Deusdedit21. Restiamo ancora nella residenza del vescovo. Qui le fonti normative di età carolingia, i capitolari e i sinodi vescovili del regno italico, ci forniscono interessanti squarci sulla vita che si svolgeva al suo interno, o meglio ce ne mostrano i possibili aspetti devianti – ma non per questo meno reali. Il primo intervento, non riferito per la verità solo al vescovo, è quello di un capitolare dell’età di Pipino, che ribadisce una clausola del concilio di Nicea vietando di introdurre una donna nella residenza
Schiaparelli, Codice Diplomatico Longobardo, II, n. 246. Il termine si trova nel capitolo 4 delle leggi di Ratchis: C. Azzara, S. Gasparri, Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, Roma, 2005, p. 263. 21 Giovanni VIII, Epistolae, ed. E. Caspar, in MGH, Epistolae, VIII, Berlin 1928, n. 261. Se poi Romano aveva cambiato idea, dichiarando illecita l’unione, lo aveva fatto evidentemente per eliminare un avversario politico: su tutta la vicenda, M. Betti, «Incestuous marriage in late Carolingian Ravenna: the causa Desudedit (878-891)», Early Medieval Europe, 23/4, 2015, pp. 457-77. 19
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del vescovo22. A questo divieto (ripetuto anche successivamente) fa seguito pochi anni dopo la proibizione per i vescovi, oltre che per il clero e i monaci, di praticare la caccia o anche solo di assistervi, o di assistere a qualunque tipo di gioco (iocorum genera) che sia contrario ai canoni23. Più direttamente collegato alla residenza del vescovo è quanto stabilito invece dal sinodo di Pavia dell’850 all’età di Ludovico II. Qui si esorta in modo esplicito il vescovo a contentarsi di pasti moderati e si specifica che dai suoi conviti devono essere allontanati tutti gli spettacoli giocosi (ludicra spectacula), il ciarlare degli attori, le chiacchiere degli sciocchi o i giochi di prestigio dei buffoni. Al contrario, devono essere presenti pellegrini, pauperes e malati e vi si deve recitare la sacra lectio 24. Qui siamo davvero nel cuore della domus del vescovo, e la volontà sinodale è quella di recidere dei comportamenti che possiamo presumere diffusi, in quanto tipici dell’aristocrazia della quale i vescovi carolingi facevano parte25. Nello stesso senso va la proibizione, ribadita, di praticare la caccia con i cani, con gli sparvieri o con i falconi, di avere cura di cavalli e muli o di vesti lussuose. Al contrario, dai vescovi si vuole che celebrino messe quotidiane, che pratichino la predicazione e l’istruzione del clero26. È chiaro che c’è un modello teorico che stride con una realtà che in molti casi appare differente: lo stesso esempio appena riportato, relativo alla mensa del vescovo ravennate Romano, ci fa capire come, in molti
Capitularia regum Francorum, I, ed. A. Boretius e V. Krause, in MGH, Legum sectio II, I-II, Hannoverae 1883-97, I, n. 100, c. 1: “ut nulli episcopo vel presbitero atque diacono sive clerico introductam non habeat mulierem, simul nec ancillam aut aldiam quae in opinione adulterii manet aut diffamatur”, facendo eccezione solo per la madre, la sorella o la zia. 23 Ibidem, n. 92, c. 6 (Mantova, gennaio 813). Il divieto relativo alle donne è ripetuto più volte, ad esempio in un capitolare di Lotario: Capitularia, II, n. 168, c. 7 e nel capitolare pavese di Carlo il Calvo, ibidem, n. 221, c. 9. 24 Capitularia, II, n. 228, c. 3. 25 B. Dumézil, «Les jeux de société (Ve-Xe siècle): entre convivialité et competition», in F. Bougard, R.Le Jan, T. Lienhard (dir.), Agôn. La competion, Ve- XIIe siècle, Turnhout, 2012 (Collection Haut Moyen Âge, 17), pp. 45-58. 26 Capitularia, II, n. 228, c. 2, 4 e 5. Il sinodo dell’850 si occupa anche della stanza da letto del vescovo (c. 1): “oportet igitur, ut cubiculo episcopi et secrecioribus quibuslibet obsequiis sincerae opinionis sacerdotes et clerici assistant”, sia che il vescovo vegli, preghi o studi le Sacre Scritture. 22
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casi, fosse difficile attenersi davvero alle norme stabilite dai sinodi27. Per diminuire il più possibile questa divaricazione tra teoria e pratica quotidiana si punta sulla vita comune di vescovi e clero, cercando così di mantenere entrambi nel solco corretto della vita ecclesiale. Nell’876 Carlo il Calvo impone che tutti i vescovi fondino nelle loro città un claustrum – un luogo chiuso, recintato – nel quale essi, con il loro clero, secondo i canoni dovevano servire Dio, “Deo militant”: lì spazio per buffoni, cani e falconi evidentemente non poteva esserci28. La funzione vescovile è sottratta così con forza ad una sua possibile dimensione – meglio, forse, deriva – privata, tutta schiacciata sui costumi aristocratici. In un modo solo apparentemente paradossale, la ‘chiusura’ del vescovo insieme al clero è infatti proprio la premessa necessaria perché i vescovi (e il clero con loro) possano assolvere pienamente ai compiti che la comunità e il sovrano si aspettano da loro, e che erano compiti pubblici, rivolti all’intera comunità. Nonostante ogni possibile deviazione, la casa del vescovo rimaneva un luogo circonfuso di una forte aura sacrale. Eppure talvolta questo spazio veniva violato. Il riferimento è ai saccheggi, dall’evidente carattere rituale, che si verificavano alla morte di un vescovo. Si tratta di un argomento difficilissimo da trattare, a causa della scarsità e forse anche della reticenza delle fonti: tuttavia può essere importante proprio per caratterizzare la figura vescovile nella sua dimensione pubblica. Per sfruttare il poco che sappiamo dobbiamo partire da lontano, dal concilio di Calcedonia del 451, uno dei concili fondanti della chiesa cattolica, dove il canone ventiduesimo stabilisce che i chierici, dopo la morte del proprio vescovo, non devono appropriarsi dei suoi beni; il testo recita: “non è lecito ai chierici, dopo la morte del proprio vescovo, appropriarsi dei suoi beni, come del resto è stato interdetto dai canoni antichi; quelli che osassero ciò rischiano di perdere il loro grado”29. È dunque già un’abitudine antica, quella che è condannata a Calcedonia, risalente ai primi tempi dell’organizzazione delle comunità cristiane. Essa traduce l’idea che, nel trapasso da un vescovo all’altro, i beni della chiesa episcopale non siano
Cr. sopra, nota 21. Ibidem, n. 221, c. 8. 29 J.D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, 6, Graz, 1960, col. 1229: “XXII. Non licere Clericis post mortem sui Episcopi rapere res ad eum pertinentes, sicut et pridem a canonibus interdictum est: et hoc facientes periclitari suo gradu”. 27 28
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di nessuno e possano quindi tornare nella disponibilità della comunità che ad essa fa riferimento, quella di cui il vescovo stesso è l’espressione e il capo naturale; prova, in questo senso, della natura pubblica del vescovo e dei suoi beni, compresa la sua stessa residenza fisica, verso cui soprattutto si appunta la volontà di saccheggio. A moderare eccessi interpretativi, va detto che seguiamo male la sopravvivenza di quest’uso, e che inoltre lo vediamo soprattutto riferito alla chiesa romana, tant’è vero che gli studi – a partire da quello classico di Reinhard Elze del 197830 – si sono per lo più riferiti solo ad essa, mettendo in grande evidenza la norma contenuta nella Constitutio romana di Lotario dell’824, dove si proibiscono i saccheggi commessi alla morte del pontefice “que hactenus fieri solebant”; e per Roma lo studio di Elze dimostra che (oltre ad una traccia più antica, riferibile all’età di Gregorio Magno31) ci sono altre prove di saccheggi in età successiva32. Ma ci sono anche testimonianze per noi più interessanti, che riguardano direttamente i vescovi e che sono relative al IX secolo. La prima è rappresentata da un capitolare pavese di Carlo il Calvo, nel quale nell’876 a Pavia si stabiliva che, alla morte di un vescovo, nessuno “facultates eius invadat”, saccheggi i suoi beni e li trasferisca nel proprio uso33. La seconda è relativa al Concilio romano dell’898, dove si condanna la scelestissima consuetudo per cui, alla morte del pontefice, “ipsum patriarchium depredari soleat”, perpetrando saccheggi anche in
R. Elze, «Sic transit gloria mundi. Zur Tode des Papstes im Mittelalter», Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelaters, 34, 1978, pp. 1-18. Il tema, in una dimensione temporale più ampia, è stato trattato anche da C. Ginzburg, «Saccheggi rituali. Premesse a una ricerca in corso», Quaderni storici, 65, 1987, pp. 615-36, che adombra la possibilità che questi saccheggi possano essere interpretati come forme di riti di passaggio. 31 Gregorio Magno, Registrum, I, l. V, n. 57a. Si tratta degli atti del Concilio romano del 595, dove si condanna l’uso, da parte del popolo, di fare a pezzi la veste del pontefice defunto: “Ex amore quippe fidelium huius sedis rectoribus mos ultra meritum erupit, ut, cum eorum corpora humi mandata deferuntur, haec dalmaticis contegant easdemque dalmaticas pro sanctitatis reverentia sibimet partiendas populus scindet”; per questo motivo si proibisce d’ora in avanti di coprire con una veste il corpo del pontefice condotto al sepolcro. 32 Costituzione romana: Capitularia, II, n. 161, c. 2. V. poi Liber Pontificalis, ed. L. Duchesne, II, Paris, 1885, p. 192 (saccheggio del palazzo papale nell’885 alla morte di Adriano III). 33 Capitularia, II, n. 221, c. 14. 30
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tutta la città e nel suburbio, e si sottolinea il fatto che – visto che fino ad ora si era trascurato di intervenire – quest’uso si era esteso anche a tutti gli episcopati34. Sono entrambi chiari esempi di una consuetudine, rituale e concreta al tempo stesso, che aveva resistito per secoli e che riguardava i vescovi in generale, anche se il caso romano è quello meglio illuminato dalle fonti. L’accenno successivo, contenuto nel medesimo capitolare pavese dell’876 appena citato35, alla libertà che doveva essere riconosciuta agli esecutori testamentari della chiesa episcopale, di riservare in tutto o in parte i beni per il futuro vescovo oppure di dispensarli per l’anima del defunto, getta un’ombra sul proclamato carattere pubblico dei beni in questione, mostrando chiaramente il processo secondo il quale il vescovo tendeva ad appropriarsi per sé, i suoi familiari e clienti, delle proprietà della chiesa; ma è un processo – reso evidente anche da alcuni testamenti di vescovi, soprattutto nel X secolo36 – che appunto la comunità contrasta con forza, addirittura con violenza. Si tratta di una lotta che continuerà, come è noto, nei secoli successivi. La natura pubblica dei beni episcopali, e della stessa residenza del vescovo, è confermata in modo indiretto dal curioso parallelismo esistente fra il saccheggio dei palazzi vescovili (o papali) e quello del palazzo del doge veneziano, un fatto quest’ultimo che è testimoniato per la prima volta al momento dell’elezione di un nuovo doge, Domenico Silvo, nel 1071: dal tono della narrazione, opera di un chierico veneziano testimone oculare degli avvenimenti, il saccheggio appare un uso normale37. In questo caso, il rapporto fra una comunità e il suo capo naturale (che qui è esplicitamente un capo politico) è del tutto evidente. Forse, il fatto che a Venezia il vescovo non domini mai la città, e si trovi Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, 18a, Graz ,1960, col. 226: “adeo ut omnia episcopi eadem patiantur uniuscuiusque ecclesiae obeunte pontifice”. In realtà, come abbiamo visto, era un uso antico, e dunque la sua diffusione nei vari episcopati non dipendeva solo dalla trascuratezza nel reprimerlo. 35 Per di più nel medesimo cap. 14: v. sopra, nota 33. 36 S. Gasparri, «I testamenti nell’Italia settentrionale fra VIII e IX secolo», in F. Bougard, C. La Rocca, R. Le Jan, Sauver son âme et se perpétuer. Transmission du patrimoine et mémoire au haut moyen âge, Roma, 2005 (Collection de l’École française de Rome, 351), pp. 97-113. 37 S. Gasparri, «Dagli Orseolo al comune», in Storia di Venezia, I, Origini–Età ducale, Roma, 1992, pp. 817-8. Per una prosecuzione nei secoli successivi, E. Muir, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton, 1981, p. 269. 34
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per di più confinato ai margini di essa – sull’isola di Olivolo, mentre il centro urbano si sviluppa a Rialto –, può spiegare come mai quest’uso si sia rivolto verso il palazzo ducale (annesso per di più alla cappella di S. Marco) anziché verso quello vescovile38. Lasciamo il caso veneziano, indubbiamente troppo anomalo. Dopo aver proposto alcuni esempi di azione vescovile all’interno della sua residenza, o anche di azioni che verso di essa venivano esercitate, vorrei esaminare adesso il movimento opposto: il vescovo in azione nello spazio della sua diocesi. Anche in questo caso, sono i momenti di conflitto a svelarci le modalità di intervento, normali o straordinarie, del vescovo. Nel già citato giudicato del 715 si vede bene come i vescovi tendano a marcare il loro dominio sul territorio, recandosi appositamente a svolgere i riti e a consacrare le chiese e i singoli altari oltre che, cosa ancora più significativa, i fonti battesimali. Nel caso citato, la consacrazione di fonti battesimali avviene per rivendicare, da parte del vescovo senese, l’appartenenza di una serie di chiese locali alla sua diocesi. Gli interventi avvengono anche di notte per evitare l’ostilità della popolazione, che allora era compattamente schierata, nelle zone contese, a favore di S. Donato di Arezzo: così fece il vescovo senese Adeodato nella chiesa di S. Ansano e in altre chiese vicine, mettendo oltre tutto come prete un bambino di dodici anni “qui nec vespero sapit, nec madodinos facere, nec missa cantare”39. Quindi Adeodato aveva mancato non solo perché aveva usurpato i diritti di Arezzo, ma anche perché non era stato in grado di fornire un personale ecclesiastico adeguato. La violenza effettuata dai vescovi verso le chiese battesimali viene del resto espressamente condannata da un capitolare mantovano dell’81340. Ed è ancora una volta questo tipo di fonti – i capitolari carolingi italici – a fornirci altri spunti interessanti per il rapporto vescovo-diocesi. A Mantova, nel 781, si stabilisce che quando un vescovo “per sua parrochia cercata fecerit”, il conte e i suoi ufficiali debbano aiutarlo perché
Per una visione aggiornata dello sviluppo topografico di Venezia, S. Gelichi, «La storia di una nuova città attraverso l’archeologia: Venezia nell’alto medioevo», in V. West-Harling (ed.), Three empires, three cities: identity, material culture and legitimacy in Venice, Ravenna and Rome, 750-1000, Seminari SAAME 6, Turnhout, 2015, pp. 51-89. 39 Cfr. sopra, nota 18. 40 Capitularia, I, n. 92, c. 4. 38
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egli riesca nel suo intento secondo i canoni41; e una norma di un capitolare di Pipino (806-10) chiarisce che la cercata era un giro della diocesi, effettuato dal vescovo prima di tutto allo scopo di mantenere o ristabilire le norme regolari di vita ecclesiastica, una cosa che stava molto a cuore al legislatore carolingio, che interviene su questo punto in svariate occasioni chiedendo ai vescovi di svolgere i loro compiti religiosi (predicazione e cresima) e di controllare in special modo i monasteri42. Al tempo stesso, però, per il vescovo la cercata era anche un mezzo sia per riscuotere censi, aggiuntivi rispetto a quelli regolari (none e decime), sia per farsi mantenere, in modo del tutto analogo a quello che accadeva agli ufficiali pubblici quando erano in viaggio: un’equiparazione questa già esplicitata in un capitolare del 787 dove si era parlato di vescovi, abati o pubblici ufficiali in viaggio verso e dal palazzo regio43. None e decime, dal canto loro, dovevano servire anche per prendersi cura delle chiese locali, che dovevano essere riparate (il tetto innanzitutto) e fornite soprattutto delle luminariae, indispensabili perché i presbyteri potessero viverci44. Quanto al giro della diocesi, esso non doveva assolutamente tradursi in un’oppressione delle pievi da parte del vescovo e dei suoi uomini: giacché il vescovo, ovviamente, si spostava con un seguito imponente, certo formato, oltre che dai chierici, anche da quei seguaci armati di cui si parla nel capitolare di Lotario dell’82545. In un capitolare di Ludovico II, alla metà del secolo IX, per evitare abusi si arriva addirittura a dettagliare quanto i vescovi, nel girare per le loro diocesi, potevano pretendere: 100 pani, 4 maialini da latte, 50 sestari di vino, e poi di seguito polli, agnelli, maiali, uova, formaggi, miele, olio, foraggio, fieno, cera… di tutto si stabilisce la quantità esatta, tranne che per miele, olio e cera (per i quali si dice solo: quanto serve, “quod sufficit”)46. Al di là dei limiti posti agli abusi, il punto centrale era che il vescovo doveva esercitare la sua autorità, secondo i canoni, sulla sua diocesi (la
Ibidem, n. 90, c. 6. Ibidem, n. 102, cc. 1 e 7 (datato fra l’806 e l’810). 43 Per i censi riscossi dal vescovo cfr. nota precedente (n. 102, c. 7); per i viaggi dei vescovi, Ibidem, n. 94, c. 4. 44 Ibidem, n. 83, c. 4 (813). 45 Divieto di opprimere la diocesi: Ibidem, n. 92, c. 5; per gli uomini dei vescovi, Ibidem, II, n. 162, c. 2. 46 Capitularia, II, n. 210, c. 15. 41
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sua parochia), come è solennemente ribadito nell’81347. E ciò non era del tutto scontato, perché nello spazio della propria diocesi il vescovo doveva confrontarsi con il fenomeno delle chiese familiari fondate dall’aristocrazia48. Nei loro confronti la concorrenzialità appare ancora forte alla fine del secolo IX: al centro dello scontro era la riscossione delle decime, che i fondatori delle chiese volevano indirizzare verso le loro fondazioni familiari, anziché verso il vescovo o le chiese che questi indicava come destinatarie del tributo e che, di norma, dovevano essere le chiese dove i laici ricevevano il battesimo49. Il potere che derivava dalla consacrazione di un fonte battesimale era tale, che, per limitarlo, il capitolare di Corteolona dell’822-23 deve specificare che, anche se un vescovo ha consacrato un fonte in una chiesa fondata – naturalmente con il consenso del vescovo stesso – da un uomo libero sulla sua proprietà privata, quest’ultimo non perderà i diritti di proprietà su quella chiesa50. Al limite il vescovo (sembra di capire, se non si trova l’accordo) trasferirà la funzione battesimale in una sua chiesa: a tal punto questa funzione era legata alla figura del vescovo, che la esercitasse di persona – magari durante i suoi giri della diocesi – o meno. Alla luce di queste norme, le vicende sopra ricordate di Siena e Arezzo acquistano maggiore senso e al tempo stesso danno concretezza a ciò che qui è stabilito in senso generale. Il capitolare di Carlo il Calvo dell’876, infine, ci suggerisce che i tempi stanno cambiando. In esso, l’antico giro delle diocesi da parte dei vescovi agli antichi doveri pastorali unisce l’attività di repressione dei crimini: l’esercizio della giustizia è ormai pervenuto nelle loro mani51. In tal modo si accenna a un tema molto ampio, che però non è possibile, e direi nemmeno utile affrontare qui, visto che la funzione giudiziaria dei vescovi rappresenta un fenomeno molto studiato52. A questo proposito, sottoli-
Capitularia, I, n. 84, c. 4. C. La Rocca, «Le élites, chiese e sepolture familiari tra VIII e IX secolo in Italia settentrionale», in P. Depreux, F. Bougard, R. Le Jan (dir.), Les élites et leur espaces. Mobilité, rayonnement, domination (du VIe au XIe siècle), Turnhout, 2007 (Collection Haut Moyen Âge, 5), pp. 259-71. 49 Capitularia, II, n. 225, c. 9 (capitolare ravennate attribuito a Lamberto). 50 Capitularia, I, n. 157, c. 2. 51 Capitularia, II, n. 221, c. 6. 52 Su tutta la questione della giustizia nel regno italico, F. Bougard, La justice dans le royaume d’Italie de la fin du VIIIe siècle au début du XIe siècle, Rome, 1995 (Biblothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, 291). 47 48
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neo solo il fatto che, poiché i placiti si svolgevano di frequente – come abbiamo già visto53 – nella residenza stessa del vescovo, quest’ultima si arricchì in tal modo di una classica funzione pubblica qual era quella giudiziaria: un bell’esempio di questa evoluzione è il placito cremonese dell’851/52, che si svolse appunto nella domus vescovile – con il vescovo che sedeva nel collegio giudicante – nonostante che la chiesa cremonese e il suo vescovo fossero parte in causa nel dibattimento, che riguardava la riscossione dei dazi relativi al commercio fluviale54. Questa funzione giudiziaria si svolgeva nell’ambiente principale della casa o palazzo vescovile, come vediamo da un esempio più tardo: “in caminata maioris sale, scilicet domus episcopi sancte Ticinensis ecclesie”, dice infatti un placito pavese del 967, tenutosi alla presenza dei sovrani Ugo e Lotario, che ci rivela anche che la domus vescovile si trovava sempre ad essere strettamente contigua alla chiesa cattedrale55. Un’altra testimonianza, che va nello stesso senso, è poco più antica, del 944: a Reggio, il marchese Oberto tiene un placito “ad domum ipsius sancte Regiensis eclesie infra castro ipsius domui, in sala qui est iusta ipsam matrem eclesia, laubia ipsius sale”56. Abbiamo così una bella descrizione della sala principale della domus vescovile: se a Pavia si trattava di una grande sala con camino, qui sappiamo che la domus era inserita in un castrum interno alla città, che la sala dove si svolgeva il placito era ancora una volta attigua alla cattedrale e che era un ambiente porticato. Testimonianze come queste, peraltro molto più tarde rispetto alle altre fonti fin qui considerate, sono rare. Esse ci rivelano inoltre che, anche se talvolta non era il vescovo a presiedere il giudizio, il palazzo stesso aveva assunto una funzione pubblica, indipendente dalla figura del vescovo: come accadde nel già citato placito del 967, quando comunque il giudizio avvenne dietro licenza del vescovo pavese Liutfredo. Tutta la documentazione del X secolo, che come si vede è molto ricca, andrebbe sottoposta a un’analisi approfondita, che però andrebbe al di là del periodo che intendo analizzare in questo saggio. Rispetto al tema generale che dovevo affrontare, lo spazio del vescovo come nuova dimensione dello spazio pubblico, ho potuto fornire qui solo alcuni elementi. Però credo sia risultato chiaro che quella vesco53 54 55 56
Cfr. sopra, testo e note 13 e 14. Manaresi, I placiti, 1, n. 56, pp. 193-8. Manaresi, I placiti, 2/1, n. 158, pp. 63-76. Manaresi, I placiti, 1, n. 142, pp. 533-47.
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vile era una figura eminentemente pubblica, e ciò indipendentemente dall’addensarsi sulla sua figura, a partire da un certo momento in poi, di prerogative pubbliche nel senso classico del termine, quali sono quelle che derivarono dallo sviluppo e dalle successive modificazioni dell’ordinamento carolingio fra la fine IX e il X secolo. Fra queste ultime prerogative ho ricordato solo la giustizia, ma avrei potuto parlare di moltissime altre cose: del controllo delle mura e dunque della città ottenuto dal vescovo, della sua capacità di intervento sulla stessa sistemazione urbanistica cittadina, oppure della concessione al vescovo della giurisdizione sulla città e il territorio limitrofo, tutte concessioni che appaiono nel X secolo a coronamento di un lungo processo; temi del resto che sono tutti abbondantemente presenti nella storiografia classica e che qui è sufficiente richiamare57. Così come è ben noto il ruolo pubblico esercitato dal vescovo già all’interno dell’ordinamento carolingio58. In questa sede, a me interessava sottolineare altri fatti. Prima di tutto, la circostanza (come ho appena ricordato) che questa fisionomia pubblica era molto più antica dell’età carolingia o postcarolingia, come mostra, anche restando all’interno del periodo qui considerato, l’azione di Felice, di Gregorio Magno e persino del modesto vescovo Bonifacio59. Ciò voleva dire anche che tale fisionomia non era legata solo allo sviluppo delle istituzioni carolingie, per quanto queste possano averla favorita. A questo proposito può essere utile riportare una testimonianza in parte solo assimilabile a quella rivelata dai placiti italici, e in parte invece rivelatrice di una realtà di matrice bizantina, quella del placito di Risano dell’80460. Valga, per tutti, il riferimento al classico lavoro di G. Tabacco, «La sintesi istituzionale di vescovo e città e il suo superamento nella res publica comunale», in Idem, Egemonie sociali e strutture di potere nel medioevo italiano, Torino, 1979, pp. 400-27. 58 Oltre al saggio di Tabacco nominato sopra, si veda anche P. Delogu, «Lombard and Carolingian Italy», in R. McKitterick (ed.), The New Cambridge Medieval History, II (c. 700-c. 900), Cambridge, 1997, pp. 307-8, e S. Gasparri, Italien in der karolinger Zeit, in W. Pohl, V. Wieser (Hrsg.), Der Frühmittelalterlichen Staat. Europäische Perpektiven, Wien, 2009 (Forschungen zur Geschichte des Mittelalters, 16), pp. 63-71. 59 V. supra, testo e note 2, 5, 7, 10. 60 Manaresi, I placiti, 1, n. 17, pp. 48-56. Il placito è stato riedito e commentato in A. Guillou, Régionalisme et indépendance dans l’empire byzantin au VIIe siècle, Rome, 1969, pp. 294-307; sul suo significato, v. anche S. Gasparri, «Venezia fra i 57
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Qui il protagonista è il patriarca di Aquileia Fortunato, che è sottoposto a una dura contestazione da parte dei maggiorenti istriani, dalla quale esce comunque con successo: quello che è messo in discussione è il modo con cui il patriarca esercita la sua funzione di dominus di terre e uomini, di diritti signorili ed economici. Ma accanto ad essa c’è il riconoscimento del superiore ruolo gerarchico di Fortunato, che si concretizza nel rituale dell’accoglienza nelle varie città istriane, nella consegna delle chiavi delle città (un atto che conosciamo anche in riferimento al papa Adriano I e ad alcune città del ducato beneventano)61 e nel suo soggiorno nei palazzi vescovili. All’interno della provincia ecclesiastica aquileiese, la figura di Fortunato è chiaramente pubblica, nonostante che vi sia un duca istriano, Giovanni, saldamente in funzione. Tutto ciò risale al periodo della dominazione bizantina, ma si inserisce bene nel nuovo ordine carolingio, a conferma di un ruolo connaturato alla funzione vescovile. Il fatto che Fortunato sia un arcivescovo poi non cambia le cose, se non per il livello superiore al quale egli si muove rispetto a un semplice vescovo. In secondo luogo, e soprattutto, mi interessava cercare di declinare le funzioni del vescovo all’interno dello spazio binario rappresentato dalla sua residenza cittadina e dalla sua diocesi, riempiendo entrambe di atti concreti. E qui sono state le testimonianze della tarda età longobarda e poi i capitolari e i sinodi italici di età carolingia a fornirci delle testimonianze interessanti, evidenziando come – al netto delle resistenze dell’aristocrazia locale – il vescovo avesse ormai assunto effettivamente un ruolo dominante nel territorio della diocesi. Domus o palazzo vescovile e diocesi (o parochia, come è chiamata spesso nelle fonti): lo spazio del vescovo in realtà non si esaurisce qui. Ci sarebbero altri spazi, ai quali dedicare delle riflessioni. Il primo e più ovvio è quello della corte: già nel VII secolo troviamo vescovi a corte. È un tema amplissimo, del quale porto qui solo un esempio, relativo al periodo più antico: il vescovo Giovanni che banchetta al palazzo di Pavia con Cuniperto, il quale al momento di congedarlo gli regala un cavallo non domo per ucciderlo; un aneddoto che rivela però l’uso di doni da parte regia, anche di quel tipo di beni superflui che i vescovi forse amavano troppo, secoli VIII e IX. Una riflessione sulle fonti», in G. Ortalli, G. Scarabello (a cura di), Studi Veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia, 1992, pp. 3-18. 61 Codex Carolinus, ed. W. Gundlach, in MGH, Epistolae, III, Hannoverae 1892, n. 84 (anno 788).
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come ricordava il sinodo pavese dell’850 che ho citato prima62. Lo stesso re poi organizzò addirittura un sinodo di vescovi nel suo palazzo, il sinodo pavese del 698 che abolì i Tre Capitoli, a riprova di una familiarità tra vescovi e sovrano che (anche se è del tutto improbabile che in quel periodo esistessero residenze vescovili permanenti a Pavia) non poteva non nutrirsi se non di contatti frequenti63. Contatti fisici con il potere che erano indispensabili anche a livelli meno elevati rispetto alla corte regia, se a metà circa del secolo VIII il patriarca di Aquileia Callisto fece scoppiare una crisi politica violentissima pur di trasferirsi a Cividale, dove c’erano la corte e il palazzo dei duchi friulani64. E il legame dei vescovi con la corte regia ovviamente aumentò nei secoli successivi, in sintonia con l’aumento delle loro funzioni pubbliche. Al palazzo, inoltre, i vescovi si recavano – ovviamente – per farsi concedere o confermare (o anche difendere, come il vescovo di Cremona nella controversia citata prima) i diritti e le esenzioni della loro chiesa. Infine, almeno un accenno ad un altro argomento. Infatti ci sarebbe un altro spazio, potenzialmente amplissimo, nel quale il vescovo era proiettato dalla propria natura pubblica e che potremmo definire uno spazio pubblico in movimento: quello delle ambascerie. Senza scomodare il celeberrimo caso di Liutprando di Cremona, già un vescovo come Agnello di Trento andava ambasciatore presso i Franchi, per riscattare i prigionieri da loro fatti durante le incursioni del 59065. Ma a questo punto mi sono allontanato troppo dai veri e propri spazi del vescovo, e quindi è meglio che io mi fermi qui.
Paolo Diacono, Historia Langobardorum, VI, 8. Cfr. anche sopra, testo e note 24 e 26. 63 L’esistenza di residenze vescovili in età longobarda a Pavia è stata sostenuta da E. Ewig, «Résidence et capitale pendant le haut moyen âge», Revue Historique, 78, 1963, p. 40; ma si veda la critica di A.A. Settia, «Pavia carolingia e postcarolingia», in Storia di Pavia, II, L’alto medioevo, Pavia, 1987, pp. 108-11. 64 Paolo Diacono, Historia Langobardorum, VI, 51. 65 Ibidem, IV, 1. 62
Vincenzo Fiocchi Nicolai Le chiese rurali di committenza privata e il loro uso pubblico (IV-V secolo)* “Cotesti oratorii erano sovente pubblici, cioè piccole chiese, massime nelle ville e nelle campagne” (G.B. De Rossi, in Bullettino di Archeologia Cristiana, 1876, p. 45)
1 Il ruolo fondamentale svolto dai ricchi possessores nella conversione dei rustici e nella formazione di una rete di edifici di culto nelle campagne tra il IV ed il V secolo è stato fortemente sottolineato dai recenti studi di Kim Bowes – in primis nella monografia del 2008 –, la quale, come è noto, vede l’azione dell’élite in contrasto, spesso in conflitto, con in vescovi e sostanzialmente autonoma dal potere della Chiesa1; vescovi che invece Alexandra Chavarría Arnau, in lavori altrettanto recenti sull’argomento, tende a considerare più o meno i soli protagonisti della realizzazione delle prime chiese in ambito rurale2. Come ha sottoline* Nelle more della stampa questo contributo è stato pubblicato nella Rivista di Archeologia Cristiana, 93, 2017, pp. 203-34. 1 K. Bowes, Private Worship, Public Values, and Religious Change in Late Antiquity, Cambridge, 2008; vedi pure ead., «“Christianization” and the Rural Home», Journal of Early Christian Studies 12, 2007, pp. 143-70. 2 A. Chavarría Arnau, «Aristocracias tardoantiguas y cristianización del territorio (siglo IV-V):¿otro mito historiográfico?», Rivista di Archeologia Cristiana, 82, 2006, pp. 201-30; ead., «Splendida sepulcra ut posteri audiant. Aristocrazie, mausolei e chiese funerarie nelle campagne tardoantiche», in G.P Brogiolo, A. Chavarría Arnau (a cura di), Archeologia e società tra Tardo antico e Alto medioevo, XII Seminario sul Tardo antico e l’Alto medioevo, Padova, 29 settembre-1 ottobre 2005, Mantova, 2007, pp. 127-46; G.P. Brogiolo, A. Chavarría Arnau, «Chiese e insediamenti rurali tra V e VIII secolo: prospettive della ricerca archeologica», in C. Ebanista, M. Rotili (a cura di), Ipsam Nolam barbari vastaverunt. L’Italia e il Mediterraneo occidentale tra il V secolo e la metà del VI, Atti del Convegno internazionale di studi, Cimitile-Nola-Santa Maria Capua Vetere, 18-19 giugno 2009, Cimitile, 2010, pp. 45-62: 57-9; A. Chavarría Arnau, «Churches and villas in the 5th Century: reflections on italian archaeological data», in P. Delogu, S. Gasparri (a cura di), Le trasformazioni del V secolo. L’Italia, i barbari e l’Occidente romano. Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 107-144 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116182
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ato recentissimamente Gisella Cantino Wataghin in un approfondito studio dedicato alla cristianizzazione delle campagne tardoantiche3, e come anche a noi sembra, ad una lettura delle fonti scevra da idee preconcette, azione dei vescovi e azione dei ricchi possessores, ognuna naturalmente mirante ai propri obiettivi, non furono ‘alternative’ o peggio conflittuali (se non in circostanze e luoghi determinati), ma largamente ‘complementari’. Posizione questa condivisa da tutta una serie di studiosi che si sono occupati dell’argomento4.
Atti del Seminario di Poggibonsi, 18-20 ottobre 2007, Turnhout, 2010, pp. 639-62. 3 G. Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio: l’Occidente tra IV e VI secolo», in O. Brandt, S. Cresci, S. López Quiroga, C. Pappalardo (a cura di), Episcopus, Civitas, Territorium, Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae, Toleti (812 settembre 2008), Città del Vaticano, 2013, pp. 431-61, in particolare alla p. 453. 4 C. Pietri, «Aristocratie et société cléricale dans l’Italie chrétienne au temps d’Odoacre et de Théodoric», Mélanges de l’École Française de Rome, Antiquité 93, 1981, pp. 417-67: 428-32; C. Violante, «Le strutture organizzative della cura d’anime nelle campagne dell’Italia centrosettentrionale (secoli V-X)», in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell’alto medioevo: espansione e resistenze, Spoleto, 1982, pp. 963-1158: 983-1004, 1133-4; C. Pietri, «Chiesa e comunità locali nell’Occidente cristiano (IV-VI d.C.): l’esempio della Gallia», in A. Giardina (a cura di), Società Romana e Impero Tardoantico, 3: Le merci, gli insediamenti, Roma-Bari, 1986, pp. 761-795: 761-86; L. Pietri, «Évergétisme chrétien et fondations privées dans l’Italie de l’antiquité tardive», in J.-M. Carrié, R. Lizzi Testa (dir.), Humana sapit. Études d’antiquité tardive offertes à Lellia Cracco Ruggini, Turnhout, 2002, pp. 253-63; F. Monfrin, «L’insediamento materiale della Chiesa nel V e VI secolo», in L. Pietri (a cura di), Storia del Cristianesimo. Religione – politica – cultura, 3: Le Chiese d’Oriente e d’Occidente (432-610), Roma, 2002, pp. 881-932: 911-20; L. Pietri, «Les oratoria in agro proprio dans la Gaule de l’Antiquité Tardive: un aspect des rapports entre potentes et évêques», in C. Delaplace (dir.), Aux origines de la paroisse rurale en Gaule méridionale (IVe-IXe siècles), Actes du colloque international, Salle Tolosa (Toulouse), 21-23 mars 2003, Paris, 2005, pp. 235-42. Vedi pure, sulla stessa linea, tra gli altri: M. Sannazaro, La cristianizzazione delle aree rurali della Lombardia (IV-VI sec.). Testimonianze scritte e materiali, Milano, 1990, pp. 20-34; J.-P. Caillet, L’évergetisme monumental chrétien en Italie et à ses marges d’après l’épigraphie des pavements de mosaïque (IVe-VIIe s.), Rome, 1993, pp. 424, 470; J. Guyon, M. Heijmans, «Christiana tempora: le succès de la mission», in J. Guyon, M. Heijmans (dir.), D’un monde à l’autre. Naissance d’une Chrétienté en Provence (IVe-VIe siècle), Arles, 2001, pp. 115-133: 119-20; B. Dumézil, Les racines chrétiennes de l’Europe. Conversion et liberté dans les royaumes barbares (Ve-VIIIe siècle), Paris, 2005, pp. 414-23; V. Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo aristocratico nella costruzione degli edifici di culto cristiani nell’hinterland di Roma»,
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2 Una ben nota omelia di Giovanni Crisostomo pronunciata probabilmente a Costantinopoli intorno all’anno 400, più volte ricordata a proposito della tematica in questione5, mostra in modo ‘plastico’ come le gerarchie ecclesiastiche tendessero a coinvolgere i ricchi proprietari nel processo di cristianizzazione e nella realizzazione di una rete di edifici di culto funzionali alla pastorale e all’attività liturgica nelle campagne. Vale veramente la pena di richiamare i passi salienti dell’omelia. I possessores vengono rimproverati dal vescovo di Costantinopoli di costruire per vanagloria terme, piazze, portici, ma non abbastanza chiese. Il grande oratore li esorta a provvedere subito alla cosa: “Vi avviso, vi supplico, vi chiedo la grazia, vi impongo la legge: che nessuno abbia un terreno (χωρίον) dove non esista una chiesa”6. L’edificio da costruire avrebbe dovuto essere dotato dal fondatore di beni materiali e di chierici che ne assicurassero l’officiatura: “Provvedete al sostentamento di un catechista, di un diacono, di una comunità di sacerdoti. Fate come se doveste prendere moglie o dare una figlia ad uno sposo: assicurate alla chiesa una dote. E così la vostra tenuta riceverà abbondanti benedizioni... Ciò [la realizzazione di una chiesa] in Brogiolo, Chavarria Arnau, Archeologia e società, pp. 107-26; S. Lusuardi Siena, «I siti archeologici del Nord Italia legati al titulus Martini: alcune considerazioni», Temporis Signa. Archeologia della tarda antichità e del medioevo 6, 2011, pp. 1-58: 9-11; Y. Codou, «Dans les campagnes aussi, des monuments chrétiens», in J. Guyon, M. Heijmans (dir.), L’antiquité tardive en Provence (IVe-VIe siècle). Naissance d’une chrétienté, Arles, 2013, pp. 126-30; L. Schneider, «Les églises rurales del la Gaule (Ve-VIIIe siècles). Les monuments, le lieu et l’habitat: des questions de topographie et d’espace», in M. Gaillard (dir.), L’empreinte chrétienne en Gaule du IVe au IX siècle, Turnhout, 2014, pp. 419-468: 443-5, che parla di ‘rivoluzione evergetica’ dei potentes indotta dalla Chiesa. 5 F.J. Dölger, Antike und Christentum. Kultur – und religionsgeschichtliche Studien, 6, Münster, 1940, rist. 1976, pp. 304-5; J.P. Thomas, Private Religious Foundations in the Byzantine Empire, Washington, 1987, pp. 18-9, 29-30; Sannazaro, La cristianizzazione, p. 30 e nota 90; Chavarría Arnau, «Splendida sepulcra», p. 127; S. Wood, The proprietary Church in the Medieval West, Oxford, 2006, pp. 11-6; Bowes, Private Worship, pp. 119-20; C. Sfameni, Residenze e culti in età tardoantica, Roma, 2014, p. 138. 6 Iohannis Chrisostomus, Homiliae in Acta Apostolorum, ed. J.-P. Migne, PG, 60, Paris, 1862, 18, 4, col. 147; J. Bareille (dir.), Oeuvres completes de S. Jean Chrysostome, 8, Paris, 1871, p. 6.
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sarà anche utile alla pace dei rustici. Il presbitero verrà infatti rispettato e questo porterà sicurezza al vostro possedimento... Saranno queste le mura di difesa, il presidio della vostra proprietà... La campagna ove si trova la chiesa assomiglia al Paradiso di Dio! Là non c’è clamore, non c’è tumulto, non ci sono odiose separazioni, né eresie [...]”7. “Preghiere continue vi si diranno per voi; per voi si canteranno inni e si svolgeranno riunioni sante; per voi si celebrerà la messa ogni domenica... preghiere quotidiane saranno spese per la vostra terra... Di là [dalla chiesa] si affrettino le mani al lavoro: prima siano utilizzate per pregare e poi per applicarsi alla fatica. Così ai contadini sopravverrà forza nel fisico, così l’agricoltura prospererà”8. Anche l’attività di conversione dei rustici – si ricorda nell’omelia – sarebbe stata in qualche modo merito del dominus: “A te si dovrà se esisteranno catecumeni nei possedimenti vicini” e se si eviterà ai contadini “di percorrere migliaia di stadi e di fare lunghi viaggi per recarsi in chiesa... Che felicità uscire dalla propria dimora ed entrare nella casa di Dio!”9. Quanto alle spese da affrontare, queste non sarebbero state eccessive: “Costruisci intanto un piccolo edificio; chi verrà dopo di te vi aggiungerà un atrio; chi verrà dopo di questi, qualche altra cosa, e il tutto sarà considerato opera tua... E se ci saranno tre proprietari, che essi si mettano insieme; e se ce ne è uno solo, che costui persuada i suoi vicini”10. Il vescovo assicurerà il suo sostegno all’impresa: “Che ciascuno si rivolga a me e noi contribuiremo al raggiungimento dell’obiettivo per quanto ci sarà possibile... Solo questo cercate di ottenere, vi prego: che, compiacendo in tutto il Signore, possiamo ottenere i beni eterni”11. 3 Il fiorire, tra la fine del IV secolo e la metà del V, sia in Oriente che in Occidente, di chiese nelle ville rurali dell’aristocrazia, attestato dalle fonti e, in misura minore, anche dalla documentazione archeologica, dimostra come l’appello di Giovanni Crisostomo sia stato idealmente accolto dall’élite. D’altra parte, il valore delle parole del vescovo di Co7 8 9 10 11
Ibid., 18, 4-5 (ed. Migne, coll. 147-148; Bareille, Oeuvres, pp. 6-7). Ibid., 18, 4-5 (ed. Migne, 60, coll. 147-149; Bareille, Oeuvres, pp. 7-8). Ibid., 18, 5 (ed. Migne, 60, coll. 147-148; Bareille, Oeuvres, p. 7). Ibid., 18, 5 (ed. Migne, coll. 148, 150; Bareille, Oeuvres, pp. 7-8). Ibid., 18, 5 (ed. Migne, 60, col. 150; Bareille, Oeuvres, p. 8).
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stantinopoli si rivelano determinanti anche per l’Occidente, considerata la koiné politico-culturale che legava allora la due parti dell’impero e i contatti che Giovanni Crisostomo intratteneva con l’aristocrazia cristiana occidentale12. In effetti, già nell’anno 398, una legge di Arcadio e Onorio mostra come la presenza di ecclesiae in possessionibus diversorum (oltre che nei villaggi (vici) e in altri luoghi) fosse cosa frequente (ut adsolet)13. Gregorio di Nissa, negli anni ’80 del IV secolo, conferma la presenza di chiese nelle ville dell’aristocrazia della pars Orientis. Nel suo possedimento di famiglia di Annisa nel Ponto, come racconta nella Vita della sorella Macrina, esisteva una chiesa dedicata ai Quaranta Martiri di Sebaste (τῶν ἁγίων μαρτύρων οἶκος; μαρτύριον τῶν ἁγίων; ἅγιος σηκóς); essa era stata costruita dalla madre Amelia ed era situata a circa un chilometro e mezzo dalla residenza; una seconda chiesa (ἐκκλησία) si trovava in prossimità della villa, ma all’esterno: lì egli venne accolto quando si era recato in visita alla sorella moribonda14.
Nei primi anni del V secolo, gli ecclesiastici orientali incaricati di appoggiare presso la Chiesa di Roma la causa del vescovo di Costantinopoli, esiliato dalla città per la seconda volta, sono ospitati nella villa suburbana di Valerio Piniano e di sua moglie Melania (Palladio, La Storia Lausiaca, ed. G.J.M Bartelink, Milano, 1974, 61, 7, p. 268); Anicia Faltonia Proba e Anicia Iuliana, rispettivamente nonna e madre di Demetriade (v. infra), e la nobile romana Italica sono destinatarie di tre lettere di Giovanni Crisostomo, che ringrazia le donne per il loro supporto: Iohannis Chrisostomus, Epistolae, ed. J.-P. Migne, PG, 52, Paris, 1859, n. 168 e 169, 170, coll. 709-710; si tratta, come si sa, di tutti membri della più alta aristocrazia romana: C. Pietri, «Esquisse de conclusion. L’aristocratie chrétienne entre Jean de Constantinople et Augustin d’Hippone», in C. Kannengiesser (dir.), Jean Chrysostome et Augustine, Actes du Colloque de Chantilly, 22-24 septembre 1974, Paris, 1975, pp. 283-305: 301-2; C. Soraci, Patrimonia sparsa per orbem. Melania e Piniano tra errabondaggio e carità eversiva, Roma, 2013, pp. 27-8, con ampia discussione sulla identificazione della villa romana di Piniano e Melania alle pp. 59-70; vedi pure C. Pietri, L. Pietri, Prosopographie chrétienne du bas-empire, 2: Prosopographie de l’Italie chrétienne (313604), Rome, 1999, pp. 1162-3, 1169-71, 1483-90, 1798-1802, 1831-3. 13 Code théodosien, ed. R. Delmaire, Paris, 2005 (Sources Chrétiennes, 497), 16.2.33, pp. 186-7; cfr. Bowes, Private Worship, p. 157. 14 Grégoire de Nysse, Vie de sainte Macrine, ed. P. Maraval, Paris, 1971 (Sources Chrétiennes, 178), 16.5, 34.16, pp. 38-44, 194, 252; Gregorius Nyssenus, Oratio in XL Martyres, ed. J.-P. Migne, PG, 46, Paris, 1863, coll. 749-87, 784-5; anche la casa materna di Gregorio possedeva una cappella di uso privato (παναγιαστήριον): Vie de Macrine, ed. Maraval, 31, 24, p. 244; sulla villa di Annisa, pure Basilius Caesarien12
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Un edificio di culto dedicato ai martiri (εὐκτήριος οἶκος τοῖς μάρτυσιν) è ricordato, ancora da Gregorio, nella villa di Adelfios, che dopo il 392 avrebbe rivestito la carica di governatore della Galazia; anche questa chiesa si trovava fuori della residenza, situata a sud-est di Nissa, villa che Gregorio, da testimone oculare, descrive sontuosa e articolata in vari padiglioni15. Flavio Rufino, console e prefetto del pretorio dal 392 al 395, aveva fatto erigere una grandiosa residenza rurale presso Calcedonia; nelle immediate vicinanze, su una strada che portava alla villa, aveva pure edificato una grande chiesa (μεγίστη ἐκκλησία) in onore degli apostoli Pietro e Paolo (dove sarebbe stato poi sepolto), edificio al quale aveva unito un monastero, dotato di un oratorio riservato alla la preghiera dei monaci (εὐκτήριος οἶκος)16. In Grecia, nelle campagne della Locride, una chiesa di ragguardevoli dimensioni fu costruita, probabilmente agli inizi del V secolo, da una coppia di coniugi “per la propria salvezza e per quella dei propri campi”, come si legge in un’iscrizione musiva pavimentale di dedica17. Una costituzione di Teodosio II del 435 proibiva ai seguaci di Nestorio di ‘celebrare’ riunioni (evidentemente liturgiche) in villa18, mentre sis, Epistolae, ed. J.-P. Migne, PG, 32, Paris, 1886, I, 3.2, col. 236; cfr. J.J. Rossiter, «Roman villas of the Greek east and the villa in Gregory of Nyssa Ep. 20», Journal of Roman Archaeology, 2, 1989, pp. 101-110: 104-5; Bowes, Private Worship, pp. 205-6, 208-12. 15 Grégoire de Nysse, Epistolae, ed. P. Maraval, Paris, 1990 (Sources Chrétiennes, 363), 20, 8, p. 262; cfr. Rossiter, «Roman villas», pp. 104-10, in particolare a pp. 104-5; C. Sfameni, «Vivere in villa nella Tarda Antichità: pagani e cristiani a confronto», Koinonia, 30-31, 2006-2007, pp. 185-199: 185; ead., Residenze, p. 112. Su Adelfios: Grégoire de Nysse, Epistolae, ed. Maraval, p. 258, nota 1. 16 Callinicos, Vie de saint Hypatios, ed. M.G.J.M. Bartelink, Paris, 1971 (Sources Chrétiennes, 177), 8, 4-6, pp. 13-7; 11-2, pp. 98-103; 37, 3, pp. 228-9); Sozomène, Histoire Ecclésiastique, 4, ed. A.-J. Festugère, B. Grillet, Paris, 2008 (Sources Chrétiennes, 516), 8, 17, 3, p. 306; cfr. J. Pargoire, «Rufinianes», Byzantinische Zeitschrift, 8, 1899, pp. 429-77; Rossiter, «Roman villas», p. 103; Bowes, Private Worship, p. 112. Su Rufino: A.H.M. Jones, J.R. Martindale, J. Morris, The Prosopography of the Later Roman Empire, 1: A.D. 260-395, Cambridge, 1975, pp. 778-81. 17 A.C. Orlandos, «Une basilique paléochretienne en Locride», Byzantion, 5, 1929-1930, pp. 207-28. Si ignora il rapporto della chiesa con l’insediamento di pertinenza; tuttavia l’omissione nel testo di qualsiasi riferimento al luogo in cui la coppia possedeva i terreni fa presupporre che essi fossero nelle vicinanze. 18 Code théodosien, ed. Delmaire, 16, 5, 66, pp. 338-9; cfr. L. De Giovanni, Il libro
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nel concilio di Calcedonia del 451, la presenza di ecclesiae in possessionibus (accanto a quelle che sorgevano nelle città, accanto ai martyria e ai monasteri) appare una realtà consolidata, come attestano alcuni canoni elaborati in quella assemblea19. 4 Anche in Occidente, a partire dagli ultimi anni del IV secolo, le fonti attestano l’impegno dei ricchi proprietari privati nel costruire chiese nei propri possedimenti. Al di là dei ben noti inviti dei vescovi Zeno di Verona, Gaudenzio di Brescia, Massimo di Torino, all’aristocrazia a sradicare il paganesimo dai propri tenimenti, sui quali ci si è più volte soffermati20, una serie di testimonianze rivela l’azione dei proprietari cristiani volta a dotare di chiese i loro terreni. Un’iscrizione siciliana ritrovata presso Modica (Fig. 1, vedi Tavole a Colori) – per nulla valorizzata negli studi sull’argomento – ricorda che un certo Aithales, uomo pio e irreprensibile, morto nell’anno 396 a 75 anni, aveva fatto costruire una chiesa (τὴν ἁγίαν ἐκκλησίαν) nella XVI del Codice Teodosiano. Alle origini della codificazione in tema di rapporti ChiesaStato, Napoli, 1985, p. 151; Sfameni, Residenze, p. 106. 19 J.D. Mansi, Sacrorum Conciliorum Nova et Amplissima Collectio, 6, Graz, 1960, coll. 1226, 1228; 7, Graz, 1960, coll. 394-5, 397 (can. 4 e 17); cfr. Thomas, Private Religious Foundations, pp. 37-9; Sfameni, Residenze, p. 137; Chavarría Arnau, «Splendida sepulcra», pp. 129-30; Bowes, Private Worship, pp. 123, 223. Nella villa imperiale di Macellum presso Cesarea di Cappadocia, dove il giovane futuro imperatore Giuliano, con il fratello Gallo, ebbe un’educazione cristiana (fu pure inquadrato, come è noto, nei gradi della gerarchia ecclesiastica locale come lettore) (Sozomenus, Historia Ecclesiastica, ed. G. Sabbah, Paris, 2005 [Sources Chrétiennes, 495], 5, 2, 9-10, pp. 90-91), non è improbabile esistesse una chiesa (contra, F. Fatti, Giuliano a Cesarea. La politica ecclesiastica del principe apostata, Roma, 2009, pp. 61-4). 20 In sintesi: Dölger, Antike und Christentum, pp. 305-9; R. Lizzi, Vescovi e strutture ecclesiastiche nella città tardoantica (L’Italia Annonaria nel IV-V secolo d.C.), Como, 1989, pp. 59-70, 193-202; Sannazaro, La cristianizzazione, pp. 20-1; Dumézil, Les racines, pp. 416-8; R. Lizzi Testa, «La conversione dei cives, l’evangelizzazione dei rustici: alcuni esempi tra IV e VI secolo», in Città e campagna nei secoli altomedievali, Spoleto, 2009, pp. 115-46: 122-3; G. Cantino Wataghin, «Le fondazioni ecclesiastiche nelle vicinanze delle aree rurali: spunti di riflessione per l’Occidente tardo antico», Antiquité Tardive, 21, 2013, pp. 189-204: 200.
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proprietà Hortesiana (di cui evidentemente disponeva), unitamente ad un’area funeraria (τοῦτο τὸ κοιμητήριον), dove era stato sepolto21. Tra il 379 ed il 383 una cappella (definita sacrarium) era quella in cui il retore Ausonio pregava ogni mattina, all’inizio della giornata, nel ritiro di una delle sue ville rurali di Aquitania; l’oratorio si trovava con ogni probabilità all’interno della residenza; i servi l’aprivano appositamente al loro dominus quotidianamente22. Ecclesiae in villae, oltre che in castella e vici, sono menzionate in uno dei canoni del concilio di Toledo, celebratosi in un anno imprecisato tra il 397 ed il 400: vi si ricorda che il clero incardinato negli edifici, il quale non ottemperava al proprio dovere di celebrare messe quotidiane, doveva essere adeguatamente punito dal vescovo da cui la chiesa dipendeva23. P. Orsi, «Sicilia», in Atti del III Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana, Ravenna, 25-30 settembre 1932, Roma, 1934, pp. 142-50; S.L. Agnello, Silloge di iscrizioni paleocristiane della Sicilia, Roma, 1953, pp. 92, 98-99, n. 93; A. Ferrua, «Le iscrizioni datate della Sicilia paleocristiana», Kokalos, 28-29, 1982-1983, pp. 3-30: 8-9, n. 18; M. Sgarlata, «L’epigrafia greca e latina cristiana della Sicilia», Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Serie 4, Quaderni, 2, 1999, pp. 48397: 490-1; V.G. Rizzone, Opus Christi aedificabit. Stati e funzioni dei cristiani di Sicilia attraverso l’apporto dell’epigrafia (secoli IV-VI), Catania, 2011, pp. 290-3; M. Sgarlata, V.G. Rizzone, «Vescovi e committenza ecclesiastica nella Sicilia orientale: architettura e fonti», in Brandt et al., Episcopus, pp. 811-834: 813-5, 823-5. 22 Ausonius, Ephemeris, ed. A. Pastorino, in id. (a cura di), Opere di Decimo Magno Ausonio, Torino, 1971, 2, 2, p. 262; cfr. Bowes, Private Worship, pp. 125-6; Sfameni, Residenze, pp. 109-11. 23 Concilium Toletanum, ed. J. Vives, Concilios visigóticos e hispano-romanos, Madrid, 1963, c. 5, p. 21; cfr. Bowes, Private Worship, p. 157; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», p. 444; Sfameni, Residenze, p. 136. Nel concilio di Saragozza del 380 si vietava ai priscillanisti di tenere ‘riunioni’ nelle ville (“ad alienas villas agendorum conventum causa non conveniant”: in Vives [a cura di], Concilios, p. 16); si trattava con ogni probabilità di riunioni di carattere liturgico (M. Sotomayor, «Penetracion de la Iglesia en los medios rurales de la España tardorromana y visigoda», in Cristianizzazione, pp. 639-70: 641); cfr. G. Ripoll, I. Velázques, «Origen y desarrollo de las parrochiae en la Hispania de la antegüedad tardía», in P. Pergola (a cura di), Alle origini della parrocchia rurale (IV-VII sec.). Atti della giornata tematica dei Seminari di Archeologia Cristiana (École Française de Rome, 19 marzo 1998), Città del Vaticano, 1999, pp. 101-65: 105-6; K. Bowes, «... Nec sedere in villam. Villa-Churches, Rural Piety, and the Priscillianist Controversy», in T.S. Burns, J.W. Eadie (eds.), Urban Centers and Rural Contexts in Late Antiquity, East Lansing, 2001, pp. 323-48: 335-6; Chavarría Arnau, «Aristocracias», p. 204; Bowes, Private Worship, p. 189; A. Oepen, 21
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Un’altra iscrizione non molto valorizzata negli studi sulle chiese rurali ci riporta ancora in Gallia, questa volta in una località delle Alpi dell’Alta Provenza, a Saint-Geniez, presso Sisteron. Qui un’epigrafe incisa sulla roccia (una ‘pietra scritta’), datata a poco dopo il 412-413 (Fig. 2, vedi Tavole a Colori), fu posta a ricordare il taglio dei fianchi di una montagna fatto eseguire dal già prefetto del pretorio delle Gallie Claudius Postumus Dardanus per far passare la strada che conduceva al locus cui nomen Theopolis est... quod in agro proprio constitutum..., una villa o villaggio rurale dotato di mura e porte (come quella, sempre nelle Gallie, del nobile Ponzio Leonzio)24. Dardano era un fervente cristiano, amico di Girolamo e di Agostino, con il quale fu in rapporto epistolare25. È difficile, come è stato osservato anche di recente, non ricollegare l’eccezionale nome della proprietà – Theopolis – con l’opera letteraria che in quegli anni il vescovo di Ippona stava redigendo: il De Civitate Dei, appunto26. Così come è difficile pensare che un insediamento dotato di un tal nome fosse sprovvisto di una chiesa27. Ancora in Gallia, addirittura di due basilicae e di un battistero interposto disponeva la villa di un altro aristocratico di primissimo piano: quella di Sulpicio Severo situata nella località Primuliacum tra la Narbonense e l’Aquitania. Le due chiese furono costruite tra gli ultimi anni del IV secolo e gli inizi del V ed erano destinate certamente ad essere
Villa und christlicher Kult auf der Iberischen Halbinsel in Spätantike und Westgotenzeit, Wiesbaden, 2012, p. 64; Sfameni, Residenze, pp. 106-7, 136. 24 CIL, 12, n. 1524; sull’iscrizione: F. Chatillon, Locus cui nomen Theopoli est. Essai sur Dardanus, préfet du prétoire des Gaules au Ve siècle, correspondant de saint Jérôme et de saunt d’Augustin, et sur sa fondation de Theopolis, Gap, 1943; H.-I. Marrou, «Un lieu dit ‘Cité de Dieu’», in Augustinus Magister. Congrès International Augustinien, Paris, 21-24 septembre 1954, 1, Paris, 1955, pp. 101-10; Pietri, «Les oratoria», p. 241, nota 24; Y. Codou, M.-G. Colin, «La christianisation des campagnes (IVe-VIIIe s.)», Gallia, 64, 2007, pp. 57-83: 67; J. Guyon, «Un correspondant de Jérôme et d’Augustin créateur d’une ‘Cité de Dieu’ en haute Provence», in Guyon, Heijmans L’antiquité tardive, pp. 141-2. Su Dardanus: J.R. Martindale, The Prosopography of the Later Roman Empire, 2: A.D. 395-527, Cambridge, 1992, pp. 346-7. Sulla villa di Ponzio Leonzio, vedi infra. 25 Hieronymus, Epistolae 121-154, ed. I. Hilberg, M. Kamptner, CSEL, 56/1, Wien, 1996, 129, pp. 162-75; Sant’Agostino, Le lettere, 3: 185-270, ed. L. Carrozzi, Roma, 1974 (Opere di Sant’Agostino, 23), 187, pp. 130-5. 26 Cfr. nota 24. 27 Pietri, «Les oratoria», p. 241, nota 24; Guyon, «Un correspondant», p. 142.
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frequentate dai fedeli della zona (oltre che dal gruppo di asceti che viveva nella villa), come assicurano la presenza del battistero e i passi di Paolino di Nola che descrivono il complesso ecclesiastico28. In una delle Paolino di Nola, Le Lettere, ed. G. Santaniello, 2, Napoli-Roma, 1992, 31,1, p. 198; 32, 1, p. 222. Luce Pietri («Les oratoria», pp. 235-6) considera “oratorio privato” la prima delle due chiese fatte costruire da Sulpicio Severo, mentre la seconda avrebbe avuto, stante anche la presenza del battistero, funzione pubblica (vedi pure, in questo senso, Monfrin, «L’insediamento materiale», p. 916, nota 247; Bowes, Private Worship, p. 156; Y. Codou, «L’église et l’habitat dans le midi de la France aux Ve-Xe siècles», Antiquité Tardive, 21, 2013, pp. 205-15: 210). In realtà, l’espressione domestica ecclesia usata da Paolino è riferita indifferentemente sia alla prima chiesa (dove era sepolto il prete Claro: Le Lettere, ed. Santaniello, 32, 6, p. 236), che alla seconda, più grande e destinata ad accogliere le reliquie della S. Croce (ibid., 31, 1, p. 198). Domestica ecclesia è locuzione generica (vedi pure ibid., 32, 9, p. 244 e la stessa Pietri, p. 240, nota 4), che vuole in Paolino confidenzialmente definire gli edifici cultuali costruiti nella “casa” di Sulpicio Severo (così giustamente M.G. Bianco, «Ritratti e versi per le basiliche di Sulpicio Severo e di Paolino Nolano (Paul. Nol. Epp. 30-32)», Romanobarbarica, 12, 1992-93, pp. 291-310: 307). Il carattere di villa aristocratica, più che di monastero ante litteram, della residenza di Sulpico Severo risulta del tutto evidente: C. Mohrmann, «Introduzione», in ead. (a cura di),Vita di Martino, Vita di Ilarione, In memoria di Paola, Milano, 1993 (Vite dei Santi, IV), pp. IX-LXI: XIV-XV; G. Cantino Wataghin, «Concluding Remarks», in H. Dey, E. Fentress (eds.), Western Monasticism ante litteram. The Spaces of Monastic Observance in Late Antiquity and the Early Middle Ages, Turnhout, 2011, pp. 355-78: 360-1 (a commento del saggio di R. Alciati, «And the villa became a monastery: Sulpicius Severus’ community of Primuliacum», ibid., pp. 85-98). Sull’insediamento di Primuliacum vedi le ultime riflessioni di F. Marazzi, La città dei monaci. Storia degli spazi che avvicinano a Dio, Milano, 2015, pp. 66-7. Per il carattere ‘aperto’, “‘pubblico’, delle fondazioni religiose di Primuliacum, già Pietri, «Chiesa e comunità», p. 770; V. Fiocchi Nicolai, S. Gelichi, «Battisteri e chiese rurali (IV-VII secolo)», in L’edificio battesimale in Italia. Aspetti e problemi. Atti dell’VIII Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana, Genova, Sarzana, Albenga, Finale Ligure, Ventimiglia, 21-26 settembre 1998, Bordighera, 2001, pp. 303-84: 307-8. Sia V. Saxer, «Les paroisses rurales de France avant le IXe siècle: peuplement, évangélisation, organisation», in La paroisse à l’époque préromane et romane. Actes des XXXIe Journées Romanes de Cuixà, 5-12 juillet 1998, Perpignan, 1999, pp. 5-41: 13, che Cantino Wataghin, «Concluding Remarks», p. 361, rilevano giustamente la vicinanza della situazione edilizia di Primuliacum a quella dei gruppi episcopali urbani; anche la finalità catechetica delle immagini che dovevano ornare le due chiese va nel senso di una loro fruizione comunitaria: v. infra. Sulla localizzazione della villa di Primuliacum: J. Fontaine, Sulpice Sévère, Vie de Saint Martin, ed. J. Fontaine, 1, Paris, 1967 (Sources Chrétiennes, 133), pp. 32-40. 28
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iscrizioni in versi destinate ad essere collocate nelle due chiese, che Paolino stesso aveva composto per il suo amico Severo, si esaltava l’impresa del fondatore, il cui merito era in effetti di aver edificato le basiliche per il popolo di Dio: ampla dedit populo geminis fastigia tectis29. In questo medesimo frangente cronologico, anche nell’Africa romana, stando a quanto possiamo trarre dagli scritti di S. Agostino, le ville della aristocrazia fondiaria cristiana erano spesso dotate di edifici di culto. Nella epistola 44, scritta tra il 396 ed il 397, la villa Titiana situata nel territorio di Cirta era tra le poche sprovviste di una chiesa; per questo fu ritenuta idonea ad ospitare una riunione congiunta di cattolici e donatisti; nella stessa situazione erano i territori di Tibursico e di Tagaste30. Nel De Civitate Dei, Agostino ricorda il fundus di un certo Esperio, vir tribunicius, nel territorio di Fussala, dove un prete si era recato a dire messa per allontanare dalla proprietà gli influssi del demonio; ottenuta la liberazione dal maligno, grazie ad una reliquia della terra sancta de Hierosolymis adlata, il dominus fece costruire un edificio di culto (orationum locus), ove la reliquia fu deposta e ubi etiam Christiani possent ad celebranda quae ad Dei sunt, congregari; il sacello era pertanto destinato ad essere utilizzato per le riunioni liturgiche dei fedeli del luogo31. Una memoria dotata di reliquie dei martiri milanesi Gervasio e Protasio esisteva nella villa Victoriana situata nella regione di Ippona, proprietà di una nobildonna, mentre una ecclesia si trovava nel fundus Audurus e conservava le reliquie di S. Stefano32. Sempre in Africa, agli inizi del V secolo, in alcune ville dell’aristocrazia, erano incardinate addirittura delle sedi vescovili: così in quella di una clarissima foemina dei dintorni di Fussala33, e nella grandiosissima Paolino di Nola, Le Lettere, ed. Santaniello, 32, 5, 31, p. 234. Sant’Agostino, Le lettere, 1: 1-123, ed. T. Alimonti, L. Carrozzi, Roma, 1969 (Opere di Sant’Agostino, 21), 44, 14, pp. 374-7. 31 Sant’Agostino, La città di Dio, 3: Libri XIX-XXII, ed. D. Gentili, Roma, 1991 (Opere di Sant’Agostino, V/3), 22, 8, 7, p. 334. 32 Ibid., 22, 8, 8, p. 336; 22, 8, 16, p. 340; cfr. P.-A. Février, «La marque de l’Antiquité tardive dans le paysage religieux médiéval de la Provence rurale», in M. Fixot, E. Zadora-Rio (dir.), L’environnement des églises et la topographie religieuse des campagnes médiévales. Actes du IIIe congrès international d’archéologie médievale (Aix-en-Provence, 28-30 septembre 1989), Aix-en-Provence, 1994, pp. 27-35: 28. 33 Sant’Agostino, Le lettere, Supplemento (1*-29*), ed. L. Carrozzi, Roma, 1992 (Opere di Sant’Agostino, XXIV), 20*, 9-10, p. 168-70; 20*, 17, p. 174. 29 30
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residenza rurale di Melania la Giovane, nei dintorni di Tagaste, che ospitava sia un vescovo cattolico, che uno donatista, evidentemente, come rilevava già Andrea Giardina alcuni anni fa, per soddisfare le esigenze spirituali di tutti i coloni34. L’incardinamento di vescovi in villis vel in fundis è del resto esplicitamente attestato nella Conferenza di Cartagine del 411 sulla controversia tra Cattolici e Donatisti35. La presenza dei presuli implica anche quella di chiese pubbliche. Il controllo delle chiese fondate dai privati nelle campagne da parte della Chiesa è attestato in Gallia nel 441 da un provvedimento del concilio di Oranges: il proprietario che aveva fatto edificare un edificio di culto non poteva invitare alla sua dedicatio altro vescovo se non quello della diocesi in cui la chiesa si trovava36. Sempre in Gallia, negli anni ‘60-’70 del V secolo, chiese in ville dell’aristocrazia sono attestate negli scritti di Sidonio Apollinare: un sacrarium esisteva nella residenza del nobile Consentius, nell’ager Octavianus, presso Narbonne37; mentre nella villa fortificata di un vir clarissimus dell’Aquitania, Ponzio Leonzio, situata non lontano da Bordeaux –, di cui Sidonio descrive in dettaglio l’articolazione in vari padiglioni e spazi verdi –, la chiesa (definita templum
Il vescovo di Ippona ricorda pure, nell’epistola 66, scritta nel 401, che un vescovo donatista aveva ribattezzato alcuni coloni residenti in una sua villa: Sant’Agostino, Le lettere, 1, ed. Alimonti, Carrozzi, 66, 1, p. 542; cfr. Dumézil, Les racines, p. 420. 34 Vita Melaniae, in M. Rampolla del Tindaro, Santa Melania Giuniore, senatrice romana. Documenti contemporanei e note, Roma, 1905, p. 14; Gerontius, La Vie latine de sainte Mélanie, ed. P. Laurence, Jerusalem, 2002, p.194; cfr. A. Giardina, «Le due Italie nella forma tarda dell’Impero», in idem (a cura di), Società romana e impero tardoantico, 1: Istituzioni, ceti, economie, Roma-Bari, 1986, pp. 1-36: 35. Sulla proprietà africana di Melania e Piniano vedi pure Bowes, Private Worship, pp. 157, 160; Soraci, Patrimonia, pp. 100-102; Sfameni, Residenze, p. 142. Sui due aristocratici v. supra, nota 12. 35 Gesta conlationis Carthaginiensis anno 411, ed. S. Lancel, CCSL, 149A, Turnhout 1974, p. 134. 36 Conc. Arausic. a. 441, in Concilia Galliae. A. 314-A. 506, ed. C. Munier, CCSL, 148, Turnhout, 1963, c. 9, p. 81; cfr. Février, «La marque», p. 28; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», p. 448. 37 Sidoine Apollinaire, Lettres (livres VI-IX), ed. A. Loyen, Paris, 1970, 8, 4, 1, p. 89; cfr. Pietri, «Les oratoria», p. 241, nota 24; Sfameni, Residenze, p. 111; su Consentius: Martindale, The Prosopography, pp. 308-9.
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Dei) si trovava, a quanto pare, in una posizione periferica (se non all’esterno della villa)38. 5 Alla metà del V secolo, due notizie che riguardano l’Italia, e più precisamente la campagna circostante Roma, sulle quali ho avuto già modo di soffermarmi in altra sede, ci forniscono informazioni preziose sul meccanismo di fondazione delle chiese realizzate dai privati nei propri possedimenti, sulle funzioni che esse svolgevano e sul controllo che su queste fondazioni esercitava il potere ecclesiastico. Intorno al 450, appunto, la nobile Demetrias Amnia, appartenente alla illustre e ricchissima famiglia degli Anici, aveva dato mandato a Sidoine Apollinaire, Poèmes, ed. A. Loyen, Paris, 1960, 22, v. 218 p. 141; sull’espressione templa dei: ibid., p. 195, nota 28; N. Delhey, Apollinaris Sidonius, Carm. 22: Burgus Pontii Leontii. Einleitung, Text und Kommentar, Berlin, 1993, p. 192; C. Balmelle, Les demeures aristocratiques d’Aquitane. Societé et culture de l’Antiquité tardive dans le Sud-Ouest de la Gaule, Bordeaux-Paris, 2001, p. 144; Bowes, Private Worship, pp. 130-1 (templum Dei è definita anche la chiesa fondata dal goto Valila presso Tivoli: v. infra); sull’articolazione della villa: Balmelle, Les demeures, pp. 244-5; C. Sfameni, Ville residenziali nell’Italia tardoantica, Bari, 2006, pp. 237-8 (l’edificio di culto è ricordato presso l’ultima torre della fortificazione: Delhey, Apollinaris Sidonius, p. 195). Su Ponzio Leonzio: Martindale, The Prosopography, pp. 674-5. In una lettera scritta tra il 470 e il 471, Sidonio Apollinare menziona pure una Cantillensis ecclesia, forse fondata dal vir spectabilis Germanicus in un suo possedimento: Sidoine Apollinaire, Lettres (livres VI-IX), ed. Loyen, p. 15; cfr. Saxer, «Les paroisses», p. 15; Pietri, «Les oratoria», p. 241, nota 24; in un’altra, degli anni 476-477, ricorda un suo amico, il nobile Elaphius (Martindale, The Prosopography, p. 385), che lo aveva invitato a consacrare un battistero (e una chiesa), è incerto se nella città di Rodez o in una sua residenza rurale esistente nella zona, il castellum dove Elapio avrebbe ospitato Sidonio: Sidoine Apollinaire, Lettres (livres VI-IX), ed. Loyen, 4, 15, pp. 145-146; vedi Saxer, «Les paroisses», p. 15; F. Prévot, L. Grimbert, «Rodez», in A. Prévot (dir.), Topographie chrétienne des cités de la Gaule des origines au milieu du VIIIe siècle, 16: Quarante ans d’enqête (1972-2012), 1, Images nouvelles des villes de la Gaule, Paris, 2014, pp. 244-5 (il termine castellum indica evidentemente una residenza fortificata, del tipo di quelle di Dardano e Ponzio Leonzio (v. supra), come in altri casi: Sfameni, Ville residenziali, pp. 237-9. Gregorio di Tours, alla fine del VI secolo, fa menzione della Reontio villa, presso Bordeaux, dotata di chiesa e battistero ed esistente nella seconda metà del V: Gregorius Turonensis, Liber in gloria confessorum, ed. B. Krusch, MGH, SS rer. Merov., 1.2, Hannover, 1951, 47, pp. 326-7: Pietri, «Les oratoria», p. 236.
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papa Leone I (440-461), in punto di morte, di costruire una chiesa in predio suo39. L’edificio fu costruito nella villa della donna, situata al III miglio della via Latina, villa rinvenuta, unitamente alla chiesa, alla metà dell’800 (Fig. 3)40. L’iscrizione commemorativa della fondazione, ritrovata nelle indagini archeologiche41, e il passo del Liber Pontificalis in cui essa è ricordata, assicurano del coinvolgimento diretto della Chiesa di Roma nella costruzione, cui peraltro attese il prete Tigrino42. Le notizie che traiamo dal passo del Liber Pontificalis, del resto, non lasciano adito a dubbi, a mio avviso, che la villa in cui sorse la chiesa fosse in quel L. Duchesne, Le Liber Pontificalis. Texte, introduction et commentaire, 1, Paris, 1886, p. 238. Su Demetrias Amnia: Pietri, Pietri, Prosopographie, pp. 544-7; A. Kurdock, «Demetrias ancilla dei: Anicia Demetrias and the problem of the missing patron», in K. Cooper, J. Hillner (eds.), Religion, dynasty, and patronage in Early Christian Rome, 300-900, Cambridge, 2007, pp. 190-224. 40 F. Profili, «Relazione ed osservazioni artistiche ed archeologiche compilate dal Segretario della Commissione di Archeologia Sacra su lo stato attuale della basilica di S. Stefano protomartire», Giornale di Roma, 139, 22 giugno 1858, pp. 1-7 (estratto); L. Fortunati, Relazione generale degli scavi e scoperte fatte lungo la via Latina, Roma, 1859; R. Krautheimer, Corpus Basilicarum Christianarum Romae. Le basiliche paleocristiane di Roma (IV-IX Sec.), 4, Città del Vaticano, 1976, pp. 230-42; S. Episcopo, «L’Ecclesia Baptismalis nel suburbio di Roma», in Atti del VI Congresso. Nazionale di Archeologia Cristiana, Pesaro-Ancona, 19-23 settembre 1983, Ancona, 1985, pp. 297-308: 303-8; G. Sorrenti, «Roma. La basilica paleocristiana di Santo Stefano in via Latina», Bollettino di Archeologia, 41-42, 1996), pp. 253-67; H. Brandenburg, Le prime chiese di Roma (IV-VII secolo). L’inizio dell’architettura ecclesiastica occidentale, Milano, 2004, pp. 235-6; Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», pp. 108-12; R. Rea, G. Bartolozzi Casti, R. Loreti, L. Barelli, G. Carbonara, «Scoperte e restauri nella basilica di Santo Stefano sulla via Latina», Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, 81, 2008-2009, pp. 223-303; D. Kinney, «Edilizia di culto cristiano a Roma e in Italia centrale dalla metà del IV al VII secolo», in Storia dell’architettura italiana, 1: Da Costantino a Carlo Magno, Milano, 2010, pp. 54-97: 76. Sulla villa vedi pure: F. Coarelli, «L’Urbs e il suburbio», in A. Giardina (a cura di), Società romana e impero tardoantico, 2: Roma. Politica, economia, paesaggio urbano, Roma – Bari 1986, pp. 1-58: 47-9. 41 ICUR, 6, 15764. 42 Cfr. Episcopo, «L’Ecclesia Baptismalis», pp. 307-8; Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», pp. 108-10; C. Machado, «Roman aristocrats and the christianization of Rome», in P. Brown, R. Lizzi Testa (eds.), Pagans and Christians in the Roman Empire: The Breaking of a Dialogue (4th-6th Century A.D.). Proceedings of the International Conference at the Monastery of Bose (October 2008), ZürichBerlin, 2011, p. 493-516: 504. 39
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Fig. 3 – Planimetria della villa di S. Stefano al III miglio della via Latina (Roma) (da Fortunati, Relazione generale degli scavi).
momento in funzione43, cosa peraltro confermata dal modo in cui la basilica si impiantò in uno dei cortili della residenza44 e dalla presenza di un ampio settore delle attigue terme, che conserva testimonianze di importanti ristrutturazioni di V-VI secolo45. Il carattere ‘pubblico’ di questa fondazione privata, la cui costruzione fu, dunque, curata dalla Chiesa di Roma, è rivelato, oltre che dal meccanismo fondativo, del tutto analogo a quello dei tituli urbani (si tratta di un vero titulus fondato in campagna)46, dalle notevoli dimensioni (misurava metri Duchesne, Le Liber Pontificalis, p. 238: “Huius temporibus fecit Demetria ancilla Dei basilicam sancto Stephano via Latina, miliario III, in predio suo”. 44 Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», p. 111. Secondo Bowes, Private Worship, p. 96, le aperture sui lati lunghi dell’edificio sarebbero state finalizzate ad una sua frequentazione dagli ambienti circostanti della villa. 45 Uno studio accurato delle murature superstiti potrebbe fornire importanti informazioni in questo senso. 46 Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», p. 110. H. Brandenburg, «Die Entstehung ländlicher Pfarreien in den römischen Provinzen Germanien, Raetien 43
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29 per 19)47, dalla presenza di un battistero48 e anche, probabilmente, dal mancato uso funerario dell’edificio, almeno nella sua prima fase di vita, del tutto anomalo in una chiesa suburbana che ospitava con ogni probabilità reliquie di S. Stefano, e invece perfettamente in linea con quanto indicato qualche decennio dopo – lo si vedrà – dalla normativa pontificia in materia di chiese rurali fondate da privati49. Il prestigioso
und Noricum (West-und-Südwestdeutschland, Schweiz und Österreich). Eine kirchengeschichtlich-archäologische Studie », in Pergola (a cura di), Alle origini, pp. 43-81: 50-51, considera la chiesa una vera parrocchia rurale (“[...] so daß wir hier in der Mitte des 5. Jh. schon von einer Landpfarrei im Gebiete der römischen Diözese sprechen können”). 47 V. infra; B. Brenk, Die Christianisierung der spätrömischen Welt. Stadt, Land, Haus, Kirche und Kloster in frühchristlicher Zeit, Wiesbaden, 2003, pp. 50-1. 48 Episcopo, «L’Ecclesia Baptismalis», p. 308; Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», p. 110; Machado, «Roman aristocrats», p. 504. Krautheimer, Corpus Basilicarum, pp. 237-8, riteneva il battistero contemporaneo alla chiesa; la cosa pare essere stata confermata da alcune recenti indagini archeologiche: G. Bartolozzi Casti, «Nuove indagini sul battistero e ipotesi ricostruttive», in Rea et al., «Scoperte», pp. 229-46. 49 Infra, p. 122; Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», p. 111. Sulla presenza delle reliquie (che comunque non fanno della nostra chiesa necessariamente, come si è ipotizzato, un santuario: Brenk, Die Christianisierung, p. 51; Bowes, Private Worship, pp. 94-6): Episcopo, «L’Ecclesia Baptismalis», p. 307; Machado, «Roman aristocrats», pp. 504-5; D. Nuzzo, «Reliquie ed edifici di culto rurali in Italia nel V-VII secolo,», in A. Coscarella, P. De Santis, Martiri, santi, patroni: per un’archeologia della devozione. Atti del X Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana, Università della Calabria, 15-18 settembre 2010, Rossano (CS), 2012, p. 329-46: 332; tale presenza avrebbe in effetti facilmente attratto, come da prassi, sepolture di devozione sin dalla prima fase d’uso della chiesa. L’iscrizione di Sesto Anicio Paolino, console nel 325, antenato di Demetriade, rinvenuta nell’800 presso una tomba situata a ridosso della facciata della chiesa (CIL, 6, 1680; Fortunati, «Relazione», p. 13, tav. 1, b), in realtà venne alla luce erratica “tra le ruine”, come ricorda lo stesso scavatore, il Fortunati, in una lettera a Giovanni Battista de Rossi del 19 dicembre 1857, recentemente valorizzata da L. Barelli, «Cronologia critica delle vicende della basilica dalla scoperta (1857) ai restauri recenti», in Rea et al., «Scoperte», p. 271, nota 121; difficilmente pertanto l’epigrafe – dal carattere funerario assai incerto – può essere considerata pertinente alla tomba del personaggio, come ritiene Machado, «Roman aristocrats», pp. 502-3. Bowes, Private Worship, pp. 94-6, sulla scia di Brenk, Die Christianisierung, pp. 50-1 (supra, nota 46), ritiene la chiesa di carattere sostanzialmente privato, legata alla frequentazione della famiglia proprietaria. Per una funzione ‘aperta’ dell’edificio, tra gli altri, anche Brandenburg,
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arredo architettonico della basilica (nel quale spiccano i capitelli ionici e le imposte con croci realizzati appositamente) (Fig. 4, vedi Tavole a Colori)50, nonché la monumentalità della chiesa e la probabilissima presenza in essa, come si diceva, delle preziose reliquie del protomartire di Gerusalemme, poco prima rinvenute a Kafargamala, rivelano l’altissimo livello della committenza. La vergine Demetriade, la cui madre e nonna erano in stretto contatto con Giovanni Crisostomo51, sembra dare applicazione concreta, con il suo atto di evergertismo, alle esortazioni del vescovo di Costantinopoli in materia di fondazioni di chiese nelle ville dell’aristocrazia cristiana. Ancora più significativo circa i meccanismi che portavano alla realizzazione da parte di un privato di un edificio di culto rurale nel proprio tenimento è quanto contenuto nella carta di fondazione della chiesa fatta costruire il 17 aprile del 471 dal senatore di origine germanica, probabilmente gota, Flavius Valila qui et Theodovius in una sua proprietà presso Tivoli, la cosiddetta Charta Cornutiana52. Il documento elenca in detta«Die Entstehung», pp. 50-1; Machado, «Roman aristocrats», pp. 504-5; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», pp. 453-4. Marazzi, La città dei monaci, pp. 63, 70, ipotizza che la villa avesse potuto ospitare un monastero. 50 Brenk, Die Christianisierung, p. 50; P. Pensabene, Roma su Roma. Reimpiego architettonico, recupero dell’antico e trasformazioni urbane tra il III e il XIII secolo, Città del Vaticano, 2015, pp. 284-5. 51 V. supra, nota 12. 52 L. Bruzza, Regesto della Chiesa di Tivoli, Roma, 1880, doc. 1, pp. 15-7; Duchesne, Le Liber Pontificalis, pp. CXLVI-CXLII. Sul documento: D. Vera, «Massa Fundorum. Forme della grande proprietà e poteri della città in Italia fra Costantino e Gregorio Magno», Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité, 111, 1999, pp. 991-1026: 1019-20; F. Marazzi, «Da suburbium a territorium: il rapporto tra Roma e il suo hinterland nel passaggio dall’antichità al medioevo», in Roma nell’alto medioevo, Spoleto, 27 aprile-1 maggio 2000, Spoleto, 2001, pp. 713-52: 736-40; D. De Francesco, La proprietà fondiaria nel Lazio (secoli IV-VIII). Storia e topografia, Roma, 2004, pp. 96-106; Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», pp. 112-3; J. Hillner, «Families, patronage, and the titular churches of Rome, c. 300-c. 600», in Cooper, Hillner, Religion, p. 225-61: 242; H. Geertman, «L’arredo della ecclesia Cornutianensis. Annotazioni intorno alla donazione di Flavius Valila (471)», in O. Brandt, P. Pergola (a cura di), Marmoribus Vestita. Miscellanea in onore di Federico Guidobaldi, Città del Vaticano, 2011, pp. 599-611. Su Valila: Pietri, Pietri, Prosopographie, pp. 2247-8; G. Kalas, «Architecture and élite identity in late antique Rome: appropiating the past at Sant’Andrea Catabarbara», Papers of the British School at Rome, 81, 2013, pp.
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glio i beni immobili di cui fu dotato l’edificio di culto per il suo sostentamento materiale, nonché gli oggetti di illuminazione e la suppellettile liturgica, le stoffe e i libri sacri funzionali alla celebrazione del culto53. La chiesa risultava affidata ad un presbitero e ad un gruppo di chierici stabilmente residenti presso di essa in appositi habitacula costruiti per l’occasione; gli alloggi erano situati a ridosso del praetorium di Valila, di cui il fondatore si riservava il possesso54. Terreni, suppellettile e anche l’area in cui sorgeva l’edificio di culto (il fundus Cornutanensis) erano destinati a divenire eidem ecclesiae catholicae proprietas55. Anche i terreni di cui Valila si riservava l’usufrutto sarebbero passati, alla sua morte, in proprietà della Chiesa56. L’unica condizione posta dal donatore era che in futuro, né vescovi, né preti, né chierici (evidentemente della Chiesa tiburtina) avessero ad alienare i beni donati o trasferirli ad altro edificio religioso57. In base alle indicazioni della carta, la chiesa – mai individuata dall’archeologia – era abbastanza grande, preceduta da atrio e nartece, divisa in tre navate, dotata di altare contenente reliquie (forse, ancora, quelle di S. Stefano, se la basilica è da identificare con quella dedicata al santo, esistente nel X secolo nel fundus qui appellatur Cornuti, nei dintorni di Tivoli)58, nonché di una sagrestia e di una sala di riunione59. Essa, come quella di Demetriade, era in funzione contemporaneamente al contiguo praetorium di Valila, regolarmente abitato dal personale della villa, come si ricorda nel documento60. La carta di fondazione – si precisa 279-302: 289-92; U. Roberto, «Strategie di integrazione e lotta politica a Roma alla fine dell’impero: la carriera di Fl. Valila tra Ricimero e Odoacre», in N. Cusumano, D. Motta (a cura di), Xenia. Studi in onore di Lia Marino, Caltanissetta-Roma, 2013, pp. 247-61. 53 Duchesne, Le Liber Pontificalis, pp. CXLVI-CXLII. 54 Ibid., pp. CXLVI-CXLII.; cfr. Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», p. 113. 55 Duchesne, Le Liber Pontificalis, p. CXLVI. 56 Ibid., pp. CXLVI-CXLII. 57 Ibid., p. CXLII; cfr. Wood, The proprietary Church, pp. 12-3. 58 Bruzza, Regesto, doc. 5, p. 35; cfr. De Francesco, La proprietà, pp. 100-6, con le varie proposte di localizzazione. 59 Duchesne, Le Liber Pontificalis, p. CXLII; cfr. Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», pp. 112-3. Il Geertmann, «L’arredo», p. 604, in base al numero dei vela che dovevano chiudere gli intercolumni posti a dividere la navata centrale dalle laterali, ha recentemente ipotizzato che l’edificio misurasse circa m 24 per 14. 60 Duchesne, Le Liber Pontificalis, p. CXLVI; cfr. Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», p. 113.
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nel testo – era conforme a quanto richiesto dalla normativa in vigore: a nobis cogitatione venerandae religionis oblatum est secundum legem et condicionem positam61. Questo importante documento, valorizzato prima da Louis Duchesne, poi da Charles Pietri, da Domenico Vera e da altri, oltre che da chi scrive62, attesta, senza possibilità di equivoci, almeno nel territorio circostante Roma, l’inquadramento delle chiese fondate dai privati nella organizzazione del culto nelle campagne coordinata dalla Chiesa, che dell’edificio e dei suoi beni diveniva proprietaria e responsabile63. Lo stesso luogo di conservazione originario del documento, l’archivio della Chiesa di Tivoli64, lo conferma. Di nuovo, l’analogia con la fondazione delle basiliche titolari romane – le parrocchiali urbane –, quale si evince dal Liber Pontificalis, è particolarmente significativa ed è stata più volte evidenziata65. L’uso pubblico dell’edificio di culto realizzato da Valila ne emerge del tutto evidente66. 6 In effetti, una ventina di anni dopo, una serie di lettere di papa Gelasio (492-496) ci fornisce per l’Italia suburbicaria ulteriori elementi circa la normativa che regolava la fondazione delle chiese da parte dei privati
Duchesne, Le Liber Pontificalis (cit. a nota 39), p. CXLVII. V. supra, nota 52. 63 Cfr. Wood, The proprietary Church, pp. 14-16. Il documento stranamente non è preso in considerazione da Kim Bowes nella sua pur documentatissima disamina del 2009; esso sarebbe risultato assai importante nella discussione della tesi sull’ipotetica indipendenza dell’aristocrazia dalla Chiesa in materia di fondazione di edifici di culto. 64 Duchesne, Le Liber Pontificalis, p. CXLVI, nota 3. 65 Ch. Pietri, Roma christiana. Recherches sur l’Église de Rome, son organisation, sa politique, son idéologie de Miltiade à Sixte III (311-440), 1, Rome, 1976, pp. 569-72; Marazzi, «Da suburbium», p. 738; Hillner, «Families», pp. 242-3. 66 Roberto, «Strategie», p. 252 rileva come papa Simplicio (468-483), destinatario, come è noto, di una seconda donazione di Valila alla Chiesa di Roma, quella dell’aula della domus del console Giunio Basso sull’Esquilino, trasformata in S. Andrea Catabarbara (da ultimo Kalas, «Architecture», pp. 289-92), fosse originario di Tivoli (Duchesne, Le Liber Pontificalis, p. 249); il che potrebbe aver facilitato la donazione dei possedimenti tiburtini da parte dell’evergete cristiano alla Chiesa locale. 61
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nelle campagne, chiarendone altresì funzioni e statuto. Il dossier è molto noto ed è stato, come si sa, valorizzato da Cinzio Violante nel suo lavoro fondamentale del 1982, ed ulteriormente analizzato ed ampliato da Luce Pietri nel 200267. Stando a quanto esposto nelle epistole gelasiane, il privato doveva rivolgere una precisa richiesta al papa (petitorium), corredata di una carta attestante la donazione di beni alla chiesa da costruire (donatio), funzionale al suo mantenimento materiale, anche futuro, e al sostentamento del clero che vi officiava stabilmente; il papa, se accordava il permesso, inviava il responsum (positivo) al vescovo della diocesi, nel cui ambito territoriale si sarebbe trovata la futura chiesa, autorizzandolo a consacrare l’edificio dopo essersi accertato che il fondatore avesse provveduto alla donatio68. Il proprietario del fondo non poteva accampare sulla nuova chiesa alcun diritto, se non quello, “che è comune a tutti cristiani” – come si ripete più volte nelle lettere –, di accedervi liberamente: Nihil tamen fundator ex hac basilica sibi noverit vindicandum, nisi processionis aditum, qui Christianis omnibus in commune debetur69 (si trattava dunque di chiese di uso del tutto pubblico). Unica condizione imposta al fondatore era quella di non collocare sepolture nell’edificio, pena la mancata concessione della processio publica, cioè, appunto, dall’accesso libero dei fedeli, e della autorizzazione a svolgervi la regolare liturgia70. Divieto sistematicamente confermato dalla posteriore normativa pontificia, che evidentemente mirava ad evitare forme cultuali degenerative e, forse, anche, come ipotizza Luce Pietri, a scongiurare che la presenza delle tombe riportasse al fondatore la proprietà della chiesa, in base dell’antica legislazione romana in materia
Violante, «Strutture organizzative», pp. 983-89; Pietri, «Évergétisme», pp. 253262. 68 J. Gaudemet, «Histoire d’un texte. Les chapitres 4 e 27 de la décrétale du pape Gélase du 11 mars 494», in Mélanges d’histoire des religions offerts à Henri-Charles Puech, Paris, 1974, pp. 289-98: 290-1; Pietri, «Évergétisme», pp. 254-8; ead., «Les oratoria», pp. 237-8. 69 Gelasius, Epistolae, in Epistolae Romanorum Pontificum genuinae et quae ad eos scriptae sunt a S. Hilaro usque ad Pelagium II, 1: A S. Hilaro usque ad S. Hormisdam (ann. 461-523), ed. A. Thiel, Braunsberg, 1868, 35, p. 449; più o meno lo stesso formulario ibid., 33-34, pp. 448-9); Epist. Brit., in Epistolae Pontificum Romanorum ineditae, ed. S. Loewenfeld, Graz, 1959, 2, pp. 1-2; 15, p. 8. 70 Gelasius, Epistolae, ed. Thiel, 33, p. 448; cfr. Violante, «Strutture organizzative», pp. 988-9. 67
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funeraria71. Tale regolamentazione sembra fosse in vigore almeno dagli anni ‘70 del V secolo: la Charta Cornutiana relativa alla chiesa di Valila pare contenere elementi che la fanno considerare l’atto di donazione richiesto ai tempi di Gelasio per le fondazioni72. Le chiese realizzate dai privati, stando a questa normativa, sono dunque aperte alla processio publica, dotate di un patrimonium e di un clero incardinato che vi officia regolarmente. Esse dipendono dal vescovo diocesano e, per la loro consacrazione, occorre – almeno nell’Italia suburbicaria – l’assenso del vescovo di Roma (e, in altre aree, come si evince dalla legislazione conciliare di epoca appena successiva, dei vescovi diocesani)73. Si tratta, a tutti gli effetti, di chiese regolarmente inquadrate nella organizzazione del culto elaborata dalla Chiesa, di cui il vescovo era responsabile. I dati ricavabili dalle fonti analizzate ci assicurano che tali costruzioni potevano talvolta essere dotate di battisteri, di abitazioni per il clero e che in esse si celebrava regolarmente la liturgia domenicale. I possessores erano spinti a costruire le chiese – come già ricordava Giovanni Crisostomo – per garantire a coloro che vivevano nei terreni un adeguato servizio religioso74, per ottenere meriti per la Pietri, «Évergétisme», p. 259; cfr. Violante, «Strutture organizzative», pp. 98890, 993-4. 72 Sia nella Charta Cornutiana che in una delle lettere di Gelasio si fa riferimento, per esempio, al dovere del fondatore di fornire i mezzi per il restauro futuro del tetto delle chiese: Duchesne, Le Liber Pontificalis, p. CXLVI; Gelasius, Epistolae, ed. Thiel, fr. 21, p. 496. 73 Pietri, «Les oratoria», pp. 237-9. 74 V. supra. La chiesa costituisce, in questo senso, a tutti gli effetti, una delle ‘infrastrutture’ di cui il proprietario dotava la propria villa, anche allo scopo di garantire un adeguato livello di vita di coloro che vi abitavano e lavoravano; tali ‘infrastrutture’, come nei secoli precedenti, potevano essere anche di carattere religioso: Giardina, «Le due Italie», pp. 28-30, 34-6; Vera, «Massa Fundorum», pp. 1019-20; Ripoll, Velázques, «Origen», p. 109; Marazzi, «Da suburbium », pp. 7389; G.P. Brogiolo, A. Chavarría Arnau, «Chiese e insediamenti tra V e VI secolo: Italia settentrionale, Gallia meridionale e Hispania», in G.P. Brogiolo (a cura di), Chiese e insediamenti nelle campagne tra V e VI secolo. 9° Seminario sul Tardo Antico e l’Alto Medioevo, Garlate, 26-28 settembre 2002, Mantova, 2003, pp. 9-38: 28; Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», p. 121; Dumézil, Les racines, pp. 414-6 (che parla di “responsabilità religiosa” dei possessores); Sfameni, Residenze, p. 139. Per gli interventi dei domini, già nella fondazione e nei restauri di edifici di carattere religioso “pagani” nei propri possedimenti, in particolare: B. Caseau, «The Fate of Rural Temples in Late Antiquity and the Christianisation of the 71
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vita ultraterrena, ma anche – sulla scia dell’evergetismo aristocratico di tradizione classica – per incrementare il proprio prestigio di fronte alle comunità75, nonché per esercitare, attraverso il clero (come attesta ancora Crisostomo), un controllo sulla popolazione rurale76. Anche la possibilità di porre sotto la tutela della Chiesa i propri beni fondiari attraverso lo strumento dell’usufrutto, in un periodo di grave instabilità politico-istizionale, poteva spingere l’aristocrazia, come è stato rilevato, a queste donazioni77 . D’altra parte è noto che i possessores tentarono, in più di un caso, di esercitare un controllo sui beni donati, impedendone una libera gestione alla Chiesa78. 7 Gli edifici di culto realizzati dai privati nei propri possedimenti rurali aperti alla processio publica, sia nelle lettere di Gelasio, che nella documentazione letteraria precedentemente analizzata, sono definite regolarmente ecclesiae, basilicae; il termine ‘oratorio’ con cui spesso vengono chiamate in letteratura non sembra comparire nelle fonti – in rapporto alle tali costruzioni – prima del VI secolo (sacrarium, orationum locus, memoria, σηκός, εὐκτήριος οἶκος, μαρτύριον sono usati per definire
Countryside», in W. Bowden, L. Lavan, C. Machado (eds.), Recent Research on the Late Antique Countryside, Leiden-Boston, 2004, pp. 105-44: 110-1; cfr. pure Bowes, Private Worship, pp. 35-6. 75 Tra gli altri: Pietri, «Évergétisme», pp. 261, 263; Brogiolo, Chavarría Arnau, «Chiese e insediamenti», p. 29; Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», p. 117; Dumézil, Les racines, pp. 423-7; Bowes, Private Worship, pp. 36-7, 158-9, 169; Sfameni, Residenze, pp. 140-1. 76 Vedi supra; Pietri, «Évergétisme», p. 259; Bowes, Private Worship, pp. 157-8, 169 (cfr. p. 36, per il medesimo intento dei possessores a proposito dei culti pagani); Sfameni, Residenze, p. 139. 77 De Francesco, La propietà, pp. 7, 98 (ivi bibliografia sull’argomento); cfr. J. Gaudemet, L’Église dans l’Empire Romain (IVe-Ve siècles), Paris, 1958, pp. 294, 297; Wood, The proprietary Church, pp. 14-5. 78 Cfr. G. Martinez Diez, El patrimonio eclesiastico en la España visigoda. Estudio historico juridico, Santander, 1959, pp. 70-9; De Francesco, La propietà, p. 7 (con bibliografia); Sfameni, Residenze, pp. 139-40. Caillet, L’évergetisme, pp. 418 ss., 470; vedi pure P. Testini, «“Spazio cristiano” nella tarda antichità e nell’alto medioevo», in Atti del VI Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana, Pesaro Ancona, 19-23 settembre 1983, 1, Ancona, 1985, pp. 31-48: 46.
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cappelle private o memorie martiriali)79; l’uso del termine per le chiese del tipo che stiamo analizzando, per il IV e V secolo, ci sembra pertanto anacronistico e fuorviante (ed in questo concordiamo con le osservazioni di Kim Bowes)80. S. Agostino ritiene che gli oratori fossero destinati esclusivamente alla preghiera personale: In oratorio nemo aliquid agat, nisi ad quod est factum, unde et nomen accepit81; concetto quasi ad litteram ripetuto nella definizione di Isidoro di Siviglia (circa il 600): oratorium orationi tantum est consecratum, in quo nemo aliquid agere debet et nisi ad quod est factum: unde et nomen accipit82. Oratori riservati alla devozione privata e dunque ‘privati’ sembrano nel IV e V secolo essere attestati piuttosto nell’ambito di comunità monastiche (come quello cui accennavano le parole di Agostino o l’oratorio nel monastero della villa di Rufino)83 e nella case dell’aristocrazia esistenti in città (Roma, Costantinopoli)84; cappelle domestiche private erano, nelle residenze V. supra; Sidonio Apollinare usa poeticamente la locuzione templa Dei per definire la chiesa della villa di Consentius. È interessante che il termine sacrarium indichi già un luogo di culto privato (pagano) nella terminologia degli autori classici: Sfameni, Residenze, pp. 17, 19-20, 213. 80 Bowes, Private Worship, p. 15; vedi pure Wood, The proprietary Church, pp. 11-2. 81 Sant’Agostino, Le lettere, a cura di Carozzi, 211, 7, p. 518; le stesse parole in Regula ad servos Dei, 2, 2 (nel medesimo testo, l’edificio di culto pubblico è invece definito regolarmente ecclesia: 4, 6: cfr. Marazzi, La città, p. 72). 82 Isidoro di Siviglia, Etimologie o Origini, ed. A. Valastro Canale, Novara, 2013, 15, 14, 4.4, p. 637. 83 V. supra. 84 G.P. Kirsch, «I santuari domestici di martiri nei titoli romani ed altri simili santuari nelle chiese cristiane e nelle case private dei fedeli», Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, 2, 1923-1924, pp. 27-43; Pietri, Roma christiana, pp. 513-4, 638; S. Diefenbach, Römische Erinnerungsräume. Heiligenmemoria und kollektive Identitäten im Rom des 3. bis 5. Jahrhunderts n. Chr., BerlinNew York, 2007, pp. 379-400; Sannazaro, La cristianizzazione, p. 120, nota 85; I. Baldini Lippolis, La domus tardoantica. Forme e rappresentazioni dello spazio domestico nelle città del Mediterraneo, Bologna, 2001, pp. 66-7; A. Cerrito, «Oratori ed edifici di culto minori di Roma tra il IV secolo ed i primi decenni del V», in Ecclesiae Urbis. Atti del Congresso Internazionale di Studi sulle chiese di Roma (IVX secolo), Roma 4-10 settembre 2000, 1, Città del Vaticano, 2002, pp. 397-418; ead., «L’assetto culturale della Roma carolingia. Gli oratori», in R.M. Bonacasa Carra, E. Vitale (a cura di), La cristianizzazione in Italia fra Tardoantico e Altomedioevo. Atti del IX Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana, Agrigento, 2079
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aristocratiche delle campagne, anche probabilmente quelle ricordate esistenti nelle ville di Ausonio in Aquitania, di Consentius presso Narbonne (definite sacraria)85. L’uso di celebrare messe in queste cappelle non fu mai ben visto dalle gerarchie ecclesiastiche, come attesta, ancora nel 537, per l’Oriente, una novella di Giustiniano, che definisce tale prassi catholicae atque apostolicae traditioni extranea86; e a questi edifici ‘privati’ si riferisce probabilmente già una legge di Teodosio del 38887. In ogni caso, come rilevava Luce Pietri alcuni anni fa, stando alle fonti letterarie, per la Chiesa, almeno fino alla fine del V secolo, la possibilità che gli edifici rurali fondati dai privati e regolarmente consacrati dalla Chiesa, definiti ecclesiae, basilicae, non fossero anche ‘pubblici’, cioè aperti alla pubblica frequentazione, non sembra di fatto contemplata. In questo senso, “l’ecclesia établie sur un domain rural privé paraît, après consécration par l’évêque diocésain, ouverte, à l’instar des églises rurales baptismales, les parochiae diocésaines, aux fidèles du voisinage”88. 25 novembre 2004, Palermo, 2007, pp. 375-498: 385-9; Bowes, Private Worship, pp. 75-92, 103-16; Sfameni, Residenze, pp. 111, 123. Nella lettera già ricordata di papa Gelasio degli anni 495-496 (supra, nota 70), nella quale si deliberava a proposito di un edificio di culto al quale non poteva essere accordata la processio publica, il termine oratorium, insieme ad ecclesia, è utilizzato nell’incipit, che ripropone una evidente formula-preambolo di cancelleria, ove sono ricordate le due categorie di edifici, sia di ambito urbano che rurale, allora oggetto della regolamentazione pontificia, così come in Gelasius, Epistolae, ed. Thiel, 14, 25, p. 376. L’edificio di culto cui fa riferimento il provvedimento papale, nel prosieguo della lettera, non è indicato né con l’uno né con l’altro termine. 85 Cfr. supra. 86 Corpus Iuris Civilis, 3: Novellae, ed. R. Schoell, Berlin, 1904, 58, p. 315. 87 Code théodosien, ed. Delmaire, 16, 5, 14, pp. 252-4. 88 Pietri, «Évergétisme», p. 25 (cfr. G. Fournier, «La mise en place du cadre paroissial et l’évolution du peuplement», in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica, pp. 495-563: 499; Pietri, «Les oratoria», p. 238). Sulla stessa linea J. Gaudemet, «La vie paroissiale en Occident au Moyen Âge et dans les temps modernes», in Les communautés rurales, 4, Paris, 1984, pp. 65-86: 65-70 e 72 (per le differenze con l’‘église privée’); Monfrin, «L’insediamento», p. 914 (“Il fatto che i papi e i concili non cessino di ricordare ai potentes che essi non devono esercitare un’autorità invadente sul clero delle chiese costruite sulle loro terre [infra] non implica, infatti, che queste ultime siano ‘private’”) e nota 235 (“Per evitare qualsiasi confusione, è meglio bandire l’espressione ‘chiesa privata’ ripresa dall’espressione tedesca (Eigenkirche) coniata da Stutz alla fine del XIX secolo per designare le chiese che nel Medioevo si iscrivono nel quadro di un regime fondiario”). In questo senso, pure
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8 Dal VI secolo, questi edifici tuttavia verranno anche denominati – ora sì – oratoria (ma più spesso, ancora, ecclesiae, basilicae); essi si affiancheranno, nelle campagne, oltre che, ancora, alle cappelle domestiche riservate alla devozione dei proprietari, alle parochiae, cioè alle chiese battesimali di emanazione vescovile (‘chiese-madre’), fondate spesso in relazione alla grande viabilità e agli insediamenti secondari (vici, castella, mansiones), chiese che le fonti ricordano già esistenti alla fine del IV secolo89. Dalla metà del VI secolo gli edifici di fondazione privata, nell’Italia suburbicaria, saranno oggetto, come si sa, di una serie di restrizioni imposte dalla Chiesa di Roma, e privati, di fatto, delle prerogative pubbliche che avevano in precedenza: non potranno più essere dotati di un clero incardinato, né di un battistero; il loro uso sarà solo riservato alla devozione privata dei proprietari; vi si potrà celebrare messa solo saltuariamente, previo invio di un prete autorizzato dal vescovo; insomma, saranno relegati alla funzione di veri oratori90. Restrizioni che resteranno in vigore (ma con alcune Sotomayor, «Penetracion», pp. 650-2, che cita Martinez Diez, El patrimonio, p. 71 (“... hablando con todo rigor juridico podriamos afirmar que la Iglesia visigoda no conoció la “iglesia propia”). Nelle campagne, come nelle città, la realizzazione di una rete di chiese funzionale alla pastorale, deve molto all’evergetismo privato: Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», pp. 107-23. 89 Una lucida presentazione delle diverse categorie delle chiese rurali, dal punto di vista statutario, in Monfrin, «L’insediamento», pp. 906-20; vedi pure Fournier, «La mise en place», p. 499; Wood, The proprietary Church, pp. 66-74; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», pp. 441-59. In particolare, sulle paroeciae: Violante, «Strutture organizzative», pp. 1004-8; Gaudemet, «La vie paroissiale», pp. 65-86; C. Delaplace, «Les origines des églises rurales (Ve-VIe siècles). À propos d’une formule de Grégoire de Tours», Histoire et Sociétés Rurales, 18/2, 2002, pp. 11-40; M. Ronzani, «L’organizzazione territoriale delle chiese», in Città e campagna nei secoli altomedievali, Spoleto 2009, pp. 191-217 (il termine paroecia designa con certezza edifici di culto pubblici almeno dalla fine del V-primi anni del VI secolo: Violante, «Strutture organizzative», pp. 976-977; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», p. 441, nota 60). 90 Violante, «Strutture organizzative», pp. 993-1004; Pietri, «Évergétisme», pp. 258-61; ead., «Les oratoria», p. 238; M. Ronzani, «L’organizzazione spaziale della cura d’anime e la rete delle chiese (secoli V-IX)», in Chiese locali e chiese regionali nell’Alto Medioevo, Spoleto, 2013, pp. 537-62: 545-51. Sulle motivazioni di queste restrizioni vedi pure: Testini, «“Spazio cristiano”», p. 46; Fiocchi Nicolai, Gelichi, «Battisteri», p. 308 (ivi bibliografia).
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eccezioni) per circa un secolo, fino a quando tali chiese riacquisiranno le loro originarie prerogative di spazi destinati alla publica processio91. In Gallia e in Spagna, limitazioni di questo tipo non sembrano colpire gli edifici di culto: le chiese rurali fondate dai privati continuano ad essere dotate di un clero incardinato regolarmente officiante92; nel concilio di Orleans del 541 sono addirittura menzionate le parrociae in potentum domibus constitutae93. Differenze regionali, probabilmente dovute, secondo la Pietri, alle diversificate necessità pastorali, che imponevano, in territori diocesani di vaste proporzioni, un maggiore decentramento del culto94. 9 L’archeologia, come è ben noto, stenta a riconoscere funzioni e statuto delle chiese che, molto numerose, rimette in luce nelle campagne95 (salvo nei casi del tutto eccezionali in cui queste siano ricordate direttamente dalle fonti, come, per esempio, l’edificio di Demetriade sulla via Latina)96. Ma anche in queste situazioni, come rivela, in Toscana, il caso delle numerose chiese rurali menzionate nell’importante documentazione relativa alla disputa tra i vescovi di Siena e Arezzo circa l’appartenenza degli edifici alle relative diocesi, l’evidenza archeologica non sempre viene coordinata correttamente alla documentazione letteraria, al fine di definire il profilo funzionale degli edifici97. Il contesto Violante, «Strutture organizzative», pp. 997-1000. Sotomayor, «Penetracion», pp. 645-59; Ripoll, Velázques, «Origen», pp. 108-11, 141-9; Pietri, «Les oratoria», pp. 237-9; Ronzani, «L’organizzazione spaziale», pp. 541-51; Sfameni, Residenze, p. 137. 93 Concilium Aurelianense A. 541, in Concilia Galliae, ed. Munier, c. 6, p. 139; cfr. Pietri, «Les oratoria», p. 239. 94 Pietri, «Les oratoria», p. 238. 95 Sotomayor, «Penetracion», p. 670; Monfrin, «L’insediamento», pp. 912, 919; V. Fiocchi Nicolai, «Alle origini della parrocchia rurale nel Lazio (IV-VI secolo)», in Pergola, Alle origini della parrocchia rurale, pp. 445-85: 462-3, nota 53; K. Bowes, A. Gutteridge, «Rethinking the later Roman landscape», Journal of Roman Archaeology, 18, 2005, pp. 406-413: 413; Bowes, Private Worship, p. 15; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», pp. 446, 451. 96 V. supra. 97 V. Fiocchi Nicolai, «Archeologia medievale e archeologia cristiana: due discipline a confronto», in S. Gelichi (a cura di), Quarant’anni di Archeologia Medievale 91
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insediativo si rivela determinante per individuare chiese di emanazione episcopale (le parochiae) e gli edifici di cui ci parlano le fonti che abbiamo finora analizzato98. Anche una precisa e affidabile cronologia risulta essenziale per inquadrare correttamente le chiese nella dinamica storica dell’edificio di culto nelle campagne. Ma indicatori archeologico-topografici di questo tipo sono raramente a disposizione (e, quando ci sono, la loro affidabilità è da vagliare con molta attenzione). La presenza di una villa ancora in funzione nella tarda antichità in prossimità o nel sito di una chiesa spinge, come è evidente, verso l’identificazione con il tipo di edificio di culto ricordato nei testi di cui ci stiamo occupando, anche se non si può del tutto escludere, pure in questi casi, un intervento fondativo dei vescovi, magari a seguito di un passaggio di proprietà o di una donazione99. Il carattere di chiesa aperta alla processio publica (cioè alla frequentazione di tutti i fedeli residenti nel circondario, non solo di quelli che abitavano nella villa) può essere suggerito da alcuni indicatori, richiamati spesso negli studi sull’argomento: dalle dimensioni (ma le parole di Giovanni Crisostomo pesano come un macigno sull’affidabilità di questo indicatore)100, dalla presenza di un battistero (chiara in Italia. La rivista, i temi, la teoria e i metodi, Archeologia Medievale, Numero Speciale, Firenze, 2014, pp. 21-32: 26 e nota 75. 98 Cfr. Monfrin, «L’insediamento», pp. 912-4, 918-20; G.P. Brogiolo, «S. Stefano di Garlate e la cristianizzzione delle campagne», in G.P. Brogiolo, G. Bellosi, L. Vigo Doratiotto (a cura di), Testimonianze archeologiche a S. Stefano di Garlate, Como, 2002, pp. 285-315: 285-91; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», p. 454. 99 Bowes, Private Worship, p. 150, da cui Sfameni, Residenze, p. 132; Bowes, Gutteridge, «Rethinking», p. 413; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», p. 454; ma non si può nemmeno escludere che alcune chiese siano state fondate dagli stessi fedeli che abitavano nelle ville attraverso una sinergia di donazioni, come è attestato in alcuni villaggi: Sannazaro, La cristianizzazione, pp. 30-1; Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», pp. 118-9; Bowes, Gutteridge, «Rethinking», p. 413; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», p. 454. Sul problema della presenza degli edifici di culto cristiani in relazione alla continuità/discontinuità di vita delle ville, vedi ora A. Castrorao Barba, «Continuità topografica in discontinuità funzionale: trasformazioni e riusi delle ville romane in Italia tra III e VIII secolo», Post-Classical Archaeologies, 4, 2014, pp. 259-296, in particolare pp. 270-271, 281, 288-289. 100 V. supra; considerazioni importanti sulle dimensioni delle chiese in relazione al loro statuto in C. Whickam, «Chiese e insediamenti nei secoli di formazione dei paesaggi medievali della Toscana», in S. Campana, C. Felici,
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spia di un uso pubblico), da quella di istallazioni liturgiche complesse (recinzioni, subsellia, cattedre, amboni), testimonianza della presenza di un clero stabilmente officiante101; dall’esistenza di ambienti di servizio (sagrestie, sale di riunioni, pastofori) e di abitazioni per il clero residente102, nonché – si diceva – anche dalla mancanza di un uso funerario, almeno nelle fasi più antiche (la funzione sepolcrale, poteva essere demandata alle parrocchie e ai santuari martiriali (oltre che alle tradizionali aree funerarie), i quali, almeno in alcune regioni, assunsero presto prerogative di cura d’anime) 103. Nel 2005, in occasione del convegno tenutosi a Padova su “Archeologia e società tra tardoantico e altomedioevo”, avevo (credo per la prima volta, a livello complessivo) attirato l’attenzione sulla posizione delle chiese in rapporto alla articolazione delle ville di cui era certa l’utilizzazione nell’epoca in cui gli edifici di culto erano in funzione104. Notavo allora la loro ricorrente dislocazione in spazi di facile accessibilità (presso atri, peristili), spesso in posizione periferica o subito all’esterno delle ville. La cosa mi sembrava di un certo interesse nell’ottica di un riconoscimento del carattere ‘aperto’ degli edifici105. I casi laziali di S. Stefano sulla via Latina e di Mola di Monte Gelato (Fig. 8, n. 4, vedi Tavole a
R. Francovich, F. Gabrielli (a cura di), Chiese e insediamenti nei secoli di formazione dei paesaggi medievali della Toscana (V-X secolo). Atti del Seminario, San Giovanni d’Asso-Montisi, 10-11 novembre 2006, Firenze, 2008, pp. 444-6: 445-6. 101 Monfrin, «L’insediamento», pp. 914, 916; Bowes, Private Worship, p. 150; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», pp. 451-3. 102 V. supra. 103 I divieti di seppellire nelle chiese fondate dai privati, sistematicamente richiamati nella legislazione ecclesiastica (supra), fanno pensare che le chiese ‘parrocchiali’ di emanazione vescovile potessero, come nell’altomedioevo (Violante, «Strutture organizzative», p. 1140; A. Settia, «Pievi e cappelle nella dinamica del popolamento rurale», in Cristianizzazione e organizzazione ecclesiastica, pp. 445-89: 457-8; Saxer, «Les paroisses», p. 22; C. Treffort, L’Église carolingienne et la mort. Christianisme, rites funéraires et pratiques commémoratives, Lyon, 1996, pp. 165-7) accogliere sepolture o costituire i nuclei di aree funerarie contigue. Sui santuari martiriali rurali: Monfrin, «L’insediamento», p. 910; Saxer, «Les paroisses», pp. 25-9; V. Fiocchi Nicolai, M. Sannazaro, «Santuari rurali: caratteri e funzioni», in Martiri, santi, patroni, pp. 199-229. 104 Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», pp. 107-26. 105 Ibid., in particolare alle pp. 111-2, 114, 121.
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Colori) (benché qui la chiesa convivesse con una villa profondamente trasformata), ma anche quello della c. d. Villa di Plinio a Castelfusano (nonostante di questo insediamento manchino purtroppo indicatori concreti circa la continuità di vita in età tardoantica, a motivo, essenzialmente, delle inadeguate modalità di scavo) (Fig. 5, n. 6, vedi Tavole a Colori) mi sembravano illuminanti106. In particolare, la chiesa di Mola di Monte Gelato, databile nel V secolo, che una tradizione medievale vuole fondata dalla patricia Galla, figlia di Quinto Aurelio Simmaco, console del 485, risultava affacciarsi su una via pubblica e rivolgere la parte absidale all’antico cortile della villa, di cui sopravvivevano le gallerie porticate (Fig. 8, n. 4, vedi Tavole a Colori)107. Lo studio della dislocazione delle chiese in rapporto alle ville è stato ripreso da Kim Bowes nel volume del 2008 (e, più limitatamente, prima, da Alexandra Chavarría Arnau e, poi, da Alexis Oepen per i contesti spagnoli) 108; la Bowes ha rilevato tale posizione limitanea e quella in connessione con atri e cortili in molti altri casi, ricollegando giustamente tali collocazioni all’uso pubblico degli edifici (oltre che, nel caso delle dislocazioni subito all’esterno della villa, alla volontà dei committenti di delimitare con la chiesa lo spazio della proprietà, nonché, di esaltare, in un contesto territoriale più ampio, il prestigio dei fondatori, in continuità con la funzione che svolgevano templi e mausolei)109.
Ibid., pp. 108-12, 114 (con relativa bibliografia). Sulla chiesa della c. d. Villa di Plinio, da ultimo, S. Buonaguro, «La basilica paleocristiana anonima di Castelfusano. Nuovi dati dagli scavi 2007-2008», in Brandt, Pergola (a cura di), Marmoribus Vestita, pp. 287-303; su quella di Mola di Monte Gelato e il relativo insediamento, Bowes, Gutteridge, «Rethinking», pp. 410, 412. 107 Fiocchi Nicolai, «Il ruolo dell’evergetismo», p. 114. La tradizione della fondazione da parte di Galla potrebbe confermare che, ancora nel V secolo, l’insediamento manteneva il carattere di villa privata, anziché, come si tende oggi a credere, di fattoria riferibile ad una proprietà ecclesiastica: ibid.; D. De Francesco, Ricerche sui villaggi nel Lazio dall’età imperiale alla tarda antichità, Roma, 2014, pp. 40-2, 197. 108 A. Chavarría Arnau, El final de las villae en Hispania (siglos IV-VII d. C.), Turnhout, 2007, pp. 144-52; Bowes, Private Worship, pp. 130-52, 158-9; Oepen, Villa und christlicher Kult, pp. 480-90. 109 Bowes, Private Worship, pp. 135, 158-9. Anche le cappelle cristiane private delle domus aristocratiche delle città sorgono spesso in prossimità di cortili: Lippolis, La domus tardoantica, pp. 66-7; Sfameni, Residenze, pp. 113-4. Per l’ubicazione anche degli edifici di culto pagani presso i cortili delle ville, vedi infra. 106
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Agli esempi riportati, per quanto attiene alla collocazione periferica, da chi scrive e da Kim Bowes per il V secolo, se ne potrebbero aggiungere molti altri, come quello di Torre de Palma in Portogallo, dove una chiesa di fine V secolo-inizi VI, ad absidi contrapposte (forse preceduta da una più antica) e dotata di battistero, è posizionata alla periferia della zona residenziale della villa, in modo da essere facilmente raggiungibile dall’esterno (Fig. 5, n. 1, vedi Tavole a Colori)110. In Spagna, a Milreu, e in Gallia a Vandoeuvres, è da segnalare la presenza di chiese subito a ridosso delle ville, ma sempre all’esterno (nel
Chavarría Arnau, El final, pp. 149, 165-270; Bowes, Private Worship, p. 279, nota 277; Oepen, Villa und christlicher Kult, pp. 138-48; M.M. Langlay, S.J. Maloney, Å. Ringbom, J. Heinemeier, A. Lindroos, «A Comparison of Dating Techniques at Torre de Palma, Portugal: Mortars and Ceramics», in Å. Ringbom, R.L. Hohlfelder (eds.), Building Roma Aeterna. Current Research on Roman Mortar and Concrete. Proceedings of the conference, March, 27-29 2008, Helsinki, 2011, pp. 242-56: 253-5; sul carattere ‘aperto’ di questa chiesa, già Monfrin, «L’insediamento», pp. 916-7. In Spagna, edifici di culto con analoga posizione in rapporto alle ville sono probabilmente quelli di Las Calaveras (V secolo?) e La Cososa (VI secolo) (Fig. 5, nn. 2, 5, vedi Tavole a Colori): Chavarría Arnau, El final, pp. 149, 152, 222-4, 262-4; Bowes, Private Worship, pp. 137-8; Oepen, Villa und christlicher Kult, pp. 168-75, 388-92; vedi pure Ripoll, Velázques, «Origen», pp. 139-41; in Gallia, di Loupian (inizi V secolo) (Fig. 5, n. 3, vedi Tavole a Colori): Février, «La marque», p. 30; C. Pellecuer, H. Pomarèdes, «Crise, survie ou adaptation de la villa romaine en Narbonnaise Première? Contribution des récentes recherches de terrain en Languedoc-Roussillon», in P. Ouzoulias, C. Pellecuer, C. Raynaud, P. Van Ossel, P. Garmy (dir.), Les campagnes de la Gaule à la fin de l’Antiquité. Actes du colloque de Montpellier, Antibes, 2001, pp. 503-32; G.P. Brogiolo, A. Chavarría Arnau, Aristocrazie e campagne nell’Occidente da Costantino a Carlo Magno, Firenze, 2005, pp. 131-4; Sfameni, Ville, pp. 263-4; Bowes, Private Worship, pp. 149-50; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», pp. 454-5; Schneider, «Les églises rurales», pp. 446-51; forse di Salagon (ma la parte della villa rimasta in uso cambia probabilmente funzione): R. Guild, M. Vecchione, «Mane. Église Notre-Dame», in N. Duval (dir.), Les premiers monuments chrétiens de la France, 1: Sud-Est et Corse, Paris, 1995, pp. 81-4; id., «Prieuré de Salagon et abords», in Carte archéologique de la Gaule, 4, Paris, 1997, pp. 273-9; R. Guild, «N.-D. de Salagon», in Guyon, Heijmans (dir.), D’un monde à l’autre, p. 191; Y. Codou, «Du mausolée à l’église dans l’espace rural provençal: les cadres de la mort des potentes», Hortus Artium Medievalium, 18/2, 2012, pp. 317-27: 321, 323; Schneider, «Les églises rurales», p. 445; in Croazia, a Muline, nell’isola di Ugljan (Fig. 5, n. 4, vedi Tavole a Colori): P. Chevalier, Ecclesiae Dalmatiae. L’architecture paléochrétienne de la province romaine de Dalmatie (IVe-VIIe s.) (En dehors de la capitale, Salona), 1: Catalogue, Rome-Split, 1995, pp. 96-8; Bowes, Private Worship, pp. 138-41. 110
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caso spagnolo, l’edificio si impianta, forse nel VI secolo, entro un mausoleo più antico) (Fig. 6, nn. 1-2, vedi Tavole a Colori)111. Estremamente importante è il caso della ben nota villa di Palazzo Pignano in provincia di Cremona. Una rilettura di tutto questo eccezionale complesso residenziale, recentemente condotta da Marilena Casirani, ha portato ad ipotizzare, con argomenti convincenti, una funzione pubblica anche della particolarissima e monumentale chiesa a pianta centrale, costruita alla periferia della villa, in un terreno – si badi – non occupato in precedenza da altri edifici e nella medesima fase di impianto della residenza, cioè nella seconda metà del IV secolo (la chiesa fu dunque ‘programmata’ insieme ai vari padiglioni della villa) (Fig. 6, n. 3, vedi Tavole a Colori)112. La facciata dell’edificio, che venne dotato di battistero in una fase successiva, era significativamente rivolta verso una strada pubblica (Fig. 7, A, vedi Tavole a Colori); un’entrata secondaria, che si apriva nel muro circolare perimetrale, dalla parte opposta rispetto all’ingresso principale, dava verso
Su Milreu: Chavarría Arnau, El final, pp. 279-83; Oepen, Villa und christlicher Kult, pp. 96-109; su Vandoeuvres: J. Terrier, «Approche archéologique des églises rurales édifiées au voisinage de la ville de Genève», in Hortus Artium Medievalium, 9, 2003, pp. 21-32: 22-3; Bowes, Private Worship, p. 141; J. Terrier, «L’apport des fouilles des églises rurales de la région genevoise à la connaissance de la christianisation des campagnes», in Gaillard (dir.), L’empreinte chrétienne, pp. 389-418: 391-6, 410. 112 M. Casirani, Palazzo Pignano. Dal complesso tardoantico al Districtus dell’Insula Fulkerii. Insediamento e potere in un’area rurale lombarda tra tarda antichità e medioevo, Milano, 2015 (con bibliografia sul complesso). Per altre ipotesi sulla funzione della chiesa: G. Cantino Wataghin, «Tardo antico e Altomedioevo nel territorio padano. Il territorio», in R. Francovich, G. Noyé (a cura di), La Storia dell’Alto Medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce dell’archeologia. Convegno internazionale (Siena, 2-6 dicembre 1992), Firenze, 1994, pp. 142-50: 146; ead., «Christianisation et organisation ecclésiastique des campagnes: l’Italie du nord aux IVe-VIIIe siècles», in G.P. Brogiolo, N. Gauthier, N. Christie (eds.), Towns and their Territories between Late Antiquity and the Early Middle Ages, Leiden-BostonKöln, 2000, pp. 209-34: 223-4; M. David, «Battisteri e vasche battesimali in Lombardia. Elementi di riflessione tra ‘vecchi’ e ‘nuovi’ scavi», in L’edificio battesimale, pp. 675-84: 681; Bowes, Private Worship, pp. 147-9; A. Chavarría Arnau, «Chiese ed oratoria domestici nelle campagne tardoantiche», in M. Bassani, F. Ghedini (a cura di), Religionem significare. Aspetti storico-religiosi, strutturali, iconografici e materiali dei sacra privata. Atti dell’Incontro di Studi, Padova, 8-9 giugno 2009, Roma, 2011, pp. 229-43: 237; Sfameni, Residenze, pp. 126-8. 111
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gli ambienti abitativi (Fig. 7, C, vedi Tavole a Colori)113. La Casirani ripropone l’attribuzione della fondazione del complesso di Palazzo Pignano, in base essenzialmente al toponimo, a Valerio Piniano, marito di Melania la Giovane, entrambi ricchissimi e ben noti aristocratici cristiani114. L’edificio, nel medioevo, era dedicato a Martino di Tours, personaggio oggetto di particolare venerazione da parte dell’élite cristiana della seconda metà del IV secolo)115; nel X secolo svolgeva funzione di pieve116. Nei casi molto citati di Sizzano in Piemonte (Fig. 8, n. 2, vedi Tavole a Colori) e della villa di Fortunatus presso Fraga in Spagna (Fig. 8, n. 1, vedi Tavole a Colori) – cui si possono aggiungere quelli di Séviac in Francia (pure ben noto) (Fig. 8, n. 6) e di S. Stefano sulla via Latina (Fig. 8, n. 5, vedi Tavole a Colori) (e forse anche della villa di Ivinj in Croazia (Fig. 8, n. 3, vedi Tavole a Colori), di El Saucedo (Fig. 9, n. 1) e di Monte de Cegonha (Fig. 9, n. 2), ancora in Spagna), chiese di V-VI secolo sono collocate all’interno delle zone residenziali, ma nelle parti marginali di queste, sistematicamente collegate con atri, cortili, peristili, che ne facilitavano l’accessibilità117. D’altra parte, è Casirani, Palazzo Pignano, p. 46. Ibid., pp. 81-83; sulla coppia, Soraci, Patrimonia, e supra, nota 12. 115 Casirani, Palazzo Pignano, pp. 108-9; Melania e Piniano avevano ascoltato dalla voce del loro amico Paolino, a Nola, nell’anno 400, la lettura della Vita di san Martino scritta da Sulpicio Severo: Paolino di Nola, Le lettere, ed. Santaniello, 29, 14, p. 178. 116 Casirani, Palazzo Pignano, pp. 102, 104. 117 Su Sizzano: G. Spagnolo Garzoli, «Sizzano. Insediamento romano», Quaderni della Soprintendenza Archeologica del Piemonte, 10, 1991, pp. 168-70; ead., «Il popolamento rurale», in L. Mercando (a cura di), Archeologia in Piemonte, II, L’età romana, Torino, 1998, p. 67-88: 74; L. Pejrani Baricco, «Edifici paleocristiani nella diocesi di Novara: un aggiornamento», in Il cristianesimo a Novara e sul territorio: le origini. Atti del Convegno, Novara, 10 ottobre 1998, Novara, 1999, pp. 71-135: 80-3; G. Pantò, L. Pejrani Baricco, «Chiese nelle campagne del Piemonte in età tardolongobarda», in G.P. Brogiolo (a cura di), Le chiese rurali tra VII e VIII secolo in Italia settentrionale. VIII Seminario sul Tardo Antico e l’Alto Medoevo in Italia settentrionale, Garda, 8-10 aprile 2000, Mantova, 2001, pp. 17-54: 40-2; L. Pejrani Baricco, «Chiese rurali in Piemonte tra V e VI secolo», in Brogiolo, Chiese e insediamenti, pp. 57-85: 62-70; G. Spagnolo Garzoli, «Evoluzione e trasformazione del territorio dalla romanizzazione al tardo antico», in G. Spagnolo Garzoli, F.M. Gambari (a cura di), Tra terra 113
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Fig. 9 – Planimetria delle ville di El Saucedo (n. 1) (da Chavarría Arnau, El final) e Monte de Cegonha (n. 2) (da Chavarría Arnau, El final), con le relative chiese (evidenziate in cerchio).
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risaputo che alcuni ambienti e settori delle antiche ville rurali erano destinati ad una larga frequentazione, anche da parte dei non residenti; specie i larari o i piccoli templi, spesso collocati, appunto, in connessione con i cortili (così da essere facilmente raggiungibili)118, o gli ambienti termali, non di rado posti in zone periferiche e accessibili da passaggi che davano verso l’interno della villa e verso l’esterno119.
e acque. Carta archeologica della Privincia di Novara, Torino, 2004, pp. 75-116: 100-1, 489, n. 4; Brogiolo, Chavarría Arnau, Aristocrazie, p. 130; Bowes, Private Worship, p. 135; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», p. 456; sulla villa di Fortunato: Monfrin, «L’insediamento», pp. 915, 918; G. Ripoll, J. Arce, «The Transformation and the End of Roman villae in the West (Fourth- Seventh Centuries): Problems and Perspectives», in Brogiolo, Gauthier, Christie, Towns and their Territories, pp. 63-114: 75-77; Chavarría Arnau, El final, pp. 192-5; Bowes, Private Worship, pp. 133-5; Oepen, Villa und christlicher Kult, pp. 422-34; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», pp. 445, 447; su Séviac: J. Lapart, J.-L. Paillet, «Montréal-du-Gers. Lieu-dit Séviac. Ensemble paléochrétien de la villa de Séviac», in Les premiers monuments chrétiens de la France, 2: Sud-Ouest et Centre, Paris, 1996, pp. 160-7; Ripoll, Arce, «The Transformation», pp. 81-2; Monfrin, «L’insediamento», pp. 915, 917-8; Balmelle, Les demeures aristocratiques, pp. 106-11, 121-2; Bowes, Private Worship, p. 279, nota 277; M.-G. Colin, Christianisation et peuplement des campagnes entre Garonne et Pyrénées (IVe-Xe siècles), Carcassonne, 2008, pp. 124-7; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», p. 445; Schneider, «Les églises rurales», pp. 445, 458; su Ivinj (ma delle fasi di vita della villa poco conosciamo): A. Uglešić, Ranokršćanska arhitektura na području današnje zadarske nadbiskupije, Zadar, 2002; J. Baraka, Civitates, castra e siti isolani dell’arcipelago dalmata: topografia cristiana e realtà insediative, Tesi di Dottorato, A.A. 2011-2012, Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, pp. 23-6; su El Saucedo: Chavarría Arnau, El final, pp. 254-7; Bowes, Private Worship, pp. 268, 279, note 28 e 277; Oepen, Villa und christlicher Kult, pp. 321-32; su Monte de Cegonha: Chavarría Arnau, El final, pp. 275-6; Bowes, Private Worship, pp. 268-9, nota 39; Oepen, Villa und christlicher Kult, pp. 126-32; su S. Stefano sulla via Latina, supra. 118 Bowes, Private Worship, pp. 12, 28-30; M. Bassani, «Strutture architettoniche a uso religioso nelle domus e nelle villae della Cisalpina», in ead., Ghedini (a cura di), Religionem significare, pp. 99-134; Sfameni, Residenze, pp. 14, 25-6, 28-30, 67, 74, 77; cfr. Caseau, «The Fate», pp. 106-11. 119 Sfameni, Ville, p. 45 e passim. Anche templi e mausolei erano situati non di rado all’esterno delle ville: Bowes, Private Worship, pp. 34-7; Bassani, «Strutture», pp. 99-134; Sfameni, Residenze, pp. 86, 96. Sugli aspetti ‘pubblici’ delle ville aristocratiche, in generale, da ultima, Sfameni, Ville, e ead., Residenze, pp. 16-34.
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Ricostruire in dettaglio i percorsi di frequentazione delle ville si rivelerebbe essenziale per attribuire il giusto significato alla posizione delle chiese. La collocazione connessa con aree deputate al passaggio e marginali sembra imporsi (ma occorre approfondire la ricerca) ed è significativo che anche le fonti, come nei casi citati della villa di Macrina, di Adelfios, di Flavio Rufinus e di Ponzio Leonzio, talvolta attestino tale collocazione120. D’altra parte, anche i confronti con gli ambienti monastici coevi confermano che le chiese aperte alle comunità circostanti (non gli oratori riservati ai monaci) assumevano spesso questa posizione liminare121. In altri casi, come a Lullingstone in Inghilterra, l’edificio di culto – peraltro per nulla connotato architettonicamente e di dimensioni molto piccole (5m x 5) (Fig. 10, A) – è totalmente integrato nel settore abitativo della villa: il che fa pensare ad un suo uso veramente ‘privato’ (ma anche a Lullingstone è stata notata la possibilità di accedere all’oratorio dall’esterno)122, simile probabilmente a quello del sacrarium di Ausonio o di alcuni oratori documentati archeologicamente in ambito urbano123. Un altro indicatore da valorizzare nell’ottica dell’individuazione del carattere pubblico delle chiese è probabilmente l’apparato decorativo. V. supra. E. Destefanis, «Archeologia dei monasteri altomedievali tra acquisizioni raggiunte e nuove prospettive di ricerca», Post-Classical Archaeologies, 1, 2011, pp. 349-82: 368-9; Marazzi, La città dei monaci, pp. 94, 138-9; J. Batri, Monasteri di età tardoantica nel Massiccio Calcareo della Siria, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Roma La Sapienza, A.A. 2013-2014, pp. 69-72. 122 G.W. Meats, The Roman Villa at Lullingstone, 1: The Site, Chichester, 1979; 2: The Wall Paintings and Finds, Maidston, 1987; sugli affreschi: M. Ghilardi, «Le pitture della villa di Lullingstone quaranta anni dopo lo scavo: note per una rilettura», Rivista di Archeologia Cristiana, 79, 2003, pp. 289-312; A. Barbet, «Le chrisme dans la peinture murale romaine», in A. Demandt, J. Engemann (Hrsg.), Konstantin der Grosse. Geschichte, Archäologie, Rezeption. Internationales Kolloquium vom 10.-15. Oktober 2005 an der Universität Trier zur Landesausstellung Rheiland-Pfalz 2007 “ Konstantin der Grosse”, Trier, 2006, pp. 127-41: 131-4; K. Bowes, «Christian Images in the Home», Antiquité Tardive, 19, 2011, pp. 171-90: 175-7; propendono per un carattere privato: Chavarría Arnau, «Chiese ed oratoria», p. 230; Cantino Wataghin, «Vescovi e territorio», p. 447; Sfameni, Residenze, pp. 131-3; per una funzione pubblica: Brenk, Die Christianisierung, pp. 73-4; Bowes, Private Worship, pp. 131-3. 123 Cfr. supra, p. 110 e nota 84. 120 121
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Il materiale a nostra disposizione su questo tema è scarsissimo124. Tuttavia i casi di Lullingstone e delle due chiese pubbliche di Primuliacum fondate da Sulpicio Severo possono indicare delle piste di ricerca. Nel primo, nella decorazione pittorica che si dispiegava negli ambienti domestici adibiti al culto, la sfera del ‘privato’ si impone molto evidente, come attestano le immagini dei probabilissimi proprietari oranti dipinte sulle parete ovest dell’oratorio (Fig. 11, vedi Tavole a Colori), e, secondo una recentissima interpretazione, anche quelle dei registri superiori degli affreschi, sia dell’anticamera che della stanzaoratorio, ove sarebbero state raffigurate le attività agricole in cui era impegnata la famiglia proprietaria (Fig. 12, vedi Tavole a Colori)125; sfera del ‘privato’ che ritorna, per esempio, significativamente, nell’oratorio domestico urbano di fine IV secolo della casa sottostante la chiesa romana dei SS. Giovanni e Paolo al Celio126, o in quello situato all’interno dell’Ospedale di S. Giovanni in Laterano127. Di contro, le decorazioni che avrebbero dovuto ornare le due chiese di Primuliacum erano ispirate, come sappiamo da Paolino di Nola, ai temi del Bowes, «Christian Images », pp. 175-7. Meats, The Roman Villa, 2; Bowes, «Christian Images», pp. 175-7; F. Bisconti, M. Braconi, «Rotte figurative cristiane della tarda antichità: la rete dei movimenti iconografici tra isole e terraferma», in Isole e terraferma nel primo cristianesimo. Identità locale e interscambi culturali, religiosi e produttivi. Atti dell’XI Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana, Cagliari, Sant’Antioco, 23-27 settembre 2014, Cagliari, 2015, pp. 535-5: 540-1; alcune astruse interpretazioni in Ghilardi, «Le pitture», pp. 289-312. 126 B. Brenk, «Microstoria sotto la chiesa dei SS. Giovanni e Paolo: la cristianizzazione di una casa privata», Rivista dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, s. 3, 18, 1995, pp. 169-206; cfr. Bowes, Private Worship, pp. 88-92; Sfameni, Residenze, pp. 115-7 (con ulteriore bibliografia). 127 F.R. Moretti, «Storie cristologiche della cappella ‘cristiana’ nell’area del complesso ospedaliero San Giovanni», in M. Andaloro (a cura di), La pittura medievale a Roma (312-1431), 1: Corpus. L’orizzonte tardoantico e le nuove immagini (312-468), Roma, 2006, pp. 97-104; ead., «I pannelli dipinti della cappella ‘cristiana’ nell’area del complesso ospedaliero di San Giovanni», ibid., pp. 419-24; eadem, «Cappella cristiana», in M. Andaloro (a cura di), La pittura medievale a Roma (312-1431). Atlante. Percorsi visivi, 1: Suburbio, Vaticano, Rione Monti, Roma, 2006, pp. 243-50; sull’oratorio: Cerrito, «Oratori», pp. 410-6; Bowes, Private Worship, pp. 83-4; Y. Yamada, A. Cerrito, «Nuovi scavi e ricerche sulle prime fasi insediative cristiane nel complesso degli Horti Lucillae e della domus degli Annii (comprensorio ospedaliero S. Giovanni-Addolorata, Roma)», in Isole e terraferma, pp. 687-93. 124 125
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Fig. 10 – Planimetria della villa di Lullingstone (da Bowes, Private Worship).
Vecchio e Nuovo Testamento (di queste raffigurazioni Paolino aveva inviato all’amico Severo addirittura i bozzetti)128; il che ci riconduce ai contesti delle chiese urbane destinate ‘al popolo di Dio’, e alla fun-
Paolino di Nola, Le lettere, ed. Santaniello, vol. 2, 32, 5, 9, pp. 234, 244, 246; cfr. K. Weitzmann, W.C. Loerke, E. Kitzinger, H. Buchtal, The Place of Book Illumination in Byzantine Art, Princeton, 1975, pp. 109-10. 128
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Le chiese rurali di committenza privata e il loro uso pubblico
124 Il materiale zione catechetica a nostra chedisposizione le immaginisusvolgevano, questo temacome è scarsissimo sappiamo . dalle Tuttavia fonti,i in casi chiave di Lullingstone di “Biblia Pauperum”, e delle due nei chiese confronti pubbliche dei fedeli, di Primuliaspecie cum gli illetterati, fondate da cheSulpicio dalle immagini Severo possono traevano indicare esempidelle comportamentali piste di ricerca.e 129 . Nel principi primo, di base nelladella decorazione vita cristiana pittorica che si dispiegava negli ambienti domestici adibiti al culto, la sfera del ‘privato’ si impone molto evidente, come attestano le immagini dei probabilissimi proprietari oranti dipinte sulle parete ovest dell’oratorio (Fig. 11, vedi Tavole a Colori), e, secondo una recentissima interpretazione, anche quelle dei registri superiori degli affreschi, sia dell’anticamera che della stanzaoratorio, ove sarebbero state raffigurate le attività agricole in cui era impegnata la famiglia proprietaria (Fig. 12, vedi Tavole a Colori)125; sfera del ‘privato’ che ritorna, per esempio, significativamente, nell’oratorio domestico urbano di fine IV secolo della casa sottostante la chiesa romana dei SS. Giovanni e Paolo al Celio126, o in quello situato 127 129 Bianco, «Ritratti», pp. 301-2; Deichmann, Archeologia Roma, .Cristiana, Di contro, le all’interno dell’Ospedale di S.F.W. Giovanni in Laterano 1993, pp. 163-5; F. Bisconti, «Introduzione», in id. (a cura di), Temi di iconografi decorazioni che avrebbero dovuto ornare le due chiese di Primulia-a cristiana, Cittàispirate, del Vaticano, pp. 13-86: La presenza di sarcofagi cum erano come2000, sappiamo da70-1. Paolino di Nola, ai temidecodel
rati con temi cristiani, assegnabili alla fine del IV secolo, nel ben noto mausoleo di Saint-Maximin in Provenza ha fatto supporre un suo collegamento con una villa rurale tardoantica, i cui proprietari (sepolti nel mausoleo) avrebbero pure 124 Bowes, «Christian Images », pp. 175-7. promosso la costruzione della chiesa, dotata di battistero (V secolo), venuta alla 125 Meats, Theanni Roman Villa,del 2; Bowes, «Christian pp. 175-7; Bisconti, luce nei primi Novanta secolo scorso, non Images», lontano dall’edifi cioF.funerario: M. Braconi, «Rotte fi gurative cristiane della tarda antichità: la rete dei movimenti Février, «La marque», p. 29; id., «Saint-Maximin. Mausolée antique», in Duval iconografi ci tra isole e terraferma», in pp. Isole175-80 e terraferma nel ‘divinato’ primo cristianesimo. (dir.), Les premiers monuments chrétiens, (che aveva l’esistenza Identità locale e interscambi culturali, religiosi e produttivi. Atti dell’XI«La Congresso della chiesa paleocristiana prima del suo rinvenimento); J. Guyon, possible Nazionaleà di Archeologia Cristiana,deCagliari, Sant’Antioco, 23-27 settembre 2014, basilique transept et le baptistère l’antiquité tardive de Saint-Maximin», in F. Cagliari, 2015, pp. 535-5: 540-1; alcune interpretazioni in Ghilardi, pitGuidobaldi (a cura di), Domum tuamastruse dilexi. Miscellanea in onore di Aldo «Le Nestori, ture», pp. 289-312. Città del Vaticano, 1998, pp. 487-507: 500-1; Codou, «Du mausolée à l’église», pp. 126 «Microstoria la chiesa dei SS. Giovanni e Paolo: la nell’alcristia320, B. 323;Brenk, Cantino Wataghin,sotto «Vescovi e territorio», p. 452. A La Gayole, nizzazione di unamausoleo casa privata», Rivista di Archeologia trettanto famoso cristiano con dell’Istituto sarcofagi si èNazionale recentemente riconosciutoe Storia dell’Arte, s. 3, 18,di1995, 169-206; Bowes, Private Worship, pp. 88-92; un annesso funerario una pp. chiesa, la cuicfr. fondazione sarebbe da ricollegare ai Sfameni, pp. 115-7 ulteriore proprietariResidenze, di una vicina villa:(con Codou, «Dubibliografi mausolée a). à l’église», pp. 321-32. Il re127 F.R.diMoretti, «Storie cristologiche della cappella ‘cristiana’ nell’areaindel comcupero suppellettile liturgica di pregio, recante iscrizioni di donatori, contesti plesso SanfaGiovanni», Andaloro (a cura di), Lae pittura medievale di villeospedaliero tardoantiche, ipotizzare in la M. presenza in esse di chiese comunque l’ima Romadell’élite (312-1431), Corpus. L’orizzonte tardoantico le nuove (312-468), pegno nel1:dotare gli edifi ci di corredi idoneie al culto: immagini alcuni esempi in C. Roma, 2006, pp. 97-104; ead., «IBritain pannelli dipinti cappella ‘cristiana’ nell’area Thomas, Christianity in Roman to AD 500,della Berkeley-Los Angeles, 1981, pp. del complesso ospedaliero di Leader-Newby, San Giovanni», Silver ibid., and pp. 419-24; eadem, 104-22, 175, 186-9, 217; R.E. Society in Late «Cappella Antiquity. cristiana»,and in M. Andaloro (a curaPlat di),inLathe pittura medievale a Roma (312-1431). AtFunctions Meanings of Silver Fourth to Seventh Centuries, Aldersot, lante. Percorsi visivi, 1: Suburbio, Vaticano, Rione Roma, 2006, pp. 243-50; 2004, pp. 72-111; V. Luciani, «Il cristianesimo nel Monti, Kent attraverso le testimonianze sull’oratorio: Cerrito, pp. 410-6; Private Worship, 83-4; Y. architettoniche: origine«Oratori», e diffusione», Studi Bowes, e materiali di Storia dellepp. Religioni, Yamada, scavi e ricerche sulle prime fasi insediative 70, 2004,A.pp.Cerrito, 291-315:«Nuovi 301-5. Indicatori dell’esistenza di chiese sono anchecristiane altari e nel complesso degli Horti Lucillaerecuperati e della domus degli Annii ospealtri elementi di arredo liturgico in contesti rurali(comprensorio (non di rado pertidalieroa S. Giovanni-Addolorata, Roma)», in Isole e terraferma, pp. 687-93. nenti ville): Février, «La marque», pp. 30-1.
2. I luoghi del potere e gli spazi privati
Andrea Augenti Architetture del potere: i palazzi urbani tra tarda Antichità e Medioevo
Lo studio dei palazzi del potere dal punto di vista archeologico vanta una lunga tradizione, soprattutto rispetto al mondo classico. Gli studiosi dell’Antichità hanno infatti dedicato molte energie, nel corso del tempo, all’analisi e all’interpretazione dei complessi palaziali, anche quando – come nel caso più eclatante, quello del Palatino a Roma – le tracce materiali disponibili risultano molto rimaneggiate a causa di scavi effettuati senza metodo stratigrafico, e dunque molte informazioni si possono considerare perse per sempre. Ciò nonostante, bisogna riconoscere che in tempi piuttosto recenti proprio alcuni archeologi antichisti sono stati in grado di elaborare ipotesi molto interessanti sull’articolazione interna delle sedi del potere, sui percorsi possibili per proprietari e visitatori, e sulle funzioni dei singoli ambienti; e questo rispetto a vari livelli del tema in questione: dai palazzi imperiali (e qui penso alle ricerche di Paul Zanker) alle domus dell’aristocrazia senatoria (studiate da Andrew Wallace-Hadrill, Simon Ellis e Kim Bowes)1. Per questi studiosi è stato possibile affrontare anche la questione del rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, proprio relativamente alle sedi del potere, aprendo piste di ricerca davvero promettenti. Lo stesso argomento, senz’altro molto interessante, risulta ancora più difficile da sviluppare per l’archeologo medievista. Il motivo principale della difficoltà è analogo e complementare a quello che illustravo poco fa: proprio quegli stessi scavi sconsiderati, che – perlopiù tra gli ultimi decenni del XIX secolo e la prima metà del XX – hanno portato alla luce molti palazzi e residenze dei potenti del mondo romano, hanno
P. Zanker, «Domitian’s palace on the Palatine and the imperial image», in A.K. Bowman, K.M. Cotton, M. Goodman, S. Price (eds.), Representation of Empire. Rome and the Mediterranean World, Oxford, 2002, pp. 110-30; A. Wallace-Hadrill, «The Social Structure of the Roman House», Papers of the British School at Rome, 56, 1988, pp. 43-97; S. Ellis, Roman Housing, London, 2000; K. Bowes, Houses and Society in the Later Roman Empire, London, 2010.
1
Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 147-171 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116183
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Architetture del potere: i palazzi urbani tra tarda Antichità e Medioevo
causato la distruzione quasi indiscriminata delle fasi di occupazione di età medievale degli stessi complessi. Questo rende molto problematico qualsiasi approccio di carattere interpretativo, indirizzato a mettere in luce i temi di cui sopra: articolazione interna dei palazzi, funzioni degli ambienti e possibili percorsi. L’archeologo medievista, insomma, ancora più del suo collega antichista è costretto a lavorare su indizi e tracce, solo talvolta corroborati dalle informazioni fornite dai rari lembi di stratificazioni superstiti, scavate – finalmente! – come si deve, con il giusto metodo e con le domande ‘giuste’ in mente, ai giorni nostri2. Inoltre, occorre sottolineare che, se si vuole affrontare il tema con un taglio ampiamente diacronico, che consideri il fenomeno della costruzione e dell’uso dei palazzi del potere durante l’intero arco dei secoli del Medioevo (dal IV/V fino perlomeno al XIV secolo), allora ci si scontrerà con una ulteriore carenza, stavolta tutta interna all’archeologia medievale, soprattutto italiana: lo scarso peso dato finora, da parte degli archeologi medievisti, alle indagini sull’evoluzione urbana nel basso Medioevo, unito alla quasi totale riluttanza da parte degli stessi archeologi a misurarsi con i grandi complessi architettonici di rilievo, quali – appunto – i palazzi imperiali e comunali3. Per tutte queste ragioni, voglio mettere bene in chiaro fin da ora che un approccio alle architetture del potere medievali viste sulla lunga diacronia per il momento può prendere in considerazione il tema di questo seminario, ovvero il rapporto tra sfera pubblica e privata, soprattutto da uno specifico punto di vista: la relazione tra quelle stesse architetture e il contesto topografico circostante. Quanto erano aperti e
È il concetto alla base del mio volume Il Palatino nel Medioevo. Archeologia e topografia (secoli VI-XIII), Roma, 1996. 3 Buoni punti di partenza per affrontare questo tema sono: P. D’Achille, M.C. Rossini, s.v. «Palazzo», in Enciclopedia dell’Arte Medievale, 9, Roma, 1988, pp. 7895; P. Boucheron, J. Chiffoleau (dir.), Les palais dans la ville. Espaces urbains et lieux de la puissance publique dans la Méditerranée médiévale, Lyon, 2004; A.A. Settia, «I caratteri edilizi di castelli e palazzi», in E. Castelnuovo, G. Sergi (a cura di), Arte e storia del Medioevo, 2: Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, Torino, 2003, pp. 187-211. Una panoramica aggiornata, tutta dedicata all’Italia meridionale (un contesto che qui non affronto) e valida soprattutto per l’alto Medioevo, è G. Noyé, «L’espressione architettonica del potere. Praetoria bizantini e palatia longobardi nell’Italia meridionale», in J.-M. Martin, A. Peters-Custot, V. Prigent (dir.), L’heritage byzantin en Italie (VIIIe – XIIe siècle), 2: Les cadres juridiques et sociaux et les institutions publiques, Rome, 2012, pp. 389-451. 2
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comunicanti con il resto del tessuto urbano i palazzi del Medioevo? Si trattava di architetture chiuse, inaccessibili, che imponevano in forme assertive e respingenti il potere dei loro detentori? Oppure erano complessi facilmente avvicinabili, la cui articolazione prevedeva un certo grado di compenetrazione, di ‘porosità’ rispetto all’area circostante? O ancora, comprendevano perlomeno degli spazi di transizione, di mediazione con l’esterno, nei quali la sfera pubblica e quella privata potevano trovare un punto d’incontro, se non assiduamente perlomeno in alcuni momenti determinati? Sono proprio le domande alle quali cercherò di iniziare a rispondere in questa occasione, articolando una visione complessiva che ripercorre per grandi linee le trasformazioni dei complessi palaziali nel corso del Medioevo alla luce delle ricerche più recenti, e che spero possa fornire perlomeno qualche spunto di riflessione per ulteriori approfondimenti e ricerche future. 1. Mondi a parte (IV-VII secolo) A partire dal IV secolo nelle zone dell’impero si afferma una tipologia di palazzo che trova una grande diffusione in tutte le province. Sintetizzando al massimo, il modello trova il suo centro in un peristilio, attorno al quale si dispongono gli ambienti principali del complesso. Tra questi il più importante è senz’altro la grande aula absidata, generalmente posta in posizione assiale rispetto all’ingresso del peristilio, collocato sul lato opposto. Dove viene sperimentato per la prima volta questo modello? Tutti i dati a disposizione convergono nell’assegnare il ruolo di apripista al palazzo imperiale di Roma, sul Palatino. È qui, e in particolare nella Domus Flavia, che troviamo il più antico esempio di questo schema architettonico, con la grande Aula Regia affacciata sul peristilio4 (Fig. 1). Sul complesso del Palatino v. da ultimi M. Royo, Domus Imperatoriae. Topographie, formation et imaginaire des palais imperiaux du Palatin (IIe siécle av. J.C.-Ier siècle ap. J.C.), Rome, 1999; Zanker, «Domitian’s Palace»; R. Mar, «La Domus Flavia. Utilizzo e funzioni del palazzo di Domiziano», in F. Coarelli (a cura di), Divus Vespasianus. Il bimillenario dei Flavi, Catalogo della mostra, Milano, 2009, pp. 25063; U. Wulf-Rheidt, N. Sojc, «Evoluzione strutturale del Palatino sud-orientale in epoca flavia (Domus Augustana, Domus Severiana, Stadio)», ibid., pp. 268-79; U. Wulf-Reidt, «The Palace of the Roman Emperors on the Palatine in Rome», in M. Featherstone, J.-M. Spieser, G. Tanman, U. Wulf-Reidt (eds.), The Emperor’s House. Palaces from Augustus to the Age of Absolutism, Berlin-Boston, 2015, pp. 3-18. 4
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Fig. 1 – Roma, Palatino: Domus Flavia e Domus Augustana (da J.B. Ward-Perkins, Roman Imperial Architecture, New York, 1981).
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Lo stesso modello diventa in breve tempo, sempre a partire dai primi decenni del IV secolo, l’ossatura portante di molti complessi architettonici differenti tra loro: palazzi del potere civile, ville urbane, rurali, praetoria, palazzi vescovili. Si tratta di complessi diversi per funzioni specifiche e per tipologia dei loro titolari, ma la loro caratteristica comune è una soltanto: sono tutte architetture del potere, residenze dei membri delle élites di vario genere poste al vertice della scala sociale del mondo tardoantico5. A proposito di queste architetture si è scritto e si continua a scrivere molto, entrando nel dettaglio della loro articolazione, e pertanto non vorrei soffermare più di tanto la mia attenzione su di esse. Però mi interessa sottolineare soprattutto due aspetti. Innanzitutto, una delle principali caratteristiche di questi complessi consiste nel loro essere delle strutture chiuse, che lasciano intuire molto poco della loro articolazione interna a chi si trova fuori di esse. È solo una volta entrati che si percepisce la loro grandiosità, attraverso una progressione legata al percorso obbligato da compiere attraverso il peristilio (ed eventualmente altri ambienti) per raggiungere il punto focale, cioè la sala absidata. Insomma, il risultato è che questi complessi sono sostanzialmente dei ‘mondi a parte’: non ci sono spazi di mediazione tra dimensione pubblica e privata, tra il palazzo ed il resto della città, ma solo una forte istanza di ostentazione del potere e della ricchezza rivolta a chi è stato prescelto per esserne messo a parte, cioè il visitatore di turno. È quindi un modello basato su una prospettiva di netta separazione sociale, in poche parole. Il secondo aspetto: questo modello architettonico in realtà non è il solo, in età tardoantica. Gli si affianca perlomeno un altro tipo edilizio, che conosciamo soprattutto attraverso l’archeologia. I vecchi scavi condotti nella zona compresa nell’ampliamento delle mura di Brescia, ad ovest della città romana, sono stati recentemente rianalizzati F. Guidobaldi, «Edilizia abitativa unifamiliare nella Roma tardoantica», in A. Giardina (a cura di), Società romana e impero tardoantico, II. Roma: politica, economia, paesaggio urbano, Roma-Bari, 1986, pp. 165-237; Bowes, Houses and Society; L. Lavan, «The Praetoria of Civil Governors in Late Antiquity», in L. Lavan (ed.), Recent Research in Late Antique Urbanism, Portsmouth, 2001, pp. 39-56; Y. Marano, «L’edilizia cristiana in Italia settentrionale nel V secolo: la testimonianza dei complessi episcopali», in P. Delogu, S. Gasparri (a cura di), Le trasformazioni del V secolo. L’Italia, i barbari e l’Occidente romano, Turnhout, 2010 (Seminari SAAME 2), pp. 285-342. 5
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con grande attenzione da Gian Pietro Brogiolo, il quale è riuscito a ricostruire le caratteristiche portanti di un edificio scoperto proprio in quell’area6 (Fig. 2, vedi Tavole a Colori). Si tratta di un complesso con tre ali a pianta rettangolare, affacciate su un unico cortile centrale. Inoltre, occorre tenere presente che la struttura ha dimensioni davvero notevoli: il lato ovest misura ben 53 metri. Per difendere il complesso viene appositamente realizzato l’ampliamento delle mura urbane, e in un secondo momento l’edificio viene circondato da un colonnato. Di che struttura si tratta, quindi? Per comprenderlo bisogna seguire alcuni indizi piuttosto inequivocabili. Innanzitutto il rilievo dell’edificio nel quadro del paesaggio urbano, evidentemente così importante da dover essere incluso in un ampliamento del circuito difensivo; e poi un indizio topografico, desunto dalla tradizione antiquaria e – soprattutto – da alcuni atti notarili medievali che pongono in questa zona la curia ducis, cioè il palazzo del duca longobardo di Brescia (forse ancora visibile nel XII-XIII secolo, visto che compare nella toponomastica di quel periodo; oppure, più semplicemente, la memoria storica dell’edificio non si era ancora persa)7. Esiste perciò una buona probabilità che il complesso in questione fosse proprio il principale palazzo del potere della città di epoca altomedievale, forse costruito già in epoca gota. Una conferma ad una possibile datazione ‘alta’ dell’edificio di Brescia proviene dagli scavi della fortezza di Monte Barro. Qui, com’è noto, è stata indagata una parte dell’insediamento nella quale è compreso il cosiddetto ‘Grande Edificio’ (Fig. 3, vedi Tavole a Colori). Anche in questo caso si tratta di un complesso a tre ali a pianta rettangolare, disposte attorno ad un cortile centrale, chiuso sul quarto lato (quello dove si trova l’ingresso) da un semplice muro di recinzione8. L’edificio di Monte Barro è stato interpretato come il quartier generale della guarnigione di stanza nella fortezza; in più, il rinvenimento di una corona pensile, attributo di potenza nella tarda Antichità, ha fatto ipotizzare la presenza della sala in cui svolgeva le sue funzioni il comandante della stessa guarnigione,
G.P. Brogiolo, Brescia altomedievale. Urbanistica ed edilizia dal IV al IX secolo, Mantova, 1993, pp. 55-65; id., «Architetture e insediamenti nella Venetia et Histria tra VI e X secolo», in J. Schulz (a cura di), Storia dell’architettura del Veneto. L’altomedioevo e il romanico, Venezia, 2009, p. 6-89: 27. 7 Brogiolo, Brescia altomedievale, p. 64. 8 G.P. Brogiolo, L. Castelletti (a cura di), Archeologia a Monte Barro, 1. Il grande edificio e le torri, Lecco, 1991. 6
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al secondo piano dell’ala in posizione assiale rispetto al lato d’ingresso. L’edificio si data agli ultimi decenni del V secolo, ed è del tutto simile a quello già visto a Brescia. Tutti gli elementi messi a fuoco con precisione a Monte Barro sembrano quindi confermare le funzioni di ‘palazzo del potere’ dell’edificio di Brescia. Ma da dove viene questo secondo modello, che si affianca a quello già visto con peristilio e aula absidata? Da molto lontano nel tempo, e dall’ambito militare. Per ritrovarne altre attestazioni bisogna infatti guardare all’architettura delle fortezze militari, e in particolare ai principia. “Cuore psicologico dell’accampamento, che accoglieva il locale destinato alle insegne”9, tutti i principia di cui sono stati trovati resti materiali sono concepiti infatti nella stessa maniera: un complesso articolato intorno ad un cortile centrale (talvolta due), con l’edificio principale (la basilica) disposto sul lato opposto all’ingresso sul cortile10 (Fig. 4). Le architetture del potere militare e quelle del potere civile sono quindi in stretta correlazione, durante la tarda Antichità, e l’interscambio di modelli edilizi tra le une e le altre, alla luce di quanto visto, sembra un dato assodato. 2. L’età della transizione (VIII-IX secolo) Se quelli appena visti sono i modelli dominanti per l’edilizia palaziale dell’età tardoantica, le cose iniziano a cambiare nell’alto Medioevo, e in particolare tra l’VIII e il IX secolo. Innanzitutto bisogna sottolineare un dato essenziale: esistono tra queste due fasi (tardoantica e altomedievale) alcuni notevoli elementi di continuità, legati a forme architettoniche che persistono immutate nel corso del tempo. Prima tra tutte, l’aula absidata, che continua ad essere considerata molto a lungo un tratto distintivo dei palazzi. Ne conosciamo vari esempi, costruiti proprio in questo periodo in Italia e in Europa, in alcuni centri del potere civile così come in quelli del potere ecclesiastico. Troviamo aule absidate, ad esempio, nei palazzi carolingi di Ingelheim e Aquisgrana11; e in quello
Y. Le Bohec, L’esercito romano. Le armi imperiali da Augusto alla fine del terzo secolo, Roma 2008, pp. 141-2. 10 M. Reddé, R. Brulet, R. Fellmann, J.K. Haalebos, S. von Schnurbein (dir.), L’architecture de la Gaule romaine. Les fortifications militaires, Bordeaux, 2006, pp. 89-102. 11 U. Lobbedey, «Carolingian Royal Palaces: The State of Research from an Architectural Historian Viewpoint», in C. Cubitt (eds.), Court Culture in the Early Middle Ages. The Proceedings of the First Alcuin Conference, Turnhout, 2003, pp. 9
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Fig. 4 – Piante di alcuni principia del mondo romano (da Reddé, Brulet, Fellmann, Haalebos, von Schnurbein, L’architecture de la Gaule romaine).
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pontificio del Laterano, dove al tempo di papa Leone III (795-816) ne vengono costruite ben due12. Sono le lievi differenze tra questi ambienti, e soprattutto il numero delle absidi, a indicare due aspetti molto importanti. Da un lato la persistenza dell’aula absidata dimostra che prosegue l’esistenza di un linguaggio comune delle architetture del potere, un linguaggio che viene dall’Antico, sedimentato e percepito come valido ancora molti secoli dopo le sue prime apparizioni. Dall’altro lato, queste stesse differenze dimostrano che i richiami al passato, all’Antichità, sono riferibili a più luoghi, e finiscono per confondersi tra loro in un continuo rimbalzo di citazioni da una sede del potere all’altra. Mi spiego meglio: chi può asserire con certezza che l’aula absidata di Aquisgrana, voluta da Carlo Magno, riprenda l’aula del palazzo di Treviri, e non l’Aula Regia del Palatino, la Basilica di Massenzio o l’aula del Palazzo di Teoderico a Ravenna (Fig. 5)? E il triclinio con 11 absidi di Leone III al Laterano trova il suo riferimento principale soltanto a Costantinopoli, nella famosa sala a 19 absidi del Grande Palazzo, o anche in altri edifici del mondo tardoantico per la maggior parte non sopravvissuti fino ai giorni nostri?13 Non possiamo avere sicurezze in proposito, e forse questa ambiguità era anche ricercata dagli stessi sovrani, per legittimarsi come eredi di più imperi, di più passati gloriosi allo stesso tempo; insomma, per trovare posto in più “territori ideologici” (qui uso una fortunata formula di Bryan Ward-Perkins)14. L’unica cosa certa, però, è
129-53. Cfr. anche il più aggiornato M. Untermann, «Frümittelalterliche Pfalzen im ostfränkischen Reich», in Featherstone, Spieser, Tanman, Wulf-Reidt, The Emperor’s House, pp. 106-26. 12 M. Luchterhand, «Päplisticher Palastbau und höfisches Zeremoniell unter Leo III.», in C. Stiegemann, M. Wemhoff (Hrsg.), 799. Kunst und Kultur der Karolingerzeit. Karl der Große und Papst Leo III. in Paderborn, Beiträge zum Katalog der Ausstellung, Mainz, 1999, pp. 109-22; A. Augenti, «Tutti a casa. Edilizia residenziale in Italia centrale tra IX e X secolo», in P. Galetti (a cura di), Edilizia residenziale tra IX-X secolo. Storia e archeologia, Firenze, 2010, p. 127-52: 128. 13 C.B. McClendon, The Origins of Medieval Architecture. Building in Europe, A.D. 600-900, New Haven-London, 2005, p. 126, sostiene una discendenza diretta del triclinio lateranense a 11 absidi da quello del Palazzo di Costantinopoli. In Occidente dovevano però esistere altri possibili modelli, come dimostra l’aula nella quale fu poi ricavata la chiesa di S. Balbina a Roma (F. Coarelli, Roma, Roma-Bari, 2008, p. 428). 14 B. Ward-Perkins, «Re-using the architectural legacy of the past, entre idéologie et pragmatisme», in G.P. Brogiolo, B. Ward-Perkins (eds.), The Idea and Ideal of the Town between Late Antiquity and the Early Middle Ages, Leiden-Boston-Köln, 1999, pp. 225-44.
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Fig. 5 – Sale absidate da palazzi tardoantichi e altomedievali a confronto (IV-IX secolo) (da Ward-Perkins, «Re-using the architectural legacy»).
che il discorso del potere mediato dalle architetture continua ad usare un linguaggio aulico, antico, anche nell’alto Medioevo; e questo indifferentemente dalla sfera del potere a cui è riferito, che sia laico o ecclesiatico. Se approfondiamo l’analisi concentrandoci su alcuni casi, ci accorgiamo che a volte è l’intero schema dei principali palazzi tardoantichi ad essere ripreso, citato in questo periodo. Succede proprio ad Ingelheim, dove gli edifici sono disposti attorno ad un cortile centrale (Fig. 6); e dove un’aula absidata è posta in posizione assiale rispetto all’ingresso (un ingresso monumentalizzato con un’ampia struttura semicircolare, dotata di torri in facciata proprio come accadeva in una specifica tipologia di ville romane), anche se non è l’aula absidata più grande del complesso, collocata sullo stesso lato ma presso l’angolo est15.
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Lobbedey, «Carolingian Royal Palaces», pp. 138-41.
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Fig. 6 – Palazzo di Ingelheim: planimetria ricostruttiva (da Lobbedey, «Carolingian Royal Palaces»).
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È molto differente, invece, la morfologia di palazzi come quelli di Aquisgrana, Francoforte e St. Denis16 (Figg. 7, 8, 9). In questi complessi assistiamo ad una certa semplificazione dell’impianto: sparisce il cortile centrale, viene ridotto il numero complessivo di edifici. Rimangono un’aula di rappresentanza, una cappella, una galleria porticata. Più in generale, la struttura dei palazzi tende a diventare lineare, non più accentrata come nel passato: gli edifici si dispongono lungo un unico asse, spesso collegati tra loro attraverso gallerie porticate o semplici corridoi. In sostanza, si mantengono in vita alcuni elementi ‘arcaici’, come la sala absidata, ma sono inseriti in una sintassi del tutto diversa. È quanto succede nei palazzi di Aquisgrana, Francoforte e St Denis, per citare gli esempi più noti e meglio indagati. E c’è di più: i palazzi sono anche luoghi della sperimentazione di nuove forme architettoniche; innanzitutto le torri, che iniziamo a trovare in questi complessi proprio dall’VIII secolo: ad esempio nel palazzo del Laterano, dove papa Zaccaria (741-752) ne costruisce una; anche ad Aquisgrana ne troviamo una, così come nel palazzo di Salerno, perlomeno dal IX secolo17. E poi, la grande sala rettangolare, nuovo elemento di spicco dell’architettura palaziale, che gradualmente sostituisce l’aula absidata ed avrà poi successo nel corso del Medioevo, dopo l’anno Mille. Una delle prime sale rettangolari la troviamo in effetti a Paderborn, ha dimensioni davvero notevoli (m 31 x 10) e si data con la prima fase del palazzo, cioè nel 776-77718 (Fig. 10, vedi Tavole a Colori). Alla semplificazione degli impianti di cui parlavo, dobbiamo aggiungere un altro elemento che si viene affermando proprio in questo periodo: la tendenza ad uno sviluppo verticale delle strutture, in particolare con l’aggiunta di un secondo piano, in genere destinato a funzione residenziale, dove spesso trova posto, tra le altre cose, una loggia19. Proprio una loggia è stata recentemente identificata nel palazzo dei principi
Ibidem, p. 148. P. Delogu, Mito di una città meridionale (Salerno, secoli VIII-XI), Napoli, 1977, pp. 44-5. 18 Lobbedey, «Carolingian Royal Palaces», p. 144; S. Gai, «Die Pfalz Karls des Großen in Paderborn. Ihre Entwicklung von 777 bis zum Ende des 10. Jahrhunderts» in Stiegemann, Wemhoff, 799, pp. 183-96. 19 B. Polci, «Some Aspects of the Transformation of the Roman Domus between Late Antiquity and the Early Middle Ages», in L. Lavan, W. Bowden (eds.), Theory and practice in late antique archaeology, Leiden, 2003, pp. 79-138. 16 17
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Fig. 7 – Palazzo di Aquisgrana (Aachen): planimetria ricostruttiva (da Lobbedey, «Carolingian Royal Palaces»).
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Fig. 8 – Palazzo di Francoforte: planimetria ricostruttiva (da Lobbedey, «Carolingian Royal Palaces»).
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Fig. 9 – Palazzo di St. Denis: planimetria ricostruttiva (da Lobbedey, «Carolingian Royal Palaces»).
longobardi di Salerno, e non c’è dubbio che la loggia – già studiata a suo tempo da Cagiano de Azevedo – sia uno dei tratti distintivi dell’architettura palaziale altomedievale20. Alle logge dobbiamo aggiungere i portici: un portico è stato individuato nello stesso palazzo di Salerno (Fig. 11). Questo elemento ci porta verso una ulteriore considerazione, rispetto al tema pubblico/privato. Loggia e portico costituiscono una P. Peduto, R. Fiorillo, A. Corolla (a cura di), Salerno. Una sede ducale della Langobardia meridionale, Spoleto, 2013; M. Cagiano de Azevedo, «Laubia», in id., Casa, città e campagna nel Tardo Antico e nell’Alto Medioevo, Galatina, 1986, pp. 111-43. 20
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grande novità, in quanto elementi di apertura del complesso verso l’esterno: nell’alto Medioevo sembra quindi iniziare lo scardinamento di una delle caratteristiche principali dei palazzi tardoantichi, ovvero la loro chiusura rispetto al contesto circostante. In particolare il portico, per definizione spazio di mediazione, di transizione e di accoglienza tra il potente che risiede nel palazzo e la comunità urbana, in questo stesso periodo si afferma anche nelle architetture delle abitazioni private (come confermano, ad esempio, le case del IX secolo trovate nel Foro di Nerva)21. La separazione tra sfera pubblica e sfera privata sta iniziando ad attenuarsi, evidentemente. Questo processo, che interessa più strati della società altomedievale, troverà il suo esito finale nei secoli successivi, come vedremo tra poco. 3. Nascita di nuovi modelli (X-XIII secolo) È a partire dal X secolo che inizia a diffondersi un nuovo modello di residenza dei potenti, costituito perlopiù da un edificio rettangolare, a volte affiancato da una torre. Si tratta di un tipo estremamente semplificato rispetto ai precedenti, che avrà successo nelle aree urbane così come in quelle rurali, in Italia e in altri paesi europei (ad esempio Francia e Germania). Negli ultimi anni l’archeologia è riuscita a indagare alcuni di questi complessi, e il panorama disponibile è davvero interessante. In Italia abbiamo l’esempio di Genova, e in ambito rurale quelli di Broili, presso Tolmezzo (UD), e di Arcidosso, sul Monte Amiata in Toscana22 (Figg. 12, 13). Il palazzo vescovile di San Silvestro a Genova si data alla seconda metà dell’XI secolo, ed è un massiccio edificio a pianta quadrata (m 11 x 11). L’edificio di Broili risale invece al X secolo, ed anche questo consiste di fatto in una torre, a pianta rettangolare (mq 50 di superficie interna). La stessa datazione – forse – è valida anche per quello di Arcidosso, una struttura a pianta quadrata (m 12 x 12) interR. Santangeli Valenzani, Edilizia residenziale in Italia nell’altomedioevo, Roma, 2011, pp. 80-9. 22 A. Cagnana, «Residenze vescovili fortificate e immagine urbana nella Genova dell’XI secolo», Archeologia dell’Architettura, 2, 1997, pp. 82-92 (Genova); A. Cagnana, «Indagini archeologiche sulle fortificazioni del territorio di Illegio», in A. Valoppi Basso (a cura di), Le fortificazioni e i castelli della Carnia, Udine, 2007, pp. 129-39 (Broili); M. Nucciotti, «Paesaggi dell’Impero nella Toscana del X secolo. Il palatium di Arcidosso: senso storico di un tipo edilizio europeo», Archeologia Medievale, 37, 2010, pp. 513-27 (Arcidosso). 21
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Fig. 11 – Palazzo di Salerno: planimetria ricostruttiva (da Peduto, Fiorilla, Corolla, Salerno).
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Fig. 12 – Palazzo vescovile di S. Silvestro, Genova (sinistra); ‘palazzo’ di Broili (destra) (da Nucciotti, «Paesaggi dell’Impero»).
Fig. 13 – Palazzo di Arcidosso: sezione (da Nucciotti, «Paesaggi dell’Impero»).
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Fig. 14 – Palazzo di Mayenne, assonometria ricostruttiva della fase di X secolo (da Renoux, «Du palais imperial aux palais royaux»).
pretata come residenza del marchese della Tuscia. In tutti questi esempi non è presente l’articolazione ‘palazzo con torre affiancata’, che invece si ritrova nel caso meglio analizzato in Francia, la residenza dei conti di Mayenne (Fig. 14). Qui, all’inizio dell’XI secolo, viene costruito un complesso che include una grande aula rettangolare a tre piani (m 14 x 10) ed una torre23. Per tornare all’Italia, una struttura del tutto simile a quella di Mayenne è il palazzo vescovile di Pistoia, la cui prima fase
A. Renoux, «Du palais imperial aux palais royaux et princiers en Francie occidentale (c. 843-1100)», in Featherstone, Spieser, Tanman, Wulf-Reidt, The Emperor’s House, pp. 93-106. Cfr. anche le considerazioni in O. Creighton, Early European Castles. Aristocracy and Authority, AD 800-1200, London, 2012, pp. 73-6. 23
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Fig. 15 – Palazzo vescovile di Pistoia, ricostruzione della fase di XI secolo (da Miller, The Bishop’s Palace).
risale all’XI secolo (Fig. 15); e – forse – doveva essere analogo per tipologia anche l’altro palazzo vescovile di Genova, quello di San Lorenzo (anch’esso datato alla seconda metà dell’XI secolo), se coglie nel segno una delle ipotesi formulate di recente, sulla base della quale il complesso era costituito da una grande aula rettangolare affiancata da una torre24 (Fig. 16). L’intero complesso, a due piani (esclusa la probabile torre), copre una superficie piuttosto ampia (m 24 x 7), e riguardo alle funzioni
M.C. Miller, The Bishop’s Palace. Architecture and Authority in Medieval Italy, Ithaca-New York, 2000 (Pistoia); Cagnana, «Residenze vescovili», pp. 75-82 (Genova). 24
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Fig. 16 – Palazzo vescovile di San Lorenzo, Genova: assonometrie ricostruttive (ipotesi a confronto) (da Cagnana, «Residenze vescovili»).
dei suoi ambienti è stato ipotizzato che “il piano-terra fosse destinato ai pubblici uffici e alle sale di rappresentanza, mentre la residenza vera e propria doveva trovare posto al piano superiore; ma poco o nulla si può aggiungere circa la suddivisione originaria degli spazi interni e la loro destinazione funzionale, a causa delle radicali trasformazioni subite nel corso del tempo”25. Una considerazione che – lo abbiamo già visto – purtroppo è valida per la maggior parte dei palazzi medievali superstiti. Questo schema è davvero molto essenziale, ed insiste nuovamente soprattutto sull’aspetto della verticalità. Quanto al rapporto interno/ esterno, i palazzi realizzati con queste caratteristiche risultano più chiusi dei precedenti, e quindi le esigenze difensive risultano perseguite in modo piuttosto insistente da parte della committenza. Molto probabilmente ciò dipende dal difficile momento storico in cui questi complessi vengono costruiti, verificatosi in corrispondenza della fine dell’impero carolingio: si tratta di un’epoca ad alto tasso di conflittualità (anche in ambito urbano), rispetto alla quale evidentemente i potenti si attrezza-
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Cagnana, «Residenze vescovili», p. 82.
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Fig. 17 – Palazzo arcivescovile di Parma (da Miller, The Bishop’s Palace).
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no non solo mediante la costruzione dei castelli, ma ricorrendo anche ad altre forme di architetture fortificate per le loro residenze26. Il modello appena descritto, però, non è unico: accanto ad esso sembra persistere lo schema di tipo lineare, con giustapposizione di edifici allineati lungo uno stesso asse. Stavolta si tratta di complessi più compatti rispetto a quelli di epoca altomedievale, perché i singoli corpi di fabbrica sono affiancati gli uni agli altri e non separati come in precedenza (e collegati tra loro attraverso portici o corridoi). In base alle più recenti indagini – che purtroppo non hanno previsto uno scavo – dovrebbe essere configurato così il palazzo vescovile di Parma, nella sua prima fase di XI secolo27 (Fig. 17); e anche il palazzo di Viterbo sembra caratterizzarsi per la stessa struttura28 (Fig. 18). Ma le cose cambiano, procedendo nel corso del tempo; e a partire dal XII-XIII secolo compaiono due ulteriori schemi di palazzo. Vediamo il primo: è il cosiddetto ‘modello toscano’, adottato nei centri comunali di quella regione già dagli ultimi decenni del XII secolo, proprio per i palazzi comunali, e successivamente anche altrove. Si tratta di un semplice parallelepipedo, compatto e piuttosto chiuso verso l’esterno29. Ma quanto è davvero ‘toscano’, e quanto è davvero chiuso questo modello? Recenti ricerche suggeriscono – e l’argomento sembra davvero tutto da approfondire – che in realtà questo tipo di palazzi trovi diffusione in buona parte dell’Italia centrale: perlomeno nel Lazio, in Umbria, nelle Marche e anche in Emilia-Romagna30. Rispetto alla presunta chiusura di questi blocchi edilizi bisogna invece registrare in più di un caso la 26 Cfr. A. Di Santo, Monumenti antichi, fortezze medievali: il riutilizzo degli antichi monumenti nell’edilizia aristocratica di Roma (VII-XIV secolo), Roma, 2010. Cfr. anche, ad esempio, le fortezze dei Frangipane attorno al Palatino (in particolare la munitio Chartularia): Augenti, Il Palatino nel Medioevo, pp. 89-102. 27 Miller, The Bishop’s Palace, pp. 174-5. 28 G.M. Radke, Viterbo: Profile of a Thirteenth Century Palace, Cambridge, 1996. 29 F. Menant, L’Italia dei comuni (1100-1350), Roma, 2011, p. 174. Cfr. C. Tosco, «Potere civile e architettura. La nascita dei palazzi comunali nell’Italia nord-occidentale», Bollettino storico-bibliografico subalpino, 97, 1999, pp. 513-45. 30 S. Diacciati, L. Tanzini, «Uno spazio per il potere: palazzi pubblici nell’Italia comunale», in S. Diacciati, L. Tanzini (a cura di), Società e poteri nell’Italia medievale. Studi degli allievi per Jean-Claude Maire Vigueur, Roma, 2014, pp. 59-80. Cfr. anche G. Andenna, «La simbologia del potere nelle città comunali lombarde: i palazzi pubblici», in P. Cammarosano (a cura di), Le forme della propaganda politica nel Due e Trecento, Roma, 1994, pp. 369-93.
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Architetture del potere: i palazzi urbani tra tarda Antichità e Medioevo
Fig. 18 – Palazzo papale di Viterbo (da Radke, Viterbo).
presenza di un porticato al pianterreno, dentro il quale si disponevano ambienti utilizzati per botteghe di artigiani e mercanti, nonché per l’attività dei notai. Gli esempi citati al riguardo sono quelli del Palazzo del Podestà di Bologna, del Palazzo dell’Arengo di Ascoli e di quello del Comune ad Orvieto31; ma sicuramente un’indagine di dettaglio sarebbe in grado di individuare molti altri casi del genere. Sotto questo profilo, rispetto al tema del nostro seminario, è del tutto corretta l’affermazione per cui “la società cittadina non era esterna all’edificio, ma in qualche modo lo compenetrava”32. Proprio in questi spazi si verifica ora quella commistione di pubblico e privato che abbiamo visto prendere piede nei complessi palaziali fin dall’alto Medioevo. Sarà anche il caso di aggiungere che tale Diacciati, Tanzini, «Uno spazio per il potere», pp. 62-3. Cfr. Menant, L’Italia dei comuni, pp. 172-3. 32 Diacciati, Tanzini, «Uno spazio per il potere», p. 62. 31
Andrea Augenti
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Fig. 19 – Broletto di Brescia (da Treccani, Coccoli, Scala, «Stratigrafie e restauri»).
commistione ha luogo anche nei palazzi vescovili, a riprova di quanto essa fosse un elemento trasversale a qualunque tipo di potere, essenziale nell’assetto complessivo (topografico e sociale) della città medievale33. Con il secondo modello, invece, ancora una volta siamo in presenza di un complesso disposto attorno ai quattro lati di un cortile centrale. Troviamo questa soluzione nella fase più avanzata (inizio del XIII secolo) dello stesso palazzo vescovile di Parma, appena visto (Fig. 17); e la ritroviamo anche nel Broletto di Brescia, da poco oggetto di uno studio analitico molto accurato34 (Fig. 19). Un ritorno consapevole ad uno schema di età antica/tardoantica? Non credo davvero, ormai i modelli di riferimento erano molto lontani nel tempo e già versavano di sicuro in condizioni pessime, per la maggior parte dei casi. Con buona probabilità dobbiamo quindi recepire questa nuova forma dei palazzi semplicemente come una novità tutta medievale, che – al limite, ma difficilmente lo si può dimostrare – fa più che altro riferimento alla struttura ormai consolidata dei complessi monastici.
Cfr. Miller, The Bishop’s Palace, p. 105, che cita in proposito i palazzi vescovili di Piacenza, Firenze e Pistoia. 34 Miller, The Bishop’s Palace, pp. 174-5; G.P. Treccani, C. Coccoli, B. Scala, «Stratigrafie e restauri al Broletto di Brescia», Archeologia dell’Architettura, 14, 2009, pp. 105-38. 33
Régine Le Jan Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle : Publice /publicus dans les actes diplomatiques
Introduction La question posée dans ce colloque est celle des espaces et des lieux, envisagés sous le rapport du public et du privé. Les travaux récents sur la spatialisation ont avancé l’idée d’une ‘déterritorialisation’ du pouvoir dans les sociétés post-romaines1. En fait, s’il est vrai que l’espace de pouvoir n’est pas uniformément dominé et qu’il n’est pas un territoire au sens wébérien du terme, il est perçu, ressenti, utilisé, à partir de lieux chargés de puissance symbolique où se mêlent étroitement le politique et le religieux : on a ainsi identifié des sites de hauteur, visibles dans le paysage, mais aussi des lieux anciens comme les cités, ou encore ceux que qualifie la présence du roi, comme les palais2. D’un autre côté, les débats autour de la construction de l’espace public, à la suite des travaux de Jürgen Habermas, conduisent aussi à considérer l’espace public comme un espace produit par des communautés, un lieu d’interactions où se construisent des rôles et des statuts sociaux3. Il y a au haut Moyen Âge, à l’échelle locale, des lieux où les communautés organisent des cérémonies, où elles font des actions juridiques, où elles donnent forme à leurs valeurs et à leurs normes, toutes actions qui relèvent d’un processus de construction identitaire d’un espace public. Par exemple, lorsque, en 630, le roi Dagobert quitte l’Austrasie pour prendre le
F. Mazel (dir.), L’espace du diocèse : genèse d’un territoire dans l’Occident médiéval, Ve-XIIIe siècle, Rennes, 2008. 2 R. Le Jan, La société du haut Moyen Âge, Paris, 2003, p. 110-27. P. Depreux, F. Bougard, R. Le Jan (dir.), Les élites et leurs espaces. Mobilité, rayonnement, domination (du VIe au XIe siècle), Turnhout, 2007 (Collection Haut Moyen Âge 5). 3 J. Habermas, L’espace public. Archéologie de la publicité comme dimension constitutive de la société bourgeoise (traduit de l’allemand par Marc B. de Launay), Paris, 1988. P. Boucheron, N. Offenstadt (dir.), L’espace public au Moyen âge. Débats autour de Jürgen Habermas, Paris, 2011. 1
Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 173-198 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116184
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Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle
contrôle du royaume de son père, il traverse la Bourgogne en passant par Langres, Losne, Chalon, Autun, Auxerre, Sens avant d’arriver à Paris. Selon Frédégaire, chaque étape fut l’occasion pour lui de rendre la justice et de se faire craindre de tous, en un mot de construire un espace de pouvoir4. De même, en 814, après la mort de son père, Louis le Pieux se hâta de gagner Aix-la Chapelle, mais il s’arrêta à Orléans, puis à Paris, pour visiter les tombeaux des saints5. Ces lieux où les souverains s’arrêtent pour accomplir des actions publiques sont chargés d’une puissance fondée dans le passé et le sacré, ce sont des points fixes où se mêlent inextricablement le politique et le religieux : les lieux où le roi Dagobert s’arrête pour rendre la justice et soumettre les élites sont des cités épiscopales, où la charge d’évêque est l’objet de luttes acharnées, tant localement qu’au palais ; quant au voyage de Louis le Pieux vers Aix-la Chapelle, il ressemble à un pèlerinage qui place le nouvel empereur sous la protection de Dieu, de la vierge et des saints, mais il est aussi l’occasion de rallier les fidélités. Le rapport entre l’autorité et l’espace pose donc la question du contrôle de l’espace public, de la visibilité des acteurs et de l’accès à la parole publique, qui déterminent aussi la légitimité ou l’illégitimité de ces lieux. Les communautés locales ont besoin de lieux où se réunir, organiser des cérémonies, passer des actions juridiques, pour maintenir leur cohésion et leur insertion dans la société englobante. Comment qualifier ces lieux ? Sont-ils des lieux publics, des lieux privés ? L’exemple des églises locales montre la complexité du problème. Ce sont des lieux de réunion, où l’identité commune s’est forgée et reproduite, mais elles sont souvent possédées par les groupes familiaux qui les ont fondées, ce qui a conduit les juristes à forger le concept d’Eigenkirchen par opposition à des ‘églises publiques’, qui seraient celles de l’évêque6. Or, les travaux récents ont conduit à abandonner le concept d’église privée, qui n’a guère de sens, au moins dans le monde franc, puisque toutes les églises relèvent d’un patron7. Ces églises, quoique
Frédégaire, Chronique, Livre IV, c. 58, éd. B. Krusch, MGH SS II, Hanovre, 1888. Ermold le Noir, Poème en l’honneur de Louis le Pieux, éd. E. Faral, Paris, 1932 (Les Classiques de l’histoire de France au Moyen Âge). 6 Voir U. Stutz, «Eigenkirche, Eigenkloster», in Realencyklopädie für protestantische Theologie und Kirche, 3, XXIII, Leipzig, 1913, pp. 363-77. 7 S. Patzold, «Den Raum der Diözese modellieren? Zum Eigenkirchen-Konzept und zu den Grenzen der potestas episcopalis im Karolingerreich», in Depreux, Bougard, Le Jan, Les élites, pp. 225-45. 4 5
Régine Le Jan
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possédées par des groupes familiaux, ne sont donc pas plus ‘privées’ que les églises dites ‘publiques’, et tout en étant des églises familiales, ce sont aussi des lieux de réunion et de cérémonies pour la communauté locale. La question des lieux publics serait-elle insoluble ? J’ai choisi de prendre le problème par le biais du vocabulaire attaché aux lieux, plus particulièrement de l’adjectif publicus. Il est utilisé dans les capitulaires et dans les traités carolingiens, souvent sous la forme res publica. À l’époque carolingienne, la chose publique n’est pas l’État au sens romain ou moderne du terme, elle se réfère au bien commun, à quelque chose de supérieur, de transcendant, qui s’impose aux communautés locales, qui fait société et qui garantit l’ordre divin. L’adjectif publicus n’est jamais opposé à privatus, mais il n’est pas neutre : il qualifie certaines actions, certaines institutions (le tribunal, le fisc), certains espaces et certains lieux. Pour avoir un corpus homogène, l’enquête lexicale a été faite à partir des termes publice et publicus dans les actes diplomatiques. Léopold Génicot avait ouvert la voie avec une enquête de ce type réalisée à partir des chartes de l’actuelle Belgique, du VIIe au Xe siècle, dans la perspective de la survie de la notion d’État au haut Moyen Âge. Il concluait que le terme publicus et ses dérivés étaient très rarement utilisés, le plus souvent seulement sous la forme de l’adverbe publice, ou encore pour désigner une route, et qu’aucun lieu n’était qualifié de publicus. Il mettait donc en doute la survie de la notion d’État au haut Moyen Âge8. Mais les travaux récents sur l’État ont été suffisamment nombreux pour qu’on ne se contente plus de mesurer le degré ou la nature de l’étaticité (Staatlichkeit, etaticity) à l’aune du vocabulaire ou des concepts hérités de l’Antiquité9. D’autre part, la proposition de Léopold Génicot peut être aisément retournée, car l’absence de qualification des lieux où s’exerçait la puissance publique, en particulier les cités, peut aussi L. Génicot, «Sur la survivance de la notion d’état dans l’Europe du Nord au haut moyen âge. L’emploi de publicus dans les sources belges antérieures à l’an mil», in L. Fenske, W. Rösener, T. Zotz (Hrsg.), Institutionen, Kultur und Gesellschaft im Mittelalter. Festschrift für Josef Fleckenstein zu seinem 65. Geburtstag, Göttingen, 1984, pp. 147-64. 9 S. Airlie, W. Pohl, H. Reimitz (Hrsg.), Staat im frühen Mittelalter, Wien, 2006 (Forschungen zur Geschichte des Mittelalters); W. Pohl, V. Wieser (Hrsg.), Der frümittelalterliche Staat. Europäische Perspektiven, Wien, 2009 (Forschungen zur Geschichte des Mittelalters 16). 8
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Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle
signifier que leur caractère publique était suffisamment fort pour ne pas devoir être précisé. On s’expliquerait ainsi son absence dans les régions situées à l’ouest du Rhin, anciennement romanisées. On ne peut donc en conclure que les lieux de pouvoir avaient perdu leur caractère de lieux publics et encore moins que la notion d’État avait disparu, les deux n’étant sans doute pas liés. Je prendrai donc en compte trois points importants : La distinction entre public et privé, qui est forte dans le monde romain, s’est estompée, plus ou moins fortement, dans de vastes régions du monde post-romain, en particulier en Gaule et en Germanie, sans pour autant qu’aient disparu les procédures d’enregistrement public des actions juridiques10, les gesta municipalia. L’emboitement de plusieurs formes de droits montre que les biens hérités, les églises et les monastères fondés sur l’hereditas, ou encore les biens fiscaux concédés par le roi ne sont pas des choses inertes, mais qu’ils portent en eux l’identité familiale qui garantit le statut et la cohésion du groupe. De la même manière, les grands établissements monastiques construisent leur identité à travers la mémoire de leurs actes11. Les formes verbales construites à partir du radical publi, en particulier l’adverbe publice et l’adjectif publicus ont toujours été polymorphes, même en latin classique. L’adverbe publice signifiait ainsi à la fois ‘au nom de l’Etat, officiellement’ et ‘agissant en public, s’adressant au public, publiquement’. Le dictionnaire Niermeyer ne donne pas de sens médiéval particulier pour publice mais traduit publicus par a) royal (trésor, monnaie, justice et au VIIIe siècle certains lieux comme castrum ou palatium), b) ce qui est officiel (les mesures de longueur, l’officier public, la via publica), c) le fisc. Le dossier retenu est celui des formulaires et des chartes de SaintGall, de Fulda, de Lorsch et de Wissembourg, en me limitant au VIIIe siècle. Je prends en compte l’eschatocole, avec la mention du
Voir J. Barbier, Archives oubliées du haut Moyen Age les ‘gesta municipalia’ en Gaule franque, VIe-IXe siècle, Paris, 2014, et W.C. Brown, «The gesta municipalia and the public validation of documents in Frankish Europe», in W.C. Brown, M. Costambeys, M. Innes, A.J. Kosto (eds.), Documentary Culture and the Laity in the Early Middles Ages, Cambridge, 2013, pp. 95-114, spécialement 116-7. 11 Voir pour Saint-Gall, M. Innes, «Archives, documents and landowners in Carolingian Francia», in Brown et al., Documentary Culture, pp. 152-88. 10
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lieu où le transfert de biens a eu lieu et l’acte transcrit. L’espace ainsi couvert concerne les régions qui ont fait partie des duchés d’Alsace, de Thuringe et d’Alémanie, disparus au cours du VIIIe siècle : le duché de Thuringe et celui d’Alsace dans les années 730, celui d’Alémanie en 744. Le maillage administratif y est resté très lâche, jusqu’à la réforme administrative de Charlemagne et la généralisation du système des comtés dans les années 770. La prise de contrôle est d’abord passée, plus ou moins difficilement, par le ralliement des groupes élitaires et par la tuitio royal sur les grands monastères, qui ont contribué au développement de vastes structures mémorielles et au transfert massif de biens à leur profit. C’est à l’occasion des transferts qu’on peut distinguer certains lieux, qui sont qualifiés de ‘publics’, puisque le terme est loin d’être absent dans les chartes de cet espace. Parmi les cartulaires retenus, seuls ceux de Fulda12 et de Wissembourg13 ont été faits au IXe siècle14. Pour Fulda, on n’a conservé du cartulaire de Raban Maur, rédigé d’une seule main en une vingtaine d’années à partir de 822, que le premier tome et des fragments d’autres tomes. Le manuscrit conservé à Marburg (Staatsarchiv Marburg, K 424) concerne le Gau d’Alsace (cahier 1) puis le Wormsgau (cahiers 2-10) avec une section pour Sturmi (744-779, cahiers 2-4) et Baugulf (779-802, cahiers 4-7), le Rheingau et le Nahegau sous Sturmi et Baugulf (cahier 11)15. À Wissembourg, la cartularisation n’a concerné que les Gaue d’Alsace, de la Seille et de la Sarre, et a été réalisée entre 855 et 86016. Les actes de Saint-Gall ont été conser-
12 Urkundenbuch des Klosters Fulda, tome 1, Die Zeit der Äbte Sturmii und Baugulf, ed E. Stengel, Marburg, 1958. 13 Traditiones Wizenburgenses. Die Urkunden des Klosters Weissenburg 661-864, ed. K. Glöckner et A. Doll, Darmstadt, 1979 (désormais TW). 14 Sur les cartulaires, H. Hummer, «The production and preservation of documents in Francia: the evidence of cartularies», Brown et al., Documentary Culture, pp. 189-230. 15 H. Hummer, «A Family Cartulary of Hrabanus Maurus? Hessisches Staatsarchiv Marburg, Ms. K 424, folios 75-82v», in U. Ludwig, Th. Schilp (Hrsg.), Nomen et Fraternitas, Festschrift für Dieter Geuenich zum 65. Geburtstag, Berlin/ New-York, 2008, pp. 645-64. 16 H.J. Hummer, Politics and Power in Early Medieval Europe, Alsace and the Frankish Realm, 600-1000, Cambridge, 2005, pp. 181-90.
178
Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle
vés en original et classés au IXe siècle, avec des notes marginales17, avant d’être copiés en un liber traditionum18. Ceux de Lorsch ont été copiés, souvent sous forme de notices sans lieu ni témoins, au XIIe siècle, mais les actes du VIIIe siècle sont reproduits intégralement dans la chronique19. Il nous faut donc prendre en compte les possibilités d’erreurs des copistes qui peuvent avoir confondu la forme adverbiale publice et l’adjectif publicus, en particulier dans les actes de Saint-Gall où le latin est particulièrement corrompu. Le choix du VIIIe siècle s’explique surtout par le fait que cette période est encore caractérisée par une grande diversité des formes, avant l’uniformisation générale du IXe siècle, qui laisse moins de place à l’improvisation. Publice Les notaires utilisent des formulaires, qui ont été particulièrement bien étudiés par Alice Rio20. Certains dataient de l’époque mérovingienne (Angers, Marculf ), d’autres du VIIIe siècle (Tours, Alsace). Les plus récents, comme celui de Saint-Gall (fin IXe siècle) peuvent se révéler intéressants pour la continuité des pratiques. Les formules de Marculf, qui remontent au VIIe siècle, et celles de Murbach (fin VIIIe siècle) ne s’intéressent guère aux mentions de lieu et se terminent souvent par la simple mention Actum ou Actum in illo loco. En revanche, dans d’autres collections, la mention publice apparaît avec celle du lieu : dans celles de Strasbourg, dans la collection de Saint-Gall de la fin du IXe siècle, alors même que les formules de Marculf sont utilisées.
M. Innes, «Archives», pp. 157-9. Urkundenbuch der Abtei Sankt Gallen, t. 1, 700-840, ed. H. Wartmann, Zurich, 1863. 19 Codex Laureshamensis, tome 2, ed. K. Glöckner, Darmstadt, 1929. 20 A. Rio, Legal practice and the Written Word in the Early Middle Ages. Frankish Formulae, c. 500–1000, Cambridge, 2009. 17 18
Régine Le Jan
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Formules de Saint-Gall 2
Donation
Actum in loco qui dicitur ill. publice, praesentibus…
3
Précaire
Actum in loco qui dicitur ill. publice…
4
Échange
Actum in loco ut prius…
14
Dot
Actum in ill. loco et ill. publice, praesentibus his…
Formules de Strasbourg 1
Libertas
Actum publice in loco ille…
3
Échange
Actum publice in loco ille…
Formules de Reichenau B 1
Actum in illo loco publice, presentibus…
2
Actum in illo loco publice, presentibus…
4
Actum in illo loco publice, presentibus…
5
Actum in illo loco publice, presentibus…
Dans les chartes elles-mêmes, l’eschatocole contient fréquemment l’adverbe publice. Les notaires de Wissembourg utilisent abondamment la formule actum + lieu +publice ou ajoutent publice après actum. À partir des années 770, ils laissent souvent tomber la voyenne e, aussi bien dans la formule actum publice + lieu que dans la formule Actum + lieu + publice, ce qui peut prêter à confusion. La confusion est encore plus grande dans les actes de Saint-Gall où publice/puplice devient souvent publici/puplici. J’y reviendrai. L’adverbe publice sert à attester que le transfert a été fait publiquement, en public. La publicité donne sa force à l’acte et lui confère sa validité, autant que la liste des témoins. En même temps, on constate
180
Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle
que certains lieux reviennent régulièrement et apparaissent ainsi comme des lieux de réunion sinon de pouvoir, ce qui est aussi un des sens de publice21. C’est évidemment le cas de certaines cités comme Mayence, Worms ou Strasbourg, mais aussi des monastères euxmêmes, où des actes sont passés publice. D’autres lieux reviennent régulièrement, où on se réunit publiquement pour passer les actes : c’est le cas de la villa de Weinheim dans le Lobdengau, où les notaires habituels sont venus enregistrer publice sept donations au monastère de Lorsch, entre mars et octobre 766, faites par des donateurs différents, pour des biens situés en plusieurs endroits. Dans les pagi d’Alsace et de la Sarre, qui sont l’objet du cartulaire de Wissembourg, certains lieux apparaissent clairement comme des lieux de pouvoir dotés d’un statut particulier, où on passe les actes publice : la civitas de Strasbourg bien sûr, mais aussi le vicus de Marsal où le duc Theotchar vend une part de saline en 682/322, où Theudrada fait une donation en 77723 et Heppo en 840-124, le castrum de Sarrebourg (Werolad en 71325, 81826, 83827 ) ou encore Brumath où siège le tribunal (77128, 772/7529, 826 in mallo publico30), mais aussi des villae. Jusque dans les années 720, les actes des fondateurs sont souvent (mais pas uniquement) passés dans leurs propres villae : la villa de Berg en 71231, 71732, 73733, celle
R. McKitterick avait déjà identifié l’existence de lieux offrant la publicité nécessaire aux transactions, cf. R. McKitterick, The Carolingians and the written word, Cambridge, 1989, pp. 98-115. 22 TW n° 213. 23 TW n° 230. 24 TW n° 215. 25 TW n° 192. 26 TW n° 212. 27 TW n° 273. 28 TW n° 189. 29 TW n°26. 30 TW n°160. 31 TW n°233. 32 TW n°196. 33 TW n°37. 21
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de Waldhambach en 71334, 72435, celles de Rimsdorf en 71536,71837, de Biberkirch en 72038. Ce sont des lieux où s’ancrait le pouvoir familial (ainsi autour de l’église de Berg), sans que leur caractère public soit évident, et qui disparaissent ensuite, tandis que d’autres apparaissent, comme Bibersdorf en 82439, 83740, sans doute liés à d’autres groupes. Cependant, une fois que le monastère est passé sous le contrôle de Charles Martel, dans les années 730, la plupart des actes sont enregistrés au monastère, avec la mention publice, qui se maintient. Publice ou publicus ? Examinons maintenant l’usage de l’adjectif publicus dans les chartes. Il qualifie d’abord des routes (via publica), le tribunal (mallus publicus), mais aussi certains lieux où sont passés les actes. Parmi ces derniers, on trouve sans surprise le palais royal lui-même, qualifié de publicum dans des diplômes de Charlemagne pour Fulda, actés à Düren et Herstal : 67
774 24/9
Charlemagne
Actum Dura palatio publico
75
775 nov.
Charlemagne
Actum Dura palatio publico
77
777 7/1
Charlemagne
Actum Haristalio palatio publico
Une telle qualification était complètement absente des diplômes royaux mérovingiens, où alternaient les mentions du seul lieu, in palatio et (in) palatio nostro. Le changement semble s’être produit sous les fils de Charles Martel. Un diplôme de Charles, daté du 7 septembre
34 35 36 37 38 39 40
TW n°202. TW n°262. TW n°239. TW n°195. TW n°267. TW n°171. TW n°166.
182
Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle
741, à l’époque où il n’y a plus de roi, est passé à Quierzy, in palatio41, mais le 1er janvier 743, un diplôme du maire du palais Pépin pour l’église de Mâcon est fait à Metz, in civitate Metis in palatio regio42 et le 11 février de la même année, un jugement est rendu à Ver in palatio publico43. La chancellerie royale adopte ensuite cette dernière formule, qui entre en concurrence avec in palatio regio, in palatio nostro. Sous Louis le Pieux s’imposent palatio regio, palatio nostro. L’utilisation de l’ablatif publico laisse peu de doute sur le fait que l’adjectif était utilisé comme regius ou noster. Par définition, le palatium est à la fois la résidence royale et le siège du pouvoir, mêlant inextricablement les deux registres. Mais il est possible qu’en 748, Pépin ou son référendaire, n’aient pas pu ou pas osé utiliser in palatio regio et in palatio nostro, puisqu’il y avait de nouveau un roi, et qu’ils aient préféré le qualificatif public qui écartait toute mention royale, tout en se référant au pouvoir. Cependant, on ne peut écarter une contamination entre la formule adverbiale et la formule adjectivale. En 723, l’acte de dotation du cloître d’Utrecht par Charles Martel, maire du palais, est passé à Herstall villa publice44 et, en 726, sa donation à l’église du Saint-Sauveur d’Utrecht est passée à Zülpich, castro publico45. En apparence, l’adverbe indique seulement que l’acte est fait en public, mais la publicité de l’acte juridique peut également se confondre avec la spécificité des lieux : un castrum dont le caractère public ne faisait pas de doute pour Zülpich, et la villa patrimoniale d’Herstal, où s’ancraient le pouvoir et la gloire du maire du palais. Après 750, la confusion des termes devient explicite : les civitates sont assorties alternativement de publice, publici, publica , comme le montre l’exemple de Ladenburg (Rhein-Neckar Kreis, Bade-Wurtemberg). C’était le cheflieu du Lobdengau, un des pagi tenus par le comte Cancor, fondateur de Lorsch. Trois notaires différents y ont rédigé trois actes, pour trois donateurs, la même année. Le lieu est qualifié de castrum et de civitas publica. Il ne s’agit évidemment pas d’une cité épiscopale, mais d’un lieu probablement fortifié, au cœur du Lobdengau. 41 Die Urkunden der Arnulfinger, ed. I. Heidrich, in MGH Diplomata maiorum domus regiae e stirpe arnulforum, Hanovre, 2011, n° 14. 42 Ibid., n°17. 43 Ibid., n° 18. 44 Ibid., n°12. 45 Ibid., n° 13.
Régine Le Jan
183
Ladenburg/Lobduna dans les actes de Lorsch CL n°
Date
Auteur
Formule
Notaire
281
765 22/7
Siguuin
in Lobodone castro
Donadeus
274
765 13/11
Gumpert
in Lobdenensi ciuitate publica
Hassus presb.
673
765 17/11
Machelm
In Lobduna ciuitate publice
Notbald
On constate la même confusion pour d’autres cités. De nombreuses donations à Fulda sont passées à Mayence et à Worms : l’acte 137, de 762, précise que les biens offerts sont situés infra muros civitatis publice, l’acte étant passé à Mayence, civitatis publice. Ici, la confusion est totale entre le statut de la civitas et la publicité de la réunion. Dans l’acte 69, Mayence est clairement civitas publica, comme Worms dans les actes 50 et 90, et Strasbourg dans l’acte 187 : Les civitates dans les actes de Fulda 11
751 24/1
Adalbert
Moguntia civitatis publice
25
754 23/7
Comte Leidrat
Moguntie civitatis publice
28
756 22/2
Herimot
Mogontie civitatis publice
31
756 31/7
Rather
Actum In civitate Mogontie
37
762 18/12
Bernhar…
Intus muro Mogontiae civitatis publice Actum Mogunzie civitatis publice
38
763 25/6
Waluram
Actum In Loboduna civitate publice
42
765 11/5
Eggiolt
Actum Uuangiona civitate publice
43
766 juillet
Pépin roi
Actum Aurilianis civitate publice
44
766 24/9
Haribert
Actum Moguntie civitate publice
184
Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle
50
770 20/12
Folcrad et Agilulf
Actum Uuangiona civitatis publicae
52
776 16/2
Haguno…
Actum Mogontiae civitatis publice
55
771 17/9
Frotwin
Actum Mogontiae civitatis publice
59
772 24/2
Odagrus
Actum Moguntia civitate publice
69
775 18/9
Arugis
Actum Mogontia civitate publica
90
779 13/11
Charlemagne
Actum Uurmasia civitate publica
187
22/6/797
Theotard et Eburswind
Actum in Strazburga civitate publica
281
27/6/801
Theotard
Actum in Strazburga civitate publice
Dans les actes de Saint-Gall, l’adverbe tend aussi à se transformer en adjectif, par une contamination qui révèle la porosité des catégories ‘publiques’, entre ce qui est fait en public et ce qui relève de la puissance publique, pour les scribes et les copistes en tout cas : Les civitates dans les actes de Saint-Gall ChLA 45
Avt 14//751
Dudar
Actum in Augusta puplici
ChLA 164
13/1/762
Hrothard
Actum Constancie civitate puplice
Wart. 92
8/3/780
Charlemagne
Actum Vurmasia civitate publico
ChLA 141
30/7/797
les frères Hupert et isanbert
Actum in urbe Constantia publice
Cependant, le terme civitas fait toujours référence à des cités antiques qui sont devenues chefs-lieux de pagi, et ce quelle que soit leur taille. Lopodunum avait bien été élevé au statut de civitas dès l’époque de Trajan, en 58, et avait connu une réelle prospérité au haut Empire. Même après l’abandon de la Germanie intérieure et le déplacement du limes sur le Rhin, au IIIe siècle, la cité était restée sous l’emprise des Romains
Régine Le Jan
185
qui y construisirent un établissement fortifié le long du Neckar, au IVe siècle, avant qu’il ne tombe aux mains des Alamans. Il ne fait pas de doute qu’à l’époque des ducs alamans, Lobduna avait conservé son importance stratégique et son castrum, et que son statut d’antique civitas n’avait pas été oublié, en un mot qu’elle était restée un lieu chargé de mémoire, de pouvoir, et qu’elle était un lieu de rassemblement. Les scribes sont donc attentifs à bien distinguer les civitates, qu’ils n’hésitent plus à qualifier de publiques à partir du milieu du VIIIe siècle, ce qui, du point de vue juridique, était un pléonasme, sans pour autant que ce soit une règle. Durant la même période, un glissement comparable s’opère pour des castra, des vici et des villae : Castrum, vicus, villa Fond
Date
Donateur
Lieu
St-Gall
10/9/745
Lantbert
Actum in villa, qui dicitur Illinauuiae, publici presentibus (ChLA 41)
St-Gall
7/9/751
Ebo
Actum in Vahcinhova villa publici (Wahinkofen)
St-Gall
7/9/754
Rothpald
Actum villa Aninauua poblice (Henau) (ChLA 163)
St-Gall
18/12/757
Podal
Actum in villa Chambiz publice (Kembs) (ChLA 49)
St-Gall
759/760
Wachar
Actum in villa Heidinhoua publici (Heidenhofen) (ChLA 167)
St-Gall
10/10/762
Winibert
Actum in villa Uuilla puplici (Wil) (ChLA 166)
St-Gall
31/10/76228/8/763
Habert…
Actum ad Geltresheim in villa publica (Geldersheim)
St-Gall
11/10/763
Gundpert
Actum Tetiheim villa puplici (Stetten) (ChLA 59)
St-Gall
22/11/763
Hug
Actum in Uuigaheim villa puplice (Weigheim (ChLA 60)
St-Gall
9/8/770
Comte Robert, fils de Hnabi
Actum Iburinga, villa publica (Überlingen) (ChLA 71)
186
Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle
St-Gall
20/3/771
Hymmo prêtre
Actum Helingas villa puplici (ChLA 72)
St-Gall
22/11/772
Maganrad prêtre
Actum Fisgincas villa puplici (Fischingen) (ChLA 70)
St-Gall
1/8/773
Rodtaus
Actum in villa puplici qui dicitur Uuillimundingas (Willmandingen) (ChLA 81)
St-Gall
27/1/775
Emthrudis et Actum Ustra villa puplici (Uster) Gaerwin (ChLA 73)
St-Gall
26/6/775
Atta
Actu in Agurincas uuilla publici (Egringen) (ChLA 84)
St-Gall
20/1/778
Lantbert
Actum in villa, qui dicitur Louphaim puplici (Laupheim) (ChLA 88)
St-Gall
13/9/778
Hrambert
Actum Fiscbahc villa puplici (Fischbach) (ChLA 86)
St-Gall
16/3/779
Hiso
Actum Suarcinbag villa puplici (Scharzenbach) (ChLA 83)
St-Gall
13/5/781
Witerich
Actum villa Uuiza publice (Weizen) (ChLA 90)
St-Gall
11/1/782
Wolfhart
Actum Obarindorf villa puplice (Oberndorf ) (ChLA 96)
St-Gall
11/1/782
Otgaer
Actum Obarindorf villa puplice (Oberndorf ) (ChLA 97)
St-Gall
8/11/782
Roadpert
Actum in villa puplici qui dicitur Zuckenreod (Zuckenried) (ChLA 99)
St-Gall
1/9/785
Anshelm
Hactum in Scercingas villa publice (Schörzingen) (ChLA 113)
St-Gall
15 /786
Ekino
Actum in villam, qui dicitur Diripihaim puplicee (Dürbheim) (ChLA 108)
St-Gall
27/2/786
Ercampert
Actum in Murperch villa puplici (Maulburg) (ChLA 110)
Régine Le Jan
187
St-Gall
29/3/786
Chnuz
Actum in villa Duringas puplici (Theuringen) (ChLA 111)
St-Gall
3/5/786
Comte Gerold
Actum in villa Nagaltuna puplici (Nagold) (ChLA 107)
St-Gall
15/2/787
Evêque Agino
Actum Sisinga villa puclica (Singen) (ChLA 115)
St-Gall
28/6/787
Himma
Actum in ipsa uuilla, qui vocatur Uuiza publici (Weizen) (ChLA 116)
St-Gall
26/2/788
Petto
Actum in Zozinuuilare willa puplici (Zuzwill) (ChLA 118)
St-Gall
13/7/788
Werdo abbé de St-Gall
Actum in villa Elihcauia puplici (Elgg) (ChLA 117)
St-Gall
788
Wolfcoz
Actum in villa Perahmotingas publice (Bermatingen) (ChLA 119)
Fulda
25/3/784
Emhilt
In vico publico et villa quae dicitur Milize
St-Gall
6/12/789
Cundhart
Actum in villa Rotunuilla puplici (Rottweil) (ChLA 120)
St-Gall
13/12/789
Adalbert
Actum in villa publice Masginga (Müssingen) (ChLA 121)
St-Gall
24/1/790
Cozbert
Actum in Sulza villa puplici (Sulz) (ChLA 109)
St-Gall
13/4/791
Adalold
Actum in villa Uuangas puplici (Wängl) (ChLA 124)
St-Gall
15/11/791
Rihpert et Kebasinda
Actum in villa Scarcingas puplice (Schörzingen) (ChLA 125)
St-Gall
1/7/792
Rihpald
Actum in villa Puzinesuillare publice (Buswil) (ChLA 127)
St-Gall
10/4/793
Hiltigaer
Actum in Cheneinga villa publice (Klengen) (ChLA 130)
St-Gall
3/5/793
Heriker
Actum in villa puplice, qui dicitur Rangodingas (Rangendingen) (ChLA 131)
St-Gall
22/2/795
Vunolf
Actum in villa Tecerscai puplici (Tägerschen) (ChLA 134)
Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle
188
St-Gall
17/11/797
Ata nonne
Actum in villa Taguingas publice (Täbingen) (ChLA 133)
Fulda
799-800
Emhilt
Actum vico publico qui dicitur Miliza
St-Gall
15/5/800
Presb. Dingmund
Actum in Pregancia castro puplici (Bregenz)
St-Gall
17/7/800
Prunicho
Actum in villa, qui dicitur Hacanpahc poplici (Haganbach) (ChLA 150)
St-Gall
11/12/802
Hadubert
Actum in vico nuncupante Wagingas publice (Wehingen)
St-Gall
16/6/803
Ruading
Actum in villa publica qui dicitur Speichingas
St-Gall
27/4 807
Nanzo
Actum in vico publico Turigo (Zürich)
On note que dans les actes de Saint-Gall en particulier, la confusion est grande entre l’adverbe et l’adjectif, les scribes utilisant presque indifféremment puplici et publice, à la fin de la formule (in villa x puplici, in villa x publice/puplice) ou in x villa publice/puplici, qui dicitur). Pour un même lieu, on rencontre in villa publica x ou in x villa publica et puplici/publice. Ainsi pour Spaichingen : l’acte Wartmann 130 du 15/11/791 est passé in villa Scarcingas puplice, et les actes Wartmann 166 du 16/6/ 802 et 175 du 16/6/803, respectivement rédigés par le prêtre Hetti et le prêtre Radinc, in villa publica, qui dicitur Speuihingas. Il n’empêche que dans cette aire culturelle alémano-rhétienne, les lieux qualifiés de lieux publics, y compris les villae sont des lieux de pouvoir anciens, souvent d’origine romaine, parfois même antérieurs. Spaichingen, dont il vient d’être question, était un site fortifié depuis l’âge du fer, avec des fortifications sur une colline appelée Berg. Bregenz et Zürich, respectivement castrum publicum et vicus publicus, avaient été fondés à l’époque romaine sur des points stratégiques, elles avaient conservé leur prestige et leur importance sur les routes alpines. En 806, le tribunal public s’est tenu à Rankweil, un autre vicus fondé à l’époque romaine (Vinomna) sur la route allant de Coire à Augsbourg, dans la curtis ad Campos (Actum curte ad Campos, mallo publico46.
46
Wartmann, n° 187
Régine Le Jan
189
La diffusion de ces qualificatifs publiques ne me semble pas résulter d’une pression venue d’en haut, d’une sorte de réforme administrative avant la lettre. Elle semble plutôt s’inscrire dans une nouvelle géographie mentale qui marque une nouvelle étape dans l’intégration au royaume carolingien des régions situées dans les anciens duchés périphériques. Après la chute du duché hédenide vers 730, Charles Martel a mis la main sur les centres de pouvoir du duché, en particulier Wurzbourg et Hammelburg. La fondation de Fulda en 744 a fait partie de ce processus d’intégration, car le site fut choisi avec soin par Carloman dans la forêt Bochonia47. Les fouilles réalisées sur le site jusqu’en 1977 ont mis à jour un centre de pouvoir important avec une curtis fortifiée que l’on peut identifier à une résidence princière, et une église pré-bonifacienne48. Le palais, construit en pierre comme une villa romaine, date des environs de 700, c’est-à-dire de l’époque du duc Gozbert, et il est très vraisemblable que la curtis avait été édifiée par lui. Le palais fut brûlé, sans doute au cours d’un raid saxon, avant la chute du duché, mais le lieu était symbolique. En offrant cet emplacement où l’on pouvait réutiliser les pierres de la curtis pour le nouveau monastère, Carloman donnait à Fulda le contrôle de la mémoire thuringienne qui s’intégrait ainsi dans les structures mémorielles franques. La charte de fondation associait les élites de la région à la fondation et les encourageait à donner leurs biens au nouveau monastère, ce qu’elles firent massivement. L’acte de fondation cite parmi les témoins des prefecti parmi lesquels certains, comme Throand, sont qualifiés de viri magnifici dans une lettre que le pape Zacharie leur adressa quelques années plus tard pour leur rappeler qu’ils devaient s’adresser à l’évêque de leur diocèse pour ordonner les prêtres de leurs églises et pour consacrer les abbés et les abbesses de leurs monastères familiaux49. Cette élite dirigeante, qui avait formé l’entourage des ducs hédenides jusqu’à la chute du duché, s’est ensuite
Vita Sturmii c.12, p. 143; Urkundenbuch des Klosters Fulda, n.6, ed. E. Stengel, t.1 : die Zeit der Äbte Sturmii und Baugulf, Marburg, (Veröffentlichungen der historischen Kommission für Hessen und Walbeck X,1), 1913-1958. 48 H. Hahn, «Fulda Dombereich», in H. Roth, E. Wamers (Hrsg.), Hessen in Frühmittelalter. Archäologie und Kunst, Sigmaringen, 1984, pp. 301-8. 49 Lettre du pape Zacharie à Throand et d’autres hommes magnifiques (1er mai 748), MGH. Epistolae Merovingici et Karolini aevi, t.1, ed. W. Gundlach et E. Dümmler, Berlin, 1892, n°83, pp. 364-5. 47
190
Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle
ralliée aux Carolingiens, tout en restant largement autonome. La forêt Bochonia n’a pas de qualificatif, mais vingt ans après la fondation de Fulda, Geldersheim est qualifié de villa publica en 763-76350 et Milz de vicus publicus en 784 et 799/80051. Il s’agissait de lieux de pouvoir qui avaient sans doute été concédés par les ducs aux viri magnifici. Ils étaient restés en possession de leurs descendants qui les avaient maintenus en indivision autour d’églises familiales. Ces lieux sont intégrés dans une sorte de géographie publique (villa publica, vicus publicus), entre les années 760 et 780, avant de passer sous le contrôle de Fulda. Un processus identique de caractérisation d’anciens lieux de pouvoir est visible en Alémanie. Le duché a disparu en 744, et dès l’année suivante, il y a eu d’importants transferts de biens à Saint-Gall. Il est difficile de dire s’ils étaient destinés à mettre des possessions patrimoniales à l’abri, comme l’a suggéré Michael Borgolte52, ou le prix à payer pour le maintien des positions et du statut de ceux qui les possédaient, sans doute les deux à la fois. Les lieux d’enregistrement des actes sont toujours soigneusement choisis pour la mémoire et le prestige qui s’y attachaient. La villa publica d’Überlingen où le comte Robert passe un acte de donation à Saint-Gall en 770 était une résidence des ducs d’Alémanie sur le lac de Constance, attestée dès le duc Gunzo (†après 635). Sa caractérisation publique et la présence du comte Robert, descendant lui-même des ducs agilolfingiens par son père Hnabi, prouvent également l’intégration dans la géographie carolingienne du pouvoir. De même, la villa puplici de Rottweiler, où Cunhart enregistre son acte de donation en 78953, était d’origine En 762-763, l’acte par lequel Hahbertus et son épouse Hruadla/Hruadlaug donnent à Fulda des biens sis à Geldersheim et Pfersdorf, une dizaine de kilomètres au sud-ouest de Hammelburg, par les mains de l’abbé Sturmi et de l’abbesse Hruadlaug, est passé à Geldersheim même, in villa publica. Les biens appartenaient sans doute à la famille de Hruadlaug, qui devait être la nièce de l’évêque de Wurzbourg Megingoz, du comte Matto et de l’abbesse Hruadlaug (UB Fulda n° 39). 51 R. Le Jan, «Emhilt de Milz et la charte de fondation de son monastère (784)», in Retour aux sources. Textes, études et documents offerts à Michel Parisse, Paris, 2004, pp. 525-36. 52 M. Borgolte, «Die Alaholfingerurkunden. Zeugnisse von Selbstverständnis einer adligen Verwandtengemeinschaft des frühen Mittelalters», in Subsidia Sangallensia I, Saint-Gall 1986, pp. 287-322. 53 ChLA 120. 50
Régine Le Jan
191
romaine, elle était ensuite devenue un centre de pouvoir ducal, avant de passer sous contrôle carolingien. Si les civitates, les castra et les vici peuvent être mis en relation avec le domaine public, la villa est plus ambiguë, car le terme est neutre s’il n’est pas assorti d’un qualificatif. Qui plus est, des villae ‘publiques’, comme Geldersheim ou Milz, étaient aussi des possessions privées, sans qu’il faille y voir un processus de privatisation. C’est un phénomène comparable qu’on relève pour certains loci, eux aussi qualifiés de publics. Commençons par l’exemple de Lorsch. Le monastère de Lorsch a été fondé en 764, in loco nuncupato Lauresham, sur les biens patrimoniaux de Williswinde, veuve du comte Rupert, et de son fils Cancor. Ils donnent leur villa de Hahnheim à la basilique Saint-Pierre, l’acte étant passé Lauresham publice, avec les signa de Williswinde et de Cancor qui ont fait la donation, d’Heimeric, fils de Cancor, puis la souscription de l’évêque de Trèves, de celui d’Utrecht et de celui de Constance. Le notaire a écrit et reconnu la charte au nom de l’archevêque Chrodegang54. Le premier site du monastère fut abandonné trois ans plus tard et transféré à 700 mètres de là pour mettre le monastère à l’abri des eaux. Dans un laps de temps très court, entre 765 et 767, 17 actes, rédigés par les notaires habituels (Samuel, Wiglarius et Hariland) sont passés in loco publico qui dicitur/appellatur Lauresham., en alternance avec Lauresham publice, in monasterio Laur., in monasterio Laur. publice et in Laurissa. On en conclue que In loco publico qui dicitur Lauresham semble synonyme de Lauresham publice, ce qui confirme la porosité des formules. Mais In loco publico disparaît après 768 tandis que in Laurissa, in Laurissa publice se maintiennent jusqu’en 771, après quoi elles disparaissent aussi, à la suite du conflit entre l’abbé et la famille fondatrice, et du passage du monastère sous le contrôle royal. L’adjectif atteste assurément que ce simple locus était chargé de la puissance symbolique héritée des ancêtres des fondateurs, sans doute ancrée dans l’église Saint-Pierre, et qu’il portait en lui l’identité du groupe fondateur. La caractérisation de loci patrimoniaux comme lieux publics traduit l’interpénétration profonde du public et du privé, du public et du religieux, elle atteste aussi l’importance du concept global de ‘publicité’.
54
CL n°1.
192
Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle
Lorsch CL n°
Date
Donateur
Notaire Samuel
440
765-768
Germund
482
766 8/3
Wenilon
549
766 11/3
Udo et Raffold
674
766 13/3
Wintrulf
447
766 14/3
Rutbert
548
766 14/3
Drutbert
551
766 14/3
Drutlind
674
766 14/3
Eigilbert…
448
766 12/4
Hilferitus
417
766 12/4
Hairirad
283
766 25/6
Liuthard
550
766 1/8
Drutlind
449
766 1/8
Gumbert
617
766 15/10
Sigebert
858
766 3/11
Witherius
900
766
Nitherius
516
766 18/11
Frauhilde
789
766 31/12
Theutard et Richgardis
558
766 fin
Ditulf
279
766-768
Nordoin
280
766-768
Hildibert
In monasterio laur.
287
766-767
Gautserus
In monasterio Laur., publice
677
767 11/2
Bona
In Uinnenheim publice (Weinheim)
In monasterio Laur. Publice
In loco public qui dicitu Laur.
Régine Le Jan
Notaire Wiglarius In loco public qui vocatur Lauresham
In monasterio Laur. Finnenheim publice In monasterio Laur. Finnenheim publice Mannenheim publice Finnenheim publice In Finnenheim publice In Finnenheim publice In monasterio Lauresham Laur. Publice
Finnenheim publice In monasterio Laur. Publice Laur. Publice In loco public qui uocatur Laur. In. loco public qui vocatur Laur
In monasterio Laur.
Notaire Hassus presbiter
Notaire Hariland
193
194
Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle
CL n°
Date
Donateur
Notaire Samuel
697
767 27/2
Rutlindis
297
767 28/2
Olo et Bozulph
294
767 12/4
Waltharius
286
767 17/4
Manaold
In loco publice qui appellatur Lauresham
237
767 25/4
Walafrid
In monasterio Laur., publice
252
767 3/5
Stal et Riphuin
In monasterio Laur.
290
767 8/5
Gernand
In loco publico qui appellatur Laur.
235
767 27/5
Cilward
In monasterio Laur.
288
767 3-4/6
Alaicho
In monasterio Laur. Publice
1022
767 13/6
Gunbert
In Laurissa
397
767 24/6
Bertrude
485
767 28/7
Reginlindis
813
767 29/6
Rupert et Tietrade In monasterio Laur.
384
767 1/8
Nortwin
982
767 31/8
Willerus
289
767 8/6
Ruding…
In monasterio Laur.
451
767 29/6
Roolf
In monasterio Laur. Publice
430
767 31/7
Edelinde
In monasterio Laur., publice
676
767 6/8
Beddon..
553
767 18/8
Dudon
291
767 28/8
Liuthelm
In monasterio Laur.
552
767 13/9
Berthrudis
In monasterio Laur., publice
In monasterio Lauresham publice
Régine Le Jan
Notaire Wiglarius
Notaire Hassus presbiter
195
Notaire Hariland
In loco public qui appellatur a plurimis Laurisham In loco publico qui vocatur Laur. In Laur. Publice
In loco publico qui uocatur Laur. In loco public qui uocatur Laur.
In loco public qui uocatur Laur.
In loco publico qui uocatur Laurish. Publice in loco qui uocatur Laur.
196
Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle
CL n°
Date
Donateur
Notaire Samuel
441
767 21/10
Landrade
In monasterio Laur.
167
767 1/11
Turincbert, frère de Cancor
918
767 10/11
Rudung
299
767 11/11
Eberuuinus
418
767 1/12
Rudolf
304
768 1/3
Iungerade
298
768 30/5
Fricko
301
768 7/9
Humbert
385
768 1/11
1lftrude
305
769 3/8
Adalmann
308
769 15/9
Rissindis
929
769 17/9
Rootgardis
944
770 1/5
Aining
In Laurissa
517
770 3/5
Dudon
In monsterio Laur.
386
770 12/6
Herchenonis
In monasterio Laur. Publice
538
770 22/7
Gausericus
In monasterio Laur., publice
310
771 1/7
Autdadus
820
771 17/9
Hildegern
In loco publico Paterno uilla coram testibus
313
772 1/9
Giselhelm
In monasterio Laur.
248
772 17/3
Altramn presb.
In monasterio Laur. Publice
314
772 1/0
Giselhelm
Actum Laur.
251
772 6/12
Lampert
In monasterio Laur.
540
773 24/1
Liutuuin
In monasterio Laur., publice
494
773 28/4
Lambert
253
773 1/5
Teutlind
In monasterio Laur., publice
325
777 25/10
Hartuuig
In monasterio Laur.
936
793 11/7
Adrian
In Lauressam
In monasterio Laur. publice
In monasterio Laur.
Régine Le Jan Notaire Wiglarius
Notaire Hassus presbiter
Notaire Hariland
in monasterio Lauresham, publice In monasterio Laur. Publice In monasterio Laur. In monasterio Laur. In monasterio Laur. In monasterio Laur. In Laur. In monasterio Laur. Publice In Lauressa publice
In monasterio Laur.
In monasterio Laur.
197
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Lieux de pouvoir et espace public dans la Germanie du VIIIe siècle
Pour conclure, en tenant compte des habitudes notariales et des aléas des copies, on peut avancer quelques hypothèses en l’attente de recherches plus approfondies : Le fait que des actions juridiques soient passées en public et que des lieux soient qualifiés de lieux publics en Germanie au VIIIe siècle ne signifie pas que la notion de chose publique soit mieux perçue que dans les régions occidentales. C’est probablement le contraire. Cette qualification ne peut se comprendre en utilisant les catégories modernes de public et de privé, ou des catégories romaines qui avaient déjà évolué dans les derniers siècles de l’empire. Il faut au contraire partir de l’idée que publicus est une qualification qui s’ajoute, se superpose à un certain nombre de droits qu’elle ne fait pas disparaître complètement. Un transfert de bien est un acte cérémoniel, qui est fait en public, dans un lieu qui ne peut être un lieu dépourvu de sens. La qualification publique s’attache souvent à des lieux de pouvoir anciens, dont certains éléments, comme les murs fortifiés par exemple, étaient visibles dans le paysage. Dans les régions qui ont été romanisés comme l’Alémanie, l’Alsace, la Rhénanie, les termes classiques (civitas, vicus, castrum) se sont maintenus. Au milieu du VIIIe siècle, en Germanie, les espaces de pouvoir sont discontinus et les lieux de pouvoir ne forment pas un réseau structuré. Les palatia, les civitates et les castra qui étaient contrôlés par les ducs sont passés sous le contrôle des maires du palais puis des rois carolingiens. Mais les élites locales, qui étaient en position dominante avant la mise en place des comtés, contrôlent de multiples lieux de pouvoir. Comme on a revu à la baisse le nombre des fiscs royaux, y compris dans la région du Rhin Moyen, ces lieux de pouvoir étaient transmis et tenus au titre de l’hereditas, ce qui ne les empêchait pas d’être utilisés par des communautés plus larges que celle des cohéritiers, pour des actions réalisées publice. Ce sont donc des points fixes pouvant servir à structurer et à hiérarchiser des réseaux. Le terme publicus, en se généralisant comme qualification de lieux de pouvoir de statut et d’importance différents, crée une nouvelle géographie mentale qui unifie le réseau de lieux et qui contribue finalement à construire le pouvoir carolingien.
Riccardo Santangeli Valenzani Spazi privati e funzioni pubbliche nell’edilizia residenziale altomedievale
Il 25 dicembre del 438 il console Anicius Acilius Glabrio Faustus presentava al Senato il Codice Teodosiano, che sarebbe entrato in vigore nella parte Occidentale dell’Impero, come testo di riferimento della legislazione imperiale, dal successivo primo gennaio 4391. Quello che qui ci interessa, della memorabile giornata, è il luogo dove ebbe luogo questa seduta del Senato: come ci informa il prologo, il console convocò l’assemblea dei padri coscritti in domo sua quae est ad Palmam. Questa riunione ufficiale, e particolarmente solenne, del Senato, in una casa privata è il primo e, a quello che sappiamo, unico caso in tutta la storia di questa assemblea, ed è talmente isolato rispetto alla prassi romana da aver scatenato la fantasia degli storici nel cercare di individuare i motivi di questa innovazione: si è detto che la Curia era indisponibile in quanto in restauro2, che essendo dicembre era meglio riunirsi in un luogo più facilmente riscaldabile o anche che Acilio Fausto avesse preferito non muoversi da casa perché indisposto3. Evidentemente il punto non è tanto nella causa contingente, che può essere stata una qualunque, quanto il fatto che vediamo qui, per la prima volta, venire meno quella esigenza di distinzione, anche a livello topografico, tra la sfera pubblica e la sfera privata che aveva caratterizzato la prassi politica, Cod. Theod. gest. in sen. 12-3; sulla correttezza della data tràdita, ripetutamente messa in dubbio, vedi E. Dovere, «Epifania politica del Theodosianus. La pubblicazione romana del Codex», Mélanges de l’École française de Rome, 125, 2, 2013, pp. 307-26. 2 F. Guidobaldi s.v. «Domus: Anicius Acilius Glabrio Faustus» in E.M. Steinby (eds.), Lexicon Topographicum Urbis Romae, II, Rome, 1995, pp. 99-100, con rimando a una pagina di A. Chastagnol, Les Fastes de la Préfecture de Rome au BasEmpire, Paris, 1962, p. 288, nella quale peraltro lo studioso francese non avanzava nessuna ipotesi a riguardo e si limitava a notare la possibile vicinanza tra la Domus ad Palmam di Anicio Fausto e la Curia. 3 A. Degrassi, «L’iscrizione in onore di Aezio e l’Atrium Libertatis», Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma, 72, 1946-1948, pp. 33-44. 1
Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 199-211 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116185
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amministrativa e giuridica romana. La cristianizzazione può senz’altro aver giocato un ruolo importante in questo processo, facendo cadere nell’oblio, ad esempio, l’esigenza di svolgere le riunioni del Senato in un luogo religiosamente ‘inaugurato’. Nonostante siano state avanzate a riguardo varie ipotesi, non c’è concordia tra gli studiosi di topografia di Roma sulla localizzazione di questa domus “ad Palmam”: le altre attestazioni di questo toponimo sembrerebbero indicare un’area nei pressi del Foro Romano, ma sembra difficile trovare qui lo spazio dove collocare una grande domus aristocratica4. Più importante, in questa sede, è cercare di capire in quali spazi della residenza poté svolgersi la riunione. Le domus dell’aristocrazia senatoria tardo antica si caratterizzano per le grandi dimensioni, per la presenza di vasti spazi aperti e il gusto per le architetture curvilinee e specialmente, come elemento distintivo di questa tipologia edilizia, per la presenza di una grande aula absidata, riccamente decorata con intarsi di marmi colorati, interpretata come sala per le apparitiones del dominus alla sua clientela e forse anche, con il montaggio di uno stibadium nell’abside, come sala per banchetti, anche se probabilmente quest’ultima funzione era svolta essenzialmente dalle strutture polilobate che costituiscono un’altra caratteristica di queste domus5. Poiché la stagione in cui ebbe luogo la riunione del Senato del dicembre 438 rende difficile pensare che possa aver avuto luogo in uno spazio aperto, è estremamente probabile che essa si sia svolta nell’aula absidata della domus del console Anicio Fausto, certamente del tutto adeguata all’esigenza, se teniamo conto che le dimensioni di quelle note archeologicamente sono paragonabili a quelle della Curia, e in alcuni casi anche maggiori (la più grande è la cd. Biblioteca di Agapito sul Celio: la sua larghezza è di 20 m. cioè due di più della Curia, la lunghezza è sconosciuta, ma ampiamente maggiore di quella della Curia6). L’uso Guidobaldi, «Domus»; P. Liverani, «Osservazioni sui rostri del Foro Romano in età tardo antica», in Res Bene Gestae - Ricerche di storia urbana su Roma antica in onore di Eva Margareta Steinby, Roma, 2007, pp. 169-93; J. Hillner, «Domus, Family, and Inheritance: The Senatorial Family House in Late Antique Rome», Journal of Roman Studies, 93, 2003, pp. 129-145 5 F. Guidobaldi, «L’edilizia abitativa unifamiliare nella Roma tardoantica», in A. Giardina (a cura di), Società Romana e Impero tardo antico, II, Roma: politica economia paesaggio urbano, Roma-Bari, 1986, pp. 165-237; I. Baldini Lippolis, La domus tardo antica. Forme e rappresentazioni dello spazio domestico nelle città del Mediterraneo, Imola, 2001 6 Guidobaldi, «L’edilizia abitativa», pp. 198-202. 4
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per una importante funzione pubblica dell’aula absidata della domus del console Anicio Fausto non sarebbe che l’estrema conseguenza di un processo avviato nel momento della creazione di questa tipologia edilizia, agli inizi del IV secolo: essa nasce per svolgere delle funzioni cerimoniali e ‘istituzionali’, ad imitazione, sia pure nell’ambito dei rapporti di tipo privato tra il dominus e la sua clientela, di quelle che avevano luogo, con funzioni decisamente pubbliche, nelle analoghe aule delle residenze imperiali7. Questo allentamento della distinzione tra spazi pubblici e privati nella Roma tardo antica, tuttavia, si può seguire anche in senso inverso: non solo in questo uso pubblico di uno spazio residenziale, ma anche nell’uso di spazi pubblici a fini privati, fenomeno che è attestato almeno dal V secolo, con l’occupazione di aree certamente pubbliche da parte di famiglie e membri dell’aristocrazia8, sia per la costruzione o l’estensione delle proprie dimore (i casi più noti sono quelli della domus di largo Argentina, che si installa nell’area dell’antico Diribitorium9 e della domus di Cecina Albino10, che viene ad occupare una parte di un monumento pubblico, la Porticus Absidata, a seguito di una apposita concessione di Teoderico11), sia per le proprie attività evergetiche (come per la costruzione dello Xenodochio degli Anici nella Porticus Minucia12), sia per le attività di smontaggio e spoliazione di monumenti in abbandono, come le iscrizioni del patrizio Decio e di Geronzio vir specBaldini Lippolis, La domus tardo antica; I. Baldini Lippolis, «Case e palazzi a Costantinopoli tra IV e VI secolo», Corsi di Cultura sull’Arte ravennate e bizantina, 41, pp. 279-311; S. Settis, «Per l’interpretazione di Piazza Armerina», Mélanges de l’École française de Rome, 87, 1975, pp. 892-900. 8 R. Meneghini, «La trasformazione dello spazio pubblico a Roma tra tarda antichità e alto medioevo», Mélanges de l’École française de Rome, 115/2, 2003, pp. 1049-73; R. Santangeli Valenzani, «Public and Private Space in Rome during Late Antiquity and the Early Middle Ages», Fragmenta – Journal of the Royal Netherlads Institute in Rome, 1, 2007, pp. 63-82. 9 Guidobaldi, «L’edilizia abitativa unifamiliare», pp. 175-81. 10 Variae, IV, 30. 11 F. Guidobaldi, s.v. «Domus. Caecina Albinus», in Steinby, Lexicon Topographicum, II, pp. 28-9. 12 M. Ceci; R. Santangeli Valenzani, «La chiesa di s. Lucia de Calcarario. Nuovi dati dalle indagini a via delle Botteghe Oscure», in A.F. Ferrandes, G. Prandini (a cura di), Le Regole del Gioco. Tracce Archeologi Racconti. Studi in onore di Clementina Panella, Roma, 2016, pp. 235-48. 7
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tabilis ci testimoniano per il Foro di Augusto e il Colosseo13. È quindi l’intera separazione tra sfera pubblica e sfera privata che comincia a vacillare, anche se in questo periodo queste appropriazioni di spazi e strutture pubbliche a fini privati appaiono mediati e autorizzati dall’autorità, come mostra il caso citato della domus di Albino, e anche altri documenti, sempre dell’epoca di Teoderico, che autorizzano il riuso di monumenti in abbandono14. Questa politica può sembrare in contrasto con quanto testimoniato da altri documenti, di repressione di casi di appropriazione di edifici e strutture pubbliche; ad esempio la lettera di Teoderico al Senato che incarica il vir spectabilis Giovanni di indagare sui casi di spoliazione e di demolizione non autorizzata di templa et loca publica che il re aveva invece incaricato di restaurare15, lettera dalla quale si capisce chiaramente che responsabili di questi abusi sono proprio i rappresentanti dell’aristocrazia senatoria che avrebbero dovuto provvedere al restauro. La distinzione tra pubblico e privato si allenta dunque certamente già da quest’epoca, ma il fenomeno è fortemente legato alla struttura gerarchica della società, e riguarda essenzialmente le classi dominanti, lasciando alle classi inferiori eventualmente solo spazi nella clandestinità, come gli abitanti di quelle casas seu tuguria sorte nel Campo Marzio di cui una disposizione imperiale del 397 impone la demolizione16. Le due lettere di Teoderico che minacciano la morte per gli autori del furto di una statua di bronzo avvenuto a Como, e la tortura per i testimoni reticenti17, mostra la severità con la quale si perseguiva questa appropriazione, da parte delle classi subalterne (gli artifices evocati dalle lettere), di proprietà pubbliche (a forse anche la frustrazione di non riuscire più ad arginare il fenomeno). La mancanza di documenti di questo tipo emessi a nome di Amalasunta, Atalarico e Teodato, se non deriva da differenti scelte operate da Cassiodoro nella selezione delle lettere da pubblicare, può forse indicare una fine dell’in-
13 R. Meneghini, R. Santangeli Valenzani, Roma nell’altomedioevo – Topografia e urbanistica della città dal V al X secolo, Roma, 2004, pp. 70-2; R. Santangeli Valenzani, «Calcare ed altre tracce di cantiere, cave e smontaggi sistematici di edifici antichi», in A. Molinari, R. Santangeli Valenzani, L. Spera (a cura di), L’Archeologia della Produzione a Roma (secoli V – XV), Bari, 2015, pp. 335-44. 14 Variae, II, 23 e III, 29. 15 Variae, III, 31. 16 Cod. Theod. 14,14. 17 Variae, II, 35 e II, 36.
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teressamento dei successori di Teoderico al tema della preservazione dell’uso pubblico degli spazi e dei monumenti. Per il periodo successivo la nostra documentazione riguardo queste attività e questi fenomeni, difficilmente analizzabili a livello archeologico, si fa decisamente elusiva, Quando torniamo ad avere una manciata di dati, a partire dall’VIII e, specialmente, dal IX secolo, la situazione appare completamente mutata. Tratterò qui essenzialmente la situazione di Roma, che è quella che conosco meglio, e che, come vedremo, presenta a riguardo delle particolarità, integrandola con osservazioni relative ad altre realtà italiane. La Roma di quest’epoca è innanzitutto una città in cui gli spazi del pubblico si sono ristretti fin quasi ad annullarsi18; tutte quelle aree e quegli spazi che nella città antica si configuravano come pubblici, e che sembrano aver mantenuto nella maggior parte dei casi questo carattere fino all’inizio dell’VIII secolo (o quanto meno non mostrano tracce archeologiche di altri usi), appaiono ora occupate da abitazioni o aree coltivate; persino tra gli spazi religiosi, sempre più sono le chiese che vengono costruite all’interno delle curtes delle aristocrazie, divenendo delle vere cappelle private; la quasi totalità delle chiese databili al X secolo appartiene a questa categoria19. Come possono quindi svolgersi, in una struttura urbana di questo tipo, quelle attività che, nella nostra visione, appartengono alla sfera del pubblico? Prenderò in considerazione le due principali attività che, anche nell’ambito della società altomedievale, rientrano in questa sfera: l’attività militare e quella giudiziaria. Per quanto riguarda la prima, farò riferimento al caso posto dal Campus Agonis. È questo il nome con cui nel medioevo erano noti i resti dello Stadio di Domiziano, l’attuale piazza Navona20. Il vasto spazio dell’arena dell’antico monumento romano fu, nel medioevo, uno spazio pubblico, utilizzato con una specifica funzione, quella di campo per le esercitazioni della cavalleria della militia cittadina. Come ha re-
R. Santangeli Valenzani, «Public and Private Space in Rome during Late Antiquity and the Early Middle Ages», Fragmenta – Journal of the Royal Netherlands Institute in Rome, 1, 2007, pp. 63-82; 19 R. Santangeli Valenzani, Edilizia residenziale in Italia nell’altomedioevo, Roma, 2011, pp. 86-7. 20 J-F. Bernard (dir.), “Piazza Navona, ou Place Navone, la plus belle et la plus grande”. Du Stade de Domitien à la place moderne, histoire d’une évolution urbaine, Rome, 2014. 18
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centemente proposto in modo convincente Marco Vendittelli, lo stesso nome di Campus Agonis deriverebbe da questa funzione21. Il nome è attestato per la prima volta in un documento del 99922, e questo testimonierebbe quindi che questo uso dell’area doveva essersi stabilizzato in epoca ben precedente, se giunge a darle il nome, e questo può spiegare il fatto che, a differenza di tutti gli altri grandi spazi pubblici dell’area centrale della città, esso non venne mai occupato da edifici o attraversato da una viabilità, mantenendo fino ad oggi il suo carattere di spazio aperto. Ma lo stesso documento del 999 ci testimonia che il Campus era in quel momento di proprietà della nobile vedova Teodora e dei suoi figli, ed era rivendicato dal Monastero di Farfa, al quale il defunto marito di Teodora lo aveva (illegalmente, secondo i monaci) sottratto23. Come può conciliarsi la funzione ‘pubblica’ dell’area, come campo per le esercitazioni della militia cittadina, con la sua appartenenza a un complesso privato? Dobbiamo immaginare l’uso del Campo originariamente riservato a determinati gruppi familiari o consorterie di potere, legate alla famiglia che ne rivendicava la proprietà o al Monastero di Farfa, oppure l’uso pubblico prevedeva un qualche accordo con i proprietari e i concessionari (stipulato però da quale autorità, e in cambio di cosa?). Oppure il tutto avveniva sulla base di consuetudini, non formalizzate ma vincolanti? Sono domande alle quali, allo stato attuale della nostra documentazione, è impossibile dare risposta, ma che mostrano con chiarezza la complessità della definizione dei concetti stessi di pubblico e privato a questa altezza cronologica. Ancora più articolato il caso degli spazi della funzione giudiziaria, funzione che conosciamo meglio di altre, sia perché ad essa si riferiscono molti dei documenti scritti conservatisi, sia grazie agli studi di François Bougard e Chris Wickham per l’Italia Settentrionale, di Paolo Delogu per la Langobardia minor, di Pierre Toubert e ancora Wickham per Roma24. Conviene partire, per riprendere il filo della ricerca, da un
M. Vendittelli, «Il Campus Agonis nei secoli cenrali del medioevo: proprietà, insediamenti, usi sociali», in Bernard, Piazza Navona, pp. 459-69. 22 U. Balzani, I. Giorgi, Il Regesto di Farfa compilato da Gregorio di Catino, III, Roma, 1879-1914, pp. 154-5. 23 M.G. Fiore Cavaliere, «Le terme Alessandrine nei secoli X e XI. I Crescenzi e la “Cella Farfae”», Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte, s. III, 1, 1978, pp 119-45; M. Vendittelli, «Il Campus Agonis». 24 F. Bougard, La justice dans le Royaume d’Italie de la fin du VIIIe siècle au début 21
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tipo di struttura che possiamo definire liminare tra ‘pubblico’ e ‘privato”’, cioè il palazzo del sovrano. Il placito, la forma che assume nel periodo altomedievale l’assemblea giudiziaria, si svolge generalmente, sia nel Regnum che nei ducati e poi principati dell’Italia meridionale, così come anche nell’Italia sotto il dominio bizantino, all’interno del palazzo del sovrano o del suo rappresentante, anche quando egli non presiede il dibattimento. Nel caso della capitale del Regno, Pavia, sappiamo che almeno alcune adunanze solenni si svolsero nella sala delle udienze del palazzo reale; come è noto, del palazzo reale di Pavia non rimane nessuna traccia dopo la distruzione operata nel 1024, ma questa sala, descritta nel 830 dal diacono ravennate Agnello, doveva avere una pianta basilicale con abside, sulla quale era un mosaico che raffigurava Teoderico a cavallo; è definita in un documento dell’inizio del X secolo laubia maiore ubi sub Teuderico dicitur, ed è chiamata in documenti successivi regale auditorium e aula regia25. Si trattava, come è evidente, di una struttura di epoca tardo antica tipologicamente affine alle aule di ricevimento delle residenze imperiali e a quelle che abbiamo visto nelle domus aristocratiche di IV e V secolo, che ha continuato a svolgere la sua funzione per tutto il X secolo. Analizzando, nella raccolta dei placiti del Regnum Italiae26, i casi in cui è specificato il luogo di svolgimento dell’assemblea, si può vedere che i giudizi che coinvolgono ecclesiastici, e che vedono spesso la partecipazione del vescovo, si svolgono generalmente presso la residenza episcopale, quelli che coinvolgono laici, tenuti dal duca o dal conte o da rappresentanti del sovrano, si svolgono nella loro residenza27. A Roma la situazione non doveva essere diversa, nel senso che la maggior parte dei placita si svolgevano nel Campus Lateranensis, sotto la du XIe siècle, Roma, 1995 (Bibliothèque des Écoles françaises d’Athènes et de Rome, 291); C. Wickham, «Justice in the Kingdom of Italy in the 11th century», in La Giustizia nell’alto medioevo (secoli IX-XI), 1998 (Settimana di studi CISAM, 44), pp. 179-255; P. Delogu, «La giustizia nell’Italia meridionale longobarda», ivi pp. 257-308; P. Toubert, Les Structures du Latium Médiéval, II, Rome, 1973, pp. 1191-257; C. Wickham, Roma Medievale, Crisi e stabilità di una città, Roma, 2013, pp. 442-68. 25 A. Settia, «Pavia carolingia e postcarolingia», in Storia di Pavia, II, L’altomedioevo, Milano, 1987, pp. 69-203. 26 C. Manaresi, I Placiti del Regnum Italiae, 3 tt. in 5 vv., Roma, 1955-60 (Fonti per la storia d’Italia 92, 96, 97). 27 Bougard, La justice, pp. 209-18.
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lupa capitolina, in un luogo che era, secondo le parole del monaco Benedetto del Soratte, il iudicialis locus della città, e che è probabilmente da identificare nel portico antistante il patriarchio, dove nel XII secolo il viaggiatore inglese Magister Gregorius testimonia ancora la presenza della lupa Capitolina28. Anche a Roma quindi abbiamo un’area istituzionalmente destinata allo svolgimento dell’attività giudiziaria connessa topograficamente con la residenza della massima autorità cittadina, che qui viene a coincidere sia con il vescovo che con il sovrano. Ma nella Roma del X secolo il Laterano non era l’unico luogo in cui si amministrava la giustizia29. Quando era presente in città l’imperatore i placiti svoltisi alla sua presenza avvenivano nella zona del Vaticano, anche qui evidentemente in connessione con la il Palazzo imperiale carolingio: “in palacio quod est fundatum iusta basilica beatissimi Petri” come si esprime un placito di Ludovico III del 90130. Nel 999 un placito riguardante il lungo contenzioso tra il Monastero di Farfa e quello dei ss. Cosma e Damiano in Mica Aurea viene presieduto da Ottone III nel suo Palatium, con ogni probabilità quello aventinese dove il giovane imperatore risiedeva31. Si tratta, come si vede, sempre di variazioni sul tema dello svolgimento delle assemblee giudiziarie all’interno, o in spazi in connessione, con la residenza del sovrano. Più interessante, per la nostra ricerca, un documento del Regesto Sublacense, che ci riporta la descrizione di un placito che ebbe luogo il 17 agosto del 942 per discutere un contenzioso tra il Monastero di Subiaco e quattro abitanti di Tivoli riguardo la proprietà di un fondo32. L’assemblea venne convocata per comandatione domni Alberici glorioso principe, e si svolse in curte ipsius principi Alberici iuxta Basilica Sancti Apostoli con la partecipazione di un 28 Toubert, Les structures, pp. 1237-8; G. Zucchetti, Il Chronicon di Benedetto monaco di S. Andrea del Soratte e il Libellus de imperatoria potestate in Urbe Roma, Roma, 1920, pp. 145, 199; Magister Gregorius, Narracio de Mirabilibus Urbis Romae, in R. Valentini, G. Zucchetti (a cura di), Codice Topografico della Città di Roma, III, Roma, 1946, pp. 166-7. 29 Wickham, Roma medievale, p. 444. 30 Manaresi, I Placiti, n. 111. 31 Balzani, Giorgi, Il Regesto di Farfa, III, n. 437, pp. 149-51; sulla localizzazione del Palazzo di Ottone III mi permetto di rimandare a R. Santangeli Valenzani, «La residenza di Ottone III sul Palatino: un mito storiografico? », in Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma, CI, 2001, pp. 163-8. 32 L. Allodi, G. Levi (a cura di), Il Regesto Sublacense del secolo XI, Roma, 1885, n. 155
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vescovo, di ben 5 dei 7 giudici palatini e di 15 rappresentanti dell’aristocrazia cittadina. Come seicento anni prima per la seduta del Senato nella domus di Anicio Fausto, sembrerebbe di trovarsi qui per la prima volta a Roma (almeno a giudicare dalla documentazione in nostro possesso) in presenza di una assemblea pubblica svoltasi in una residenza privata, sia pure quella dell’assoluto dominatore della politica romana del periodo33. La cosa non è, in realtà, priva di precedenti: benché sporadicamente, lo svolgimento dell’assemblea giudiziaria all’interno della residenza di uno dei giudici è qualche volta attestato nei placiti di IX e X secolo del Regnum, ma il caso di Roma è più complesso. Una particolarità di questo placito è che, pur se svoltosi coram presentiam suprascripto principe, non è condotto personalmente da Alberico: è il secundicerio Giorgio che conduce il dibattimento, emette il giudizio e, insieme al vescovo Marino di Bomarzo e agli altri giudici palatini, sottoscrive il documento. Ci troviamo in una situazione che richiama molto da vicino quella che era la norma nello svolgimento dei placiti nei principati dell’Italia meridionale: ad esempio nell’897 a Benevento un processo ha luogo in beneventano palacio alla presenza del principe Radelchi, ma il dibattimento è condotto dal gastaldo e iudex Ludovico34. Lo stesso avviene anche nel principato di Salerno, che evolve precocemente verso una professionalizzazione della figura del giudice, ma dove le assemblee continuano a svolgersi nel palazzo del principe, e spesso alla sua presenza35. L’analogia non credo che sia casuale: come aveva osservato Girolamo Arnaldi in relazione all’uso del titolo di princeps, del tutto inedito nella Roma altomedievale, Alberico modella le forme del suo governo su quelle dei sovrani dell’Italia meridionale, nel tentativo di creare le basi per un potere dinastico36. In questa ottica la curtis presso i Santi Apostoli, nella quale Alberico doveva essersi trasferito intorno al 939 lasciando la casa avita
Sulla residenza di Alberico, R. Santangeli Valenzani, «Topografia del potere a Roma nel X secolo», in V. West-Harling (ed.), Three Emipres, three Cities: Identity, material Culture and Legitimacy in Venice, Ravenna and Rome, 750-1000, Turnhout, 2015, pp. 135-55. 34 V. Federici, Il Chronicon Vulturnense del monaco Giovanni, II, Roma, 1925, p. 14 35 Delogu, «La giustizia». 36 G. Arnaldi, «Alberico di Roma», in Dizionario Biografico degli Italiani, I, Roma, 1960, pp. 646-56. 33
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sull’Aventino37, veniva ad essere considerata alla stregua del palazzo del sovrano, luogo di residenza privata ma anche luogo pubblico destinato alle udienze e all’attività giudiziaria. Purtroppo di questo palazzo che, con un eccezionale esempio di continuità topografica, sorgeva nel luogo occupato dall’attuale palazzo Colonna, cioè della più importante famiglia aristocratica romana, discendente direttamente dalla stirpe di Alberico, non rimane nessun resto e non sappiamo nulla, e non possiamo quindi avere nessuna idea dell’ambiente dove si svolse questo placito, luogo che dobbiamo però senz’altro immaginare consono al prestigio del principe e alla solennità dell’occasione. Un dato importante, riguardo questa residenza di Alberico, è la sua stretta connessione con la chiesa dei ss. Apostoli: non solo, caso unico nella nostra documentazione, la contiguità tra la curtis e la chiesa è specificata nella stessa indicazione che ne viene data (in curte … iuxta Basilica Sancti Apostoli), ma nel prosieguo del dibattimento dell’agosto 942, la solenne refutazione compiuta davanti ai giudici dai quattro ricorrenti contro il Monastero, che conclude la causa, avviene non più all’interno della curtis ma “ante basilicam sancti Apostoli”; questo fatto richiama un episodio riportato nel Chronicon di Benedetto del Soratte: quando decise di nominare Leone abate del Monastero del Soratte, Albericus (…) statim ad se venire fecit (Leonem) ab aecclesia sanctorum Philippi et Iacobi, et fecit eum fieri pater monasterii.38 Siamo in presenza quindi di una strettissimo legame, non solo topografico ma anche funzionale, tra la residenza e la chiesa dei ss. Apostoli, che Alberico utilizzava per funzioni pubbliche, come convocare persone o emettere atti ufficiali. Ancora una volta il fenomeno dell’allentamento della distinzione tra pubblico e privato, o meglio tra le diverse categorie e funzioni degli spazi pubblici e privati, va letto da ambedue i versi: l’uso pubblico dello spazio privato va di pari passo con l’appropriazione all’interno delle funzioni istituzionali della residenza principesca di una prestigiosa e antichissima struttura religiosa. Possiamo immaginare che questo placito dell’agosto 942 sia solo la punta di un iceberg, e che altre udienze si siano svolte nel palazzo di Alberico, delle quali non rimane documentazione in quanto coinvolgenti solo soggetti laici, la cui documentazione è pertanto andata dispersa. Se dunque l’assemblea svoltasi nella curtis di Alberico iuxta sancti apostoli può costituire un caso particolare nel fenomeno dell’utilizzo 37 38
Santangeli Valenzani, «Topografia del potere». Il Chronicon di Benedetto, p. 68
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degli spazi privati per funzioni pubbliche, in quanto concettualmente assimilabile ai palazzi dei sovrani, vi sono altri casi che meritano di essere considerati. Per tutta l’epoca del dominio di Alberico, e ancora per i decenni successivi, abbiamo testimonianza di un solo placito svoltosi all’interno di una residenza privata, nel 94339. Questa volta il giudizio venne convocato intro domus domni Benedicti eminentissimi viri et gloriosi duci; in questo Benedetto tutti gli studiosi riconoscono il più stretto collaboratore di Alberico, chiamato in altri documenti Benedetto Campanino. È interessante notare che in questo periodo Benedetto non ricopre nessun incarico ufficiale, come è mostrato chiaramente proprio dall’elenco dei partecipanti al citato placito nella domus di Alberico del 942, dove egli compare ma senza nessuna indicazione della carica o dell’ufficio svolto, e quindi agisce qui come delegato del principe, ed è in questa veste che la sua residenza (posta forse nel Trastevere40) viene ad assumere una funzione pubblica. Bisogna arrivare alla fine del X e ai primi anni dell’XI secolo per vedere di nuovo delle assemblee giudiziarie svolgersi all’interno delle residenze dei giudici, ora però con ben altra frequenza: abbiamo 6 casi attestati tra il 993 e il 1017, e si tratta, per questo periodo, della grande maggioranza dei placiti attestati41. Se si tiene conto che la documentazione romana superstite riguarda esclusivamente processi in cui almeno uno degli attori è un ente ecclesiastico, ed è proprio questo il caso in cui, generalmente, il giudizio si svolge in connessione con la residenza vescovile, possiamo immaginare che nel caso di un processo tra laici la norma fosse ormai divenuta quella di convocarlo nella residenza del Regesto Sublacense, n. 35 Qui infatti sono localizzate le uniche proprietà urbane note di Benedetto, e qui compie il più importante atto di evergetismo con la fondazione del Monastero dei ss. Cosma e Damiano in Mica Aurea; R. Santangeli Valenzani, «Aristocratic Euergetism and urban Monasteries in Tenth Century Rome», in H. Dey, E. Fentress, Western Monasticism ante litteram. The Space of Monastic Observance in Late Antiquity and the Early Middle Ages, Turnhout, 2011, pp. 273-87; sul Monastero:, J. Barclay Lloyd, K. Bull-Simonsen Einaudi, Ss. Cosma e Damiano in Mica Aurea: architettura, storia e storiografia di un monastero romano soppresso, Roma, 1998. 41 Regesto Sublacense, n. 78 dell’anno 993 (nella residenza di Giovanni Prefetto); Regesto di Farfa, n. 616 dell’anno 1011 (Crescenzio prefetto); n. 657 dell’anno 1011 (Giovanni patrizio); n. 658 dell’anno 1012 (Giovanni patrizio); 637 dell’anno 1013 (Alberico eminentissius consul et dux); 504 dell’anno 1017 (Crescenzio prefetto). 39
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Spazi privati e funzioni pubbliche nell’edilizia residenziale altomedievale
giudice, nella maggior parte dei casi il prefetto. Abbiamo visto che il fenomeno è attestato anche in altre parti d’Italia, ma sempre in modo sporadico e, con ogni probabilità, riportabile a cause contingenti; in nessun caso raggiunge la frequenza che vediamo a Roma in questo periodo. Questa eccezionale diffusione a Roma dell’uso di svolgere l’attività giudiziaria all’interno di spazi residenziali privati si deve probabilmente alla concomitanza di più fattori, da un lato la progressiva laicizzazione e professionalizzazione del ruolo dei giudici, che portava ad allontanare dallo spazio legato al patriarchio la maggior parte dei processi, almeno nel caso che non coinvolgessero ecclesiastici, dall’altro il continuo restringimento degli spazi pubblici che, come si è detto, contraddistingue l’intera vicenda della città altomedievale. Il motivo principale dietro questa privatizzazione degli spazi dell’attività giudiziaria si deve però probabilmente all’assenza, dopo il fallimento del tentativo dinastico di Alberico e Ottaviano, di un definito e univoco polo di potere laico alternativo a quello episcopale, riconoscibile anche a livello topografico, che ha portato alla frammentazione delle sue prerogative tra i personaggi e le famiglie dell’élite urbana. L’elusività dei documenti, che a Roma non specificano mai questo tipo di informazioni, e la scarsità, ancora una volta, di dati archeologici, non ci permette di sapere in quale tipo di ambienti interni alla curtis si svolgessero queste assemblee. Come ha messo in luce Bougard per l’Italia settentrionale, le strutture più comuni, a questo scopo, sono quelle che le fonti definiscono “caminate” e “laubia”, connesse con i palazzi episcopali e regi42. Nel primo caso si tratta di ambienti riscaldati, utilizzati anche come sale di riunione e probabilmente anche per occasioni sociali come i banchetti, che costituivano la forma tipica della socialità per le aristocrazie altomedievali; la laubia, termine di origine germanica, designa a volte una semplice pergola vegetale ma, nella maggior parte dei casi, una struttura coperta, una loggia o un portico connesso con un edificio. È difficile ritrovare, per Roma, ambienti con queste caratteristiche nella documentazione, sia archeologica che documentaria, in nostro possesso. L’esistenza di strutture porticate è attestata archeologicamente dalla domus del Foro di Nerva, così come dalla domus della grande curtis di largo Argentina, davanti alla quale sorgevano delle colonne, forse anche in questo caso da connettere a un porticato; anche alcuni documenti scritti ricordano colonne in 42
F. Bougard, La justice, pp. 209-18.
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connessione con le abitazioni delle élite43. Si tratta di strutture le cui dimensioni non sembrano però sufficienti ad accogliere comodamente le 30 – 40 persone che presenziavano ai placita; Possiamo forse ricostruire ai piani superiori delle domus solarate degli ambienti di rappresentanza utilizzabili per queste funzioni, oltre che per le occasioni sociali, oppure dobbiamo ipotizzare, nelle grandi curtes dei personaggi ai vertici della scala sociale, spazi appositi utilizzati per queste funzioni istituzionali. Non va tuttavia dimenticato che nell’unico caso in cui conosciamo il luogo esatto in cui svolge una di queste funzioni, cioè la designazione dell’abate del Monastero del Soratte effettuata da Alberico, la convocazione è fatta all’interno della chiesa adiacente alla sua residenza, così come davanti alla stessa chiesa (forse nel portico antistante) si svolge il momento finale del placito tenutosi nella sua curtis nell’agosto del 942, e quindi forse si può anche ipotizzare una utilizzazione a questi scopi delle chiese interne alle curtes che costituiscono una delle caratteristiche delle principali residenze aristocratiche. La nostra documentazione ci ha consentito di individuare due momenti, nella storia di Roma, in cui il rapporto tra spazi e funzioni private e pubbliche si intreccia strettamente e la distinzione tra le due sfere si assottiglia, apparentemente in misura maggiore di quanto osservabile nelle altre città d’Italia: la tardissima antichità fino all’età gota e poi il X secolo: in ambedue i casi ad apparire decisivo è il ruolo dell’aristocrazia, che appare predominante rispetto agli altri poteri. Nell’XI secolo la situazione cambierà profondamente: dal terzo decennio non abbiamo più attestazioni di assemblee giudiziarie svoltesi all’interno delle residenze dei giudici, e, come ha evidenziato recentemente Chris Wickham, la prassi giuridica romana si trasforma sensibilmente44. Gli spazi del pubblico ritorneranno a evidenziarsi, fino alla creazione del Comune e all’individuazione del Campidoglio come luogo pubblico per eccellenza. Ma questa è naturalmente un’altra storia.
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R. Santangeli Valenzani, Edilizia residenziale, pp.75-89. Wickham, Roma medievale, pp. 442-68.
Tiziana Lazzari Gli spazi delle famiglie fra dimensione privata e rappresentazione pubblica1
Gli spazi delle famiglie – spazi da intendersi sia in senso concreto, abitativo, domestico, sia in senso figurato quali dimensioni dell’intimità relazionale – oggi, nella nostra contemporaneità, sono attribuiti dal sentire comune alla sfera del privato. Sembrano infatti ormai assai lontane nel tempo le istanze che, attraverso il celebre slogan ‘il privato è politico’, esprimevano i movimenti femministi degli anni Settanta del secolo scorso. ‘Il privato è politico’ era allora un’espressione che intendeva negare la liceità di separare con una linea netta le sfere di azione pubblica e privata delle persone – e delle donne soprattutto – e che richiedeva esplicitamente alla politica una rinnovata regolazione dei rapporti personali, sessuali e familiari degli individui2. Il pensiero critico odierno, pur partendo dalla medesima dicotomia pubblico/privato, è invece maggiormente attento
Lista delle abbreviazioni : CDL = Codice diplomatico longobardo, voll. I e II, ed. L. Schiaparelli, Roma, 1929-1933 (Fonti per la storia d’Italia, 62-63). CLA XXIII = Chartae Latinae Antiquiores, (Italy 4) Siena 1, ed. A. Petrucci e J.-O. Tjader, Zürich, 1985. Codex diplomaticus Amiatinus = Codex diplomaticus Amiatinus. Urkundenbuch der Abtei S. Salvatore am Montamiata. Von den Anfängen bis zum Regierungsantritt Papst Innozenz III. (736-1198),ed. W. Kurze, vol. I, Tübingen, 1974. Liut. Roth. = Liutprandi leges, Edictum Rothari, in Leges Langobardorum 643866, ed. F. Beyerie, Witzenhausen, 1962, (Germanenrechte Neue Folge. Westgermanisches Recht). 2 Sulla prospettiva di quegli anni e la sua progressiva scomparsa si vedano le belle pagine di M. Salvati, «Guardando indietro al 1968 e al 1989», in M.T. Mori, A. Pescarolo, A. Scattigno, S. Soldani (a cura di), Di generazione in generazione. Le italiane dall’Unità a oggi, Roma, 2014 (Storia delle donne e di genere, 2), pp. 351-60. Interessante anche il volume di A.R. Calabrò e L. Grasso, Dal movimento femminista al femminismo diffuso: storie e percorsi a Milano dagli anni ’60 agli anni ’80, proprio perché, ripubblicato a Milano nel 2004, a distanza di vent’anni dalla prima edizione (sempre Milano 1984). 1
Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 213-231 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116186
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Gli spazi delle famiglie fra dimensione privata e rappresentazione pubblica
alla definizione stessa di famiglia e soprattutto alla decostruzione di tale definizione, sia sul piano storico giuridico3, sia sul piano sociologico4 e antropologico5, con il fine precipuo in tutti questi diversi contesti disciplinari di storicizzare il concetto e di depotenziarne ogni definizione autoritaria basata su concetti aprioristici6. Il mio contributo intende inserirsi in tale contesto culturale e si propone pertanto, e in primo luogo, di indagare quale definizione di famiglia possa essere adeguata per studiare i secoli dell’alto medioevo europeo e, insieme, di mettere in discussione la possibilità metodologica di ottenere dalle diverse fonti a nostra disposizione una rappresentazione della famiglia sufficientemente coerente per potere arrivare a una sua definizione univoca. Sul problema della rappresentazione, anche grafica, della struttura familiare delle elites, avevamo incentrato uno dei seminari preparatori a questo convegno, dedicato appunto al tema della Rappresentazione della famiglia e della parentela nei primi secoli del Medioevo. Rappresentare significa sempre offrire un’immagine ‘pubblica’, nel senso di aperta a M.R. Marella, G. Marini, Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia. Le relazioni familiari nella globalizzazione del diritto, Roma-Bari, 2014, a p. 5: “Appare peculiare il ruolo che la famiglia assume rispetto alla dicotomia pubblico/ privato. La famiglia, infatti, se da un lato è considerata il privato della società civile, in quanto luogo di affetti, amore e cura, e pertanto la si esclude da indebite intrusioni del potere pubblico, dall’altro è ritenuta elemento fondante di un dato ordine sociale”. Già in questa definizione si può notare quanto remota appaia l’istanza che rivendicava il privato al politico. Pubblico diventa allora lo Stato: “Ciò implica, allora, l’esistenza di un interesse pubblico a regolare la famiglia e, prima ancora, a definire cosa è famiglia. Il ruolo che l’intervento statale gioca sulla famiglia, perciò, varia, essendo strettamente connesso alla concezione di Stato e al rapporto tra cittadini e Stato vigente in un determinato contesto storico, culturale e giuridico”. 4 C. Saraceno, Coppie e famiglie. Non è questione di natura, Milano, 2012, e anche, con interpretazione diametralmente opposta, P. Donati, Manuale di sociologia della famiglia, Roma-Bari, 2012. 5 Particolarmente attento al tema, nel contesto italiano, F. Remotti, Contro natura. Una lettera al papa, Roma-Bari, 2008; di cui si veda anche la breve ma importante sintesi a quattro mani in P.P. Viazzo, F. Remotti, «La famiglia. Uno sguardo antropologico», in Personal Manager. L’economia della vita quotidiana, V., La famiglia, Milano, 2007, pp. 3-65. 6 In primo luogo, il concetto di ‘natura’ e di ‘famiglia naturale’ su cui si vedano le belle pagine di Remotti, Contro natura, pp. 54-67. 3
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tutti: l’intenzione era in quell’occasione indagare quali costruzioni culturali fossero sottese alla rappresentazione delle parentele altomedievali. Ma, per l’incontro odierno, ho preferito scartare dai terreni noti e provare invece ad addentrarmi, un poco pericolosamente, su terreni meno battuti e certamente, molto scivolosi. La questione che vorrei proporre alla discussione, oggi, è la possibilità metodologica di indagare la dimensione privata della famiglia altomedievale; se, cioè, è possibile prescindere dalla sua rappresentazione pubblica, in entrambi i sensi di cui si è detto, e accedere invece alle relazioni delle persone coinvolte, e alle molteplici forme che esse potevano assumere. La questione di metodo è, espressa in termini semplici: possiamo, noi storici delle fonti scritte, indagare lo spazio privato delle famiglie, quando il fatto stesso che noi lo possiamo studiare significa che tale spazio non è più privato ma pubblico, perché rappresentato e reso accessibile dalla scrittura stessa? Diverso, forse, potrebbe essere il caso delle fonti archeologiche, che scavano – in senso non metaforico – negli spazi privati, le abitazioni, per esempio. I dati che emergono dagli scavi non nascono da una rappresentazione intenzionale, sono probabilmente più adatti a cogliere la dimensione privata dei gruppi domestici, ma necessitano sempre – la considerazione che faccio è forse un po’ troppo rapida, e me ne scuso con gli archeologi presenti – di codici interpretativi che tendono inesorabilmente a ricondurre quegli spazi intimi a forme “pubbliche”, non fosse altro perché si tratta di codici elaborati con il concorso di fonti diverse. Famiglie e tipologie strutturali La mia riflessione intende cominciare dall’analisi di una densa espressione di sintesi di Pierre Toubert che risale alla metà degli anni Novanta del secolo scorso7, esattamente vent’anni fa, intesa a definire strutturalmente la famiglia nei secoli dell’alto medioevo: “le seul type structural auquel nous ayons affaire, de bout en bout de notre période est celui de la famille conjugale stricto sensu, c’est-à-dire du couple marié à finalité à la fois procréatrice et légitimante de la descendance directe. Tout le
Si trova nella relazione che Toubert tenne a Spoleto nel 1997: P. Toubert, «L’institution du mariage chrétien, de l’antiquité tardive à l’an mil», in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda antichità e alto medioevo, XLV CISAM, Spoleto, 1998, pp. 503-50. 7
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reste est du domaine des situations conjoncturelles plus ou moins fréquentes, non des structures». Quindi, la sola struttura familiare riconoscibile nelle fonti per il periodo che ci interessa è la famiglia coniugale, marito, moglie e figli; e questo assunto vale, precisa Toubert, sia per le famiglie aristocratiche, sia per le famiglie contadine. Struttura è un termine che tiene insieme qui i due aspetti che io vorrei invece distinguere: ciò che le fonti descrivono, l’aspetto pubblico della famiglia, corrisponde qui pienamente alla dimensione privata. E a un unico modello antropologico, inoltre, quello della famiglia mononucleare, fondata nel nostro caso sul matrimonio cristiano. Io vorrei invece proporre qui l’idea che quel modello poteva sì dare forma alle descrizioni della struttura familiare, ma non esaurire la molteplicità delle sue dimensioni private. Famiglie contadine e polittici La prevalenza assoluta della struttura coniugale nella società contadina è stata elaborata principalmente a partire dai polittici transalpini che, come noto, e a differenza di quelli italiani8, riportano le liste dei dipendenti, servi e liberi, della grande proprietà ecclesiastica9. Il 60, 70% delle attestazioni di gruppi domestici in quegli inventari si può ricondurre facilmente al modello coniugale, più o meno allargato a parenti conviventi10. La demografia storica dell’Europa medievale considera il ‘gruppo domestico’ (household) come cellula base per la ricerca. Ma, come ha osservato Rosamond Faith11 rileggendo l’inventario di San Vittore di Per la maggior parte: fanno eccezione le liste di servi conservate nell’archivio di Farfa studiate da L. Feller, «La population abruzzaise durant le haut Moyen Age: les conditions de possibilité d’une croissance démographique», in R. Comba, I. Naso (a cura di), Demografia e società nell’Italia medievale, Cuneo, 1994, pp. 32749. 9 Il lavoro più recente che rielabora i risultati di trent’anni di ricerche sul tema si deve a J.P. Devroey, «Foyers, communautés domestiques et exploitations paysannes de la Mer du Nord à l’Italie septentrionale», in Il fuoco nell’alto Medioevo, LX CISAM, Spoleto, 2013, pp. 617-42. 10 Devroey, «Foyers, communautés domestiques», a p. 621: «Cette cellule familiale représentait 60 à 75 % des tenures inventoriées, aussi bien dans le NordOuest de la Gaule et en Rhénanie qu’en Italie centrale». 11 R. Faith, «Farms and families in ninth-century Provence», Early Medieval Europe, 18/2, 2010, pp. 175-201. 8
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Marsiglia, se si vuole indagare la relazione fra terra e uomini nella descrizione di quell’inventario, questa cellula base serve a poco. Con il termine household si intende di fatto la famiglia mononucleare, che appare ovvia in certi casi – marito, moglie e figli – ma che in altri gruppi, dove sono elencate più coppie con figli accompagnate da una manciata di adulti non accoppiati, non è utile per capire se si tratti di un solo household o di più nuclei coordinati insieme. Faith ha ritenuto dunque più opportuno usare nella sua analisi la definizione di Peter Laslett, working groups12. Questi problemi di definizione sono tutt’altro che insignificanti: impieghiamo fonti che, come i polittici, hanno finalità precise, talvolta non del tutto chiare per noi, che usano un campionario ristretto di termini latini piegati a significati socialmente nuovi e che nascono da un ambiente, religioso o ecclesiastico che sia, che va elaborando nel corso del secolo IX un modello sempre più rigido di famiglia ideale13. Tali fonti, inoltre, sono state indagate, ormai da un secolo e mezzo, da studiosi immersi nella cultura e nella morale post-tridentina: la varietà nella composizione dei gruppi domestici registrata da questi elenchi è stata facilmente interpretata come devianza rispetto alla regola e spiegata in termini di gruppi di lavoro, di marginalità e debolezza sociale, talvolta addirittura cancellata e rimossa. Proviamo a titolo di mero esempio a leggere un brevissimo brano della Descriptio mancipiorum di San Vittore di Marsiglia14. Nel polittico si trovano poderi di pianura, con prevalenza di coltivazioni cerealicole, le colonicae, e mansi di montagna, le vercarie, dedite prevalentemente al pascolo. Rosamond Faith ha riletto i working groups delle vercarie, caratterizzati dall’assenza di gruppi domestici riconducibili a famiglie Faith, «Farms and families», a p. 191. Sul tema è fondamentale Toubert, «L’institution du mariage chrétien». Si veda inoltre l’analisi, con prospettiva di genere, offerta da R. Stone, Morality and Masculinity in the Carolingian Empire, Cambridge, 2012, specie alle pp. 247-278. 14 Usiamo la trascrizione (inedita), più corretta dell’unica edizione dispobile, che si trova in J.-F. Bregi, Recherches sur la démographie rurale et les structures sociales au IXe siècle, thèse de troisième cycle inédite, 1975, ma si vedano anche Idem, Le Polyptique de l’Abbaye Saint-Victor de Marseille (813-814), essai de réédition, Paris, 1975; S. Weinberger, «Peasant Households in Provence ca. 800-1100», Speculum, 48/2, 1973, pp. 247-57 e R. Étienne, «Grandes propriétés et organisation domaniale dans le Midi de la Gaule à l’époque carolingienne: que peut-on savoir?», Revue belge de philologie et d’histoire, 90/2, 2012, pp. 381-412. 12 13
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mononucleari, composti come sono da uomini e donne e bambini, ordinati senza che siano specificati rapporti di coniugalità15. Ma è proprio rileggendo le descrizioni più canoniche delle colonicae, quelle che sembrano rappresentare inevitabilmente una famiglia mononucleare, che si possono proporre considerazioni che complicano il quadro di tali gruppi domestici. Prendiamo, a titolo di esempio, proprio la prima descrizione dell’elenco16: Stefano, il colono, ha una moglie, Dara, un figlio e una figlia baccalarii e cioè maggiorenni e non sposati, una figlia Vera di 15 anni, un’altra figlia di 7 anni e un bambino e una bambina di 4 anni. Vive con loro un prete, Martino. Interpretando strutturalmente, si può dunque dire che nella colonica abita una famiglia mononucleare composta da due coniugi, i loro sei figli e che ospita un maschio adulto, un sacerdote. Se osserviamo l’età dei figli, ci accorgiamo però che sono divisi chiaramente in due gruppi: uno di tre ragazzi grandi e poi, con uno scarto di ben 7 anni, un gruppo di tre bambini piccoli, di cui due, per di più hanno la stessa età (forse gemelli, forse no). Si potrebbe quindi descrivere il gruppo come una famiglia ricostruita dopo la scomparsa di una prima moglie, madre dei tre figli grandi, una famiglia ricostruita che, in termini antropologici, identifica una pratica di poliginia seriale (una moglie dopo l’altra, insomma). Se rileggiamo poi con attenzione i nomi propri che definiscono i membri del gruppo domestico, ci accorgiamo che la figlia più grande del colono porta lo stesso nome del sacerdote, un indizio che, insieme con la coabitazione, induce a pensare che costui fosse un parente, forse il fratello stesso del colono. Questo gruppo domestico sarebbe allora una fratria, una convivenza di fratelli, cioè, con la presenza di una sola donna vivente e di tanti bambini, nati – come la distanza di età testimonia – da donne diverse. Dal punto di vista strutturale, una fratria, forse, una forma di poligamia seriale, certo non una famiglia mononucleare. La lettura che abbiamo appena proposto non ha alcuna ambizione di identificare nuove strutture familiari dominanti nelle società dell’alto medioevo europeo. Tale lettura è infatti – e inevitabilmente è
Faith, «Farms and families», alle pp. 194-5. Bregi, Recherches sur la démographie: 1. Colonica in Campania. Stephanus colonus. Uxor Dara. Dominicus, filius baccalarius. Martina, filia baccalaria. Vera, filia annorum XV. Ermesi[ndis, filia] annorum VII. Aprilis, filus annorum IIII. Stephania annorum IIII. Martinus presbiter. 15
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destinata a restare – soltanto un esercizio di metodo: si basa su argomentazioni che non hanno e che non possono trovare alcun riscontro fattuale, e che sono condannate quindi a restare mere ipotesi perché, appunto, si interrogano sul ‘privato’ di quel gruppo, sulle relazioni personali e affettive di quegli uomini, donne, adolescenti e bambini, una dimensione che un inventario di dipendenti non può e non potrà mai restituire. È opportuno infatti ricordare che il lessico della famiglia impiegato nella descrizione prevede soltanto l’uso dei termini vir, uxor, filius e filia: altre relazioni di parentela non vengono annotate mai, perché erano ininfluenti rispetto alla finalità gestionale dell’inventario, individuare cioè il colono responsabile della tenuta e l’erede che avrebbe potuto garantire continuità di conduzione17. Quindi, è proprio il lessico estremamente limitato che impiegarono gli estensori dell’inventario il fattore che determina la restituzione di una forma soltanto di gruppo domestico, quello mononucleare: mancano le parole e con esse ogni intenzione di definire i rapporti con gli altri conviventi. Solo se non si esce dalla logica interna di questo tipo di rappresentazione e non se ne smontano i meccanismi, se si accetta come un dato di fatto l’assenza di altri rapporti significativi in quei gruppi domestici, si può affermare che perno della società rurale fosse soltanto la coppia unita in matrimonio: ogni tipo di altro legame resta escluso infatti dalla rappresentazione dei gruppi domestici18. Fratrie e documenti notarili Gli inventari di coloni e servi non sono le sole fonti utili per ragionare sul rapporto fra la dimensione privata dei gruppi domestici e la loro rappresentazione pubblica. Anche le carte notarili, inevitabilmente legate a un lessico giuridicamente ben definito dei rapporti familiari, sono obbligate a una rappresentazione che non necessariamente coincide con quella che poteva essere la configurazione privata di quei rapporti.
Faith, «Farms and families», a p. 182: “Son, daughter, wife and husband are the only relational terms employed”. 18 Toubert, «L’institution du mariage chrétien», alle pp. 542-3: “Dans la société rurale, tout tournait en effet autour du couple marié. Dans le cadre domanial de l’économie, c’est le mariage qui assurait la légitimité dê la descendance et son droit coutumier sur la tenure”. 17
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Alcune, poche carte dell’Italia longobarda del secolo VIII lasciano però trasparire una realtà dei rapporti familiari decisamente articolata, costrette come sono a ricondurre alle norme e al lessico della famiglia situazioni piuttosto anomale. Un piccolo, fortunato dossier documentario, ci permette di ricostruire una vicenda decisamente peculiare: è costituito da appena tre carte, tutte conservate in originale nell’archivio del monastero di Monte Amiata, ora presso l’archivio di stato di Siena19. Nel maggio del 76320 due fratelli che vivevano nei pressi di Chiusi, Audepert e Baroncello, comperarono insieme da un vir honestus, tale Candido, una serva e il suo bambino21, così piccino che non aveva ancora un nome, dato che il battesimo e con esso l’imposizione del nome non seguivano allora immediatamente la nascita. La donna si chiamava Boniperga, ma era detta Teuderada ed è definita mulier22, un appellativo non consueto per donne di condizione servile, che viene comunque venduta quale ancilla. Il prezzo che i due fratelli pagarono è molto alto, ma non lontano dai prezzi noti per l’acquisto dei servi, veri e propri beni di lusso fra fine VIII e primi del IX secolo23. È un dato interessante osservare quanto tale prezzo fosse simile alla composizione che, sulla base dell’editto di Rotari, era dovuta al padrone di una serva ‘gentile’, e cioè appartenente alla gens 19 Codex Diplomaticus Amiatinus, nn. 11, 17 e 67. Sul dossier si veda S. Gasparri, «Strutture militari e legami di dipendenza in Italia in età longobarda e carolingia», Rivista storica italiana, 98, 1986, pp. 664-726, e ora anche Idem, Voci dai secoli oscuri. Un percorso nelle fonti dell’alto medioevo, Roma, 2017, alle pp. 62-71. 20 763 maggio 15, Chiusi. La carta, pubblicata in Codex diplomaticus Amiatinus, n. 11, p. 23, era già stata edita in CDL, II, n. 174, pp. 136-7 e, trattandosi di un originale conservato presso l’Archivio di Stato di Siena, anche nelle CLA XXIII, n. 739, alle pp. 42-3. 21 G. Rainis, «Per la storia della schiavitù femminile nell’Italia longobarda: Prassi contrattuale e quadri legislativi», Studi medievali, 48/2, 2007, pp. 721-52. 22 Codex Diplomaticus Amiatinus, a p. 23: “et recipimus pretium nos qui supra Candidus uinditor a uos aemptoribus pro suprascripta muliere nomine Boniperga, qui Teudirada, una cum filio suo parbulo”. 23 Sui prezzi dei servi e sul loro valore estremamente variabile, ma sempre molto oneroso si veda L. Feller, «Sulla libertà personale nell’VIII secolo: i dipendenti dei Totoni», in S. Gasparri, C. La Rocca (a cura di), Carte di famiglia. Strategie, rappresentazione e memoria del gruppo familiare di Totone di Campione (721-877), Roma, 2005 (Altomedioevo, 5), pp. 179-208, alle pp. 194-5. Valutazione molto diversa esprime invece Rainis, «Per la storia della schiavitù femminile», pp. 7257, che dal raffronto con i prezzi coevi pagati per i servi ritiene molto alto il costo di Teuderada.
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longobarda24, con la quale si avessero avuto rapporti sessuali, ma il testo del documento non permette di configurare in alcun modo l’atto di compravendita quale composizione. Ai venti soldi ne fu aggiunto uno, per il bambino si immagina; la disponibilità di moneta contante dei due acquirenti appare limitata, se paragonata a quanto attestato da altra documentazione coeva, dato che i due fratelli pagarono la serva e il suo bambino “inter bobes et auro”, in parte in moneta d’oro, in parte con bovini, senza che di entrambi sia specificato il numero preciso25. Sette anni dopo26, nel settembre del 770, uno dei due fratelli, Audepert, era morto da poco, all’improvviso pare di capire, quando il fratello superstite, Baroncello, mosso immaginiamo da una nuova, concreta consapevolezza della precarietà dell’esistenza, provvide a destinare l’intero patrimonio familiare, la sua parte e quella del fratello defunto di cui si trovava a essere unico erede. “Per non lasciare il mio patrimonio privo di eredi”, così recita la carta27, Baroncello decise di donarlo integralmente ai suoi nipoti amatissimi, Bonipert e Leopert, i figli del fratello e di Teuderada, la donna che avevano comprato insieme sette anni prima28. Baroncello non aveva moglie, e neppure figli, né maschi né femmine, quoniam sic meis meruerunt delictis, chiosa il dettato del documento. Se per grazia divina ne avesse avuti però in seguito, allora i
24 E cioè appartenente alla natio del Longobardi; la composizione per lo stesso comportamento compiuto con una serva ‘romana’ si abbassava quasi della metà, arrivando a 12 soldi: Liut. Roth. 194: “Si quis cum ancilla gentile fornicatus fuerit, conponat domino eius solidos viginti; si cum romana ancilla, conponat sold. duodicem”. Ha osservato per prima la corrispondenza fra la composizione prevista in Liut. Roth. 194 e il prezzo pagato dai due fratelli Rainis, «Per la storia della schiavitù femminile», pp. 725-7. 25 Codex Diplomaticus Amiatinus, a p. 23: “et recipimus pretium nos qui supra Candidus uinditor a uos aemptoribus pro suprascripta muliere nomine Boniperga, qui Teudirada, una cum filio suo parbulo, inter bobes et auro in adpretiato solidos uiginti et uno, finitum pretium”. 26 770 settembre, “Brioni” (Chiusi). Codex diplomaticus Amiatinus, n. 17, pp. 33-6, già stata edita in CDL, II, n. 248, pp. 323-326. 27 Codex diplomaticus Amiatinus, n. 17, a p. 35: “proideo consideraui, ut ris mea iniudicata non relinquam, sed hoc uolo et mea dispono uoluntate”. 28 Ibidem: “uos supradicti Bonipert et Leopert neputibus meis de ancilla nostra propria nomine Boniperga uos procreati fuistes de quondam Baroncello germano meo, et in peccatis inpedientibus nulla donatione nec aliquis in uos de ribus suis iudicauet”.
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due nipoti avrebbero ricevuto solo la metà del suo patrimonio, i suoi eventuali figli l’altra metà: tale divisione pare rispettare un principio di partizione in parti uguali di un patrimonio familiare che i due fratelli avevano gestito in indiviso29. Baroncello non ebbe altri figli: aveva legato la donazione ai nipoti all’obbligo di restare soggetti30, come lo erano stati egli stesso e il fratello precocemente defunto31, al monastero di San Salvatore del Monte Amiata, e 39 anni dopo, nell’agosto dell’809, in piena età carolingia ormai, l’abate e i due fratelli Boniperto e Leoperto, uomini liberi, formalizzarono tramite un libello i termini contrattuali del loro rapporto. Scopriamo così che il patrimonio che avevano ricevuto dallo zio constava in una sola casa di abitazione, con la sua corte, gli orti, le vigne e tutte le sue pertinenze: insomma, un ampio podere contadino, che doveva garantire una rendita sufficiente a consentire ai due fratelli di prestare entrambi servizio militare a cavallo in favore dell’abate o, quando non fosse stato necessario, di consegnare quattro anfore di vino ogni anno. Boniperto e Leoperto erano uomini liberi, sì, ma accomendati all’abate. Questo piccolo dossier documentario, già brillantemente indagato per quanto attiene ai problemi connessi alle diverse forme che la libertà personale poteva assumere nei secoli altomedievali32, ci interessa qui in Ibidem: “si mihi Dominus respicere dignatus fuerint et filios aut filias procreauero, medietatem ex omnibus abeatis uos Bonipert et Leopert, et medietatem accipiant filiis aut filias meas; et si sic nostris meruerint operibus et neque filius aut filia non abuero, in omnibus uos mihi succidatis, tanquam si de semine meo procreati fuissitis, et in omnia, ut dixit, uos mihi heredes legitimi succidatis”. 30 “Siatis in monasterio” è l’espressione, ambigua per la nostra sensibilità, che usa il notaio nella carta: “et hoc decerno, ut cum ipsis ribus, quas uobis concido uel pos meo decesso reliqero, siatis in monasterio, ut per singolos annos persoluere dibeatis pro anima mea in ecclesia Sancti Salbaturi in Amiate, quem bone memorie Erfo abbas a fundamenda edificauet, per quem abueritis, reddatis in ipsa ecclesia uel ad eius rectores in auro solido uno, aut per auro aut per cira uel per oleo aut per quem abueritis per anno in ipso Dei templo pro anima mea reddere dibeatis”. 31 Lo apprendiamo dall’ultimo documento del dossier, Codex Diplomaticus Amiatinus, n. 67, pp. 132-4, dove si afferma che i parentes dei due fratelli, e loro stessi, avevano assegnato prima e confermato poi le loro proprietà al monastero dell’Amiata, evidentemente secondo una forma che consentiva però ai nostri di mantenerne la disponibilità d’uso e di assegnazione per via ereditaria. Ma entrambe le carte, esplicitamente evocate dal libello, non si sono conservate. 32 Gasparri, Voci dai secoli oscuri, pp. 62-71 e anche Rainis, «Per la storia della schiavitù femminile», pp. 723-727. 29
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una diversa prospettiva: l’insieme delle tre carte disegna infatti le modalità patrimoniali di gestione di ben due fratrie, cioè di due generazioni di uno stesso gruppo domestico che modellano le relazioni familiari in modo tale da conservare indivisa una proprietà piccola, che garantiva però lo status di uomini liberi e di combattenti a cavallo ai loro possessori. Queste modalità escludono completamente le donne e, con esse, ogni devoluzione patrimoniale necessariamente connessa a un matrimonio legittimo, che, in un contesto così modesto e pervicacemente difeso, rischiava di compromettere la posizione sociale dei fratelli: la stessa cessione della proprietà eminente del patrimonio domestico al monastero si può ascrivere proprio a tale volontà di conservare nella loro integrità i beni di famiglia. La convivenza tra fratelli, in qualche modo forzata dalla volontà di mantenere indivisi i patrimoni familiari che la legge ripartiva fra tutti gli eredi in parti uguali, non doveva essere così infrequente se l’editto di Rotari, che interviene solo sul diritto di famiglia per districare i casi potenzialmente pericolosi per la pace sociale, prevede il caso in una norma specifica, la 167, esclusivamente dedicata a regolare i rapporti patrimoniali fra i fratelli maschi che decidessero di rimanere nella casa comune dopo la morte del padre33. Erano proprio eventuali unioni matrimoniali dei fratelli conviventi a essere identificate quali potenziali cause di conflitto: se uno di tali fratelli avesse voluto sposarsi, la meta – e cioè il primo versamento, dovuto al momento dello sponsalicium come pegno per il futuro perfezionamento dell’unione – poteva essere corrisposta traendola dalle sostanze comuni. Nel momento in cui anche gli altri fratelli avessero voluto sposarsi, e comunque al momento in cui avessero voluto dividere le loro sostanze, allora lo sposo avrebbe dovuto risarcire i fratelli con la medesima quantità di sostanze che aveva tratto dal fondo comune. Liut. Roth. 167: “De fratres, qui in casam cummunem remanserent. Si fratres post mortem patris in casa commune remanserint et unus ex ipsis in obsequium regis aut iudicis aliquas res adquesiverit, habeat sibi in antea absque portionem fratrum. Et qui foras in exercitum aliquit adquisiverit, commune sit fratribus, quod in casa commune dimiserit. Et si quis in suprascripti fratribus gairethinx fecerit, habeat in antea, cui factum fuerit. Et qui ex ipsis uxorem duxerit et de rebus communes meta data fuerit: quando alteri idem oxorem tollere contegerit aut quando ad divisionem faciendam venerit, simili modo de cumunes rebus ei refundatur aliut tantum, quantum frater in meta dedit. De paterna autem vel materna substantia quod relicum fuerit, inter se aequaliter dividant”.
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Esborsi onerosi, che potevano minare profondamente patrimoni che, almeno nel pieno del secolo VIII, sembrano essere gestiti invece in modo tale da limitarne al massimo la dispersione. Poteva così facilmente succedere che tali solidarietà fraterne perdurassero nel tempo e che solo uno dei fratelli prendesse moglie. Rileggendo in questa prospettiva la charta iudicati34 con la quale nel 745 il uir magnificus Rottopert di Agrate dispose delle proprie sostanze35, si può osservare che egli lasciò alla moglie il compito di spezzare e distribuire ai poveri l’oro e l’argento quale pratica di suffragio sia per la sua anima, sia per quella del defunto fratello Dondone36. Una sola donna, quindi, incaricata di svolgere la funzione funeraria propria delle mogli per entrambi i fratelli: Dondone non doveva mai essersi sposato. Un caso analogo testimonia la donazione di una vigna che, nell’agosto del 732, due fratelli, Baronte e Auderat decisero in favore della chiesa di Santa Maria37, riservandosene il prodotto fino al momento della loro morte. Oltre alla salvezza della propria anima, i due fratelli intendevano provvedere alla salvezza – alla pari – delle anime del padre e dello zio: “pro mercide et remedio anime patri nostro uel barbani nostri Ursoni et Ghisolf, qui fuet barbane nostro”. I due fratelli agivano insieme, così come dovevano aver agito insieme il padre e il fratello, che meritano così una disposizione paritaria all’atto con il quale i nipoti ne
CDL, I, n. 82, pp. 239-44. Del documento si è occupata C. La Rocca, «Segni di distinzione. Dai corredi funerari alle donazioni ‘post obitum’ nel regno longobardo», in L. Paroli (a cura di), L’Italia centro-settentrionale in età longobarda, Firenze, 1997, pp. 31-54, alle pp. 42-3. Sul tema si veda anche Idem, «Donare, distribuire, spezzare. Pratiche di conservazione della memoria e dello status in Italia tra VIII e IX secolo», in G.P. Brogiolo (a cura di), Sepolture tra IV e VIII secolo, VII Seminario sul Tardo Antico e l’Alto Medioevo in Italia Centro Settentrionale (Gardone Riviera, 24-26 ottobre 1996), Mantova 1998, pp. 77-87. 36 CDL, I, n. 82, a p. 242: “Si Ratruda conius mea me superadvixerit, in eius sit potestatem ipso (sc. argentum et aurum) frangendi et pauperibus pro anima mea et sua distribuendi habeat potestatem ex mea plenexima largidate, tam pro nostra anima quam et pro bone memorie Dondoni germano meo; et vestimento meo, omnia quod in illo tempore illo reliquero, omnia metietatem pauperibus distribuatur pro suprascripta Ratruda coniuge mea”. 37 La charta offersionis è un originale, conservato nell’Archivio arcivescovile di Lucca, edito in CDL, I, n. 51, p. 172. 34 35
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celebrarono la memoria38. Le sottoscrizioni del documento mostrano con chiarezza che, nella prassi, esisteva una precisa gerarchia in queste coppie di fratelli: solo Baronte, il primo ad apporre il proprio signum manus, è definito vir devotus, e a lui solo viene attribuita in questa parte del documento l’iniziativa della donazione “pro mercide patris vel barbanis suis seo et sua anima et de germano suo Auderat”. Auderat appone egli pure la croce, ma più semplicemente, appare quale “consentiente fratris suis”. Torniamo infine ai nostri fratelli senesi che avevano comperato insieme una donna di condizione servile, cui nulla era dovuto dal punto di vista patrimoniale se non i ventuno soldi, fra buoi e denaro contante, investiti per il suo acquisto. Per sicurezza riproduttiva, la comperarono solo quando aveva dimostrato di saper generare figli maschi: dopotutto era questo che i due fratelli cercavano, continuità biologica a spesa contenuta. Quali figli di una serva propria, non più di altri39, i ragazzi diventavano automaticamente figli naturali del fratello maggiore, non però eredi legittimi, a pieno titolo: Rotari infatti aveva disposto una procedura apposita per rendere i figli nati da una serva domestica completamente legittimi, ma tale procedura avrebbe implicato una donazione in favore della madre, per renderla libera (la thingatio), e una ulteriore donazione per renderla moglie a pieno titolo (il gairethinx)40. Una procedura troppo onerosa, evidentemente, dato che bastò poi la semplice donazione dello zio per far sì che i due fratelli, allora bambini, subentrassero pienamente nel patrimonio che era stato del padre e dello
Sulla stretta connessione fra le funzione memoriale e la rappresentazione pubblica dell’appartenenza a una élite, si veda La Rocca, «Donare, distribuire, spezzare», specie alle pp. 77-80. 39 Se la serva fosse appartenuta ad altri, allora il padre avrebbe dovuto comperarlo per poterlo rendere un uomo proprio, prima ancora che libero. Altrimenti, sarebbe rimasto servo del padrone cui apparteneva la madre. Su tutto ciò si veda Roth. 156: “De filio naturale, qui de ancilla alterius natus fuerit, si pater conparaverit eum, et liberum thingaverit, libertas illi permaneat. Et si non libertaverit eum, sit servus, cuius et mater ancilla. Nam si eum conparaverit et aliquid de res ei per legem thingaverit, habeat ipsas res ». 40 Liut. Roth. 222: “De ancilla matrimonii gratia. Si quis ancillam suam propriam matrimoniare voluerit sibi ad uxorem, sit ei licentiam; tamen debeat eam libera thingare, sic libera, quod est wirdibora, et legetimam facere per gairethinx. Tunc intellegatur libera et legetima uxor, et filii, qui ex ea nati fuerint, legetimi heredes patri efficiantur”. 38
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zio. Una donazione, si noti, piena di cautele: l’uomo si riservò infatti la piena gestione del patrimonio fino alla morte, garantendosi la possibilità di donare ad altri le proprie sostanze o di investirle per la salvezza della sua anima, mentre i nipoti dovevano comportarsi bene con lui, sicut ad benefactorem suum41. Spostandoci in territori molto scivolosi e impenetrabili dato che appartengono completamente al privato, si può pensare che Baroncello volesse provvedere ai figli di quella serva che era viva all’atto della donazione42 e che restava a vivere con lui solo, sia perché la condizione giuridica della madre li rendeva eredi particolarmente fragili, sia perché la morte prematura del fratello aveva lasciato lui solo a gestire una situazione complessa e forse non troppo rappresentabile. I due fratelli condivisero certamente – anche se non potremo mai sapere in che forma, e in quali tempi – la donna che avevano comperato assieme, e che nessuno dei due ebbe mai alcuna intenzione né di liberare, né di sposare, ma solo di impiegare per la riproduzione del piccolo gruppo domestico. La struttura monogamica del gruppo domestico viene in un caso come questo deliberatamente elusa da entrambi i fratelli che cercarono, e trovarono, nelle pieghe della normativa, una soluzione alternativa al matrimonio, pur in presenza di figli. Nell’intera vicenda sembra di poter scorgere, invece, tracce di una struttura ben diversa, quella della poliandria fraterna: nelle società che praticano la poliandria fraterna, infatti, i fratelli convivono, mantengono indiviso il patrimonio, condividono una sola donna e i figli vengono attribuiti in genere a uno solo degli uomini, il più anziano, e questo è tanto più vero in contesti sociali che vedono come modello prevalente quello monogamico43. Sono considerazioni destinate a rimanere semplici suggestioni, perché il linguaggio giuridico delle carte notarili non può che attribuire a Baroncello il Codex diplomaticus Amiatinus, n. 17, p. 35: “Tantumodum hoc volo, ut, dum ego aduixero, omnia dona mea in mea sit potestatem iudicandi pro anima mea vel disponendi qualiter uoluerimus, et vos una cum ipsis ribus bene deservire dibeatis, sicut ad benefactorem suum; vos uiro decesso meo, quidquid iniudicatum reliquero et per cartulam non firmavero, in vestro dominio vel de heredibus vestris persistat”. 42 Così pare di capire dal dettato del documento, ibidem: “vos supradicti Bonipert et Leopert, neputibus meis, de ancilla nostra propria nomine Boniperga vos procreati fuistes de quondam Baroncello germano meo”. 43 Una recente sintesi sulle conoscenze antropologiche in materia si legge in M. Arioti, Introduzione all’antropologia della parentela, Roma-Bari 2006, alle pp. 123124 e 136-137. 41
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ruolo di zio, e questo rende ogni altra interpretazione suggestiva forse, indimostrabile sicuramente. Poligamia e fonti normative La dimensione privata delle famiglie contadine e le loro possibili strutture articolate non si possono dunque cogliere, se non in parte, attraverso i polittici e anche le carte private offrono una rappresentazione coerente di un univoco modello monogamico, che sentiamo scricchiolare in certi punti, ma che risulta difficile mettere in discussione in modo efficace. L’aspetto privato dei gruppi domestici pare emergere però, in modo in parte inatteso, dalle fonti più astratte, quelle che, in apparenza, appaiono più lontane dalla concretezza della vita quotidiana e cioè dalle fonti normative intese largamente, le leges, i canoni, i penitenziali. Durante il regno di Liutprando, stando alle parole di una norma emanata nel 732, si era affermata all’improvviso una pratica perversa, cavillosa e dettata dall’avidità44, e cioè che donne adulte, già in età matura, si univano con bambini piccoli e affermavano che quelli erano i loro mariti anche se questi non erano palesemente ancora in grado di accoppiarsi carnalmente45. Tale pratica nasceva dall’avidità, perché uomini senza scrupoli convincevano bambini piccoli rimasti da soli, senza padre né nonno, e quindi titolari in potenza dell’intero patrimonio familiare, a stringere un contratto matrimoniale con donne già grandi, che in tal modo potevano, probabilmente non da sole, impadronirsi e gestire facilmente le sostanze del piccolo. Probabilmente non da sole, sottolineiamo, perché è proprio l’uomo, parente o estraneo che fosse, che avesse indotto il bambino ad accettare il matrimonio, l’unico soggetto a essere punito dalla disposizione, con una multa di 100 soldi che Liut. Roth. 129. Traduco così l’espressione “vanissimam et superstitiosa vel cupida soasionem et perversionem”, sulla base dei lessici medievali che non restituiscono mai la traduzione ‘superstizioso’ e invece accezioni vicine al significato di superstitiosus in inglese, e cioè overexact; unnecessarily scrupulous. Il Du Cange offre due accezioni, ambiguus e extraordinarius, ed è la seconda ad avvicinarsi maggiormente al significato che ha l’aggettivo nella norma che ci interessa, e cioè che esce dall’ordinario. Migliore ancora l’accezione che offre il Blaise, “trop méticuleux”, da cui la mia traduzione ‘cavillosa’. 45 Liut. Roth. 129: “ […] quoniam adulte et iam mature aetate femine copolabant sibe puerolus parvolus et intra etatem legetimam et dicebant, quod vir eius legetimus esse deverit, cum adhuc se cum ipsa miscere menime valerit”. 44
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dovevano essere versati metà al piccolo e metà al re. La pratica era sorta all’improvviso perché era probabilmente collegata a quelle disposizioni che Liutprando stesso aveva voluto a tutela del patrimonio dei minorenni appena cinque anni prima46, e che avevano imposto la presenza di almeno un giudice a tutte le transazioni che coinvolgevano il patrimonio di un minore – divisioni ereditarie e controversie in tribunale –, restando comunque escluso che il piccolo potesse alienare in alcun modo le proprie sostanze, né venderle, né donarle, neppure al fisco regio47. L’unica strada possibile per impadronirsi di tale patrimonio, o quantomeno gestirlo direttamente senza che i giudici dovessero intervenire, era rimasta quella del contratto matrimoniale, non previsto nella normativa a tutela, ed eccettuato in seguito con norma apposita dal re48. Questa norma però, presenta un altro elemento che ci interessa qui perché prevedeva che, se il matrimonio fra un bambino piccolo e una donna già sessualmente matura fosse stato deciso dal padre o dal nonno del piccolo con il consenso della famiglia della donna, non si poneva alcun problema. La salvaguardia di un tale genere di unione rendeva lecita la pratica del matrimonio fra un bambino piccolo e una donna grande, se voluta dalle famiglie di origine dei due, una pratica che però i testi normativi di età carolingia rivolti al regno italico condannarono senza alcuna tolleranza. Già il concilio di Cividale del 796, che sotto la guida di Paolino di Aquileia doveva, fra le altre cose49, adeguare il regno dei Longobardi alla morale matrimoniale che si andava elaborando in ambito transalpino50, aveva inteso rendere illegittime tutte le unioni caratterizzate da una grande differenza di età fra gli sposi, intendendo con ciò vietare Sono le disposizioni Liut. Roth. nn. 74 e 75. Liut. Roth. 99: “De puero intra aetatem decrevit clementiam nostram cum nostris iudicibus vel reliquis langobardis, ut sicut in alium hominem de rebus suis, dum intra aetatem est, dare non potest, ita nec regi donare possit, antequam ad legitimam perveniat aetatem; quia de causam istam multae contentionis fuerunt”. 48 Liut. Roth. 117. 49 In primo luogo la condanna dell’eresia adozionista e la questione trinitaria cosiddetta del filioque: si veda in proposito G. Cuscito, «Paolino di Aquileia nelle sinodi di Francoforte e di Cividale», in G. Fornasari (a cura di), Atti del Convegno internazionale di studi su Paolino d’Aquileia nel XII centenario dell’episcopato, 1988, pp. 145-60. 50 Sulla quale vedi la recente sintesi, con ampia bibliografia precedente, di Stone, Morality and Masculinity, soprattutto alle pp. 247-78. 46 47
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pratiche matrimoniali nei fatti poligamiche, come risulta chiaro dal dettato della norma: Abbiamo visto spesso molte rovine delle anime causate da un contratto nuziale di tal fatta e la pratica di fornicazioni tali quali non si riscontrano neppure fra i barbari; così, detto in parole chiare, dato che accade che il ragazzo sia adulto e la fanciulla piccina e, al contrario, che la ragazza sia di età matura e il bambino piccino, allora, nel caso dell’uomo adulto, la cognata e la suocera siano trattate come adultere, mentre, nel caso della ragazza già matura, il fratello o il padre del bambino muoiano soffocati dall’onta di un peccato tanto grande. E pertanto chi ancora presumesse di perpetrare tali pratiche proibite sia emarginato da ogni comunità ecclesiale ma neppure sia immune dal giudizio dei funzionari pubblici51.
La casistica prevista divide le punizioni sulla base del genere dei colpevoli che, attenzione, non sono gli sposi ma i loro più stretti parenti: per il peccato del marito adulto rispetto a una moglie bambina, la colpa ricade sulla suocera e la cognata, la madre e la sorella della sposa bambina dunque, che dovevano essere considerate e punite come se fossero adultere: adultere perché partecipi di una pratica di sororato. Gli antropologi definiscono ‘sororato’ la pratica del matrimonio di un uomo con due o più sorelle e, con il medesimo termine, definiscono anche il dovere che ha il gruppo di appartenenza della moglie, se la donna muore o risulta essere incapace di procreare, di fornire al marito una sorella che la sostituisca o vi si affianchi52. Nell’altro caso, invece, colpevoli diventavano il fratello o il padre del bambino che dividevano con lui una sola donna. Concilium Foroiuliense (796 vel 797), ed. A. Werminghoff, in MGH, Concilia aevi Karolini (742-842), 2/1. (742-817), Hannoverae-Leipzig, 1906, pp. 177-95. Capitolo IX: “Illud preterea per omnia precaventes prohibere decrevimus, ut nullus presummat ante annos pubertatis, id est infra aetatem, puerum vel puellam in matrimonium sociare, nec in dissimili aetate; sed coaetaneos sibique consencientes. Multas sepius ex huiuscemodi nuptiali contractu ruinas animarum factas divimus et tales fornicationes perpetratas, quales nec inter gentes; ita plane ut, cum contingit puerum adultum esse et puellam parvulam et e contrario, si puella maturae aetatis et puer sit tenere, et per virum cognata et socrus deprehendantur adulterae et per puellam frater vel pater pueri tanti peccati flagitio pereant inretiti. Unde qui haec prohibita de cetero usurpare praesumpserit ab omni ecclesiastico consortio sit alienus, sed nec a publicis sit inmunis iudiciis”. 52 Per un quadro di sintesi, Arioti, Introduzione all’antropologia, alle pp. 120-1. 51
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Una norma della sinodo di Pavia dell’850 attribuisce infine con chiarezza tale ultima pratica al mondo delle campagne: Abbiamo scoperto che molti uomini, soprattutto contadini, hanno introdotto nelle loro case femmine adulte quali mogli dei loro figli piccoli, e che poi è stato dimostrato irrefutabilmente che tali suoceri commettevano adulterio con le loro nuore. Per questo abbiamo deciso di vietare che da ora in poi alcun bambino ancora minorenne sia unito con una femmina adulta; ma piuttosto che una volta che gli adolescenti abbiano raggiunto l’età idonea, possano allora accoppiarsi in un’unione legittima53.
L’esistenza di pratiche poligamiche nella società longobarda dei secoli VIII e IX così come appaiono attestate da diverse fonti normative non possono però in alcun modo trovare riscontro nei contratti o negli inventari. Riprendiamo, a titolo di esempio, uno dei casi delle unioni condannate dal concilio di Aquileia, quello della poliandria verticale, e proviamo a rappresentarlo tramite la scrittura di un agente del vescovo di Marsiglia, o attraverso la scrittura di un notaio: nel primo caso, quello del polittico, l’agente del vescovo ci dirà che Tizio, colonus e Caia, uxor vivono in quella colonica con Sempronio, filius. Il notaio, invece, rispetterà il contratto matrimoniale e le relazioni giuridiche fra le parti e scriverà quindi che Tizio, insieme con il figlio Sempronio e la moglie di questi, Caia, vendono, comprano, prendono a livello, etc. In entrambi i casi, comunque, non potremmo trovare alcuna attestazione della peculiarità di un matrimonio contratto fra uno sposo bambino e una donna matura. Questo brevissimo itinerario fra fonti che ci restituiscono realtà private dei gruppi domestici lontane dal modello coniugale, così come lo abbiamo definito all’inizio con l’aiuto di Toubert, non intende affatto sostituire tale modello con strutture sociali diverse. Da un lato, si è
Capitularia regum Francorum, II, ed. A. Boretius e V. Krause, in MGH, Legum sectio II.2, Hannoverae, 1897, XVI. Additamenta ad capitularia Hlotharii I. et regum Italiae, 840-898, n. 228. Synodus Papiensis (a. 850), cap. 22, p. 122. “Inventi sunt multi et maxime de rusticis, qui adultas feminas sub parvulorum filiorum nomine in domibus suis introduxerunt, et postmodum ipsi soceri nurus suas adulterasse convicti sunt. Idcirco inhibendum decernimus, ut nulli deinceps inperfectae etatis puero adulta femina iungatur; sed cum ad etatem idoneam adulescentes venerint, tunc legitimo possint conubio copulari”. 53
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ben consapevoli del fatto che pratiche quali l’acquisto di serve fertili, la poliginia o la poliandria non vanno a costituire mai, nelle società tradizionali dove pure sono documentate, un modello sociale univoco, ma convivono sempre con il matrimonio monogamico. L’analisi condotta vuole soltanto tentare di restituire complessità alla pratiche sociali legate alla filiazione e alle alleanze nel periodo che precede il secolo X, una complessità che si esprime attraverso forme di unione flessibili, adattabili ai diversi contesti socio-economici e alle esigenze dei singoli e di piccoli gruppi. Una complessità che le fonti che abbiamo a disposizione lasciano solo intravedere attraverso piccoli squarci e nelle pieghe di lessici e di strutture documentarie fortemente condizionati da culture giuridiche e religiose che intendevano rappresentare i gruppi domestici in accordo con finalità proprie, non confrontabili fra loro, e che non sono quindi in grado di restituirci un quadro completamente coerente delle strutture familiari del tempo.
3. Gestione e controllo delle risorse
Cristina La Rocca Materiali pubblici e edilizia privata nell’Italia teodericiana
L’attività edilizia di Teoderico, re in Italia dal 493 al 526, può a ragione essere considerate una delle principali caratteristiche positive che furono trasmesse ai posteri dopo la sua morte e che furono utilizzate per definirne l’identità sia di attento custode del patrimonio monumentale antico, sia di premuroso promotore di iniziative volte a mantenere il decoro urbano all’altezza dell’antico passato1. Le diverse fonti che attestano questo impegno durante la sua vita – essenzialmente di natura epigrafica e archeologica – si rispecchiano infatti sia in una nutrita serie di testimonianze di poco successive alla sua morte, sia in una serie di testi scritti in cui la fama di re costruttore fu utilizzata durante tutto il medioevo sia per imprimere al passato locale delle città italiane un proprio imprinting antico, sia per conferire agli edifici restaurati o costruiti dal re una loro specifica personalità negativa e tirannica2. In particolare, Teoderico fu celebrato in vita così come dopo la morte come colui che ripristinò gli edifici di Roma3 e riportò
Il presente contributo rielabora il mio intervento di apertura al Congresso della Haskins Society a Boston nel 2013 pubblicato col titolo «Mores tuos fabricae loquuntur. Building activity and the Rhetoric of Power in Ostrogothic Italy», Haskins Society Journal, 26, 2014, pp. 1-29. 2 Roma, Crescenzio e il mausoleo di Adriano: “Crescentius quidam cum suis omnibus se munierat in validissima Adriani imperatoris, quae et Theoderici tyranni opinatur fuisse, fabrica”: Chronica regia Coloniensis ed. G. Waitz, Hannover, 1880, (MGH SSRG 18), p. 32; Verona e l’anfiteatro romano: “In eadem civitate domum pergrandem extruxit, quae Romuleo theatro mire assimilatur. Haec per ostium unum intratur et exitur, et per gradus circumductos, cum sit mirae altitudinis, facile ascenditur. In qua dum multa milia hominum contineantur, singulis a singulis audiuntur et videntur. Ne quisquam conditoris huius incertus habeatur, usque hodie Theoderici domus appellatur”: Chronicon Gozecense, 1, 23, ed. R. Köpke, in MGH Scriptores, 10, Hannover, 1852, p. 149. 3 Ennodii: Panegyricus dictus regi clementissimo Theoderico, XI, ed. F. Vogel, in MGH Auctores Antiquissimi, VII, Berlin, 1875, p. 210: “Video insperatum deco1
Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 235-259 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116187
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Materiali pubblici e edilizia privata nell’Italia teodericiana
all’uso le infrastrutture pubbliche di altre città (anzitutto Pavia e Verona), menzionando specificamente: i palatia, gli anfiteatri, le terme e gli acquedotti, le mura urbane4: una serie di edifici pubblici conservati in elevato, che venivano per questa via direttamente ricondotti all’iniziativa regia. Rispetto a questa immagine, è necessario confrontare le testimonianze contenute nelle Variae di Cassiodoro, vale a dire nella raccolta della corrispondenza regia raccolta da Cassiodoro e
rem urbium cineribus evenisse et sub civilitatis plenitudine palatina ubique tecta rutilare. Video ante perfecta aedificia, quam me contigisset disposita. Illa ipsa mater civitatum Roma iuveniscit marcida senectutis membra resecando. Date veniam, Lupercalis geniis sacra rudimenta: plus est occasum repellere quam dedisse principia”: Cassiodori Chronica, ed. Th. Mommsen, a. 500, in MGH, Chronica minora saec. IV, V, VI, VII, ii (MGH, Auctores Antiquissimi XI), Berlin, 1894, p. 160: “Dominus rex Theodericus (…) admirandiis moeniis deputata per sigulos annos maxima pecuniae quantitate subvenit. Sub cuius felici imperio plurimae renovantur urbes, munitissima castella conduntur, consurgunt admiranda palatia, magnisque eius operibus antiqua miracula superantur”. 4 Anonymi Valesiani Pars posterior, 22, ed. R. Cessi, in Fragmenta historica ab Henrico et Hadriano Valesio primum edita (RR.II.SS., XXIV), Città di Castello 1913, p. 18: “Erat enim amator fabricarum et restaurator civitatum. Hic acquaeductum Ravennae restauravit, quem princeps Traianus fecerat, et post multa tempora aquam introduxit; palatium usque ad perfectum fecit, quem non dedicavit; portica circa palatium perfecit. Item Veronae thermas et palatium fecit et a porta usque ad palatium porticum addidit; acquaeductum, quod per multa tempora destructum fuerat, renovavit et aquam intromisit; muros alios novos circuit civitatem. Item Ticinum palatium, thermas, amphiteatrum et alios muros civitatis fecit.”; Isidori Hispalensis Historia Gothorum, ed. Th. Mommsen, in MGH Auctores Antiquissimi XI, 283: “Unde Italiam repetens aliquamdiu omni cum prosperitate regnavit per quem etiam urbis Romae dignitas non parva est restituta; muros namque eius iste redintegravit, cuius rei gratia a Senatu inauratam statuam meruit”; Historia ecclesiastica Zachariae Rhetori vulgo adscripta, 2, 7, 12, ed. E.W. Brooks, Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, Scriptores Syri, III, Lovanii 1924, p. 38: “Era uomo di guerra e aiutò ai suoi giorni con vigore, contro barbari e Goti, il popolo d’Italia. Lo ebbe in cura e innalzò edifici di ogni genere nella sua città di Roma, la restaurò e le diede privilegi”; Fredegarius, Chronica, II, 57, ed. B. Krusch, in MGH, SS rer. Merov., II, Hannover, 1888, p. 82: “Civitates universas quas regebat miri operis restaurare et munire solertissime fecit. Palatia quoque splendedissime Ravennae urbis, Veronae et Papiae, quod Ticinum cognomentum est, fabricare iussit. Tantae prosperetatis post regnum tenuit pacem cum gentibus vicinas habens, ut mirum fuisset”.
Cristina La Rocca
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pubblicata a Costantinopoli come sua opera attorno al 5405 – oggetto recente di una traduzione complessiva con commento in lingua italiana6 – costituiscono una testimonianza eccezionale dell’interazione tra i linguaggi della cultura materiale, quelli della cultura giuridica e quelli della cancelleria regia per presentare l’azione regia nei confronti del patrimonio edilizio urbano come un segno puntuale del controllo del re sullo spazio pubblico e, contemporaneamente, come un segno dell’esistenza di un ampio spazio di mediazione con le élites locali che potevano concordare con il re l’utilizzo degli edifici pubblici, assumendosi l’onere della loro manutenzione. Non c’è dubbio che Teoderico sottolineò la propria legittimità e autorevolezza utilizzando attributi visibili e concreti del potere, creando una nuova tipologia di efficienza e di civilitas per il proprio regno, intimamente connessa alla propria attività edilizia. Quest’ultima fungeva anche da veicolo di enfatizzazione della superiorità di Teoderico sugli altri re barbarici e soprattutto sul cognato Clodoveo, re dei Franchi, per la supremazia politica in Occidente7. 1. Teoderico, re restauratore Se le fonti medievali, successive alla morte di Teoderico, si concentrano maggiormente sugli edifici monumentali che il re avrebbe fatto costruire ex novo, nelle Variae di Cassiodoro l’attività regia si concentra invece sul ripristino di antichi edifici crollati al suolo. Il re è rappresentato mentre autorizza dei progetti di restauro, ma molto più spesso li promuove direttamente, apparendo come colui che domina lo spazio pubblico e come l’architetto dell’immagine materiale delle città. In questo stesso senso Teoderico è osservato mentre dà il suo consenso ai progetti di appropriazione da parte di privati dello spazio pubblico Questa la datazione proposta da S.M. Bjornlie, Politics and Tradition between Rome, Ravenna and Constantinople: A Study of Cassiodorus and the Variae 527-554, Cambridge, 2013, pp. 26-33. 6 L’edizione latina cui si fa riferimento è Magni Aurelii Cassiodori Senatoris, Variae ed. Th. Mommsen, Berlin, 1894 (MGH Scriptores Antiquissimi, XII); la traduzione italiana con commento è edita in A. Giardina (a cura di), Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore Varie, I-VI, Roma, 2014 – (d’ora in poi: Cassiodoro Varie). 7 R.W. Mathisen, «Clovis, Anastasius, and Political Status in 508 C.E.: The Frankish Aftermath of the Battle of Vouillé», in R.W. Mathisen (ed.), The battle of Vouillé, 507 CE. Where France began, Boston, 2012, pp. 79-110. 5
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Materiali pubblici e edilizia privata nell’Italia teodericiana
oppure li deplora vigorosamente, se accaduti a sua insaputa (Tab. 1). La distribuzione geografica delle città interessate a tali restauri riguarda prima di tutto la capitale di Teoderico – Ravenna (Tab. 2) – e la città di Roma (Tab. 3 a, b, c), mentre singole lettere sono indirizzate a specifiche comunità urbane del regno, dalla Sicilia al Trentino, dal Piemonte alla Venetia alla Dalmazia (Tab. 4). Per ciò che riguarda il loro contenuto, è possibile operare una distinzione in quattro gruppi: il primo, il più importante, riguarda le lettere sugli edifici pubblici di Ravenna, ove il re è impegnato direttamente a finanziare i restauri; il secondo gruppo riguarda invece i restauri in altre città della Penisola, che sono invece finanziati dalle autorità locali; il terzo gruppo riguarda le fortificazioni – sia che si tratti di nuove costruzioni, sia di ampliamenti di strutture esistenti – che sono anch’esse finanziate localmente (Tab. 5); il quarto gruppo riguarda infine i lavori edilizi nella città di Roma, con una tipologia più articolata di interventi. Occorre osservare che mentre a Ravenna il re si presenta come responsabile del decoro civico e come esclusivo finanziatore degli interventi edilizi, nelle altre città della Penisola le lettere teodericiane sono redatte come veri e propri ordini di restauro degli edifici monumentali in rovina. Solo nel caso di Catania, il re autorizza a smantellare l’anfiteatro per riutilizzare le pietre nella costruzione di una cinta muraria, in risposta a una richiesta da parte delle élites locali. Le imprese edilizie compiute a Ravenna sono tutte volte a dotare la capitale regia di materiali edilizi antichi, provenienti dagli edifici crollati in città vicine, sia abbandonate sia ancora abitate. I marmi di Estuni (una città non ancora localizzabile con certezza8) furono trasportati a Ravenna perché giacevano al suolo, inutilizzati. Il loro riutilizzo è motivato dal presupposto generale che fa da cornice ai restauri teodericiani, vale a dire la creazione di realizzazioni attuali e moderne senza che l’antichità sia offesa e violata: a Ravenna i marmi e le colonne di Estuni potranno “risorgere a redivivo ornamento” poiché “non serve a nulla conservare ciò che giace indecorosamente al suolo”. A Estuni, invece, le colonne crollate ‘rendono manifesto il dolore che viene dai secoli precedenti’9. La stessa argomentazione è uti-
Mommsen (Cassiodori Senatoris Variae p. 508 e 533) propone che si tratti di Sestinum, la omonima città umbra. 9 Variae III 9, 2: “quia indecore iacentia servare nil proficit, ad ornatum debent surgere redivivum quam dolorem monstrare ex memoria praecedentium saeculorum” (Cassiodoro Varie, II, pp. 22-3). 8
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lizzata nelle altre lettere che riguardano Ravenna: il trasporto in città di quadrati di marmo provenienti da Faventia10 e i marmi rimossi dalla proprietà fiscale abbandonata della domus Pinciana a Roma11. Gli spolia sono stati studiati da Paolo Liverani come una delle evidenze relative al persistente controllo, da parte delle autorità pubbliche, sugli elementi caratteristici del patrimonio edilizio pubblico: gli ornamenti bronzei e i materiali da costruzione, con speciale enfasi sui rocchi di colonna12 Sotto il profilo giuridico si è notato come i provvedimenti teodericiani fossero stati effettuati nel rispetto della legislazione tardoantica che concedeva la circolazione di decorazioni edilizie e di materiali da costruzione tra una città e l’altra, purché esse restassero all’interno dello stesso patrimonium – in questo caso quello regio – ; invece i provvedimenti che riguardavano Estuni e Faventia se ne discostavano ampiamente, dato che gli ornamenta di una città erano concepiti come parte integrante del patrimonio della città stessa13. Nel caso di Faventia, l’ordine di trasportare a Ravenna i marmi è infatti rinforzato da una civilis executio, un’ingiunzione che obbligava la curia faentina a eseguire quanto stabilito dal re, e dimostra, credo, una qualche riluttanza da parte della comunità ad accettare di essere deprivata del proprio patrimonio edilizio.
Variae V 8: “Ad Faventinam civitatem civilem excecutionem te praecipimus destinare, ut sine cuiusquam concussione vel damno quadrati ad Ravennatem urbem ex nostra iussione devehantur” (Cassiodoro Varie, II, pp. 146-7). 11 Variae III 10: “marmora quae de domo Pinciana constat esse deposita ad Ravennatem urbem per catabolenses vestra ordinatione dirigantur” (Cassiodoro Varie II, pp. 24-5). 12 P. Liverani, «Reading spolia in late Antiquity and contemporary perception», in R Brilliant, D. Kinney (eds.), Reuse value: spolia and appropriation in art and architecture, from Constantine to Sherrie Levine, Farnham, 2011, pp. 33-51; P. Liverani, «Reimpiego senza ideologia. La lettura antica degli spolia dall’arco di Costantino all’età carolingia», Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts. Römische Abteilung, 111, 2004, pp. 383-436. 13 J. Dubouloz, «Acception et défense des loca publica, d’après les Variae de Cassiodore. Un point de vue sur les cités d’Italie au VIe siècle», in M. Ghilardi (dir.), Les cités de l’Italie tardo-antique (IVe-VIe siècle). Institutions, économie, société, culture et religion, Rome, 2006, pp. 53-74. 10
Tab. 1 – Le lettere edilizie e la struttura compositiva delle Variae
Totale lettere edilizie dei successori di Teoderico: 6 ⁄161
Lettere edilizie: 1 ⁄28 Lettere edilizie: 0 ⁄40 Lettere edilizie: 3 ⁄35
Lettere edilizie: 0 ⁄25
Lettere edilizie: 2 ⁄33
Lettere edilizie: 0
Lettere edilizie: 0
Lettere edilizie: 3 ⁄44
Lettere edilizie: 4 ⁄51
Lettere edilizie: 9 ⁄53
Lettere edilizie: 7 ⁄41
Lettere edilizie: 5 ⁄46
Totale lettere edilizie di Teoderico: 21 ⁄140
Libro 12
Libro 11
Libro 10
Libro 9
Libro 8
Libro 7
Libro 6
Libro 5
Libro 4
Libro 3
Libro 2
Cassiodoro : Praefectus Pretorio (534-536)
Libro 1
Cassiodoro : Magister Officiorum e Praefectus Pretorio (526-536)
Cassiodoro: Magister Officiorum (511526)
FORMULAE
Re: Atalarico, Amalasunta, Teodato, Vitige (534-536)
Cassiodoro: Quaestor Palatii (507-511)
RE: Teoderico (507-526)
Re: Atalarico, Amalasunta, Teodato, Vitige (526-536)
240 Materiali pubblici e edilizia privata nell’Italia teodericiana
Cristina La Rocca
Fonte
Attività Decorazione della basilica Herculis, un nuovo settore del palatium regio
Variae I 6. Agapito v.i. p.u. Theodericus rex
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Ordine impartito Sono richiesti esperti marmorarii da Roma a Ravenna per installare un opus tessellatum
I marmi saranno Variae III 9. Possessoribus Trasporto di marmi e defensoribus et curialibus colonne che giacciono al trasferiti a Ravenna dove saranno riutilizzati suolo a Sestinum Estunis consistensibus
Variae III 10. Festo v.i. patricio Theodericus rex
Trasferimento dei marmi della domus Pinciana a Roma
I marmi saranno trasferiti a Ravenna dove saranno riutilizzati
Variae V 8. Anastasio consulari Theodericus rex
Trasferimento di quadrati da Faventia
Saranno trasferiti a Ravenna dove saranno riutilizzati
Variae V 38. Universis possessoribus Theodericus rex
Lavori di ripristino dell’acquedotto
I possessores dovranno pagare per i lavori
Variae X 8. Theodorae Augustae Amalasuintha regina
Richiesta di marmi e alia necessaria all’imperatore. Un funzionario (portitor) è inviato a Costantinopoli.
Richiesta di concessione
Variae X 9 e X 10 Iustiniano Augusto Theodahadus rex
Richiesta di marmi e alia necessaria all’imperatore. Un funzionario (portitor) è inviato a Costantinopoli.
Richiesta di concessione
Tab. 2 – Attività edilizia a Ravenna
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Materiali pubblici e edilizia privata nell’Italia teodericiana
Tab. 3 (a, b, c) – Lavori edilizi a Roma Fonte
Reato
Punizione / Rimedio
Variae I 25. Sabiniano v.s. Theodericus rex
I magazzini pubblici del Portus Licinii sono occupati da private e I restauri ordinati dal re non hanno avuto luogo
I restauri devono svolgersi il più presto possibile. Nessuna menzione di punizione per gli occupanti abusivi
Variae II 23. Ampelio, Despotio, Teodulo v.s. Theodericu rex
I tre uomini sono eccessivamente gravati dalla concessione di produrre tegole e mattoni pubblici
È garantita la protezione regia per i tre uomini
Variae III 30. Argolico P.U. Theodericus rex.
Il funzionamento delle fognature di Roma è compromesso dall’utilizzo privato dei servi pubblici
Giovanni è incaricato di indagare
Variae III 31. Senatui urbis Romae Theodericus rex
Teoderico denuncia le appropriazioni private dell’acqua pubblica e dei servi pubblici e la sottrazione degli ornamenti di bronzo e di metallo dai monumenti pubblici
I senatori sono incaricati di un indagine “che voi stessi avreste dovuto richiedere”
Tab. 3a – Abusi edilizi Fonte
Reato
Punizione / Rimedio
Variae I 21. Maximiano v.i. et Andreae v.s. Theodericus rex
Uso illecito da parte di private dei fondi stanziati dal re per restaurare gli edifici pubblici
Due spectabiles sono incaricati dell’indagine
Variae II 34. Artemidoro praefecto urbis Theodericus rex
I fondi stanziati per gli edifici pubblici di Roma sono utilizzati per altri scopi
Il PU è incaricato dell’indagine
Tab. 3b – Appropriazioni indebite di denaro stanziato per il patrimonio urbano di Roma
Cristina La Rocca
Fonte
Dono
243
Note
Variae II 23. Ampelio Le figlinae pubbliche presso Despotio et Theodulo Roma sono donate a tre privati Theoderico rex
Variae III 29. Argolico v.i. praefecto urbis Theodericus rex
L’area di alcuni horrea in rovina è concessa al patrizio Paolinus, col permesso di costruire nuove strutture
Variae IV 30. Albino v.i. patricio Theodericus rex
L’ area della porticus Curva sul foro di Roma è concessa ad Albinus, permettendogli di costruire nuovi edifici
Variae IV 51. Symmacho patricio Theodericus rex
Restauro del teatro di Pompeo
Il patrizio Simmaco è incaricato di sovrintendere ai lavori, che saranno finanziati dal re
Tab. 3c – Concessioni edilizie a privati a Roma
244
Materiali pubblici e edilizia privata nell’Italia teodericiana
Fonte
Attività
Variae II 27. Universis Iudaeis Genua consistentibus Theodericus rex
Restauri della sinagoga a Genova. Non è permesso ampliarne le dimensioni
Restauri al Fons Aponi e al palazzo pubblico Variae II 39. Aloioso architecto Theodericus rex che si trova nelle sue vicinanze
Ordine La comunità ebraica finanzierà i lavori di ripristino
Il re approva e finanzia il restauro
Variae III 44. Universis posseribus Arelatensibus Theodericus rex
Restauro delle torri e delle mura della cinta urbana di Arles
Il re finanzia i lavori
Variae III 49. Honoratis possessoribus defensoribus et curalibus Catinensis civitatis Theodericus rex
Restauro/nuova costruzione della cinta urbana di Catania
Le autorità municipali sono autorizzate a utilizzare I materiali dell’anfiteatro della città.
Variae IV 31. Aemiliano viro venerabili episcopo Theodericus rex
Restauro dell’acquedotto Il vescovo di Vercelli di Vercelli sovrintende ai restauri
Variae VIII 29. Honoratis possessoribus et curialibus Parmensis civitatis Athalaricus rex
Restauro delle fognature I proprietari locali di Parma finanziano i lavori
Variae VIII 30. Genesio v.s. Athalaricus rex
Genesio, vir spectabilis, è Restauro delle fognature incaricato di controllare di Parma i lavori
Tab. 4 – Edilizia pubblica nel regno di Teoderico
Cristina La Rocca
Fonte
Attività
Variae I 17. Universis Gothis et Romanis Dertona consistentibus Theodericus rex
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Ordine
È meglio costruire fortificazioni in tempo di pace
I proprietari locali devono costruire nuove abitazioni nel castellum di Derthona
Variae III 48. Universis Gothis et Romanis circa È meglio costruire Verrucas castellum fortificazioni in tempo consistentibus Theodericus di pace rex
I proprietari locali devono costruire nuove abitazioni nel castellum di Verruca
Variae V 9. Possessoribus Feltrinis Theodericus rex
Costruzione di una nuova ‘città’ presso Feltre
I possessori devono contribuire al costo delle fortificazioni
Variae XII 17. Iohanni liquatario Ravennati Athalaricus rex Senator p.po
La cinta muraria di Salona è diroccata. È necessario restaurarla perché i cittadini paghino la siliqua passando dalla porta urbana
Ordine ai possessori locali di restaurare le parti in rovina della cinta e di scavare un profondo fossato lungo le mura
Tab. 5 – Fortificazioni nel regno di Teoderico
A Ravenna il re finanziò pure lavori per la costruzione di una nuova aula, all’interno o in prossimità del palazzo regio, la cosiddetta basilica Herculis14, e ordinò ai possessores locali di provvedere al restauro dell’acquedotto romano della città15. In entrambi i casi il coinvolgimento diretto di Teoderico fu espressamente sottolineato: l’acquedotto, la cosiddetta Torre Sallustra, distribuiva l’acqua tramite fistule di piombo recanti l’iscrizione “Dominus Rex Theodericus civitati reddidit”16; la basilica Herculis era deVariae I 6. Variae V 38. 16 Un aggiornato resoconto archeologico sull’acquedotto di Ravenna è in E. Cirelli, Ravenna: archeologia di una città, Firenze, 2008, pp. 112-4, 203. 14 15
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Materiali pubblici e edilizia privata nell’Italia teodericiana
corata con una immagine dell’eroe mitologico, ritenuto il fondatore della dignità regale e per la sua realizzazione furono incaricati dei marmorarii, specialisti nella realizzazione di crustae, furono richiesti a Roma, dove si trovavano artigiani in grado di produrre questa sofisticata tecnica di rivestimento che, attraverso l’accostamento di lastre di marmo di varietà diverse, realizzava figure geometriche o figurative sfruttando l’effetto coloristico della vena dei marmi stessi. Le crustae trovarono una loro ampia diffusione nel corso del IV secolo per decorare aule di riunione, sia private sia pubbliche17. Poiché, con tutta probabilità le crustae del palazzo di Teoderico furono tra i marmora fatti trasportare ad Aquisgrana da Carlo Magno all’inizio del IX secolo18, è impossibile essere certi della loro iconografia. L’impegno dimostrato da Teoderico nei confronti di Ravenna è in stridente contrasto con la mancanza pressoché assoluta di lettere che riguardino interventi edilizi nella città ‘sede regia’ redatte da Cassiodoro a nome dei successori di Teoderico. Come ho già osservato, per abbellire Ravenna Teoderico scelse un atteggiamento flessibile nei confronti della legislazione romana e utilizzò gli spolia provenienti da altre città vicine. Nei casi che riguardano alter città, invece, la legislazione tardoantica fu invece rigorosamente rispettata qualora si trattasse di autorizzare o di ordinare alle comunità locali il ripristino o il reimpiego di strutture già esistenti. Nel 507/511 le autorità locali di Catania furono infatti autorizzate a riutilizzare le pietre dell’anfiteatro “longa vetustate collapsa” per costruire o restaurare le mura della città. Nella lettera si sottolinea che l’autorizzazione viene concessa perché i materiali in questione giacevano al suolo, inutilizzati, e dunque non contribuivano in nessun modo al decoro pubblico19. Esempi di pavimenti in opus sectile ritrovati a Ravenna sono elencati da P. Novara, «Ravenna: pavimenti settili negli edifici di culto di età teodericiana (fine V – inizi VI secolo)», in C. Angelelli (a cura di), Atti del XII colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico, Tivoli, 2007, pp. 111-118; per l’Italia settentrionale: F. Guidobaldi, «Sectilia Pavimenta tardoantichi e paleocristiani a piccolo modulo dell’Italia settentrionale», in Rivista di archeologia cristiana, 85, 2009, pp. 355-420. 18 Cfr. la discussione di J. Shepard, «Byzantium’s overlapping Circles», in E.M. Jeffreys (ed.), Proceedings of the 21st International Congress of Byzantine Studies, Aldershot, 2007, pp. 11-55. 19 Variae III 49, 3: “Saxa ergo quae suggeritis de amphitheatro longa vetustate collapsa nec aliquid ornatui publico iam prodesse nisi solas turpes ruinas ostendere, licentiam vobis eorum in usus dumtaxat publicos damus, ut in murorum faciem surgat quod non potest prodesse si iaceat” (Cassiodoro, Varie, II, pp. 62-63). 17
Cristina La Rocca
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La legislazione tardoromana sottolineava infatti che gli edifici pubblici potessero essere demoliti soltanto se non fossero stati ancora utilizzati; inoltre i loro materiali da costruzione potevano essere riutilizzati per altri edifici pubblici e per un uso pubblico all’interno della stessa città: in questo modo la dignità e il patrimonio materiale di un centro urbano e dei suoi abitanti erano salvaguardati, in modo che le pietre riutilizzate potessero ancora esprimere la dignità e la tradizione della comunità locale20. Lo stesso concetto fu utilizzato, nella sua versione imperativa, per ordinare a Emiliano, forse vescovo di Vercelli, il completamento dei lavori di ripristino dell’acquedotto urbano: Teoderico gli ricordò infatti che “Si deve portare a termine ciò che la volontà di uomini saggi ha intrapreso, poiché, come le cose compiute procurano lode, allo stesso modo sono causa di biasimo quelle lasciate in malora a metà dell’opera”21. Le responsabilità pubbliche del vescovo nei confronti della propria comunità urbana furono perciò paragonate, in modo certo molto appropriato, a un’immagine biblica: così come il patriarca Mosé “dalla sterilità di una roccia fece sgorgare copiose sorgenti per il popolo di Israele assetato da una lunga siccità” (Exodus 17, 3-7) così Emiliano doveva “procurare ai popoli, con questa tua impresa, ciò che egli procurò con i miracoli”22. Gli ultimi due casi di restauro al di fuori di Ravenna documentati nelle Variae sono connessi direttamente alla persona del re, alle sue in-
Si veda da ultimo, Y.A. Marano, «Fonti giuridiche di età romana (I secolo a.C.-VI secolo d.C.) per lo studio del reimpiego» in G. Cuscito (a cura di), Riuso di monumenti e reimpiego di materiali antichi in età postclassica. Il caso della Venetia, Udine, 2012, pp. 63-83 con ricca bibliografia precedente. 21 Variae IV 31, 1: “Ad finem debet perducere quae prudentum intentio visa est suscepisse, quia sicut perfecta laudem pariunt, ita vituperationem generant quae in mediis conatibus aegra deseruntur” (Cassiodoro, Varie, II, pp. 106-7). 22 Variae IV 31, 2: “Imitaris enim antiquissimum Moysen, qui Israhelitico populo longa ariditate siccato de saxi sterilitate copiosos latices eduxit […] Tu autem, si fonte irriguos saxorum constructione deducis, hoc labore tuo praestas populis quo dille miraculis” (Cassiodoro, Varie, II, pp. 106-7). Cfr. P. van Moorsel, «Il miracolo della roccia nella letteratura e nell’arte paleocristiane», Rivista di Archeologia Cristiana, 40, 1964, pp. 221-51. Sulle responsabilità episcopali rispetto alle opere pubbliche, cfr. Y.A. Marano, «Domus in qua manebat episcopus. Epicopal residences in Northern Italy in Late Antiquity (4th to 6th century A.D.)», in L. Lavan, L. Özgenel, A. Sarantis (eds.), Housing in Late Antiquity. From palaces to shops, Leiden, 2007, pp. 97-129: 122. 20
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Materiali pubblici e edilizia privata nell’Italia teodericiana
clinazioni affettive e alle sue personali responsabilità. Nella città di Arles, da poco conquistata, il re promise alle autorità locali tra 510 e 511 di finanziare il restauro delle mura e delle torri urbane esprimendo il suo cordoglio e la sua compassione nei confronti degli abitanti della città: “la nostra umanità unisce l’una e l’altra cosa, che ci prendiamo cura dei cittadini soccorrendoli con generosità e che ci affrettiamo a riportare al loro decoro gli antichi edifici. Così infatti accadrà che la fortuna della città, che si fonda sui cittadini, sia mostrata anche dalla bellezza delle sue costruzioni"23. Ad Abano, località termale presso Padova, il re si mostra personalmente impegnato nel donare una nuova dignità a un palazzo pubblico situato presso un celebre complesso di acque curative motivandolo con il suo personale coinvolgimento affettivo: “Se desideriamo conservare, a lode della nostra clemenza, le famose meraviglie degli antichi, poiché esse accrescono la gloria del re, considerato che sotto di noi nessuna cosa si sminuisce, con quale impegno è opportuno dunque riparare ciò che risulta mostrarsi di frequente financo ai nostri occhi? Fa piacere infatti ricordare la potenza del salutifero Apono, in modo che tu capisca con quale bramosia desideriamo ripristinare ciò che non sa uscire dalla nostra memoria”24. La fama del sito termale, noto dall’antichità, e i prodigi delle sue acque curative costituiscono inoltre un inestimabile patrimonio: “Ma chi, anche se ottenebrato da una grande avarizia, trascurerebbe di preservare queste cose? Certo è un ornamento del regno ciò che è stato celebrato in modo eccezionale in tutto il
Variae III 44, 1: “Utrumque humanitas nostra coniungit ut et largitatis remedio civibus consulamus et ad cultum reducere antiua moenia festinemus. Sic enim fiet ut fortuna urbis, quae in civibus erigitur, fabricarum quoque decore monstretur” (Cassiodoro, Varie, II, pp. 56-7). Sui monumenti pubblici di Arles in età tardoantica: S.T. Loseby, «Arles in late antiquity: ‘Gallula Roma Arelas’ and ‘Urbs Genesii’», in N.J. Christie, S.T. Loseby (eds.), Towns in transition. Urban evolution in late antiquity and the early Middle Ages, Aldershot, 1996, pp. 45-70. 24 Variae II 39, 1: “Si audita veterum miracula ad laudem clementiae nostrae volumus continere, quoniam augmenta regalis gloriae sunt, cum sub nobis nulla decrescunt, quo studio convenit reparari quod etiam nostris oculis frequenter constat offerri? delectat enim salutiferi Aponi meminisse potentiam, ut intellegas, quo desiderio cupimus reficere quod de memoria nostra nescit exire” (Cassiodoro, Varie, I, c.s.). Sul Fons Aponi e il palazzo di Teoderico: Y.A. Marano, «Variae 2, 39. Cassiodoro e Fons Aponi», in M. Bassani, M. Bressan, F. Ghedini (a cura di), Aquae Patavinae. Il termalismo antico nel comprensorio euganeo e in Italia, Padova, 2011, pp. 195-210. 23
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mondo”25. In entrambi i casi si sottolinea una tensione emotiva e affettiva tra la storia e il prestigio degli edifici e il re oltre alla lunghezza della lettera per il restauro del Fons Aponi, indirizzata all’architetto Aloiosus, permette di supporre che essa fosse stata letta in pubblico di fronte allo stesso Teoderico e alla sua corte e facesse perciò parte dei rituali di integrazione che Peter Heather ha giustamente ipotizzato costituissero una delle forme di costruzione del consenso sviluppate a Ravenna26. Le lettere che riguardano i restauri includono pure due missive di carattere più generale. La prima è indirizzata indistintamente a tutti i Goti e i Romani, e prescrive di raccogliere i materiali edilizi crollati che si trovano in aree rurali all’interno delle proprietà private27; la seconda è rivolta invece al conte Suna – forse conte in Etruria28- al quale viene richiesto di raccogliere i materiali crollati da edifici pubblici in un luogo di incerta definizione e di consegnarli a coloro che sono addetti alla costruzione di un’imprecisata fortificazione (fabricam murorum), accertandosi che le pietre in questione provengano da edifici pubblici29. 25 Variae II 39, 12: “Sed quis ista conservare neglegat, quamvis plurima tenacitate sordescat? Siquidem ornat regnum, quod fuerit singulariter toto orbe nominatum” (Cassiodoro, Varie, I, c.s.). 26 P. Heather, «Theoderic king of the Goths», Early Medieval Europe, 4, 1995, pp. 145-73: 162-5. 27 Variae I 28, 2: “se qualcuno ha sassi di qualunque genere che giacciono al suolo nei suoi campi e che possano servire alla costruzione di mura, di buon grado li conceda senza indugio alcuno: allora più autenticamente saranno in suo possesso, quando li avrà offerti per l’utilità della sua città’ (‘praesenti iussione profutura sancimus, ut, si quis cuiuslibet generis saxa in agris suis iacentia muris habuerit profutura, libens animo sine aliqua dilatione concedat, quod tunc magis verius possidebit, cum hoc utilitati suae civitatis indulserit”( Cassiodoro, Varie, I, c.s.). 28 Suna in A.H. Martin Jones, J.R. Martindale, J. Morris (eds.), The Prosopography of the Later Roman Empire, II, Cambridge, 1992, p. 1040. 29 Variae II 7: “l’illustre sublimità tua provveda che i blocchi di marmo, che sono trascurati e giacciono come rovine alla rinfusa, siano assegnati per la costruzione di mura a coloro a cui quest’incarico è stato affidato, cosicché ritorni al decoro pubblico un’antica costruzione, e i sassi che giacciono in rovina siano di qualche ornamento. Ciò tuttavia, purché tu abbia prova che le stesse pietre siano crollate da luoghi pubblici” [...] “illustris sublimitas tua marmorum quadratos, qui passim diruti negleguntur, quibus hoc opus videtur iniunctum in fabricam murorum faciat deputari, ut redeat in decorem publicum prisca constructio et ornent aliquid saxa iacentia post ruinas: ita tamen, ut metalla ipsa de locis publicis corruisse apud te manifesta ratione doceatur” (Cassiodoro, Varie, I, c.s.).
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È possibile che una tale raccolta programmata di materiale edilizio fosse connessa a un altro aspetto delle responsabilità edilizie di Teoderico, vale a dire la fortificazione di alcune località lungo il limes interno, anche se la responsabilità di erigere materialmente le fortificazioni appare, nelle attestazioni delle Variae, essere dei possessores locali, che le devono anche finanziare; nelle lettere che riguardano le fortificazioni Teoderico si limita perciò a esortare i proprietari a eseguire i lavori, che includono non solo l’edificazione della cinta muraria ma anche quella di abitazioni al suo interno (Tab. 4). Queste specifiche responsabilità erano assegnate ai proprietari locali a partire dal IV e V secolo, comprendendo sia il dovere di provvedere alla costruzione e al restauro delle mura, sia di riparare le strutture difensive della propria città30 Le città che sono interessate alle fortificazioni sono tutte collocate lungo il corso di fiumi e di strade ed è probabile che esse ospitassero contingenti militari permanenti31: tuttavia le lettere teodericiane che riguardano le fortificazioni non sono da intendersi come il riflesso immediato di esigenze belliche oppure di risposte necessarie all’imminenza di conflitti armati. Un loro esame ravvicinato rivela infatti che la necessità di restaurare o erigere nuove fortificazioni non è correlata a esigenze di tipo militare, ma è invece connessa – complessivamente – alla politica edilizia regia. Infatti il contesto retorico delle lettere ‘di fortificazione’ correla la responsabilità di rafforzare le città alla lungimiranza del sovrano, che provvede a difendere le città anzitutto come una misura preventiva, proprio quando non vi è traccia di pericolo imminente. In questo senso Cassiodoro utilizza il triplice valore del termine expedition, che significa allo stesso tempo ‘progetto’ e ‘spedizione militare’, ma che è anche utilizzato come un sostantivo Cfr. la Novella di Valentiniano III (Nov. Val. X, 3) in cui i proprietari locali sono obbligati a costruire e a manutenere le fortificazioni della propria città, richiamandosi a due costituzioni imperiali di Arcadio e Onorio del 396 e di Onorio e Teodosio II nel 412: CTh XV, 1, 34 = CJ VIII, 11, 12; CTh XV 1, 49 = CJ X, 49, 1. 31 Variae I 17 (Dertona); III 48 (castrum di Verruca); V 9 (una nuova fortificazione presso Feltre). Sulle fortificazioni teodericiane e la loro strategia distributiva: A.A. Settia, «Le fortificazioni dell’Italia dei Goti», in Teoderico il Grande, Atti del XIII Congresso CISAM, Spoleto, 1993, pp. 101-31; v. anche C. La Rocca, «Fortificare le città e prevenire i pericoli. Doveri e qualità regie nell’Italia teodericiana» in L. Jégou, S. Joye, Th. Lienhard, J. Schneider (dir.), Faire Lien. Aristocratie, réseaux et échanges compétitifs : Mélanges en l’honneur de Régine Le Jan, Paris, 2015, pp. 421-8. 30
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derivato da expeditus – cioè libero, sciolto – alludendo alle qualità specifiche del soldato che deve essere in grado di concentrarsi soltanto sulla propria azione militare ed essere privo di altre preoccupazioni contingenti. Questo specifico concetto, che è più volte ripetuto nei trattati di guerra di età classica – per esempio l’“Epitoma rei militaris” di Vegezio32 – è strettamente correlato alla cura pubblica del re nei confronti delle città e alle responsabilità dei loro abitanti connaturato al loro status di cittadini33: le cinte urbane erano infatti il complemento ideale a tale status. Cassiodoro esprime molto chiaramente questa convinzione parlando delle qualità del suo luogo natìo, Squillace nei Bruttii: se il villaggio avrebbe potuto essere scambiato per una città per la ricchezza dei suoi abitanti, per la sua ricca e lussureggiante vegetazione e l’abbondanza della sua produzione agricola, ma non aveva una cinta muraria e per questo motivo poteva essere denominato in modo ibrido, sia come ‘città rurale’ (civitas ruralis) sia come ‘villaggio urbano’ (villa urbana)34. Lo sforzo effettuato in età teodericiana di provvedere alla fortificazione di alcuni centri urbani pare essere confermato archeologicamente: in area rurale alcuni scavi archeologici hanno fornito indicazioni di spoliazioni sistematiche di edifici pubblici e privati. La natura sistematica di queste spoliazioni e la presenza, nei siti stessi, di piccole installazioni artigianali per fa fusione dei metalli e l’estrazione di pietre suggerisce che queste iniziative di demolizione fossero state intraprese metodicamente per fornire alle città i materiali edilizi necessari per nuove costruzioni, incluse le mura. Un esempio importante di Come giustamente osservato da W. Goffart, Rome’s fall and after, London, 1989, p. 85. 33 Sul valore legittimante attribuito alla costruzione delle cinte murarie da parte degli imperatori tardo romani e dei re altomedievali, H.W. Dey, «Art, Ceremony, and City Walls: the Aesthetics of Imperial Resurgence in the Late Roman West», Journal of late antiquity, 3, 2010, pp. 3-37; H.W. Dey, «Spolia, Milestones and City Walls: The Politics of Imperial Legitimacy in Gaul», in S. Birk, B. Poulsen (eds.), Patrons and Viewers in Late Antiquity, Aarhus, 2012, pp. 291-310. 34 Variae XII 15, 5: “Hoc quia modo non habet muros, civitatem credis ruralem, villam iudicare possis urbanam et inter utrumque posita, copiosa noscitur laude ditata” (Cassiodoro, Varie, V, pp. 94-7). La cinta urbana come elemento qualificante dell’identità urbana altomedievale è discussa da C. La Rocca, «Public buildings and urban change in northern Italy in the early mediaeval period», in J. Rich (ed.), The City in Late Antiquity, London, 1992, pp. 161-80. 32
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questa situazione è mostrato nell’ultima fase di occupazione del vasto complesso rurale rinvenuto a Torraccia di Chiusi (in provincia di Siena): qui i materiali da costruzione della villa del III secolo d.C. furono rimossi in modo sistematico nel corso del VI secolo, momento in cui si svilupparono pure nello stesso sito alcune modeste attività di lavorazione artigianali35. Nel caso delle fortificazioni, allora, il re poteva presentare la sua cura provvidenziale per difendere le città del regno anche attraverso il controllo dello smantellamento degli edifici rurali e organizzando la redistribuzione dei loro materiali. Per questa ragione, tutte le lettere che riguardano i progetti di restauro intrapresi da Teoderico permettono di cogliere che, contrariamente al passato classico, il riutilizzo di pietre antiche e la stessa attività di restauro sono presentate come attività e intraprese altrettanto prestigiose della costruzione ex novo di un monumento. Soltanto un secolo prima, Ammiano Marcellino poteva sbeffeggiare la vanità del prefetto dell’Urbe Volusiano “dal momento che egli fece iscrivere il suo nome in tutti i quartieri della città (Roma) che erano stati abbelliti con finanziamenti di vari imperatori, non in quanto restauratore di edifici antichi, ma come il loro costruttore”36. Inoltre Volusiano si era proposto come edificatore di edifici che aveva soltanto restaurato, nonostante i molteplici rescritti imperiali diretti alle autorità municipali che invitavano esplicitamente a preferire il restauro di edifici già esistenti alla costruzione di nuovi. Ai tempi di Ammiano, il prestigio personale e la fama locale di un costruttore non era certo la stessa di un semplice restaurator, convergendo con il desiderio da parte degli ufficiali pubblici di avere il loro nome iscritto nella storia della propria città e di accrescere il loro potere privato di aristocratici munificenti37. Rapporti preliminari delle indagini archeologiche in M. Cavalieri, E. Boldrini, «Loc. Aiano. Torraccia di Chiusi, 2005-2009», Archeologia Medievale, 36, 2009, p. 166.; F.-D. Deltenre, L. Orlandi «“Rien ne se perd, rien ne se crée, tout se transforme”. Transformation and manufacturing in the Late Roman villa of AianoTorraccia di Chiusi (5th-7th cent. AD)», Post Classical Archaeology, 6, 2016, pp. 71-91. 36 Ammianus Marcellinus: Res gestae, ed. and transl. J.C. Rolfe, Cambridge (Ma), 1939, 27.3, 5-10. 37 B. Ward- Perkins, From Classical Antiquity to the Middle Ages. Urban public building in Northern and Central Italy AD 300-850 (Oxford 1981), pp. 39-40; C. Machado, «The City as Stage: Aristocratic commemorations in late antique 35
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La costruzione con materiali di reimpiego non era certamente sconosciuta anteriormente a Teoderico, come dimostrano le clausole del Codice Teodosiano esplicitamente dedicate a regolamentare questa pratica: in questo caso però si può facilmente comprendere che tali norme erano dettate da ragioni speculari a quelle teodericiane, volte com’erano a normare gli spolia di edifici pubblici e non certo a incoraggiarli e a nobilitarli, né tantomeno a identificarli come una attività specificamente regia. 2. Difficoltà romane: le tensioni e la competizione tra spazio pubblico e spazio privato L’ultimo gruppo delle lettere edilizie all’interno delle Variae riguarda anzitutto la città di Roma e ruota attorno a un argomento specifico e sfuggente, che non compare mai nelle fonti medievali a proposito di Teoderico e della sua attività edilizia. Questo gruppo di lettere riguarda infatti la repressione (o per lo meno i tentativi di repressione e di controllo) di fenomeni diffusi soprattutto a Roma quali l’appropriazione di edifici pubblici e dei loro ornamenti da parte di privati (tab. 3a), così come lo storno da parte di privati dei fondi destinati al restauro degli edifici pubblici da parte dell’autorità regia (tab. 3b)38. Inoltre, ancora una volta prevalentemente a Roma, queste lettere trovano la loro diretta controparte nelle autorizzazioni emanate dal re nei confronti di privati a costruire nuovi edifici su siti monumentali in abbandono, includendo persino, in una lettera rivolta al patrizio Simmaco, l’ordine di provvedere – con fondi stanziati dal re – ai restauri del teatro di Pompeo. Il panorama edilizio (e di relazioni negoziali) che si intravvede a Roma appare perciò molto più problematico che nelle altre città d’Italia e ci permette di osservare in controluce non soltanto l’efficacia del potere e del controllo sull’attività edilizia prospettato da Teoderico, ma anche i concreti problemi e le difficoltà in questo ambito. Cassiodoro presenta infatti Roma sia come il principale luogo di abusi edilizi commessi da privati, sia come il principale luogo in cui la negoziazione con i privati
Rome», in É. Rebillard, C. Sotinel (dir.) Les frontières du profane dans l’Antiquité Tardive, Rome, 2010, pp. 287-317. 38 Il contesto romano è esaminato in una prospettiva di reciproco coinvolgimento da J.J. Arnold, Theoderic and the Roman imperial restoration, Cambridge, 2014, pp. 201-30.
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gioca un ruolo essenziale. In questo modo le relazioni a Roma diventano un esempio paradigmatico e più generale di un rapporto delicato tra le ambizioni private e il patrimonio monumentale pubblico e la capacità retorica dimostrata da Teoderico/ Cassiodoro nell’affrontare simili problematiche è un chiaro esempio dell’utilità concreta del linguaggio e dell’expertise burocratica. Occorre anzitutto osservare alcune caratteristiche che si ritrovano insieme riunite nelle Variae che riguardano sia le istituzioni, sia i monumenti di Roma. In esse compare sempre una smaccata lode alla speciale gloria di Roma come città di bellezza incomparabile e sempiterne tradizioni39. Per tale ragione il re è rappresentato nell’atto di ammonire i suoi abitanti, in special modo i membri del Senato e delle famiglie aristocratiche: sono proprio loro a dover essere più gravati di responsabilità nel preservare intatto il prestigioso patrimonio monumentale della patria40. Se, anni fa, qualche studioso – soprattutto tra gli archeologi – aveva ritenuto che il deterioramento dei monumenti pubblici nelle città fosse dovuto alle razzie dei barbari, oppure alle occupazioni illecite da parte di gruppi di
Alcuni esempi: Variae I 21, 3: “quid iam de Roma debemus dicere, quam fas est ipsis liberis plus amare?”; I 25, 2: “Dudum siquidem propter Romanae moenia civitatis, ubi studium nobis semper impendere infatigabilis ambitus erit”; II 34, 1: “Nefas est enim, ut in alios usus transeant quae sibi subtracta non inmerito Roma suspirat.”; III 29, 2: “in aliis quippe civitatibus minus nitentia sustinentur: in ea vero nec mediocre aliquid patimur, quae mundi principaliter ore laudatur.”; III 30, 1-2: “Romanae civitatis cura nostris sensibus semper invigilat. […] Hinc, Roma, singularis quanta in te sit potest colligi magnitudo. quae enim urbium audeat tuis culminibus contendere, quando nec ima tua possunt similitudinem reperire?”; III 31, 1: “Quamvis universae rei publicae nostrae infatigabilem curam desideremus impendere et deo favente ad statum studeamus pristinum cuncta revocare, tamen Romanae civitatis sollicitiora nos augmenta constringunt, ubi quicquid decoris impenditur, generalibus gaudiis exhibetur”; IV 30, 3: “Unde nos, qui urbem fabricarum surgentium cupimus nitore componi, facultatem concedimus postulatam, ita tamen, si res petita aut utilitati publicae non officit aut decori. Quapropter rebus speratis securus innitere, ut dignus Romanis fabricis habitator appareas perfectumque opus suum laudet auctorem”. 40 Variae I 21, 1: “Provocandi sumus affectuosis civium studiis ad augmenta civitatis, quia nemo potest diligere quod habitatores intellegit non amare. unicuique patria sua carior est, dum supra omnia salvum fore quaeritur, ubi ab ipsis cunabulis commoratur”; IV 30, 1: “Decet quidem cunctos patriae suae augmenta cogitare, sed eos maxime, quos res publica sibi summis honoribus obligavit, quia ratio rerum est, ut eum necesse sit plus debere, qui visus est maiora suscipere”. 39
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‘squatters’ barbari, queste lettere permettono di proporre che tra i protagonisti delle trasformazioni dei monumenti delle città antiche fossero da includere (e in percentuale non irrisoria) gli aristocratici e le élite urbane. In Variae, I 21 e II 34, Teoderico rileva con disprezzo l’utilizzo illecito dei fondi pubblici da lui stesso stanziati per il restauro dei monumenti di Roma, incaricando due spectabiles e poi il Prefetto all’Urbe Artemidoro di redigere un rapporto dettagliato della propria inchiesta in merito. Sebbene il tono della lettera sia particolarmente sdegnato, i provvedimenti presi contro i colpevoli sono, tutto sommato, modesti, in nome della clemenza moderatrice del re. Teoderico si dichiara infatti soddisfatto se i colpevoli restituiranno il maltolto perché “Ci è sufficiente che la cupidigia non abbia raggiunto il suo scopo. La migliore punizione si compie quando essa avverte di perdere come fossero propri dei beni che, essendo stati sottratti, aveva ritenuto turpemente di possedere”41. In un’altra lettera, indirizzata al Prefetto urbano Argolico, il re lo informa di aver incaricato Giovanni di sovrintendere a un’inchiesta sul sistema delle fognature di Roma. Argolico collaborerà con quest’ultimo: entrambi agiranno “allontanando le mani private che si immergono in maniera sfrontata nell’illecito”42. Si tratta assai probabilmente di un riferimento all’utilizzo di servi pubblici da parte di privati, come è meglio chiarito nella lettera successiva, anch’essa relativa al sistema idrico di Roma e indirizzata al Senato. Variae, III 31 è infatti un vero e proprio catalogo degli abusi commessi nei confronti degli edifici monumentali e delle infrastrutture idrauliche della città. In essa si afferma che l’acqua degli acquedotti pubblici è utilizzata illegalmente da privati per azionare i propri mulini o irrigare gli orti e che gli schiavi che “la lungimiranza dei principi aveva destinato al servizio negli acquedotti sono passati sotto il potere di privati”; inoltre che gli ornamenti di piombo e bronzo dei monumenti della città risultavano regolarmente sottratti da vari monumenti43; infine che coloro che erano stati incaricati dal re di restaurare monumenti caduti in rovina ne avevano invece venduto i
Variae II 34, 2; “Sufficiat nobis cupiditatem non implesse quod voluit. nec maior potest provenire vindicta, quando velut propria videtur perdere, quae suppressa turpiter iudicaverat possidere”. 42 Variae III 30, 2: “privatas manus amoventes, quae audacius merguntur illicitis”. 43 Variae III 31, 4: “Mancipia vero formarum servitio principum provisione deputata in privatorum cognovimus transisse dominium. Aes praeterea, non minimum pondus, et quod est facillimum direptioni, mollissimum plumbum, de ornatu moenium referuntur esse sublata, quae auctores suos saeculis consecrarunt”. 41
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materiali da costruzione, contribuendo al loro completo smantellamento44. Anche sotto questo aspetto Teoderico si dimostra piuttosto vago per ciò che riguarda la punizione dei colpevoli, la cui esecuzione è demandata all’esame della relazione di Giovanni, che dovrà documentare in modo puntuale le responsabilità individuali. Alla fine del IV secolo, invece, gli imperatori Arcadio e Onorio avevano prescritto la confisca dei beni di coloro che fossero stati trovati colpevoli della perforazione delle condutture idriche e parallelamente imponendo ai funzionari pubblici conniventi una multa di una libbra d’oro per tutte le once d’acqua sottratte all’uso pubblico45. Ugualmente severe erano le pene previste contro coloro che avevano deviato l’acqua pubblica per irrigare i propri orti e giardini46. Le pratiche sviluppate da Teoderico nell’affrontare i fenomeni di occupazione e di abuso delle strutture e infrastrutture pubbliche si situano in un ordine negoziale, che era volto a demandare ai privati la responsabilità e gli oneri di riparazione di edifici pubblici, giustificando tali concessioni col fine di migliorare le sembianze materiali del paesaggio urbano. Nelle lettere che riguardano Roma Teoderico appare infatti concedere “absoluta liberalitate” – cioè a titolo gratuito – la licenza di costruire case private su siti di monumenti pubblici, come la Porticus Curvae e un horreum, poiché essi risultavano abbandonati e diruti da tempo47. A Spoleto, il re donò un portico al proprio medico Elpidio “ut facies adulta reddatur”48. Condizione comune a tali concessioni era che i restauri e le nuove costruzioni mantenessero la struttura originale dell’edificio. Ad Albino “patricius, vir illustris”, fu infatti concesso di ampliare la propria residenza inglobando la parte superiore della Porticus Curvae sul Foro romano e il patrizio Paolino ricevette dei magazzini abbandonati “ut aedificandi et ad posteros transmittendi”. In entrambi i casi le donazioni comprendono l’obbligo di restaurare gli edifici in rovina. Come Variae III 31, 4: “Templa etiam et loca publica, quae petentibus multis ad reparationem contulimus, subversioni fuisse potius mancipata”. 45 CTh, XV, 2.9 [400]: “ne quis claudiam interruptis formae lateribus adque perfossis sibi fraude elicita existimet vindicandam. Si quis contra fecerit, earum protinus aedium et locorum amissione multetur. Officium praeterea, cuius ad sollicitudinem operis huius custodia pertinebit, hac poena constringimus, ut tot librarum auri illatione multetur, quot uncias claudiae nostrae coniventia eius usurpatas fuisse constiterit. dat. vi id. nov. mediolano stilichone et aureliano conss”. (400 nov. 8). 46 CTh, XV, 2.7 [397] che conferma i provvedimenti riguardanti chi “ad inrigationes agrorum vel hortorum delicias furtivis aquarum meatibus abutuntur”. 47 Variae IV 30 (al patrizio Albino); III 29 (al patrizio Paolino). 48 Variae IV 24 44
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è stato osservato, queste lettere testimoniano la piena vitalità, nel corso della prima metà del VI secolo, del concetto di loca publica, vale a dire ciò che oggi chiameremmo il patrimonio monumentale delle città. Le Variae, d’altra parte, costituiscono una prova importante delle strategie attivate dalla coppia Teoderico/ Cassiodoro per rappresentare la complessità delle relazioni a Roma in merito ad ambizioni controverse. Le concessioni regie che rendevano possibile l’occupazione di edifici pubblici da parte delle élites di Roma rivelano il tentativo, da parte delle autorità pubbliche, di porre sotto controllo le autonome iniziative di smantellamento degli edifici pubblici, tentando di trasformarle in una fonte di reddito per lo Stato; almeno in teoria, i loca publica non erano alienabili, poiché lo Stato restava nominalmente l’unico proprietario del suolo e godeva del diritto di revoca sui beni49. Come ha ben dimostrato Andrea Giardina nel caso della bonifica della palude del Decennovio, in questo modo le autorità pubbliche tentavano di attirare imprenditori privati a restaurare strutture pubbliche, in più riconoscendo loro diritti di esenzione fiscale. Come affermò efficacemente Cassiodoro: “in licentiam reparationis accipiuntur potius praemia quam donantur”50. Nella pratica però questa prassi portò a un risultato radicalmente opposto: i monumenti pubblici, donati ai privati, venivano demoliti e i loro materiali da costruzione erano utilizzati per scopi e usi totalmente diversi. L’evidenza archeologica mostra che il patrizio Albino, dopo aver ottenuto da Teoderico il possesso della Porticus Curvae, smantellò il vicino tempio dedicato a Marte, come indicherebbe l’iscrizione recante il nome Patricii Decii, Prefectus Praetorio nel 503 e membro come Albino, della famiglia senatoria dei Decii51. Dubouloz, «Acception et defense». Giardina, Cassiodoro politico, Roma, 2006, pp. 73-99; Variae IV 24, 2. 51 R. Meneghini, R. Santangeli Valenzani, Roma nell’alto-medioevo. Topografia e urbanistica della città dal V al X secolo, Roma, 2004, pp. 179-80. Una iscrizione simile, recante il nome di “Gerontius vir spectabilis”, un senatore in carica dal 487 al 513, è stata ritrovata su uno dei pilastri del settore meridionale del Colosseo. L’ipotesi è che Geronzio fosse stato incaricato di smantellare questo settore dell’anfiteatro Flavio e che l’iscrizione indicasse la sua responsabilità rispetto ai materiali costruttivi: cfr. R. Rea (a cura di), «GERONTI V S: la spoliazione teodericiana», in Rota Colisei. La valle del Colosseo attraverso i secoli, Milano, 2002, pp. 153-60. Uno studio specifico su questo tema è: Y. Marano, «Spoliazione di edifici e reimpiego di materiali da costruzione in età romana: le fonti giuridiche», in E. Pettenò, F. Rinaldi (a cura di) Memorie dal passato di Iulia Concordia. Un percorso attraverso le forme del riuso e del reimpiego dell’antico, Padova, 2011, pp. 141-74. 49 50
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Riassumendo, la costante mediazione di Teoderico, attraverso la comunicazione politica di Cassiodoro52, nei confronti dell’aristocrazia e i membri del Senato di Roma doveva dunque tentare di giustificare e di inserire gli abusi da essi compiuti all’interno di una cornice istituzionale, che richiedeva l’accordo con il re. Ciononostante, le realizzazioni edilizie effettuate dai singoli non sono mai apprezzate nelle Variae, per esempio nelle lettere di nomina al Senato, che fanno invece invariabilmente riferimento al prestigio familiare, all’educazione ricevuta, alla frequentazione del re sin dall’infanzia e infine, all’attività e ai successi bellici. L’unica eccezione, in questo panorama è una lettera rivolta al patrizio Simmaco53, in cui gli si ordina di restaurare il teatro di Pompeo a Roma, stanziando un finanziamento speciale da parte regia54. Le frasi successive della lettera mettono in parallelo il declino fisico del teatro, il declino del genere teatrale e la decadenza della famiglia che avrebbe dovuto conservarlo: se, alle origini, nel teatro erano rappresentate le tragedie greche, nel presente si rappresentano solo volgari pantomime55. La lettera è di una straordinaria ambiguità: da un lato essa celebra l’attività edilizia di Simmaco all’interno delle sue dimore private, dall’altra deplora lo stato di abbandono in cui il teatro versa, ricordando al contempo l’attenzione che gli avevano invece dedicato i suoi antenati. La Una dettagliata ricostruzione delle parti politiche e delle tensioni interne alla città di Roma in età teodericiana è sviluppata da Bjornlie, Politics and Tradition between Rome, Ravenna and Constantinople, pp. 138-46. 53 Symmacus 9, The Prosopography of the Later Roman Empire, II, pp. 1044-6. 54 Variae IV 51 Ti sei occupato delle tue dimore, e sembra che tu abbia costruito quasi degli edifici monumentali nelle tue case; perciò è giusto che si sappia che tu conservi Roma nelle sue meraviglie,visto che l’hai abbellita con l’eleganza dei tuoi palazzi, eccellente costruttore e squisito abbellitore di fabbricati, perché è frutto di saggezza sia edificare in maniera adeguata sia abbellire in forme opportune quanto già esiste”. (“Cum privatis fabricis ita studueris, ut in laribus propriis quaedam moenia fecisse videaris, dignum est, ut Romam, quam domuum pulchritudine decorasti, in suis miraculis continere noscaris, fundator egregius fabricarum earumque comptor eximius, quia utrumque de prudentia venit, et apte disponere et extantia competenter ornare”. Cassiodoro, Varie, II, p. 127). 55 Variae IV 51 , 11: “Ma quando l’epoca successiva, mescolandovi aspetti impuri, rese viziose le invenzioni degli antichi, queste con inclinazioni degenerate spinsero al piacere corporeo anche ciò che era stato escogitato per onesto diletto” (“ubi aetas subsequens miscens lubrica priscorum inventa traxit ad vitia et quod honestae causa delectationis repertum est, ad voluptates corporeas praecipitatis mentibus impulerunt”. Cassiodoro, Varie, II, p. 129). 52
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lode alle dimore private costruite da Simmaco in area rurale presenta inoltre una significativa distanza dalla supervisione che Teoderico aveva esercitato sull’edilizia urbana: Simmaco aveva infatti costruito residenze private rurali che avevano l’aspetto e la magnificenza di case urbane, esprimendo dunque nei suoi mores costruttivi una sostanziale indipendenza dal modello proposto dal re56. La lurida decadenza del genere teatrale pare dunque un forte segno di disapprovazione nei confronti di Simmaco, della sua indipendenza e dei suoi modelli costruttivi che confondevano rurale e urbano, pubblico e privato. Certamente Simmaco e il suo prestigioso gruppo familiare non avevano bisogno di nessun incarico all’interno della corte di Teoderico per dimostrare la propria eccellenza. Le case di Simmaco mostravano infatti la presenza a Roma di un’altra antichità indipendente dal controllo e dal modello di Teoderico ed era precisamente quest’altra antichità a costituire una sfida per il modello del ‘re costruttore’. Nelle Variae, soprattutto a Roma, il re si presenta infatti come l’autorità che può ammonire gli abitanti della città esortandoli a rispettare i doveri e le responsabilità che erano sottese all’abitare a Roma. La trasformazione di Roma come luogo controverso della competizione tra spazi pubblici e spazi privati nel corso della tarda antichità permise a Cassiodoro di presentare uno dei caratteri distintivi di Teoderico come l’artefice della mediazione tra il display aristocratico e la sfera pubblica della città57.
Variae IV 51, 2: “È cosa nota infatti che meriti hai acquisito nell’attirare Roma verso le zone suburbane; chi si trovasse a entrare in quelle costruzioni non penserebbe che quello che vede è collocato fuori della città, se non si accorgesse di stare anche in mezzo a piacevoli campi. Scrupolosissimo imitatore degli antichi, nobilissimo educatore dei moderni, gli edifici parlano dei tuoi costumi, perché è riconosciuto scrupoloso in questa attività soltanto colui che risulta anche adorno dei migliori sentimenti” (“Notum est enim, quanta laude in suburbanis suis Romam traxeris, ut, quem illas fabricas intrare contigerit, aspectum suum extra urbem esse non sentiat, nisi cum se et agrorum amoenitatibus interesse cognoscat: antiquorum diligentissimus imitator, modernorum nobilissimus institutor. Mores tuos fabricae loquuntur, quia nemo in illis diligens agnoscitur, nisi qui et in suis sensibus ornatissimus invenitur”. Cassiodoro, Varie, II, p. 127). 57 Come proposto da C. Machado, «Aristocratic houses and the making of Late Antique Rome and Constantinople», in L. Grieg, K. Gally (eds.), Two Romes. Rome and Constantinople in Late Antiquity, Oxford, 2012, pp. 136-58. 56
Federico Cantini La gestione della produzione fra curtes fiscali e curtes private in età carolingia
Prima di iniziare ad affrontare il tema della gestione della produzione fra curtes fiscali e private in età carolingia occorre fare alcune precisazioni sui termini e sull’oggetto delle riflessioni che faremo, oltre che sul modo in cui saranno articolate1. Queste considerazioni riguardano innanzi tutto il rapporto tra fonti (scritte e archeologiche), modello curtense di gestione della proprietà terriera e più in generale della produzione, e concetti di pubblico e privato. Questi ultimi tendono infatti a sfumare l’uno nell’altro, se diamo un’accezione ampia al termine di pubblico: sono sicuramente pubbliche o fiscali le proprietà di re e, plausibilmente, dei marchesi nel IX secolo, ma probabilmente potrebbero essere considerate come tali anche quelle dei grandi monasteri regi, fino ad arrivare ai possedimenti dei vescovi, che spesso assumevano funzioni esplicitamente pubbliche, e forse dei membri delle grandi famiglie aristocratiche che acquisirono carica comitale. Del resto le fonti scritte più ricche di dettagli che abbiamo a disposizione per conoscere il funzionamento delle curtes carolinge si rifanno allo stesso modello, il polittico, indipendentemente che si tratti di proprietà regie, vescovili o di grandi monasteri. Relativamente alle fonti archeologiche i problemi che sorgono nell’affrontare il tema che ci siamo proposti sono due: il primo riguarda la possibilità di assegnare a molti dei siti scavati o individuati in ricognizione, che hanno restituito tracce di fasi di occupazione di seconda metà VIII-IX secolo, la definizione di centri curtensi in mancanza di
Desidero qui ringraziare Simone Collavini con il quale ho spesso avuto modo di confrontarmi sui temi affrontati in questo lavoro, sempre ricevendo spunti e suggerimenti preziosi. Un grazie anche a Paolo Tomei che, per la sua profonda conoscenza delle fonti scritte altomedievali toscane, è stato sempre un importante interlocutore nel corso della stesura di questo testo.
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Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 261-291 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116188
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La gestione della produzione fra curtes fiscali e curtes private
una loro attestazione come tali nelle fonti scritte2; il secondo concerne il numero limitato di insediamenti legati alla gestione dei patrimoni, fiscali e non, indagati archeologicamente, che potrebbe portare a proporre modelli generali incentrati su casi invece particolari, cioè su quelle che potrebbero essere delle eccezioni. Possiamo però, a mio avviso, almeno mitigare questi limiti, essendo consapevoli di essi ed esplicitando in maniera precisa il significato che abbiamo attribuito alle definizioni che andremo a utilizzare nel nostro lavoro. Per curtes pubbliche abbiamo scelto di intendere solo quelle che rientravano nelle proprietà regie o dei marchesi; le altre sono state considerate come private. L’area che abbiamo preso in esame è quella dell’Italia centro settentrionale, ma in maniera più approfondita e con maggior dettaglio di analisi quella toscana, tra la seconda metà dell’VIII secolo e il IX secolo. L’obbiettivo che ci siamo proposti è verificare se vi siano delle differenze tra i vari tipi di curtes nei modi di produzione e gestione delle risorse economiche, utilizzando i modelli elaborati dagli storici delle fonti scritte, ma soffermandosi soprattutto sui dati che sta producendo la ricerca archeologica, per tentare almeno di evidenziare alcuni elementi utili a definire una possibile agenda della ricerca futura. Dopo i lavori di Andreolli3, Toubert4, Pasquali5, Montanari e Fumagalli6 elaborati a partire dagli anni ˇ80 del XX secolo, il tema delle forme N. Mancassola, «Le forme del popolamento rurale nel territorio Decimano dalla caduta dell’Impero Romano all’anno Mille», in M. Ficara, V. Manzelli (a cura di), Orme nei Campi. Archeologia a sud di Ravenna, Firenze, 2008, pp. 89-103. 3 Per i lavori di Andreolli si cfr. ora la raccolta dei suoi saggi in B. Andreolli, Contadini su terre di signori: studi sulla contrattualistica agraria dell’Italia medievale, Bologna, 1999. 4 P. Toubert, «Il sistema curtense: la produzione e lo scambio interno in Italia nei secoli VIII, IX e X», in R. Romano, U. Tucci (a cura di), Storia d’Italia. Annali, VI, Economia naturale, economia monetaria, Torino, 1983, pp. 3-63; P. Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, Torino, 1995 (raccolta di saggi a cura di G. Sergi). 5 Per i contributi di Pasquali sul tema del sistema curtense si cfr. ora la raccolta dei suoi saggi in G. Pasquali, Sistemi di produzione agraria e aziende curtensi nell’Italia medievale, Bologna, 2008. 6 B. Andreolli, V. Fumagalli, M. Montanari (a cura di), Le campagne italiane prima e dopo il Mille. Una società in trasformazione, Bologna, 1985. 2
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di gestione della proprietà fondiaria in Italia centro settentrionale (origini, caratteri, diffusione, sviluppi, coesistenza con altri tipi di gestione della terra) in età carolingia è stato recentemente riaffrontato da Settia7 e Vignodelli8 per le curtes regie, e ridiscusso, per l’Emilia Romagna, da Mancassola9. Lo stesso uso e la valenza semantica del termine curtis in rapporto a quello di villa è stato oggetto nel 2011 di un saggio di Negro10, mentre per uno status quaestionis sul tema in ambito europeo si rimanda agli ultimi lavori (con relativa ampia bibliografia) editi da Pasquali11, Verhulst12, Wickham13, Devroey e Wilkin14, oltre che a quelli
A.A. Settia, «Nelle foreste del Re: le corti “Auriola”, “Gardina” e “Sulcia” dal IX al XII secolo», in Vercelli nel secolo XII, Atti del IV Congresso storico vercellese (Vercelli 18-20 ottobre 2002), Vercelli 2005, pp. 353-409. 8 G. Vignodelli, «Berta e Adelaide: la politica di consolidamento del potere regio di Ugo di Arles», Reti Medievali, 13/2, 2012, pp. 247-94. 9 N. Mancassola, L’azienda curtense tra Langobardia e Romania. Rapporto di lavoro e patti colonici dall’età carolingia al Mille, Bologna, 2008; id., «L’azienda curtense», in B. Andreolli, P. Galetti, T. Lazzari, M. Montanari (a cura di), Il Medioevo di Vito Fumagalli, Spoleto, 2010, pp. 67-99. 10 F. Negro, «Villa e curtis nei diplomi imperiali del IX secolo», Studi Medievali, 52/1, 2011, pp. 81-128. 11 Ora in Pasquali, Sistemi di produzione, pp. 291-307. 12 A. Verhulst, L’economia carolingia, Roma, 2004 (trad. it. di A. Verhulst, The Carolingian Economy, Cambridge, 2003), pp. 15-24. 13 C. Wickham, Le società dell’alto medioevo. Europa e Mediterraneo. Secoli V-VIII, Roma, 2009 (trad. it. di C. Wickham, Framing the Early Middle Ages. Europe and the Mediterranean, 400-800, Oxford 2005), pp. 291-6, 309-31, con un approfondimento anche sull’Italia (pp. 322-31); per una discussione sull’economia delle diverse regioni dell’Impero carolingio cfr. C. Wickham, «Rethinking the Structure of the Early Medieval economy», in J.R. Davis, M. McCormick (eds.), The Long Morning of Medieval Europe, Padstow, 2008, pp. 19-31. 14 Da ultimo J.P. Devroey, A. Wilkin, «Diversité des formes domaniales en Europe Occidentale», in J.P. Devroey, A. Wilkin (dir.), Autour de Yoshiki Morimoto. Les structures agricoles en dehors du monde carolingien: formes et genèse, Actes des journées d’études organisées à l’Université Libre de Bruxelles les 6, 7 et 8 mai 2010, Revue belge de Philologie et d’Histoire, 90/2, 2012, pp. 249-60. 7
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di alcuni archeologi come Henning15 e Hodges16. In estrema sintesi è ribadito come, pur ammettendo la possibilità di diverse declinazioni del modello generale, gli elementi che caratterizzarono i modi di gestione della proprietà terriera nelle forme curtensi, diffuse soprattutto tra Loira e Reno e nell’Italia centro-settentrionale17, furono la compresenza di dominico, massaricio e corvées, queste ultime spesso definite in base anche alla condizione sociale di chi le doveva prestare e molto diffuse perlomeno fino all’inizio del X secolo18. Come ha efficacemente ribadito Petralia, all’origine di tale forma di strutturazione dell’azienda agraria vi fu un’iniziativa “regia ed aristocratica”, che aveva come obiettivo primario “un’autosufficienza complessa”, che prevedeva, oltre alla produzione e redistribuzione dei prodotti, anche la ricerca di “sbocchi esterni” per l’acquisto di ciò che non si riusciva ad ottenere dalle tenute19. Proprio la possibilità di commercializzare le eccedenze prodotte è considerata da Wickham una precondizione indispensabile per l’incremento dello sfruttamento del lavoro degli affittuari sulle riserve domeniche, rivolto soprattutto alla produzione di vino e cereali20. Questi ultimi avrebbero consentito di sfamare non solo le popolazioni urbane, ma anche gli eserciti, secondo modalità diverse rispetto a quelle del mondo romano: chi andava in guerra doveva provvedere al proprio sostentamento e quindi era costretto a procurarselo, anche acquistandolo sul mercato. La coincidenza tra sviluppo del sistema curtense e periodo di massima mobilitazione dell’esercito carolingio (non oltre il 900) sembra dare credito a questa ipotesi21.
J. Henning, «Slavery or freedom? The cause of early medieval Europe’s economic advancement», Early Medieval Europe, 12/3, 2003, pp. 269-77; J. Henning, «Early European towns. The development of the economy in the Frankish realm between dynamism and deceleration AD 500-1100», in id. (ed.), Post-Roman Towns, Trade and Settlement in Europe and Byzantium, vol. 1, The Heirs of the Roman West, Berlin, 2007, pp. 3-43. 16 Da ultimo R. Hodges, Dark Age Economics. A new audit, London, 2012. 17 Wickham, Le società dell’alto medioevo, p. 319. 18 Pasquali, Sistemi di produzione, p. 125. Per la Toscana Andreolli, Contadini, pp. 111-9. 19 G. Petralia, «A proposito dell’immortalità di “Maometto e Carlo Magno” (o di Costantino)», Storica, 1, 1995, pp. 37-87, p. 77. 20 Wickham, Le società dell’alto medioevo, pp. 318-9. 21 Ibid., pp. 320-1. 15
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Per l’Italia centro-settentrionale le fonti che gli storici hanno utilizzato sono soprattutto i contratti agrari e i polittici delle grandi proprietà ecclesiastiche, redatti tra 860 e 960 e disponibili per la Lombardia, il Veneto, l’Emilia occidentale e la Toscana22. Quelli toscani, recentemente arricchiti grazie alla scoperta di un nuovo breve, denominato da Tomei de multis pensionibus, sono relativi alle proprietà del vescovo di Lucca e si datano alla fine del IX secolo23. Entrando nel dettaglio, la lettura di questi documenti ha permesso di ricostruire forme di economia per le grandi proprietà ecclesiastiche che prevedono: • variabili all’interno dello stesso modello di gestione della proprietà, che possono dipendere dall’ambiente naturale in cui esse sono inserite, che influisce sulle specializzazioni produttive (si confrontino quelle delle corti lucchesi24 o del monastero di S. Giulia), dall’usus loci, dal tipo di ente proprietario e dalla vicinanza con città che precocemente (dalla fine del IX secolo) iniziano a commercializzare le produzioni delle campagne (per esempio Piacenza e Parma)25; • un’ampia dispersione delle proprietà, che determina specifiche forme di organizzazione delle curtes: per S. Giulia di Brescia si è calcolato che l’80% delle terre coltivate erano a una distanza dalla stessa Brescia non superiore ai 60 km, mentre la distanza media tra le corti era di una decina di km, pari ad una giornata di cammino26; • la presenza di intermediari tra il proprietario e la manodopera, che in particolari momenti dell’anno (per esempio in occasione della vendemmia) poteva essere integrata da squadre di braccianti salariati27;
A. Castagnetti, M. Luzzati, P. Pasquali, A. Vasina (a cura di), Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi, Roma, 1979; Verhulst, L’economia carolingia, pp. 15-24, 58-63; P. Tomei, «Un nuovo ‘polittico’ lucchese del IX secolo: il breve de multi pensionibus», Studi Medievali, 53/2, 2012, pp. 567-602: 568-73; Pasquali, Sistemi di produzione, pp. 191-3. 23 Ibid., pp. 198-203; Tomei, «Un nuovo ‘polittico’». 24 Andreolli, Contadini, p. 216. 25 Mancassola, «L’azienda curtense», pp. 93-95; id., L’azienda curtense e in particolare pp. 125-59, 198-201; sulle variabili che influenzarono le diverse forme di gestione delle tenute di età carolingia in ambito franco cfr. Wickham, Le società dell’alto medioevo, p. 320. 26 Pasquali, Sistemi di produzione, p. 21. 27 Ibid., p. 50. 22
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l’esistenza nei dominici di residenze destinate oltre che agli intermediari dei proprietari anche ai servi (casas de servis attestate nella corte di Cario a est di Bobbio)28; la concentrazione degli sforzi produttivi prevalentemente nell’agricoltura (cereali, vino, olio), che comunque manteneva rese basse (per i cereali da due a sei volte le sementi29), anche per una permanenza della rotazione biennale, e secondariamente nell’allevamento, soprattutto di suini cresciuti nei boschi30. Minoritarie, ma non ininfluenti, dovevano essere poi le produzioni artigianali di tessuti (lino, canapa, forse seta), realizzati all’interno dei genitia femminili, dove insieme alle schiave prebendarie lavoravano anche prestatrici d’opera31, e di attrezzi in ferro, che compaiono anche nei censi, insieme al minerale grezzo, come prodotto dei mansi32. Al monastero di S. Giulia, da cui dipendevano tra la fine del IX e l’inizio del X secolo 80 aziende curtensi, 200 dei 1000 capifamiglia titolari di poderi fornivano oltre ai prodotti agricoli anche numerosi manufatti artigianali33; relativamente ai processi di produzione, l’uso di strumenti e macchinari semplici, che ci sono noti soprattutto oltre che dai polittici anche dai contratti agrari: torchi a leva o a vite (questi ultimi già molto diffusi tra i contadini dell’Impero romano e citati nelle fonti romagnole dalla fine del IX in poi come presenti anche nelle aziende dei contadini dipendenti di ceto medio-alto) e tini di legno per il vino; mulini per la macinazione dei cereali (se ne contano 33 nell’inventario di S. Giulia, “quasi uno ogni due corti”, che dovevano macinare anche i cereali dei contadini non compresi nella signoria fondiaria del monastero); torchi per le olive posti negli oleifici signorili (due vengono registrati nelle cor-
Ibid., p. 207. V. Fumagalli, «Strutture materiali e funzioni nell’azienda curtense. Italia del Nord: sec. VIII-XII», Archeologia Medievale, 7, 1980, pp. 21-9: 22; Pasquali, Sistemi di produzione, p. 283. 30 Per S. Giulia cfr. Pasquali, Sistemi di produzione, pp. 15-46. 31 Ibid., pp. 130, 272-3, 279; Toubert, Dalla terra ai castelli, p. 217. 32 Pasquali, Sistemi di produzione, p. 283; Toubert, Dalla terra ai castelli, p. 216; per i prodotti attestati nei contratti agrari toscani di età carolingia cfr. Andreolli, Contadini, pp. 201-9. 33 Fumagalli, «Strutture materiali», pp. 25-6. 28
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ti di S. Giulia che producevano più olio), che venivano utilizzati, dietro il pagamento di una tassa, anche dai contadini34; l’uso di contenitori destinati al trasporto delle eccedenze e dei censi sempre più, se non esclusivamente, in legno, specie se di grande capacità, come le botti (già dalla metà del VI secolo [564] in due inventari ravennati compaiono buttes de cito) o l’arca granaria ferro legata e i tina clusa per il vino35. Forse una botte era anche l’anfora citata nei documenti di VIII-XIII secolo dell’Italia centro-settentrionale, ritenuta da Pasquali non più equivalente a quella romana di 26 litri, ma corrispondente a 160-250 litri36. Del resto in una delle curtes dipendenti da Santa Giulia vi erano coloni definiti magistri ad […] buttes faciendum37 e nello stesso Capitulare de villis si citano per il vino barriclos ferro ligatos38. Relativamente al trasporto è testimoniato anche l’uso di navi padronali39 e, nella documentazione lucchese di fine IX secolo, quello della carrata, forse un carro cisterna per trasportare vino e/o uva40; sistemi di scambio e trasferimento di beni verso le città a partire dai dominici, dai massarici (anche per iniziativa contadina), o dalle curtes e mansi posti lontano dalla residenza del proprietario. All’abbazia di Corbie, per esempio, arrivavano solo le granaglie prodotte entro i 30 km, mentre le altre erano vendute sul luogo di produzione41. L’afflusso delle eccedenze, soprattutto agricole,
Pasquali, Sistemi di produzione, pp. 49-77, 154; Verhulst, L’economia carolingia, pp. 96-7; per l’attestazione di mulini legati a curtes in area maremmana cfr. M.L. Ceccarelli Lemut, «Scarlino. Le vicende medievali fino al 1399», in R. Francovich (a cura di), Scarlino, I, Storia e territorio, Firenze, 1985, pp. 19-74: 29-30. 35 Pasquali, Sistemi di produzione, p. 99. 36 Ibid., pp. 6-72. 37 Fumagalli, «Strutture materiali», p. 26. 38 Capitulare de villis, ed. A. Boretius, in MGH, Legum sectio II. Capitularia regum francorum, 1, Hannoverae, 1883, pp. 82-91, cap. 68, p. 89. 39 Pasquali, Sistemi di produzione, pp. 221, 271. 40 Ibid. p. 67. 41 Verhulst, L’economia carolingia, p. 138. Informazioni sulle ampie distanze percorse dai contadini per recarsi a prestare le proprie opere nei centri curtensi provengono anche dalla documentazione toscana: in particolare si tratta di un livellario del vescovo lucchese che doveva svolgere le corvées nella corte di Nicciano, a circa 25 km da Cascio, dove si trovavano i terreni che lavorava (Andreolli, Contadini, pp. 213-4). 34
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verso i centri urbani si lega anche al fatto che questi erano la sede privilegiata, seppur non l’unica, dei mercati, spesso concessi dalle autorità carolinge a vescovi e monasteri, dove poteva essere acquistato ciò che non si produceva nelle tenute42. Alcuni di questi centri urbani potevano poi essere, se posti lungo la costa o i fiumi, punti di contatto con il commercio sovraregionale e internazionale, secondo un modello che è stato elaborato e risulta estremamente evidente per il nord Europa (cfr. Dorestadt)43 e che in Italia potrebbe essere esemplificato dal caso di Genova, dove il monastero di Bobbio acquistava, tramite la cella monastica di S. Pietro, collocata vicino al porto e al mercato di S. Giorgio, oltre alle castagne, anche garum, probabilmente prodotto in Marocco, pece, olio, cedri, fichi e sale (862)44. Questi luoghi di scambio, oltretutto, proprio dall’età carolingia, avrebbero avuto una fase espansiva, avvantaggiandosi, secondo Toubert, della riforma monetaria di Carlo Magno, che avrebbe fornito moneta di valore medio-basso (1 maiale poteva essere acquistato con una somma compresa tra i 12 e i 24 denari e una pecora con 4 denari)45; la presenza di negotiatores, spesso esentati dal pagamento delle tasse regie, che lavoravano per le grandi abbazie o i palazzi regi46. A questo proposito sarebbe interessante capire se anche i liberi mercanti che agivano su distanze internazionali (come quelli che
42 Pasquali, Sistemi di produzione, pp. 15-46, 226-227, 269. Per la Toscana A.A. Settia, «“Per foros Italiae”. Le aree extraurbane fra Alpi e Appennini», in Mercati e mercanti nell’alto Medioevo, Spoleto, 1993, pp. 187-233: 194-9. 43 Verhulst, L’economia carolingia, pp. 136-9. 44 G. Murialdo, «Alto-Adriatico e alto-Tirreno nel mondo Mediterraneo: due mari a confronto tra VI e X secolo», in S. Gelichi, C. Negrelli (a cura di), La circolazione delle ceramiche nell’Adriatico tra tarda Antichità e Altomedioevo, Mantova, 2007, pp. 9-29: 21-2; M. McCormick, Le origini dell’economia europea. Comunicazioni e commercio 300-900 d.C., Milano, 2008 (trad. it. di M. McCormick, Origins of the European Economy. Communications and Commerce, A.D. 300-900, Cambridge, 2001), pp. 721-3; F. Cantini, «Produzioni ceramiche ed economie in Italia centro-settentrionale», in M. Valenti, C. Wickham (a cura di), Italia 888-962: una svolta? , Turnhout, 2013 (Seminari SAAME, 4), pp. 341-64: 359. Probabilmente anche Pisa, con il suo porto, doveva avere la funzione di centro di contatto tra i traffici regionali e internazionali. 45 Pasquali, Sistemi di produzione, p. 228. 46 Petralia, «A proposito dell’immortalità», p. 67.
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commerciavano con la Spagna all’inizio del X secolo) avessero qualche ruolo nella vendita delle eccedenze prodotte dalle curtes, come i frisoni per il nord Europa47. La diffusione di questo modello curtense (già attestato in Italia settentrionale tra il 730 e il 760, nella forma dell’azienda bipartita che prevedeva prestazioni d’opera, intese però più come segno di subordinazione sociale che non di mezzo per intensificare e razionalizzare la produzione48) si sarebbe accompagnato ad uno sviluppo demografico delle aree rurali, che sarebbero state sottoposte a bonifiche e disboscamenti49. Sul ruolo del sistema curtense nella crescita economica dei territori dove fu adottato ci sono comunque posizioni diverse tra gli studiosi: Henning per esempio ritiene che questo tipo di gestione delle proprietà terriere fosse stato promosso dalle aristocrazie solo per rendere più efficiente il sistema di riscossione dei censi e gestione delle corvées, determinando una ‘decelerazione’ dello sviluppo economico50. Più complesso è, perlomeno per l’Italia centro settentrionale, distinguere aspetti peculiari della curtes fiscali (regie o marchionali). Se allarghiamo il nostro orizzonte all’impero carolingio nel suo complesso possiamo però utilizzare una fonte estremamente ricca di dettagli, il Capitulare de villis (770-800 oppure 794-813), con cui si norma il funzionamento delle grandi tenute reali tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo51. Una prima distinzione tra queste e quelle non fiscali era il fatto che le prime erano composte da un’immensa quantità di terre, seppur estremamente disperse. Cantini, «Produzioni ceramiche», p. 360; Verhulst, L’economia carolingia, pp. 126, 147-51. 48 Wickham, Le società dell’alto medioevo, pp. 327-8, che individua una prima forma di sfruttamento delle prestazioni d’opera per fini economici nell’Italia settentrionale tardoantica, poi trasformate in mezzo di dominio sociale fino al periodo carolingio, quando si sarebbe tornati ad usare le corvées per intensificare la produzione. 49 Pasquali, Sistemi di produzione, pp. 164-9; Mancassola, «L’azienda curtense», p. 68. 50 Henning, «Early European towns». 51 Capitulare de villis. Sulle diverse interpretazioni delle finalità del capitolare cfr. Hodges, Dark Age Economics, p. 132; Henning, «Early European towns», pp. 24 ss.; e Wickham, Le società dell’alto medioevo, pp. 295-6, 318. 47
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Le curtes fiscali sembrano poi avere avuto una funzione non solo produttiva, ma anche di alloggio per il re e il suo seguito, oltre a essere centri di rifornimento per l’esercito e le sue spedizioni annuali. Si prescrive infatti che Et ferramenta, quod in hostem ducunt, in eorum habeant plebio qualiter bona sint et iterum quando revertuntur in camera mittantur52. Relativamente alle attività produttive nelle curtes fiscali descritte nel Capitulare si doveva poi trovare una ricca schiera di servitù domestica composta anche da lavoratori e artigiani specializzati (fabbri, orefici, argentieri, calzolai, tornitori, carpentieri, pescatori, uccellatori, produttori di sapone, di birra e altre bevande, panettieri, fabbricanti di reti, allevatori di api e altri artigiani…)53. Un ruolo di primo piano in queste grandi aziende era poi svolto, oltre che dall’agricoltura (dalla quale si ricavavano vino, aceto, vino di more, vin cotto, senape, malto, birra, idromele e farina), anche dall’allevamento (vacche, porci, pecore, capre, becchi, polli e oche) e dai prodotti da esso derivati (burro, lardo, carne secca, insaccata o salata, salsa di pesce, miele, cera), che permettevano di nutrire l’esercito e rifornirlo di cuoio, lana e cavalli da combattimento54. Nelle tenute reali, dove operavano i ministeriales ferrarii, si producevano anche le armi55, benché questa attività non sembri esclusiva di questo tipo di tenute. La troviamo infatti anche presso alcune grandi abbazie, che le utilizzavano per equipaggiare i propri vassalli: in Europa abbiamo i casi di San Gallo, Lorsch, Fulda, S. Germain-de-Prés, Corbie e Bobbio56. Anche la produzione e il commercio del sale, che dovevano essere sottoposti alla sovrintendenza regia, di fatto erano in mano a mercanti liberi o alle grandi abbazie dell’Europa carolingia57. In area toscana già nel 768 il trasporto del sale maremmano, insieme al grano, doveva essere gestito dal vescovo di Lucca58. Capitulare de villis, cap. 42, p. 87. Ibid., cap. 42, 43, p. 87. 54 Ibid., cap. 23, p. 85; 34, 35, 36, 38, p. 86; 66, p. 89. 55 Ibid., cap. 45, p. 87; 62, p. 88-89. 56 Verhulst, L’economia carolingia, p. 110. 57 Ibid., pp. 112-5. 58 Ceccarelli Lemut, «Scarlino», p. 32, nota 36; L. Schiaparelli (a cura di), Codice Diplomatico Longobardo, 2, Roma, 1933, n. 223, pp. 260-2. 52 53
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Non collegati alle grandi tenute reali sembrano invece i siti di produzione ceramica, perlomeno nel cuore dell’Europa carolingia: si tratta di grandi centri manifatturieri posti in villaggi rurali nel medio e basso Reno, vicino alle materie prime e alle vie di comunicazioni fluviali (es. Badorf, Walberberg, Eckdorf ), dove lavoravano artigiani non liberi, che si ipotizza fossero dipendenti dalle grandi aziende dell’arcivescovo di Colonia e del capitolo di St. Pantaleon59. Ma le caratteristiche di questo tipo di produzione, anche in area europea, non essendo mai menzionata nei polittici, potrebbero essere riviste in futuro con l’avanzamento delle ricerche archeologiche, come vedremo per esempio nel caso toscano. La connotazione reale era invece riflessa dalla presenza di animali e piante ornamentali: pavoni, fagiani, anatre, colombe, pernici e tortore60. La foresta rappresentava poi una componente importante, a volte preponderante, di queste tenute, utilizzata per le reali venationes (per questo nelle riserve dominiche dovevano essere allevati cani, sparvieri e astori), la pesca e l’allevamento dei maiali. Relativamente alle strutture di servizio per la produzione e l’immagazzinamento, le curtes fiscali dovevano essere corredate da cantine, dove si accumulavano il vino61 e gli altri censi in natura, mulini (farinariae), fienili, frantoi per i torchi (torcularia), stalle per le vacche, porcili e ovili, vivai di pesci e laboratori tessili (riforniti di lino, lana, ingredienti o piante utili per tingere le stoffe, pettini da lana, cardi per cardare, sapone, grasso, vasetti ed altri utensili)62. Dovevano anche essere presenti granai, mentre l’uso dei silos probabilmente doveva essere relegato ai contadini, come vagamente potrebbe suggerire il Capitulare de villis, dove si legge: Praevideat unusquisque iudex, ut sementia nostra nullatenus pravi homines subtus terram vel aliubi abscondere possint et propter hoc messia rarior fiat63. Estremamente ricco è anche il corredo di attrezzi e strumenti che dovevano essere presenti nelle tenute regie: letti, materassi, cuscini, lenzuola, tovaglie, tappeti, recipienti di rame, di piombo, di ferro, di legno, alari, catene, ganci per paioli, scalpelli, accette o asce e succhielli64. 59 60 61 62 63 64
Verhulst, L’economia carolingia, pp. 111-2. Capitulare de villis, cap. 40, p. 86. Ibid., cap. 68, p. 89. Ibid., cap. 18, p. 84; 23, p. 85; 41, p. 86; 43, 46, 48, p. 87; 62, 65, pp. 88-89. Ibid., cap. 51, p. 88. Ibid., cap. 42, p. 87.
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Infine mi sembra significativo il fatto che si ribadisca come la ricchezza delle attrezzature dovesse essere funzionale ut non sit necesse aliubi hoc quaerere aut commodare65. Le tenute reali si caratterizzavano infine anche per essere luogo di riscossione di tasse, insieme alle città e ad alcuni porti o vici dell’Europa carolingia66. Ma proviamo a scendere nel dettaglio delle curtes reali e marchionali dell’Italia centro-settentrionale. L’uso di questi centri come tappe degli itinerari regi risulta evidente osservandone la distribuzione sul territorio (Fig. 1): le curtes fiscali che nel 937 andarono a costituire le dotazioni Berta di Svevia e di sua figlia Adelaide, costituite al momento del fidanzamento della prima con Ugo di Arles, re d’Italia, e della seconda con Lotario II, figlio di Ugo e associato al trono del padre, si trovavano presso la viabilità stradale e fluviale a distanze quasi regolari67. In alcuni casi, come per la corte Auriola e Orba, erano poste anche presso i fiumi in cui operavano gli aurilevatores, non a caso tenuti a versare il metallo prezioso al fisco regio, oltre che vicino a fonti d’acqua salina e solforosa, forse utilizzate con funzione curativa68. Anche in Tuscia le troviamo lungo le strade che portavano ai valichi degli Appennini, nel Valdarno e nell’area maremmana69. Spesso erano collegate o vicine a grandi monasteri e abbazie regie o marchionali: l’abbazia di S. Maria di Aulla70, dove Ugo ingloba le curtes create dai suoi avversari Adalbertingi71, quella di Sesto, da cui dipendevano ben 2000 mansi, l’ente più ricco tra quelli donati dallo stesso Ugo72 e, nel sud, Sant’Antimo (dotato di 1000 mansi) e S. Salvatore al Monte Amiata (con 500 mansi), posti lungo il percorso francigeno per Roma73. Nella Tuscia dell’inizio del X secolo il patrimonio fiscale è passato quasi integralmente sotto il controllo dei marchiones, contro cui si sca65 66 67 68 69 70 71 72 73
Ibid. Verhulst, L’economia carolingia, p. 124. Vignodelli, «Berta e Adelaide». Settia, «Nelle foreste del Re», pp. 360-1. Vignodelli, «Berta e Adelaide», pp. 271-5. Ibid., p. 284. Ibid., p. 291. Ibid., p. 275. Ibid., p. 279.
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Fig. 1 – Carta della Toscana settentrionale con i beni donati nel 937 da Ugo di Arles a Berta ed Adelaide, e la curtis marchionale di San Genesio (rielaborata da Vignodelli, «Berta e Adelaide», p. 273).
glia Ugo di Arles, che si appoggia a un’aristocrazia minore o quantomeno a lui fedele, da cui scaturiranno, dopo la morte del marchio Guido, i comites delle città della regione74. Più problematica è la comprensione della struttura materiale di questi centri curtensi fiscali italiani75. Gli studi di Bougard hanno infatti dimostrato come anche dove, nelle tenute del nord, il termine palatium regium è associato a questi centri, sembra che tale definizione non si Ibid., pp. 18, 31. Sul rapporto tra archeologia e fonti scritte per lo studio dei centri di gestione della proprietà fondiaria cfr. R. Balzaretti, «The curtis, the archaeology of sites of power», in R. Francovich, G. Noyé (a cura di), La storia dell’alto medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce dell’archeologia, Atti del Convegno Internazionale (Siena, 2-6 dicembre 1992), Firenze, 1994, pp. 99-108.
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possa riferire ad un edificio vero e proprio, ma rimandi più allo status giuridico del centro o agli usi della cancelleria imperiale76. Le curtes fiscali dell’area che abbiamo preso in considerazione si distinguevano poi per la loro estensione: se il totale dei mansi di quelle del nord Italia era simile a quello delle curtes della Tuscia, queste ultime, più numerose, erano meno estese, almeno in base ai dotari di Berta ed Adelaide77. In sintesi le differenze che possiamo rintracciare nelle fonti scritte tra le curtes reali/marchionali e quelle private sembrano essere soprattutto di scala: una differenza che riguarda l’estensione della terra, la quantità e la variabilità dei prodotti accumulati o realizzati, la consistenza degli addetti al controllo del lavoro e alla riscossione dei censi, la misura degli investimenti in attrezzature e macchine per la produzione. Le curtes fiscali hanno poi come caratteristica quella di avere una specifica funzione di luogo di sosta dei re, funzione che ne determina anche la posizione lungo la grande viabilità che collega gli itinerari alle città del regno e in particolare, relativamente all’Italia, a Pavia e Lucca. La loro posizione ne avvantaggia poi anche le potenzialità economiche, che in alcuni casi sembrano dirette al controllo stretto dei metalli preziosi. Il modello di gestione della produzione rimane però lo stesso, come del resto sembra confermare anche la diffusione dei medesimi strumenti amministrativi, i polittici. L’esistenza di un modello unico di base probabilmente è legata all’origine di tale forma di gestione di proprietà e produzione, oltre che alle forme scritte attraverso cui se ne è trasmessa la memoria: entrambe affondano le proprie radici nel ceto aristocratico, che struttura il modello e lo adotta su ampia scala, con varianti che rispondono alle peculiarità dei territori posseduti. Ma il quadro offerto dalla lettura delle fonti scritte in che modo è stato verificato o integrato dai dati archeologici? Relativamente all’Italia la ricerca archeologica sembra fino ad oggi essersi poco interessata ai centri curtensi, o perlomeno a quei siti che potevano essere identificati come tali in presenza di un’attestazione scritta precisa.
F. Bougard, «Les palais royaux et impériaux de l’Italie carolingienne et ottonienne», in Palais royaux et princiers au Moyen Âge, Actes du colloque international tenu au Mans les 6, 7 et 8 octobre 1994, Le Mans, 1994, pp. 181-96; Vignodelli, «Berta e Adelaide», p. 257, nota 47. 77 Ibid., p. 272. 76
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Relativamente alla corti pubbliche poste nel nord della nostra penisola, alcune indagini, condotte in realtà per limitati saggi, hanno riguardato la curtis fiscale di Orba (loc. La Torre, Frugarolo-Alessandria), dove nel IX secolo, oltre allo sfruttamento agricolo si praticavano le venationes reali e per la quale si ricorda in un documento dell’852 un palazzo regio. Le fonti scritte ci tramandano poi la memoria dell’esistenza di una pieve di Orba, perlomeno dal 945, e di una ecclesia/cappella di San Vigilio, in villa Urbe, dall’891, che sul finire del IX secolo percepiva delle decime dominicatae. I risultati delle ricerche archeologiche, dirette da Bougard tra il 1989 e il 1990 e tra il 1991 e il 1992, hanno portato all’identificazione di un muro di cinta, verosimilmente identificabile come parte delle fortificazioni ricordate dall’inizio dell’XI secolo, quando si parla di un castellum d’Orba, e di una frequentazione precastrale di cui rimangono tracce di strutture in legno, focolari, con associata pietra ollare, fornetti-coperchio e una fuseruola invetriata, che si vanno a porre in un contesto insediativo di tipo aperto. I resti di una chiesa triabsidata, riferibili al basso medioevo, che tagliano un cimitero precedente, sono stati ipoteticamente interpretati come un rifacimento di una delle due chiese citate tra la fine del IX e il X secolo nei documenti, forse più probabilmente la pieve. La ricognizione nel territorio circostante poi ha mostrato sostanzialmente un’assenza di case sparse78. In Toscana abbiamo invece due scavi, da me diretti, che hanno interessato curtes pubbliche: • la curtis regia de Sancto Quirico, indagata solo parzialmente e limitatamente alla chiesa che le dava il nome, posta nel comune di Montelupo Fiorentino (Fi)79; • la curtis marchionale di San Genesio, oggetto di uno scavo pluriennale, tutt’ora in corso80. F. Bougard, «La Torre (Frugarolo, prov. di Alessandria). Relazione preliminare delle campagne di scavo 1989-1990», Archeologia Medievale, 18, 1991, pp. 369-79; E. Bonasera, F. Bougard, M. Cortellazzo, «La Torre (Frugarolo, prov. di Alessandria). Campagne 1991-1992», Archeologia Medievale, 20, 1993, pp. 333-52. 79 Lo scavo è attualmente in corso di pubblicazione; primi accenni in F. Cantini, «(FI, Montelupo Fiorentino), S. Quirico, SS. Quirico e Lucia. 2000-01», Archeologia Medievale, 28, 2001, p. 405. 80 In attesa dell’edizione dei primi 12 anni di scavo, che è ora in corso e dove sono reinterpretati anche contesti già pubblicati, cfr. F. Cantini, F. Salvestrini (a cura di), Vico Wallari-San Genesio. Ricerca storica e indagini archeologiche su una comunità del Medio Valdarno inferiore fra alto e pieno Medioevo, Atti della giornata di studio 78
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L’intensa attività di ricerca della scuola senese di Riccardo Francovich ha poi messo a disposizione una ricca serie di dati relativi a insediamenti d’altura posti nella Toscana sud-occidentale, con fasi di frequentazione di età carolingia, che sono stati in alcuni casi identificati con centri curtensi, pur senza essere ricordati come tali nelle fonti scritte, se non nel caso di Scarlino, ricordato come curte et castello aldobrandesco nel 973 e ancora come curte de Scarlino nel 1074, ma forse già nel senso di territorio dipendente da un castello81. Ma partiamo dalle curtes regie e marchionali. A San Quirico, gli scavi hanno interessato la chiesa omonima, di cui rimangono in elevato le vesti basso e tardo medievali. Lo scavo ha consentito di individuare i perimetrali e la zona absidale di un edificio di culto a navata unica (6,80 X 9,34 m circa, con murature di 50 cm di spessore), intonacato internamente ed esternamente, con piccolo altare quadrato e recinto presbiteriale (di cui rimane un frammento di pluteo e uno dell’arco, decorati da un intreccio a nodi bisolcati e da cani correnti con ricciolo formato da un nastro monosolcato) ascrivibile preliminarmente alla seconda metà dell’VIII-IX secolo82. La chiesa, forse una cappella privata, circondata da un’area cimiteriale con tombe a cassa in muratura, testimonia un certo investimento nella costruzione dell’edificio. La curte que vocitatur … Sancto Genesio, di proprietà del marchese di Tuscia Adalberto II, è ricordata per la prima volta all’inizio del X secolo, quando lo stesso marchese ne donò la decima di tutti i prodotti alla chiesa di San Martino di Lucca, insieme a quelle delle altre corti che possedeva nel comitatus della stessa città (Luca, Brancalo, Carfagnana e Pescia)83. (San Miniato, 1 Dicembre 2007), Firenze, 2010; per il centro della curtis carolingia cfr. F. Cantini, «Forme, dimensioni e logiche della produzione nel Medioevo: tendenze generali per l’Italia centrale tra V e XV secolo», in A. Molinari, R. Santangeli Valenzani, L. Spera (a cura di), L’archeologia della produzione a Roma (Secoli V-XV), Atti del Convegno Internazionale di studi (Roma, 27-29 marzo 2014), Bari, 2015, pp. 503-20. 81 Ceccarelli Lemut, «Scarlino», pp. 32-3. 82 I frammenti di recinzione sono attualmente in corso di studio da parte di Riccardo Belcari (Università di Pisa). 83 Memorie e documenti per servire all’istoria del Ducato di Lucca, V/3, ed. D. Barsocchini, Lucca, 1841, n. 1173; per una discussione del documento cfr. P. Tomei, «Leggendo le fonti scritte», in F. Cantini (a cura di), Vicus Wallari-burgus sancti Genesii. Campagne di scavo 2001-2012. Studi e materiali, in corso di stampa.
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Fig. 2 – Pianta con le evidenze archeologiche del centro direzionale della curtis di San Genesio (IX secolo).
I resti archeologici della fase di IX secolo ci mostrano parte di un centro composto da una chiesa plebana, a navata unica, con adiacente area cimiteriale, e verso nord-est una zona dove si trovavano (Fig. 2): • un torchio in legno da olio, del tipo a vite verticale, con una base di circa 130 cm; • gli alloggiamenti di altre due probabili macchine: una macina e un torchio vinario a trave orizzontale; • una fornace di tipo verticale di 2,60 m di lunghezza per 1,50 m di larghezza. Vi si producevano brocche con anse a nastro e orcioli ansati, decorati con pennellate e gocciolature di ingobbio rosso. Poco più a nord erano tre fosse di 2,10 m di diametro, intercomunicanti
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e poste su diverse quote, funzionali alla decantazione dell’argilla. Il rinvenimento tra gli scarti di produzione di forme chiuse prive di versatoio, quindi verosimilmente fatte per essere tappate, e di orcioli potrebbe far pensare che la fornace fosse stata impiantata anche per realizzare il vasellame destinato all’immagazzinamento di vino e olio prodotto in loco, destinati però più al territorio circostante (dove sono stati trovati in ricognizione) che non al marchese, che probabilmente riceveva i prodotti in contenitori più capienti (per il vino probabilmente le botti); • la campagna di scavo 2014 ci ha poi consentito, per ora solo di individuare, ma purtroppo non ancora di scavare, due strutture produttive legate, molto probabilmente, alla lavorazione dei metalli (ferro e forse bronzo). Il rinvenimento negli strati di abbandono di questa fase produttiva di un frammento di macina in calcarenite di 1 m di diametro da cereali sembra poi suggerire la presenza di mulini, forse posti sul vicino fiume Elsa. Va poi ancora precisata la datazione di un edificio rettangolare, derivato dall’ampliamento di una torre di prima metà VII secolo e realizzato in ciottoli e calce, al momento oscillante tra la fine del VII e il IX secolo. Se quest’ultima datazione fosse confermata, la struttura potrebbe aver avuto in età carolingia la funzione di residenza per chi governava il centro curtense (una sorta di palatium?). Del tutto eccezionale è anche il rinvenimento di due denari carolingi, uno coniato a Tours, databile tra 768 e 814 e uno a Orleans, databile tra 864 e 867. Il secondo è stato trovato residuo in stratigrafie di XVIXVIII secolo nell’area antistante la facciata della pieve, mentre il primo nel riempimento di una sepoltura di fine IX-inizio X secolo, dove era finito casualmente e non in seguito ad una deposizione volontaria. Non si tratterebbe cioè di moneta deposta come elemento di corredo, ma di moneta circolante84. Rimane da capire se sia denaro utilizzato da chi gestiva il centro curtense o magari giunto nel sito con i pellegrini che percorrevano la via Francigena. Le zecche di provenienza, francesi, non permettono di propendere per l’una o l’altra ipotesi in quanto i denari potrebbero essere anche arrivati prima a Lucca, nelle mani del marchese, e poi, magari attraverso i suoi intermediari, a San Genesio. C. Cicali, «I reperti monetali di epoca medievale», in Cantini (a cura di), Vicus Wallari-burgus sancti Genesii.
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Alcuni frammenti di vetrina pesante e un esemplare di bicchiere in vetro viola con applicato un filamento di vetro lattimo, forse di produzione o ispirato a modelli francesi, indicano poi l’inserimento del sito in traffici ancora extraregionali85. Più problematica, anche se molto suggestiva, l’identificazione con uno stiletto da scrittura di un manufatto in bronzo a forma di spillone terminante su un lato con una spatolina ricurva, trovato come residuo nel riempimento della sepoltura di un maschio adulto di fine IX secolo, che però potrebbe essere interpretato anche come strumento utilizzato nella cura personale86. Il quadro che possiamo ricostruire per la fase carolingia è quindi quello di un sito dove nelle immediate vicinanze della pieve e del suo cimitero si trovava molto probabilmente il centro gestionale della curtis marchionale di San Genesio, dove si concentravano macchinari per la trasformazione dei prodotti agricoli, fornaci da ceramica e probabilmente metallo, e dove circolava moneta. L’eventuale interpretazione dell’edificio rettangolare in muratura come residenza di un gestore dell’azienda costituirebbe un ulteriore elemento distintivo di questo centro, che sarebbe anche collegato a traffici perlomeno extraregionali. A San Genesio avremmo così un esempio di quei luoghi centrali dove si manifestava, all’ombra della pieve, una forma di economia che potremmo far rientrare in quella che Richard Hodges ha efficacemente definito, in riferimento al connubio tra aristocrazie, scambi e monasteri carolingi, “ritual economy”87. Se poi allarghiamo lo sguardo agli altri siti attestati come curtes indagati nella regione, il quadro delle restituzioni archeologiche, peraltro assai limitato, ci mostra contesti molto diversi88. M. Mendera, F. Cantini, A. Marcante, A. Silvestri, F. Gallo, G. Molin, M. Pescarin Volpato, «Where does the medieval glass from San Genesio (Pisa, Italy) come from?», in S. Wolf, A. de Pury Gysel (dir.), Annales du 20e Congrés de l’Association Internationale pour l’Histoire du Verre (Fribourg/Ramont 7-11 septembre 2015), Ramont, 2017, pp. 360-5. M. Mendera, A. Marcante, «Il materiale vitreo», in Cantini (a cura di), Vicus Wallari-burgus sancti Genesii. 86 G. Lazzeri, «I reperti metallici», in Cantini (a cura di), Vicus Wallari-burgus sancti Genesii. 87 Hodges, Dark Age Economics, in particolare pp. 121-2, 133. 88 Per una analisi del sistema curtense alla luce dei dati archeologici cfr. R. Francovich, R. Hodges, Villa to village. The transformation of the Roman Countryside in Italy, c. 400-1000, London, 2003 (con bibliografia). 85
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A Scarlino (Gr) tra VIII/IX e X secolo, quando è verosimilmente attestata una curtis aldobrandesca (973), quindi un centro curtense privato, troviamo un insediamento delimitato, almeno parzialmente, da un muro legato da terra, probabilmente di terrazzamento, all’interno del quale si collocano tre strutture di servizio ed altrettante abitative, in legno, ad eccezione di una (C) più ampia (12 m di lunghezza), caratterizzata da pareti in terra, con associato un fornetto per la fusione del piombo e un silos scavato nella roccia. A queste strutture si aggiunge tra la fine del IX e la prima metà del X una chiesa affrescata e un secondo edificio di incerta funzione. I reperti ceramici ci parlano poi dell’arrivo, ma solo dal X secolo, di ceramica a vetrina sparsa e di vetrina pesante dall’area salernitana, oltre che di contenitori anforici che sembrano circolare localmente89. Resta forse problematica l’associazione dell’evidenza archeologica, non molto dissimile da altri villaggi contadini coevi, al centro direzionale della curtis aldobrandesca citata nei documenti, che doveva comunque trovarsi in un’area non distante, dove invece il sito di pianura di Vetricella, posto nei pressi di un canale che portava al lago Prile, mostra, tra fine IX e X secolo, caratteristiche costruttive e fisionomia economica tali da rendere giustificato un suo collegamento alla curtis regia “de Valli”, attestata tra quelle donate da re Ugo ad Adelaide: il centro, che ha restituito anche monetazione in argento, è costituito da un grande edificio in pietra di forma rettangolare (11 x 8m) difeso da muro in tecnica mista e da un fossato, con resti di attività di lavorazione del piombo e del ferro elbano, oltre che di manufatti metallici90. Abbiamo poi il caso di Poggio alla Regina (Pian di Scò - AR), nel Valdarno superiore, dove i resti di un villaggio fortificato con muro di cinta e abitazioni realizzate con pietre messe in opera a secco, paL. Marasco, «La chiesa della Rocca a Scarlino: dalla curtis al castello», in S. Campana, C. Felici, R. Francovich, F. Gabrielli (a cura di), Chiese e insediamenti nei secoli di formazione dei paesaggi medievali della Toscana (V-X secolo), Atti del Seminario (San Giovanni d’Asso-Montisi, 10-11 novembre 2006), Firenze, 2008, pp. 147-67: 155-61; Ceccarelli Lemut, «Scarlino», pp. 32-3; Cantini, «Produzioni ceramiche», p. 361. 90 Sul sito della Vetricella cfr. L. Marasco, «La Castellina di Scarlino e le fortificazioni di terra nelle pianure costiere della maremma settentrionale», Archeologia Medievale, 40, 2013, pp. 57-67 e il contributo di Giovanna Bianchi in questo volume, che tiene conto dei dati emersi dalla recente campagna di scavo 2016. Per l’attestazione della curtis di Valli cfr. Vignodelli, «Berta e Adelaide», pp. 274-5. 89
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vimenti in terra battuta e focolari interni, sono stati interpretati dagli archeologi come un centro curtense di X-XI secolo. L’identificazione è legata all’attestazione di un loco qui d(icitu)r a la Curte, nel territorio della pieve di Santa Maria a Scò, dove nel 1009 si trovavano quattro sortes masserizie donate da Guido, figlio del fu Guinizo, al monastero di Santa Trinita a Fonte Benedetta in Alpe. I dati delle fonti scritte non sembrano però sufficienti a permettere la sicura identificazione di quanto emerso archeologicamente con il centro di un’azienda altomedievale e gli stessi materiali ceramici associati alla fase ‘curtense’ (in particolare i paioli) sembrano non potersi datare antecedentemente alla prima metà dell’XI secolo91. Infine abbiamo il caso di Gorfigliano (Lu). Gli scavi hanno individuato una fase di occupazione, databile tra la fine dell’VIII e la metà dell’XI secolo (C14), con tre strutture in materiale deperibile, di pianta ovaleggiante, con piano di calpestio in terra battuta e focolari a terra su lastre di ardesia. Queste evidenze sono state ricollegate ad un centro curtense della chiesa Domini et Salvatoris di Lucca attestato per la prima volta dalle fonti scritte nell’820 come posto “in […] loco Carfaniana”, ritenendo plausibile la sua identificazione con il loco Corfiliano, dove abitava Mogiolo, che vi prese in livello una “casa et res […] cum fondamento curte orto terris vineis ec. cultum”, dipendente dalla stessa corte92. I dati materiali emersi fino a questo momento e i riferimenti documentari però non sembrano sufficienti ad avvalorare tale interpretazione. Le strutture rinvenute potrebbero infatti essere plausibilmente riconducibili anche ad un semplice nucleo di case massaricie, quelle appunto poste in loco Corfiliano, dipendenti dallo stesso centro curtense lucchese, che però potremmo collocare altrove (in […] loco Carfaniana), seppur nelle vicinanze93. G. Vannini (a cura di), Fortuna e declino di una società feudale valdarnese. Il Poggio della Regina, Firenze, 2002; id., «Un sigillo dei conti Guidi e il crepuscolo dell’incastellamento nel Valdarno superiore», Archeologia Medievale, 31, 2004, pp. 405-22. Sulla datazione dei paioli cfr. J. Bruttini, Archeologia urbana a Firenze. Lo scavo della terza corte di Palazzo Vecchio (indagini 1997-2006), Borgo San Lorenzo, 2013, con bibliografia precedente. 92 J.A. Quirós Castillo (a cura di), Archeologia e storia di un castello apuano: Gorfigliano dal medioevo all’età moderna, Firenze, 2004. Per il documento cfr. Memorie e documenti, V/2, Lucca, 1837, n. 438, p. 263; lo stesso loco Corfiniano finibus Carfaniense compare in un altro documento dell’827 (cfr. ibid., n. 492, p. 296). 93 Andreolli, Contadini, p. 213. 91
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Altri siti indagati archeologicamente possono plausibilmente, pur in mancanza di un’attestazione scritta, essere interpretati come centri curtensi di età carolingia, sulla base di una serie di elementi: • il tipo di investimenti volti a garantire il controllo delle eccedenze agricole, che si materializzano nella realizzazione di vere e proprie cinte in pietra, se pur solo rozzamente lavorata, legata da calce; • l’uso di grandi magazzini in legno, più funzionali allo stoccaggio a breve termine e alla movimentazione delle eccedenze94, non associati a strutture abitative e posti in aree sommitali, difese. Si tratta di strutture che anche nella documentazione lucchese e amiatina di metà VIII-IX secolo sono collocate per lo più nei centri curtensi, dove sono destinate soprattutto ai cereali prodotti nei dominici95; • l’arrivo nel sito delle eccedenze agricole già pronte per essere stoccate e trasportate altrove, probabilmente in città, dove le fonti scritte attestano la presenza di granai dentro e fuori le mura96. Sempre a questo proposito possiamo citare il caso del contratto di livello dell’820 con il quale il rettore della chiesa lucchese Domini et Salvatoris allivella dei beni posti a Gorfigliano (Lu), chiedendo in cambio, tra le altre cose, che il livellario ogni anno porti in città il grano97. Un caso emblematico è Montarrenti (SI), dove, tra la metà dell’VIII e il IX secolo, abbiamo un villaggio sulla cui sommità, delimitata da un muro in pietra legata da calce, si trovano un granaio di grandi dimensioni (13 x 4m), un piccolo macinello per la produzione di farina, un forno per l’essiccamento delle granaglie, prevalentemente cereali e una minima percentuale di leguminose, che arrivano al magazzino già pulite, forse come censi98. S. Gelichi, «Conclusioni», in A. Vigil-Escalera Guirado, G. Bianchi, J.A. Quirós Castillo (eds.), Horrea, barns and silos. Storage and incomes in early medieval Europe, Bilbao, 2013, pp. 217-23. 95 S.M. Collavini, «Luoghi e contenitori di stoccaggio dei cereali in Toscana (VIII-XII secolo): le evidenze delle fonti scritte», in Vigil-Escalera Guirado et al., Horrea, barns and silos, pp. 57-76. 96 Per Lucca cfr. Collavini, «Luoghi e contenitori», p. 63. 97 Quirós Castillo, Archeologia e storia, p. 256; Memorie e documenti, V/2, n. 438, p. 263. 98 F. Cantini, Il castello di Montarrenti. Lo scavo archeologico (1982-1987). Per la storia della formazione del villaggio medievale in Toscana (secc. VII-XV), Firenze, 2003. 94
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Altri insediamenti sono stati poi indagati nel territorio toscano, specie sud-occidentale. In questi siti l’uso esclusivo di silos, funzionali alla lunga conservazione delle eccedenze agricole (più di 6 mesi), che quindi dovevano essere destinate soprattutto all’autoconsumo, potrebbero rimandare al fabbisogno interno delle singole comunità contadine99, che potevano gestire la conservazione delle derrate a livello familiare (fosse granarie associate a singole capanne) o comunitario (aree con molti silos, distinte dalle abitazioni)100. Alcune forme di articolazione urbanistica degli abitati (aree delimitate da palizzate lignee o da muri di terrazzamento non legate da calce) che non implicano investimenti di ingenti capitali potrebbero poi non essere la spia della presenza di ‘poteri forti’, ma di quella, più o meno costante, di intermediari, oppure semplicemente di una società rurale che non era un tutto indifferenziato101 e che per esempio potrebbe essere stata composta da ceti con ‘connotazione sociale ancora leggera’, segnata per esempio dal consumo di differenti tipi di carne (soprattutto dei maiali allevati nei boschi102) e manufatti. Potremmo avere degli esempi di questi villaggi in alcuni siti indagati archeologicamente in Toscana e nelle aree limitrofe. Si tratta di centri che sembrano avere già tra VIII e IX secolo delle specificità economico-produttive. Abitati con vocazione soprattutto agricola potrebbero essere quelli della Brina (Sp), con capanne entro una palizzata e silos, prevalentemente destinati all’orzo, datati ante IX-X secolo103, e di Rocca degli Alberti (Monterotondo Marittimo - Gr), dove tra VIII e metà IX secolo era stata allestita un’area delimitata da due piccoli fossati con 8 silos (per
Cantini, «Produzioni ceramiche», p. 72. Sul tema dei silos cfr. G. Bianchi, F. Grassi, «Sistemi di stoccaggio nelle campagne italiane (secc. VII-XIII): l’evidenza archeologica dal caso di Rocca degli Alberti in Toscana», in Vigil-Escalera Guirado et al., Horrea, barns and silos pp. 77-102: 93-94; Collavini, «Luoghi e contenitori»; Gelichi, «Conclusioni». 101 C. Wickham, «Conclusioni», in Valenti, Wickham, Italia 888-962, pp. 417-26. 102 F. Salvadori, «Gli animali nell’economia e nell’alimentazione in Italia», in Valenti, Wickham, Italia 888-962, pp. 301-39. 103 M. Baldassarri, A. Frondoni, M. Milanese (a cura di), «Indagini archeologiche al castello della Brina (SP): i risultati delle campagne 2005-2007», Archeologia Medievale, 35, 2008, pp. 101-19. 99
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cereali e legumi), associati a zone di ripulitura, essiccamento e arrostimento delle sementi, e butto104. Altri insediamenti posti nell’area delle colline metallifere sono invece stati associati alle attività estrattive, realizzate forse sotto il controllo delle autorità regie o vescovili105. Tra questi insediamenti possiamo citare due casi: • Cugnano (Monterotondo Marittimo-Gr), dove tra VIII e X secolo era un villaggio di capanne delimitato da un fossato, al di fuori del quale sono state individuate tracce di escavazioni minerarie a cielo aperto databili a partire dall’VIII secolo106; • Rocchette (Massa Marittima-Gr), sito, interpretato come villaggio aperto, che conservava i resti di quattro strutture databili tra VIII e metà IX secolo: due capanne abitative, con focolare su piano in terra battuta, e due semiscavate di cui una destinata all’immagazzinamento di cereali (grano, orzo) e legumi (lenticchie, piselli) per le necessità di un singolo gruppo familiare, oltre ad un silos107. La presenza di vetri di un certo pregio ha fatto ipotizzare che fosse la residenza anche di personaggi di rango108, forse legati al controllo delle attività minerarie, che per Rocchette sembrano però, per questa fase, ancora non documentate archeologicamente. All’interno di questi villaggi, diversamente specializzati, e dei centri curtensi non fiscali non troviamo invece attività di produzione della ceramica, che per le aree del sud della Toscana sembrano collocarsi in pianura lungo la viabilità antica (Podere Serratone, fine VIII-fine IX G. Bianchi, F. Grassi, V. Aniceti, V. Pescini, L. Russo, «Rocca degli Alberti a Monterotondo Marittimo (GR): il ridotto fortificato e il sistema di immagazzinamento delle risorse cerealicole tra IX e X secolo», in F. Redi, A. Forgione (a cura di), VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, L’Aquila, 12-15 settembre 2012, Firenze, 2012, pp. 308-13 e Bianchi, Grassi, «Sistemi di stoccaggio», pp. 80-1. 105 F. Grassi (a cura di), L’insediamento medievale nelle Colline Metallifere (Toscana, Italia). Il sito di Rocchette Pannocchieschi dall’VIII al XIV secolo, Oxford, 2013. 106 G. Bianchi, J. Bruttini, J.A. Quiròs Castillo, F. Ceres, S.M. Lorenzini, «La lavorazione del metallo monetabile nel castello di Cugnano (Monterotondo M.mo, Gr): lo studio delle aree produttive dei secoli centrali (XI-XII secolo)», in Redi, Forgione, VI Congresso Nazionale, pp. 644-9. 107 Per il silos cfr. Bianchi, Grassi, «Sistemi di stoccaggio», p. 87, figura 5.7. 108 Grassi, L’insediamento medievale. 104
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secolo109) e a volte configurarsi come nuclei di officine che producono vasellame da fuoco e da mensa-dispensa (Roccastrada110), con areali di distribuzione sub-regionali111. Riassumendo, i dati archeologici dell’area toscana stanno iniziando a fornire un quadro economico-insediativo che possiamo così sinteticamente tratteggiare: • centri curtensi fiscali dove si concentrano: macchinari e cicli produttivi, legati alla realizzazione di manufatti (ceramica, metallo) e alla trasformazione dei prodotti agricoli, moneta e merci di importazione, pur molto rare (San Genesio; il centro curtense di Valli con il complesso di Vetricella, a partire perlomeno dal X secolo). Questi centri vanno a collocarsi in aree di pianura, strategiche dal punto di vista della viabilità, dal punto di vista economico e da quello religioso. Relativamente a quest’ultimo gli stessi centri possono essere posti vicino a una pieve già esistente, che costituisce un altro polo di riscossione di un particolare tipo di censi, le decime112; • centri curtensi privati, legati a grandi famiglie (Scarlino, Montarrenti), caratterizzate da strutture in legno, da muri di recinzione in tecnica mista o pietra, assenza di macchinari113 e presenza di strumenti di trasformazione dei prodotti agricoli modesti (piccole macine), fornetti da metallo, forse legati al fabbisogno interno, granai, anche di grandi dimensioni, assenza di moneta; • villaggi con silos singoli domestici o multipli, legati al sostentamento della famiglia o della comunità (la Brina, Rocca degli Alberti), che in corrispondenza di aree ricche di risorse specifiche (come quella mineraria) si specializzano in particolari cicli 109 E. Vaccaro, Sites and Pots: Settlement and Economy in Southern Tuscany (AD 300-900), Oxford, 2011, pp. 202-15. 110 Cfr. da ultimo Grassi, L’insediamento medievale, pp. 23, 104. 111 F. Cantini, «Dall’economia complessa al complesso di economie. Tuscia (V-X secolo)», Post Classical Archaeologies, 1, 2011, pp. 159-94; Cantini, «Produzioni ceramiche». 112 Per le decime cfr. S.M. Collavini, «La dîme dans le système de prélèvement seigneurial en Italie: réflexions à partir du cas Toscan», in M. Lauwers (a cura di), La dîme, l’Église et la société féodale, Turnhout, 2012, pp. 281-308. 113 In generale, anche nelle curtes della maremma mancano accenni nelle fonti scritte alla presenza di frantoi e torchi per produrre olio e vino (Ceccarelli Lemut, «Scarlino», p. 32).
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produttivi (Rocchette?, Cugnano). La presenza di silos per cereali in questi abitati potrebbe essere il riflesso di quanto emerge dai documenti lucchesi e amiatini di IX secolo (polittici e contratti agrari): un quadro economico con comunità di contadini abbastanza liberi di gestire i prodotti delle terre che coltivano, con un trasferimento verso il centro curtense che si materializza raramente nella consegna di vino e olio e per lo più nelle corvées costituite da ore di lavoro da svolgersi nella pars dominica114. Anche l’assenza di macchine, come i torchi, sembra trovare una conferma indiretta nei contratti agrari toscani dove si prescrive soprattutto la consegna di olive e non di olio115. Le fonti scritte e le evidenze archeologiche ci suggeriscono quindi per il periodo carolingio, con tutte le cautele del caso legate alle considerazioni che abbiamo premesso al nostro intervento, un tipo di economia basata soprattutto sul trasferimento di forza lavoro e alcuni prodotti dai villaggi contadini ai centri curtensi e da questi verso le città116, dove per tutto l’altomedioevo, e non solo, continuano a risiedere le aristocrazie e dove si può entrare in contatto diretto con i poteri veramente forti (imperatori, re, conti, vescovi) in grado di cambiare le sorti di chi aspira ad arricchirsi117. Si tratterebbe di un sistema che potrebbe non aver bisogno di strumenti di scambio come le monete, come dimostra la quasi totale assenza di metallo coniato nei villaggi contadini, in quelli posti nelle aree minerarie e nei centri curtensi non fiscali. Risulta comunque macroscopico il contrasto tra questa assenza diffusa di moneta e le menzioni dei pagamenti dei censi in denaro che Collavini, «Luoghi e contenitori», pp. 58-63. Nei documenti lucchesi di IX secolo le corvées prevedono prestazioni per un periodo compreso tra uno a tre giorni a settimana (Wickham, Le società dell’alto medioevo, p. 323). 115 Andreolli, Contadini, p. 304. 116 Ne potrebbero essere prova, per esempio, in Liguria i resti di parti di maiali, abbattuti prima del primo anno, trovati nel castello vescovile di Genova, in contesti di IX-X secolo, interpretabili forse come pagamenti di censi (M. Biasotti, P. Isetti, «L’alimentazione dall’osteologia animale in Liguria», Archeologia Medievale, 8, 1981, pp. 239-46, p. 240). 117 S.M. Collavini, «Spazi politici e irraggiamento sociale delle élite laiche intermedie (Italia centrale, secoli VIII-X)», in P. Depreux, F. Bougard, R. Le Jan (a cura di), Les élite et leurs espaces: Mobilité, Rayonnement, Domination (du VIe au XIe siècle), Turnhout, 2007, pp. 319-40. 114
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si trovano nelle fonti scritte. Questa assenza è stata spiegata dagli studiosi in modi diversi: • con la possibilità che si trattasse esclusivamente di una moneta di conto: ma ciò contrasta, a mio parere, con la ripetuta compresenza di denaro e prodotti in natura nello stesso censo e con il riferimento a ben precise monete, come i soldi suctili ricordati nel breve lucchese de multis pensionibus118; • con l’uso del denaro come mezzo di accumulazione della ricchezza e non come mezzo di pagamento, per il quale si poteva usare anche argento non coniato, come attestato nel polittico dell’abbazia di Prum, in Danimarca, per alcuni censi oppure come contropartita per evitare la chiamata alle armi119. Questa pratica sembra però essere soprattutto diffusa nelle aree dove non erano state aperte zecche (per es. a est del Reno)120; • con una ridotta produzione delle zecche in età carolingia, legata anche ad una scarsità di argento e ad una estrema fragilità dei circuiti commerciali. La zecca di Lucca, infatti, insieme a quella di Pistoia e Pisa sembra prima aver coniato un numero ridottissimo di monete in età carolingia, poi aver avuto un’interruzione nella produzione tra 840 e prima metà X secolo, e infine essere rimasta l’unica zecca attiva in Italia centrale dopo la chiusura di quella di Roma nel 980 e fino al XII secolo121. Ma lo stesso desolante scenario numismatico potrebbe giustificarsi anche in un altro modo, considerando tempi e modalità di pagamento dei censi. Questi venivano infatti consegnati una volta l’anno, per cui gli affittuari potevano procurarsi argento coniato per l’occasione direttamenTomei, «Un nuovo ‘polittico’», p. 576. Verhulst, L’economia carolingia, pp. 161-2. 120 Ibid., pp. 162-3. Per l’Italia A. Rovelli, «Nuove zecche e circolazione monetaria tra X e XIII secolo: l’esempio del Lazio e della Toscana», Archeologia Medievale, 37, 2010, pp. 163-70: 164. 121 A. Rovelli, «Some considerations on the coinage of Lombard and Carolingian Italy», in I.L. Hansen, C. Wickham (eds.), The Long Eight Century. Production, Distribuition and Demand, Leiden-Boston-Köln, 2000, pp. 195-223; ead., «774. The mints of the kingdom of Italy. A survey», in S. Gasparri (a cura di), 774. Ipotesi su una transizione, Turnhout, 2008 (Seminari SAAME, 1), pp. 119-40; ead., «Coins and trade in early medieval Italy», Early Medieval Europe, 17/1, 2009, pp. 45-76: 56; ead., «Nuove zecche», pp. 163-4. 118
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te sui mercati cittadini, vendendo alcuni dei beni in natura da loro stessi prodotti. In città, dove tra fine XI e XII secolo abbiamo attestati anche i cambiatores (Lucca)122, la moneta era coniata e doveva essere utilizzata dalle aristocrazie laiche ed ecclesiastiche per l’acquisto di merci esotiche (come i tessuti) o prodotti dell’artigianato specializzato (come le armi), oltre che per la costruzione di chiese, monasteri123 e nuove residenze in pietra o tecnica mista, che tornano a caratterizzare, se pur in maniera discontinua, il paesaggio urbano proprio dall’età carolingia124. La stessa presenza di pellegrini doveva contribuire a far affluire denaro straniero, fenomeno che però sembra diventare più consistente a partire dalla seconda metà del X secolo, come dimostra il tesoro trovato a Lucca, nello scavo del complesso ex Galli Tassi125. Altri possibili luoghi di circolazione della moneta dovevano essere i centri direzionali delle curtes legati ai grandi monasteri, ai vescovi, ai re e ai marchesi, dove si pagavano i censi, specie là dove la loro collocazione coincideva con una sede plebana, dove affluivano anche le decime126 e dove possiamo ragionevolmente supporre che vi potessero essere sorti luoghi di mercato. Non a caso le uniche, rare, monete di IX secolo rinvenute in area rurale, nel territorio toscano, provengono proprio dalla curtis fiscale e sede plebana di San Genesio o da siti occupati in età romana da
122 Wickham, Le società dell’alto medioevo, p. 398; C. Baracchini, A. Caleca, Il Duomo di Lucca, Lucca, 1973, p. 57. 123 G. Bianchi, «Costruire in pietra nella Toscana medievale. Tecniche murarie dei secoli VIII-inizio XII», Archeologia Medievale, 35, 2008, pp. 23-8: 23-9. 124 Per Pisa, A. Meo, «Alfea e la sua eredità. Un modello interpretativo sulle metamorfosi della città di Pisa tra Antichità e Medioevo», in S. Salvatori (a cura di), Studi di Storia degli Insediamenti in onore di Gabriella Garzella, Ospedaletto (PI), 2014, pp. 67-95: 78-9; per Siena F. Cantini, Archeologia urbana a Siena. L’area dell’ospedale di Santa Maria della Scala prima dell’ospedale, Altomedioevo, Firenze, 2005, pp. 53-6; per Lucca E. Abela, S. Bianchini (a cura di), La città nascosta. Venti anni di scoperte archeologiche a Lucca, Lucca, 2002. 125 A. Degasperi, «La moneta nel Medio Valdarno Inferiore: osservazioni sulla circolazione monetaria tra Lucca e Pistoia fra alto e basso medioevo», Archeologia Medievale, 30, 2003, pp. 557-68: 560; A. Saccocci, «Il ripostiglio dell’area “Galli Tassi” di Lucca e la cronologia delle emissioni pavesi e lucchesi di X secolo», Bollettino di Numismatica, 36-39, 2001-2002, 2004, pp. 167-204. 126 Collavini, «La dîme», p. 291.
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mansiones, posti lungo la grande viabilità e dove già dall’VIII secolo abbiamo attestate chiese, come a Torrita (chiesa Sanctorum Iuliani et Costantii, Denaro AR Ludovico il Pio/Milano, 814-840)127. In questo scenario, perlomeno tra la seconda metà dell’VIII e l’inizio del X secolo, la moneta era utilizzata in pochi punti del territorio128: in città e nei centri direzionali delle curtes. Questo quadro toscano del resto potrebbe avere un parallelo in quello laziale dove nel IX secolo troviamo poco circolante sia in città che in campagna. Delogu ha giustificato questa assenza ricostruendo per la Roma di età carolingia un tipo di economia definita patriarchal economy: si tratterebbe di un sistema dove le ricchezze, accumulate precedentemente o grazie a forme di rendita terriera, all’esercizio del potere giurisdizionale su un ampio territorio che da Ravenna raggiungeva Benevento, a donazioni fatte da pellegrini di alto rango e non attraverso forme scambio regolate dalle leggi del mercato e quindi bisognose di denaro, sarebbero state utilizzate per rinnovare e mantenere efficienti chiese e infrastrutture della città, per ampliare i possessi fondiari, acquistare merci di lusso prodotte in altre aree del mediterraneo (soprattutto orientale) e rinsaldare i legami sociali con le aristocrazie romane. Ciò avrebbe determinato una veloce estinzione di tali risorse, che avrebbe generato la crisi economica del papato tra la seconda metà e la fine del IX secolo129. Pure le domuscultae, aziende papali a gestione diretta impiantate nelle campagne laziali, anche a seguito della perdita dei patrimoni della Chiesa nell’Italia meridionale
E.A. Arslan, C. Weiss (a cura di), Aggiornamento del Repertorio dei ritrovamenti di moneta Altomedievale in Italia (489-1002), Spoleto, 2005 (aggiornato al 31.11.2013), n. 7845; A. Saccocci, «La monetazione del Regnum Italiae e l’evoluzione complessiva del sistema monetario europeo tra VIII e XII secolo», in C. Alfaro, C. Marcos, P. Otero (eds.), XIII Congreso Internacional de Numismática, Madrid, 2005, pp.1037-49: 1039, nota 21; A. Saccocci, «Rinvenimenti monetali nella Tuscia dell’Altomedioevo: i flussi (secc. VI-X)», in A. Alberti, M. Baldassarri (a cura di), Monete Antiche. Usi e flussi monetari in Valdera e nella Toscana nord-occidentale dall’Età romana al Medioevo, Bientina (PI), 2013, pp. 21-34. 128 Ibid.; Degasperi, «La moneta nel Medio Valdarno»; Rovelli, «Nuove zecche», p. 163. 129 P. Delogu, «Rome in the ninth century: the economic system», in Henning, Post-Roman Towns, pp. 103-22. 127
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e in Sicilia130, avrebbero avuto il solo ruolo di soddisfare il fabbisogno di derrate alimentari per la corte papale, soprattutto in relazione alla distribuzione di viveri ai poveri di Roma131, non incidendo sull’eventuale sviluppo di un’economia di mercato. Esse sembrano infatti promuovere perlopiù un trasferimento di merci dalla campagna alla città e una circolazione di moneta molto limitata, per non dire inesistente (si cfr. il caso di Mola di Monte Gelato)132. Secondo Wickham sarebbero forse il frutto di un tentativo papale di creare aziende di tipo curtense che non ebbe l’esito sperato133. Per concludere, la differenza nella gestione della produzione tra curtes pubbliche e private mi sembra che fosse soprattutto una questione di scala: esse si differenziavano prima di tutto per la quantità di terra controllata che influenzava il numero e la varietà dei censi pagati e il tenore degli investimenti fatti nelle infrastrutture di servizio alla produzione. In quelle pubbliche il ruolo di punti di sosta degli itinerari regi favoriva le loro potenzialità economiche, che venivano moltiplicate laddove questi stessi centri si inserivano a fianco delle pievi, i poli di riscossione delle decime, creando dei nodi nei quali si concentravano potere politico, economico e spirituale. Relativamente all’Italia centro-settentrionale resta da capire che tipi di impatto ebbero nelle diverse aree questi grandi centri curtensi fiscali: funzionarono, grazie agli investimenti delle uniche aristocrazie paragonabili a quelle carolingia d’oltralpe134, da motori di crescita offrendo, se pur a lungo termine, anche occasioni di ascesa economica e sociale o furono solo degli efficaci strumenti di sfruttamento dei
130 A. Molinari, «Siti rurali e poteri signorili nel Lazio (secoli X-XIII)», Archeologia Medievale, 37, 2010, pp. 129-42. 131 Pasquali, Sistemi di produzione, p. 190. 132 H. Patterson, A. Rovelli, «Ceramics and coins in the middle Tiber valley from the fifth to the tenth century AD», in H. Patterson (ed.), Bridging the Tiber. Approaches to regional archaeology in the middle Tiber valley, London, 2004, pp. 26984; H. Patterson, «Rural settlement and economy in the middle Tiber valley: AD 300-1000», Archeologia Medievale, 37, 2010, pp. 143-61. 133 Wickham, Le società dell’alto medioevo, p. 326. 134 Sul ruolo preminente delle aristocrazie e delle loro ricchezze (soprattutto in termini di quantità e distribuzione geografica dei possessi fondiari) nello sviluppo delle economie regionali cfr. Wickham, «Rethinking the Structure».
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grandi possessi fondiari e delle loro (diverse) risorse135, che non ebbero, come le domuscultae laziali, nessun impatto nello sviluppo di un’economia di mercato? Relativamente alla Toscana, l’estensione delle ricerche al Valdarno, un’area attraversata da un grande fiume, ricca di proprietà di re, marchesi e grandi monasteri e su cui si affacciavano le maggiori città della regione dove risiedevano le aristocrazie, sta già offrendo nuovi dati su cui riflettere.
Differenti posizioni al riguardo in Henning, «Early European towns», e Hodges, Dark Age Economics, pp. 131-5.
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Giovanna Bianchi Spazi pubblici, beni fiscali e sistemi economici rurali nella Tuscia post carolingia: un caso studio attraverso la prospettiva archeologica
1. Il territorio analizzato Con questo contributo si vuole affrontare il tema dello spazio pubblico in rapporto alle modalità di intervento delle principali formazioni politiche altomedievali nel controllo e nella gestione di particolari risorse del territorio e dei relativi circuiti di produzione e distribuzione delle merci. Gli spazi pubblici destinati allo sfruttamento di terre e risorse naturali rimandano inevitabilmente al tema dei beni fiscali, dal momento che è nel publicum che tali spazi furono inquadrati ed è dallo sfruttamento di quest’ultimi che i principali organismi statali trassero le loro principali fonti di sostentamento. Quest’ultima tematica da qualche anno è sempre più al centro dell’attenzione in particolare degli storici delle fonti documentarie1. In recenti interventi, focalizzati sul contesto dei beni fiscali nella nostra penisola, pur rimarcando la notevole estensione dei patrimoni in età altomedievale e quindi la loro rilevanza economica, al contempo si è sottolineata la diffi-
Nel generale quadro della ricerca europea basti ricordare il contributo dato dalla scuola viennese, W. Pohl, V. Wieser (Hrsg.), Der frühmittelalterliche Staat – europäische Perspektiven, Wien, 2009 (Forschungen zur Geschicte des Mittelalters, 16). In ambito italiano un specifica attenzione è stata riservata soprattutto ai ducati di Spoleto e Benevento, S.M. Collavini, «Duchi e società locali nei ducati di Spoleto e di Benevento nel secolo VIII», in I Longobardi dei ducati di Spoleto e Benevento, Spoleto, 2003 (CISAM, 16), pp. 125-66; V. Loré, «Beni principeschi e partecipazione al potere nel Mezzogiorno longobardo», in M. Valenti, C. Wickham (a cura di), Italy, 888-962: a Turning Point, Turnhout, 2013 (Seminari SAAME, 4), pp. 15-39. Inoltre si segnala T. Lazzari (a cura di), «Il patrimonio delle regine: beni del fisco e politica regia fra IX e X secolo», Reti medievali Rivista, 13, 2, 2012. Di recente è stata avviata una specifica ricerca sui beni fiscali toscani nell’altomedioevo i cui primi risultati sono esposti in S.M. Collavini, I beni fiscali in Tuscia tra X e XI secolo: forme di circolazione e ricadute sulle forme documentarie. Nuovi dati e nuove riflessioni a partire da tre documenti di S. Michele di Marturi. c.s. Si ringrazia l’autore per avermi consentito di leggere l’articolo in bozze. 1
Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 293-325 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116189
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Spazi pubblici, beni fiscali e sistemi economici rurali nella Tuscia
coltà a comprendere appieno le relazioni tra i vari referenti di questi beni (re, regine, duchi, marchesi, conti ecc.) ed i possibili differenti modi di gestione di tali patrimoni. La frequente scarsità delle fonti documentarie in grado di illustrarci il funzionamento di questi beni fiscali costituisce una ulteriore difficoltà. Secondo le recenti ipotesi di Simone Collavini, perlomeno per la Tuscia di IX-X secolo, tale carenza è destinata a rimanere tale proprio per la natura stessa di questi patrimoni che sarebbero stati concessi ai sostenitori dei vari soggetti politici pubblici esulando dalle normali carte2. Sovente tali beni furono gestiti con concessioni precarie raramente messe per iscritto, in genere non codificate con atti privati e questo spiegherebbe la difficoltà a trovarne traccia ed a valutarne la reale, enorme estensione ed i meccanismi di controllo. A fronte di questo parziale silenzio delle fonti scritte, quindi, l’archeologia può portare un contributo essenziale per capire l’organizzazione degli spazi, il loro assetto e quanto questi aspetti influenzarono la struttura delle società locali. Per l’Italia centro nord, sino ad oggi la natura di questi beni fiscali è stata indagata dagli archeologi soprattutto a partire dalle caratteristiche di una delle loro unità di base, ovvero la curtis3. In questo volume Federico Cantini presenta un contributo in cui, ripercorrendo le principali tappe della ricerca e basandosi in particolare su esempi della Toscana del centro-nord, individua le possibili caratteristiche materiali delle aziende curtensi private rispetto a quelle pubbliche. Per quest’ultime il caso più indicativo, per ricchezza di dati, è quello della curtis marchionale di S. Genesio, dove intorno alla pieve ed in connessione con il borgo, sono stati trovati segni di attività produttive. Le esigue tracce di altre possibili curtes pubbliche citate da Cantini e indagate archeologicamente non consentono purtroppo di arricchire molto il quadro e il dato archeologico, al momento, sembra confermare quanto desumibile dalla lettura delle fonti scritte, ovvero che le curtes pubbliche si differenzierebbero da quelle private soprattutto per la più ampia scala di terra controllata e di strutture produttive ad esse interne. È questo un dato importante ma per comprendere meglio se, quanto e quando questi centri, sul modello di San Genesio, facciano parte
Collavini, I beni fiscali in Tuscia tra X e XI secolo. R. Francovich, R. Hodges, Villa to village. The transformation of the Roman countryside in Italy, c. 400-1000, London, 2003; Id., «The beginning of hilltop villages in early medieval Tuscany», in J.R. Davis, M. McCormick (eds.), The Long Morning of Medieval Europe, Aldershot, 2008, pp. 55-82. 2 3
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di un sistema propulsore di crescita economica, così come si chiede Cantini in chiusura del suo contributo, è forse necessario inserirli in uno spazio più ampio, cercando connessioni cronologiche, assonanze e dissonanze tra i differenti assetti insediativi e i paesaggi di un ampio territorio in rapporto allo sfruttamento di specifiche risorse. La cosa non è semplice. Per non rimanere ancorati ad un dato puntiforme, è, infatti, necessario disporre di una certa mole di informazioni già elaborate, riferibili ad un’area ben circoscritta, fare riferimento ad un territori ricco di beni fiscali e soprattutto di risorse di particolare rilievo, tali da attrarre, appunto, investimenti in larga scala da parte dei poteri centrali. Una simile favorevole congiuntura la si può ritrovare nell’area che comprende la parte settentrionale della Maremma toscana e la porzione oggi interna al comprensorio delle Colline Metallifere. Qui erano presenti risorse importanti come il sale nelle lagune costiere ed i metalli nei rilievi interni. Molto è già stato scritto su questo territorio perché è qui che si trovano due dei primi siti, Rocca San Silvestro e Scarlino, indagati da Riccardo Francovich e dai quali furono mossi i primi passi verso l’elaborazione del modello toscano4. Con il tempo la ricerca si è arricchita di ulteriori tasselli grazie alle indagini in altri siti di altura a vocazione agricola o mineraria5, monasteri R. Francovich, Rocca San Silvestro, Roma, 1991; R. Francovich, Scarlino, I, Storia e territorio, Firenze, 1985. 5 Donoratico: G. Bianchi (a cura di), Castello di Donoratico. I risultati delle prime campagne di scavo (2000-2002), Firenze, 2004; Cugnano: J. Bruttini, G. Fichera, F. Grassi, «Un insediamento a vocazione mineraria nella Toscana medievale: il caso di Cugnano nelle Colline Metallifere», in G. Volpe, P. Favia (a cura di), V Congresso nazionale di Archeologia Medievale, Firenze, 2009, pp. 306-12, e G. Bianchi, J. Bruttini, J.A. Quiros Castillo, F. Ceres, S. Lorenzini, «La lavorazione del metallo monetabile nel castello di Cugnano (Monterotondo M.mo): lo studio delle aree produttive dei secoli centrali (XI-XII secolo)», in F. Redi, A. Forgione (a cura di), VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, Firenze, 2012, pp. 644-9; Rocchette Pannocchieschi: F. Grassi (a cura di), L’insediamento medievale nelle Colline Metallifere (Toscana, Italia): il sito minerario di Rocchette Pannocchieschi dall’VIII al XIV secolo, Oxford, 2013; G. Bianchi (a cura di), Campiglia. Un castello e il suo territorio, Firenze, 2004; Suvereto: S. Ceglie, M.F. Paris, F. Venturini, «Le storie della Rocca di Suvereto tra alto e basso Medioevo attraverso le nuove indagini archeologiche», in C. Marcucci, C. Megale (a cura di), Il Medioevo nella provincia di Livorno. I risultati delle recenti indagini, Pisa, 2006, pp. 11730; Rocca Alberti: G. Bianchi, F. Grassi, «Sistemi di stoccaggio nelle campagne italiane (secc. VII-XIII): l’evidenza archeologica dal caso di Rocca degli Alberti in Toscana», in G. Bianchi, J.A. Quiros Castillo, A.Vigil Escalera (eds.), Horrea, barns and silos. Storage and incomes in Early Medieval Europe, Vitoria, 2013, pp. 77-102. 4
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alto e basso medievali6 e ricognizioni in ampie porzioni di questa area7. Allo stesso tempo sono state elaborate ricerche relative a specifici aspetti della cultura materiale e dei relativi processi tecnologici8, esito spesso di tesi dottorali assieme a lavori puntuali sullo studio dei cambiamenti del paesaggio naturale e forestale9.
G. Bianchi, S. Gelichi (a cura di), Un monastero sul mare. Indagini archeologiche a San Quirico di Populonia (Piombino, LI), Firenze, 2016; S. Piero a Monteverdi: R. Francovich, G. Bianchi, «Prime indagini archeologiche in un monastero della Tuscia altomedievale: S.Pietro in Palazzuolo a Monteverdi Marittimo (PI)», in R. Francovich , M. Valenti (a cura di), IV Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, Firenze, 2006, pp. 346-52; S. Niccolò a Montieri: G. Bianchi, J. Bruttini, F. Grassi, «Lo scavo della Canonica di San Niccolò a Montieri (Gr)», Notiziario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, 8, Firenze, 2012, pp. 564-67. 7 L. Dallai, R. Francovich, «Archeologia di miniera ed insediamenti minerari delle Colline Metallifere grossetane nel Medioevo», in R. Cataldi, M. Ciardi (a cura di), Il calore della terra, Pisa, pp. 126-42; L. Marasco, Archeologia dei paesaggi, fonti documentarie e strutture insediative in ambito rurale toscano tra VIII e XI secolo. Nuove indagini archeologiche sul comprensorio costiero dell’Alta Maremma, PhD thesis, Scuola di Dottorato di Ricerca Riccardo Francovich, Università degli Studi di Siena, XXII ciclo, 2013; E. Ponta, «Dinamiche di formazione e trasformazione del paesaggio tra Tardantichità e Altomedioevo. Il caso di Monterotondo Marittimo (GR)», in P. Arthur, M.L. Imperiale (a cura di), VII Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, Firenze, pp. 499-504. 8 F. Grassi, La ceramica, l’alimentazione, le vie di commercio e l’artigianato tra VIII e XIV secolo: il caso della Toscana Meridionale, Oxford, 2010; M. Belli, Produzione, circolazione, consumo di manufatti metallici nella Toscana meridionale del Medioevo (secoli IX-XIV), Scuola di Dottorato e Ricerca Riccardo Francovich, Università degli Studi di Siena XXVII Ciclo; G. Fichera, Archeologia dell’Architettura degli insediamenti fortificati della provincia di Grosseto. Progettazione edilizia e ambiente tecnico nel comitatus degli Aldobrandeschi, Scuola di Dottorato e Ricerca Riccardo Francovich, Università degli Studi di Siena XXI Ciclo; J. Bruttini, Archeologia dei siti minerari: il castello di Cugnano e lo studio degli apparati produttivi, la gestione del ciclo dei metalli monetabili e la rete insediativa del distretto delle Colline Metallifere nel Medioevo, Scuola di Dottorato e Ricerca Riccardo Francovich, Università degli Studi di Siena, XXV ciclo; R. Belcari, Pietra su pietra. Materiali lapidei e archeologia dei monasteri nella Tuscia occidentale tra Altomedioevo e secoli centrali, Scuola di Dottorato e Ricerca Riccardo Francovich, Università degli Studi di Siena, XVIII Ciclo. 9 V. Pescini, Analisi carpologiche: studio dei contesti produttivi e di stoccaggio altomedievali a Rocca degli Alberti (Monterotondo M.mo), Tesi di laurea magistrale in 6
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La tendenza, spesso sottolineata dai critici del modello toscano, di un esclusivo interesse degli archeologi verso i siti di altura è oggi compensata dall’avvio di un progetto europeo che ha tra i suoi principali obiettivi proprio lo studio, in questo territorio, delle dinamiche di trasformazione dei paesaggi naturali e antropici costieri e di pianura in rapporto alla meglio conosciuta situazione dell’interno10. Cercare di individuare dei filoni di narrazione storica basandosi soprattutto sui dati forniti dalla ricerca archeologica rientra in un processo lento e complesso. Come ha scritto più volte Francovich e come ricordavamo poco sopra è necessaria una notevole mole di dati. C’è, poi, bisogno di un processo di decantazione di questi dati, di una loro continua rielaborazione rispetto anche alla loro prima, originaria lettura; è necessario cercare delle connessioni e porsi continuamente delle nuove domande. Questo è quanto sta succedendo per la ricerca nell’area in questione e quanto scriveremo di seguito è un tentativo di lettura da interpretare come una delle tante tappe prima di arrivare all’auspicabile traguardo di un quadro interpretativo definitivo e ben comparabile. Per questo è necessario, seppure in sintesi, prima di tutto ricordare le principali acquisizioni avvenute negli ultimi anni per il territorio che andremo ad esaminare.
Archeologia, Università degli Studi di Siena, 2012-13; M. Benvenuti, G. Bianchi, J. Bruttini, M. Buonicontri, L. Chiarantini, L. Dallai, G. Di Pasquale, A. Donati, F. Grassi, V. Pescini, «Studying the Colline Metallifere mining area in Tuscany: an interdisciplinary approach», in 9th International Symposium on Archaeological Mining History, MuSe -Trento, 2014, pp. 261-87; G. Di Pasquale, «Paesaggio e vegetazione del territorio della Provincia di Livorno tra Alto e Basso Medioevo», in G. Bianchi (a cura di), Guida all’archeologia medievale della provincia di Livorno, Firenze, 2008, pp. 225-8; G. Di Pasquale, M. Buonincontri, E. Allevato, A. Saracino, 2014, «Humanderived landscape changes on the northern Etruria (western Italian coast) between Ancient Roman times and the Late Middle Ages», The Holocene, 24, pp. 1491-502. 10 Si tratta del progetto ERC-Advanced Grant n° 670792 dal titolo “Origins of a new economic union (7th-12th centuries): resources, landscapes and political strategies in a Mediterranean region” che include nella sua analisi il territorio delle Colline Metallifere, condotto in coodirezione tra chi scrive e Richard Hodges, con ente ospitante l’Università degli Studi di Siena. Per ulteriori informazioni si rimanda al sito web del progetto www.neu-med.unisi.it.
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2. Le conoscenze già acquisite A partire da due contributi editi nel 2010 e 201211 si è cominciato ad osservare come in questo territorio il passaggio da abitati di altura costituiti da gruppi di capanne cinti da palizzate ad assetti più gerarchizzati difesi da circuiti in materiale misto pietra-legno non solo si colloca in fasi successive al periodo propriamente carolingio (così come invece sostenuto nel modello di Francovich), ma che tale processo non era avvenuto in maniera uniforme. Solo alcuni insediamenti, infatti, furono caratterizzati a partire dalla fine del IX secolo e soprattutto nel X da importanti cambiamenti. Un simile fenomeno è stato ricondotto alla fisionomia pubblica di alcuni degli attori legati ai siti trasformati più precocemente rispetto agli altri e tali azioni sono state legate ai primi processi di formazione delle signorie territoriali e ai precoci esercizi di diritti privati ancora non attestati dalle fonti scritte. Solo nel corso del X secolo inoltrato anche altri siti cominciarono a subire delle trasformazioni nelle loro parti più simboliche soprattutto nelle cinte, sempre più spesso riedificate in pietra. Ancora nei contributi del 2010, 2012 fu sottolineata la quasi totale assenza di specifiche residenze signorili che, uniformemente, cominciano a comparire in questo territorio solo dal XII secolo. Ciò è stato interpretato come un chiaro segnale di una più diffusa e reale presenza in ambito rurale delle aristocrazie sino ad allora residenti in maggioranza nelle città. Elemento questo che di fatto accomuna buona parte del centro-nord dell’Italia e che è testimoniato anche dalla presenza di un numero limitato di reperti mobili rapportabili a chiari elementi di distinzione sociale. Perlomeno sino al XII secolo, quindi, tali trasformazioni, avrebbe comportato una gerarchia degli assetti insediativi più che una gerarchizzazione del tessuto sociale delle comunità in questi residenti.
G. Bianchi, «Dominare e gestire un territorio. Ascesa e sviluppo delle ‘signorie forti’ nella Maremma toscana del Centro Nord tra X e metà XII secolo», Archeologia Medievale, 37, 2010, pp. 93-104; G. Bianchi, «Curtes, castelli e comunità rurali di un territorio minerario toscano. Nuove domande per consolidati modelli», in P. Galetti (a cura di), Paesaggi, comunità, villaggi medievali, Spoleto, 2012, pp. 495-510. 11
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Negli stessi anni diversi progetti di survey nelle aree costiere e dell’immediato entroterra12 hanno, poi, evidenziato tra Tarda Antichità ed Altomedioevo una continuità di vita di molti siti di pianura o di mezza collina in contrasto, quindi, con quanto registrato per alcuni territori più interni, come nel caso dell’area senese. Nel 2013 un convegno avente come tema delle ‘Risorse e competizione’, ha fornito l’occasione per riflettere sulla differenza di gestione tra i siti a vocazione agricola rispetto a quelli legati a risorse sensibili come i metalli13. La disamina delle fonti materiali ha consentito di ipotizzare come per gli insediamenti a vocazione mineraria i segnali di una privatizzazione dello sfruttamento fossero più evidenti nel corso dell’XI secolo avanzato, conseguenza, è stato ipotizzato, di una ingerenza ancora forte dei poteri pubblici nella gestione di queste risorse. L’insieme di questi dati indica in ogni caso un momento di più rilevante cambiamento, circoscrivibile soprattutto tra fine IX e X secolo. È su questo periodo, quindi, che concentreremo la nostra attenzione. Prima di fare questo è necessario, però, dare un nome ai protagonisti che ebbero un ruolo importante in queste trasformazioni. Nei contributi più recenti al momento di fare un quadro degli attori di maggior rilievo politico sono stati elencati soggetti diversi: il vescovo di Lucca che sin dalla fine dell’VIII secolo aveva proprietà soprattutto nell’area costiera e nell’immediato entroterra; il vescovo di Volterra presente con i suoi possedimenti nelle zone minerarie dell’interno; il monastero di S. Pietro in Palazzuolo a Monteverdi, posto ai limiti nord delle Colline Metallifere, fondato alla metà dell’VIII secolo da un gruppo di aristocratici lucchesi e pisani; il casato degli Aldobrandeschi di cui alcuni membri, a partire dalla metà del IX secolo, rivestirono la carica di conti del comitatus di Roselle e Populonia; la famiglia dei Della Gherardesca che ebbe alcuni suoi esponenti tra i conti di Volterra; le comunità locali con le loro piccole-medie élites che acquisirono un diverso peso nello scacchiere politico del territorio a seconda dell’esito dei legami spesso di patronato con alcuni dei soggetti sopra elencati; infine i poteri pubblici rappresentati dai re od, in età longobarda, dai duchi di
Marasco, Archeologia dei paesaggi; Ponta, «Dinamiche di formazione e trasformazione del paesaggio», pp. 499-504. 13 G. Bianchi, S. Collavini, «Risorse e competizione per le risorse nella Toscana dell’XI secolo», in V. Loré. G. Buhrer-Thierry, R. Le Jan (dir.), Acquerir, prelever, controler. Les ressources en competition (400-1100), Turnhout, 2017, pp. 171-88. 12
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Lucca ed in seguito, a partire dalla tarda età carolingia sino all’XI secolo dai marchesi di Tuscia e dai conti di Roselle e Populonia. A differenza degli altri soggetti, probabilmente per le ragioni ipotizzate da Collavini di cui abbiamo scritto poco sopra, dei poteri pubblici e dei loro possessi nelle fonti scritte sono rimaste, però, tracce esigue. Un sottilissimo filo rosso collega proprietà dell’interno caratterizzate da chiari toponimi (Bagno del re; Gualdo al re; Mulinereggi; Teupascio etc) alla menzione di actor regis in alcuni atti risalenti all’VIII secolo. A queste poche evidenze devono essere aggiunte le curtes regie di Valli e Cornino a cui si fa riferimento nel dotario del 937 di Ugo di Arles alla futura moglie Berta di Svevia e alla di lei figlia Adelaide, che attestano la presenza di beni regi anche nell’area costiera nei primi decenni del X secolo14. Grazie al lavoro di Giacomo Vignodelli si è però evidenziato come le curtes donate da Ugo di Arles rientrassero in un piano ben definito, rappresentando dei capisaldi strategici politici ed economici del re15. In questa ottica le curtes di Valli e Cornino acquisiscono, di conseguenza, estrema importanza collegandosi ad un territorio fortemente al centro degli interessi regi16. A seguito delle riflessioni di Collavini sulla ipotizzabile considerevole entità dei beni fiscali difficilmente quantificabile dalle fonti documentarie, è conseguente chiedersi quanto il persistere di tali beni nel territorio qui esaminato costituisca la punta di un iceberg e soprattutto se la loro presenza in determinati periodi abbia avuto un forte significato. In un recente contributo questo aspetto è stato parzialmente trattato in relazione allo sfruttamento delle risorse minerarie17. A tale riguardo si è ipotizzato un complesso sistema, sovra diretto dai poteri pubblici, che presupponeva un ampio controllo di tutte le fasi del ciclo produttivo R. Farinelli, I castelli nella Toscana delle ‘città deboli’. Dinamiche di popolamento e del potere rurale nella Toscana meridionale (secoli VII-XIV), Firenze, 2007, pp. 66-7. 15 G. Vignodelli, «Berta e Adelaide: la politica di consolidamento del potere regio di Ugo di Arles», in T. Lazzari (a cura di), Il patrimonio delle regine: beni del fisco e politica regia tra IX e X secolo, Reti Medievali 13, 2, 2012. 16 Per le curtes a nord della Tuscia, citate nel dotario si veda quanto scritto da Federico Cantini nel suo contributo in questo volume. 17 G. Bianchi, «Public powers, private powers and the exploitation of metals for coinage: some considerations setting out from the Tuscan context», in R. Balzaretti, P. Skinner (eds.), Italy and Medieval Europe. A fest in honour of Chris Wickham, c.s. 14
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nello spazio compreso tra le aree più interne delle Colline Metallifere sino a quelle di mezza collina, pianura e costa dove presumibilmente avvenivano le ulteriori lavorazioni e poi il trasporto dei metalli lavorati partendo da una serie di approdi ancora attivi nell’altomedioevo. È stato poi sottolineato il forte legame tra quest’ultimo tipo di organizzazione pubblica ed i metalli connessi alla produzione di monete in argento. Questo nell’ottica di individuare le origini più risalenti di questo tipo di sfruttamento che nel corso del XII e XIII secolo si diffuse in maniera omogenea legandosi principalmente all’operato delle signorie territoriali, come è stato magistralmente illustrato, sin dagli anni Novanta dello scorso secolo, per il caso di Rocca San Silvestro18. Dobbiamo ancora limitarci a queste considerazioni relative ai beni fiscali oppure possiamo spingerci oltre, andando a rileggere da un rinnovato punto di vista i dati già acquisiti, per indagare più a fondo, rispetto a quanto sinora fatto, il ruolo che il potere pubblico e i suoi spazi avrebbero avuto anche nel possibile incremento delle economie di quest’area? 3. Rileggere gli assetti insediativi. I siti ‘fuori scala’ Per fare questo è necessario innanzitutto cercare di individuare nelle evidenze materiali dei segni di una possibile omogenea strategia che per peculiari caratteristiche potrebbe essere rapportata ad una committenza pubblica. Quindi bisogna tornare ad alcuni dati già acquisiti con la ricerca archeologica. Il primo punto da trattare è capire se nei numerosi siti indagati ve ne siano alcuni che presentano caratteri di eccezionalità nel loro assetto e nelle loro pratiche costruttive. Riguardo a quest’ultimo aspetto tre sono i siti in cui ritroviamo degli aspetti decisamente fuori scala rispetto a molti altri insediamenti già indagati negli ultimi trenta anni. Il primo è quello in località torre di Donoratico (Fig. 1), posto su di una altura nell’immediato entroterra costiero. Su questo insediamento già molto è stato scritto e, quindi, non ci soffermeremo troppo su spe-
R. Francovich, C. Wickham, «Uno scavo archeologico ed il problema dello sviluppo della signoria territoriale: Rocca San Silvestro e i rapporti di produzione minerari», Archeologia Medievale, 21, 1994, pp. 7-30. 18
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Fig. 1 – Carta della Toscana con la localizzazione dei siti citati nel testo.
cifiche descrizioni19. Basti tenere a mente che, rispetto al preesistente abitato di capanne risalente all’VIII-IX secolo, tra fine IX e nel corso del X secolo avvenne una totale ridefinizione dell’originario insediamento, attraverso la costruzione di una cinta in pietra di 353 m di lunghezza che chiuse il pianoro sommitale, mentre una parte interna fu delimitata da uno spesso muro sempre in pietra. Questa sorta di ridotto si Il sito è stato indagato con la direzione della scrivente e Riccardo Francovich. Per la bibliografia di riferimento al sito si rimanda alla nota 5; per l’analisi del cantiere di questo periodo G. Bianchi, N. Chiarelli, G.M. Crisci, G. Fichera, D. Miriello, «Archeologia di un cantiere curtense: il caso del castello di Donoratico tra IX e X secolo. Sequenze stratigrafiche e analisi archeometriche», Archeologia dell’Architettura, 16, 2012, pp. 34-50. 19
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colloca nella porzione sud-est del sito in un’area ad una quota inferiore rispetto al punto più alto del pianoro dove, invece, nello stesso periodo fu edificata una chiesa monoabsidata (Fig. 2, vedi Tavole a Colori). Le caratteristiche di questo spazio sono interessanti in rapporto ai nostri quesiti. Qui è presente l’unico pozzo del sito che attingeva ad una falda sotterranea e che venne inglobato nella nuova cinta. Legata a quest’ultima era anche una torre, sempre in pietra di forma quadrangolare, i cui perimetrali (circa 9 m di lunghezza per uno spazio interno pari a circa 11 mq) si sono conservati per pochi filari. Di questa non è stato possibile rinvenire strati di vita coevi, essendosi il deposito interno completamente dilavato per il crollo di buona parte dei muri. La torre era prospiciente uno spazio aperto all’altra estremità del quale sono state rinvenute le tracce di una grande capanna ellisoidale (17x8,5 m), in legno con parte però dei basamenti in pietra. Questa struttura aveva uno spazio interno diviso da due file di pali paralleli ed una sorta di piccolo ingresso nella sua estrema porzione nord. La modellazione tridimensionale della stessa capanna e quindi la considerazione di tutti gli aspetti tecnici legati alla sua costruzione ha evidenziato come l’edificazione di quest’ultima presupponesse delle notevoli conoscenze relative alla lavorazione del legno ed al calcolo dei pesi strutturali. Il segnale più significativo della presenza di maestranze altamente specializzate ed esterne a questo ambiente tecnico è dato però dalla presenza di tre miscelatori da malta rinvenuti nelle stratigrafie pertinenti il cantiere da costruzione (Fig. 3), dove si mescolava il legante per l’edificazione della torre e della cinta, così come hanno dimostrato le analisi archeometriche20. Nella sezione monografica del numero XVI della rivista Archeologia dell’Architettura è stata discussa l’evidenza di un alto numero di miscelatori per la malta presenti quasi esclusivamente in Toscana in un periodo sostanzialmente compreso nel X secolo21. Data la presenza, nel nord Europa, di simili strutture in particolare nell’area corrispondente alla Lotaringia si era ipotizzato che ciò potesse essere dipeso da un legame specifico tra la Tuscia e quel territorio e in senso lato con l’area germanica, rafforzato alla fine del IX secolo dal matrimonio di Berta di Lotaringia con Adalberto marchese di Tuscia e continuato in seguito Bianchi et al., «Archeologia di un cantiere curtense». G. Bianchi (a cura di), «Dopo la calcara: la produzione della calce nell’altomedioevo: nuovi dati tra Lazio e Toscana fra ricerca sul campo, archeologia sperimentale e archeometria», Archeologia dell’Architettura, 16, 2012.
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Fig. 3 – Donoratico: planimetria con localizzati i tre miscelatori da malta pertinenti il cantiere di fine IX-X secolo (da Bianchi, Chiarelli, Crisci, Fichera, Miriello, «Archeologia di un cantiere curtense», pp. 34-50).
grazie al rapporto privilegiato dei marchesi di Tuscia con la dinastia degli Ottoni22. Tale legame poteva avere favorito, si era supposto, uno scambio di maestranze e conoscenze tecniche applicate nel caso di Donoratico, oltre che nella costruzione della cinta, della torre e della chiesa anche nella realizzazione della grande capanna che non ha confronti nel panorama italiano se non con la struttura rinvenuta nel sito di Poggibonsi alla quale l’accomuna anche una forte vicinanza con le misure planimetriche23. G. Bianchi, «Miscelare la calce tra lavoro manuale e meccanico. Organizzazione del cantiere e possibili tematismi di ricerca», in Bianchi, «Dopo la calcara», pp. 9-18. 23 M. Valenti (a cura di), Poggio Imperiale a Poggibosi. Il territorio, lo scavo, il parco, Milano, 2007, pp. 114-7. 22
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La presenza di miscelatori da malta è del resto uno dei markers più significativi dei siti che abbiamo definito fuori scala nel loro generale assetto. È questo anche il caso di Rocca degli Alberti posto nella parte alta dell’attuale centro di Monterotondo Marittimo24. La presenza di un abitato ancora vitale ha impedito una indagine estensiva al pari di quella eseguita a Donoratico. Lo scavo ha, quindi, messo in evidenza solo le stratigrafie di una parte di quello che in origine si presentava come il pianoro sommitale dell’insediamento. Anche qui, tra fine IX e X secolo la presenza del miscelatore si collega alla costruzione di muri in pietra di un certo spessore che sembrano definire uno spazio ridotto, originariamente collegato ad un insediamento che doveva svilupparsi anche al di fuori di questo, come dimostra la presenza di muri esterni poggiati al recinto forse anche interpretabili come perimetrali di un edificio turriforme (Fig. 4, vedi Tavole a Colori)). La porzione limitata di area indagata non ha consentito di individuare strutture abitative ma solo edifici destinati allo stoccaggio di cereali o altri materiali, come scriveremo in seguito, che andarono a sovrapporsi a livelli di vita cronologicamente rapportabili all’VIII e pieno IX secolo. Le analogie tra questo recinto e quello presente a Donoratico, sono accentuate anche dall’appartenenza di queste strutture ad un medesimo arco cronologico. Del terzo sito sono già usciti preliminari resoconti25. Si tratta delle evidenze rinvenute in località Vetricella (figg. 5-6) appartenenti ad uno degli insediamenti scoperti nella nuova stagione di ricerche nei siti di pianura, in quest’ultimo caso sottostante il castello di Scarlino indagato da Francovich negli anni Ottanta dello scorso secolo. Il sito è stato indagato con la direzione scientifica della scrivente. Per una preliminare edizione dei dati si rimanda a Bianchi, Grassi, «Sistemi di stoccaggio»; G. Bianchi, F. Grassi, V. Aniceti, V. Pescini, L. Russo, «Rocca degli Alberti a Monterotondo M.mo (GR): il ridotto fortificato e il sistema di immagazzinamento delle risorse cerealicole tra IX e X secolo», in Redi, Forgione, VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, pp. 308-313; L. Russo, «Il miscelatore da malta del cantiere edilizio altomedievale di Monterotondo M.mo (GR)», in Bianchi, «Dopo la calcara», pp. 62-6. 25 L’indagine nel sito è oggi codiretta da chi scrive insieme a Richard Hodges con il coordinamento di Lorenzo Marasco. Per i primi resoconti si rimanda a L. Marasco, «La Castellina di Scarlino e le fortificazioni di terra nelle pianure costiere della Maremma settentrionale», Archeologia Medievale, 34, 2013, pp. 57-69. 24
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Il sito era originariamente posto quasi ai margini di un’ampia laguna ed era circondato da un sistema di fossi e canali in parte collegati al Pecora, il principale fiume che solcava quest’area pianeggiante prima di sfociare nella laguna e poi nel mare. Il contesto costruttivo quindi era del tutto diverso da quello di Donoratico e Rocca degli Alberti posti sulle alture di colline interne. Il sito è stato parzialmente indagato tra il 2005 ed il 2007. Dal 2016 hanno preso avvio campagne di scavo annuali estensive all’interno del progetto “nEU-Med”26. Per una valutazione, comunque, dell’eccezionalità di questo sito valgono le considerazioni sinora edite. L’insediamento, infatti, presenta delle caratteristiche del tutto uniche in questo territorio essendo qui adottato un assetto assente nella Tuscia ma anche in buona parte dell’Italia Centro Nord. Così come, infatti, era già evidente dalla diagnostica di scavo il sito è stato realizzato su parte di un riporto di terra naturale racchiuso da canali di forma circolare, concentrici l’uno con l’altro. Sul successivo riempimento del fossato più interno fu edificata, nel corso del X secolo, una cinta con basamento in pietra e possibile alzato in materiali deperibili. Lo spazio così racchiuso conteneva al centro un solo edificio di forma rettangolare, interpretabile come una sorta di torrione in materiali misti, del quale rimangono solo i pochi lacerti dei livelli di vissuto interni, dal momento che i perimetrali sono stati completamente asportati, sebbene la fossa di spoliazione consenta di misurare la lunghezza dei suoi perimetrali in circa 9 metri. Nei rapporti preliminari relativi ai primi e più limitati scavi si era supposto, in base ai reperti rinvenuti, che tale assetto fosse stato realizzato tra fine IX e soprattutto X secolo. Le ultime campagne di scavo hanno rivelato una realtà più complessa, con fasi anche anteriori a questo periodo, sulle quali in questa sede non ci soffermiamo dal momento che tali dati sono ancora in fase di rielaborazione ed inediti. In ogni caso, sempre le recenti indagini, confermano l’importante fase di fine IX-X secolo, a cui quindi risalirebbe, così
Per il resoconto della campagna 2016 vedi L. Marasco, A. Briano, S. Greenslade, S. Sheppard, C. Lubritto, «Le ricerche a Vetricella: nuove evidenze tra paesaggi antropici e naturali», in G. Bianchi, R. Hodges (eds.), Origins of a new economic union (7th-12th centuries): resources, landscapes and political strategies in a Mediterranean region. Il progetto “nEU-Med” ed i risultati delle prime ricerche: ottobre 2015-marzo 2017, Firenze, c.s.
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come in precedenza ipotizzato, la realizzazione del circuito murario in pietra/materiali deperibili e dei fossati. Una fase di importante sviluppo del sito è anche attestata dal rinvenimento in passato di alcune monete coniate tra il regno di Berengario I e Ottone III27, a cui devono essere aggiunti i significativi rinvenimenti della recente campagna che portano ad 16 il numero di monete rapportabili a questo periodo, dato che acquisisce maggior rilievo a causa dell’assenza di monete di periodi precedenti o successivi. L’evidenza di un possibile miscelatore da malta, attribuibile a questa fase e individuato parzialmente nei primi scavi è stata confermata con le indagini del 2016 che hanno consentito di evidenziare anche un secondo miscelatore probabilmente di poco precedente al primo. Così come scrivevamo sopra, la presenza di miscelatori da malta, sembra quindi accumunare siti legati anche da particolari soluzioni planimetriche, scelte costruttive e generale progettazione. La cronologia di tali trasformazioni, compresa tra fine IX e X secolo, sembra essere l’altro elemento che lega gli insediamenti sinora descritti. Queste prime importanti assonanze richiedono una ulteriore riflessione sulla possibile committenza, rispetto a quanto ipotizzato in passato. 4. Rileggere le committenze Il sito di Vetricella a suo tempo era stato interpretato come una sorta di protocastello signorile presumibilmente legato agli Aldobrandeschi che in quest’area ebbero molti possessi tra cui la stessa curtis di Scarlino, attestata come tale alla fine del X secolo28. Questa famiglia sicuramente costituì una delle più importanti realtà signorili della Maremma ma dalla metà del IX secolo alcuni dei suoi membri furono insigniti del titolo di conte per il comitatus di Roselle e probabilmente di Populonia29. Vetricella si trovava all’interno di quest’ultima circoscrizione, quindi, se dobbiamo ascrivere le trasformazioni del sito agli Aldobrandeschi, questi, nel pieno X secolo, avrebbero agito come esponenti del potere pubblico. Vetricella, però, è posta a L. Marasco, «La Castellina di Scarlino», p. 61. L. Marasco, «La Castellina di Scarlino», p. 66 ma anche O. Creighton, Early european castles. Aristocracy and authority, AD 800-1200, London, 2012, p. 94. 29 G. Rossetti, «Società e istituzioni nei secoli IX e X: Pisa, Volterra, Populonia», in Lucca e la Tuscia nell’alto medioevo, Spoleto, 1973 (CISAM, 5), pp. 209-337. 27 28
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non molta distanza in linea d’aria dalla curtis di Valli, ovvero uno dei due possessi donati da re Ugo alla futura moglie Berta. Non possiamo, pertanto, escludere che il sito rientrasse nel territorio di quest’ultima curtis. In ambedue i casi, è plausibile pensare il sito come parte di importanti beni pubblici sia che questi fossero collegati ai locali conti, sia direttamente al re o alle regine. Tale ruolo si rafforza, così come già scritto in passato30, pensando Vetricella come anche uno dei possibili luoghi di ultima lavorazione dei metalli estratti nell’entroterra delle Colline Metallifere a causa della sua posizione poco distante dalla laguna e dagli approdi costieri. Donoratico da tempo è stato interpretato come un sito legato al monastero di S.Pietro in Palazzuolo di Monteverdi, vista la sua vicinanza a Castagneto Carducci, centro di una delle curtis di proprietà del monastero sin dal momento della sua fondazione (Fig. 1)31. Data la sua entità materiale è possibile che questo sito fosse il centro di un’altra possibile curtis di cui non è rimasta menzione nella documentazione ma che poteva plausibilmente rientrare nel patrimonio del cenobio. Schneider fu il primo ad ipotizzare che Monteverdì fosse divenuto un monastero regio a partire dall’età carolingia32 e tale ipotesi sarebbe supportata anche da alcune caratteristiche di questo cenobio: l’ipotizzabile entità delle sue strutture materiali desunta dai dati di scavo; far parte del gruppo di monasteri legati dal rapporto di fraternitas che costituirono un’ampia rete nel regno carolingio; l’alto numero di monaci ad esso collegato, esemplificativo dell’importanza di questo ente perlomeno nei decenni a cavallo tra VIII e IX secolo33. Nel patrimonio di Monteverdi, annoverabile, quindi, tra le grandi abbazie regie altomedievali della Toscana insieme a quelle di S. Salvatore al Monte Amiata, S. Salvatore di Sesto, S. Antimo, sarebbero confluiti numerosi beni pubblici aggiunti a quelli già portati in dote dai fondatori.
Bianchi, «Public powers, private powers». Francovich, Bianchi, «Prime indagini archeologiche». 32 A commento di questa ipotesi si veda G. Giuliani, «Il monastero di S. Pietro in Palazzuolo dalle origini (sec. VIII) fino alla metà del secolo XIII», in S. Scalfati (a cura di), L’abbazia di S. Pietro in Palazzuolo e il comune di Monteverdi, Pisa, 2000, pp. 18-9. 33 K. Schmid (Hrsg.), Vita Valfredi und kloster Monteverdi, Toskanisches monchtum zwischen langonardischer un franchischer herrschaft, Tubingen, 1991. 30 31
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Donoratico, non identificabile nell’atto di dotazione al tempo della fondazione del cenobio, potrebbe, quindi, avere fatto parte di quei beni fiscali confluiti in un secondo tempo in mano al cenobio, a sua volta direttamente legato all’autorità regia. Il sito di Rocca degli Alberti-Monterotondo Marittimo, citato per la prima volta nel 1071 ed inserito nel comitato volterrano, poteva essere alternativamente legato sia al vescovo di Lucca che aveva in quel territorio numerose proprietà tra VIII e X secolo, sia allo stesso monastero di Monteverdi il quale vantava diritti di proprietà nella circoscrizione di Monterotondo, così come attestato da un documento del 112834. Da questa rilettura della possibile committenza emerge quindi un quadro un poco diverso da quello prospettato in passato. Tutte queste committenze si legherebbero ad un generale contesto di beni fiscali pur appartenendo a categorie diverse di quest’ultimi. Nel caso dei possessi di Monteverdi si tratterebbe infatti di beni fiscali confluiti nel patrimonio di un’abbazia regia; per l’area di Vetricella potrebbe trattarsi di beni direttamente gestiti dal re/imperatore o alternativamente dai conti Aldobrandeschi; per Rocca degli Alberti tali beni potrebbero rientrare in quelli appartenuti al vescovo di Lucca o allo stesso cenobio di Monteverdi. Data la possibile, ipotizzata natura di beni fiscali dei siti analizzati o comunque il loro stretto legame con attori connessi alla sfera pubblica viene quindi da domandarsi se proprio la stessa fisionomia di questi beni sia alla base di un possibile, omogeneo programma di loro ristrutturazione in funzione del coordinato sfruttamento di un ampio territorio. È, infatti, difficile non notare il medesimo filo rosso che collega le evidenze materiali di tutti i siti esaminati nel periodo compreso tra fine IX e X secolo. La ragione di un simile sistema di collegamenti potrebbe legarsi alle peculiarità delle risorse di questo territorio, particolarmente preziose nell’ambito di un generale quadro economico, che abbiamo già ricordato all’inizio di questo contributo: sale nel sistema delle lagune costiere; coltivazioni nelle aree di pianura particolarmente fertili; metalli ferrosi e non nel sistema collinare interno. Proprio la presenza di questa risorse potrebbe avere, pertanto, portato ad avviare un programma di investimenti che avrebbe coinvolto sia le R. Farinelli, «I castelli nei territori diocesani di Populonia-Massa RoselleGrosseto (secoli X-XIV)», in R. Francovich, M. Ginatempo (a cura di), Castelli: storia e archeologia del potere nella Toscana medievale, Firenze, 2000, p. 142.
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proprietà regie sia quelle facenti riferimento ad altri attori comunque legati alla sfera pubblica. Quelle che in un recente passato erano stati, quindi, letti come i primi tentativi di affermazione di diritti signorili potrebbero ora essere rapportati ad azioni di un più complesso programma di impronta pubblica. Ma quali furono le possibili caratteristiche di questo programma, quale la sua scala ed il suo esito finale? 5. Rileggere le vocazioni economiche di alcuni siti Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di descrivere l’aspetto legato agli investimenti costruttivi che rivela una loro solida consistenza economica collegabile anche alla chiamata di maestranze altamente specializzate, portatrici di sapere esterni a questo ambiente tecnico, impiegate per un lungo periodo in quest’area nei nuovi progetti che abbiamo descritto. Per capire meglio però la natura di questa operazione bisogna tenere conto anche della vocazione di questi siti per il periodo esaminato. Nel caso di Donoratico lo scavo di parte del ridotto ha evidenziato come questo fosse presumibilmente deputato in buona parte ad attività produttive. Nella grande capanna il ritrovamento di numerose fuseruole e di un macinello da grano fa supporre questo come un luogo connesso ad attività forse collettive, data anche la mancanza negli strati di vita di particolari marcatori sociali. All’interno della capanna come nello spazio aperto prospiciente non sono stati rinvenuti luoghi di stoccaggio di cereali e resti carpologici, malgrado la setacciatura dei depositi. Si è inoltre verificata una totale assenza di altri indicatori produttivi. In prossimità del pozzo, invece, è stata rimesso in luce un piano di calpestio che definiva una piccola viabilità di accesso allo stesso pozzo in buona parte costituita da strati di terra mista a reperti ceramici, in maggioranza appartenenti alla classe della vetrina sparsa, rinvenuti anche in altri coevi e vicini depositi stratigrafici. Questo ha consentito il recupero di un numero elevato di frammenti relativi a questa classe ceramica e proprio la loro quantità induce ad ipotizzare la presenza di una struttura produttiva, nella quale si fabbricava questa ceramica, forse locata a poca distanza dal limite di scavo35. Tale ipotesi è supporLe ceramiche a vetrina sparsa sono ora oggetto di una tesi di dottorato ancora in corso di Arianna Briano dal titolo La ceramica a vetrina sparsa nella Toscana altomedievale: produzione, cronologia e distribuzione, svolta all’interno del XXXII ciclo della 35
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tata al momento dalle prime analisi archeometriche degli impasti che confermano una provenienza locale delle materie prime36. La torre che sovrastava tali spazi poteva essere la sede fissa o temporanea di chi controllava tali attività, oltre ad essere uno spazio chiuso e ben difeso dove eventualmente depositare oggetti e merci di rilievo. A Rocca degli Alberti nella porzione settentrionale del recinto si sono rinvenute tracce di un granaio, associato a punti di tostatura dei semi. Le analisi carpologiche dei semi rinvenuti internamente alla struttura hanno rivelato la presenza in maggioranza di grano rispetto alle leguminose. Coevo a questa fase è anche la traccia di un ambiente addossato al muro ovest del recinto (Fig. 4, vedi Tavole a Colori) caratterizzato da un pavimento in malta di calce, funzionale presumibilmente ad un ulteriore punto di stoccaggio forse di cereali come di altre merci di cui però non sono rimaste tracce ben riconoscibili. In recenti contributi si è evidenziato come in questo sito tali strutture di raccolta andarono a sovrapporsi a livelli di vita precedenti collegati a silos di medie dimensioni. Tale preesistenza attesterebbe il passaggio da un sistema di stoccaggio di più lunga durata riservato a più tipi di cereali, ad un altro destinato a specifiche coltivazioni (grano) in ambienti consoni ad una permanenza più limitata in vista di un loro successivo trasporto, forse legato ad esigenze di commercializzazione del prodotto37. A Vetricella la grande quantità di reperti ceramici già rinvenuta nei passati scavi si è arricchita di nuovi, numerosissimi reperti con la campagna 2016 confermando la presenza di resti di molti contenitori da dispensa e quindi da stoccaggio. Allo stesso tempo con le nuove indagini è aumentato il già consistente numero di oggetti in ferro, forse collegato alla presenza di scorie da forgia rinvenute durante le precedenti ricognizioni in aree al di fuori dei limiti circolari. Se gli studi già in atto aiuteranno a stabilire le caratteristiche e le funzioni di questi oggetti, l’abbandono di Vetricella all’XI secolo, conferma sicuramente una datazione di questi reperti perlomeno ad un periodo anteriore a questo secolo. Se un possibile abitato doveva forse trovarsi esternamente ai limiti circolari del sito sinora scavato, la torre al centro poteva svolgere scuola di dottorato in Scienze dell’Antichità e Archeologia, Università di Pisa, Siena, Firenze. Si ringrazia sia Arianna Briano per avermi fornito questi dati, sia Federico Cantini che si è occupato della prima fase dello studio di questi reperti. 36 Grassi, La ceramica, l’alimentazione, l’artigianato, p. 19. 37 Bianchi, Grassi, «Sistemi di stoccaggio».
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le stesse funzioni ipotizzate per quella di Donoratico (a cui si avvicina anche per simili dimensioni). Quindi, riassumendo, un sito analizzato (Rocca Alberti) sarebbe stato forse potenziato e collegato prevalentemente allo stoccaggio di prodotti agricoli, Donoratico a varie attività forse agricole oltre alla produzione specializzata di una classe ceramica; Vetricella allo stoccaggio e circolazione di prodotti ancora da individuare e forse alla produzione di oggetti in metallo. Nulla di nuovo rispetto al quadro delle curtes fiscali sinora tratteggiato da storici ed archeologi? Presi singolarmente questi dati confermano a livello materiale quello che già possiamo trovare, ad esempio, in molti polittici riferibili a curtes fiscali e che Cantini nel suo contributo in questo volume ha ben descritto facendo riferimento ad una vasta bibliografia a cui si rimanda: aziende che fornivano all’ente di riferimento specifici prodotti per il fabbisogno del territorio o nel caso di surplus per essere commerciati in città. I dati in più che possiamo desumere dal quadro di insieme sinora tratteggiato per le Colline Metallifere riguardano i seguenti punti: • la possibile esistenza di un omogeneo programma edilizio, con evidenze simili nei siti indagati (nuove cinte; presenza di torri nel caso di Vetricella e Donoratico; ridotti interni ai nuovi circuiti; medesima organizzazione di cantiere provata dalla presenza dei miscelatori); • la medesima cronologia di attuazione di questo intenso programma al momento circoscritto in particolare nel X secolo, a cui presero parte maestranze specializzate estranee al locale ambiente tecnico; • la scala quantitativa di produzione. Su quest’ultimo punto le informazioni che ci provengono dai siti di Donoratico e Vetricella sono quelle più significative, perché tali quantificazioni sono più difficoltose nel caso di attività legate alle colture cerealicole (il caso di Rocca degli Alberti). Per Donoratico abbiamo supposto la presenza di un forno per la produzione di ceramica a vetrina sparsa. Di questa classe con lo scavo sono stati ritrovati circa 3000 frammenti38. Il dato acquisisce significato solo Si ringrazia ancora una volta Arianna Briano per aver fornito questi dati pertinenti il suo dottorato di ricerca. Per un primo resoconto di questo studio si rimanda a A. Briano, E. Ponta, L. Russo, «Circolazione e produzioni ceramiche 38
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se inserito in un contesto, come questo delle Colline Metallifere, dove è possibile confrontarlo con la quantità di frammenti ritrovata in 7 siti con sequenze rapportabili all’altomedioevo. Ebbene in tutti i contesti comparati si registra la presenza di un numero in genere compreso tra 1 e 96 frammenti39. Una quantità davvero esigua se rapportata ai circa 3000 frammenti di Donoratico. La stessa evidenza emerge per il sito di Vetricella per il quale possiamo fare lo stesso confronto per ora limitandoci agli oggetti metallici ritrovati. Senza entrare nel dettaglio di questa classe di reperti a cui saranno dedicati prossimi studi ed edizioni dei dati, alla già notevole quantità di oggetti prevalentemente rinvenuti nei primi sondaggi di scavo oggi si aggiungono i quantitativi emersi con il recente scavo. Centinaia a centinaia di reperti in ferro sono rapportabili ad oggetti di differente tipologia (da chiodi a strumenti di vario tipo e funzione) con tutta probabilità fabbricati nel sito in un periodo antecedente l’XI secolo (quando il sito fu abbandonato)40. I recenti repertori di tali oggetti riferibili a singoli contesti di indagine od a territori più ampi all’interno delle Colline Metallifere (quindi anche interni alle aree minerarie ricche di ferro) attestano in generale una pressochè totale assenza di oggetti metallici riferibili ad un periodo anteriore al Mille41. Pochissimi reperti in media per siti anche scavati in estensione contro le centinaia di reperti trovati nella prime campagne di scavo a Vetricella e quindi destinati ad aumentare di numero con il proseguimento della ricerca. Dati questi, quindi, molto significativi che aggiungono un ulteriore elemento caratterizzante: la scala di produzione molto alta. nelle campagne: le Colline Metallifere e l’area grossetana», in Bianchi, Hodges, Origins of a new economic union. 39 In particolare facciamo riferimento ai siti di Rocca San Silvestro; Castel di Pietra; Scarlino; Rocchette Pannocchieschi; Cugnano; Populonia; Campiglia. È in quest’ultimo sito che si registra il più alto numero di frammenti, mentre è a Castel di Pietra che è attestato il più basso con un solo frammento di vetrina sparsa. Tutti i dati sono tratti da Grassi La ceramica, l’alimentazione, l’artigianato, pp. 19-20 e pp. 105-39. 40 Si ringrazia John Mitchell ed Alexander Agostini per il preliminare conteggio e studio di questi reperti. 41 Si fa riferimento ai cataloghi presentati da Maddalena Belli nella sua tesi di dottorato dal titolo Produzione, circolazione e consumo di manufatti metallici nella Toscana meridionale del Medioevo (secoli IX-XIV), Dottorato di ricerca in Archeologia Medievale, XVII ciclo, tutor R. Francovich.
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La comparazione con quanto prodotto in questi siti e quanto invece ritrovato negli altri insediamenti coevi di questo territorio pone poi un altro quesito: se tali prodotti (in questo caso vetrina sparsa e oggetti metallici) erano poi smerciati in minima parte nei territori limitrofi dove allora era diretta la maggioranza di questa produzione? Verso le città di riferimento, come Lucca, verso altri territori rurali, verso rotte commerciali di cui al momento ci sfuggono le modalità, le destinazioni e l’entità? Sicuramente, con in mente queste domande, in un immediato futuro le analisi archeometriche saranno essenziali ad esempio per una comparazione tra le aree di provenienza dei materiali e tra le tecniche di fabbricazione di reperti trovati anche in ambiti geografici distanti della Tuscia ma caratterizzati da beni fiscali. 6. Siti ‘fuori scala’ e non. Cultura materiale e cambiamenti del paesaggio naturale In ogni caso simili considerazioni rimandano ancora una volta al ruolo strategico di questi siti che abbiamo definito ‘fuori scala’ sia nella produzione, sia anche nel legame con meccanismi di scambi e commerci che in parte dovettero svolgersi al di fuori dell’area esaminata, visto che il portato di questa circolazione non ebbe una forte ricaduta nell’area delle stesse Colline Metallifere. La cultura materiale degli altri numerosi siti sinora indagati in questo territorio, infatti, non mostra particolari produzioni o segni di marcata distinzione sociale in relazione all’arco cronologico qui esaminato. Il corredo ceramico in genere era rappresentato da ceramica in acroma grezza o depurata prodotta localmente. Gli unici prodotti che nel X secolo forse cominciano ad arrivare in questo territorio in numero tale da non essere ricondotti a scambi episodici sono le depurate con colature di ingobbio rosso fabbricate nella valle dell’Arno42. Per il resto annoveriamo pochissime ceramiche di importazione riconducibili a rari frammenti di forum ware (individuata a Populonia, Scarlino, la stessa Vetricella e podere Aione) poiché è solo dall’XI secolo avanzato che
A riguardo di queste possibili importazioni, le prime analisi archeometriche non hanno però fornito risultati dirimenti riguardo alla fabbricazione locale di queste ceramiche od alla loro produzione e poi importazione dall’area del Valdarno, Grassi La ceramica, l’alimentazione, l’artigianato, pp. 22-4.
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ceramiche provenienti dall’area tirrenica e mediterranea cominciano di nuovo a circolare in questi territori43. In ogni caso, se, come ha ipotizzato Francesca Grassi, la maggioranza della fabbricazione di acroma grezza e depurata poteva avvenire in prossimità degli stessi siti, in questo territorio vi erano dei luoghi di produzioni esterni agli stessi. Uno di questi era posto in pianura in prossimità di Roccastrada dove, tra VI ed XI secolo furono prodotte con continuità ceramiche in acroma grezza e depurata di cui le analisi archeometriche hanno attestato la distribuzione perlomeno a Montemassi, Scarlino e forse Castel di Pietra. Sempre in questo territorio doveva essere attivo un atelier che produceva tra VIII e X secolo piccoli contenitori da stoccaggio e forse trasporto ritrovati in più siti di questo territorio sia dell’interno che della costa. Il futuro studio archeometrico consentirà di stabilire la loro più precisa datazione, la provenienza delle materie prime impiegate e di conseguenza possibili insiemi in rapporto alle aree di produzione. Dalle preliminari analisi sappiamo intanto che alcune di queste ceramiche hanno il medesimo impasto di olle e testelli ritrovati a Scarlino e Rocchette Pannocchieschi44. Se quindi da un lato verifichiamo produzioni che non ebbero un grande riflesso sulla cultura materiale di quest’area (es. la ceramica a vetrina sparsa), dall’altro troviamo qui attestati reperti di fabbricazione locale in specifici ateliers di lunga durata, pensati per approvvigionare le diverse comunità all’interno di scambi interni. Per quanto riguarda le coeve trasformazioni del paesaggio e delle colture, come abbiamo già scritto, un possibile aumento e razionalizzazione delle colture cerealicole, in particolare del grano nel X secolo è attestato dai resti carpologici e dai punti di stoccaggio ritrovati durante le indagini archeologiche. Una intensificazione dello sfruttamento delle coltivazioni nelle fertili pianure retrostanti la costa potrebbe essere inGrassi La ceramica, l’alimentazione, l’artigianato; F. Cantini, «Produzioni ceramiche ed economie in Italia centro-settentrionale», in Valenti, Wickham, Italy 888-962, pp. 341-64. 44 Sia per la fornace di Roccastrada, sia per i dati sui contenitori da trasporto si rimanda ancora a Grassi La ceramica, l’alimentazione, l’artigianato, pp. 12-25; per i contenitori da trasporto e la loro diffusione nelle area a sud delle Colline Metallifere si rimanda a E. Vaccaro, «Ceramic production and trade in Tuscany (3rd-mid 9th c. AD)», in E. Cirelli, F. Diosono. H. Patterson (a cura di), Le forme della crisi. Produzioni ceramiche e commerci nell’Italia centrale tra Romani e Longobardi (IIIVIII sec. D. C.), Città di Castello, 2015, pp. 202-10. 43
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direttamente provata anche dal ritrovamento di carboni all’interno del paleoalveo del fiume Pecora (che scorreva non lontano da Vetricella) dei quali l’insieme più consistente è databile tra fine IX e X secolo. In base alle analisi archeobotaniche i carboni si sarebbero formati a seguito di probabili incendi delle aree prossime al fiume, avvenuti a causa della ricerca di spazi coltivabili45. La ricerca archeobotanica attesta sempre dal X secolo l’inizio di una graduale affermazione dell’olivo e del castagno per fini alimentari46. Allo stesso tempo si registra in tutto il territorio la persistenza e, quindi, la relativa manutenzione, delle aree boscose dell’interno formate soprattutto da querce caducifoglie, attenzione forse legata a mantenere una sostenibilità ecologica a fronte della richiesta di combustibile per le attività connesse in maggioranza alle metallurgia47. Proprio in relazione a queste ultime attività i dati per ora emersi a seguito della recente campagna di indagini a Vetricella, sembrano confermare il legame tra l’interno dove sono stati scavati siti con sequenze di vita a partire dall’VIII secolo (Rocchette Pannocchieschi e Cugnano) posti vicino a aree minerarie dove avveniva l’estrazione delle materie prime, con la zona di mezza collina e costiera dove forse avvenivano gli ulteriori processi di riduzione del minerale e forse anche di fabbricazione ultima di oggetti (come nel caso di Vetricella) 48. Il proseguimento del progetto europeo “nEU-Med” consentirà di stabilire quali fossero i principali minerali sfruttati in questo periodo e se l’ipotesi di una attenzione verso quelli monetabili debba essere rivista a favore di un maggiore sfruttamento dei minerali ferrosi. Sono questi gli esiti di una ricerca geoarcheologica e archeobotanica condotta all’interno del progetto europeo “nEU-Med” (vedi a riguardo nota 10) da Pierluigi Pieruccini e Gaetano Di Pasquale con le rispettive equipe in occasione di un ampio scasso effettuato dal Consorzio Bonifiche della Maremma per la realizzazione di una vasca accessoria al fiume Pecora, che ha consentito di riconoscere nelle sezioni così ricavate le tracce del paleoalveo. Per un primo resoconto di queste ricerche si rimanda a P. Pieruccini, G. Di Pasquale, M. Buonincontri, M. Rossi, D. Susini, «Changing landscapes in the CollineMetallifere (Southern Tuscany, Italy): Early Medieval palaeohydrology and land management», in Bianchi, Hodges, Origins of a new economic union. 46 Di Pasquale et al., «Human-derived landscape changes». 47 Oltre che dal lavoro citato alla nota precedente, tali considerazioni emergono anche dall’elaborazione della tesi di laurea magistrale di M. Rossi, La ricostruzione del paesaggio forestale di Rocca degli Alberti (Monterotondo Marittimo), discussa nell’ a.a. 2015-16, relatore G. Bianchi, correlatore G. Di Pasquale. 48 Bianchi, «Public powers, private powers». 45
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In ogni caso appare abbastanza chiaro come la vicinanza cronologica di questa serie di elementi sopradescritti riconduca all’ipotesi di un sistema caratterizzato da trasformazioni a più ampia scala, avvenute nel corso del X secolo, che riguardarono non solo gli insediamenti ma anche i paesaggi in un macro territorio compreso tra interno ed area costiera, caratterizzato da ampi beni fiscali. 7. Circoscrivere le cronologie. Prima e dopo il X secolo Tale cambiamento acquisisce valore se confrontato con quanto accadde prima e dopo. Prima della fine del IX secolo, la ricerca archeologica attesta la presenza di abitati di limitate dimensioni, in massima parte gestite dalle locali comunità spesso legate in forma di patronato ai principali attori politici del tempo, rappresentati in questo arco cronologico dal vescovo di Lucca, re, duchi o conti, dal monastero di Monteverdi. La cultura materiale, come abbiamo già scritto, era caratterizzata da produzioni locali e da un numero limitato di scambi inter ed extra regionali49. Le trasformazioni di fine IX-X secolo non sembrano modificare radicalmente il panorama della cultura materiale e gli assetti abitativi dei siti non toccati da questi cambiamenti. È solo, invece, verso la fine del X secolo e gli inizi del successivo che possiamo cogliere delle modifiche più evidenti che si collocano in maniera più calzante nel processo di formazione delle signorie territoriali. A quest’ultimo processo deve essere rapportato presumibilmente il sito di Scarlino, curtis legata al patrimonio privato degli Aldobrandeschi, le trasformazioni di inizio XI evidenti nella Rocca di Campiglia o in quella di Suvereto; i cambiamenti registrabili nel sito di Montemassi sempre legato agli Aldobrandeschi oppure la comparsa di monasteri familiari, come quelli fondati dai Della Gherardesca o della canonica rurale di S. Niccolò a Montieri (Fig. 1) legata al vescovo di Volterra50. È questo, evidentemente il portato delle precedenti trasformazioni di fine IX-X secolo che favorì il consolidamento dei patrimoni privati dei casati che vi avevano partecipato
Per un recente quadro generale sul territorio in questo periodo si rimanda a G. Bianchi, «Recenti ricerche nelle Colline Metallifere ed alcune riflessioni sul modello toscano», Archeologia Medievale, 62, 2015, pp. 9-26. 50 Per un quadro generale e di maggiore dettaglio si rimanda ancora a Bianchi, «Recenti ricerche nelle Colline Metallifere». 49
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in virtù del ruolo pubblico di alcuni dei loro esponenti e l’emergere di soggetti minori legati da variabili rapporti con questi ultimi che, soprattutto a partire dall’XI secolo avanzato, formarono quella fitta rete di soggetti costituita da aristocrazie minori e elites locali protagonista nella fondazione di molti castelli. Nelle Colline Metallifere il X secolo rappresenterebbe, quindi, una sorta di anello di congiunzione, in cui possibili condizioni di gestione e sfruttamento delle risorse territoriali avrebbero avuto una sorta di forte accelerazione nei siti qui definiti ‘fuori scala’ che ebbe come seguito più evidente la nascita dei castelli nelle campagne e l’affermazione delle signorie territoriali. Parlare di un interconnesso sistema di sfruttamento di risorse e scambi a livello macroterritoriale non è una novità ed il dinamismo del sistema curtense da alcuni studiosi è stato individuato come una delle possibili cause della crescita economica sin dall’VIII secolo. La novità desumibile dal dato materiale può essere riscontrata, invece, nel fatto che in un determinato momento, circoscrivibile soprattutto al pieno X secolo, alcuni di questi centri curtensi furono notevolmente potenziati in tempi ravvicinati o simultanei e questo avvenne in particolare in siti inseriti in beni fiscali di notevole entità all’interno di un paesaggio naturale e forestale soggetto a importanti trasformazioni. L’altra novità è che i siti così potenziati furono al centro di produzioni specializzate ad ampia scala legate allo sfruttamento di specifiche risorse del territorio. La produzione di tali centri si legò quindi all’esistenza di un più ampio sistema controllato dall’autorità pubblica esteso a buona parte del territorio delle Colline Metallifere alimentato dalle attività di comunità già residenti nei villaggi di altura o di pianura. 8. Oltre le Colline Metallifere. Possibili comparazioni Se rileggiamo alcuni dati archeologici possiamo ipotizzare che una simile organizzazione produttiva-commerciale fosse presente anche in altri comprensori della Tuscia altomedievale. Recenti ricerche nell’area intorno all’antica città di Roselle posta non distante dall’originario lago Prile, dove nella porzione settentrionale si sviluppò l’attuale centro di Grosseto, rivelano la presenza nell’altomedioevo di centri di altura ma anche nella fertile pianura sviluppatisi prossima alle importanti saline del Prile. L’uso della magnetometria in maniera estensiva ed intensiva ha rivelato chiare tracce di parcellizzazioni che potrebbero essere collegate alla formazione di un sistema di
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siti caratterizzato dalla presenza di dossi circondati da fossati o canalizzazioni. In uno di questi il survey ha evidenziato la presenza di reperti ceramici di superficie inseribili in un range cronologico compreso tra IX e X secolo. La rielaborazione dei dati acquisiti con lo scavo di uno di questi siti avvenuto nell’estate 2017, chiarirà il legame anche cronologico di queste importanti evidenze51. Colpiscono sicuramente le similitudini tra questa e l’area esaminata in questo contributo: medesime dinamiche di popolamento; analogie nel paesaggio fisico; simili tipologie insediative che trovano un diretto confronto con il sito di Vetricella; presenza anche in questo caso di ampi beni fiscali confluiti nei secoli centrali del Medioevo in buona parte del patrimonio della famiglia Aldobrandeschi, che proprio nel corso dell’XI secolo preferì lasciare le aree più a nord della Maremma per concentrare i propri interessi in questa porzione meridionale della Tuscia. Ci auguriamo che gli sviluppi della ricerca in questo territorio e la comparazione tra questi ed i dati che saranno raccolti in occasione dello svolgimento del progetto “nEU-Med” chiariscano se anche per questo territorio sia possibile ipotizzare azioni omogenee e pianificate di trasformazioni dei paesaggi e potenziamento della vocazione economica di certi siti. Sicuramente più maturi sono i dati relativi all’area del Valdarno pisano dove da anni Cantini sta conducendo ricerche sistematiche. Come è possibile leggere anche nel contributo presente in questo volume l’area valdarnese, caratterizzata da ampi beni fiscali, era al centro di un più complesso sistema produttivo destinato a servire Lucca ed il nascente centro urbano di Pisa. All’interno di tale sistema S.Genesio, curtis marchionale, era sicuramente uno di quei siti ‘fuori scala’ per assetto insediativo e vocazione economica. A livello di evidenze materiali questa rete di rapporti è bene evidenziata dall’analisi della produzione e della circolazione ceramica. A partire dalla fine del IX secolo, ceramiche depurate a colature rosse prodotte nell’area valdarnese erano presenti oltre che nel territorio, anche nei corredi domestici pisani. La loro circolazione è inoltre ipotizzata nell’area delle Colline Metallifere52. Ceramica da
S. Campana, «Emptyscapes: filling an ‘empty’ Mediterranean landscape at Rusellae, Italy», Antiquity, Vol: 91, Issue: 359, October, 2017, pp. 1223-40. 52 Le prime analisi archeometriche degli impasti attestano una possibile provenienza delle materie prime sia dall’ambito locale, sia da quello del Valdarno, Grassi La ceramica, l’alimentazione, l’artigianato, pp. 22-4. 51
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fuoco e da dispensa come olle e brocche presenti a Pisa e Lucca erano fabbricate da artigiani che pur approvvigionandosi di materie prime in luoghi diversi dell’area valdarnese e dei monti pisani facevano riferimento alle medesime tecnologie di produzione53. Evidenze, queste, che attestano una specifica circolazione di conoscenze tecnologiche, che nell’area delle Colline Metallifere abbiamo ben riconosciuto nella produzione edilizia e nella presenza coeva di più miscelatori da malta. Centri di produzione di ceramica a vetrina sparsa sono poi stati ipotizzati nel nord della Tuscia a testimonianza di atelier specializzati inseriti all’interno di altri comprensori produttivi esistenti forse oltre quello del Valdarno, che si ipotizza rifornissero di questa ceramica sia Lucca sia Pistoia54. 9. La Marca di Tuscia nel X secolo tra contesto politico e processi di crescita economica Produzioni e scambi sono caratteristiche proprie di sistemi economici. A quale scala possiamo però fare riferimento e quale possibile impatto poterono avere i cosidetti ‘siti fuori scala’ e lo sfruttamento dei loro territori nella generale crescita economica del tempo? L’organizzazione di questo supposto sistema nelle Colline Metallifere avvenne nel corso in particolare del X secolo a cavallo quindi tra la dominazione dei cosiddetti re italici e l’età ottoniana. Nelle economie del regno italico sino ad oggi tratteggiate da storici e archeologi, il X secolo si configura come una fase di lenta ripresa ancora caratterizzata da scambi interregionali, una cultura materiale non particolarmente ricca e limitati accrescimenti od interventi considerevoli nei diversi contesti urbani, dove l’archeologia ancora fatica ad individuare chiare fasi relative a questo periodo55. Il X secolo coinciderebbe, pertanto, con una fase di trasformazione soprattutto di tipo politico-istituzionale: lo sviluppo della signoria
In ultimo si veda F. Cantini, «Forme, dimensioni e logiche della produzione nel Medioevo: tendenze generali per L’Italia centrale tra V e XV secolo», in A. Molinari, R. Santangeli Valenzani, L. Spera (a cura di), L’archeologia della produzione a Roma (secoli V-XVI), Bari, 2015, pp. 503-20. 54 Grassi La ceramica, l’alimentazione, l’artigianato, p. 19. 55 Per una serie di interventi di sintesi su questi temi si rimanda ai contributi contenuti in Valenti, Wickham (eds.), Italy, 888-962. 53
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territoriale all’interno del passaggio dall’età carolingia, ai re italici, alla dominazione ottoniana. La più recente storiografia dedicata al regno italico ha ormai evidenziato come uno degli stimoli più importanti alla formazione della signoria territoriale sia stata la politica, attuata da Berengario I in poi, di promulgare una serie di concessioni in modo da creare una rete di relazioni e di alleanze tra re e le più eminenti aristocrazie laiche ed ecclesiastiche56. In questo quadro, sempre molto concentrato sui destini delle signorie, le istituzioni pubbliche avrebbero costituito uno sfondo istituzionale che avrebbe avuto solo in parte un ruolo attivo soprattutto nel sollecitare la crescita economica. Per la Marca di Tuscia Keller ha sottolineato come il ruolo perlomeno di alcuni re ebbe un peso nel riconfigurare l’esercizio di determinati poteri57. Se, infatti, con la corte di Adalberto II e della moglie Berta i marchesi raggiunsero una posizione autonoma nei confronti del governo centrale rispetto alla precedente età carolingia, con Ugo di Provenza si assiste, secondo Keller, ad un tentativo del re di collocare il marchese nel ruolo di intermediario tra governo centrale e forze politiche locali. Tale proposito fu attuato esercitando una più forte ingerenza nelle politiche della marca, con la conseguente scelta da parte di Ugo del marchese (il fratello Bosone), con il porsi a capo del ceto dirigente di Lucca e con la trasformazione della corte ducale lucchese in regia, dove Ugo risiedette e fece di nuovo coniare moneta dopo un periodo di inattività della zecca cittadina. Ciò andò di pari passo con una politica di più ampio respiro nella gestione delle aree economicamente di maggior rilievo del regno (per risorse, viabilità etc) attraverso politiche accorte, incluse quelle matrimoniali che ebbero come esito più noto il già citato dotario a Berta ed alla figlia di lei Adelaide. Se il progetto di Ugo di estendere a tutto il regno italico il modello che attuò nella Tuscia non ebbe stabilità e seguito, il ruolo di forti intermediari tra re e poteri locali dei marchesi di Tuscia rimase ben saldo anche in età ottoniana, quando il governo
G. Sergi, I confini del potere. Marche e signorie fra due regni medievali, Torino, 1995; P. Cammarosano, Nobili e re. L’Italia politica nell’Alto Medioevo, RomaBari, 1998; L. Provero, L’Italia dei poteri locali, Roma, 1998; B.H. Rosenwein, «The family politics of Berengar I, King of Italy (888-924)», Speculum, 71, 1996, pp. 247-89. 57 H. Keller, «La marca di Tuscia fino all’anno mille», in Lucca e la Tuscia nell’alto medioevo, Spoleto, 1973 (CISAM, 5), pp. 117-42. 56
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della Marca fu nelle mani dello stesso marchese, Ugo, in concomitanza con l’avvicendarsi al potere di Ottone I, II e III. Ad Ugo, “rappresentante del potere centrale ed al tempo stesso personificazione della Tuscia di fronte al potere regio”58, fu consentito di usufruire di poteri regi e di risiedere nella curtis regia di Lucca, oltre che coniare moneta. Nella Tuscia, all’interno di un spazio politico unitario, questo stretto rapporto tra governo centrale, locale e relative aristocrazie ad esso collegate, all’interno di una comune strategia economica con però un coordinamento regio, potrebbe essere pertanto il tratto dominante di buona parte del X secolo che interessò sia le dinamiche insediative sia quelle economiche. Tratto dominante che differenzierebbe in maniera sostanziale questo periodo dalla precedente età carolingia, durante la quale la mancata compresenza a larga scala di questi fattori avrebbe avuto come conseguenza relativi cambi di strategie politiche ed economiche nella gestione dei beni fondiari, come anche testimoniato dalle evidenze archeologiche59. Sono queste le condizioni politiche alla base delle trasformazioni che leggiamo nelle Colline Metallifere? 10. Possibili considerazioni conclusive In base a quanto descritto nei precedenti paragrafi, perlomeno per le Colline Metallifere, si verrebbe a delineare un quadro in relazione al quale lo sviluppo insediativo ed economico dei cosiddetti siti ‘fuori scala’, si collocherebbe all’interno di strategie ben coordinate dal potere pubblico, perlomeno dal tempo di Ugo di Provenza sino agli Ottoni in stretta connessione con i marchesi di Tuscia. Siamo perciò ben lontani dalla visione di Tabacco di un potere regio che pur appoggiando un processo spontaneo di costruzione di fortificazioni lo fece “non secondo un piano generale suo proprio ma via via come risposta a forze particolari radicate nel territorio” ed in cui persino le fortezze erette in terra fiscale “sorsero Ibidem, p. 135 Per un generale quadro politico-istituzionale in età carolingia si rimanda ancora a Keller, La marca di Tuscia, inoltre si veda M. Nobili, «Le famiglie marchionali nella Tuscia», in I ceti dirigenti in Toscana nell’età precomunale, Pisa, 1981, pp. 79-105; per uno specifico riferimento alle diverse tipologie di élites della Tuscia ed alle loro cronologie di sviluppo e trasformazione, S.M. Collavini, «Spazi politici e irraggiamento sociale delle élites laiche intermedie (Italia centrale, secoli VIII-X)», in P. Depreux, F. Bougard, R. Le Jan, (dir.), Les élites et leurs espaces: mobilité, rayonnement, domination (du VIe au XIe siècle), Turnhout, 2007, pp. 319-40.
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senza alcuna sistematicità per immediata esigenza locale”60. Le evidenze materiali prefigurano però anche un scenario storico un poco diverso rispetto alla più recente storiografia che ad esempio ha letto la formazione o lo sviluppo di centri fortificati nel X secolo come l’esito dei nuovi poteri signorili61. I dati materiali sembrano testimoniare che le prime fortificazioni e le trasformazioni legate all’azione di un potere pubblico furono, semmai, i presupposti per lo sviluppo dei poteri signorili e tale crescita fu in molti casi commisurata a quanto l’azione delle nascenti signorie si inserì nella più ampia strategia pubblica di rafforzamento del sistema di controllo soprattutto delle risorse e della produttività. Non è un caso, così come si è ricordato più volte in questo contributo, che gli insediamenti ed i territori dove si è registrata un’azione molto incisiva fossero in aree fiscali o legati a soggetti con forte fisionomia pubblica che potevano avere beneficiato di ampie concessioni di terre fiscali. In questo quadro il potere pubblico non avrebbe però avuto un ruolo esclusivo nel dettare e far rispettare le regole del gioco economico, dal momento che la buona riuscita di questa operazione sarebbe dipesa dallo stretto legame tra quest’ultimo e le aristocrazie nel perseguire comuni intenti ma anche dal ruolo attivo di quelle comunità locali, che pur ancora non socialmente troppo differenziate, l’archeologia, ma anche le fonti scritte, ci mostrano particolarmente attive nel territorio da noi esaminato62. Le concessioni in varie aree del centro-nord Italia attuate sotto i re di Italia, da Berengario I al già citato Ugo di Provenza di diritti di mercato, di pedaggio di realizzazione di strade andrebbero, quindi, di pari passo nel caso specifico delle Colline Metallifere, con una strategia regia di rafforzamento di specifici nodi commerciali o produttivi interni al grande patrimonio fiscale di cui Vetricella, Rocca degli Alberti e Donoratico nelle Colline Metallifere ma anche San Genesio nel Valdarno potrebbero raffigurarsi come gli esempi materialmente più chiari. Questi centri, in alcuni casi facenti parte del patrimonio fiscale inalienabile, in altri rapportabili alla gestione di intermediari del potere pubblico, potrebbero rappresentare i punti focali di un sistema economico più esteso e connesso. G. Tabacco, «Regno, impero e aristocrazie nell’Italia postcarolingia», in Il secolo di ferro: Mito e realtà del secolo X, Spoleto, 1991 (Settimane di studio CISAM, 38), vol. I, pp. 243-69, citazione alle pp. 253-4. 61 A tale proposito si rimanda alla bibliografia citata alla nota 56. 62 Bianchi, «Recenti ricerche nelle Colline Metallifere». 60
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Le campagne di X secolo costituirebbero, pertanto, i luoghi dove si sarebbero creati i presupposti per una crescita non solo agricola, ma anche di produzioni specializzate alla base di nuovi scambi che avrebbero equilibrato maggiormente il rapporto città-campagna. Per la Tuscia o perlomeno per le Colline Metallifere ‘l’ombrello’ di un potere regio o imperiale a protezione ed incentivo di tali attività avrebbe favorito un possibile abbassamento dei costi di transizione e di trasporto a favore di uno sviluppo commerciale di cui avrebbero beneficiato, in un tempo immediatamente successivo, in primo luogo gli intermediari di tale potere, ovvero le future signorie territoriali oltre le stesse comunità locali. La possibile esistenza di tali sistemi economici-produttivi, relativi ad aree geografiche diverse ma comunque in qualche modo accomunate da molte caratteristiche e da contatti (come nel caso delle Colline Metallifere e del Valdarno), potrebbero avere rappresentato l’elemento in grado di accelerare in maniera considerevole la crescita economica. Dati provenienti dalla ricerca interdisciplinare sulle evidenze materiali pertinenti un territorio relativamente ampio come quello delle Colline Metallifere, che pur possono trovare confronti con altre aree della Tuscia, non sono chiaramente sufficienti per essere generalizzati allo stesso contesto toscano e non. Forse il riconoscimento in altre aree del regno italico di siti identificabili come ‘fuori scala’ secondo i parametri applicati a quelli del territorio esaminato, potrebbe indicare importanti analogie con i comprensori analizzati. Evidenziare però il collegamento tra potere pubblico e coordinamento incisivo degli spazi fiscali in relazione allo sfruttamento delle loro risorse, perlomeno per il nostro caso studio, può essere forse un primo passo per individuare, nel complesso sistema della crescita economica, un attore fondamentale seppure non esclusivo63. Ciò tenendo presente che dai poteri pubblici la scena fu dominata in modo così pervasivo in un periodo di tempo ristretto, coincidente di fatto con il X-inizi XI secolo e quindi precedente al conclamato sviluppo economico di fine XI e soprattutto XII secolo.
Per una generale panoramica degli studi su questo tema e sulle ipotesi dei vari attori coinvolti si rimanda alla recenti sintesi in F. Franceschi, «La crescita economica dell’Occidente medievale: un tema storico non ancora esaurito. Introduzione», in La crescita economica dell’Occidente medievale: un tema storico non ancora esaurito, XXV Convegno internazionale di studi, Pistoia 14-17 maggio 2015, Roma, 2017, pp. 1-24.
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Nel territorio esaminato già nel corso del primo XI secolo e, non a caso con il venir meno della marca di Tuscia, questo attore sembra avere perso il suo ruolo di coordinatore a vantaggio degli altri attori minori che già questa scena la calcavano da tempo. La riprova di questo sono, ad esempio, le drastiche trasformazioni nei siti di Donoratico e Rocca degli Alberti che nell’XI secolo ebbero una sorta di stasi nelle sequenze di vita, per poi riattivarsi sotto il controllo di nuove signorie od il destino del supposto sito regio di Vetricella, definitivamente abbandonato già nel corso dell’XI secolo. Sono questi chiari segnali del crepuscolo di un sistema economico e del preludio ad un mondo nuovo dominato dalle strategie economiche delle signorie locali laiche ed ecclesiastiche, spesso in accordo con le nuove realtà politiche urbane che sin dall’XI secolo, almeno in questo territorio, cominciarono a muovere i loro primi passi verso la conquista del contado.
Irene Barbiera Sudata marito fibula: oggetti di prestigio e identità di genere tra pubblico e privato in età tardo antica e altomedievale
“Dic mihi simpliciter, fibula, quid prestas?” In una lettera del 370, Girolamo racconta la storia di un miracolo avvenuto a Vercelli. Una pia donna cristiana fu accusata ingiustamente di adulterio; al momento dell’esecuzione la spada maneggiata dal boia che tentava di ucciderla s’arrestò al contatto col corpo della donna in preghiera. Allora, scrive Girolamo, il littore si infuria, sbuffa, getta il mantello dietro le spalle... Ma nel concentrare tutte le forze fa saltare via la fibula d’oro che ferma i capi della sua clamide. Non se n’è accorto, ma mentre brandisce la spada per ferire, la donna grida: Ex umero aurum ruit. Collige multo quaesitum labore, ne pereat, “Attento, il tuo oro è caduto dalla spalla, raccoglilo: è il frutto di molto lavoro, che non vada perduto!”1 Commenta Girolamo nella lettera: Sai dirmi cosa significa codesta sicurezza? La donna non ha paura della morte che la sovrasta, e gioisce sotto le percosse, mentre il carnefice impallidisce. Quegli occhi che non si curano della spada scorgono la fibula; lei non solo non teme la morte ma vuole rendere un servizio a quel barbaro. Così anche il terzo colpo cade a vuoto2.
La fibula, multo quaesitum labore, cade lasciando il boia privo della possibilità di portare a termine il suo compito, perdendo il suo potere di vita e morte sulla donna. Prendendo spunto da questa narrazione, vorrei in questo contributo proporre alcune considerazioni sull’uso e sul significato sociale e di genere delle fibule in contesto pubblico e privato. Cercherò di
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Hieronymus, Epistulae, 1, ed. S. Cola, Roma, 1961, epist. 1. Ibid.
Spazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 327-341 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116190
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individuare, in una prospettiva post-processuale3, qual era il ruolo ideologico svolto da questi oggetti e in che modo essi erano impiegati attivamente e consapevolmente per definire specifici ruoli sociali. Come è stato sottolineato da Ian Hodder4, tutti gli aspetti che compongono la cultura materiale sono polisemici in quanto possono assumere un diverso significato e simboleggiare diverse identità a seconda dei contesti. In tal modo, uno stesso oggetto può assumere diverso valore in diversi momenti o ambiti. Inoltre, i manufatti non sono soltanto depositari dei diversi significati che vengono loro attribuiti al momento della produzione e della fruizione, ma poiché essi stessi possono interagire con la realtà, vanno assumendo attraverso le pratiche sociali nuovi significati che a loro volta condizionano interpretazioni e pratiche successive5. Come dimostrerò in questo studio, le fibule sono emblematiche di questi diversi processi: indossate in contesto pubblico esse sono lo specchio della buona o della cattiva condotta di imperatori e personaggi politici, ma allo stesso tempo la loro deposizione nelle sepolture le rende oggetti di prestigio che fungono da ponte tra la sfera privata e quella pubblica. Seguire dunque i movimenti di questi oggetti nei diversi contesti pubblici e privati e in una dimensione di genere offre un quadro articolato e complesso del loro valore sociale. L’analisi dello spazio permette di delineare la specifica cornice delle relazioni sociali entro cui oggetti e fruitori si muovono, sarà così possibile cogliere il significato simbolico che uno stesso oggetto poteva assumere in diversi contesti e momenti. Se le analisi delle fibule si sono limitate fino ad ora a indagare separatamente diversi contesti e fasi cronologiche, il mio intento è invece quello di seguire in modo ampio tutti i movimenti dell’oggetto che gli antichi chiamavano fibula, che gli antichisti italiani contemporanei traducono con il termine ‘fibbia’ e i medievisti con quello di ‘fibula’; che gli inglesi traducono indistintamente con il vocabolo brooch. Quell’oggetto che, pur cambiando forme e stili, ricorre nei depositi archeologici dall’antichità al medioevo, e che gli archeologi classici
M. Dieter, I. Herbich, «Habitus, Techniques, Style: An Integrated approach to the Social Understanding of Material Culture and Boundaries», in M. Stark (ed.), The Archaeology of Social Boundaries, Washington D.C., 1998, pp. 232-63. 4 I. Hodder, Theory and practice in Archaeology, London-New York, 1992, p. 11. 5 S. Jones, The archaeology of Ethnicity. Constructing identities in the past and present, London-New York, 1997. 3
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associano principalmente al ruolo di militari6, mentre gli archeologi medievisti a quello di donne straniere venute da lontano7. Ispirandomi ad un epigramma di Marziale che recita: “Dic mihi simpliciter, [...] fibula, quid prestas?”, cercherò di lasciare da parte i vari dibattiti ideologici che gli archeologi contemporanei hanno sollevato intorno a questi oggetti e tenterò di considerare le trasformazioni dell’uso, del significato e del valore di genere delle fibule dall’antichità all’alto medioevo. Per fare ciò userò sia la documentazione archeologica funeraria che quella delle fonti scritte. Come emergerà da questa analisi, i due tipi di fonte offrono due immagini diverse e almeno apparentemente contrastanti della percezione che nel mondo antico e medievale si aveva di questi oggetti. Le fibule in contesto archeologico Vediamo quali trends sono individuabili dai dati archeologici nel lungo periodo e quali trasformazioni emergono nell’uso di genere e nel significato di status di questi oggetti. L’area d’indagine è l’Italia settentrionale. Qui ho raccolto i dati relativi a 70 siti, per un totale di 6.111 tombe, datati tra il I secolo a. C. e il IX secolo d.C., di questi però soltanto per 40 necropoli sono disponibili i dati delle analisi antropologiche, sono quindi questi i dati che ho potuto considerare ai fini di uno studi più strettamente di genere (Fig. 1). Dalla figura emerge che fino al secondo secolo le fibule erano deposte più o meno indistintamente in sepolture maschili, femminili e infantili (che includono anche le sepolture giovanili, spesso accomunate nella categoria dei sub-adulti). Si datano a questa fase diversi tipi di fibule, alcune erano preferibilmente deposte in tombe maschili, altre in quelle femminili, ma il loro uso non era mai esclusivo. Per esempio, le fibule celtiche sono per lo più diffuse indistintamente in sepolture maschili e femminili, tra queste il tipo chiamato Distelfibel è più frequentemente, ma non esclusivamente,
D. Janes, «The golden claps of the late Roman State», Early Medieval Europe, 5, 1996, pp. 127-53. 7 V. Bierbrauer, «Archeologia degli Ostrogoti in Italia», in id., O. von Hessen (a cura di), I Goti, Milano 1994, pp. 170-177; V. Bierbrauer, «La diffusione dei reperti Longobardi in Italia», in G.C. Menis (a cura di), I Longobardi, Milano, 1990, pp. 97-101. 6
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sepolture femminili sepolture maschili sepolture infantili e giovanili
Fig. 1 – Percentuale di sepolture contenenti le fibule nelle singole necropoli considerate.
deposto in sepolture femminili8. Similmente, le fibule del tipo Aucissa diffuse tra il I secolo a.C e il I d.C. in un’area geografica molto estesa che va dalla Britannia alla Germania, dall’Italia all’Asia Minore, sono state ritrovare per lo più in sepolture maschili nell’Italia settentrionale, mentre nell’Italia meridionale (nell’area di Pompei) prevalgono nelle sepolture femminili9. In questa fase, dunque, le fibule non avevano uno specifico significato di genere, le loro deposizioni non erano legate al sesso o all’età dei defunti. Si tratta di oggetti diffusi e omologati che non paiono aver assunto un particolare valore di distinzione. Nelle sepolture maschili di questa fase, le fibule sono spesso accompagnate da armi, che ricorrono anch’esse frequentemente fino alla fine del secondo secolo d.C.10
E. Swift, Regionality in Dress Accessories in the Late Roman West, Montagnac, 2000 (Monographies Instrumentum, 11). 9 Ibid. 10 I. Barbiera, «Remembering the warriors: weapon burials and tombstones between antiquity and the early Middle Ages in Northern Italy», in W. Pohl, G. Heydemann (eds.), Post Roman Transitions. Christian and Barbarian Identities in the Early medieval West, Turnhout, 2013, pp. 407-35. 8
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A partire dal terzo secolo, tuttavia, avvengono alcune importanti trasformazioni nelle deposizioni dei corredi: le fibule femminili diventano pressoché assenti, mentre persistono soltanto nelle sepolture maschili, allo stesso tempo le deposizioni di armi, anch’esse assai frequenti fino al secondo secolo, diventano molto rare. In altra sede avevo dimostrato come la scarsa percentuale di deposizioni di armi può essere messa in relazione con la comparsa delle rappresentazioni di soldati armati sulle epigrafi. Questo tipo di epigrafi si diffonde in Italia settentrionale a partire dal terzo secolo d.C. ed è particolarmente numeroso ad Aquileia, proprio tra III e IV secolo, quando le deposizioni di armi raggiungono i minimi storici. Ho dunque ipotizzato che nel momento in cui i soldati erano commemorati attraverso monumenti funerari, che ne mettono in evidenza il ruolo attraverso apparati iconografici espliciti ed epitaffi commemorativi, le deposizioni di armi vengono praticamente meno. In questa stessa fase fanno la loro comparsa nelle tombe le fibule a testa di cipolla. Queste erano, in una prima fase, usate dai soldati per allacciare il mantello. Come mostrato da Ellen Swift, la loro produzione era controllata dallo Stato, le fibule erano distribuite ai soldati come paga11. Dunque, il loro valore simbolico era strettamente legato alla carica di soldato, alle dipendenze dell’Impero. Forse la mancanza di fibule femminili nei contesti archeologici di questa fase può essere legata all’esclusività che le fibule a testa di cipolla avevano acquisito nel definire una specifica identità militare e maschile. Le fibule a testa di cipolla iniziano a diventare sempre meno frequenti nelle sepolture a partire dalla fine del IV secolo. Dominic Janes ha dimostrato che da questo momento queste fibule iniziano a essere usate anche dai funzionari civili, come conseguenza della fusione della sfera militare e civile e dalla fine del V secolo divengono il simbolo dell’autorità imperiale, usate pertanto da ufficiali di corte12. Questo processo è supportato dalle trasformazioni delle forme e degli stili che le fibule assumono. Infatti, a partire dal V secolo il tipo a testa di cipolla denominato Plöttel 3/413 cessa di essere prodotto e distribuito in Pannonia in seguito allo sfondamento del limes e alla sospensione delle paghe militari in quest’area. Allo stesso tempo la produzione renana di Swift, Regionality in Dress Accessories. Janes, «The golden claps». 13 P.M. Plöttel, «Zur Chronologie der Zwiebelknopffibeln», Jahrbuch der Römisch-Germanischen Zentralmuseums Mainz, 35/1, 1988, pp. 347-72. 11
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fibule a testa di cipolla continua, ma si tratta ora di tipi per lo più in oro che divengono simbolo di alto rango14. Questo stesso tipo è quello raffigurato sui dittici di Stilicone e Probiano entrambi del 400 circa e che venne deposto alla fine del V secolo nella tomba di Childerico15. Da questo momento in poi fanno la loro comparsa nuovi tipi di fibule, deposte quasi esclusivamente nelle sepolture femminili. Queste sono tradizionalmente lette in chiave di cesura e innovazione e vengono riferite alla sfera femminile barbarica. Tuttavia, i dati archeologi, se osservati in una prospettiva diacronica e quantitativa, mostrano semmai una continuità nell’uso delle fibule quali oggetti di corredo funerario; cambiano però le forme, gli stili decorativi e con questi anche il valore di genere. Qual è il significato di tutte queste oscillazioni? Vediamo che cosa ne pensavano i contemporanei al proposito. Le fibule nelle fonti scritte Isidoro nel VII secolo ne dà una precisa definizione; nelle sue Etimologie scrive, infatti: “Fibulae sunt quibus pectus feminarum ornatur, vel pallium tenetur a viris in humeris, seu cingulum in lumbis”16: le fibule sono utilizzate dalle donne come ornamento del petto, dagli uomini, invece per fermare il mantello sulle spalle o la cintura ai lombi. Dunque sia una fibula che una fibbia, sia maschile che femminile, ma più in generale, come lo stesso Isidoro scrive più avanti: “Fibula Graecum est, quam illi Fiblin dicunt, quod ligat”17, ossia un elemento che lega, che unisce. Janes, «The golden claps»; V. Van Thienen, «A symbol of Late Roman authority revisited: a sociohistorical understanding of the crossbow brooch», in N. Roymans, S. Heeren, W. De Clercq (eds.), Social Dynamics in the Northwest Frontiers of the Late Roman Empire. Beyond Decline or transformation, Amsterdam, 2017, pp. 97126; B. Deppert-Lippitz, «A Late Antique Crossbow Fibula in the Metropolitan Museum of Art», Metropolitan Museum Journal, 35, 2000, pp. 39-70. 15 G. Halsall, «Childeric’s Grave, Clovis’ Succession, and the origin of the Merovingian Kingdom», in R. Mathisen, D Shanzer (eds.), Society and Culture in Late Antique Gaul, Aldershot-Burlington, 2001, pp. 116-33; G. Halsall, Barbarian migrations and the Roman west, 376-568, Cambridge, 2007; P. von Rummel, Habitus barbarus. Kleidung und Repräsentation spätantiker Eliten im 4. und 5. Jahrhundert, Berlin, 2012. 16 Isidorus Hispalensis, Etymologiarum libri, ed. A. Valastro Canale, Torino, 2004, 19, 31.17. 17 Ibid., 33.4. 14
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Fig. 2 – Numero di casi in cui le fibule sono menzionate come elementi della veste maschile e femminile.
Da un analisi quantitativa sull’uso del termine fibula nelle fonti scritte datate dal I al X secolo d.C. emerge come in effetti il termine fosse usato sia per indicare l’oggetto fisico sia in senso allegorico per indicare un elemento di unione. Tra i 104 casi di uso del termine fibula che ho individuato in diversi testi, 38 sono accezioni allegoriche: fibula caritatis, benedicionis fibula o unitatis fibula, fibula verborum ecc., mentre i restanti 66 casi si riferiscono appunto alla fibula per chiudere la veste18. Qui a parte 2 casi che si riferiscono esplicitamente alla fibbia di cintura, i restanti 64 sono riferiti alla fibula intesa come gancio che chiudeva il mantello o la veste: fibulam, quae chlamydis mordebat oras; mordet fibula vestem; aurea fibula subnectit vestem; aurata fibula veste superposita, o nectebat fibula vestem e così via. Queste accezioni rimangono invariate dal I al X secolo. Quello che però varia sono i contesti in cui la fibula in senso stretto compare. Mi sono avvalsa per questa ricerca del database: Cross Database Search tool (Brepols); tra i circa quattromila testi datati tra il I e il X secolo d.C. presenti in questo database, ho trovato 104 menzioni del termine fibula in tutte le sue diverse declinazioni. 18
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Innanzitutto, vediamo qual era il valore di genere delle fibule riscontrato dagli autori. Come emerge dalla figura 2, gli autori osservano o rilevano l’uso della fibula per lo più in riferimento agli uomini, per tutto l’arco cronologico considerato, discostandosi dai trends archeologici. Forse questo non dovrebbe sorprenderci essendo le fonti scritte per lo più da uomini e per uomini. Ma ad ogni modo, dall’VIII secolo aumentano i casi di fibule menzionate in riferimento alle donne. I casi indefiniti sono invece davvero pochi. In tutto l’arco cronologico considerato, le fibule maschili sono menzionate per lo più in quanto simboli di status e in quanto tali sono ostentate in un contesto pubblico. Racconta infatti Corippo, nalla sua In laude Iustini composta verso la metà del VI secolo in onore appunto dell’imperatore Giustino, che al momento dell’incoronazione: Un mantello copriva le spalle del principe di una porpora ardente [...] una fibula d’oro ne serrava le giunture col suo morso ricurvo e dalle sommità delle catenelle brillavano gemme, dono della felice vittoria nella guerra getica, riportate da Ravenna, fedele ai nostri sovrani, e che Belisario aveva trasportato con sé dalla coorte Vandalica19.
Le gemme dunque, giunte da lontano, decorano la fibula che splende sulla spalla di Giustino, e raccontando la storia delle sue vittorie, ne legittimano l’ascesa al ruolo di imperatore. Qualche secolo prima, nella Historia Augusta20, analoghe gemme sfavillanti compaiono sulle spalle dell’imperatore Carino ma riflettono “Aurea iuncturas morsu praestrinxit obunco fibula, et a summis gemmae nituere catenis, gemmae, quas Getici felix victoria belli praebuit atque favens dominis Ravenna revexit, quasque a Vandalica Belsarius attulit aula”: Corippus, In Laude Iustini, ed. D. Romano, Palermo, 1970, 2, 115. 20 È in corso un lungo e vivace dibattito sull’autenticità e cronologia della Historia Augusta, già a partire dagli inizi del XX secolo; si vedano ad esempio i dibattiti e le diverse opinioni in: A. Momigliano, «An Unresolved Problem of Historical Forgery: The Scriptores Historiae Augustae», Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, 17, 1954, pp. 22-46; P. White, «The authroship of the Historia Augusta», The Journal of Roman Studies, 57, 1967, pp. 115-33; I. Marriott, «The Authorship of the Historia Augusta: Two Computer Studies», The Journal of Roman Studies, 69, 1979, pp. 65-77; A. Rösger, R. von Haehling, Studien zum Herrscherbegriff der Historia Augusta und zum antiken Erziehungswesen, Berlin, 2001. Per una recente discussione del problema si rimanda a: M. Thomson, Studies in the Historia Augusta, Bruxelles, 2012. 19
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una immagine completamente diversa dell’imperatore. Egli infatti era “uomo sconcio quant’altri mai, adultero, abituale corruttore di giovani”21, usava indossare, scrive l’autore: nisi gemmata fibula22. Similmente, Gallieno nato per l’ingordigia e la sessualità, dissipò i suoi giorni e le sue notti nel vino e negli stupri [...] tanto che anche le donne avrebbero governato meglio di lui[...] lo si vedeva a Roma – dove gli imperatori apparivano sempre in toga – vestito di una clamide purpurea allacciata da fibule gemmate e d’oro.
Con Zenobia, poi, “siamo veramente al fondo della vergogna, visto che nella crisi che travagliava lo Stato si giunse fino al punto che, a fronte del vergognoso comportamento di Gallieno, persino le donne governavano ottimamente e per di più quelle straniere”23. [Zenobia] si presentava alle adunanze militari seguendo l’uso degli imperatori romani, portando l’elmo e indossando un manto purpureo ornato di gemme pendenti lungo le estremità delle frange e ancora una gemma a forma di chiocciola posta nel mezzo a mo di fibula muliebri veniva impiegata per fermarselo, lasciando spesso le braccia nude24.
Le fibule in quanto metro di misura e specchio di chi le indossa, sono attivamente impiegate sia dai fruitori che dagli osservatori per esprimere dei giudizi o per creare una specifica immagine25. Così, in contrapposizione ai dissoluti, Adriano “era di incitamento agli altri “Homo omnium contaminatissimus, adulter, frequens corruptor iuventutis”: Historia Augusta, ed. P. Soverini, Torino, 1983, 16.1. 22 Ibid. 23 “Omnis iam consumptus est pudor, si quidem fatigata re p. eo usque perventum est, ut Gallieno nequissime agente optime etiam mulieres imperarent, et quidem peregrinae”, ibid., 30.1. 24 “Imperatorum more Romanorum ad contiones galeata processit cum limbo purpureo gemmis dependentibus per ultimam fimbriam, media etiam coclide veluti fibula muliebri adstricta, brachio saepe nudo”: ibid., 30.14. 25 V. Neri, «Considerazioni sul tema della Luxuria nell’Historia Augusta», in F. Paschoud (a cura di), Historiae Augustae Colloquium Genevense, Bari, 1999, pp. 217240; V. Neri, «La caratterizzazione fisica degli imperatori nell’Historia Augusta», in G. Bonamente, F. Heim, J.-P. Callau (a cura di), Historiae Augustae Colloquium Argentoratense, Bari, 1998, pp. 249-67. 21
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con la sua condotta [...] indossava spesso vesti molto dismesse, portava una cintura senza finiture d’oro, usava come fermaglio una fibula senza gemme”26. In linea con la retorica antica e stoica, lo sfarzo è simbolo di lussuria e dissolutezza27. Secondo Plinio, l’estrazione di pietre e metalli preziosi dal sottosuolo è una mostruosità che gli uomini operano per avidità: “Sono le ricchezze che essa [la terra] tiene nascoste e sepolte quelle che ci rovinano; sono le ricchezze che non nascono in prestezza quelle che ci fanno scendere agli inferi”28. Affinché le donne abbiano oro sulle braccia, su tutte le dita, sul collo, sulle orecchie e nei capelli intrecciati; agitino pure catenelle intorno ai fianchi e invisibili pendano pure dal collo delle matrone, sacchetti di perle sostenuti da catenelle d’oro, cosicché anche nel sonno ci sia la consapevolezza delle grosse perle29.
Infatti, come scrive in un altro passo a proposito della lavorazione delle stoffe, tam multiplici opere, tam longinquo orbe petitur ut in publico matrona traluceat30. Questa stessa retorica è ripresa dai primi cristiani, Girolamo e soprattutto Tertulliano, che forniscono chiare regole di comportamento casto e sobrio rivolgendosi alle donne direttamente: Sei tu la porta del diavolo, sei tu che hai spezzato il sigillo dell’Albero, sei tu la prima che ha trasgredito la legge divina, sei stata tu a circuire colui che il diavolo non era riuscito a raggirare, tu in maniera tanto facile hai annientato l’uomo, immagine di Dio; per quello che hai meritato, cioè la 26 “Vestem humillimam frequenter acciperet, sine auro balteum sumeret, sine gemmis fibula stringeret”: Historia Augusta, ed. Soverini, 10.5. 27 R. Berg, «Wearing Wealth: Mundus Muliebris and Ornatus as Status Markers for Women in Imperial Rome», in R. Berg, R. Hälikkaä, M. Keltanen, J. Pölönen, P. Setälä, V. Vuolanto (eds.), Women, Wealth and Power in the Roman Empire, Roma, 2002, pp. 15-73. 28 “Illa nos peremunt, illa nos ad inferos agunt, quae occultavit atque demersit, illa, quae non nascuntur repente”: Plinius, Naturalis Historia, ed. A. Corso, R. Muggellesi, G. Rosati, Torino, 1988, 33.1.3. 29 “Habeant feminae in armillis digitisque totis, collo, auribus, spriis; discurrant catenae circa latera et in secreto margaritarum sacculi e collo dominarum auro pendeant, ut in somno quoque unionum conscientia adsit”: ibid., 33.12.40. 30 Plinius, Naturalis Historia, ed. A. Barchiesi, R. Centi, M. Corsaro, A. Marcone, G. Ranucci, Torino, 1982, 6.20.54.
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morte, anche il figlio di Dio ha dovuto morire; e ancora hai in animo di coprire di ornamenti le tue tuniche di pelle?”31
Questa retorica però va poi scomparendo e anzi viene ribaltata nel corso dell’alto medioevo, come risulta chiaramente dal panegirico di Corippo che ho citato sopra. Da questo momento lo sfavillio dell’oro e delle gemme diviene un elemento di paragone positivo, tanto che Aldelmo, negli Enigmata composti nel VII secolo, scrive che il creato “è più bello delle bulle d’oro apposte sulle fibule”32. Il defunto sant’Eligio viene fatto ornare ad opera della regina Baltilde con i suoi stessi gioielli: “tanta deinceps copia auri vel gemmarum in fibulis ac diversis speciebus a potentibus eodem loco conlata est, ut eam sermo narrantis vix sufficiat exponere”33. Dunque, l’esibizione in pubblico di fibule d’oro e gemmate diviene ora una strategia per legittimare il ruolo di autorevolezza che si regge sulla trama di relazioni importanti. Lo stesso Carlo Magno, nella Vita Karoli Magni di Eginardo, pur essendo moderato nel mangiare e nel bere34, nelle festività procedeva con veste ricamata d’oro e calzari ornati di gemme, fermava il mantello con una fibula d’oro e portava anche un diadema d’oro e di pietre preziose35. Alla fine della sua vita, durante la sua ultima spedizione in Sassonia, un giorno, uscendo dall’accampamento prima del sorgere del sole, comparve in cielo una luce straordinaria, e mentre tutti la stavano a guardare meravigliati: Il cavallo che egli montava abbassò il capo all’improvviso e stramazzò, scagliandolo a terra con tal violenza che gli si ruppe la fibula del mantello e 31 “Tu es diaboli ianua, tu est arboris illius resignatrix, tu es divinae legis prima deserti, tu est quae eum suasisti, quam diabolus aggredi non valuit; tu immagine dei, nomine, tam facile elisisti; propter tuum meritum, id est mortem, etiam filius dei mori habuit, et adornari tibi in mente est super pelliceas tuas tunicas?” Tertullianus, De cultu feminarum, ed. S. Isetta, Bologna, 2010, 1.1. 32 «Pulchrior auratis, dum fulget fibula, bullis», Aldhelmus, Enigmata, C. 33 Vita Eligii episcopus Noviomagensis, II.41. 34 Vita Caroli Magni, ed. V. Marucci, Roma, 2006, 24. 35 “In festivitatibus veste auro texta et calciamentis gemmatis et fibula aurea sagum adstringente, diademate quoque ex auro et gemmis ornatus incedebat”: ibid., 23.
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Sudata marito fibula: oggetti di prestigio e identità di genere gli si strappò la fodera della spada; e quei suoi ministri che gli si affrettarono intorno lo sollevarono senza armi e senza manto36.
E questo episodio, insieme a tanti altri avvenimenti premonitori, preannunciarono, secondo Eginardo, l’imminente morte di Carlo: la rottura della fibula e della spada, simboli di potere, segnano l’inizio della fine del re. Dunque, le fibule rimangono invariantemente un metro di misura delle qualità, della buona condotta e del grado di mascolinità di chi le indossa e le sfoggia in pubblico. Cambiano però i parametri di misura: quelli che fino all’età tardoantica erano indici di sfrenatezza, divengono poi dal VI simboli di potere e del raggiungimento di connessioni sociali importanti. Ho cercato di razionalizzare il contesto in cui le fibule vengono menzionate. Come emerge dalle figure 3 e 4 esse sono descritte in tutto l’arco cronologico, considerato per lo più come simbolo di leadership in riferimento agli uomini. Il loro uso in contesto militare è documentato soltanto in 4 casi tra il I e il V secolo, ma soltanto in 1 tra il VI e il X. Le menzioni in riferimento alla sfera ‘privata’37 aumentano tra il VI e il X secolo, soprattutto in riferimento alle fibule femminili. Dunque dal VI secolo il contesto militare delle fibule viene meno a scapito di quello privato. Dal VI secolo inoltre pare visibile una più spiccata dicotomia tra leadership/maschile, privato/femminile. Un’altra dimensione sociale che emerge frequentemente, sia in riferimento alla sfera pubblica che privata, è quella del dono. È interessante notare come questo aspetto risulti particolarmente frequente a partire dal VI secolo soprattutto in riferimento alle fibule femminili. Metà delle fibule femminili descritte nei testi di questa fase sono offerte in dono. Se nei casi di età antica e tardo antica le fibule donate sono legate alla sfera pubblica e al simbolo di autorità, a partire dal VI secolo esse sono descritte come parti di tesori familiari che vengono offerti in dono alla Chiese. Ad esempio, la principessa Radegunda, nella sua Vita
“Cunctisque hoc signum, quid portenderet, ammirantibus, subito equus, quem sedebat, capite deorsum merso decidit eumque tam graviter ad terram elisit, ut, fibula sagi rupta balteoque gladii dissipato, a festinantibus qui aderant ministris exarmatus et sine amiculo levaretur”: ibid., 32. 37 Il termine privato è tra virgolette in quanto è rilevato in negativo, ossia in quanto sfera che non è né pubblica nè militare né leadership. 36
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Fig. 3a – Contesti in cui viene menzionata la fibula in testi datati tra il I e il V secolo d.C.
Fig. 3b – Contesti in cui viene menzionata la fibula in testi datati tra il VI e il X secolo d.C.
composta da Venanzio Fortunato, un giorno entrò nella cella di San Giumerio ornata in modo splendido e camisas, manicas, cofias, fibulas, cuncta auro, quaedam gemmis exornata per circulum sibi profutura sancto tradit altario38. Nei Miracula Remacli Stabulensis, una venerabile comitissa donò fibulam auream pro salutis suae.39 Anche Varnefred, in un testamento del 730, donò al monastero di S. Eugenio un insieme di beni appartenuti a sua moglie Optileopa, che comprendevano tra i vari oggetti preziosi anche fibulas maurenas40. L’oro e le gemme quindi, se 38 39 40
Venantius Fortunatus, Vita S. Radegundis, in MGH SS rer. Merov., 2, 1, cap. 11. Miracula Remacli Stabulensis, p. 699, linea 55. CDL, 1.50.
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investite nel modo giusto, ovverosia se donate all’ente giusto, cessano di essere l’emblema della lussuria per divenire il tramite attraverso cui stabilire nuove e profittevoli relazioni per il futuro. Discussione Il confronto tra i testi scritti e le fonti archeologiche permette di affermare che la composizione dei corredi deposti nelle sepolture era il frutto della scelta consapevole di alcuni oggetti e della altrettanto consapevole esclusione di altri. Nonostante circolassero fibule sia maschili che femminili, venivano deposte nelle tombe alternativamente ora le une ora le altre. La scomparsa delle fibule maschili dalle tombe di V secolo non è dovuta alla fine del loro utilizzo come elementi del vestito, ma piuttosto al fatto che da questo momento esse acquisirono un valore sociale pubblico molto elevato, che le rese forse troppo prestigiose per essere fatte sparire nelle tombe. Da questo stesso momento, le fibule vengono deposte quasi esclusivamente nelle sepolture femminili, in qualità di simboli di femminilità. Queste sembrano aver acquisito, oltre che un valore economico effettivo, dato dalla loro preziosità, anche uno simbolico in quanto tesori di famiglia, quindi privati, che possono essere dati o ricevuti in dono al fine di tessere delle relazioni strategiche. Se pensiamo alle necropoli come luoghi in cui la sfera privata viene resa pubblica, dei luoghi in cui attraverso la commemorazione si crea un’immagine pubblica dei singoli defunti al fine di negoziare le relazioni tra diversi gruppi parentali, potremmo pensare allora alle fibule come ad un oggetto femminile e privato che viene arricchito di valenza pubblica nel momento in cui viene investito in un contesto funerario. Speculando in questa direzione, se le fibule maschili avevano un elevato valore sociale esplicitamente legato alla sfera pubblica, quelle femminili possedevano questa prerogativa soltanto potenzialmente. Questa potenzialità si realizzava nel momento in cui le fibule uscivano dall’ambito domestico e venivano spese, scambiate in un contesto pubblico. In conclusione sembra che le trasformazioni del valore di genere delle fibule visibili dall’età tardoantica nel contesto archeologico non siano tanto dovute ad un cambiamento dell’abbigliamento maschile e femminile, ma siano piuttosto scandite dalle trasformazioni del valore simbolico che questi oggetti assunsero nel definire le relazioni sociali
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di uomini e donne in una dimensione pubblica e privata. Proprio la fluidità e interconnessione di queste due dimensioni nel contesto funerario stimolò le deposizioni di questi oggetti nelle sepolture. La definitiva scomparsa di questi oggetti dalle sepolture non è determinata ancora una volta dalla loro scomparsa dalla circolazione, ma anzi esse mantennero tutto il loro valore materiale e simbolico. Da questo momento, come è stato già ampiamente dimostrato da Cristina La Rocca, Régine Le Jan e altri studiosi, cambiarono le modalità della commemorazione ora polarizzate dalla Chiesa. Così le fibule iniziarono ad acquistare un maggiore valore se offerte in dono alle chiese per la salvezza dell’anima. La loro preziosità non era più simbolo di lussuria come avevano sottolineato i primi cristiani ma divenne ora il segno di una grande privazione, che garantiva salvezza eterna. Proprio in questa direzione andò la scelta di Peltrasio, padre di Faustinus, vir eloquentissimus, che donò una fibulam uero auream in cambio della sepoltura dentro la chiesa di Messina, come riportato in una lettera di Gregorio Magno del 597, indirizzata al vescovo Dono41.
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Gregorius Magnus, Registrum epistularum, 8.3.
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1. Non è mai facile provare a trarre qualche provvisoria conclusione dai lavori di un convegno e dalla successiva raccolta degli atti; questo per tanti motivi, molti dei quali validi anche nel nostro caso. Innanzitutto, la varietà dei contributi che, nonostante i migliori intenti dei curatori, non sempre si muovono in una direzione univoca e coerente. Poi, il lungo spazio di tempo che spesso intercorre tra la performance orale e la pubblicazione degli atti, producendo materiali rivisti e ripensati in più momenti e talora più o meno ‘datati’ (anche in ragione della vivacità degli studi sullo specifico tema indagato). Infine, l’inevitabile venir meno di alcuni dei contributi previsti da chi ha pensato il convegno e la raccolta, che può generare squilibri nel volume finale. A queste più generali problematicità, nel nostro caso si aggiunge l’obiettiva difficoltà di riconoscere una condivisa interpretazione delle due nozioni che strutturano le riflessioni raccolte nel volume: la coppia ‘pubblico’/‘privato’ da una parte e lo ‘spazio’ dall’altro, e in particolare la prima. Non si tratta solo della differente declinazione dei concetti da parte di storici e archeologi, per quanto importante. Queste sono, infatti, nozioni ambigue (e anche per questo ricche e stimolanti), che possono essere legittimamente impiegate e declinate in modi molto diversi – e in effetti lo sono stati nelle pagine di questa raccolta. Si confrontino, a puro titolo di esempio, gli ambiti del tutto eterogenei (e i significati del tutto diversi) cui hanno fatto riferimento nei rispettivi interventi due delle curatrici, Tiziana Lazzari e Giovanna Bianchi. Le curatrici del convegno e degli atti sono pienamente consapevoli di questa ambiguità (come mostra l’introduzione al volume); e anzi proprio su di essa gli autori sono stati invitati a giocare, facendo interagire fra loro le possibili nozioni cui rimandano i nostri termini, generando un’ulteriore, creatrice, confusione. Il suggerimento delle curatrici e il vario modo in cui esso è stato recepito e declinato, spesso ingegnosamente e comunSpazio pubblico e spazio private. Tra storia e archeologia (secoli VI-XI), a cura di G. Bianchi, C. La Rocca e T. Lazzari, Turnhout, Brepols 2018 (SCISAM, 7), p. 343-351 FHG10.1484/M.SCISAM-EB.5.116191
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que in modi diversificati, dagli autori ha contribuito a produrre un buon numero di relazioni (e poi di articoli) interessanti e molto stimolanti, ma rende più difficile il compito di chi voglia tirar le fila ed estrarre un significato complessivo dal volume. Ciononostante, sia per l’interesse del tema (o meglio dei temi), sia per la qualità delle relazioni, in sede di convegno avevo cercato di svolgere a caldo alcune riflessioni finali, che riprendo qui, con minimi interventi, in tutta la loro provvisorietà, sperando possano essere di una qualche utilità. 2. Una prima questione da porsi è che frutti darà a lungo termine la scelta di far interagire la coppia contrappositiva pubblico/privato con la nozione di spazio, in particolare riguardo a due aspetti fondamentali: riportando, in maniera più complessa e non meccanica, al centro della riflessione degli studiosi delle fonti materiali e di quelle scritte la coppia pubblico/ privato; e riuscendo a ricollegare e far interagire tra loro le varie sfumature di questa coppia (e specialmente la nozione di pubblico, principale protagonista di gran parte degli interventi). Nonostante sia trascorso qualche tempo dal convegno, è presto per pronunciarsi in merito, ma come vedremo emergono già alcune ricadute nella ricerca medievistica. Non avendo l’intenzione di riassumere i saggi del volume o di tentare un bilancio su un tema troppo ampio e sfuggente, dopo alcune considerazioni molto generali, mi limiterò a cercare di fare un po’ di ordine, richiamando l’attenzione sulle più chiare tra queste sfumature di significato e sul modo in cui sono state affrontate dai vari contributi; proporrò perciò un percorso tra i saggi leggermente diverso da quello suggerito dalla struttura tripartita del volume. Spero che questa scelta aiuti a far emergere il fatto che alcuni dei temi affrontati a Bologna nel novembre 2014 stanno rapidamente maturando e sviluppandosi, anche grazie allo stimolo offerto da questo primo confronto. Una prima molto generale osservazione. In molti contributi si nota la tendenza a insistere sull’ambiguità della contrapposizione ‘pubblico’/‘privato’, sulla sua plasticità e sull’esistenza di molti spazi/situazioni/ contesti nei quali essi si sovrappongono e si integrano. Si pensi al ruolo integrato di patroni (privati?) e vescovi (pubblici?) nella fondazione delle chiese rurali nella tarda antichità, ben ricostruito da Vincenzo Fiocchi Nicolai. O al ruolo, non facilmente risolvibile, dei vescovi che riemerge in più contributi, a partire da quello di Stefano Gasparri. Ciononostante, nessun autore – se ho ben capito – suggerisce di abbandonare questa
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coppia binaria come strumento euristico, nemmeno in riferimento alle strutture politiche (per le quali, per l’alto medioevo, le nozioni di stato e di pubblico sono state pure a lungo oggetto di feroci critiche). La coppia contrappositiva, infatti, sembra agli autori uno strumento di indagine rilevante e utile, anche se non un dato oggettivo da dare per scontato. Un altro elemento comune a quasi tutti i testi – e dunque tale da far da sfondo alle più puntuali osservazioni successive – è la netta prevalenza del tema del ‘pubblico’ su quello del ‘privato’; non si tratta solo del fatto che al primo sia dedicato più spazio in molti contributi (sia pure a volte in relazione al suo sfumarsi o al suo venir meno), ma ancor di più del fatto che molto spesso il ‘privato’ è definito in primo luogo in contrapposizione al ‘pubblico’ (checché esso sia). Nella stessa direzione va anche il frequente ricorso a un concetto come quello di ‘privatizzazione’, che non mi pare avere riscontro, se non eccezionalmente, in riflessioni sull’eventuale ‘pubblicizzazione’ del ‘privato’. 3. È dunque dai diversi modi di concettualizzare il pubblico che occorre muovere. Mi pare di poter riconoscere tre principali accezioni fatte proprie più o meno diffusamente dagli autori. Di esse le prime due sono quelle più largamente impiegate e che permettono perciò un’analisi più estesa (che svolgerò nel resto di questo mio intervento), mentre la terza, per quanto rilevante, affiora solo occasionalmente e perciò vi farò solo un cenno. La prima identifica poteri, diritti e spazi pubblici con quelli del re (o degli altri vertici politici autonomi, come i duchi di Benevento) e dei suoi più diretti emissari. Dunque pubblico, come sinonimo di ‘regio’. La seconda, assai diffusa, nozione di pubblico mi pare quella di “aperto, visibile a tutti, rappresentato davanti a una (più o meno ampia) comunità”. La fortuna di questa seconda accezione si spiega anche con il fatto che essa è particolarmente adatta a essere declinata in termini spaziali. Una terza, altrettanto legittima, accezione di pubblico affiora solo occasionalmente nei contributi: si tratta di quella che rimanda alla nozione di pubblico come “di interesse comune, a vantaggio della comunità nel suo insieme”. Naturalmente questa sfera si confonde e si connette con le prime due, ma ne è concettualmente ben distinta. Essa, però, non mi pare molto tematizzata dai nostri contributi. Fanno parziale eccezione da un lato le relazioni sulla tarda antichità, nelle quali il tema è svolto soprattutto attraverso la nozione della privatizzazione di spazi, diritti e funzioni, e quelle relative alla chiesa alto medievale. Dall’intervento di
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Cristina La Rocca, del resto, emerge chiaramente che quella dell’interesse collettivo fosse una questione ancora ben presente nella politica edilizia di Teodorico. Mentre nella relazione di Stefano Gasparri, per esempio, si può notare come i vescovi si facciano eredi della tradizione romana di rappresentare (ancor prima che di agire) il potere pubblico anche come servizio orientato all’interesse comune. Dato che la nozione di ‘privato’ impiegata dagli autori è ricavata innanzitutto per differenza da quella di ‘pubblico’, la possiamo da caso a caso spiegare come ‘non regio’ (in tutta la sua ambiguità), “personale, intimo, separato dal resto della comunità”, “a vantaggio / per interesse del singolo o di un gruppo ristretto”. 4. Pur non essendo priva di ambiguità, la nozione di pubblico come regio (o fiscale) mostra nelle pagine di questo volume tutte le sue notevoli potenzialità. Questo è evidente non solo quanto al compatto gruppo di saggi concentrati sul tema dei beni fiscali nella loro dimensione documentaria (Loré) o materiale (Bianchi, Cantini). Anche nel campo delle architetture del potere, per esempio, l’individuazione di una specifica ‘architettura pubblica’ ha permesso ad Andrea Augenti di sviluppare importanti riflessioni sui palatia tardo antichi e alto medievali e sulle loro matrici culturali, raggiungendo risultati convincenti e fornendo qualche spunto di eccezionale interesse: penso in particolare al rapporto tra i principia tardo romani e i palatia goti e longobardi; un esempio estremamente chiaro della matrice militare (romana) delle identità etniche e politiche delle società post-romane. È però senz’altro il tema dei beni fiscali quello che sta al centro di questa ideale sezione del convegno, un tema che a cavallo del convegno di Bologna ha conosciuto un rinnovato interesse da parte di storici e archeologi, ed è tuttora assai vivo, tanto che è prematuro tentare di elaborare qui un quadro di sintesi dello stato degli studi. A mio avviso, questo successo è dovuto in primo luogo alle potenzialità del tema nel riportare al centro della riflessione l’interesse per lo stato alto medievale e le sue forme di funzionamento, una volta venuto meno il problema delle ‘origini dello stato moderno’ (sia come Grande Narrazione, sia come obiettivo polemico)1. In questo contesto, anche la questione della continuità con W. Pohl, V. Wieser (Hrsg.), Der Frühmittelalterliche Staat – Europäische Perspektiven, Wien, 2009.
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il modello romano può essere riesaminata pacatamente, come in alcuni passaggi del bel saggio di Vito Loré, senza che assuma valenza ideologica, ma semplicemente come insieme di precedenti variamente riutilizzati dalle strutture politiche alto medievali. I saggi qui raccolti aprono del resto la strada a una riflessione ancora più attenta al ruolo dei beni regi nel funzionamento delle società alto medievali e post-carolinge. Si può provare così a superare la sempre fondamentale, ma troppo generica, nozione di ‘politica della terra’ blochiana, chiarendo meglio il variabile ruolo dei beni regi, delle loro forme di gestione e di circolazione e, infine, della loro funzione economica nelle diverse società italiche ed europee dei secoli VIII-XI2. Vanno infatti precisate le varie configurazioni nello spazio e nel tempo di questi fenomeni: come mostra bene Loré, anche limitandosi all’Italia longobarda, l’ampiezza dei beni fiscali, le loro forme di gestione e circolazione, i protagonisti di questi processi e il livello di coinvolgimento delle società locali furono assai diversi tra regno e ducati. E molto mutarono nel tempo, dato che – come chiariscono bene anche i saggi di Federico Cantini e Giovanna Bianchi – i sovrani (o i loro più diretti emissari: regine, monasteri, vescovi di corte, marchesi d’ufficio) mantennero a lungo (almeno fino a tutto il secolo X) una significativa capacità di progettazione e di intervento, sia quanto alla struttura di gestione di questo immenso patrimonio, sia quanto alla sua materialità (e organizzazione economica). Dunque occorre integrare, nello studio del problema, un approccio di lungo periodo (del fenomeno in sé, del suo rilievo, delle varie soluzioni gestionali) con uno più attento alle ricadute dei progetti individuali dei singoli sovrani, anche nella loro dimensione soggettiva. Proprio quest’ultimo aspetto, fra l’altro, permette di integrare nello studio dei fenomeni economici alto medievali elementi strutturali e azioni congiunturali in un modo molto stimolante: si pensi agli spunti che vengono in questo senso dal dotario di Ugo di Arles o dalle azioni intraprese alla Vetricella e nel suo comprensorio tra IX e X secolo. I contributi al volume, inoltre, suggeriscono una soluzione convincente a quello che è stato a lungo ritenuto il principale ostacolo allo studio di un tema della cui importanza nessuno ha mai potuto dubitare: l’assenza di fonti adeguate. Il saggio di Loré, come i precedenti e fondamentali contributi sui dotari e altri lavori editi o in corso di pubblicazione, mostra bene che – se adeguatamente interrogate – le fonti scritte hanno ancora Cfr. S. Carocci, S.M. Collavini, «Il costo degli stati. Politica e prelievo nell’Occidente medievale (VI-XIV secolo)», Storica, 52, 2012, pp. 7-48.
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molto da dire in proposito; e in particolare lo hanno se indagate nei loro margini e con una più attenta riflessione su testi stravaganti e sui pieni e sui vuoti della tradizione documentaria3. D’altro canto le riflessioni di Giovanna Bianchi e di Federico Cantini mostrano la ricchezza, quantitativa e qualitativa, di informazioni che l’archeologia è in grado di offrire sul tema, soprattutto se si opera una più attenta e metodologicamente matura integrazione (e non solo giustapposizione) di fonti materiali e testi scritti. Insomma l’interesse di questo campo di studio sta anche nella concreta interazione e integrazione di fonti materiali e testi scritti (e dei relativi specialismi), certo uno degli scopi fondamentali del SAAME che ha promosso il convegno. Dunque, già a Bologna nel novembre 2014, il tema mostrava notevole maturità, che si è del resto confermata nelle numerose iniziative di ricerca, larga parte delle quali tuttora in corso, messe in campo negli anni successivi4. In questo ambito tematico, dunque, si può ritenere che il convegno di Bologna abbia contribuito in maniera decisiva alla maturazione di una nuova direzione della ricerca.
Si vedano, a puro titolo di esempio, T. Lazzari (a cura di), «I beni delle regine: beni del fisco e politica regia fra IX e X secolo», Reti Medievali. Rivista, 13/2, 2012, pp. 123-298; V. Loré, «Limiti di una tradizione documentaria. I conti, le chiese, la città (Salerno, IX-XI secolo)», Quaderni storici, 154, 2017/1, pp. 209-34; T. Lazzari, «La tutela del patrimonio fiscale: pratiche di salvaguardia del pubblico e autorità regia nel regno longobardo del secolo VIII», Reti Medievali. Rivista, 18, 2017, pp. 99-121; S.M. Collavini, P. Tomei, «Beni fiscali e “scritturazione”. Nuove proposte sui contesti di rilascio e falsificazione di D. OIII. 269 per il monastero di S. Ponziano di Lucca», in W. Huschner (Hrsg.), Originale - Fälschungen - Kopien. Kaiser- und Königsurkunden für Empfänger in Deutschland und Italien (9.-11. Jahrhundert) und ihre Nachwirkung im Hoch- und Spätmittelalter (bis ca. 1500), Leipzig, 2017 (Italia regia, 3), pp. 205-16. 4 Anche a questo riguardo mi limito a qualche esempio, come il convegno di Roma del 2016 i cui atti sono in stampa Beni pubblici, beni del re. Le basi economiche dei poteri regi nell’alto medioevo (VI-inizio XI secolo), a cura di V. Loré, Turnhout; la sessione all’ultimo IMC di Leeds (2017) dal titolo A ‘Dark Matter’. Archaeology and History of Fiscal Estates (9th-11th c.); o le virtuosa contaminazione con il progetto europeo ERC nEU-Med, cfr. il contributo di G. Bianchi e il seminario dell’aprile 2017 su Origins of a new economic union (7th-12th centuries). Resources, landscapes and political strategies in a Mediterranean region. The nEU-Med project and the new research ten years after the loss of Riccardo Francovich (i cui atti sono anch’essi in corso di stampa). 3
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5. Un secondo, altrettanto importante, ambito di riflessione, che accomuna molti dei nostri saggi, rimanda alla nozione di pubblico come “aperto, visibile a tutti, rappresentato di fronte a una comunità”. Intorno a questo tema si annodano bene alcune delle relazioni relative alla tarda antichità (o le sezioni relative a questa fase in interventi di più lungo periodo), come quelle di Machado, Augenti e Santangeli Valezani. In questi casi il diverso articolarsi delle strutture spaziali nelle quali si svolgono le varie attività umane costituisce un elemento di riflessione non meno importante della titolarità (pubblica o privata) delle strutture stesse. Allo stesso modo, nel saggio di Fiocchi Nicolai, la collocazione spaziale e le forme di accessibilità alle chiese annesse alle grandi proprietà tardo antiche ne spiegano la natura di chiese comunitarie (e perciò ‘pubbliche’) o di cappelle (‘private’) dei loro proprietari. Se la ricchezza e l’imponenza delle fonti materiali, ma anche scritte, tardo antiche permette di dipanare bene la riflessione intorno a questo nucleo problematico, la questione si fa più complessa addentrandosi nell’alto medioevo, innanzitutto per il rarefarsi e impoverirsi delle fonti. Porre domande adeguate permette comunque di raggiungere risultati rilevanti anche per questo periodo, come mostra bene il saggio di Irene Barbiera. In questo caso il contesto, più o meno pubblico, nel quale viene deposto o indossato l’oggetto fibula ne determina il significato fino alla sua stessa connotazione di genere. L’interazione tra sfera privata (non solo nel senso di famigliare, ma anche di intimo) e sfera pubblica, dunque, non connota solo gli spazi architettonici, ma anche l’uso degli oggetti e il loro significato. Né il problema si limita agli oggetti. Come mostra Tiziana Lazzari, infatti, anche nella sfera dei rapporti personali esiste una tensione tra rappresentazione pubblica (e quindi loro normalizzazione all’interno di categorie date, condivise e chiaramente riconoscibili) e vissuto privato. Lazzari affronta in maniera convincente questo tema complesso e scivoloso in relazione alle strutture famigliari dei ceti inferiori dell’alto medioevo, mettendo in discussione l’assoluto e univoco predominio della famiglia nucleare, che la storiografia generalmente ricava da fonti normative e polittici. Non sono ancora del tutto certo (ma più che in sede di convegno) che il saggio raggiunga del tutto lo scopo di scuotere questa diffusa certezza (del resto la discussione alla relazione fu assai vivace a Bologna), esso però mostra in modo convincente che la questione è ben più complessa di quanto si sia finora pensato. Anche in questo caso, l’attenzione alle semplificazioni operate dalle fonti e la valorizzazione di dati marginali
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Qualche considerazione conclusiva
permettono di cogliere non solo quanto di costruito e non naturale ci sia nella rappresentazione delle strutture delle famiglie contadine, ma anche il fatto che è possibile provare a superare questa immagine stereotipata, alla ricerca di rapporti più complessi e intimi. Anche in questo campo un passo in avanti fondamentale verrà di certo dall’applicazione a queste riflessioni dei dati materiali offerti dall’archeologia. In questo saggio, come in quello di Régine Le Jan, le due nozioni di pubblico finora commentate si incrociano utilmente: la dimensione pubblica della famiglia, infatti, non è solo quella che si mostra in pubblico, ma anche quella che risponde alla normatività delle autorità pubbliche. Nel saggio della studiosa francese, esemplarmente agganciato all’analisi di una fonte apparentemente arida come le date topiche, la questione emerge limpidamente. Le Jan svolge le sue riflessioni a partire dall’ambiguità presente nelle date topiche dell’aera germanica nel secolo VIII tra l’uso dell’aggettivo publicus per designare un luogo o una struttura (segnalandone così la speciale connessione al potere regio) e l’uso dell’avverbio publice, volto invece a sottolineare che l’atto è redatto di fronte un pubblico ampio e rappresentativo della comunità politica e sociale di riferimento. Lo slittamento tra l’una e l’altra formula e persino la totale ambiguità in presenza di forme abbreviate per troncamento non vanno visti come mero problema diplomatistico, ma come spia dell’integrazione tra le due sfere: il potere pubblico (= regio), infatti, si manifesta e si nutre della sua manifestazione pubblica, specialmente in un contesto assembleare. Questa tradizione assembleare, sulla quale ha recentemente richiamato l’attenzione anche Chris Wickham5, è del resto – come mostra bene anche il saggio di Janet Nelson – fondamentale per le strutture politiche del tempo. L’assemblea più o meno generale e l’insieme di incontri più o meno ampi e più o meno “aperti” che a essa si connettevano – come argomenta Nelson – erano, infatti, non solo lo spazio della rappresentazione pubblica del potere e della sua capacità di distribuire risorse materiali e simboliche, ma anche lo spazio nel quale si generavano, si manifestavano e si strutturavanono i rapporti di familiaritas caratteristici della politica alto medievale.
C. Wickham, «Consensus and Assemblies in the Romano-Germanic Kingdoms: a Comparative Approach», in V. Epp, Ch.H.F. Meyer (Hrsg.), Recht und Konsens im frühen Mittelalter, Ostfildern, 2017 (Vorträge und Forschungen, 82), pp. 389-426. 5
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Queste considerazioni, dunque, permettono di ricollegarsi a quanto detto in precedenza sui beni pubblici, cercando di evidenziarne un ulteriore aspetto. Il ruolo dei beni fiscali, infatti, non era solo quello di fornire le basi materiali del potere regio (sia attraverso i redditi diretti generati che attraverso la distribuzione di risorse materiali e simboliche), né solo quello di garantire la logistica necessaria a un potere itinerante quale quello dei re (e dei grandi ufficiali pubblici). Quei complessi patrimoniali erano anche il palcoscenico sul quale tale potere pubblico (in quanto regio) si manifestava pubblicamente (cioè di fronte alla collettività, almeno potenziale, degli attori politici), in primo luogo in forma di assemblee più o meno ampie o ristrette. Assumono così un ulteriore strato di significato la dislocazione dei beni fiscali del dotario di Ugo di Arles lungo la maggiore viabilità e in luoghi ‘incrocio’ fra diverse direttive o la tettoia che pare circondasse la torre di Vetricella6. Nel primo caso non si trattava solo di favorire la mobilità di re e marchesi, ma anche di permettere loro di agire, incontrare persone di peso, riunire masse più ampie di uomini in luoghi “pubblici” in quanto aperti alla visibilità della comunità e nei quali fosse più semplice riunire assemblee partecipate, una delle vocazioni di lungo periodo di un sito come quello di S. Genesio. Nel secondo, la tettoia oltre alla funzione di protezione e segnalazione degli spazi di lavorazione e stoccaggio di prodotti agricoli e manufatti (in ferro), doveva delimitare e generare lo spazio (doppiamente pubblico, per regime possessorio e per la sua qualità di apertura e visibilità, ben diverso dallo spazio interno alla torre) nel quale non solo i vertici del potere pubblico (durante i loro occasionali passaggi), ma anche i suoi rappresentanti locali (un gastaldo?) interagivano con la comunità locale e di fronte a essa si rappresentavano. Insomma, facendo interagire fra loro le diverse nozioni della coppia pubblico/privato e puntando lo sguardo sulla dimensione spaziale, non solo possiamo cogliere le interazioni fra sfera pubblica e sfera privata (nei loro diversi aspetti), ma possiamo risolvere in maniera complessa le diverse sfumature di valore che attribuiamo a questi due campi semantici, in alcuni luoghi perfettamente intersecantisi fra loro.
Per il primo, oltre alle considerazioni di F. Cantini in questo volume, vd. G. Vignodelli, «Berta e Adelaide: la politica di consolidamento del potere regio di Ugo di Arles», Reti Medievali. Rivista, 13/2, 2012, pp. 247-94; per la seconda vd. G. Bianchi, S.M. Collavini, «Beni fiscali e strategie economiche nell’altomedioevo toscano: verso una nuova lettura?», i.c.s. negli atti del seminario citato supra nota 4. 6
Tavole a colori
Vincenzo Fiocchi Nicolai Le chiese rurali di committenza privata e il loro uso pubblico (IV-V secolo)
Fig. 1 – Epitaffio di Aithales rinvenuto in località Treppiedi presso Modica, in Sicilia (da Rizzone, Opus Christi aedificabit).
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Fig. 2 – Iscrizione incisa sulla roccia, commemorativa dei lavori fatti realizzare da Claudio Postumio Dardano in località Theopolis (Saint-Geniez- Sisteron) (foto dell’Autore).
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Figg. 4 (a, b) – Capitello ionico e imposta con croci, rinvenuti nella basilica di S. Stefano al III miglio della via Latina (Roma).
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Fig. 5 – Planimetrie delle ville di Torre de Palma (n. 1, da Chavarría Arnau, El final), La Cocosa (n. 2, da Bowes, Private Worship), Loupian (n. 3, da Pellecuer, Pomarèdes, «Crise, survie ou adaptation»), Muline (n. 4, da Bowes, Private Worship), Las Calaveras (n. 5, da Chavarría Arnau, El final), Castelfusano (n. 6, da Buonaguro, «La basilica paleocristiana anonima»), con le relative chiese (evidenziate in cerchio).
Tavole a colori
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Fig. 6 – Planimetrie delle ville di Milreu (n. 1, da Chavarría Arnau, El final), Vandoeuvres (n. 2, da Terrier, «Approche archéologique), Palazzo Pignano (n. 3, da Casirani, Palazzo Pignano), con le relative chiese (evidenziate in cerchio).
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Fig. 7 – Planimetria della chiesa della villa di Palazzo Pignano (da Casirani, Palazzo Pignano).
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Fig. 8 – Planimetrie e foto aeree delle ville di Fortunatus presso Fraga (n. 1, da Bowes, Private Worship), Sizzano (n. 2, da Spagnolo Garzoli, «Sizzano. Insediamento romano»), Ivinj (n. 3, da Baraka, Civitates, castra e siti isolani), Mola di Monte Gelato (n. 4, da Potter, ????), S. Stefano sulla via Latina, Roma (n. 5, da Fortunati, Relazione generale degli scavi), Séviac (n. 6, da Balmelle, Les demeures aristocratiques), con le relative chiese (evidenziate in cerchio).
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Fig. 11 – Affresco con personaggi oranti dell’oratorio della villa di Lullingstone (da Meats, The Roman Villa).
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Fig. 12 – Affresco dall’oratorio della villa di Lullingstone (da Meats, The Roman Villa).
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Andrea Augenti Architetture del potere. I palazzi urbani tra tarda Antichità e Medioevo: una prospettiva archeologica
Fig. 2 – Brescia: I resti del palazzo al momento della scoperta e, in basso, planimetria ricostruttiva (a sinistra) e contestualizzazione del complesso nella topografia urbana (da Brogiolo, «Architetture e insediamenti»).
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Fig. 3 – Monte Barro: il Grande Edificio (da Brogiolo, Castelletti, Archeologia a Monte Barro).
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Fig. 10 – Palazzo di Paderborn: ricostruzione della I fase edilizia (da Gai, «Die Pfalz Karls des Großen»).
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Giovanna Bianchi Spazi pubblici, beni fiscali e sistemi economici rurali nella Tuscia post carolingia: un caso studio attraverso la prospettiva archeologica
Fig. 2 – Donoratico: ricostruzione del sito tra fine IX e X secolo (grafica Mirko Buono). In primo piano la chiesa, in alto a destra il recinto interno con la torre e la capanna.
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Fig. 4 – Monterotondo Marittimo: planimetria dell’area di scavo con le evidenze corrispondenti alla fase di fine IX-X secolo. In rosso è segnato il muro costruito in questa fase a chiusura della zona sommitale (da Bianchi, Grassi, «Sistemi di stoccaggio», pp. 77-102).
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Fig. 5 – Foto aerea del sito di Vetricella prima dello scavo archeologico (foto Laboratorio di Archeologia dei Paesaggi e Telerilevamento, Università degli Studi di Siena).
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Fig. 6 – Vetricella: foto aerea del sito alla fine della campagna 2017.
Indice dei nomi
A
Africa 44, 117
Aachen 21, 32, 34 vedi anche Aixla Chapelle
Agapito, papa 200, 241
Abano (Padova) 248 Acerenza 65, 66, 67 Acilio Fausto / Anicius Acilius Glabrius Faustus, console romano 37, 199 Adalardo, abate 20, 21, 22, 25 Adalbertingi, famiglia 272 Adalberto, marchese di Tuscia 303 Adalberto II, marchese di Tuscia 276, 321 Adelaide, regina consorte d’Italia 272, 274, 280, 300, 321 Adelchi, dei Longobardi 61, 78, 80, 81 Adeodato, vescovo 100 Adriano, imperatore romano 335 Adriano I, papa 105
Agnello di Trento, vescovo 106 Agostino, santo 115, 117, 129 Aix-la Chapelle 174 vedi anche Aachen Alahis, gastaldo 83 Alberico, senatore dei Romani 207-211 Albino / Albinus, vir illustris 256, 257 Alboino, dei Longobardi 90 Aldelmo, vescovo e santo 337 Aldobrandeschi, famiglia 299, 307, 309, 317, 319 Alémanie vedi Germania Alifrido, gastaldo 74, 75 Aloiosus, architetto 249 Alpert, duca lungobardo 81
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Indice dei Nomi
Alpi, catena montuosa 115 Alsace 177, 178, 180, 198 Alta Provenza 115 Amalasunta, figlia del re Teoderico 202, 240 Amelia, madre di Gregorio di Nissa 111 Amiata, monte 162, 220, 222, 272, 308 Ammiano Marcellino / Ammianus Marcellinus, storico 49, 252 Andrea Agnello, diacono di Ravenna e storico 90, 205 Annisa nel Ponto 111 Arcadio, imperatore romano 111, 256
Artemidoro, senatore romano 242, 255 Artemius, politico romano 55 Astolfo, dei Longobardi 61, 71, 77, 81 Astronomer, biografo 32, 33 Atalarico, re dei Goti 202, 240 Attila, re degli Unni 90 Audepert, longobardo 220, 221 Augsbourg 188 Augusto / Augustus, imperatore romano 31, 45, 202, 241 Ausonio, poeta romano 114, 130, 141 Austrasie 173 Autun 174
Arcidosso 162
Auxerre 174
Arechi, duca longobardo 76
Avellino 67
Arechi II, duca longobardo 62 Arezzo 80, 93, 100, 102, 132
B
Argenteuil, monastero 34
Badorf 271
Argentina (Roma), piazza 40, 41, 201, 210
Baltilde, regina di Neustria 337
Arioaldo, dei Longobardi 79 Ariperto, dei Longobardi 82 Arles 244, 248, 272, 273, 300, 347, 351 Arno, fiume 314
Banso, gastaldo 83 Baroncello, longobardo 220-222, 226 Barro, monte 152, 153 Basilica di Massenzio (Roma) 155 Baugulf, abate 177
Indice dei Nomi
Bavaria 30 Belgique 175 Belisarius, comandante bizantino 54 Benedetto del Soratte, monaco 206, 208, 209 Benevento 60-62, 66, 67, 69, 70, 72, 73, 75, 76-78, 84, 207, 289 Berengario I, re d’Italia 307, 321, 323 Berg 180, 181, 188 Bergamo 77 Bernard of Italy, dei Longobardi 20 Berta di Lotaringia, marchesa consorte di Toscana 303, 321 Berta di Svevia, regina consorte d’Italia 272, 274, 300, 308 Bertha, figlia di Carlo Magno 33, 34 Biblioteca di Agapito (Roma) 200 Bobbio, monatsero 76, 82, 266, 268, 270 Bochonia, foresta 189, 190 Bomarzo 207 Bonifacio di Ferento, vescovo 90, 91, 104 Bourgogne 174 Bregenz 188
371
Brescia 76, 81, 82, 113, 151-153, 171, 265 Britannia 330 Broili 162 C Caelian vedi Celio (Roma), colle Calabria 63, 65 Calcedonia 97, 112, 113 Callisto, patriarca 106 Camonica, valle 77 Campania 47 Campiglia 317 Campo Marzio (Roma) 202 Campus Agonis vedi Navona (Roma), piazza Cancor, conte 182, 191, 196 Canosa 65-67 Capua 63, 67 Carino, imperatore romano 334 Carlo il Calvo, dei Franchi occidentali e imperatore 30, 97, 98, 102 Carlo Magno, imperatore 20, 22, 30-34, 77, 81, 155, 177, 181, 246, 268, 337, 338 Carloman (I), re carolingio 189
372
Indice dei Nomi
Carloman of West Francia (Carloman II), re carolingio 20 Carolingian empire 189 Carolingian kingdom, 20, 21 Cassiodoro, politico e storico romano 202, 236, 237, 240, 246, 250, 251, 253, 254, 257, 258, 259 Castagneto Carducci 308 Castelfusano (Roma) 135 Catania 238, 244, 246 Cecina Albino, senatore romano 201, 202 Celio (Roma), colle 40, 42, 50, 142, 200 Chalon 174 Charlemagne vedi Carlo Magno Charles Martel, maggiordomo 30, 181, 182, 189 Charles the Bald vedi Carlo il Calvo, dei Franchi occidentali e imperatore Chiesa di Roma 107, 118, 120, 121, 124, 125, 127, 128, 130, 131, 289, 341
Cicolano 73 Cividale 106, 228 Claudius Postumus Dardanus, prefetto pretorio 115 Clodoveo, re dei Franchi 237 Coire 188 Colline Metallifere 295, 299, 301, 308, 312, 313, 314, 318-320, 322324 Colonia 271 Colonna (Roma), palazzo 208 Colosseo (Roma) 202 Conservatorio di San Pasquale Baylon (Roma) 40 Constance, lago 190, 191 Constantine, imperatore 37, 55 Constantinople vedi Costantinopoli Conza 65-67 Corbie, abbazia 20, 267, 270 Corinto 91 Corippo, poeta bizantino 334, 337 Corteolona 102
Childerico, re dei Franchi 332
Costambeys, Marios 25
Chilperic, re dei Franchi 24
Costante, imperatore bizantino 67
Chrodegang, arcivescovo 191 Cicerone, politico romano 11, 26, 47
Costantinopoli 24, 91, 109, 123, 129, 155, 237, 241
Indice dei Nomi
373
Cremona 106, 137
E
Croazia 138
Ecclesio di Chiusi, vescovo 91
Cugnano 284, 286, 316
Eckdorf 271
Cunhart, notaio 190
Eginardo, storico franco 337, 338
Cuniperto, dei Longobardi 105
El Saucedo 138 Eligio, santo 337
D
Elpidio, medico di Teoderico 256
Dagobert, re dei Franchi 173, 174
Elsa, fiume 278
Dalmazia 238
Emilia-Romagna 169, 263
Danimarca 287
Emiliano, vescovo 247
Dazio, vescovo 91
Esders, Stefan 29
Decio, patrizio romano 201
Esquiline (Roma), colle 44
Della Gherardesca, famiglia 299, 317
Estuni 238, 239, 241
Demetriade, aristocratica romana 123, 124, 132 Desiderio, dei Longobardi 61, 76, 78, 80, 81 Deusdedit, nobile ravennate 95 Domenico Silvo, doge di Venezia 99 Domus Flavia (Roma) 149 Dondone, fratello di Rottopert di Agrate 224
F Farfa, abbazia 69, 71, 73-75, 77, 78, 204, 206 Fastrada, moglie di Carlo Magno 28, 34 Faventia 239 Felice di Treviso, vescovo 90, 104 Ferentino 91 Fiesole 94
Dono, vescovo 341
Flavigny, monastero 24
Donoratico 301, 304-306, 308310, 312, 313, 323, 325,
Flavio Rufino / Flavio Rufinus, console e prefetto pretorio 112, 129, 141
Dorestadt 268
374
Indice dei Nomi
Flavius Laurentius, exceptor senatus 37
Germania / Germanie 162, 176, 177, 184, 190, 198, 330
Fonte Benedetta in Alpe 281
Geronzio, patrizio romano 201
Foro di Augusto (Roma) 202
Giorgio, secundicerio di Alberico 207
Foro di Nerva (Roma) 162, 210 Foro Romano (Roma) 200, 256 Fortunato, patriarca di Aquileia 105 Fraga 138 Francia 20, 24, 26, 138, 162, 165 Francigena, via 278 Francoforte 158 Francovich, Riccardo 276, 295, 297, 298, 305 Franks 28, 30 Fulda, abbazia 176, 177, 181, 183, 187-190, 270
Giovanni, arcivescovo 90 Giovanni, duca d’Istria 105 Giovanni, vescovo 105 Giovanni, vir spectabilis 202, 255, 256 Giovanni VIII, papa 95 Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli 109-111, 123, 127, 133 Girolamo, santo 115, 327, 336 Giselberto, funzionario longobardo (uualdeman) 82 Gisla, figlia di Carlo Magno 34
G
Giustiniano, imperatore bizantino 24, 130
Gaius Gracchus, magistrato romano 52
Giustino, imperatore bizantino 334
Gallia 115, 118, 132, 136, 176
Globe Theatre (Londra) 19
Gallieno, imperatore romano 335
Godifredo, gastaldo 74
Gaudenzio di Brescia, vescovo 113
Goetz, Hans-Werner 26, 27
Gaule vedi Gallia
Gordiani, famiglia 47
Gelasio, papa 125, 127, 128
Gorfigliano 281, 282
Geldersheim 185, 190, 191
Gozbert, duca 189
Genova 162, 166, 244, 268
Grassi, Francesca 315
Indice dei Nomi
Grecia 112
62, 87, 89, 90, 92, 119, 125, 127, 131, 153, 162, 165, 169, 204, 205, 207, 210, 211, 220, 235, 253, 262265, 267-269, 272, 274, 287, 289, 290, 294, 298, 306, 323, 329-331, 347
Gregorio di Nissa, vescovo 111, 112 Gregorio Magno, papa 89-91, 98, 104, 341 Guido, marchese di Toscana 273, 281
375
Iunius Bassus, console romano 45
Gundoaldo, actionarius 74, 75 Gunteram, notaio 93, 94
J
Gunz, duca 190
Janes, Dominic 331 Jumièges, monastero 30
H Hariland, notaio 191, 193, 195, 197
Justinian vedi Giustiniano, imperatore bizantino
Hetti, prete 188
K
Hincmar, arcivescovo di Rheims 20, 21, 29-31
Kasten, Brigitte 31
Hodder, Ian 328 Hodges, Richard 264, 279 I Ilderico, gastaldo 74 Ilprando, chierico 78, 93 Ingelheim 30, 153, 156 Inghilterra 141 Innes, Matthew 32, 33 Isidoro di Siviglia, vescovo 129, 332 Italia / Italy 14, 20, 25, 26, 29, 59,
Klippel, Diethelm 31 L Ladenburg 182, 183 Langres 174 Larino 67 Lateran (Roma), palazzo 46, 155, 158, 206 Latina (Roma), via 120, 132, 134, 138 Lazio 169 Leo, imperatore 56 Leone, abate Leone I, papa 120
376
Indice dei Nomi
Leone III, papa 155
Ludovico, gastaldo 207
Limoges 24
Ludovico II il Germanico / Louis the German/ Louis II, re franco 30, 34, 101
Liutbirga, figlia di Desiderio, re dei Longobardi 30 Liutfredo, vescovo 103 Liutprando di Cremona, vescovo 78, 93, 106 Liutprando, dei Longobardi 82, 227, 228 Livius Drusus, politico romano 52
Ludovico III, imperatore 206 Lullingstone 141, 142 Lupo, duca longobardo 69 M
Lobdengau 180, 182
Macrina, sorella di Gregorio di Nissa 111, 141
Locride 112
Macrobius, filosofo 55
Loira, fiume 264
Magister Gregorius, autore 206
Lombardia 265
Mantova 100
Lorsch, abbazia 176, 178, 180, 182, 183, 191, 192, 270
Marburg 177
Losne 174 Lotario, imperatore carolingio 98, 101 Lotario II, re d’Italia 103, 272 Louis le Pieux, imperatore carolingio 32, 33, 34, 174, 182
Marche 169 Marculf, monaco 28, 178 Maremma 295, 319 Maria, nobile ravennate 95 Marino di Bomarzo, vescovo 207 Marocco 268
Lucca 81, 83, 265, 270, 274, 276, 278, 281, 287, 288, 299, 300, 309, 314, 317, 319-322
Marsiglia 217, 230
Lucera 65, 66
Marziale, poeta romano 329
Lucius Aradius Valerius Proculus, console romano 43
Massimo di Torino, vescovo 113
Lucullus, senatore romano 47
Mayence 180, 183
Martino di Tours, santo 138
Maurianula 69
Indice dei Nomi
Mayenne 165
N
Melania la Giovane, aristocratica romana 118, 138
Nahegau 177
Memmius Vitrasius Orfitus, senatore 46, 52 Mérida 90 Metz 182 Meuse, fiume 20 Milano / Milan 25, 289 Milreu 136 Milz 190, 191 Mitola 67 Modena 76, 77 Modica 113 Mola di Monte Gelato 134, 135, 290
377
Napoli / Naples 47 Navona (Roma), piazza 203, 204 Negotianum 69 Nicea 95 Nicomachus Flavianus, politico romano 52 Nithard, nipote di Carlo Magno 26, 33 O Oberto, marchese 103 Odoacer, re in Italia 47 Oglio, fiume 76
Molise 63, 67
Olivolo (Venezia), isola 100
Monastero del Soratte 208, 211
Olympiodorus of Thebes, storico 56
Monastero di Subiaco 206
Omulo, chierico 94
Montagnano 69
Onorio, imperatore romano 111, 256
Montarrenti 282, 285 Montelupo Fiorentino 275 Montemassi 315, 317 Monterotondo Marittimo 283, 284, 305, 309 Monteverdi 299, 308, 309, 317
Oppian (Roma), colle 39 Optileopa, moglie del gastaldo Varnefred 339 Orba 272, 275 Orleans / Orléans 132, 174, 278 Ortisiano 69
Orvieto 170
Paolino, patrizio romano 256
Ospedale dell’Addolorata (Roma) 42
Paolo Diacono, storico 80, 90
Osprando, chierico 93 Ostia (Roma) 42 Otone, silvano 82 Ottone I, imperatore 322 Ottone II, imperatore 322 Ottone III, imperatore 206, 307, 322 Ottoni, famiglia 304, 322
Paolo, apostolo 112 Paris 174 Parma 79-81, 169, 171, 244, 265 Pascasio 82 Paternione 71, 74 Pavia 60, 61, 67, 77, 83, 96, 98, 103, 105, 106, 205, 230, 236, 274 Pecora, fiume 306, 316 Peltrasio 341
P
Pépin, maggiordomo di palazzo 182
Paderborn 34, 158
Peredeo, vescovo 93
Padova 134, 248
Pertarito, dei Longobardi 79
Palatino (Roma), colle 147, 149, 155
Pertone, gastaldo 74, 75
Palazzo del Podestà (Bologna) 170 Palazzo dell’Arengo (Ascoli) 170 Palazzo di Teoderico (Ravenna) 155 Palazzo Pignano (Cremona) 137, 138
Piacenza 78, 79, 81, 265 Piave, fiume 90 Piemonte 138, 238 Pietro, apostolo 112 Pipino (d’Italia), re franco 95, 101 Pisa 83, 92, 94, 287, 319, 320
Pannonia 331
Pistoia 165, 287, 320
Paolino di Aquileia, patriarca 228
Plinio il Giovane 135
Paolino di Nola, vescovo 116, 117, 142, 143
Plinio / Pliny the Elder 46, 47, 336
Indice dei Nomi
379
Po, fiume 76
R
Poggibonsi 304
Raban Maur, abate di Fulda 177
Poggio alla Regina 280
Radegunda, regina dei Franchi 338
Pompei 330 Pompey the Great, console romano 47 Ponzio Leonzio, aristocratico romano 115, 118, 141 Populonia 299, 300, 307, 314 Portogallo 136 Praetextatus, politico romano 55
Radelchi, principe dei Longobardi 207 Radinc, prete 188 Radoaldo, gastaldo 82 Ravenna 95, 155, 238, 239, 241, 245-247, 249, 289, 334 Reggio Emilia 76, 82, 103 Regnum Italiae 205, 207
Prile, lago 280, 318
Reuter, Tim 22
Probiano, politico romano 332
Rheingau 177
Provenza 115, 321-323 Prum, abbazia 287 Puglia 63-66 Q
Rhin, fiume 176, 184, 198 Rialto (Venezia) 100 Rieti 69, 71, 73, 74, 85 Rio, Alice 24, 178 Robert, conte 185, 190
Quierzy 20, 21, 182
Rocca degli Alberti 283, 285, 305, 306, 309, 311, 312, 323, 325
Quintilian, oratore 26
Rocca San Silvestro 295, 301
Quintilii, famiglia 48
Rocchette Pannocchieschi 284, 286, 315, 316
Quinto Aurelio Simmaco, oratore e senatore romano 47, 135 Quintus Aradius Valerius Proculus, senatore romano 43
Roma / Rome 14, 37-40, 42, 44-50, 56, 57, 89, 90, 98, 119-121, 125, 127, 129, 131, 147, 149, 200, 201, 203, 205-207, 210, 211, 238, 241243, 246, 252-259, 287, 289, 335
380
Indice dei Nomi
Roman Empire 23, 28, 38
S. Germain-de-Prés, abbazia 270
Romano, vescovo 95, 96
S. Getulio (Montopoli di Sabina), chiesa 73
Romani / Romans 28, 54, 56, 249
S. Giacinto, gualdo 72, 73, 75
Romulus Augustus, imperatore 47
S. Giovanni in Laterano (Roma), basilica 142
Roselle 299, 300, 307, 318
S. Giulia (Brescia), monastero 265-267
Rotari, dei Longobardi 82, 220, 223, 225 Rottopert di Agrate, vir magnificus 224 Rottweiler 190 Rouen 30 Rufino vedi Flavio Rufino / Flavio Rufinus, console e prefetto pretorio Rupert, conte 191, 194 S S. Andrea (Roma), chiesa 44 S. Angelo, gualdo 73, 74 S. Ansano (Siena), chiesa 100 S. Antimo, abbazia 272, 308 S. Antonino di Piacenza, basilica 78 S. Donato (Arezzo), chiesa 93, 94
S. Maria (Lucca), chiesa 93, 224 S. Maria (Scò), chiesa 281 S. Maria di Aulla, abbazia 272 S. Martino (Lucca), cattedrale 93, 276 S. Martino di Tours, basilica 77 S. Martino in Colline, chiesa 95 S. Pietro (Genova), monastero 268 S. Pietro in Palazzuolo, monastero 299, 308 S. Salvatore (Brescia), monastero 76, 77, 80, 81, 82 S. Salvatore al Monte Amiata, abbazia 222, 272, 308 S. Salvatore di Sesto, abbazia 308 S. Silvestro (Nonantola), monastero 76
S. Eulalia (Mérida), basilica 90
S. Sofia (Benevento), monastero 162
S. Gallo / St Gall, abbazia 176179, 184-188, 190, 270
S. Stefano sulla via Latina (Roma), basilica 134, 138
Indice dei Nomi
S. Tommaso (Lucca), chiesa 93 S. Trinita, monastero 281 Salerno 63, 65, 66, 158, 161, 207 Samuel, notaio 191, 192, 194, 196 San Genesio, curtis marchionale 275, 276, 278, 279, 285, 288, 294, 319, 323, 351 San Lorenzo (Genova), palazzo vescovile 166 San Silvestro (Genova), palazzo vescovile 162 San Vittore (Marsiglia), abbazia 216, 217 Sarrebourg 180 Sarris, Peter 23-25 Sassonia 337 Scarlino 276, 280, 285, 295, 305, 307, 314, 315, 317 Scharer, Toni 31 Seneca, filosofo 52 Sens 174
Simmaco, patrizio romano 243, 253, 258, 259 Siponto 65 Sirmione 77 Sisteron 115 Sizzano 138 Spagna 89, 132, 136, 138, 269 Spoleto 60, 61, 68, 69, 73, 75, 7779, 84, 256 Squillace 251 Ss. Apostoli (Roma), chiesa 206208 Ss. Cosma e Damiano (Roma), basilica 206 Ss. Giovanni e Paolo (Roma), chiesa 142 St Goar, monastero 30 St Denis 24, 158 St Geniez 115 St Sauveur (Utrecht), chiesa 182
Sesto al Reghena, monastero 81
Stadio di Domiziano (Roma) 203
Sette Sale (Roma), cisterna 39-42
Staubach, Nikolaus 31
Séviac 138
Stefano, santo 117, 122, 124
Shakespeare, William, poeta 19, 22
Stilicone, politico romano 332
Siena 80, 93, 102, 130, 220, 252 Silverius, vescovo 53, 54
381
Strasbourg 178-180, 183 Sturmi, abate 177 Suetonius Svetonio, storico 31
382
Indice dei Nomi
Sulpicio Severo, aristocratico romano 116, 117, 142, 143
Theodosius II vedi Teodosio II, imperatore romano
Suna, conte dell’Etruria 249
Theodrada, figlia di Carlo Magno 34
Suvereto 317 Swift, Ellen 331 Symmachus vedi Quinto Aurelio Simmaco, oratore e senatore romano T Tabacco, Giovanni 72, 322 Taranto 65 Taro, fiume 79 Tassilo, duca di Baviera 30
Theopolis 115 Theotchar, duca merovingio 180 Thuringe 177 Tiber, fiume 40 Toledo 114 Tolmezzo 162 Tonale, passo 77 Torraccia di Chiusi 252 Torre de Palma 136
Tauriano 69
Toscana 132, 162, 265, 275, 276, 283, 284, 291, 294, 303, 308
Teodato, re dei Goti 202, 240
Tours 77, 138, 178, 278
Teoderico, re dei Goti 41, 155, 201-203, 205, 235, 237, 238, 240, 242, 245, 246, 247, 249, 252-258
Trajan, imperatore 39-41, 184
Teodoaldo di Fiesole, vescovo 94
Transamondo 67 Transamondo II, duca longobardo 73 Trastevere (Roma) 40, 209
Teodosio, imperatore romano 130
Treviri 155
Teodosio II, imperatore romano d’Oriente 37, 38, 112
Treviso 81, 90
Tertulliano, scrittore romano 336 Thegan, biografo 33 Theoderic vedi Teoderico, re ostrogoto
Tuscia 60, 90, 165, 272, 274, 276, 294, 300, 303, 304, 306, 314, 318-322, 324, 325 Ugo di Arles / Ugo di Provenza, re d’Italia 103, 272, 273, 280, 300, 308, 321, 322, 323, 347, 351
Indice dei Nomi
Umbria 169
383
Volusiano, politico romano 252
Utrecht 182, 191 W V
Walberberg 271
Valdarno 272, 280, 291, 319, 320, 323, 324
Waldhambach 181
Valens, imperatore romano 55 Valentinian, imperatore romano 55 Valerii, famiglia 42, 44, 46 Valerio Piniano, aristocratico romano 138 Vandoeuvres 136 Varnefred, gastaldo di Siena 339 Vegezio, scrittore romano 251 Venanzio Fortunato, vescovo 339 Venezia 9, 99 Vercelli 82, 244, 247, 327 Verdun 20 Verona 113, 236 Vienna 11, 27 Vignodelli, Giacomo 263, 300 Vitruvius, architetto e scrittore romano 50, 55 Volterra 299, 317
Weber, Max 27 Weinheim 180, 192 Wickham, Chris 23-25, 72, 204, 211, 263, 264, 290, 350 Widerad, abate 24 Wiglarius, notaio 191, 193, 195, 197 Williswinde, moglie del conte Rupert 191 Wissembourg, abbazia 176, 177, 179, 180 Worms 180, 183
Z Zaccaria, abate 62 Zaccaria / Zacharie, papa 158, 189 Zeno di Verona, vescovo 113 Zenobia, regina di Palmira (?) 335 Zülpich 182