Sofia e Psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto 8820751119, 9788820751111

I tempi sembrano maturi per un confronto sereno tra pratiche filosofiche e pratiche psicoterapeutiche, a volte ancora co

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Sofia e Psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto
 8820751119, 9788820751111

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SOFIA E PSICHE Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto a cura di Giorgio Giacometti

LIGUORI EDITORE

Phronesis Collana di pratica filosofica diretta da Maria Luisa Martini

1

Blandino - Cervari - Giacometti Martini - Maurizi Enrici - Montanari Pollastri - Santagostino - Zampieri

Sofia e Psiche Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto a cura di Giorgio Giacometti

Liguori Editore

Comitato scientifico: Giuseppe Ferraro, Umberto Galimberti, Ran Lahav, Luigi Lombardi Vallauri, Nestore Pirillo, Pier Aldo Rovatti

Questa opera è protetta dalla Legge 22 aprile 1941 n. 633 e successive modificazioni. L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=legal Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2010 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Novembre 2010 Giacometti, Giorgio (a cura di): Sofia e Psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto/Giorgio Giacometti (a cura di) Phronesis Napoli : Liguori, 2010 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 5118 - 0 1. Filosofia

2. Psicoanalisi

I. Titolo

II. Collana

III. Serie

Aggiornamenti: ————————————————————————————————————————— 17 16 15 14 13 12 11 10 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

Indice IX Prefazione Stefano Zampieri 1

Introduzione Giorgio Giacometti

9

Un estraneo in famiglia. Sulla relazione tra consulenza filosofica e psicoanalisi Neri Pollastri

37

Pratica filosofica e pratica psicoanalitica. Un approccio ermeneutico Maria Luisa Martini

47

Jung precursore della consulenza filosofica? Visioni del mondo a confronto Moreno Montanari

59

Un’ermeneutica per la pratica filosofica? Un confronto con Ludwig Binswanger Giorgio Giacometti

81

Il discorso dell’Altro. Consulenza filosofica e psicoanalisi lacaniana Giorgio Giacometti

113

Una certa somiglianza di famiglia. Consulenza filosofica e psicologia umanistica Stefano Zampieri

141

Breve nota su terapia della Gestalt e tradizione filosofica Cati Maurizi Enrici

153

Dialogo tra consulenza filosofica e medicina psicosomatica Paola Santagostino

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INDICE

167

Strategie indecidibili. Ambigui incroci tra psicologia strategica e consulenza filosofica Paolo Cervari

193

Psicologi o badanti? Sulla necessità di una formazione storico-filosofica degli psicologi Giorgio Blandino

209

Gli autori

Prefazione di Stefano Zampieri

Fin da quando nel 1981 il filosofo tedesco Gerd Achenbach ha aperto il primo studio di consulenza filosofica a Bergisch Gladbach, nei dintorni di Colonia, un modo nuovo di concepire e vivere la filosofia ha fatto il suo ingresso nel panorama culturale di tutto il mondo. Questa attività, che Achenbach ha chiamato Philosophische Praxis, si è poi rapidamente diffusa prima in Europa e poi negli Stati Uniti e nel resto del mondo: al Nono Congresso Internazionale della pratica filosofica, tenutosi a Carloforte nel 2008, hanno partecipato quasi 200 consulenti provenienti da 25 Paesi. Insomma, siamo di fronte a una realtà importante, non a un fenomeno passeggero ed effimero, non a una moda, ma a una novità che sta rapidamente conquistando la scena ovunque. Ma di che cosa si tratta esattamente? Provo a dare una sintetica risposta, rimandando alla ormai ricca bibliografia anche in lingua italiana per l’approfondimento e lo sviluppo delle molte questioni che si aprono. La prima definizione che possiamo ricordare è quella contenuta nello statuto di Phronesis – Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica, secondo la quale la consulenza filosofica (è questa la traduzione italiana invalsa per Philosophische Praxis) è un’attività che si propone di fornire a chi lo richieda (individui, gruppi, organizzazioni), sulla base di un approccio filosofico, supporto, aiuto e orientamento nell’ambito dei processi intellettuali, esistenziali, decisionali o relazionali, senza avere finalità terapeutiche. Si può arricchire questa prima formula chiarendo e ribadendo che essa si realizza nella forma del dialogo, attraverso il quale un filosofo consulente accompagna il suo ospite in un percorso di chiarificazione esistenziale, di presa di coscienza delle proprie difficoltà e della particolare visione del mondo che ne determina le scelte, di presa d’atto delle contraddizioni del proprio pensiero e delle proprie azioni, e del contrasto che talvolta si realizza nella vita tra ciò che pensiamo e ciò che facciamo. Il filosofo consulente non ha formule da applicare, non ha modelli entro cui inserire il suo ospite, non emette diagnosi e non colloca il suo interlocutore in un quadro definitorio. Ma si propone per fare con lui un cammino di natura prettamente filosofica, cioè argomentativa, e razionale.



PREFAZIONE

Nel corso del colloquio filosofico, dunque, due o più persone si scambiano esperienze in una condizione di parità, una parità di status che non abolisce ovviamente la differenza di ruolo che esiste tra il consulente e il suo ospite. Tuttavia gli interlocutori parlano con la medesima autorevolezza e ciò che viene detto va accolto per ciò che significa senza collocare le parole all’interno di una griglia interpretativa più o meno rigida, senza intendere le parole dell’altro come se fossero soltanto l’affioramento di una verità nascosta, ma piuttosto come il lavoro di un’interrogazione attraverso la quale provare a comprendere e a vivere diversamente l’esistenza. La consulenza filosofica è dunque prima di tutto filosofia. Ciò significa che essa si serve di tutti gli strumenti del pensiero critico, si serve delle figure del pensiero filosofico, si serve delle esperienze che si possono dedurre e comporre dalla tradizione della filosofia, ma, soprattutto, si serve di un atteggiamento filosofico che va al di là della tradizione, della letteratura filosofica, e degli autori: se origine della filosofia è la meraviglia, il consulente filosofico deve tornare all’origine e tradurre questo gesto in un atteggiamento filosofico di disponibilità all’interrogazione, disponibilità alla messa sotto esame, sensibilità nei confronti delle parole che usiamo, alle quali ci sottoponiamo, consapevolezza nel sentire la condizione relazionale che ci costituisce, e nel vivere il tempo e lo spazio, cioè la modalità attraverso la quale diventiamo testimoni del nostro tempo, di questo tempo e di questo mondo nel quale viviamo. La consulenza filosofica, nelle sue varie espressioni, da quella duale a quelle di gruppo, intende dunque riportare l’uomo a una condizione di vita nella quale possa esprimersi al meglio delle sue possibilità e nell’articolazione di tutte le sue forme. Oggi, dopo trent’anni di esperienza, la consulenza filosofica può confrontarsi con altre pratiche, fedele all’imperativo socratico per cui una vita senza ricerche non vale la pena di essere vissuta, e con tutta l’umiltà necessaria da parte di chi arriva per ultimo, ma ha qualcosa da dire.

Introduzione Spesso al filosofo che si dedica ad attività di consulenza filosofica viene rivolta una domanda: «Che differenza c’è tra l’attività che Lei esercita e quella di uno psicoterapeuta?». La domanda è favorita da una serie di somiglianze piuttosto estrinseche (ed equivoche) tra le due pratiche: dal teatro in cui a volte – non sempre – si svolge la consulenza individuale (lo studio del consulente) al fatto banale che, in questo teatro, gli “attori” sono generalmente due, seduti uno di fronte all’altro. E che, per interagire, si servono, per lo più, del linguaggio. In genere il filosofo, che si sente rivolgere una simile domanda, risponde in modo piuttosto sbrigativo, mettendo subito in chiaro quella che può sembrare un’ovvietà: «Le pratiche filosofiche, a differenza delle psicoterapie, non hanno (né potrebbero giuridicamente avere) finalità terapeutiche». Troppo spesso, tuttavia, non si è andati molto al di là della sottolineatura di questa pur chiara e fondamentale ragione di demarcazione. Nella “laconicità” di questa presa di distanze potrebbe avere operato, finora, specialmente nel filosofo consulente “in erba”, l’oscuro timore di trovare, ad esempio in approcci di indagine psicologica ispirati da questa o quella corrente filosofica o, comunque, non strettamente terapeutici, “fratellastri” ingombranti che, per una qualche malintesa “aria di famiglia”, potessero confondergli le idee. Il timore sarebbe, cioè, quello di essere tentato di mutuare in modo acritico da tali approcci questo o quello “strumento” operativo, al pur nobile fine di recare aiuto ai propri clienti. Tentazione molto pericolosa, ovviamente, e per due ragioni fondamentali: a) il filosofo non ha ricevuto una specifica formazione che lo abiliti all’impiego di strumenti di matrice psicologica; b) adottare uno strumento di questo genere (p.e. il cosiddetto transfert psicoanalitico) significherebbe introdurre nella pratica filosofica, acriticamente, la congerie dei presupposti antropologici, ontologici, epistemologici “incorporati” nella teoria da cui lo strumento fosse stato tratto (per restare nell’esempio: una concezione dell’essere umano, “pansessualista”, “materialista” o come la si voglia considerare, come quella attribuibile – a ragione o a torto – alla psicoanalisi freudiana). Dunque: meglio evitare di cadere in tentazione, starsene alla larga dall’universo “psy” ed esercitare un socratico “sapere di non sapere”, per evitare impropri condizionamenti.



INTRODUZIONE

Oggi, però, il movimento delle pratiche filosofiche appare sempre più solido, consapevole e sicuro di sé, pur nell’ampia pluralità delle proposte teoriche e operative che lo contraddistinguono. In particolare sembra ormai raggiunta la chiara consapevolezza del fatto che una pratica filosofica, proprio in quanto filosofica, nella sua radicale infondabilità, non possa ricevere altra giustificazione che da se stessa; e non già una volta per tutte, ma, di volta in volta, mentre essa stessa si attua. Muovendo da questa acquisizione, che non ha solo valenza teorica, ma importa anche una forte assunzione di responsabilità verso se stessi e verso i propri interlocutori, i filosofi praticanti del nostro tempo possono concedersi il lusso di un approfondimento critico e autocritico, senza remore, della questione del proprio rapporto con il mondo delle psicoterapie. In particolare è significativo che questo confronto sia esercitato, in questo volume, da filosofi praticanti appartenenti a Phronesis, associazione professionale – di rilevanza nazionale e di prestigio internazionale – che si contraddistingue, storicamente, per la sua chiara affermazione dell’autonomia e della specificità dell’approccio filosofico ai problemi delle persone e per la sottolineatura della netta distinzione tra tale approccio e quelli psicoterapeutici1. Non si tratta, dunque, di rimettere in discussione lo spartiacque ormai acquisito (almeno sul piano storico-cuturale) tra i due ambiti, ma di esercitare una forma di meta-pratica filosofica provando a gettare un duplice sguardo sui versanti che tale linea idealmente separa, per esaminare il più possibile spassionatamente convergenze e divergenze; per instaurare, insomma, un dialogo il più possibile fecondo tra diversi stili di pensiero e d’azione. Il quadro che emerge dai contributi dei co-autori del volume, animati dalla comune (e filosofica) vocazione alla problematizzazione, è sintomatico di un’insopprimibile (e non meno feconda) pluralità di prospettive. Cionondimeno è, forse, possibile suggerire un filo conduttore che, attraversando tutti i testi, ne illumini la sottile, paradossale coerenza. A un primo livello di indagine la pratica filosofica non può essere confusa con la maggior parte delle psicoterapie e, specialmente, con la psicoanalisi sulla base di almeno sei fondamentali criteri di demarcazione, enunciati con 1 Per la verità l’interesse di Phronesis per il confronto con l’universo delle psicoterapie è sempre stato vivo. Nei percorsi formativi, tracciati negli anni, per il conseguimento della qualifica di “consulente filosofico di Phronesis” sono sempre stati previsti momenti di dialogo con il mondo “psy”. Il IV Seminario Nazionale dell’Associazione, ad esempio, svoltosi a Torino, dal 2 al 3 dicembre 2005, intitolato Il consulente filosofico nella casa di Psiche, è stato interamente dedicato a questo dialogo.

INTRODUZIONE



semplicità e chiarezza nel primo contributo del libro. Neri Pollastri, fondatore di Phronesis e primo in Italia a esercitare la consulenza filosofica come professione, ribadita la non terapeuticità della prospettiva pratico-filosofica, vi rimarca il fatto che il consulente filosofico, a differenza dell’analista, 1) ha una precisa intenzionalità filosofica (intende fare filosofia e nient’altro), 2) non parte dal presupposto che il proprio interlocutore sia abitato da un inconscio in senso psicoanalitico, 3) non si serve tematicamente di strumenti come il transfert, 4) non si preoccupa di spiegare le cause del vissuto del proprio interlocutore, ma piuttosto cerca di comprenderne il senso, 5) si sforza, insieme al proprio interlocutore, di far luce sul mondo che circonda entrambi e non soltanto, intimisticamente, sul cosiddetto “sé ” di chi gli sta di fronte, 6) istituisce, pertanto, un setting fondamentalmente intersoggettivo e anaffettivo, aperto sul lògos universale piuttosto che centrato sulla relazione stessa di consulenza e sui suoi attori. Tutto ciò – va sottolineato – non esclude affatto che il lavoro del consulente filosofico, così nettamente caratterizzato, possa avere effetti emotivi, terapeutici, trasformativi, emancipatori. Ma questi, per una feconda eterogenesi dei fini, appaiono tanto più probabili, quanto meno, paradossalmente, sono consapevolmente ricercati. Ai sei criteri di demarcazione proposti da Pollastri se ne potrebbe aggiungere un settimo, se possibile ancora più fondamentale. Esso è sottolineato particolarmente, oltre che dai contributi al volume proposti da chi scrive queste righe, anche dallo stimolante saggio di Paolo Cervari (il nono del volume). Dopo aver messo in questione i presupposti con cui la consulenza filosofica tende ad autorappresentarsi – grazie a un confronto serrato con la psicoterapia strategica à la Watzlawick – Cervari “salva” soprattutto (ma non è poco), come essenziale criterio di demarcazione della pratica filosofia, la sua mancata “chiusura epistemologica”: ossia il fatto che l’esercizio filosofico è sempre anche “meta-teoria praticante”, per usare le parole di Gerd Achenbach, il filosofo che, avendo aperto, nel 1981, in Germania, un gabinetto di consulenza filosofica (Philosophische Praxis), è considerato universalmente l’iniziatore del movimento contemporaneo delle pratiche filosofiche. L’esercizio filosofico, in altre parole, in quanto filosofico, è un esercizio radicale: esso interroga sempre anche se stesso nel suo svolgersi, potendo perfino mettere in discussione, durante una seduta di pratica, – qualora, ovviamente, il dialogo tra consulente e consultante porti in questa direzione – i suoi stessi presupposti epistemologici. Quale altra pratica potrebbe attingere tanta radicalità senza cambiare pelle e mutarsi immediatamente, appunto, in una pratica filosofica? Quale approccio che non fosse filosofico potrebbe rompere la propria medesima cornice disciplinare conservando, in pari tempo, proprio in tale rottura, tutto il proprio rigore?



INTRODUZIONE

Tracciati questi “confini”, va detto, però, a scanso di equivoci, che – secondo livello di indagine – la loro delineazione va intesa non come la pretesa di escludere che questa o quella corrente o, perfino, questo o quel praticante (se opportunamente attrezzato) possa “oltrepassarli”, per tratti più o meno “lunghi”, ma come l’indicazione di due“tipi ideali”, rispettivamente di pratica filosofica e di pratica psicoterapeutica, da cui, concretamente, questo o quell’approccio dell’uno o dell’altro “versante” può in varia misura discostarsi. È anzi proprio questa sorta di principio di “indeterminazione empirica” a far sì che la consulenza filosofica – è questa la sfida raccolta dal presente libro – possa gettare ponti metodologici con almeno alcuni approcci psicoterapeutici e psicoanalitici. Si tratta soprattutto di quegli approcci “psy” che, specialmente nel secolo scorso, sembrano avere esercitato nei confronti della filosofia una sorta di funzione di supplenza, giustificata dalla storica autolimitazione dell’attività filosofica entro i rigidi steccati dell’Accademia e della Scuola, steccati che solo negli ultimi decenni il movimento delle pratiche filosofiche ha osato scavalcare. Gli approcci “psy” in questione sono, insomma, quelli che sembrano avere “anticipato” o “precorso”, a modo loro e a tratti, “modalità operative” del dialogo intersoggettivo che oggi possiamo considerare a pieno titolo pratico-filosofiche. In questa luce Maria Luisa Martini, nel secondo contributo del volume, – dando peraltro un saggio di quella radicale attitudine meta-teorica e autocritica, di cui si diceva, che dovrebbe essere propria, in generale, dell’esercizio filosofico (sia scritto, sia orale) – mette l’accento su alcuni elementi della secolare esperienza freudiana che opererebbero, come misconosciuti retaggi, nelle pratiche filosofiche contemporanee, nonostante e al di là della sorgiva contrapposizione tra le due forme di pratica. Martini non pensa tanto o solo alle dinamiche del transfert o alla sfera inconscia, in senso tecnico, quanto e soprattutto a certi tratti della psicoanalisi dalle pronunciate valenze ante litteram pratico-filosofiche, quali: la dimensione ermeneutico-linguistica del dialogo analitico, l’esercizio demistificante (dunque critico-filosofico) del sospetto, la valorizzazione della narrazione autobiografica. Moreno Montanari, dal canto suo, nel terzo contributo del volume, ha buon gioco a documentare come Carl Gustav Jung, fondatore della psicologia del profondo, cogliesse esplicitamente la valenza filosofica e fenomenologica del suo approccio alla “visione del mondo” dei suoi pazienti. Non diversamente e con tanta maggiore consapevolezza epistemologica, agiva Ludwig Binswanger, fondatore della psichiatria fenomenologica su cui si focalizza il contributo successivo (opera dell’autore di queste righe). Nella prospettiva di entrambi questi “transfughi” della psicoanalisi, mentre resta,

INTRODUZIONE



almeno implicitamente, una certa intenzionalità terapeutica, sembra attenuarsi fino a scomparire del tutto l’inclinazione allo spiegare a vantaggio della tendenza, propriamente filosofica, al comprendere. Nel caso di Binswanger si attenua anche l’opposizione sé-mondo, così come sparisce ogni riferimento a una sfera inconscia e alla dimensione del transfert. Con tutto ciò non si può sottacere la mancata o scarsa adozione, in questi due approcci, pur fenomenologicamente ispirati, di quelle che Montanari considera “modalità operative” tipicamente pratico-filosofiche. È assente, ad esempio, o è, comunque, appena accennata, tanto in Jung quanto in Binswanger, l’attitudine “trascendentale”, per citare ancora Achenbach, a lavorare non “con i metodi” ma “sui metodi”. In fondo questa indisponibilità a mettere in discussione se stessa, i propri metodi e, ancor di più, la propria antropologia (la propria nozione di “soggetto”) è anche il limite invalicabile (e inevitabile) in cui incorre, in prospettiva filosofica, la psicoanalisi lacaniana, a cui è dedicato il quinto saggio del volume. Cionondimeno lo stile di Lacan (almeno a giudizio di chi scrive queste righe, autore del saggio) presenta notevolissimi elementi di “filosoficità”, tra i quali spiccano il rifiuto o, comunque, il forte ridimensionamento dell’intenzionalità terapeutica e, simmetricamente, la riapertura della questione del rapporto del soggetto con la “verità”. Lacan stesso, come Jung, rivendica alla propria pratica tratti tipicamente filosofici, quali un approccio di tipo francamente maieutico, al punto che, nella teoria lacaniana, la stessa problematica nozione di inconscio risulta fortemente depotenziata, venendo sostanzialmente riassorbita in quella di linguaggio. Con tutto questo l’approccio dello psicoanalista al proprio “cliente” rimane caratterizzato, non foss’altro che nell’immaginario di quest’ultimo, da dinamiche asimmetriche “di sospetto” (o di detection) affatto diverse da quelle che ci si attende operino in consulenza filosofica. Sul versante opposto il counseling di matrice rogersiana, pur non rinunciando, a differenza dell’analisi lacaniana, a una (più o meno accentuata) finalità terapeutica, si contraddistingue per un approccio dialogico fondato sulla libertà e sulla responsabilità del cliente stesso. In tale fondamentale tratto, così come in diversi altri, si può riconoscere senza dubbio una forte analogia con la consulenza filosofica; la quale, del resto, sotto il profilo storico, sembra dovere molto al counseling di matrice rogersiana, a cominciare dal suo stesso nome. Pur rimarcando tutto questo, Stefano Zampieri, autore del sesto contributo del volume, non manca di sottolineare, ancora una volta, la specificità della pratica filosofica: egli la individua soprattutto nella preponderanza, all’interno del dialogo filosofico, dello stile logico-argomentativo rispetto all’approccio “empatico” caratteristico del counseling rogersiano.



INTRODUZIONE

La Gestalt Therapy, dal canto suo, muove da una chiara radice fenomenologica, impiegando ad abundantiam categorie di matrice filosofica. Proprio nella riappropriazione critica, da parte della filosofia, di tali categorie Cati Maurizi Enrici, esperta tanto di consulenza filosofica quanto di counseling gestaltico, – nel suo contributo, il settimo del volume – individua l’elemento che caratterizzerebbe la pratica filosofica. Tale riappropriazione consentirebbe a quest’ultima di sfuggire alla trappole di un irenismo a buon mercato, proprio a volte di certi stili psy, per reintrodurre, laddove necessario, il sano pòlemos di un approccio autenticamente dialettico. Il che non dovrebbe impedire, però, alla consulenza filosofica, secondo Maurizi, di fare proprie feconde suggestioni provenienti dall’esperienza della Gestalt, in particolare per quanto riguarda l’attenzione alla totalità dell’esperienza umana e alle risonanze poetiche dell’esercizio della parola. Per quanto distanti possano apparire lo sguardo del filosofo e quello dell’esperto in medicina psicosomatica, l’ottavo contributo del volume, che esce dalla penna di Paola Santagostino, ella stessa, oltre che consulente filosofica, psicoterapeuta specializzata in medicina psicosomatica, individua nell’attenzione al senso delle malattie e nel rifiuto di un loro trattamento meramente liquidatorio il punto di maggiore convergenza tra le due visioni. Difficile sottovalutare, infine, l’importanza, per il confronto tra consulenza filosofica e pratiche psicoterapeutiche, dell’ultimo contributo del volume. L’esercizio comparativo, operato, nei precedenti saggi, da consulenti filosofici con competenze – per formazione o esperienza – anche di tipo psy, si apre qui a una vera e propria interlocuzione. Il contributo, infatti, è opera di Giorgio Blandino, psicologo e docente universitario di psicologia, il quale, ispirato (o scosso) proprio dalla nascita del movimento delle pratiche filosofiche, riconosce e sottolinea l’importanza, per gli stessi psicologi, della ripresa di un confronto fecondo con le radici filosofiche del proprio sapere e della propria prassi. Blandino, almeno in un passaggio del suo testo, sembra perfino paventare la “concorrenza” dei filosofi consulenti, quasi che “il terreno di caccia” delle due categorie di professionisti fosse il medesimo. Va detto che egli fa probabilmente riferimento ai counselors filosofici, i quali, programmaticamente, tendono a ibridare ambito filosofico e ambito psicologico, più che ai filosofi consulenti in senso stretto, che fanno capo alla tradizione inaugurata da Achenbach. Come chiarisce Augusto Cavadi, che ha il merito di averci segnalato questo articolo di Blandino, «il movimento internazionale che fa capo ai vari Achenbach, Lahav, Rushmann – e che in Italia è

INTRODUZIONE



tato da Pollastri, Miccione, Zampieri, Giacometti, Basili, Dipalo, Sesino, Regina, Montanari e me (per limitarci ad alcuni filosofi di cui è più facile procurarsi gli scritti) – non riesce a vedere negli psicoterapeuti dei potenziali concorrenti ma, se mai, là dove fosse necessario, dei preziosi alleati. Il pane non è alternativo rispetto all’acqua: risponde a bisogni diversi. Di solito noi viventi abbiamo bisogno di cibo e di acqua: e sarebbe un gran bel risultato se acquaioli e panettieri impiegassero il breve tempo della vita mortale a procurare acqua sempre più dissetante e pane sempre più nutriente, anziché a litigare»2. Il confronto tra la pratica filosofica e ciascuna delle “scuole” di psicologia e psicoterapia evocate nel presente volume (e qui anticipato in modo troppo sintetico per rendere giustizia alla ricchezza e alla complessità dei contributi dei diversi autori) andrebbe, certo, ulteriormente approfondito. Esso potrebbe, poi, venire proficuamente esteso a molti altri approcci “psy”: dal neo-behaviourism al cognitivismo, dalla psicologia transpersonale all’analisi transazionale ecc. Ma già da questi brevi cenni introduttivi si può misurare – credo – la ricchezza degli spunti offerti dal presente volume, spunti che rilevano non tanto per i risultati a cui conducono, quanto per il metodo di indagine comparativa che suggeriscono. Quello che più ci premeva offrire, in questa fase, non era né un’investigazione esaustiva su convergenze e divergenze tra ambiti, né l’appianamento definitivo di una “questione di confini”, quanto un esercizio di continua ridefinizione delle pratiche stesse che, nel confronto reciproco, si mettono in gioco: ridefinizione autocritica che, in quanto tale, nella sua radicalità, mostra che il gioco in questione può venire inteso, globalmente, senza voler far torto a nessuno, come un gioco toto coelo filosofico. E se è vero che lo si è potuto praticare, su queste pagine, soltanto attraverso esercizi di scrittura, è anche vero che la “palla epistemologica”, con cui lo si è giocato, non potrà che passare, da ultimo, al lettore, chiamato a interrogarsi, in prima persona, ex novo, in un dialogo ideale con i co-autori del presente volume, su tutte le questioni che vi troverà sollevate. Sotto un altro profilo è interessante notare come il confronto tra la prospettiva filosofica e quella psicologica non avvenga soltanto a livello teorico, ma sia nutrito da sempre più numerose esperienze “locali”. Penso alle esperienze, diffuse in diverse realtà territoriali, di fattiva e feconda collaborazione tra filosofi consulenti e psicologi: dagli sportelli scolastici in cui l’offerta è 2

Augusto Cavadi, Il filosofo consulente: un concorrente o un alleato? in “Bollettino Ufficiale dell’Associazione Unitaria Psicologi Italiani”, 2009, n. 2, p. 5.



INTRODUZIONE

tanto di counseling di matrice psicologica quanto di consulenza filosofica, alle collaborazioni in ambito sanitario e psichiatrico. In tutti questi contesti lo sforzo filosofico non consiste solo o tanto nel ritagliare alla filosofia un proprio spazio operativo contro o per differenza rispetto ad altri approcci, quanto soprattutto nel ripensare, di volta in volta (di luogo in luogo), la globalità dell’offerta complessa così generata, interrogandone, sempre di nuovo, a tutto campo, e da capo, i fondamenti epistemologici e i fini etico-politici. Giorgio Giacometti Udine, settembre 2010

Un estraneo in famiglia. Sulla relazione tra consulenza filosofica e psicoanalisi* di Neri Pollastri

Una pratica straordinariamente fraintesa Per chi, come me, s’interessa di consulenza filosofica da ormai da più di dieci anni, ha contribuito a introdurla in Italia e a coniarne la stessa denominazione (l’espressione “consulenza filosofica” fu usata per la prima volta nel 1999 per tradurre ciò che in Germania era chiamato “Philosophische Praxis” e prima di allora non significava assolutamente nulla), è singolare e un po’ sconcertante vedere quanto spesso essa sia oggi avvicinata e perfino assimilata alla psicoanalisi. Singolare e sconcertante in generale, perché questa disciplina nasce in Germania nel 1981, con Gerd Achenbach, proprio per dare (o, meglio, tornare a dare) vita a una modalità di occuparsi delle difficoltà dell’esistenza che fosse radicalmente diversa dalla psicoanalisi, e per me in particolare, perché il mio interesse di filosofo per l’ambito “psico” è sempre stato assai modesto e si è destato solo a seguito di una serie di riflessioni critiche proprio sulla psicoanalisi. In realtà, lo sconcerto si riduce (perché trova una spiegazione, per quanto critica essa sia) riflettendo sulla nostra attuale condizione culturale, nella quale (come ho scritto più estesamente altrove1) vige l’egemonia del paradigma terapeutico – versione che assume nell’ambito dell’uomo il più generale paradigma tecnico-strumentale, atteggiamento della razionalità diretta allo scopo che agisce in modo economico riducendo la complessità e operando sul piano causale. Così come il paradigma tecnico-strumentale, anche quello terapeutico è un atteggiamento irriducibile al filosofare, ch’è * Il presente lavoro è la parziale rielaborazione di un omonimo articolo (apparso sul “Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura”, 6, 2008), del quale riprende la sostanza e approfondisce alcuni aspetti. 1 Cfr. in particolare i miei Il pensiero e la vita, Milano, Apogeo, 2004, e Consulente filosofico cercasi, Milano, Apogeo, 2007.

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SOFIA

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PSICHE

viceversa un agire riflessivo e non è mai causale, che cerca la complessità e ha per unico obiettivo la conoscenza (della quale il benessere, la salute, la felicità, la crescita, l’autonomia, il cambiamento sono solo conseguenze collaterali e non fini in sé). L’egemonia del paradigma terapeutico, oggi indiscutibile, rende però difficile non solo accettare, ma persino pensare che si possa guardare alle difficoltà dell’esistenza e alla sofferenza che l’uomo incontra nel suo cammino in un modo che non rinvii alla “patologia” e che non faccia riferimento a quanto la cultura e la pratica terapeutiche hanno elaborato nel corso degli ultimi due secoli, periodo di autentico trionfo per l’idea di “terapia”.

Filosofia, e nient’altro Come dimostra incontestabilmente lo studio delle ricerche e delle testimonianze sulla sua storia più che venticinquennale, la consulenza filosofica nasce proprio sulla base di un’analisi critica del paradigma terapeutico applicato alla “psiche” e ha per obiettivo il recupero e il rilancio dell’idea dell’assoluta “normalità” della sofferenza e delle difficoltà dell’esistenza, per far cioè sì che gli uomini tornino a guardarle con sguardo fermo e sereno, con il distacco che è necessario per arrivare a comprenderle, dar loro senso e affrontarle, invece di evitarle con timore. Essa ha origine per offrire alternative alla multiforme scissione prodotta nell’uomo dagli approcci terapeutici (il sano e il malato, l’interno e l’esterno, il conscio e l’inconscio, il razionale e l’irrazionale, il buono e il malvagio, l’Io e l’Es); per tornare a “prendere sul serio” le parole di chi soffre, senza far uso della dietrologica ipotesi che non sia lui a parlare, ma un suo alter ego sepolto nelle oscure profondità della sua psiche, da stanare con tecniche diversive o lunghe e sofferte esplorazioni speleologiche; per cercare, semplicemente e al tempo stesso complessamente, di comprendere con responsabilità il senso di ciò che ci fa soffrire, piuttosto che ridurne la complessità con categorie come “malattia”, “irrazionalità”, “male”. Per far questo, fin dalla sua origine la consulenza filosofica ha sempre affermato di voler essere una e una sola cosa: filosofia2. Sono molti i modi in cui si può spiegare in che senso la consulenza filosofica non sia altro che filosofia, per la semplice ragione che sono molti i 2

Su come questi temi fossero presenti fin dall’origine della disciplina, cfr. Gerd Achenbach, La Consulenza filosofica, Milano, Apogeo, 2004 (ed. or. Philosophische Praxis, Köln, Dinter, 1984).

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modi in cui si può cercare di definire (per quanto sempre inesaustivamente) cosa sia la stessa filosofia3. È tuttavia importante osservare – perché ha una qualche attinenza con i fraintendimenti della sua identità – che, tra essi, uno è stato sostanzialmente scartato dalla quasi totalità dei consulenti del mondo: il suo riferimento più o meno diretto al pensiero e alle opere dei filosofi. In altre parole, la consulenza non è “filosofica” perché fa riferimento al pensiero di Heidegger o Nietzsche, di Platone o Montaigne, di Aristotele o Hegel. Questa esclusione – la quale, ripeto, è largamente condivisa, tanto che contro di essa prende posizione perfino il più “divulgativo” degli esponenti del movimento delle pratiche filosofiche, Lou Marinoff4 – permette di prendere le distanze da tutti coloro che sostengono di fare consulenza filosofica solo perché svolgono attività psicoterapeutiche o psicoanalitiche facendo riferimento al pensiero di qualche filosofo: di essi si potrà forse dire che le loro attività abbiano uno sfondo filosofico, ma non che siano “consulenza filosofica”, perché questa, appunto, non è né psicoterapia, né psicoanalisi.

Un lavoro sulla visione del mondo, non sul “sé” Una definizione che incontra viceversa molti consensi tra i professionisti di ogni parte del mondo, per quanto sia anch’essa inevitabilmente riduttiva, è quella che sostiene che la consulenza sia filosofica perché – per usare le parole di Ran Lahav5, che di questa lettura è il capostipite – ha per oggetto l’analisi e la rielaborazione delle visioni del mondo dei consultanti. In questo senso, i colloqui nei quali si intrattengono filosofo e consultante sono delle esplorazioni nell’universo di pensiero di quest’ultimo, che si avviano dalla narrazione del modo in cui egli interpreta le proprie difficoltà e da lì procedono allo stesso modo in cui avanza il lavoro di un filosofo nella costruzione di una concezione complessa della realtà. Questo lavoro è di tipo dialogico-concettuale, è condiviso – cioè i due protagonisti del dialogo cercano assieme, confilosofando – ed è scevro da altre intenzionalità che non siano la ricerca della “verità” nella comprensione del mondo – cioè di una concezione del reale che risponda a criteri di rigore argomentativo, chiarezza, completezza e coerenza. Da esso sono rigorosa3 Un tentativo di spiegazione l’ho proposto nel mio Filosofia, nient’altro che filosofia, in Basili, Cavadi, Dipalo, Giacometti, Miccione, Montanari, Pollastri, Regina, Sesino, Zampieri, Filosofia praticata, Trapani, Di Girolamo, 2008. 4 Cfr. Lou Marinoff, Philosophical Practice, San Diego/London, Academic Press, 2002, pp. 89-90. 5 Cfr. Ran Lahav, Comprendere la vita, Milano, Apogeo, 2004, pp. 9 ss.

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mente escluse, oltre alle intenzioni “terapeutiche”, anche quelle di “aiuto”, con la sola eccezione dell’aiuto a pensare. Ciò significa che non c’è alcuna “presa in carico” dell’altro e che il contesto generale della relazione è di pariteticità, tanto che lo stesso “aiuto a pensare” è comunque biunivoco: sebbene il filosofo sia più esperto e allenato a muoversi negli universi concettuali, il consultante conserva interamente la propria identità di essere raziocinante, la medesima dignità cognitiva dell’altro e la piena responsabilità delle proprie scelte argomentative e pratiche. Non è in alcun modo sottomesso o minorato. Come vedremo, questo aspetto è molto importante per la consulenza filosofica e la distingue – de facto ancor più che de jure – in modo precipuo dalle psicoterapie e dalla psicoanalisi. Oggetto del dialogo e della ricerca filosofici è dunque la visione del mondo del consultante; ma il lavoro su di essa mette inevitabilmente in discussione anche quella del consulente, il quale – in quanto filosofo – non può prendere le proprie credenze per buone, per quanto “ben fondate” esse siano, ma deve metterle alla prova nel colloquio. Questo aspetto del lavoro filosofico-consulenziale può giustamente sollevare problemi teorici (relativi ai limiti fino ai quali può spingersi la capacità umana di distaccarsi criticamente dalle proprie concezioni ben fondate) e pratici (relativi alla formazione che il filosofo consulente deve svolgere per riuscire ad avvicinarsi a tali limiti), ma costituisce ciononostante un suo tratto specifico. In un dialogo filosofico anche il professionista ha per obiettivo l’analisi, la messa alla prova e la possibile modifica della propria concezione del mondo (inclusa la sua idea dell’uomo): la ricerca è sua non meno che del consultante. E questo perché il filosofare è sempre impresa intersoggettiva biunivoca, nella quale anche l’altro ha in ogni momento la possibilità di dire “la cosa giusta” che al filosofo sta magari sfuggendo. Ciò, oltre che essenziale, è il bello del filosofare, perché fa sì che quest’attività non sia mai routinaria e generi, se condotta appropriatamente (cioè in maniera non “magistrale” e accademica), straordinari rapporti umani. Inoltre, il lavoro sulle visioni del mondo (a questo punto il plurale si impone) non si limita a porre l’attenzione sul pensiero dei due dialoganti, ma lo eccede, estendendosi necessariamente al sapere che è loro disponibile, cioè all’intero lògos della conoscenza umana. Il focus non è perciò sui soggetti coinvolti, ma sul sapere: quel che interessa non è cosa sia meglio fare o pensare per il benessere dell’individuo, bensì cosa sia corretto pensare. E, per arrivare a questo, è indispensabile che l’individuo esca da se stesso e ponga la sua attenzione e il suo interesse all’esterno, confrontandosi con la conoscenza oggettivamente (cioè a dire intersoggettivamente) disponibile agli uomini.

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Lo sguardo etico Questo spostamento dell’attenzione dal sé verso l’esterno – gli altri, il mondo, la realtà entro la quale l’individuo si viene a muovere – significa che la consulenza filosofica non è un’esperienza “introspettiva” (almeno, non nel senso psicologico in cui si intende di solito l’introspezione), perché essa è una ricerca di comprensione e di senso di quanto va aldilà dell’individuo ben più e ben prima che della sua interiorità. D’altronde, la filosofia si è occupata dell’animo e dello spirito umano solo per la parte che ad esso spettava all’interno della conoscenza dell’intera realtà, cioè in misura relativamente ridotta e comunque quasi sempre tenendo ben conto del senso che l’uomo veniva ad assumere in una concezione globale del mondo. Dunque, che significato avrebbe una consulenza filosofica che si occupasse dell’interiorità del consultante più che della sua conoscenza della totalità dell’esistente? Quale valore potrebbe avere una concezione del sé che non fosse costruita su una ben ponderata concezione della realtà circostante? Quella realtà ch’è in primo luogo gli altri esseri umani, la società, la pòlis, e in secondo luogo quel mondo sconfinato e tremendamente complesso che non possiamo, né potremo mai, dominare – cioè giustappunto quanto spingeva Freud a ipotizzare un insuperabile disagio nell’uomo6, obbligato a vedere la soddisfazione delle proprie pulsioni frustrata dalle norme di convivenza e dalla propria finitudine, che qui invece si trasforma in primario oggetto di interesse. L’attenzione prioritaria che la consulenza filosofica, così come la filosofia, pone sugli altri, sulla società e sulla pòlis è legata al ruolo che in essa riveste l’intersoggettività. La ricerca della verità non si fa da soli, perché la verità – in qualunque modo la si intenda – è qualcosa di condiviso, non foss’altro per il fatto che le condizioni per giungere anche solo a pensarla come tale sono intersoggettive: abbiamo un linguaggio e una capacità di argomentare (anche solo mentalmente) grazie al fatto che altri ce li hanno insegnati; possiamo avventurarci nella costruzione di un’immagine complessa del mondo solo perché gli altri ci consegnano – in un modo che noi reputiamo, sempre grazie ad altri insegnamenti, affidabile – “pezzi” di conoscenza che da soli mai avremmo il modo di procurarci; possiamo avere conferma della correttezza delle nostre personali elaborazioni solo grazie al confronto con gli altri; e così via. Dunque, la filosofia presuppone originariamente l’intersoggettività. La quale, a sua volta, è un territorio etico: nella pratica dialogica intersoggettiva, coloro con i quali condividiamo l’avventura della ricerca vengono fin dal 6

Cfr. Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, in Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, Bollati Boringhieri, 2003 (ed. or. Das Unbehagen in der Kultur, Vienna, 1929).

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principio accolti come pari quanto a potenzialità cognitive e dignità umana, condizioni necessarie affinché ci si senta obbligati ad ascoltarli e prenderli sul serio ogniqualvolta interloquiscano criticamente con noi, così che la nostra interazione argomentativa possa essere genuina e fruttuosa. È per questo che quello filosofico (diversamente da uno psicoterapeutico) è un dialogo paritetico7, ma soprattutto è per questo che esso è uno sguardo etico sul mondo. Non a caso Gerd Achenbach, il fondatore della Philosophische Praxis, afferma che la parola chiave della consulenza filosofica non sia né “felicità”, né “vita bella”, né “autorealizzazione”, bensì “dignità”8. Quell’eticità che alle origini della psicoanalisi era letta come un’imposizione del Super-Io all’Es, come la radice dei conflitti interiori, e che ancor oggi è sovente interpretata come un inibitore della parte più propria dell’individuo – il desiderio – nella consulenza filosofica diviene il centro della ricerca di comprensione e di senso.

Razionalità dell’irrazionale A questo punto, i fautori della psicoanalisi staranno già scuotendo la testa, pensando: «È il solito errore dei filosofi, un cieco razionalismo che non tien conto del fatto che l’uomo non è pura ragione, ma ha un’interiorità pulsionale, una sfera emotiva che eccede la comprensione razionale». Alla mia risposta vorrei anteporre una premessa. Come già osservato, la consulenza filosofica non ha altro obiettivo che il mettere in atto un processo di riflessione filosofica, ovvero un’analisi e una rielaborazione della visione del mondo; da questo punto di vista, come vedremo meglio più avanti, ad essa le spiegazioni causali in termini di processi psichici interessano in misura ridotta, mentre le interessa molto di più il senso che può essere dato ai loro effetti. Ad esempio, che un individuo sia poco combattivo e competitivo a causa di vicende infantili che hanno inibito le sue pulsioni, a un’analisi della visione del mondo può interessare o meno, mentre interesserà sicuramente quale valore egli assegni alla competizione, al successo che essa procura, alla 7

Rinvio a quel che ho scritto nel già citato Consulente filosofico cercasi in merito a questa spesso equivocata pariteticità, che non significa che il consulente non impersoni mai un ruolo sovraordinato quanto a competenze o funzioni, ma solo che questo non è lo specifico della relazione che si intrattiene nel colloquio. La pariteticità è un requisito necessario del dialogo filosofico, ed è sufficiente a far sì che il consulente non si faccia mai carico del proprio partner, al quale vengono lasciate pienamente responsabilità di scelta e dignità di essere raziocinante e capace di pensare e decidere. Ciò è esattamente quello che di solito non accade nelle relazioni psicoterapeutiche e psicoanalitiche. 8 Cfr. Gerd Achenbach, Saper vivere, Milano, Apogeo, 2006, p. 77 (ed. or. Lebenskönnerschaft, Freiburg, Herder, 2001).

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mitezza e al rispetto degli altri. Può succedere che in questo modo si scopra che le vicende “colpevoli” della supposta inibizione possano al termine esser considerate una benedizione, perché sono proprio ciò che ha reso l’individuo ammirevole per la sua giustizia, e perciò fiero della propria identità. Detto questo, va poi precisato un particolare: che nell’uomo la sfera emotiva ecceda la razionalità è cosa che un filosofo consulente sa bene e tiene di solito assai da conto (o comunque dovrebbe senz’altro farlo, se vuol svolgere bene il suo compito). E ciò perché, al contrario di quanto spesso si sente sostenere, non è per nulla vero che la sfera emotiva non sia “razionale”: infatti, di essa si può parlare, la si può comprendere, le si può dare un senso. Proprio questa “razionalità dell’emozione”9 va in gioco nella consulenza filosofica, allorché il lavoro si estende dalla visione del mondo “pensata” a quella “sentita”, ovvero prende in considerazione ciò che Ran Lahav chiama “comprensione vissuta”10: la visione del mondo di cui è realmente portatore un soggetto e che, accanto a pensieri espliciti, include anche sentimenti, emozioni e pulsioni. D’altronde, oggi anche i neuroscienziati riconoscono senza mezze misure che le emozioni sono valori scritti nel corpo11: proviamo paura quando viene messo a rischio un nostro valore, ad esempio quello della vita o dell’integrità fisica (nostra o altrui), oppure un valore economico, o uno affettivo; proviamo indignazione quando viene negato un nostro valore, per esempio il rispetto di un minore quando vediamo un bimbo offeso e umiliato, o il valore della giustizia quando assistiamo a una prepotente prevaricazione; proviamo gioia ed entusiasmo quando un nostro valore viene viceversa promosso o affermato, sia esso nobile (come il successo elettorale di chi incarni i nostri principi etici e si proponga di realizzarli nella società) o meno nobile (come la buona riuscita di un affare, con il suo ritorno economico nelle nostre stesse tasche). La consulenza filosofica, analisi della concezione del mondo condotta con sguardo etico, non può non prestare attenzione a questa stretta relazione tra valori e stati d’animo, sia per apprendere da questi ultimi qualcosa in merito all’universo di valore presupposto e forse non del tutto conosciuto o compreso, sia per dare un senso alle emozioni stesse, invece che lasciarle senza altra spiegazione che quella della causazione ad opera di insensate “pulsioni”. 9 Cfr. in proposito il mio Razionalità del sentimento e affettività della ragione, in “Discipline filosofiche”, XV, I, 2005. 10 Cfr. Ran Lahav, Comprendere la vita, cit., p. 137. 11 Cfr. ad es. Dylan Evans, Emozioni, Bari, Laterza, 2004 (ed. or. Emotion, Oxford University Press, 2001), ma vedi anche Antonio Damasio, L’errore di Cartesio, Milano, Adelphi, 1995 (ed. or. Descartes’ Error, New York, Putnam, 1994).

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Lo psicoterapeuta e lo psicoanalista chiederanno a questo punto quali benefici comporti questo tipo di lavoro per il disagio del consultante, ma un tale interrogativo denuncia che il loro punto di vista è quello, appunto, del terapeuta, che si occupa del “disagio”: dopo quest’analisi il consultante avrà ampliato la propria comprensione del reale, e questo è per un filosofo ciò che interessa; se avesse conseguito un maggior stato di benessere, ma non ne sapesse di più, per il filosofo sarebbe un insuccesso, per uno psicoterapeuta, invece, un successo. Solo una riflessione esterna, come vedremo, può spiegarci anche il valore “pratico” di un tale lavoro; ma essa rimane fuori dal lavoro consulenziale e riguarda invece il piano metateorico.

Sei elementi di distinzione Il discorso generale fin qui svolto già permette di comprendere come e perché la consulenza filosofica non sia riconducibile alle psicoterapie e alla psicoanalisi. Ma, poiché come s’è detto la pervasività culturale del paradigma terapeutico è tale da rendere difficile la comprensione della distanza che separa i due ambiti, potrà essere utile trattare in modo più dettagliato e approfondito alcuni degli aspetti emersi. In particolare, ci soffermeremo su sei punti essenziali che possono essere individuati nel discorso fatto finora: 1. la considerazione che la consulenza filosofica ha dell’inconscio; 2. il suo generale disinteresse per la spiegazione causale dei fenomeni psichici (e di conseguenza per categorie come “rimosso”, “trauma”, “dipendenza”, ecc.); 3. il ruolo che vi gioca la traslazione (transfert); 4. la specifica intenzionalità, esclusivamente filosofica; 5. la “direzione” della sua ricerca, che non procede verso l’“interno” e il “profondo” del soggetto, ma la mantiene sulla superficie e la orienta verso il mondo esterno e l’universo intersoggettivo; 6. le conseguenti peculiarità del setting consulenziale. Analizzeremo questi elementi nel prosieguo del lavoro.

L’inconscio e la Consulenza filosofica Nella filosofia del ’900 sono state molte le prese di posizioni critiche nei confronti dei fondamenti epistemologici della psicoanalisi12; una delle più 12

Particolarmente persuasive sono le critiche di Popper in Congetture e confutazioni, Bologna, Il

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forti e persuasive è la critica rivolta all’inconscio, così com’è assunto dalle teorie e dalle prassi psicoanalitiche. a) Inconscio come non saputo e non consapevole Che non tutto ciò che avviene a e in un uomo (e che fa sì che egli sia quel che è) appaia alla sua coscienza è cosa assolutamente indiscutibile; pertanto, se con il termine “inconscio” vogliamo identificare l’insieme dei fenomeni non coscienti, per tenerne conto nella costruzione di una concezione del mondo, dubito che qualcuno possa avere niente da obiettare. Credo anzi che la considerazione dei fenomeni non coscienti sia molto importante in consulenza filosofica, perché – ad esempio – spesso ci sfugge il ruolo che hanno nella costruzione dei nostri pensieri e nella definizione dei nostri sistemi di valore cose come le abitudini (comportamentali e di pensiero, evidenziate già da Hume), gli apprendimenti automatizzati, gli stati emotivi (ai quali faceva un riferimento per la propria visione del mondo già Spinoza), le influenze dell’ambiente (le “determinazioni naturali” di Hegel), i presupposti impliciti e le conseguenze non esplicitate dei nostri pensieri e comportamenti (momento essenziale di ogni riflessione filosofica, particolarmente evidenziati da Hegel, Wittgenstein e Apel). Inteso in questo modo, l’inconscio rientra ad esempio nell’orizzonte filosofico-consulenziale di Ran Lahav (che lo tratta in ciò che chiama “comprensione vissuta”) o in quello di Umberto Galimberti (che, rifacendosi a Hegel, parla di “serbatoio di simboli”13). Io stesso ne ho trattato in più occasioni14. Tutto ciò è del resto coerente con quanto i filosofi hanno sempre fatto nel corso delle loro elaborazioni: già Platone faceva dire a Socrate che è dalla follia che provengono tutti i più grandi beni15, nel senso che la ragione altro non fa che attingere alla sfera del cosiddetto irrazionale – emozioni e fantasie sfrenate, sogni e fenomeni non conosciuti o non compresi – per dare vita a nuovi prodotti della creatività umana: nuove idee originali e inedite comprensioni del reale. E, oltre ai “classici”

Mulino, 1972 (ed. or. Conjectures and confutations, Routledge, London, 1969), Adolf Grünbaum, I fondamenti della psicoanalisi, Milano, Il Saggiatore, 1988 (ed. or. The foundations of psychoanalysis, Berkeley, University of California Press, 1984) e Jürgen Habermas, Conoscenza e interesse, Bari, Laterza, 1983 (ed. or. Erkenntnis und Interesse, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1969). 13 Umberto Galimberti, La casa di psiche, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 200. 14 Cfr. ad esempio i citati Razionalità del sentimento e affettività della ragione e Consulente filosofico cercasi. 15 Cfr. Platone, Fedro, 244a. Ma sul tema vedi anche Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano, 2002, e Umberto Galimberti, La terra senza il male, Feltrinelli, Milano, 2001.

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già citati, si potrebbero richiamare le osservazioni svolte recentemente da Martha Nussbaum16 e Roberta De Monticelli17. Quindi, questo complesso materiale non cosciente può, forse, con qualche spiegazione e qualche distinguo, rientrare all’interno di un concetto generale di inconscio che può lecitamente essere oggetto di lavoro in una consulenza filosofica, così come l’abbiamo sommariamente descritta: contemplarlo18, prenderne atto, soffermare su di esso la nostra attenzione, dargli un senso (ad esempio, capire qual è il significato delle emozioni per un essere umano e palesare il valore che ad esse corrisponde), arricchirsi della sua comprensione e farne un elemento coerente della nostra visione del mondo, sono momenti del lavoro filosofico e perciò, a fortiori, di quello filosofico-consulenziale. b) Inconscio come rimosso Ma l’inconscio al quale abbiamo appena fatto riferimento è lo stesso di cui parla la psicoanalisi? A leggere i suoi capiscuola e almeno alcuni suoi odierni rappresentanti, si direbbe di no. Innanzitutto, si può osservare che, nell’accezione indicata, l’inconscio include anche elementi che spesso ne vengono esclusi, come le abitudini e le reazioni emotive (sulle quali forse si potrebbe però trovare un accordo) o quel contesto di presupposti (teorici, concettuali, di valore) che ogni nostro pensiero e ogni nostra azione porta con sé necessariamente, ma in forma inesplicita. Quest’ultima parte di solito non entra nella definizione psicoanalitica di inconscio perché i suoi fenomeni non sono ritenuti “processi psichici”, cosa sulla quale – se intendiamo quest’espressione in un certo senso – si può forse concordare, senza però che ciò ne giustifichi l’esclusione. La distinzione e il loro accantonamento sono solo i prodotti di una delle molteplici scissioni dell’umano a cui si faceva prima riferimento: in questo caso, la scissione dello spirito in una parte causale – lo psichico – e in una non causale – i significati e i loro nessi – della quale solo la prima viene considerata degna di 16 Cfr. Martha Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Bologna, Il Mulino, 2004 (ed. or. Upheavals of Thoughts. The Intelligence of Emotions, Cambridge, Cambridge University Press, 2001). 17 Cfr. Roberta De Monticelli, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Milano, Garzanti, 2003. 18 Si osservi che una pratica filosofica sorta nell’alveo del movimento internazionale della consulenza è denominata “filosofia contemplativa”, proprio perché intende specificamente dedicarsi alla meditata scoperta e osservazione di tutto ciò che non è immediatamente consapevole e linearmente “razionale”.

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interesse, in quanto l’unica a poter esser trattata “scientificamente”, secondo il modello causale classico della scienza della natura. In secondo luogo, è palese che dalla definizione tratteggiata in precedenza viene soprattutto escluso proprio ciò che fin da Freud – e nonostante il cambiamento avvenuto tra la prima e la seconda topica – viene considerato l’“essenza” dell’inconscio: la rimozione. Le ragioni di tale esclusione sono molteplici, ma possono essere raggruppate in due generi: perché proprio l’inconscio rimosso è stato oggetto di obiezioni epistemologiche che non dovrebbero essere ignorate e che lo pongono fuori da ogni criterio di scientificità (tanto che c’è chi, per sostenerne la dignità, arriva assai discutibilmente a negarne l’esistenza oggettiva, ma non la “realtà”, definendolo un’“invenzione”19); perché – soprattutto – al consulente filosofico l’ipotesi della rimozione non interessa, perché non è centrale per il tipo di ricerca che gli è propria. Al primo genere di ragioni si potrebbe forse obiettare che esse riguardino più la filosofia teoretica che la consulenza filosofica e che perciò non siano sufficienti per lasciare il rimosso ai margini del suo lavoro. Tuttavia – sempre ammesso che tra le due “branche” del filosofare vi sia realmente una distinzione sufficientemente netta da sostenere l’obiezione, questione che qui lasceremo aperta – rimane il fatto che l’ipotesi dell’esistenza di un “rimosso” ha un impegno ontologico fortissimo: presuppone infatti non solo “fenomeni psichici” non conosciuti e insondabili, ma perfino vere e proprie volontà intenzionali – le quali, sebbene altrettanto inconosciute e insondabili, “sdoppiano” il soggetto, cioè colui che per definizione ha intenzionalità. Ciò ha conseguenze massicce sulla visione del mondo che ne deriva, le quali quanto meno dovrebbero essere discusse nel dialogo filosofico stesso – cosa che infatti avviene in quei casi in cui si tratti, per esprimersi nei termini di Shlomit Schuster20, di “depsicoanalizzare” il consultante – ben più che essere adottate come criterio ermeneutico per la comprensione dell’ospite, cosa che invece avviene nelle pratiche psicoanalitiche. Ma è comunque il secondo genere di ragioni che ha maggior rilievo per l’esclusione dell’inconscio rimosso dagli interessi di un lavoro che voglia essere filosofico. Infatti, come osservava già mezzo secolo fa Medard

19 «Freud non ha scoperto l’inconscio. Ma non l’ha scoperto perché lo ha inventato! (…) un’invenzione destinata ad introdurre uno spartiacque nella nostra cultura. Con Freud la nostra epoca diventa l’epoca della psicoanalisi» (Massimo Recalcati, Elogio dell’inconscio, Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 1-3). 20 Cfr. Shlomit Schuster, La pratica filosofica, Apogeo, Milano, 2006 (ed. or. Philosophy Practice, Westport, Praeger, 1999), p. 19.

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Boss21, anche se il rimosso avesse una fondazione epistemologica coerente, svolgerebbe comunque una mera funzione esplicativa causale del “sintomo”, piuttosto che favorire la comprensione e il senso del “modo di essere”, che è il compito specifico della filosofia. Per esemplificare, che un comportamento alimentare disturbato sia o meno spiegabile in termini di compensazione pulsionale inconscia di un vuoto affettivo da riempire (obesità) o di un inconscio desiderio di eliminazione della corporeità (anoressia) non è ciò che interessa in consulenza filosofica; la quale viceversa indaga il significato (di solito tutt’altro che chiaro) che quel comportamento ha qui e ora per il soggetto, se tale significato sia coerente con la sua concezione del mondo (pensata e vissuta), se trovi conferme all’interno di un contesto cognitivo ed etico intersoggettivo, e via dicendo. Interessano le ragioni e non le cause, perché il fenomeno non viene considerato né un sintomo da guarire, né una disfunzione da correggere, bensì un comportamento da comprendere.

Comprendere, non spiegare La differenza tra comprensione e spiegazione, nella quale ci siamo appena imbattuti, è un altro elemento di diversità tra consulenza filosofica e psicoanalisi. Sebbene nel corso degli oltre cento anni della sua esistenza la psicoanalisi abbia variamente mutato la propria impostazione, essa è nata come figlia dell’unione tra medicina e psicologia, in un’epoca nella quale entrambe queste discipline erano considerate ancor più di oggi rami delle scienze naturali. Il XIX secolo è stato infatti l’epoca del trionfo di tali scienze e della nascita, sul loro esempio, delle scienze dello spirito. Queste, dopo qualche tentativo di svilupparsi in una direzione autonoma ad opera di personalità filosofiche come Dilthey, Husserl e Jaspers, sono approdate a un’identità “quasi positivista”, la cui struttura ideologica non è stata del tutto modificata neppure oggi che è ormai chiara l’impossibilità di fare della “scienza dell’uomo” qualcosa di neppur paragonabile alla scienza naturale. La postulazione dell’inconscio fatta da Freud come “necessaria spiegazione” delle lacune della vita psichica conscia22 rientra pienamente in questo progetto, perché – appunto – si tratta di una pura “spiegazione” di tipo scientifico-naturale, cioè causale, che presuppone – di nuovo – un impegno ontologico molto forte, il quale, se non esplicitato, ha per conseguenza l’az21

Medard Boss, Psicoanalisi e analitica esistenziale, Roma, Astrolabio, 1973 (ed. or. Psychoanalyse und Daseinsanalytik, Bern, Huber, 1957). 22 Cfr. Sigmund Freud, Metapsicologia: 1915, Torino, Boringhieri, 1979.

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zeramento delle molteplici possibilità di reperire forme diverse di comprensione del fenomeno sul piano delle connessioni di significato, senso e valore. La sua assunzione acritica in un lavoro filosofico significherebbe pertanto la surrettizia introduzione di una ben determinata concezione dell’uomo (e del mondo), cioè a dire una vera e propria negazione dell’indagine filosofica stessa. Questo significa, allargando le considerazioni su un piano più generale, che ogni tipo di ricerca interna all’inconscio e che miri a rintracciarvi fenomeni capaci di spiegare causalmente comportamenti o pensieri – sempre giustamente centrale in psicoanalisi – non riguarda la consulenza filosofica, se non in quelle occasionali situazioni nelle quali si tratti di discutere proprio l’immagine del mondo che tale indagine presuppone, cioè giustappunto quelle situazioni alle quali si riferisce la Schuster parlando di “depsicanalizzazione” dei consultanti.

La traslazione Per analoghi motivi, nella consulenza filosofica ha un ruolo pressoché nullo un elemento che ha viceversa grande importanza nella psicoanalisi, vale a dire la traslazione, o transfert che dir si voglia (con il reciproco fenomeno di controtraslazione, o controtransfert). a) La metodologica rinuncia allo “strumento” Come è noto, già Freud considerava la traslazione uno degli strumenti terapeutici più potenti nelle mani dell’analista, grazie al quale favorire l’emersione e il ricordo di fenomeni rimossi. L’impiego di questo “strumento” richiede giustamente una continua e forte attenzione al piano affettivo-relazionale che si viene a creare tra analista e analizzando, per la semplice e ovvia ragione che esso ha per ambiente di lavoro proprio l’affettività che si produce all’interno di una relazione, la quale proprio per questo in ambito psicoanalitico viene lasciata crescere e sviluppare. Ne consegue anche che il transfert, se non ben padroneggiato, può trasformarsi in ostacolo al procedere del lavoro e il controtransfert può mettere in gioco le capacità dell’analista e il suo stesso inconscio. Oggi è ben noto che in qualsiasi relazione della nostra vita vanno in gioco scambi affettivi riconducibili a traslazione e controtraslazione; essere consapevoli di questo fenomeno è un arricchimento importante della nostra visione del mondo e, in particolare, del complesso fenomeno della relazione tra le persone; tuttavia, normalmente ciò non è una ragione sufficiente per fare del transfert uno strumento centrale di ogni attività che richieda cooperazione, in quanto gran parte di tali attività non fanno perno sul rapporto

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affettivo che si ha con gli altri. Tale rapporto esiste sì sempre, ma costituisce uno dei tanti elementi che vanno in gioco in una prassi sociale. Al contrario, deve anche essere tenuta presente una cosa spesso trascurata, cioè il fatto che, nelle ordinarie attività sociali, più l’attenzione di chi coopera si concentra sull’oggetto del lavoro condiviso, meno è importante la qualità affettiva della loro relazione, più cresce il mutuo investimento di interesse nei confronti di quell’oggetto, più la stessa qualità affettiva migliora. D’altro canto, se il transfert ha un significato strumentale per favorire il ricordo di fenomeni psichici rimossi, allora non ha molto valore per la consulenza, visto che – come già osservato – ad essa non interessano i fenomeni psichici che hanno prodotto lo stato presente, bensì la comprensione di quest’ultimo. Inoltre, la concentrazione del dialogo filosofico sulla relazione dei due dialoganti, per quanto possa occasionalmente essere importante e necessaria, non è certo di norma la cosa più rilevante della visione del mondo del consultante: soffermarcisi oltre misura significherebbe distogliersi dal lavoro filosofico più proprio. Dunque, diversamente della psicoanalisi, la consulenza filosofica ha ben poco interesse per i fenomeni relazionali che avvengono tra i due dialoganti, perché il suo oggetto non è l’affettività, bensì il lògos che si sviluppa nel dialogo, così come diverso (rispetto a ciò per cui la traslazione sarebbe mezzo) è il suo fine: la ricerca di una più ricca comprensione del mondo23. Solo occasionalmente anche la relazione e i suoi fenomeni affettivi possono entrare nel campo d’interesse della consulenza filosofica (ad esempio in situazioni di criticità del dialogo); ma anche in quel caso – lungi dal configurarsi come uno “strumento” nelle mani del consulente, come avviene in psicoanalisi – tale interesse verrà condiviso e si trasformerà in argomento di ricerca all’interno del dialogo filosofico (e perciò anche in momento di ulteriore arricchimento della visione del mondo tanto del consultante, quanto dello stesso consulente). b) Philía e cooperazione di pensiero L’ultima considerazione ci conduce ad un ulteriore riflessione: un dialogo filosofico richiede, come precedentemente accennato, una pariteticità tra i 23 Resta aperto un problema reale e importante, che riguarda quello che Umberto Galimberti chiama “problema della pancia” (cfr. Discussione sulla consulenza filosofica, in “Aut-Aut”, n. 332, in particolare p. 65): quale “formazione della personalità” deve aver svolto un consulente filosofico per riuscire a praticare la filosofia dialogica, senza essere travolto dalla sua stessa emotività? Ho dato qualche provvisoria suggestione nel mio Consulente filosofico cercasi, ma si tratta di una questione che rimane largamente aperta alla discussione e alla ricerca, oltre che assai importante per la formazione alla professione.

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dialoganti. Quest’ultima però non significa assenza di differenze sul piano “tecnico”: il filosofo sarà di solito più esperto nel campo degli universi concettuali e più preparato nell’analisi e nella reinterpretazione delle visioni del mondo, ma il consultante sarà a sua volta più competente in merito alle proprie vicende esistenziali e a numerosi altri aspetti della realtà in cui entrambi i dialoganti sono immersi – la quale, lo ripetiamo, è e resta il tema centrale del dialogo e della ricerca condivisa. La pariteticità riguarda piuttosto l’eguaglianza dei dialoganti quanto a dignità di esseri raziocinanti: il filosofo non può ritenere il suo compagno incapace di comprendere o argomentare in modo complesso, non può pensare che le perplessità o le obiezioni avanzate dal consultante non possano colpire la sua personale visione del mondo, non può ritenere di non aver qualcosa da imparare dal partner, perché in questo caso la consulenza, da ricerca filosofica, si trasformerebbe in mero indottrinamento, perdendo valore e, come vedremo, anche ogni efficacia. Analogamente, il consultante non può subordinarsi al filosofo, attendere da lui le risposte, pensarsi “in carico”, perché per le stesse ragioni la consulenza non sarebbe più filosofica. Il filosofare – che, come spesso è stato osservato, è sempre symphilosophein, confilosofare – necessita dunque di questo reciproco investimento di dignità, che da un lato rinvia all’essenziale contesto intersoggettivo precedentemente osservato e che fa sì che esso sia sempre uno sguardo etico, dall’altro, semplicemente attraverso la sua pratica, dà origine a una relazione tra i dialoganti di tipo ben preciso: una relazione di philía, di amicizia, che infatti numerosi consulenti filosofici hanno ritenuto essere quella che caratterizza le relazioni con i loro consultanti24. Un tipo di relazione della quale è impossibile usare strumentalmente gli elementi e che non può trasformarsi in un investimento affettivo sul modello padrefiglio o madre-figlio, e neppure discepolo-maestro, così frequentemente caratteristici delle relazioni analitiche.

L’intenzionalità Ma forse l’elemento su cui la consulenza filosofica si distingue maggiormente dalla psicoanalisi è l’intenzionalità. Ne vedremo in conclusione l’im24 Oltre ai numerosi riferimenti teorici generali, merita ricordare che Achenbach narra di essere stato testimone di matrimonio dei suoi consultanti e di battesimo dei loro figli. Io stesso, dopo le relazioni di consulenza, ho conservato rapporti di amicizia con molti di coloro che sono venuti al mio studio.

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portanza, limitandoci per ora a coglierne il senso, che rinvia a molteplici suoi aspetti. a) Il rifiuto della terapia Il primo e più ovvio di tali aspetti è il più volte ribadito fatto che la consulenza filosofica non è, né vuol essere, in alcun modo terapeutica, cosa che, come già osservato, significa in primo luogo la sua metodica rinuncia all’uso di qualsiasi “strumento” che permetta al filosofo di operare intenzionalmente sul consultante una qualche forma di “guarigione” o “cambiamento”, in secondo luogo – ancor più radicalmente – la sua abdicazione alla distinzione tra visioni del mondo (e in certo senso persino tra persone) “malate” e “sane”. Capita spesso di sentirsi obiettare che questa concezione della terapia non sia propria della psicoanalisi, che invece la interpreterebbe come una crescita dell’individuo, uno sviluppo della sua personalità, un’esperienza conoscitiva di sé. Eppure, a leggere gli psicoanalisti, tutto ciò non sembra. Ad esempio, Jonathan Lear, psicoanalista di formazione filosofica, afferma che «l’analista facilita un processo (…) attraverso il quale l’analizzando arriva a poco a poco a riconoscere come ciò che aveva preso per il mondo quale è di fatto costituisca un punto di vista deformante. L’analizzando ha sempre convissuto con una visione strabica di sé e degli altri (…)»25. In quale altro modo interpretare queste frasi, se non come espressioni di una tradizionalissima concezione della terapia come riconduzione del paziente alla “oggettiva” normalità? La consulenza filosofica è nata proprio per sfuggire a questo tipo di intenzionalità terapeutica: ogni visione del mondo è in potenza praticabile e vivibile, a condizione che riesca ad essere coerente, ricca e comprensiva in modo sufficiente all’individuo che ne sia portatore. Anche le più paradossali originalità possono essere mantenute – come avviene esemplarmente nel mirabile caso dell’“imperatore”, citato da Miguel Benasayag26 – qualora il consultante sia in condizione di reggerne il peso e pagarne i costi, perché qualunque visione del mondo ha comunque dei pesi e dei costi, e non sta al consulente giudicare quando sia “deformante” o “strabica”; ad esso spetterà solo il compito di segnalare chiaramente quali siano quei pesi e quei costi, ma anche le sempre aperte possibilità di farsene carico e pagarli.

25 Jonathan Lear, L’azione terapeutica, Milano, Apogeo, 2007 (ed. or. Therapeutic Action, 2003), pp. 33-34 (corsivi miei). 26 Cfr. Miguel Benasayag, Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2004 (ed. or. Les passions tristes, La Découverte, Paris, 2003).

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b) L’assenza della volontà di cambiare Lo stesso Lear sostiene d’altronde che, diversamente dalla filosofia, «la psicoanalisi (…) si propone come scopo una modificazione della psiche»27 che «l’analista ha assunto un impegno incondizionato ad aiutare l’analizzando a comprendere meglio se stesso e la relazione in cui egli e l’analista si trovano»28 e che «si è impegnato a promuovere la libertà dell’analizzando»29. Tutte queste intenzionalità che l’analista ha nei confronti dell’analizzando non possono far parte del lavoro filosofico consulenziale, sia perché non sono intenzionalità proprie della filosofia – che è ricerca del sapere, non un agire finalizzato e strumentale su qualcosa o qualcuno – sia perché se entrassero nel dialogo lo renderebbero immediatamente infruttuoso: la verità ha infatti il potere di “toccarci” e di attivare la totalità del nostro essere solo se si rivela ai nostri occhi nella sua autonoma irrefutabilità, cosa che si verifica se e quando la scopriamo da soli, ne siamo persuasi in forza della nostra ragione; quando sia invece introdotta per uno scopo, quando ci venga (di)mostrata dall’esterno e con artifici persuasivi anche latenti, essa perde la sua forza, sminuita com’è dal sospetto che sia solo un falso mezzo per altri fini e altri interessi30. Ciò significa di fatto che il filosofare, cioè il prendere parte a un dialogo paritetico (nel senso precedentemente spiegato) che abbia di mira esclusivamente la verità, ovvero – più laicamente e meno enfaticamente – la chiarificazione e l’arricchimento del modo in cui si vive e si guarda il mondo (e non meramente se stessi), scevro da intenzioni di “cambiamento” o “aiuto” (Achenbach, un po’ provocatoriamente, afferma che «solo una coscienza ottusa sa cos’è l’aiuto, solo la stupidità militante sa quando l’uomo è aiutato»31), ha non solo il vantaggio di permettere un’analisi del proprio pensiero più lucida e distaccata (cioè il suo unico obiettivo esplicito), ma è anche una via privilegiata per favorire la presa d’atto delle conclusioni a cui tale analisi può giungere, per esserne “toccati” e motivati a “realizzarle” nella propria esistenza32.

27

Jonathan Lear, L’azione terapeutica, cit., p. 5. Ivi, p. 38. 29 Ivi, p. 39. 30 Su questo tema è esemplare il caso di “Annamaria”, riportato nel mio Consulente filosofico cercasi, cit., pp. 88 ss. 31 Gerd Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 86. 32 Il termine “toccato” rinvia alle riflessioni di Roberta De Monticelli nel citato L’ordine del cuore; il concetto di “realizzazione”, di derivazione hegeliana, l’ho più volte trattato nei miei scritti, ma per esso cfr. anche la mia conversazione con Luigi Lombardi Vallari in “Phronesis”, n. 9, ottobre 2007. 28

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c) Libertà e responsabilità Il motivo di questa particolare valenza positiva del filosofare è legata al suo carattere di libero agire cooperativo, prender parte al quale restituisce ai dialoganti – e perciò anche al consultante, che di solito vi arriva in uno stato di prostrazione dovuto alle sue vicende esistenziali – la propria dignità di essere raziocinante e la piena responsabilità delle proprie scelte. Avevamo infatti già osservato come la “parola chiave” della consulenza filosofica fosse per Achenbach la dignità: la ricerca di senso conduce alla cosa migliore da pensare e fare non già per raggiungere la felicità, ma per «essere degno della felicità»33. Ed è per questo che anche il “desiderio” – termine di solito centrale nella psicoanalisi – riceve nella consulenza filosofica ben altro tipo di considerazione: qui, piuttosto che di «non cedere sul proprio desiderio» (come, seguendo Lacan, afferma si tratti nella psicoanalisi Massimo Recalcati34), è questione di porsi «il dubbio che, forse, non sappiamo desiderare in modo giusto»35 – dove con ciò non si deve intendere un’adeguazione del soggetto a norme sociali date, ma una sua comprensione del senso stesso delle norme, che gli permetta appunto di prendere responsabilmente posizione nel complesso contesto di valori che sostanziano i suoi diritti (e desideri) e quelli altrui – e perciò il suo stesso desiderio di essere degno36. Da questo punto di vista, è interessante osservare come ancora Jonathan Lear evidenzi la differenza tra psicoanalisi e filosofia rifacendosi alla Repubblica, dalla quale si deduce come Platone fosse consapevole del fatto che «se davvero si vuole modificare la struttura della psiche, si debba fare molto di più che dialogare. Si deve cominciare con i fanciulli, per formarli: scegliere la letteratura e i miti da proporre loro, contemperare educazione morale ed educazione ginnica, addestrarli all’arte militare, far loro studiare la matematica, e così via»37. In altre parole, per il Socrate platonico così come per Lear, il semplice dialogo sarebbe incapace di produrre una «modificazione profonda della psiche», ovvero un’«azione terapeutica»38. In questa interpretazione,

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Gerd Achenbach, Saper vivere, cit., p. 78. Cfr. Massimo Recalcati, Elogio dell’inconscio, cit., p. 40. 35 Cfr. Gerd Achenbach, Saper vivere, cit., p. 122. 36 Sui rischi dell’uso inconsapevolmente soggettivistico (e perciò immorale) del desiderio ho parlato, in riferimento al pensiero dello psicoanalista Elvio Fachinelli, nel mio Limiti della psicoanalisi e prospettive della Praxis filosofica, negli Atti del Convegno “Nel secolo della psicoanalisi. Elvio Fachinelli e la domanda della sfinge” (Trento, 27-28 marzo 2009), di prossima pubblicazione presso l’editore Guerini. 37 Jonathan Lear, L’azione terapeutica, cit., p. 5. 38 Ibidem. 34

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Lear distingue giustamente processo psichico causale e processo conoscitivo delle ragioni, assegnando altrettanto giustamente solo il primo alla “terapia” e solo il secondo alla filosofia. Quel che lascia assai perplessi nella descrizione di Lear è il fatto che egli neghi al processo conoscitivo delle ragioni ogni possibilità di interferire con il processo psichico, cosa che appare da un lato del tutto non corrispondente alla realtà, dall’altro paradossale. Appare irrealistico, perché ciascuno di noi sa invece assai bene, per esperienza diretta, che il cambiamento delle proprie idee modifica spesso – e anche in modo radicale – le nostre motivazioni, le nostre emozioni, i nostri desideri. La qual cosa significa che – al contrario di quanto si sente spesso sostenere – a ogni riflessione che produca un anche parziale mutamento nella nostra immagine del mondo corrisponde un cambiamento nella sfera emotiva e desiderante. Una cosa che non può essere cancellata dal fatto che un tale mutamento non possa mai essere “progettato” e realizzato strumentalmente – ovvero, che non si possa mai sapere a priori che forma finisca con l’assumere – e che quindi, non essendo prodotto da un intervento tecnico-strumentale, non gli si possa attribuire la qualifica di “azione terapeutica”. Appare paradossale, perché presuppone un’immagine dell’uomo definitivamente pre-determinato e pressoché impossibilitato a cambiare in conformità delle proprie idee, così che per Lear sembra trattarsi solo di “diventare ciò che si è” – secondo un motto nicciano sovente richiamato (tra gli altri da Massimo Recalcati39) e assai abusato – piuttosto che “diventare ciò che si vuole e vorrà essere” – motto invece molto più adeguato a un’idea di filosofia come processo di scoperta di pensiero in continuo divenire, ma anche al reale processo di sviluppo della personalità e dell’identità di qualsivoglia essere umano.

Uscire da sé, comprendere il mondo Un ulteriore elemento di distinzione della consulenza filosofica dalla psicoanalisi è la “direzione” verso la quale procede l’indagine condotta nel dialogo. a) Una cultura individualista La cultura in cui viviamo – e che sta sempre più uniformandosi con il fenomeno della comunicazione planetaria e della accelerata ibridazione delle culture che va sotto il nome di globalizzazione – è, come si sa, marcatamente 39

Cfr. Massimo Recalcati, Elogio dell’inconscio, cit., p. 40.

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individualista. Uno dei presupposti impliciti e acriticamente assunti oggigiorno è che ogni uomo sia un individuo distinto da tutti gli altri, che agisce sulla base di principi autocentranti e, almeno entro certi limiti, poggianti su “pulsioni” o “istinti” egoistici. Per un consulente filosofico non si tratta di opporre a questa un’altra diversa concezione, quanto ancora una volta di evitare semplicemente di assumerla, in quanto parziale e deficitaria, e perciò di includere la sua critica nel dialogo con i suoi consultanti. Che tale lettura sia deficitaria è fenomeno palese: per quanto ogni uomo, in quanto organismo, abbia la necessità (codificata geneticamente) di svolgere parte delle sue funzioni seguendo una logica appropriativa che lo autocentra e lo pone in competizione con tutto ciò che lo circonda (uomini, animali, natura), egli ha anche una componente relazionale (anch’essa codificata geneticamente e rafforzata dalle sue esperienze di animale mammifero) che lo colloca con esso in un ineludibile stato di legame. Come c’insegnano i grandi filosofi (potrei qui rimandare alle riflessioni di Hegel nella Fenomenologia dello spirito, ma i possibili riferimenti sono tantissimi), il “soggetto” isolato dall’intersoggettività è una grossolana (e pericolosa) astrazione. Una cultura che dimentichi, o quanto meno sottovaluti, che l’individuo possiede legami essenziali con l’altro da sé che non sono solo utilitari, ma si radicano nella sua sfera emotiva e desiderante, che poi si distillano in quella cognitiva come aspirazioni etiche, rischia di perdere senza accorgersene (e senza adeguarsi alla mancanza) elementi di comprensione del reale. Ora, la cultura psicoanalitica nasce nell’epoca del trionfo dell’individualismo e da essa è fortemente influenzata, come dimostra a sufficienza la riflessione di Freud (penso qui in particolare al Disagio della civiltà). Non solo: come più volte ha osservato Umberto Galimberti, essa è anche l’erede della cultura religiosa giudaico-cristiana, la quale – pur con varianti comunitariste – fa perno sull’esigenza di “salvezza” dell’individuo, alla quale questi è spinto dai timori e dalle prostrazioni che scaturiscono dal proprio essere organisticamente finito e mortale. b) L’individuo e la pòlis Culture diverse dalla nostra – ad esempio quella dell’antica Grecia – ben sapevano che l’uomo ha invece una natura sociale, e per questo nelle loro visioni del mondo l’identità dell’individuo si configurava in modo assai diverso che nella nostra40. Solo la sua corretta (cioè coerente e perciò degna) 40

Da questo punto di vista, è sorprendente vedere in che modo uno psicoanalista che rivendica la propria formazione filosofica come Massimo Recalcati interpreti in modo

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collocazione all’interno della pòlis – ovvero della comunità di coloro dai quali riceve riconoscimento – e del cosmo tutto – nel quale vive e del quale si forma un senso solo attraverso la cooperazione cognitiva con i suoi simili – può consentire la costruzione di un’identità che permetta di vivere nel mondo con un orientamento e un senso della propria esistenza. Ciò vale anche nel caso, sempre potenzialmente praticabile, che si scelga l’opzione individualista, la quale non può però essere presa per buona in modo acritico (magari attraverso un uso epistemologicamente ingenuo di categorie come “naturale”), ma deve darsi un coerente e rigoroso fondamento, impossibile senza una preliminare conoscenza e comprensione di quanto è esterno all’individuo stesso. Detto diversamente: ogni analisi del sé che non sia preceduta e poi accompagnata da una dettagliata e costantemente rielaborata analisi del mondo, ogni introspezione che non presupponga una ricerca filosofica sulla conoscenza disponibile all’umanità, non può produrre risultati coerenti e ben fondati. Ogni lavoro “su se stessi” o è un lavoro “politico”, o è solo un coercitivo riadattamento sociale. Questo oggi, nelle culture in cui ci troviamo a vivere, vale a maggior ragione per quegli approcci psicoanalitici che concentrano la loro attenzione sulla “liberazione” delle “pulsioni” e degli “istinti” dell’individuo, inevitabilmente interpretati attraverso i presupposti individualistici dominanti od opzioni ontologiche ed epistemologiche non esaminate. c) La verità intersoggettiva Come se ciò non bastasse, come abbiamo visto in precedenza anche il concetto di verità – del quale l’uomo non può fare a meno perché, come già sapevano Platone e Aristotele, è un presupposto della razionalità che si autodimostra apagogicamente così come i principi di identità e non-contraddizione – è il risultato di un processo che ci lega agli altri esseri raziocinanti: l’intersoggettività, che ha per presupposto (implicito, ma ineludibile) l’eticità. Solo se si investono gli altri di dignità, se ci si fida di loro concedendo ad essi un credito, se conseguentemente li si rispetta, posso apprendere da essi, posso averli come compagni nella mia impresa conoscitiva e pratica nel mondo. Questo fenomeno essenziale per la vita umana è quanto si riproduce in ogni esperienza di dialogo filosofico, nel quale ciascun partecipante viene investito di questo status etico e proprio per questo – piuttosto che essere “aiutato” o “curato” – ha la possibilità di vivere, conoscere, assumersi responsabilità, concorrere dualistico uno dei più rilevanti esordi del pensiero etico complesso qual è l’Antigone di Sofocle (cfr. Massimo Recalcati, Elogio dell’inconscio, cit., p. 115).

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in proprio alla scoperta di verità, prima sul mondo e poi su se stesso. Da questo punto di vista, si capisce adesso perché la “direzione” della ricerca della consulenza filosofica – così come quella della filosofia, della quale essa è solo una versione – sia sostenuta da una “forza centrifuga” che la porta a studiare la superficie41 e la orienta verso il mondo esterno e l’universo intersoggettivo (con i conseguenti interessi di tipo etico e politico), piuttosto che da una “forza centripeta” (più propria delle “professioni di cura” e della psicoanalisi) che la spinga verso l’“interno” e il “profondo” del soggetto. La consulenza filosofica non è né introspezione, né cura di sé, se non mediatamente, cioè come completamento della prioritaria conoscenza della totalità dell’esistente – unico modo per capire in modo contestuale e complesso chi sia e come possa essere degno l’individuo che vive nel mondo.

Un setting intersoggettivo e anaffettivo I tratti caratterizzanti la consulenza fin qui osservati concorrono a definire un ultimo, importante suo aspetto, differenziandolo dall’analogo d’ambito psicoanalitico: il cosiddetto setting. a) Una prassi collaborativa rivolta a oggetti di conoscenza Come abbiamo visto, la relazione che lega i protagonisti della consulenza filosofica è di tipo (idealmente e umanamente) paritetico: essa è ispirata dal lavoro collaborativo di ricerca e comprensione della visione del mondo di chi chiede consulto, dal quale restano fuori intenzioni di “cambiamento”42, di aiuto, di “cura”43, di supporto affettivo. Si tratta cioè di una relazione tra persone di pari dignità e pari valore, che cooperano liberamente per la costruzione di un contesto teorico capace di interpretare e comprendere in modo compiuto e coerente una situazione problematica. L’oggetto attorno al quale i due (o più) dialoganti lavorano, per quanto riguardi da vicino

41 Cfr. in proposito Felice Cimatti, Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza, Quodlibet, Macerata, 2007. 42 In realtà, come abbiamo visto, nella consulenza filosofica un cambiamento avviene necessariamente, ma non è il suo ottenimento che guida il processo dialogico, quanto la ricerca di comprensione e di senso. 43 Ho studiato altrove il rapporto esistente tra pratica della filosofia e pratica di cura, concludendone che si tratta di due tipi di pratica incompatibili: o si fa filosofia, o ci si prende cura (cfr. Neri Pollastri, Una nozione da usare con cura, in Alessandro Volpone (a cura di), FilosoFare, cura e orientamento al valore, “Quaderni di pratica filosofica”, II, Napoli, Liguori, 2009).

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uno di essi (essendo in buona sostanza la sua stessa visione del mondo), viene affrontato ed elaborato come qualcosa di oggettivo, esterno alla loro relazione e di questa più ampio; esso deve giungere a mostrare il proprio valore universale, solo grazie al quale può “toccare” anche emotivamente il consultante ed essere da questi assunto come proprio. Ma, poiché l’unica oggettività e l’unico valore che l’uomo può attingere sono quelli elaborati argomentativamente all’interno dell’intersoggettivo universo del discorso, il setting filosofico non può chiudersi su se stesso e sulla relazione duale, quella “io-tu”, che invece caratterizza il lavoro affettivo proprio della psicoanalisi44. Al contrario, lo spazio della consulenza filosofica deve essere quello libero e aperto dell’intera intersoggettività plurale, allargata cioè ben oltre quello dei due dialoganti; il suo luogo è il lógos, l’universo del sapere argomentato, così come si è costituito e si costituisce nel mondo umano nella sua interezza. b) Dal chiuso degli affetti all’aperto dell’intersoggettività Giocando il gioco del ricercare filosofico sull’ampio tappeto dell’umano conoscere, il filosofo non può assumere – per lo spirito della ricerca, per la struttura del dialogo, perché egli stesso conta per uno in mezzo all’immensa pluralità delle voci – il ruolo di madre, o di padre, o comunque di “persona significativa”: è un mero partner dialogico, uno qualunque. Il solo ruolo “specialistico” che egli ricopre è quello di tramite verso l’universalità del discorso, di “porta” sul mondo umano esterno, di “valvola di sfogo” per la tensione sollecitata dalla relazione stessa. Che egli sia portatore di competenze argomentative e di esperienza nell’esplorazione dei costrutti concettuali vale quanto vale la competenza e l’esperienza del muratore nella costruzione di un monumento: la responsabilità dello stile non è sua. Che egli sia portatore di conoscenze materiali, di un sapere che il consultante (di solito) non ha, ha invece la sola funzione di svellere l’angusta relazione io-tu, per trasformarla in una relazione con il mondo. In tal modo il filosofo consulente fa volatilizzare ogni eventuale desiderio di “fusione” dell’ospite con lui, così come svapora il gas da una bottiglia lasciata aperta. Il suo ruolo lo sottrae da ogni affetto che vada oltre la stima amicale, lo porta ad esorcizzare ogni tendenza a legami

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Dato che parlare in generale del “setting psicoanalitico” si espone fatalmente a contestazioni, rinvio qui a un confronto critico specifico, che ho svolto comparando la consulenza filosofica con l’interpretazione che del setting analitico ha dato, nelle sue opere, lo psicoanalista Elvio Fachinelli. Si veda il mio già citato Limiti della psicoanalisi e prospettive della Praxis filosofica.

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privilegiati (così tipici, al contrario, del lavoro analitico) e lo porta invece a rinviare l’ospite tanto alla propria libertà (perché non dipende in alcun modo da colui che ha di fronte, dal consulente), quanto alla propria responsabilità (perché nel suo pensiero e nelle sue scelte dipende sempre dalla razionalità rispetto ai valori che condivide con tutti gli esseri umani). Una responsabilità, si badi, che non è mai “già data” o imposta dalle forme istituzionalizzate della società, ma è viceversa da ri-costruire attingendo processualmente al fluido universo del discorso, del quale ciascun individuo è un singolare e non duplicabile nodo d’intersezione. Definito in questi termini, il setting caratteristico del dialogo filosofico è perciò quanto fa sì che l’ospite passi necessariamente da quel “collo di bottiglia” che separa i dialoganti dal mondo e dalle relazioni universali, che sia spinto a confrontarsi con ciò che il lògos ha da dire sul suo pensiero, sul suo sentire, sul suo essere. Praticare la filosofia, cioè, porta il consultante a cercare il senso del proprio esistere non all’interno di se stesso, ma guardando e ascoltando l’esterno, nel quale ha la necessità di trovare una collocazione per esser se stesso; non attraverso l’equilibrio delle proprie dinamiche psichiche, ma attraverso la coerenza del proprio pensiero con quello della moltitudine umana con la quale condivide l’esistenza e dalla quale può e deve ottenere un riconoscimento vasto e non limitato al rapporto duale. Non è perciò un caso che nelle consulenze filosofiche si parli poco dei due individui che ne sono materialmente protagonisti e si parli invece molto del mondo circostante: della contemporaneità, di storia, di cultura, di scienza, delle ipotetiche opzioni che si possono aprire nella vita di ciascun uomo e, soprattutto, di etica e di politica. Perché il senso dell’esistenza, essendo intersoggettivo, è un senso etico e politico. Quel senso che rischia di sfuggire se ci si fa risucchiare dall’approccio psicoanalitico, che nel suo sostare presso gli affetti diviene viceversa così privato.

Una metariflessione conclusiva Giunti al termine di queste note – le quali, sebbene non brevi, avrebbero avuto bisogno di ben altri approfondimenti per poter aspirare a una loro più piena esplicitazione – sembra opportuna una riflessione che spieghi da un lato perché l’agire filosofico consulenziale, così come è stato descritto, possa essere – diciamo così – “utile” a chi si rechi da un filosofo per affrontare le proprie difficoltà esistenziali, dall’altro in che modo esso possa, pur con le sue differenze, interagire con altre pratiche, in primo luogo con la psicoanalisi.

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a) Perché la consulenza filosofica “funziona” Per quanto riguarda il primo aspetto, molte cose sono già state dette e sarà solo il caso di riassumerle. La pratica della filosofia, intesa come agire conoscitivo complesso e cooperativo, ha due effetti pratici che le sono peculiari: – permette a chiunque di esplorare e analizzare la propria visione del mondo (pensata e vissuta) in modo lucido e distaccato, di scoprirne aspetti fino ad allora ignoti (perché inconsapevoli o impliciti), di rielaborarla in forme più ricche e coerenti; – fa sì che chi vi partecipa – nonostante le sue personali particolarità, qualunque esse siano – viva concretamente un’esperienza intersoggettiva all’interno della quale viene investito di piena dignità umana (di essere raziocinante, portatore di diritti e doveri45), che lo tiri fuori, senza l’uso di nessun tipo di artificio o tecnica strumentale, dalla propria condizione di “anormalità” – sia essa una reale o presunta “patologia”, sia essa un semplice senso di alienazione dovuto alla sua diversità. Il primo effetto conduce al libero arricchimento della propria visione del mondo e, conseguentemente, anche della propria identità. Permette cioè al consultante di “pensare meglio” (in modo più complesso, ricco e coerente), condizione essenziale perché egli viva nel mondo e reagisca alle sue sollecitazioni in modo migliore. Il secondo effetto – che non è né cercato, né voluto come un obiettivo esplicito, ma è solo il frutto maturo dell’agire filosofico – permette invece al consultante di vivere fin da subito un’esperienza reale nella quale il suo valore, la sua libertà e la sua dignità vengono fatti valere, permettendogli così di “rialzare la testa” e tornare ad assumere il proprio legittimo ruolo di essere raziocinante e responsabile. È palese che queste due funzioni sono possibili solo all’interno di un dialogo nel quale il professionista non assuma né il ruolo del terapeuta, né quello dell’insegnante, né quello del maestro, ma abbia solo il ruolo di un interlocutore che aspira a sua volta a conoscere – un ruolo socratico, che richiede di “non sapere” quali possano essere gli esiti “giusti”. Un dialogo, quindi, di tipo filosofico, scevro da intenzionalità strumentali quali l’aiuto, 45 Qui rinvio alle riflessioni svolte da Matthew Lipman e Antonio Cosentino sul valore del filosofare in “comunità di ricerca”, ad esempio nei vari saggi presenti in Antonio Cosentino (a cura di), Filosofia e formazione, Napoli, Liguori, 2002. Il fatto che quei lavori abbiano a tema la Philosophy for Children non inficia il loro valore anche per altre forme di pratica filosofica.

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la cura, il cambiamento, l’autonomia. Cose, queste ultime, che possono “accadere” nel dialogo (che può perfino avere, come dice Shlomit Schuster, «effetti terapeutici»46) solo se non volute e non cercate intenzionalmente. Che, pertanto, proprio per questo divengono disponibili a un lavoro filosofico consulenziale ben più che a uno psicoterapeutico o psicoanalitico. b) Quali relazioni tra la consulenza filosofica e la psicoanalisi Venendo infine al secondo aspetto, queste righe potranno aver forse dato l’impressione di una difficile o conflittuale relazione tra consulenza filosofica e psicoanalisi. In realtà, qui si è voluto solo evidenziare la profonda diversità tra le due pratiche, una diversità finora sottovalutata e resa confusa da informazioni spesso imprecise. Ma la convivenza tra diversi è non solo sempre possibile (nonché doverosa), ma diviene anzi più interessante e feconda allorché le differenze siano finalmente messe in chiaro. La riflessione teorica e la stessa esperienza pratica sulla consulenza filosofica è ad oggi ben lontana da essere definitiva o anche solo soddisfacente; il confronto con pratiche per certi versi affini, della stessa “famiglia”, è sempre la benvenuta, anche quando le differenze siano tali che nella famiglia qualcuno sia marcatamente “estraneo” – come pare essere la consulenza filosofica rispetto alla psicoanalisi. Così, una collaborazione teorica e pratica tra le due diverse discipline è oggi più che auspicabile, anche alla luce del fatto che non mancano esperienze di consulenza che dimostrino la sua inadeguatezza ad alcuni casi concreti (anche se non necessariamente quelli ove siano chiaramente evidenziabili “patologie”47), nei quali probabilmente una cooperazione con psicoanalisti o psicoterapeuti permetterebbe alle diverse categorie di trarre fruttuosi insegnamenti. Quel che penso sia importante è – pur segnalando le differenze e avanzando in modo opportuno e rispettoso le dovute obiezioni teoriche e pratiche – non arroccarsi su (presunte e mai dimostrabili) “superiorità” della propria disciplina: la storia del pensiero umano ci dimostra a sufficienza che ogni opzione ha i propri pregi e i propri difetti, e che solo l’apertura a ciò che è diverso può migliorare la comprensione dell’oggetto di cui ci si sta occupando. È auspicabile che ciò sia fatto valere anche nei rapporti tra consulenza filosofica e psicoanalisi.

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Shlomit Schuster, La pratica filosofica, cit., p. 48. In merito all’opportunità della pratica filosofica anche in casi di conclamate “patologie” rimando al già citato caso di “Annamaria” nel mio Consulente filosofico cercasi, cit. 47

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ESTRANEO IN FAMIGLIA

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Pratica filosofica e pratica psicoanalitica. Un approccio ermeneutico di Maria Luisa Martini

Nella riflessione sui fondamenti teorici e sulle metodiche che guidano l’esercizio del con-filosofare, le pratiche filosofiche manifestano la tendenza ad assumere una presa di distanza critica rispetto ad altre pratiche, e in particolare rispetto alle psicoterapie e ad analoghe professioni di aiuto. La consulenza filosofica di ispirazione achenbachiana1, forse proprio perché può essere confusa con la relazione psicologica e psicoanalitica per la forma duale del setting, presenta una modalità di autocomprensione caratterizzata da una decisa differenziazione “in negativo”, che si traduce spesso in posizioni polemiche. Succede così che anziché elaborare in positivo gli elementi portanti del proprio impianto teorico e metodologico, si limita a indicare in negativo – per dirlo con i versi ermetici – “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, e questo richiama l’ombra della carenza di un’identità più robusta e di una solida autonomia disciplinare. Per demarcare la distinzione degli ambiti, viene sottolineata la preminenza data in consulenza filosofica al pensiero, all’elaborazione e alla chiarificazione discorsiva, alla valorizzazione di una dimensione dialogica istituita tra persone che interagiscono su un piano di parità2. Sono così messi fuori gioco alcuni capisaldi della dottrina e della clinica psicoanalitica, quali il transfert e l’esplorazione della sfera dell’inconscio. Va riconosciuto che in questa operazione la consulenza filosofica si colloca dentro la strada maestra della tradizione filosofica: la nozione di inconscio, infatti, soprattutto nella sua accezione freudiana, non può non risultare paradossale per una disciplina che in riferimento alla sua storia millenaria, ma anche alla sua stessa identità, si fonda sulla valorizzazione della consapevolezza di sé, sulla 1 Gerd Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità di vita (1987), tr. it. Milano, Apogeo, 2004. 2 Si veda la posizione espressa da Neri Pollastri, Il pensiero e la vita, Milano, Apogeo, 2004, cap. 2 (pp. 87-128) e ripresa in Id., Consulente filosofico cercasi, Milano, Apogeo, 2007, cap. 2 (pp. 25-76). Si veda anche «Aut-Aut», Considerazioni sulla consulenza filosofica, n. 332, ott.-dic. 2006. Si veda anche il contributo di Pollastri nel presente volume.

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forza di rischiaramento della ragione; insomma, sul primato della coscienza riflessiva. Forse sarebbe più esatto dire, se vogliamo esplicitare l’eredità cartesiana di questa impostazione, che la filosofia fonda la coscienza, in quanto affida a questa istanza soggettiva non solo un ruolo di ordinamento dell’esperienza, ma la indica come proprio principio gnoseologico e ontologico. L’opzione cartesiana per la parte razionale, a cui viene assegnato il compito di discriminare il vero dal falso, contro l’inaffidabilità della percezione sensibile, troppo prossima al mondo dell’immaginazione e del sogno, ha profondamente segnato il pensiero moderno, e con esso l’intera storia della disciplina. La filosofia, fino alla frattura di Schopenhauer e Nietzsche, esclude dal proprio campo di indagine ciò che sta al di là del lógos, ciò che si manifesta come espressione dell’oscurità del bìos e che mette radici nella parte emotiva e ingovernabile del soggetto. Il Cogito diventa una fortezza3 a difesa dell’incertezza e del caos delle sensazioni, veicolate dalla caducità e inaffidabilità del corpo, e dalle emozioni, espressione dei labirinti enigmatici delle passioni dell’anima. La filosofia ha quindi intrapreso la via di un perfezionamento progressivo dell’idea di ragione, nella valorizzazione pressoché esclusiva dell’unico strumento capace di dare intelligibilità all’esperienza e di garantire l’accesso alla verità. Questo fino alle soglie della contemporaneità, fino alla svolta schopenhaueriana, che ha saputo riconoscere e accogliere la complessità dell’uomo, ricomponendo nella nozione di soggetto il pensiero e ciò che è “altro” dal pensiero: le grandi ragioni del corpo. Se possiamo indicare un tratto comune della cultura contemporanea, e dunque della stessa filosofia, credo che sia rappresentato dal riconoscimento dei limiti del pensiero cosciente, con l’ingiunzione rivolta alla ragione di assumere consapevolezza della propria dimensione finita, situata in confini spaziali e temporali, piegata dalla parzialità di ogni verità, dalla dimensione prospettica e relativa di ogni propria asserzione. Ma ciò ha comportato anche una sfida a cimentarsi con nuovi compiti. Ha infatti dovuto mettersi in ascolto di linguaggi che attraversano i suoi stessi territori e che provengono da un altrove sempre inascoltato, rimosso e censurato. La filosofia ha dovuto quindi rinunciare alla via breve dell’intuizione e dell’autoevidenza, per intraprendere la “via lunga” e paziente della lettura dei segni che l’attività del pensiero ha depositato in realtà diverse, obiettivandosi in tempi, spazi, situazioni e culture diverse, in relazioni umane segnate dalle tensioni del conflitto così come dallo sforzo dell’intesa. Ragioni plurali, insomma, diversificate a partire dalla concretezza del loro essere temporalmente e geograficamente situate. 3

Riprendo in questo contesto l’immagine suggerita da Paul Ricoeur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud (1965), tr. it. Milano, Il Saggiatore, 1967.

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È mia convinzione che le pratiche filosofiche si inscrivano a pieno titolo in questo sfondo che caratterizza il nostro tempo. Leggo questa parentela nell’esercizio dell’autobiografia, dove alla domanda “chi sono io?” non è data nessuna risposta precostituita e neppure scorciatoie consolatorie nella funzione pensante del Cogito, ma è richiesto un paziente scavo nella propria storia personale, in cui la complessità dei vissuti non venga rimossa e possano essere esplorate le pieghe delle emozioni e delle passioni, delle azioni e delle negazioni, nella consapevolezza dei confini fragili e oscillanti della nostra identità personale4. Leggo l’attualità delle pratiche negli esercizi filosofici, che si immergono nella capacità espressiva del corpo e nelle produzioni della fantasia per cercare altri elementi, altri tasselli, che siano di aiuto nella comprensione di sé. Un sé che non è previamente dato, ma che è sempre in atto di farsi e che ha bisogno di pratiche di cura. La consulenza filosofica di gruppo è a sua volta espressione della consapevolezza, propria dei nostri giorni, che l’attività di pensiero non si esercita in una forma individuale, non è qualcosa di privato, ma ha piuttosto un carattere condiviso che vive nel confronto interpersonale. Se ancora possiamo parlare di verità oggi, lo possiamo fare nella consapevolezza che ogni verità si può manifestare solo come dialogo, nella tensione con altri e diversi punti di vista, dal momento che ogni prospettiva personale risulta parziale e richiede di saper guardare al di là del proprio privato orizzonte. La stessa consulenza filosofica duale si fonda sullla dimensione dialogica, sulla reale tensione colloquiale che si crea tra gli interlocutori. È questa dinamica che permette di creare nel campo della relazione discorsiva una chiarificazione del problema e di trovare le parole capaci di aprire un varco al pensiero individuale per andare oltre, verso un altro contesto di senso. La fluidificazione della rigidità dei concetti e il movimento reale del pensiero hanno il proprio luogo di origine nel linguaggio, e in particolare nello scambio vivente della parola. Leggo infine nella metodica della Comunità di Ricerca e della Philosophy for Community l’istanza di confrontarsi con il testo non attraverso un’operazione filologica né per ricostruire le presunte intenzioni dell’autore, ma con l’intento di interrogarlo in ciò che ha effettivamente da dire al nostro presente, ponendogli quelle domande che sono innanzitutto le nostre domande, che provengono dalla nostra esistenza e dalla nostra personale ricerca della 4

Il riferimento è, anche per queste considerazioni, a Paul Ricoeur, Sé come un altro (1990), tr. it. Milano, Jaca Book, 1993 e Id., Percorsi del riconoscimento (2004), tr. it. Milano, Cortina, 2005.

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verità. In una lettura di questo tipo il testo ritorna effettivamente in vita, nella quotidianità di chi lo legge interrogandolo, e non nell’astrattezza di una cultura di pura conservazione storicistica. I tratti che ho sommariamente elencato, che caratterizzano, a mio giudizio, l’impianto delle pratiche filosofiche, e il loro radicamento nel nostro tempo storico, segnalano anche la loro prossimità con altre pratiche presenti nella realtà contemporanea. Tutte lasciano intravedere un comune riferimento ai paradigmi filosofici della cultura del Novecento, in primis alla nozione di soggettività, che si delinea come entità composita e plurale, nell’accoglimento della complessa coesistenza di ragione e antiragione, di bíos e di lógos, di corporeità e di spiritualità, in un impasto ibrido, eppure vivo, di istanze eterogenee. Se ricostruiamo le matrici di questi paradigmi filosofici, vediamo delinearsi alcuni protagonisti “epocali” della storia del pensiero, da Schopenhauer a Nieztsche, da Marx a Kierkegaard. Ma non possiamo non attribuire un ruolo decisivo anche alla figura e all’opera di Freud, che, accanto ad altri maestri della “scuola del sospetto”, ha contribuito a dissolvere la concezione antropologica moderna, fondata su una riduzione astratta dei vissuti e su un primato indiscusso della dimensione razionale, segnalando come sia necessario porsi in ascolto delle istanze meno elevate, eppure umane, troppo umane, della nostra identità, cercando di accoglierne e comprenderne il linguaggio. Credo che non sia possibile descrivere il quadro della cultura del Novecento senza riconoscere il ruolo dirompente giocato dalla teoria e dalla pratica psicoanalitica5. Va detto che Freud non fu, e non volle essere, un filosofo. Al vaglio raffinato dell’analisi filosofica molte categorie psicoanalitiche risultano ibride, perché oscillano in modo contraddittorio tra un modello teorico legato alla fisica del secondo Ottocento, con parametri di tipo meccanicistico e con un linguaggio energetico proprio della scienza dell’epoca, e una valorizzazione delle potenzialità immaginative e mitiche della psiche. Come Karl Jaspers mise puntualmente in luce nel saggio Psicopatologia generale 6, la psicoanalisi rimane prigioniera di procedure di spiegazione causali, e tuttavia senza applicarle in modo rigoroso, dal momento che ricorre anche a categorie ispirate alla filosofia della natura di ascendenza romantica. Questa paradossale ambivalenza si riflette anche nel linguaggio freudiano, 5 Mi permetto di rinviare al volume a cura di Marco Conci e Maria Luisa Martini (a cura di), Freud e il Novecento, Roma, Borla, 2008. 6 Karl Jaspers, Psicopatologia generale (1913-1959), tr. it. Roma, Il Pensiero scientifico, 20005.

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che si muove in un campo lessicale ibrido, dove vengono accostati termini fisico-energetici, ispirati a una concezione deterministica della natura, e immagini tratte dalla letteratura classica, dalla tragedia greca, dal mito, dalla stessa filosofia. Ma a queste obiezioni in merito a un quadro teorico non sufficientemente coerente, si affiancano critiche puntuali ad alcuni concetti portanti della psicoanalisi, come la nozione di inconscio, il concetto di libido, la natura pulsionale profonda dell’apparato psichico. Pur avendo individuato correttamente nel desiderio la dimensione fondamentale dell’esistenza umana, Freud lo avrebbe riduttivamente ricondotto a un sottofondo biopsicologico, imprigionandolo in un’idea di “homo natura” che impedisce di comprendere la complessità dell’esistenza umana. Troviamo sintetizzate in queste obiezioni le posizioni assunte da molte correnti filosofiche del primo Novecento, dagli esponenti dell’indirizzo fenomenologico (come il già ricordato Karl Jaspers, o come Maurice Merleau-Ponty) e dall’estenzialismo sartriano. Sartre, come è noto, propone di rivedere criticamente l’impianto naturalistico della dottrina freudiana, respingendo la concezione dell’inconscio e il postulato di uno psichismo che si sottrae all’intuizione del soggetto. Viene prospettata la versione di una “psicoanalisi esistenziale” che ha come presupposto (in dissenso da Freud, ma in palese continuità con l’eredità cartesiana) la centralità della coscienza, intesa come assoluta libertà. In molte posizioni oggi diffuse tra le pratiche filosofiche ritrovo queste stesse obiezioni di principio nei confronti della dottrina freudiana. La critica investe alcuni concetti portanti della teoria psicoanalitica, ma soprattutto le modalità della pratica clinica, dall’impostazione del setting, al tipo di relazione che viene instaurata tra terapeuta e paziente, alla centralità attribuita al processo del transfert. In questa operazione critica vedo esprimersi una tendenza, ben poco filosofica, a ridurre la portata delle questioni realmente presenti quando ci si interroga sull’eredità freudiana nella cultura del nostro tempo. E credo sia un errore prospettico ignorare l’impatto e la diffusione capillare della psicoanalisi, che ha permeato profondamente, in ogni aspetto della vita quotidiana, le forme in cui l’uomo contemporaneo pensa e rappresenta se stesso. In modo un po’ provocatorio, pongo di seguito alcuni problemi, che inquietano innanzitutto me stessa, per aprire un confronto, meno pregiudizialmente segnato, tra pratica filosofica e “mondo psy”, al fine di poter pervenire a un dialogo proficuo per entrambi gli ambiti – e propongo questa riflessione come un auspicio. Innanzitutto sul versante della teoria. Il modello dinamico della struttura psichica proposto da Freud all’inizio del secolo scorso non può forse

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essere riletto, senza irrigidimenti dogmatici, come paradigma di una soggettività plurale, che riflette, nella propria natura più profonda, la dimensione relazionale propria della struttura stessa dell’essere? La patologia non è forse una modalità distorta di comunicazione tra le componenti interiori dell’uomo, che non riescono a trovare una modalità di interazione equilibrata? Il sintomo, il disagio emotivo non possono forse essere interpretati attraverso una chiave di lettura linguistica (seguendo le indicazioni di J. Lacan7)? L’inconscio come psichismo oscuro affondato nel bìos, con il suo codice denso, polisenso, è tuttavia articolato linguisticamente, “parla”, chiede di farsi parola. I suoi messaggi, che affiorano nei sogni, nella fantasia e nell’immaginario poietico, ci invitano all’impegno ermeneutico di decifrazione del senso. Impegno che, in modo ancora più urgente, è richiesto dalla sofferenza del sintomo e dalle distorsioni comunicative che avvengono sia livello intrapsichico sia a livello interpersonale. Che cosa può pensare il pensiero se non ciò che è altro da sé e sollecita un compito di ordinamento razionale? L’esercizio di chiarificazione logica non assume il suo scopo più essenziale proprio là dove si presenta una sfida che ci chiama a pensare di più e diversamente? E tuttavia, la filosofia è tenuta legittimamente a chiedere alla psicoanalisi quale operazione interpretativa sia possibile senza un orientamento razionalmente meditato, senza che il cammino venga costantemente illuminato dal pensiero. Quale senso assume uno scavo nel profondo, alla ricerca delle proprie radici, se non è sostenuto da un télos, da un’intenzionalità cosciente, capace di prefigurare un futuro diverso? Per ricostruire in coerenza la propria storia personale, è necessario esaminare il proprio passato, rifigurarlo entro una trama narrativa dotata di senso. Ma, come insegna Paul Ricoeur, ogni “archeologia del soggetto” e ogni narrazione autobiografica hanno bisogno di una teleologia, che trova il proprio modello esemplare nelle figure della Fenomenologia dello Spirito, dove il movimento dell’autocoscienza disegna una linea di evoluzione progressiva, che porta ogni figura a completare e “inverare” se stessa nell’apertura del divenire dialettico. Proviamo ora a esaminare alcune nozioni-chiave dei due campi teorici. Partiamo da un concetto considerato fondante da entrambe le pratiche: il termine “verità”. Nel campo delle pratiche filosofiche mi sembra che sia accolta una nozione di verità che si richiama ampiamente al pensiero dialogico. Valga qui una sola citazione, l’affermazione di Karl Jaspers in 7

Si veda di Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti (1966), tr. it. Torino, Einaudi, 1974, pp. 859-882. Per un confronto tra psicoanalisi lacaniana e consulenza filosofica si veda il saggio di Giacometti nel presente volume.

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Von der Wahrheit: «La verità più profonda si manifesta come dialogo»8. Si rispecchia in questa frase la cognizione del limite della coscienza soggettiva, la temporalità di tutto ciò che è proprio dell’uomo, la limitatezza prospettica di ogni verità (che dunque è sempre parziale, rivedibile, confrontabile con altre verità). Questa concezione dialogica sostiene le pratiche di gruppo ed anche la consulenza filosofica duale, dove il confronto interpersonale nasce appunto dall’esigenza di sottoporre ad esame nel dialogo le proprie parziali visioni. I privati presupposti di ciascuno (in primis del consulente stesso) costituiscono le premesse implicite di natura cognitiva, affettiva e relazionale che strutturano i comportamenti abituali, ma di cui non possiamo essere consapevoli finché non ci vengono rivelate da un altro. Non solo non sono perspicue fino a quando non si confrontano con la differenza, ma impediscono anche la presa di coscienza del proprio modo d’essere: confrontarsi con l’altro innanzitutto è necessario per capire se stessi, ampliando l’area di consapevolezza delle proprie parti non esposte e non visibili (“inconsce”, se l’aggettivo non fa venire l’orticaria ai consulenti filosofici!; oppure, con Gregory Bateson, “deuteroapprese”9). C’è un’altra accezione del termine “verità” che si va definendo nelle pratiche filosofiche, la quale peraltro ritrova modelli di riferimento nella tradizione del pensiero occidentale, e in particolare nell’età classica e nel periodo tardo-antico, quando, come ha messo in luce Michel Foucault10, il criterio di verificazione è rappresentato dalla vita stessa del soggetto, che testimonia con il suo concreto esistere la verità di ciò che le sue parole si limitano a enunciare. La verità di ciò che dico tu la vedi in me, nel mio essere e nel mio agire, nella relazione che dimostro di saper instaurare con me stesso e con gli altri nella vita quotidiana. I parametri logici o epistemologici vengono sostituiti da parametri esistenziali, da una verità incarnata dal singolo e dalla comunità filosofica. La pratica clinica psicoanalitica sembra invece attestare (come vuole la lezione foucaultiana) una verità eteronomica depositata nel sapere dell’analista, dove il paziente, pur impegnato nell’esplorazione di una verità nascosta profondamente dentro di sé, non ne detiene tuttavia la chiave di accesso. Ma è proprio solo così? In una forma certamente ibrida e ambigua, nella 8

Karl Jaspers, Sulla verità (1947), tr. it. parziale Brescia, Ed. La Scuola, 1970, p. 104. Si veda il carattere inconsapevole delle premesse “deuteroapprese” che strutturano il carattere e la difficoltà non solo di prenderne coscienza, ma anche di modificarle in G. Bateson, Le categorie logiche dell’apprendimento e della comunicazione, in Verso un’ecologia della mente (1972), tr. it. Milano, Adelphi, 19844, pp. 303-338. 10 Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France 1981-82 (2001), tr. it. Milano, Feltrinelli, 2003. 9

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pratica psicoanalitica si fa anche strada una diversa nozione di verità, attestata dall’efficacia della relazione terapeutica, dall’attenuazione dei sintomi, da condizioni di vita più accettabili. Qui è il dolore, che abita l’anima e che la rende opaca a se stessa, a guidare il percorso della cura, e il suo contenimento diventa il parametro di una verità trovata, di un senso di vita ricostruito. Provo ora a spostare l’attenzione dai quadri teorici alla pratica, formulando quelle domande che sorgono quando esaminiamo le implicazioni e le ricadute dei rispettivi assetti teorici, osservando e confrontando sul campo, per così dire, la pratica filosofica e la pratica psicoanalitica La prima domanda potrebbe essere formulata in questo modo: «Cosa significa per la psicoterapia pensare e cosa significa per l’esercizio filosofico sentire?». Nel colloquio filosofico, l’esplorazione delle emozioni non costituisce forse un momento indispensabile per costruire il campo della relazione dialogica? Siamo certi che il transfert non abbia alcun ruolo nel colloquio filosofico? Ricordo che la traslazione affettiva è esplorata in modo esemplare, alle origini della storia della filosofia, nel Fedro platonico, dialogo incentrato sull’elevazione spirituale del discepolo nella relazione con il maestro. Molti di noi che hanno esperienza di insegnamento sanno bene interpretare (e, mi auguro, “gestire” con competenza e delicatezza) il transfert che avviene con alcuni allievi. Le dinamiche affettive sono straordinariamente importanti in ogni processo di crescita e di evoluzione personale. Ignorarne l’incidenza significa subirne gli effetti in modo inconsapevole, senza saper portare a consapevolezza, e dunque a una produttiva ricaduta, le particolari dinamiche interpersonali che vengono a costituirsi. E, d’altra parte, il colloquio clinico, proprio di ogni psicoterapia, non dovrebbe contemplare anche il processo di “mentalizzazione”, che permette di cercare vie di uscita da una condizione di chiusura, di sofferenza, di paralisi esistenziale? L’individuazione di un télos che sappia porre in coerenza l’identità pregressa con una mèta esistenziale, esaminata razionalmente e sostenuta da una prospettiva valoriale, se non aiuta a modificare i nodi profondi della personalità, senz’altro aiuta a indirizzare l’esistenza verso una realizzazione personale e verso un orizzonte futuro più libero e ricco di prospettive. Insomma, anche sul terreno della pratica, dove più forti mi sembrano le sottolineature della differenza tra approccio filosofico e clinica psicodinamica, mi sembra di poter affermare che entrambe le discipline, qualora si attengano a una presunta “purezza” metodologica e ai parametri stretti del proprio campo di azione, mostrino evidenti carenze, teoriche e operative. Credo che sia maturo il tempo di un proficuo dialogo, non viziato da veti

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pregiudiziali, attento alla specificità delle rispettive procedure, metodiche e tradizioni, ma anche consapevole della comune appartenenza a una stessa fase storica e culturale, che offre una base condivisa per il reciproco riconoscimento. Credo che in molte situazioni (come ad esempio nelle istituzioni scolastiche e nei presidi territoriali dei consultori) sia indispensabile la complementarietà di saperi, di conoscenze empiriche e di competenze che le due pratiche possono mettere a disposizione per la domanda di cura e di chiarificazione esistenziale che le donne e gli uomini del nostro tempo ci rivolgono.

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Jung precursore della consulenza filosofica? Visioni del mondo a confronto di Moreno Montanari

Confrontarsi con la visione del mondo è un compito che la psicoterapia assegna immancabilmente a se stessa, anche se non tutti i pazienti si spingono poi alle questioni fondamentali che esso comporta. […] A questo punto va ammesso che noi psicoterapeuti dovremmo essere veri filosofi o medici filosofici; anzi, che già lo siamo anche se non vogliamo ammetterlo, poiché una differenza troppo grande divide ciò che facciamo da quello che all’università viene insegnato come filosofia. C. G. Jung, Psicoterapia e concezione del mondo

Può essere sorprendente scoprire come con trent’anni d’anticipo rispetto ad Achenbach, e sulla base di considerazioni per certi aspetti identiche alle sue, Jung denunci come impropria e riduttiva l’esclusiva accezione accademica della filosofia e rivendichi per essa una potenziale funzione pratica ed esistenziale che rinnovi la sua originaria capacità di confrontarsi con le umane difficoltà, con i dubbi esistenziali, con i dilemmi etici, con lo smarrimento di fronte a fasi particolarmente critiche della vita o, più in generale, con quella spesso inevasa domanda di senso che a volte anima, ed altre fiacca, la nostra esistenza. Agli occhi di Jung, un simile modo di concepire e praticare la filosofia sarebbe non solo più coerente con la sua missione originaria ma svolgerebbe un ruolo pubblico e sociale di grande importanza che permetterebbe finalmente alle psicoterapie d’indirizzo analitico di sgravarsi dell’ingrato compito di trattare, con improprie categorie terapeutiche, situazioni di disagio esistenziale prive di un reale quadro patologico: [Esistono] non pochi cosiddetti pazienti che, pur non essendo affetti da una nevrosi clinicamente classificabile, consultano il terapeuta a causa di conflitti psichici e altre difficoltà della vita, sottoponendogli problemi la cui soluzione implica la discussione di principi ultimi. Spesso queste persone sanno benissimo, mentre il nevrotico lo sa raramente, o non sa mai, che i loro conflitti riguardano il problema fondamentale del loro atteggiamento e che questo atteggiamento dipende da determinati principi o idee generali, insomma da

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certe convinzioni religiose, etiche o filosofiche. Grazie a questi casi la psicoterapia si estende molto al di là dei limiti della medicina somatica e della psichiatria, sconfinando in ambiti un tempo riservati a sacerdoti e filosofi. Nella misura in cui questi ultimi non operano più o in cui viene negata loro dal pubblico la facoltà di operare, si vede quale lacuna lo psicoterapeuta sia talvolta chiamato a colmare e fino a che punto la cura d’anime e la filosofia si siano allontanate dalla realtà della vita. Al pastore si rinfaccia che si sa già quanto stava per dire; al filosofo che le sue parole non hanno alcuna utilità pratica. La cosa curiosa è che entrambi (a parte eccezioni rarissime) professano una decisa avversione per la psicologia1.

Com’è noto, questo è esattamente il limitato spazio d’intervento che la consulenza filosofica intende avocare a sé, non certo proponendosi come ennesima terapia alternativa ma, piuttosto, come scelta diversa rispetto al paradigma terapeutico o, meglio, all’uso improprio e debordante che se ne fa. Se andiamo a indagare i presupposti dai quali questa specifica pratica filosofica intende prendere le mosse possiamo nuovamente riscontrare alcune suggestive analogie con l’approccio junghiano. La consulenza filosofica è infatti caratterizzata dalla consapevolezza “fenomenologica” che ogni esperienza di comprensione e di significato sperimentata e promossa dall’uomo debba essere considerata come una comprensione in contesto, ossia, come un punto di vista che ci appare naturale e oggettivo ma che è invece influenzato da una serie di condizionamenti storici, sociali e personali che intervengono significativamente su di esso. Tale condizionamento si pone, per così dire, come un orizzonte di senso che struttura e orienta quella che Heidegger chiama la “precomprensione” della realtà. L’insieme di questi presupposti, per lo più inconsapevoli, esprime secondo la consulenza filosofica una personale “visione del mondo”, o Weltanschauung, ossia un inconsapevole ma abituale sistema integrato di funzioni significanti all’interno del quale le cose acquistano senso. Si tratta per lo più di schemi interpretativi, pregiudizi, chiavi di lettura, modi di ragionare e sistemi di valore più o meno consapevolmente radicati nel nostro abituale modo di 1

Carl Gustav Jung, Questioni fondamentali di psicoterapia (1951), in Opere, vol. 16, p. 133. Corsivo mio. La citazione è tratta da Romano Màdera, C. G. Jung come precursore di una filosofia per l’anima, in «Il senso di psiche», Rivista di Psicologia analitica, nuova serie, 76/2007, 2. 24, pp. 56-57. Si tratta di un articolo davvero esaustivo sul tema della comparazione tra l’approccio junghiano e alcune prospettive filosofiche, nel quale si delinea la possibilità di una loro feconda contaminazione, considerata del tutto coerente con lo spirito junghiano, che trasforma entrambe per dare vita a una pratica terza che va sotto il nome di “analisi biografica a orientamento filosofico” (cfr. www.scuolaphilo.it/abof.html). In questo articolo si è invece scelto di evidenziare le specificità di due prospettive – la consulenza filosofica e la psicoterapia junghiana – che nonostante le molte affinità restano chiaramente distinte.

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aprici al mondo che possono anche essersi rigidamente cristallizzati ma che, non di meno, possono sempre essere indagati, messi criticamente in discussione, espandersi, aprirsi a nuovi possibili punti di vista e divenire consapevoli. Secondo Husserl, infatti, ogni esperienza di comprensione di ciò che egli chiama “il mondo della vita”2, può comportare una piccola modificazione della nostra visione del mondo originaria ed avere come potenziale conseguenza la realizzazione di un nuovo orizzonte di senso – o, come direbbe Gadamer, di una “fusione di orizzonti di senso” – capace di interpretare le cose in maniera più chiara, problematica o acuta di prima, non certo eliminando l’elemento soggettivo ma riconsiderandolo, appunto, fenomenologicamente. Compito della consulenza filosofica è innanzitutto quello di permettere al consultante di comprendere la sua visione del mondo; di vagliarne criticamente la fondatezza logica ed etica; di verificarne la corrispondenza al proprio specifico modo di essere; di prenderne coscienza, riconoscerne l’inevitabile parzialità e di considerare l’influenza che essa può esercitare, spesso in maniera inversamente proporzionale al grado di consapevolezza che se ne ha, sul proprio modo di essere al mondo. Ebbene Jung fu senz’altro il primo, in ambito psicoterapeutico, a sostenere la necessità di aprirsi a un simile metodo capace di sostituire, o quanto meno integrare3, il vecchio paradigma biologico-naturalistico di stampo positivistico ed oggettivistico. A suo dire, infatti: La visione del mondo, in quanto formazione tra le più complesse, costituisce il polo opposto della psiche fisiologicamente condizionata, e, come dominante psichica superiore, decide in ultima analisi del destino di questa4.

L’abilità di comprendere e, se necessario, rivedere la visione del mondo del paziente, che in casi particolarmente gravi può concorrere a provocare una delirante distorsione nell’esperienza della realtà o una dissociazione 2

Husserl chiama “mondo della vita” la dimensione condivisa del mondo come dimensione che «attinge il suo senso d’essere esclusivamente alla nostra vita intenzionale, attraverso un complesso di operazioni tipiche che possono essere rilevate a priori». Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1959), Milano, Il Saggiatore, 1961, p. 207. 3 Resta infatti ancora problematica e discussa la questione dell’effettiva capacità di Jung di aprirsi fino in fondo a questa proposta fenomenologico-ermeneutica, capacità negata, o considerata insufficientemente sviluppata, da alcuni dei suoi principali studiosi – si veda, ad esempio, Umberto Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Milano, Feltrinelli, 1987 e Mario Trevi, L’altra lettura di Jung, Milano, Cortina Raffaello Editore, 1988, p. 36 – e disattesa da buona parte dei successivi psicoterapeuti junghiani; cfr. Massimo Recalcati (a cura di), Introduzione alla psicoanalisi contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 1996, pp. 269-272. 4 Carl Gustav Jung, Psicoterapia e concezione del mondo, cit., p. 89, cit. in Romano Màdera, Op. cit., p. 55.

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della propria personalità, è da Jung affidata alla capacità del paziente di aprirsi a nuovi possibili scenari di senso che, essendo ogni psicopatologia nient’altro che «una sofferenza della psiche che non ha trovato significato»5, possono avere un effetto terapeutico. Gran parte della terapia improntata alla psicologia del profondo, esattamente come dell’azione pratica della consulenza filosofica, consisterà pertanto nello sforzo di promuovere nel paziente la capacità di elaborare «lo sblocco di una determinata visione del mondo»6, evidentemente troppo conflittuale e problematica, in favore di un’altra prospettiva di senso che si riveli non esatta o corretta, ma maggiormente capace di farci «vivere in armonia con noi stessi» 7. Infatti non si tratta, sia in consulenza filosofica che in psicoterapia, di sostituire una visione del mondo “scorretta” o “insana” con una “corretta” o “sana” – il che, anzi, rispetto ad alcune psicopatologie, potrebbe talora rivelarsi persino dannoso8; entrambe le pratiche si sono chiaramente emancipate dalla superstizione dell’esistenza di una visione del mondo universalmente giusta, sana o esatta e valida in sé, a prescindere dalle singole peculiarità degli individui, e si caratterizzano piuttosto come attività che facilitano negli individui la personale capacità di elaborare sostenibili scenari di senso avvertiti e vissuti come particolarmente corrispondenti al proprio modo di essere9. 5

Carl Gustav Jung, Psicoanalisi e direzione spirituale (1928), in Opere, vol. 11, Torino, Bollati Boringhieri, 1961, p. 314. 6 Carl Gustav Jung, Tipi psicologici (1921), Milano, Mondadori, p. 507. 7 Carl Gustav Jung, Struttura dell’inconscio, cit. da Paolo Aite nella sua Introduzione a Carl Gustav Jung, L’inconscio, Milano, Bruno Mondadori, 1992, p. XXXIII. 8 Eugenio Borgna, Malinconia, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 31. 9 Il tema heideggeriano della ricerca di una maggiore autenticità (eigentlichkeit) nel nostro modo di essere al mondo, di un suo tratto meno impersonale, più proprio (eigen) e consapevole, può per certi versi essere avvicinato al concetto junghiano di “individuazione” con il quale si indica il processo formativo attraverso il quale il soggetto cerca di guadagnare la sua «più intima, incomparabile e singolare peculiarità, diventare se stessi, realizzare il proprio Selbst (Sé)» (Carl Gustav Jung, L’io e l’inconscio (1928), in Opere, vol. 7, Torino, Boringhieri, 1973, p. 75). Come l’autenticità heideggeriana prende le mosse dal distanziamento dalle tendenze anonime dello stile di vita del das Man, ossia del modo in cui generalmente si pensa, si vive, agisce, ecc ecc. (cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo (1927), Napoli, Longanesi, 1976, p. 55), il processo d’individuazione di Jung «è in generale il processo di formazione e di caratterizzazione dei singoli individui, e in particolare dello sviluppo psicologico dell’individuo, come essere distinto dalla generalità, dalla psicologia collettiva. L’individuazione è quindi un processo di differenziazione che ha come meta lo sviluppo della personalità individuale» (Jung, Tipi psicologici, Op. cit., p. 484). Va tuttavia sottolineato che né per Jung né per Heidegger simili processi possono condurre a una condizione del tutto indipendente dal contesto e soprattutto che, se quello di Jung è un processo che ricerca l’autenticità del soggetto, quello di Heidegger ricerca piuttosto una vita autentica, ossia un modo di aprirsi al mondo, di interagire con esso. Per un approfondimento di questa tematica mi permetto di rimandare al mio La filosofia come cura. Percorsi di autenticità, Milano, Unicopli, 2007.

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Una tale operazione, osservò Jung, richiede «la consapevolezza del carattere soggettivo di ogni psicologia, che è il prodotto di un singolo individuo»10 e pertanto il riconoscimento della possibilità di differenti interpretazioni del medesimo fenomeno, che reclamano una “psicologia critica”11 e una prassi ermeneutica incentrate più sulla comprensione dei percorsi di elaborazione di senso del paziente che sull’interpretazione che ne dà l’analista. D’altronde, osserva Jung, «un modello non dice che le cose stanno così, ma illustra un determinato modo di considerare le cose»12 ed ogni psicoterapia esprime una «visione del mondo» che «guida la vita del terapeuta e informa lo spirito della sua terapia»13. Ma Jung non si limita a riconoscere l’esistenza di presupposti valoriali e ideologici impliciti in ciascun punto di vista, compreso quello medicoscientifico. Egli ne sottolinea l’importanza ai fini terapeutici ed esistenziali (“guida la vita del terapeuta”): In altri termini, l’arte della psicoterapia richiede che il terapeuta abbia convinzioni ultime degne di essere affermate, credute e difese, che si siano dimostrate valide o per aver risolto in lui le dissociazioni nevrotiche o per non aver permesso che si producessero14.

In questo è certamente erede di Nietzsche, di cui era profondo conoscitore, che per primo affermò che non esiste, giudicando rigorosamente, alcuna scienza «priva di presupposti», il pensiero di una scienza siffatta è impensabile, paralogico: una filosofia, una 10

Carl Gustav Jung, Il contrasto tra Jung e Freud (1929), in Opere, vol. 4, Torino, Boringhieri, 1973, p. 360. 11 L’espressione, per la prima volta presente in Carl Gustav Jung, Tipi psicologici, cit., p. 544, deve probabilmente qualcosa al fatto che Jung non avesse «mai rifiutato di bere il calice dolceamaro della filosofia critica» (Carl Gustav Jung, Il contrasto tra Jung e Freud, cit., p. 359). 12 Carl Gustav Jung, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, 1946-1954, in Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1973, p. 20. 13 Carl Gustav Jung, Psicoterapia e concezione del mondo, cit., p. 90, cit. in Romano Màdera, cit., p. 55. Il passo è sorprendentemente simile a uno analogo nel quale Husserl afferma che la scienza si basa su di un pregiudizio oggettivistico «che fa sì che prendiamo per il vero essere quello che invece è soltanto un metodo» (Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 80). Si tratta per la verità di una condizione della quale, come dimostra l’interessante Dialettica di redazione (ancora in tema di analisi biografica a orientamento filosofico), in Il senso di psiche, cit., pp. 179-197, diversi psicoterapeuti faticano ancora a capacitarsi, non meno, tuttavia, di alcuni consulenti filosofici che ritengono il loro approccio neutrale; cfr. Peter Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, Miliano, Apogeo, 2006. 14 Carl Gustav Jung, Psicoterapia e concezione del mondo, cit., pp. 89-90, cit. in Romano Màdera, Op. cit., p. 55.

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«fede», deve sempre preesistere affinché la scienza derivi da essa una direzione, un senso, un limite, un metodo, un diritto all’esistenza15.

Per entrambi, dunque, la giustificazione dei presupposti “filosofici” del proprio approccio deve essere desunta dall’esistenza, suo vero e proprio banco di prova e di validazione, in un’ottica condivisa anche dalla psicologia analitica e dalla consulenza filosofica. Ma se si vuole restare all’interno di un approccio fenomenologico, prima ancora di testare la fondatezza e la veridicità di tali presupposti, occorre sospendere il giudizio su di essi per provare a comprenderli. Si tratta dell’atteggiamento fenomenologico per eccellenza, che Jung riconosce proprio anche del suo approccio psicoterapeutico16, che Heidegger descrive come un metodo che anziché cercare di spiegare i fenomeni lascia che essi si svelino e si chiarifichino da soli in una visione perspicua e coerente che si paleserà quando sospenderemo il giudizio su di essi (epoché) e ci concentreremo esclusivamente sul loro modo di apparire. Detto con le parole di Heidegger, sospendere il giudizio su un determinato fenomeno permette di «lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da se stesso»17. Ne deriva l’esigenza di una nuova ermeneutica che non sia più incentrata sulle categorie interpretative del soggetto ma sulla capacità di aprirsi alla verità compiendo quello che Heidegger chiama «un passo indietro da un pensiero puramente rappresentativo, cioè spiegante, fondante» per «prendere stanza in una corrispondenza che, interpellata dall’essere del mondo entro di esso, all’interno di esso gli risponde»18. Approfondiremo più avanti la centralità di questa prospettiva che considera il soggetto non più come posto di fronte al mondo che si rappresenta ma come parte attiva di esso19; per il momento poniamo l’accento sul fatto che, così ripensata, la verità cessa di essere un oggetto del giudizio del soggetto, un’impresa autoreferenziale e solipsistica, e diviene esperienza relazionale, 15

Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale (1887), Torino, Adelphi, 1984, p. 146, corsivo

mio. 16

Jung definisce infatti «esclusivamente fenomenologico il mio punto di vista, vale a dire si interessa solo di casi […], si occupa soltanto del fatto che tale idea esiste ma non si domanda se tale idea sia vera o falsa». Id., Psicologia e Religione (1939/40), in Opere, vol. 11, Torino, Boringhieri, 1979, p. 16. 17 Martin Heidegger, Essere e tempo (1927), Napoli, Longanesi, 1976, p. 55. 18 Martin Heidegger, La cosa, in Saggi e discorsi (1954), Milano, Mursia, 1991, p. 121. 19 Secondo Heidegger, infatti, «non è dato innanzitutto, e non è mai dato un soggetto senza mondo. Allo stesso modo non è mai dato, innanzitutto, un io isolato senza gli Altri», al punto che l’essere al mondo si rivela come un con-essere. Martin Heidegger, Essere e Tempo (1927), cit., p. 151.

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incontro con un’alterità sperimentata nel “mondo della vita”, capacità di aprirsi alla trascendenza di ciò che si riconosce eccedente rispetto a ogni soggettività. È precisamente su questo punto, ritengo, che si possono registrare le maggiori differenze tra una consulenza filosofica e una psicoterapia d’indirizzo analitico che condividessero la medesima impostazione fenomenologica: l’approccio psicoanalitico tende infatti a incentrare la propria interpretazione sul punto di vista del soggetto – come se questi fosse una monade psichica astratta dal mondo che abita e che lo abita – e a sottostimare la natura sociale della sua umanità20, che non può essere ridotta alle sole relazioni genitoriali vissute in età infantile e poi proiettate su ogni altra relazione significativa, quella con l’analista in primis. Su questo punto la distanza appare considerevole anche rispetto alla psicologia analitica di Jung che, per sua stessa ammissione, s’interessa più al “mondo interno” dell’individuo che al suo intreccio con il “mondo esterno”21. La consulenza filosofica, al contrario, parte dal presupposto che dal momento dunque, che siamo relazione, è impossibile comprendere se stessi, senza comprendere il mondo e anzi diverremmo equivoci se appiattissimo le dimensione del mondo alla modestia dell’io, se, in breve, riducessimo le questioni di verità a problemi della soggettività22.

Ma la consulenza filosofica non si limita a considerare l’individuo come un centro vitale di relazioni con ciò che lo trascende: essa s’impegna a fargli sperimentare e comprendere la capacità-necessità di realizzare una simile connessione per poter comprendere il proprio modo di essere al mondo. Pur partendo dalla particolarità delle proprie questioni esistenziali, il con20 Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 2004, in particolare pp. 103-120. 21 Carl Gustav Jung, Aion. Ricerche sul simbolismo del Sé, (19398/40), in Opere, vol. 9/2, Torino, Boringhieri, 1982, p. 3. Seppure questo mondo interno è “l’inconscio”, che in Jung assume una dimensione sovrapersonale e collettiva, l’attenzione si sofferma sul soggetto trascurando la sua interazione con il mondo. 22 Salvatore Natoli, Prefazione, in Carlo Brentari, Romano Màdera, Salvatore Natoli e Lucio Vero Tarca (a cura di), Pratiche filosofiche e cura di sé, Milano, Bruno Mondadori, 2006, p. 2. Pertanto, osserva Achenbach, «mi accorgo che non posso assolutamente raccontare la mia storia razionalmente, senza raccontare allo stesso tempo anche la storia della mia epoca. Qui entra in gioco un interesse che supera la ristrettezza del Sé […] e diviene chiaro che i problemi individuali sono generali e i generali sono individuali»; inutile, anzi dannosa, dunque, un’analisi caratterizzata dal «giungere a una conciliazione solo con me stesso, sia essa solipsistica o psicologica». Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica, Milano, Apogeo, 2004, p. 25.

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sultante, ponendosi la domanda sul loro possibile significato, si apre infatti dialetticamente all’altro da sé, alla dimensione del non sapere, che lo costringe ad alienarsi dalle proprie certezze – che evidentemente non sono più sufficienti a conferire senso a quanto gli accade. In questo processo, pur cercando una risposta esaustiva che risolva la domanda, egli finisce per sperimentare la feconda problematicità del pensare filosofico che non solo lo rende consapevole della trascendenza della verità rispetto ai suoi punti di vista, della realtà rispetto ai suoi vissuti personali e del mondo rispetto alla sua soggettività, ma lo invita ad abitarla23. La prima trascendenza che si sperimenta e che occorre imparare ad abitare è quella tra i dialoganti – in questo caso consulente e consultante – una “trascendenza”, scrive Irigaray, «feconda di grazia e di parole che necessita di un intervallo, lo genera anche», nel senso che ciascuno dei dialoganti, pur sforzandosi di mettersi al posto dell’altro, deve capacitarsi che «l’intervallo tra i due non può mai abolirsi: deve sgombrarsi di a priori, liberarsi di certezze imposte o solipsistiche, farsi riserva di silenzio appropriato né semplicemente a me, né semplicemente all’altro, esteso fra noi, dove c’incamminiamo l’uno verso l’altro attraverso il gesto (della) parola»24. La fecondità di questo silenzio, inaugurato dalla consapevolezza del non sapere e dalla rinuncia a ergersi a misura di tutte le cose, non sancisce l’incomunicabilità né chiude i giochi della comprensione ma crea piuttosto le condizioni per una loro più compiuta realizzazione che, anziché leggere le esperienze degli altri alla luce dei propri parametri interpretativi, insegna a decentrarsi dal proprio sistema di valori – dalla propria visione del mondo – scongiura il rischio di una reciproca oggettivazione e crea le condizioni per la salvaguardia e l’effettivo riconoscimento dell’irriducibile specificità dell’esperienza di ciascuno, in una dimensione nella quale, scrive Galimberti, «non l’uno interpreta l’altro, ma i due sono interpretati dalla parola che li trascende e al tempo stesso li convoca, nel rapporto (Beziehung), nel frammezzo (Zwischen)»25. Il rapporto con la trascendenza – sperimentabile

23

Tema heideggeriano per eccellenza: oltre ad Essere e tempo si veda il tema dell’“aperto” in Martin Heidegger, Perché i poeti, in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1991, pp. 247-297 e il tema dell’“ascolto del linguaggio” in Id., Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 1979, pp. 83-125. 24 Luce Irigaray, La via dell’amore, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 49. Si precisa, a scanso di equivoci, che Irigaray non sta parlando di consulenza filosofica ma, più in generale, di dialogo-incontro filosofico. 25 Umberto Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 260. I termini in tedesco sono dovuti al fatto che Galimberti sta qui seguendo alcune sollecitazioni heideggeriane.

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già con un’attenta analisi del linguaggio che è sempre un linguaggio che ci parla, che ha una sua storicità, una sua visione del mondo, un suo sistema di valori, tutte dimensioni che ci trascendono e che ci chiamano a sondare la relazione che abbiamo con esse – non mortifica dunque la finitezza dei due dialoganti ma li chiama ad aprirsi alla trascendenza per riconoscere «la realtà come un nucleo di relazioni e l’esistenza come un modo di partecipare ad esse»26. Questo richiamo alla relazione partecipata, all’intimità, all’apertura all’ignoto e altro da sé, vero e proprio centro gravitazionale di questo rapporto (Bezug)27 – ci sembra particolarmente interessante e attuale in quest’epoca di individualismo e narcisismo favorita dall’inconsapevole affermazione di quel reale pensiero unico della tecnica28 che Heidegger considera come una vera e propria «organizzazione della separazione» che «distrugge recisamente e integralmente ogni via verso il Bezug»29 e promuove una visione del mondo autoreferenziale facilitata da un clima culturale e politico che, solleticando le illusorie pretese di autonomia del soggetto, «da una parte afferma il diritto a essere diversi e sottolinea tutto ciò che rende gli individui veramente individuali. Dall’altra […] isola l’individuo, rompe i suoi legami con gli altri, spezza la vita comunitaria, rinchiude l’individuo in se stesso e lo vincola alla propria identità in modo forzato […] gli impone una legge di verità che egli deve riconoscere e che gli altri devono riconoscere in lui»30. Tornando allo specifico della consulenza filosofica: per impedire la realizzazione di tale schiacciamento del soggetto su un’identità impostagli dall’esterno non basta promuovere la relazione in luogo dell’isolamento, ma occorre realizzare un modello di relazione realmente paritaria nella quale si riconosca l’unicità e la specificità di ciascuno, si rinunci a far valere qualsiasi principio di autorità (l’autorità del sapere) e si renda possibile attuare, con pari attendibilità, critiche al punto di vista dell’altro, senza rubricarle 26 Roberto Mancini, Esistere nascendo, Troina (EN), Città Aperta, 2007, p. 241. Con questa citazione intendiamo rendere omaggio a un filosofo i cui lavori riteniamo assolutamente preziosi per quanti intendano la filosofia come stile di vita eticamente aperto alla responsabilità verso la verità, la vita, se stessi, gli altri e il mondo. 27 Sono tutti termini che secondo Heidegger sono racchiusi nel concetto di Bezug, assunto nell’accezione poetica nella quale lo intende Rilke nelle sue Elegie Duinesi, cioè come l’autentica modalità dell’umano essere al mondo. Martin Heidegger, Sentieri interrotti, cit., pp. 260-271. 28 Ma ancor prima, come ho spiegato altrove, dalla reificazione operata dalla visione del mondo dell’economica capitalistica. Cfr. Moreno Montanari, Aspetti politici della consulenza filosofica, in “Phronesis”, n. 11, pp. 9-21 (cfr. http://www.phronesis.info). 29 Martin Heidegger, Sentieri interrotti, cit., p. 271. 30 Michel Foucualt, Poteri e strategie, Milano, Mimesis, 1994, p. 108.

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automaticamente alla voce “resistenze”31. Si tratta di un esigenza che, per la verità, avvertiva lo stesso che Jung, il quale – del tutto inascoltato, allora come oggi – fece presente la necessità di superare la teoria e la pratica della translazione per consentire l’instaurazione di una “relazione individuale” nella quale il paziente, «deve sentirsi umanamente uguale a chi lo cura, deve avere realmente gli stessi diritti»32. Il sistematico ricorso ai meccanismi psicodinamici sottesi nell’argomentazione del paziente mina infatti sul nascere non solo la possibilità dell’analista di aprirsi fenomenologicamente alla comprensione del punto di vista del paziente, ma anche la possibilità di questi di aprirsi alla realtà rischiando di restare, per così dire, esclusivamente concentrato sui propri vissuti, sulle proprie proiezioni, sui propri schemi mentali. Questi, tuttavia, vanno superati ma non saltati. Può anzi essere molto utile che la consulenza vi presti ascolto e impari, dalla psicoanalisi, a comprenderli, seppure con il senso critico e l’antidogmaticità che la caratterizza. L’inconscio costituisce infatti un’altra dimensione di trascendenza che, a parer mio, non avrebbe senso misconoscere se non al costo di depauperare l’esistenza e la comprensione di essa che cerchiamo di conseguire. In particolare i concetti junghiani di archetipo, Sé, ombra e mito personale mi paiono poter concorrere efficacemente alla consapevolezzza delle precompensioni, delle visioni del mondo e delle elaborazioni di senso delle persone. Più in generale, mi pare che la dialettica intrasoggettiva possa venire fecondamente integrata con quella intersoggettiva. L’importante è che le modalità operative restino filosofiche, nel significato che speriamo di aver contribuito a chiarire. Una consulenza filosofica che tenesse fermo lo schema procedurale della psicoanalisi, limitandosi a sostituire chiavi di lettura filosofiche a interpretazioni psicoanalitiche, man31 Come ha notato con ironia Ferraris, in virtù della categoria psiconalitica delle resistenze l’analista ha sempre ragione: se il paziente non condivide l’interpretazione dell’analista la sua obiezione viene infatti immediatamente rubricata alla voce “resistenze” e diventa così una prova della sua fondatezza – dunque l’analista ha ragione; d’altra parte anche se il paziente condivide la chiave di lettura offertagli dall’analista questi ha ragione; dunque l’interpretazione dell’analista non è mai falsificabile e trova sempre, per statuto, conferma nelle osservazioni del paziente. Ciò, per quanto efficace possa essere, impedisce lo svolgimento di un confronto dialogico realmente paritario, caratterizzato dalla possibilità, per entrambi i dialoganti, di criticare liberamente le posizioni del proprio interlocutore. Cfr. Maurizio Ferraris, Caro paziente si senta in colpa, recensione a Moreno Montanari (a cura di), Consulenza filosofica: terapia o formazione?, Falconara, Orecchio di Van Gogh, 2006, in “Il sole 24 ore”, domenica, 26 luglio 2006, p 33. 32 Carl Gustav Jung, Scopi della psicoterapia (1929), in Opere, vol. 16, cit., pp. 50-56, cit. in Romano Màdera, C. G. Jung come precursore di una filosofia per l’anima, cit., p. 62.

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cherebbe il bersaglio33. Ma questo lo devono comprendere innanzitutto gli psicoterapeuti che continuano a considerare l’approccio consulenzial-filosofico come una semplice variante del loro modello mentre si tratta, a tutti gli effetti, di tutt’altra cosa.

Riferimenti bibliografici Achenbach Gerd B., La consulenza filosofica, Milano, Apogeo, 2004. Borgna Eugenio, Malinconia, Milano, Feltrinelli, 2005. Brentari Carlo, Màdera Romano, Natoli Salvatore e Tarca Lucio Vero (a cura di), Pratiche filosofiche e cura di sé, Milano, Bruno Mondadori, 2006. Foucault Michel, Poteri e strategie, Milano, Mimesis, 1994. Galimberti Umberto, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Milano, Feltrinelli, 2005. Galimberti Umberto, Psichiatria e fenomenologia, Milano, Feltrinelli, 1987. Heidegger Martin, Essere e tempo (1927), Napoli, Longanesi, 1976. Heidegger Martin, In cammino verso il linguaggio (1959), Milano, Mursia, 1979. Heidegger Martin, La cosa, in Saggi e discorsi (1954), Milano, Mursia, 1991. Heidegger Martin, Sentieri interrotti (1959), Firenze, La Nuova Italia, 1991. Husserl Edmund, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1959), Milano, Il saggiatore, 1961. Irigaray Luce, La via dell’amore (2002), Torino, Bollati Boringhieri, 2008. Jung Carl Gustav, Aion. Ricerche sul simbolismo del Sé (1939/40), in Opere, vol. 9/2, Torino, Boringhieri, 1982. Jung Carl Gustav, Il contrasto tra Jung e Freud (1929), in Opere, vol. 4, Torino, Boringhieri, 1973. Jung Carl Gustav, L’io e l’inconscio (1928), in Opere, vol. 7, Torino, Boringhieri, 1973. Jung Carl Gustav, Psicoanalisi e direzione spirituale (1928), in Opere, vol. 11, Torino, Bollati Boringhieri, 1961. Jung Carl Gustav, Psicologia e Religione (1939/40), in Opere, vol. 11, Torino, Boringhieri, 1979.

33 «Se ora il filosofo dovesse essere dell’idea che ciò che il dottore [il riferimento è qui allo psicoterapeuta] non può fare – anche perché in queste questioni non è affatto “competente” – è presumibile che possa farlo lui, in quanto “filosofo”, se dovesse cioè soccombere all’illusione che sotto la sua sorveglianza e il suo controllo, “la forza migliore dell’argomento”, facesse già effetto, così preparerebbe, senza saperlo, la sua caduta nel fosso» (Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 51. Cfr. anche, ivi, pp. 84-85).

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Jung Carl Gustav, Psicoterapia e concezione del mondo (1942), in Opere, vol. 16, Torino, Boringhieri, 1961. Jung Carl Gustav, Questioni fondamentali di psicoterapia (1951), in Opere, vol. 16, Torino, Boringhieri, 1961. Jung Carl Gustav, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche (1946-1954), in Opere, vol. 8, Torino, Boringhieri, 1973. Jung Carl Gustav, Scopi della psicoterapia (1929), in Opere, vol. 16, Torino, Boringhieri, 1973. Jung Carl Gustav, Tipi psicologici (1921), Milano, Mondadori, 1989. Màdera Romano, C. G. Jung come precursore di una filosofia per l’anima, in “Il senso di psiche”, Rivista di Psicologia analitica, nuova serie, 76/2007, 2.24, pp. 47-74. Màdera Romano, Tarca Lucio Vero, La filosofia come stile di vita, Milano, Bruno Mondadori, 2003. Mancini Roberto, Esistere nascendo, Troina (EN), Città Aperta, 2007. Marx Karl, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 2004. Montanari Moreno, Aspetti politici della consulenza filosofica, in “Phronesis” n. 11, pp. 9-21. Montanari Moreno, La filosofia come cura. Percorsi di autenticità, Milano, Unicopli, 2007. Nietzsche Friedrich, Geneaologia della morale (1887), Torino, Adelphi, 1984. Raabe Peter B., Teoria e pratica della consulenza filosofica, Miliano, Apogeo, 2006. Recalcati Massimo (a cura di), Introduzione alla psicoanalisi contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 1996. Trevi Mario, L’altra lettura di Jung, Milano, Cortina Raffaello Editore, 1988.

Un’ermeneutica per la pratica filosofica? Un confronto con Ludwig Binswanger* di Giorgio Giacometti

Redimere nella propria quella pura lingua che è racchiusa in un’altra; o, prigioniera nell’opera, liberarla nella traduzione – è questo il compito del traduttore (Walter Benjamin, Il compito del traduttore).

In tempi non sospetti, quando, cioè, in Italia di pratiche filosofiche ancora poco si parlava, mi sono cimentato nella traduzione di due scritti dello psichiatra fenomenologico Ludwig Binswanger: Delirio1 e Il caso Suzanne Urban2. E proprio a questioni di traducibilità vorrei dedicare questo mio contributo: in particolare alla questione della traducibilità del discorso dell’altro in contesti di pratica filosofica. La difficoltà maggiore che avevo incontrato nel mio lavoro di traduzione riguardava, non a caso, la ricostruzione interpretativa, offerta da Binswanger, del discorso delirante dei suoi pazienti. Come si sa, autori del calibro di un Karl Jaspers hanno sempre negato la traducibilità del discorso delirante, in qualche modo “sacro”, in un discorso “profano”; come se, per riprendere la citazione di Walter Benjamin posta in epigrafe, non fosse in alcun modo possibile rendere intelligibile la “pura lingua” del delirio, “prigioniera”, come sarebbe, di una soggettività condannata a un’irredimibile opacità. La sfida di Binswanger è consistita proprio nel tentare questa traduzione apparentemente impossibile. L’interesse che tale tentativo riveste per chi si occupa di pratiche filosofiche non è minore per il fatto che il filosofo consulente o counselor che *

Il presente contributo (di prossima pubblicazione, con pochissime variazioni, nel volume collettaneo Filosofia ed esistenza. Counseling filosofico, logoterapia ed analisi esistenziale, a cura di L. Berra e M. D’Angelo, ISFiPP edizioni, Torino) riprende e approfondisce il testo di un mio intervento al Seminario breve su Ludwig Binswanger, svoltosi a Torino, il 22 febbraio 2009, a cura dell’Istituto Superiore di Ricerca e Formazione in Filosofia, Psicologia, Psichiatria. 1 Ludwig Binswanger, Delirio. Antropoanalisi e fenomenologia (1960), tr. it. Venezia, Marsilio, 1990. 2 Ludwig Binswanger, Il caso Suzanne Urban. Storia di una schizofrenia (1953), tr. it. Venezia, Marsilio, 1994.

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le esercita, a differenza dello psichiatra, non ha, generalmente, a che fare con soggetti deliranti. Proprio per la sua paradossalità, infatti, il caso limite di un’ermeneutica del delirio, su cui tanto si è affaticato Binswanger, può gettare tanta più luce sui lati problematici, spesso inappariscenti, che ogni ermeneutica dell’altro, in generale, propone.

Una cornice fenomenologica per le pratiche filosofiche? Ma che bisogno c’è, ci si potrebbe chiedere, di gettare luce sulla pratica filosofica contemporanea, per di più mediante “illuminazioni” tratte da un ambito che appare ad essa estraneo, ossia quello della psichiatria? Non può la pratica filosofica camminare, per così dire, con le proprie gambe, forte di quella legittimazione che le proviene dal proprio stesso esercizio? Non dovrebbe la pratica, proprio in quanto filosofica, accanto alla riflessione sul tema che, di volta in volta, le tocca, generare sempre anche una metariflessione sulla propria cornice epistemologica? Si tratta della tesi di fondo di Gerd Achenbach3, ripresa anche da Stefania Contesini4. Eppure, quanto più si fa esperienza del concreto esercizio filosofico, tanto più si deve riconoscere (e lo deve fare anche chi più di altri si ispira all’achenbachiana philosophische Praxis) la sussistenza di alcune condizioni al contorno, che, anche senza volerle assolutizzare, tendono, tuttavia, a riproporsi come costanti. Una di queste condizioni, certamente, è quella che fa di un dialogo filosofico qualcosa che vede protagonisti due (o più) soggetti umani, due (o più) “esserci” che abitano un determinato “mondo”. Di qui l’interesse delle pratiche filosofiche tout court, se non fondazionale, almeno comparativo, per esperienze sotto molti aspetti precorritrici come quella di un Ludwig Binswanger. Queste, infatti, appaiono capaci, appunto, di illuminare le condizioni alle quali soltanto, forse, è possibile porsi la questione di un’ermeneutica dell’altro (in quanto “esserci” umano) e, in seconda istanza, delinearne i modi possibili. La principale analogia tra l’“antropoanalisi”5 di Binswanger e le pratiche filosofiche contemporanee, comunque queste si denominino e si decli3

Cfr. Gerd B.Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, tr. it. Milano, Apogeo, 2004, p. 83. 4 Stefania Contesini, Roberto Frega, Carla Ruffini, Stefano Tomelleri, Fare le cose con la filosofia. Pratiche filosofiche nella consulenza individuale e nella formazione, Milano, Apogeo, 2005, p. 114. 5 Ancora una questione di traduzione. Con buoni argomenti Danilo Cargnello e Ferruccio Giacanelli hanno suggerito questo termine per tradurre la binswangeriana Daseinsanalyse, letteralmente “analisi dell’esserci”, in senso heideggeriano. Cfr. Prefazione a Il caso Ellen West e altri saggi, Milano, Bompiani, 1973.

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nino, è data da una doppia circostanza: da un lato Binswanger, lungi dal guardare alla propria prassi soltanto attraverso “occhiali” fenomenologici ed heideggeriani, nutre il suo pensiero di una quantità sterminata di riferimenti filosofici che spaziano da Eraclito a Schelling; dall’altro lato, egli non si limita a considerazioni puramente teoriche, ma, per così dire, le applica e le verifica di continuo nella sua quotidianità “clinica”. Ma quali considerazioni binswangeriane, in particolare, possono aiutare a delineare le condizioni alle quali, soltanto o, almeno, preferibilmente, si può esercitare una comprensione, filosoficamente orientata, del discorso dell’altro? In primo luogo, senza dubbio, la sottolineatura, in Binswanger, dell’attenzione al senso di ogni esperienza umana, senso quale promana soprattutto dalla storia della vita di ciascuno (altri direbbe dalla sua autobiografia6): La considerazione della storia della vita mostra che si può parlare di connessioni di senso, di una continuità di senso, di un ordinamento strutturale significativo anche là dove lo psichiatra vede solo frammenti di senso o addirittura il caso del senso7.

Proprio tale trama di senso, per Binswanger, come sappiamo, non si spezza neppure quando sembrebbe viceversa frammentarsi, come nell’esperienza della persona delirante8. Non stupisce, quindi, di sentire risuonare, nel discorso dello psichiatra svizzero, fin dai primi scritti (ma il ritornello sarebbe stato ripetuto spesso), quella distinzione tra il comprendere e lo spiegare (il primo atteggiamento essendo proprio delle scienze dello spirito, il secondo delle scienze della natura), che, risalendo a Dilthey, attraverso Husserl, finisce per innervare la comprensione che hanno di se stesse le contemporanee pratiche filosofiche9: Alla classificazione generalizzante di tipo naturalistico e alla spiegazione causale secondo leggi si contrappone [...] il comprendere inidividualizzante assolutamente teleologico, della persona [...]. Fin dai tempi di von Humboldt e di Dilthey sono stati dedicati i massimi sforzi a descrivere, a illuminare a pieno e a valu-

6

Per l’importanza del momento autobiografico nelle pratiche filosofiche cfr. Romano Madera, Luigi Vero Tarca, La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche, Milano, Bruno Mondadori, 2003, spec. pp. 6-12. Cfr. anche Duccio Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Milano, Raffaello Cortina, 1996. 7 Ludwig Binswanger, Il caso Ilse (1945), tr. it. in Il caso Ellen West, cit., p. 257. 8 Cfr. p.e. Ludwig Binswanger, Il caso Suzanne Urban (1957), tr. cit., p. 169. 9 Cfr. p.e. Ran Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, tr. it. Milano, Apogeo, 2004, p. 136.

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tare sul piano logico e metodologico questa forma di conoscenza, e sempre più si fa strada la convinzione che si può sì avvicinare alla nostra comprensione il conoscere e l’immagine del mondo tipici delle scienze naturali partendo dal comprendere e dall’immagine del mondo teleologici, ma che, all’inverso, è impossibile comprendere partendo dalla conoscere naturalistico10.

Binswanger, insomma, che pure, da medico, riconosce la legittimità anche di uno sguardo oggettivante sul vivente11, mette continuamente in guarda dal riduzionismo: dalla pretesa, cioè, di ridurre l’intero (oggetto di comprensione) alla parte (oggetto di spiegazione). Lo stesso corpo, in questa chiave di lettura, inteso come Leib (corpo vivente) piuttosto che come mero Körper (soma), non può mai essere completamente oggettivato, reificato, secondo una visione che, risalendo a Schelling, si richiama a Scheler e anticipa il Merleau-Ponty della Fenomenologia della percezione12. Questo antiriduzionismo sfocia in un’attenta sorveglianza epistemologica dei diversi sguardi pretesi scientifici sull’umano, che – si badi – non sono mai respinti, ma piuttosto ricondotti ai loro invalicabili limiti: Dietro le separazioni operate dalla scienza esiste un’unità non accessibile ad essa [...] Se parliamo di psicologia, biologia, fisiologia ecc., e agiamo da psicologi, biologi, fisiologi, quell’unità non la raggiungiamo mai [...] [Per quanto riguarda poi i rapporti tra psichiatria clinica e scienze dello spirito] se a ciascuna delle parti è lecito di non capire nulla di ciò che fa l’altra parte, essa si rende però colpevole di prevaricazione scientifica là dove si pronuncia con i suoi metodi su dati di fatto che possono essere giudicati e riconosciuti soltanto con i metodi dell’altra13.

A Binswanger non sfugge, in particolare, il tratto costruttivistico ante litteram del sapere scientifico, che non riesce mai a smarcarsi dalla propria matrice essenzialmente ipotetica: Il mero accadimento [p.e un incidente stradale come fattore scatenante di un trauma psichico] è in realtà soltanto una costruzione teoretica [...], un’astrazione dalla serie infinitamente variabile dei riferimenti che esso ha per qualsiasi individualità che si “occupi” di esso. Così anche i significati generali sono

10 Ludwig Binswanger, Quali i compiti della psichiatria? (1924), tr. it in Per un’antropologia fenomenlogica, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 315 11 Cfr. p.e. Ludwig Binswanger, Sulla psicoterapia (1935), tr. it. in Per un’antropologia, cit., p. 15. 12 Sul senso che il corpo può assumere nella prospettiva della consulenza filosofica si veda il contributo di Paola Santagostino, nel presente volume. 13 Ludwig Binswanger, Il caso Ilse (1945), tr. it. cit., pp. 255-56.

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costruzioni, e precisamente construzioni della scienza della logica, nell’ambito della quale soltanto hanno una vita propria14.

Ora mette conto di rilevare come questa sorveglianza epistemologica, così rara negli investigatori della psiche del passato, venga spesso esercitata dallo psichiatra svizzero anche quando si tratta della sua propria ricerca, come in questi due esempi tratti dal Caso Suzanne Urban: [Nel caso di Suzanne] che ora proprio il padre sia divenuto un crudele dio delle vendette o uno spirito di maledizione, come abbiamo trovato in altri casi, è solo un’ipotesi per la quale ci mancano ulteriori indizi15. [Riguardo alla temporalizzazione dell’esserci di Suzanne] siamo davanti al compito più difficile di tutta la nostra ricerca e proprio a questo riguardo si tratterà, in misura ancora maggiore di quanto non abbiamo fatto in precedenza, di sollevare piuttosto che di risolvere i problemi su cui ci interroghiamo16.

Si tratta, mi pare, di una suggestione di estrema importanza per ogni pratica filosofica che si voglia autenticamente tale, autocritica, pronta, cioè, a mettere sempre di nuovo in discussione se stessa e ad aprirsi in ogni istante a ipotesi di lavoro prima impensate. Un’altra suggestione di estrema importanza per le pratiche filosofiche contemporanee, questa di chiara matrice fenomenologica, concerne il superamento dell’opposizione soggetto-oggetto a favore di una correlazione che permetta di parlare quasi sinonimicamente di sé e del mondo: Con la dottrina dell’essere-nel-mondo come trascendenza è stato eliminato il cancro che minava alla base tutte le precedenti psicologie e si è finalmente aperta la strada all’antropologia – il cancro cioè rappresentato dalla dottrina della scissione del “mondo” in soggetto e oggetto17. Non possiamo più parlare di vissuti come di processi interni a un determinato soggetto e delle reazioni di un soggetto a determinati eventi, ma dobbiamo sempre tenere presente l’inscindibile unità di vissuto e mondo. Subentra, allora, al concetto di vissuto “interno” e di evento “esterno” il concetto, che comprende in sé identicamente soggetto e mondo, della situazione, della posizione in cui si trovano di volta in volta l’esserci e il mondo18.

14

Ludwig Binswanger, Accadimento ed Erlebnis (1931), tr. it. in Per un’antropologia, cit., p.

345. 15

Ludwig Binswanger, Il caso Suzanne Urban (1957), tr. it. cit., p. 79. Ivi, p. 133. 17 Ludwig Binswanger, L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria (1946), tr. it. in Per un’antropologia, cit., p. 22. 18 Ludwig Binswanger, Il caso Suzanne Urban (1957), tr. it. cit., p. 88. 16

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Nell’universo delle pratiche filosofiche contemporanee quest’intuizione si traduce spesso nell’attenzione alla visione del mondo19 del cosiddetto consultante. In essa non ne va soltanto di lui come soggetto, ma sempre anche, inestricabilmente, della verità del suo pensiero riguardo al mondo che lo circonda20. Infine, preziose appaiono certe indicazioni di Binswanger in merito a una questione estremamente delicata, sulla quale all’interno della stessa comunità dei filosofi praticanti contemporanei si registrano posizioni anche fortemente differenziate. Mi riferisco alla questione dell’assunzione di responsabilità a cui si può – o meno – rinviare il proprio interlocutore nel corso di un incontro di pratica filosofica, a seconda che gli si attribuisca – o meno – libertà di scelta rispetto al proprio futuro. È da rilevare, in primo luogo che, per Binswanger, anche se dietro l’apparente libertà di scelta di certe persone (come gli schizofrenici) può intravedersi un’occulta necessità, questa non appartiene certo all’ordine di una spiegazione scientifica di tipo causale. Nel caso di Suzanne Urban, ad esempio, secondo lo psichiatra svizzero, non possiamo considerare, sotto il profilo classico, il terrore della scena originaria come la causa della malattia di Suzanne Urban. [...] La ricerca in chiave di analisi dell’esserci della trasformazione dell’esserci nella direzione della soggezione all’intimidazione del terribile [...] è qualcosa di diverso dalla ricerca clinica delle cause. [...] Se il delirio, nel caso Suzanne Urban, sarebbe comparso anche senza questo vissuto è cosa che rimane dubbia come deve rimanere dubbio se il delirio di persecuzione di Ilse sarebbe comparso senza l’indifferenza manifestata dal padre per il sacrificio del suo braccio nella stufa21.

L’allusione è, piuttosto, a qualcosa come un destino, come si intuisce da passi quali i seguenti, riferiti al caso Ellen West: [Nel caso di Ellen West, come di altri schizofrenici] in luogo della libertà di far sì che il mondo “accada” subentra la non libertà dell’essere dominati da un determinato progetto di mondo22.

In realtà, per Binswanger, possono sempre coesistere due sguardi sull’agire di una persona, perfino di uno schizofrenico: uno che lo vede come libero e l’altro come necessitato. Essi dipendono dal modo (o dal tempo) in 19 20 21 22

Cfr. Ran Lahav, Op. cit., pp. 10 ss. Cfr. Neri Pollastri, Consulente filosofico cercasi, Milano, Apogeo, 2007, p. 33. Ludwig Binswanger, Il caso Suzanne Urban (1957), tr. it. cit., pp. 167-68. Ludwig Binswanger, L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria (1946), tr. it. cit., p. 25.

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cui si guarda all’azione contemplata, come emerge, ad esempio, dai seguenti passi riferiti rispettivamente al caso Ellen West e al caso Ilse: Considerandolo alla luce dell’antropoanalisi, il suicidio di Ellen West si configura tanto come un “atto dell’arbitrio” quanto come un “evento necessario”. Entrambe le asserzioni si fondano sul fatto che la presenza [Dasein] nel caso di Ellen West era diventata matura per la sua morte, in altri termini, che la morte, questa morte, costituiva il necessario adempimento del senso della vita proprio di questa presenza23. Il cultore delle scienze dello spirito può affermare a buon diritto che nella risoluzione di Ilse [di sacrificare il braccio per il padre] si era trattato di un atto morale creativo, di un atto di intuizione o di immaginazione etica destinato a eliminare una situazione di vita sentita come immorale [...]. Solo dopo aver preso la sua risoluzione Ilse non fu più libera e creativa, perché noi siamo liberi sinché possiamo ritornare su una decisione anche nel dominio etico, rivederla, prestare ascolto a motivi etici opposti sia nostri sia altrui, etc.24.

Ritrovo questo duplice sguardo – di qui il mio interesse per queste notazioni di Binswanger – anche nella mia personale esperienza di consulente filosofico. A volte il consultante di turno (che, nel mio caso, non è certo, per lo più, uno schizofrenico!), mentre non riesce a liberarsi dal rammarico o dal rimorso per atti che ha compiuto nel passato, sui quali non può più ovviamente ritornare per modificarli (anche se ne soffre come se, invece, fosse ancora libero di farlo), vive il proprio presente, inversamente, come se fosse condannato a fare certe cose, che potrebbe invece scegliere di cambiare (perché non vede la fallacia dei presupposti di questa apparente necessità a cui crede di soggiacere). Il lavoro del filosofo consulente consiste allora nel rimettere destino e libertà nel loro giusto ordine, rinviando il proprio interlocutore alle proprie responsabilità verso se stesso. Non tutto della propria vita è immodificabile. Soprattutto, se lo è certamente il passato, non lo è, invece, il presente. E lo è certamente tanto meno, quanto meno una persona è preda di quella sorta di destino a cui sembrano soggiacere, invece, i malati di delirio. In conclusione Binswanger ci aiuta a delineare le condizioni alle quali soltanto, forse, è possibile porsi la questione di un’ermeneutica dell’altro. Ricapitoliamole brevemente. Sembra doversi presupporre che il nostro interlocutore, in quanto essere umano, testimoni con il suo dire, ma anche con il suo stesso “esserci”, di una trama di senso, da comprendere nelle sue ragioni prima ancora che da 23 24

Ludwig Binswanger, Il caso Ellen West (1945), tr. it. in Il caso Ellen West, cit., p. 131. Ludwig Binswanger, Il caso Ilse (1945), tr. it. cit., pp. 258-59.

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spiegare nelle sue cause. Tale esercizio di comprensione appare costellato da ipotesi interpretative da mettere sempre di nuovo in questione, autocriticamente. Esso investe tanto l’altro come soggetto, il suo cosiddetto sé, quanto il mondo che egli abita e del cui senso, pure, egli testimonia. Infine, in questo esercizio, essenzialmente di conoscenza, non ci si può esimere dal porre almeno la questione delle possibili scelte di cui l’altro potrebbe o meno assumersi la responsabilità, quanto più gli si riconosce la dignità di persona libera.

Come “tradurre” un vissuto altrui? Quello che vorrei discutere ora sono i modi in cui concretamente una tale ermeneutica dell’altro può svolgersi. Come si diceva all’inizio, la questione di fondo appare una questione di traduzione. Che cosa assicura, ad esempio, che il filosofo praticante, nel dialogo che intrattiene con il proprio interlocutore di turno, non lo fraintenda? Può suggerirci qualcosa al riguardo il concreto approccio di uno psichiatra “fenomenologo” come Ludwig Binswanger? Nella sua ultima opera, Delirio, del 1965, Binswanger inquadra come segue il problema della comprensione dell’altro e dell’interpretazione di ciò che l’altro tenta di comunicare: La problematica di ciò che è comprensibile e di ciò che non lo è deve venire di nuovo sollevata [...]; ci sembra possibile dare un nuovo e forse più decisivo impulso al “problema della comprensione” che negli ultimi tempi è stato piuttosto trascurato. [Altrove] ho precisato che non si tratta nei miei lavori di un’intesa comunicativa [Verständigung] all’interno di relazioni ontiche, ma di un’“intesa comunicativa ermeneutica che prende le mosse da quella che di volta in volta è la costituzione ontologica” e perciò di una comunicazione “intramata con un’interpretazione”, raddoppiata25.

Nel seguito Binswanger rinvia ai fondamentali passaggi di Sein und Zeit di Heidegger relativi all’interpretare e al comprendere26. Come si sa, si tratta dei passi decisivi che fondano la nozione di circolo ermeneutico che tanta eco ha avuto fino ai giorni nostri non solo in filosofia, ma nel più vasto campo della metodologia delle scienze umane. La cosa che mette conto di rilevare, per il suo significato per le pratiche filosofiche contemporanee, è che questa attività ermeneutica si esercita non già su un testo scritto, ma sul discorso vivo dell’altro. È merito di Maria 25 26

Ludwig Binswanger, Delirio (1965), tr. it. cit., pp. 7-8. Cfr. ivi, p. 11.

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Luisa Martini, studiosa di Gadamer e ricercatrice nel campo della consulenza filosofica, oltre che consulente filosofica ella stessa, avere messo in luce come il modello originario da cui anche Gadamer, vicino in questo a teorici del “pensiero dialogico” come Buber27, ha tratto la sua importante “rifondazione” del circolo ermeneutico, fosse il dialogo vivente piuttosto che la morta scrittura28. In Binswanger, poi, proprio come in Gadamer29, questo approccio ermeneutico si coniuga a una critica della nozione, di origine storicistica, di Einfühlung, tradotta spesso con “empatia” o “immedesimazione”30. Nel caso di Binswanger la critica all’empatia costituisce un passaggio cruciale perché permette allo psichiatra svizzero di superare gli ostacoli che secondo Jaspers impedivano la comprensione dei soggetti schizofrenici. La difficoltà o impossibilità a “immedesimarsi”, più o meno immediatamente, in loro, infatti, sembravano a Jaspers argomenti dirimenti al riguardo. Per la verità Binswanger è piuttosto laconico sui modi in cui, abbandonate le pretese dell’empatia, concretamente egli “entrava in comunicazione” con i suoi pazienti, così come non ci ha lasciato moltissima riflessione teorica sul punto. Il passaggio più esplicito in tal senso, in cui si intravede quasi il “disegno” di un vero e proprio “circolo ermeneutico”, mi pare il seguente: [Nel campo psicoterapeutico è all’opera] il lavoro in comune paziente e sistematico che mira a ricostituire la successione degli Erlebnisse [vissuti] e a ricostruire discorsivamente la trama dei contenuti racchiusi nella storia interiore di una vita. Lavoro creativo per entrambi, medico e paziente: costituito da una serie di atti reciproci di mutua esperienza, di comprensione e di interpretazione, che dapprima si richiamano in modo vago, poi si intrecciano vicendevolmente e infine appaiono strettamente legati e articolati dal punto di vista tematico. [...] Si tratta di un ininterrotto reciproco contatto comunicativo, una continua interazione, ed è ciò che rappresenta il fatto decisivo di qualsiasi trattamento psicoterapeutico. [...] Il rapporto tra medico e malato costituisce invece sempre un qualche cosa di propriamente nuovo nel piano della communio, un qualche cosa di nuovo che crea nuovi vincoli di fronte al destino. E questo sia detto non 27 Sulla fecondità del pensiero di Buber per le pratiche filosofiche cfr. i contributi di autori vari che corredano il volume Martin Buber, Colpa e senso di colpa, Milano, Apogeo, 2008. 28 Cfr. Maria Luisa Martini, Orizzonte e linguaggio. I confini dell’esperienza del mondo nel pensiero di Hans-Georg Gadamer, Milano, Mursia, 2006, spec. § 4.2 e § 4.4. 29 Cfr. Hans Georg Gadamer, Verità e metodo (1960), tr. it. Milano, Bompiani, 1983, p. 296 e passim. 30 Cfr. Ludwig Binswanger, Sulla fenomenologia (1923), tr. it. in Per un’antropologia, cit., p. 29 e p. 35. Cfr. anche Ludwig Binswanger, Quali i compiti della psichiatria? (1924), ivi, p. 318; Esperire, comprendere, interpretare nella psicoanalisi (1926), ivi, p. 239.

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soltanto in riferimento al rapporto medico-malato, ma anche e soprattutto al rapporto interumano, inteso come un autentico essere-insieme [Miteinander]31.

Un elemento di grande interesse per le pratiche filosofiche contemporanee è la centralità, in Binswanger, della dimensione linguistica nell’esercizio di comprensione del discorso dell’altro: I fenomeni di cui l’antropoanalisi cerca di interpretare il contenuto sono in linea fondamentale fenomeni linguistici [...] Ciò che deve sollecitare la nostra attenzione nell’antropoanalisi è [...] il contenuto delle espressioni e notificazioni linguistiche che rivelino il progetto o i progetti di mondo in cui chi parla vive o è vissuto32. La prima preoccupazione deve essere la necessità di verificare di continuo che cosa i malati intendono effettivamente dire con le loro espressioni. Solo allora potremo osare il compito scientifico di riconoscere dai contenuti linguistici i “mondi” nei quali vivono [...] Al pari di ogni altra indagine scientifica, anche qui sono possibili errori, vicoli ciechi, interpretazioni affrettate, ma esistono anche le vie e i mezzi per correggerli rettificandone di continuo i risultati33.

In quest’attenzione autocritica e sorvegliata alla lettera del discorso dell’altro Binswanger esercita uno sguardo molto diverso, ad esempio, da quello che si suole attribuire alla psicoanalisi, proprio perché egli prende sul serio ciò che l’altro dice di sé, anche quando l’altro è preda di delirio. Nel riportare la descrizione che Suzanne Urban fa di sé, ad esempio, Binswanger precisa: Poiché ogni parola è importante, riportiamo, ancora una volta, il relativo passo dell’autodescrizione, sottolineando che non vediamo alcun motivo di dubitare della credibilità di questa descrizione, peraltro confermata dai familiari, benché essa risalga all’epoca del delirio34.

Come si sa, questo “prendere sul serio il discorso dell’altro”, sospendendo il giudizio, così come il rifiuto di esercitare forme di sospetto sulle “vere” intenzioni del proprio interlocutore, è generalmente considerato proprio anche dell’atteggiamento pratico-filosofico. In Binswanger (altra feconda suggestione per il filosofo praticante) l’attenzione al discorso dell’altro arriva al punto dal non disdegnare di riprenderne immagini e metafore, riproponendole, se del caso, anche nella ricostruzione “scientifica” del suo vissuto: 31 32 33 34

Ludwig Binswanger, Sulla psicoterapia (1935), tr. it. cit., p. 149. Ludwig Binswanger, L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria (1946), tr. it. cit., pp. 33-34. Ivi, p. 35. Ludwig Binswanger, Il caso Suzanne Urban (1957), tr. it. cit., p. 81.

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Dobbiamo essere chiari sul fatto che anche le immagini sono modi della trascendenza, anzi che esse sono il suo linguaggio35. Le espressioni linguistiche scelte per designare il modo di essere [di Ellen West] vengono tanto più fortemente oggettivate e in pari tempo “personificate”. “La malinconia” si stende sulla sua vita come un uccello nero che sta in agguato per piombare su di lei e ucciderla. “La follia” scuote la nera chioma, la ghermisce e la getta nella voragine spalancata ecc.36.

Insomma si direbbe che Binswanger autorizzi, ante litteram, un approccio alle pratiche filosofiche francamente ermeneutico, nel senso dell’ermeneutica filosofica contemporanea37, rinverdita alla luce degli autori ascrivibili al “pensiero dialogico”.

Questioni aperte Con tutto questo, la pratica “antropoanalitica” di Binswanger, oltre che importanti suggestioni nella direzione di un’autocomprensione, per quanto sempre provvisoria, delle pratiche filosofiche contemporanee, lascia aperti anche alcuni problemi che, proprio perché appaiono di difficile soluzione, mi sembrano di grande interesse per queste pratiche stesse, nelle quali questi problemi si potrebbero facilmente riproporre. La questione fondamentale mi sembra legata, ancora una volta, alla giusta esigenza che Binswanger fa valere, ossia quella di evitare, nella “lettura” del vissuto dell’altro, il ricorso a strumenti difficilmente controllabili come l’immedesimazione o empatia38. Come sappiamo, infatti, solo se evitiamo la tentazione di prendere la scorciatoia (ingannevole) dell’empatia, possiamo sperare di ricostruire la trama di senso del vissuto dell’altro, che si dimostra tanto più immediatamente opaco, quanto più, come sapeva bene Jaspers, l’altro vive esperienze davvero altre, aliene, come avviene nel caso limite dello schizofrenico. Abbiamo visto che per aggirare l’ostacolo Binswanger sembra attivare, prima ancora che teorizzare in forma esplicita, un vero e proprio circolo ermeneutico, centrato sui modi in cui l’altro dice il suo vissuto. 35

Ivi, p. 116. Ludwig Binswanger, Il caso Ellen West (1945), tr. it. cit., p. 126. 37 Un’indicazione in tale senso l’ho data nel mio Consulenza filosofica come professione. Aporetica di un’attività complessa, in “Phronesis”, n. 7, 2006, spec. pp. 94-97. 38 Al riguardo Binswanger nota, ad esempio, opportunamente: «I limiti della possibilità di immedesimazione sono “puramente soggettivi” [!] e mutano a seconda delle capacità di immedesimazione e della ‘fantasia’ dello studioso» (Ludwig Binswanger, Il caso Ilse (1945), tr. it. cit., p. 246). 36

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Ma la questione che sorge, a questo punto, riguarda, per così dire, la possibilità di “chiudere il cerchio” dell’interpretazione, pervenendo a quella che si pretende o si assume come comprensione. Nel caso dell’interpretazione di un testo scritto, infatti, le cose “filano” molto più “lisce”, perché, da un lato, come ci ricorda Platone nel Fedro39, un testo non si può “difendere” dalla nostra interpretazione; dall’altro lato questa difesa non avrebbe molto senso, dal momento che non si tratterebbe comunque mai di restituire la precisa intenzione dell’estensore del testo (ambizione, semmai, di un approccio empatico), ma solo di produrre un senso, coerente e aderente alla lettera del testo stesso, che abbia valore per noi, oggi, all’interno del nostro orizzonte culturale40. Nel caso, però, del dialogo vivente che possiamo intrattenere con un’altra persona, la quale, a differenza di un testo scritto, può avere “l’audacia” di rispondere alle nostre domande e, perfino, di contraddirci, non sembra che ci si possa accontentare, per così dire, di una traduzione del suo discorso buona solo per noi. L’esercizio ermeneutico sembra doversi trasformare in un vero e proprio esercizio maieutico, capace di favorire quella che nei Dialoghi platonici si denomina homologhìa. Questo accordo tra i due o più interlocutori in gioco sembra corrispondere a quella che Binswanger chiama Verständigung, termine tecnico, di difficile traduzione41, che si può rendere con intesa comunicativa. Ma come si produce una tale intesa? Come si può, cioè, davvero pretendere di intendere, fino in fondo, il vissuto di colui che, nel linguaggio comune, chiameremmo un folle? Nel rispondere Binswanger sembra affidarsi completamente alle virtù di un metodo: Oggi non siamo più legati alla vieta contrapposizione tra vita psichica suscettibile di essere colta per immedesimazione [einfühlbar] e vita psichica che non può esserlo [uneinfühlbar], ma disponiamo invece di un metodo, di uno strumento scientifico con il quale è possibile avvicinare sistematicamente alla comprensione scientifica anche la vita psichica cosiddetta non comprensibile42.

Ma di che metodo si tratta? Si tratta, appunto, del metodo della Daseinsanalyse o dell’analisi dell’esserci dell’altro: I fatti empirici divengono scientificamente comprensibili solo quando si conosce l’essenza a priori sulla base della quale i vari “fatti” possono essere appunto 39

Platone, Fedro, 275d-276e. È il punto di vista dell’ermeneutica contemporanea che ho rivisitato in chiave praticofilosofica e antistoricistica nel mio saggio Perché non riaccendere la laterna di Diogene, in “Edizione”, rivista della Sezione S.F.I. del Friuli V.G., 2008, spec. pp. 163-68. 41 Cfr. la mia Nota del traduttore a Delirio, tr. it. cit., p. xxix. 42 Ludwig Binswanger, L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria (1946), tr. it. cit., p. 44. 40

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tali [...]. Non si tratta di una comprensione nel senso dell’“empatia”, della comprensione genetica o del rivivere, né della comprensione (psicologica) del contenuto del delirio, ma della comprensione completamente differente, condotta con il metodo dell’analisi dell’esserci, del delirio in quanto tale, cioè in quanto trasformazione determinata dell’intera struttura dell’esserci 43.

Binswanger, anche a seguito della critiche mossegli da Heidegger sul punto, precisa, innanzitutto, che non si tratta dell’analitica esistenziale di Heidegger, ma, appunto, di un’ermeneutica “ontica” che si esercita sulla singola “presenza” umana: L’antropoanalisi non va scambiata con l’analitica esistenziale nel senso di Heidegger; la prima, infatti, è un’ermeneutica fenomenologica ontico-antropologica condotta sulla fattuale presenza umana, la seconda è invece un’ermeneutica fenomenologica ontologica indirizzata all’essere inteso come esserci44.

Ma su quali basi, dunque, questa ermeneutica fenomenologica può, evitando le secche dell’empatia, ambire a un’effettiva comprensione del vissuto dell’altro co-presente, ossia a chiudere il cerchio di un’interpretazione altrimenti interminabile, per usare l’espressione di Freud, e votata, si direbbe, sempre allo scacco? Ad onta della sua presa di distanze dall’ontologia, l’ipotesi su cui Binswanger basa il suo approccio è proprio quella di un’unità di fondo dell’esserci umano, accessibile, non già – come abbiamo visto – alle diverse scienze naturali che pretenderebbero di disporne (come sarebbe la stessa psicologia), ma proprio alla filosofia (si intende quella ontologico-fenomenologica, ispirata da Husserl e Heidegger) oltre che, per vie misteriose, a quello che lo psichiatra svizzero chiama amore: Dietro le separazioni operate dalla scienza esiste un’unità non accessibile ad essa. Ma questo riconoscimento [Einsicht] è già di natura filosofica, ed è precisamente quello su cui si fonda appunto l’antropologia nel senso dell’antropoanalisi e i cui fondamenti sono costituiti dai fenomeni della storia della vita. [...] [Tale unità] è accessibile all’uomo soltanto in due modi, da un lato nel modo della filosofia e del sistema filosofico, dall’altro dal modo dell’amore, che in sé racchiude Eros e Agape45.

In realtà i due approcci, filosofico ed “erotico-agapico”, sembrano coniugarsi nell’effettiva pratica ermeneutica di Binswanger, come testimonia

43 44 45

Ludwig Binswanger, Il caso Suzanne Urban (1957), tr. it. cit., p. 194. Ludwig Binswanger, Il caso Ellen West (1945), tr. it. cit., p. 97. Ludwig Binswanger, Il caso Ilse (1945), tr. it. cit., p. 255.

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quanto egli scrive: Non si tratta [...] di pervenire a conclusioni induttive fondate sulla mera raccolta di dati di fatto, bensì di penetrare con amore [!] nell’essenza e nel contenuto del singolo fenomeno46.

Binswanger, sotto questo profilo, fedele forse più alla scuola di Husserl che a quella di Heidegger, sembra abbandonare ogni cautela autocritica, ogni consapevolezza circa la natura ipotetica della sua stessa ricostruzione del vissuto dell’altro; consapevolezza che, pure, come abbiamo visto, sotto altri profili egli sembra, viceversa, mantenere. In altre parole Binswanger (rischio da cui non è mai immune neppure il filosofo praticante del nostro tempo, di qui l’importanza di sottolineare questo punto) sembra ignorare il fatto di non potersi mai spogliare del tutto della sua propria precomprensione del vissuto dell’altro, illudendosi di poter guadagnare una sorta di paradossale, autocontraddittorio, punto di vista assoluto sul suo conto. In questa pretesa – mette conto di rilevare – Binswanger evoca l’epoché husserliana, intesa come radicale sospensione del giudizio sui contenuti del discorso dell’altro, la quale gli consentirebbe di “mettere tra parentesi” proprio tutti i “punti di vista” relativi, limitati e prospettici sul conto di tale discorso, per guadagnare una sorta di visione in qualche modo oggettiva: Siamo soliti comunemente dire che in base a un resoconto o a un racconto ci facciamo un “concetto” approssimativo o un’ “immagine” più o meno intuitiva di una certa individualità umana; è peraltro noto che questo concetto o questa immagine dipendono dal punto di vista e dalla posizione della persona o del gruppo di persone che “se lo fa”. Soltanto l’amore e l’immaginazione che da quello scaturisce possono sollevarsi al di sopra di questo punto di vista prospettico, mentre il giudizio, anche quello scientifico, resta, in quanto forma del prendere-per-qualcosa, necessariamente prospettico [...] Ma in contrasto con l’elaborazione schematizzante che la figura pubblica di un’individualità subisce nella prospettiva della storiografia scientifica, è nostra intenzione escludere quanto più possibile tutti i giudizi sull’individualità in questione, qualunque sia il punto di vista o il modo di considerazione, morale, sociale, estetico, medico o d’altro genere, dal quale conseguono, e soprattutto i nostri propri, e questo per non essere pregiudicati nel volger lo sguardo sulle forme della presenza secondo le quali l’individualità in questione è nel mondo47. 46

Ludwig Binswanger, L’indirizzo antropoanalitico in psichiatria (1946), tr. it. cit., p. 32. Ludwig Binswanger, Il caso Ellen West (1945), tr. it. cit., pp. 95-96. Per rimarcare l’importanza di questa sospensione del giudizio Binswanger cita in un passo successivo anche la sentenza di Paul Valery: “Toutes les fois que nous accusons et que nous jugeons, le fond n’est pas atteint” (ivi, p. 128). 47

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Questa pretesa di neutralità rispetto al mondo (anche valoriale) dell’altro appare particolarmente significativa e insidiosa per il dibattito sulle pratiche filosofiche contemporanee. Essa ricorda molto da vicino le esigenze fatte valere da approcci spesso paragonati a quelli delle pratiche filosofiche come, ad esempio, il counseling di ispirazione rogersiana, nel quale la sospensione del giudizio da parte del counselor e la spassionata accoglienza del discorso del “cliente” costituiscono un caposaldo fondamentale48. In Binswanger questo atteggiamento, oltre che deontologicamente raccomandabile e terapeuticamente efficace, assume come abbiamo visto, anche la valenza epistemologica di rendere possibile una sorta di sguardo onnicomprensivo sull’altro, sguardo che sarebbe altrimenti precluso. Il problema nasce dal fatto che in tutte queste prospettive sembra che non ci si renda conto della problematicità del tentativo di escludere i propri pregiudizi nel corso di un dialogo filosofico o terapeutico. La mancata presa di coscienza di tale irriducibile precomprensione potrebbe perfino operare occultamente una distorsione ancora maggiore nella conduzione del dialogo medesimo. Non bisogna dimenticare che chi conduce un dialogo ne può condizionare l’esito non solo e non tanto attraverso l’espressione di giudizi espliciti sui temi in discussione, ma molto di più attraverso le domande che egli pone e quelle che egli omette, attraverso gli stessi modi del porre le questioni e, perfino, attraverso silenzi che vorrebbe, magari, “accoglienti”. Né un esercizio diretto a tenere sotto vigile controllo ogni e qualsivoglia espressione del proprio punto di vista da parte del filosofo praticante, counselor o terapeuta che sia potrebbe sortire migliore effetto, se si pensa che, nel caso ideale, ossia che questo esercizio riuscisse perfettamente, il dialogo sarebbe contraddistinto da una fondamentale ipocrisia: uno dei due soggetti in campo, infatti, indosserebbe una maschera funzionale a condurre il gioco, piuttosto che esercitare la greca parrhesìa, ossia quel “parlar franco” che dovrebbe, forse, caratterizzare ogni dialogo che si voglia davvero filosofico49. Insomma la pretesa di conseguire un paradossale punto di vista assoluto, disincarnato, da cui “leggere” il discorso dell’altro, appare quanto meno discutibile. Eppure per Binswanger, contra Jaspers, proprio su tale pretesa riposa la possibilità di comunicare con l’altro, dunque la possibilità di attivare quel fecondo circolo ermeneutico di cui si è parlato, specialmente verso coloro con i quali nessuna immedesimazione immediata sembra possibile. 48 Si veda il contributo di Stefano Zampieri sul rapporto tra consulenza filosofica e counseling rogersiano in questo stesso volume. 49 Almeno se si vogliono imitare gli antichi. Cfr. Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Milano, Donzelli, 2005.

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L’intesa comunicativa, insomma, sarebbe realizzata, secondo Binswanger, soltanto in virtù della delineazione, operata, una volta per tutte, dalla filosofia ontologico-fenomenologica, dei modi dell’essere-al-mondo di ciascuno: Dai modi dell’essere-al-mondo e al di fuori e al di sopra di esso propri di ciascuno dipendono anche i modi in cui noi, in quanto con-presenze [Mitmenschen], possiamo comunicare, cioè simpatizzare e comprenderci, con determinati uomini nella diverse tappe della storia della loro vita50.

L’appello (surrettizio?) a schemi di comprensione in qualche modo “preconfezionati” nelle teorie filosofiche a cui Binswanger non cessa di fare riferimento appare particolarmente evidente allorché il vissuto dell’altro appare specialmente oscuro, proprio in virtù, si potrebbe dire, dell’alterità dell’altro, immerso nelle nebbie della sua opaca follia, come nel caso di August Strindberg: [In mancanza della confessione di un malato di delirio, come nel caso Strindberg], come nei casi di quasi tutti i malati di delirio, dobbiamo rinunciare a una tale confessione ed esibire “ostensivamente” al suo posto “la cosa stessa” alla luce dell’intero movimento della nostra ricerca [...] Ciò che ci interessa [...] è allora la descrizione fenomenologica della coscienza delirante [...], risalendo fino ad Aristotele e Kant e concludendo con Husserl e Szilasi51.

Qui l’intera storia della filosofia sembra evocata proprio per sopperire alla difficoltà ermeneutica di venire a capo della “cosa stessa”, ossia del vissuto del malato che si vuole comprendere, come se Aristotele e Kant, per una sorta di riproposizione di un “principio di autorità”, fondato sulla Tradizione, potessero di per se stessi illuminarci circa il senso, altrimenti lacunoso, delle nostre vite individuali. Qui tocchiamo, ante litteram, forse il maggior rischio a cui il filosofo praticante contemporaneo può essere esposto. Forte dei suoi studi accademici, il filosofo, ancora più del terapeuta o del counselor fenomenologicamente ispirato, può cedere facilmente alla tentazione di inquadrare il discorso del proprio interlocutore di turno dentro categorie che egli mutua dalle proprie competenze storico-filosofiche acriticamente assunte. Invece di fare filosofia con il proprio interlocutore, il filosofo praticante potrebbe, allora, finire per indottrinare, anche involontariamente, l’altro, spiegandogli, ad esempio, in modo più o meno “professorale”, come e perché egli condurrebbe una vita inautentica oppure “tormentandolo” con la questione, poniamo, 50 51

Ludwig Binswanger, Il caso Ilse (1945), tr. it. cit., p. 245. Ludwig Binswanger, Delirio (1965), tr. it., p. 39.

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di una “scelta” da compiere a ogni costo, ma che, magari, potrebbe stare più a cuore allo stesso filosofo praticante che al proprio ospite! Si badi: non intendo dire che il filosofo praticante debba prescindere dalla propria Bildung filosofica, nella conduzione di un dialogo. Tale pretesa sarebbe insensata e contraddittoria con la critica appena condotta dell’idea che il filosofo possa prescindere impunemente dalle proprie precomprensioni. Vorrei solo rimarcare, al contrario, la necessità di guadagnare la maggior consapevolezza critica possibile circa l’inevitabile incidenza della propria visione del mondo nella conduzione di un dialogo che, fenomenologicamente ispirata o meno che sia, resta inesorabilmente vincolata a un punto di vista. Tanto è vero che lo stesso dialogo, nel proprio movimento, se è autenticamente filosofico e, in qualche misura, paritetico, potrà ben mettere in questione la visione stessa di chi lo conduce. Ulteriori indizi circa la problematicità della pretesa binswangeriana di conseguire, grazie alla fenomenologia, un “punto di vita assoluto” nell’esercizio di comprensione dell’altro ci sono suggeriti dalla serie di aporie che ne conseguono. Una prima aporia riguarda la funzione del “noi”, dell’intersoggettività come orizzonte principe a partire da cui condurre un esercizio di interpretazione capace di comprensione. Da un lato, infatti, Binswanger deve presupporre che anche il malato affetto da delirio per l’antropoanalisi si trova in questo Noi. È appunto l’antropoanalisi a costituire “la giusta base per la comunicazione”. Ed è solo a partire da questa base che l’esperienza delirante è comprensibile e descrivibile in quanto esperienza52.

D’altra parte, però, in casi come quello di Aline egli deve ammettere quanto segue: La “forma fondamentale dell’esserci umano” nella quale, quasi esclusivamente, Aline vive: non è né la modalità del singolare, né tanto meno quella del duale. Non troviamo mai un (duale) noi, un “ci” o un “nostro”, per tacere poi di un “tu” o “te”. Aline si solleva del tutto nella modalità plurale: io e gli altri, gli altri e io53.

Aline sembra, dunque, vivere in un mondo diverso da quello dell’intersoggettivà “autentica”, quella del “noi”; eppure lo psichiatra ve la deve

52 53

Ludwig Binswanger, Delirio (1965), tr. it., p. 21. Ivi, p. 66.

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ricondurre, quasi a forza, per interpretarlo e comprenderlo. Questo paradosso mette bene in luce un’altra più fondamentale aporia: se da un lato Binswanger si sforza di restituire piena dignità umana all’esserci del malato di delirio, meritevole di un ascolto attento e comprensivo come ogni altro esserci umano, dall’altro lato egli non può prescindere dalla tradizionale distinzione tra norma e devianza, distinzione implicita ab origine nella discriminazione tra il “mondo comune oggettivo”, fenomenologicamente inteso, abitato da “noi sani”, e i mondi frammentati e “meccanizzati” in cui vivono (o vivrebbero) i “malati”. È chiaro che una simile discriminazione sarà tanto più rimarcata quanto più “oggettive” saranno considerate le interpretazioni filosofiche della “costituzione” (normale) dell’esserci: Abbiamo per la prima volta davanti a noi una dottrina che ci permette di precisare esattamente che cosa intendere per irragionevolezza, pazzia, delirio, scriteriatezza, falsificazione della realtà, fuoriuscita dal consorzio umano: una radicale trasformazione o meglio distruzione dell’intero complesso della coscienza e della “costituzione” in senso husserliano54.

Il rischio che la prospettiva binswangeriana, involontariamente, fornisca strumenti concettuali per approfondire il fossato tra “sani” e “malati” – o, più generalmente, per quanto interessa le pratiche filosofiche, tra “me” e “l’altro” – emerge anche se guardiamo da un altro punto di vista quello che appariva un pregio indubbio dell’approccio dello psichiatra svizzero: l’attenzione alla lettera del discorso dell’altro. Quest’attenzione, infatti, sembra finire a volte per “imprigionare” l’altro nelle secche del proprio stesso discorso, per accreditare, acriticamente, l’immagine che l’altro offre di se stesso. Quando, ad esempio, Binswanger scrive a proposito di Aline: All’autentica trascendenza si sostituisce un meccanismo di registrazione che segue uno schema monotono e monomaniaco ecc.55

il medico svizzero sembra prendere talmente sul serio la metafora del “meccanismo di registrazione”, che estrae dall’autodescrizione di Aline, da sembrare quasi “abbandonare”, per così dire, la stessa povera paziente alla presunta “verità” del proprio delirio. Mutatis mutandis possiamo vedere, in controluce, in questo approccio, il rischio che corre il filosofo praticante che, per l’ottima intenzione di non condizionare in alcun modo il proprio 54 55

Ivi, p. 121. Ivi, p. 84.

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interlocutore, si limitasse ad ascoltarlo, prendendolo talmente sul serio da non osare mai mettere in discussione il suo punto di vista, neppure per provocare in lui un cambiamento “salutare” di prospettiva. Analogamente, questo prendere sul serio il discorso dell’altro, che sembra quanto di più lontano da un esercizio “psicoanalitico” del sospetto, appare quasi, antinomicamente, rovesciarsi nel contrario quando Binswanger cerca di verificare ciò che i suoi pazienti gli hanno raccontato di se stessi, in modi a dir poco da detective56, come testimonia il seguente passaggio tratta dal caso Ellen West: Osservandola di nascosto mentre mangia, si può constatare che davvero Ellen [come aveva raccontato] si getta sul cibo “come una bestia” e che “come una bestia” lo trangugia57.

Questa attenzione fenomenologica, quasi ossessiva, al dato osservato, il più possibile depurato da giudizi e interpretazioni fuorvianti, sembra sortire, infine, tutta una serie di altri effetti in qualche modo aporetici, che retroagiscono sull’intero impianto teorico di Binswanger e che mi limito qui soltanto ad accennare. Un primo effetto paradossale, ispirato certamente alla prospettiva husserliana in base alla quale il dato singolare o particolare viene immediatamente colto nella sua essenza, ossia come universale, è che in molti casi non si capisce bene se Binswanger voglia comprendere davvero questo “esserci qui”, questa persona e il suo vissuto, oppure, attraverso di lei, l’essenza universale del “tremendo”, dell’“angoscia” ecc. che in lei si esprimerebbero. Il ripudio del principio di spiegazione dei fenomeni in termini di causa ed effetto genera, cioè, il curioso cortocircuito per cui l’irruzione, ad esempio, della malattia in una persona (ma la stessa cosa può valere, in un’ottica pratico-filosofica, per l’emergere di un’idea o di una determinata visione del mondo), non potendo venire geneticamente spiegata, viene allora compresa come una sorta di destino che fa della persona stessa, Suzanne, Aline ecc., una sorta di metafora o di icona dell’essenza (o della potenza) che, di volta in volta, in lei si manifesterebbe. In tale “comprensione”, tuttavia, come nella celebre notte schellinghiana in cui tutte le vacche sono nere, ciò che sembra non comprendersi più sono le differenze, le ragioni, i sensi specifici che questa o quell’essenza incarnata

56

Sul tratto tipicamente psicoanalitico dello sguardo da detective cfr., in questo volume, il contributo che segue, dedicato al rapporto tra consulenza filosofica e psicoanalisi lacaniana. 57 Ludwig Binswanger, Il caso Ellen West (1945), tr. it. cit., p. 126.

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assumono per questa o quella persona particolare. Tale circostanza genera a volte l’impressione di una certa tautologicità del discorso di Binswanger58, come se, alla fine, egli si limitasse a constatare, per dirlo con una battuta deliberatamente caricaturale, che chi vive in un mondo, ad esempio, di terrore viva in un mondo di terrore perché... vive, appunto, in un mondo di terrore! Altre volte, per evitare questo esito, sembra fare capolino, surrettiziamente, una sorta di “causalità essenziale” che di nuovo finisce, però, per rimettere problematicamente in auge la prospettiva della spiegazione contro quella della comprensione. Si tratta, come si vede, di aporie che sembrano scaturire ogniqualvolta Binswanger misconosce la parzialità e relatività del punto di vista fenomenologico assunto in partenza, quando cioè egli cede alla tentazione di farlo valere come onnicomprensivo e totalizzante. Mutatis mutandis, in rischi di questo tipo potrebbero incorrere quei filosofi praticanti non sufficientemente avvertiti dei limiti dei propri presupposti metodologici e non disponibili a impegnarsi in un’instancabile investigazione epistemologica su di essi. Certo, il prezzo da pagare per questa apertura costante al dubbio, anche sul proprio medesimo approccio, è forse la rinuncia alla pretesa di una totale trasparenza. Il vissuto dell’altro, come il caso limite dello schizofrenico testimonia, è destinato probabilmente a conservare una propria residua opacità. Lo sapeva, forse, il filosofo Jaspers, che può così consumare una sorta di “vendetta” postuma a scapito delle ambizioni conoscitive dello psichiatra Binswanger. Certo è che il circolo ermeneutico tra me e l’altro, in un dialogo vivo, sembra non potersi mai chiudere in un’appagante comprensione, ma essere, piuttosto, destinato a rimanere aperto, sempre a rischio, anzi, di spezzarsi, nei modi dell’equivoco o, anche, della chiacchiera. Eppure questa stessa avvertenza critica mi sembra, in ogni caso, dimostrare conclusivamente come la produzione teorica di Ludwig Binswanger non cessi di fornire una miniera non solo di suggestioni di grande rilevanza, ma anche di spunti importanti di problematizzazione a chi, come il filosofo praticante del nostro tempo, non possa non misurarsi lucidamente con la complessa problematica della comprensione intersoggettiva o, se vogliamo, dell’intertraducibilità sempre sub iudice dei discorsi che intrecciamo. 58 Di tale rischio sembra accorgersi a volte lo stesso Binswanger: «Per Husserl, [...] come ricorda opportunamente Blumenberg, “l’essenziale sta nel banale”, e l’intera impresa fenomenologica, da questo punto di vista, può essere considerata come “scienza dell’ovvietà”» (Ludwig Binswanger, Il caso Suzanne Urban (1957), tr. it. cit., p. 41).

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Il discorso dell’Altro. Consulenza filosofica e psicoanalisi lacaniana di Giorgio Giacometti

Difficoltà del confronto Confrontare la consulenza filosofica con la psicoanalisi lacaniana potrebbe essere, fin dall’inizio, un’attività fondata su un equivoco. Il confronto presuppone una certa definitezza delle due pratiche e, anche, la possibilità di una certa conoscenza di entrambe. Ora, vi sono diverse scuole di psicoanalisi che, proseguendo variamente l’insegnamento di Lacan, ne dànno una versione piuttosto differente, mentre, sul terreno della consulenza filosofica, si potrebbe sostenere che vi sono altrettante nozioni di consulenza quanti sono i consulenti. Diventa difficile, quindi, tener fermo il presupposto della definitezza di ciascuna delle due pratiche. Inoltre chi parla e tenta il confronto, in prima persona, non può non prendere le mosse dall’idea che si è fatto di ciascuna delle due pratiche, nutrita spesso da esperienze reciprocamentte incommensurabili. Anche la conoscenza, dunque, dei due ambiti non può che essere costitutivamente soggettiva e parziale, tanto più nel caso di pratiche, come queste, che sembrano mettere al proprio centro il soggetto stesso e la sua sete di verità. Infine, bisognerebbe chiedersi se il confronto stesso viene condotto in una prospettiva filosofica o, magari, “psicoanalitica”, ad esempio tentando in mettere in luce i lapsus in cui incorre ciascuna delle due pratiche o il tasso di “rimozione” che essa importa e simili.

Un’aria di famiglia Non essendo possibile spogliarsi degli abiti della propria soggettività, forse il modo intellettualmente più onesto di affrontare la questione è quella di assumere francamente il punto di vista di un consulente filosofico a cui la psicoanalisi lacaniana “fa problema”. E gli fa problema perché lo interroga. La psicoanalisi lacaniana – si direbbe – interroga questo consulente filosofico

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perché, freudianamente, è insieme heimlich e unheimlich, familiare e inquietante, anzi inquietante proprio perché fin troppo familiare. Consideriamo l’apparenza di familiarità. La “riforma” lacaniana di Freud dà luogo a una pratica che potrebbe essere detta francamente filosofica per una serie di ragioni: – la teoria lacaniana si nutre di numerosi apporti filosofici e ne ispira, si può dire, altrettanti – il soggetto della “cura”, chiamato appunto “soggetto” o “analizzante” e non, ad esempio, “paziente” o “cliente”, è considerato attivo e responsabile della pratica che mette in atto – l’analista non intende dirigere la pratica, neppure, in modo occulto, attraverso il suo silenzio, ma intende limitarsi a favorire l’attività del soggetto (altra questione se vi riesca) – al dialogo psicoanalitico viene riconosciuta esplicitamente una funzione maieutica – la questione verte sulla verità che il soggetto non riesce a dirsi, piuttosto che, ad esempio, sul soddisfacimento di desideri o pulsioni – si nega alla “cura” un funzione “terapeutica” nel senso della guarigione del soggetto – si nega alla “cura” anche una funzione di conformazione a standard sociali – si rifiuta ogni forma di oggettivazione del soggetto – la pratica ha, piuttosto, una funzione critica di messa in discussione del modo in cui il soggetto rappresenta se stesso e il mondo – la pratica si svolge esclusivamente attraverso il medium della parola. Proprio questi tratti di familiarità inquietano il consulente filosofico, soprattutto se ha avuto esperienza di psicoanalisi, perché lo costringono a domandarsi in che cosa la sua pratica possa distinguersi da quella lacaniana.

Una differenza solo formale? Il presupposto di questa domanda, naturalmente, è che la consulenza filosofica debba distinguersi; e – si intende – in un modo che non sia solo formale. Certamente, il titolo di “consulente filosofico” posseduto dal professionista, così come la denominazione del lavoro che egli propone ai suoi “ospiti”, costituiscono una prima distinzione formale. Altre distinzioni formali potrebbero essere rappresentate dal diverso lessico impiegato per designare nozioni non solo concettualmente affini, ma che, soprattutto, potrebbero essere adoperate in modo molto simile. Il consulente filosofico, ad esempio, potrebbe parlare

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di “ìdolo” o “pregiudizio” come lo psicoanalista parlerebbe, forse, di “fantasma”; oppure potrebbe parlare di “linguaggio” per alludere al “simbolico”; o di “illusione” per alludere all’“immaginario”; o, ancora, di “passione” per alludere al “desiderio” ecc. Certo, tutte queste distinzioni apparentemente solo formali potrebbero avere implicazioni “sostanziali”, sul modo in cui consulente e consultante “si rappresentano” quello che fanno, per il potere diversamente evocativo dei termini impiegati, anche se adoperati in un contesto affine. Ma c’è da dubitare che questa semplice osservazione sia sufficiente a sedare l’inquietudine suscitata nel consulente dal senso di eccessiva affinità tra le due pratiche.

Perché distinguersi? Bisogna allora domandarsi, in primo luogo, perché avvertiamo così forte il bisogno di distinguerci? Di che cosa abbiamo paura? Non potremmo esercitare la consulenza filosofica, se siamo convinti del suo valore, del tutto indipendentemente dal grado della sua affinità (o, perfino, perché no?, di casuale coincidenza) con qualsivoglia altra pratica, senza render conto a nessuno? Forse il timore nasce dall’indefinitezza o, financo, indefinibilità della pratica filosofica. La mancanza di sicurezze a cui tale condizione dà luogo può essere responsabile del “riflesso condizionato” di una volontà di discriminazione da qualunque altra pratica con cui si teme di poter essere “confusi”. Paradossalmente, tuttavia, proprio questa indefinibilità costituisce, a ben vedere, già un motivo di differenza. Quello dell’indefinibilità è un lusso che lo psicoanalista lacaniano, se vuole rimanere riconoscibile come tale, non si può certo concedere. Tuttavia c’è da dubitare che questo argomento possa davvero convincere coloro che, a ragione o a torto, vogliono trovare qualcosa che distingua, in modo più determinato, le due pratiche. Proviamo, allora, a vedere se, proprio approfondendo i motivi di apparente affinità tra le due pratiche, non possa sorprendentemente emergere qualche differenza.

Lacan filosofo Lacan è autore dalla multiforme cultura in cui l’apporto filosofico sembra brillare più di altri. È noto il suo rapporto con studiosi francesi di Hegel e di Heidegger, come Kojève, Hippolyte, Wahl, lo stesso Sartre. Se Freud è

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to ispirato da Schopenhauer, Empedocle e altri “filosofi”, nell’elaborazione della sua ultima teoria centrata su Eros e Thànatos, tra i “maestri” di Lacan bisogna senz’altro annoverare, tra gli altri, oltre allo stesso Freud, Platone, Aristotele, i moralisti francesi, Kant e de Sade, Hegel, Nietzsche, Heidegger. D’altra parte Lacan stesso è stato l’ispiratore, più o meno occulto, di tutto un coté culturale e filosofico (cosiddetto post-strutturalista), in terra francese: da Foucault a Deleuze, da Derrida a Badiou. Ricordiamo alcuni Leitmotiven penetrati nella filosofia contemporanea: il tema dell’Altro, nelle sue varie declinazioni, la centralità del linguaggio, le dinamiche del desiderio, la questione della domanda, la scissione del soggetto, il problema delle sue identificazioni, il ruolo dei tre registri reale, immaginario, simbolico. Supponiamo, allora, pur senza concederlo, di considerare senz’altro Lacan un filosofo. Quest’assunzione non ci dice ancora molto, tuttavia, sul rapporto tra la pratica psicoanalitica che a lui si riconduce e le pratiche filosofiche del nostro tempo. L’antropologia di Lacan (la sua concezione del “soggetto”, ad esempio) avrà per un consulente filosofico, in questa prospettiva, lo stesso ruolo di quella di Heidegger o di Platone: si tratta di una “dottrina” in qualche modo filosofica con cui fare i conti, ma che non deve essere tenuta ferma come un presupposto della pratica stessa, pena la rinuncia all’elemento critico della consulenza filosofica1. Sotto questo profilo la consulenza filosofica, probabilmente, non deve essere meno “lacaniana” che “platonica” o “heideggeriana”. La consulenza filosofica, in quanto filosofica, deve potersi concedere il lusso di mettere in discussione qualsivoglia presupposto antropologico; anche se si può certo ammettere che il consulente, di volta in volta, si accosti a ogni nuovo “caso” con una “precomprensione” che gli viene dall’insieme dei “pregiudizi” che gli derivano dalla sua storia, personale e culturale.

Possibili equivoci sulla psicoanalisi Ma quello che inquieta non è tanto il “filosofo” Lacan; non più di quanto potrebbe inquietare il filosofo Heidegger o il filosofo Nietzsche (o quei tanti filosofi “postmoderni” che, senza “sporcarsi le mani” stringendole alle persone che accedono al proprio studio, si compiacciono di sottolineare la crisi che teoricamente avrebbe investito l’identità del soggetto). Quello che inquieta, per la sua prossimità, ma anche per quella che sembra, a tratti, un’abissale distanza, è, piuttosto, la pratica lacaniana. 1

Si tratta dei rilievi che, in sostanza, faceva già Neri Pollastri in Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Milano, Apogeo, 2004, pp. 105 ss.

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A questo riguardo, tuttavia, bisogna preliminarmente sgombrare il campo da alcuni possibili equivoci che riguardano la psicoanalisi lacaniana, se non vogliamo farle torto. Tenersi fermi ad essi ci potrebbe sì aiutare a sedare le nostre inquietudini, ma solo grazie al miraggio di differenze più apparenti che reali. Se la psicoanalisi fosse terapia, mentre la consulenza filosofica, come si sa, non è e non può (legalmente) esserlo, la differente intenzionalità con cui le due attività sono praticate potrebbe bastare a distinguerle. Tuttavia la psicoanalisi lacaniana non si concepisce affatto come terapia, nel senso comune della parola: soprattutto non si annovera tra le psico-terapie, che concepiscono il “soggetto” da “guarire” come una sorta di macchina rotta da aggiustare. Lacan precisa: [Lo psicoanalista], avvertito com’è da Freud di saper badare agli effetti, nella sua esperienza, di ciò di cui il termine furor sanandi annuncia abbastanza bene il pericolo, in fin dei conti non tiene poi tanto ad averne l’apparenza [di uno che guarisce]. Se dunque ammette la guarigione come un soprappiù di benefico della cura psicoanalitica, egli si guarda da qualsiasi abuso del desiderio di guarire 2.

Ciò che la psicoanalisi lacaniana ha piuttosto di mira, come vedremo meglio subito, è la verità riguardo al soggetto, non la sua salute (se non come “effetto collaterale”). Lacan, in particolare, rifiuta di “curare” non solo i sintomi in cui si esprime il disagio di una persona, ma anche le presunte cause di natura organica di cui i sintomi sarebbero gli effetti. Neppure si può banalizzare la differenza tra le due pratiche col dire che, mentre lo psicoanalista costringerebbe interpretativamente il discorso del proprio interlocutore dentro la “griglia” dei suoi schemi preconcetti, il consulente filosofico lo ascolterebbe senza alcun pregiudizio, in modo oggettivo e neutrale. Quale ascolto, infatti, potrebbe mai essere del tutto neutrale? Un pregiudizio non sembra meno tale se deriva dalla visione del mondo di un determinato consulente filosofico piuttosto che da quella del sig. Sigmund Freud. Discutibile anche l’opinione secondo la quale lo psicoanalista, a differenza del consulente filosofico, fornendo al soggetto in analisi la sua interpretazione di quello che ascolta, lo suggestionerebbe predeterminando, quindi, occultamente l’esito del processo analitico. Lo psicoanalista lacaniano, collocandosi “nel posto del morto”, intende, piuttosto, lasciare la parola al soggetto, all’analizzante. Di fatto egli interviene assai meno, con consigli, 2

Jacques Lacan, Scritti (1966), tr. it. Torino, Einaudi, 1974, p. 218. Corsivi miei, come pure tutti quelli delle citazioni seguenti.

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suggerimenti, interpretazioni, della media dei consulenti filosofici di cui si ha notizia. Si dirà: proprio il suo silenzio potrebbe essere ancor più suggestivo di una franca replica! Può darsi, ma resta, intanto, un fatto comune alle due pratiche: la sola presenza di un altro non può che condizionare, comunque, ciò che il “soggetto” dice, qualunque cosa l’altro dica o non dica, faccia o non faccia. Infine, sarebbe probabilmente semplicistico affermare che la psicoanalisi assolverebbe a priori il soggetto da ogni senso di colpa, grazie all’alibi dell’inconscio, mentre la consulenza filosofica lo costringerebbe ad assumersi le sue responsabilità. L’approccio lacaniano pretende, infatti, di indurre il soggetto ad assumersi la responsabilità perfino di ciò che egli si nasconde3.

L’elemento filosofico della pratica lacaniana: il lògos “Disgraziatamente” Lacan non si limita a poter essere letto come un “filosofo”, né a dribblare le trappole di chi lo vorrebbe bollare come “psicologo” troppo a buon mercato, ma, se tutto ciò non bastasse, intende esplicitamente rinverdire un’autentica pratica filosofica, dialogica, come quella greca, sebbene adeguata ai mutati scenari culturali. Un passo della celebre Conferenza di Roma del 1953 (ma riscritto nel 1966), che segna lo “strappo” della corrente lacaniana dalle altre scuole freudiane, mette in luce il debito della pratica di Lacan verso la tradizione della filosofia occidentale: [Questo riferimento a Hegel] non significa che non abbiamo nulla da imparare dell’elasticità della maieutica di Socrate, o dal procedimento affascinante della tecnica con cui Platone ce la presenta – non foss’altro che per sperimentare in Socrate e nel suo desiderio l’enigma intatto dello psicoanalista, e per situare in rapporto alla scopia platonica il nostro rapporto con la verità: in questo caso, in modo tale che rispetti la distanza tra la reminiscenza che Platone è portato a supporre in ogni avvenimento dell’idea, e l’esaurimento dell’essere che si consuma nella ripetizione di Kierkegaard 4.

Che cosa Lacan vuole “imparare” dalla maieutica di Socrate e dall’intera tradizione filosofica? Sembra che egli voglia acquisire una tecnica che gli consenta di mettersi nel giusto rapporto con la verità, la quale gli si presenta come enigma.

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Cfr. Massimo Recalcati, Elogio dell’inconscio. Dodici argomenti in difesa della psicoanalisi, Milano, Bruno Mondadori, 2007, pp. 25 ss. 4 Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 286.

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Forse non tutti i consulenti filosofici si esprimerebbero in questo modo, ma come negare a un possibile consulente filosofico la legittimità di esprimersi in termini analoghi, senza perciò abdicare alla specificità della propria “professionalità”? Il dialogo filosofico, come la psicoanalisi, non si fonda essenzialmente sulla parola degli interlocutori in campo, inseguita nei suoi “giochi”? Tale dialogo non ha di mira proprio la verità, per quanto parziale e provvisoria, di cui la parola può essere veicolo? Foucault ha ben colto proprio nel rapporto tra soggetto e verità ciò per cui Lacan riattualizzerebbe il filosofare dei Greci non come terapia in senso moderno, ma come cura di sé, epimèleia heautôu: Lacan è il solo, mi pare, ad aver voluto ricentrare la questione della psicoanalisi proprio attorno al problema dei rapporti tra soggetto e verità. Ciò significa che, nonostante sia avvenuto in termini che sono, ovviamente, del tutto estranei alla tradizione storica di questa spiritualità5 – che si tratti di quella di Socrate o di quella di Gregorio di Nissa o di chiunque altro si collochi tra i due – ovvero [sia avvenuto] nei termini che erano quelli propri del sapere analitico, Lacan ha comunque cercato di porre una questione che è, da un punto di vista storico, una questione propriamente spirituale, vale a dire la questione del prezzo che il soggetto dovrà pagare per poter dire il vero, e quella dell’effetto prodotto sul soggetto stesso dal fatto di aver detto, di poter dire e di dire il vero su se stesso. Facendo riemergere tale questione, credo che Lacan abbia effettivamente provocato la riapparizione, e proprio all’interno della psicoanalisi, della più antica tradizione, della più vecchia interrogazione, della più remota inquietudine di quell’epimèleia heautou [cura di sé] che ha rappresentato la forma più generale della spiritualità6.

Ma in che modo la questione del soggetto e quella della verità, in Lacan, abiterebbero la parola? La domanda è pertinente, se vogliamo comprendere la compatibilità dell’approccio lacaniano con quello di una possibile pratica filosofica. In Lacan si tratta di una parola che, nella misura in cui rimane al livello del “si dice” del linguaggio, è “vuota”, ingannevole, ma che, proprio in quanto tale, mantiene un rapporto negativo con una verità che, implicitamente, presuppone e a cui, dunque, comunque rinvia (a saperla intendere): Anche se non comunica nulla, il discorso rappresenta l’esistenza della comunicazione; anche se nega l’evidenza, afferma che la parola costituisce 5

Con il termine “spiritualità” Foucault intende caratterizzare la pratica filosofica antica (soprattutto di età ellenistica) in quanto esercizio di cura di sé, secondo la ricostruzione di Pierre Hadot. 6 Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-82), tr. it. Milano, Feltrinelli, 2004, pp. 26-27.

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la verità; anche se è destinato ad ingannare, specula sulla fede nella testimonianza7.

Lacan parla di parola e di simbolo, ma intende riferirsi anche al concetto, proprio quello che secondo alcuni8 sarebbe il proprium su cui si esercita la consulenza filosofica; concetto di cui Lacan coglie l’origine dalla parola in una pagina degna del miglior Heidegger: Perché l’oggetto simbolico liberato dal suo uso divenga la parola liberata dell’hic et nunc, la differenza non sta nella qualità, sonora, della sua materia, ma nel suo essere evanescente in cui il simbolo trova la permanenza del concetto. Attraverso la parola che è già una presenza fatta d’assenza, l’assenza stessa giunge a nominarsi in un momento originario [...] Attraverso ciò che non prende corpo che per il fatto d’essere la traccia d’un nulla e il cui supporto non può quindi alterarsi, il concetto, salvando la durata di ciò che passa, genera la cosa. Perché non basta ancora dire che il concetto è la cosa stessa, cosa che un bambino sa dimostrare contro la scuola. È il mondo delle parole a creare il mondo delle cose, inizialmente confuse nell’hic et nunc del tutto in divenire, dando il suo essere concreto alla loro essenza, e ovunque il suo posto a ciò che è di sempre: ktèma es aèi 9.

Ebbene questa parola-concetto, così ambivalente nella sua capacità d’ingannare, nella misura, invece, in cui, grazie al “dialogo” psicoanalitico, riesce a ritagliarsi un sorta di “gioco” nell’intreccio inter-soggettivo (o transindividuale) del linguaggio (dell’ordine simbolico), può riuscire far emergere qualcosa della verità (storica) attingibile dal soggetto stesso: I mezzi [della psicoanalisi] sono quelli della parola in quanto conferisce alle funzioni dell’individuo un senso; il suo ambito è quello del dicorso concreto in quanto campo della realtà transindividuale del soggetto; le sue operazioni sono quella della storia in quanto costituisce l’emergenza della verità nel reale 10. È dall’intersoggettività dei “noi” che esso assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola11.

Può una consulenza che si voglia filosofica avere di mira qualcosa di meno di tutto questo? Fin qui sembra trattarsi di verità e di discorso, anzi di dialogo, come luogo di ricerca di una parola che non solo “interessi” o “piaccia” al 7

Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 245. Cfr. Luciana Regina, Consulenza filosofica: un fare che è pensare, Milano, Unicopli, 2006, p. 36 e passim. 9 Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 269. 10 Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 251. 11 Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 292. 8

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soggetto o magari lo “guarisca”, ma che deve anche essere intersoggettivamente verificata quanto alla qualità proprio conio. Sul fatto che si tratti di una pratica che deriva proprio dalla filosofia Lacan è esplicito: Practiciens quali noi siamo della funzione simbolica, è stupefacente il fatto che ci guardiamo dall’approfondirla fino al punto di misconoscere che proprio essa ci colloca al cuore del movimento che instaura un nuovo ordine nelle scienze rimettendo in questione l’antropologia. Questo nuovo ordine non significa altro che un ritorno a una nozione di vera scienza, i cui titoli sono già iscritti in una tradizione che comincia dal Teeteto12.

E Freud? Che fine ha fatto colui di cui Lacan si considera l’autentico erede? L’ipotesi che Lacan fa sembra fatta apposta per rimescolare tutte le carte: [I principi che governano la parola di Freud] altro non sono che la dialettica della coscienza di sé, quale si realizza da Socrate a Hegel 13.

Lacan, in particolare, chiarisce di applicare (si direbbe “trascendentalmente”) Freud a Freud stesso, per correggerne gli errori, in una sorta di meta-psicoanalisi che, mettendo in discussione i presupposti positivistici e “immaginari” della scolastica psicoanalitica (per esempio i concetti di Io, Es, Super-Io, concepiti quasi come entità metafisiche), si rivela non altro che il tipico procedimento filosofico della messa in crisi di un sapere facendo reagire le sue implicazioni con i suoi stessi principi. Lacan, dunque, prende sul serio la filosofia, in senso classico, come attività maieutica volta a discriminare nel soggetto parlante (fosse pure il suo maestro Freud) il vero dal falso. La “verità” risulta dalla catarsi o purificazione di ogni falsa certezza, di ogni illusione (ciò che Lacan ascrive all’ordine di quello che egli chiama “immaginario”): L’arte dell’analista deve essere quella di sospendere le certezze del soggetto, finché se ne consumino gli ultimi miraggi14.

Questi miraggi non sembrano altro che i fantasmi (altro termine chiave della psicoanalisi) che la maieutica di Socrate, modello per Lacan, si vantava di saper riconoscere: 12 13 14

Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 277. Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 285. Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 245.

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Ebbene, per quanto riguarda la mia arte di ostetrico, essa, per il resto, è tale quale quella delle levatrici, ma differisce per il fatto che si esercita su uomini e non su donne e sorveglia le loro anime partorienti, non i corpi. E la cosa enorme nella mia arte è che è assolutamente possibile distinguere se l’anima del giovane genera un fantasma o una menzogna o piuttosto qualcosa di vitale e di vero15.

Certo, in Lacan la verità, questo “qualcosa di vitale e di vero”, al di là di tutti i fantasmi, appare, in quanto tale, ineffabile, non nel senso che essa sia colta nel silenzio, ma nel senso che costituisce un’esperienza della parola irriducibile alla forma in cui essa si esprime, forma costituivamente ambivalente, perché simbolica, dunque passibile sempre di mistificazione. Ma anche questa “sapienza” dell’irriducibile è condivisa, a ben vedere, dalla tradizione filosofica, almeno di quella che, nel solco del platonismo di ogni tempo, non crede alla risolvibilità della dialettica nella logica della definizione (aristotelica), ma testimonia, piuttosto, dell’imprescindibilità di un’esperienza (inter)soggettiva di conoscenza, maturata attraverso il dialogo e una vita in comune16. Per tutto questo la psicoanalisi, non diversamente da una consulenza davvero filosofica, non avrebbe senso se non mettesse al centro della propra pratica lo stesso soggetto alla “ricerca” della propria verità. Lacan, infatti, interpreta la progressiva manifestazione della verità all’interno del dialogo alla luce di un fondamentale corollario, suggerito da Freud ma ben noto anche, ad esempio, alla tradizione antica, a cui si riferiscono volentieri Hadot e Foucault (spesso considerati riferimenti obbligati della rinascita della filosofia come pratica17): in questa attività (intersoggettiva, dialettica) si costituirebbe la stessa soggettività del soggetto “esaminantesi”; in tale ricerca ne andrebbe di lui stesso: Il soggetto si costituisce nella ricerca della verità18.

Come diceva anche Plotino: L’anima è e diviene ciò che contempla19.

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Platone, Teeteto, 149b-c. Per l’eco di tale tradizione (neo)platonica in Schelling mi permetto di rinviare al mio Ordine e mistero. Ipotesi su Schelling, Padova, Unipress, 2000. 16 Cfr. le indicazioni della Lettera VII di Platone e il tratto ineffabile dell’arché in Plotino, attingibile solo per esperienza diretta (cfr. Plotino, Enneadi, V, 5, 6, 25 e passim). 17 Cfr. lo stesso Gerd Achenbach, Saper vivere. Per una vita piena di significato e di valore, tr. it. Milano, Apogeo, 2006, p. 65, n. 6. 18 Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 302. 19 Cfr. Plotino, Enneadi, IV, 3, 8, 15.

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Il soggetto, dunque, appare il solo a poter decidere in ultima istanza di se stesso (ad esempio quando iniziare e quando concludere un’analisi) e se assumersi o meno la responsabilità di ciò che via via “scopre”. L’idea, infatti, che dovrebbe differenziare la psicoanalisi da ogni psicoterapia, ma non dalla consulenza filosofica, è che il soggetto in campo non dovrebbe mai costituire l’oggetto di un intervento terapeutico, per quanto animato dalle più nobili intenzioni, ma restare sempre “protagonista” della scena dialogica: L’analisi non può avere altro scopo che l’avvenimento della parola vera, e la realizzazione da parte del soggetto della sua storia nel suo rapporto con un futuro. Il mantenimento di questa dialettica si oppone a qualsiasi orientamento oggettivante dell’analisi20.

Questo approccio non può non mettere in questione l’alienazione a cui il soggetto è, invece, esposto nel mondo che lo circonda, dominato da una certa nozione di “sapere” e di “salute” (ciò che, in altro contesto, è stato chiamato il “paradigma terapeutico”21), contro il quale Lacan (e sembra di sentire l’ultimo Ran Lahav) gioca il paradigma della “saggezza”: Il terzo paradosso della relazione del linguaggio con la parola è quello del soggetto che perde il suo senso nelle oggettivazioni del discorso. [...] È questa [...] l’alienazione più profonda del soggetto della civiltà scientifica, ed è questa che incontriamo per prima quando il soggetto comincia a parlarci di sé: tanto che, per risolverla integralmente, l’analisi dovrebbe forse esser condotta fino all’estremo della saggezza22.

Fin qui, dunque, dialogo psicoanalitico (così come riformato da Lacan rispetto a Freud) e dialogo filosofico sembrerebbero del tutto sovrapponibili, almeno in una possibile accezione di dialogo filosofico.

La questione del desiderio Un primo punto di frizione tra psicoanalisi lacaniana e consulenza filosofica potrebbe riguardare il tema del desiderio che Lacan considera ciò il cui riconoscimento dovrebbe costituire la “posta in gioco” di un’analisi:

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Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 295 Cfr. Neri Pollastri, Op. cit., pp. 90 ss. Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 274.

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La posta in gioco di una psicoanalisi è l’avvento nel soggetto di quella poca realtà che questo desiderio vi sostiene, nei confronti dei conflitti simbolici e delle fissazioni immaginarie, come mezzo del loro accordo, e la nostra via è l’esperienza intersoggettiva in cui questo desiderio si fa riconoscere23.

Lacan presuppone che il soggetto sia “giocato” dal linguaggio che parla e dalla seduzione dei fantasmi che lo abitano, in modo tale da rischiare di non accedere mai al proprio desiderio. La “verità” di cui il soggetto è alla ricerca sarebbe, dunque, quella del proprio “desiderio”. Questa congerie di presupposti sembra francamente ingombrare un po’ troppo il lavoro di un consulente filosofico. Certo, come nel caso di ogni altra congerie di presupposti “filosofico-antropologici” (per esempio che il “soggetto” sia caratterizzato dal proprio “essere per la morte” o esprima in forma camuffata una “volontà di potenza” ecc.), non si può impedire a un determinato consulente filosofico, appassionato lettore di Lacan, come altri possono esserlo di Heidegger o di Nietzsche, di “immaginare” che il proprio interlocutore sia animato da un “desiderio” la cui “verità” gli sfugge e che si tratterebbe di riconoscere. Tuttavia i “testi” di Lacan su cui l’ipotetico consulente si fosse formato non dovrebbero “valere più” del “testo” del dialogo che egli intrattiene, qui e ora, con il proprio interlocutore in carne e ossa: il corso del dialogo concreto dovrebbe, anzi, suggerire a entrambi gli interlocutori se, davvero, il “problema” posto dal “consultante” porti alla questione del desiderio che lo abita o, invece, ad altro. Un aspetto particolare e drammatico del desiderio tematizzato dalla psicoanalisi è quello per cui si può trattare di desiderio di morte, ossia di qualcosa che desideriamo a nostro danno, contro quello che sembra il bene che sarebbe “socratico” ricercare. Anche in questo caso nihil novi sub soli. Non è affatto necessario basarsi sulla psicoanalisi per sapere che qualcuno, come Medea in Euripide, Seneca e Ovidio, può esclamare “Video meliora proboque deteriora sequor” (“Vedo le cose migliori e le approvo, ma faccio le peggiori”)24. L’intellettualismo socratico era oggetto d’ironia già in antico. Esso decade completamente in prospettiva cristiana: la dottrina del peccato originale è un modo in cui, in fondo, abbiamo imparato a dirci che non tutto ciò che vogliamo è in potere della nostra ragione. Schopenhauer e Nietzsche, in altra forma, ribadiscono questo gap. Ebbene, il filosofo consulente, senza presupporre che il proprio interlocutore sia animato per forza da tendenze suicide, cercherà semplicemente di capire, nel gioco delle

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Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 272. Cfr. Ovidio, Metamorfosi, VII, vv. 20-21.

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domande e delle risposte, che cosa egli veramente voglia, fosse pure la propria morte; e perché. Tuttavia questa precoce divergenza tra punto di vista filosofico e punto di vista psicoanalitico potrebbe in parte “rientrare”, se solo consideriamo i presupposti di una consulenza filosofica in quanto filosofica. Se l’ordine simbolico non è che quello del linguaggio, medium di cui anche il filosofo non può non valersi, i conflitti che vi si producono potranno essere intesi, forse, come aporie. D’altra parte, se la maieutica è l’arte che discrimina il vero dal falso nel discorso del “partoriente”, le fissazioni immaginarie di cui Lacan parla, saranno interpretabili, forse, come gli equivoci, gli inganni, gli idòla (di baconiana memoria) che non c’è quasi filosofo che non si faccia un vanto di smascherare. Il desiderio, infine, in cui per Lacan si tratta di riconoscere la “verità” del soggetto, è davvero un alieno nel “mondo di Sofia”? Se filosofia è amore della saggezza e, da Platone a Gerd Achenbach25, vede nell’èros il proprio segreto motore, possiamo davvero immaginare che in una consulenza filosofica, nella quale ciascuno dei due interlocutori si metta veramente in gioco, non sia in gioco anche il loro desiderio, se non altro nella forma (sublimata?) del desiderio di sapere? L’approccio filosofico tradizionale – è vero – sembra limitarsi a discriminare tra oggetti dell’appetitus adeguati (Dio o il Bene o la Verità stessa) e inadeguati (ciò che “fa gola” in un vizio), mentre nella psicoanalisi si tratterebbe, piuttosto, di riconoscere quale sia e, soprattutto, di chi sia l’appetitus che ci muove (“il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro”26, recita Lacan, come un mantra). Tuttavia potrebbe trattarsi di una differenza puramente formale, se il filosofico “desiderio di un oggetto ingannevole” viene ritrascritto nei termini di uno psicoanalitico “desiderio ingannevole di un oggetto”27. Pensiamo, ad esempio, al desiderio di Alcibiade per il “corpo” di Socrate (oggetto inadeguato rispetto al vero scopo di èros). Socrate si presta, fino a un certo punto, al gioco di Alcibiade che crede di esserne innamorato; anzi Socrate favorisce questa sorta di transfert; fingendo di essere innamorato di lui (dunque prestandogli l’immagine del proprio desiderio) salvo poi, sottraendosi al giovane ateniese, tentare (come sappiamo, invano) di mettere Alcibiade 25

Achenbach parla, ad esempio, a proposito dello stile della consulenza filosofica, dell’«eros ermeneutico che ‘entra’ nella cosa e che le comunica l’impulso per la propria esplicazione». Cfr. Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, tr. it. Milano, Apogeo, 2004, p. 22. 26 Cfr. Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 92 e passim. 27 Cfr. Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 817: «La nescienza in cui l’uomo versa circa il suo desiderio è meno nescienza di ciò che domanda, che dopo tutto si può delimitare, che nescienza riguardo a donde desidera».

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davanti alla “verità” del proprio desiderio, come desiderio di verità (cioè di sapere, di filosofia, oggetti adeguati dell’èros, piuttosto che di un corpo)28. Con questo gioco di specchi Platone sembra suggerire che il solo vero amore è quello della Verità (o del Bello, il che è lo stesso), mentre quello rivolto alle sue immagini ingannevoli sarebbe, in effetti, esso stesso il frutto di un inganno. Certo, il “desiderio” lacaniano è l’erede della libido freudiana e di una serie di speculazioni cosiddette “pansessualiste” da cui, ancora una volta, il filosofo consulente può ben prescindere. Ma proprio l’ordine simbolico messo in gioco da Lacan (contro Freud) “sublima” a tal punto, in Lacan, l’antica matrice “biologica” del desiderio freudiano (il desiderio è un derivato tanto del bisogno quanto della domanda, che si esprime nel linguaggio29, così come Eros, in Platone, nasce da Poros e Penia30) che diventa davvero difficile distinguere se il desiderio che ha in mente Lacan sia solo la metafora di pulsioni ben più materiali o se, al contrario, termini come “fallo”, “corpo in frammenti” e così via non costituiscano, in Lacan, piuttosto metafore di alcunché di ineffabile come l’èros filosofico. In ultima analisi, fin qui potremmo dire che, date le obiettive (possibili) tangenze tra psicoanalisi lacaniana e pratiche filosofiche, una pratica filosofica e una psicoanalitica che muovesse da premesse lacaniane potrebbero (non: dovrebbero), almeno per un buon tratto, apparire ancora indistinguibili, senza scandalo31. Ma rimane l’ultimo e più insidioso ostacolo, su cui finora si è studiatamente taciuto: il nodo dell’inconscio.

L’ipotesi dell’inconscio in quanto tale Il nodo in cui consulenza filosofica e psicoanalisi lacaniana misurano insieme la massima prossimità e la massima distanza, a seconda di come lo sbrogliamo, appare proprio quello dell’inconscio. La nozione di inconscio 28

Cfr. l’analisi che Pierre Hadot fa di questo gioco delle parti, così com’è narrato da Platone nel Simposio, in Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it. Torino, Einaudi, 1988, pp. 87-117. Cfr. anche Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 829. 29 Cfr. Jacques Lacan, Scritti, cit., pp. 623 ss. 30 Cfr. Platone, Simposio, 203 a-d. 31 Se, ad esempio, l’ascolto della registrazione audio di una (pretesa) consulenza filosofica rendesse impossibile distinguere, a chi già non lo sapesse, se si tratti, appunto, di consulenza filosofica o piuttosto di una seduta di psicoanalisi lacaniana, al malcapitato (sedicente) consulente filosofico dovrebbe essere almeno concessa una prova d’appello prima della definitiva radiazione dal registro dei suoi pari!

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per molti consulenti filosofici, come Lahav32 o Pollastri33, distinguerebbe, infatti, essenzialmente la pratica psicoanalitica da quella filosofica e sarebbe, pertanto, qualcosa da cui in una pratica filosofica propriamente detta si dovrebbe prescindere. Si sarebbe tentati di porre questa tesi come necessaria premessa di “qualsiasi futura pratica filosofica”, se non fosse, probabilmente, più produttivo ricavarla piuttosto a conclusione di una pratica di pensiero; a cominciare da quella che consiste nell’elaborare queste righe. Va chiarito, preliminarmente, che nessuno dice o può dire che la filosofia, in quanto tale, debba necessariamente prescindere dall’ipotesi dell’inconscio, dal momento che, storicamente, è proprio dalla filosofia che la psicoanalisi lo ha mutuato. Nello stesso Freud quella dell’inconscio funziona proprio come un’ipotesi fin troppo filosofica, nel senso di “metafisica”. Perché, in termini freudiani, un determinato comportamento (lapsus, atto mancato, sogno ecc.) può venire letto come sintomatico, ossia come una “formazione dell’inconscio”? Perché esso sembra non avere senso nell’ipotesi che ogni nostro gesto sia intenzionale. L’ipotesi “filosofica” qui è quella del determinismo psichico. Sulla base di questa ipotesi se qualcosa non ha un senso cosciente per me che la compio deve avere un senso inconscio, cioè, letteralmente, un senso di cui io non sono consapevole. In questa prospettiva il sospetto consiste nel “vedere sotto” (sub-spicere) a qualcosa che non ha senso qualcosa che ha senso. Di qui all’attribuzione di quest’intenzionalità ipotetica a una sorta di sotto-soggetto che agisce a mia insaputa attraverso il mio corpo (lo si chiami Es, Io, Super-Io ecc.) il passo è breve. Ora, come si sa, una concezione molto simile si ritrova nella “teoria del corpo come grande ragione” di Nietzsche34 (ed è passata a Freud tramite la nozione di Es in Groddeck). Ma, a ben vedere, l’idea di una pluralità di intenzionalità in competizione all’interno dello stesso soggetto risale almeno alla concezione dell’anima tripartita secondo Platone e Aristotele, se non al dàimon socratico. Si noti che il riferimento a una qualsiasi teoria in sede di consulenza filosofica non dovrebe essere legittimato o meno dalle “credenziali filosofiche” o presunte tali del suo autore, quanto dalla pertinenza del riferimento (fosse anche a un principio della termodinamica o a una fantasia mistica) al determinato passaggio dialogico. 32 Cfr. Ran Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, tr. it. Milano, Apogeo, 2004, pp. 105 ss. 33 Cfr. Pollastri, Op. cit., pp. 105 ss. Cfr. anche, sul punto, il contributo di Pollastri che apre la serie dei saggi del presente volume. 34 Cfr. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, tr. Milano, Adelphi, 1984, vol. I, p. 35.

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È del tutto evidente, allora, che, se quella dell’“inconscio” è un’ipotesi, anche la sua negazione – ossia, l’idea che il soggetto sia qualcosa di unitario e di coeso – lo è altrettanto. Il filosofo consulente, in quanto filosofo, non sembra dover presupporre nessuna delle due ipotesi, senza essere disposto a metterla a sua volta in questione sulla base dell’esperienza di un dialogo concreto.

La questione dell’uso dell’inconscio nella pratica: convergenze Ma la vera questione, da cui nasce – si direbbe – la legittima diffidenza di tanti consulenti filosofici per l’inconscio, non concerne tanto la “teoria” dell’inconscio come tale, quanto il modo in cui si possa o non possa tener conto dell’ipotesi dell’inconscio nel corso di un concreto dialogo filosofico. Il problema nasce se consideriamo la natura del patto implicito che lega le parti di una consulenza filosofica. Quale che sia la teoria dell’inconscio a cui il consulente filosofico dà personalmente credito, rimane che egli si impegna a esercitare la sua arte con colui con cui stringe il patto e non con “qualcosa dentro di lui”. L’interlocutore del consulente, insomma, almeno in prima istanza, anche sul piano giuridico, sembra dover essere il soggetto consapevole che gli si rivolge, anche se si dovesse malauguramente scoprire, nel corso del dialogo stesso, che un soggetto di questo tipo propriamente non esiste (e tale non fosse neppure lo stesso consulente!). Ma come stanno le cose nel “campo lacaniano”? Si può imputare alla psicoanalisi di misconoscere questo presupposto che sembra implicito in qualunque tipo di pratica a due? Che cosa intende Lacan per inconscio? Per Lacan, in realtà, a differenza – si direbbe – che per lo stesso Freud, non “esiste” alcun inconscio al di là delle parole di un soggetto; inconscio che lo psicoanalista, consultando la sua “sfera magica”, possa “leggere” e magari restituire al “paziente”, come un medico potrebbe diagnosticare le cause dei sintomi di cui il “malato” soffre: Questa illusione che ci spinge a cercare la realtà del soggetto al di là del muro del suo linguaggio è la stessa per cui il soggetto crede che la sua verità sia già data in noi, che noi la conosciamo in anticipo35.

Semmai, dunque, è il soggetto stesso che “immagina”, accedendo all’analisi, di “avere” un inconscio che gli sfugge; “miraggio” forse fun-

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Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 301.

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zionale all’analisi, ma da correggere. Ma che cos’è, dunque, l’inconscio? Risponde Lacan: L’inconscio è quella parte del discorso concreto in quanto transindividuale, che difetta alla disposizione del soggetto per ristabilire la continuità del suo discorso cosciente36.

L’inconscio, dunque, è semplicemente una parte del discorso che facciamo, ma che non sappiamo di fare: le cose che in qualche modo diciamo, ma che misconosciamo di dire. Se prendiamo alla lettera questa definizione, mettendo tra parentesi ciò che sappiamo della concreta pratica psicoanalitica, anche lacaniana, siamo davvero certi che la pratica filosofica non vi abbia niente a che spartire? Agatone, nel Simposio, scopre che quello che Socrate lo ha costretto ad ammettere contraddice quanto lui stesso in un primo tempo aveva “creduto di credere”: “Temo proprio – disse Agatone – di aver parlato senza sapere quel che dicevo”. “Però il tuo discorso era molto elegante, Agatone”. [...] “Socrate – disse Agatone –, io non sono in grado di contraddirti: ammetto quel che tu dici”. “No, carissimo Agatone – disse Socrate –, non me, ma la verità tu non puoi contraddire: Socrate, lui sì che è facile contraddirlo”37.

Agatone credeva di credere a qualcosa, ma Socrate, portando maieuticamente alla luce le aporie in cui via via il giovane si imbatte, gli rivela che quello a cui Agatone credeva di credere, in effetti, non è alcunché (è un “fantasma”). Che cos’è, più in generale, in filosofia, il falso? Secondo il Sofista di Platone che, come si sa, sviluppa un’originaria intuizione di Parmenide, opinare e dire i non enti; questo è, credo, il falso che si genera nel pensiero e quindi anche nei discorsi38.

Non si può dire (e intendere) altro che il vero, perché dire (e intendere) il falso è non dire (e intendere) niente. Se ne desume che chi, non dicendo niente, crede di dire qualcosa, misconosce ciò che dice. Ma il sapere di non sapere del filosofo, animato da un desiderio di sapere che non sembra mai esaudibile – condizione che è spesso considerata come irrinunciabile per il consulente filosofico che non voglia indottrinare chi gli si rivolge – non 36 37 38

Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 252. Platone, Simposio, 201c-d. Platone, Sofista, 260c.

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è, appunto, quella di chi sa di misconoscere qualcosa, al pari del suo stesso interlocutore? Nel senso radicale che abbiamo assegnato all’inconscio “lacaniano”, dunque, si potrebbe arrivare perfino a sostenere (provocatoriamente) che la filosofia non può non presupporre come propria condizione l’inconscio, ossia il misconoscimento di quello che si dice quando si parla, nell’attesa di una “verità”; attesa che, come quella beckettiana di Godot, si sa, probabilmente, eternamente delusa. Lacan, tuttavia, caratterizza l’inconscio anche come il “discorso dell’altro”: L’inconscio del soggetto [è] il discorso dell’altro39.

Questa tesi si chiarisce alla luce di un’ulteriore ipotesi che Lacan formula: Il linguaggio umano costitui[sce] una comunicazione in cui l’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita40.

Questa ipotesi si chiarisce ulteriormente in questo modo: Si può dire [...] che la parola si manifesta come una comunicazione in cui non solo il soggetto, attendendo dall’altro che renda vero il suo messaggio, lo proferirà in forma invertita, ma anche in cui questo messaggio trasforma il soggetto annunciando che è il medesimo. Come appare in ogni promessa di impegno, in cui le dichiarazioni “sei mia moglie” o “sei il mio maestro” significano “sono il tuo sposo”, “sono tuo discepolo”41.

Lacan ha in mente ciò che la filosofia analitica del Novecento (Austin) ha chiamato “performativo” e in cui egli rintraccia la funzione originaria del linguaggio: ossia quella di “costituire” il soggetto che parla a partire dal riconoscimento che riceve, anche implicitamente, dal proprio interlocutore. La funzione del linguaggio non è quella di informare, ma di evocare. [...] Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà [...] Se chiamo colui a cui parlo, con il nome, quale che sia, che gli dò, io gli intimo la funzione soggettiva che egli riprenderà per rispondermi, foss’anche per ripudiarla. Ecco allora la funzione 39 40 41

Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 258. Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 291. Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 343.

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decisiva della mia propria risposta che non consiste soltanto, come si dice, nel fatto di essere ricevuta dal soggetto come approvazione o rifiuto del suo discorso, ma veramente nel fatto di riconoscerlo o abolirlo come soggetto42.

La verità che è in gioco nel discorso, in questo senso, non ha niente a che fare con l’esattezza di un enunciato descrittivo, come un’adaequatio ad rem, ma è piuttosto qualcosa che produce ciò su cui verte. Il soggetto, come abbiamo già notato, nel dialogo analitico, in quanto intersoggettivo, fa esperienza di verità in quanto, attraverso di essa, si costituisce come soggetto. Ora viene in chiaro che, come nella dialettica hegeliana del servo e del signore, che Lacan presuppone, ciascuno diventa ciò che è in quanto è riconosciuto dall’altro; in un processo che, tuttavia, per essere vitale e non fissare ciascuno in ingannevoli “immagini di sé”, deve rivelarsi inesauribile. L’inconscio, qui, come il discorso che l’altro ci rivolge (se dici: “Sei il mio maestro”, ciò implica che sei il mio discepolo, senza bisogno che io dica: “Io sono il tuo maestro”; purché, tacendo, io acconsenta alla tua parola), si rivela paradossalmente “esterno” al soggetto stesso43: è quell’interno che coincide con l’esterno, come l’immagine del nastro di Moebius, spesso adoperata da Lacan, suggerisce. Si potrebbe provare a trasferire questa prospettiva al “campo filosofico” osservando come in una pratica dialogica i cui partecipanti si mettano davvero in gioco la “verità” che ne costituisce la “posta” importi la trasformazione dei soggetti stessi. Non dimentichiamo che secondo Foucault Lacan avrebbe avuto il merito di sollevare una questione che, secondo lui, era al cuore della pratica filosofica nel mondo antico, ossia la questione del prezzo che il soggetto dovrà pagare per poter dire il vero, e quella dell’effetto prodotto sul soggetto stesso dal fatto di aver detto, di poter dire e di dire il vero su se stesso44.

La pratica filosofica, se vuole davvero riprendere il filo di quella degli antichi, in questo senso (che non è, però, l’unico possibile), o è trasformativa di chi la compie (vi produce effetti), o non è affatto. D’altra parte, se il dialogo è dialogo autentico, ci si può ben attendere che ciascuno dei due interlocutori venga trasformato non tanto da quello che si sarebbe potuto benissimo dire già da solo, quanto da ciò gli deriva dalla parola dell’altro. Questa parola, senza “dire nulla” (pena il venir meno della sua funzione maieutica, nega42 43 44

Jacques Lacan, Scritti, cit., pp. 292-3. Cfr. Massimo Recalcati, Op. cit., pp. 11 ss. Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto, cit., p. 27.

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tiva), dovrà pure fare luce su ciò che fino a quel momento era rimasto in ombra: quello che veniva detto “senza sapere quello che si diceva” (come si esprime Agatone nel Simposio). In una consulenza filosofica non è neppure necessario che questa “consapevolezza” o “comprensione” sia raggiunta dal consulente (sulla base, magari, di “immaginarie” forme di “empatia”). Si può, infatti, ben ammettere, con Raabe, la possibilità che con l’assistenza del consulente, il cliente pervenga a nuove comprensioni oppure faccia esperienza di un’intuizione originale che rimarrà al di là della comprensione del consulente45.

In prima istanza, dunque, l’ipotesi dell’inconscio, con l’esigenza di riconoscimento reciproco che ne deriva, sembra del tutto compatibile con un’attività francamente filosofica. Certo, nell’idea lacaniana di una “costituzione del soggetto” a partire dal riconoscimento che egli riceverebbe dalla parola dell’altro può scorgersi anche il rischio di un dipendenza dall’altro, per quanto provvisoria. Nella pratica concreta, sotto il nome di transfert, si tratta ben più di un rischio: si tratta di una condizione dell’analisi. Ma, per ora, possiamo considerare questa “costituzione” del soggetto come una metafora dell’effetto “maieutico”, nel soggetto, dell’emergere di quella “verità” (pratica), tanto ineffabile, quanto intersoggettiva, che ha il pregio di trasformarlo.

La questione dell’uso dell’inconscio nella pratica: divergenze Eppure, una prima divergenza tra approccio psicoanalitico e approccio filosofico è facile coglierla fin d’ora. Se, come l’ipotesi dell’inconscio sembra suggerire, la trasformazione del soggetto avviene per effetto di uno “smascheramento”, il filosofo demistificatore di turno dovrà esercitare il sospetto circa il valore di verità di quanto il suo interlocutore via via gli va dicendo, sospetto che mal si accorda con il presupposto di un dialogo franco (presupposto condiviso da molti consulenti filosofici). Certo, forme di “smascheramento” della “retorica” con cui “ce la raccontiamo” sono ben note alla filosofia e, in genere, al sapere, ben prima che

45

Peter B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica. Idee fondamentali, metodi e casi di studio, tr. it. Milano, Apogeo, 2006, p. 234.

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la psicoanalisi nascesse. Il fatto, ad esempio, che excusatio non petita accusatio manifesta (“chi si scusa si accusa”) è quanto il diritto romano sapeva di quel fatto linguistico che successivamente Freud avrebbe chiamato denegazione. La filosofia (pensiamo ai “moralisti francesi” tanto cari a Lacan, ma anche ad Achenbach), non meno della “direzione spirituale”, conosce bene la retorica di chi cerca di nascondersi e di mentire, oltre che agli altri, anche a se stesso. Non è necessario essere dei “maestri del sospetto” per diffidare di chi, senza esserne richiesto, ad esempio, vanta la sua condizione spensierata in modo troppo insistente; oppure di chi dice qualcosa mentre la postura del suo corpo dice tutt’altro. Se una donna dicesse al suo uomo (o un uomo alla sua donna, i tempi cambiano...): “Non mi importa, davvero, se ti sei ancora una volta dimenticato del nostro anniversario...”, basterebbe, probabilmente, il tono della sua voce a tradire ciò che veramente sente. E non occorrerebbe certo essere Freud per accorgersene! Ma il punto, piuttosto, è un altro. Che se ne fa il filosofo dei suoi sospetti, se vuole continuare ad esercitare la greca parrhesìa, il parlar franco46? Probabilmente li confesserà delicatamente al suo ospite, per vedere “l’effetto che fa”. L’ospite colto in flagrante (non diciamo in “fallo” per non lacanizzare troppo...) potrà fare un sorriso e riconoscere il proprio maldestro tentativo di nascondersi qualcosa. Il problema vero nasce, però, se l’interlocutore non si riconosce affatto nell’ipotesi del filosofo; anzi “sembra”, in termini psicoanalitici, far resistenza o attivare le proprie difese al riguardo. Il “no” dell’interlocutore “aiuta a crescere” senz’altro il dialogo. Bisogna vedere, però, in quale direzione. Il filosofo non potrà fare a meno di sospettare, se sospetta, ma il suo interlocutore, legittimamente, continuerà a credere a ciò che crede, non essendone stato confutato. Siamo in un’impasse. Qui probabilmente si tocca il punto in cui le strade del consulente filosofico e dello psicoanalista si dividono non tanto sullo scopo da raggiungere, che, almeno nelle intenzioni di entrambi, è la verità, quanto per il modo di avvicinarglisi. Finora, infatti, nulla sembrava vietare a un consulente filosofico, che volesse “filosofare” in senso socratico, di muoversi in modo simile a uno psicoanalista lacaniano, con la sola differenza che il consulente potrebbe concedersi certamente anche molti altri stili. Se, tuttavia, approfondiamo i modi in cui concretamente operano gli analisti lacaniani (in questo assai più conservatori e “freudiani” di quanto non possa lasciar credere la rivoluzione epistemologica, a base di “filosofia”, che essi hanno 46

Sull’importanza della parrhesìa nell’esercizio antico della filosofia cfr. Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, tr. it. Roma, Donzelli, 2005.

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introdotto in psicoanalisi), possiamo effettivamente congetturare che tali modi debbano divergere, e non poco. L’analista prenderà sul serio il suo sospetto, anche se il suo “analizzante” gliene negherà il diritto, anzi, lo farà tanto più quanto più quello “denegherà”: quell’inconscio che fino ad ora era costituito semplicemente da ciò che l’altro “diceva senza saperlo”, come per Socrate, gli si arricchisce di una serie di tratti che egli assume da Freud e che fondano la sua pratica, giustificando il suo modo specifico di “trattare” il soggetto in analisi. Come è noto, il dialogo analitico è e si vuole asimmetrico. Il ruolo dell’analista è diverso da quello del cosiddetto “analizzante” sotto molteplici profili. In primo luogo l’analista occupa il “posto del morto”: La psicoanalisi rimane una relazione dialettica in cui il non-agire dell’analista guida il discorso del soggetto verso la realizzazione della sua verità47.

Si può ben immaginare come questo “silenzio” dell’analista favorisca il cosiddetto transfert, ossia il fatto che il soggetto gli attribuisca un ruolo che è parto della sua immaginazione. Per “realizzare” la verità del soggetto, quindi, l’analista si assume la responsabilità di “giocare” con i fantasmi del soggetto stesso. In definitiva l’analista non si perita di ingannare il soggetto, ritenendo che questo possa tornare, comunque, in conto della verità. E che cos’è questa se non una strategia? Si dirà che anche quella di Socrate, diretta a far innamorare Alcibiade non di lui, ma della filosofia, in un certo senso, lo era; per tacere di quella messa in atto dal filosofo-re di Platone che prevede espressamente l’esercizio dell’inganno48. Più in generale c’è da chiedersi se anche una non strategia, come quella che diversi consulenti filosofici si piccano di (non) seguire, a partire da Achenbach, non sia una strategia. Certamente potrà esserlo, ma sarà davvero compatibile con quella lacaniana? Seguiamo ancora quest’ultima: Non facciamo altro che dare alla parola del soggetto la sua interpunzione dialettica49.

Lacan, certamente, intende rifondare l’analisi come una pratica dialettica (i cui modelli sono tanto Socrate quanto Hegel), ma assegna a chi vi esercita la maieutica non tanto la funzione di fare domande, quanto quella di mettere la punteggiatura al discorso dell’altro. 47 48 49

Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 301. Cfr. Platone, Repubblica, I, 389b; V, 459c-d. Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 303.

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L’analista, dunque, si pone francamente su un piano diverso da quello del soggetto. Il suo vero interlocutore sembra essere l’inconscio dell’altro, inteso, però, ora come qualcuno che ha da dire qualcosa di cui il soggetto non solo non sa nulla, ma neppure vuole saperne niente. Questo “inconscio” si esprime certamente nel discorso del soggetto, ma facendo un altro discorso, che obbedisce a leggi proprie e con cui si può dialogare solo a un livello diverso (a quello del significante piuttosto che del significato, dice Lacan: il livello della punteggiatura, appunto; se non addirittura, del “sintomo”). Lacan – è vero – nega che l’analista debba “immaginare” un inconscio “sostantivo” come qualcosa che esiste al di là del muro del linguaggio. Eppure non si accontenta di ascoltare la parola del proprio interlocutore prendendo sul serio quello che lui effettivamente dice, ma esercita una peculiare attenzione che sembra molto più quella di una spia che non quella, ad esempio, di un amico o di un pari: L’essenziale è sapere che cosa quest’attenzione [quella dell’analista] ha di mira: non certo, e tutto il nostro lavoro è lì a dimostrarlo, un oggetto al di là della parola del soggetto, che taluni si costringono a non perdere mai di vista. [Ci vogliono] orecchi per non intendere, in altri termini per fare la detection di ciò che deve essere inteso50.

Questo esercizio di spionaggio si appunta sui lapsus del proprio ospite con maggiore attenzione che sulle sue concezioni esplicite. Potrà il consulente filosofico esercitare lo stesso sospetto, magari in buona fede, avendo di mira la verità del soggetto che gli parla? Sembra che vi siano almeno due ragioni che dovrebbero quanto meno dissuadere il consulente filosofico dall’esercitare il sospetto come fa un analista. In primo luogo esiste una tendenza storicamente emergente a considerare che il consulente filosofico, a differenza dell’analista, debba porsi su un piano di parità con il proprio interlocutore, cosa che sarebbe contraddetta dal fatto che egli, come un analista, si mettesse a giocare con i fantasmi dell’altro, sviluppando, per di più, in lui una forma di dipendenza nei suoi confronti (che la psicoanalisi teorizza come transfert). Se fissassimo, allora, un principio di simmetria tra consulente e consultante, questo già ci costringerebbe a differenziare la pratica filosofica da quella analitica. È tuttavia vero che, se si può ammettere che sia legittimo fissare i confini di una pratica, per quanto storici e provvisori, per sapere che cosa intendiamo per essa, si può però rilevare, con qualche ironia, che, in filosofia, certi confini vengono

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Jacques Lacan, Scritti, cit., pp. 246-7.

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posti proprio perché qualcuno li possa oltrepassare, altrimenti non sarebbero “confini filosofici”. In particolare la questione della simmetria tra consulente e consultante andrebbe meglio articolata, come qui non è possibile fare. Ma esiste, però, un’altra ragione, che sembra ancora più forte della precedente, a giustificazione della differenziazione della pratica filosofica dalla pratica analitica all’altezza dell’emergere di un “sospetto”, ed è la seguente: chi si rivolge a un filosofo per una consulenza non vuole essere preso nel tranello del suo discorso, spiato in quello che dice senza sapere di dirlo. Viceversa chi va in analisi si aspetta proprio questo, se non di “peggio”. La divergenza fondamentale tra le due pratiche sembra poter essere derivata da ciò che ci si aspetta che esse siano da parte di chi si rivolge loro. Esse si presentano come diverse e non possono che muovere dalla differenza delle aspettative che socialmente, dunque intersoggettivamente, le istituiscono. Dal filosofo ci si aspetta che non sospetti, che non legga tra le righe, che non voglia coglierci in fallo nei nostri lapsus o presunti tali, ma che si ponga, invece, sul piano dei significati e non dei significanti del nostro discorso. Gli si addice, anche storicamente, più il ruolo dell’intervistatore che quello del detective. Ma il filosofo – poniamo – qui e ora sospetta di qualcosa. Può farlo? Si direbbe sì. Non bisogna dimenticare che la nozione di inconscio non è riservata a pochi eletti, ma è diventata perfino triviale, come ben si sa. Chiunque può dire a un amico: «Secondo me stai “rimuovendo” qualcosa che non ti fa comodo ammettere» oppure «Aha, questo lapsus ti tradisce!» e via dicendo. Il filosofo parte dal “senso comune”, come tutti gli altri. Ma è criticamente avvertito e non dà nulla per scontato. La questione è per lui quella di come usare questo “sapere”, il più delle volte congetturale, come anche Lacan, del resto, ammette che la psicoanalisi sia51; soprattutto quando l’interlocutore non si riconosce affatto nel sospetto del filosofo. Il cammino del filosofo, allora, sembra dover essere l’inverso di quello dell’analista. L’analista parte dal discorso dell’altro e vi indaga le “formazioni dell’inconscio”, mettendosi, non solo metaforicamente, “dietro” all’altro (essendone, peraltro, implicitamente autorizzato dal cliente); il filosofo, invece, può benissimo partire dall’ipotesi che tutti noi abbiamo un inconscio, ma deve essere disposto a mettere in discussione questa stessa ipotesi a partire dal dialogo che intreccia con l’altro, vis à vis. Il primo parte dal discorso esplicito e vi scopre l’inconscio, come un detective. Il secondo può anche partire dall’ipotesi dell’inconscio, se crede, ma deve ricondurla al dialogo esplicito con il proprio consultante (e così, magari, dissolverla). 51

Cfr. Jacques Lacan, Scritti, cit., pp. 270-71; pp. 277-82 e passim.

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La questione dell’esperienza e del transfert Prima di indicare in modo più determinato quale potrebbe essere lo specifico stile del consulente filosofico che, pur non potendo esimersi dall’avere qualche sospetto sul tenore del discorso del proprio interlocutore, non voglia, tuttavia, improvvisarsi quell’analista che, comunque, non è, bisogna, forse, sciogliere altri due nodi che potrebbero intralciarlo nel proprio cammino: quello dell’esperienza analitica, che egli non può certo rivendicare, e quello del transfert, che egli non sarebbe in grado di gestire. Un argomento a cui lo psicoanalista lacaniano potrebbe ricorrere per insistere sull’importanza, per il consulente filosofico, di tener, comunque, conto dei suggerimenti della psicoanalisi è quello che consiste nel mettere in rilievo la secolare esperienza che fonda la pratica analitica. Lo stesso Lacan, nei suoi Scritti, per giustificare quelle che al profano potrebbero apparire bizzarre elucubrazioni circa la “struttura” degli oggetti di cui egli si occupa (soggetto, desiderio ecc.), ricorre e volentieri al deus ex machina dell’esperienza clinica, come se il fatto di sostare al bordo del letto (o del lettino) di qualcuno (situazione da cui deriva l’aggettivo “clinica”) conferisse al sapere psicoanalitico uno speciale valore aggiunto. L’importanza dell’esperienza è considerata così grande che Lacan non si perita di riesaminare celebri “casi” freudiani (da quello di Dora a quello del Presidente Schreber), per correggere in più di un punto l’interpretazione che ne diede il maestro austriaco; come se si potesse quasi svellere l’esperienza restituita dalla narrazione di Freud dall’impianto teorico in cui si inquadra. Ora, così facendo, ad onta del fatto che egli definisca a più riprese la psicoanalisi scienza congetturale, Lacan sembra non solo ben poco disponibile a mettere in discussione le congetture che la fondano (come già aveva osservato a suo tempo Umberto Eco52), ma, soprattutto, pare misconoscere quanto l’impianto teorico “congetturato” possa condizionare sia la conduzione di un’analisi, sia la narrazione del “caso” che ne deriva. Queste osservazioni non importano, come potrebbe sembrare, una sottovalutazione dell’esperienza in una pratica dialogica (tanto più se secolare), ma si incentrano sul problema di come sia possibile “travasare” quest’esperienza irriducibile, in cui ogni “caso” è diverso dall’altro, come anche Lacan sembra ritenere53. Tanto più che qui il travaso dovrebbe avvenire non solo da un praticante all’altro, ma addirittura da una pratica a un’altra. 52

Umberto Eco, La struttura assente. La ricerca semiotica e il metodo strutturale, Milano, Bompiani, 1968, pp. 323 ss. 53 Cfr. Jacques Lacan, Scritti, cit., p. 828: «Nessuno è un caso».

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Una soluzione del problema della trasmissione dell’esperienza potrebbe essere rappresentata dall’adozione di un adeguato modello di formazione, quale è quello costituito classicamente dall’analisi didattica (che qualcuno vorrebbe suggerire anche al consulente filosofico in erba, affinché egli possa fare i conti con i propri “fantasmi”, prima di “fare danni” ad altri). Questa soluzione scavalcherebbe, certamente, la difficoltà dell’ingenuo lettore di Lacan di intendere ed, eventualmente, discutere la teoria lacaniana (in quanto narrata), ma non la difficoltà del soggetto in analisi, didattica o meno che sia, di mettere in discussione non tanto la struttura dei “fantasmi” propri, quanto il condizionamento derivante dai “fantasmi” eventualmente “proiettati” dalla teoria stessa su quella che gli potrebbe altrimenti sembrare un’esperienza “autentica”. Ora, l’esperienza veramente autentica, radicale, in senso filosofico, sembra piuttosto quella in cui colui che la compie, per quante suggestioni gli derivino da letture e pratiche “altre”, si dimostri, di volta in volta, davvero capace di mettere in discussione la stessa cornice in cui l’esperienza si svolge, ossia ogni qualsivoglia presupposto non solo di contenuto, ma anche di metodo. Ma se così è, quale “trasmissione” si può immaginare per un’esperienza che, come già sapeva Walter Benjamin, è propriamente tale solo se è interamente compiuta dal soggetto che la fa54? Un bambino deve sapersi svezzare dalle cure dei propri genitori se vuole davvero fare esperienza. Quale che sia il debito della contemporanea consulenza filosofica ha storicamente contratto verso pratiche che, prima di lei, hanno tentato di porre la questione del rapporto che ciascuno di noi ha con la verità, questo debito non può venire saldato altrimenti che dimostrando la piena autonomia di questa nuova pratica, che tenta di fare un’esperienza originaria e radicale di quello stesso rapporto con la verità. Questo spunto ci offre la possibilità di mettere in discussione l’altra possibile obiezione, ossia quella secondo cui il filosofo consulente, ignorandone la portata, non sarebbe in grado di gestire quel fenomeno che la psicoanalisi chiama transfert. Ora, proprio come fa con l’ipotesi dell’inconscio, così il filosofo consulente metterà in discussione e sperimenterà in forma originale, se esiste, ciò che gli analisti chiamano transfert e che si produrrebbe sempre e comunque nelle relazioni a due per quel tanto che esse hanno di asimmetrico e di “immaginario”. Qualunque forma di amore (o di odio) si produca tra due che dialogano per il fatto stesso di dialogare, non c’è una ragione filosofica 54

Cfr. Walter Benjamin, Metafisica della gioventù. Scritti 1910-1918, tr. it. Torino, Einaudi, 1982, pp. 64 ss. (l’articolo intitolato Erfahrung).

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perché questo “amore” (o questo “odio”) debba essere rubricato “dogmaticamente” sotto ciò che gli analisti chiamano transfert e non, piuttosto, con “docta ignorantia”, cioè studiata ingenuità, inseguito e interrogato filosoficamente sul suo senso, nel momento stesso in cui si produce, come qualunque altro fenomeno che tocchi i due interlocutori mentre interloquiscono. A ben vedere, se Lacan ha radicalizzato filosoficamente Freud portando alle estreme conseguenze le sue ipotesi, il filosofo consulente, da filosofo, può radicalizzare lo stesso Lacan riconducendo alla loro matrice ipotetica le concezioni psicoanalitiche e riportando la “palla” epistemologica al “centro” del dialogo concreto con il proprio consultante.

La “specificità” dell’approccio filosofico Ammettiamo, ora, senza concederlo, che Lacan, come “filosofo”, abbia ragione e che, effettivamente, il “soggetto” con cui, da consulenti filosofici, dialoghiamo, non meno che quello stesso che noi stessi siamo, sia “costituito” come Lacan se lo immagina, ossia come soggetto capace di misconoscimenti. La stessa tradizione filosofica, in fondo, come abbiamo ricordato, ci suggerisce che una pratica maieutica presuppone un certo grado di misconoscimento della verità in noi stessi, mancanza che è alla base del nostro “desiderio” di sapere. La più recente filosofia del Novecento, sulla scorta di Nietzsche, pone, inoltre, come si sa, come storicamente centrale, la questione del “soggetto”, in quanto soggetto “debole”, “diviso”. Bene, anche se tutto questo fosse vero o avesse senso, rimane che ciò che il soggetto misconosce sembra che non possa essere attinto da un filosofo consulente per la “scorciatoia” di un suo lapsus o di un atto mancato o di un sogno o di una qualunque delle cosiddette “formazioni dell’inconscio”, senza che il filosofo stesso non debba rendere conto al proprio interlocutore di questa bizzarra strategia che lo farebbe somigliare così tanto a un analista; strategia alla quale, peraltro, il proprio consultante non l’ha affatto autorizzato. Il sospetto eventualmente nutrito dal filosofo potrà indurlo, piuttosto, invece che ad abbandonarsi a congetture sul “palinsesto” che si potrebbe nascondere dietro il “senso letterale” del discorso dell’altro, a porre semplicemente all’altro una domanda piuttosto che un’altra per saggiare la consistenza della “visione del mondo” che l’altro rivendica come ineccepibile, ma della cui “verità” il filosofo francamente dubita. Come qualunque altra ipotesi del filosofo (per esempio su quello che il consultante farebbe bene a fare), l’ipotesi dell’inconscio (cioè: che l’altro stia mentendo a se stesso sul proprio vero desiderio) potrà certo “influenzare” il dialogo, ma semplicemente nel senso di

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quelle precomprensioni del discorso altrui di cui il filosofo in buona fede non si può spogliare, essendo la sua pretesa neutralità impossibile55. Cionondimeno il filosofo, se è tale, deve essere altrettanto aperto e disponibile a correggere l’errore contenuto nel suo sospetto, come in ogni altro possibile pregiudizio, qualora l’altro gliene dia ragione nel corso del colloquio. Se, poi, l’inconscio “esiste” ed è davvero ciò che “dico senza sapere di dirlo”, ossia ciò che è nelle pieghe (plicae) in quello che dico, la via regia della filosofia, di sempre, alla messa in luce della verità che occulto sarà quella, “etimologica”, che consiste nell’esplicitare l’implicito sviluppando le implicazioni del mio discorso. Restando all’altezza del mio discorso consapevole, ma sviluppandone tutte le conseguenze mi potrei imbattere, infatti, grazie alla consulenza di un filosofo, proprio in quel punto di aporia che assolve la stessa funzione del lapsus psicoanalitico, come “spia” di una verità che misconoscevo; col vantaggio che nessuno mi deve convincere estrinsecamente di ciò che tale “crampo mentale” (per dirla con Wittgenstein) potrebbe rivelare di me stesso, ossia col vantaggio che nessuna ipotesi accessoria (come quella circa l’esistenza di un “rimosso” o simili) deve essere introdotta, sia pure provvisoriamente o problematicamente, per spiegare la mia aporia. Per spiegare, “esplicare” un’aporia, infatti, non c’è che da svilupparne le implicazioni. Il punto di contraddizione mi fa scoprire che quello che credevo di credere potrebbe non essere vero e che, senza saperlo, devo credere ad altro da quello che credevo. Forse quest’altro è lo stesso “altro” a cui un analista mi avrebbe potuto portare per la sua via, se, in entrambi i casi, si tratta, davvero, della mia “verità”. Ma dal filosofo (“come da contratto”) sono stato preso sul serio per quello che dicevo, per il significato che anche lui può intendere di ciò che ho detto, piuttosto che per il significato del significante che lui immagina di dover congetturare.

Una prossimità inquietante... per la psicoanalisi? Ma da tutto questo scaturisce un’ultima, inquietante possibilità. Paradossalmente la differenza tra consulenza filosofica e psicoanalisi, che abbiamo finora messo in luce, potrebbe svaporare sotto i nostri occhi, a tutto vantaggio,

55 Giusy Cavalieri, consulente filosofico di Phronesis, in una comunicazione personale, mi ha suggerito l’espressione pia fraus (pia frode) per indicare l’atteggiamento del consulente che, sospettando che il proprio consultante non voglia vedere qualcosa che appare, invece, molto evidente ai suoi occhi, gli nasconde benevolmente il suo sospetto.

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però, della consulenza filosofica e del suo stile. Questa, infatti, come una specie di iper-psicoanalisi, radicalizzando e portando alle estreme conseguenze la stessa prospettiva lacaniana, potrebbe finire per dissolverne la pretesa “specificità”. Se, davvero, come dice Lacan, l’inconscio non è un “luogo separato” ma è incluso nel mio linguaggio, che bisogno ho di scoprirlo tra le sue pieghe, o nel suo verso, quando esso, comunque, mi si manifesta anche necessariamente nel suo recto? Indagare, “spiare”, da parte tua, mentre ti parlo, quello che dico senza saperlo o, peggio, che dico con i sintomi del mio corpo, non è trattarmi, almeno in parte, proprio come quell’oggetto di un’indagine psicologica a cui proprio Lacan, polemizzando con le derive “americane” della stessa psicoanalisi, dice di non volermi ridurre? Fare del mio corpo il documento di una ricerca storiografica volta a integrare le “lacune” di quello che dico, come Lacan pretende di fare56, non è letteralmente “mortificare” il nostro dialogo vivente, a vantaggio di una sorta di paradossale “lettura” postuma ante litteram del mio discorso? Io sono parola da intendere, non scrittura da decifrare. In qualunque modo io parli e in qualunque modo tu ascolti, se c’è tra noi del “non detto”, questo si manifesterà come tale; se il mio corpo parla, parlerà come corpo, comunque mi sieda o mi distenda; se c’è del linguaggio non verbale, questo si esprimerà non verbalmente; se c’è, infine, un inconscio che ha qualcosa da dire, lo dirà come solo lui sa fare. Perché, in termini husserliani, ciò che è atematico dovrebbe essere tematizzato e non “lasciato essere” nel limbo dell’atematicità in cui, forse non a caso, riposa? Posso tranquillamente filosofare e “sospendere il giudizio” su tutto questo, a meno che qualcuno non mi inquieti mettendomi in guardia dai rischi di queste forme di (preteso) misconoscimento delle “formazioni dell’inconscio”. Ma quali rischi? I rischi rispetto a che cosa? Di quale “verità” lo psicoanalista sarebbe il detentore da indurlo ad assumersi la responsabilità di mettermi in guardia da quello che faccio, ossia, semplicemente: filosofare? Ma, in ultima analisi, che altro dovrebbe veramente fare lo stesso psicoanalista che non sia, appunto, filosofare, se davvero ha sete di “verità”, una sete talmente viva da aprirlo alla possibilità di mettere in discussione, in qualsiasi istante, i suoi stessi presupposti e i suoi stessi metodi?

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Cfr. il celebre passo di Jacques Lacan, in Scritti, cit., p. 252: «L’inconscio è quel capitolo della mia storia che è marcato da un bianco od occupato da una menzogna: il capitolo censurato. Ma la verità può essere ritrovata; il più spesso è già scritta altrove».

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Una provvisoria conclusione Ma non si deve essere troppo ingiusti con la psicoanalisi. Del resto, esserlo non è affatto necessario per “fondare” la consulenza filosofica. Quello che finora si è detto, come è stato chiarito fin dall’inizio, lo si è detto dalla particolare prospettiva di un consulente filosofico che ha esperienza di psicoanalisi lacaniana. Tutto qui. In ultima analisi la difficoltà di operare una demarcazione tra le due pratiche, filosofica e psicoanalitica, sempre che abbia senso farlo, sembra derivare proprio dalla loro natura pratica e dal notevole grado di riflessività o di auto-implicazione che entrambe presentano. Le due prospettive appaiono, inoltre, embricate l’una nell’altra. Ciascuna vede l’altra dal proprio angolo visuale e cerca di delimitarla, ma invano. La difficoltà (trattandosi di prospettive aperte sull’infinto dell’esperienza umana) di reperire un terzo punto di vista, altro, estraneo ai due, rende difficile anche demarcare le differenze tra i due punti di vista. Può sorgere il... sospetto che si tratti della stessa prospettiva espressa con “parole” diverse. Il transfert non era ben noto nella forma dell’èros socratico? Il desiderio perverso del Male non era noto come effetto del “peccato originale” presso i Cristiani e non ritorna come Volontà in Schopenhauer? La differenze di denominazione importano differenze nella cosa stessa? Ma è davvero necessaria la risposta a questa domanda, per praticare la filosofia, se si sa quello che si vuole praticare e si fonda la propria pratica filosofica su se stessa in modo convincente per sé e per gli altri? Forse no. Una “pratica” potrebbe essere considerata psico-analitica o filosofica, non soltanto a seconda di come essa viene condotta, ma anche e soprattutto a seconda di come viene interpretata o intenzionata da chi vi partecipa.

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FILOSOFICA E PSICOANALISI LACANIANA

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Una certa somiglianza di famiglia. Consulenza filosofica e psicologia umanistica di Stefano Zampieri

La catena della pratiche Le pratiche fanno catena e reinterpretano continuamente la loro provenienza costruendosi reciprocamente e assumendo di volta in volta nuove realtà. Così è anche per la Consulenza Filosofica individuale, che richiama vistosamente le pratiche psicoterapeutiche contaminandole con quelle antiche del dialogo filosofico di origine socratica. Il richiamo non è una dipendenza, né uno scimmiottamento ingenuo. È che le pratiche non sorgono mai dal nulla. Sorgono da altre pratiche di cui segnano una possibile trasformazione stabilendo un valore di soglia. Cioè il punto di torsione di uno sviluppo genealogico. In questo senso ad esempio la pratica della lettura silenziosa che si instaura nel tardo medioevo non cancella né rende impossibile la pratica della lettura ad alta voce. Tutt’al più la rende desueta perché sempre meno adatta ai tempi, agli strumenti, ai bisogni di una società. E nel momento in cui essa si ripresenta lo fa in modo diverso, rinnovato. Perché l’apparire di una pratica nuova trasforma prospetticamente anche quelle vecchie che ne sono all’origine. Non possiamo sapere oggi se la Consulenza Filosofica indurrà le psicoterapie a una qualche forma di verifica e di revisione delle proprie modalità, sarà il tempo a stabilire non solo chi vive e chi muore, ma anche chi si trasforma e in che modo e se è possibile sopravvivere insieme per offrire insieme diverse risposte a una medesima richiesta di aiuto che sempre più forte proviene da un mondo nel quale ognuno di noi appare ogni giorno meno libero e meno padrone del proprio destino. Intanto, per metter a fuoco un po’ meglio questo richiamo, vale la pena di fare un breve percorso attraverso quella che a un primo sguardo appare come una somiglianza di famiglia tra pratiche diverse.

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La terza via Nel 1962 un gruppo di psicologi, sotto la guida di Abraham Maslow, fonda l’Associazione Americana per la Psicologia Umanistica. Negli anni successivi sono soprattutto Abraham Maslow, Rollo May e Carl Rogers i propulsori di questo nuovo movimento. Nel quale confluiscono di fatto sia la terapia non direttiva di Rogers (che ha origine negli anni ’401) sia la logoterapia di Victor Frankl (che ha origini europee, rappresentando la terza scuola viennese, dopo quella freudiana e quella adleriana). Alla fine degli anni ’60 la Psicologia Umanistica si tinge di esistenzialismo. Vi è certo l’influsso di una moda europea forse colta con una certa superficialità, senza un adeguato approfondimento teorico. Ciò che si prende è soprattutto un atteggiamento nuovo verso l’uomo; è «il tentativo di capire l’uomo come essere sperimentante, come quello a cui succedono le esperienze»2. In questo senso Rollo May definisce l’esistenzialismo come il concentrarsi sulla persona realmente esistente, mettendo in rilievo il movimento stesso con il quale l’essere umano emerge, diviene, ek-siste. Egli non nega in assoluto l’esistenza delle pulsioni ma fa notare che quanto più ci si sforza di formulare in modo completo la dipendenza dell’uomo da esse, tanto più si perde di vista l’essere umano concretamente esistente, cioè il vero centro dell’analisi, ciò che dà senso a tutto il lavoro terapeutico. E l’essere umano ha un’identità costituita insieme da realtà e potenzialità, come sottolinea Abraham Maslow3 . Si tratta di poter indagare lo sfasamento tra aspirazioni e limiti. E di qui mostrare la necessità di uno studio delle potenzialità umane realmente esistenti. Attraverso la messa in questione di concetti quali Decisione, Responsabilità, Scelta, Autocreazione, Autonomia. Attraverso uno spostamento dell’attenzione verso il campo del futuro, cui appartengono termini come: Crescita, Divenire, Possibilità, Potenzialità, Speranza, Desiderio, Immaginazione. Inoltre l’esistenzialismo dà un particolare rilievo alla condizione di solitudine dell’individuo. Si tratta allora di chiarire il mistero della comunicazione tra solitudini, ecco allora la centralità di temi quali: Intuito, Empatia, Amore, Altruismo, Identificazione. In definitiva appare necessario superare i limiti della razionalità affidandosi piuttosto al dominio dell’esperienza. 1 Si veda il primo saggio di rilievo di Carl Rogers, Counseling and Psychoterapy, Boston, Houghton Mifflin, 1942 (ed. it. Psicoterapia di consultazione, Roma, Astrolabio, 1971). 2 Rollo May (a cura di), Psicologia esistenziale, Roma, Astrolabio, 1970 (ed. or. Existential Psychology, New York, Random House, 1969). Contiene saggi di Rollo May, Gordon Allport, Herman Feifel, Abraham Maslow e Carl Rogers. 3 Cfr. Rollo May, Psicologia esistenziale, cit., pp. 47-53.

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CERTA SOMIGLIANZA DI FAMIGLIA.

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FILOSOFICA E PSICOLOGIA UMANISTICA

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Insomma la Psicologia Umanistica si pone esplicitamente come una terza via rispetto alla psicoanalisi e al behaviorismo. Essa infatti ridimensiona l’idea dei condizionamenti sia ambientali che pulsionali e quindi intende l’uomo come agente responsabile di scelte: di fronte a questo presupposto non ha senso alcun atteggiamento riduzionistico che riporti la dimensione esplicita della vita a un implicito istintuale o a un quadro interpretativo rigido. È questo il primo dei tratti che la pratica della Consulenza Filosofica, nel suo nascere, ha fatto proprio.

Terapia Ma qual è la natura della Psicologia Umanistica in quanto “terapia”? Rogers in primo luogo rifiuta il principio della diagnosi: essa non è necessaria, in quanto è il cliente4 stesso che deve trovare in sé le forze necessarie per la propria ristrutturazione interna. «La terapia è essenzialmente lo sperimentare l’inadeguatezza dei precedenti modi di percepire, il vivere nuove e più adeguate percezioni e il riconoscere relazioni rilevanti fra le percezioni. In un certo senso molto specifico la terapia è diagnosi, e questa diagnosi è un processo che si svolge nell’esperienza del cliente più che nell’intelletto del clinico»5. La diagnosi, dunque, oltre che inutile è dannosa, perché colloca il fuoco della valutazione sul terapeuta piuttosto che dentro il cliente stesso contravvenendo così alla regola di base della terapia non direttiva che punta invece alla valorizzazione delle scelte interiori. Nel momento in cui il terapeuta si pone in termini di teoria, muta la sua posizione, esso diventa spettatore e non più attore della relazione. Ma solo se la relazione si fonda su attori compartecipi la terapia può avere efficacia. «Azzarderei l’ipotesi che, nel momento immediato del rapporto, la teoria particolare del terapeuta è irrilevante, e che, se il terapeuta ne è consapevole in quel momento, probabilmente è nociva alla terapia. Sto dicendo che è l’incontro esistenziale a essere importante, e che, nel momento immediato del rapporto terapeutico, la consapevolezza della teoria non è di alcuna utilità»6. È una dichiarazione forte. Ed è chiaro che 4

Nella letteratura della Psicologia Umanistica è invalso per lo più l’uso del termine “cliente“ che invece la Consulenza Filosofica ha rigettato nettamente, preferendo termini come “consultante” o “ospite”. 5 Carl Rogers, Terapia centrata sul cliente, Firenze, La Nuova Italia, 2001, pp. 208-209 (ed. or. Client-Centered Therapy, Boston, Houghton Mifflin, 1951). 6 Carl Rogers, Da persona a persona. Il problema di essere umani, Roma, Astrolabio, 1987, p. 167 (ed. or. Carl Rogers, Barry Stevens, Person to Person. The problem of being human, Moab, Real People Press, 1967).

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la Consulenza Filosofica ne ha fatto tesoro. Essa infatti muove esattamente da questo presupposto: non può servirsi di una teoria precostituita, ma deve affidarsi necessariamente all’interazione che si realizza tra consulente e consultante. E perché una simile interazione si realizzi dovrà certamente avere ben presenti le indicazioni di Rogers in merito alla non direttività, alla trasparenza delle emozioni, all’empatia, all’accettazione dell’altro. Entrambe le pratiche, cioè, si affidano prioritariamente al momento stesso dell’incontro colloquiale, in esso collocano ogni operatività, e l’una anche le proprie attese terapeutiche. Certo la Consulenza Filosofica non si pone quest’ultimo problema. Ma il fatto che non se lo ponga non significa che qualcosa di questa natura non si realizzi. Né il filosofo consulente né il terapeuta rogersiano emettono diagnosi, né l’uno né l’altro puntano a una salute intesa magari come “normalità”, ma in entrambi i casi si realizza un processo di trasformazione. Rogers lo interpreta come terapia, il filosofo consulente no.

Descrivere e comprendere Anche secondo Rollo May, di fronte al disagio bisogna dare la precedenza non al come e al perché, ma all’esperienza concreta dell’uomo reale che è la vera fonte di informazione a disposizione del terapeuta. In questo senso la “tecnica” difende soltanto il terapeuta dall’angoscia di fronte alla sofferenza, ma al contempo impedisce la comprensione della persona, perché ostacola la piena presenza. Tuttavia May, al contrario di Rogers, ritiene necessaria la diagnosi all’inizio della terapia. Egli così oscilla esplicitamente tra descrizione e comprensione per quanto minimizzi il problema ritenendolo una falsa dicotomia alla luce del principio del paziente in quanto essere-nel-mondo. In realtà questo resta un problema irrisolto della Psicologia Umanistica, che appunto da un lato vuol rinunciare all’atteggiamento riduzionistico e oggettivante, e dunque alla diagnosi, alla collocazione dell’individuo nelle categorie psicopatologiche, ma al contempo non può farne a meno, pena la perdita della propria identità di pratica terapeutica. Soltanto una prospettiva filosofica può costruire un atteggiamento realmente comprendente. E dunque superare la necessità della diagnosi nel momento in cui si colloca altrove rispetto ad ogni atteggiamento terapeutico7. 7

Sulla distinzione tra spiegare e comprendere e sul rapporto tra filosofia e psicoterapia è d’obbligo il riferimento Karl Jaspers, Psicopatologia generale, Roma, Il Pensiero Scientifico, 2000, ma si vedano anche di Umberto Galimberti, i capitoli 18 e 19 de La casa di Psiche, Milano,

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Nomina sunt numina È vero che alla stessa Psicologia Umanistica, e in particolare a Carl Rogers, va ascritto il merito d’aver introdotto la pratica del counseling che rappresenta un autentico luogo di transito tra l’intenzionalità terapeutica e quella di semplice sostegno, orientamento, ausilio esistenziale. Una pratica di confine, dunque, che si incista all’interno della Psicologia Umanistica, e per sua stessa iniziativa, e che contribuisce in questo modo a mostrarne insieme tanto le potenzialità quanto i limiti. Attraverso la pratica del counseling si apre quella frattura attraverso la quale la Consulenza Filosofica incontra almeno una parte delle sue ritualità. A dimostrazione che le pratiche si rincorrono e si formano per reciproca gemmazione. Inevitabilmente, almeno date queste premesse, si comprende come mai il rapporto tra terapia e counseling resti articolato e non univoco. La stessa impostazione di Rogers su questo è assai ambigua. Il confine tra le due pratiche non è chiaro, dal momento che di principio egli cancella, per entrambe, l’elemento della diagnosi che solo potrebbe consentirgli una distinzione più netta. Non è più possibile allora utilizzare nel distinguo una qualsiasi sistematica psicopatologica, né semplicemente far uso di un criterio discriminante fra normalità e patologia. Così se la terapia resta il gesto medico che (pur con una metodica non direttiva, non oggettivante e non riduttivistica) prende in carico la persona per curare dei sintomi, il counseling acquista piuttosto la connotazione di una relazione d’aiuto centrata essenzialmente sull’accoglienza e l’ascolto empatico, e rivolta a potenziare le capacità naturali della persona nei processi di risoluzione dei problemi che l’esistenza gli pone. È ben chiaro che qui riconosciamo uno di quei tratti di famiglia che già ho segnalato: la Consulenza Filosofica appartiene a un primo sguardo a questo tipo di pratiche anche se, in verità, la rete delle reciproche relazioni è assai più complessa. Perché non si può fare a meno di osservare che il counseling psicologico a sua volta non nasce dal nulla ma da un’originale miscela del setting psicoanalitico e di quella situazione che abitualmente la storia della filosofia nomina come dialogo filosofico, in riferimento a Socrate, oppure alle pratiche discorsive dei sofisti, o all’esercizio filosofico dell’amicizia nel contesto delle scuole ellenistiche. E il setting psicoanalitico, a sua volta, si sviluppa da un intreccio fra l’approccio medico tipico della scienza moderna e le pratiche cristiane della confessione, Feltrinelli, 2005, e la seconda parte del saggio Psichiatria e Fenomenologia, Milano, Feltrinelli, 1979. Utile, nella prospettiva di questo lavoro, è anche il capitolo 9, “Filosofia, consulenza filosofica e psicoterapia” di Gerd B,. Achenbach, La consulenza filosofica, Milano, Apogeo, 2004, (ed. or. Philosophisce Praxis, Köln, Dinter, 1984).

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le quali, a loro volta, rappresentano l’ultima evoluzione di antichi esercizi spirituali praticati all’interno delle scuole filosofiche antiche. Insomma, anche la Psicologia Umanistica, a sua volta, raccoglie, tra l’altro, la memoria di lontane pratiche di natura e tradizione filosofica, nel momento in cui dà vita al counseling. Si serve cioè, reinterpretandolo, di un gesto che ha una sua lunga storia in parte connessa alla stessa storia della filosofia. E questo, lo sappiamo, è nella natura delle pratiche, le quali nascono e si sviluppano per oscure, e talvolta inconfessate, relazioni di familiarità. Non ci si deve stupire affatto, dunque, se oggi la filosofia recupera quel gesto antico, ma passando attraverso le pratiche psicologiche e servendosi del termine che la psicologia stessa ha introdotto a partire dagli anni ’40. Forse adottando una terminologia diversa, si sarebbero dissolte all’origine molte futili polemiche. Ma è pur vero che non sempre le parole si possono scegliere, più spesso accade che siano esse stesse a imporsi per rendere possibili i significati di cui ci nutriamo. Così probabilmente è oggi per la Consulenza Filosofica, dal momento che nella sua pratica, nel suo gesto, essa mostra questa inequivocabile somiglianza di famiglia di cui sto raccontando, anche se, a mio modo di vedere, non può essere assimilata al genere del counseling, poiché essa vive di una natura del tutto diversa, come proverò a mostrare, e non si confonde né con le pratiche terapeutiche né con quelle strettamente consulenziali8.

Fluidità teorica Il confronto tra Consulenza Filosofica e Psicologia Umanistica non può certo avvenire sotto il profilo teorico. Perché da entrambi i lati è facile osservare l’assenza di sistemi forti e una serie piuttosto limitata di punti di riferimento di base, che si arricchisce solo con l’esperienza determinata dalla pratica stessa in un circolo virtuoso, e comunque produttivo. D’altra parte è proprio della Psicologia Umanistica porre fra le proprie “scoperte” scientifiche più significative il fatto che l’esperienza è la massima autorità, essendo più sicura delle idee. Tuttavia, anche all’interno di un modello molto fluido e sfuggente, è possibile individuare alcuni tratti che in qualche modo costituiscono la traccia di un’antropologia sotterranea. E in questa 8 Per una riflessione articolata in merito alla questione del “nome della cosa”, ovvero in generale dell’identità della Consulenza Filosofica, e quindi anche dei suoi rapporti con la psicoanalisi e le diverse psicoterapie si veda il capitolo 2 del saggio di Neri Pollastri, Il pensiero e la vita, Milano, Apogeo, 2004. Per un approfondimento del tema del counseling e dei suoi rapporti con la filosofia si vedano, da un’altra prospettiva, i capp. 3 e 4 di Contesini, Frega, Ruffini, Tomelleri, Fare cose con la filosofia, Milano, Apogeo, 2005.

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indagine appare quella che Rogers definisce la tendenza attualizzante, e che egli intende come “il postulato fondamentale”9 della sua teoria che si colloca dunque contro il modello freudiano della libido e sulla scia, piuttosto, delle tesi adleriane. Egli così formula questo principio: «Ogni organismo è animato da una tendenza intrinseca a sviluppare tutte le sue potenzialità e il suo arricchimento»10. Ciò significa che l’individuo ha in sé, almeno a livello latente, la capacità di comprendere se stesso e, conseguentemente, di risolvere da solo i propri problemi. A condizione che abbia intorno un tessuto di relazioni umane positive, non minacciose, favorevoli cioè a una rivalutazione dell’io in quanto “coscienza di esistere e di agire in quanto individuo”11. Lo sviluppo umano dell’individuo va dunque, in questo senso, nella direzione dell’autonomia e della responsabilità. A mano a mano che si sviluppa, l’individuo deve saper valutare i dati della sua esperienza e quindi cercare di verificarla, correggerla, spostarla nella direzione della sua maturità interiore. «La vita – sostiene Rogers –, nel suo aspetto migliore, è un processo fluido e mutevole in cui niente è statico»12. Il terapeuta si pone come facilitatore di questo processo. È chiaro che le dinamiche inconsce in questo percorso appaiono messe in secondo piano. Per i rogersiani, d’altra parte, l’inconscio è solo un’ipotesi che non ha significato al di fuori della teoria di cui fa parte. Una “distorsione” della tendenza attualizzante è all’origine delle difficoltà dell’esistenza, che si possono superare solo recuperando la congruenza tra l’immagine di sé e l’esperienza reale dell’organismo.

Potenza ad essere Messa in discussione delle potenzialità, sguardo rivolto al futuro, ricerca ininterrotta dei significati e dei valori. Sono questi dunque i punti di riferimento della Psicologia Umanistica, quelli che appaiono più vistosamente conflittuali con le tradizionali impostazioni psicoanalitiche e psicoterapeutiche, rivolte piuttosto ad indagare il passato e a scoprire in esso ragioni 9

Carl Rogers e G. Marian Kinget, Psicoterapia e relazioni umane. Teoria e pratica della terapia non direttiva, Torino, Boringhieri, 1970, p. 144 (ed. or. Psychothérapie et relations humaines. Théorie et pratique de la thérapie non directive, Lovanio, Editions Nauwelarents, 1965-66). 10 Ibidem. 11 Op. cit., p. 180 12 Carl Rogers, La “Terapia centrata-sul-cliente”. Teoria e ricerca, a cura di Augusto Polmonari e Jan Rombauts, Firenze, Martinelli Editore, 1970, p. 45. L’opera traduce le parti essenziali di Carl Rogers, On Becoming a Person, Boston, 1961, insieme ad altri articoli.

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motivazioni e genesi del presente. Ed è in questo che appare un altro vistosissimo tratto della somiglianza di famiglia con la Consulenza Filosofica. Secondo Abraham Maslow l’uomo deve sempre tendere alla soddisfazione di alcuni bisogni essenziali, di sicurezza, di appartenenza, di identificazione, di relazioni autentiche, d’amore, di rispetto, di affermazione. E già questo, che è il livello minimo, va interpretato come una dimensione processuale, un divenire, non come una meta da acquisire in via definitiva una volta per tutte. Ma non basta: a queste che Maslow definisce motivazioni carenziali 13 dobbiamo infatti aggiungere le motivazioni di accrescimento. La soddisfazione di un bisogno non comporta infatti uno stato di raggiunto equilibrio (l’omeostasi freudiana) o di quiete, o di apatia stoica, ma piuttosto l’emergere di un altro bisogno di livello più elevato (così come alla liberazione dalla povertà, perseguimento di un bisogno, segue la ricerca dell’abbondanza, motivazione di accrescimento). Il bisogno di accrescimento non ha un fine, un obiettivo, perché è esso stesso il fine. Così ogni nuova esperienza convalida se stessa e non è convalidata da un criterio esteriore. Il bisogno di continuo accrescimento rappresenta, in questo senso, una spinta «verso la totalità del Sé, verso l’unicità del Sé, verso il funzionamento pieno di tutte le sue capacità, verso la fiducia di fronte al mondo esterno»14. Una spinta che deve fare i conti con una tensione opposta: quella relativa al bisogno di sicurezza che comporta la relativa paura di crescere, la paura di cogliere le opportunità, la paura dell’autonomia e indipendenza.

Good life Dalla prospettiva fenomenologico-esistenziale Rogers ricava dunque una filosofia dell’uomo nella quale riconoscersi dopo aver posto la distinzione tra il modello del comportamentismo, che interpreta l’uomo come una macchina complessa ma conoscibile, e quello del freudismo che pensa l’uomo come «un essere irrazionale, irrevocabilmente prigioniero del suo passato e del prodotto di quel passato che è l’inconscio»15. Assumendo un punto di vista fenomenologico, Rogers afferma dunque che l’uomo non è né semplicemente una macchina, né un essere prigioniero di motivi inconsci, ma è prima di tutto «una persona impegnata a creare se stessa, una persona che crea il significato 13 Cfr. Abraham Maslow, Verso una psicologia dell’essere, Roma, Ubaldini, 1971 (ed. or. Toward a Psychology of Being, London-New York, Van Nostrand, Reinhold, 1968). 14 Op. cit., p. 55 15 Carl Rogers, La “Terapia centrata-sul-cliente”. Teoria e ricerca, cit., p. 338.

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della vita, una persona che incarna una dimensione di libertà soggettiva»16. Al contempo lo studioso americano mostra sempre il suo interesse per le definizioni di tipo operazionale, per la misurazioni oggettive, e manifesta la pretesa di sottoporre tutte le ipotesi a un processo di verifica sperimentale. In effetti, è chiaro che egli tenta di tenere insieme la prospettiva scientista con quella fenomenologica e di giustificare attraverso una pletora di misurazioni, di test, di verifiche, quel che avviene nell’evento fondamentale del colloquio, che resta un evento estremamente complesso, perfino oscuro, assai difficile da analizzare con gli strumenti della scienza sperimentale. È questa stessa pratica, in effetti, che porta Rogers a una definizione di natura filosofica della good life 17, una definizione che va innanzi tutto circostanziata al negativo: non si tratta infatti di una situazione statica, non si tratta di una virtù né di un appagamento o di un qualche paradiso, così come non si tratta di una situazione di adattamento dell’individuo, né di una sua normalizzazione. La good life è viceversa un processo, non uno stato, ma una direzione, quella intrapresa dall’intero organismo quando sia intimamente libero di muoversi in ogni direzione. Questa dinamica esistenziale, che costituisce ovviamente la rotta da seguire nella prassi terapeutica, si sviluppa attraverso alcune precise caratteristiche: una crescente apertura e disponibilità all’esperienza, un’aumentata tendenza a vivere fino in fondo ogni momento della propria esistenza, positivo o negativo, e, infine, una fiducia rinnovata nel proprio organismo e nella sua capacità di esprimere tutti i sentimenti (ira, affetto, attaccamento, relazione…). La combinazione di queste caratteristiche forma «la persona pienamente funzionante»18. Per la sua apertura nei confronti del mondo e per la sua fiducia nelle proprie capacità di tenere relazioni è probabilmente una persona attiva e creativa. Non necessariamente “adattata” o “normalizzata”. Equilibrata e realistica, ma anche combattiva quando è opportuno, essa vive in armonia con se stessa e con il proprio ambiente, sforzandosi di realizzare le proprie potenzialità, gettandosi con coraggio nella corrente della vita. Potremmo assumere queste conclusioni per buone anche in funzione della Consulenza Filosofica, purché sia chiaro che si tratta soltanto di una prospettiva, non di un obiettivo. La prospettiva della saggezza invocata per esempio da Ran Lahav19. Intorno alla quale, però, bisognerebbe riflettere a lungo.

16

Ibidem. Il traduttore italiano traduce variamente con “vita piena”, o “vita in espansione”, o “vita positiva”, si potrebbe forse preferire l’espressione classica vita buona. 18 Op. cit., p. 190. 19 Si veda Ran Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, Milano, Apogeo, 2004, e la mia recensione in “Pratiche Filosofiche”, n. 5, aprile 2005, pp. 17

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Il fine è il processo? Rogers lo ammette: «noi non sappiamo realmente quale sia il processo essenziale della terapia»20. È possibile però osservare una serie di fenomeni di cambiamento nei discorsi dei clienti, di passaggio dai sintomi, dall’ambiente, dagli altri, al Sé. Cambia cioè il modo di percepire se stesso da parte del cliente. E cambia nello stesso tempo (anzi, è questo secondo aspetto che giustifica il primo) il modo in cui il cliente descrive la sua storia: dalla generalizzazione assoluta alle specificazioni ulteriori, che smontano la generalizzazione introducendo un principio di complessità. Da un punto di vista semantico si può dire che la terapia inizia con una mappa che non corrisponde al vero e prosegue attraverso un’esplorazione della realtà che smentisce la mappa iniziale e lentamente ne costruisce una nuova, attendibile, ma con la consapevolezza che non si tratta della realtà. Il cliente acquisisce così una capacità autodirettiva, che significa autonomia e libertà, capacità di attribuire valori autentici perché propri e non orientati da altri. Ma tutto ciò non costituisce un fine chiuso. La trasformazione che si determina non giunge a un risultato finale, o meglio tale risultato è in realtà una dinamica. La natura del cambiamento che la terapia rogersiana determina consiste infatti nello spostamento lungo una linea delimitata da due estremi: «da un funzionamento psicologico rigido e statico a un funzionamento fluido e dinamicamente mutevole»21. Si tratta dunque di passare dalla fissità dell’esperienza, cioè dal non percepire sentimenti, significati e valori come propri, all’accettazione dei propri sentimenti e dei propri valori in una situazione di plasticità dell’esperienza. Si profila così una vera e propria teoria della personalità22 centrata sulla necessità di realizzare una personalità globale capace di inserire in modo coerente e non conflittuale le proprie esperienze vissute all’interno di una struttura di coscienza di valori e di significati (il Sé).

Plasticità e cambiamento La terapia di Rogers punta al cambiamento. Prima e più che a una cura vera e propria, che in mancanza di un momento diagnostico apparirebbe

99-100. Ma sul tema della saggezza si veda soprattutto il mio saggio La chiave della saggezza e delle virtù nel colloquio filosofico, in “Phronesis”, a. VII, n. 12, aprile 2009. 20 Carl Rogers, Terapia centrata sul cliente, cit., p. 125. 21 Carl Rogers, La “Terapia centrata-sul-cliente”: Teoria e ricerca, cit., p. 143. 22 Cfr. Carl Rogers, Terapia centrata sul cliente, cit., pp. 313 ss.

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comunque poco verificabile, ciò cui essa tende è piuttosto una trasformazione in base alla quale il soggetto finisce per accettare i propri sentimenti e aver fiducia nel processo che si svolge in lui. Non un obiettivo, non una condizione, non un possesso: se la vita possiede uno scopo, esso è allora soltanto quello di essere ciò che veramente si è. E ciò si può ottenere andando al di là delle apparenze, delle attese degli altri, del piacere degli altri, sentendo di potersi dirigere da soli, sentendo di essere un processo, carico di complessità ma sempre aperto all’esperienza: «la persona evolve verso un modo di vivere accettante, aperto e disponibile nei confronti della propria esperienza»23; sentendosi capaci, infine, tanto di accettare gli altri quanto di aver fiducia verso se stessi. Insomma, è evidente che nella prospettiva del cambiamento, che è centrale nella Psicologia Umanistica, va individuata un’altra di quelle somiglianze di famiglia che andiamo cercando. Perché la Consulenza Filosofica a sua volta parte dal presupposto che l’obiettivo sia prima di tutto una messa a punto della costitutiva tensione che costituisce l’esistenza. La Consulenza Filosofica non ha obiettivi diversi dall’indirizzare il cammino del singolo verso il diventa ciò che sei, il quale a sua volta non è uno stabile possesso, o una meta definitiva ma, appunto, sempre un percorso, una direzione nella quale ciò che conta è riuscire a orientarsi per non perdersi, fissare dei punti di riferimento, proprio attraverso un ascolto sensibile della propria esperienza, attraverso una pratica di autoanalisi ininterrotta.

Trasformazione esistenziale Pensare una dinamica trasformatrice dell’uomo significa pensare anche la sua costitutiva capacità di essere libero e padrone della propria esistenza e insieme capace di dirigerla verso una determinata direzione. Sul senso di questa direzione ha riflettuto in particolare Viktor Frankl il quale ha il merito innegabile d’aver collocato nel campo della psicoterapia la nozione di vuoto esistenziale ricavata dal discorso esistenzialistico. Se è vero che l’uomo non è più guidato né dagli istinti né dalle tradizioni e che tende sempre più ad adattarsi alla situazione in cui si trova a vivere, obbedendo ai formalismi e alle opportunità in cui si trova invischiato, ecco allora che viene meno l’azione della sua libera volontà, ed egli tende in questo modo a precipitare nel vuoto della noia e dell’apatia. Prevale allora il senso dell’assurdità dell’esistenza, la mancanza di contenuto vitale, la frustrazione, cioè in generale il fenomeno della mancanza di significato. D’altra parte i significati da perseguire 23

Carl Rogers, La “Terapia centrata-sul-cliente”: Teoria e ricerca, cit., p. 173.

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non possono essere insegnati ma devono essere vissuti. Il vuoto esistenziale non appare dunque come un sintomo nevrotico ma piuttosto come una causa di nevrosi, quella che Frankl chiama nevrosi noogena, che è determinata appunto da conflitti di natura spirituale, da problemi di coscienza, da collisioni di valori… Ciò spiega perché alcuni aspetti del vuoto esistenziale possano essere trattati anche da non medici, cioè da chi fa professione di consulenza, come l’operatore sociale, o il pastore d’anime. Al vuoto esistenziale si risponde con una teoria motivazionale di trasparente derivazione nietzscheana, che Frankl nomina come volontà di significato: l’uomo è un essere alla perenne ricerca di un significato. Ne costituisce prova suprema quel che accadde nella situazione estrema del Lager (e Frankl ne fu testimone diretto), dove risultavano in grado di sopravvivere solo coloro che erano capaci di guardare al futuro, «a un compito che li attendeva, a un significato che avevano da realizzare»24. La volontà di significato si contrappone dunque tanto al principio di piacere della psicoanalisi, quanto alla volontà di potenza della psicologia individuale di Adler, perché la persona è per Frankl sempre espressione dell’Io e non dell’istinto. Scopo di una terapia, in questo senso, è dunque sempre una trasformazione esistenziale. Egli propone al suo tempo e di fronte alle nevrosi del suo tempo una psicoterapia riumanizzata, che chiama “logoterapia”. E che non ha il compito di dare un significato alla vita del paziente, ma anzi pretende, piuttosto, «che il paziente trovi da se stesso il significato della sua vita»25. Essa per questo oltrepassa lo spazio psichico e si inoltra in quello noetico.

La volontà di significato La Psicologia Umanistica mette in discussione il principio freudiano della omeostasi, cioè della ricerca di equilibrio all’interno di un sistema chiuso; principio che finisce per ridimensionare fortemente quella naturale e ininterrotta tensione che secondo Frankl costituisce l’umano. In questo senso non è della pace interiore che ha bisogno l’uomo, ma, anzi, «una forte dose di tensione, come quella che nasce da un significato da perseguire, è inerente all’esser-uomo ed è indispensabile al benessere mentale»26. Ciò significa 24 Viktor Frankl, Alla ricerca di un significato della vita. I fondamenti spiritualistici della logoterapia, Milano, Mursia, 1974, p. 37 (ed. or. Der Mensch auf der Suche nach Sinn, Stuttgart, Herder Verlag, 1972). 25 Op. cit., p. 47. 26 Viktor Frankl, Fondamenti e applicazioni della logoterapia, Torino, SEI, 1977, p. 55 (ed. or. The Will to Meaning, New York, The New American Library, 1969).

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compiti da svolgere e libertà di scegliere, ma soprattutto responsabilità, senza la quale la libertà diventa arbitrio. «Essere-uomo significa essere di fronte a significati da realizzare e a valori da attualizzare. Vuol dire vivere nel campo polare di tensione stabilito fra la realtà e gli ideali da concretizzare»27. In questo senso viviamo una forma di inarrestabile autotrascendenza che costituisce per Frankl il principio di autenticità dell’esistenza. Per cui essere uomo nel senso più profondo e autentico vuol dire essere aperto a un mondo ricco di altri esseri umani da incontrare e di significati da realizzare. Ma i significati, verso cui si tende continuamente, cambiano da persona a persona e di momento in momento, anche se l’esistenza è unica e irripetibile. Il significato, dunque, è sempre relativo, è una nostra proiezione sulle cose che di per sé sono neutre. Ma la soggettività dell’interpretazione nulla toglie all’oggettività delle cose, la differenza di prospettiva non annulla cioè l’oggettività dell’oggetto. Ciò pone nell’ottica di Frankl una distinzione netta rispetto a Sartre secondo il quale l’uomo inventa se stesso. Afferma invece Frankl: «Gli esseri umani trascendono se stessi, rivolgendosi verso significati che sono qualcosa di diverso da se stessi, più che semplici autoespressioni, più che pure proiezioni di se stessi. I significati sono scoperti, non inventati»28. Ma allora dobbiamo pensare che esistano valori eterni da scoprire? Oppure i valori nascono direttamente dalla situazione, rispetto alla quale il soggetto appare legato (e dipendente) dal vincolo dell’apertura ermeneutica? Frankl sembra piuttosto indeciso fra le due prospettive, perché da un lato ammette appunto la relatività dei valori in funzione delle situazioni, ma dall’altro non esita a collocare, in prospettiva, l’immagine di Dio, come significato ultimo. Contraddicendo in questo modo l’impostazione nietzscheana che sostiene tutta questa argomentazione.

Il campo dei valori Appare evidente che nel campo d’azione della Consulenza Filosofica, proprio per la sua specifica prospettiva, la messa in questione dei valori riveste un ruolo di capitale importanza. E in questo appare un tratto di somiglianza con l’impostazione logoterapeutica, una somiglianza che tuttavia si arresta, a mio avviso, sulla soglia di quei valori eterni ed esterni, che sembrano invece attirare la riflessione di Frankl. 27

Op. cit., p. 60. Op. cit. p. 68. Va precisato che il riferimento di Frankl è palesemente diretto all’opera di Jean-Paul Sartre, L’existentialisme est un humanisme, Paris, Nagel, 1946. 28

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D’altra parte anche Rogers ricostruisce la dinamica di formazione dei valori nell’individuo. Il bambino, egli dice29, possiede un sistema di valori “organistico”, nel senso che ogni cosa può acquistare o perdere valore a seconda della risposta del suo organismo: piange perché ha fame e il cibo è il suo valore più alto, piange perché è sazio e non vuole più attaccarsi al seno. Il fuoco della valutazione nel bambino è completamente all’interno di sé. Crescendo però, nel tentativo di ottenere amore, stima, approvazione, finisce per introiettare i valori che gli vengono trasmessi da fuori (obbedienza, comportamento corretto, ordine, orari…). Il fuoco si sposta dunque all’esterno. Così che nell’adulto i valori operativi sono in buona parte in dissonanza con i dati provenienti dall’esperienza. E sono spesso coesistenti valori contraddittori: bisogna amare il prossimo (dice la Chiesa), bisogna fare i soldi anche a scapito degli altri (dice la società); è giusto piangere per un cucciolo sofferente, è giusto bombardare un paese. Ma se l’individuo mette in discussione uno di questi valori rischia di farli cadere tutti e dunque spesso sono difesi integralmente nella loro inconsistenza reale e nella loro contraddittorietà. Questo processo però porta l’individuo a separarsi da se stesso e ad affidarsi ai valori provenienti dall’esterno anziché a quelli vissuti dall’interno. Di qui, secondo Rogers, la crisi dei valori dell’età contemporanea. La Psicologia Umanistica opera per riportare il campo dei valori all’esperienza del singolo. Nell’adulto maturo il criterio di valutazione deve essere la misura in cui l’oggetto dell’esperienza attualizza l’individuo stesso (mi piacerebbe bere un terzo bicchiere, ma domani mi pentirei di averlo fatto). Perché l’uomo è capace in sé, preso come insieme unitario organico e psichico, di metter in atto un processo di valutazione organizzato, efficace rispetto allo scopo di raggiungere la propria autorealizzazione, a condizione che sia sufficientemente aperto all’esperienza. In questo senso la Psicologia Umanistica punta ad aiutare l’individuo «a muoversi nella direzione di una maggiore apertura all’esperienza», così che l’individuo possa essere libero di «provare le proprie sensazioni e quelle degli altri senza che ciò costituisca una minaccia»30. Rogers è convinto che quando la scelta è veramente libera, cioè interiore e legata all’esperienza, si sceglie sempre ciò che è al servizio della propria sopravvivenza ma anche della sopravvivenza della specie (è chiaro che egli si colloca fra quelli che pensano l’uomo come fondamentalmente buono). Gli individui che giungono a questa condizione arrivano a valutare obiettivi come la sincerità, l’autonomia, l’autodirezione, la consapevolezza di sé, la responsabilità. La libertà allora diviene il punto di riferimento essenziale di 29 30

Cfr. Carl Rogers, Da Persona a Persona. Il problema di essere umani, cit., pp. 18-35. Op. cit., p. 30

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questa prospettiva. Si mostra così uno dei legami più forti con la filosofia esistenzialista. Rogers pensa la Psicologia Umanistica come finalizzata alla realizzazione della libertà individuale. Una libertà interna, soggettiva, esistenziale, la stessa di cui parla Victor Frankl31 quando descrive la condizione dei detenuti del Lager, cui tutto veniva sottratto, tranne la libertà di scegliere, in ogni circostanza, il proprio atteggiamento interiore.

Dualismo di Rogers Ma se il limite dell’ermeneutica frankliana sta nel cedimento ai valori esterni e assoluti, quello di Rogers va cercato in un altro presupposto. Perché se è evidente che la terapia di Rogers non si fonda su una psicopatologia teorica, egualmente però essa si serve, come abbiamo visto, di una teoria della personalità che pone il problema fondamentale del disturbo nei fenomeni di alterazione del rapporto fra le due sfere che secondo Rogers compongono l’individuo: la sfera dell’esperienza, cioè delle sensazioni, delle emozioni, del rapporto immediato con il mondo, e la sfera della simbolizzazione, ovvero la dimensione del pensiero, del linguaggio, della coscienza, e quindi dei significati e dei valori. In ciò vi è chiaramente, e forse anche a dispetto dell’autore, una forma di dualismo che la filosofia ha superato da tempo. Ne deriva di conseguenza una sostanziale incapacità di comprendere interamente la natura ermeneutica dell’essere umano. Ciò che Rogers interpreta come una patologia interna tra due sfere separate dell’umano (il biologico, lo psichico) è invece qualcosa che ha a che fare con il suo mondo, cioè con le distorsioni relative al suo essere-nel-mondo che è apertura, cioè comprensione e interpretazione.

L’atteggiamento ermeneutico La Consulenza Filosofica si muove dunque nel campo della ricerca dei significati, perché, come nell’impostazione di Frankl, pensa l’esistenza in termini ermeneutici. Cioè come naturalmente comprendente-interpretante32. In questo senso la somiglianza di famiglia è netta e inequivoca. La tesi di 31 Cfr. Viktor Frankl, Uno psicologo nei lager, Milano, Edizioni Ares, 1994 (ed. or. Ein Psycholog erlebt das Konzentrationslager, Verlag für Jugend und Volk, Wien 1946-1947). 32 La formula che qui si usa fa riferimento ovviamente ai paragrafi 29-33 di Martin Heidegger, Essere e Tempo, Torino, UTET, 1969 (ed. or. Sein und Zeit, Tübingen, Niemeyer, 1927).

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Frankl è che «c’è sempre un significato della vita: un significato alla cui ricerca va l’uomo. Sta nel potere dell’uomo intraprendere la realizzazione di un tale significato»33. In esso si intravedono tanto i significati che l’uomo stesso attribuisce al mondo in base alle proprie capacità creative, quanto i significati che l’uomo prende dal mondo attraverso le proprie esperienze, quanto, infine, i significati che nascono dall’atteggiamento che l’uomo assume di fronte alle situazioni che si presentano come un destino ineluttabile, la malattia e la morte. Anche quando, dunque, non sono più vivibili i significati di creazione e di esperienza resta da compiere «il significato inerente al giusto e dignitoso atteggiamento da prendere di fronte alla sofferenza»34. Intorno al comune atteggiamento ermeneutico si misura dunque una somiglianza profonda, ma anche una radicale differenza: per la Consulenza Filosofica è essenziale, io credo, pensare in modo radicale la natura ermeneutica dell’umano, senza cadere né nelle trappole dell’Assoluto, né in quelle del Dualismo. Uno degli insegnamenti più profondi di una certa tradizione filosofica novecentesca è proprio in questa nozione dell’umano come apertura originaria del senso, ciò che per esempio Heidegger nomina come alètheia, ciò che in Wittgenstein è l’io come limite del mondo, ciò che rappresenta il volto in Lévinas. La Psicologia Umanistica non appare in grado di pensare adeguatamente una simile nozione. E con questo ci troviamo di fronte a una brusca interruzione nella nostra ricerca delle somiglianze di famiglia. Perché la Consulenza Filosofica non può né ignorare né sottovalutare quanto rappresenta invece il suo orizzonte più prossimo. Il filosofico della consulenza non è soltanto un atteggiamento, è piuttosto una ben preciso campo d’azione all’interno del quale i suoi discorsi, cioè quanto si realizza nel colloquio, acquistano un significato. Chiariamo. Quanto viene detto all’interno di una relazione psicoterapeutica acquista significato in base all’orizzonte di senso aperto dal discorso psicologico stesso, mentre quanto accade nella Consulenza Filosofica acquista significato all’interno dell’orizzonte di senso proprio del discorso filosofico. In questo modo anche la medesima impostazione ermeneutica stabilisce soltanto una somiglianza fra diversi. È questa la vera radicale differenza che stabilisce il confine tra due famiglie imparentate ma ben distinte. Non tanto l’approccio, come abbiamo visto, né l’intenzione terapeutica, che rappresenta in fondo un falso problema, se ricondotta alla comune intenzione trasformativa da realizzare attraverso ritualità differenti. 33 34

Viktor Frankl, Fondamenti e applicazioni della logoterapia, cit., p. 75. Op. cit., p. 77.

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La vera, insuperabile differenza tra la Consulenza Filosofica e la Psicologia Umanistica sta in questo orizzonte di senso che trasforma il valore di ogni parola detta, che muta il significato di ogni termine posto in gioco, che fa del discorso psicologico una cura della psiche e dell’altro un evento trasformativo dell’esistenza.

Atteggiamenti È tempo, allora, di cambiare prospettiva, e di provare ad interrogarci piuttosto in merito alla distanza che separa la Consulenza Filosofica dalla Psicologia Umanistica. Lahav, ad esempio35, indica tre differenze insuperabili tra la Terapia Esistenziale e la Consulenza Filosofica. In primo luogo il fatto che nelle psicoterapie esistenziali si assuma una prospettiva filosofica (quella esistenziale, appunto), come riferimento esclusivo. Mentre la Consulenza Filosofica resta aperta ad un approccio filosofico ampio e diversificato, inteso talvolta più come un atteggiamento (dialogo, interrogazione, ricerca, chiarificazione, analisi…) che non come un sistema di teorie fondate. In realtà questa osservazione andrebbe relativizzata su entrambi i fronti: in primo luogo perché la Psicologia Esistenziale o Umanistica fa un uso molto limitato e superficiale della “filosofia” esistenziale, e si pone essa stessa, in primo luogo, come un atteggiamento (accoglienza, non direttività, non riduzione, non obiettivazione, superamento della diagnostica...) e in secondo luogo perché la stessa Consulenza Filosofica, al contrario, non può limitarsi ad esporsi come “atteggiamento” filosofico, ma deve fare delle scelte precise nell’ambito della tradizione di pensiero, non può non fondarsi sul dialogo (e quindi sulla comprensione e interpretazione), e sulla relazione, non può non occuparsi dei fondamenti etico morali dell’esistenza, non può non servirsi di tutta quella letteratura filosofica che ha messo a tema i grandi problemi dell’esistenza: da quelli della libertà, della possibilità, del progetto, a quello della morte. Tutto ciò implica scelte, certo ampie, non esclusive, indipendenti da qualsiasi adesione a modelli, correnti, autori predefiniti; ma pur tuttavia ogni scelta implica una selezione e una rinuncia.

35

Cfr. Ran Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, cit., pp. 37-54.

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Concetti La seconda differenza rilevante per Lahav è quella che si realizza all’interno del dialogo. La messa in questione dell’esistenza del Consultante avviene infatti, secondo Lahav, su due piani diversi: nel caso della Consulenza Filosofica si sviluppa sul piano delle idee astratte, mentre nel caso della psicoterapia esistenziale avviene alla luce del senso comune. Anche questa, in realtà, è una differenza che va ridimensionata perché nulla impedisce allo psicologo di formazione esistenziale di introdurre e discutere idee astratte all’interno della propria relazione clinica, e d’altra parte, ancor più, il dialogo filosofico si snoda in realtà soprattutto a partire dall’esperienza, preoccupandosi di problematizzarla ma non necessariamente trasformandola in un apparato concettuale astratto. Anzi, questo è forse il pericolo da sventare se si vuole che la Consulenza conservi una capacità trasformativa36.

Arricchimento Infine, per la Psicologia Esistenziale ogni persona sarebbe in grado di sviluppare un’autocomprensione significativa di sé se solo fosse posta in una situazione di libertà da pressioni e influenze esterne. Mentre nella Consulenza Filosofica, secondo Lahav, si ritiene che da solo il consultante non abbia sufficiente familiarità con le risorse intellettuali per andare oltre i luoghi comuni. Non si può ignorare il rischio, però, che questa impostazione contiene in sé: quello di trasformarsi surrettiziamente in un atteggiamento pedagogico che, a mio modo di vedere, sarebbe estraneo alla logica della consulenza37. È certamente vero che solo una persona più ricca, in termini di risorse intellettuali e spirituali, può decidere in modo non casuale e arbitrario, cioè attraverso una vera libera scelta personale. Ma è altresì vero che tale arricchimento non può essere frutto di un trasferimento di conoscenze (che può anche essere utile e opportuno, ma in altra sede, in un’altra pratica), quanto piuttosto deve essere frutto di uno scambio dialogico: è nel dialogo che si 36 Per un approfondimento del rapporto tra concetto e Consulenza Filosofica è utile il testo di Luciana Regina, Consulenza Filosofica: un fare che è pensare, Milano, Unicopli, 2006. 37 Di diversa opinione è Peter B. Raabe, che nel saggi Teoria e pratica della consulenza filosofica, Milano, Apogeo, 2006 (ed. or. Philosophical counseling: theory and practice, Westport, Praeger, 2001), introduce “l’insegnamento come atto intenzionale” al terzo stadio dei quattro che individua nel processo della Consulenza Filosofica.

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costruisce il cambiamento, è nel dialogo che si realizza la trasformazione per merito della quale il consultante risulta meglio capace di affrontare il suo disagio, o di collocarsi attivamente nel mondo.

Orizzonte di senso Vale la pena di osservare allora, come vi siano tra la Psicologia Umanistica e la Consulenza Filosofica, almeno altre due, ben più radicali, differenze. Tutte le pratiche psicologiche, anche quelle meno direttive e apparentemente meno “terapeutiche”, rientrano infatti in un ambito ben definito in base alla loro esplicita intenzionalità. Esse stesse si interpretano come pratiche di natura medica, cioè appunto come psicoterapie, per quanto molto particolari, per quanto rivolte non solo alla cura della malattia, ma anche soltanto al sollievo dal disagio o all’orientamento. Viceversa la Consulenza Filosofica si interpreta come una pratica di natura filosofica, naturale evoluzione di quel che Socrate o Platone, o gli stoici o gli epicurei intendevano per un’attività di natura filosofica. Dobbiamo assumere tale distinzione in modo netto, tale che basti a rompere definitivamente una famiglia. È quello che fa, ad esempio, Neri Pollastri, il quale sostiene giustamente che nonostante tutto «il counseling rogersiano è una psicoterapia: perché fa affidamento su uno strumento psicologico e perché è costantemente orientato a un ben preciso obiettivo terapeutico»38. Ma, ancora, perché questa netta distinzione non appaia come una petitio principi piuttosto rigida, sarà bene introdurre una seconda osservazione in merito ai fondamenti stessi della Psicologia Umanistica, la quale di fatto non mette mai autenticamente in discussione i suoi strumenti, il colloquio, l’empatia, la relazione, il significato… Di essi si testimonia l’efficacia, senza però rilevarne lo spessore, nemmeno da un punto di vista fenomenologico. Si finisce per darli come presupposti. Ed è questo che la filosofia non può accettare. La filosofia anzi deve metterli profondamente in discussione, innanzi tutto recuperando quanto la tradizione ha già pensato a questo proposito e che costituisce un bagaglio straordinario di intelligenza e di esperienza ancora del tutto disponibile dal quale possiamo e dobbiamo ripartire. In quanto rappresenta quell’orizzonte di senso di cui ho detto.

38

Neri Pollastri, Il pensiero e la vita, cit., p. 122.

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Controprova Potremmo anche fermarci qui, perché abbiamo toccato il punto centrale. Tuttavia non posso fare a meno di far notare, anche a conferma della mia ipotesi, come esista un tratto, in questo confronto tra Psicologia Umanistica e Consulenza Filosofica, nel quale la massima vicinanza si rovescia nella massima distanza, la somiglianza più fedele si annulla in una diversità radicale. Alludo alla questione del colloquio: è questo il tema che dobbiamo affrontare ora per tirare le somme di questo breve percorso di ricerca. Allora, torniamo a Rogers. La tendenza attualizzante ha bisogno per svilupparsi adeguatamente di un adeguato tessuto di relazioni. Una relazione umana adeguata si realizza secondo Rogers, «quando fra le parti esiste un mutuo desiderio di entrare in contatto e di impegnarsi in un processo di comunicazione»39, allora accade che si intreccino le reciproche esperienze in un accordo tendente allo scambio reciproco, alla mutua comprensione e in generale a un migliore funzionamento psicologico di entrambe le parti, con un conseguente aumento della soddisfazione procurata dalla relazione stessa. Certamente, quando la Psicologia Umanistica individua il fondamento dell’esistenza umana nel duplice campo della potenza ad esistere (la tendenza attualizzante) e delle relazioni, a suo modo coglie l’essenziale. Ed è coerente quando esprime l’intenzione di subordinare le tecniche alla qualità della relazione tra medico e paziente, attribuendo, di conseguenza, un ruolo fondamentale proprio all’evento del colloquio nella sua irripetibile singolarità. Tuttavia questa evidente somiglianza di famiglia, che ho dovuto sottolineare più volte, si ferma proprio sulla soglia di questo evento fondante e fondamentale: il colloquio. Certo, se volessimo interrogarci sul senso più profondo di queste somiglianze tanto evidenti, allora bisognerebbe fare qualche passo indietro, ponendoci nel punto in cui le varie scuole psicoterapeutiche e la stessa Consulenza Filosofica si intrecciano geneticamente in quanto germogli dello stesso ramo, quello della parola terapeutica. Ma questa sarebbe un’altra storia, una lunga storia, che qui non voglio affrontare. Torniamo a osservare piuttosto l’esaurirsi di una somiglianza e quindi il costituirsi di una diversità irriducibile.

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Carl Rogers e G. Marian Kinget, Psicoterapia e relazioni umane. Teoria e pratica della terapia non direttiva, cit., p. 202.

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La relazione d’aiuto L’affermazione di Rogers è secca: «A mio avviso la qualità del mio incontro è più importante, a lungo andare, delle conoscenze accademiche, della formazione professionale, del mio orientamento teorico, delle tecniche che utilizzo nel colloquio»40. È evidente dunque nel modello di Rogers come la dimensione delle tecniche venga fortemente ridimensionata a favore di quella relativa alla qualità del rapporto. In questo senso egli fissa tre condizioni fondamentali per la realizzazione di una relazione d’aiuto: in primo luogo la congruenza, cioè il fatto che il facilitatore non abbia maschere, non reciti mai una parte, ma sia realmente se stesso, cioè che agisca in accordo con ciò che pensa, manifestando un’effettiva sintonia fra le sue parole e i suoi sentimenti autentici, cioè tra ciò che dice e ciò che sente, tra i suoi atteggiamenti esteriori e quelli interiori, e in ciò di nuovo riscontriamo una forte somiglianza con l’atteggiamento del Consulente Filosofico. Il secondo requisito fondamentale della relazione d’aiuto è l’empatia, cioè un atteggiamento che consenta di entrare nello stato d’animo, nel vissuto dell’altro, che consenta di capire ciò che l’altro prova e sente in determinati momenti, che renda possibile sentire i sentimenti altrui come se fossero propri, cioè senza mai confondere ciò che è effettivamente proprio e ciò che è altrui. L’empatia si realizza dunque a livello di sentimenti e non di parole, e richiede perciò un atteggiamento non freddamente razionalizzante. È da osservare che nella formulazione di Rollo May l’empatia assume un ruolo assolutamente centrale, egli parla esplicitamente dell’empatia come “la chiave del counseling”41, ed è qui che si apre una delle differenze dirimenti con la pratica del colloquio filosofico. Dal punto di vista dello psicologo umanista, infatti, è del tutto ammissibile una situazione di dialogo centrata proprio sul rapporto empatico, e addirittura egli sostiene che la funzione del counselor sarebbe «quella di rinunciare a se stesso, di essere pressoché una tabula rasa, e di abbandonarsi alla situazione empatica»42. Nella pratica filosofica, invece, l’empatia ha il ruolo che essa può comunque rivestire in qualsiasi relazione umana pienamente compiuta, senza alcun ruolo operativo, e il filosofo consulente non può mai mettersi nella condizione della tabula rasa

40

Carl Rogers, Da Persona a Persona. Il problema di essere umani, cit., p. 98. Rollo May, L’arte del counseling. Il consiglio, la guida, la supervisione, Roma Astrolabio, 1991, pp. 49-63 (ed. or. The art od counseling, New York, Gardner Press, 1989). 42 Rollo May, L’arte del counseling. Il consiglio, la guida, la supervisione, cit., p. 54; ho discusso il tema dell’empatia nella mia recensione al libro di Laura Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Milano, 2006, pubblicata in “Phronesis”, a. V, n. 8, aprile 2007, pp. 118-127. 41

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perché altrimenti verrebbe meno il colloquio stesso che è sempre generato e sviluppato da entrambi gli interlocutori. Proprio a partire da questa stessa considerazione è possibile contestare anche il terzo principio che, ancora secondo Rogers, è necessario realizzare, ovvero l’accettazione incondizionata dell’altro, che significa una sospensione del giudizio in merito a ciò che l’altro fa e pensa, ai suoi valori e alle sue scelte, che vengono appunto accolte e non valutate. Tale atteggiamento comunica all’altro tutta la disponibilità che l’aiutante è disposto a dare. Ma, di nuovo, esso non può che trovare il suo limite nella necessità per il filosofo consulente di essere realmente presente nel colloquio non solo con la propria disponibilità, non solo con la propria capacità di accogliere e rispettare l’altro, ma anche con la propria personalità, le proprie scelte, le proprie esperienze, perché questa è la sola condizione per cui l’incontro non si trasformi in un monologo ma realizzi un autentico scambio dialogico. Per la Consulenza Filosofica, dunque, non è sufficiente creare una situazione d’empatia con chi vive il disagio ed è alla ricerca di aiuto. Certo, è utile, ma non è sufficiente. Nella Consulenza Filosofica prevale sempre il lato della consapevolezza su quello dell’emozione. In secondo luogo il filosofo consulente non può accontentarsi di sospendere il giudizio (che per un verso, certo, significa non essere tenuto ad accettare il mondo di valori altrui, ma dall’altro significa anche rinunciare a combatterli quando li si consideri negativamente), il suo atteggiamento non può essere così asetticamente neutrale, egli cioè non deve né trasformarsi in un educatore, né puntare ad alcuna forma di persuasione, ma piuttosto problematizzare quanto appare nel corso del dialogo, osservando insieme all’altro i dati di esperienza prima di tutto che rendono appunto problematiche, discutibili, le scelte operate dall’altro e che aprono lo spazio per scelte differenti. Ma per comprendere meglio la distinzione radicale che qui si sta profilando è bene fare un passo in più ed entrare nel vivo del colloquio.

Il modello del colloquio Com’è noto la Terapia Centrata sul Cliente di Rogers si basa sulla tecnica della risposta a specchio o a riflesso. Una tecnica che Lucia Lumbelli riassume efficacemente in questo modo: «Se il colloquio deve essere centrato sull’intervistato, l’intervistatore non deve assumere iniziative comunicative che siano centrate sulle proprie conoscenze, aspettative, interrogativi, sospetti, ipotesi interpretative. La sua comunicazione deve quindi ridursi a reazioni o

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risposte alla comunicazione dell’intervistato»43. Le risposte consistono dunque prevalentemente di tentativi di riformulazione, di carattere dubitativo, e sono cariche di “E dunque…”, “Lei dice che…”, “Lei afferma che…”, “Mi sembra di capire…”, “Se ho ben capito…”, ecc. È evidente che la tecnica della risposta a specchio è fondata sull’idea di far percepire al cliente, come ascoltatore, ciò che egli stesso ha effettivamente espresso, e in questo modo di fargli confrontare tale significato con quanto egli intende esprimere, e con quanto egli ha nella mente. In questo modo si determina all’interno della persona un confronto tra il suo discorso e la riflessione dello stesso discorso che gli torna indietro. Certo il cliente in questo modo può ricavare la sensazione di una assoluta accettazione di sé, nel senso che le parole che il colloquio contiene sono soltanto le sue, e non vengono mai messe in discussione, né valutate, né smontate dalla ricerca sospettosa di un analista. Se esiste un meccanismo di interpretazione esso non appartiene al terapeuta ma al cliente stesso, che ricevendo continuamente di rimando le sue stesse parole è stimolato a integrarle, a chiarirle e a svilupparle. È su questo impianto operativo che appare evidente la voragine che separa l’una pratica dall’altra. Il metodo della risposta a specchio può essere effettivamente, in qualche caso, un utile escamotage per sollecitare l’interlocutore, per dargli spazio, per consentirgli di sviluppare il racconto senza deviazioni e insieme sentendosi ascoltato e compreso, tuttavia non corrisponde affatto alla natura del dialogo filosofico.

L’affidamento e l’offerta Riflettiamo. La persona sofferente, incerta, in difficoltà, che vive un disagio, compie il gesto preliminare della decisione e della scelta: decide di offrirsi al colloquio, sceglie un medico o uno psicologo o un filosofo cui rivolgersi. Questo gesto pone in un’iniziale situazione di minorità: ammetto di provare un disagio o di avere un dilemma da risolvere, ammetto di avere bisogno di un aiuto o di un consiglio. Dall’altra parte, il medico o psicologo o filosofo viene a trovarsi corrispettivamente in una situazione di forza: l’altro mi si rivolge in cerca di aiuto perché io, per definizione, in quanto medico, psicologo, filosofo consulente ho questo ruolo, ho questa competenza. È chiaro dunque che il rapporto nasce squilibrato, si presenta nell’atto iniziale come 43

Lucia Lumbelli, Introduzione all’edizione italiana di Carl Rogers, Terapia centrata sul cliente, cit., pp. xviii-xix.

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una relazione tra soggetti di natura diversa, caratterizzati da ruoli diversi, e pre-determinati in questa diversità dal gesto che dà vita al colloquio. A questo punto, si aprono dunque strade differenti: potrebbe aprirsi la strada di una vera e propria relazione medica, che confermi la posizione iniziale dei soggetti e la conservi fino alla fine del colloquio. Oppure si può aprire la strada delle relazioni d’aiuto, secondo le diverse modalità psicoterapeutiche e consulenziali, attraverso le quali si realizza uno scambio maggiore rispetto alla relazione medica in senso stretto, e la distanza tra gli interlocutori si riduce pur conservando, di fatto, lo squilibrio di partenza fra colui che aiuta e colui che è aiutato. Dal punto di vista del soggetto che chiede aiuto si tratta però, in entrambi i casi, pur a livelli diversi, di una condizione di affidamento: un singolo che vive un disagio si affida alle cure di un competente che si presume sappia come intervenire su quel disagio; un soggetto si affida all’altro e alla sue conoscenze nella speranza (fiducia, presunzione, ipotesi…) che l’altro sappia aiutarlo. Nel caso specifico della Consulenza Filosofica, invece, l’atto iniziale deve in qualche modo essere riequilibrato, il colloquio deve realizzare, dal punto di vista del consultante, una condizione di offerta e non di affidamento, cioè riprodurre una situazione nella quale l’uno (il consultante) si offre al colloquio, e in questo gesto manifesta una momentanea inferiorità che pone il filosofo consulente nella condizione di poter esercitare la sua forza, ma, al contempo, poiché egli rifiuta di avvalersi di questa prerogativa, ed accetta invece di mettersi allo stesso livello del suo ospite, ecco che allora si realizza una condizione naturale di colloquio fra pari, nella misura in cui la diversità di consapevolezza e di conoscenza viene ricondotta alla naturale diversità delle esperienze esistenziali che distinguono l’uno dall’altro e ognuno da tutti gli altri. In una situazione di piena accoglienza ermeneutica dell’altro, il colloquio si sviluppa allora su due fuochi attraverso le parole di entrambi gli interlocutori, evitando così il rischio proprio dell’impostazione rogersiana che attraverso la risposta a specchio finisce per trasformarsi di fatto in una sorta di strano monologo, nel quale il consulente pone di sé soltanto la propria partecipazione emotiva, ma difficilmente riesce a porre la propria esperienza44. E così rende impossibile quel processo di scambio e di confronto che può determinare la trasformazione ricercata. Seppure la tecnica della risposta a specchio rogersiana vada considerata una tecnica limite, che non si replica con le stesse modalità nella logoterapia 44

Scrive Rollo May: «In teoria, al momento della situazione di counseling, sarebbe bene che il counselor dimenticasse di aver mai avuto esperienze analoghe» (L’arte del counseling. Il consiglio, la guida, la supervisione, cit., p. 54).

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di Frankl o nella Psicologia Esistenziale di May o di Allport, che dunque appaiono un poco più direttive nella conduzione del colloquio, va comunque detto che il limite intrinseco è lo stesso per tutte. Ed è appunto il limite che possiamo sintetizzare sulla scorta di questa opposizione tra una relazione di affidamento (che rischia in ogni momento di trasformarsi in una qualche forma di subordinazione e di dipendenza), nel quale un paziente affida le proprie parole (le sole informate dall’esperienza) alla spiegazione del terapeuta, cioè a una sapienza medica che costituisce l’orizzonte di senso dell’intero discorso; e una relazione di offerta che punta invece a creare un dialogo equilibrato e paritario, uno scambio e un confronto capaci di determinare una trasformazione in entrambi gli attori all’interno di un orizzonte di senso che nasce dalla filosofia stessa in quanto problematizzazione dell’esperienza. E che ha nel principio di libertà del singolo il suo primo riferimento. Da un lato un orizzonte stabilizzato, cui ci si rivolge per trovare il significato terapeutico delle proprie parole, e dall’altro la ricerca di una mutua trasformazione attraverso una reciproca costruzione di significati all’interno di un orizzonte mobile. Detto in sintesi è questo lo sfondo su cui si collocano, al di là di certe somiglianze di famiglia, due pratiche totalmente diverse.

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Breve nota su terapia della Gestalt e tradizione filosofica di Cati Maurizi Enrici

Le radici della teoria della Gestalt sia come corrente psicologica (anni ’20 e ’30) che successivamente come terapia alternativa all’impostazione psicoanalitica1 (anni ’50) traggono linfa vitale dalla riflessione di veri e propri filosofi (Brentano, Husserl, Meinong). Il termine tedesco, tradotto in italiano col significato di “forma”, “configurazione”, “organizzazione”, cerca di porre in evidenza un principio fondamentale, ossia quello che consiste nel pensare a una totalità che non sia semplicemente la somma delle parti che la compongono, bensì come qualcosa di più. E questa eccedenza dipende non dall’esterno, ma dal modo in cui la nostra mente dà forma e organizza la realtà che ci sta di fronte. Potremmo trovare le più lontane radici di questa teoria, che considera centrale il processo di costruzione e costituzione dell’esperienza percettiva come unificazione del molteplice, nella filosofia platonica, ad esempio nel Fedone. Nella contemporaneità è soprattutto Maurice Merlau-Ponty a dedicare pagine centrali all’idea gestaltica di struttura, interpretata filosoficamente in termini dialettici e fenomenologici, tesa a superare il dualismo scientista tra soggettivo e oggettivo, interno ed esterno, tra forma e contenuto, tra corpo e spirito.

1 Le maggiori critiche della Gestalt Therapy all’impostazione psicoanalitica freudiana possono essere sinteticamente evocate come segue: al primato dell’introspezione e del riferimento all’esperienza passata e ai contenuti inconsci viene contrapposta l’attenzione al presente, al qui ed ora dell’incontro tra terapeuta e paziente, interpretato, secondo una visione olistica che vuole superare ogni tipo di riduzionismo, come una totalità senziente di corpo e mente e come soggetto potenzialmente capace di integrare le parti dissociate del sé in termini creativi. Nel manifesto della terapia gestaltica, Terapia e pratica della Gestalt, gli autori Perls, Goodman, Hefferline scrivono: «In questo libro tentiamo di considerare lo sviluppo dell’esperienza attuale come processo che offre dei criteri autonomi, di considerare cioè la struttura dinamica dell’esperienza non come indizio di qualche inconscio sconosciuto, o come sintomo, ma come l’elemento importante di per sé. Ciò significa praticare la psicologia senza giudicare in anticipo il normale o l’anormale, e da questo punto di vista la psicologia è un metodo di crescita e maturazione” (Fritz Perls, Ralph F. Hefferline, Paul Goodman, Teoria e pratica della Gestalt, Roma, Astrolabio, 1997, p. 48).

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L’articolo del 1923 di Wertheimer, manifesto della teoria della Gestalt, in cui si enunciano i principi dell’organizzazione delle forme percettive, riconosce che l’approccio metodologico della nuova corrente psicologica non può che essere, contro l’interpretazione associazionistica ed elementistica, fenomenologico, più precisamente fenomenologico-sperimentale. E, se è vero che la critica allo psicologicismo della corrente husserliana e opere come L’immaginazione di J.-P. Sartre o la Fenomenologia della percezione di MerlauPonty influenzeranno, a partire dagli anni ’50 soprattutto, la corrente della psicologia umanistica, è altrettanto evidente che, se sfogliamo testi dedicati oggi alla psicoterapia e al counseling di matrice gestaltico-fenomenologica (Fritz Perls, fondatore della psicoterapia della Gestalt, ritiene che il suo approccio terapeutico sia l’applicazione della fenomenologia), non potremmo che imbatterci in continui rimandi al pensiero dei filosofi già citati, oltre che all’esistenzialismo o al pensiero dialogico di Martin Buber o ancora all’ermeneutica gadameriana2. La domanda che però mi sono sempre posta, anche durante il mio percorso in counseling gestaltico, è se questi continui rimandi testimonino un riconoscimento esplicito della filosofia come voce altra, come presupposto importante dell’incontro clinico e rifermento culturale e formativo imprescindibile per il terapeuta, oppure questo riconoscimento rimanga per lo più, usando un termine caro alla Gestalt, sullo sfondo, un impensato che appunto starebbe proprio alla filosofia portare in primo piano. Curiosamente, a questo forte riferimento da parte della terapia gestaltico-fenomenologica a temi cari all’esistenzialismo e ad altre correnti di pensiero contemporaneo non corrisponde un riferimento altrettanto forte a questi stessi temi da parte dei teorici della consulenza filosofica. Taluni consulenti filosofici, anzi, avanzano varie riserve per quanto riguarda il ricorso ad alcuni concetti, come quello di matrice husserliana-steiniana di “empatia” o quello heideggeriano di “cura”. A causa probabilmente dell’uso che alcune correnti psicologiche fanno di tali espressioni, sembra quasi che esse possano non essere altrettanto utili di altri riferimenti della nostra tradizione a “dimostrare” la vocazione pratica della filosofia o a dare valore alla consulenza stessa. Ma si tratta, a mio parere, di un fraintendimento. 2 Nel sottolineare questo aspetto, oltre che all’esperienza maturata nei tre anni di frequenza del master in counseling gestaltico presso l’Istituto Gestalt di Pordenone, mi rifaccio essenzialmente ai testi e alle riviste che ruotano intorno all’Istituto Gestalt di Firenze e alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della Gestalt, H.C.C, che ha curato l’edizione di un interessante volume a cura di Margherita Spaguolo Lobb, intitolato Psicoterapia della Gestalt. Ermeneutica e clinica, volume che nella prima parte contiene una riflessione sul legame con la tradizione filosofica e scientifica e sull’epistemologia ermeneutica della Gestalt.

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L’empatia in senso filosofico, in particolare, è una forma di comprensione del mondo e dell’altro che non riduce l’alterità a un semplice concetto, un dato derivato dall’Io. È piuttosto la relazione intersoggettiva, la struttura ontologica “originaria” che permette la conoscenza del mondo, anche in termini oggettivi, e la conoscenza dell’altro come unità psicofisica, come soggetto di atti razionali e vissuti intenzionali, correlati a un contenuto e a un senso; insomma nella sua irriducibile complessità. Esercitare l’empatia filosofica vuol quindi dire allargare la propria sfera di comprensione e di esperienza, coniugando ragione e intuizione. Essa è la condizione della possibilità di far circolare l’esperienza tra me e l’altro senza identificazione. L’aspetto prettamente cognitivo e mentale dunque non viene semplicemente sostituito da un’interpretazione della soggettività tutta “emozione e sentimento”. Anche studi scientifici recenti testimomoniano l’esistenza di strutture neuronali a specchio, presenti a livello della corteccia premotoria e parietale posteriore del cervello, che giustificherebbero la nostra interpretazione dell’ “intrigo” originario intersoggettivo che sta alla base della possibilità di conoscere, agire, comunicare e comprendere. Per quello che riguarda, invece, il possibile fraintendimento dell’espressione “cura di sé” mi sembra importante il contributo d Moreno Montanari che riesce a integrare nella pratica di consulenza tre momenti, partendo da un’analisi semantica: Bildung (formazione), Bindung (legame) e Umbildung (trasformazione); e che interpreta così il concetto heideggeriano di “cura” al di fuori del paradigma terapeutico3. Direi che la possibilità di tracciare dei confini da parte della consulenza filosofica con le pratiche terapeutiche è legata anche alla capacità di promuovere uno specifico esercizio di riconoscimento dell’altro che è tanto più difficile quanto più l’altro ci sta vicino. Il riconoscimento in senso filosofico non può che essere pensato, come afferma Paul Ricoeur nell’opera Sé come un altro, riprendendo la concezione hegeliana, se non all’interno di una relazione dialettica tra l’io e l’altro, in cui ne va dell’altro, ma anche di me stesso; ne va del reciproco bisogno di essere considerato e stimato. Il termine francese di reconnaissance rende giustizia a questo doppio movimento, attivo e passivo, presente nell’interpretazione ricoeriana, per cui l’atto intenzionale del riconoscere l’altro può essere pensato in relazione al senso di gratitudine per essere stato, a mia volta, riconosciuto nella mia identità.

3

Moreno Montanari, L’esperienza filosofica come esperienza di formazione, in “Phronesis”, n. 2, 2004.

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Un gioco di figura/sfondo: verità della relazione, verità come relazione Una prima apparente differenza tra consulenza filosofica e Gestalt Therapy è quella per cui al centro dell’interesse del secondo approccio vi è l’esperienza vissuta della relazione dialogica tra terapeuta e cliente, i quali, attraverso un’immagine buberiana, sono un Io e un Tu, chiamati entrambi a condividere responsabilmente la significatività dell’evento dell’incontro, ma anche ad abitare questo spazio in termini differenti. È nella loro unicità di soggetti incarnati che essi sono chiamati a vivere l’esperienza presente. Il terapeuta, pur sospendendo il giudizio (epoché) su valori o opinioni che egli non condivide, è impegnato4 a smascherare quei meccanismi nevrotici del paziente, come l’eccessiva verbalizzazione o intellettualizzazione, che, in quanto strutture rigide e vuote, divengono vere e proprie strategie manipolatorie, che permettono al paziente di evitare il conflitto, impedendogli però contemporaneamente di stare in contatto con ciò che sente – o con quella parte di sé che è considerata irrilevante e che solitamente rimane sullo sfondo – e di allargare così il proprio campo di “visione” del fenomeno, raggiungendo una maggior consapevolezza5. Questa consapevolezza è una sorta di risveglio (insight), un accorgersi di esistere come totalità senziente, un veder-si attore della propria esistenza, è un riappropriarsi del termine “Io”, cercando di coniugare il dire, il sentire e il pensare. Gli autori di riferimento, Perls, Goodman, Hefferline, a commento delle famose immagini esemplificative del fenomeno percettivo figura-sfondo, sottolineano come la possibilità di vedere con chiarezza – ad esempio: o il volto della giovane o quello della vecchia – è un evento legato all’organizzazione personale del nostro modo di percepire abitualmente la 4 Non direi che il terapeuta è “coinvolto” nella relazione, ma userei il termine francese di engagé, volendo sottolineare la sfumatura dell’investimento di energie personali che egli mette in gioco non solo per favorire l’uscita dalla crisi del paziente, ma per mantenere anche il contatto con il proprio sé, cosa importante per non rischiare di essere sopraffatto dalla relazione stessa. Il terapeuta quindi non è in contatto solo con il mondo del cliente, ma anche con i propri moti interiori, i quali, affinché la relazione sia il più possibile trasparente, possono essere anche espressi al cliente. 5 In termini tecnici, a proposito di questa maggiore consapevolezza, si può parlare di chiusura del ciclo della Gestalt o ciclo dell’esperienza. L’interruzione del ciclo, che determina la non compiutezza della figura, legata a un evento traumatico del passato, determina il dispendio di energie nel presente che è alla base del disturbo e del malessere avvertito dal paziente e che può assumere tratti anche psicosomatici. La risoluzione implica la chiusura e definizione della forma, ma essa è solo una momentanea manifestazione di un movimento che è, in sé, inesauribile.

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realtà e che solitamente ci soddisfa. È possibile optare per un’alternativa o accettando semplicemente che questa possibilità esista, perché ci fidiamo o ci facciamo convincere dal parere altrui, o perché qualcuno ci invita a soffermarci su un particolare magari prima non considerato, per poter da qui, all’improvviso, renderci conto con sorpresa dell’esistenza dell’altra significativa possibilità che la figura nasconde, altrettanto chiara e netta. L’atteggiamento più costruttivo evidentemente è il secondo proposto, cioè quello che non riposa sull’accettazione indiscussa di una verità rivelata, ma che mira a una consapevolezza che, pur mediata, ci possa appartenere. Si può utilizzare dunque anche per la terapia gestaltica il termine di “comprensione” che – guarda caso – ruota intorno al concetto di visione, inteso come un “rendersi conto” che tiene presente i mascheramenti impliciti, nel racconto della verità, che si possono cogliere non solo concentrando l’attenzione sull’aspetto prettamente logico-linguistico, ma più in generale su quello espressivo, facendo quindi attenzione anche alla comunicazione pre-verbale. Riprendendo l’esempio fatto, l’accordo sul doppio volto del disegno non si decide solo su un piano di mera accettazione verbale, poiché il poter “vedere” è un accordo consapevole, che, usando la metafora musicale, richiede la “risonanza” del nostro essere nella sua interezza. L’insight dunque è prima di tutto un’esperienza! In quest’ottica si può parlare – non dimenticando l’importanza che per la terapia riveste il tema dell’autenticità della relazione stessa – di ricerca della “verità” nella relazione, intesa come processo dialettico, in cui la particolarità delle due prospettive viene non tanto logicamente, quanto piuttosto fenomenologicamente superata nello spazio di un terzo termine che, in termini psicologici, è «confine, membrana osmotica che avvolge l’organismo e al contempo gli permette di interagire con il suo ambiente»6 . Martin Buber chiama “tra”, traità (zwischen), questo spazio comune, non un concetto sentimentale d’intima fusione degli orizzonti del consulente e del consultante, ma una dimensione che garantisce l’apertura necessaria per svincolarsi dal contingente, dal meramente soggettivo, pur senza perdersi nell’astrattezza di un lògos neutro, universale e totalizzante7. 6

Pietro Andrea Cavalieri, Dal campo al confine di contatto. Contributo per la riconsiderazione del confine di contatto in psicoterapia della Gestalt, in (a cura di Margherita Spaguolo Lobb), Psicoterapia della Gestalt, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 49. 7 In Colpa e sensi di colpa, tra l’altro, il filosofo ebreo compie un altro gesto interessante: nella sua critica rivolta alle psicoterapie di matrice freudiana e junghiana, pur sottolineando che ogni malattia dell’animo è una malattia della relazione, sposta l’attenzione dal piano meramente morale umano a quello dell’essere umano. La colpa è una ferita che appartiene all’ordine dell’essere: potremmo dire che il nostro essere colpevole è più originario del senso di colpa legato a un fatto

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A questo punto potremmo chiederci: ma questo in-sistere dei due soggetti in questo spazio di “prossimità distante” può essere inteso propriamente come un modo di pensare? Questa idea di ricerca della verità può interessare la filosofia, prima, e dunque la consulenza filosofica? Direi di sì nel momento in cui la relazione diventa struttura ontologica, paradigma per interpretare il mondo, l’essere nel mondo, il nostro essere nel mondo anche come comunità intersoggettiva e linguistica. Ciò che la pratica filosofica potrebbe problematizzare è l’interpretazione ingenua o retorica di “comunità intersoggettiva”, per cui la consulenza sarebbe uno spazio d’incontro scevro da contrapposizioni, in cui l’altro si dovrebbe sentire a tutti i costi a “casa propria” e quindi accettato incondizionatamente e in cui il dialogo sia garante di per sé di trasparenza e di accesso alla verità. Nel dialogo siamo comunque gettati nel gioco di velatezza e svelatezza della verità, ma con la prospettiva di costruire maieuticamente ciò che Stefano Zampieri chiama “verità locali”8. La consulenza potrebbe, accettando appunto il famoso gioco percettivo gestaltico, porre in primo piano l’esperienza della “non-familiarità”, grazie a cui il consultante può imparare a “sopportare” la messa in discussione (pòlemos) del proprio modo di leggere sé e il mondo, integrando anche questo elemento “perturbante” in un’ottica di crescita e maturazione personale o comunque di pratica utile ad ampliare la propria prospettiva di comprensione. A questo proposito Ran Lahav in Comprendere la vita torna spesso sul concetto di insight. Ad esempio, a proposito della tradizione filosofica, afferma che in essa il consulente può ritrovare anche «tesori di insight, linee di pensiero valide e valide distinzioni, concetti e strumenti di pensiero che possono essere d’aiuto»9. Nel caso di studio fittizio Consulenza a Schopenhauer Lahav parla di allargamento dell’insight per poter “vedere come procedere” e dunque per passare da un ripiegamento su di sé prettamente egocentrico a un movimento eccentrico (andare oltre i confini ristretti del proprio io, per abbracciare una visione universale del problema, in questo senso più “saggia”). Lahav però fa notare come non tutti gli insight abbiano lo stesso impatto sul consultante, perché non sempre «alla comprensione teorica segue una radicale trasformazione interiore»10; questa, infatti, richiede un tipo «speciale d’ispirazione»11. La questione dell’“ispirazione” apre prospettive determinato accaduto nella nostra vita, è una condizione che ci accomuna e che ha a che fare con la nostra fatticità o, in termini più vicini al pensiero ebraico, alla nostra creaturalità. Cfr. Martin Buber, a cura di Luca Bertolino, Colpa e sensi di colpa, Milano, Apogeo, 2008. 8 Cfr. Stefano Zampieri, L’esercizio della filosofia, Milano, Apogeo, 2007, p. 85. 9 Ran Lahav, Comprendere la vita, Milano, Apogeo, 1994, p. 44. 10 Ran Lahav, Op. cit., p. 122. 11 Ibidem.

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forse inaspettate e ci pone di fronte a un interrogativo: la pratica filosofica può “accontentarsi” di promuovere una più esaustiva e migliore comprensione di sé e del mondo, considerando la trasformazione personale come un possibile, forse auspicabile, ma non necessario, effetto secondario, lasciando così all’arte e alla religione la possibilità di “ispirare” e di motivare un radicale cambiamento?

Alla ricerca di un’ispirazione: “poeticamente abita l’uomo?” In Teoria e pratica della Gestalt la personalità è definita come una “struttura di abitudini di parola”12. Perls, Hefferline e Goodman ritengono che coltivare il linguaggio significhi mantenere una successione flessibilmente aperta e sempre creativa. Nella nostra cultura si è invece assistito a un progressivo appiattimento e impoverimento della personalità verbalizzante che diventa come il linguaggio che usa: stereotipata e essenzialmente alienata dal contesto affettivo e intersoggettivo. Si tratta di un linguaggio più semplice, facile all’uso, che ci fa vivere in una situazione di tregua perenne e illusoria, rispetto a una conflittualità che comunque rimane il tratto distintivo della nostra esistenza. La filosofia di Perls è una “filosofia dell’ovvio” perché ci invita a ritornare su ciò che è apparentemente semplice e scontato e a considerare, ad esempio, la parola poetica come un luogo di confine e di contatto, potremmo chiamarlo, in termini heideggeriani, luogo originario di un linguaggio dimenticato, carico di stratificazioni di significato e di senso. Se il confine può essere definito, in termini abbastanza generali, il luogo dell’esperienza dell’interazione tra organismo e ambiente, luogo di distinzione ma anche d’integrazione con l’altro da sé, e luogo dunque dell’evento psichico, l’atto del contatto nella relazione terapeutica «non rinunzia mai al potere della parola, ma le ridà una freschezza e un sapore che spesso la quotidianità perde di vista». Il contatto che si sperimenta nella terapia, dunque, ha a che fare con la poesia come luogo in cui la parola si può ri-trovare, perché non si tratta più di un parlare anonimo in fuga da noi stessi e dagli altri. «La terapia potrebbe essere descritta come un lungo cammino in cerca di una parola: ciò che spinge il paziente, alla stessa maniera dei poeti, è il desiderio della parola che sia buona per dir-si, per dire l’unicità della propria esperienza»13. 12

Fritz Perls, Ralph F. Hefferline, Paul Goodman, Teoria e pratica della Gestalt, cit., p. 129. Antonio Sichera, A confronto con Gadamer: per una epistemologia ermeneutica della Gestalt, in Psicoterapia della Gestalt, cit., p. 39. 13

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Non c’è dunque reale cambiamento, risoluzione del conflitto, senza un linguaggio che li possa nominare, ma non ci può essere parola autentica senza che la comprensione e il possibile cambiamento non siano, prima di tutto, un vissuto, un’esperienza. Anche l’incontro di consulenza può essere interpretato come lo spazio in cui siamo chiamati a interrogare il linguaggio e la sua enigmaticità, sempre e di nuovo, come esercizio fenomenologico, perché il noto proprio perché noto non è conosciuto. D’altra parte seguire l’invito di Perls a vivere la traità usando non solo testi letterari, ma in particolar modo il linguaggio poetico, significa forse addentrarsi in un territorio – guarda caso – di confine e chiedersi quale ruolo possa avere all’interno dell’incontro di consulenza l’utilizzo non solo della suggestione poetica, ma anche del linguaggio delle arti figurative, della musica. L’arte, o meglio le arti, con i loro diversi linguaggi, potrebbero rappresentare i luoghi che custodiscono l’evento della verità, come “disvelamento dell’essere”, non di una verità interpretata come adeguazione del nostro intelletto alla “cosa”, bensì come luogo del “convegno dei lottanti”: Heidegger afferma che la lotta non è […] una fessura che «spalanchi il baratro, ma è l’intimità di un convenirsi reciproco dei lottanti (…)». Questa fessura non permette che gli oppositori si dilacerino separandosi, ma inserisce la contrapposizione di misura e limite in un unico contorno […]. La lotta che viene condotta nella fessura – e in tal modo ricondotta alla Terra – è la figura [Gestalt ]14.

Personalmente, senza addentrarmi oltre in questo che è un argomento complesso e meritevole di una trattazione più approfondita, ritengo che questo esercizio teso a considerare favorevolmente il rapporto tra pratica filosofica e letteraria, possa essere utile in consulenza, perché la parola come soglia è uno spazio insieme visibile e invisibile, immediato e inaccessibile; com’è in fondo la nostra esperienza quotidiana, che rinvia a un orizzonte di senso non sempre così evidente né a noi stessi né agli altri e che, come il linguaggio, ha in sé qualcosa di enigmatico. E, inoltre, ricordando un passo della Poetica aristotelica, lo storico e il poeta non sono differenti perché si esprimono in versi oppure in prosa: gli scritti di Erodoto si possono volgere in versi e restano sempre un’opera di storia con la struttura metrica come senza metri. Ma la differenza è questa, che lo storico espone gli eventi reali e il poeta quali fatti possono

14

Paolo Cappelletti, L’inafferrabile visione, Milano, Jaca Book, 2003, p. 60.

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avvenire. Perciò la poesia è attività teoretica e piú elevata della storia: la poesia espone piuttosto una visione del generale, la storia del particolare15.

L’arte che, sempre seguendo la filosofia heideggeriana, “nella sua essenza è Poesia”, ha il merito di porre in evidenza la categoria della possibilità rispetto a quella di necessità; e la ricerca, nello spazio della consulenza filosofica, può essere indirizzata anche a un’indagine sulle diverse possibilità e scelte di vita, rispetto a un copione che credevamo già definito. Martha Nussbaum a tal proposito, seguendo anche l’insegnamento stoico, dopo aver chiarito che le emozioni hanno una struttura cognitiva e narrativa, tematizza la questione dello spazio potenziale dischiuso dall’attività estetica: Ho affermato che lo «spazio potenziale» dell’attività estetica è quello in cui indaghiamo e sperimentiamo le diverse possibilità della vita […]. Il lettore o lo spettatore di un’opera sta contemporaneamente leggendo il mondo e la propria identità […]. La comprensione cognitiva non è prodotta dall’esperienza emotiva, è intrinseca ad essa16.

Gli spettatori, assistendo a una tragedia o leggendo un romanzo, colgono gli eventi come universali possibilità umane e li considerano come possibilità anche per se stessi. Scegliendo un personaggio per identificazione o per reazione o intuendo la visione della vita espressa dal testo, condividendola o criticandola, essi squarciano lo spesso velo dell’abitudine rimettendosi in contatto con la vita nella sua anche cruda nudità. Non si tratta dunque di confondere la pratica poetica e quella filosofica – l’una si riferisce direttamente all’esperienza nella sua irripetibilità, l’altra strumentalmente17 –, ma di interrogarsi se la filosofia della consulenza debba esclusivamente essere un esercizio logico e definitorio alla ricerca di una verità oggettiva e universale, che si cristallizza in concetti senza voce né suono, oppure se, recuperando il valore dell’esperienza vissuta dialogica, non debba piuttosto riconoscere il legame vitale tra concetto ed espressione sensibile, considerando la ragione come luce che definisce e limita i contorni, ma anche come luce che rende evidente il movimento di velatezza e svelatezza della verità che si dà, mai compiutamente, in figure, in segni, gioco in cui è possibile comprendere il senso di ciò che intendiamo con il termine “meraviglia”.

15

Aristotele, Poetica, 1451b. Martha Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna, 2004, pp. 298-99. 17 Cfr. Carlo Sini, Il segreto di Alice, Milano, Edizioni Albo Versorio, 2006, p. 128. 16

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Al di là dunque delle debite differenze tra i mondi phi e psy, l’utile esercizio di definizione e ridefinizione dei nostri confini non può che pensarsi se non all’interno di una cultura del limite. Per questo concluderei con un’immagine di Merlau-Ponty che definisce la filosofia come un “possesso a distanza”, come una domanda-sapere non superabile da nessuna risposta definitiva (perché è in relazione a un interlocutore muto o quanto meno reticente), come un “esercizio del sospetto” che sa riconoscere che ciò che permette in fondo il dia-logo tra gli uomini è fondamentalmente la traccia di un residuo, di una perdita, e che è in questo spazio che possiamo forse intuire la presenza del mistero del linguaggio; intorno al quale in definitiva mi sembra possa ruotare il senso di questo confronto tra consulenza filosofica e Gestalt Therapy: Le parole cessano di essere accessibili ai nostri sensi e perdono il loro peso, il loro rumore, le loro linee, il loro spazio (per diventare pensieri). Ma il pensiero da parte sua rinuncia (per diventare parola) alla sua rapidità o alla sua lentezza, alla sua sorpresa, alla sua invisibilità […]. Questo è dunque il mistero del linguaggio18.

Riferimenti bibliografici AA.VV., Psicoterapia della gestalt. Ermeneutica e clinica, (a cura di Margherita Spaguolo Lobb) Milano, Franco Angeli, 2003. AA.VV., Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni, Trapani, Di Girolamo, 2008. AA.VV., In formazione, Psicoterapia, counselling, fenomenologia. Fenomenologia e Gestalt, Forme dell’intenzione. Atti del congresso (gennaio-febbraio 2003), Roma, I.G.F. s.r.l. AA.VV., Frammenti di counselling, raccolta 2005, vol. 3, Pordenone, Istituto Gestalt Pordenone, 2005. Aristotele, Poetica, Milano, Rizzoli, 1987. Buber Martin, Colpa e senso di colpa, Milano, Apogeo, 2008. Buber Martin, Il principio dialogico e altri saggi, Milano, ed. San Paolo, 2004. Cappelletti Paolo, L’inafferrabile visione, Milano, Jaca Book, 2003. Carlo Sini, Il segreto di Alice, Milano, Edizioni Albo Versorio, 2006. Heidegger Martin, In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 1991. Heidegger Martin, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1990.

18

Maurice Merlau-Ponty, La prose du monde, Paris, Gallimard, 1969, p. 163.

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Lahav Ran, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, Milano, Apogeo, 2004. Mancini Sandro, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione, Milano, Mimesis, 2001. Merlau-Ponty Maurice, La prose du monde, Paris, Gallimard, 1969. Nussbaum Martha, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna, 2004. Perls Fritz, Hefferline Ralph F., Goodman Paul, Terapia e pratica della Gestalt, Roma, Astrolabio, 1997. Perls Fritz, La terapia gestaltica parola per parola, Roma, Astrolabio, 1980. Ricoeur Paul, Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1996. Zampieri Stefano, L’esercizio della filosofia, Milano, Apogeo, 2007.

Dialogo tra consulenza filosofica e medicina psicosomatica di Paola Santagostino

Un dialogo e un confronto tra Consulenza Filosofica e Medicina Psicosomatica sarebbe vagamente possibile se esistesse “una” Medicina Psicosomatica in qualche modo omogenea, almeno negli assunti di base. Invece esistono concezioni talmente diverse e spesso opposte, che la prima cosa che un filosofo è portato a fare è individuarne le differenze, le divergenze e a volte le incompatibilità, e quindi in definitiva dialogare con ogni linea di pensiero presa singolarmente.

Medicina e filosofia Più in generale potremmo dire che “ogni” medicina ha sempre sottinteso una sua ben specifica filosofia, una filosofia che ha considerato in modi diversi il significato dell’esistenza dell’essere umano su questo pianeta, la sua relazione con la vita e la morte, che cosa si debba ritenere che siano salute o malattia, quali ne siano le cause e le sorti, e quanto vi influiscano le relazioni dell’individuo con gli altri e con il contesto naturale. Non c’è stata “una” medicina ma tante medicine diverse nel corso dei secoli e in aree culturali differenti, e ognuna implicava una propria filosofia di base: filosofie diverse che hanno orientato in modo molto diverso sia l’intervento pratico che l’orizzonte teorico delle medicine che ispiravano. Per fare un esempio, la Medicina Primitiva riteneva che la malattia non riguardasse mai l’individuo singolo ma l’intero gruppo sociale, e che fosse dovuta alla rottura dell’equilibrio con le grandi forze della natura. Questo ovviamente orientava la terapia ad occuparsi sì di applicare qualche rimedio alla condizione del malato (che era solo il punto visibile di manifestazione) ma molto di più a intervenire sulla relazione del gruppo con gli spiriti naturali, riallacciando il dialogo interrotto e ristabilendo l’armonia in un processo collettivo di cura. Una visione del tutto estranea alla Medicina Moderna, in cui la malattia fisica è rigorosamente del singolo e riguarda solo il suo corpo.

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Potremmo dire che le varie medicine che si sono succedute nel corso dei secoli sono state tutte, alcune più e altre meno, abbastanza “psicosomatiche”, nel senso che hanno previsto una relazione e un’interazione piuttosto stretta tra il modo di pensare, lo stato d’animo e la malattia di un soggetto. Pensiamo ad esempio alla Medicina Orientale fondata sulla circolazione energetica che determina contemporaneamente le disposizioni mentali, gli stati d’animo e il funzionamento degli organi interni; o alla Medicina Pitagorica della relazione tra macrocosmo e microcosmo o persino alla nostra Medicina Umorale (che ha dominato la scena occidentale per più di duemila anni) e che vedeva nella predominanza di un umore del corpo la spiegazione delle disposizioni anche psichiche e caratteriali del soggetto. Un certo allontanamento della mente dal corpo in occidente ha avuto origine in un passaggio avvenuto nella filosofia greca, ma la netta e definitiva separazione tra processi fisici e mentali è storicamente recente nel pensiero medico, e non ha retto neppure duecento anni prima che emergessero critiche e ripensamenti al suo stesso interno. La totale frattura mente-corpo e l’affermazione della completa indipendenza e incommensurabilità dei loro processi è tipica solo della Medicina Moderna ed ha una chiara matrice filosofica in una vulgata della distinzione cartesiana tra mente e corpo, che relega il corpo nell’ambito dei processi puramente meccanici e lo estranea dalla sfera dei processi mentali. Ovviamente se si aderisce a questa concezione non rimane molto spazio per un confronto tra medicina e filosofia, né alcuno spazio per il corpo e le sue modificazioni in Consulenza Filosofica… Ma le cose stanno rapidamente cambiando nella filosofia del pensiero medico e ora si prospetta un nuovo orizzonte: il concetto base delle ricerche attuali è la stretta e costante interconnessione tra processi mentali, affettivi e fisici e alcuni recenti libri sugli sviluppi delle neuroscienze si intitolano L’errore di Cartesio e Alla ricerca di Spinoza1. Oserei dire che veniamo nuovamente chiamati in causa come filosofi…

1 L’errore di Cartesio, Emozioni e coscienza e Alla ricerca di Spinoza, pubblicati da Adelphi (Milano) 1995-2000-2003, fanno parte della trilogia di Antonio Damasio, una delle figure di maggior spicco a livello mondiale nel campo delle neuroscienze. Nato a Lisbona nel 1944, medico e neurologo, direttore fino al 2005 del dipartimento di neurologia dell’University of Iowa e attualmente docente all’Università Southern California, Antonio Damasio espone nei tre testi le più recenti scoperte nel campo delle neuroscienze e fa delle interessanti riflessioni sui loro risvolti filosofici, proponendo un modello di comprensione dei fenomeni della coscienza.

DIALOGO

TRA CONSULENZA FILOSOFICA E MEDICINA PSICOSOMATICA

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Le due anime della psicosomatica Per tornare alle diverse linee di pensiero presenti all’interno della Medicina Psicosomatica c’è da notare che al suo interno coesistono da sempre le due anime con cui è nata agli inizi del Novecento, che si incontrano e spesso si scontrano vivacemente: l’anima medica e l’anima umanistica. Il confronto e il dialogo della Filosofia con l’anima medica della Psicosomatica è spesso difficile, e questo è dovuto anche a questioni di linguaggio: questa linea infatti si esprime prevalentemente in termini tecnici di variazioni dei dati fisiologici e di statistiche sulle correlazioni tra casi clinici e utilizza un impianto scientifico piuttosto estraneo al pensiero filosofico. Anche se oggi potrebbe essere molto interessante per un filosofo rivedere criticamente i risvolti concettuali di alcune delle nuove scoperte, questa rimane un’operazione niente affatto semplice. Invece il confronto con l’anima umanistica della Psicosomatica risulta estremamente agevole al filosofo, perché si tratta in sostanza di filosofie, con ciascuna delle quali si può rapportare e confrontare come con ogni altra. Schematizzando molto possiamo dire che tra le diverse linee di pensiero compresenti all’interno della Medicina Psicosomatica ne esistono certe che lasciano sostanzialmente inalterato l’intero impianto base della Medicina Moderna e che prevedono solo “alcuni” casi specifici in cui “alcune” malattie fisiche vengono influenzate dallo “stress” (ovvero da circostanze di vita e da reazioni personali a tali situazioni che generano o che aggravano la condizione fisica). Queste forme di Psicosomatica si collocano esplicitamente come una specializzazione della Medicina generale e non ne mettono minimamente in discussione l’impostazione filosofica, né dubitano della sostanziale meccanicità dei processi fisiologici, sia normali che patologici. Altre linee di pensiero invece sono state fin dall’inizio molto più critiche e hanno inteso la Psicosomatica come una visione interamente nuova dei rapporti mente-corpo, che ridiscuteva concettualmente i fondamenti stessi della separazione. Ovvero hanno considerato la Medicina Psicosomatica come una modalità generale di pensiero, più che come una forma di intervento pratico: una modalità che cercava di cogliere l’unità dei processi fisici e psichici e che riusciva a comprendere il significato della malattia all’interno dell’accadere psicofisico del soggetto che ne è colpito. In altre parole hanno inteso la Medicina Psicosomatica come una filosofia del corpo. Non è un caso che parecchi autori fossero essi stessi filosofi, o comunque si riallacciassero a grandi pensatori del Novecento.

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La Daseinsanalyse di Medard Boss Solo per dare un esempio di una delle impostazioni umanistiche mi riferisco a Medard Boss2, forse l’autore più dichiaratamente filosofico della Psicosomatica, che ha cercato di applicare le concezioni di Martin Heidegger alla medicina, come Binswanger aveva già fatto per la psichiatria. Secondo Medard Boss solo per astrazione si può parlare di funzioni somatiche, di funzioni psichiche o di malattie. Nella realtà non esiste “l’ulcera”, esiste “la mia ulcera” o più precisamente ancora “il mio stomaco che adesso mi fa male”. Il corpo non è un oggetto, ma il momento di passaggio nella realizzazione dei rapporti con il mondo, rapporti che costituiscono l’esistenza. Non si può parlare per Boss di un essere astratto e scorporato dalle sue relazioni con il mondo, ma solo di un “esserci” e di un “esserci in relazione con”. Il corpo appartiene alla relazione dell’esserci con le cose del mondo. Un determinato “modo d’essere” è per Boss contemporaneamente uno stato fisico, uno stato psichico e una percezione dell’ambiente esterno. Anche il mondo esterno viene infatti percepito soggettivamente secondo il proprio stato d’animo: la medesima stanza può apparire a uno piccola e gradevolmente raccolta e a un altro angusta e spiacevolmente soffocante. Il “modo d’essere” informa tutte le relazioni con il mondo: per esempio il “modo d’essere della collera” vede negli oggetti e negli altri delle barriere che si oppongono alla sua espansione fisica e psichica e vive nel desiderio di distruggere questi ostacoli; il “modo d’essere della paura” è un vissuto di restringimento e di chiusura: il corpo si rattrappisce, la gola si serra, l’intestino e la vescica sono spremuti come un limone, la chiusura e il desiderio di fuga caratterizzano tutti i rapporti con l’ambiente. Dice Boss che per il dasein la corporeità è una sfera dell’esistenza, la quale si realizza in maniera psichica e somatica. L’esistenza è sviluppo in relazione alle cose che la costituiscono: volontà, desideri, azioni, pensieri, sentimenti. I comportamenti psichici, come i modi d’essere del corpo, dipendono dalle relazioni vitali e si conformano rigorosamente alle maniere di esistere che le impregnano. Secondo l’autore l’uomo, libero di esprimersi pienamente, soffre se non lo fa. Le forme di relazione con il mondo evitate sono le condizioni di genesi di disturbi 2 Medard Boss (1903-1990), psichiatra e psicoanalista svizzero, ha sviluppato la Daseinsanalyse ispirandosi alla filosofia fenomenologico esistenziale del suo maestro e amico Martin Heidegger, accogliendo ampie influenze anche da Eugen Bleuler. È autore di Einführung in die psychosomatische Medizin, Berna 1954, tradotto in francese in Introduction a la médicine psychosomatique, Presses Universitaires de France, 1959, testo da cui sono state tratte tutte le citazioni che seguono.

DIALOGO

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fisici e psichici. Buona parte dei disturbi organici si fondano su questo “evitare” alcune possibilità vitali. L’essere umano «è come un violino: può suonare mille melodie, alle modalità d’essere evitate non resta per esprimersi che la sfera muta della corporeità». Il malato non vive più certe modalità di relazione con il mondo con tutto il suo essere, ma solo con il suo corpo: le “corporeizza”. Per Boss esistono sostanzialmente due modi di ammalarsi: nel primo caso alcune modalità d’essere al mondo sono escluse dalla piena realizzazione e la trovano solo nella sfera corporea; mentre nel secondo caso l’uomo si fissa su un unico modo d’essere al mondo, sempre e solo quello, limitando così l’infinita gamma delle sue potenzialità esistenziali e il suo corpo incarna questa unilateralità. In entrambi i casi il senso della malattia è dato dalla realizzazione anomala di una possibilità vitale: troppo poco realizzata e solo corporeamente nel primo caso, troppo realizzata e a scapito di tutte le altre possibilità nel secondo. Il tipo di malattia che insorge non ha nulla di meccanico o di casuale, ma è invece necessariamente determinata, in quanto «è la relazione con il mondo, quella che in quel momento l’esistenza di un uomo produce, ciò che determina i modi del corpo e determinerà l’attualizzazione delle parti del corpo che appartengono a quella relazione, o meglio ancora che sono quella relazione fisicamente»: le regioni del corpo colpite dalla malattia sono quelle che appartengono alla relazione col mondo interrotta o esasperata. Seguendo questa linea Medard Boss propone una lettura delle più diffuse malattie in termini di “modi d’essere al mondo” specifici e peculiari per ognuna di esse, e offre la sua ipotesi del significato esistenziale dei mali del corpo, dalla costituzione ereditaria agli incidenti e a tutte le principali disfunzioni dell’apparato respiratorio, digestivo, cardiocircolatorio, muscoloscheletrico: asma, ipertensione, gastrite, colite, reumatismi e via dicendo. Come si colloca l’intervento terapeutico nella prospettiva dell’“esserci con il mondo”? Medard Boss non fa una distinzione tra malattie psicosomatiche e non psicosomatiche: «La comprensione adeguata di un paziente non può che essere sempre “psicosomatica” in quanto è l’uomo totale che soffre». Diverso è il problema dell’efficienza dell’intervento, che può essere sia fisico che non: «La terapia cercherà sempre e comunque di riportare il dasein alla sua normale apertura. A tal fine possono essere usati interventi diversi: fisici e psichici. Una psicoanalisi esistenziale può fare molto se è intesa come un processo di trasformazione complessiva dell’esserci nei suoi rapporti e relazioni con il mondo. Gli interventi chirurgici o farmacologici avranno senso solo quando si tratta di assicurare quel minimo di durata vitale che è la condizione sine qua non di ogni cambiamento esistenziale».

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Le categorie di tempo e spazio e il linguaggio simbolico Diverse applicazioni dei concetti di Martin Heidegger alla Medicina Psicosomatica hanno portato alcuni autori a pubblicare degli interessantissimi lavori di analisi delle categorie di spazio e di tempo in pazienti affetti da varie malattie3. Questi certo sono temi con cui un filosofo si trova pienamente a suo agio, anzi direi che sono proprio dei lavori squisitamente filosofici. Ritengo che possano essere interessanti anche per la Consulenza Filosofica, nel senso che permettono un’apertura di comprensione alle sofferenze del corpo pur rimanendo strettamente nel proprio campo. Una formulazione ancora più unitaria dei rapporti mente-corpo è stata data da Luis Chiozza4, medico e psicoanalista argentino fondatore del Centro Weizsaecker e della Fundaciòn Luis Chiozza di Buenos Aires, una delle istituzioni più attive e interessanti operanti oggi nel campo della Medicina Psicosomatica. Chiozza ritiene che la materia stessa costituisca un linguaggio simbolico universale, tanto che la sua organizzazione in forme e funzioni rientra a pieno titolo nell’universo semantico. Gli organi del corpo e le loro funzioni (sia normali che alterate) divengono quindi “decifrabili” quanto un discorso e comprensibili nei loro significati.

Per un confronto tra Consulenza Filosofica e Medicina Psicosomatica Ma al di là delle diverse teorie esiste almeno “una” pratica psicosomatica con cui la Consulenza Filosofica si possa confrontare? Le notevoli divergenze teoriche in seno alla Medicina Psicosomatica hanno inevitabilmente comportato anche una tale eterogeneità di pratiche 3 Per esempio Oliver Loras, medico e psicoanalista francese, ha studiato le categorie di spazio e di tempo nei soggetti asmatici pubblicando L’espace de l’asthmatique in “Evolution Psychiatrique” 26:1, 1961 e L’ Asthme: angoisse du souffle. Conception nouvelle et guérison psychothérapique, “Librairie du Rhône”, 1961. 4 Luis Chiozza (1930 – vivente) opera attivamente da oltre mezzo secolo nel campo della Medicina Psicosomatica ed è autore di un’imponente mole di opere, consultabili direttamente via internet dal sito della Fondazione Chiozza: http://www.funchozza.com. Parecchi testi sono stati tradotti e pubblicati anche in italiano, tra cui: Perché ci ammaliamo?, Roma, Borla, 1989; Corpo, affetto e linguaggio, Milano, Loescher, 1981, e Psicoanalisi dei disturbi epatici, Perugia, Eidon Edizioni, 2003. In Italia c’è una Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Psicoanalitica secondo lo Sviluppo di Luis Chiozza (riconosciuta dal MIUR) presso l’Istituto Arminda Aberastury di Perugia, fondato e diretto da Carlo e Rita Brutti.

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che è non è proprio possibile considerarle come un insieme unitario, ma soprattutto la Psicosomatica non usa solo la parola come strumento. Potremmo considerare genericamente “psicosomatiche” tutte quelle applicazioni che presuppongono a monte una riflessione che cerchi di cogliere l’unità dei processi fisici e psichici del soggetto a cui si rivolgono (indipendentemente dal tipo di intervento che poi scelgono di volta in volta di utilizzare nel caso specifico). Ma questo ovviamente lascia aperto il campo a un’amplissima ed eterogenea serie di applicazioni, che possono includere un massaggio come un movimento di danza, la prescrizione di un farmaco come una seduta di agopuntura e anche l’uso del colloquio (in psicosomatica si tende ad utilizzare più di uno strumento in forma integrata). Può essere più facile per la Consulenza Filosofica confrontarsi con la teoria che sostiene una certa pratica che non con la sua applicazione. Comunque il colloquio è una delle possibilità ampiamente utilizzate in Psicosomatica, e in ogni caso l’interazione dialogica interviene in tutte le applicazioni e la “forma della parola pronunciata” è considerata una parte fondamentale della terapia. Ora, rifacendoci ai punti che Neri Pollastri5 ha indicato come distintivi della Consulenza Filosofica rispetto ad altre le forme di intervento che usano la parola come proprio strumento, potremmo anche dire che il colloquio in Medicina Psicosomatica non sembra assomigliare molto a quello della Consulenza Filosofica perché si orienta alla soluzione del problema, utilizza il concetto di inconscio, usa schemi di riferimento propri, si vale più della comunicazione simbolica che dell’analisi concettuale e molto altro ancora. Ma nonostante questo ritengo che le affinità tra Consulenza Filosofica e (quanto meno alcune correnti) della Medicina Psicosomatica siano molto profonde, e che il confronto possa essere particolarmente interessante e produttivo. a) Dove sta secondo me il punto di profondo contatto? Sta nel fatto che sia Consulenza Filosofica che certe linee della Psicosomatica si schierano sul versante della comprensione del fenomeno in corso e non della sua eliminazione tout court. Certo in Psicosomatica c’è un’esplicita intenzionalità di cura, ma il canale portante della cura stessa è la comprensione dei possibili significati che la malattia sta veicolando, delle modalità di pensiero e di rapporto con il mondo che essa incarna. Anzi per alcuni autori, come

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Cfr. il contributo di Pollastri in questo stesso volume.

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ad esempio Georg Groddeck6, la malattia è di fatto una soluzione e non un problema, soluzione forse imperfetta ma che malato e terapeuta devono cercare insieme di comprendere prima di vedere “se” esistono altre possibili o migliori forme di gestione della problematica sottesa. Questo tipo di orientamento nettamente focalizzato alla comprensione della sofferenza, le offre un diritto di esistenza e una sua funzione, articolata e intelleggibile nel contesto dell’essere al mondo del soggetto e nella sua rete di rapporti interpersonali e sociali. In questo senso ritengo che Consulenza Filosofica e alcune linee della Psicosomatica si trovino più vicine tra loro rispetto ad altri tipi di intervento (anche verbali) che mirano direttamente alla soluzione del problema, e in alcuni casi anche indipendentemente dalla sua comprensione da parte del soggetto che lo lamenta, dando per scontato che la sofferenza sia comunque qualcosa di “patologico” e di negativo, disfunzionale e sostanzialmente estraneo all’umano o quanto meno a un modello astratto di “normalità”. Quello che qui entra in gioco sono i concetti stessi di salute e di malattia, di normalità e di patologia. Nell’ambito dei processi corporei è facile definire un modello di sanità o di “normalità” come un buon funzionamento degli organi. Ma se si conferisce alla malattia (come fa Groddeck) una sua funzione, intesa sempre come difensiva e sostanzialmente protettrice della vita in senso lato, e un ruolo attivo e intenzionale nella gestione delle complesse dinamiche mentali emotive relazionali e sociali del soggetto, i confini della “normalità” diventano molto più sfumati, i concetti di malattia e di cura vanno ridefiniti e sostanzialmente escono dal paradigma terapeutico classico. b) La revisione del paradigma terapeutico In Psicosomatica rimane il concetto di malattia e di cura perché si ha a che fare con un oggettivo malfunzionamento degli organi. Ma mettendo in relazione le modificazioni organiche con l’intero accadere esistenziale del soggetto e con la sua rete di rapporti interpersonali e sociali (all’interno dei quali acquista un senso ben diverso dal semplice incidente meccanico e per6

Georg Groddeck (1866-1934) medico e Psicoanalista tedesco, è stato uno degli iniziatori e dei primi pionieri della Medicina psicosomatica. Dirigeva a Baden Baden una clinica dedicata soprattutto alla cura delle malattie croniche, in cui agli inizi del Novecento giungevano pazienti da tutta Europa. Ai trattamenti classici, molto orientati sull’alimentazione, il movimento, i massaggi etc. Groddeck iniziò ad affiancare i primi interventi di psicoanalisi, nella convinzione che l’Es dell’uomo producesse la malattia come la guarigione e che lo facesse per un motivo specifico. Tra le sue opere tradotte in italiano abbiamo Il libro dell’Es e Il linguaggio dell’Es, Milano, Adelphi.

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sino dalla “disfunzione” patologica individuale) si aprono nuove prospettive di comprensione della malattia come fenomeno che coinvolge il gruppo, la società e la cultura. c) Un concetto allargato di inconscio Anche per quanto riguarda il concetto di inconscio, l’inconscio della Psicosomatica non si rifà tanto alla teoria freudiana dell’inconscio come magazzino del rimosso (di ciò che una volta fu presente alla coscienza e poi ne venne espulso) quanto piuttosto all’inconscio “naturale” e insopprimibile di tutti i processi vitali organici che non sono mai stati né mai saranno coscienti. È un inconscio fatto dell’intelligenza che informa il funzionamento della materia stessa, e anche da tutti quei processi mentali associativi e molto articolati che stanno alla base di ogni pensiero e percezione cosciente ma che non sono in sé presenti alla coscienza. In questo senso la definizione molto allargata di inconscio (tutto ciò di cui il soggetto non è cosciente in un momento dato) a cui fa riferimento certa parte della Psicosomatica, è più vicina a quella di alcune recenti teorie delle neuroscienze che vedono il pensiero cosciente come “la punta dell’iceberg” di una complessissima serie di processi sommersi che lo permettono e lo strutturano. Quando in Consulenza Filosofica ci disponiamo a chiarificare i “presupposti impliciti” di una determinata forma di pensiero stiamo in un certo senso portando allo scoperto proprio quella matrice nascosta che genera convinzioni e associazioni, che sono sicuramente dei processi mentali, ma di cui il soggetto non è molto consapevole finché non vengono illuminati dall’analisi critica. d) L’attenzione alla rete delle relazioni interpersonali Quanto alla direzione centripeta della psicoanalisi rispetto a quella centrifuga della Consulenza Filosofica, in campo psicosomatico è sempre risultato evidente che la malattia fisica si inserisce molto attivamente nel contesto delle relazioni interpersonali attuali e presenti del paziente, ed è lì che opera con l’effetto di una vera e propria “azione” diretta verso l’esterno: permettendo e impedendo attività, modificando ruoli ed equilibri, conferendo uno status extra-ordinario a statuto speciale, intervenendo incisivamente come nient’altro nell’universo intersoggettivo e nel tessuto stesso della quotidianità, da cui deriva i suoi motivi e su cui riversa intenzionalità. Una comprensione “psicosomatica” della malattia non può prescindere da una specifica attenzione rivolta alle relazioni dell’individuo con il suo

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biente presente, alla rete di rapporti interpersonali e sociali in cui quell’essere sta realizzando la sua esistenza e in questo senso mi sembra molto vicina alla contestualizzazione del disagio che avviene in Consulenza Filosofica.

Il corpo e il campo di indagine filosofica C’è da notare che anche le varie forme di Consulenza Filosofica non prendono delle posizioni molto omogenee rispetto al tema del corpo e delle sue sofferenze. Solo per fare un esempio Lou Marinoff7 in Le pillole di Aristotele definisce l’ambito di intervento della Consulenza Filosofica in base alla distinzione tra “malattie vere” (tutte quelle fisiche o psichiche con evidenza organica), che vanno delegate in toto alle cure mediche tradizionali, e “i malesseri” (intesi come reazioni soggettive di disagio senza evidenza organica) che sono di competenza della Consulenza Filosofica. Anche se questa distinzione può sembrare superficialmente condivisibile, di fatto presuppone una specifica filosofia: quella tipica della Medicina Moderna che sostanzialmente riprende la netta distinzione cartesiana tra processi mentali e processi fisici, e ritiene che il corpo sia sede di eventi esclusivamente meccanici-chimici-elettrici privi di significato e di intenzionalità e quindi del tutto estranei a un interesse filosofico e da gestire solo con interventi farmacologici, e i processi puramente psichici della mente che possono essere discussi criticamente dalla Consulenza Filosofica. Anche se è evidente che gli stati di sofferenza dichiaratamente esistenziale si prestano più facilmente a una indagine filosofica e quindi costituiscono un campo di intervento privilegiato per la Consulenza Filosofica, non vedo perché si debba escludere per principio la possibilità di un approccio filosofico al corpo e ai suoi cambiamenti: il corpo in Consulenza Filosofica è il corpo vissuto e pensato, corpo parlato e parlante del cliente che è parte integrante del tessuto della sua esistenza e delle sue relazioni e non certo il corpo-oggetto dell’indagine medica.

7 Lou Marinoff, nato a Montreal in Canada, è Professore di filosofia al City College di New York e co-fondatore della American Philosophical Practitioners Association. (APPA). Consulente filosofico dal 1991 ha pubblicato diversi libri tra cui, tradotti in italiano: Platone è meglio del Prozac, Casale Monferrato, Piemme, 2001; Aristotele Buddha Confucio. Per essere felici ora, Casale Monferrato, Piemme, 2007, e Le pillole di Aristotele. Come può la filosofia migliorare la nostra vita, Casale Monferrato, Piemme, 2003, da cui sono tratte le affermazioni citate.

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Che ruolo potrebbe avere il corpo in Consulenza Filosofica? Penso che esistano diverse possibilità, a secondo della disposizione e della visione filosofica sia del consultante che del consulente. a) Il corpo parlante Per esempio c’è il “corpo parlante”: quello che in Consulenza Filosofica si presenta e si esprime direttamente attraverso la mimica, la postura, l’atteggiamento, la gestualità, il tono di voce etc. Quale attenzione offrirgli? Ricordo Gerd Achenbach8 riferire di una sua Consulenza Filosofica in cui aveva inteso il tono di voce estremamente flebile e sussurrato della cliente come manifestazione di una sua più generale modalità di porsi nel mondo e nelle relazioni e ne aveva fatto il filo conduttore per un approfondimento filosofico. Ritengo che per un consulente filosofico possa essere molto fruttuoso offrire attenzione anche al linguaggio del corpo del consultante (e al proprio!) e considerarlo parte della comunicazione che si sta svolgendo. Ovvero che si possa coglierne i segnali e riproporli verbalmente alla riflessione. Per esempio l’espressività del corpo può integrare e ampliare il messaggio informativo del verbale, mentre altre volte può offrire degli spunti molto interessanti al dialogo e alla riflessione: come quando i due linguaggi si contraddicono vistosamente (si afferma qualcosa facendo segno di no con il capo o si dichiara a parole un’immagine di sé o una disposizione verso un’altra persona che non concorda affatto con la mimica la postura e il tono di voce etc.) b) Il corpo parlato Poi c’è “il corpo parlato”: quello che arriva in Consulenza Filosofica attraverso le parole, il corpo di cui il cliente racconta. Questo è un corpo fatto di ricordi, di collegamenti e di immagini, di interpretazioni e di pregiudizi, di desideri aspettative e delusioni, di esperienze interpersonali e di vissuti soggettivi. 8 Gerd B. Achenbach, nato ad Hameln in Germania nel 1947, è considerato il padre fondatore della pratica filosofica. Nel 1981 ha aperto il primo studio di prassi filosofica (Philosophische Praxis) e nel 1982 ha fondato la Società internazionale per la consulenza filosofica, di cui è stato presidente fino al 2003. È autore di diversi libri tra cui, pubblicati in italiano: La consulenza filosofica, Milano, Apogeo, 2004; Il libro della quiete interiore, Milano, Apogeo 2005; Saper vivere, Milano, Apogeo, 2006; Del giusto nel falso, Milano, Apogeo, 2008, e Il Libro dell’amore. Amore è la risposta, ma qual è la domanda?, Milano, Apogeo, 2009. Il caso di consulenza filosofica sopra citato è stato riportato da Achenbach in un Seminario di Formazione tenutosi a Milano nel maggio 2007.

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Questo corpo è un “oggetto mentale”: una parte integrante e costitutiva della esperienza del mondo riferita e della rete di relazioni soggettivamente percepita, è un corpo immateriale e una costruzione mentale con cui la Consulenza Filosofica si rapporta come fa con ogni altro portato del dialogo, affrontandolo con le sue consuete modalità di analisi critica. c) Il corpo ammalato E infine c’è il “corpo ammalato” che ritengo in Consulenza filosofica possa essere accolto in una gran varietà di modi. Innanzitutto qual è la richiesta del cliente? Va da sé che non sta chiedendo alla Consulenza Filosofica un intervento diretto di guarigione, altrimenti ci sarebbe molto da discutere su come costruisce le sue aspettative e come opera le scelte su a chi rivolgersi per ricevere aiuto. Ma quando il corpo del cliente si ammala entra da solo nel dialogo filosofico in mille modi diversi: sia in riferimento ai cambiamenti di vita e di attività, di relazioni e di prospettive che la malattia comporta; sia in relazione a un’esplorazione di senso sul significato della sofferenza umana o anche del significato di quella malattia specifica nel contesto della sua presente situazione di vita. Alla mente di chi si ammala si affacciano sempre spontaneamente parecchi “Perché?”. Perché mi sono ammalato? Perché proprio io e perché proprio adesso? Le risposte ovviamente dipendono dalla personale visione del mondo, che è tipicamente filosofica. Se il cliente propone un’esplorazione di senso sul significato della sua malattia o della sofferenza fisica in generale non penso che il Consulente filosofico possa rifiutarsi di accoglierla come “non di sua pertinenza”: la malattia fisica è un’esperienza talmente universale e direi quasi inevitabile della condizione umana, che è piuttosto difficile escluderla dalla riflessione. E il filosofo non ha bisogno di appellarsi ad altre discipline, né di ricorrere a strumenti non propri per condurre questa esplorazione, perché è proprio la filosofia che nel corso dei secoli ha proposto molte e diverse risposte a questi temi e continua a farlo.

Una rivoluzione in corso C’è un motivo particolare per cui una riflessione sul rapporto tra Consulenza Filosofica e Psicosomatica (o più in generale sul tema delle sofferenze del corpo) mi sembra oggi importante e attuale.

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Negli ultimi anni c’è stato un grande fermento di scoperte e di rivoluzioni nel campo delle neuroscienze, che ha sostanzialmente portato all’ipotesi di un più stretto rapporto tra processi mentali e modificazioni organiche. Prima si pensava che la relazione tra pensiero e funzionamento degli organi interni fosse piuttosto lassa e sempre mediata dalle emozioni, oggi si parla di “unità di lavoro” che coinvolgono all’unisono pensieri, emozioni, associazioni, ricordi e centri vegetativi. Ci si può anche aspettare che questo comporti nel prossimo futuro due esiti del tutto opposti: da un lato un’ulteriore massiccia espansione del paradigma terapeutico, con la produzione di farmaci sempre più sofisticati che si propongono di arrivare alla psiche per “via chimica”, dall’altro lato, proprio al contrario, una maggiore considerazione degli effetti che una revisione degli schemi di pensiero potrebbe avere anche sul benessere e la salute del corpo. È facilmente ipotizzabile che prevalga la prima linea, sia per la pressione delle case farmaceutiche che per la diffusa tendenza del pubblico a cercar di liberarsi il più in fretta possibile di qualsiasi forma di sofferenza evitando la fatica di una riflessione. Ma al momento i giochi non sono chiusi e penso che la Consulenza Filosofica possa avere un suo ruolo nella partita. Pur ponendosi e con buoni motivi al di fuori dell’ottica terapeutica e della risoluzione dei problemi, la Consulenza Filosofica potrebbe considerare come un canale aperto la relazione tra le modalità di pensiero, le emozioni e le variazioni vegetative e accogliere anche il corpo e le sue modificazioni all’interno di possibile un universo di senso approcciabile con i metodi propri della filosofia.

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Strategie indecidibili. Ambigui incroci tra psicologia strategica e consulenza filosofica di Paolo Cervari

Le relazioni di potere non sono qualcosa di cattivo da cui bisogna affrancarsi; credo che non possa esistere una società senza relazioni di potere, se queste vengono intese come strategie attraverso cui gli individui cercano di condurre e determinare la condotta degli altri. Il problema non è, dunque, di cercare di dissolverle nell’utopia di una comunicazione perfettamente trasparente, ma di darsi delle regole di diritto, delle tecniche di gestione e anche una morale, un ethos, la pratica di sé, che consentano, in questi giochi di potere, di giocare con il minimo possibile di dominio (Michel Foucault)

Veronica dal vivo ha la stessa voce che aveva al telefono: nitida, molto affermativa. Mi colpisce perché era talmente incisiva che pensavo dipendesse, almeno in parte, dalla linea. Poco importa, naturalmente, ma si registra sempre la prima impressione. Sono andato io da lei, dopo un paio di telefonate in cui mi chiedeva un colloquio filosofico, precisando che le riusciva molto difficile muoversi per la città, idiosincrasia che mi aveva colpito. Ho cercato comunque di tralasciare tutte le possibili elucubrazioni nosografiche – ho una buona formazione psicologica – e mi sono disposto all’accoglienza. Ci siamo fermati in un bar e Veronica mi ha narrato la sua storia. Non la riporterò nei dettagli, sia per ovvie ragioni di riservatezza, sia perché quel che mi preme in questa occasione non è tanto il resoconto di un caso, quanto l’evidenziazione di alcuni punti di interazione, frizione e contatto possibili tra la consulenza filosofica e la psicologia strategica1. Ci siamo seduti e ordinato da bere. Veronica è stata precisa, si è espressa senza alcuna remora e dopo un quarto d’ora di narrazione fluente ha rispo1 Utilizzo il termine “psicologia strategica” per indicare principalmente la proposta scientifica e terapeutica di Giorgio Nardone, comprendendovi anche, più estensivamente, il background concettuale sottostante, soprattutto l’opera di Paul Watzlawick, di cui Nardone è stato allievo e con cui ha fondato il Centro di Terapia Strategica di Arezzo.

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sto con disponibilità alle domande che le ho fatto. In sintesi mi ha raccontato di una sorta di depressione, secondo la sua terminologia, ovvero di una situazione che durava da anni caratterizzata da una certa disperazione per il futuro, sfiducia nelle relazioni umane, scarsa motivazione a fare le cose. Era in cura da tempo presso uno psicoterapeuta. Nel corso del colloquio abbiamo precisato alcuni termini e ridefinito alcune delle sue esperienze. Non mi inoltro nei dettagli, ma posso riassumere il processo definendolo come una ricalibrazione dei concetti, una maggiore attenzione alle sfumature e alle eccezioni. Per farla breve, potrei dire che ho lavorato in direzione di una certa disidentificazione di Veronica da un’immagine di sé abbastanza stereotipata e medicale. E fin qui tutto bene. Ovvero, per un consulente filosofico, tutto normale. Ma quello su cui voglio porre l’attenzione sono le conclusioni e gli esiti. Per quanto riguarda le prime, l’essenziale sta nel fatto che ho dato a Veronica delle vere e proprie prescrizioni. In particolare le ho proposto di scrivere una tabella dei motivi per cui valesse la pena di vivere e di quelli per cui invece no. E le ho proposto inoltre di contrastare i pensieri negativi che la angustiavano e da cui si sentiva oppressa e perseguitata nella seguente maniera: «Si procuri una mezz’ora tutta per lei, una mezz’ora in cui è certa di non essere disturbata. Carichi una sveglia per essere sicura del tempo e quindi si dedichi a rievocare, ricordare, vivere e ripensare tutti i pensieri negativi che la opprimono. Pensi alle cose peggiori, a quanto di più orribile le può capitare, non metta limite al pessimismo, lo cavalchi, lo incoraggi, si dia allo scoramento e alla disperazione più profondi e totali. Dopo, quando suona la sveglia, si lavi la faccia per sancire la fine della seduta e quindi riprenda la sua vita normale. Ripeta questa procedura ogni giorno». La prima domanda che voglio porre al lettore è: quanto ai suoi contenuti, si tratta di una mossa compatibile con la consulenza filosofica? Direi di sí, e per più di un motivo. Intanto ciò che rientra o non rientra in una consulenza filosofica è molto vario e differenziato, a seconda degli autori. Il mio amico Giacometti, per esempio, sostiene che praticamente ogni cosa può essere considerata parte di una consulenza filosofica, a condizione che venga inquadrata in una cornice filosofica2. Vi sono poi consulenti filosofici che utilizzano il gioco della sabbia o disegni di sé, come pure chi ricorre ai tamburi degli sciamani. Insomma, la strumentazione è a dir poco molto libera. In secondo luogo l’elencazione delle cose peggiori altro non è che 2

È un’opinione espressa da Giorgio Giacometti in una conversazione privata, a tarda sera e dopo alcuni bicchieri di vino. Non posso assicurare che la sostenga ancora oggi, ma la riporto perché la posso sostenere io.

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una utilizzazione settoriale, per quanto un poco drammatizzata, del primo “esercizio” da me proposto a Veronica, la tabella dei pro e dei contro che, come dovrebbe sapere ogni consulente filosofico, ha nobilissime ascendenze stoiche. Infine, a corollario, elencare argomenti a sfavore (o a favore) di una certa tesi è uno delle strategie argomentative più classiche della filosofia. La seconda domanda che voglio porre è: il fatto stesso di dare una prescrizione è una mossa compatibile con la consulenza filosofica? Anche in questo caso direi di si. Anche in questo caso per più di un motivo. In primo luogo credo sia impossibile in un modo o nell’altro evitare il linguaggio prescrittivo, affermazione che mi rendo conto sia per alcuni discutibile, ma che per motivi di spazio non intendo giustificare qui3. Ma al di là del diritto e attenendoci ai fatti, in secondo luogo, resta che molti consulenti filosofici dànno prescrizioni, per non dire veri e propri esercizi, sia durante il colloquio sia da eseguire in seguito, tra cui per esempio la lettura di brani o la riflessione più o meno guidata su temi dati. Infine, nello specifico, la prescrizione in questione aveva un contenuto e una funzione del tutto trasparenti e condivisi nonché, a mio avviso, come ho scritto sopra, filosofici. Resta da discutere quanto prescrivere sia dirigere e persuadere, o addirittura suggestionare, e quanto e come e in che modo queste attività siano tollerabili in una consulenza filosofica. Anche in questo caso so bene che alcuni darebbero per certo che la prescrizione, in linea di principio ed essenzialmente parlando, in quanto tale, sia un’attività inaccettabile in una consulenza filosofica. Ma, ancora, ritengo non sia opportuno discutere la questione ora, limitandomi ad affermare che, da una parte, la tesi suddetta, qualora affermata in termini di diritto, sarebbe insostenibile perché supporrebbe un criterio certo di discriminazione tra verità e opinione4; dall’altra, poiché ritengo che le tesi di carattere generale si basino per lo più, e in questa materia forse essenzialmente, su eventi e contingenze pratiche, credo che valga la pena, dapprima, di occuparci per l’appunto di essi. E nella fattispecie la questione più interessante a mio avviso si può porre così: dato che la prescrizione in oggetto (quella della sveglia, per 3 La questione ha a che fare con la visione e la teoria che si ha del linguaggio da una parte, e con la visione e la teoria che si ha della consulenza filosofica (e della filosofia) dall’altro. Per essere brevissimi, ritengo che la performatività sia una condizione di possibilità ontologica del linguaggio. In altri termini ritengo, con molti altri, Austin su tutti, che parlare sia fare. Il punto se mai è: fare cosa? 4 Mi rendo conto che l’affermazione è un po’ criptica. Un poco verrà chiarita nella parte finale di questo saggio. Per il resto posso aggiungere che la connotazione negativa della prescrizione (o della suggestione) riposa su un’ontologia e un’epistemologia che si risolvono nel discorso descrittivo, a esclusione del normativo.

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intenderci) è una mossa tipica della terapia breve strategica5, è in quanto tale ammissibile in una consulenza filosofica? E ancora: qualora fosse ammissibile, cosa ci può dire questa importabilità quanto alle somiglianze e alle differenze tra la psicoterapia breve strategica e la consulenza filosofica? E infine quali conclusioni o domande si possono formulare riguardo alle caratteristiche della consulenza filosofica una volta risposto alle precedenti questioni? La faccenda è meno di dettaglio di quanto potrebbe sembrare, e per convincerne il lettore gli propongo un’altra emergenza interessante, questa volta prelevata non dalla mia pratica ma da uno dei classici della consulenza filosofica. Il caso è riportato da Peter Raabe in Teoria e pratica della consulenza filosofica6. Vi si parla di Clarence un uomo di venticinque anni che fin dall’età di dodici anni aveva vissuto tra carceri e strada. A vent’anni aveva ritrovato il rapporto con Dio, aveva smesso di drogarsi e aveva trovato un lavoro. Ma una sera viene aggredito da due uomini armati e giunge quindi alla conclusione che la giustizia divina gli stia facendo pagare il suo passato di rapinatore... Il colloquio trova i suoi snodi fondamentali in due diversi momenti: nel primo, Raabe “dimostra” e convince Clarence che così come quando lui rapinava poveri innocenti, allorquando è stato rapinato non è stato scelto da Dio, il quale pertanto non ha alcuna responsabilità al riguardo; nel secondo, Raabe conduce Clarence a stabilire, finalmente, che la responsabilità della rapina non è sua, ma dei rapinatori. In sintesi, Raabe conduce il colloquio accettando le premesse di Clarence e senza assolutamente contrastarle, fino a portarlo a confrontarsi con una contraddizione intrinseca da lui stesso riconosciuta come insanabile, il che conduce il giovane a rivedere la sua teoria del mondo e della responsabilità. Un caso classico, vero? Lavoro sulla logica, chiarificazione dei presupposti, integrazione e ricerca della coerenza, esplorazione e ridefinizione di metafisica ed etica… vero. Ma quanto descritto è anche una mossa da manuale della psicologia strategica, che in gergo viene descritta come “aggiramento della quarta resistenza”, oppure come la modalità da tenere con colui che, come Clarence, è bloccato dalla propria visione delle cose e non può “né collaborare né opporsi”7. E la descrizione “psicologica” calza alla

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Se ne trova una descrizione in Giorgio Nardone, Solcare il mare all’insaputa del cielo, Milano, Ponte alle Grazie, 2008, pp. 70-71. 6 Peter Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, Milano, Apogeo, 2006, pp. 153 ss. 7 Se ne trova una descrizione in Branka Škorjanec, Il linguaggio della terapia breve, Milano, Ponte alle Grazie, 2000, pp. 108-110.

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perfezione all’operato di Raabe, anzi ne rende ragione molto meglio di quanto non faccia lui stesso. Ma la notizia più sconcertante è che moltissimi snodi chiave dei casi riportati nella letteratura della consulenza filosofica sono perfettamente descrivibili secondo i protocolli e le logiche della psicologia strategica, spesso in un modo estremamente esatto, cogente e potente8. Allora siamo costretti a identificare le due discipline? Credo sia il caso di procedere a un loro confronto.

Somiglianze e usabilità A prescindere dalla nota derivazione della psicologia dalla filosofia, così come dal fatto che di filosofia in gran parte la psicologia si è alimentata fino ad oggi, la psicologia strategica mostra una forte connotazione di carattere filosofico. Intanto per i fondamenti epistemologici: il richiamo forte al costruttivismo radicale come orizzonte a partire dal quale si elabora una teoria del cambiamento che vuole agire in direzione della ristrutturazione delle visioni del mondo (altro punto di contatto con la consulenza filosofica) fa sì che la psicologia strategica, esattamente come la consulenza filosofica, rifiuti qualsiasi teoria forte predeterminata e si proponga come unica guida l’esigenza del cliente o paziente. La psicologia strategica infatti, ovvero il pensiero strategico, secondo Giorgio Nardone e Paul Watzlawick, è «non una specifica scuola filosofica, ma un approccio basato su di un’irriducibile “elasticità” che nega qualunque forma di “assoluto” o di “verità” indiscutibile e che su questa base si interessa al funzionamento delle cose con atteggiamento disilluso e pragmatico. Questo è ciò che a cui ci si riferisce con il termine “costruttivismo radicale”»9. Certamente, il costruttivismo è una filosofia e la consulenza filosofica aborre un consimile schieramento ideologico. Tuttavia va considerato che, tra tutte le filosofie, il costruttivismo è una di quelle che contempla, al suo interno, per così dire, l’elaborazione di qualsiasi punto di vista quale costruzione di un mondo possibile in cui si tengano insieme idee ed esperienza, e che da questo punto di vista c’è una certa coerenza con la “tolleranza” tipica della consulenza filosofica10. E del resto il celebre 8

Prego il gentile lettore di accettare l’affermazione in qualità di ipotesi, giacché una ragionevole dimostrazione empirica richiederebbe ben altri spazi. 9 Giorgio Nardone, Paul Watzlawick, L’arte del cambiamento, Milano, Ponte alle Grazie, 1999, p. 47. 10 So perfettamente che queste affermazioni sono discutibili. Resta il fatto che qualsiasi

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aforisma di Heinz von Foerster: “Agisci sempre in modo da aumentare il numero delle scelte”11, da lui stesso qualificato come “imperativo etico”, non potrebbe comparire scolpito all’ingresso di qualsiasi studio di consulenza filosofica? Ma al di là degli aspetti fondativi, epistemologici e metadiscorsivi, la psicologia strategica si richiama alla filosofia in gran parte delle sue modalità operative. Per esempio, si procura e istituisce quale antesignano il sofista Antifonte di Atene (V sec. a.C.), che «faceva parlare il malato della sua sofferenza e lo aiutava poi con un tipo di retorica che utilizzava […] le asserzioni dello stesso malato, e che dunque, in senso del tutto moderno, si poneva al servizio di una ristrutturazione di ciò che il malato riteneva “reale” o “vero” – e dunque del cambiamento dell’immagine del mondo per la quale egli soffriva»12 . Il processo così descritto non sembra una consulenza filosofica? Del resto lo effettuava un filosofo… Ma non è il solo Antifonte a venire tirato in ballo: sempre seguendo un dichiaratissimo e polemicamente antiplatonico amore per i sofisti, Nardone, spesso sostenuto da Waztlawick, evoca frequentemente sia Gorgia che Protagora, al quale vengono ricondotte le “domande a illusione di alternativa”, che sono uno dei capisaldi della terapia strategica13. Il ricorso alla filosofia peraltro non si limita ai filosofi antichi, tant’è che uno dei filosofi più citati da Nardone è Pascal, con il suo celebre argomento della scommessa, così come vi sono numerosi ricorsi a Cartesio, Kant, Wittgestein… il punto però non credo stia tanto nel reperire tutti questi prelievi e utilizzi, quanto di individuarne la ratio. La suddetta ratio riposa in primis nella stessa fondazione teorica della psicologia strategica, che rimanda alla cosiddetta “scuola di Palo Alto” e al celebre testo La pragmatica della comunicazione umana14, che a sua volta riprende ricerche precedenti, tra cui quella di Gregory Bateson. Questo corpus teorico, al di là delle differenze interne, tra vari autori e vari periodi15, discussione in merito avanzerebbe una proposta filosofica particolare e che pertanto, finché si resta su un piano filosofico, è impossibile, per la natura stessa del discorso utilizzato, formulare un discorso metafilosofico. Del resto anche questo, come vedremo in seguito, è un punto di vista filosofico… 11 Citata spessissimo e spesso senza i riferimenti. È tratta da Heinz von Foerster, Costruire una realtà, in Paul Watzlawick (a cura di), La realtà inventata, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 55. 12 Paul Watzlawick, Il linguaggio del cambiamento, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 15. 13 Per una descrizione del contributo di Protagora alla psicologia strategica vedi Giorgio Nardone, Alessandro Salvini, Il dialogo strategico, Milano, Ponte alle Grazie, pp. 8-9. 14 Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatics of human communication, a study of interactional patterns, pathologies, and paradoxes, New York, W. W. Norton & Co., 1967. 15 Le prime ricerche di Gregory Bateson cominciano a circolare ed essere note a partire dagli anni ’40.

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contiene, tra l’altro, una teoria della comunicazione focalizzata sui rapporti tra messaggi e metamessaggi, con un deciso interesse per tutto ciò che riguarda gli effetti della comunicazione intesa come fattore strutturante le relazioni umane. A prescindere dall’eventualità, tutta da discutere, che una tale prospettiva teorica si possa candidare come modellizzante la filosofia, eventualità molto estrema, lo ammetto, ma forse da esplorare, resta invece più facilmente condivisibile che tale teoria della comunicazione sia fortemente segnata dall’interesse per la logica e l’epistemologia16, e presenti molti ed estesi punti di contatto con numerose linee di sviluppo della filosofia, specialmente contemporanea. Senza entrare nei dettagli, cosa che richiederebbe molto spazio, molta erudizione e molte ricerche, posso dire che il suddetto corpus teorico si fonda, articola e indaga sullo studio di: paradossi e aporie, incoerenze e/o contraddittorietà intrinseche a ogni discorso che si voglia esaustivo; indagini, raffinate e originali (specie quella di Bateson) su problemi chiave dell’estetica, dello studio del sacro e della gnoseologia17; operatori logici che strutturano discorsi e relazioni; strutture formali delle comunicazioni contraddittorie, paradossali e/o inefficaci; problemi di classificazione del genere “l’insieme di tutti gli insiemi che non comprendono se stessi”; inerenza a quanto al punto precedente di metafore, analogie e narrazioni… il tutto con un interesse particolare su come e in che modo ciò abbia a che fare coi comportamenti umani, le scelte e la strutturazione del nostro modo di vedere le cose. Come si vede, sembrerebbe un campo almeno in parte coestensivo a quello della filosofia, soprattutto della filosofia pratica e della consulenza filosofica. Questa somiglianza si mostra tanto più effettiva nel momento in cui, al di là dei presupposti teorici, ci si cala nella realtà operativa, ovvero nella produzione di modelli, protocolli e strutture d’intervento, terapeutico e non. Ne citeremo alcuni. – Le già citate “domande a illusione di alternativa” consistono in domande dicotomiche, laddove è essenziale che la divisione in due del campo oggetto sia esaustiva e senza residui. Lo scopo di tali domande è escludere dall’indagine la “metà” rifiutata dall’interlocutore. 16 Gregory Bateson utilizza la parola “epistemologia” in accezioni molto estensive, ma ne fa comunque una parola chiave della sua proposta teorica. Cfr. per esempio le prime 100 pagine di Gregory Bateson, Mind and Nature: a necessary Unity, New York, Dutton, 1979; oppure si consideri il titolo di: Gregory Bateson (con Mary Catherine Bateson), Angels Fear: Towards an Epistemology of the Sacred, New York, Macmillan, 1987. 17 Interessante a questo riguardo è Rocco de Biasi, Gregory Bateson, antropologia, comunicazione, ecologia, Milano, Raffaello Cortina, 2007.

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Il ricorso a questa come ad altre procedure tipiche della retorica e dell’arte della discussione già antico-greca sono numerosissime. Tra le tante possiamo ricordare il suggerimento, ripreso sia da Cartesio che da Pascal, di utilizzare gli stessi argomenti dell’interlocutore per condurlo a cambiare opinione. L’utilizzo di analogie, narrazioni e metafore è frequente e sembra spesso ricalcare la stessa funzione che tale modalità di linguaggio ha nella filosofia, per esempio la funzione del mito in Platone. In particolare, la modalità analogica del linguaggio è utilizzata per concretizzare un campo semantico in una forma esemplare e in quanto tale percepibile, inscrivibile e memorabile. L’utilizzo della ristrutturazione, a sua volta concetto chiave del “dialogo strategico”, ha la funzione di ridescrivere in modo diverso un certo vissuto esperienziale e sotto questo profilo ha sorprendenti somiglianze con tutto quanto in filosofia viene considerato come processo di creazione o ricostruzione di concetti. Lo stesso rapporto tra cognizioni ed emozioni è paragonabile a quanto se ne può dire in filosofia18: se infatti «in un’ottica strategica la terapia è fare sentire differentemente, non fare capire differentemente»19, è pure vero che lo scopo consiste nell’indurre un cambiamento nella persona «facendo sì che essa costruisca [...] percezioni, azioni e cognizioni alternative»20; tanto più che, come vedremo subito, gran parte delle manovre utilizzate hanno base e fondamento nella logica. Per l’appunto, l’utilizzo di alcuni “fondamentali” logici sono essenziali nel dialogo strategico, per esempio i controesempi, le definizioni, le dimostrazioni per assurdo, le estremizzazioni… certo, non sono l’unica modalità operativa della psicologia strategica, ma siccome per l’appunto, come già detto, il nucleo centrale della teoria ha a che fare con descrizioni e descrizioni di descrizioni, qualora non si operi con la logica si opera, quand’anche in modo suggestivo, sulla logica. E a tal punto la logica è rilevante che, in particolare con Nardone, la teoria della comunicazione cui si collega la psicologia strategica ha prodotto un sapere specifico che mette in relazione alcuni aspetti delle logiche non ordinarie21 con alcune particolari strutture dialogiche e











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Si pensi per esempi all’opera di Martha Nussbaum. Giorgio Nardone, Alessandro Salvini, Il dialogo strategico, cit., p. 35. 20 Op. cit., p. 23. 21 Logica della credenza, logica della contraddizione e logica del paradosso. Il riferimento è alle teorie di Newton Da Costa, cfr. Giorgio Nardone, Solcare il mare all’insaputa del cielo, 19

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relazionali, costruendo in tal modo dei protocolli di inventio che portano dai modelli logici sottostanti al comportamento fino agli stratagemmi utili per operarvi. Per concludere questo elenco, sempre parlando di stratagemmi, è sufficiente leggere la descrizione e l’applicazione dei tredici stratagemmi canonici22 per capire come per l’appunto anch’essi, che sono il cuore dell’intervento strategico, siano generalmente descrivibili solo su basi logiche ed epistemologiche. Per esempio “creare dal nulla” è comprensibile solo a partire dalla consapevolezza del potere istitutivo del linguaggio, “spegnere il fuoco aggiungendo la legna” corrisponde alla confutazione per estremizzazione dei quantificatori, “mentire dicendo la verità” si commenta da solo e “fare salire il nemico in soffitta e poi togliere la scala” ha relazioni non solo apparenti con il celebre aforisma di Wittgestein23.

Infine, due parole sul concreto modus operandi della psicologia strategica. Prescindendo da altri aspetti divergenti e discrasici rispetto alla consulenza filosofica, di cui si parlerà poco più avanti, posso affermare che l’addestramento e la formazione in queste tecniche mi sono servite moltissimo per fare il consulente filosofico. Tutta la tecnica esplorativa del dialogo strategico, per esempio24, è estremamente utile per effettuare non solo le chiarificazioni dei termini usati, ma anche dei vissuti percepiti. La tecnica della ristrutturazione in particolare, che è anch’essa parte del dialogo strategico, è adattissima a costruire visioni condivise con l’ospite. La tecnica dello “scenario oltre il problema”25 è insuperabile per chiarire e contestualizzare il problema, o l’esigenza, o l’obiettivo di cui si sta parlando. E più in generale, la dimestichezza con la logica paradossale messa in gioco dall’approccio strategico, che spesso è isomorfa a quella del consultante, mi ha consentito di affrontare i colloqui filosofici con ben altre armi che una semplicistica fede nella coerenza. Per non parlare della conseguente e relativa modellizzazione dei possibili giochi tra linguaggio e metalinguaggio. O della possibilità di dare, come detto in apertura narrando di Veronica, delle prescrizioni che, siano cit., p. 12. Il volume è tutto dedicato alle logiche non ordinarie (sono le logiche che non contemplano il principio del terzo escluso e il principio di non contraddizione). 22 A questo è dedicato Giorgio Nardone, Cavalcare la propria tigre, Milano, Ponte alle Grazie, 2003. 23 La proposizione 6.54 del Tractatus logico-philosophicus. 24 Cfr. Giorgio Nardone, Alessandro Salvini, Il dialogo strategico, cit. 25 Se ne trova una descrizione in Giorgio Nardone, Psicosoluzioni, Milano, BUR, 1998, pp. 112-113.

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esse ascrivibili alla tradizione filosofica o in essa incorniciabili mediante passaggio a un livello superiore di descrizione, consentano di fare lavorare il consultante in un setting controllato e condiviso. Detta in altri termini, l’approccio strategico, che è dominato dal desiderio di navigare nel mare magnum della complessità con strumenti che consentano una cartografia e il tracciamento di una rotta, ovvero con riduttori di complessità, permette al consulente filosofico da un parte di ricorrere a strumenti dal rendimento stabile e prevedibile, dall’altra di potere utilizzare procedure per gestire la relazione con il consultante un poco più specifiche, precise e raffinate che non un generico ascolto, una generica accoglienza o una generica empatia. In sintesi, l’approccio strategico, non unicamente beninteso26, dà modo al consulente di essere più efficace ed efficiente. Con queste due ultimi aggettivi ho certamente sorpreso molti. Ne discuterò, almeno un poco successivamente. Ma prima, per concludere il nostro confronto, consentitemi di riassumere brevemente in cosa consulenza filosofica e psicologia strategica non sono uguali... almeno apparentemente.

Differenze e incompatibilità Mi scuso con il lettore per avere finora tenuto nascosto un argomento essenziale che rende a prima vista e per certi versi del tutto incompatibili psicologia strategica e consulenza filosofica. Si tratta della questione della direzione della cura, per usare un’espressione tipicamente psicoterapeutica, ovvero della direttività e, insieme con essa, della trasparenza. In pratica, per esprimerci con semplicità, il modello operativo della psicologia strategica prevede che si facciano fare al paziente cose che lui non sa bene a cosa servano, che a volte addirittura gli si nascondano attivamente i veri obiettivi delle prescrizioni e delle manovre, e più in generale che sia possibile, per non dire auspicabile, suggestionarlo per fargli cambiare punto di vista27. Il tutto secondo la più classica delle “aberrazioni” psicoterapeutiche, come direbbe un achenbachiano, per cui il terapeuta ha un’idea di dove bisogna andare, della strada per andarci, dei mezzi da usare per farlo... e si guarda bene di farne partecipe il paziente. In altri termini, se lo psicoterapeuta possiede e utilizza un “protocollo terapeutico”, il consulente filosofico aborre

26 Per esempio ritengo mi siano state molto utili anche una formazione psicoanalitica, qualche esperienza di psicomotricità relazionale, il taj chi chuan, il free climbing e diverse altre cose. 27 Giorgio Nardone, Paul Watzlawick, L’arte del cambiamento, cit., p. 61.

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dall’uso tanto dei protocolli quanto della terapia, la quale, secondo questa concezione, prevederebbe invece, per l’appunto, la pregiudiziale e unilaterale decisione del fine da raggiungere, per non parlare della connivenza, che si dà per scontata, della terapia e del terapeuta con la medicalizzazione e patologizzazione generali in atto nella nostra società28. Un’altra questione fortemente differenziante, e ben correlata a quanto sopra, è il ruolo del problem solving. Se infatti la psicologia strategica è un problem solving, la consulenza filosofica, sempre secondo il classico modello achenbachiano, non vuole essere un problem solving, non vuole insomma, né risolvere problemi né perseguire obiettivi. A queste problematiche, problem solving, direttività, focalizzazione sull’obiettivo, sono collegate, e di fatto da esse discendono, alcune serie di comportamenti che renderebbero la psicologia strategica non sovrapponibile alla consulenza filosofica. Per esempio le già citate prescrizioni, che possono risolversi in vere e proprie costrizioni; oppure le suggestioni di stampo ipnotico; o i mascheramenti, le seduzioni e perfino veri e propri (da un punto di vista non “strategico”) inganni29. Inammissibili? Forse…. nel senso che tali comportamenti non sarebbero ammissibili in sede di consulenza filosofica, qualora fosse vero che ne neghino i presupposti. Il che, tuttavia, va deciso a seguito di una definizione degli stessi, cosa che per parte mia non ho ancora fatto… ma resta comunque vero che, secondo alcuni modelli di consulenza filosofica, alcuni comportamenti messi in atto dalla psicologia strategica non sono ammissibili – e viceversa. Il che non è forse un gran risultato in termini di avanzamento della conoscenza della distinzione tra le due discipline, ma il mio intento, in questa occasione, non è tanto rivolto a decidere differenze nette quanto ad attivare un confronto che generi riflessioni e domande. Ma prima di problematizzare ulteriormente la questione, volevo esporre un altro elemento di differenziazione. Ne ho già accennato in precedenza: si tratta dei presupposti epistemologici, ontologici e più in generale filosofici a cui si richiama il corpus teorico da cui la psicologia strategica deriva, e a cui esplicitamente si riferisce. Come in parte già detto, si tratta del costruttivismo radicale di Heinz von Foester e Ernst von Glasersfeld, della sofistica greca, della retorica di ogni tempo e più in generale di tutto quanto esalti il potere della dòxa contro quello dell’epistéme. Ampliando la prospettiva per comprendervi anche tutto Paul Watzlawick, la Scuola di Palo Alto e Gregory Bateson, dobbiamo includervi riferimenti 28

Come si capirà non sono affatto d’accordo con questa prospettiva teorica, per lo meno con le sue espressioni più estremiste. 29 Cfr. gli esempi e i casi in Giorgio Nardone, Alessandro Salvini, Il dialogo strategico, cit.

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forti, ancorché a volte disinvolti, al teorema di Gödel, così come alla cibernetica e al pensiero del Wittgestein del Tractatus, una cui ampia discussione conclude non a caso la Pragmatica della comunicazione umana. Ovviamente c’è altro ancora... ma come già accennato sopra, al di là del gradimento o del giudizio che si possa dare di queste concezioni, un punto differenziante forte sarebbe, sempre secondo Achenbach, il fatto stesso di riferirsi a una certa concezione filosofica, a detrimento di altre, perchè contraddirebbe l’“assenza di presupposti” ovvero di “metodo” promulgata da Achenbach stesso come caratteristica ineludibile e specifica della consulenza filosofica30. Vorrei a questo punto cercare di riassumere e strutturare (e forse anche ristrutturare) quanto argomentato finora in merito ai punti di divergenza tra psicologia strategica e consulenza filosofica. Psicologia strategica (Nardone)

Consulenza filosofica (Achenbach)

•฀ Ha un metodo e dei presupposti

•฀ Non ha metodo né presupposti

•฀ Ha protocolli di direzione del lavoro

•฀ Non ha protocolli di direzione del lavoro

•฀ Ha obiettivi trasformativi

•฀ Non ha obiettivi trasformativi

•฀ Dà prescrizioni

•฀ Non dà prescrizioni

•฀ È essenzialmente un problem solving

•฀ Non è essenzialmente un problem solving

•฀ Nasconde informazioni al paziente

•฀ Non nasconde informazioni all’ospite

•฀ Può ingannare il paziente

•฀ Non inganna mai l’ospite

•฀ Si riferisce a una certa visione del mondo

•฀ Non si riferisce a una certa visione del mondo

Come si vede, il modello della consulenza filosofica si presenta come differenziato solo negativamente. Ciò dipende da una parte dalla relativa giovinezza della disciplina, dall’altra dalla formulazione di Gerd Achenbach, (e forse, ancora più, degli achenbachiani), che si distingue spesso per de30 A mio avviso a questo riguardo il punto di vista di Achenbach non è chiarissimo, ma è certo, comunque, che spesso afferma una sorta di obbligo deontologico da parte del consulente filosofico di non “testimoniare” (parola mia) un certo qual tipo di pensiero filosofico in quanto tale, ma di tenersi invece il più possibile libero dalle proprie posizioni filosofiche “scolastiche” per dialogare nel modo migliore con l’ospite, seguendo le sue linee di pensiero e filosofando insieme a lui (cfr. Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica, Milano, Apogeo, 2004).

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terminazioni negative dalle psicoterapie: sono questi altrettanti motivi per cui la consulenza filosofica non ha ancora raggiunto una caratterizzazione sufficientemente definita dal punto di vista epistemologico e/o procedurale – ammesso che sia possibile che questo accada. Comunque sia, il risultato riassunto nella tabella si presta ad essere complicato, ampliato, discusso, decostruito e forse ricostruito secondo una serie di considerazioni che ci avviamo or ora a fare. E che saranno altrettante occasioni per fare qualche passo avanti nella definizione del campo operativo e dell’essenza della consulenza filosofica.

Complicazioni e sviluppi Cominciamo dalla questione del metodo. Affrontata come di solito accade in ambito achenbachiano è sviante. Di fatto Achenbach stabilisce, o dà per stabilito, cos’è un metodo in modo molto restrittivo e poi dice che non ce l’ha. Ma un metodo non è altro che una serie di vincoli e obblighi, più o meno strutturati e relazionati tra loro. In sintesi, a mio parere, qualsiasi attività deve per forza avere un metodo, giacché il metodo altro non è che la sua forma, ovvero la sua modalità di distinguersi da altre attività, nonché il criterio di accettazione o rifiuto di un certo comportamento come facente o non facente parte dell’attività stessa. Per esempio secondo Achenbach avere protocolli operativi impedisce di comprendere una certa attività nella consulenza filosofica… e questo è un criterio (che io rifiuto peraltro: di fronte a una contraddizione che facciamo? Non applichiamo forse dei protocolli operativi?). Criterio paradossale, tuttavia, tant’è che la consulenza filosofica ne ha anche di positivi: l’attitudine alla messa in questione, il ricorso a criteri di veridizione31, l’orientamento alla chiarificazione, per non citarne che alcuni, sono criteri distintivi della consulenza filosofica32. Che pertanto a mio avviso ha un metodo. Resta da vedere quanto e come sia simile a quello della psicologia strategica33. 31

Il riferimento è a Foucault, ma si può intendere il termine in modo più ampio, come sinonimo di criteri di verità. 32 Credo che sarebbe molto utile per gli achenbachiani di stretta osservanza rileggere Achenbach, anche solo Philosophische Praxis (tr. it. La consulenza filosofica, cit.), con l’intento di trovarvi indicazioni su come deve essere svolta una consulenza filosofica. Vi troveranno molte cose, molte problematizzazioni, che nel tempo, con l’ortodossia, si perdono – tanto per dirne una: Achenbach parla di “dinamica inconscia” (Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica, cit. p. 84). 33 Da notare che lo stesso Achenbach accosta l’attività della consulenza filosofica ai metaloghi di Gregory Bateson dicendo pure – e sono del tutto d’accordo – che la consulenza filosofica

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Come già detto in precedenza, la psicologia strategica non ha una teoria forte precostituita, o per lo meno così dichiara, come peraltro fa anche la consulenza filosofica. «In quest’ottica si evita di dare una definizione della natura delle cose e, di conseguenza, di determinare una modalità di intervento definitiva e universale»34. Chi parla? Nardone o Achenbach? Lo chiarisce il seguito: «Da questa prospettiva è sempre la soluzione che si adatta al problema e non viceversa, come avviene nella maggioranza dei modelli di intervento tradizionali. La logica strategica vuole insomma essere flessibile e adattarsi al proprio oggetto di studio»35. Da questo passo possiamo capire che il punto dirimente sta forse nel fatto che la psicologia strategica, a differenza della consulenza filosofica, si muove programmaticamente a partire dalla definizione di un ben determinato problema da risolvere (o obiettivo da raggiungere). Al problem solver strategico non interessa conoscere le verità profonde e il perché delle cose, ma solo “come” funzionano e “come” farle funzionare nel miglior modo possibile. La prima preoccupazione è quella di adattare le proprie conoscenze alle “realtà” parziali che si trova di volta in volta ad affrontare, mettendo a punto strategie fondate sugli obiettivi da raggiungere e in grado di adattarsi, passo dopo passo, all’evolversi della “realtà”. Aumentare la propria consapevolezza operativa significa quindi lasciare in secondo piano la ricerca delle cause degli eventi per concentrarsi sullo sviluppo di una sempre maggiore capacità di gestire strategicamente la realtà che ci circonda in modo da raggiungere i propri obiettivi36.

La cosa che in questo passo può colpire di più un consulente filosofico è il linguaggio, che è quello di chi opera sulle cose, il linguaggio del problem solver. E come accennavo prima, per molti può essere decisivo: chi fa così non ha niente a che vedere con la consulenza filosofica… ma come avrete capito non sono di questo, a mio parere semplicistico, avviso. La questione è un poco più complessa, isomorfa e connessa, implicata e co-implicata con quella del metodo, degli obiettivi, dei protocolli operativi e perfino delle prescrizioni.

è una “meta-teoria praticante” (Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica, cit. p. 83). Vero è, peraltro, che lo stesso Bateson ha screditato gran parte della produzione della Scuola di Palo Alto, in particolare la terapia sistemica, antesignana di quella strategica. 34 Giorgio Nardone, Roberta Mariotti, Roberta Milanese, Andrea Fiorenza, La terapia dell’azienda malata, Milano, Ponte alle Grazie, 2000, p. 20. 35 Ibidem. 36 Giorgio Nardone, Roberta Mariotti, Roberta Milanese, Andrea Fiorenza, La terapia dell’azienda malata, cit., p. 21.

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Evitando per ora di trasvolare nei cieli della teoretica, vorrei prendere la cosa (ma quale?) dal punto di vista pratico, fenomenologico, quotidiano. A cosa mira un intervento strategico? Come abbiamo detto, a risolvere un problema o a raggiungere un obiettivo. A cosa mira una consulenza filosofica? Come abbiamo detto a chiarire, approfondire, comprendere, problematizzare ecc. (per ora non è necessario essere più precisi). Fin qui tutto chiaro, sembra. Ma come definisce il suo problema/obiettivo la psicologia strategica? Parlandone con il paziente. In altri termini tale definizione è frutto di un accordo – importante tra l’altro dal punto di vista deontologico, perché costituisce il contratto terapeutico. Ed ecco dunque che ritroviamo qui una problematicità, una funzione tipica della consulenza filosofica: chiarire, definire. In sintesi, nella psicologia strategica il problema/obiettivo non è un dato, ma un costrutto, e pertanto funzione di vincoli, condizioni di possibilità, visioni del mondo ecc. Così eccoci inaspettatamente riproiettati nell’alveo della consulenza filosofica. E per converso, cosa significa che la consulenza filosofica non si occupa di problem solving? Anche qui c’è tutta una retorica contra il problem solving che sarebbe da smontare37. Il nerbo di questa retorica sta nel concetto di razionalità strumentale38, invocato spesso come risolutorio. In realtà tale concetto è uno dei tanti possibili, ha le sue pecche, è criticabile, variamente definito e soprattutto decostruibile da chi si distacchi da un certo neokantismo. Ma senza entrare nel merito, e accettando il concetto di razionalità strumentale, resta che si dà per assodato che il fine, lo scopo, del problem solving, ovvero la soluzione, siano eterodecisi. Il che non è affatto certo, né necessario, né quasi mai facilmente dimostrabile. Detta in altri termini, credo si debba prendere in considerazione, per quanto attiene alla consulenza filosofica, «un concetto di soluzione che deve assumere un significato nuovo e più ampio, perché deve includere l’idea di una problematicità che s’incrementa più di quanto non si riduca»39, ovvero una concezione del problem solving, di livello logico superiore, un meta problem solving, se mi si passa l’espressione, che a questo punto si può ben accomodare nell’ambiente problematizzante,

37 Così come, intendo, la retorica contra le psicoterapie: le affermazioni di molti consulenti filosofici, tra cui Achenbach, sulle psicoterapie sono a volte talmente draconiane e inesatte da risultare grottesche. Bisogna conoscere le cose prima di parlarne. 38 Date le variazioni, lo definiamo semplicemente come l’uso della ragione per raggiungere fini che non giudica. 39 Luciana Regina, Consulenza filosofica: un fare che è pensare, Milano, edizioni Unicopli, 2006, p. 63.

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riflessivo e virtualizzante40 della consulenza filosofica, e che forse fa il paio con la “meta-teoria praticante” di cui parla Achenbach a proposito della consulenza filosofica41. Si può forse allora dire che la psicologia strategica intende risolvere e ridurre, là dove la consulenza filosofica intende invece complessificare e incrementare? Che di contro al problem solving (strategico) si possa agire un problem building, con il medio comune alle due attività in esame del problem setting (a sua volta co-implicato in un problem finding)42? Sì, certamente. Ma anche qui dobbiamo complicare. Se infatti il compito di un consulente filosofico è costruire costellazioni problematiche, a quale scopo mai lo si fa? Comprendere? Certo, ma comprendere è un obiettivo, secondo quanto riconosce anche Neri Pollastri in un’appassionata difesa di Achenbach contro Raabe, quando scrive che: «l’unico fine che la filosofia possa porsi [è] ricercare una comprensione del problema più ricca, profonda e coerente»43. Insomma anche qui è una questione di livelli: possiamo forse parlare di metaobiettivi? La questione dei livelli logici, peraltro, non è irrilevante ai fini della questione che stiamo analizzando, giacché l’opera di Watzlawick e ancor più quella di Bateson, e con essa buona parte delle premesse teoriche e scientifiche della psicologia strategica, come già abbiamo ricordato, si giocano in gran parte intorno alla questione dei paradossi e del rapporto tra linguaggio oggetto e metalinguaggio. La questione interessante a mio avviso è che in questo corpus teorico il rapporto tra linguaggio e metalinguaggio è messo in forte relazione con il concetto di feedback retroattivo, a sua volta costitutivo di ciò che Gregory Bateson chiama “mind”44, il che fa si che per l’appunto la differenziazione tra linguaggio e metalinguaggio non sia, per lo meno in certi casi eminenti ed esemplari (il gioco, la follia, l’arte…), dirimibile. Avviene pertanto quella co-implicazione tra diversi livelli logici che costituisce peraltro un importante piano di ricerca sia per Jacques Lacan che per Jacques Derrida, per non citare che due autori, e che sembra innervare di sé gran

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Il riferimento è a Pierre Lévy, Qu’est-ce que le virtuel?, Paris, Editions La Découverte, 1995. 41 Cfr. supra, nota n. 33. 42 Altrove ho sostenuto che problem building e problem setting siano specifici delle pratiche filosofiche. Vedi Il Bene (non) è il profitto? La filosofia e la sua utilità per l’azienda, “FOR”, Ott.Dic. 2008. 43 Neri Pollastri, Un primo “manuale” per l’apprendista consulente filosofico, introduzione a Peter B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, Milano, Apogeo, 2001, p. XXX. 44 Il concetto di mind in Bateson è complesso, comprende la natura delle cose umane e viventi, compresi l’arte e il sacro.

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parte delle problematiche della filosofia e delle scienze umane dell’ultimo secolo, e che si può riassumere nel termine indecidibile45. Ora, lungi dal poterlo dimostrare qui, è mia intenzione costituire a fondamento delle pratiche filosofiche la caratteristica di non avere una “chiusura epistemologica”, ovvero una definizione esaustiva preliminare del campo e dei modi d’indagine – cosa che, peraltro, ricordo, invocava a fondamento della sua pratica anche Giorgio Nardone (vedi supra)46. In termini tecnici, si tratta di non avere o, meglio, di escludere la possibilità di un linguaggio, ovvero di un metalinguaggio, che descriva la filosofia stessa… salvo il fatto che questa descrizione la si fa (l’ho appena fatta), e la si continua a fare ma, per l’appunto all’interno (interno?) stesso della filosofia. La quale si trova pertanto a configurarsi come un oggetto simile alla carroliana Borsa di Fortunatus, quella in cui tutto il mondo è contemporaneamente sia dentro che fuori47, il che faccio notare, implica una logica non ordinaria, vale a dire la stessa logica che sottende questa celebre frase di Alexandre Kojève, per cui la filosofia è quella cosa che «può parlare di qualsiasi cosa a condizione che parli anche del fatto che ne sta parlando»48. Immagino cha qualche lettore a questo punto si sia spazientito, e magari a qualcuno è venuto il mal di testa. «Si, certo, perché in fondo la questione che taglia la testa la toro», mi pare di sentirlo dire, «ha a che vedere con l’intenzionalità. Lo psicoterapeuta vuole trasformare la persona, la vuole cambiare. La consulenza filosofica non ha questa intenzionalità». Prescindendo dall’intenzionalità, altra nozione che nella letteratura sulla consulenza filosofica è data spesso per scontata senza esserlo per nulla, terrò per buona la questione del cambiamento. Certamente il terapeuta o il consulente 45 Indecidibile è un termine trattato tanto in matematica, quanto in logica, quanto in filosofia e… chissà dove ancora. Ritengo pertanto inopportuno fornire riferimenti, che sarebbero parziali. 46 In realtà ritengo che Giorgio Nardone, per lo meno stando a quanto scrive, attui una ben definita scelta epistemologica, nel momento in cui si richiama esplicitamente al costruttivismo radicale. 47 Lewis Carrol, Sylvie e Bruno, Milano, Garzanti, 1978, cap. VII. 48 Ricorro a una citazione nella citazione: «Alexandre Kojève diceva che “la filosofia è quel discorso che può parlare di qualsiasi cosa a condizione che parli anche del fatto che ne sta parlando”. Non si tratta di una battuta. Filosofia ed esperienza del linguaggio sono inseparabili. Forse ciò che chiamiamo pensiero non è che un esperimento molto speciale condotto sul linguaggio che non concerne ciò che ci diciamo attraverso il linguaggio, ma il fatto stesso che parliamo, che vi sia il linguaggio. Ma rischiarsi in questo esperimento, provarsi a dire la lingua stessa, significa rischiare di restare senza parole di fronte al linguaggio. Ma questa è una condizione molto interessante, che i poeti e i mistici conoscono bene». Da un’intervista a Giorgio Agamben fatta da Antonio Gnoli che si trova in http://home.edizioninottetempo. it/stampa/interviste-stampa/intervista-a-giorgio-agamben-di-antonio-gnoli/.

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strategico vogliono cambiare. Anzi è la loro missione. Molto discutibile mi pare invece che non lo voglia fare il consulente filosofico. Al di là del possibile ricorso a tutte quelle filosofie che hanno sempre voluto trasformare il mondo (ammesso che ve ne siano che non lo vogliano fare...)49, se è vero che il consulente filosofico non vuole cambiare, che fa allora? Fare significa cambiare, a mio parere. E anche parlare significa fare, come dicevo prima50, anzi, ingiungere… per esempio di essere ascoltati: è quanto si evince da tutta la parabola degli studi sugli speech acts, ovvero gli atti parola, quelli che consentono di fare cose con le parole (per esempio sposarsi)51, così come, parafrasando, anzi ripetendo, un altro titolo, si possono fare cose con la filosofia52. E oltre che ingiungere, parlare significa anche convincere, o meglio persuadere, secondo quanto deriva dall’accettazione dell’impossibilità di affermare una verità universale ovvero valida sempre e comunque per un, peraltro a priori irreperibile, uditorio universale53. Il che implica che la tanto esecrata persuasione sia una necessità, come peraltro la prescrizione, ammesso che il linguaggio ingiuntivo sia un primum 54. Mi rendo conto che questi sono solo accenni, e anche un po’ troppo condensati. Ma ritengo utile segnalarli all’attenzione del lettore, perché ci indicano come la questione della relazione tra psicologia strategica e consulenza filosofica non sia né semplice da risolvere, né di valore marginale. 49 Molte filosofie hanno certamente avuto come scopo un certo tipo di vita, anche politica (si pensi a Marx, per esempio). Ho il fondato dubbio che ogni filosofia, anzi ogni filosofo, intenda realizzare qualcosa, al minimo, o al massimo, come per esempio Spinoza, la saggezza. 50 Si veda in precedenza la nota n. 3. 51 John L. Austin, Come fare cose con le parole, Torino, Marietti, 1987. Il riferimento al matrimonio è alle pp. 55-56 52 Contesini, Frega, Ruffini, Tomelleri, Fare cose con la filosofia, Milano, Apogeo, 2005. 53 Il riferimento è alle tesi contenute in Chaim Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, Traité de l’argumentation: la nouvelle rhetorique, Bruxelles, Editions de l’Institut de sociologie, Université libre de Bruxelles, 1970. 54 Sull’originarietà o primarietà del linguaggio ingiuntivo posso rimandare all’interessante libro di George Spencer Brown, Laws of form, New York, Bantam Books, 1978, che peraltro viene citato in un passaggio rilevante da Giorgio Nardone e Paul Watzlawick in Arte del cambiamento, cit., pp. 21-24, dove si citano anche Ernst Mally, Grudgesetze des Sollens, Graz, Leuscher und Lubenky, 1926, e John L. Austin, Come fare cose con le parole, cit. Sull’antecedenza del normativo sul descrittivo la bibliografia sarebbe sterminata, ai nostri fini e nel solco del discorso che stiamo facendo rimandiamo pertanto soltanto a Jacques Derrida, Forza di legge. Il fondamento mistico dell’autorità, Torino, Bollati Boringhieri, 2003 e Giorgio Agamben, Il sacramento del linguaggio, archeologia del giuramento, Bari, Editori Laterza, 2008. En passant e in conclusione osserviamo che nella letteratura sulla consulenza filosofica, a nostro avviso naturalmente, la prevalenza dell’importanza del linguaggio descrittivo oscura la rilevanza di quello normativo. Forse è per questo che su questi argomenti – prescrivere, agire con le parole – si trovano in giro molte ingenuità.

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In essa sono in gioco nientemeno che l’essenza stessa della filosofia, del linguaggio, della pratica filosofica e numerose altre cose, tra cui questioni importanti che riguardano l’etica e la politica, come pure l’antica querelle tra filosofia e sofistica, che andrà ripresa, perché relativa a un’efficacia che a mio avviso non si può escludere dall’orizzonte delle pratiche filosofiche… a meno che non si vogliano consegnare a una parola vuota, un bronzo sonante, come direbbe San Paolo. Di cui voglio ricordare, per chiudere il paragrafo, un detto: «Non conformatevi a questo mondo, trasformatevi, invece, rinnovando la vostra mente» (Romani 12,2).

Ribaltamenti e posizionamenti Bene, la scorribanda è stata effettuata. Abbiamo messo a confronto psicologia strategica e consulenza filosofica con un andamento problematizzante e a spirale, con continue riprese e reinserimenti, complicazioni e commentari, giravolte e colpi di mano, giochi e provocazioni. E in tutto questo abbiamo forse, chissà, in parte celato una mossa che, come tale e in quanto tale, può passare inosservata. Abbiamo cioè sempre proceduto a partire da un’esigenza inespressa, quella, tipicamente filosofica, di non dare nulla per scontato, mettendo in dubbio tutto quanto ci capitasse a tiro. Ma in questi casi lo spettacolo è sempre messo in scena per qualcuno: a chi parlavo? A un pubblico per così dire “favorevole” o per lo meno “curioso” o “interessato” alla consulenza filosofica. E pertanto ho fatto, come vorrei e dovrei, in quanto consulente filosofico, il tafano55, ovvero, in altri termini, il consulente filosofico che fa il Socrate con altri sedicenti tali o simpatizzanti…. Come vedete l’amore per i paradossi e le inclusioni reciproche mi è proprio proprio (sic), ma poiché credo fermamente che non di sola logica viva l’uomo, e che, come vedremo, l’etica sia un primum, procederò ora alla mossa contraria. E cercherò pertanto di dire, ovvero di proporre, senza tante giustificazioni e argomentazioni, alcune tesi che inquadrino differenze significative tra la consulenza filosofica e la psicologia strategica, espresse come caratteristiche 55

Come noto, il paragone col tafano qualifica Socrate: «Infatti se mi condannate, non troverete facilmente un altro che – sia pur detto in modo ridicolo – venga assegnato dal dio alla città come a un cavallo grande e nobile, ma pigro a causa della sua grandezza e bisognoso di essere svegliato da un qualche tafano. Perché mi sembra che il dio mi abbia posto sulla città con questa funzione: non smettere di stare appresso a voi – a ciascuno di voi – tutto il giorno e dovunque per stimolarvi, convincervi e rimproverarvi. Un altro tipo così, cittadini, non vi rinascerà facilmente: risparmiatemi, se mi date retta» (Platone, Apologia di Socrate, 30 e – 31 a).

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essenziali della consulenza filosofica stessa. Sarò pertanto, e finalmente, benché con un certo pudore, positivo. 1) La prima differenza l’ho già espressa e in parte agita, comunque esibita in molti passaggi delle righe precedenti: si tratta della radicale apertura epistemologica della filosofia, che parlando di un qualsiasi oggetto parla anche dei criteri con cui ne parla, allo scopo di attingere a una qualche condivisa e convenuta verità (e verità sulla verità). In altri termini, idealmente, in una consulenza filosofica nulla deve restare fuori. Ora, se questa particolarità vertiginosa e paradossale ha un valenza logica, ritengo che, proprio per il riferimento a una concezione della verità come un qualcosa che sia per forza da cercare insieme, ne ha anche una necessariamente etica. 2) Questa si manifesta nel fatto che, essendo tutto passibile di essere messo in discussione, la consulenza filosofica è per necessità dialogica56. È un dialogo, e un dialogo particolare, in cui ci si gioca il rischio di non avere diritto a segreti, e dunque a dominio57, e di sottomettersi al regime paritario di diritto-dovere all’argomentazione, secondo cui, per dirla con Derrida, «coloro che si raccolgono nel nome e sotto il titolo della filosofia devono ambire a essere giustificati, in ogni istante, e a ri-discutere non solo ogni sapere determinato, ma anche il valore stesso del sapere e ciascun presupposto racchiuso sotto il nome di filosofia»58. 3) Non essendoci regole precostituite, l’unico modo per evitare la muta violenza e accettare l’ingiunzione, o l’ingaggio, consustanziale e fondativo del prendere parola, consiste nell’agire il rispetto, e per forza reciproco, laddove per rispetto intendo una nozione al limite tra logica ed etica, ben descritta da Roberta de Monticelli con l’espressione «sentimento della trascendenza individuale, in quanto per essenza portatrice di dignità e valore»59. Ne consegue, come dicevo, che l’etica, o una sua emergenza 56 Vedi per questo tutta la straordinaria, entusiasmante (in senso stretto ed etimologico) digressione (fondativa) sul concetto di “rapporto” (Umgang) fatta da Achenbach stesso in Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., pp. 166 ss. 57 Il lettore potrà ora intuire la ratio della frase di Foucault messa in esergo. 58 Jacques Derrida, Du droit à la philosophie, Paris, Galilée, 1990, p. 33 cit. in Alessandro Volpone, Dall’epistemologia della pratica filosofica alla filosofia in quanto pratica, in “Discipline filosofiche”, XV, 1, 2005, Quodlibet, p. 51. 59 Roberta de Monticelli, L’ordine del cuore, Milano, Garzanti, 2008, p. 203. E nella stessa pagina: «Soffermiamoci su questo punto – il rispetto come soglia dell’etica. È importante sottolineare che il rispetto può essere tale perché è in primo luogo sentimento della realtà – in quanto sempre ulteriore rispetto al dato – e in particolare il sentimento della trascendenza o realtà individuale» (c.vo mio). Riflessione che a mio avviso apre le porte a una descrizione della consulenza filosofica come qualcosa che non si occupa solo e semplicemente di universalizzare, ma anche di esemplificare in modo paradigmatico.

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iniziale, è per la consulenza filosofica un primum – non proprio un a priori, perché è un fatto: il fatto che dialogo con te, ovvero che ti offro spazio, ospitalità, e viceversa60. Per parafrasare il celebre detto aristotelico, non è questione di essere più amici di Platone o della verità, ma capire che Platone, il suo essere qui con me, in persona, a ragionare con me, è il darsi stesso, ineludibile, della dimensione della verità, da cui necessariamente partire (ricordando nel contempo che la verità ne ha ammazzati più della spada). 4) È per questo, peraltro, che la consulenza filosofica, al di là del suo darsi talvolta in forma duale, è per essenza comunitaria e addirittura pubblica – ed è questo un altro tratto che la distingue dalle psicoterapie, accomunate spesso da un setting la cui archeologia, nel senso foucaltiano del termine, rimanda sempre, in una forma o nell’altra, al confessionale. Perché, riconnettendoci a quanto sopra, il dialogo filosofico è il luogo dell’incontro tra particolare e universale – laddove i due (ambedue) sono paritetici e non allineati gerarchicamente come accade, in genere, nelle psicoterapie. Potrei andare avanti ancora, parlare di nuovo e più diffusamente della costitutiva vocazione al problem setting, finding e building tipici della pratica del filosofare, attività che, sia detto per inciso, possono ben preparare il terreno ad azioni, successive, di problem solving stretto, o per lo meno inquadrarle in più ampio contesto problematico che le salvi da una certa acriticità o ripetitività tipiche di certe psicoterapie61; oppure potrei esporre uno a uno, nel loro agire in pratica, i diversi strumenti della filosofia – dalla logica del terzo escluso all’epoché – che benché riducibili, volendo, a meri tools, sono nondimeno propri e specifici, se non esclusivi, della filosofia e della consulenza filosofica62; oppure ancora potrei dissertare di quanto e come siano fondative per la consulenza filosofica le dimensioni dell’individualità soggettiva63 e

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Su questo tema rimanderei volentieri a tutta la ricerca di Lévinas e Derrida, osservando che a mio parere questo fatto, il dialogo, esclude che la consulenza filosofica, come taluni affermano, sia anaffettiva – posizione che corrisponde a un logicismo esasperato di ascendenza platonistica che oggi a mio avviso è del tutto insostenibile. E determina che sia necessaria l’empatia. 61 Ho conosciuto una terapeuta strategica che si lamentava della ripetitività del suo lavoro: ecco un’emergenza evidente della mancanza del rispetto, così come l’ho definito, perché solo lo svanimento della consapevolezza dell’irriducibilità dell’altro lo può alienare dalla sua unicità e confinarlo tutto in una classe... Sono convinto che la consulenza filosofica sarebbe utile agli psicoterapeuti, non solo come strumento, ma come percorso proprio di messa in discussione e formazione. 62 Cfr. al riguardo Paul Wouters, La bottega del filosofo, Roma, Carocci, 2001. 63 Cfr. per esempio Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., pp. 126-127.

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del non necessario (possibile o contingente che sia)64; oppure, infine, potrei tematizzare un’altra grande questione, ovvero che al di là della domanda specifica con cui si presenta il consultante, fare consulenza filosofica, ovvero filosofia, praticarla, intendo, significa sempre e comunque, a mio parere, impegnarsi a interrogare i campi del Vero, del Giusto e del Bello65. E così via, ma credo che quanto detto finora sia abbastanza per dare un’idea di come la consulenza filosofica ecceda (sottolineo: ecceda, si faccia attenzione alla logica del termine) il campo della psicologia strategica e delle psicoterapie in genere… consentendomi come ultima precisazione che non credo si tratti tanto di una questione di intenzionalità, quanto di ontologia: la consulenza filosofica coincide col fatto che si dà dialogo in cui sia in gioco la verità, ovvero interazione cooperativa e competitiva tra discorsi diversi. A meno che con il termine intenzionalità non ci si riferisca allo scopo, al fine di tutto questo: questione dell’efficacia della consulenza filosofica, spesso discussa e spesso in modo poco preciso66, cui ho già accennato prima, chiamando in causa i sofisti, non certo per farne un modello, sia chiaro, e che lascio ora del tutto aperta, in quanto richiederebbe uno studio ampio e particolare… ma che a mio avviso racchiude davvero il senso e il valore della consulenza filosofica, da intendersi davvero, in questo senso, come «qualcosa di “unico” nella storia della filosofia occidentale, qualunque siano i precedenti rintracciabili nella tradizione codificata»67.

Avanzi e fondazioni Avremmo finito… ma ci siamo scordati gli esiti. Di Clarence il lettore ha intuito: a contraddizioni risolte si è rimesso. Ma Veronica? A seguito del 64 Utile come spunto su questi temi Alessandro Volpone, Dall’epistemologia della pratica filosofica alla filosofia in quanto pratica, cit. 65 Anche per questo vedi il mio scritto, Il Bene (non) è il profitto? La filosofia e la sua utilità per l’azienda, cit. Vorrei qui aggiungere due piccole osservazioni: che il Bene sia lo scopo finale è sostenuto da molti, il problema se mai è capire cos’è; che il Bello sia abbastanza assente dalla consulenza filosofica e dalla filosofia contemporanea è fatto interessante: cosa ci dice questa emarginazione? 66 La mia critica alle posizioni di stretta osservanza achenbachiana è ben “presentata” da questa osservazione relativa alle pratiche filosofiche: «Questo tipo di filosofare […] non è mai fine a se stesso, ma di una qualche utilità reale più o meno immediata [...]. Ed è per questo che il filosofare delle pratiche filosofiche può definirsi “strumentale”, cioè funzionale a qualcosa di diverso rispetto al circolo della produzione-riproduzione disciplinare» (Alessandro Volpone, Dall’epistemologia della pratica filosofica alla filosofia in quanto pratica, cit., p. 38). 67 Alessandro Volpone, Dall’epistemologia della pratica filosofica alla filosofia in quanto pratica, cit. p. 36.

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colloquio, l’unico tra noi occorso, mi ha telefonato dopo due settimane, come d’accordo. Stava molto meglio, aveva scritto la tabella dei pro e dei contro e aveva scoperto che c’erano un sacco di cose belle nella vita. Quanto alla faccenda della sveglia, le è sembrato troppo stupido farlo e… si è liberata dei cattivi pensieri. Dopo tre mesi stava sempre bene e dopo sei aveva preso delle decisioni fondamentali per la propria vita. Merito della sveglia? O della filosofia? Lungi da ridurre il factum dell’esito a questione marginale, ne faccio pietra angolare: la soluzione fa parte della faccenda68. E del resto cos’è un’Aufhebung 69?

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«Il verbo solvo, da cui deriva il participio assoluto, si lascia, infatti, analizzare in se-luo e indica l’operazione di sciogliere, di liberare (luo) che conduce (o riconduce) qualcosa al proprio *se» (Giorgio Agamben, *Se. L’Assoluto e l’“Ereignis”, in La potenza del pensiero, Vicenza, Neri Pozza, 2005, p. 163): dove, ricordiamo, *se, indica il “riflessivo indoeuropeo” (ibidem), e ci indica una strada per parlare di problem solving, o per lo meno di soluzioni, o assoluzioni, in un modo diverso da quello semplicemente strumentalistico cui solitamente viene ricondotta la nozione. 69 Il riferimento è ovviamente a Hegel. Il termine indica un superamento, un oltrepassamento di stampo tutto particolare, che ha comunque le caratteristiche di una risoluzione, di un compimento, analogamente a quanto proposto da Platone con anairéo e tradotto nel latino tollere (cfr. Giorgio Agamben, Signatura rerum, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 28).

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Psicologi o badanti? Sulla necessità di una formazione storico-filosofica degli psicologi* di Giorgio Blandino

La psicologia ha un lungo passato ma una storia breve (Ebbinghaus). Chi conosce il passato è padrone del futuro (Orwell). Torniamo al passato: sarà un progresso (Flaiano).

La psicologia attraversa un momento che, a essere benevoli, possiamo definire problematico. A livello professionale, a fronte di nuove possibilità, si scontano alcuni vincoli geografici, culturali, di immagine non sempre facili da modificare1. A livello di formazione di base i corsi di laurea scontano la funesta scelta del tre più due e le difficoltà di tornare al ciclo unico. I tirocini, il cui monitoraggio di qualità non è sempre agevole, per motivi che non starò qui a richiamare, costituiscono un momento fondamentale nella formazione dei giovani psicologi ma sono molto variegati, cosicché è facile rilevare che, a fronte di una buona esperienza, il superamento dell’Esame di Stato è assai facilitato mentre, tra quelli che non lo superano, è osservabile un pregresso insufficiente tirocinio. Quanto agli stessi Esami di Stato, chi ha avuto modo di partecipare ripetutamente alle Commissioni non può che esprimere sentimenti di insoddisfazione: per la disparità di giudizi tra commissioni e commissioni, sedi e sedi; per il tipo di prove; per i criteri di valutazione che, se fossero più rigorosi, comporterebbero una percentuale di insuccessi molto più elevate del 20% attuale, che ci colloca, a confronto con gli Esami di Stato di altre * Il presente saggio è apparso originariamente su “Link”, luglio 2008, n. 12, pp. 12-21. 1 Si vedano, ad esempio, Guido Sarchielli, Franco Fraccaroli, Le professioni dello psicologo, Milano, Raffaello Cortina, 2002; Albino Claudio Bosio, Davide Margola, La costruzione sociale della domanda di aiuto psicologico in Italia in “Psicologia della salute”, 2002, n. 3; e soprattutto le recenti ricerche coordinate da Bosio, Professioni psicologiche e professionalizzazione della psicologia, Milano, Franco Angeli, 2005.

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professioni, agli ultimi posti in quanto a severità delle selezioni (o, viceversa, ai primi per la disponibilità ad accogliere). Peraltro come fare per istituire prove seriamente valutative della qualità dei candidati senza essere pregiudizialmente e gratuitamente punitivi? Per parte loro le scuole di specializzazione post-lauream si sono moltiplicate e – absit iniuria verbis – una certa disparità degli standard formativi è sotto gli occhi di tutti. Tutto questo senza trascurare il fatto – a mio parere decisivo – che nella formazione di base degli psicologi, oggi come oggi, vi sono due gravi lacune: in primo luogo, la quasi totale carenza di prospettiva storica nello studio della psicologia delle sue varie teorie metodi correnti e tecniche; in secondo luogo la scarsissima possibilità di spazi di riflessione, a partire da quella filosofica.

Carenza di prospettiva storica Per quanto riguarda la carenza, se non una vera e propria mancanza, di prospettiva storica, è davvero curioso che una disciplina (e una professione) che sottolinea, come elemento fondante dell’identità e della salute psichica individuale e collettiva, il ruolo delle esperienze precoci di vita, della storia, dell’ambiente e delle vicissitudini dei soggetti, quando si occupa di se stessa e della formazione dei suoi giovani professionisti se ne dimentica, come se si potesse essere psicologi senza avere ben chiaro in testa com’è nata e come si è sviluppata la nostra scienza, poiché è evidente che ciò che facciamo è il frutto di questa stessa storia. La ricerca psicologica non può esaurirsi nella sperimentazione di laboratorio, nelle indagini sul campo, nella stessa analisi dell’esperienza clinica, ma deve essere integrata dalla riflessione e dall’utilizzo dei dati dell’esperienza storica. Se è vero, come è vero, che un percorso psicoterapeutico, psicoanalitico, di sviluppo individuale (lo si chiami come si vuole) non può prescindere dalla riflessione, oltre che sui sentimenti esperiti nella relazione specifica del «qui e ora» con il proprio terapeuta (analista, mentore o guida che sia), anche sulla propria storia personale e deve ripensarla sia nelle implicazioni negative trascurate che nelle potenzialità positive inespresse, altrettanto dovremo dire di una scienza: anche una scienza, per potersi sviluppare, non può non fare riferimento al suo passato. Comte, nel suo Corso di filosofia positiva, ricordava che non si conosce completamente una scienza finché non se ne sa la storia, e George Steiner, in un suo recente saggio – La lezione dei maestri – osserva

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che «nel progresso, nell’innovazione, per quanto siano incisivi, il passato è presente»2. Riflettere sulle proprie origini è molto importante perché è un modo di ripensarsi non solo in veste storicizzata, ma anche in una veste ragionata e fondata su una cosciente epistemologia. Inoltre rintracciare nel passato i propri pro-genitori a cui riconoscere gli inevitabili debiti di filiazione/ fondazione, è la conditio sine qua non per poi potersene separare e differenziare, proprio come in un naturale processo di crescita, individuazione, autonomizzazione. Tra l’altro, l’attenzione agli antecedenti storico-culturali ha immediate ricadute pratiche. Per esemplificare: si pensi a un problema come quello della confessione nella tradizione cristiana e cattolica, che lo storico francese Delumeau, nel suo testo La confessione e il perdono. Le difficoltà della confessione dal XIII al XVIII 3, ha portato all’attenzione quale strumento di analisi di coscienza e come vero e proprio luogo “psicoterapeutico” ante litteram. Attraverso la sua opera possiamo vedere come i “manuali” dell’epoca ad uso dei confessori, se letti da uno psicologo di oggi, sembrano, anzi sono, dei veri e propri Trattati di psicoterapia (e di counseling). È dunque, anche tecnicamente, molto interessante (e financo divertente) fare dei confronti individuandone differenze ma, soprattutto, innumerevoli similitudini che ci aiutano a rintracciare costanti nel lavoro psicoterapeutico al di là delle differenziazione di scuole e di epoche. Come dire che, laddove ci confrontiamo con il passato, riusciamo anche a intravedere punti trasversali nel lavoro psicologico che restano uguali nella sostanza, nel corso dei tempi, anche se assumono nomi diversi all’interno di quadri teorici di riferimento diversi. Così, ad esempio, la pietas, ovvero il modo antico di concettualizzare la capacità di identificazione oppure l’empatia appaiono caratteristica che accomunano ogni lavoro di cura e di sostegno. Dunque, nella formazione degli psicologi e degli psicoterapeuti, è indispensabile, a mio parere, leggere certe tematiche proprie della psicologia alla luce di alcune classiche posizioni del pensiero umano antecedenti alla costituzione della nostra disciplina come scienza autonoma, sia nell’antichità che nei tempi moderni; questo nel tentativo di rilevare e riconoscere connessioni, anticipazioni e scambi, recuperando e confrontando i linguaggi vecchi,

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George Steiner, La lezione dei maestri (2003), tr. it. Milano, Garzanti, 2004, p. 141. Cfr. Jean Delumeau, La confessione e il perdono. Le difficoltà della confessione dal XIII al XVIII (1990), tr. it. Milano, Edizioni Paoline, 1992. Ma si veda sempre di Delumeau, Il peccato e la paura: l’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo (1983), Bologna, Il Mulino, 1987. 3

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che descrivevano concetti psicologici e psicoanalitici moderni, e i linguaggi moderni che parlano e descrivono concetti vecchi. Insomma rivolgersi all’indietro, acquisire uno sguardo storico è un po’, per dirla con una battuta, come fare una psicoterapia della scienza, nel nostro caso una psicoterapia della psicologia. Invece, nelle nostre Facoltà di Psicologia, si può osservare con rammarico che l’insegnamento di Storia della Psicologia non ha quel ruolo e quella rilevanza primaria che, per i motivi suddetti, meriterebbe. E ciò sia detto senza voler fare il verso o riproporre, nel XXI secolo, una caricatura della riforma Gentile (“la filosofia è storia della filosofia”) nello studio della psicologia, ma consapevoli che, se la psicologia non è la storia della psicologia, la psicologia attuale, con tutti suoi problemi e le sue potenzialità, è però il frutto diretto della sua storia. Si può studiarla adeguatamente e farla sviluppare senza conoscerne le origini e le vicissitudini? Senza uno sguardo a ciò che è stato pensato prima, il presente e, più ancora, il futuro scientifico della nostra scienza e dell’operare quotidiano dello psicologo diventano ristretti, miopi, meri tecnicismi privi di quel respiro – che non esito a definire filosofico – che dà senso e nobilita una scienza e una professione. Se questo è vero ecco allora che arriviamo al secondo punto o, meglio, alla seconda carenza che caratterizza la formazione dei giovani psicologi e il lavoro attuale di molti di essi, vale a dire la mancanza di spazi di riflessione e pensiero filosofico.

Carenza di prospettiva filosofica Rivendicare l’acquisizione di una maggiore e migliore preparazione filosofica non ha lo scopo di spostare l’asse della psicologia verso la dimensione umanistica bensì, da una parte, di aiutarci a riflettere sulla nostra professione, in una prospettiva non meramente tecnicistica, dall’altra di mostrarci come molte delle idee, metodi e finalità hanno, nel passato anche lontano, dei significativi antesignani la cui dimenticanza non fa torto ai maestri del passato, ma a noi moderni. Ma davvero siamo così autoreferenziali da pensare che i nostri problemi odierni di salute, di malattia, di infelicità, di benessere, non siano stati presenti nel passato nelle varie epoche e nei vari momenti storici? E come si rispondeva nel passato a questi problemi quando la “psicologia” non c’era? Qualche anno fa Umberto Galimberti si domandava: «A quando un po’ di filosofia nelle scuole di psicoterapia dove ci si occupa di tutto fuorché

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di filosofia? Da che cosa ci si difende con questa esclusione?». Sembra la versione moderna dell’antica idea contenuta nel Corpus Hippocraticum che auspicava l’introduzione «della filosofia nella medicina e della medicina nella filosofia». Accogliendo questa suggestione e parafrasandola, possiamo affermare che la stessa cosa dovrebbe fare lo psicologo, ovvero introdurre la filosofia nella psicologia4. E non mi riferisco certo alla filosofia come teoria della mente o teoria del linguaggio o studio della logica, perché questo legame già c’è, e ben saldo, nelle scienze cognitive. Penso invece alla filosofia nella psicoterapia, nella psicologia clinica e dinamica e nell’operare spicciolo e quotidiano dello psicologo che interviene nelle varie situazioni, da quelle individuali a quelle gruppali e/o organizzative, a quelle istituzionali. Tra l’altro lo studio di come i filosofi si sono posti, nel corso della storia, di fronte all’infelicità, ai disturbi e ai disordini della mente costituisce un filone di ricerche molto promettente. Questo filone, osserva Roberta De Monticelli, «apparentemente eclissato dai due grandi progetti scientifico terapeutici del secolo, la psicoanalisi prima e le ricerche neurobiologiche e farmacologiche poi [...] sembra oggi mostrare qualche segno di una timida ripresa»5. Va anche ricordato che riflessione filosofica e operatività psicologica pratica sono sempre state strettamente connesse, come ben si evince dalla filosofia greca antica, dove la teoria implicava un atteggiamento e un comportamento pratico etico e morale e, nella filosofia greca più tarda, dove una condotta morale e un determinato stile di vita implicavano una teoria. Per citare quanto sostiene il filosofo Reale, «la costante della filosofia greca è il theorein, ora accentuato nella sua valenza speculativa ora nella sua valenza morale, ma sempre in un modo tale che le due valenze si implicano reciprocamente in modo strutturale»6. Il termine greco theorein infatti, come ha mostrato Gadamer7, non ha tanto il senso di un discorso astratto e lontano dalla realtà, bensì indica una vera e attiva compartecipazione agli eventi sociali e della vita. Pierre Hadot, uno dei massimi storici del pensiero antico, nel suo importante saggio Esercizi spirituali e filosofia antica8, scrive che, nell’antichità, la filosofia fungeva da rimedio terapeutico, come un vero e proprio farmaco, e 4 E, ovviamente, anche “la psicologia nella filosofia”. Ma tale prospettiva in questa sede la trascuriamo perché non ci interessa direttamente. 5 Roberta De Monticelli, L’ascesi filosofica, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 132. 6 Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana, 10 voll., Milano, Bompiani, 2004, vol. 9. p. 22. 7 Cfr. Hans G. Gadamer, Verità e metodo (1960), tr. it. Milano, Bompiani, 2000. 8 Cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it. Torino, Einuadi, 2005.

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dunque la stessa trattazione di argomenti teorici serviva soprattutto a scopi pratici: avendo dunque lo scopo di servire da guida per il comportamento, la filosofia era (è) ricca di suggestioni operative che hanno molto da dirci ancora oggi. Giustamente Bodei critica il fatto che, nell’ambito della psichiatria e della psicoanalisi (ma potremmo tranquillamente aggiungere anche nella psicologia in senso lato), ci si è concentrati soprattutto sui momenti della diagnosi e della cura, non focalizzando a sufficienza la riflessione sugli strumenti necessari per comprendere la complessità dell’animo umano e i suoi significati al di là di isolati sintomi o quadri nosografici9.

Per essere più chiari: modelli di intervento clinico e psicoterapeutico, individuale, gruppale e sociale, sono solo apparentemente derivati operativi da teorie e ricerche, ma implicano invece, consapevolmente o inconsapevolmente, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente, modelli di riferimento filosofici, in particolare etici, ovvero concezioni dell’uomo. Se uno psicologo o uno psicoterapeuta non è consapevole di questi problemi svolge, a mio modo di vedere, un lavoro che è, solo apparentemente, terapeutico. Peraltro, è significativo che i più profondi pensatori in ambito psicologico e in particolare quelli in ambito psicoanalitico, da Freud a Jung, da Fromm a Money-Kyrle a Bion ecc., finiscano, negli esiti ultimi della loro ricerca, per fare della filosofia. Scrive Jung al riguardo nel saggio Psicoterapia e visione del mondo: La visione del mondo, in quanto formazione tra le più complesse, costituisce il polo opposto della psiche fisiologicamente condizionata e, come dominante psichica superiore, decide in ultima analisi del destino di questa. Guida la vita del terapeuta e informa lo spirito della sua terapia […] A questo punto va ammesso che noi psicoterapeuti dovremmo essere dei veri filosofi o medici filosofi; anzi, che già lo siamo anche se non vogliamo ammetterlo10.

Dunque l’operare di uno psicologo e/o di uno psicoterapeuta non può esaurirsi negli aspetti strettamente tecnici, per quanto indispensabili e ineludibili essi siano, ma necessita di una consapevolezza più ampia che rimanda alle complesse, e talvolte oscure, problematiche proprie della condizione umana. Infatti, poiché la psicologia si occupa dell’uomo, della sua mente e 9

Remo Bodei, Rapporti tra filosofia e psicoanalisi in “Rivista di psicoanalisi”, n. 46. Carl Gustav Jung, Psicoterapia e concezione del mondo (1943), in Opere, vol. XVI, Torino, Boringhieri, 1981, p. 89. 10

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della sua condotta soggettiva e interpersonale, sia nei suoi aspetti manifesti che nei suoi aspetti profondi ed emozionali, non si può pensare di affrontarne lo studio o di praticarla professionalmente senza un minimo di consapevolezza di quali sono i limiti della nostra esistenza e di riflessione sul suo senso (o non-senso). È inevitabile dunque che ci si debba confrontare con chi queste problematiche ha trattato prima di noi, vale a dire i filosofi, in primo luogo. A meno di pensare di poterne fare a meno, al prezzo di ridurre l’operare psicologico a qualcosa di meccanico, quando non manipolatorio. Psicologie e/o psicoterapie superficiali, che seguono le mode, prede di un’illusoria onnipotenza scientista e perciò, in ultima istanza, irrilevanti. In tal caso non ci dobbiamo poi lamentare, come psicologi, se ci troviamo a dover fare i conti (subire perfino) la concorrenza, più o meno in buona fede, della cosiddetta Consulenza Filosofica11. Accade perché nel nostro operare (nel nostro teorizzare e nel nostro ricercare) manca troppo spesso quell’apertura alla riflessione sulla condizione umana con la quale inevitabilmente tutti ci dobbiamo confrontare. È inutile quindi che gli psicologi facciano rivendicazioni di specificità professionale se poi, nella pratica quotidiana, dànno risposte monche alle grandi questioni esistenziali, ovvero si limitano a un piccolo cabotaggio tecnicistico-adattativo senza allargare lo sguardo sui temi del dolore, dei limiti umani, della morte. È proprio perché si trascurano questi aspetti che si lasciano aperti spazi che quindi andranno a essere occupati da queste nuove pseudo-tecniche. È proprio perché troppo spesso la psicologia si appiattisce su pratiche di tipo quasi meramente riabilitativo che compaiono sulla scena i “filosofi consulenti” i quali intendono coprire il vuoto di senso spesso trascurato dagli interventi psicologici in un modo, se vogliamo, anche discutibile, ma non liquidabile solo a partire da posizioni di rivendicazione corporativa della serie “esercizio abusivo della professione psicologica”. Non si tratta dunque tanto di polemizzare con pratiche simili o contigue, come ad esempio quelle dei vari tipi di counseling per i problemi più svariati. Ma di essere capaci noi di dare delle risposte più articolate e complesse, più profonde di quanto non si faccia ora. Per questi motivi, che sto rapidamente richiamando, la trascuratezza o la dimenticanza della filosofia (in generale, e della filosofia antica, in particolare) da parte della psicologia, appare essere una grave perdita che fa sentire i suoi effetti negativi non solo teoricamente, ma anche in concreto, per quanto questa conseguenza possa non apparire immediatamente percepibile a chi è tutto preso dalla diuturna fatica della gestione 11

Gerd B. Achenbach, La consulenza filosofica (1987), tr. it. Milano, Apogeo, 2004.

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delle sofferenze dei pazienti o dei conflitti gruppali o delle problematiche professionali quotidiane.

Ricadute pratiche Per evitare equivoci che facciano recepire queste mie considerazioni come un invito all’intellettualizzazione astratta vorrei fermamente ribadire che la riflessione sugli aspetti storici e sulle radici culturali della nostra scienza è un’operazione tutt’altro che intellettualistica o erudita, ma invece è la conditio sine qua non per un operare concreto, pratico e quotidiano più consapevole e, soprattutto, più incisivo e decisivo di quanto non lo sia ora. Farò qualche esempio. Oggi si parla molto della valutazione dell’efficacia degli interventi psicologici e, in specifico, di quelli psicoterapeutici e si producono al riguardo molteplici e spesso importanti ricerche empiriche12. Sebbene anche questo tema sia parzialmente inquinato dal fatto di essere diventato di moda, dal fatto di essere talvolta di acritica importazione nord-americana e infine non sia esente da meri problemi di mercato (compagnie di assicurazione, rivalità tra scuole, conflitti con professioni contigue ecc.) è indubbio che gli psicologi non possono evitare di dare risposte convincenti rispetto al loro operare professionale. Molti sostengono, e con ben fondate ragioni, che bisogna sempre più orientarsi verso la cosiddetta “Psicologia basata sulle Evidenze” e quando talvolta si leggono certi articoli o libri o si sentono certi interventi che, con tutta la benevolenza di giudizio, non sembrano altro che aria fritta, parole a vanvera senza che se ne comprenda bene il senso, non si può dar loro torto e si può capire meglio perché molte volte psicologi o psicologia vengano confinati da pubblici distratti o

12 Per tutti i recenti: Frank R. Margison, Michael Barkham, Chris Evans et al., Measurement and psychotherapy: Evidence-based practice and practice-based medicine (2000), in “British Journal of Psychiatry”, n. 177, pp. 123-130; William J. Lyddon, John V. Jones, L’approccio evidence-based in psicoterapia (2001), tr. it. Milano, McGraw-Hill, 2002; Marianne Leuzinger-Bohleber, Mary Target, I risultati della psicoanalisi (2002), tr. it. Bologna, il Mulino, 2006; Kim T. Mueser, William C. Torrey, David Lynde, Patricia Singer, Robert E. Drake, Implementing evidence-based practices for people with severe mental illness, in “Behaviour Modification”, 2003, n. 27 (3); Paolo Migone, Sono veramente efficaci le psicoterapie evidence-based? in “Il Ruolo Terapeutico”, 2005, n. 98, pp. 103-114; Christina Bachmann, Riccardo Luccio, Emilia Salvadori, La significatività statistica e il suo senso, in “Ricerche di Psicologia”, XXVIII, 2005, 4, pp. 43-79; Nino Dazzi, Vittorio Lingiardi, Antonello Colli (a cura di), La ricerca in psicoterapia. Modelli e strumenti. Milano, Raffaello Cortina, 2006.

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prevenuti in pseudo-scienze, rispetto alle scienze capaci di produrre dati tangibili. Al Convegno delle Federazioni Europee di Psicologia, tenutosi a Praga, esattamente un anno fa (luglio 2007), colpiva, negli stand degli editori europei di psicologia, la gran quantità di testi e ricerche sulla EBPsych (Evidence Based Psychology). Dunque, se non è lecito buttare via il bambino con l’acqua del bagno, vale a dire che se la psicologia, proprio per il suo campo di indagine così complesso, inevitabilmente non può usare linguaggi troppo quantificanti, pena la perdita della complessità dell’esperienza umana, è pur vero che la comunità professionale deve sforzarsi di mettere a punto, di assumere – e pubblicamente dichiarare – criteri, il più possibile condivisi e verificabili, di valutazione dell’efficacia dei suoi interventi. E questo in tutti gli ambiti, a fronte di finalità e obiettivi ben chiari e esplicitati al pubblico che si avvale delle nostre prestazioni professionali. E tuttavia… E tuttavia se criteri affidabili e oggettivi sono auspicabili davvero si pensa che in tal modo si possa risolvere il problema della valutazione dell’efficacia degli interventi psicoterapeutici? Ma ci si interroga a sufficienza su quello che è il senso di un percorso di ricerca su di sé? Ci si confronta con pratiche analoghe, sebbene di nome diverso, utilizzate nei tempi passati? E che cosa si misura: gli effetti pratici del percorso, o l’evoluzione interiore che esso produce? La psicoterapia deve produrre risultati oggettivi e misurabili, o piuttosto la capacità di apprendere dall’esperienza, di autocorreggersi, di tollerare l’inevitabile frustrazione della vita o di venire a patti con i propri limiti? In una parola la tolleranza, in primo luogo verso se stessi, sola condizione per accedere alla tolleranza verso gli altri e quindi a forme di convivenza civile più mature e pacifiche. E queste capacità non sono forse frutto di percorsi e incontri che contengono in sé quello che prima ho chiamato respiro filosofico? Se così è, o almeno se si condividono queste ipotesi, allora il lavoro clinico e/o l’intervento dello psicologo non possono prescindere da un allargamento della prospettiva che aiuti lo psicologo a essere, prima che un tecnico, un soggetto che ha pazienza, che sa aspettare, che sa pensare e far pensare, intendendo questo termine nella sua accezione più ampia, vale a dire come capacità di essere in contatto con gli aspetti emozionali profondi. Prospettiva storica e spazi di riflessione etico-filosofica dovrebbero dunque essere due momenti basilari nella formazione, nel bagaglio e nell’operare dello psicologo al punto che, se vengono a mancare, non avremo più degli psicologi, ma quelli che ho chiamato, e senza nessun disprezzo, dei badanti

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della psiche13 e che, similmente, sono stati definiti, da Riccardo Steiner14 “dentisti della mente”. I badanti sono necessari, svolgono un lavoro spesso indispensabile, ma in un’ottica meramente assistenzialistica, finalizzata a gestire al meglio lo status quo di chi è in sofferenza, non certo a produrre trasformazioni. Capita così che i giovani psicologi che fanno, a volte per necessità, lavori assistenziali, educativi o interventi di supporto ad altre mansioni o professioni svolgano compiti che, pur se necessari e apprezzabili, relegano tuttavia la psicologia in una dimensione subalterna e non così decisiva come invece è intrinseco allo statuto stesso della disciplina intesa nel suo senso più alto. Assistono, appunto, e non promuovono apprendimenti, sviluppi, pensiero. E i giovani che studiano e escono dalle odierne Facoltà di Psicologia, sebbene siano molto volonterosi, intelligenti e motivati, nella misura in cui sono privi di appropriati bagagli filosofici, e correlate capacità di riflessione a più ampio raggio, rischiano, a loro volta, di diventare meri tecnici, “badanti” appunto. A loro deve certo andare tutto il nostro sostegno per aiutarli a superare la disarmante ingenuità critico-culturale di cui spesso dànno prova. Ma la dose di confusione, in parte fisiologica, che sperimentano quando intraprendono gli studi di psicologia, aumenta a dismisura se non gli si dà anche una sia pur minima consapevolezza delle radici della disciplina. A parere di chi scrive è dunque necessario, per gli psicologi, una decisa rivalutazione della prospettiva storico-filosofica nella loro formazione di base e in itinere, poiché, se mi baso sulle esperienze didattiche e professionali (mie e dei vari colleghi con cui interagisco e mi confronto), tocco con mano che, per parafrasare quanto Kant diceva della scienza rispetto alla filosofia, se è vero che la filosofia senza la psicologia è vuota, è altrettanto vero che la psicologia senza la filosofia è cieca. Ciò permetterebbe ai giovani studenti (e talvolta anche ai meno giovani!) di meglio comprendere, integrare e fronteggiare due enormi problemi che stanno investendo la psicologia e con i quali sempre di più, nel futuro prossimo, anzi già nel nostro presente, ci troveremo e ci troviamo, a fare i conti: mi riferisco alle neuroscienze da una parte e alla società multietnica dall’altra.

13 Cfr. Giorgio Blandino, Un futuro nel passato. Radici culturali del lavoro psicologico, Torino, Antigone, 2006. 14 In Mark Solms, Le neuroscienze, in E. S. Person, A. M. Cooper, G. O. Gabbard, Psicoanalisi. Teoria, clinica, ricerca, Milano, Raffaello Cortina, 2006.

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Le sfide del futuro per la psicologia Infatti, oggi come oggi, la comunità degli psicologi non solo non può chiudersi in se stessa, a nessun livello, ma deve ineluttabilmente e senza perdere tempo, incominciare a confrontarsi e aprirsi organicamente – e strutturalmente, starei per dire – alle scienze contigue (sociologia, antropologia, linguistica, semiologia) e, appunto, all’area delle neuroscienze con i suoi spettacolari progressi15. L’ambito delle neuroscienze, al di là delle mode, comporta ormai una necessità di confronto per gli psicologi, per due ordini di motivi: in primo luogo perché non si possono trascurare i suoi contributi e in secondo luogo perché gli psicologi non possono pensare di lasciare in mano questa area solo ai neuroscienziati. Tutta l’immensa mole di dati e le nuove tecniche di neuro-imaging devono saper essere assunte e trattate dagli psicologi. Non è vero che le neuroscienze sono la morte della psicologia o, ad esempio, della psicoanalisi (come da qualcuno si sente dire), bensì ne sono il futuro a patto che gli psicologi siano capaci di conoscerle e di utilizzarle. Insomma, per dirla con una battuta, così come si dice che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali, altrettanto potremmo dire che le neuroscienze sono una cosa troppo seria per lasciarle in mano solo ai neuroscienziati. È quindi necessario che gli psicologi se ne occupino dal loro specifico punto di vista, non certo per invadere il campo altrui, ma per dialogare con i ricercatori più aperti e per razionalmente criticare quelli di loro più estremisti che pensano di potere eliminare la psicologia solo in base alla scoperta di meccanismi bio-chimici e correlati neurali e quindi di conseguenza eliminare la mente (e la scienza che la studia: la psicologia). Ma per fare questo devono avere una capacità di ragionamento e di prospettiva che può derivare solo dall’abitudine al ragionamento filosofico e dalla consapevolezza storica delle origini e del divenire della psicologia. Altrimenti la battuta che abbiamo fatto sui neuroscienziati la dobbiamo estendere anche agli psicologi e dire che anche la psicologia è una cosa troppo seria per lasciarla in mano solo agli psicologi! L’altro grande problema di fondo non dipende, per una volta almeno, dalla psicologia in senso stretto e dal suo statuto scientifico, ma consegue a 15 Si veda, come testo immancabile per ogni psicologo odierno: Eric R. Kandel, Psichiatria, psicoanalisi e nuova biologia della mente (2005), Milano, Raffaello Cortina, 2007; e poi Solms, Op. cit.; Alberto Siracusano, Alex I. Rubino, Psicoterapia e neuroscienze, Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, 2006; Francesco Barale, Mauro Bertani, Vittorio Gallese, Stefano Mistura, Adriano Zamperini (a cura di), Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze, voll. I e II, Torino, Einaudi, 2006.

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mutate condizioni socio-culturali, con dirette ricadute nel nostro campo e sulla nostra operatività. Infatti con l’avvento della società multi-etnica anche i modelli di riferimento culturali delle persone che si avvalgono del servizio psicologico si modificano nettamente, come sperimentano e possono testimoniare i colleghi che operano nei servizi sul territorio e interagiscono con un’utenza extra-comunitaria o di matrici culturali diverse dalle nostre. Gli utenti (e i pazienti di altre culture) che si rivolgono e si avvalgono dei servizi psicologici non solo presentano problemi nuovi, ma soprattutto hanno schemi di riferimento culturali completamente diversi dai nostri, obbligando quindi gli psicologi a dover imparare a lavorare su registri diversi senza i quali diventa difficile poter stabilire un qualsivoglia contatto e per conseguenza avviare interventi minimamente significativi16.

Psicologia come epidemiologia In questo quadro una sfida che si pone alla psicologia consiste non solo nel ripensare al senso della salute mentale, del benessere individuale e sociale in contrapposizione alla patologia, non solo nel ripensare al senso e alla funzione della diagnosi, ma nel ripensare al senso stesso della clinica e dell’intervento psicologico in senso lato, che, laddove è trasformativo, promotore di consapevolezza e benessere, costruttore di relazioni interpersonali, individuali, organizzative e sociali, più sane e più umane, è clinico esso stesso17. Ciò comporta un nuovo modo di intendere la psicologia, e il suo compito, che ha come conseguenza anche l’apertura di nuove, financo entusiasmanti, possibilità professionali: mi riferisco alla psicologia come scienza che dovrebbe intervenire non solo “dopo”, ma “prima”; ovvero come scienza che, sulla base delle sue ricerche e conoscenze e con il contributo di tutti gli orientamenti che la caratterizzano, può diventare determinante non solo nel “curare”, ma soprattutto nel progettare e organizzare strutture sociali, politiche educative assistenziali, schemi di lavoro più sani e più umani. Una psicologia intesa cioè come epidemiologia. Ma, se queste premesse sono vere, allora la psicologia viene a configurarsi come uno straordinario strumento politico, nel senso più nobile e alto 16

Cfr. ad esempio Davide Zoletto, Gli equivoci del multiculturalismo in “Aut-Aut”, 2003, n. 312; Fabio Quassoli, Riconoscersi. Differenze culturali e pratiche comunicative, Milano, Raffaello Cortina, 2006. 17 Piero Amerio, Problemi umani in comunità di massa. Una psicologia tra clinica e politica, Torino, Einaudi, 2004.

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del termine, cioè come uno straordinario strumento al servizio della società18. In questa prospettiva il lavoro dello psicologo si nobilita e, tra l’altro, cosa non secondaria, apre nuove prospettive anche occupazionali. Il punto critico, o drammatico se si vuole, è che, forse anche per colpa nostra – ma certo non solo – ben poche volte la politica, nel senso invece più comune del termine, si avvale dei contributi della psicologia e, quando se ne avvale, lo fa sempre in modi ristretti, limitati, talvolta al confine del ridicolo, come negli esempi del “consulente per l’immagine” dei politici. Ma è possibile una politica che centri tutto il suo operare sull’attenzione al PIL e sui problemi di bilancio? È piacevolmente sorprendente leggere che l’economista indiano-statunitense Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998 e uno dei più originali e influenti pensatori moderni – non uno psicologo dunque! –, sostiene che gli indicatori tradizionali di tipo socioeconomico, quali il PIL o il reddito pro capite, non sono sufficienti per rilevare l’indice dello sviluppo di un paese perché il livello di una società non si esaurisce nel mero calcolo economico quantitativo esteriore e sociologico. Implica invece la qualità delle relazioni umane, tanto che la stessa aspettativa (più o meno lunga) di vita, a fronte della mortalità prematura, dipende da molti altri aspetti dell’organizzazione sociale tra cui, dice Sen, non solo la sanità pubblica, ma la scuola e l’educazione e la coesione e l’armonia sociale19. Elementi, appunto, prettamente psicologici sui quali gli psicologi avrebbero qualcosa da dire! Questa, a mio parere, è una delle aree problematiche, una vera e propria sfida che siamo chiamati a fronteggiare se non vogliamo che la nostra professione lentamente degradi al servizio subordinato di altre professioni socialmente più potenti. E se, al contrario, vogliamo contribuire allo sviluppo della conoscenza psicologica. In questo senso entra in gioco l’enorme problema della grande responsabilità dello psicologo, anzi della consapevolezza della sua responsabilità e della grande responsabilità sociale della Psicologia. Il senso di responsabilità che lo psicologo deve avere verso gli altri e verso se stesso, ovvero verso la propria 18

Cfr. ad esempio Volkan, Blind trust: Large Groups and their leaders in Time of Crisis and terror, Charlotteville, Pitchstone publishing, 2004, e La politica e le relazioni internazionali, in Person, Cooper, Gabbard, Psicoanalisi. Teoria, clinica, ricerca, Milano, Raffaello Cortina, 2006. Blumberg, Hare, Costin, Peace psychology. A comprehensive introduction, Cambridge, Cambridge University Press, 2006. 19 Cfr. Amartya Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano, Mondadori, 2000; Id., Scelta, benessere, equità, Bologna, Il Mulino, 2006; e anche Piergiorgio Odifreddi, Amartya Sen, in “Repubblica”, 27 agosto 2003.

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mente, prima di essere un impegno deontologico, è il prerequisito del suo lavoro. Ma anche la psicologia ha un compito e una responsabilità sociale primaria che non si esaurisce nell’intervento professionale specifico, per quanto indispensabile questo sia, ma consiste nel contribuire a promuovere strutture di relazioni più sane, umane e, in ultima istanza, democratiche e pacifiche. Un compito politico dunque, nel senso più nobile e civile del termine. A questo proposito vanno anche stigmatizzate tutte quelle uscite pubbliche mass-mediatiche di psicologi (peggio ancora se non lo sono) che dànno un’idea distorta della psicologia e che sostanzialmente, con la scusa di fornire expertise psicologiche, anziché essere al servizio della scienza, mettono la scienza al servizio di se stessi per farsi pubblicità20. Però è forse anche giunto il momento di dire che gli psicologi, prima di darsi in pasto ai media, dovrebbero ben bene riflettere e, piuttosto che colludere con le richieste mediatiche più grossolane che, come tali, non solo sono ascientifiche ma addirittura antipsicologiche, dovrebbero decisamente rifiutarsi di collaborare. Per dirla tutta, non è accettabile leggere sui giornali o sentire in televisione dei signor sotutto che, quando non dicono sciocchezze o erogano banali consigli della nonna camuffati da pensosi pareri scientifici, hanno sempre una spiegazione pronta per tutto e non lesinano mai di dire la loro sulle vicende dell’universo mondo trasmettendo così un’immagine della psicologia come di una scienza magica-onnipotente che ha sempre risposte, mai domande: esattamente ciò che la psicologia seria non è. Ma né il senso di responsabilità professionale individuale, né la consapevolezza della responsabilità e della funzione sociale della psicologia si possono però promuovere e sviluppare senza avere una visione di come questa scienza si è venuta costituendo nel corso del tempo e di come coloro che sono venuti prima di noi hanno affrontato e, talvolta, risolto i loro problemi. In questo mio contributo ho inteso caldeggiare la necessità di fornire agli psicologi in formazione (e agli psicologici già operanti di non dimenticarlo) uno sguardo prospettico, diacronico, nella certezza che, individuando prodromi, talvolta dimenticati, di alcune delle moderne idee psicologiche, tutta la comunità professionale ne possa trarre suggerimenti, riflessioni e stimoli per fronteggiare in modo creativo le sfide attuali che il mondo globalizzato e i progressi delle scienza pongono alla nostra professione. Nella convinzione, per dirla in modo paradossale, che un possibile futuro della psicologia stia proprio nel suo passato. 20

Giorgio Blandino, Il “parere” dello psicologo. Usi e abusi della psicologia nei mass-media, Milano, Raffaello Cortina, 2000.

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Riferimenti bibliografici Achenbach, Gerd B., La consulenza filosofica (1987), tr. it. Milano, Apogeo, 2004. Amerio Piero, Problemi umani in comunità di massa. Una psicologia tra clinica e politica, Torino, Einaudi, 2004. Bachmann Christina, Luccio Riccardo, Salvadori Emilia, La significatività statistica e il suo senso, in “Ricerche di Psicologia”, XXVIII, 2005, 4, pp. 43-79. Barale Francesco, Bertani Mauro, Gallese Vittorio, Mistura Stefano, Zamperini Adriano (a cura di), Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze, voll. I e II, Torino, Einaudi, 2006. Blandino Giorgio, Il “parere” dello psicologo. Usi e abusi della psicologia nei mass-media, Milano, Raffaello Cortina, 2000. Blandino Giorgio, Un futuro nel passato. Radici culturali del lavoro psicologico, Torino, Antigone, 2006. Blandino Giorgio, Editoriale in “Psicologi a confronto. Rivista dell’ordine degli psicologi del Piemonte”, anno 1, 2007, n. 1. Blumberg Herbert H., Hare A. Paul, Costin Anna, Peace psychology. A comprehensive introduction, Cambridge, Cambridge University Press, 2006. Bodei Remo, Rapporti tra filosofia e psicoanalisi in “Rivista di psicoanalisi”, n. 46. Bosio Albino Claudio, Margola Davide, La costruzione sociale della domanda di aiuto psicologico in Italia in “Psicologia della salute”, 2002, n. 3. Bosio Albino Claudio (a cura di), Professioni psicologiche e professionalizzazione della psicologia, Milano, Franco Angeli, 2005. Dazzi Nino, Lingiardi Vittorio, Colli Antonello (a cura di), La ricerca in psicoterapia. Modelli e strumenti. Milano, Raffaello Cortina, 2006. Delumeau Jean, La confessione e il perdono. Le difficoltà della confessione dal XIII al XVIII (1990), tr. it. Milano, Edizioni Paoline, 1992. Delumeau Jean, Il peccato e la paura: l’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo (1983), Bologna, Il Mulino, 1987. De Monticelli Roberta, L’ascesi filosofica, Milano, Feltrinelli, 1995. Gadamer Hans G., Verità e metodo (1960), tr. it. Milano, Bompiani, 2000. Hadot Pierre, Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it. Torino, Einuadi, 2005. Jung Carl Gustav, Psicoterapia e concezione del mondo (1943), in Opere, vol. XVI, Torino, Boringhieri, 1981. Kandel Eric R., Psichiatria, psicoanalisi e nuova biologia della mente (2005), Milano, Raffaello Cortina, 2007. Leuzinger-Bohleber Marianne, Target Mary, I risultati della psicoanalisi (2002), tr. it. Bologna, il Mulino, 2006. Lyddon William J., Jones John V., L’approccio evidence-based in psicoterapia (2001), tr. it. Milano, McGraw-Hill, 2002.

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Gli autori Giorgio Blandino Giorgio Blandino è professore associato di Psicologia Dinamica alla Facoltà di Psicologia di Torino dove è anche Presidente del Corso di Laurea in Scienze e Tecniche Psicologiche e Presidente della Commissione tirocini. Ha pubblicato numerosi articoli e libri sul contributo della psicoanalisi ai processi educativi (La disponibilità ad apprendere, 1995, e Le risorse emotive nella scuola, 2002, entrambi con B. Granieri, e il recente Quando insegnare non è più un piacere, 2008, tutti e tre editi da Raffaello Cortina); sulle competenze necessarie allo psicologo (Le capacità relazionali, Torino, Utet, 1996); sugli usi e abusi della psicologia nei mass-media (Il “parere” dello psicologo, Milano, Cortina, 2000); sul contesto storico culturale alle origini della psicoanalisi (Al tempo di Freud, Libreria Cortina, Milano, 2004 e Un futuro nel passato. Radici culturali dellavoro psicologico, Torino, Antigone, 2006). Per l’Ordine degli Psicologi del Piemonte, di cui è consigliere, cura la rivista scientifica Psicologi a confronto.

Paolo Cervari (www.paolocervari.blogspot.com) Laureato in filosofia con una tesi su Jacques Lacan e specializzatosi con una tesi su Jacques Derrida, si è sempre interessato di comunicazione come fattore organizzativo, sistemico e trasformazionale. Ha lavorato come copywriter e giornalista, ha scritto romanzi (tra cui L’Immortale, Mondadori, 1995), ha ricoperto incarichi per medie imprese italiane come responsabile dello sviluppo organizzativo, ha lavorato in staff e board di direzione. Ha effettuato numerosi training di carattere psicologico ed esperienziale, dalla psicoanalisi ad alcune discipline di estrazione orientale. Lavora da anni come consulente nel campo teso tra la comunicazione organizzativa, le strategie e lo sviluppo delle persone. È coach certificato presso l’MRI di Palo Alto (California), formatore per il Centro di Terapia Strategica di Arezzo e consulente filosofico di Phronesis, dove è responsabile della Sezione Lombardia. Ha all’attivo nel settore alcune pubblicazioni su riviste specializzate (“Phronesis”, “FOR”) e su pubblicazioni destinate al largo pubblico (“Diogene”, “La Stampa”). È inoltre in corso di pubblicazione la voce “Consulenza Filosofica” nell’Enciclopedia della psicoterapia Garzanti. Ha uno studio di consulenza filosofica e life coaching a Milano.

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AUTORI

Giorgio Giacometti (www.platon.it) Si è laureato a Padova nel 1989 con una tesi su Walter Benjamin e ha tenuto diversi seminari, presso quell’Università, negli anni ’90, ispirati agli studi di Pierre Hadot sulla filosofia antica come esercizio spirituale. Attualmente è dottore di ricerca in filosofia politica e docente di filosofia in un liceo scientifico-tecnologico. Già docente a contratto di storia del pensiero politico presso l’Università di Udine, è stato anche supervisore per il tirocinio presso la locale Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento nella Scuola Secondaria. Ha all’attivo diverse pubblicazioni di argomento filosofico e didattico, tra le quali i volumi Ordine e mistero. Ipotesi su Schelling, Padova, Unipress, 2000 e Filosofia e amicizia. Il Liside di Platone e dintorni, un esercizio maieutico, Milano, Colonna, 2001. È vicepresidente della Società Indologica “Luigi Pio Tessitori”, nel cui ambito si è occupato dei rapporti tra filosofia indiana e filosofia greca (suo l’articolo: Plotino e Çankara. Una questione di punti di vista, in “Simplegadi”, Rivista di filosofia orientale e comparata, V, 2000, n. 1, pp. 11-33). Si è interessato, inoltre, di psichiatria fenomenologica traducendo per Marsilio (Venezia, risp. 1990 e 1994) i libri di Ludwig Binswanger, Delirio. Antropoanalisi e fenomenologia e Il caso Suzanne Urban. Storia di una schizofrenia. Nel 2005 ha fondato a Udine, con altri filosofi, la Gaia scienza – Laboratorio per le pratiche e la consulenza filosofica e dal 2007 è segretario nazionale di Phronesis – Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica. Dopo avere condotto diversi seminari di pratica filosofica in Friuli, ha aperto nella sua città uno studio di consulenza filosofica. Offre anche uno sportello di ascolto presso l’istituto dove insegna. Sulla rivista “Phronesis” (n. 7, 2006) ha pubblicato l’articolo Consulenza filosofica come professione. Aporetica di un’attività complessa, rielaborato col titolo Una professione impossibile? nel volume collettaneo Filosofia praticata (Trapani, Di Girolamo, 2008). Sulla rivista “Edizione” (anno 2009) della Società Filosofica Italiana (Sezione del Friuli Venezia Giulia) figura, altresì, il suo articolo Perché non riaccendere la lanterna di Diogene?, pure dedicato alle pratiche filosofiche contemporanee. Di prossima pubblicazione: Ragionare in rete. Pratiche filosofiche e tecnologie della comunicazione a scuola.

Maria Luisa Martini (www.pratichefilosofiche.it) Laureata a Padova in Filosofia moderna e contemporanea, si è dedicata allo studio del pensiero del Novecento e in particolare alla filosofia ermeneutica di Hans-Georg Gadamer. Ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia con una tesi sulla nozione gadameriana di orizzonte, pubblicata da Mursia (Orizzonte e linguaggio. I confini dell’esperienza del mondo nel pensiero di Hans-Georg Gadamer, Milano, 2006). Docente di Filosofia e Storia nei licei, ha curato numerose pubblicazioni didattiche (collana

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AUTORI

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“I sentieri della filosofia”, Torino, Paravia, 1992 e 1994; collana “Analysis”, Bologna, Zanichelli, 1996). Attualmente è professore a contratto di Filosofia del linguaggio e di Teoria e logica del dialogo presso il Corso di laurea in Filosofia dell’Università degli Studi di Trento. Dal 2007 è Consulente filosofica di Phronesis e nel 2008 è stata eletta componente del Consiglio Direttivo. Ha aperto uno studio di consulenza a Trento, dove promuove le pratiche filosofiche con iniziative rivolte al territorio. Dal 2010 è responsabile della sezione Trentino di Phronesis e dirige la collana di pratiche filosofiche “Phronesis” per l’editore Liguori.

Cati Maurizi Enrici Laureata nel 1996 in Pedagogia ad indirizzo filosofico presso l’Università di Trieste con una tesi sul confronto tra il pensiero di E. Lévinas e M. Heidegger, è stato membro dal 1997 al 2001 della Società Filosofica Italiana, sezione Friuli Venezia Giulia, e della redazione della rivista “Edizione”. Ha co-curato e contribuito alla realizzazione del volume del dicembre 2003 Parole, gesti e musica. Sulle tracce della differenza. Membro fondatore dell’Associazione culturale SpazioPensiero di Pordenone (www. SpazioPensiero.org), organizza e conduce incontri al caffè filosofico di Pordenone e di pratica filosofica a Sacile. Insegna nella scuola primaria, dove fa pratica di “filosofia con i bambini” e organizza corsi di aggiornamento per insegnanti. Ha concluso il percorso di formazione in counseling gestaltico, ottenendo la qualifica di “Operatore nella relazione d’aiuto” presso l’Istituto Gestalt di Pordenone. È consulente filosofica riconosciuta da Phronesis – Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica.

Moreno Montanari (www.praticafilosofica.info) Laureatosi nel 1996 all’Università di Urbino con una tesi su “La filosofia di Nietzsche come viaggio”, ha poi conseguito il Dottorato di Ricerca in Filosofia con uno studio su La filosofia antica come esercizio spirituale e cura di sé nelle interpretazioni di Pierre Hadot e Michel Foucault. Già membro della Internationale Gesellschaft für Philosophische Praxis di Gerd Achenbach, è consulente filosofico riconosciuto da Phronesis – Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica. Membro dell’Istituto Italiano Sōtō Zen organizza e guida corsi di pratica filosofica nei quali si avvale anche delle tecniche di meditazione zazen e tibetana. Insegna Storia e Filosofia ed esercita la professione di consulente filosofico per persone e organizzazioni ad Ancona. Tra le sue pubblicazioni: Hadot e Foucault nello specchio dei Greci, Milano, Mimesis, 2010; La filosofia come cura, Milano, Unicopli, 2007; Il Tao di Nietzsche, Milano,

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AUTORI

mesis, 2004; la curatela de La consulenza filosofica: formazione o terapia? Chiaravalle, L’Orecchio di Van Gogh, 2006 e numerosi articoli per riviste di filosofia e di psicologia analitica (“Phronesis”, “Diogene”, “Adultità”, “Rivista di Psicologia Analitica”, “Ref”) e volumi collettanei di filosofia e di consulenza filosofica.

Neri Pollastri (www.consulenza-filosofica.it) Neri Pollastri si occupa di consulenza filosofica dal 1998 e dal 2000 svolge la libera professione. Ha pubblicato due libri sulla materia, Il pensiero e la vita (Milano, Apogeo, 2004) e Consulente filosofico cercasi (Milano, Apogeo, 2007), e una ventina di articoli, due dei quali in lingua inglese (From Hegel to Improvisation. On the Method Issue in Philosophical Consultation, in José Barrientos Rastrojo (ed.), Entre Historia y Orientaciòn Filosofica, II vol., Sevilla, 2006, e Improvisation. A Method of Philosophical Consultation, in José Barrientos Rastrojo (ed.), Philosophical Practice. From theory to practice, Sevilla, 2006). Ha tradotto in italiano il libro di Peter Raabe Philosophical Counseling. È stato tra i fondatori di Phronesis – Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica, della quale è stato Presidente dal 2005 al 2009, e ne codirige l’omonima rivista. Dal 2005 insegna “Teoria e prassi della consulenza filosofica” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. È coordinatore della collana “Pratiche Filosofiche” dell’editore Apogeo. È stato relatore alla 7th e alla 8th International Conference on Philosophical Practice (a Copenhagen e a Siviglia) ed è membro della Companionship internazionale fondata da Ran Lahav. Ha anche pubblicato alcuni studi in altri settori della filosofia, tra i quali il volume L’assoluto eternamente in sé cangiante. Interpretazione olistica del sistema hegeliano (Napoli, La Città del Sole, 2001).

Paola Santagostino (www.paolasantagostino.it) Si è laureata in Filosofia a Milano nel 1979 con la tesi: Per una interpretazione psicoanalitica della malattia organica ed ha poi proseguito attivamente gli studi e le ricerche sulla Storia della Medicina Psicosomatica e sulle diverse interpretazioni psicoanalitiche delle varie malattie fornite dalle principali Scuole di Psicosomatica. Negli anni tra il 1980 e il 1991 ha pubblicato mensilmente articoli sul significato psicologico delle diverse patologie: asma, colite, gastrite, disturbi cardiaci, patologie della pelle, diabete, reumatismi ecc., curando la sezione Concezioni Psicosomatiche Internazionali per la rivista “Riza Psicosomatica”. Membro del Consiglio Direttivo dell’Istituto Riza e del Comitato Scientifico della rivista, negli stessi anni è stata Docente ai Corsi quadriennali per medici e psicologi della Scuola di formazione in Psicoterapia ad indirizzo Psicosomatico, oltre a svolgere l’attività di Psicoterapeuta

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AUTORI

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e completare la propria formazione psicoanalitica. Fin dagli anni ’80 ha elaborato una propria metodologia di intervento psicoterapeutico basata sull’utilizzo della fiaba, tema al quale ha dedicato il libro: Guarire con una fiaba, attualmente edito da Feltrinelli. Negli anni 1995-2001 ha condotto una sezione di aiuto psicologico dedicata ai giovani per la rivista “Tutto musica e spettacolo” di Mondadori, rispondendo a migliaia di lettere di adolescenti sulle varie problematiche giovanili, e si è occupata di pedagogia pubblicando: Come raccontare una fiaba, Milano, Red, 1997, I perché dei bambini, Milano, Red, 1998 e Crescere un bambino sicuro di sé, Milano, Red, 2000. Negli anni 2000 ha approfondito gli studi sulla psicologia del colore pubblicando numerosi articoli su varie riviste e il libro Il colore in casa, Milano, Apogeo, 2006. Alla storia della Medicina Psicosomatica e dei suoi pionieri ha dedicato il testo: Che cosa è la medicina psicosomatica, Milano, Apogeo, 2005. Opera attualmente come Psicoterapeuta specializzata in medicina psicosomatica e come Consulente Filosofica, tiene corsi e seminari sulla gestione dell’ansia, sull’uso della fiaba in psicoterapia, sulla psicologia del colore, nonché laboratori di pratiche filosofiche. Dal 2007 è l’ideatrice e organizzatrice degli Aperitivi filosofici che si tengono a Milano ogni lunedì sera con la partecipazione di noti personaggi del campo della filosofia.

Stefano Zampieri (http://digilander.libero.it/eserciziofilosofico/) Si è laureato nel 1985 all’Università di Venezia con una tesi su Maurice Blanchot e la filosofia francese dopo Heidegger. Da allora ha pubblicato numerosi studi di carattere filosofico e letterario (Blanchot, Heidegger, Savinio, Celan…). La sua ricerca si è poi focalizzata intorno alle questioni relative alla testimonianza filosofica e letteraria della Shoah. Su questo tema ha pubblicato una ricerca dal titolo Il flauto d’osso. Lager e letteratura, Firenze, La Giuntina, 1996 e, più recentemente, il saggio Dopo la Shoah. Apocalisse dell’umano, nel volume a cura di N. Novello, Apocalisse. Modernità e fine del mondo, Napoli, Liguori Editore, 2008. Insegna nella scuola secondaria superiore e si occupa in particolare di educazione degli adulti. Nel 2003 ha fondato Esperi.A, un gruppo di ricerca rivolto alle Pratiche Filosofiche (individuali e di gruppo). Intorno al tema della Consulenza Filosofica ha pubblicato il testo L’esercizio della filosofia, Milano, Apogeo, 2007, e Quaderno della sera. Un esercizio di pratica filosofica, Milano, Lampi di Stampa, 2008. È presidente di Phronesis – Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica, nonché redattore dell’omonima rivista. Lavora da molti anni come Consulente Filosofico nel suo studio di Mestre.

Phronesis Collana di pratica filosofica diretta da Maria Luisa Martini

. .

G. Giacometti (a cura di), Sofia e Psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto N. Pirillo (a cura di), Elvio Fachinelli e la domanda della Sfinge. Tra psicoanalisi e pratiche filosofiche

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tempi sembrano maturi per un confronto sereno tra pratiche filosofiche e pratiche psicoterapeutiche, a volte ancora confuse le une con le altre presso il grande pubblico. Le pratiche filosofiche, nate storicamente anche (ma non solo) in contrapposizione a quelle psicoterapeutiche, camminano ormai sulle “proprie gambe”, forti, se non di un metodo unificante, certamente di un’aria di famiglia e, soprattutto, della fiducia nella propria autonomia e specificità filosofica. Esse, in altre parole, diffuse in Europa e nel mondo da ormai quasi trent’anni, non mostrano d’aver bisogno di ricevere fondamento e legittimazione che da sé stesse. Proprio in forza di ciò gli autori del volume, filosofi praticanti esperti del settore, pur nelle talor notevoli differenze di accento, fatte alcune essenziali distinzioni di principio, hanno ritenuto di poter liberamente confrontarsi, in forma documentata e critica, con alcune tra le più importanti “voci” della psicologia e della psicoterapia, non esitando a riconoscervi, a volta a volta, questo o quell’elemento di “filosoficità” e, in qualche caso, perfino il ruolo di più o meno parziali precursori. Il volume è suggellato dal contributo di un docente di psicologia che, dal canto suo, riconosce l’importanza per la sua stessa disciplina della ripresa di un confronto fecondo con le sue radici filosofiche.

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ontiene contributi di Giorgio Giacometti, Neri Pollastri, Maria Luisa Martini, Moreno Montanari, Stefano Zampieri, Cati Maurizi Enrici, Paola Santagostino, Paolo Cervari, Giorgio Blandino. Gli autori, con l’eccezione di Blandino, sono tutti soci di Phronesis, prestigiosa associazione italiana per la consulenza e le pratiche filosofiche (www.phronesis.info).