Filosofie nella consulenza filosofica 9788820761394, 9788820761400

Quali correnti e quali autori della storia della filosofia costituiscono i riferimenti essenziali nel colloquio di consu

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Table of contents :
Introduzione - Martini, Maria Luisa
Ironia, creazione, ridescrizione : Richard Rorty e la consulenza filosofica - Zampieri, Stefano 1960-
Domanda filosofica e domanda retorica : l’argomentazione nella nuova retorica e la creazione di nuovi pensieri - Bijelic, Vesna
Conosci te stesso : perché non possiamo non dirci platonici quando facciamo filosofia - Giacometti, Giorgio 1965-
Sostare, in ascolto : note in margine ad una esperienza di pratica filosofica - Cecchinato, Emanuele
Dall’amore per la sapienza alla sapienza dell'amore : riflessioni sulla consulenza filosofica a partire da Luce Irigaray - Zanella, Chiara
Ricercare se stessi con l'esistenzialismo - Francavilla, Sabrina
Il pensiero come ri-apertura dell'esistenza : Simondon, Bataille, Nancy - Piromalli, Salvatore
Un caso di insecuritas - Castellini, Valeria
In dialogo con Epitteto - Romano, Norma
C’è ma non si vede (specie se è di buona qualità) - Cavadi, Augusto 1950-
Consulenza e tradizione filosofica : leggere attentamente prima dell'uso - Pollastri, Neri
Gli autori -
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Filosofie nella consulenza filosofica
 9788820761394, 9788820761400

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FILOSOFIE NELLA CONSULENZA FILOSOFICA a cura di Maria Luisa Martini

LIGUORI EDITORE

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Phronesis Collana di pratica filosofica diretta da Maria Luisa Martini

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6

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Bijelic, Castellini, Cavadi, Cecchinato, Francavilla, Giacometti, Piromalli, Pollastri, Romano, Zampieri, Zanella

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Filosofie nella consulenza filosofica a cura di Maria Luisa Martini

Liguori Editore

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Comitato scientifico: Giuseppe Ferraro, Umberto Galimberti, Ran Lahav, Edoardo Lombardi Vallauri, Nestore Pirillo, Pier Aldo Rovatti

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). L’utilizzo del libro elettronico costituisce accettazione dei termini e delle condizioni stabilite nel Contratto di licenza consultabile sul sito dell’Editore all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/ebook.asp/areadownload/eBookLicenza. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati.. La duplicazione digitale dell’opera, anche se parziale è vietata. Il regolamento per l’uso dei contenuti e dei servizi presenti sul sito della Casa Editrice Liguori è disponibile all’indirizzo Internet http://www.liguori.it/politiche_contatti/default.asp?c=contatta#Politiche Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2013 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Luglio 2013 Martini, Maria Luisa (a cura di): Filosofie nella consulenza filosofica/Maria Luisa Martini (a cura di) Phronesis Napoli : Liguori, 2013 ISBN 978 - 88 - 207 - 6139 - 4 (a stampa) eISBN 978 - 88 - 207 - 6140 - 0 (eBook) 1. Counselling

2. Storia della filosofia

I. Titolo

II. Collana

III. Serie

Ristampe: —————————————————————————————————————————— 21 20 19 18 17 16 15 14 13 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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Indice

1

Introduzione di Maria Luisa Martini

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Prima sezione Il linguaggio: dialogo, argomentazione, interpretazione 7

Ironia, creazione, ridescrizione. Richard Rorty e la consulenza filosofica di Stefano Zampieri

33

Domanda filosofica e domanda retorica. L’argomentazione nella nuova retorica e la creazione di nuovi pensieri di Vesna Bijelic

49

«Conosci te stesso». Perché non possiamo non dirci platonici quando facciamo filosofia di Giorgio Giacometti

93

Sostare, in ascolto. Note in margine ad una esperienza di pratica filosofica di Emanuele Cecchinato

Seconda sezione Analisi esistenziale e dialettica dell’alterità 115

Dall’amore per la sapienza alla sapienza dell’amore. Riflessioni sulla consulenza filosofica a partire da Luce Irigaray di Chiara Zanella

137

Ricercare se stessi con l’esistenzialismo di Sabrina Francavilla

161

Il pensiero come ri-apertura dell’esistenza. Simondon, Bataille, Nancy di Salvatore Piromalli

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viii

IndIce

Terza sezione L’esercizio filosofico 183

Un caso di insecuritas di Valeria Castellini

199

In dialogo con Epitteto di Norma Romano

215

C’è ma non si vede (specie se è di buona qualità)

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di Augusto Cavadi

Postfazione Questioni di metodo 225

Consulenza e tradizione filosofica: leggere attentamente prima dell’uso di Neri Pollastri

257

Gli autori

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Introduzione

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di Maria Luisa Martini

Le pratiche filosofiche, e in particolare la consulenza, sono sorte, e tutt’oggi si autocomprendono, in una relazione di discontinuità con la tradizione filosofica. In polemica con una modalità puramente filologica e ‘antiquaria’, propria di un approccio alla materia di tipo disciplinare, intendono esercitare l’attività di pensiero in stretta connessione con la vita e con i problemi che la realtà, nell’urgenza delle sue contraddizioni, ci pone quotidianamente: la filosofia, insomma, viene riproposta nella sua forma originaria, così come è nata agli albori della civiltà, come esercizio individuale e collettivo di chiarificazione degli interrogativi che l’esistenza stessa pone, come sforzo di comprensione della condizione umana e come tentativo di formulare risposte plausibili, anche se consapevolmente parziali e provvisorie. Perché, allora, darsi la pena di cercare i nessi tra questa pratica di pensiero, esplicitamente libera da modelli (fardelli) storici e da metodiche proprie della filosofia come disciplina? Qual è il senso di questo volume collettivo, in cui professionisti consulenti si soffermano a indicare i riferimenti ad autori o testi canonici della storia del pensiero che costellano i loro colloqui professionali? Leggendo i saggi raccolti in questo volume si potrà comprendere che non si tratta tanto di svelare che cosa contenga una presunta ‘cassetta degli attrezzi’ di cui si servirebbe il consulente, dopo aver estratto qua e là dalla biblioteca dei filosofi ‘pillole’ di saggezza per venire in soccorso di persone in difficoltà. L’operazione che viene alla luce in questo volume è di ordine autoriflessivo ed ermeneutico. Il nostro pensiero nello sviluppo delle connessioni logiche e delle argomentazioni non è mai libero e neutrale, per così dire. Una tra le conquiste fondamentali della filosofia contemporanea, da Schopenhauer in avanti, consiste nella consapevolezza della dimensione ‘ibrida’ del pensiero, strumento vitale piuttosto che ‘teoretico’, sempre imbevuto non solo di emozioni, ma anche di motivazioni ‘umane, troppo umane’ (per dirla con le parole di Nietzsche), guidato, spesso a sua insaputa, da schemi irriflessi, da convenzioni comportamentali e linguistiche, da modelli e cornici espressive.

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IntroduzIone

È necessario, dunque, riuscire a mettere in atto una operazione riflessiva, in grado di portare alla luce i presupposti che orientano il colloquio filosofico. Il professionista filosofo è chiamato in primis a compiere su di sé questo esercizio di autoconsapevolezza, sapendo rendere ragione di sé, prima di porsi in ascolto delle ragioni dell’altro e prima di chiedergli le sue ragioni. È buona pratica riuscire a mettere in chiaro i pre-giudizi personali (intesi in senso ermeneutico come convenzioni condivise, come terreno in cui hanno radici i nostri pensieri). Alla stessa logica appartiene l’istanza di saper indicare le proprie preferenze per questo o quel filosofo, per questa o quella corrente di pensiero. Aver dedicato tempo e passione allo studio di testi o autori comporta di necessità averne assimilato i concetti e le metodologie, che affiorano poi spontaneamente nelle sedute di consulenza filosofica. Saper vagliare criticamente il proprio bagaglio terminologico, concettuale e argomentativo è il primo passo verso una più acuta consapevolezza professionale. A questi temi l’Associazione ‘Phronesis’ ha dedicato un Seminario nazionale nell’inverno del 2010. I saggi qui raccolti, tuttavia, non si rifanno immediatamente ai lavori di quel Seminario. Le questioni, incubate allora, sono poi evolute e hanno dato frutti più maturi. Senza la pretesa di aver raggiunto risultati consolidati, riteniamo tuttavia di aver individuato una pista di ricerca che potrà dare esiti ancora più produttivi in futuro, qualificando sempre di più la nostra professione. Perché, al di là delle opzioni teoriche, emerge in controluce da tutti i saggi la centralità che assume il linguaggio nelle sedute di consulenza. Si potrebbe dire, adattando un celebre detto di F. Schleiermacher, che nella consulenza filosofica c’è un solo presupposto: il linguaggio. Se questo vale per ogni filosofia, vale in modo particolare per la pratica della consulenza filosofica che si svolge come dialogo, come scambio comunicativo. Nell’articolarsi del colloquio si delineano storie di vita, pensieri, aspirazioni, emozioni. Nel linguaggio viene a espressione innanzitutto lo sforzo di comprensione reciproca dei parlanti. Ma il linguaggio è anche il medium che facilita l’autocomprensione dell’ospite, il quale porta alla parola sé stesso, il suo passato, la sua domanda. E dentro il linguaggio si fa strada un nuovo orizzonte di pensieri, che aprono prospettive inedite, foriere di un nuovo equilibrio esistenziale. Il linguaggio, dunque, è il filo conduttore di questo volume. Una prima sezione esplora diverse modalità di facilitazione del colloquio filosofico, alcune ispirate a correnti contemporanee (dal pensiero post-moderno di Richard Rorty, con la strategia dell’ironia maieutica, alla nuova retorica di Chaïm Perelman e Lucie Obrechts-Tyteca), altre riferite al padre stesso dell’arte dialogica, Platone. Il campo comune di questi saggi (compreso il saggio sulla valenza del silenzio) è la riflessione sul medium linguistico, che

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IntroduzIone

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permette di delineare, oltre l’impiego di un codice condiviso che consente la comunicazione, le tracce di nuove parole, di più adeguate narrazioni. Una seconda sezione è dedicata a una specifica riflessione sul dialogo nella prospettiva di una analitica dell’esistenza. Anche in questa sezione risulta evidente la riflessione sulla parola, che diventa snodo fondamentale all’interno di ogni colloquio filosofico. Il lavoro di analisi può penetrare più in profondità, riuscendo a portare in chiaro implicazioni e vincoli concettuali che limitavano la prospettiva con cui il problema veniva precedentemente affrontato. La parola è sempre polisensa; vedere insieme all’ospite i diversi aspetti che essa include, esaminare le diverse implicazioni di senso a cui essa rinvia: questo è un lavoro propriamente filosofico, che permette di intravedere prospettive nuove e percorsi di una possibile emancipazione. Nella consulenza orientata all’esercizio filosofico la parola assolve un ruolo psicagogico. Come le ricerche di Pierre Hadot e Michel Foucault sull’età tardo-antica hanno messo in evidenza, la costruzione del sé è un compito a cui ciascuno è chiamato, con il fine di rafforzare il proprio carattere in modo autonomo e autocentrato. A questo compito sovvengono pratiche di discorso che forniscono una protezione (paraskeuè), un sostegno nei momenti di incertezza e di avversità. I casi esposti nella terza sezione di questo volume raccontano di come queste parole vengano inventate-trovate nello scambio comunicativo, sviluppando poi la loro efficacia terapeutica nella vita quotidiana. Chiude il volume una post-fazione di Neri Pollastri che mette in guardia da facili ‘applicazioni’ di teorie filosofiche, da ricette preconfezionate che, anziché aiutare il lavoro del pensiero, lo chiudono entro schemi mentali che ben poco hanno a che vedere con l’intento originario della consulenza filosofica. Questa è innanzitutto una pratica dialogica che si articola in parole: la conversazione tra i parlanti apre quel campo comunicativo in cui possono emergere significati e ragioni inattesi. Inventati, in quanto cercati e trovati, grazie all’ascolto del linguaggio e al desiderio di comprendere e di comprendersi.

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Prima sezione

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Il linguaggio: dialogo, argomentazione, interpretazione

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Ironia, creazione, ridescrizione. Richard Rorty e la consulenza filosofica di Stefano Zampieri

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1. Pratica filosofica e post-filosofia Ciò che comunemente chiamiamo pratica filosofica è una disciplina che si è sviluppata negli ultimi tre decenni, in modo abbastanza confuso, da una prima intuizione di Gerd Achenbach che poi ogni filosofo pratico ha, di fatto, coniugato diversamente, in funzione dei propri percorsi, delle proprie attitudini, ma anche delle sensibilità culturali più specifiche di un paese piuttosto che di un altro. Così essa è cresciuta nutrendosi variamente di psicoterapie e di psicoanalisi, di filosofia esistenziale e di filosofia morale, con una spiccata predilezione per alcuni autori che, non a caso, sembrano costituire riferimento obbligato e quasi esaustivo. Ora, è certamente vero, ad esempio, che la rilettura della filosofia antica proposta da Hadot e Foucault deve essere intesa come un passaggio necessario per addentrarsi nella pratica filosofica, tuttavia assistiamo al rischio che si compia un passo ulteriore verso uno schiacciamento progressivo della pratica filosofica su certi autori antichi, in modo particolare su una forma di stoicismo alla buona, che sembra prestarsi molto efficacemente a fornire soluzioni semplici al disagio contemporaneo attraverso parole d’ordine come equilibrio, non attaccamento, imperturbabilità, benessere, felicità, serenità, cura dell’anima, che sembrano fatte apposta per essere usate come terapia a basso costo per combattere la condizione di stress che l’accelerazione dei tempi, dei gesti, degli impegni, tipica dell’attuale società dei consumi, impone a tutti noi. Purtroppo l’abuso di questi riferimenti trasforma, talvolta, la pratica filosofica in un tentativo, piuttosto ingenuo, di condizionamento, se non addirittura in una forma di ammaestramento. Ma la pratica filosofica è ben altro. Per questo vorrei provare a uscire dai riferimenti classici e mostrare, piuttosto, le affinità e le sintonie con alcuni risvolti attualissimi di quella filosofia contemporanea che viene definita comunemente post-modernismo e che ha in Richard Rorty il suo principale punto di riferimento.

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Il

lInguaggIo: dIalogo, argomentazIone, InterpretazIone

Tale accostamento ad alcuni potrà apparire singolare, ma basta fare un piccolo passo indietro ed assumere una visuale un po’ più ampia per rendersi conto che, forse, c’è un motivo se nello stesso momento, all’inizio degli anni ’80, nascevano, senza alcun contatto, sul continente europeo la pratica filosofica di Achenbach, ovvero il tentativo di radicale revisione di una disciplina destinata a sopravvivere “in un ghetto accademico, dove ha perduto il rapporto con qualsiasi problema che opprime realmente gli uomini”1; mentre dall’altra parte dell’oceano si affermava con Richard Rorty dapprima una radicale messa in questione della filosofia analitica, dominatrice indiscussa della scena accademica americana, e poi della filosofia tout court attraverso il tentativo di far scendere dal suo trono la disciplina filosofica e di metterla sullo stesso piano della letteratura nel grande scenario della conversazione collettiva. Due modi completamente diversi di affrontare la stessa difficoltà, due narrazioni differenti della filosofia, entrambe impegnate a ricollocare la dimensione filosofica su un piano nuovo, da un lato per uscire da una portata accademica ormai autoreferenziale in modo claustrofobico, dall’altra per farla finita con la pretesa, un po’ esagerata e un po’ snob, della filosofia di avere l’ultima parola sulle questioni che riguardano il destino dell’umanità. Due forme di decostruzione, due forme di revisione. Probabilmente un’unica necessità: ridare vita a un organismo morente. A questo punto, però, devo chiarire, a scanso di equivoci, che la mia prospettiva è sempre quella della pratica filosofica e che il mio modo di leggere gli autori non muove affatto da un’adesione ai principi e alle prospettive che essi rappresentano; la pratica filosofica, infatti, non ha autori di riferimento, proprio perché si rapporta in altro modo al corpus della letteratura filosofica, osservandolo in controluce, alla ricerca di quanto corrisponde all’esperienza che di volta in volta vien messa in discussione2. In questo senso è possibile rapportarsi agli autori senza alcuna necessità di prendere posizione o di schierarsi in funzione delle schematiche contrapposizioni su cui si affanna la critica, si tratti della polemica tra analitici e continentali o di quella tra essenzialisti e relativisti. In questo caso, dunque, vorrei provare a mostrare la grande utilità di 1

G. Achenbach, La consulenza filosofica, Milano: Apogeo, 2004, p. 15 (ed. originale 1987). Un tipo di lettura, per altro, condiviso e sostenuto dallo stesso Rorty, che afferma recisamente: «Io scelgo semplicemente le idee che voglio usare dal testo del filosofo e ignoro il resto della sua vita e del suo lavoro» (R. Rorty, Verità e libertà. Conversazioni con Richard Rorty. Il testamento spirituale di uno dei principali filosofi americani, Massa: Transeuropa, 2008, p.106, ma vedi anche «On Heidegger’s Nazism» in R. Rorty, Philosophy and Social Hope, New York: Penguin, 2000). 2

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IronIa,

creazIone, rIdescrIzIone

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alcune riflessioni di Rorty per comprendere e descrivere quello che, secondo me, cioè in base alla mia esperienza, è il reale sviluppo del dialogo filosofico. A partire da quella che possiamo considerare come la tesi di riferimento di Rorty, cioè la sua obiezione al “rappresentazionalismo” (representationalism) che egli formula in molti modi diversi a partire dall’opera che lo ha reso famoso, La filosofia e lo specchio della natura del 1979, ma che qui vorrei riprendere da una formulazione più recente: «Per teoria anti-rappresentazionalista intendo una teoria che concepisce la conoscenza non come una corretta comprensione della realtà, bensì come l’acquisizione di abiti di azione per fronteggiare la realtà»3. A me pare che questa tesi corrisponda in pieno all’esperienza della consulenza filosofica: eliminare o meglio superare il rappresentazionalismo significa, come sintetizza magnificamente il principale interprete italiano di Rorty, Aldo Giorgio Gargani, superare «la tesi che le interazioni fra gli uomini e la realtà consistono di raffigurazioni, di immagini, di metafore visive, di paradigmi oculari. Parlare, dire, asserire, domandare, rispondere non sono modi di rappresentare la realtà, di porsi faccia a faccia con il mondo, ma sono essi stessi azioni, modi di spuntarla con l’ambiente, strumenti per far fronte alle perturbazioni, all’alea delle turbolenze che si originano dal mondo esterno»4. L’uomo interagisce costantemente con gli altri uomini e con le cose, e dunque la sua ragione non consiste tanto in una obbedienza a regole e criteri stabiliti in linea di principio, quanto piuttosto nella «partecipazione al processo di una comunicazione non distorta da dogmi, autorità, violenza, tollerante, solidale, disponibile all’ascolto, alla ricezione delle opinioni e dei bisogni degli altri, alla persuasione anziché alla costrizione»5. Ma questa ragione dialogica, tollerante, disponibile all’ascolto, è esattamente quella che si mette in gioco nella situazione della consulenza filosofica. Tornerò su questo aspetto della ragione, ma deve essere chiaro fin da subito che una singolare sintonia lega immediatamente l’esperienza del dialogo filosofico e il punto di partenza dell’esperienza filosofica così come la intende Richard Rorty. Un’esperienza che egli chiama “pragmatista”, con specifico riferimento alla tradizionale corrente filosofica di James, Peirce e Dewey, ma come ho appena detto, con molta libertà. Spesso egli sembra pensare alla filosofia pragmatista – intendendo di fatto la sua filosofia – nella forma wittgensteiniana della “terapia del linguaggio”, nel senso che la sua funzione sarebbe quella di liberare da convinzioni vecchie e inadeguate: «Penso al 3 4 5

R. Rorty, Scritti filosofici, vol. I, Roma-Bari: Laterza, 1994, p. 3. A.G. Gargani, Il soggetto di credenze e desideri, in R. Rorty, Scritti filosofici, vol. I, cit., p. XI Ibid.

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lInguaggIo: dIalogo, argomentazIone, InterpretazIone

pragmatismo – dice Rorty – in primis come a una terapia filosofica – una terapia plasmata dai filosofi che ci hanno preceduti. Nella misura in cui leggere il pragmatismo ti libera da diverse abitudini e convinzioni, lo fa come lo farebbe un testo sorprendentemente innovativo. Ti fa pensare: “Santo cielo, non avevo mai pensato a questo modo di vederla!” Ma una terapia non è la stessa cosa che dare dei criteri, o una teoria»6. Anche Gargani ci conferma in questa lettura in base alla quale la filosofia per Rorty avrebbe il compito sostanzialmente terapeutico di «liberarci dalla tentazione di arrampicarci con la mente là dove nessuna mente umana può installarsi»7, cioè nella posizione extra-umana, metafisica, da cui poter vedere il rapporto tra rappresentazioni e realtà, la posizione di un Dio. Una tale terapeutica non dà luogo ovviamente a criteri forti, a teorie solide e definitive, ma porta piuttosto a «ricontestualizzare la tradizione culturale del passato allo scopo di elaborare un’autoimmaginazione creativa dell’uomo suscitata dalla continua ritessitura dei suoi desideri e delle sue credenze»8. L’operazione che dunque la filosofia ci porta a realizzare non è tanto la formazione di teorie garantite, né quella della elaborazione di sistemi articolati in cui far rientrare ogni aspetto della nostra esistenza. Molto più prosaicamente si tratta di una operazione legata a quello che Rorty chiama il nostro vocabolario.

2. La costruzione del vocabolario La prima figura su cui vorrei soffermarmi è proprio questa, che è decisiva e ci offre il gesto della costruzione del vocabolario personale: «Tutti gli uomini dispongono di un certo numero di parole di cui si servono per giustificare le proprie azioni, le proprie convinzioni e la propria vita. Sono le parole con cui esprimiamo stima per gli amici e disprezzo per i nemici, i nostri progetti a lungo termine, le nostre più profonde incertezze su noi stessi e le nostre più grandi speranze. Sono le parole con cui raccontiamo, a volte guardando al futuro e a volte retrospettivamente, la storia della nostra vita»9. 6

R. Rorty, Verità e libertà, cit., p. 123. A. G. Gargani, Il soggetto di credenze e desideri, cit., p. IX. 8 Ivi, p. X 9 Richard Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Roma-Bari: Laterza, 2001 (ed. or. 1989), p. 89. Ma si veda in particolare tutto il cap. 4: «Ironia privata e speranza liberale». Alcuni passaggi delle argomentazioni che seguono sono stati anticipati in altra forma nel mio Manuale della consulenza filosofica, Milano: IPOC 2013. 7

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creazIone, rIdescrIzIone

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Ognuno di noi possiede il proprio vocabolario, le proprie parole, quelle che ci consentono di esprimere la nostra vita, di definirci, di esibire un’identità, e dunque di raccontarci, di momento in momento, di dare voce alle nostre attese quanto alla nostra memoria, alla nostra indignazione quanto alla nostra speranza, alle gioie, ai dolori, ai progetti, ai fallimenti. Ogni volta che ci mostriamo al mondo, ogni volta che parliamo di noi, ogni volta che ci mettiamo in questione, di fronte al tribunale della ragione, o nelle sacche delle lamentele, ogni volta non possiamo che servirci di questo vocabolario nel quale sono elencati valori e disvalori, fatti e sentimenti, idee e immagini. Da esso peschiamo, in esso ci orientiamo quando dobbiamo produrre un discorso. Di fronte a questo vocabolario personale, è possibile adottare un duplice atteggiamento. È possibile, in primo luogo, una forma di accettazione incondizionata che identifica il nostro vocabolario con quello del senso comune e dà così per scontato che esso sia perfettamente valido per comunicare con gli altri, perché capace di ridurre le differenze a un fondo comune valido universalmente, il fondo contenuto nella risposta alla classica domanda socratica: “Cos’è X?”, cioè la risposta che presuppone un’essenza. Certo non si tratta, propriamente, di trovare l’essenza di ogni concetto, ma semplicemente di ammettere che ogni nostra parola possa essere ridotta ad essenza, perché si riferisce a qualcosa che ha un’essenza. Possiamo, seguendo Rorty, chiamare questo atteggiamento metafisico e vedere in esso il modo d’essere proprio di colui che si rivolge ad un consulente filosofico sottoponendogli un problema la cui soluzione gli sfugge di mano. Costui è convinto che il difetto del suo ragionamento possa essere sanato attribuendo un senso corretto al suo vocabolario (cioè all’insieme, egli direbbe, delle sue parole e dei suoi pensieri), dal quale non riesce a staccarsi, e nel quale vuole invece trovare quella verità che gli manca, ma che deve pur esserci. Quella verità della vita e delle cose, che gli impedisce di fare una scelta importante, o che gli rende così difficile la vita matrimoniale, o professionale, che gli determina quel disorientamento, quel senso di incapacità, dal quale non riesce a liberarsi. Allora, da questo punto di vista, si tratta soltanto di interrogare concettualmente la realtà, perché così facendo si potrà chiarire quel vocabolario che il singolo ha ereditato da un tempo e da una cultura, e che deve in fondo, secondo questa logica, essere soltanto chiarito, rischiarato, attraverso un confronto serio con la realtà delle cose come sono lì fuori. Non faremmo fatica a vedere in questa forma di realismo ingenuo, in questo atteggiamento che, seguendo Rorty, abbiamo chiamato metafisico, non soltanto il più diffuso luogo comune del consultante, ma anche una altrettanto diffusa convinzione operativa della consulenza filosofica. Convinzione pienamente legittima, e nella quale io stesso mi riconosco, ma non esclusiva, nel senso

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lInguaggIo: dIalogo, argomentazIone, InterpretazIone

che essa arroga a sé una verità che può anche essere pensata altrimenti, e che l’esperienza ci spinge a pensare altrimenti. Così come proverò a fare seguendo Rorty. Spostiamoci allora sul campo dell’altro atteggiamento possibile di fronte a questo vocabolario personale. Ecco che incontriamo, invece, chi considera il proprio vocabolario come soggetto al dubbio, dubbio che non può essere sciolto attraverso una qualsiasi argomentazione che si serva di quello stesso vocabolario. Costui non pensa che il proprio vocabolario sia più vicino alla verità di quello degli altri, così come non pensa che si possa trovare una sintesi comune dei vocabolari, tale da fissare un campo di conoscenze definite. Non crede che la parola possa essere ridotta ad una qualche essenza. Egli dunque vive nella «situazione di chi non è mai del tutto capace di prendersi sul serio perché è sempre consapevole che le parole con cui si autodescrive sono destinate a cambiare, di chi è sempre cosciente della contingenza e fragilità del suo vocabolario, e quindi di se stesso»10. Possiamo dunque chiamare costui l’ironico, e altresì possiamo vedervi una prima immagine del filosofo consulente che ha accolto l’idea di mettersi in gioco nell’evento del colloquio. L’ironia, dunque, deve essere intesa come la capacità che tutti possediamo di descrivere e ridescrivere – tornerò su questo termine essenziale –, di farci vedere le cose in un certo modo e al contempo è ciò che ci spinge a chiederci se, a fronte di una difficoltà sopravvenuta, non ci sia un modo migliore di raccontare il mondo, un modo che ci risulti più funzionale, più efficace, più adatto alle nostre esigenze. Per l’ironico nulla possiede una essenza rinvenibile dal confronto con la realtà. Ed è quindi costretto a ricorrere ad espressioni come visione del mondo, schema concettuale, prospettiva, per descrivere il campo di valori e di conoscenza su di sé nel quale è inserito. Egli sa che la sua visione del mondo, il suo schema concettuale, cioè il suo vocabolario, gli consentono di presentarsi al mondo, di darsi una realtà privata e pubblica, e allo stesso tempo una autodescrizione, in tutte le situazioni in cui questo sia richiesto. Ma sa anche che ciò non rappresenta una verità assoluta, né lo specchio di una realtà immutabile. Non si tratta dunque, per lui, di confrontare il suo linguaggio con qualcos’altro, con ciò che sta lì fuori, e di ricavare così, in base alla più o meno marcata corrispondenza, un criterio di verità. Attenzione però a non equivocare, come accade negli ambienti anti-relativisti, che riducono spesso queste formulazioni a slogan molto superficiali, alquanto irreali e quindi facili da confutare. Che non vi sia una realtà lì fuori 10

Ivi, p. 90.

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in base a cui stabilire la verità assoluta dei miei discorsi, non significa affatto che non ci sia una realtà lì fuori alla quale rapportarsi continuamente. Il nostro discorso, e ancor più il discorso che si produce nel dialogo filosofico, non ha senso senza il riferimento alla realtà vissuta concretamente dall’ospite, il quale piuttosto ha l’onere faticoso di mettere costantemente alla prova quanto realizzato nel dialogo, perché solo dal confronto con l’esperienza vissuta, le proprie affermazioni e il proprio vocabolario possono acquistare un senso di autenticità. Al contempo, se guidata da un atteggiamento “ironico” così come inteso qui, il nostro ospite – o noi stessi come filosofi consulenti – non si sentirà per questo autorizzato a pensare che il proprio vocabolario sia definitivamente fondato su una verità oggettiva. Se cadesse in questa trappola, ben presto si ritroverebbe a fare i conti con il proprio disagio, di fronte ai mutamenti della realtà, dei fatti, delle situazioni, per le quali il suo vocabolario apparirà irrimediabilmente invecchiato e inefficace: se ora che ho passato la mezza età continuassi a rapportarmi al mondo con gli stessi termini che mi erano consueti a vent’anni, non avrei la possibilità di interpretare adeguatamente il mondo in cui vivo, la mia realtà di oggi, che non è più quella di trent’anni fa. Ma si pensi alla situazione, frequente, in cui un consultante si trova a vivere con difficoltà un passaggio generazionale, per esempio quello dalla fase lavorativa alla fase del pensionamento. Simile passaggio richiede una profonda revisione del proprio assetto esistenziale a partire, appunto, da una profonda revisione del proprio vocabolario. Quanto era “vero” nella fase precedente appare improvvisamente inadeguato, non perché prima fosse falso, ma solo perché ogni vocabolario esige di essere revisionato al mutare della situazione circostante. In questo senso, possiamo leggere meglio una definizione dell’ironista e del metafisico: L’ironista è, grosso modo, un nominalista e storicista che cerca di non dimenticare che il vocabolario della deliberazione morale da lui utilizzato è un prodotto della storia e del caso, del suo essere nato in un certo tempo e luogo; il metafisico crede invece nella esistenza di un solo vocabolario della deliberazione morale che si possa dire giusto e corrispondente alla realtà, e in particolare alla nostra umanità essenziale11.

L’ironico, dunque, sa di dover essere pronto alla revisione del proprio vocabolario, senza per questo ritenerlo falso. Non bisogna, cioè, cadere nell’errore dello scetticismo, che portato all’estremo rende impossibile l’azio-

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R. Rorty, Verità e progresso. Scritti filosofici, Milano: Feltrinelli, 2003, p. 373.

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ne, o la affida ai valori più bassi e inconfessati dell’individuo. L’ironico non è un relativista scettico, è piuttosto individuo capace di mobilità intellettuale e sociale, capace di una riflessività applicata alla propria esistenza e a quelle altrui: «la tolleranza è la principale virtù sociale dell’ironista e la flessibilità la sua più importante virtù privata»12. Il metafisico, invece, ritiene che il problema della sua esistenza si possa affrontare mettendo in discussione i termini più deboli del suo vocabolario, cioè quelli più indefiniti: “vero”, “buono”, giusto”, “persona”, e quindi cerca un’argomentazione logica che possa fare ordine tra le contraddizioni delle sue proposizioni. Proviamo a confrontarci con una precisa situazione dialogica. Immaginiamo un ospite che affermi: Voglio cambiare lavoro, perché questo non mi soddisfa, ma non voglio fare cambiamenti che mettano in crisi gli equilibri della mia vita. Entrambe le affermazioni/convinzioni (voglio cambiare lavoro/non voglio fare cambiamenti) sono plausibili per quanto evidenzino una contraddizione di fatto. Il metafisico prova allora a ragionare su di esse, definendo il termine “lavoro”, facendo luce su cosa significhi “essere soddisfatti”, chiedendosi cosa significa “cambiare”, e su cosa si basino gli “equilibri”, e cosa significhi “metterli in crisi” e cosa sia una “crisi”, ecc. Così facendo potrà interrogare con lucidità la contraddizione insita nella visione del mondo del consultante, e forse finirà per far emergere la sua visione del mondo, o almeno la porterà ad esplicitazione e quindi ricaverà la sensazione di avere fatto ordine nel vocabolario dell’ospite. Il metafisico, in questo modo, attraverso una serie progressiva di scoperte intorno alle questioni-chiave dell’esistenza, ha la convinzione di essersi avvicinato alla vera essenza della realtà. È del tutto possibile che un colloquio filosofico così costruito (“metafisicamente” costruito potremmo dire) realizzi il suo intento preliminare, cioè fare chiarezza intorno al problema proposto. Diciamo pure che spesso una fase del colloquio è proprio questa relativa al chiarimento e alla fissazione dei significati. C’è un momento del colloquio, dunque, nel quale ci dobbiamo comportare come “metafisici” nel senso di Rorty, perché abbiamo bisogno di fissare con ragionevole stabilità il significato essenziale dei termini che usiamo e dei concetti che mettiamo in discussione. Ma anche perché è ciò che, di fatto, sembra chiederci almeno inizialmente, il nostro ospite alla ricerca di una chiarezza che gli sfugge. 12

Ivi, p. 81.

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Tuttavia se pensiamo che la cosa si esaurisca qui, siamo fuori strada. La questione è che nella consulenza filosofica non si tratta semplicemente di fare chiarezza e di risolvere problemi, quanto piuttosto di creare stabili propensioni ad affrontarli. E allora un atteggiamento “metafisico” nel senso descritto, pur sicuramente utile e persino necessario, non è però mai sufficiente. La persona che abbia ragionevolmente affrontato un percorso di consulenza così “metafisicamente” impostato, e che abbia “fatto chiarezza” intorno al suo problema, potrebbe non essere affatto in grado di affrontare il proprio disagio, e molto probabilmente all’ostacolo successivo si troverà nella necessità di rifare lo stesso percorso e di scoprire nuove verità, e di avvicinarsi ancora di più alla presunta essenza di sé e delle cose. In un movimento di continua interrogazione, di esame, di cura di sé, che rappresenta una delle possibili modalità della vita filosofica. Ma non la sola. Torniamo ad osservare l’atteggiamento di quello che abbiamo invece chiamato l’ironico. L’ironico sa che il proprio vocabolario non rappresenta tanto lo specchio un po’ opaco della natura, cioè il mezzo per avvicinarsi progressivamente ad una ipotetica essenza delle cose, quanto piuttosto una possibilità che si può rivelare, ad un certo punto, inefficace rispetto alla sua vita. Così, nel momento in cui qualcosa in lui produce incertezza, sofferenza, necessità di rivedere il proprio essere, non cerca le ragioni interne nel proprio vocabolario, ma prova a rinnovarlo. «Quando cerca un vocabolario decisivo migliore di quello che sta usando al momento impiega, per descrivere il proprio comportamento, le metafore della creazione e non quelle della scoperta, della diversificazione e della novità e non della convergenza verso qualcosa di preesistente»13. In questo senso, mentre il metafisico crede nelle argomentazioni e nelle logiche conseguenze del discorso, l’ironico crede piuttosto nella ridescrizione, cioè nella creazione di un vocabolario nuovo nel quale le vecchie domande non trovano risposta semplicemente perché vi risultano improponibili. Così, se riprendiamo il caso precedente, la questione del cambiare o meno lavoro può trovare una collocazione del tutto diversa, che si riassume in una affermazione di questo tipo: Vivere ogni giorno nel luogo in cui gli altri mi accettano e mi ascoltano, ed io posso parlare, è fonte di ricchezza per me.

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Ivi, p. 94.

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A questo punto, dunque, non si tratta più di fissare e chiarire significati di un vocabolario vecchio, cioè di quel vocabolario nel quale la domanda iniziale è sorta, e con essa la contraddizione che ha prodotto il disagio. O meglio: la domanda “Devo cambiare lavoro?”, irrisolvibile nei termini precedenti (perché associata al presupposto “Non voglio fare cambiamenti”), non ha più senso. Perché il vocabolario nuovo impone una nuova domanda. E il vocabolario nuovo si rivelerà migliore di quello vecchio se in esso la domanda non sarà più viziata dalla contraddizione (oppure sarà coinvolta in un sistema di contraddizioni più tollerabile). Nel nuovo vocabolario, dunque, prima ancora della risposta, è diversa la domanda. E da essa ne discenderà una analitica del tutto diversa, che metterà in gioco termini nuovi, accettazione, ascolto, possibilità di espressione, ricchezza/povertà dell’esistenza ecc. È chiaro che attribuire in modo rigido l’atteggiamento metafisico al consultante e quello ironico al consulente sarebbe una forzatura inaccettabile. E d’altra parte qui, in generale, non si accoglie la contrapposizione rigida che propone invece Rorty. Entrambi gli atteggiamenti, infatti, si incarnano in ognuno di noi. Ed è altresì vero che abbiamo bisogno di entrambi, in momenti diversi, nelle diverse fasi del colloquio filosofico, ma ciò non significa che i due atteggiamenti siano equivalenti, perché il modo d’essere che abbiamo definito metafisico risulta comunque decisamente meno stabile di quello che abbiamo definito ironico, anche se potrebbe sembrare il contrario. In realtà accade che la pretesa essenzialistica del metafisico finisce per essere continuamente messa in crisi dal succedersi degli eventi e della realtà, che ci mostrano quanto le supposte essenze trovate una volta non siano mai veramente tali. E d’altra parte, invece, l’atteggiamento apparentemente più relativistico e, quindi, più instabile, dell’ironico, dovrebbe risultare capace di determinare quell’attitudine alla continua ridefinizione del nostro vocabolario che ci mette in condizione di affrontare le difficoltà. Il metafisico deve ricominciare ogni volta da capo, l’ironico acquisisce un’attitudine14. Certo, è anche vero che l’atteggiamento ironico dovrebbe essere quello del consulente, innanzitutto per sé, perché soltanto un atteggiamento di questo tipo rende possibile un confronto sereno con gli altri vocabolari e scongiura l’idea di cercare fra essi una composizione, una ragione comune sottostante (o trascendente, a seconda dei punti di vista). Il filosofo consu-

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Sottolineo solo di sfuggita che l’acquisizione di un’attitudine è il gesto che porta alla determinazione della virtù. Dovrebbe già apparire, dunque, come il movimento “ironico” del colloquio filosofico abbia per sfondo una formazione morale. Ho cominciato a sviluppare questo tema nel saggio “La chiave della saggezza e della virtù nel colloquio filosofico”, in «Phronesis», a. VII, n. 12, aprile 2009, pp. 12-27.

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lente per fare bene il suo lavoro deve sapere, invece, che ognuno coltiva il proprio vocabolario, ma che questo si arricchisce proprio dal confronto e dallo scambio; deve sapere che il destino dell’uomo è quello di passare attraverso una continua ridescrizione di se stesso, cioè attraverso una serie di mutazioni del suo vocabolario, che deve ricreare ad ogni svolta della sua vita. E in questa operazione è fondamentale il confronto con un altro vocabolario: ecco perché il colloquio filosofico è così importante, perché esso ci mette di fronte un altro vocabolario e così può indurci a quella opera di creazione del vocabolario nuovo di cui noi stessi abbiamo bisogno. Ed ecco, infine, perché è così importante che il filosofo consulente si sappia muovere come un metafisico, ma abbia adottato una prospettiva ironica, perché è solo alla luce di essa che il confronto può prodursi efficacemente, cioè senza tentazioni universalistiche, trascendentali, essenzialistiche, cioè in definitiva senza illusioni.

3. Una possibile obiezione: ironia e sincerità L’ipotesi dell’atteggiamento ironico come uno dei fondamenti del colloquio filosofico, che qui sto sostenendo, si espone a una giusta critica alla quale è necessario rispondere immediatamente. Perché appare abbastanza chiaro il rischio che un simile modo di rapportarsi al dialogo potrebbe comportare, che è poi la stessa trappola in cui cade un certo pensiero post-moderno. L’atteggiamento ironico, infatti, se viene portato all’estremo e non viene contenuto, scivola inesorabilmente in una condizione di profonda e definiva mancanza di sincerità. Non sarebbe più possibile cioè fermare il movimento continuo dei vocabolari, e di conseguenza soprattutto non sarebbe più possibile rinvenire quel margine di coerenza tra convinzioni personali, credenze e desideri, e azioni che noi prendiamo in esame ogni volta che cerchiamo di rispondere alla domanda rispetto alla sincerità di colui che ci sta di fonte (e quindi specularmente anche rispetto alla nostra). Un atteggiamento ironico fuori controllo e senza limiti renderebbe di fatto impossibile per il singolo l’assunzione di responsabilità rispetto alla propria azione. Perché, se considero che il vocabolario sia esclusivamente mio, e quindi infinitamente ridescrivibile, e non mi rendo conto che esso è invece “nostro”, cioè che appartiene ad un tempo e a uno spazio, ad una comunità di valori e di significati, ad una rete di relazioni, mi sottraggo tanto alla possibilità di condividere me stesso quanto alla possibilità di agire in modo razionale e indipendente in quella condizione. È vero che io posso continuamente ricreare la descrizione di me, quindi intervenire sul mio vocabolario (è quello che facciamo sempre nella

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realtà della nostra esistenza), ma è anche vero che il nostro vocabolario è, nello stesso tempo, anche il nostro agire: esso non è soltanto un tessuto di suoni e di significati ma è anche l’insieme dei nostri gesti delle nostre scelte, del nostro muoverci, del nostro toccare, del nostro esserci quotidiano nei rapporti, nei conflitti, nell’economia del dare e del ricevere che costituisce l’esistenza. In questo senso, dunque, ha ragione Alasdair MacIntyre nel rilevare che il vocabolario assunto in modo ironico per comprendere e giustificare i miei gesti all’interno di una situazione «non è mai semplicemente mio. È sempre nostro»15. Esso, cioè, consiste sempre «di una serie di espressioni condivise esposte a usi condivisi, usi che sono incarnati in una vasta gamma di pratiche comuni di dare e ricevere, in una forma comune di vita»16. Se non fosse così, il distacco ironico finirebbe per determinare una presa di distanza «dal nostro linguaggio comune e dai nostri giudizi condivisi e con questo dalle relazioni sociali che presuppongono l’uso di quel linguaggio nel formulare quei giudizi»17. Ma non è possibile realmente separare la cautela ironica rispetto al vocabolario che adottiamo (cioè al sistema di valori e significati che ci orienta nella vita) e che esprime il nostro impegno nel mondo, da quell’impegno, cioè dal concreto nostro agire nel mondo, rispetto al quale abbiamo una responsabilità che non può essere annullata da un continuo arretramento, in una continua presa di distanza dal nostro gesto: a questo punto quel che ci può salvare da questo pericolo, è proprio la nozione che io propongo di verità locale18, cioè una formula che ci consenta di tenere assieme l’ironia in quanto atteggiamento filosofico di continua interrogazione rispetto ad un mondo privo di essenze definitive, e la necessaria adozione di valori, criteri e significati in base ai quali assumere le nostre responsabilità nel mondo: la verità locale è tale per cui so che essa non ha fondamento metafisico e quindi è incollata saldamente al suo tempo, al suo spazio, alla comunità in cui si realizza e alla storia da cui fuoriesce, ma è abbastanza ferma da consentirmi di assumere in base a essa le scelte responsabili che la mia condizione di uomo mi impone e delle quali sono tenuto a rispondere. Questa considerazione ci consente, insieme, di correggere l’impianto ironico di Rorty senza però accettare la conclusione negativa che ne propone McIntyre, secondo il quale in definitiva «non ogni tempo è un tempo per l’ironia» e dunque «ci sono anche tempi nei quali la critica deve essere 15

A. McIntyre, Animali razionali dipendenti, Milano: Vita e Pensiero, 2001, p. 150. Ibid. 17 Ibid. 18 Rimando per un approfondimento di questo tema ad altre mie opere, in particolare Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita quotidiana, Milano: Mimesis, 2010, e L’esperienza della filosofia, Milano: Apogeo, 2007. 16

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messa da parte»19. A mio avviso, alla luce della considerazione suesposta, l’atteggiamento ironico è fondamentale per scongiurare il rischio della fissità impropria e inadeguata delle nostre comprensioni del mondo, ma non deve essere tale da rendere impossibile l’assunzione di valori sufficientemente stabili da poter essere presi per punti di riferimento nella vita, nelle scelte, nelle assunzioni di responsabilità.

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4. L’io: rete di credenze Sulla scorta del pragmatismo di Peirce, Rorty considera l’individuo come un insieme inestricabile di credenze e di desideri, ove, si noti, i desideri a loro volta potrebbero essere intesi come particolari forme di credenza. L’io individuale consiste proprio in questa rete che è immediatamente azione, superando qualsiasi rigida distinzione o separazione tra mente e corpo. «La rete delle credenze – dice Rorty – va considerata come un meccanismo che non solo si ritesse da sé, ma produce anche movimenti nei muscoli dell’organismo, movimenti che spingono quest’ultimo all’azione. Le azioni dell’organismo, spostando oggetti nell’ambiente circostante, producono nuove credenze da intessere, che a loro volta producono nuove azioni, e così via per l’intero arco dell’esistenza dell’organismo»20. Dunque ognuno di noi rinnova, mano a mano, le proprie credenze, a confronto con le esperienze che la vita propone, o per effetto di inferenze o di metafore, cioè percorsi immaginativi. Quando il rinnovamento diviene consistente si può, secondo Rorty, parlare di un nuovo contesto. «Questo nuovo contesto può essere una nuova teoria esplicativa, una nuova classe di confronto, un nuovo vocabolario descrittivo, un nuovo fine privato o politico, l’ultimo libro che abbiamo letto, l’ultima persona con cui abbiamo parlato; le possibilità sono infinite»21. Si tratta pertanto di assecondare questa naturale capacità dell’individuo di rideterminare il proprio contesto, cioè il quadro entro cui sistema le proprie credenze e quindi il proprio agire. Questa risistemazione è ciò che stiamo chiamando con Rorty “ridescrizione”, e che io ritengo sintetizzi il principale meccanismo di trasformazione indotto dal dialogo filosofico. È chiaro, però, che tutto questo comporta una profonda e impegnativa revisione della nozione di “coscienza”, in base alla quale possiamo affermare 19 20 21

McIntyre, Animali razionali dipendenti, cit., p. 152. Rorty, Scritti filosofici, vol. I, cit., p. 128. Ivi, p. 129.

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che «non c’è niente di male nel continuare a parlare di un’entità distinta chiamata “l’io”, costituita dagli stati mentali dell’uomo: le sue credenze, desideri, stati d’animo, ecc. La cosa importante è pensare che la collezione di quelle cose è l’io, non qualcosa posseduta dall’io»22. È opportuno, dunque, secondo Rorty, liberarsi della tradizionale idea dell’occhio interiore che scandaglia e ispeziona gli stati interni dell’io. Al suo posto è possibile pensare in modo più efficace e più coerente l’immagine della rete di credenze e desideri che continuamente si ritesse a contatto con la vita vissuta, con nuove esperienze, con nuove credenze e nuovi desideri. È certamente molto complesso ripartire da questa nozione rinnovata di coscienza, senza più un “vero io” proprietario di credenze e desideri, senza più un “centro dell’io” da identificare, raggiungere e addomesticare. Da questo punto di vista dire che l’io non è qualcosa che possiede credenze e desideri, ma è piuttosto la rete di tali credenze e desideri, comporta anche dire che «possedere una credenza o un desiderio significa possedere un filo di un vasto ordito»23, ciò che qualunque filosofo consulente ha sperimentato nel corso di ogni dialogo filosofico, venendo a contatto con la labirintica disposizione di argomenti e di racconti attraverso i quali ogni consultante prova a collocare se stesso nel dialogo. In questa rete caotica il filosofo prova non solo a portare un po’ d’ordine e di chiarezza, ma anche a determinare una qualche mutazione che consenta al consultante di affrontare al meglio il proprio disagio. Si tratta dunque di realizzare una forma di persuasione – ma dal punto di vista del consultante, non da quella del filosofo! – e tale persuasione determina la ridescrizione, cioè la revisione radicale, della rete di credenze che costituisce il nostro io. Così, «una volta che si rinunci ai tentativi metafisici di trovare un “vero Sé” per l’uomo, possiamo continuare a parlare nella veste dei Sé storici contingenti che scopriamo di essere»24.

5. Percezione, inferenza, immaginazione Ho già accennato al fatto che la prospettiva della consulenza filosofica è quella che punta alla ridescrizione dell’ospite, cioè ad un suo cambiamento inteso come una nuova tessitura della rete delle credenze e dei desideri che lo individualizza. 22 23 24

Ivi, p. 163. Ivi, p. 164. Ivi, p. 288.

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Ma come ciò può accadere? In che modo una nuova credenza si aggiunge e si colloca accanto o in sostituzione di quelle precedenti? È una domanda essenziale per il filosofo consulente che lavora proprio in vista di questo. In che cosa consiste, in definitiva, l’invenzione di nuovi vocabolari? Consiste nella «introduzione di nuovi modi di parlare, giudicati in quel momento più efficaci o comunque preferibili a quelli in vigore»25. Nuovi modi di parlare che consentono di fare cose nuove o di fare diversamente le cose che si facevano prima. Chiariamo subito: non bisogna credere che la soluzione dei problemi del consultante sia circoscritta alla sfera linguistica, non è una soluzione puramente linguistica. Certo essa si realizza nella dimensione del dialogo, ma la trasformazione che avviene nei vocabolari si getta nella realtà della vita, nei gesti, nelle azioni, nelle decisioni, nelle scelte della persona. Secondo Rorty vi sarebbero tre modi per aggiungere una credenza nuova: la percezione, cioè il rapporto diretto con l’esperienza del mondo, l’inferenza e la metafora. Sia la percezione del mondo che l’inferenza impongono una revisione almeno parziale della rete delle credenze fra le quali deve trovare posto quella nuova, derivata dall’esperienza o realizzata per inferenza da quelle precedenti. Entrambe, tuttavia, lasciano inalterato il nostro linguaggio. In questo senso percezione e inferenza sono sufficienti se pensiamo che il lavoro della filosofia sia essenzialmente quello della chiarificazione e ciò equivale, secondo Rorty, ad «assumere che il linguaggio che noi parliamo attualmente sia, come è sempre stato, tutto il linguaggio che esiste, tutto il linguaggio di cui potremo avere bisogno»26. Ma c’è una terza possibilità di allargare il campo delle credenze: la metafora. L’uso della metafora comporta invece l’idea del linguaggio come «lo spazio logico e il dominio del possibile senza limiti predeterminati»27. In questo senso la metafora si realizza come «un appello alla trasformazione del proprio linguaggio e della propria vita»28. Questo ruolo essenziale attribuito da Rorty alla metafora lo porta ad una iper-valutazione del ruolo della poesia in Heidegger e ad una rivalutazione esplicita del Romanticismo, inteso come quell’esperienza culturale e artistica che attribuisce un ruolo fondamentale all’immaginazione. Vale la

25

D. Manconi, “Dopo la svolta linguistica”, in R. Rorty, La svolta linguistica, Milano, Garzanti, 1994, p. 11. 26 R. Rorty, Scritti filosofici, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 19. 27 Ivi, p. 19. 28 Ibid.

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pena di soffermarsi un momento su questo passaggio che mi pare essenziale per la consulenza filosofica, ma anche foriero di significative incomprensioni. Che nel dialogo filosofico ci si serva di tutte e tre le possibilità per rivedere e arricchire il sistema delle credenze dell’individuo – la sua visione del mondo come spesso si usa dire29 – è cosa certa, almeno per la mia esperienza. Vi è dunque lo spazio non solo per un serrato confronto con la realtà e per un accurato lavoro inferenziale, ma anche per una dimensione metaforica, come la chiama Rorty, ove però è il caso di precisare che non si tratta semplicemente – e banalmente – di “fare poesia”, di usare il linguaggio attraverso formulazioni estetizzanti secondo un modello new age, quanto piuttosto di rendersi conto che la produzione di concetti filosofici non è, come talvolta si crede, soltanto un fatto logico, ma altrettanto una produzione immaginativa. La questione è delicata e merita un approfondimento per il quale mi servirò di una articolata riflessione contenuta nell’ultimo volume dei Philosophical Papers di Rorty. In Pragmatism and Romanticism30 Rorty sostiene che la differenza tra le cose intese in senso ordinario e la Realtà della metafisica è che quando, nella vita quotidiana, impariamo a usare una parola, impariamo anche una serie di verità intorno ad essa. Invece la Realtà metafisica pretende di dire l’ultima parola sulla realtà. E se l’Ontologia resta viva, è solo perché siamo riluttanti ad accettare l’argomento centrale dei Romantici: che l’immaginazione fissa i confini del pensiero. In realtà, afferma Rorty, «l’immaginazione è la fonte del linguaggio e il pensiero è impossibile senza il linguaggio»31. Certo, se accettiamo questa idea, dobbiamo accettare anche una diversa concezione di Ragione, non più intesa come una caccia alla verità, ma piuttosto come una pratica sociale: essere razionale, allora, è solo conformarsi a una serie di norme sociali per l’uso delle parole. Bisogna dunque intendere l’immaginazione, come prima la metafora, non tanto come creazione di immagini fantastiche, ma prima di tutto come capacità di cambiare pratiche sociali proponendo e realizzando nuovi usi delle parole. È proprio così che il lin29

Ci sarebbe parecchio da chiarire in merito all’uso, assai diffuso tra i filosofi consulenti, della nozione di visione del mondo, introdotta da Ran Lahav, il quale però la intende essenzialmente come «uno schema astratto che interpreta la struttura e le implicazioni filosofiche della concezione che un individuo ha di se stesso e della realtà» (R. Lahav, Comprendere la vita, Milano: Apogeo, 2004, p. 14), cioè secondo una prospettiva kantiana, ovvero essenzialista che qui, sulla scorta di Rorty si sta mettendo in discussione. A mio parere invece il solo modo di intendere efficacemente questa espressione è appunto come sinonimo della rete di credenze. 30 R. Rorty, “Pragmatism and Romanticism”, in Philosophy as cultural politics, cit., pp. 105119. 31 Ivi, pp. 106-107.

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guaggio si arricchisce e non resta sempre uguale a se stesso. È così che si superano continuamente le soluzioni passate, e si incrementa la conoscenza. Anche se tale incremento non può essere inteso come un progressivo avvicinamento al reale, ma come uno sviluppo delle capacità di realizzare nuove pratiche sociali utili alla vita umana. Non si tratta dunque di porsi in una relazione tra umano e non umano (il Reale, la Verità, Dio), ma di cogliere piuttosto la relazione tra l’umano del passato e l’umano del presente, per cui il valore dell’immagine del cosmo offerta da Copernico va rivalutata non tanto in funzione della sua capacità di descrivere il cosmo come veramente è, ma piuttosto in funzione della sua superiore capacità di dare risposte utili alla comprensione, all’interpretazione e alla vita in generale, rispetto alla precedente visione tolemaica. In generale, dunque, la lettura di Rorty – che immagina se stesso a capo di una linea su cui pone Nietzsche, Wittgenstein, Sellars, Davidson e Brandom – aiuta a rendere plausibile l’affermazione del Romanticismo che la natura è un Poema che gli uomini stessi hanno scritto, che la ragione può solo seguire i percorsi aperti dall’immaginazione e può solo ri-arrangiare elementi che la ragione stessa ha creato. L’immaginazione, così, dà origine al gioco giocato dalla ragione: perché senza immaginazione non c’è linguaggio e senza confronto linguistico non c’è progresso morale e civile. In questo senso, secondo Rorty, «l’immaginazione ha la priorità sulla ragione»32. Questa affermazione, tuttavia, non va enfatizzata oltre misura: essa, mi pare, significa principalmente che il Romanticismo – e sulla sua scorta Nietzsche, Wittgenstein, ecc.- minano l’assunzione, propria a Platone quanto a Kant, che vi sia sempre “il miglior argomento”, cioè quello dotato di validità universale. I Romantici invece sono convinti che qualsiasi argomentazione si debba concludere con i puntini di sospensione e non con il punto fermo. Ecco allora ribadita la tesi centrale di Rorty: che il pragmatismo, cioè la filosofia come lui la intende, deve essere visto come un’alternativa tra il razionalismo della “validità universale” e il ricorso a dimensioni altre dalla ragione, la poesia, la religione, la pura fantasia… Qui si inserisce il confronto con Habermas, il quale critica Rorty proprio quando questi nega che la validità universale sia un obiettivo della ricerca e lo accusa di sostituire «l’aspirazione all’oggettività con l’aspirazione alla solidarietà all’interno della comunità linguistica»33, ma per restare in questa logica in cui la verità delle affermazioni è legata al contesto, egli si trovereb32 33

Ivi, p. 115. J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, Roma-Bari: Laterza, 1988, p. 172.

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be costretto a «evitare qualsiasi idealizzazione e, ancor meglio, rinunciare anche al concetto di razionalità; infatti razionalità è un concetto limite avente un contenuto normativo che oltrepassa i confini di ogni comunità locale in direzione di una comunità universale»34. Secondo Rorty, invece, la nozione di ragione comunicativa che appartiene allo stesso Habermas, e nella quale egli si riconosce, cioè una ragione come pratica sociale che fa emergere la verità dal dialogo, rende superfluo l’utilizzo della nozione di validità universale35. Il rifiuto della metafisica per Rorty, come ho già detto, contiene il rifiuto della validità universale, mentre Habermas resterebbe alla ricerca – vana – di una nozione non metafisica di validità universale. In questo senso Rorty non rinuncia affatto alla nozione di ragione, certo la rivede profondamente. «Dal punto di vista pragmatista – egli afferma – la razionalità non è l’esercizio di una facoltà chiamata “ragione”, una facoltà che intrattiene una qualche determinata relazione con la realtà. Né si identifica con l’uso di un metodo. Essa è semplicemente un modo di essere aperti e curiosi e di affidarsi alla persuasione invece che alla forza»36. È questa, forse, la nozione più originale e impegnativa che Rorty ci propone revisionando la nozione di razionalità in base alla sua tesi di riferimento, ovvero la critica antiessenzialista e la conseguente ripresa della prospettiva che egli chiama pragmatista con la riconsiderazione del ruolo del linguaggio vissuto dialogicamente. L’insieme di queste componenti lo porta ad una nozione di razionalità di natura sociale: «Siamo semplicemente animali che possono parlare, che possono quindi apprezzarsi o accusarsi l’un l’altro, discutere su ciò che si dovrebbe fare e istituire delle pratiche sociali per controllare che sia fatto. Quello che ci eleva al di sopra degli altri animali è semplicemente la nostra capacità di partecipare a queste pratiche»37. Da questo punto di vista, dunque, essere razionali non significa affatto essere in grado di risalire a una verità stabile, definitiva, universale; piuttosto, consiste semplicemente nell’essere socievoli. Con ciò, Rorty si ritrova perfettamente in una distinzione che appartiene proprio ad Habermas, tra una ragione centrata sul soggetto, impegnata nella ricerca di specularità con il reale, e una ragione comunicativa e dialogica. Il passaggio dall’una all’altra rappresenta la svolta fondamentale del 34 35 36 37

Ibid. Cfr. R. Rorty, Philosophy as cultural politics, cit., p. 78. R. Rorty, Scritti filosofici, vol. I, cit., pp. 80-81. R. Rorty, “A sinistra con Heidegger”, in «Micromega», n. 5/2011, p. 37.

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nostro tempo. «A me – sostiene Rorty – questo sembra un cambiamento paragonabile, per importanza, al passaggio da una prospettiva cristiana e aristotelica a una atea e galileiana. È un cambiamento che non ci fa più chiedere: “Quali dei miei concetti, delle mie distinzioni, delle mie pratiche sono correlati al reale?” ma, casomai, “In che misura li condivido o posso condividerli con altre persone?”; ci fa passare dall’amore per una verità concepita come relazione corretta con la realtà al bisogno di una giustificazione concepita come relazione con altri esseri umani»38.

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6. Cambiamento del paradigma Non dimentichiamo mai che la nostra prospettiva d’indagine è strettamente legata al rapporto tra la filosofia pragmatista di Rorty e la pratica filosofica. E dunque ritorniamo alla domanda iniziale, cioè come sia possibile agire dialogicamente nella prospettiva di una ridescrizione dell’ospite, ovvero di un cambiamento inteso come una nuova tessitura della rete delle credenze e dei desideri che lo individualizza. Riassumendo ciò che abbiamo detto, tale cambiamento può avvenire realizzando un nuovo insieme di atteggiamenti rispetto a condizioni già presenti. È il caso di quel procedimento logico che si chiama inferenza, ma è anche il caso in cui, fissate delle verità locali, si riesamina la propria biografia e la propria condizione di vita attuale alla luce dei nuovi punti di riferimento (se improvvisamente scopro che il mio punto di riferimento è un’idea di libertà come libertà di scelta, allora riesamino i miei problemi familiari alla luce di questo punto fermo e scopro ad esempio che certi miei comportamenti improvvisamente riacquistano senso, ecc.). Oppure il cambiamento può avvenire realizzando atteggiamenti nei confronti di nuovi valori di verità (rispetto ai quali prima non avevo atteggiamenti di alcun tipo). È il caso di quel procedimento che chiamiamo dell’immaginazione. Ove per immaginazione dobbiamo intendere, ad esempio, i nuovi usi metaforici di vecchie parole, oppure l’invenzione di neologismi, o ancora il collegamento tra testi, concetti ed emozioni mai posti prima in correlazione. Il processo della ridescrizione determina la trasformazione che appartiene al colloquio filosofico come suo elemento. Ma per comprenderne meglio la dinamica, è forse possibile operare una ardito parallelo con la nozione di paradigma, elaborata da Thomas Kuhn39, perché è facilissimo constatarne 38 39

R. Rorty, Verità e progresso, cit., p. 267. Cfr. T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino: Einaudi, 1999.

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la straordinaria somiglianza con ciò che accade all’interno della consulenza filosofica. Dunque, seguendo Kuhn, possiamo pensare i paradigmi come quelle conquiste conoscitive pienamente riconosciute, ovvero pienamente accolte, dal singolo il quale attraverso il suo paradigma – la sua rete di credenze, la sua visione del mondo – si dota dello strumento necessario per vedere il mondo, interpretarlo, agire in esso. Il paradigma mi dice come rapportarmi al mondo e mi fornisce il modello entro cui collocare tanto i miei problemi, quanto le possibili soluzioni di essi. Tuttavia nel corso dell’esistenza può capitare che si percepiscano delle anomalie nel paradigma, a fronte di fatti rilevanti che accadono, oppure per conseguenza del confronto tra i fatti e la teoria contenuta nel paradigma. E le anomalie possono mettere in crisi il paradigma, che può mostrare improvvisamente la sua insufficienza. Si percepisce cioè che qualcosa non funziona. Dalla crisi del paradigma nasce l’esigenza di nuove teorie. Il primo momento si escogitano magari articolazioni e modificazioni parziali alla teoria per far rientrare in essa le anomalie, ma se la crisi non rientra, può portare alla necessità di una radicale rielaborazione del paradigma stesso. Così si avvia un momento di transizione che richiede la ricostruzione del campo su nuove basi (la ridescrizione di cui si è detto). Qui si innesta la necessità della filosofia, tanto per lo scienziato quanto per il singolo rispetto alla sua esistenza, perché l’analisi filosofica può fornire gli strumenti razionali per affrontare gli enigmi del campo. La crisi allenta gli stereotipi e fornisce così dati supplementari per la ricostruzione del paradigma, che vanno però gestiti adeguatamente, attraverso una pratica riflessiva. La crisi, inoltre, porta a mettere in discussione i fondamenti e ciò implica la ridefinizione del campo dei valori e delle scelte, ossia la materia di cui il discorso filosofico è competente. Quando un vecchio paradigma è sostituito con uno nuovo si ha, secondo Kuhn, la rivoluzione scientifica. Nel nostro caso possiamo parlare di ridescrizione. Ma ciò non toglie che la ridescrizione possa avere il valore di una vera e propria “rivoluzione”, quando si rende necessaria una scelta tra forme incompatibili, e le forme incompatibili possono imporsi solo con un atto di forza, perché ogni paradigma è difendibile solo in base a se stesso. Quando muta il paradigma, muta il mondo stesso. Perché, guidati da un nuovo paradigma, si guarda in nuove direzioni, si adottano nuovi strumenti e anche gli oggetti familiari sono visti sotto una luce nuova. Sebbene il mondo non cambi per un mutamento di paradigma, l’individuo si ritrova però a vivere in un mondo differente. Non si tratta solo di interpretazioni diverse di una natura immutabile e neutra: un nuovo paradigma, infatti,

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rende possibili nuove esperienze (per restare agli esempi di Kuhn, Aristotele vede solo corpi che cadono, Galileo, vede il pendolo, ecc.).

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7. Creare / Scoprire Abbiamo visto come all’interno del colloquio si realizzi un movimento di trasformazione che ha varie connotazioni. Sto qui cercando di approfondirne una: il movimento della ridescrizione che comporta il cambiamento della visione del mondo e la mutazione dei paradigmi che costituiscono una esistenza. Secondo Rorty questo ci pone di fronte ad una questione chiave, che egli sintetizza in questo modo: «siamo creature storiche, che si riaffermano continuamente ridescrivendosi»40. In questo senso non abbiamo altra scelta che quella di ridescriverci continuamente, perché continuamente sottoposti alla contingenza della realtà, degli incontri, delle pressioni, dei contatti, delle esigenze, dei desideri; certe nostre soluzioni si rivelano inesorabilmente provvisorie, altre sembrano più durature, ma non abbiamo certezza che valgano all’infinito. Nella nostra pur breve esistenza, l’imprevedibile varietà dei fatti che ci circondano e degli eventi nei quali siamo coinvolti, ci costringe ad una approssimazione continua, ad una manutenzione quotidiana dei nostri vocabolari, cioè delle nostre credenze, dei nostri desideri, dei nostri progetti, della nostra visione del mondo. In questo stato di cose, se vogliamo trovare davvero una coerente immagine di noi stessi, la troviamo solo se «ci contentiamo di concepire ogni vita umana come quel ritessere sempre incompleto, eppure talvolta eroico, di una trama»41. Da questo punto di vista per Rorty anche il diventa ciò che sei di Nietzsche è da intendersi, appunto, come una forma di auto-descrizione: «Nel senso in cui la intendeva Nietzsche l’espressione “chi si è veramente” non significa “chi in realtà si è sempre stato”, ma “ciò che si è fatto di se stessi mentre si creava il gusto in base al quale si è arrivati, poi, a giudicarsi”»42. E ugualmente su questa base Rorty riprende il tema del progetto come appare ad esempio in Heidegger e in Sartre. In linea generale, egli ritiene che il rifiuto dell’essenzialismo apra uno spazio di possibilità nel quale l’uomo non solo deve entrare, ma soprattutto deve trovare la forza per esserci, per costruirsi 40

R. Rorty, “A sinistra con Heidegger”, cit., p. 31. R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia, solidarietà, Roma-Bari: Laterza, 2001, p. 54. 42 R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, cit., p. 120. 41

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costantemente, per dare vita a se stesso, passo dopo passo, giorno dopo giorno, scelta dopo scelta, «ci sarà sempre spazio per l’autocreazione, perché nessun precedente atto di auto-creazione può essere ratificato da una qualche autorità non umana»43. Per comprendere ancora più a fondo questo passaggio, soprattutto in funzione del dialogo filosofico, può essere utile riflettere sulle metafore della creazione e della scoperta, per approfondirne alcuni aspetti che mi paiono essenziali allo scopo. E per farlo mi servirò di un altro autore, George Steiner, il quale si è occupato con ricchezza di elaborazione e infinita vastità di conoscenze proprio di questo tema nell’opera Grammatiche della creazione, dove per grammatica egli intende «l’organizzazione articolata della percezione, della riflessione e dell’esperienza, i percorsi nervosi della consapevolezza quando comunica con sé stessa e con gli altri»44, offrendone così una definizione che non si allontana molto da quella di vocabolario che abbiamo mediato da Rorty. Certo, c’è uno scarto tra una dimensione più immediatamente individuale, quella del vocabolario, ed una prospettiva più spostata sul versante della comunità culturale e linguistica, ma non è molto importante per noi che operiamo in entrambi i casi un viraggio forzato verso la specifica dimensione del colloquio filosofico e quindi della singolarità condivisa nel dialogo. In secondo luogo va chiarito che Steiner ragiona intorno ad una contrapposizione tra creazione e invenzione, laddove invece Rorty contrappone creazione e scoperta. Ma anche su questo, almeno al fine del nostro ragionamento, è possibile trovare un compromesso onorevole. Il termine “invenzione” (come l’inglese invention) infatti, viene dal latino invenire, che contiene in sé il senso del “trovare”. La connessione semantica fra invenzione e scoperta è, in questo senso, ben chiara e lo stesso Steiner la mette in evidenza45. D’altra parte lo sfondo di entrambi i termini, ciò che li distingue dalla dimensione creativa, sta nel fatto che essi implicitamente suppongono una preesistenza, una realtà che li precede e che li rende possibili: inventare e scoprire sono appunto gesti possibili perché c’è già un mondo alle spalle, che si tratta nel primo caso di rielaborare, nel secondo di portare alla luce. Ancora una volta va detto che, al di là delle formulazioni teoriche, è l’uso che ci guida nel distinguere i termini in questione: nessuno direbbe che Dio ha “inventato” o “scoperto” l’universo, né che Picasso abbia “inventato” Guernica. Creare infatti non è inventare, non è scoprire. Così egualmente è 43 44 45

R. Rorty, Verità e libertà, cit., p. 74. G. Steiner, Grammatiche della creazione, Milano: Garzanti, 2003, p. 11. Ivi, p. 103.

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per noi immediato l’atto mentale con il quale associamo l’inventare alla dimensione della “forma” (si inventano nuovi modelli poetici o nuove soluzioni coloristiche o armoniche, o nuove forme retoriche…) e il creare a quella del “contenuto”. Per quanto poi sappiamo bene che forma e contenuto non sono affatto separabili, poiché l’uno dà vita all’altro e ogni creazione umana avviene in realtà a partire da ciò che esiste, da una tradizione, da un linguaggio, da una grammatica, da un vocabolario personale. In questo senso invenzione e creazione sono concetti che tendono a sovrapporsi parzialmente e a confondersi, conservando tuttavia un margine di differenza nel quale dobbiamo entrare. È proprio percorrendo questo margine che Steiner può offrirci una definizione essenziale della creazione come «una libertà attuata che include ed esprime nella sua incarnazione la presenza di ciò che in essa è assente o di ciò che sarebbe potuto essere radicalmente altro»46. In base a questa prospettiva, dunque, l’atto creativo è innanzitutto un atto di libertà, e in secondo luogo esso conserva marchiata su di sé la sua condizione di radicale contingenza, cioè il fatto che avrebbe potuto essere diverso o addirittura non essere affatto. Già qui appare chiara la possibilità di un trasferimento dell’argomentazione nella situazione del colloquio filosofico, il quale ugualmente si fonda sulla possibilità di un agire libero (cioè non costretto, non determinato rigidamente dalla situazione ambientale, o giuridica, o logica, o psichica della persona) e da una condizione di contingenza radicale. Tuttavia se ci atteniamo al campo del linguaggio, che é il mezzo nel quale il colloquio avviene, comprendiamo facilmente come la libertà del gesto creativo trovi il suo limite nel fatto che ogni creazione (ogni ridescrizione, ogni messa in cantiere di un vocabolario nuovo) non può che realizzarsi sulla preesistente potenzialità del linguaggio, cioè della densità storica dei significati, che rende possibile una infinita combinatoria, ma che non ci fa mai uscire dal linguaggio medesimo. Ma se le cose stanno così, come è possibile pensare in modo nuovo? Cioè creare una ridescrizione che renda possibile affrontare diversamente un evento, una fase della mia vita? Considerata la posta in gioco nel colloquio, l’esistenza stessa, la sofferenza, il disagio, si comprende come la domanda contenga in sé una sfumatura drammatica. Ma se in fondo noi operiamo sempre con lo stesso materiale, ci esprimiamo sempre con parole vecchie, entro un campo semantico che ci appartiene e al quale apparteniamo, come possiamo avere la certezza di trovarci di fronte ad un pensiero nuovo? La necessità di scegliere e utilizzare le metafore della creazione piuttosto che quelle della scoperta o dell’invenzione che abbiamo messo in campo 46

Ivi, p. 124.

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seguendo Rorty e Steiner, appare dunque piuttosto come una pretesa difficilmente realizzabile, o meglio, una pretesa necessaria, anche se intimamente sappiamo che ogni ridescrizione è soltanto una ulteriore combinatoria del mio vocabolario essenziale. D’altra parte qui si tratta di usare le metafore della creazione non propriamente di creare: perché sappiamo che una creazione in senso stretto, cioè assoluta, ex nihilo, non è umana, ma è quella che appartiene soltanto al Dio o, forse, al folle. A noi resta la facoltà di imitare quel gesto, usando metafore che lo evochino, anche se sappiamo che la dinamica della creazione nel mondo umano è ben diversa, molto più implicata alla dimensione inventiva e a quella della scoperta. Possiamo, anzi, dobbiamo, ironicamente porci nelle vesti del creatore quando elaboriamo il nostro nuovo vocabolario per affrontare le difficoltà dell’esistenza. Questa condizione assomiglia terribilmente a quella che si realizza nel mondo della letteratura, ove noi abbiamo soltanto una serie infinita di variazioni rispetto ad alcuni temi essenziali – la ricerca, il ritorno a casa, l’assedio, la discesa agli inferi…–. Essa dunque, a dispetto delle proprie esplicite pretese di creatività e originalità, è piuttosto il dominio dell’invenzione (e della scoperta nel senso indicato precedentemente). Ma questo riferimento esemplare alla letteratura ci è ancora utile. Perché è difficile non essere d’accordo con Steiner quando rileva la profonda e insieme sottile congruenza tra l’invenzione letteraria e la natura del personaggio, dell’homo fictus che essa produce. Di costui, Ulisse o Don Giovanni, Chisciotte o Madame Bovary, ben sappiamo che non ha la stessa consistenza di coloro che ci siedono a fianco in treno. Eppure la loro “realtà” può invadere la nostra coscienza con «un impatto visivo e una memorabilità del tutto sproporzionati rispetto a ciò che definiamo “reale o tangibile”»47. È un fatto che il personaggio della letteratura possiede un’energia descrittiva, una capacità di presentazione, una identità definita ben più ampia e realizzata di quelle della maggior parte di noi. Tanto da spingere all’immedesimazione o anche all’imitazione: in età romantica si imitava il Werther di Goethe, oggi più facilmente il personaggio attore o cantante o sportivo (che non è meno “personaggio”, si badi, perché nasce e cresce nel dominio para-letterario dei mass media). Certo, nel momento in cui l’artista, il poeta, lo scrittore, danno vita al loro personaggio, stanno mimando l’atto divino della creazione. Ma noi sappiamo che si tratta, appunto, solo di una imitazione. Ma torniamo nel colloquio filosofico, perché è qui che dobbiamo riportare l’esito del nostro percorso. Posto che in esso noi assistiamo a un confronto continuo e necessario tra due diversi atteggiamenti, quello metafisico 47

Ivi, p. 152.

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e quello ironico, e posto, ancora, che vorremmo far prevalere in definitiva, l’atteggiamento ironico, abbiamo poi messo in luce come la ridescrizione del proprio vocabolario debba essere intesa più come una creazione che non come un semplice recupero o ricollocazione di elementi già esistenti. Abbiamo fatto osservare come questa pretesa, che noi sappiamo in fondo essere insostenibile, debba tuttavia essere tenuta ben ferma. Ed infine abbiamo notato come un simile gesto creativo di ridescrizione del proprio vocabolario si confonda con il gesto attraverso il quale la letteratura elabora il personaggio. E qui nuovamente ci dobbiamo fermare. Che cosa intendo dire? Che nel colloquio filosofico si tratta di configurare un nuovo personaggio? L’obiettivo più alto del colloquio filosofico è forse, al di là di ogni illusione di saggezza, o della realizzazione di un supposto saper vivere, o della ricerca della serenità e dell’equilibrio, soltanto la creazione di un nuovo personaggio? La questione va approfondita a partire da questa domanda. Ma lo farò in un’altra occasione.

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Domanda filosofica e domanda retorica. L’argomentazione nella nuova retorica e la creazione di nuovi pensieri

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di Vesna Bijelic

Tra la verità assoluta e la non-verità c’è posto per le verità da sottoporsi a continua revisione mercé la tecnica dell’addurre ragioni pro e contro1.

Il metodo retorico – proposto come argomentazione filosofica ed esposto da Chaim Perelman e Lucie Obrechts-Tyteca2 – può sicuramente essere un valido strumento dialogico ed euristico del consulente filosofico, una volta elaborato e adattato alle esigenze della dialettica della consulenza filosofica. La nuova retorica, come recupero della retorica aristotelica3, trova spazio in quel dialogo filosofico basato sul ragionamento di carattere etico e non strettamente conoscitivo; ragionamento che va attuato nei momenti in cui bisogna trovare le regole dell’azione che giustificano i due concetti chiave dell’agire umano: la libertà e la responsabilità.

1. Le premesse dell’argomentazione retorica. La filosofia di Perelman Chaim Perelman sviluppa l’idea di un’argomentazione in forma retorica sulle basi della sua ricerca nel campo pratico-riflessivo e valutativo av1

Norberto Bobbio, Prefazione italiana a Chaïm Perelman, Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Torino: Einaudi, 2001, p. XIX. 2 ChaïmPerelman, Lucie Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Torino: Einaudi, 2001 3 Potremmo chiamarla anche retorica dialettica o dialettica retorica, perché presenta una fusione degli elementi della dialettica (teoria del ragionamento che elabora il campo degli éndoxa, le prove dialettiche) e della retorica (intesa come arte di persuadere, convincere) aristoteliche, le quali – anche se si completano a vicenda, come dice lo stesso Aristotele – rimangono comunque due attività diverse. La scelta degli autori del Trattato dell’argomentazione di richiamarsi proprio alla retorica è finalizzata a evidenziare l’importanza e la permanente presenza di un uditorio.

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viata, non a caso, dopo la seconda guerra mondiale. Sono precisamente due i motivi principali, a mio avviso, che hanno indotto Perelman a cercare, per la filosofia nella sua veste normativa, un nuovo metodo logico: il primo è stata la minaccia che la filosofia pratica valutativa venisse del tutto esclusa dall’ambito razionale – finendo col diventare una disciplina totalmente abbandonata al campo dell’irrazionale – a causa del concetto di logica ormai ridotto al pensiero dimostrativo ed empirico-sperimentale. Il secondo motivo risiede nel proposito di prevenire il rischio che l’uomo possa di nuovo aderire a volontà e azioni che dischiudono le porte alla violenza. Per costruire una società democratica, basata sul concetto della pólis come lógos, e per salvare la filosofia stessa dal nichilismo, bisognava limitare la tracotanza e la presunzione dell’uomo scienziato e rassicurare le persone che negli ambiti della filosofia, del diritto e della politica una logica comunque c’è, e non è meno dignitosa e rispettabile di quella scientifica. Questa logica è la logica del probabile, con l’argomentazione retorica come metodo d’indagine. I passaggi riflessivi principali del cammino perelmaniano verso l’argomentazione retorica sono sicuramente il concetto di una ragion pratica «che non si pretende apodittica, ma semplicemente ragionevole» – la quale, perciò, deve «aprirsi alla discussione e al dialogo» all’interno di un «regime democratico della libera espressione delle opinioni e della discussione di tutte le tesi presenti»4 – e il concetto del libero esame che viene trasformato secondo il principio dell’autonomia della coscienza, dopo che è stato respinto qualsiasi tipo di autorità religiosa o politica. Perelman, dunque, rifiuta ogni monismo ontologico o assiologico e opta per una filosofia del pluralismo, concepita come un «ideale di universalità proprio della filosofia occidentale» proposto dai filosofi e da sottomettere «alla prova dell’esperienza, cioè al dialogo»5.

2. L’uditorio universale e la filosoficità del discorso: un compito del consulente filosofico È attraverso la giustificazione – offrendo delle buone ragioni all’interlocutore – che si risponde alle richieste di una esplicazione ragionevole di 4 Chaïm Perelman, Considerazioni sulla ragion pratica, in Id., Teoria e pratica dell’argomentazione. Antologia degli scritti, a cura di G. Furnari Luvarà, Messina: Rubettino 2005, p. 265. 5 Chaïm Perelman, La filosofia del pluralismo, in Teoria e pratica dell’argomentazione, cit., pp. 276-277.

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domanda

fIlosofIca e domanda retorIca

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quello che si sostiene (si desidera, si attende, si teme, ecc.). Nella consulenza filosofica chiedere delle buone ragioni significa porre il consultante davanti alle proprie responsabilità, poiché ogni posizione argomentativa gli sarà “rimandata” dal consulente filosofico nella forma delle possibili connessioni e conseguenze (concettuali e pratiche) del suo pensiero espresso nel dialogo. Se offrire le buone ragioni significa anche volerle fare accettare all’interlocutore, allora possiamo dire che attraverso il ragionamento si cerca di ottenere un consenso riguardo la verità dell’esposto. Il dialogo costruito sull’argomentazione che si fonda sul «contatto delle menti»6 – ovvero sull’adattamento del discorso all’interlocutore – è la tesi principale di tutta la nuova retorica. A seconda che l’uditorio sia particolare o universale – o si tratterà della persona che delibera con se stessa assumendo il ruolo dell’uditorio o particolare o universale – potremo parlare del persuadere o del convincere: la differenza fra convincere e persuadere è una differenza di uditorio e non una differenza, come voleva Kant, fra l’emotività e la razionalità del discorso. Quando si tratta di un uditorio particolare, il discorso sarà indirizzato alla persuasione, cioè prevalentemente all’adesione come risultato positivo; invece, quando si parla a un uditorio universale, il discorso si occuperà di reperire l’adesione razionale, ovvero non sarà sufficiente che le ragioni siano ritenute buone da un uditore, ma si cercheranno le ragioni ritenute buone da tutti, da ogni essere ragionevole. Dare voce a questo uditorio universale è compito del consulente filosofico, intenzionato ad aiutare il consultante a sviluppare quel dialogo con se stesso – o, meglio, con la sua parte critica e ragionevole – che si è in qualche modo inceppato. Grazie alla presenza ideale dell’uditorio universale, il consultante ha la possibilità di creare qualche pensiero più approfondito ed esauriente, cioè sorretto dalle buone ragioni, che lo fa sentire pronto a continuare a riflettere e agire da solo, essendo più consapevole e avendo più strumenti per la gestione della propria vita. Detto nel linguaggio perelmaniano, al consultante si chiederà di cercare di suscitare o accrescere l’adesione dell’uditorio universale alle sue tesi. Siccome in ognuno di noi c’è una ragione che abbiamo in comune con altri, il consulente qualche volta dovrà soltanto dare suono alla voce della ragione con la quale il consultante dialoga tra sé e sé; far emergere conoscenze e giudizi inconsapevoli, non chiari. 6

C. Perelman, L. Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, cit. p. 6.

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Vediamo un passaggio del dialogo nel quale il consulente filosofico personifica questo “uditorio universale” che chiede giustificazioni7.

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1.

C: Vivo malissimo questa situazione, non la sopporto più. Sono l’unico che arriva sempre in orario in ufficio e lavoro tutto il tempo senza pausa, anche quando il capo non c’è. Loro stanno lì, lavorano se c’è proprio da fare qualcosa di importante… 2. F: Quando non c’è il capo non bisogna lavorare? Hanno ragione i suoi colleghi ad approfittare dell’assenza del capo? 3. C: Ma no, certo che no. 4. F: Perché si lavora? 5. C: Alle volte per realizzarsi, perché un lavoro piace. A me piace il mio lavoro e mi ci realizzo in qualche modo, credo. 6. F: Io direi che si lavora anche perché bisogna sopravvivere, non crede? 7. C: Sì, penso anch’io. Ma sopravvivo io e sopravvivono loro, che lavorano meno. E io sto male. 8. F: Sta male perché lavora quando il capo non c’è o perché loro non lavorano o perché, mentre lei lavora, loro non lavorano? 9. C: Devo riflettere… Forse perché io lavoro e loro no. 10. F: Ma allora lei vorrebbe lavorare perché si realizza e perché le piace il suo lavoro, però a condizione che lavorino anche i suoi colleghi? 11. C: Sì, anche se non la ritengo proprio giusta, questa condizione. Forse dovrei lavorare, a prescindere dai miei colleghi… Ma nella vita non si possono seguire gli ideali. In questo caso il consulente filosofico, partendo da un vissuto concreto del consultante, chiede che la sua tesi (1) venga argomentata passando da una visione valoriale e più generale (2, 4 e 6), per tornare al caso particolare del cliente e richiedendo di specificare, chiarire la sua posizione (8 e 10). In questo chiedere e dare ragioni è proprio il consultante che deve convincere un uditorio critico e ragionevole di star davvero male e di aver qualche ragione (quelle buone non sono ancora state trovate) per il suo malessere. Il consultante è partito con una semplice narrazione, il consulente gli mostra apertamente di non accettare così facilmente la tesi che si sta male perché gli altri non lavorano; vuole farsi persuadere, direbbe Perelman, riguardo alla tesi del consultante. In questo modo invita lo stesso consultante a chiarirsi le idee, a lavorare su se stesso: «Spesso d’altronde una discussione con altri non è che un mezzo per chiarire meglio a noi stessi le nostre idee. L’accordo con se stessi è un caso particolare dell’accordo con altri; inoltre (…) proprio l’analisi 7

Con la lettera C indico il consultante e con la lettera F il consulente filosofico.

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dell’argomentazione rivolta ad altri ci farà comprendere nel modo migliore la deliberazione interiore e non viceversa»8. Quello che è ancora più importante è che questo procedimento di lavoro (o procedere del lavoro) aiuti i consultanti a cercare e creare idee nuove, nuove conoscenze (11). Vediamo che, adattando il concetto dell’uditorio universale alle esigenze della consulenza filosofica – mi riferisco, prima di tutto, alle esigenze dialettiche ed euristiche contenute nell’utilizzo della domanda9 – il consulente filosofico non fa altro che invitare il consultante a misurarsi argomentativamente e ragionevolmente con il proprio sistema di valori, davanti all’uditorio universale inteso come «norma dell’argomentazione oggettiva»10. Però non si tratta di una norma assoluta. Tornando all’esempio di prima sappiamo che alcune persone potrebbero dire che il nostro consultante dovrebbe lavorare tranquillo ed essere felice perché, in questo modo, può dimostrare a se stesso che è coerente ai propri ideali, essendo corretto e in equilibrio con se stesso; altre direbbero che, in ogni caso, il lavoro di cui si parla non è altro che uno sfruttamento da parte di chi possiede l’azienda, e che questo consultante farebbe meglio a imparare dai suoi colleghi, ecc. Dunque, anche se al consulente è stata assegnata la consapevole gestione della ragionevolezza, non si pensa affatto che il contenuto della norma che viene cristallizzandosi nel dialogo possa essere imposto dal consulente stesso. Lui non è e non deve ritenersi un depositario universale di conoscenza, e ancor meno di coscienza. A questo punto conviene chiarire uno degli elementi essenziali dell’adattamento del metodo della nuova retorica alla consulenza filosofica. Penso che, insieme alla condivisione di questo metodo, bisogna ancorare l’operato del consulente filosofico11 a una filosofia del pluralismo etico-politico: una filosofia che sostiene che i valori, come lo possono essere la libertà, il bene, la giustizia, ma anche la stessa realtà, non hanno definizioni precise e sono nozioni confuse, appartenenti all’ambito normativo-sociale e non teoricoconoscitivo; una filosofia che «nel pensiero filosofico (…) vede (…) attuarsi

8

C. Perelman e L. Olbrects-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, cit., p. 44. Lo stesso Perelman sostiene che «la tecnica socratica delle domande e delle risposte si presenterà (…) come adatta all’argomentazione davanti a un solo individuo o a un gruppo ristretto, mentre quella dei lunghi discorsi si impone di fronte a un uditorio numeroso» (Chaïm Perelman, L’argomentazione, l’oratore e il suo uditorio, in Teoria e pratica dell’argomentazione, cit. p. 212.) 10 C. Perelman e L. Olbrects-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, cit., p. 33. 11 Forse anche la sua visione filosofica personale? 9

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una sorta di sintesi tra il senso emotivo-usuale delle parole e il loro significato analitico-concettuale»12.

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3. Le tecniche argomentative La nuova retorica ci offre numerose tecniche argomentative facilmente individuabili nei dialoghi filosofici. Queste tecniche servono ad argomentare al meglio le tesi alle quali si vuole che aderisca l’uditore, cioè che le accetti come valide, probabili. Quando si tratta del discorso filosofico, l’uditore è quello universale e la sua presenza nella consulenza filosofica, come si è detto, è garantita dall’operato del consulente filosofico. Le tecniche argomentative sono e possono essere usate, nella consulenza filosofica, principalmente in due modi: come mezzi della giustificazione dei pensieri e atti del consultante oppure come strumenti del consulente finalizzati alla problematizzazione, comprensione e ri-ordinamento delle idee che si presentano e si creano durante il dialogo, specialmente se agite in forma di domanda. Infatti, in alcune delle mie consulenze ho provato a introdurle attraverso la domanda e ne porto degli esempi. Ci soffermeremo soltanto su alcune di queste tecniche, ma basterà per mostrare il modo in cui questi strumenti retorici entrino in gioco nel dialogo. Nel Trattato gli argomenti vengono divisi nella seguente maniera: ci sono due categorie generali, gli argomenti associativi e gli argomenti dissociativi. Nel gruppo degli argomenti associativi si distinguono quelli quasi-logici (ricorrono a relazioni di contraddizione, identità parziale e totale, transitività, ecc.), quelli basati sulla struttura del reale (dipendono dai legami di successione e di coesistenza) e gli argomenti sui quali si fonda la struttura del reale (esempio, illustrazione, modello, analogia, metafora). Gli argomenti dissociativi, invece, mostrano che l’associazione tra due nozioni è solo apparente, ammessa, presunta, desiderata13. In seguito vengono riportati alcuni passi dei dialoghi di consulenza filosofica nei quali analizzerò gli argomenti impiegati e l’operato del consulente14. Faccio notare che tanti argomenti possono essere letti da vari 12 Giusi Furnari Luvarà, La logica del preferibile. Ch. Perelman e la “nuova retorica”, Messina: Rubbettino 1995, p. 79. 13 Infatti, spesso i consulenti si servono degli argomenti dissociativi per criticare, ampliare e/o rivedere le ragioni del consultante. 14 In relazione ai fini proposti in questo testo, non esemplifico gli usi degli argomenti quasi-logici – incompatibilità, identità, analisi, tautologia, reciprocità, paragone, ecc. – visto che sono i più conosciuti e sempre utilizzati dai consulenti filosofici.

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punti di vista. Dunque, è possibile che l’analisi sia molteplice e complessa. Ho preferito, però, rinunciare alla complessità della stessa ai fini puramente illustrativi dell’argomentazione retorica all’interno del procedimento dialogico.

a) Argomentazione basata sulla struttura della realtà Partiamo con un esempio:

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1. 2. 3.

4. 5. 6. 7.

C: Non ho tempo neanche per mio marito e mi dispiace per questo. Vedo che è triste. Poi, la casa, i figli, mia madre… F: Dunque, sta sacrificando la sua vita privata? C: Eh sì… So, però, che non voglio rinunciare a questo progetto e devo essere sempre presente in ufficio. Siamo a un buon punto, abbiamo già vinto cinque gare d’appalto, ma questa sarà la più grossa. Ci aprirà la strada ad altre possibilità lavorative migliori. Spero Carlo capisca… F: Che cosa deve capire? C: La gara che vinceremo gli farà capire perché ho lavorato così tanto. F: Capirà anche quando vincerete un’altra gara, dopo di questa? E un’altra ancora? C: Non lo so. Forse dovrei organizzarmi diversamente.

In questo dialogo è presente l’argomento “nesso causale fra un mezzo e un fine” (3) (appartenente al gruppo dei legami di successione): il mezzo per vincere la gara è la totale dedizione al lavoro, con la spiacevole conseguenza del disagio nella coppia. Lei giustifica il suo comportamento con il fine perseguito, ma allarga la sua giustificazione con un altro argomento: il cosiddetto “superamento”. Gli argomenti di superamento sono quelli che mostrano la possibilità di andare sempre nella stessa direzione, senza che possiamo vedere un limite, facendo aumentare di valore quello che viene giustificato. Infatti, lei dice che ci saranno altri lavori, dopo di questo, più importanti, proprio grazie alla gara che deve vincere. La consultante viene, però, richiamata (6) a prendere in considerazione una possibile contestazione ragionevole delle ragioni che esprime: le tappe di questo processo avranno effetti negativi (sviluppi da temere). Accanto agli argomenti basati sui legami di successione, al gruppo delle argomentazioni basate sulla struttura della realtà appartengono anche gli argomenti basati sui legami di coesistenza – il rapporto atto-persona, l’argomento della doppia gerarchia, ecc. – tra i quali troviamo una breve, ma interessante, analisi del legame simbolico, cioè il suo aspetto argomentativo.

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Tra il simbolo e la cosa simboleggiata, scrivono Perelman e Tyteca, esiste un rapporto di partecipazione, che distingue questo legame dagli altri legami di successione e di coesistenza ed è irrazionale, quasi magico. Il loro rapporto non è una semplice analogia, visto che il simbolo e il simboleggiato vivono in una realtà mitica, nella quale è difficile, se non impossibile, differenziarli l’uno dall’altro. La miticità (la partecipazione reciproca del simbolo al simboleggiato), la forza emotiva che il legame simbolico esercita sulle persone e la stessa precarietà di questo legame (non è né convenzionale, né fondato sulla struttura del reale conosciuta universalmente, visto che il significato di un simbolo può essere conosciuto solo dagli iniziati) rendono lo stesso non predisposto alla giustificazione. In altre parole, la ragione non accetta l’uso del legame simbolico come una prova argomentativa, ma «non così avviene per l’esistenza dei simboli e per l’importanza che si accorda loro. Il valore simbolico in abstracto può, dunque, diversamente dai simboli particolari, essere oggetto di un’argomentazione razionale mirante all’universale»15.

b) Argomenti miranti a fondare la struttura della realtà Anche in questo caso, iniziamo a parlare di questo gruppo di argomenti con un esempio: 1.

C: Senz’altro potrei partire con Marco. Penso che mi piacerebbe vivere a Miami, ma non posso. Io vivo qui, ho un lavoro, una famiglia. Sono i giovani che cambiano paesi e lavori, non io. 2. F: Ma non è neanche vecchia?! 3. C: No, non volevo dire questo. È che mi sono sempre sentita importante, seria, determinata. I prototipi sono importanti. 4. F: Un prototipo? Che tipo di prototipo? 5. C: L’ho detto, sono la serietà in persona, sono un prototipo, un modello da imitare. 6. F: Modello per chi? 7. C: Mah… per mia sorella, per esempio. 8. F: Sua sorella minore? 9. C: Sì, mia sorella minore. Io, da grande, devo trasmetterle qualche cosa, devo anche esserci. Lei ha addirittura 15 anni meno di me. E i nostri genitori non ci sono più. Lei si è appena sposata, avrà bisogno anche del mio aiuto. 10. F: Così, lei si preoccupa della sorella. 11. C: Sì, è mia sorella, è normale che me ne preoccupi. Le voglio bene. 12. F: E le fa da modello. Come mai? 15

C. Perelman e L. Olbrects-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, cit., p. 355.

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13. C: Sento questo dovere, sento che sia giusto così. 14. F: Lo sente, ma è giusto che lei lo senta? Cosa ne pensa, perché le sembra giusto fare da modello a sua sorella? 15. C: Perché sono più grande. 16. F: I più grandi sono sempre modelli per i più giovani? 17. C: Non lo so. I genitori lo sono sicuramente. 18. F: Se non mi sbaglio, lei dice che se i genitori sono modelli per i propri figli, lo sono anche i figli più grandi per quelli più piccoli? 19. C: Potrebbe essere… Siccome mia madre lo era per me e mia sorella… Ora lei non c’è più e io sono abbastanza grande da non aver più bisogno del modello, ma mia sorella… 20. F: Parlando dei modelli… Secondo lei, si può dire che il rapporto tra sua madre e sua sorella è simile al rapporto tra lei e la sorella? 21. C: Penso di sì. Madre, figlio. Fratello maggiore, fratello minore… 22. F: In che cosa sono diversi questi rapporti? 23. C: Io non sono sua madre e la mia responsabilità nei suoi confronti è molto meno pesante. Nel senso che io non sono un modello così importante quanto lo dovrebbe essere quello di una madre. Io lo so, visto che ho un figlio. In questo passaggio del dialogo si lavora euristicamente sulla metafora. Partendo da una metafora, la parola “prototipo” (3, 4) e il suo sinonimo “modello” (5), possiamo riuscire ad esplicitare la stessa analogia alla quale la “nostra” metafora attinge (19-21). Questo “rimaneggiamento” maieutico della metafora ha portato a consapevolezza lo sfondo e il contesto della metafora, permettendo al consulente di mettere in discussione certe credenze (22), doveri e atteggiamenti vissuti in modo del tutto acritico. Infatti, si chiede alla consultante (22) di riflettere sull’analogia dalla quale proviene la metafora; si cercano le differenze dei campi ai quali appartengono i termini dell’analogia (rapporto genitore-figlio; rapporto sorella maggiore-sorella minore). Questo modo di ragionare spesso genera nuove conoscenze di sé e dell’altro che vengono considerate e indagate sotto un nuovo aspetto (23). La metafora, nella nuova retorica, è definita come un’analogia condensata, risultante dalla fusione di un elemento del foro con un elemento del tema. Di essa si parla da due punti di vista possibili: come atto creativo e come prova. Il filosofo, di solito, la crea e la analizza come una prova, più o meno riuscita; il consulente filosofico la utilizzerà anche euristicamente, come una pista d’indagine produttiva di conoscenze e pensieri nuovi, ma non solo. Nella consulenza si possono creare le metafore ad hoc, per poter passare all’analogia dalla quale la metafora proviene e usarla come

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giustificazione da prendere in considerazione da un punto di vista critico ed euristico. È ovvio che ogni discorso argomentativo utilizza queste tecniche: non si è costruita l’argomentazione sulla conoscenza delle tecniche, ma è la conoscenza che è partita dall’esperienza della ragione enunciata e pronunciata. Conoscere i processi del ragionamento argomentativo, inclusi quelli retorici, permette non solo di poterli riconoscere quando avvengono nel dialogo, ma anche di poterli usare consapevolmente.

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c) Dissociazione delle nozioni Senza entrare nella scrupolosa analisi perelmaniana dei procedimenti dissociativi delle nozioni filosofiche e delle loro conseguenti coppie filosofiche – per esempio, apparenza/realtà, mezzo/fine, soggettivo/oggettivo, individuale/universale, linguaggio/pensiero, ecc. – proverò a mostrare come questo mezzo argomentativo possa far parte della consulenza filosofica. La dissociazione delle idee si rivelerà spesso causa di confusione riguardo al significato della nozione di cui si discute, ma sarà proprio questa confusione a far scattare, non solo una riflessione più approfondita, ma anche un lavoro più consapevole su certi elementi-base delle nostre visioni del mondo. Ogni dissociazione appartenente al buon senso produce una coppia di concetti, nella quale il primo concetto – concetto I – è di solito caratterizzato da un valore minore, mentre l’altro concetto (concetto II), essendo esplicativo e normativo, è ritenuto quello che svaluta il primo. Spesso nel processo argomentativo varie coppie filosofiche cominciano a richiamarsi, spiegarsi e motivarsi a vicenda. Quante volte succede che i consultanti abbiano problemi con i loro partner – che sembrano diversi da com’erano all’inizio della relazione – e si chiedano come farli tornare ad essere come erano prima? Si tratta dell’applicazione a un caso concreto della coppia filosofica atto/persona, nella quale il concetto della persona (concetto II) è ritenuto stabile e coerente a se stesso, mentre gli atti (concetto I) sono interpretati soltanto come rappresentazioni approssimative della costanza propria della persona (concetto II). A causa dell’adesione alle tesi inculcategli da questa coppia filosofica, qualcuno potrebbe pensare che il partner sia “in fondo” buono, proprio come lo era durante la fase dell’innamoramento. Una consultante, per esempio, si lamenta del marito che è stato particolarmente affettuoso e premuroso durante la sua gravidanza, ma il quale subito dopo la nascita del bambino è diventato irascibile e negligente. Questa consultante crede fermamente che il marito sia quello di prima, anche se la loro relazione è cominciata poco prima della gravidanza, e sopporta, con

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tanta fatica e tristezza, le sue azioni scortesi e sgarbate. I gesti del marito, secondo lei, non sono altro che un effetto del normale nervosismo che accompagna ogni persona dopo la nascita di un figlio e, perciò, accetta e subisce gli episodi di sfogo del marito, sentendosi sempre più debole e meno capace di occuparsi del loro bimbo. Riporto un passaggio del dialogo che verte su questa coppia filosofica. Il consulente la invita a lavorare sulla coppia atto/persona, mettendo in discussione i valori assegnati ai due elementi della coppia:

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1. 2. 3. 4.

5. 6. 7.

F: Come possiamo conoscere le persone, come sono, cosa pensano? C: Frequentandole. F: Quali sono gli elementi di questa frequentazione che ci aiutano a conoscere le persone? C: So cosa mi vuole dire, che mio marito non è una persona buona, che non posso dire che è bravo soltanto perché si è comportato bene durante la mia gravidanza. Ma io sento che lui è buono. I miei non mi credono, però. Io credo, sì, che sia il comportamento a determinare com’è una persona. F: Ma se lei lo ha conosciuto una volta come buono e ora come cattivo, come può dire che sa che è buono? C: Lui sembra cattivo, in realtà è buono. Basterebbe riuscire a ritrovarlo, non voglio ancora rinunciarci. Vorrei tanto che tornasse come prima. F: Quanto incide il suo desiderio di rivedere suo marito come era prima sulla sua opinione che lui è buono?

In questo passaggio la coppia atto/persona (l’ultima frase del passaggio 4) viene giustificata tramite la coppia filosofica apparenza/realtà (6), rafforzando i valori di queste coppie mediante una figura retorica, cioè utilizzando la coppia antitetica buono/cattivo (4, 6). Il consulente, da “uditorio universale”, non si fa convincere così facilmente dalla consultante e continua a mettere in discussione le interpretazioni della consultante (passaggi 5, 7).

4. Le basi dell’argomentazione a) Importanza dell’accordo e della scelta dei dati Ogni argomentazione, leggiamo nel Trattato dell’argomentazione, si basa su un accordo tra l’uditore e il retore, cioè tra gli interlocutori. Senza questo accordo non esiste il terreno su cui muoversi discorsivamente, visto che lo stesso rende possibile l’avvio di un’argomentazione.

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I fatti (definiti come accordi riguardo ai dati che si riferiscono a una realtà obiettiva e indicano ciò su cui è d’accordo l’uditorio universale), le verità (sistemi relativi a legami tra i fatti) e le presunzioni sono accordi su oggetti relativi al reale e hanno una validità generale: non si giustificano, se non quando non vengono più usati come punti di partenza. I valori, le gerarchie e i luoghi valgono, invece, soltanto per una società determinata, o per i membri di certi gruppi (uditorio particolare). Tutti questi accordi, più o meno comuni, sono premesse dell’argomentazione che delineano lo spazio nel quale questa si sviluppa. Provando ad applicare queste nozioni alla consulenza filosofica, potremmo dire che l’accordo base non può essere che il rispetto del mondo dell’altro, dal quale partirà una ricerca dialogico-filosofica. Visto che i punti d’accordo possono essere scelti e presentati in tanti modi, il nostro consultante ci presenterà una situazione rivelandone soltanto alcuni dati, rendendoci partecipi unicamente di ciò che egli considera importante. Il lavoro del consulente si concentrerà sul portare alla luce gli aspetti della questione descritta che non sono stati posti in evidenza, mettendo in discussione l’interpretazione della situazione in questione, come si può vedere nel seguente passaggio: 1.

C: Questa malattia ci ha messo in ginocchio. Ora mia figlia sta meglio, ma il suo equilibrio è sempre molto instabile. Non è per niente attenta. Va a sciare, non usa l’aerosol. La sua noncuranza mi sta uccidendo. 2. F: Non sta abbastanza bene per poter sciare tranquillamente? 3. C: Mah… Io dico di no, poi… 4. F: Cosa hanno detto i medici? 5. C: Che non possiamo parlare di una guarigione. Non ancora. 6.. F: Dovrebbe usare l’aerosol? Spesso? 7. C: Certo, l’ha detto anche il suo medico, ma lei è prepotente. 8. F: Come si giustifica sua figlia quando Lei la rimprovera di non prendere seriamente in considerazione la sua malattia? 9. C: Che non capisco niente. 10. F: Cosa dovrebbe capire? 11. C: Che ne so io. Forse i giovani non vogliono rinunciare a certe cose. Per lei è importante far parte del gruppo. È stata fuori dal giro per troppo tempo. Se consideriamo il dialogo come una ricerca delle giustificazioni del disagio della consultante, vediamo che in partenza sono stati resi presenti solo alcuni dati (1) descriventi la difficoltà vissuta, ed espressi da una metafora. Il consulente chiede altri dati (2, 4, 6) e una possibile amplificazione della loro

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interpretazione (8, 10). Procedere in questa direzione offrirà l’occasione alla consultante di comprendere il disagio in un modo nuovo; si potrà scegliere tra varie interpretazioni valutando le giustificazioni e gli argomenti anche contrari.

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b) Presentazione dei dati e forma del discorso Il modo in cui si presentano i dati scelti incide sulla forza argomentativa, perciò ha davvero poco senso provare a comprendere il contenuto senza considerare la sua forma, poiché ha una forte influenza sull’intensità dell’accordo, potendo accentuare alcuni aspetti del contenuto, mostrare l’importanza di certe nozioni, ecc. Nella consulenza filosofica si valuterà il ruolo argomentativo della forma del discorso con una valenza euristica per eccellenza. Alcuni esempi: le costruzioni paratattiche lasciano troppa libertà di interpretazione, perciò, per rendere il discorso significativamente più efficace e argomentativamente più forte, è opportuno collegare le espressioni mediante le costruzioni ipotattiche, al fine di poter ri-ordinare i concetti e comprendere le relazioni tra le idee; chiedere al consultante di collocare l’indefinito “si” (ricordiamoci che il passaggio dalla normalità alla norma è un luogo retorico) nella prima persona singolare, o fare il contrario, può generare nuove comprensioni; visto che le massime, i proverbi e gli slogan sono quelle forme del discorso che esprimono la comunione sociale e che, una volta pronunciati, ottengono un’adesione facile di chi ascolta – che è, nel nostro caso, il consultante che si confronta con la sua parte ragionevole – esaminare il buon senso che esprimono potrebbe essere un modo di misurarsi con le norme, di vedere fino a che punto si è davvero d’accordo con esse. Anche le figure retoriche, forme espressive spesso ritenute straordinarie o solo semplici ornamenti senza valore probatorio, possono avere un ruolo argomentativo e il discorso epidittico assume un peso molto importante nella filosofia pratica normativa: «I discorsi epidittici faranno più facilmente appello a un ordine universale, a una natura o a una divinità, considerati garanti di valori incontestati e che si giudicano incontestabili. (…) Contrariamente ai generi deliberativo e giudiziario, che si propongono di ottenere una decisione di azione, il genere epidittico, allo stesso modo del discorso educativo, crea semplicemente una disposizione all’azione, ragion per cui esso può essere avvicinato al pensiero filosofico»16. 16

C. Perelman e L. Olbrects-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, cit., pp. 54-55 e p. 57.

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Le figure retoriche vengono usate nell’argomentazione perché non agiscono unicamente sulle emozioni, ma influenzano la nostra adesione alle tesi esposte, convincendoci della loro validità argomentativa. Non basta, però, che la figura retorica sia presente in un discorso per poter dire che la stessa lo investe di importanza argomentativa o di ricerca filosofica; nella consulenza filosofica le figure retoriche entrano a pieno titolo in tutti i processi di argomentazione: come strumenti per esprimere i legami di successione e coesistenza; per illustrare casi particolari, negli esempi, nelle analogie; per esplicitare la frequenza, l’uguaglianza, l’incompatibilità, ecc. Le figure retoriche sono una fonte preziosa della messa in discussione delle ragioni espresse dal consultante, delle nuove comprensioni, del lavoro critico sull’uso di certi argomenti. Proviamo a vedere come in due brevissimi esempi. Esempio I 1. 2. 3.

C: Oggi è diverso, tutti si divertono. Oggi la gente si sposa tardi e aspetta prima di avere figli. Io mi sono sposata molto presto. Erano tempi diversi… ieri. F: È sicura che ieri non si poteva fare lo stesso? Non conosce nessuno che all’epoca avesse aspettato prima di contrarre il matrimonio? C: Mah. Ora che ci penso… Alcuni si sono divertiti, sì. Mio fratello di sicuro. Ma io non volevo aspettare, volevo sposare Cristiano al più presto. Diciamo che ieri ero diversa io, ieri avevo fiducia nel futuro.

In questo caso l’anafora (1) – probabilmente con lo scopo di giustificare la sua decisione di sposarsi presto – è servita al consulente per proporre alla cliente di rivedere la questione da un altro punto di vista (2), quello dell’esperienza concreta; con la conseguente riflessione sul suo vissuto (3). Esempio II 1. 2. 3. 4.

C: Come sempre, sono io a pagare le conseguenze. Chi altro? Dovrò rinunciare a questo trasferimento. F: Chi altro? C: Chi altro? Cosa? F: Se non Lei, chi altro potrebbe, come dice Lei, pagare le conseguenze?

Una domanda retorica della consultante (1) viene trasformata in una domanda a cui cercare le risposte (2, 4) e ulteriori argomentazioni. Alla forma epidittica appartiene un’altra caratteristica fondamentale per una filosofia pratica valutativa: la capacità di suscitare la disposizione

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all’azione. Questa può – anche se non è detto che questo debba sempre succedere – dare spazio alla decisione e al successivo agire. Nell’argomentazione retorica la forma in cui il dialogo si sviluppa non è mai fine a se stessa: la finalità è sempre e comunque una valutazione per poter deliberare e scegliere come comportarsi nella vita pratica.

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5. Retorica nella consulenza filosofica: piacere di con-filosofare L’obiettivo della consulenza filosofica è con-filosofare. La ricerca filosofica nasce in una situazione problematica17, dove per problema si può intendere quella «situazione che includa la possibilità di un’alternativa»18. Si confermassero le tesi iniziali, si rimanesse senza alcuna risposta finale o si trovasse una verità, parliamo sempre di un processo o movimento, ovvero di un cambiamento. Bisogna sollevare certe questioni che permettono che questo processo abbia inizio; e bisogna anche nutrirlo affinché non si fermi. Questo è il compito del consulente filosofico: far nascere dubbi, indurre a vedere vari aspetti del quesito, stimolare l’indagine filosofica, agire attraverso la domanda, problematizzare. La problematizzazione è un elemento essenziale delle pratiche filosofiche, ma penso – seguendo il pensiero di Dewey – che la funzione della consulenza filosofica sia anche cercare di trasformare questa situazione problematica in una più chiara e coerente; sia dal punto di vista concettuale che da quello pratico. Possiamo farlo grazie alla parola che agisce contemporaneamente sull’intelletto e sulla volontà. Come ci insegna Aristotele, la parola pronunciata nel discorso è un insieme di tre elementi distinguibili soltanto ai fini dello studio: ethos, patos e logos. In altre parole, il discorso si dà solo come interazione tra colui che parla, colui a cui si parla e ciò di cui si parla e non è altro che una argomentazione concernente la verità delle cose che non sono necessariamente, ma che dipendono da noi e hanno a che fare con la deliberazione e la scelta; ed è un discorso che suscita emozioni, quel piacere tipico dell’attività specifica dell’uomo. Visto che la scoperta e la comunicazione non sono momenti separati e successivi, la conoscenza e il piacere si intrecciano nella ricerca filosofica all’interno del processo della 17

Cfr. Antonio Cosentino, Filosofia come pratica sociale. Comunità di ricerca, formazione e cura di sé, Milano: Apogeo, 2008, pp. 62-69. 18 Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia.

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lInguaggIo: dIalogo, argomentazIone, InterpretazIone

consulenza filosofica: la dialettica e la retorica possono, a pieno titolo, completarsi a vicenda.

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Riferimenti bibliografici Abbagnano Nicola, Dizionario di filosofia Aristotele, Retorica Bijelic Vesna, 2008, Parole prospettive e cambiamento. Dialogica ed euristica, Genova: Erga edizioni Bonfiglioli Stefania, Costantino Marmo, a cura di, 2005, Retorica e scienze del linguaggio. Teorie e pratiche dell’argomentazione e della persuasione, Roma: Aracne Dewey James, 1973, Come pensiamo, Firenze: La Nuova Italia Ellero Maria Pia, 1997, Introduzione alla retorica, Milano: Sansoni Ellero Maria Pia, Residori Matteo, 2001, Breve manuale di retorica, Milano: Sansoni Furnari Luvarà Giusi, a cura di, 2005, Teoria e pratica dell’argomentazione. Antologia degli scritti di Chaïm Perelman, Soveria Mannelli, Messina: Rubbettino Editore Furnari Luvarà Giusi, 1995, La logica del preferibile. Chaïm Perelman e la “nuova retorica”, Soveria Mannelli, Messina: Rubbettino Editore Gianformaggio Bastida Letizia, 1973, Gli argomenti di Perelman: dalla neutralità dello scienziato all’imparzialità del giudice, Milano: Edizioni di Comunità Mortara Garavelli Bice, 2005, Manuale di retorica, Milano: Bompiani Natali Carlo, 1993, Opinioni, verità, prassi in Aristotele, e la recente rivalutazione della retorica, in Dimostrazione, argomentazione dialettica e argomentazione retorica nel pensiero antico, a cura di Antonio M. Battegazzore, Genova: Sagep Editrice Perelman Chaïm, Olbrechts-Tyteca Lucie, 2001, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Torino: Einaudi Perelman Chaïm, 1981, Il dominio retorico. Retorica e argomentazione, Torino: Einaudi Perelman Chaïm, 1979, Il campo dell’argomentazione. Nuova retorica e scienze umane, Parma: Pratiche. Piazza Francesca, 2004, Linguaggio persuasione e verità. La retorica nel Novecento, Roma: Carocci Reboul Olivier, 1996, Introduzione alla retorica, Bologna: il Mulino Rigotti Francesca, 1995, La verità retorica. Etica conoscenza e persuasione, Milano: Feltrinelli

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«Conosci te stesso». Perché non possiamo non dirci platonici quando facciamo filosofia

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di Giorgio Giacometti

1. Platone è la filosofia In questo lavoro cercherò di mostrare il rapporto tra il modello intramontabile costituito dai Dialoghi di Platone e un possibile dialogo filosofico contemporaneo (come quello in cui consiste una consulenza filosofica)1. Lo scopo è quello di mettere in luce gli elementi strutturali irriducibili del dialogo filosofico in quanto tale. In questa ambiziosa impresa esorto il lettore a domandarsi, in una feconda circolarità ermeneutica, per dirla à la Kennedy: non solo come Platone possa aiutarci a comprendere meglio il procedimento di una moderna consulenza filosofica, ma anche come il procedimento di una moderna consulenza filosofia possa aiutarci a comprendere meglio Platone. La questione non appaia così poco pertinente o meramente “filologica”. “A quale Platone”, infatti, facciamo riferimento quando confrontiamo il “suo” approccio con quello della moderna consulenza filosofica? La domanda non è peregrina, se consideriamo che Platone è «quel grande filosofo sulla cui adeguata interpretazione c’è tra gli studiosi il minore consenso»2. Di qui la necessità di far “reagire”, in una sorta di “archeologia sperimentale del sapere”, la nostra lettura di Platone con la nostra esperienza di forme 1

Il presente saggio era corredato originariamente del puntuale confronto con la ricostruzione di una consulenza filosofica da me realmente effettuata nel 2011. Per comprensibili motivi di spazio ho dovuto espungere ogni riferimento a consulenze reali. Devo chiedere, pertanto, al lettore di credermi sulla parola, se gli assicuro che ogni singola considerazione di tipo teorico che troverà in ciò che segue (apparentemente astratta) corrisponde puntualmente a quanto verifico nell’esercizio della mia attività professionale di consulente filosofico. 2 V. Hösle, Interpretare Platone, Milano: Guerini, 2007, p. 13. In questo contributo mi riferirò spesso a questa “lettura” di Platone offerta da Hösle, che in gran misura condivido, pur tenendo criticamente conto di taluni preziosi suggerimenti provenienti da esponenti “ortodossi” della cosiddetta Scuola di Tubinga (in primis da Thomas Slezák).

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lInguaggIo: dIalogo, argomentazIone, InterpretazIone

contemporanee di dialogo filosofico (che ci potrebbero illuminare, molto più di tante ricerche erudite, su quello che potrebbe essere stato il “vero dialogo” filosofico antico). «Ma perché – si potrebbe obiettare – evocare proprio Platone, piuttosto che Cartesio, Kant o, meglio ancora, un filosofo dei nostri giorni, se è tanto difficile sapere che cosa Platone abbia ‘veramente detto’?». Rispondo: per legittimare la consulenza filosofica in quanto filosofica, se è vero (come io penso che sia vero) che (come è stato ripetuto più volte nel corso dei secoli, in modi diversi) Platone è la filosofia3 (o, se si preferisce, la storia della filosofia è la storia delle note a Platone4). Per verificare questa tesi così radicale basta domandarsi: «Che cosa sarebbe la filosofia senza Platone?»5, «Ci sarebbe qualcosa di simile a quello che noi chiamiamo filosofia, senza i Dialoghi in cui Platone mette in scena la filosofia, originariamente, soprattutto (ma non solo) attraverso la maschera di Socrate6?». «Si può dire lo stesso di Cartesio o di Kant?»7. Se le cose stanno così, per sapere che cos’è la filosofia, è necessario 3

Secondo la celebre formulazione di Ralph Waldo Emerson, ora in R. W. Emerson, Plato or The Philosopher, in Representative Men, Cambridge (Massachussets): Harvard University Press, 1996, p. 21. 4 Si tratta della celebre battuta di Whitehead, evocata anche da Hösle (cfr. Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 11). 5 Thomas Slezák osserva: «Platone non solo ha fissato una volta per tutte il livello di quella che, d’allora in avanti, poté chiamarsi nell’Europa intera filosofia, ma ha elaborato tutta una serie di questioni relative alla metafisica, alla teoria della conoscenza, all’etica e alla filosofia politica, in un modo così radicale che, anche tenendo presente il successivo sviluppo fruttuoso durato 2500 anni, non si può fare a meno di tenere in considerazione le soluzioni da lui proposte, o almeno il suo modo di svolgere questi problemi» (T. Slezák, Come leggere Platone. Un nuovo canone per affrontare gli scritti platonici, Milano: Rusconi, 1991, p. 23). 6 Cfr. Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 17. Non voglio entrare qui nella cosiddetta “questione socratica”, ma far notare quanto segue, decisivo per i miei scopi. Se si può certamente pensare che non tutto ciò che attribuiamo a Platone sia stato condiviso anche dal “Socrate storico” (come sostiene, ad esempio, con buoni argomenti Gregory Vlastos, in Socrate, il filosofo dell’ironia complessa (1991), tr. Firenze: La Nuova Italia, 1998), sarebbe molto più difficile sostenere l’inverso, ossia ritenere che vi siano indicazioni di “Socrate”, in quanto personaggio dei 36 Dialoghi attribuiti a Platone, che non fossero ritenute essenziali da Platone, non foss’altro perché questi Dialoghi sono stati ricopiati zelantemente nella scuola platonica per secoli. Come osserva giustamente Giovanni Reale: «La soluzione del problema di dove finisca il pensiero di Socrate e dove cominci quello di Platone non è essenziale per capire Platone, appunto perché fin dal primo dialogo ha luogo la trasformazione del Socrate storico nel Socrate ‘dramatis persona’ [di Platone], e perciò fin dal primo dialogo entra senz’altro in gioco Platone» (G. Reale, Storia della filosofia antica, Milano: Vita e Pensiero, 1984, vol. II, p. 13) D’altra parte il “Socrate” di Platone è «in tutto e per tutto comparabile al saggio dell’Ellenismo» (come nota Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 183, nota 29), costituendo quindi per sempre il modello del filosofo per antonomasia. 7 Hösle indica almeno tre “meriti” per assegnare a Platone il primato su ogni altro filosofo:

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comprendere come essa si articoli in quel Lógos che con Platone compare per la prima volta sulla scena8. Se consideriamo, poi, che questo Lógos, in Platone, dichiara, in modo paradossale, di comparire nel medium della scrittura quasi solo “per gioco”9, il “soccorso” platonico appare tanto più irrinunciabile per pratiche, come la moderna consulenza filosofica, che si vantano di attingere all’originaria forma dialogica e orale della filosofia. Infatti il dialogo, come genere letterario, così come noi lo conosciamo, nasce storicamente, in Grecia, nel IV secolo a. C., proprio con Platone (a meno di non voler attribuire parte del merito anche al “grigio” Senofonte10), e nasce proprio come dialogo filosofico. Un dialogo, dunque, in senso proprio, non sarebbe tale se non fosse anche filosofico. Se questo è vero, chiunque, in ogni tempo, intrattenga con qualcun altro un dialogo (e non dovrebbe essere neppure necessario, quindi, aggiungere “filosofico”) non può che imitare Platone, anche se non volesse imitarlo affatto. Per “imitare” intendo qui “avere a modello”, un modello imprescindibile, per quanto uno (come me, ad esempio) si sforzi di conferire originalità alle proprie (verosimilmente orribili) “copie”. Se poi questo qualcuno intende intrattenere un dialogo nell’ambito di una cosiddetta “pratica filosofica” (un colloquio di consulenza filosofica, la massima originalità, la straordinaria ricchezza dei contenuti culturali (che abbracciano tutto lo scibile del tempo), l’invenzione del dialogo filosofico, ossia – aggiungo io – il “metodo” fondamentale della filosofia (cfr Hösle, Interpretare Platone, cit., pp. 12 ss). Ma ciò non tocca ancora il dato essenziale: senza Platone la filosofia non sarebbe alcunché o, almeno, non sarebbe la “cosa” che chiamiamo con questo nome (come senza S. Paolo e gli evangelisti non ci sarebbe quello che chiamiamo “cristianesimo”). 8 Si potrebbe obiettare a quest’affermazione che il Lógos si è presentato, prima che con Platone, già con i pre-socratici e, in particolare, con Eraclito, che lo evoca, “chiamandolo per nome”, in numerosi frammenti. Non dimentichiamo, tuttavia, che i pre-socratici “esistono” per noi come filosofi solo perché, a posteriori, vengono riconosciuti come tali, ossia come precursori, da Platone (prima) e da Aristotele (poi). Come ha mostrato, tra gli altri, Giorgio Colli, essi consideravano se stessi semplicemente “sapienti” (sophòi) e tali erano considerati dai loro contemporanei (cfr. G. Colli, La sapienza greca, Milano: Adelphi, 1990, vol. I, p. 9). La tradizione attesta che il primo a chiamare se stesso “filosofo” sarebbe stato Pitagora (cfr. Cicerone, Tusculanae disputationes, 5, 3, 8-9), ma in un significato ancora difficilmente distinguibile da quello di “sapiente”. D’altra parte dire “Pitagora”, come dire “Socrate” (entrambi, come si sa, non hanno scritto alcunché), è dire “Platone”, ossia riferirsi a una tradizione che comincia a venire “(ri)costruita” nella forma (scritta) in cui la conosciamo oggi solo con i Dialoghi di Platone (che sono la prima opera di filosofia che ci è pervenuta in modo non frammentario) e prosegue nel solco del medio e del neo-platonismo (che, a sua volta, non a caso, assume spesso le sembianze di un neo-pitagorismo). 9 Cfr. Platone, Fedro, 276d-e. 10 Cfr. Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 97.

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un’intervista filosofica, uno scambio di battute in un laboratorio di gruppo o in un cosiddetto café philo) è assolutamente condannato a imitare (più o meno maldestramente) Platone11. Ignorare questa “dannazione” non aiuta certamente a emanciparsene, qualora qualcuno (e questo non sono più io), sedotto magari dalle sirene della surmodernità, tentasse disperatamente la fuga (in avanti o, piuttosto, nel vuoto). Al contrario, conviene forse, una volta per tutte, farsi una ragione di questo destino e mettersi il cuore in pace.

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2. Dal problema alla meraviglia Il dialogo filosofico è generalmente messo in moto, paradigmaticamente, da un problema. Ecco un dato in cui la diffusa esperienza dei moderni consulenti filosofici si incontra con le universali esigenze del Lógos. Come è noto, infatti, in Platone la filosofia comincia sempre da qualcosa che, “facendo problema”, suscita meraviglia: «È proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo»12. Per la verità si potrebbe discutere a lungo su quale sia il legittimo innesco di una consulenza filosofica in quanto appunto consulenza (non semplicemente, cioè, in quanto dialogo filosofico, come quello a cui può dare luogo, ad esempio, un’intervista filosofica). Generalmente si ritiene che una consulenza (a differenza, appunto, dell’intervista) sia oggetto di domanda, a fronte di difficoltà o disagi per lo più legate alla vita di chi ne fa richiesta13. In questa sede, tuttavia, quello che ci interessa rilevare è che qualunque esercizio filosofico, come tale (e come mostrano ad abundantiam i Dialoghi di Platone), quale che ne sia il pretesto o l’occasione, non può essere mosso, strutturalmente, che da una contraddizione di fondo (qualunque ne sia la manifestazione superficiale: “problema”, “questione”, “disagio”, “meraviglia”, “choc logico”14) tra ciò che si crede(va) vero e ciò che si mostra tale. Curioso “effetto collaterale” di tale stato di cose è che chi incorre in una tale contraddizione farebbe bene a non fidarsi troppo di quello che egli stesso crede(va): non solo dei mezzi che crede(va) più idonei a conseguire un determinato scopo, ma neppure del valore di questo stesso scopo. Come dicevano i logici medioevali: ex absurdo quodlibet, da ciò che è assurdo (non è 11

O “Socrate”, il che è lo stesso, come abbiamo visto, se per “Socrate” intendiamo il personaggio platonico. 12 Platone, Teeteto, 155d. 13 Nell’intervista è piuttosto il filosofo a domandare di poter dialogare con qualcuno. 14 Cfr. L. Regina, Consulenza filosofica: un fare che è pensare, Milano: Unicopli, 2006, p. 64.

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come appare ed è perciò che “fa problema”) può seguire qualunque cosa. Sebbene tale principio non sia mai esplicitamente affermato, come tale, da Platone, esso rende conto del fatto che Socrate, nei Dialoghi, frustri sistematicamente il tentativo del proprio interlocutore di turno, imbattutosi, sulla propria via, in un determinato “ostacolo” (próblema), di “sfruttare” il filosofo per farsi aiutare a conseguire obiettivi predeterminati, semplicemente “appianando” tale ostacolo (cioè di fare di Socrate un mero “sofista” o, più modernamente, un problem solver). Socrate è disponibile soltanto a smascherare l’incongruenza che, dai mezzi per conseguirli, si riverbera sovente sugli stessi obiettivi che il suo interlocutore si propone. L’incongruenza relativa ai mezzi, in altre parole, alla luce del lavoro filosofico, si rivela tipicamente spia di un’incongruenza più grave, che attraversa da parte a parte la visione del mondo di chi vi incorre, che va interrogata nella sua globalità15. Che un dialogo filosofico non possa strutturalmente rappresentare un’attività di mero problem solving lo si capisce, del resto, in genere, già dalle sue prime battute: il “vero” problema d’innesco è costituito il più delle volte non tanto dal problema “apparente”, dichiarato dal consultante, quanto dall’interpretazione che questi ne fornisce. In un caso di separazione, ad esempio, il consultante può tipicamente presupporre l’opinione (la dòxa non dimostrata, assunta come ovvia) che il non-separarsi-dalla-propria-moglie sarebbe stata la cosa migliore e immaginarsi, perciò, che il “problema” (da risolvere nel modo più efficiente possibile) risieda semplicemente nella separazione stessa. Il vero problema invece risiede, in casi simili, nella contraddizione tra ciò che si immaginava (si attendeva, credeva, sperava) che sarebbe accaduto e ciò che si è effettivamente verificato. L’ingenua meraviglia per l’inopinato evento (p.e. separazione, lutto ecc.) sfocia, quindi, nella meraviglia filosofica per la possibilità che un evento simile, in generale, non sia affatto un problema. L’esercizio filosofico aiuta, allora, a trascendere l’evento particolare per attingere una connessione universale tra “idee” o “forme” (la connessione p.e. tra “separazione” e “problema”, connessione che si rivela niente affatto necessaria). Questa scoperta consente al consultante di illuminare la propria esperienza in modo tale da (iniziare a) comprendere meglio se stesso e il mondo.

15 Tale è l’esperienza anche di un filosofo praticante del nostro tempo, come Oscar Brenifier. In un’intervista che gli ho recentemente fatto, egli parla di “frattura dell’essere”: «Tutti gli esseri umani hanno una frattura dell’essere, una problematica fondamentale che la consulenza filosofica va a toccare. [...] Essa produce un’opacità, una tensione che, tuttavia, nello stesso tempo, è la struttura stessa dell’essere, è la struttura della tua personalità» (in «Phronesis», IX, n. 16, 2011, p. 50).

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3. Il procedimento elenctico Enucleato quello che appare il problema del consultante, il dialogo investiga il significato che si può attribuire a tale problema; ad esempio, tipicamente, se esso sia o meno un male (perché è da questo che dipende, evidentemente, se esso sia o meno un vero problema). Ciò che è in gioco, dunque, in simili casi, sono i presupposti della credenza del consultante di essere davanti a un problema. Non sempre, infatti, “ciò che fa male” è anche “un male”, perché “ciò che fa male” potrebbe, ad esempio, avere effetti o scopi benefici. Ad ogni passo successivo il dialogo si imbatte in sempre nuove credenze, che vengono interrogate nei loro presupposti o fondamenti. Se è in gioco un “valore” (“amicizia”, “amore” ecc.), ci si chiede, socraticamente, che cosa sia ciò a cui ci si riferisce quando se ne pronuncia il nome, e lo si fa attingendo abbondantemente ad esempi, reali o fittizi, meglio comunque se tratti dall’esperienza (di vita) del consultante. Se si tratta di gesti o atti, la domanda tipica riguarda il perché li si sia compiuti, con riferimento non tanto a (presunte) cause di ordine meccanico o psicologico, quanto ai fini che ci si proponeva o al senso che si intendeva conferire loro. Che cosa si produce in questo genere di investigazione? Quello che possiamo chiamare un “circolo dialogico” (o “dialettico” o “socratico”, se si vuole). Nella forma più sintetica possibile: si parte da una determinata credenza od opinione, se ne sviscerano i presupposti attraverso domande16, si perviene, solitamente, prima o poi, a un’aporia, cioè a qualche genere di contraddizione. Tipicamente: ci si accorge che i valori che si professano non coincidono necessariamente con quelli che si vivono e di cui si testimonia. Il cerchio si chiude, dunque, con l’èlenchos o confutazione della credenza iniziale (donde il nome di procedimento “elenctico”) e con il “parto” di una nuova ipotesi (ad esempio: «il male che ho patito potrebbe, in verità, rivelarsi un bene»). Va notato che l’argomentazione è efficace in quanto passa per una “generalizzazione”, ossia per un’ipotesi di carattere universale (ad esempio: «un male può avere, in generale, per conseguenza un bene»), abs-tracta da un caso particolare.

16 Hösle coglie perfettamente la funzione del domandare di Socrate, quale maschera di Platone: in quanto «persona intellettualmente superiore», Socrate «provoca innanzitutto turbamento e poi [...] determina un nuovo modo di vedere le cose nell’interlocutore che egli interroga» (Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 119).

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4. Necessità dell’homología Nel procedimento va verificato continuamente l’accordo del consultante, certamente con il consulente, ma soprattutto con se stesso, con quello che egli stesso dice (e non con altri, né tanto meno con la Tradizione filosofica o religiosa o simili): la platonica homo-logía17. Non si insisterà mai abbastanza sul valore dell’homología, in Platone e nella filosofia tour court. La conoscenza può essere solo di chi la concepisce e, quindi, la partorisce, altrimenti si risolve nella vuota ripetizione di formule incomprese o fraintese (come quando si crede di sapere qualcosa perché lo si è semplicemente letto o studiato o sentito dire, e lo si ripete). Per questa ragione il filosofo consulente deve accertarsi sistematicamente che il consultante sia d’accordo con quanto via via viene detto nel corso del dialogo. La verifica di questo accordo con se stesso è tanto più importante in quanto l’esercizio filosofico costituisce una sfida: esso investe, infatti, a 360 gradi la visione del mondo di chi vi prende parte, senza che gli siano concesse zone franche o vie di fuga. E questo proprio perché in questo esercizio si ricorre essenzialmente alla ragione, al Lógos, che va dove vuole lui e non dove vorresti tu.

5. Definire è sempre ridefinire Nulla garantisce che l’ipotesi “partorita” di volta in volta dal circolo dialogico sia vera. Si tratta, in ultima analisi, di un’ulteriore credenza. Da una condizione di credenza inconsapevole (da un “credere di sapere” quello che, in realtà, non si sa affatto; ad esempio: che una separazione sia necessariamente un male) si passa a una condizione di consapevolezza del fatto che la propria è solo una credenza (al “sapere di non sapere” alcunché di certo al riguardo). Il procedimento è dunque negativo o catartico (nel senso che purifica la mente da opinioni irriflesse, tenute per vere). Il “momento epistemico” (scientifico), quindi, non pertiene tanto, sotto questo profilo, al contenuto dell’ipotesi finale (che, non meno dell’ipotesi iniziale, resta una credenza, come tale appartenente alla sfera della dòxa e soggetta all’errore). Il momento epistemico pertiene piuttosto al procedimento elenctico che ha generato l’ipotesi e alla consapevolezza, incorporata dall’ipotesi stessa, saputa tale, del suo essere soltanto un’ipotesi. 17

«Contrariamente a interpretazioni moderne, che sottolineano soltanto il processo del condurre il dialogo in quanto tale, a Platone premeva di rappresentare la convergenza (l’omologia) raggiunta nel dialogo» (Slezák, Come leggere Platone, cit., p. 153).

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L’ipotesi a cui si perviene attraverso un procedimento elenctico, in quanto conseguita attraverso una generalizzazione (per ottenere la quale si può e si deve ricorrere ad abundantiam, come detto, ad esempi, reali o fittizi), costituisce dunque bensì una definizione della “cosa” che si sta investigando (che cosa intendiamo per “amore”, “amicizia” ecc. a partire da un’esperienza, spesso negativa, della cosa stessa, ad esempio un tradimento, un abbandono, un episodio di slealtà ecc.), ma resta pur sempre una definizione provvisoria. La definzione include alcune proprietà, in assenza delle quali – se la definizione fosse vera – la cosa non sarebbe quella che è (“amicizia”, “amore”, “onestà” ecc. come un triangolo senza tre mediane non sarebbe un triangolo). La definizione, però, resta del tutto ipotetica, deve essere ulteriormente verificata. Come si è detto, essa resta una credenza. Attenzione: ciò che si tratta di “verificare”, filosoficamente, a questo punto non è tanto (neopositivisticamente) se il consultante o altri si siano davvero comportati (empiricamente) come ci si immagina che si siano comportati, quanto se la presupposta definizione (di “amore”, “amicizia” ecc.) “regga”, sia condivisibile, in primis dal consultante stesso, alla luce della sua complessiva visione-ed-esperienza del mondo. Quale, in generale, in filosofia, il ruolo della definizione? Platone, nella VII Lettera, fa l’esempio illuminante del cerchio. Premesso che «ciascuna delle cose che sono ha tre elementi attraverso i quali si perviene a conoscerla», che sono nome, definizione (lógos) e immagine, «cerchio è una cosa che ha un nome, appunto questo nome che abbiamo ora pronunciato. Il secondo elemento è la sua definizione, formata di nomi e di verbi: quella figura che ha tutti i punti estremi ugualmente distanti dal centro, questa è la definizione di ciò che ha nome [...] cerchio. Terzo è ciò che si disegna e si cancella, che si costruisce al tornio e che perisce»18. Se appare evidente come l’immagine sia alcunché di instabile, si commetterebbe un errore se si pensasse, perciò, che, al contrario, sia “stabile” la definizione, il lògos (il termine stesso ci proietta in una dimensione dia-noetica, non ancora pienamente, cioè, “intellettuale”): la definizione, piuttosto, «composta com’è di nomi e di verbi, non ha nessuna stabilità, che sia sufficientemente e sicuramente stabile»19. ll che non ci dovrebbe affatto stupire. Ogni definizione, infatti, – possiamo interpretare – è fatta di parole (nomi e verbi), che andrebbero a loro volta definite e così via, all’infinito, finendo nella più fitta oscurità – immaginiamo, ad esempio,

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Platone, VII Lettera, 342b-c. Ivi, 343b.

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che il “definitore” parli una lingua a noi sconosciuta20 –, a meno che da qualche parte non si annidi un’intelligenza, una comprensione, un “momento noetico” (il noûs anche in questo testo è evocato come la forma di “sapere” più vicino alla “cosa stessa”21). Anche se, infatti, a “nome”, “immagine” e “definizione”, aggiungessimo “conoscenza” (qui in un senso debole, perché inclusivo anche dell’opinione, la dóxa22) non andremmo molto lontano: «Un discorso che non finisce mai si dovrebbe poi fare per ciascuno dei quattro, a mostrare come sono oscuri»23. «Solo trascorrendo continuamente tra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la conoscenza (epistéme)»24 (evidentemente qui in senso forte). Il “cerchio” – è proprio il caso di dire –, potenzialmente infinito, del continuo (ri)definire, cioè dell’associare sempre di nuovo verbi a nomi, può essere “spezzato” solo da colui che abbia una “buona natura”, che ne sia “degno”, ossia, da chi, come vedremo meglio in conclusione25, sia capace di “concepire” e “partorire” un sapere che sia non più solo dell’ordine del linguaggio, ma anche dell’ordine dell’intelligenza. Ogni definizione partorita dal consultante, in altre parole, non dà assolute garanzie, per il solo fatto di essere “nuova”, di essere anche “vera”.

6. Una conoscenza “in prima persona” Ma come si perviene, in ultima analisi, a definire un concetto? Nel caso migliore il consultante è indotto a “partorire” spontaneamente un’ipotesi (non si limita, cioè, ad assentire a un’ipotesi formulata dal consulente). In questi casi il dialogo sortisce esplicitamente il suo effetto maieutico26. Ciò che per tale 20 Parafrasando il famoso esempio di Quine, che riprenderemo in conclusione (§ 21), immaginiamo qualcuno che tentasse di “definire” la parola sconosciuta “gavagai”, ricorrendo ad altre parole sconosciute. Potremmo mai intenderlo? 21 Cfr. ivi, 342d. 22 Cfr ivi, 342c. 23 343b. 24 Platone, VII Lettera, 343e. Da questo passo si capisce come Platone non presupponga affatto una banale concezione rappresentativa del linguaggio (una parola – una cosa), altrimenti avrebbe potuto semplicemente suggerire di indicare col dito (come suggerivano di fare, ad esempio, alcuni stoici) gli oggetti di volta in volta signi-ficati dai corrispondenti termini. 25 Vedi ultra §§ 20-21. 26 Come è noto, Socrate si paragona a un’ostetrica (o levatrice), che fa partorire l’anima e non il corpo del proprio interlocutore e vaglia se costui abbia partorito un fantasma o qualcosa di vero e vitale (cfr. Platone, Teeteto, 150b). “Maieutica” è, alla lettera, l’arte della levatrice.

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via il consultante offre alla riflessione non è né vero, né falso. Viene alla luce un’ipotesi che si tratterà di vagliare. In generale, va detto, non è affatto necessario – e i dialoghi platonici lo attestano ad abundantiam – che il “parto” consista nella produzione di un discorso “autonomo” da parte dell’interlocutore del filosofo. È sufficiente che l’interlocutore si dichiari d’accordo, convintamente, con un’ipotesi (giudicata evidentemente illuminante) proposta dal filosofo stesso. Non importa sotto questo profilo, cioè, il copyright di un’ipotesi, quanto la qualità della sua verifica dialogica. Tuttavia, quanto più il consultante è messo nelle condizioni di elaborare da solo le ipotesi da mettere alla prova, tanto più è probabile che l’adesione ad esse sia convinta, ossia corrisponda a una relativamente profonda comprensione o intelligenza (noûs) di ciò che vi è in gioco. Del resto al centro dell’indagine (e della scena) resta sempre la visione del mondo del consultante, non quella del consulente, il quale, in taluni casi, come osserva Peter Raabe, potrebbe perfino rimanere all’oscuro delle intuizioni del proprio interlocutore27. Ecco perché, in Platone, viene sempre sistematicamente evitato il dialogo a tre, anche quando i personaggi del dialogo sono molti. A venire sollecitato maieuticamente è sempre un solo personaggio alla volta il quale, dal canto suo, «rimane legato solo a chi conduce e che viene corretto solo da lui»28. Ci possiamo chiedere, a questo punto, se, come ci aspetteremmo sulla base delle indicazioni del Teeteto, il consultante di turno debba essere considerato già “gravido” delle ipotesi che “partorisce” oppure no29. Possiamo rispondere di sì. Tali ipotesi devono già covare in quello che, con Cosentino e altri, potremmo chiamare l’“inconscio cognitivo”30 del consultante. Come verificarlo? Se consideriamo con attenzione il contenuto del “parto” dei nostri consultanti, ci si deve domandare: si tratta di conclusioni che il consultante di turno avrebbe potuto trarre esclusivamente dai ragionamenti precedenti? Se la risposta è negativa, egli ci ha necessariamente “messo del suo”, ha pescato (fecondamente, produttivamente, creativamente) nel “repertorio” delle sue pre-conoscenze o dei suoi pre-giudizi.

27 Cfr. P. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, Idee fondamentali, metodi e casi di studio tr. it. Milano: Apogeo, 2006, p. 234. 28 Slezák, Come leggere Platone, cit., p. 46. 29 “Socrate”, in Platone, non dà affatto per scontato che siamo tutti egualmente gravidi di conoscenza. «Ce n’è poi altri, o Teeteto, che non mi sembrano gravidi; e allora codesti, conoscendo che di me non hanno bisogno, mi do premura di collocarli altrove» (Platone, Teeteto, 151b). 30 Cfr. A. Cosentino, Filosofia come pratica sociale, Milano: Apogeo, 2008, p. 109.

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Discuteremo in sede di conclusione31 l’esoterismo irriducibile che comporta questo dato di fatto: non tutti e non sempre possiamo evolvere nuove comprensioni attraverso la filosofia. Tutto dipende dal grado di maturazione personale (da ciò di cui ciascuno è “gravido”). Del resto non sarebbe possibile neppure il dia-noêin, il ragionare trascorrendo di ipotesi in ipotesi, se non a partire da un (oscuro) fondo noetico, ossia da quanto ciascuno è, almeno potenzialmente, in grado di intendere o comprendere da sé o in prima persona (e che egli non può derivare da nessuna fonte esterna, orale o scritta che sia).

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7. Il procedimento dia-noetico Ciò che nel dialogo si sviluppa, in ultima analisi, di definizione in definzione, è una serie di “teoremi” (sull’amore, sull’amicizia ecc.), sillogismi o, più semplicemente, ragionamenti che muovono da ipotesi non ancora fondate (cioè non ancora fondate su principi incontrovertibili, ma solo su altre ipotesi) per generare altre ipotesi. In termini platonici siamo, cioè, bensì già nella sfera dell’epistéme (e non più della mera dóxa), perché precediamo logicamente e perché sappiamo quello che stiamo facendo (sappiamo, ad esempio, che si tratta ancora solo di ipotesi); ma, pur in questo ambito, restiamo ancora, come abbiamo già puntualizzato, nella (sotto)sfera della dià-noia, senza attingere quella del noûs, perché non abbiamo raggiunto ancora, per così dire, ammesso che ciò sia mai possibile, l’intelligenza dell’idea (“che cosa sia l’amore” ecc., in assoluto). A questo fine dovremmo, infatti, abbandonare le semplici ipotesi e attingere principi certi32. Come si sa, Platone, nella Repubblica, distingue questa intelligenza (il noûs) dal ragionare (dalla dià-noia), facendo l’esempio del matematico che dà per scontato il pari e il dispari, le figure e i tre tipi di angoli e altre cose del genere, a seconda della scienza che studia, e le assume come ipotesi, e non ritiene più necessario discuterle né con sé né con altri, prendendole come principi evidenti per tutti, e partendo appunto da tali “principi”, passa a trattare le altre questioni, ricavando di conseguenza in conseguenza la conclusione che si era proposto33. Platone, qui, ci sta descrivendo un qualsiasi ragionamento (o sillogismo) le cui conclusioni sono vere solo se sono vere le premesse (e sono intese, sono 31 32 33

Vedi ultra §§ 20-21. Cfr. Platone, Repubblica, 511a. Ivi, 510 c-d.

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oggetto del noêin, solo se sono intese le premesse, e in questo senso sono oggetto del mero dia-noêin). Ma che cosa sfugge al “matematico” (e, in generale, a chi ragiona, argomenta, vuole dimostrare qualcosa)? Che le sue “ipotesi” (per esempio il V postulato di Euclide, esempio scelto non a caso34) non sono “principi”, cioè non sono necessariamente vere (né vengono necessariamente intese in modo corretto). Riflettiamo: si tratta, soltanto di un’“opinione” di Platone? No, si tratta appunto del modo in cui noi (tu e io) ragioniamo, in generale, e dei suoi limiti. Limiti che tutti possiamo perfettamente.... intendere (anche se possiamo fingere di non intenderli, se vogliamo fare i sofisti). Un ragionamento perfettamente coerente, perché condotto in modo corretto a partire da determinate ipotesi non revocate in discussione, potrebbe tranquillamente essere falso, se le ipotesi di partenza sono false.

8. Trascendenza della verità Lo scarto tra coerenza e verità è dunque sotteso al procedimento dialogico, in generale. Come ha osservato Hösle, a proposito del dialogo platonico: «Il dialogo [...] è trascendentale in quanto non può essere giusta una teoria che non sia dialogicamente formulabile e difendibile, ma il consenso di fatto nel dialogo non è mai per Platone un criterio di verità»35. Il che si può anche esprimere dicendo che l’homología (l’accordo fondamentalmente con se stessi) è condizione necessaria, ma non mai sufficiente per la conoscenza. Se ci trasferiamo sul terreno dell’agire (ossia se interroghiamo il rapporto tra coerenza performativa soggettiva e verità morale) abbiamo che, anche se «una teoria […] è credibile solo se è comunicata attraverso la propria condotta di vita», «secondo Platone la morale non è una creazione soggettiva, e azioni concrete non possono secondo lui fondare qualcosa di universale»36. Questo significa, ad esempio, che, nel corso di una consulenza filosofica (se seguiamo le indicazioni di Platone), da un lato è senz’altro necessario valutare la coerenza tra i valori a cui entrambi gli interlocutori (consulente e 34

Come Hösle dimostra, richiamando gli studi di Imre Tòth, l’interpretazione “dia-noetica” della sfera delle matematiche, come ambito (meramente) ipotetico-deduttivo, consente a Platone di considerare ante litteram (quello che sarebbe stato chiamato) il V postulato di Euclide non altro che un’ipotesi che non ne esclude altre diverse (in ultima analisi gli consente di ammettere la possibilità di quelle che si sarebbero chiamate “geometrie non euclidee”, ispirate all’idea di uno spazio sferico). Cfr. Hösle, Interpretare Platone, cit., pp. 36-39. 35 Hösle, Interpretare Platone, cit., pp. 28-29. 36 Ivi, p. 156.

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consultante) dicono di aderire e i valori di cui il loro agire testimonia di fatto (a differenza di quanto si fa, per esempio, durante un esame universitario di “filosofia teoretica”, in cui, nel migliore dei casi, si valuta soltanto la qualità della “teoria” esposta), poiché la vita di entrambi è implicata nel processo dialogico; ma, dall’altro lato, la comune ricerca non si appaga di qualsivoglia parvenza di coerenza soggettiva. L’esercizio filosofico, infatti, tende sistematicamente a mettere in questione tale parvenza di coerenza, in quanto esso è motivato da un’irriducibile istanza di verità; in cui ciò che rileva è non tanto quello che appare giusto a me o a te, quanto quello che è oggettivamente giusto, nella misura in cui ci è dato saperlo. Sotto questo profilo, il processo dialogico non è meno rilevante del risultato a cui esso perviene e che conferisce senso al processo medesimo, per quanto provvisorio tale risultato sia. Come osserva opportunamente Slezák, bisognerebbe stare in guardia dagli «encomi ingenui che vengono portati alla ‘componente dialogica’ e al ‘vivo processo del discutere’. Con ciò non si vuol negare l’importanza della dialogicità del pensiero, in quanto per Platone si tratta per l’appunto della dialogicità del pensiero, in quanto per Platone il pensiero non è altro che un dialogo dell’anima con se stessa37. Quanto viene scoperto nel pensiero solitario deve poter essere messo alla prova del dialogo con l’altro; Socrate definisce poi questa una necessità a tutti comune di presentare agli altri ciò che si è scoperto, e di assicurarlo insieme con loro38»39.

9. La funzione delle immagini Nel dialogo filosofico ricorrono sovente analogie e metafore, a torto contrapposte da alcuni ai concetti, come se un concetto non potesse venire espresso attraverso un’immagine altrettanto che attraverso un termine “con immediata pretesa di significato”. Quello che conta, infatti, non è la forma della comunicazione, ma ciò che il discorso, comunque condotto, dunque anche attraverso le immagini, consente di partorire a chi vi è coinvolto. Vale forse la pena chiarire che, in generale, non possiamo fare a meno di ricorrere a immagini nella nostra ricerca dialogica della conoscenza. Non sussiste, infatti, nessuna opposizione, come si tende spesso a credere, tra un approccio “razionale” o “argomentativo” alla conoscenza e un approccio “suggestivo” o “poetico”. I “discorsi”, infatti, che intreccia37 38 39

Cfr. Platone, Teeteto, 189e; Sofista, 263e. Cfr. Platone, Protagora, 348d. Slezák, Come leggere Platone, cit., p. 43.

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mo, non sono le “cose” di cui parlano, ma le “rappresentano” comunque in immagine. Tra il ricorso a veri e propri miti nel tentativo di esprimere l’inesprimibile (il “vero” o l’“idea”) e il tentativo di avvicinare la “cosa stessa” attraverso il ricorso a “termini” che si pretendono più “precisi”40, mediante una pretesa “purificazione” del linguaggio, la differenza (quanto al rigore) non è di natura, ma di grado e dipende, in ultima analisi, dal codice di comunicazione di cui siamo in possesso e dal nostro grado di comprensione della realtà. Platone, sul punto, è inequivocabile: «Imitazione, immagine, ecco in definitiva, ciò che necessariamente sono tutti i nostri discorsi»41. In gioco, insomma, è sempre il grado di verosimiglianza di questi discorsi; sia che, come nel Timeo, sia reso esplicito il fatto che, su certi temi42, «non possiamo offrire ragionamenti in ogni modo con se stessi pienamente concordi ed esatti», perché «intorno a queste cose conviene accogliere un mito verosimile, né cercare più in là»43, sia che una simile “avvertenza autocritica” non venga pronunciata. Come è stato, infatti, opportunamente notato, l’idea (la “verità”) non può propriamente essere oggetto del lógos (che ne è, piuttosto, solo immagine): se l’idea fosse oggetto del lógos, infatti, essa «sarebbe dicibile, definibile, determinabile in modo univoco»44, cosa che, come abbiamo già visto, non è45. «La fedeltà al modello non sta nell’esattezza della copia, nella riproduzione delle misure della figura del modello, ma piuttosto nel

40

Spesso si tende a confondere i “concetti” con i “termini” che li esprimono. A rigore, tuttavia, il “concetto” è ciò che ciascuno di noi intende quando incontra un “termine” nel contesto di un determinato discorso, mentre il termine stesso, non diversamente dall’immagine, è sempre solo una “metafora” (un segno che “porta oltre” se stesso, verso un significato da scoprire). Se chiamo, ad esempio, “spirito” quella “parte” (ipotetica) di me che suppongo immortale, ricorro a un termine che, originariamente, significa “respiro” per intendere, metaforicamente, qualcos’altro per il quale non possiedo alcun termine adeguato. In generale, tutti i termini che si riferiscono a cose “invisibili” (“astratte”) sono antiche metafore tratte dal mondo delle cose visibili. Se intendo il significato di un termine, cioè sono in grado di cogliere il “concetto” che, mediante quel termine, si voleva “far nascere” in me, ciò non dipende solo o tanto dalla forma del termine o della metafora (potendosi trattare, appunto, anche di un’immagine o di un intero “mito”), quanto soprattutto dalla mia intelligenza (noûs) della cosa stessa a cui mi riferisco “per” immagine. 41 Platone, Crizia, 107b. 42 Platone, nei passi citati del Timeo, si riferisce al “divino”. Come sappiamo, però, in Platone “divina” è, in generale, la verità, “divine” sono le idee, “divino” è quindi, in generale, l’oggetto della conoscenza, in quanto appunto conoscenza (stabile) e non mera opinione. 43 Cfr. Platone, Timeo, 29c-d. 44 Cfr. G. Duso, La rappresentazione e l’arcano dell’idea: introduzione a un problema di filosofia politica, in Id, La rappresentanza: un problema di filosofia politica, Milano: Franco Angeli, 1988, p. 44. 45 Sull’ “instabilità” di qualsiasi “definizione” vedi supra § 5.

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fatto che l’immagine, fedele alla sua natura di immagine, non si presenta essa stessa come il vero, ma indica la sua insufficienza e il suo essere rivolta all’archetipo, a quel vero cui essa è somigliante, che cerca di far trasparire, ma che non possiede e non esaurisce in sé»46. Al che possiamo solo aggiungere che, affinché l’idea effettivamente “traspaia”, quello che si richiede non è soltanto un lavoro sull’immagine che la rappresenta, ma anche un vero e proprio atto “noetico” da parte di colui che è chiamato a “partorirla” dalla propria anima.

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10. Il valore dei gesti Il ruolo del corpo, che si esprime attraverso i gesti e gli atti, è altrettanto rilevante di quello delle immagini. Pensiamo alla forma eloquentemente drammatica del dialogo platonico e del ruolo essenziale che vi giocano i simboli47. In Platone, come osserva Hösle, «il principio della non-contraddizione performativa è più originario della sua variante semantica»48. Infatti, «in quanto rappresenta il comportamento dialogico discorsivo degli interlocutori di Socrate nella realtà dell’opera d’arte drammatica, [Platone] riesce a mostrare come quel comportamento esprima il carattere di quelle persone e come sia connesso con la loro filosofia»49. Uno speciale esempio di coerenza performativa è offerto dagli «argomenti trascendentali, che partono 46

G. Duso, La rappresentazione e l’arcano dell’idea, cit., p. 44. Secondo Eric Voegelin, ad esempio, in Platone non conta solo o tanto quello che i diversi personaggi dicono, ma anche e soprattutto quello che essi fanno, per il suo valore simbolico. Si ha a che fare, insomma, con una «molteplicità di simboli, che gettano la loro luce ora su questa ora su quella sfaccettatura dell’esperienza». Il che, nel caso ad esempio della Repubblica, «suggerisce una ricchezza non esaurita dal dialogo, così come una dimensione nella profondità che non può essere del tutto misurata» (E. Voegelin, Plato (1966), tr. it. Ordine e storia, Bologna: ll Mulino, 1986, p. 117). Sarebbe non casuale, ma intensamente simbolico, per esempio, il movimento dei personaggi della Repubblica dal basso del Pireo verso l’alto dell’acropoli di Atene, “mimesi” dell’anàbasi dell’anima dal buio dell’Ade alla luce della verità (politica, secondo Voegelin). Possiamo pensare anche ai numerosi gesti simbolici compiuti da Socrate nel Fedone (p.e. la promessa del gallo ad Asclepio, cfr. 118a), nel Simposio (p.e. il sedersi accanto ad Agatone piuttosto che ad Alcibiade, cfr. 222d), nel Fedro (p.e. la velatura del suo volto prima del suo discorso sull’amore cfr. 237a) ecc. 48 Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 189. In altre parole: la contraddizione tra quello che si pensa e il modo in cui si vive è più originaria (e anche più frequente!) della contraddizione tra semplici opinioni. È ben per questo che secondo il padre della moderna consulenza filosofica «la questione (...) non è più se io vivo ciò che penso, ma se penso ciò che vivo» (G. Achenbach, La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, tr. it. Milano: Apogeo, 2004., p. 37). 49 Hösle, Interpretare Platone, cit., pp. 102-3. 47

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dal fatto che la comunicazione è possibile»50. Anche se, nel caso di molti consultanti, il comportamento “eloquente” non è tanto quello che essi mostrano durante il dialogo filosofico, quanto quello di cui essi narrano (dunque è riferito al passato), il risultato è lo stesso: tale comportamento dice del consultante di turno (della sua visione del mondo) più di tante parole. Si tratta di quella che Ran Lahav chiama la “comprensione vissuta” di una persona51. Il “concetto”, del resto, è, letteralmente, qualcosa che la mente concepisce e, poi, partorisce: si tratta di un software intellettuale che può girare sui più diversi tipi di hardware linguistico: verbale ma anche gestuale. L’efficacia maieutica di questo o quel registro/canale linguistico dipende da diverse circostanze: dalla situazione, dal codice lessicale e culturale (in senso antropologico) di emittente e ricevente, dal grado di maturazione intellettuale di entrambi (come vedremo meglio in conclusione52). Ma quello che conta è ciò che “passa”, l’intesa o comprensione finale (noesis).

11. Un circolo ermeneutico Ricapitoliamo. L’esercizio filosofico ci si è mostrato, finora, come un’attività sinergicamente maieutica – elenctica – dianoetica, che non rifugge dal ricorso a immagini e gesti e che mette capo, attraverso una serie di “circoli dialogici”, a una comprensione bensì sempre più completa e coerente di quanto si dice e si vive, ma pur sempre soggetta all’errore, soggettiva, perché inesorabilmente fondata su ipotesi. Alla luce di tutto questo come possiamo anche reinterpretare, in generale, tale esercizio? Possiamo (meta)reinterpretarlo anche come un’attività

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Ivi, p. 76. Cfr. anche ivi p. 102: «La filosofia di Platone sembra [...] presupporre il carattere trascendentale del principio del discorso: soltanto quelle posizioni che possono essere comunicate ad altri possono [attenzione: non debbono] essere vere» (pena, altrimenti, il cadere in “contraddizioni performative”). 51 Cfr. R. Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, tr. it. Milano: Apogeo, 2004, p. 136. Non sono rari, comunque, casi di consulenze nei quali è proprio il “comportamento dialogico” assunto dai consultanti durante la consulenza stessa a essere significativo. Nel caso di “Federica”, ad esempio, caso che ho documentato in L’incantesimo di Orfeo. Sulla “feconda inapplicabilità” della consulenza filosofica alla vita, in «Phronesis», IX, n. 17, 2011, pp. 9-39, spec. pp. 20-27, la consultante, cercando di curvare il dialogo filosofico intrattenuto con me in senso strategico, esemplificava “trascendentalmente” l’atteggiamento inadeguato da lei assunto col marito. 52 Vedi ultra § 20.

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francamente ermeneutica53. Formulate, infatti, determinate ipotesi (ad esempio che l’amore implichi fedeltà ecc.), suggerite dalla propria pre-comprensione del mondo (fondata sull’esperienza, ma non priva di pre-giudizi e assunti indimostrabili), queste vengono via via commisurate con altri dati emergenti e, a seconda dei casi, corroborate, arricchite o, se del caso, corrette. Si mette in atto, insomma, un vero e proprio circolo ermeneutico. Un caso particolare di esercizio ermeneutico è l’esperimento immaginario, come quello dell’anello di Gige in Platone54. Si propongono scenari irreali per testare il vero punto di vista del consultante di turno. Gli si chiede, ad esempio: «Se tu potessi tornare indietro nel tempo e potessi non far accadere una di queste due cose, quale aboliresti?»; oppure: «Se avessi una bacchetta magica, che cosa faresti accadere tra queste tre cose?» ecc. Ma un esercizio ermeneutico in senso stretto interviene in consulenza filosofica ogniqualvolta si faccia ricorso o appello a testi scritti (considerati magari dagli interlocutori particolarmente autorevoli o illuminanti, tipicamente: testi filosofici, come... gli stessi Dialoghi di Platone!); oppure quando, più semplicemente, si evocano discorsi o argomenti di terzi non coinvolti nel dialogo stesso (p.e. l’amico con cui si ha litigato o il coniuge da cui ci si sta separando ecc.). Ora, non si deve confondere l’ermeneutica che è in gioco in un dialogo filosofico con il metodo di interpretazione che oggi per lo più si ritiene di dover esercitare su discorsi “scritti”. Questo metodo “moderno”, infatti, ha di mira fondamentalmente il senso del discorso, del tutto a prescindere dalla sua verità. Come dice Spinoza: «De solo enim sensu orationum, non autem de earum veritate laboramus»55.

53 Il rapporto tra ermeneutica e procedimento logico-ipotetico (dia-noetico) è tematizzato da Hösle proprio in sede di interpretazione platonica: «Abbastanza spesso l’analisi logica di un argomento giunge al risultato che esso è valido soltanto se vengono accettati determinati presupposti. [...] L’ermeneutica può insegnarci che l’autore in questione o persino l’epoca in questione, in realtà accetta questi presupposti, mentre epoche più tarde [o altre persone] non li condividono» (Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 9). Sarebbe possibile argomentare ulteriormente, come qui non è possibile fare, la profonda, anche se inappariscente, affinità tra procedimento logico-scientifico per “congetture e confutazioni” (assimilabile al procedimento dianoetico di Platone) e procedimento ermeneutico. Si può rinviare, al riguardo, alle riflessioni di autori come Rorty, McDowell e Davidson. 54 Come è noto, “Socrate”, per aiutare i propri interlocutori a rendersi conto di quanto “apparente” sia la giustizia praticata dai più, li invita a immaginare i delitti che ciascuno compirebbe se, grazie a questo magico anello, potesse rendersi invisibile e, quindi, certo di farla franca. Cfr. Platone, Repubblica, 359d e ss. 55 Cit. in Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 46.

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Ma, come ci avverte Pierre Hadot56 e ribadisce Hösle57, la prospettiva ermeneutica antica e rinascimentale (anche per quanto riguarda i soli testi scritti) è del tutto diversa. In termini moderni potremmo dire che il principio di carità (che consiste nel postulare la verità di ciò che un testo racconta, fino a prova contraria) ha il sopravvento sul principio di perfezione (che consiste nel postulare, fino a prova contraria, “soltanto” la coerenza del testo esaminato)58. Più semplicemente: secondo questa ermeneutica è lecito «proietta[re] sul testo tutto quello che si considera vero»59. Non vi è alcun interesse, cioè, per la mens auctoris (per ciò che intendeva dire l’autore, l’Altro) che da Schleiermacher in poi (proprio a partire dall’interpretazione dei Dialoghi di Platone) costituisce il criterio fondamentale dell’interpretazione moderna60, ma che, in effetti, costituisce un vero e proprio “punto cieco”, insondabile, dell’investigazione (noi non siamo gli altri e non li comprenderemo mai fino in fondo, ad onta delle lodi che si sogliono intessere della nozione, sovente fraintesa nel suo originario significato filosofico, di empatia). Interessa solo quanto questo determinato testo (o discorso) ci può suggerire di vero, del tutto indipendentemente da ciò che l’autore volesse (dire). Questo approccio ha una precisa conseguenza epistemologica: nell’interpretazione del senso di un testo (ad esempio: dei passi platonici in cui si 56

Il discutere un problema il più delle volte consisteva per gli antichi «nel discutere del senso che occorre dare alla formula di Platone o di Aristotele [o altro autore] che si riferisce a questo problema. Una volta ammessa tale convenzione, di fatto si discute della sostanza della questione, ma attribuendo abilmente alle formule platoniche o aristoteliche il senso che autorizza la soluzione del problema in questione che si voleva precisamente dare. Ogni senso è possibile purché sia coerente con la verità che si crede di scoprire nel testo» (P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it. Torino: Einaudi, 1988, p. 20). 57 «Il compito originario dell’ermeneutica era [...] comprendere la verità attraverso l’interpretazione di testi che valgono come autorevoli» (Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 46). Per l’interpretazione di Platone si tratta dell’idea tradizionale che ciascun dialogo si raccolga intorno a un preciso skopòs (cfr. Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 53). 58 Cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo (1960), tr. it. Milano: Bompiani, 1983, p. 434: «È comprensibile solo ciò che costituisce veramente una compiuta unità di senso. Quando leggiamo un testo, noi operiamo sempre questa anticipazione della perfezione». 59 Cfr. Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 58. 60 Cfr. Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 61; p. 133. Notiamo, en passant, che lo stesso Schleiermacher è costretto ad ammettere la possibilità di atti “inconsci” dell’autore. Il che comporta una curiosa conseguenza, se adottiamo, ad esempio, una prospettiva lacaniana, per la quale “l’inconscio” è lo stesso linguaggio che parliamo: tutto ciò che noi, in quanto “altri” da lui, possiamo leggere tra le righe del “testo” che un “soggetto” produce, parlando o scrivendo, può essere legittimamente ascritto all’“inconscio” di costui. La stessa prospettiva ermeneutica “moderna”, “soggettivistica”, dunque, a ben vedere, se ammettiamo che il soggetto sia “abitato” da un siffatto Altro (inconscio), fatto più di significanti che di significati, potrebbe, de-soggettivandosi, rovesciarsi nella prospettiva ermeneutica antica!

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introduce il termine “ipotesi”) siamo perfettamente legittimati ad attingere a conoscenze (“verità”) conseguite in modo indipendente (per restare nell’esempio: a fare riferimento ai risultati teorici delle moderne geometrie non euclidee), alla sola condizione che l’attribuzione al testo di questo significato possibile sia compatibile col dato testuale (ossia conservi la coerenza del testo). In parole “platoniche” il solo possibile “soccorso” che il “padre” (l’autore) di un testo può fornire a un lettore61, sempre a rischio di fraintenderlo, non consiste tanto nell’illustrare “a voce” il senso che il testo “muto” avrebbe (il mero fatto di passare da un medium comunicativo a un altro, dalla scrittura all’oralità, non preserva, infatti, di per sé, dall’equivocazione), quanto nel riuscire a suscitare “maieuticamente” nel lettore (attraverso il gioco delle domande e delle risposte62) la comprensione della “verità” a cui il testo allude, ma che esso non può strutturalmente restituire (non solo e non tanto in quanto testo scritto, ma proprio in quanto “testo” tout court, ossia in quanto produzione meramente linguistica). L’ermeneutica che è in gioco, dunque, tanto in Platone e nel mondo pre-moderno in generale, quanto in chi si dedica alle pratiche filosofiche contemporanee, è quella che, tanto che si eserciti su testi scritti, quanto che si eserciti sul dialogo orale, è mutuata dalle movenze di questo dialogo stesso63; in quanto dialogo inteso, cioè, non come semplice “genere letterario” 61 Come è noto, nel Fedro (275e) leggiamo che un testo scritto, in quanto appunto scritto, «ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi». 62 Come nota Slezák, il filosofo può porgere soccorso al suo scritto soltanto «inoltrandosi nell’èlenchos» (Slezák, Come leggere Paltone, cit., p. 77). 63 Sul rapporto originario dell’ermeneutica di Gadamer con la sfera del dialogo e dell’oralità cfr. M. L. Martini, Orizzonte e linguaggio. I confini dell’esperienza del mondo nel pensiero di Hans-Georg Gadamer, Milano: Mursia, 2006, spec. § 4. 2 e § 4. 4, che sottolinea il legame tra la prospettiva di Gadamer e quella degli autori, come Buber, ascrivibili al filone del cosiddetto “pensiero dialogico”. Sarà un caso che Gadamer insista sulla circostanza che in ogni processo interpretativo non ne va soltanto di problemi di senso, ma anche e soprattutto di verità? Cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 343: «Il presupposto della perfezione, che guida ogni comprendere, si rivela [...] esso stesso come contenutisticamente determinato. Non viene solo presupposta una immanente unità di senso che fornisce una guida al lettore; la comprensione del lettore è anche sempre guidata da trascendenti aspettative di senso che nascono dal rapporto con la verità del contenuto del testo». In altre parole il principio di perfezione non può essere realmente separato dal principio di carità. Se ci trasferiamo, così concettualmente equipaggiati, nel campo della pratica filosofica, ne viene che le parole scritte degli autori (antichi o moderni, filosofi o poeti che siano), a cui attingiamo, e i discorsi dei nostri interlocutori in carne e ossa, sono posti sullo stesso piano; con l’unica, fondamentale differenza che soltanto agli interlocutori viventi possiamo chiedere senso e ragione delle loro affermazioni. Platone, Montaigne o Garcia Lorca diventano così invisibili, mute presenze all’interno del dialogo, a cui è concesso di “dire la loro” una volta sola, senza poter replicare.

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o “tipologia testuale” da “interpretare” (di cui, cioè, cercare un senso soltanto possibile), bensì come esercizio – maieutico, riflessivo e critico – in atto mediante cui cercare non solo e non tanto di verificare il senso (la coerenza) di ciò che si pensa e si vive, ma anche e soprattutto di metterne alla prova il valore di verità. Ciò è reso possibile soprattutto dal fatto che chi partecipa a un dialogo filosofico è assoggettato alla «péira [messa alla prova] di cui parla la VII lettera»64. In che cosa consiste questa “messa alla prova”? Nella verifica della congruità tra ciò che si legge, si dice (spesso: “si ripete”) e si crede di intendere e ciò che si vive65. In ultima analisi, ciò che ti consente davvero di intendere il senso tanto di un testo quanto di un discorso e, inestricabilmente, di misurarne il valore di verità è il confronto con la tua vita. Solo se tu stesso hai vissuto la “disperazione”, puoi veramente intendere (e verificare)... Kierkegaard, la “nausea”... Sartre, l’“inautenticità”... Heidegger ecc. Nessuno studio erudito, nutrito dell’analisi intertestuale più raffinata ed estesa, può surrogare la tua esperienza, se quello che leggi (o ascolti) rimane scritto (o detto) in una lingua a te straniera.

12. Libertà e rigore Nei Dialoghi di Platone, come nell’interazione verbale tra consulente e consultante, vi sono continue digressioni 66, a riprova dell’estrema libertà dell’indagine filosofica, che, non per questo, rinuncia al massimo del rigore. Sulla libertà dell’indagine filosofica gravano diversi equivoci. Quando si sostiene, giustamente, che, ad esempio, un filosofo consulente procede 64

Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 154. Nel passo della VII Lettera, a cui Hösle allude, Platone parla della prova che consiste nel «mostrare che cosa sia davvero lo studio filosofico» (340b) per verificare se «chi [ad esempio] vive nel lusso e non sa sopportare la fatica» (341a) e si limita a nutrirsi di “formule imparate” a memoria, possa davvero dedicarsi alla filosofia. Generalizzando questo caso, come la filosofia platonica e quella più generalmente antica ci consentono di fare, si può sostenere che non è sufficiente leggere di filosofia, per intendersene, ma occorre viverla. 66 A titolo puramente esemplificativo vedi la digressione in Leggi, 857b-864c, che si conclude con la frase: «Ritorniamo dopo di ciò all’argomento da cui, facendo una digressione, siamo mossi per venire qui». Le digressioni in Platone sono frequenti. Esse possono avere, nell’organismo dialogico, lo scopo di riesaminare riflessivamente e criticamente il metodo finora adottato nell’investigazione (sono le celebri digressioni sull’arte maieutica, sulla dialettica ecc.), specie in occasione dell’emergere di aporie, incongruenze, paradossi. Un altro scopo può essere quello di ritornare su questioni lasciate in sospeso, soprattutto se nel frattempo si sono guadagnate nuove ipotesi e prospettive. 65

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senza alcun metodo67, ciò non può significare altra cosa che questo: il filosofo non procede per algoritmi, tali che, ad esempio, a ciascuna determinata affermazione del proprio interlocutore, egli, in base al tipo di affermazione, possa replicare soltanto in un determinato modo (o in numero rigidamente predeterminato di modi possibili), come è prescritto da certi approcci di counseling o di mastery learning ecc. Il che non significa che ogni parola del filosofo non abbia una sua ragione. L’intervento che il filosofo fa dipende da congetture, scaturite liberamente nella mente del filosofo (e che, ovviamente, il filosofo deve essere disposto a lasciar cadere se vi viene indotto dal prosieguo del dialogo). Un intervento diverso sarebbe stato ispirato da un’altra congettura, a sua volta da verificare. Poiché le direzioni di possibile approfondimento in un’investigazione filosofica sono pressoché infinite (quante sono, per così dire, le sinapsi del nostro cervello), anche se non sono tutte dello stesso valore (ma anche queste “differenze di valore” non possono essere oggetto di ponderazione, se non, forse, “col senno di poi”), ne viene che la ricerca filosofica è libera. Cionondimeno il filosofo deve saper giustificare – se non altro a se stesso – ogni suo passo, sulla base della ragione che, di volta in volta, l’ha indotto a compierlo. In ciò la ricerca filosofica conserva tutto il proprio rigore.

13. Una maieutica direttiva Nella conduzione di un dialogo operano dunque le ipotesi (congetture) del filosofo, cioè, per restare nel lessico dell’ermeneutica contemporanea, una vera e propria precomprensione che fa del filosofo un vero regista (director) dell’interlocuzione; a proprio rischio e pericolo68, qualora un’ipotesi si riveli errata, cioè se non si riesce trovare l’accordo, su di essa, del proprio interlocutore.

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Più precisamente è stato giustamente osservato: «La filosofia è quel sapere che non può non chiedersi che cosa sta facendo, non può usare un metodo senza dare conto del metodo stesso» (S. Contesini, R. Frega, C. Ruffini, S. Tomelleri, Fare le cose con la filosofia. Pratiche filosofiche nella consulenza individuale e nella formazione, Milano: Apogeo, 2005, p. 114). Ne consegue che la consulenza filosofica, come pone Gerd Achenbach, non tanto lavora «con i metodi, ma sui metodi» (La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, tr. it. Milano: Apogeo, 2004, p. 13). Questo “metodo del non metodo” è condiviso da una Schlomit Schuster (cfr. La pratica filosofica. Una alternativa al counseling psicologico e alla psicoterapia, tr. it. Milano: Apogeo, 2006, p. 95), anche se guardato con sospetto, forse perché equivocato, da altri consulenti filosofici, come Peter Raabe (cfr. Teoria e pratica della consulenza filosofica, cit., pp. 65 e ss.). 68 Come è noto, del resto, la filosofia è rischio (kyndinos) (cfr. Platone, Eutidemo, 305e2).

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L’azione di filosofo consulente appare, dunque, spesso, particolarmente direttiva, in quanto è guidata da un’evidente ipotesi di lavoro (congettura) e sbocca in un’altrettanto determinata ipotesi. Ma, come è ben noto, il “non sapere” socratico69 non implica affatto che l’azione maieutica di Socrate si eserciti “alla cieca”. La celebre dimostrazione del teorema della duplicazione del quadrato, attraverso la quale, nel Menone, si argomenta la “dottrina” platonica dell’anámnesis ce lo mostra chiaramente. Il fatto che uno schiavo ignorante, sollecitato da Socrate, possa dimostrare il teorema ci suggerisce, certamente, che lo schiavo doveva già “conoscere in prima persona” il teorema, prima della sollecitazione maieutica, che altro non fa che “ricordarglielo” (e ciò proverebbe, appunto, la dottrina dell’anamnesi); ma ci dice anche e soprattutto che Socrate, nel porre allo schiavo le domande giuste al momento giusto, non può che essere guidato dalla stessa conoscenza che egli intende risvegliare nello schiavo70 (conoscenza che, dunque, anche Socrate, il filosofo, deve già possedere). Non si vuole parlare di conoscenza, perché si vuol prendere sul serio il “non sapere” socratico? D’accordo, ma non possiamo certo negare che Socrate, modello dei contemporanei consulenti filosofici, nel porre le sue domande, sia orientato almeno da una ben precisa congettura71o, come si esprime Slezák, abbia sempre un «vantaggio sul proprio lógos»72. L’essen69 Come è noto, Socrate, nell’Apologia, si dichiara consapevole di “non sapere” quello che altri credono di sapere, ma non sanno (cfr. 21d). 70 Cfr. Platone, Menone, 82b-85b. 71 Negli stessi luoghi dell’Apologia in cui Socrate dichiara il proprio non sapere, egli ammette, del resto, di possedere una certa “sapienza umana” (cfr. Platone, Apologia, 20d). 72 Slezák, Come leggere Platone, cit., p. 47. Come osserva Hösle (Interpretare Platone, cit., p. 132), «il principio del dialogo viene senza dubbio compromesso da un dogmatismo che vorrebbe indottrinare l’altro; ma una scepsi radicale è forse un nemico ancora peggiore di questo principio. Solo la speranza di trovare insieme la verità dà senso all’impresa dialogica». A questo fine, però, come avverte Slezák, il conduttore del dialogo deve possedere alcuni requisiti “direttivi”: «È in grado di rispondere a tutte le obiezioni. In conversazioni di carattere agonistico, egli sa confutare tutti i partecipanti. Tutti gli elementi che contribuiscono realmente a far procedere il colloquio vengono introdotti da lui (talvolta certo in modo ‘maieutico’: egli porta alla luce pensieri ‘di altri’)» (Slezák, Come leggere Platone, cit., p. 41; cfr. anche ivi, p. 43 e p. 149; cfr. Platone, Repubblica, 534c1-3). Tale “superiorità” (funzionale) del filosofo rispetto al proprio interlocutore, ampiamente attestata nel Dialoghi platonici, può suscitare perplessità, soprattutto nel filosofo praticante del nostro tempo. Come osserva Slezák (che scriveva al tramonto del ventesimo secolo), «in quanto figli di questo democratico, pluralistico e antiautoritario ventesimo secolo, il nostro modo di sentire, che ne siamo coscienti o no, è talmente sintonizzato sul relativismo dominante, che non possiamo far altro che andare incontro con scetticismo o perfino con intima ostilità a un ‘Socrate’ a un ‘Ateniese’ dalla superiorità così clamorosa, che osa indicare la propria linea di orientamento come l’unica corretta, e non possiamo che

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ziale è che il filosofo sia animato da benevolenza (éunoia) e amicizia (philía) nei confronti del proprio interlocutore e che le confutazioni e le ipotesi da lui avanzate siano «ben intenzionate»73, cioè indirizzate non già alla vittoria sull’altro, ma soltanto alla verità74.

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14. «Conosci te stesso» Proprio in ragione di questa intenzione di verità, nel dialogo autenticamente filosofico vanno evitate le illusorie scorciatoie e va sempre battuta una via più lunga e scabrosa: ci si deve sempre domandare, cioè, senza anteporre giudizi – che, anteposti, sarebbero solo pre-giudizi –, ma in modo franco e sincero75, non tanto che cosa il consultante di turno dovrebbe essere, fare, amare, quanto chi egli effettivamente sia e che cosa “voglia nella vita”, fossero pure le cose più improbabili, crudeli o sconvenienti. In tale ricerca la filosofia si rivela nella sua più propria e antica natura: come esercizio, radicale, di conoscenza di se stessi76, a qualsiasi prezzo, senza remore, reti di protezione, né false coscienze. La conoscenza di sé, intesa come comprensione della visione del mondo che noi stessi siamo, quella che anticamente si sarebbe detta la nostra anima (e che include anche avvertire il suo giocare con l’aporia come una mancanza di franchezza, il suo rimandare a conoscenze ancora da guadagnare come uno sfuggire agli obblighi del momento. Invece di ciò, dovremmo domandarci se Platone, con questa sua concezione dei personaggi, non voglia comunicarci qualcosa di particolare, di non immediatamente comprensibile, e se essa non faccia per caso riferimento a un concetto di filosofia che diverge in misura considerevole dalle convinzioni del ventesimo secolo, ma che proprio per questo è in grado di poterle completare e arricchire» (Slezák, Come leggere Platone, cit., pp. 30-31). 73 Cfr. Platone, VII Lettera, 344b5. 74 Cfr. Slezák, Come leggere Platone, cit., p. 28. 75 Come è noto, un tratto caratteristico del filosofare antico (e della commedia di Aristofane) è la parrhesìa, libertà di parola o franchezza (tema su cui ha riflettuto Michel Foucault, in Discorso e verità nella Grecia antica, tr. it. Roma: Donzelli, 2005). Con tale espressione, tuttavia, non si deve intendere il “dire tutto quello che si pensa”, concezione che si potrebbe piuttosto attribuire a un sofista come Protagora (cfr. Platone, Protagora, 317b-c; Slezák, Come leggere Platone, cit., p. 37); piuttosto il “dire tutto quello che si ritiene opportuno dire ai fini della ricerca della verità, anche a rischio – in ciò il tratto specificamente parresiastico – di risultare sgradevoli per il proprio interlocutore”. Il che non esclude, dunque, che si tacciano scientemente le cose che, dette, potrebbero avere effetti controproducenti ai fini della comune ricerca. Come osserva Slezák, infatti, «il fine di una ‘retorica’ filosoficamente fondata è quello di offrire a ciascuna anima i ‘discorsi’ ad essa commisurati (Fedro, 277b-c)» (Slezák, Come leggere Platone, cit., p. 152). 76 Cfr. l’evocazione socratica del motto delfico “Conosci te stesso” in Platone, Protagora, 343b; Fedro, 229e.

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l’opinione che abbiamo di noi stessi, del nostro carattere e delle nostre aspirazioni) costituisce, infatti, il presupposto di ogni altra conoscenza e comprensione77. Si sa, ad esempio, che a Platone si attribuisce una tripartizione dell’anima in anima “razionale”, “irascibile” e “concupiscibile”78. Si può tranquillamente evitare di considerare tale “dottrina” l’“ultima parola” di Platone al riguardo (cosa che vale per ogni altre presunta “dottrina” di Platone, come cercherò di dimostrare in conclusione79) e la si può considerare soltanto un’ipotesi tra le altre, funzionale al determinato livello del dialogo in cui essa è stata formulata (da “Socrate”), cioè, in definitiva, al determinato grado di intelligenza degli uditori/lettori di turno. Questa dottrina, nondimeno, ci suggerisce qualcosa di importante: la “visione del mondo”, che la nostra anima è, si esprime non soltanto attraverso ciò di cui siamo consapevoli e che possiamo articolare razionalmente e mediante il linguaggio, ma anche attraverso la nostra dimensione emotiva, che è altrettanto veicolo di credenze e di valori (sovente in contraddizione con quanto crediamo di essere80). Non è, quindi, solo quello che ciascuno crede di essere e di cui parla che restituisce la sua visione del mondo. Specchio della nostra anima sono anche (e, a volte, molto di più) quei gesti e quei comportamenti che tradiscono ciò che veramente “pensiamo”, i nostri lógoi inconsci81. Di qui l’irrinunciabilità, in un dialogo filosofico, come abbiamo visto, di esaminare non solo il pensiero esplicito, ma anche la vita intera di chi vi prende parte, sviscerandovi eventuali contraddizioni performative (ossia concernenti il rapporto tra pensiero e azione).

77 La discussione sul significato originario (forse di ordine etico) del motto delfico “Conosci te stesso” è tutt’ora aperta. Ma non v’è dubbio che nella tradizione orfica, pitagorica e poi (neo)platonica quest’espressione assume la radicale valenza gnoseologica, psicologica, ontologica e perfino teologica a cui qui alludo. Cfr. Plotino, Enneadi, IV, 3, 1, 1: «Iniziando questa ricerca, noi obbediamo al precetto del dio che ci comanda di conoscere noi stessi. Se vogliamo cercare e trovare ogni altra cosa, è giusto che ricerchiamo chi è colui che ricerca: desiderando così di cogliere l’amorosa visione delle cose supreme». 78 Cfr. Platone, Repubblica, IV, 436a e ss. 79 Vedi ultra § 21. 80 Proprio la scoperta di questa contraddittorietà suggerisce a Platone di postulare, a questo livello di indagine, più “anime” nella stessa persona: «La stessa cosa non sarà mai in grado di fare o di patire insieme cose contrarie, nella stessa sua parte e nello stesso rapporto» (Platone, Repubblica, IV, 436b). 81 Cfr. Plotino, Enneadi, III, 8, 6, 15.

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15. L’“intellettualismo socratico” In questo esercizio di conoscenza di sé il consultante si imbatte spesso in apparenti “colpe” o inadeguatezze di cui preferirebbe restare all’oscuro, ma con le quali, una volta portate alla luce, deve fare i conti. A una più attenta analisi, tuttavia, si scopre che, se si esamina meglio ciò che si fa e si pensa, non mai è questione di colpa (e dunque neppure di “egoismo”, se si connota questo termine in modo pregiudizialmente negativo), ma è sempre solo questione di (mancanza di) intelligenza. Questa potrebbe sembrare, di nuovo, una “dottrina”, l’ennesima, generalmente attribuita più a Socrate che a Platone82, nota come “intellettualismo socratico”, secondo la quale nessuno fa il male volontariamente, poiché ognuno può fare solo quello che gli sembra, di volta in volta, il bene. Si tratta, invece, di un’esigenza metodo-logica del dialogo stesso. La scommessa filosofica, infatti, è che tutto possa essere compreso, almeno in via di principio. Non ci sono “zone franche”. Dunque non c’è uno spazio logico per la “pura malvagità”. Questa, infatti, dovrebbe essere insensata. Ma la scommessa della filosofia è che, se uno fa qualcosa, ciò che egli fa debba avere per lui un senso, una ragione, per quanto tale ragione sia o appaia distorta all’opinione corrente (o sia anche, oggettivamente, tale). Avere una ragione è avere uno scopo, avere uno scopo è credere che qualcosa sia un bene per se stessi (vero o falso che ciò sia). Punto83. Se si rinuncia a questo e si ammette qualcosa come una colpa (intesa come l’effetto di una malvagità ingiustificata), si pongono limiti tanto invalicabili, quanto, appunto, ingiustificati, alla ricerca filosofica del senso. L’indagine mostra, in questi casi, come, per quanto sgradevole sia la visione del mondo del consultante di turno, si tratti in primo luogo di prenderne atto e di vagliarne l’interna coerenza o incoerenza, iuxta propria principia, per così dire, senza moralismi surrettizi. Alla sempre risorgente tentazione di certi consultanti di cadere in forme di autoflagellazione moralistica («Sono un egoista e basta»), sovente veri e propri alibi per giustificare la propria inazione, il dialogo risponde filosoficamente spostando la questione, socraticamente, dal volere al sapere. Il problema

82 A torto, dal momento che essa viene ribadita nell’opera forse meno “socratica” di Platone, ossia le Leggi (cfr. 859d: «Tutti i malvagi sono in ogni caso malvagi involontariamente»). 83 Non vale l’obiezione che, a volte, si sia dominati dall’ira o da altre passioni, perché, come abbiamo già accennato (vedi supra nota 80), queste possono essere rappresentate come altrettante “anime” che, a modo loro, perseguono i propri scopi, del tutto “ragionevoli”, cioè logici, dal proprio punto di vista.

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scaturisce dal fatto che spesso non si sa fare (per esempio amare la propria moglie o i propri figli) quello che si vorrebbe fare. Certo, il fatto che ci si vergogni di quello che si fa (o non si fa) suggerisce che la propria visione non sia pacifica, ma sia attraversata da una certa tensione, che, opportunamente sollecitata, potrà sfociare nell’aperta contraddizione e, a un più alto livello, a una riformulazione più adeguata e comprensiva.

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16. Un organismo aperto Abbiamo visto che, attraverso il procedimento elenctico, il dialogo conduce, di volta in volta, a elaborare una serie di ipotesi (p.e. su che cosa sia l’amicizia, l’amore, la fedeltà ecc.). Queste sono naturalmente intrecciate tra loro e con le altre che continuamente si producono, in modo a volte esplicito, a volte implicito. Talora ne scaturisce una coerente visione o immagine del mondo, più spesso una prospettiva non priva di ambiguità o incongruenze. Ora, che cosa mostra, in generale, del procedimento filosofico il fatto di pervenire a questo genere di intrecci? Si mostra qui l’intreccio (la symploké84) di ipotesi, a più livelli e relativamente a più “essenze”, che ogni dialogo di una certa rilevanza riesce a intessere. Basti pensare ai classici esempi del Teeteto, per quanto riguarda il problema della conoscenza, e del Parmenide, per quanto riguarda il problema dell’Uno. Per un simile intreccio di ipotesi si può ben evocare l’organismo85. Ciò che ora mette conto di rilevare è che un organismo (di ipotesi) non è un sistema86, nel senso moderno del termine, perché non presume, né pretende di essere internamente coerente. L’organismo dia-logico, infatti, si sviluppa 84

Cfr. l’espressione “symploké tôn éidôn” (“intreccio delle idee o forme”) in Platone, Fedro, 259e. Cfr. anche J. Derrida, La farmacia di Platone, tr. it. Milano: Jaca Book, 2007, p. 163. 85 Come fa il medio-platonico Ermeia nel suo commento al Fedro per offrire un’immagine della struttura del dialogo nel suo complesso. Cfr. Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 53. 86 Se la filosofia di Platone si avvicina a un “sistema”, lo fa, come osserva Hösle, «piuttosto alla maniera di Aristotele o di Plotino che di Spinoza o di Hegel» (Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 23). Quale la differenza? La illustra bene Pierre Hadot, quando osserva che «le opere dei filosofi [antichi] non possono essere interpretate senza che si tenga conto della situazione concreta in cui sono scritte», perché, dal momento che «l’opera filosofica è sempre implicitamente un dialogo e vi è sempre presente la dimensione dell’interlocutore eventuale», si deve ad ogni passo «tenere conto del livello dell’interlocutore» presupposto, «del tempo del lógos concreto in cui si esprime» (Esercizi spirituali, cit., p. 48). Dunque vano sarebbe cercare all’interno dell’opera una coerenza meramente formale.

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proprio a partire dalla progressiva messa in luce dell’inadeguatezza e dalla contraddittorietà delle ipotesi dei suoi “livelli” inferiori. Come scrive Slezák, «il colloquio non si incrementa in senso continuativo, ma viene elevato a un livello qualitativamente superiore in modo per così dire repentino, principalmente sotto forma di difesa da un attacco»87. D’altra parte, ai livelli a cui, superiormente, via via, esso perviene, l’organismo dialogico può “partorire” soltanto altre ipotesi, di cui ci si deve provvisoriamente accontentare, ma di cui è lecito dubitare che reggano indefinitamente l’esercizio dell’élenchos. Pensiamo ai molti diversi modi in cui nel corso di un tipico dialogo consulenziale si cerca di afferrare l’essenza dell’amore, dell’amicizia o dell’onestà (o di tutte queste cose assieme o di altre ancora), riprendendo sempre da capo le fila del ragionamento, senza che, però, tale essenza, di volta in volta, non sfugga sempre di nuovo come un’anguilla. Del resto i Dialoghi della maturità platonica a cui facevo, esemplificativamente, riferimento prima, Teeteto e Parmenide, (non solo, quindi, i cosiddetti Dialoghi socratici della gioventù di Platone) hanno un carattere marcatamente aporetico, se non francamente ludico, poiché, come si sa, essi non pervengono affatto – checché se ne sia potuto dire – a definizioni incontrovertibili e conclusive del rispettivo oggetto di indagine (“la conoscenza” e “l’Uno”). Come appare chiaro, del resto, a Socrate nel Parmenide, il “lavoro del concetto” potrebbe tranquillamente procedere all’infinito88, a riprova della paradossale non definitività della definizioni a cui via via dà luogo.

17. Idea e fenomeno Come si sarà capito, un dialogo filosofico, lungi dall’offrire soluzioni a buon mercato al problema proposto dal consultante, tende spesso ad approfondire lo scarto irriducibile tra l’“idea” che ci si fa di qualcosa (dell’amicizia, dell’amore, di una vera “famiglia” ecc.) e l’(amara) “realtà” (il vissuto). Si gioca a quest’altezza, con ogni evidenza, la “partita” del rapporto tra idea e fenomeno, che ha suscitato tanti equivoci nell’interpretazione di Platone. La questione è delicata e va chiarita. Anche in questo caso, infatti, non si tratta affatto di una peculiare “dottrina” di Platone (la famosa, cosiddetta, controversa “dottrina delle idee”) su cui si possa o meno essere d’accordo. Si tratta, piuttosto, ancora una volta, di un’esigenza metodo-logica insopprimibile 87 88

Slezák, Come leggere Platone, cit., p. 41. Cfr. Platone, Parmenide, 135e.

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del Lógos filosofico, da cui chiunque voglia, ancor oggi, praticare la filosofia non può prescindere. Non è “Platone”, infatti, ma il Lógos stesso a esigere che, se io mi chiedo, ad esempio, che cosa sia una famiglia, io cerchi di sapere non tanto che cosa sia questa o quella famiglia, quanto che cosa, in generale, la parola “famiglia” significhi. L’éidos “famiglia” (lo ha ribadito Husserl) è qualcosa che, qualunque cosa io dica della famiglia, necessariamente devo presupporre se voglio conservare a quello che dico un significato stabile. Devo supporre, ad esempio, che quello che intendo io per “famiglia” sia la stessa cosa che intendi tu, se te ne parlo (magari perché non sono d’accordo con il modo in cui tu ti comporti con la tua famiglia) e se non voglio concedere che parliamo equivocamente di cose diverse89. Ora questa “stessa cosa” sarebbe appunto l’idea (se fossi sicuro di possederla e che anche tu la possedessi), idea che, come tale, non coincide con nessun esempio concreto di famiglia (cioè con nessun “fenomeno”). In questi esempi concreti, infatti, in tanto io posso riconoscere altrettante “famiglie”, in quanto, appunto, possiedo già una precisa ipotesi (anche se ne fossi inconsapevole) su che cosa, in generale, “la” (una) famiglia sia. Questo significa che chiunque parli di qualcosa, per il fatto stesso di parlarne, sa già quello di cui parla, ossia ne possiede l’idea? Nient’affatto. Platone dimostra soltanto che, se parlo, presuppongo di conoscere il significato (stabile) di quello che dico, ma non è affatto scontato che io conosca effettivamente questo significato. Quello che, implicitamente, faccio valere nel mio discorso è un intreccio di ipotesi su questo significato, come abbiamo visto ad abundantiam. Che cosa sono, allora, queste “mie” ipotesi? Sono qualcosa che, da un lato, non posso intendere altrimenti che come idee, ma che, dall’altro lato, non posso dimostrare che siano davvero tali, almeno finché non le abbia “fondate” su un principio evidente di per se stesso (ammesso e non concesso che ciò sia possibile). Ancora una volta qui si gioca lo scarto tra un sapere ipotetico (dia-noetico), a cui non possiamo fare a meno di riferirci come a un presupposto, quando parliamo o pensiamo, pur non potendo essere certi che si tratti di “vero sapere”, e un sapere vero (noetico), a sua volta postulato (cioè presupposto), che 89 Di questo tenore è l’argomento con cui nel Cratilo (cfr. 439b-440a) Socrate postula l’“esistenza” delle idee. Cfr. anche Fedone, 78d-e. Come si sa, comunque, Platone non ha mai offerto una trattazione organica di quella “dottrina delle idee” che gli viene generalmente attribuita. Anzi, nel Sofista, quando parla degli “amici delle forme (éidê)”, egli sembra alludere alla prospettiva di qualcun altro (cfr. 248a e ss.). E nel Parmenide (cfr. 129a-135c), come è noto, Platone (anticipando Aristotele) mette lucidamente in luce le classiche aporie la “dottrina delle idee”.

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sta al primo nello stesso rapporto90 in cui il secondo sta ai fenomeni. Infatti tanto questo “sapere vero” costituisce il presupposto logico del sapere ipotetico (posso riconoscere che una mia ipotesi, ad esempio sulla famiglia, sia soltanto un’ipotesi proprio perché ne riconosco lo scarto rispetto a una “verità” che non posso fare a meno di postulare, appunto come mancante); quanto le ipotesi tra le quali si muove il sapere dianoetico (ciò che oggi chiamiamo anche sapere “scientifico”91) sono il presupposto logico di quei fenomeni che esse hanno la funzione (o la pretesa) di “salvare”. Chiariamo anche questo punto. Un’ipotesi salva un fenomeno, quando questo la rispecchia “a sufficienza”, qualunque cosa ciò voglia dire, ovviamente nel giudizio insindacabile di chi riconosce questo rispecchiamento. Se chiamiamo eikón (o icona) il fenomeno che rispecchia adeguatamente92 una certa ipotesi o modello, possiamo chiamare phántasma (o fantasma, illusione) il fenomeno ingannevole: quello che sembra rispecchiare un certo modello, ma, a ben vedere, sempre a giudizio di chi lo esamina, non lo rispecchia affatto o rispecchia qualcos’altro93. Ora, alla luce di tutto questo, che cosa scopre spesso disperatamente un consultante? Che ciò che egli intende per “famiglia”, “amore” ecc., cioè la sua ipotesi di “famiglia”, “amore” ecc., non “salva” affatto la sua famiglia “reale” o il suo rapporto d’amore ecc., perché questa “realtà”, la copia, non 90 A una tale identità di rapporto tra questi due livelli di conoscenza Platone allude con il ricorso alla celebre immagine della “linea della conoscenza”, suddivisa in quattro sezioni probabilmente secondo il principio della sezione aurea, di origine pitagorica (cfr. Platone, Repubblica, 509d-511e). 91 Cfr. Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 29: «La natura in Platone, similmente a quella della scienza moderna, ma altrimenti da quella di Aristotele, è essenzialmente matematizzabile». Ma ciò deriva dal fatto che Platone ha codificato quel procedimento ipotetico-deduttivo, “dia-noetico”, orientato a “salvare i fenomeni”, senza con ciò impegnarsi sulla “verità” dei modelli messi in campo a questo fine, che ha contraddistinto, in generale, la scienza greca e, particolarmente, quella dell’età ellenistica (cfr. L. Russo, La rivoluzione dimenticata, Milano: Feltrinelli, 20033), e che, come ha chiarito l’epistemologia contemporanea, a partire da Poincaré e Popper, continua a caratterizzare fecondamente la cosiddetta “scienza moderna”. 92 L’adeguatezza di un’immagine a un’idea non ha niente a che fare con l’esattezza nella riproduzione della “forma” dell’idea. «L’eikón è l’immagine fedele alla sua natura di immagine, che consiste nel rimandare a ciò di cui è immagine, a ciò che non è esso stesso presente in quanto tale, mentre il phántasma è l’immagine che tradisce la sua rappresentatività nascondendo il rapporto con ciò di cui è immagine e dunque ponendosi come autosufficiente, come ciò che è, come verità» (G. Duso, La rappresentazione e l’arcano dell’idea, cit., p. 43). 93 Sul rapporto tra eikón e phántasma (e rispettive aree semantiche) in Platone, oltre all’articolo di G. Duso, La rappresentazione e l’arcano dell’idea, cit., spec. pp. 38-45, cfr. anche una delle sue fonti principali: G. Turrini, Contributo all’analisi del termine eikos. II. Linguaggio, verosimiglianza e immagine in Platone, «Acme», n. 32, 1979, pp. 299-323.

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appare affatto un eikón (un’immagine adeguata) del modello che si ha in mente, ma – come il dialogo filosofico spesso rivela – ne è, piuttosto, un phántasma (una riproduzione illusoria, uno “scimmiottamento”). A questo punto restano di solito tre strade. 1. La prima consiste nel costruire, attraverso l’azione, una migliore copia del proprio modello (di “famiglia”, “amore” ecc.), che ne sia una vera “icona”, cioè una più adeguata rappresentazione. 2. La seconda strada potrebbe consistere nella revisione del modello stesso. Questa strada è resa certamente possibile dal fatto che il modello non è altro che un’ipotesi (anche se possiede l’irresistibile tendenza a presumersi un’idea). Tuttavia ciò che un approccio filosofico non consente assolutamente di fare, a differenza di un approccio strategico, è adattare il modello alla “realtà” (al dato empirico), magari integrandolo con ipotesi ad hoc, per dirla con Popper, al solo scopo di “salvare” questa “realtà” stessa. Bisogna, infatti, tener conto che l’ipotesi che qui è in gioco (ad esempio il modello di famiglia che un consultante ha in mente) appartiene alla symploké, all’organismo vivente della complessiva visione del mondo del consultante. Ne va, insomma, dell’interna coerenza, per quanto provvisoria, di tale visione (in altre parole: della somma dei valori di riferimento di una persona). 3. Una terza via, più sottile, consiste, infine, nel lavorare sul giudizio soggettivo di adeguatezza o meno di una copia rispetto al proprio modello. La “cosa” “reale”, che appare solo ingannevolmente tale (ossia una “vera famiglia”, un “vero rapporto d’amore” ecc., ossia una copia corrispondente al modello che si ha in mente), potrebbe comunque rivelarsi, se ci si colloca in una giusta prospettiva, non più tanto un phántasma, quanto una vera e propria eikón del modello che si ha in mente, purché, per così dire, non si pretenda troppo da una semplice copia (in altri termini: non si pecchi di un eccesso di “idealismo”).

18. Una consolatio ad clientem A proposito di quest’ultimo invito all’“accettazione della realtà”, come possibile portato di un dialogo filosofico, va forse osservato quanto segue. Si rimprovera spesso a certi discorsi (sovente di ordine vagamente religioso) di assolvere una funzione meramente “consolatoria”, intendendo riferirsi, con questo termine dispregiativo, alle consolazioni “a buon mercato”, mediante le quali si illude chi soffre per qualcosa, con la prospettiva di falsi o incerti vantaggi collaterali o futuri, che gli sarebbero arrecati dalla situazione

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che vive. Perché negare, tuttavia, alla filosofia la tradizionale funzione94 di “consolazione razionale”, ossia la capacità di mostrare al sofferente autentiche ragioni per guardare da un diverso, più promettente, punto di vista alla propria condizione?

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19. Per amor di filosofia Nelle consulenze filosofiche pienamente riuscite quell’esercizio che, in un primo tempo, appare assolvere una funzione strategica, mirare, cioè, a risolvere uno specifico problema, non solo si allarga, al punto da fare dell’anima della persona di chi lo pratica (attraversata da parte a parte, in quanto “visione del mondo” per così dire incarnata, da caratteristiche contraddizioni) un problema a se stessa95; ma fa di se stesso, in quanto esercizio filosofico, da mezzo di soluzione di problemi, a fine, in un certo modo, per se stesso. Se così non fosse, infatti, esso dovrebbe dirsi il più delle volte fallito, per la sua sconcertante inconcludenza. La filosofia, qui, rivela la sua caratteristica riflessività, l’essere «scienza di se stessa e delle altre scienze», per dirla con Platone96. La graduale dissoluzione delle illusioni, dei “fantasmi”, da cui siamo circondati, si mostra come il conseguimento, spontaneo, di ciò che, di volta in volta, per noi è (il) meglio. Ora, è proprio la stessa ricerca della verità e del bene, in cui consiste la filo-sofia, come il caso esemplare della condanna a morte di Socrate documenta e dimostra, a rivelarsi la cosa migliore che, in mancanza di certezze, possiamo praticare. Come è noto, Socrate, non credendo di sapere quello che non sa e non sapendo, in particolare, se la morte sia un bene o un male97, sa che sola cosa che gli rimane da fare è ricercare proprio quella verità che ignora.

94 Come è noto, nel mondo antico, la consolatio filosofica assurse a vero e proprio genere letterario. Pensiamo alla consolationes di Seneca (p.e. ad Helviam matrem) o al capolavoro del genere: il De consolatione Philosophiae di Severino Boezio. 95 Come scrive Stefano Zampieri, nella trasformazione che avviene nel corso di una pratica filosofica, la filosofia «si assorbe nell’esistenza diventando parte di essa», in modo tale che «io stesso sono il problema, ed io stesso, passo dopo passo, sono trasformato: la domanda e la risposta nella medesima carne» (Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita quotidiana, Milano: Mimesis, 2010, p. 8). 96 Cfr. Platone, Carmide, 166e. Come nota Hösle, «è evidente che Platone, in primo luogo, non esclude la possibilità che ci siano enti riflessivi e, in secondo luogo, annovera tra essi il sapere [filosofico]» (Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 201). 97 Cfr. Platone, Apologia di Socrate, 21d.

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Ecco perché la filosofia, come ricerca della verità, si rivela il solo bene che Socrate può considerare davvero suo, la prima forma positiva, per quanto fragile, umana, di saggezza98. In questo senso, per niente retorico, Socrate può affermare che «una vita senza ricerche non è degna di essere vissuta»99. E può essere disposto a subire la condanna a morte da parte del tribunale di Atene, pur di non rinunciare a tale ricerca. Ma che cosa è questo “bene” in cui consisterebbe una vita fatta di ricerca (filosofica)? Non si tratta di qualcosa che si possa definire una volta per tutte100, ma dello “stato dell’anima” a cui l’esercizio della filosofia ci conduce. In altra sede101 ho argomentato come la filosofia possa fecondare, per così dire, la vita di chi la esercita; non perché i risultati a cui perviene l’indagine filosofica vengano meccanicamente applicati alla vita, ma perché la vita stessa di chi si è esercitato alla “palestra del pensiero” tende a diventare spontaneamente una vita filosofica, una vita, cioè, più intelligente e, in definitiva, migliore.

20. L’importanza di essere virtuosi Lo stato dell’anima a cui l’esercizio della filosofia ci conduce appare, tuttavia, più o meno “risolto” o “elevato”, a seconda del nostro grado di maturazione intellettuale (cioè, in parole povere, di quello che riusciamo o non riusciamo a comprendere; di quanto siamo o non siamo “gravidi”)102. Platone nel Menone fa dire a Socrate: «Ciò che in realtà è [...] conforme alla dialettica, non è solo rispondere il vero, ma anche, e soprattutto, farlo attraverso parole di cui l’interrogato dichiari di conoscere il significato»103. Non si 98

Cfr. ivi, 20d. Cfr. ivi, 30a. 100 Vale qui ciò che, non solo nei dialoghi cosiddetti socratici, ma anche nella Repubblica si dice del “bene in sé”: «Che cosa mai sia il bene in se stesso, per ora lasciamolo stare, infatti la possibilità di giungere ora a quello che io ne penso sembra superiore a ciò a cui miriamo al presente» (Platone, Repubblica, 506d8-e3). Ciò a cui mira la filosofia (e in cui essa stessa, in ultima analisi, consiste) è strutturalmente sfuggente, come nota perfino Slezák (p. 165): «Ecco perché Eros incarna l’essenza della filosofia: Eros consegue sì ciò cui aspira, ma questo finisce sempre per sfuggirgli di nuovo (Simposio, 203e)». 101 Cfr. L’incantesimo di Orfeo. Sulla «feconda inapplicabilità» della consulenza filosofica alla vita, cit. 102 Come scrive Hösle: secondo Platone «non si possono comprendere certe cose se non ha luogo prima la visione di altri nessi che si deve acquisire in un lungo e complicato processo, e non è di nessun aiuto permettere alle persone di partecipare alla discussione su cose che non conoscono sufficientemente» (Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 154-55). 103 Platone, Menone, 75d. 99

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deve essere, quindi, soltanto nelle condizioni di “dire” la verità, ma anche in quelle di “comprenderla”. Ma chi è davvero capace di comprendere ciò che vive? Va ricordato, al riguardo, che la maturazione “intellettuale” di una persona è tutt’uno con la sua maturazione “morale”, ossia con il grado di coerenza (di persuasività, per dirla con Michelstaedter) della sua forma di vita. Come abbiamo già notato, infatti, il modo in cui si vive non è che un modo di esprimere chi si è e che cosa si pensa. Come osserva Hösle, «non sussiste alcun dubbio che Platone scelse la forma del dialogo anche per rispetto dell’autonomia del lettore; ma accanto a questo motivo più democratico di origine socratica gioca un ruolo importante anche l’idea aristocratica e pitagorica che determinate verità non devono essere comunicate a persone che non ne sono degne». Ma Hösle osserva subito dopo: «In modo assai sorprendente entrambi i criteri convergono, perché l’aristocratismo di Platone si basa non in primo luogo sulla nascita, ma si fonda su qualità personali. I criteri della dignità non sono solo di natura intellettuale, ma anche di natura morale»104, ossia, possiamo chiarire: concernono inestricabilmente il modo di pensare e il modo di vivere di una persona (la sua virtù o mancanza di virtù)105. Nel Carmide, ad esempio, il personaggio a cui è intitolato il dialogo potrà o meno assumere il “farmaco” del discorso socratico a seconda che egli «permetta o meno che alla sua anima venga fatto l’“incantesimo”, il che significa, in questo caso: che gli sia pronto all’acquisizione della virtù morale della “temperanza”»106. Nel Gorgia Callicle viene escluso dai “grandi misteri” non per mancanza di intelligenza, ma «per la disposizione morale del suo carattere»107. Alla luce di tutto questo in un autentico dialogo le domande formulate, così come le ipotesi, di volta in volta, avanzate dal “filosofo”, in ragione della loro funzione esclusivamente maieutica, hanno a che vedere non tanto con presunte “dottrine” a cui aderisca il filosofo in questione (se non in 104

Hösle, Interpretare Platone, cit., pp. 100-101. Da un lato, infatti, la propria vita testimonia di quello che si pensa, anche se non lo si ammette o non ce ne si accorge, dall’altro lato, come ricorda Hösle, «tutta l’antichità ha riconosciuto» (e, in particolare, possiamo aggiungere, la filosofia antica) l’assioma secondo il quale «l’attività scientifica è essa stessa una virtù e può avere successo soltanto se si collega alla altre virtù» (Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 155). 106 Slezák, Come leggere Platone, cit., p. 57. 107 Ibid. Sulla necessità di un’opportuna disposizione morale negli interlocutori di un dialogo, dalla quale non potranno mancare le “virtù cardinali”, cfr. anche Platone, Repubblica, 487a, e VII Lettera, 344a. 105

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modo meramente accidentale o strumentale), quanto con la “forma di vita” dell’interlocutore di turno. I medio-platonici Alcinoo e Albinoo insistono entrambi «sul significato dell’acquisizione di una determinata forma di vita per comprendere adeguatamente Platone»108. A volte accade che il “tasso di verità” con se stesso, per così dire, a cui un consultante giunge non sia sostenibile oltre109. A volte, ad esempio, si ha troppo bisogno di credere a qualcosa di impossibile, per potersi concedere il lusso di fare troppa filosofia. Il consultante, in questi casi, ha raggiunto quel determinato grado di maturazione intellettuale e morale che gli era consentito dalla sua condizione di partenza. Se si tenta, maieuticamente, di suscitare in lui nuove “consapevolezze”, di cui egli non sia ancora “gravido”, si fallisce110. Se si suggeriscono nuove “parole” per consentirgli di conseguire nuove “comprensioni”, egli non le intende, o almeno: non le intende in un senso tale da consentirgli di “evolvere”.

21. Un esercizio “esoterico” Qui si mostra il senso autentico del tratto irriducibilmente esoterico della filosofia, che è stato spesso frainteso, specialmente per quanto riguarda la filosofia antica e quella di Platone, in particolare, ma che rivela la propria vera natura soprattutto a chi, oggi, si dedichi di bel nuovo a una pratica filosofica in senso antico. Non si può dire tutto a tutti, né fare filosofia con tutti, né dire, a chi non l’abbia praticata, che cosa sia la filosofia (e, dunque, neppure la consulenza filosofica). Bisogna farne esperienza e “vedere l’effetto che fa”. Partiamo da quella sorta di pugno nello stomaco, il big bang della filosofia di ogni tempo, che avrebbe dovuto lasciare tutti ammutoliti o, almeno, 108

Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 52. «Secondo Platone la filosofia non è soltanto scienza, e anzi la scienza suprema, essa è anche una determinata forma di vita a cui appartengono inevitabilmente determinate virtù» (ivi, p. 155). Slezák dal canto suo osserva che la filosofia di Platone «esige l’uomo tutto intero. La sola capacità intellettuale non basta, c’è bisogno di una parentela fra la cosa da trasmettere e l’anima di colui cui deve essere trasmessa. Colui che non è pronto a introdursi in un processo di intima trasformazione, non sarà neppure abilitato a conoscere la piena soluzione del problema» (Slezák, Come leggere Platone, cit., p. 27). 109 Nel Simposio di Platone, come è noto (cfr. Simposio, 216a-b), Alcibiade mostra, analogamente, di non essere riuscito a “sopportare”, oltre un certo grado, la “verità” in lui suscitata da Socrate, a causa delle sue ambizioni politiche. 110 Del resto, come osserva Slezák, «Il sapere anche tacere intorno al sapere filosofico, qualora le circostanze lo esigano, è […] raffigurato da Platone come un tratto positivo del vero filosofo» (Slezák, Come leggere Platone, cit., p. 36).

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abbastanza “vergognati” da non voler più mettere mano a penne o tastiere. Platone scrive nella VII Lettera:

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Di tutti coloro che hanno scritto e scriveranno, affermando di conoscere quello di cui io mi occupo, o per averlo ascoltato da me o da altri o per averlo scoperto da soli, posso dire che, a quanto pare, non ne capiscono nulla111. Di tutti coloro che scriveranno... Compresi Aristotele e la tradizione che ne deriva. Compresa la Scuola di Tubinga (gli studiosi che, proprio sulla base di passi come questi, ritengono di avere “capito” le “dottrine non scritte” di Platone112). Compreso io stesso! Osserviamo: nella VII Lettera Platone nega la possibilità di capire ciò che lui stesso ha scritto. Ma la VII Lettera stessa è uno scritto! Culmine dell’ironia. Paradosso del Mentitore al quadrato. Sfida estrema al pensiero113. Non solo: secondo Platone non capiremmo alcunché neppure di ciò che lui stesso ha detto a voce e di cui altri (Aristotele tra tutti114) potrebbero testimoniare. Platone ci dice, infatti, che non capiscono nulla di quello di cui lui si occupa (nota bene: dell’oggetto della sua ricerca, non del “pensiero” personale di Platone) neppure coloro che l’hanno «ascoltato da me o da altri»115. Sulla questione dell’oralità e della scrittura, che ci interessa particolarmente per il confronto con le pratiche filosofiche del nostro tempo (che sono eminentemente orali), si è equivocato, con inutili elucubrazioni di carattere storico-culturale e perfino antropologico sulla complessità del rapporto oralitàscrittura ai tempi di Platone e ai nostri116. Ma la questione è epistemologica,

111

Platone, Lettera VII, 431b. Cfr. Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 67 ss. Vedi anche H. J. Krämer, La nuova immagine di Platone, Napoli: Bibliopolis, 1987. 113 Analogo paradosso fa capolino tra le righe del Fedro, in modo infinitamente più sottile che nella VII Lettera, come ha dimostrato brillantemente Hösle, Interpretare Platone, cit., pp. 219 ss. 114 Come è noto, gli studiosi afferenti alla Scuola di Tubinga considerano rilevante testimonianza sulle “dottrine non scritte” di Platone quanto Aristotele scrive, in polemica col suo antico maestro, in particolare nei libri I, XIII e XIV della Metafisica. 115 Come osserva Hösle appare un «ragionevole canone ermeneutico [...], quando ci si avvicina a un autore, riflettere molto scrupolosamente su ciò che egli stesso scrive della [sua] interpretazione» (Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 53; cfr. anche ivi, p. 73). 116 Mi riferisco, ad esempio, alle celebri tesi di Havelock sul passaggio dall’oralità alla scrittura, in particolare al saggio The orality of Socrates and the literacy of Plato: with some reflections on the historical origins of moral philosophy in Europe, in New Essays on Socrates, Lanham/New York/ London: Kelly, 1984, pp. 67-93. 112

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non storica; e non riguarda tanto il rapporto tra oralità e scrittura quanto il rapporto, fondante, tra verità e linguaggio. Quando Platone fa dire a Socrate nel Fedro

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Le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. [...] Prevaricato ed offeso oltre ragione [il discorso scritto] ha sempre bisogno che il vero padre gli venga in soccorso, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi117. mostra un limite del linguaggio in generale, che la scrittura ha solo il pregio di rendere trasparente. Se tu non capisci quello che scrivo o dico quando scrivo o dico «buh», puoi certamente chiedere a me (che sono il “padre” del “buh”) che cosa intendo. Non importa che “buh” sia la parola scritta in un romanzo oppure l’esclamazione a cui mi abbandono durante un dialogo oppure un’espressione contenuta in un mio sms. Se non capisci non capisci. Devo venirti in soccorso (boethêin118). Ma c’è un problema. Devo venirti in soccorso “a parole” (“nei fatti” potrei soccorrerti ben poco, se non ti soccorri da solo, come si dice quando si dice: «Aiutati! che Dio ti aiuta»). Ora, per quanto io parli, parli, parli, è possibile che tu continui a non intendermi oppure a fraintendermi (il che – peraltro – potrebbe anche essere il risultato ermeneuticamente più pregevole, se il modo in cui mi fraintendi ti aiuta a vivere meglio, ad esempio). Per esempio, potrei dirti che per “buh” intendevo, con il mio amico Quine, “gavagai”119, tutto chiaro adesso? 117

Platone, Fedro, 275d. È stato Thomas Slezák (cfr. Slezák, Come leggere Platone, cit., pp. 85 ss.) a sottolineare le importanti valenze di questo termine nei dialoghi platonici, come spia dell’incidenza in questo o quel passo di qualche “dottrina non scritta”. Il soccorso, in particolare, è secondo Slezák «il procedimento seguito dal conduttore del dialogo […] che consiste nel difendere il proprio lógos sottoposto a critica, tralasciando momentaneamente il tema e procedendo sulla via della conoscenza dei Principi, per poter così mostrare in teoremi ‘di livello superiore’ la base stabile del lógos originario» (ivi, p. 89). Slezák non ha sottolineato, però, che il verbo “boethêin”, in greco, significa letteralmente “correre (thêin) a seguito di un grido (boáo, da cui in italiano “boato”)”, il che si può anche (fra)intendere “scappare a seguito di un boato”. Chissà che a Platone non fosse del tutto estraneo il risvolto comico di una simile situazione “ermeneutica”, in cui chi dovrebbe “spiegare” quello che ha detto o scritto se la dà a gambe levate... 119 Alludo al celebre esempio di parola pronunciata in una lingua sconosciuta, attraverso il quale Quine, in Parola e oggetto, tr. it. Milano: Il Saggiatore, 1996, mostra tutta la difficoltà 118

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Sì e no, “depende”120, come dice la canzone. Dipende da che cosa? Da quello che tu sei in grado di intendere da solo, del tutto indipendentemente, caro amico, da quello che io “ti scrivo e ti dico” (come dice un’altra canzone). “Intendere”. Ecco il verbo che rende al meglio il greco noêin, che in genere si traduce, invece, “pensare” (termine che fa equivocamente... pensare, appunto, al mero “opinare”). Ora, ad esempio, è soltanto una “dottrina di Platone”, una sua “opinione” quella che, nella Repubblica, come abbiamo più volte richiamato, gli fa distinguere questo intendere (il noêin, appunto, il noûs) dal ragionare (dal diànoêin, dalla diá-noia, che, con una deliberata forzatura, potremmo rendere come fra-intendere, ossia come un’attività in cui si passa di “intendere” in “intendere”, nella quale, cioè, è sempre in gioco un intendere, ma nella quale non si è mai sicuri di quello che veramente si intende, perché non si è mai sicuri di intenderne i presupposti)? Platone sta sviluppando la sua famosa “dottrina”delle idee121 o ci sta semplicemente ricordando che, comunque, noi qualcosa, misteriosamente, intendiamo, anche se niente nella forma del linguaggio che ci viene rivolto riesce a spiegare come ciò sia possibile? Lo aveva già detto in modo insuperabile il sofista Gorgia: Quello che uno vede, come mai potrebbe esprimerlo con la parola? O come mai questo potrebbe divenir manifesto a chi lo ascolta, senza della comprensione di ciò che viene pronunciato in una lingua diversa dalla nostra; nodo che non si può affatto sciogliere attraverso l’ingenua evocazione di un preteso “referente” oggettivo del termine sconosciuto (né, evidentemente, ricorrendo a una semplice “traduzione”, di cui bisognerebbe sempre di nuovo verificare l’attendibilità). 120 Anche se l’insigne filosofo praticante del nostro tempo Oscar Brenifier, seguace involontario del sofista Eutidemo, protagonista dell’omonimo dialogo platonico, ci vieterebbe, probabilmente, di dire “dipende”, costringendoci a rispondere sempre solo “si e no” (cfr. Eutidemo, 294bd), sembra proprio che in filosofia tutto dipenda da una cosa: dal grado di comprensione che si ha di quello di cui si parla. 121 Come nota opportunamente Hösle, le idee sono un esempio dell’esplicazione e della riflessione della filosofia intorno alle proprie “condizioni di possibilità” (cfr. Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 202): dunque attengono alla sfera dei presupposti metodologici assai più che a quella degli “oggetti” di conoscenza positiva. Come avverte anche Duso: «L’idea non è in realtà ciò su cui verte la domanda, non è l’oggetto che bisogna conoscere, e proprio perciò non appare una possibile risposta adeguata a tale domanda, cioè una definizione adeguata di essa. Si può invece dire che essa è ciò che permette l’interrogare stesso [...] Da ciò deriva l’impossibilità che si dia una dottrina delle idee, una scienza di esse che le riduca a contenuto del processo logico. Il non darsi di una dottrina delle idee fa tutt’uno con il mantenimento della rappresentazione, che, lungi dall’essere soppiantata dalla scienza e dal lógos, permane strettamente congiunta con l’ambito della verità. Un sapere scientifico perfettamente adeguato ai propri oggetti eliminerebbe la rappresentazione, ma ciò proprio a patto di rinunciare al problema della verità» (G. Duso, La rappresentazione e l’arcano dell’idea, cit., p. 50).

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averlo veduto? Infatti, come neppure la vista non conosce i suoni, così neppure l’udito ode i colori, ma i suoni; e certo dice, chi dice, ma non dice né un colore, né un’esperienza. Quello, dunque, che uno non concepisce, come potrà mai concepirlo in seguito all’intervento di un altro per mezzo della parola di costui?122. Dunque, poiché di fatto noi intendiamo, anche se non intendiamo perché intendiamo (del resto non intendiamo molte altre cose, ad esempio perché esistiamo), disponiamo di quella cosa misteriosa che si chiama noûs o intelligenza. Si tratta di una “dottrina di Platone” o di una sua “opinione”? No, si tratta della condizione di possibilità del pensiero (anche del mio e del tuo, di te che leggi queste righe) e, quindi, del dialogo (filosofico), in quanto questo sia qualcosa di diverso da uno scambio alternato di aria calda tra homines sapientes. E non c’è modo di farti comprendere qualcosa, per quanti ragionamenti io metta in campo (per quanto mi sforzi di di-mostrartelo), se tu non riesci a intendermi. Non c’è modo di far comprendere, ad esempio, a un cieco che cosa intendiamo per “rosso” o a chi non è mai stato innamorato che cosa significa innamorarsi123. La diá-noia, del resto, come suggerisce la parola stessa, presuppone il noûs, non viceversa. Come devo fare, quindi, per soccorrerti nella comprensione di quello che ti scrivo e ti dico? Non si tratta, da parte mia, solo o tanto di aggiungere parole a parole, dottrine (orali) a dottrine (scritte), quanto di esercitare, se ne sono capace, l’arte maieutica, affinché tu possa autonomamente intendermi, se lo puoi124. L’esoterismo ineludibile della filosofia consiste semplicemente in questo: nulla può venire veramente detto, il cui senso possa essere compreso, se colui 122

Gorgia, fr. 3 bis (Diels-Kranz). Il che mostra che non tutto, in filosofia, può essere oggetto di argomentazione, ma che in principio deve esserci l’intuizione, come ci ha ricordato, nel Novecento, quel cripto-neoplatonismo che è andato sotto il nome di “fenomenologia”. 124 Ciò è in linea con l’approccio propriamente socratico alla verità morale. Come nota Hösle, dal momento che il nuovo criterio morale «richiede che la propria scelta morale non sia più fondata sull’autorità, ma sull’autonomia della propria ragione, paradossalmente Socrate avrebbe ostacolato la vittoria di questo principio nella società attica, se a lui fosse riuscito di imporre questo principio ai suoi concittadini. Il nuovo principio morale doveva svilupparsi dall’interno e l’unica cosa che Socrate poteva fare era favorire il suo sviluppo, così come una levatrice aiuta un bambino a nascere. Questa è probabilmente la ragione per cui egli tendeva a limitarsi a porre domande e per cui non si servì della scrittura» (Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 96). 123

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a cui ci si rivolge non è in grado di pervenire autonomamente alla medesima comprensione (abbia i giusti occhi e il giusto cuore per vedere)125. Ecco perché si può ben dire che non ci sono propriamente dottrine126 platoniche, né scritte, né non scritte. Non ci sono, cioè, dottrine né essoteriche, né esoteriche, ma c’è solo un metodo, quello del dialogo, per aiutare chi lo desidera a raggiungere il massimo grado di comprensione di cui è capace. Poiché non tutti sono capaci di intendere tutto, c’è chi resta fuori da certe comprensioni e chi, invece, può esservi iniziato. Naturalmente, ciascuno può conseguire un grado più avanzato di iniziazione (di comprensione) se l’esperienza, nel corso della vita, lo fa maturare a sufficienza, crescere adeguatamente in conoscenza127. Il medio-platonico Albino paragona, non a caso, le “dottrine” di Platone «alla perfetta figura circolare che non ha alcun punto di partenza» (o, potremmo dire, “di appiglio”) e considera «la risposta che egli dà (una risposta che varia a seconda dei diversi lettori)» qualcosa che «ha a che fare con i destinatari dei dialoghi, ma assolutamente non con il loro autore»128. In ultima analisi, non c’è una “filosofia” di Platone se per “filosofia” intendiamo un corpus dottrinale. Ci sono, certamente, numerose ipotesi che 125 Slezák distingue a questo proposito tra “esoterica” e “segretezza”. «La segretezza poggia sull’obbligo, e la sua trasgressione provoca sanzioni. [...] Lo scopo della segretezza è il raggiungimento o il mantenimento del potere della lega che mantiene il segreto. [...] L’esoterica non poggia sulla costrizione, bensì sulla conoscenza» (Slezák, Op. cit., p. 162). Tuttavia Slezák sviluppa questa giusta distinzione in una direzione discutibile: «Alla trasgressione del riserbo esoterico non seguono sanzioni, ma la perdita della considerazione di colui col quale si fa filosofia» (ibidem). Non escludo che Platone prevedesse anche questa sorta di “sanzione morale”, da parte della comunità dei filosofi o dei suoi capi. Tuttavia mi sembra che cardine dell’esoterismo filosofico consista, epistemologicamente parlando, nell’impossibilità, per chi non possiede la giusta elevazione intellettuale, semplicemente di comprendere quanto viene via via enunciato. Il grado di “iniziazione” ai “misteri” filosofici, in altre parole, concerne una dignità assegnata (o negata) a un soggetto, non tanto da qualcun altro, d’autorità, quanto da sé medesimo, dalla sua propria capacità di intendere o non intendere (noêin) il mondo. 126 Quelle che appaiono “dottrine” – l’intellettualismo socratico (vedi supra § 15) o la teoria delle idee (vedi anche supra § 17), ad esempio – ci si sono rivelate non tanto “opinioni” di Socrate o Platone, quanto condizioni irrinunciabili dell’esercizio dialogico (non avrebbe senso chiedere ragione di un comportamento, se si presupponesse che fosse possibile fare qualcosa senza ragione; non si può cercare di sapere che cosa sia qualcosa, senza presupporre una relativa “stabilità” dell’oggetto di ricerca ecc.). 127 In questa prospettiva è del tutto indifferente sapere se l’esperienza ci faccia “crescere” perché ci fornisce nuove conoscenze, secondo il paradigma dell’empirismo, o perché ci fa “ricordare” (anámnesis) qualcosa che già conoscevamo in una “vita precedente” o nel “mondo delle idee”. Facciamo senz’altro esperienza del frutto dell’esperienza. Il modo in cui ci raccontiamo il modo in cui questo frutto “matura” può benissimo essere ascritto a mito. 128 Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 52 (che riassume Albino, Prologos, capp. IV e V).

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Platone mette in bocca a questo o quel personaggio, di diverso livello o profondità, ma nessuna “dice la verità”, per il semplice fatto che la verità non è materia del dire, ma dell’intendere. E ci sono testi platonici, più o meno autentici (ma, nella nostra prospettiva, la cosa ha scarsa rilevanza), paragonabili a un “messaggio nella bottiglia”129, destinato a solcare l’oceano della storia e a venire decodificato da chi lo riceve alla luce delle sue proprie conoscenze130. Dunque è bensì vero che, leggendo Platone, «il lettore non riesce a liberarsi dell’impressione che dietro la superficie del discorso, ad un livello più profondo del dialogo, lo attendano ulteriori rivelazioni che a Platone erano assolutamente chiare, ma che sono agli occhi del lettore del tutto oscure – proprio alla maniera dal Sileno descritto nel Simposio»131. Ma dobbiamo intendere queste “rivelazioni” come “opinioni” di Platone stesso, deliberatamente taciute? Gli argomenti della Scuola di Tubinga a favore del fatto, attestato da Aristotele, che Platone presentasse alcune “dottrine” solo oralmente a chi avesse avuto la capacità di intenderle, sembrano certamente convincenti. Ma ci dobbiamo chiedere: si tratta di “dottrine” a cui Platone personalmente aderisse come a “verità” nascoste o, più semplicemente, ipotesi di più alto livello, su cui esercitare i soli allievi che ne fossero in grado, affinché essi potessero conseguire conoscenze precluse ad altri, conoscenze, tuttavia, non coincidenti con queste ipotesi stesse, non foss’altro perché le “ipotesi” non potevano che venire linguisticamente espresse, mentre la conoscenza è questione di intelligenza? Se nei dialoghi scritti (verosimilmente modellati sull’insegnamento orale) Platone «continuamente incita il lettore a sviluppare linee di pensiero che egli abbozza soltanto»132, non si sarà comportato diversamente nell’insegnamento orale, a meno di non sconfessare la funzione dell’arte maieutica così ben tratteggiata nel Teeteto, nonché le indicazioni sul rapporto linguaggio – verità contenute tanto nel Fedro quanto nella VII Lettera, così epistemologicamente convincenti anche per noi. Possiamo, certamente, ammettere, in altre parole, che, come dice Hösle, in Platone vi siano “diversi livelli di fondazione”133 e che alcuni di questi 129

Cfr. Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 81. Come nota Hösle: «Forse questa è la cosa più grande nei dialoghi filosofici: anche se mettono in pericolo la ricostruzione e la stabilità delle opinioni del loro autore, essi consentono una forma molto più complessa di ricezione» (ivi, p. 136). 131 Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 15. 132 Ibid. 133 Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 80. Ciò riguarda anche soltanto le opere scritte. Platone le compone «in modo che esse non dicano apertamente tutto ciò che egli sa o crede di sapere; esse tengono conto delle capacità del lettore, l’ordine di successione della loro pubblicazione 130

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“livelli” siano stati oggetto di esercitazioni esclusivamente “orali” (la famosa “dottrina dei principi” a cui allude Aristotele e su cui insistono gli interpreti della Scuola di Tubinga), ma, come nota lo stesso Hösle, distanziandosi dal rigido paradigma tubinghese, seguito invece rigidamente da Szlezàk, Platone «non crede che la sua pretesa di verità si fondi sull’autorità. Platone pensa evidentemente che una persona che sia intelligente e si sottoponga allo studio che viene proposto nei libri centrali della Repubblica [dove si distingue tra sapere noetico e sapere dianoetico] avrà intuizioni simili alle sue, se ha una mente e un carattere adeguato (si veda VII Lettera, 341e)»134. D’altra parte sarebbe stato paradossale che Platone affidasse a dottrine sistematiche, esposte tramite lunghi monologhi (oggi diremmo: a lezioni frontali, a conferenze), la comunicazione della “verità”, dopo avere tanto insistito (anche nella VII Lettera, fonte decisiva per la ricostruzione delle “dottrine non scritte”) sull’insostituibilità del dialogo vivente e, perfino, di una «vita in comune»135; al punto che i suoi stessi dialoghi scritti, stesi secondo ogni probabilità a imitazione di quelli orali, sono contraddistinti da «aspetti performativi», concernenti la «comunicazione tra le persone del dialogo», assolutamente necessari all’intelligenza del loro significato. Senza tali aspetti performativi, infatti, «un dialogo sarebbe inutile, sarebbe stato sufficiente un trattato che contenesse l’esposizione di una tesi e la sua confutazione»136 (o, possiamo aggiungere, un lungo monologo, magari riservato a pochi iniziati). «Ma forse Platone non intendeva proprio questo...». «E che importa?». C’è un altro modo sensato in cui noi possiamo intendere quello che Platone ha scritto, del tutto indipendentemente da quello che Platone intendesse? Platone non ci “dice” il suo “pensiero”, la sua “dottrina”. Platone, costringendoci a pensare, ci costringe a determinate intuizioni, se vogliamo che quello che leggiamo conservi per noi un senso. Ebbene sì! Sono d’accordo con Platone. Confesso di “ignorare ciò di cui lui si occupava”, “non l’ho ascoltato da lui, né da altri (Aristotele o i Tubinghesi), né – forse – l’ho scoperto da solo” (perché questo avrebbe richiesto un grado di comprensione del mondo – e, perché no, un grado di maturazione morale – che magari ancora non possiedo). Ho scoperto, però, con il soccorso di me stesso e grazie ai vincoli del testo di Platone, che non ci sono alternative: noi ci intendiamo tra noi (sia che parliamo, sia che scriviamo) anche se non sappiamo perché (e anche se non siamo mai sicuri di capirci è determinato [quindi] anche da un programma pedagogico» (ivi, pp. 135-36). 134 Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 81. 135 Cfr. Platone, Lettera VII, 431b. 136 Hösle, Interpretare Platone, cit., p. 130.

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del tutto). E questo basta per fare, tra noi, filosofia. Imitando Platone e alla faccia del suo divieto di seguire le orme della sua scrittura. Sotto questo profilo, strettamente epistemologico, suggerito da Platone, ma verificato da noi stessi in prima persona, non si tratta neppure, quindi, di discutere se vi siano (state) o meno dottrine platoniche, scritte o non scritte (ágrapha dógmata). La verità è che non ci sono dottrine, capaci per se stesse di essere vere o false, tout court, né platoniche, né non platoniche. Il fare filosofia di ogni tempo e, in modo particolare, l’esercizio filosofico di cui si dà prova nel seno di una moderna pratica filosofica, quale è la consulenza filosofica, mostra l’inconsistenza della stessa nozione di “dottrina”, in quanto dógma (ágraphon o gegramménon, non scritto o scritto che sia), “opinione”. Qualsiasi opinione – come suggerisce l’esperienza del filosfare – si risolve in qualcosa che si “credeva di credere”137, ma che, ad approfondirla, si rivela infondato, qualcosa che è ogni volta diverso da ciò che appariva inizialmente, via via che si sviluppa l’organismo dia-logico. E tutto questo lascia un “resto”, un residuo di verità incomprimibile, esperibile, ma non dicibile138, che, nel caso migliore, ti trasforma la vita. Come quando ti innamori (di una bellezza che non coincide con nessuna “cosa bella”, conosciamo tutti il seguito...).

Riferimenti bibliografici Achenbach G., La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, tr. it. Milano: Apogeo, 2004. Colli G., La sapienza greca, Milano: Adelphi, 1990. Contesini S., Frega R., Ruffini C., Tomelleri S., Fare le cose con la filosofia. Pratiche filosofiche nella consulenza individuale e nella formazione, Milano: Apogeo, 2005.

137 Cfr. quanto Socrate, nel Simposio, induce Agatone ad ammettere: «Temo proprio di aver parlato senza sapere quel che dicevo» (201c). 138 Sulla trascendenza della “verità” rispetto a qualsivoglia tentativo di “catturarla” nella ragnatela della rappresentazione che ce ne facciamo, ivi compresa quella messa in atto dal discorso filosofico, cfr. ancora Duso: «La [...] filosofia appare come processo di partecipazione al fondamento, come pratica, che coinvolge totalmente il soggetto in una dimensione in cui il vero è inteso come non risolto nel soggetto stesso, ma appare trascenderlo. La dimensione oggettiva della verità è legata alla dimensione soggettiva e pratica della partecipazione, e in questo processo l’elemento simbolico della rappresentazione ha un ruolo determinante. Quando si perde tale dimensione simbolica e di pratica filosofica i simboli della filosofia diventano immagini in senso ambiguo e nasce la metafisica, [...] la riduzione [...] dell’esperienza che si ha dell’idea in un insieme dottrinale di concetti e definizioni strutturanti un sapere che pretende per sé il possesso della verità» (G. Duso, La rappresentazione e l’arcano dell’idea, cit., p. 52; vedi anche E. Voegelin, Anamnesis. Teoria della storia e della politica, tr. it. Milano: Giuffré, 1972, p. 220).

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Cosentino A., Filosofia come pratica sociale, Milano: Apogeo, 2008. Derrida J., La farmacia di Platone, tr. it. Milano: Jaca Book, 2007. Duso G., La rappresentanza: un problema di filosofia politica, Milano: Franco Angeli, 1988. Emerson R. W., Plato or The Philosopher, in Representative Men, Cambridge (Massachussets): Harvard University Press, 1996. Foucault M., Discorso e verità nella Grecia antica, tr. it. Roma: Donzelli, 2005. Gadamer H. G., Verità e metodo (1960), tr. it. Milano: Bompiani, 1983. Hadot P., Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it. Torino: Einaudi, 1988. Hösle V., Interpretare Platone, Milano: Guerini, 2007. Krämer H. J., La nuova immagine di Platone, Napoli: Bibliopolis, 1987. Lahav R., Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, tr. it. Milano: Apogeo, 2004. Lucio R., La rivoluzione dimenticata, Milano: Feltrinelli, 2003. Martini M. L., Orizzonte e linguaggio. I confini dell’esperienza del mondo nel pensiero di HansGeorg Gadamer, Milano: Mursia, 2006. Quine W. V. O., Parola e oggetto, tr. it. Milano: Il Saggiatore, 1996. Raabe P., Teoria e pratica della consulenza filosofica. Idee fondamentali, metodi e casi di studio tr. it. Milano: Apogeo, 2006. Reale G., Storia della filosofia antica, Milano: Vita e Pensiero, 1984. Regina L., Consulenza filosofica: un fare che è pensare, Milano: Unicopli, 2006. Schuster S., La pratica filosofica. Una alternativa al counseling psicologico e alla psicoterapia, tr. it. Milano: Apogeo, 2006. Slezák T., Come leggere Platone. Un nuovo canone per affrontare gli scritti platonici, Milano: Rusconi, 1991. Vlastos G., Socrate, il filosofo dell’ironia complessa (1991), tr. it. Firenze: La Nuova Italia, 1998. Voegelin E., Plato (1966), tr. it. Ordine e storia, Bologna: ll Mulino, 1986. Zampieri S., Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita quotidiana, Milano: Mimesis, 2010.

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Sostare, in ascolto. Note in margine ad una esperienza di pratica filosofica

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di Emanuele Cecchinato

1. Sostare nel silenzio. Un esercizio di disattenzione [...] il linguaggio è una potenza d’errore, giacché recide il tessuto continuo che ci unisce vitalmente alle cose e al passato, e si installa fra questo e noi come uno schermo. Il filosofo parla, ma è una sua debolezza, e una debolezza inspiegabile: egli dovrebbe tacere, coincidere in silenzio, e raggiungere nell’Essere una filosofia che vi è già fatta. Viceversa, tutto avviene come se egli volesse tradurre in parole un certo silenzio che è in lui e che egli ascolta. La sua intera ‘opera’ è questo sforzo assurdo. Il filosofo scrive per dire il suo contatto con l’Essere; ma non l’ha detto, e non potrebbe dirlo giacché questo contatto è tacito. Allora egli ricomincia....1. M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile

Questo breve saggio si occupa dei presupposti che hanno reso possibile un’esperienza di pratica filosofica svolta in gruppo. Essa porta il nome di Esercizi di disattenzione. Si tratta di descrivere quell’esperienza e i presupposti che l’hanno resa possibile e praticabile. Il tema – problema dell’ascolto e del suo inverarsi nel dialogo è il fatto concreto che ha mosso questa situazione di prassi filosofica. Se l’ascolto è ciò che libera davvero un dialogo nella sua forza partecipativa, nel suo darsi come attività umana capace di liberare dall’isolamento, dalle solitudini, possiamo chiederci come possa rafforzarsi tra i dialoganti, in una situazione attraverso cui sia preso in carico con una certa cura. Si è trattato di costruire e condividere tale prassi perché fosse scandita dalla libertà dei partecipanti verso i temi proposti, e con la premessa che essi potevano stare dentro l’apertura di una pratica di compartecipazione effettiva e profonda.

1

M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, Milano: Bompiani, 1969, p. 143.

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Non è facile ascoltare, tenere ferma l’attenzione sul discorso che già altri pongono e ci muovono attorno, in modo che esso possa suonare bene per noi e noi stessi lo possiamo intendere bene, nella sua logica di pensiero ed anche nella voce di chi lo esplicita come fisicità corporea di soggetto singolo. Giacché il nostro ascolto lavora secondo queste due dimensioni, integrandole e sfumando da una all’altra, per continui rimandi. L’Io singolo e gli altri vivono in una rete di rimandi dialogici reciproci ininterrotta, anche quando domina un silenzio. Questo singolare/plurale evidenzia una falsa dualità che si compenetra passando da questi due poli (illusori) attraverso domande, questioni, risposte, tentativi di comunicazione, fino a che il soggetto stesso (come una sorta di autocoscienza) non si dilegua proprio dentro la rete di tali rinvii infiniti. Esso trascolora dentro le voci che vivono nel dialogo e, ancora, si disperde in una ricerca di senso che dipende, a un certo punto, dai diversi possibili che idee, pensieri scoprono e mettono in moto, come prolifici possibili da ascoltare, nella disposizione – situazione del dialogo. La risonanza di una conversazione collettiva tiene uniti in una costellazione di interventi e di potenzialità d’ascolti. In questo caso il soggetto intenzionale e autoriflessivo dovrebbe essere, per così dire, alleggerito dal peso della sua singolarità. Esso fa capo ad un ascolto attivo, a un atto di volontà che tiene fermo e, forse, chiuso, andando verso una apertura (non sempre consapevole) che lo terrà attivo in moto perpetuo: esso riceve dei richiami e manda dei feedback alla voce del gruppo. Quest’ultima è una voce che ha una sua tonalità, un timbro corale che fa capo più all’udito che all’ascolto volontario e cosciente. Questo, l’udito, non è il singolo udito. Certo, è in gioco il singolo orecchio, sì, ma anche, fortemente, un padiglione auricolare di gruppo che vibra come un timpano intonato sulla discussione, per espansioni e contrazioni: respira, come un’architettura in grado di ospitare/spaziare, secondo modi non commensurabili, i corpi e le voci dei parlanti. Questo udito e il timbro del gruppo condizionano il singolo, per cui esso non può rapportarsi a sé stesso come soggetto senza i feedback che gli altri danno e ricevono. L’udito trascina con sé il soggetto che ascolta, con una porzione di inconscio che plasma il soggetto singolo e lo de-singolarizza, lo rende parte legata al gruppo. Questa tensione tra udito e ascolto cosciente rinvia il soggetto da sé agli altri e viceversa. Se, come dice J.-L. Nancy, nel suo testo All’ascolto, «[…]il soggetto della messa a fuoco intenzionale è sempre già dato, collocato in se stesso stando nel proprio punto di vista, il soggetto dell’ascolto è sempre ancora da venire,

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sostare,

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spaziato, attraversato e chiamato a se stesso, suonato da se stesso»2, come posso, allora, coniugare il soggetto dialogante “intenzionale” con quello che ascolta “spaziato – suonato”, dalla propria voce e da quella degli altri, nell’incedere del discorso partecipato, per quei possibili dell’ascolto che sempre emergono e fanno la voce del dialogo, quella voce che sta tra i dialoganti li afferra e li scuote, li fa vibrare anche nel pensato? Come posso conservare un soggetto filosofico e un soggetto parlante, acustico ed emozionale, nello stesso spazio dialogico di senso, se voglio ascoltare il filosofo, quando mi pone il problema del dialogo e della voce dei presenti, secondo la seguente affermazione? Il soggetto dell’ascolto o il soggetto all’ascolto (ma anche quello che è “soggetto all’ascolto” nel senso in cui può si essere soggetti a un’affezione e a una crisi) non è un soggetto fenomenologico, cioè un soggetto filosofico e anzi, in definitiva, non è forse un soggetto, ma il luogo della risonanza, della sua tensione e del suo rimbalzo infiniti, l’ampiezza del dispiegamento sonoro e la ristrettezza del suo simultaneo ripiegamento – attraverso cui si modula una voce nella quale vibra, ritirandovisi, la singolarità3.

Si trattava di tematizzare in modo profondo l’ascolto nel dialogo, attraverso una pratica, coniugando questi due soggetti. Ma in che modo? Come si poteva alleggerire il soggetto parlante dal peso della sua individualità e portarlo in una zona di lavoro su di sé, che facesse da ponte verso gli altri in modo non convenzionale? Ho pensato ad una strategia che mettesse in gioco il motivo dell’interruzione, della disattenzione nel silenzio. Si poteva mettere in crisi il dialogare stesso come gesto sicuro, e quindi creare le condizioni per saggiarne la solidità o la provvisorietà della partecipazione. Il risultato, o le conseguenze, sull’iter di lavoro potevano variare trovando approdi non previsti. Era possibile interrompere, a tratti, il dialogo con un accorgimento particolare e consegnarlo al silenzio. I dialoganti potevano sostare dentro isole di silenzio che avessero la funzione, non dichiarata in anticipo, di aprire qualcosa dentro ognuno di loro in una partecipazione attiva e passiva come umani ascoltanti. Il dialogo poteva essere interrotto di tanto in tanto per fare silenzio, secondo pause prestabilite e riprendere dopo queste. Partecipare, dialogare, assentarsi a tratti, da una presenza soggettiva, e pseudo-oggettiva, che possa intendere il flusso dialogico come una freccia che va avanti nel tempo 2 3

J. L. Nancy, All’ascolto, Milano: Raffaello Cortina Editore, 2004, p. 34. Ivi, p. 35.

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secondo una scansione orizzontale: tale era il proposito di questo iter. Per poterlo fare-praticare era necessario operare delle sospensioni rispetto al flusso dialogico. Tali sospensioni, soste, pause servivano a mettere il pensiero nella condizione di “pesare” 4 di meno. Per fare questo era necessario aprire

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In merito all’idea del pensiero come “peso” si veda di J.-L. Nancy Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, Milano-Udine: Mimesis, 2009; il testo del filosofo argomenta l’idea che il pensiero, provando ad afferrare le cose del mondo, anche per mezzo del corpo del soggetto senziente – pensante, ne senta il peso: «Così come si pensa con cervello e nervi, braccia e mani, ventre e gambe (la prova più semplice: pensare affatica); del pari ciò che si pensa, il contenuto dei nostri pensieri, è materiale, fisico, tangibile, sensibile in tutti i sensi, può essere provato, viene provato – molto spesso mette a dura prova». Ed ancora: «(…) la consistenza pesante del pensiero è inseparabile da un approssimarsi senza fine. Il pensiero tocca l’oggetto fin dall’inizio: lo pensa proprio perché l’ha sentito, sfiorato, anche un po’ afferrato, maneggiato: ma tutto ciò ha spinto l’oggetto un po’ più lontano: nella distanza, appunto, di ciò che resta da pensare. Nella distanza di un dare – da – pensare che è il dono proprio di ogni cosa del mondo (…) il pensiero è proprio questa gravità e questo sottrarsi. Esso non < cerca> perché ha già raggiunto il suo oggetto: piuttosto prova il suo peso e il modo in cui gli si sottrae» (p. 10). Nancy porta poi il suo testo verso l’etimologia della parola pensare e pesare: «La voce latina pensare significa pesare, stimare, valutare (…). È una forma intensiva di pendo: soppesare, fare o lasciar pendere i piatti di una bilancia, pesare calcolare, pagare e, secondo la modalità intransitiva, pendere, essere pesante. Il pensiero – il pens, il pensement – verrà più tardi (‘Pens’: Voce provenzale, penso)» (p. 11); ed ancora «Indubbiamente facciamo esperienza del peso del pensiero. Talvolta la pesantezza, la gravità di un ‘pensiero’ (‘idea’, ‘immagine’, ‘giudizio’, ‘volizione’ ecc.) ci grava con una pressione e un’inclinazione percepibile» (ivi p. 11).In merito alla forma intensiva di ‘pendo’ ” relativa all’ ‘inclinazione’ del pensiero, si veda anche il breve testo di G. Agamben, La fine del pensiero, Paris: Le nouveau commerce, 1982, in cui il filosofo tocca il tema del ‘peso’ scrivendo: «Che cosa sta in sospeso, che cosa “pende” nel pensiero? Pensare, nel linguaggio, noi lo possiamo solo perché il linguaggio è e non è la nostra voce. […] Che il linguaggio sorprenda e anticipi sempre la voce, che la pendenza della voce nel linguaggio non abbia mai fine: questo è il problema della filosofia (Come ciascuno risolva questa pendenza è l’etica)» (pp. 3-4). Se il linguaggio «è e non è la nostra voce», come vuole Agamben, questo accade perché nel momento in cui parliamo (o siamo parlati dalla voce), la voce stessa è già cosa persa. Essa svanisce nel mezzo in cui si propaga (l’aria, l’atmosfera), a causa della dispersione fisica di cui è capace il mezzo stesso, come veicolo dell’energia sonora dalla fonte sonora d’origine, con il suo attacco, sostegno e decadimento di segnale acustico. La voce, il suono in generale, è sempre l’ascolto della lontananza del segnale iniziale. Noi ascoltiamo solo lontananze che tornano a noi sotto forma di echi, rimandi da decifrare negli spazi fisici che possiamo occupare come corpi. Ecco che, forse, possiamo davvero dire che il pensiero porta il peso della lontananza della voce e lo riflette in forma dialogata tra gli umani. Così essa stessa trascina sempre con sé il suo fantasma: il suo spettro sonoro (il termine in uso nella conforme rappresentazione grafica, che i mezzi digitali di oggi ci mettono a disposizione attraverso degli spettrogrammi); a questo trascinamento non può sfuggire: esso stesso, come gesto che porta un peso, lo trascina, lo insegue, indica colui che parla come soggetto che ha il suo timbro vocale come proprio carattere e perdita di senso, difficoltà di riafferrare come parola – suono nel dialogo il proprio sé, disperso. Il linguaggio potrebbe essere davvero la lontananza della voce nello scambio

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dei vuoti-silenzi nell’ascolto. Svuotare il dialogo di senso parlato, proprio perché si fa silenzio e non si sta ascoltando più la voce degli astanti, poteva comunque voler dire che si acquisiva un senso altro, uno spazio altro di condivisione. La costellazione di silenzi che si aprono durante il dialogo quindi pone il problema dell’ascolto tra gli astanti: li immette nel silenzio, affida la loro voce ad esso quando risuona ancora delle loro domande, risposte e riflessioni in un gioco di specchi acustici, superfici sonore di riverbero compresenti, per cui ognuno si ritrova in una dimensione oggettiva di sospensione evocativa, in cui ogni ascolto personale si dispiega e si trova, forse, in quello degli altri come possibilità. In tale spazio la parola non esercita più la funzione significante rassicurante che delinea un percorso. Essa lascia il campo di esperienza del gioco tra le voci in atto al vuoto dell’attesa. Da una parte il soggetto dialogante può chiudersi in sé e lasciar riverberare internamente i suoi pensieri, dall’altra uscire fuori di sé e lasciarsi ri-suonare dall’eco delle parole degli altri. In questi due casi, comunque, lo spazio del dialogo messo in silenzio, interrotto e consegnato al rischio della disattenzione doveva pur avere un effetto di allentamento della tensione dialogica lineare, per dare luogo ad un’altra tensione: come se da un centro, non bene identificato, ma pur appartenente al gruppo di lavoro, potesse irradiare una zona di risonanza capace di aprire per tutti il luogo più vero e, forse, più vuoto e pieno, perché, potenzialmente, carico di possibili. Il carattere filosofico della situazione dialogica viene dichiarato agli invitati dal sottoscritto secondo una forma molto semplice: si tratta di affrontare l’argomento scelto seguendo una logica che ecceda volentieri il personale, oppure dove l’impianto soggettivo di giudizio o di analisi sulla realtà delle cose ceda volentieri il passo alla possibilità che esso venga condiviso. Condividere non significa che tutti devono essere d’accordo su questo o quel punto di vista, o d’ascolto, ma, semplicemente, che si accetti che il dialogo

infinito del suono tra i suoni-voci dei parlanti. Fare attenzione a questo significa decidere davvero cosa ne vogliamo fare della nostra voce, di quella degli altri, che è nel linguaggio riconosciuto dagli umani, proprio perché ci appartiene come gesto di ri-conoscimento, perpetuato infinite volte. Lo spazio di questo ri-conoscersi, avvicinarsi-allontanarsi gli uni dagli altri nel linguaggio è un gesto etico di ascolto che ci riguarda, perché essendo la nostra eco-timpano ci fa vibrare tutti assieme. Proviamo a pensare, inoltre, che se il fenomeno fondamentale, utile alla propagazione di un suono è proprio la riflessione determinata dall’incontro di un’onda sonora con un ostacolo (per cui si può parlare di onda incidente e onda riflessa, e quindi di conseguente riverbero ed eco), allora possiamo dire che nel dialogo noi stessi siamo fruttuoso ostacolo di riflesso-riflessione gli uni sugli altri.

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lInguaggIo: dIalogo, argomentazIone, InterpretazIone

è portatore di libertà e di reale partecipazione solo se si approda ad un multiverso di situazioni in cui, attraverso cui ci si possa misurare per uscire dagli angusti limiti dell’Io. Non è inevitabile che si debba per forza arrivare, durante il confronto, a delle conclusioni, o a delle risposte rispetto alle problematiche che la discussione via via solleva e pone. L’accordo nasce e risuona nel momento in cui il silenzio pone il suo limite accanto all’orecchio del parlante, lo afferra e lo porta avanti verso dei possibili. Questo accordarsi è una sorta di intonazione praticata in modo non convenzionale nel linguaggio e fuori di esso (nei silenzi), tra i partecipanti. Nel momento in cui la voce ha detto qualcosa e si apre un silenzio che ne è della voce, e di colui che credeva di possederla assieme al pensiero, proprio perché in esso la pensava? Cosa gli ritorna nel pensiero di quella voce? che eco fa essa nel pensiero? La tipologia di lavoro di questi esercizi riguarda tre modalità di procedura, ma qui, per comodità, ne espongo solamente una. I laboratori si svolgono ogni due settimane, in uno spazio adatto. Si decide una data, ed un argomento che abbia attinenza con argomenti filosofici, ma senza che questo sia un vincolo effettivo. Infatti è il metodo di lavoro di gruppo che deve essere filosofico. Si prevedono alcune letture condivise per frammenti di testo utili all’argomento, e la discussione nel limite massimo di due ore e mezza (o tre, se necessario). La dinamica che segue questa tipologia di esercizio è la seguente: – il consulente ha in precedenza scelto un tema da proporre al gruppo di lavoro; l’argomento viene proposto attraverso la lettura di un testo o frammenti di testi; è possibile che, dopo la prima seduta, lo stesso gruppo possa scegliere, di comune accordo, un tema specifico da affrontare per la volta che segue come incontro. – il consulente può introdurre il tema, ma senza dilungarsi troppo; poi deve spiegare quali sono le regole di questo esercizio: una volta terminata la lettura condivisa dei testi proposti in inizierà il dialogo; il consulente potrà interromperlo dando un segnale acustico: percuoterà piano una ciotola sonora tibetana; gli ospiti allora dovranno mantenere assoluto silenzio fino al secondo rintocco di ciotola, dopo il quale potranno riprendere la discussione; al gruppo va spiegato che le interruzioni del dialogo non sono decise arbitrariamente dal consulente stesso: egli si avvale infatti di una tabella nella quale sono stabilite le durate dei silenzi che seguono ad ogni intervento sonoro; la tabella viene di volta in volta

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strutturata attraverso un processo realmente casuale di computo dei tempi5 di interruzione rispetto alla durata totale del lavoro di gruppo che può variare da 2 (minimo) a 3 ore, ed ogni volta che si rinnova l’esercizio va ricalcolata una nuova tabella di durate; il gruppo (e il consulente) devono attenersi ai tempi di interruzione e di conseguente silenzio, quale che sia la loro lunghezza; – se durante le interruzioni qualcuno avrà dimenticato quel che stava dicendo, in riferimento al discorso su cui è stato interrotto, non dovrà preoccuparsi di ritrovare, riafferrare l’idea o il concetto che aveva messo in moto: questa, o questo, potrebbero riaffiorare da soli, a sua insaputa, e destare una certa sorpresa nell’arco del dialogo perché forse questa emersione li vedrà mutati, più precisi o diversi: è importante misurare la tenuta rispetto ai silenzi e al loro potere nello spostare l’attenzione (ecco la disattenzione) ad un livello più profondo che, per così dire, può fare da propellente al dialogo, inteso non più solo come un dare-esponendo il proprio io-soggetto, quanto piuttosto un ricevere – dando attenzione al proprio ascolto attivo-passivo e, contemporaneamente, alla voce degli altri; – sarà importante, se possibile, che gli astanti facciano attenzione a ricordare cosa stavano dicendo gli altri, piuttosto che tentare di tenere fermo il loro discorso (il silenzio dovrebbe risuonare del discorso altrui piuttosto che nel nostro orecchio mentale, soggettivo, che in questo momento dovrebbe stare a riposo ed accogliere il silenzio come una vera sospensione); – a 10 minuti circa dal tempo trascorso, prestabilito in 2 o 3 ore di dialogo, il consulente interromperà il dialogo definitivamente dando una serie di rintocchi sulla campana, da molto piano a fortissimo, accelerandone il ritmo inizialmente regolare; – dopo l’ultimo rintocco tutti dovranno rimanere in silenzio ascoltando attentamente il suono della ciotola fino al silenzio assoluto; quando ogni partecipante avrà percepito chiaramente, con il proprio ascolto – udito, la fine completa del suono, alzerà una mano per testimoniare il silenzio di quel suono agli astanti; 5 I tempi di interruzione-silenzio vengono scelti con il lancio di alcuni dadi. Le cifre risultanti definiscono delle durate. A partire dall’inizio, al tempo zero, si fa un primo lancio per decidere quale sarà il tempo del primo battito sulla ciotola sonora, in cui scatta il primo silenzio. Questa cifra indica la partenza e la durata del silenzio (in minuti e secondi) che verrà cronometrato. Poi seguono gli altri lanci fino alla fine del tempo pattuito per l’intera seduta. Su una pagina di carta millimetrata (sulla quale ad ogni quadretto corrisponde un secondo) si segna un punto a partire da zero ed, a seguire, una serie di punti-tempo che sono gli impulsi di scansione e delle riprese del dialogo, per cui otterremo un linea di tempo rotta dai silenzi di disattenzione.

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lInguaggIo: dIalogo, argomentazIone, InterpretazIone

– durante il laboratorio il consulente avrà cura di intervenire davvero poco, proprio per dare più spazio al dialogo del gruppo; – è possibile operare una sorta di restituzione dell’esperienza da verificarsi il giorno dopo, per condividere gli effetti del lavoro sui silenzi: cosa crediamo di avere perso o di avere guadagnato dentro quei silenzi? queste perdite o guadagni sono, per così dire, assimilabili come un ascolto che ci ha presi e portati verso livelli di attenzione-disattenzione davvero diversi da quelli di un normale dialogo? quali sensazioni abbiamo provato durante le interruzioni? le nostre idee si perdevano suscitando il nostro disappunto? oppure ne ricavavano beneficio? queste sono alcune delle domande che possono diventare oggetto di una restituzione scritta, che il consulente avrà modo di dare e verificare in seguito; ogni partecipante potrà rispondere a queste domande, oppure fare una riflessione personale, da restituire quando ci si rivede la volta seguente. Nessuno è, comunque, obbligato a riportare questa restituzione. Tutte le volte che si è praticato assieme a dei gruppi questo esercizio, il gradimento è stato molto buono. Anche quando qualcuno ha mostrato un po’ di insofferenza per le interruzioni, la cosa è diventata oggetto di discussione proprio rispetto al tema dell’ascolto come problema e della sua accettazione attraverso il silenzio, il suo accoglimento e il fatto che si possa sostare in esso. I silenzi e le interruzioni che generano tale forma di disattenzione verso il dialogo non sono stati vissuti come tali. Sono serviti, invece, come una sorta di propellente utile per dare una forma – respiro diversa alla discussione dei contenuti in gioco. Alcuni degli astanti hanno fatto notare, spesso, che il suono della ciotola che usato gli è davvero servito per concentrarsi nei silenzi che inaugurava. Per gli interventi sonori è stata sempre usata una ciotola nepalese dal suono medio basso, profondo ed avvolgente6. Non è qui importante discutere alcuni dei temi delle sedute, quanto piuttosto avere esposto il metodo che riesce a provocare dei silenzi e con essi una distanza da sé come soggetti, o una ricaduta in sé ma, ormai, come soggetti mancati: nel silenzio improvviso, infatti non c’è più risposta, intesa nel senso convenzionale del termine, restano solo mute la nostra voce e quella dell’altro, nel gioco di rimandi vocali interrotti e consegnati alla memoria, che fa capo al detto di pochi istanti prima. Il discorso appena fatto ed ora interrotto si discioglie nel silenzio, risuona, in quei momenti, in modo diverso: il dialogante potrebbe, se ne ha voglia (non c’è obbligo), cercare di 6

Gli aggettivi “profondo”ed “avvolgente”, sono stati usati dai dialoganti per commentare il suono dello strumento.

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afferrare ciò che hanno detto gli altri, farne proprio oggetto di richiamo, ma sarebbe preferibile che non si affezionasse al proprio asserto appena esplicitato. I silenzi, in effetti, devono dar-da-pensare: questa è la loro funzione. Questo dar-da-pensare potrebbe davvero rompere la linearità del dialogo per portarlo verso i lidi da cui irradiano i pensieri: a mano a mano che si incede nel dialogo e nei silenzi si ascolta di più, ma cosa? I possibili. Fare silenzio e tendere l’orecchio serve proprio a questo: ad amplificare il proprio senso del possibile, a fare attenzione alle sospensioni del discorso e dei suoi rinvii, tra un astante e l’altro. Ed è proprio questo che garantisce la rottura della linearità dialogica. I possibili taciuti favoriscono i rimandi silenziosi tra un dialogante e l’altro, la loro capacità di ritornare a delle idee o a dei vuoti di idee che lasciano spazio per tutti. Questo serve a sperimentare il silenzio stesso come una falsa assenza.

2. Riflessioni sugli esercizi di disattenzione Il testo che segue è un breve percorso che ci è servito per dare supporto alle riflessioni sugli esercizi di disattenzione. Esso è stato declinato attraverso l’esame del testo di Gemma Corradi Fiumara Filosofia dell’ascolto. Le considerazioni in merito al discorso sull’ascolto che la studiosa ha portato a termine, ci sono servite per approfondire il ruolo di un ascolto che fosse produttivo ed aperto, all’interno della prassi filosofica fin qui esposta. Si trattava di leggere il suo pensiero come motivo di studio, in modo da ricavarne stimoli, suggerimenti, idee utili a giustificare la nostra pratica come un work in progress. Il libro della filosofa mette in luce l’ascolto come problema lungi dall’esser risolto. Esso ci è servito come approccio utile a definire una prassi che non sia solamente l’analisi del testo stesso, delle citazioni singole, ma che possa mettere in luce come la filosofia debba riappropriarsi di questo tema, di cui essa comunque vive e di cui si può far portatrice per favorire la convivenza tra gli umani. L’ascolto accoglie, dà, attende, opera distinzioni che non sempre siamo capaci di intendere bene, chiaramente nel suo raggio d’azione. Questo accade perché molte volte la ragione sola non basta e deve intervenire un atteggiamento di empatia riflessiva, cui faccia seguito una forte concentrazione che tenga conto della dispersione positiva nei possibili di cui è capace l’ascolto stesso, e per cui esso è vita di uno spirito filosofico con cui affrontiamo l’esistenza, ma ancor prima del corpo e della voce che se ne fa veicolo per il dialogo. Quanto al fatto che esso risuoni dentro di noi

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e fuori, tra gli altri dialoganti, in modi non commensurabili, questo è un fruttuoso problema da considerare per vedere quanto si possa disciogliere come ascolto di sé e del mondo, e come possa solidificarsi in idee, o accanto a idee già storicizzate, che comunque mutano nel tempo del mondo e negli spazi dell’interpretazione. Se l’ascolto è qualcosa che davvero ci sostiene vicini, o lontani gli uni dagli altri, esso finisce per sostare in quella zona tra il noi ed il mondo, tra noi e gli altri, che sembra venire dopo e nello stesso tempo prima di noi come umani. L’ascolto non solo è un atteggiamento psicofisico-uditivo degli umani e delle specie animali, ma una risonanza che gravita tra tutti gli esseri e attorno a loro, come linguaggio che li accomuna o come mondo in cui riverbera e si disperde il linguaggio stesso in dinamiche di vicinanza e lontananza. È possibile dire, o sapere già, cosa è l’ascolto senza comprendere che esso siamo noi e il mondo fuori-di-noi, l’interiorità che si fa esterno e viceversa, in una polisemia di vibrazioni acustiche che definiscono i nostri rapporti come esseri parlanti-dialoganti? Quando tale operosità ci guida oltre noi stessi e tra i nostri simili, come umani capaci di instaurare relazioni, allora possiamo davvero dire che è necessario indagarne i campi d’azione che appaiono più oscuri o più chiari. Dirlo e rileggerlo in merito a ciò che vive nelle considerazioni scientifiche psicofisiologiche ed acustiche, è già nostro patrimonio di saperi che vanno rammentati perché siamo un corpo-ascolto. Dirlo, o scriverlo, in merito all’ascolto che si dà tra umani, in dialogo, è cosa comunque più difficile e complessa. Possiamo scegliere la forma del dialogo tra il filosofo, accreditato dalla comunità dei simili, ed altro filosofo od ospite, ospiti, che gli si avvicina in colloquio, quando l’ospite sia colui che sceglie un dialogo con il primo. Se vogliamo parlare secondo questo senso, dobbiamo fare una serie di considerazioni che mettano in gioco l’ascolto come qualcosa che non si può dare per scontato. Indagare questo mondo, la risonanza delle cose parlate nel linguaggio, esplorate attraverso un atteggiamento filosofico che coinvolga la vita quotidiana è un compito non facile, ma al quale non possiamo sottrarci.

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3. Sostare in ascolto, tra Logos e Leghein Volendo supporre che abbia ancora senso porre questioni sui limiti o su alcuni limiti della filosofia (…), si potrebbe domandare: l’ascolto è un affare che rientra nelle capacità della filosofia? O non è vero piuttosto – insistiamo un po’, malgrado tutto, anche a rischio di alzare il tiro – che la filosofia ha da sempre sovrapposto o persino sostituito all’ascolto qualcosa che apparterrebbe invece all’ordine dell’intendersi? Il filosofo non sarebbe colui che sempre intende (e intende tutto), ma non riesce ad ascoltare, o più precisamente colui che neutralizza in se stesso l’ascolto, e lo fa per poter filosofare? Non senza, tuttavia, trovarsi immediatamente consegnato alla tagliente indecidibilità, che stride, schiocca o grida, tra “ascoltare” e “intendere”: tra due forme di audizione, tra due andature del medesimo (dello stesso senso – ma, appunto, in qual senso? è ancora un’altra questione) tra una tensione e un’adeguazione, o meglio ancora, se si vuole, fra un senso (che si ascolta) e una verità (che si intende), benché l’uno non possa, alla fini fine, fare a meno dell’altra?7 J.-L. Nancy, All’ascolto

Gemma Corradi Fiumara nel suo libro Filosofia dell’ascolto dà vita ad una riflessione sull’ascolto filosofico facendo una distinzione tra dire ed ascoltare8. Questa distinzione è ricca di significati se vogliamo riflettere sulle declinazioni che questo gesto di apertura implica, sia a dispetto della “ragione” del filosofo (per quanto riguarda il semplice ascolto attivo), sia a ragione della filosofia stessa, intesa come pratica, cioè capace di mettere in moto possibili dinamiche ed intenzioni che possano espandere la loro azione positiva verso il mondo e gli umani. Quando la filosofa elenca i possibili significati del termine Logos, non trova riferimenti evidenti alla “capacità di ascoltare” riferendosi a quella “traiettoria del pensiero occidentale”, la quale evita l’impianto gnoseologico capace di consentire al Logos stesso di farsi veicolo per l’ascolto e per i processi che questo implica ed innesca. Invece, percorrendo la via, o meglio, le vie che espande l’ambito del verbo Leghein, rinviene alcuni significati che “propriamente” lo ricollegano all’atteggiamento di un ascolto profondo e fondante, rivedendo, riascoltando così il Logos stesso in modo efficace. Questo atteggiamento, a nostro avviso, è autentico ogniqualvolta si voglia dare attenzione prima alle avventure del Leghein piuttosto che, anteriormente, a 7 8

J.-L.Nancy, All’ascolto, Milano: Raffaello Cortina Editore, 2004, pp. 5-6. G. C. Fiumara, Filosofia dell’ascolto, Milano: Jaca Book, 1985, p. 9.

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quelle del Logos. Questo modo di esaminare il termine può prendere, e trattenere, il nome di origine autentica non come causa o inizio, ma come stato-situazione celata in noi, e mai fruttuosamente approfondita; assordati come siamo dentro una civiltà che tiene capo alla forma delle cose secondo la vita delle immagini e delle idee ad esse legate concettualmente, invece che secondo l’oscuro scrutare che l’ascolto e, prima ancora il nostro udito, tiene in mano ed avvolge, coinvolge e discioglie in una apertura autentica, appunto, nei confronti del mondo. Vogliamo fare nostra la linea di lavoro che procede nel libro della Fiumara ascoltando il suo testo, facendone uso per affrontare il problema, per come viene posto e per le conseguenze che esso mette in moto per una filosofia del dialogo che non possa prescindere da una considerazione a priori dell’ascolto stesso come questione cogente. Essendo quest’ultimo, come punto di lavoro per il filosofo (consulente, counselor o altro si voglia), un lavoro di riflessione al quale non ci si può sottrarre, pena l’oblio, già in atto come fatto epocale, di una vera e propria costituzione dell’essere umano che vive come tale e come tale possa riconoscersi nel dialogo con gli altri e in quello più propriamente filosofico. La differenza tra dire ed ascoltare non è da poco, se cominciamo subito a distinguere i vari significati di Logos e Leghein, per portarli nella nostra dissertazione. Essa salta subito verso il nostro orecchio filosofico e il nostro intendere secondo ragione. Se rileggiamo i termini nella loro accezione significativa e proviamo ad analizzarli, risultano subito evidenti alcune considerazioni ineludibili. Esse ci sono di aiuto se vogliamo riflettere su cosa sia l’ascolto e su cosa esso comporti per il dialogo. Infatti dobbiamo immaginare che tra le due parole ci sia una parentela che solo l’atto d’ascolto può dividere da un pensiero astratto che potrebbe intendere e non ascoltare, nel senso che una volta intesa una cosa, un’idea, l’ascolto dialogico possa essere messo da parte e l’attenzione quietarsi, appoggiarsi e fermarsi consolidata sull’idea stessa. Se di linguaggio e dialogo, inevitabilmente ad esso legato, vogliamo parlare allora dobbiamo decidere di osservare come qualcosa tra Logos e Leghein si possa muovere in modo effettivo, se vogliamo discutere di parola, discorso. Tra i due termini esiste una tensione non lineare che li tiene uniti e separati, a tratti, come se tra di loro ci fosse un respiro che li avvicina e li distanzia, funzionale alla logica dialogica. Il pensiero allora si nutre di questa integrazione, tra il sé del soggetto singolo che riflette e pensa, e il parlare che vive tra gli umani al plurale, in un multiverso di posture d’ascolto. Il silenzio, la pausa tra le parole e tra i discorsi segna questa tensione tra i due termini e davvero li rende interdipendenti, facendoli uscire dalla prigione delle definizioni concettuali che li vorrebbe quasi slegati; tanto che il Logos basti a se stesso come detto, una volta per tutte, in una fissazione della

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parola e dei suoi significati per un discorso – pensiero lineare e non circolare. Infatti, secondo la Fiumara, il tentativo è quello di dare vita al reintegro del Logos in «un pensiero “circolare”, per così dire, animato da quelle continue re-visitazioni che alla fine consentono il “prendere dimora” e la coesistenza» tra un Logos come dato fisso e come dato soggetto a mutazione:

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Il tema dell’integrazione chiama in causa il senso stesso della totalità coesistenziale. La ricerca di una accezione integrale del logos consiste così nell’impegno a rivisitare il presupposto fondamentale della nostra cultura, liberandolo da quel limite costrittivo che ne fa il punto di partenza di un particolare tipo di progresso lineare, planare, inarrestabile. La reintegrazione del logos può scaturire dal recupero di un pensiero “circolare”, per così dire, animato da quelle continue re-visitazioni che alla fine consentono di “prendere dimora” e la coesistenza9.

Vogliamo esporre, qui, i vari significati che la filosofa elenca “approssimativamente”, rispetto a Logos10. L’elenco è affiancato da un nostro breve commento che evidenzia come il termine abbia un carattere più fisso mentre Leghein più mobile, nonostante in questi due aggettivi non si voglia fissare il loro carattere esaustivo. Questa tabella esplicativa ci aiuta ad amplificare e sondare lo spettro significativo, e significante, che è l’ossatura di Logos e Leghein, per fare delle ipotesi di movimento dei termini presi per sé e per le loro interdipendenze. Consideriamo due gruppi di significati riferiti a Logos. I gruppo I.1 – parola: in una accezione generica, la parola come entità a sé; I.2 – espressione: l’atto di esprimersi, l’espressione usata per dire una cosa, un concetto; – definizione, affermazione, asserzione: oggetto dell’idea esplicato e fissato; – sentenza, massima, proverbio, detto: idem, ma non solo in una accezione logica, bensì in una diffusione di quel che è stato detto in modo che valga per tutti, come se si parlasse da una sorta di palco di fronte al quale assistono degli spettatori che devono ricordare bene il detto; – ordine, ingiunzione, comando, decisione, risoluzione: idem, ma con una maggiore fissità di quel che si dice dinamizzandolo secondo un comando che 9 10

Ivi, p. 28. Ivi p. 9.

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sottende una azione che ripeta in prassi ciò che il linguaggio può solo dire ma non fare; I.3 – menzione, il parlare, il dire: l’esposizione a voce; – racconto: il racconto come percorso narrativo, l’affabulazione di un contenuto che così viene inventato, ritrovato, o ricordato, cioè ri-intonato davanti ai più che ascoltano in modo che possano ascoltare e, a loro volta, accordarsi assieme al narratore; – diceria, notizia, fama, rinomanza: possiamo intenderli come una sorta di eco del detto, come il racconto riunito sotto l’egida del testo o della voce che ha narrato; I.4 – discorso, conversazione, colloquio: il discorso che diventa prassi in una condivisione tra umani; I.5 – discussione, materia, soggetto di discussione e di studio: l’idea, le idee in discussione tra i dialoganti; I.6 – racconto, narrazione, composizione, storia, opera: il contenuto strutturato, che si presenta sotto una forma che è, più o meno, riconoscibile in modo immediato. II gruppo Questo gruppo espone con chiarezza ciò che appare secondo misura e secondo ragione, come principio regolativo capace di mantenere un ordine etico, umano e sovraumano: II.1 – ragione, intelligenza, giudizio, regola, causa, motivo, argomento, legge, facoltà intellettiva, buon senso, idea, ragione divina; II.2 – conto, computo, rendiconto, spiegazione, giustificazione; II.3 – opinione, parere, stima, apprezzamento; II.4 – relazione, corrispondenza, proporzione, analogia; II.5 – idea o ragione divina. Rispetto alla parola Leghein assistiamo ad una sorta di sospensione di ciò che è dinamico o, soprattutto, fisso in Logos. Leghein ci porta in quella zona del

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linguaggio che confina col silenzio come fonte di ascolto, come motivo per tendere l’orecchio, attraverso una sorta di stasi, sospensione o meditazione su ciò che è stato detto, ma, nello stesso tempo, in una forma di mobilità per cui il Leghein sia necessario alla vita stessa del Logos. Proviamo ad esaminare allora i suoi significati, secondo modalità dinamiche significanti differenti. Di seguito evidenziamo i significati riferiti a Leghein: 1 – giacere, addormentarsi: riguarda una stasi della parola, o del discorso, e del suo modo di esistere nel linguaggio; ciò che è stato detto ora riposa; da qualche parte giace e, per così dire, si conserva per essere ri-scoperto: pronto per essere risvegliato; forse risuona già in potenza, ma ora ri-suona nel luogo in cui sta, in cui sembra riposare: in realtà, come in un sogno, qualcosa cova in esso, qualcosa lavora in virtù di una prossima interpretazione, apertura, risveglio; 2 – raccogliere, ramazzare, scegliere, spigolare, riunire, radunare, posare, serbare, custodire: in questo caso la parola viene, per così dire, risvegliata davvero e messa in moto, ma solo per essere conservata attraverso il gesto della raccolta e della scelta; ogni scelta è decisione e recide qualcosa dal contesto: tale gesto fa il suo lavoro di distinzione di cose tra le cose; a sua volta questa scelta prende alcuni elementi del Logos e ne lascia da parte altri: ciò che resta dopo la spigolatura è un residuo; come tale esso lascia qualche traccia che resta inutilizzata; ma essa comunque resta e pur esiste fuori dalla raccolta; che ne è di questo residuo? esso deve pur risuonare di se tesso nell’ascolto che lo può recepire attorno al logos scelto e conservato; 3 – dire, parlare, discorrere, comandare: il discorso che enuncia idee scelte, le espone, le mostra a voce e nello stesso tempo è quelle idee che sta esponendo e, proprio per questo, ha un carattere esplicativo forte e tende a fissare alcuni concetti; ciò che si è raccolto ha preso un ordine di insieme (e di esposizione) che gli abbiamo dato: in questo caso possiamo davvero dire, riprendendo la Fiumara mentre cita Heidegger che «[…]l’udire (che) integra il dire è appunto un […] “leghein, che lascia stare-d’innanzi ciò che già insieme-sta-d’innanzi e che è tale in virtù di un posare il quale concerne tutto ciò che di per sé sta-insieme-d’innanzi nel suo stare. Questo posare per eccellenza – conclude Heidegger – è quel leghein, nella cui forma accade il logos”»11. 11

Ivi, p. 26; vedi anche M. Heidegger, Saggi e discorsi, Milano: Mursia, 1976, p. 143.

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Il

lInguaggIo: dIalogo, argomentazIone, InterpretazIone

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Ecco che il Leghein inteso come forma in cui accade Logos è un Leghein effettivo e significativo. La prima considerazione che possiamo fare è che senza un Leghein ben interpretato (e ri-ascoltato), non si possa afferrare un Logos, nonostante il secondo sia fondamentale. Il problema è determinato dal fatto che si sia data maggiore importanza al primo a scapito del secondo. Vediamo come Fiumara ha tematizzato tale differenza. La filosofa afferma che «l’individuo possa parlare solo se viene ascoltato e non piuttosto che vi sia un suo dire di cui successivamente ci si occupa “per mezzo” dell’ascolto»12. Questo significa che se non esiste in noi la capacità di raccogliere e conservare secondo il Leghein allora sarà difficile poter dire davvero qualcosa, o ascoltare ciò che viene detto da altri. Noi possiamo parlare secondo un senso (o più sensi) solo perché già qualcuno raccoglierà le nostre parole. L’avvento del Logos come dire concettualizzante (esclusivo di altro che possa non inchiodare la parola ad un solo senso logico, lineare, ma affidarla in dialogo a più voci, circolare) ha fatto perdere a questo termine la caratteristica significativa del raccogliere. Facendo ricorso alle superiori capacità di concettualizzazione nutrite di un logos cogente e plasmatico, non si riesce più a poggiare sull’umile terra (l’humus), che consente l’instaurarsi di un “mondo della vita” capace di posare nel senso di “lasciar-stare-insieme-d’innanzi” ed ascoltare13.

L’espressione “lasciar-stare-insieme-d’innanzi” è citata direttamente riprendendo Saggi e discorsi di M. Heidegger: […] in un tempo ugualmente antico tuttavia, e in modo ancora più originario, leghein significa anche ciò che è espresso nell’analoga parola tedesca legen: posare, mettere d’innanzi […]. In questo si fa sentire il senso di ‘riunire’, ‘mettere insieme’, … il latino legere nel senso in cui il tedesco lesen significa andare a prendere, raccogliere. Leghein significa propriamente il posare e mettere insieme raccogliente se stesso ed altro14.

e dalla Fiumara stessa, quando cita Eraclito, grazie al quale, quando si riferisce agli uomini, i termini “ascoltare” e “parlare” vengono usati congiuntamente, ma, significativamente, il primo precede l’altro: «Incapaci di ascoltare 12 13 14

Ivi, pp. 10-11. Ivi, p.16. Ivi, pp. 12-13 e segue M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 42.

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sostare,

In ascolto

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e parlare»15. Questo proprio perché si possa parlare e dire solo dopo avere ascoltato, nella certezza che senza ascolto non vi possa essere un parlare degno di attenzione perché sordo. Il problema è rappresentato dal fatto che, pur rappresentando Leghein il “dire”, “parlare” e “narrare”, la filosofa non vuole, giustamente, “lasciar cadere” le zone d’ombra del verbo che infine fanno capo al significativo “posare”:

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Il parlare prassico del Leghein è forse il più attendibile, “grave”, testimone degli antichi costumi della civiltà occidentale nei quali si dispiega un significato più integrale del termine; con l’avvento la vittoria della concettualizzazione la pregnanza del vocabolo è stata ridotta al semplice dire, ed ha quasi perduto le caratteristiche del raccogliere.

La Fiumara continua dicendo che Siamo partecipi di una diffusione pressoché planetaria del senso che i greci hanno convogliato nel logos trascurando ciò che avrebbe potuto venire tramandato nella prassi del leghein. Questo senso plasmativo ed ordinatore, infatti, si è notevolmente distaccato dalla tradizione di un leghein che vuol significare, anche lasciar vivere16.

È proprio questo “raccogliere” prima e “lasciar vivere” dopo (e quindi «lasciar-stare-insieme-d’innanzi») che può garantire la risonanza del detto in un dialogo. Il silenzio quindi si farebbe davvero garante proprio di questo: nel momento in cui ciò che vive da sé nello spazio accordatogli dalla sospensione, definisce e fa vivere tale spazio come autenticamente pronto a ri-suonare di quelle parole, che possono essere disperse fruttuosamente in echi e riverberi tra i dialoganti17. 15 Vedi in I presocratici. Frammenti e testimonianze, a cura di Angelo Pasquinelli, Torino: Einaudi 1958, p.177, fr.8 (19) Clemente (Strom. II,24): gli uomini (probabilmente gli indaffarati cittadini, commercianti della città di Efeso, in cui il filosofo viveva) «Non sanno né ascoltare né parlare». 16 G. C. Fiumara, Filosofia dell’ascolto, Milano: Jaca Book, 1985, pp. 10-11. 17 In merito al risuonare tra gli umani, nella loro voce di dialoganti, vedi Nancy All’ascolto, le pagine (pp. 15-17) in cui il filosofo spiega il concetto di rinvio: «[…]un sé è solo una forma o una funzione del rinvio: un sé è fatto di un rapporto a sé, o d’una presenza a sé, che altro non è che il mutuo rinvio fra un’individuazione sensibile e un’identità intelligibile (non solo per quel che riguarda l’individuo nel senso corrente del termine, ma anche per quel che in esso è dato dalle circostanze singolari di uno stato, di una tensione, o, appunto, di un ‘senso’)»;ed ancora «[…] un soggetto si sente: è questa la sua proprietà e la sua definizione. Vale a dire si ode (…) un sé si sente sentire: come un ‘sé’ che sfugge a se stesso o si ritrae, risuonando, altrove come in se stesso, nel mondo e nell’altro.», vedi anche «(…) quando si è in ascolto, si è in agguato rispetto ad un soggetto, cioè a qualcosa (esso) che si identifica risuonando da

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Il

lInguaggIo: dIalogo, argomentazIone, InterpretazIone

I significati di legere e lesen18ci portano ancora a considerare che si rileva, si raccoglie anche con gli occhi parole scritte a caratteri stampati su un testo prima di pronunciarle. In questo caso, puramente visivo, ma anche nel caso della lettura o del dialogo in cui risuona non uno sguardo, ma una voce, dobbiamo considerare che quel “metter d’innanzi raccogliente se stesso ed altro”, come vuole il filosofo tedesco, è la forma in cui risuonano davvero la parola e il discorso nella lettura visiva (tra sé e sé) o nel dialogo. È come se la tensione tra Logos e Leghein procedesse continuamente come una sorta di respiro che da vita a zone di risonanza tra l’intendere e l’ascoltare. Potremmo quasi dire che, in questo modo, la risonanza del linguaggio sta sempre in mezzo a noi come parlanti umani e ne dirige la capacità di dire o non dire, secondo un ordine che è sempre legato ad un significato sotteso ai due termini. Il problema è lungi dal risolversi in modo compiuto. Il testo delle filosofa prosegue citando Heidegger e la sua domanda rispetto al Leghein […] forse non sarebbe finalmente ora che ci impegnassimo in una domanda che probabilmente deciderà di molte cose? La domanda è questa: Come giunge il senso proprio di leghein, che è legen, ‘posare ‘, a significare ‘dire’ e ‘discorrere’?19.

Se legen significa posare qualcosa accanto ad altro, riunire (nel senso di “raccogliente posare d’innanzi”), ecco che i vari significati di Leghein prendono forma ed acquistano un dinamismo che li esalta rispetto a Logos. Inoltre se vogliamo ricordare uno dei significati di Leghein, cioè raccogliere, allora potremo ancora seguire la Fiumara quando cita ancora il filosofo tedesco: […] raccolta è qualcosa di più che un semplice ammucchiare. Nella raccolta è implicito un ‘andare a prendere che porta dentro’. In questo domina l’ospitare; e in quest’ultimo, a sua volta, il custodire20.

Questo raccogliere, prendere e portare dentro, custodisce sì, ma non va inteso come un semplice lasciare che appaia come lasciar andare, lasciar correre, quanto, piuttosto, che ciò che sta lì davanti a noi è importante e ci riguarda come un Leghein,che è un posare proprio quando è sé a sé, in sé e per sé, di conseguenza fuori di sé, essendo contemporaneamente se stesso e altro da sé: come fosse l’uno l’eco dell’altro, e questa eco fosse il suono stesso del proprio senso»; vedi questo concetto esplicato anche alle pp. 34-35 nonché a p. 27. 18 Vedi la precedente citazione di Heidegger in nota 7. 19 M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 42 20 Ivi, p. 143

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sostare,

In ascolto

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[…] un in sé raccolto lasciar-stare-d’innanzi ciò che insieme-è-presente21.

Questo posare, lasciar lì il detto sta a significare che esso deve pur risuonare in una zona d’ombra del discorso, in attesa che diventi una zona di luce per la sonorità nuova e non compiuta, esaurita una volta per tutte, che esso può assumere. La sonorità più luminosa accende quindi nel silenzio di un ascolto teso verso l’altro, il fatto importante che l’altro è davvero un ospite custodito nello spazio di quel dialogo. La filosofa italiana sceglie accuratamente i frammenti del pensiero di Heidegger, per rispondere al problema di un ascolto che sembra davvero mancare, oggi, al linguaggio, in base al disconoscimento di una dinamica tra Logos e Leghein, che dovrebbe legare le due parole in una forma riconoscibile nel dialogo filosofico e non. Quando noi parliamo e dialoghiamo, ci mettiamo in una situazione di ascolto dell’altro che risente dinamicamente di logiche legate a queste due parole. Il raccogliere e il lasciar-stare-d’innanzi ciò che insieme-è-presente significa prestare attenzione a quell’attività umana che è l’ascolto, nel momento in cui siamo intessuti nell’ordito del dire ed ascoltare assieme gli altri: viviamo in una rete di rimandi e rinvii infiniti, noi stessi siamo la risonanza di questi rinvii. La problematica che le due parole, Logos e Leghein sottendono, può essere risolta se facciamo attenzione al fatto che il silenzio è un’attività privilegiata per far sì che qualcosa di ciò che è detto stia in risonanza ancora tra gli astanti e possa quindi essere raccolto e messo da parte (ricordato a posteriori, ri-evocato). Se stiamo parlando di dialogo però il silenzio cosa ha a che fare con questo? Il dialogo esiste se si può dare ad esso un certo respiro. Una pausa, il silenzio che essa evoca e pratica è quello spazio in cui può risuonare il detto: Il silenzio del raccoglimento semplifica senza decurtare e supera senza vincere: esso ri-crea un tempo-spazio come profondità possibile di ogni parola22.

Ovviamente il dire è molto più rassicurante di quanto non sia l’ascolto. In quest’ultimo regna sempre il possibile come essenza che coinvolge il linguaggio e la voce, secondo una logica, per così dire, fluttuante che non è sempre prevedibile rispetto all’ordine preciso del discorso, nel gioco dei rinvii, delle attese cui esso sottende. Il significato più oggettivo di un Logos-dire ha carattere ordinante che non si conforma facilmente ad un silenzio capace di scioglierlo nelle pause dei dialoganti: 21 22

Ivi, p. 144 G. C. Fiumara, Filosofia dell’ascolto, Milano: Jaca Book, 1985, p. 127.

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Il

lInguaggIo: dIalogo, argomentazIone, InterpretazIone

Ora, se il dialogo autentico deve avere tempo per il silenzio dell’ascolto, la dialettica oppositiva non sembra avere spazio per un silenzio ascoltante23

ed ancora

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Solo in un silenzio ascoltante si può ipotizzare il ricongiungimento transitabile tra le polarità divergenti di un significato manifesto, da una parte, e degli ulteriori significati possibili dall’altra. Riconoscere soltanto la prima polarità equivale forse ad impedire la nascita dell’inesauribile complessità metaforica di tutta la vita del pensiero. Il vettore che si allontana (in direzione opposta) dalla parola come segno, dischiude livelli di vita interiore la cui esistenza, o sopravvivenza, è condizionata all’ascolto di queste dimensioni24.

Ciò che dice il gesto del verbo Leghein è la pausa di un silenzio che giace e può essere raccolto. In base alla sospensione di una pausa si può ascoltare ciò che il silenzio derivato sta dicendo proprio perché il detto che lo precede, come parola e discorso, possa ivi risuonare. Imparare a tacere ed ascoltare è un tratto che definisce l’essenza di un dialogo pacifico e pacificato con il lavoro della definizione di concetti e idee che ancora appartiene alla filosofia.

Riferimenti bibliografici Agamben G., La fine del pensiero, Paris: Le nouveau commerce, 1982. Fiumara G. C., Filosofia dell’ascolto, Milano: Jaca Book, 1985. Heidegger M., Saggi e discorsi, Milano: Mursia 1976. Nancy J.-L., All’ascolto, Milano: Raffaello Cortina Editore, 2004. Nancy J.-L., Il peso di un pensiero, l’approssimarsi, Milano-Udine: Mimesis, 2009. I presocratici. Frammenti e testimonianze, a cura di Angelo Pasquinelli, Torino: Einaudi 1958. Merleau-Ponty M., Il visibile e l’invisibile, Milano: Bompiani, 1969.

23 24

Ivi, p. 130. Ivi, p. 128.

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Seconda sezione

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Analisi esistenziale e dialettica dell’alterità

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Dall’amore per la sapienza alla sapienza dell’amore. Riflessioni sulla consulenza filosofica a partire da Luce Irigaray

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di Chiara Zanella

È una contraddizione prendere spunto da uno specifico autore per riflettere sui nodi centrali della consulenza filosofica? Se non lo è, potrebbe sembrarlo, dato che sappiamo tutti che il padre della Philosophische Praxis, Gerd B. Achenbach, rigetta l’idea di accostare a specifiche scuole di pensiero la propria creatura temendo di radicarne gli sviluppi ad un qualche filosofo, fosse addirittura egli stesso. Oggetto della premessa che apre questo articolo è l’argomentazione delle ragioni per cui tale contraddizione non si dà; essa non è però l’unico obiettivo che perseguo, visto che lungo il tragitto mi attarderò a chiarire i termini di alcune questioni che risultano ambigue a chi avvicina per la prima volta la consulenza filosofica. Vale sicuramente la pena di segnalare che a orientarmi non è l’intenzione di proporre una critica estemporanea, quanto il desiderio di offrire una chiave di lettura per la seconda parte dello scritto, che è dedicata al dialogo: è in essa che la meditazione segue percorsi paralleli a quelli di Irigaray, senza scostarsi troppo, se non erro, dalla prospettiva di Achenbach.

1. A mo’ di premessa «La forma concreta della filosofia è il filosofo e questi, in quanto istituzione della filosofia in un singolo caso, è la consulenza filosofica»1:con questa perentoria affermazione Achenbach sembra ricondurre lo specifico del consulĕre

1

Gerd B. Achenbach, La filosofia da tavolo, ovvero, chi è il filosofo?, ne La consulenza filosofica, Milano: Apogeo, 2004, p. 29.

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analIsI

esIstenzIale e dIalettIca dell’alterItà

a un rapporto in qualche modo personale e universale2 tra un ospite e un filosofo che, nella sua funzione di consulente, pratica l’arte della filosofia – vale a dire il filosofare – in risposta ad una sollecitazione problematica. Qui apro la prima, essenziale parentesi. Essa concerne la scelta di usare il termine filosofare per indicare il lavoro specifico3 del filosofo consulente; questo verbo sembra suggerire uno sfondo più articolato rispetto al sostantivo “filosofia” finora ampiamente usato per indicare il “cosa si fa” della consulenza4. Ritengo che la variazione terminologica – già introdotta da numerosi altri autori – possa ridurre il non infrequente rischio che, fraintendendo, si continui ad immaginare la consulenza più come “filosofia applicata” (ai problemi dell’ospite) che non come vero e proprio agire filosofico – filosofare, appunto – nel senso precisato in apertura di paragrafo. Mi riferisco, in concreto, a quei critici che, anche recentemente, hanno preteso di analizzare la consulenza filosofica a partire da una spregiudicata e, se mi è concesso, assai poco informata lettura dei testi di riferimento; ma anche a una nutrita serie di estensori di articoli – apparsi persino su testate nazionali – nei quali la consulenza filosofica viene dipinta, né più né meno, sulla falsariga delle precomprensioni generate dal (tristemente) famoso Platone è meglio del Prozac di Lou Marinoff, o dalla lettura de La cura Schopenhauer dello psichiatra americano I. Yalom. Ebbene, questo continuo ruotare intorno al malinteso perpetua presso i lettori un equivoco fastidioso e difficile da estirpare circa l’uso della filosofia in consulenza. Vorrei allora ribadire che durante la consulenza non si applicano ai problemi dell’ospite i “rimedi” filosofici di un qualche autore particolarmente saggio; chiunque creda ciò è fuori strada. Entrare in consulenza presso un filosofo significa mettersi in condizione, a partire da una questione personale, di far emergere a livello del pensiero qualcosa che di solito è indiscutibile perché implicito; e questo implicito verrà considerato in relazione alle connessioni 2 Nell’intenzione della scrivente, l’universalità in questione è quella del pensiero che si mantiene costantemente in relazione con la riflessione filosofica di tutti i tempi e luoghi. Nella consulenza non è mai questione solo di sé (e del sé); ogni pensiero filosofico si innesta nel Logos, ovvero in una sorta di dialogo universale. 3 Per una corretta comprensione di quel che segue occorre tener presente la differenza tra counseling, filosofia applicata e consulenza filosofica. 4 Il riferimento mnemonico più immediato – ma non l’unico – è ai titoli di alcuni articoli di Neri Pollastri comparsi in opere collettanee: La consulenza filosofica come “pura” filosofia (in AAVV, Pratiche filosofiche e cura di sé, Milano: Mondadori, 2006), o Filosofia, nient’altro che filosofia (in AAVV, Filosofia praticata, Trapani: Di Girolamo, 2008). Questi titoli vengono citati solo per rappresentare l’uso del termine “filosofia” per illustrare la consulenza filosofica. In realtà, se si leggono i testi, Neri Pollastri è chiarissimo nell’indicare la “filosofia” come un “filosofare”.

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dall’amore

per la sapIenza alla sapIenza dell’amore

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(socio-)culturali e non (solo) con le dinamiche psichiche e del Cogito. Non si tratta affatto – come spesso erroneamente si immagina – di far risaltare il dato già di per sé evidente che il più delle volte agiamo in modo difforme rispetto a ciò che pensiamo: l’intellettualismo etico – la credenza che il sapere razionale basti a guidare l’azione verso il Bene – è per il consulente un vecchio nemico contro cui non vanno mai deposte le armi. Il presupposto da cui muove la consulenza è qualcosa di totalmente differente: il contrasto tra pensiero ed azioni va certamente ripensato, ma viaggiando nella direzione opposta a quella che è stata appena descritta. Occorre partire dalle azioni per arrivare al pensiero; nella formulazione achenbachiana, penso ciò che vivo? Con la Philosophische Praxis non si tratta più di tirar fuori immediatamente dalle idee la mappa che ci indica la direzione verso cui camminare, come facevano in passato i filosofi. Si tratta invece di acquisire la consapevolezza che il nostro agire quotidiano e le questioni esistenziali che lo condizionano tracciano di noi, dell’essere umano che noi siamo, un ritratto/mappa assai più sincero che non il pensiero astratto, descrivendoci nella nostra cruda effettualità; ed è solo dopo aver preso visione di questa mappa – che indubbiamente leggiamo, ma da cui anche siamo letti –, e dunque solo mediatamente, che si può procedere a recuperare una certa razionalità in funzione dell’agire. Qui è necessario aprire una seconda, breve parentesi. Come lo “leggiamo” questo nostro agire quotidiano? E in che senso ne siamo anche letti? Forse nel senso in cui lo intende la psicologia, ossia come se gli eventi rivelassero moventi psichici più o meno necessitanti, o divenissero chiavi di lettura di tipi psicologici? …eventi, poi, che ci racconteremmo a modo nostro, magari stando attenti a salvaguardare l’idea di identità che si raccoglierebbe intorno al vuoto di un’inconsistente interiorità5? Se così fosse, cosa farebbe di differente la consulenza rispetto a psicoanalisi e psicologia? La domanda è fondamentale e la risposta probabilmente risulterà semplicistica e affrettata, ma evidenti questioni di spazio ed opportunità mi consigliano di rinviare il lettore al lavoro di altri consulenti6 che su questo tema si sono già espressi. Dirò allora semplicemente che la consulenza filosofica si attesta sulla linea della narrazione dell’ospite, senza trascenderla alla ricerca di elementi causali di matrice psichica, e persino senza sottoporla alla questione della verità o falsità del racconto (verità rispetto a cosa?). Niente 5 Cfr. G. Jervis, Il mito dell’interiorità. Tra psicologia e filosofia, a cura di G. Corbellini e M. Marraffa, Torino: Bollati Boringhieri, 2011 6 Ad esempio, G. Giacometti (a cura di), Sofia e Psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto, Napoli: Liguori, 2010

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analIsI

esIstenzIale e dIalettIca dell’alterItà

altro che ciò: il piano di lavoro del consulente è il dialogo centrato sulla narrazione portata dall’ospite, proprio così come essa viene portata. L’indagine si attua filosoficamente sugli elementi del racconto (il narrato e le parole che lo dicono) e prosegue in un crescendo analitico che l’ospite può, ad ogni momento, rilanciare (o anche, volendo, bloccare) implementandola con altra narrazione. Come scrivevo poco sopra, noi leggiamo la nostra storia, e il modo in cui la leggiamo dice di noi molto più di quel che sembra: e questo non solo in senso psicologico. Il consulente, che di mestiere deve sottoporre ogni cosa ad analisi, non tarda molto a condurre il suo ospite a diretto confronto con i cortocircuiti del senso, con le contraddizioni, con le inferenze zoppe e le deduzioni sbagliate: tutti elementi filosofici, come si può vedere, benché le premesse che vi ho anteposto potessero riecheggiare quelle di molta psicologia (che invero le utilizza, ma per altri fini, non filosoficamente). Di solito l’ospite è grato di questo lavoro di esegesi che da solo non riusciva a comporre; altre volte, invece, se ne ritrae, spaventato dalla distorsione dell’immagine di sé che la consulenza gli mette dinanzi. In ogni caso, come forse non ho ancora detto, il consultante è libero. Anche di andarsene senza guardare. Torniamo a noi. Prima dell’ultimo inciso scrivevo: “solo mediatamente è possibile recuperare una certa razionalità in funzione dell’agire”. La “razionalità in funzione dell’agire” corrisponde a quella sorta di piano progettuale che nasce dal bisogno di riordinare gli elementi che l’analisi filosofica ha dis-ordinato; ma questi fattori, pur tradotti in racconto, erano fatti, gesti, eventi e questioni che ci mettevano totalmente in gioco. L’immagine di noi che emerge dalle parole che dicono il nostro vissuto e il nostro vivere non è mai puramente teorica, mantiene l’ancoraggio alla dimensione esistenziale7; laddove essa necessiti di essere ricomposta, la sua riorganizzazione si configura piuttosto come una specie di chiamata, nel rispondere alla quale non ci si può8 avvalere di una strumentazione puramente linguistica. Un gesto identificato come sbagliato può certo richie7

«Penso ciò che vivo?»: tutto parte e torna a questa domanda di Achenbach. Attenzione: questo “non ci si può” ha valore puramente teorico; in realtà la messa in pratica di qualsiasi chiamata domanda un intervento della volontà che nella consulenza rimane libero. Ogni chiamata domanda una risposta, ma il fine della consulenza non è né di spingere a rispondere, né di indirizzare il tipo di risposta (pena la sua trasformazione in scuola, in partito, in fede): scopo della CF è eventualmente rendere possibile la consapevolezza della chiamata (che più avanti connoterò come auto-convocazione), ed è questa consapevolezza che a sua volta domanda l’assunzione della responsabilità personale. Ora responsabilità ha la stessa radice etimologica di rispondere, e la risposta è un gesto della libertà. 8

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dall’amore

per la sapIenza alla sapIenza dell’amore

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dere una parola di scuse, ma più spesso domanda un agire 9 che ripari lo strappo che si è venuto a creare nel tessuto connettivo della relazione (con se stessi, con gli altri, col mondo). In questo senso, l’ordine è progettuale. Esso, avendo per oggetto questioni fondanti, gesti e situazioni concrete o concretizzabili, si rivela essere strutturalmente di tipo relazionale: intendo dire che l’ordine progettuale non è disposto su un piano auto-centrato, individuale, ma è volto all’esterno, al piano etico – politico. Il theorein filosofico (etimologicamente, contemplare, riflettere: vale a dire inserire le cose viste all’interno del proprio orizzonte prospettico, ordinandolo) avviene a partire da e in funzione de l’uomo concretamente agente nel mondo, di ciò che siamo in mezzo ad altri uomini, e dunque non rispetto all’uomo teorico, al disincarnato “soggetto”, quello del dover essere, sempre così prevalente nella tradizione del pensiero Occidentale. La consulenza filosofica rovescia il punto di vista ordinariamente attribuito alla filosofia: non si va dal pensiero al vivere – cadendo così nelle buche davanti ad irridenti servette tracie -, ma in direzione contraria, dal vissuto (la vita sperimentata, praticata, messa in crisi) al pensiero. Qualcuno di certo dirà che tutta la filosofia muove lungo questo sentiero, e che il mio rilievo è fuori luogo. Potrei essere d’accordo, e in realtà per moltissimi versi lo sono: la filosofia nasce dalla vita, è vita; se non lo fosse, essa non avrebbe più senso di un vuoto parlarsi addosso. Ciò che mi impedisce però di lasciar cadere l’obiezione è la consapevolezza che in un certo uso accademico il filosofare si riduce spesso ad una rigorosa esegesi testuale, o ad uno storicismo di stampo filologico, o ad un verboso esercizio di logica completamente slegato dalla vita attuale (e reale) dei suoi indagatori che, da filosofi, diventano funzionari tecnici dell’accademia. Già sento lo strepito: “E questa non sarebbe, dunque, filosofia?”. Affatto! È indubbiamente un tipo di filosofia. Però non l’unica possibile. Potrei allora usare questa metafora: la consulenza distilla pensiero dai fatti del quotidiano, dalle azioni. Lo fa anche la filosofia, certo. Il di più della consulenza starebbe però nel fatto che il consulente prova a mettere in fila ciò che gli raccontiamo noi di noi stessi, il nostro particolare esistenziale; a partire da questa materia grezza, egli prova a tracciare insieme a noi lo schema del senso delle nostre piccole logiche inferenziali, 9

Preferisco il verbo “agire” al termine “azione” perché credo che nella revisione operata dall’ospite sia possibile una progettualità estesa al vivere nella sua globalità, ovvero non momentanea (relativa a quel problema e solo ad esso) né estemporanea (intesa nel senso di un apprendimento puntiforme, non estensibile per analogia ad all’intero sistema concettuale ed esperienziale).

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delle nostre a-critiche assunzioni, delle nostre azioni; schema del senso e dunque del pensiero – che, filosoficamente, non è mai solo il mio pensiero, perché, essendo parola sensata10, è parte del discorso che necessariamente intrattengo con gli altri all’interno del linguaggio: mantiene questi altri in relazione col mio essere singolare –, quel senso che si cela dietro ai nostri gesti e procede, non visto, a disegnare i contorni del mondo di cui siamo parte. Diversamente dalla filosofia tradizionalmente intesa, il consulente non mira direttamente all’universale del concetto, piuttosto combina con esso (e dunque con la millenaria tradizione di pensiero da cui proveniamo, così come con l’attualità del contesto storico-sociale – e non è minore l’importanza di questo secondo aspetto) lo specifico esperienziale del suo ospite: crea le condizioni perché sia possibile collocare il particolare nel quadro generale, ovvero costruisce (e de-costruisce) insieme al suo interlocutore un possibile punto prospettico da cui guardare al mondo, e a se stessi all’interno del mondo. In tale analisi filosofica diventano accessibili questioni che abitualmente solo pochi vedono. Un piccolo esempio? Quante volte, pur animati dalle migliori intenzioni, pur inanellando tutti i passi teoricamente giusti, abbiamo dovuto constatare che il nostro agire o non ha avuto riscontro, o ha prodotto effetti che non ci saremmo mai aspettati? Perché è accaduto? È davvero solo un nostro problema, ad esempio di abilità relazionale? Di scarsa capacità di previsione? O magari di difficoltà psicologica? O di conflitto intrapsichico? O siamo influenzati biologicamente, secondo lo stile di pensiero propugnato dalle moderne neuroscienze? Non potrebbe essere invece, molto più semplicemente, che ci manca un occhio sensibile a cogliere alcuni aspetti della relazione col mondo fuori di noi (uomini e cose), aspetti di tipo conoscitivo, analitico, critico, sintetico – filosofico appunto – che nessuno ci ha mai allenati a guardare? Tutto questo discorso vorrebbe significare che chi arriva nello studio di un consulente non riferisce astrattamente di avere dei problemi con qualche concetto filosofico – che ne so, la libertà, l’essere, il nulla –: racconta perlopiù di trovarsi in difficoltà di fronte al proprio o altrui comportamento di cui sfuggono le implicazioni, o le contraddizioni interne, o la direzione, o 10 È parola sensata nel senso che, anche quando pensata in riferimento a se stessi, è inserita nell’orizzonte di senso di una logica condivisa, in un senso che è sociale sia in quanto origine (siamo sempre figli del nostro contesto), sia in quanto condizione performante. Proprio in riferimento a ciò potrebbe collocarsi – come elemento perturbatore dell’ordine dato e, dunque, come elemento di di-svelamento delle logiche intrinseche – la destrutturazione attuata dal discorso filosofico. Ed è interessante, e non secondario, ricordare il controllo del controllore che questa logica impone.

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il senso che gli altri sembrano ravvisarvi con più chiarezza dell’interessato. Oppure racconta di non sentirsi libero quando è al lavoro, di avere paura della morte, di vivere prigioniero delle attese proprie o altrui. Abbiamo detto che la filosofia in consulenza non è qualcosa di già dato a cui attingere per esaminare la questione; che essa si costruisce dialogicamente a partire dall’esame rigoroso della narrazione dei vissuti; ebbene, per intendere davvero cosa sia una consulenza filosofica occorre dunque aver compreso che il filosofare della consulenza non è un pensiero (un’idea, una teoria, una visione) che guida l’agire, né un consiglio dato al richiedente dall’esperto di turno: esso, al contrario, è un pensare, una sorta di decrittazione dell’agire concreto a beneficio dello stesso agente; decrittazione non disgiunta dalla successiva analisi argomentativa condotta sulla narrazione del dato esperienziale. È la consapevolezza di sé desunta dall’esame della narrazione dei fatti e dall’analisi delle ragioni emerse quella che, una volta indagata nelle sue linee di senso, sempre condivise su un piano paritario tra filosofo e consultante, viene messa a disposizione del consultante stesso che ne farà poi quel che crede11. Solo in questi termini ha senso definire “consulenza” questo tipo di attività del filosofo. Chiarito anche questo punto essenziale, torniamo finalmente a noi e al nostro tema originario. Nell’incarnare praticamente il filosofare, è il consulente filosofo in prima persona a respondeˉre12 alle questioni del suo ospite (e al suo ospite), senza il paravento di una teoria, di una scuola o di un metodo cui, da seguace, potrebbe far risalire parte della responsabilità del buono o cattivo esito del colloquio. Questa affiliazione non c’è: in quanto istituzione della filosofia in un singolo caso il filosofo è la consulenza filosofica. Equivale a dire: il filosofo è responsabile in proprio. E non solo; il filosofo non è affatto il saggio e sapiente dispensatore di un sapere illuminante: figlio del suo tempo e della propria umanità, il filosofo, al pari del suo ospite, è intrigato dallo spirito di ricerca (proprium di chi non ha ancora trovato), esattamente come chi lo interroga. È per questo che lo smaliziato giornalista che ha sposato la causa 11

Come più volte sottolineato dai consulenti filosofici, il consulente non guida le scelte del suo ospite, cioè non conduce in una direzione predeterminata. Il suo compito è aiutare l’altro a disegnare una mappa della propria situazione, lasciandolo poi libero di muoversi come crede, ma, come si suol dire, a ragion veduta. 12 Il verbo latino respondeˉre, nella pluralità delle sue significazioni, è la radice etimologica sia del verbo rispondere che del sostantivo responsabilità. Per inciso, anche il verbo rispondere ha, nel vocabolario italiano, una pluralità di significati ed è proprio in questa pluralità che esso, così come il verbo latino, viene qui evocato anche in relazione alla persona del consultante.

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di portare la luce ai propri presunti “ingenui” lettori può chiedere: “A che pro, dunque, interrogare chi non ne può sapere più di noi?”13. Ma la domanda (retorica: tutti sanno che il filosofo è colui che sa di non sapere) cela una sbadataggine – o forse una perniciosa dimenticanza – tanto insidiosa quanto retoricamente utile. La filosofia non è, infatti, solo un insieme di dottrine/risposte. La filo-sofia è soprattutto un atteggiamento mentale, una consapevole e coltivata dis-posizione14. Che il consulente, se è davvero filosofo, ha acquisito con lo studio e con una ricerca condotta oltre i libri, in se stesso. Tranquilli, dunque; questa competenza il consulente non l’ha improvvisata per gabbare il suo ospite: che è certo filosofo come lui, ma a livello amatoriale15. A questo punto, occorre riprendere ed evidenziare il fatto che il consulente filosofico è tale in quanto è filosofo; e che un filosofo è filosofo in quanto e solo in quanto rimane in relazione col pensiero vivo degli altri filosofi, ossia con l’universalità – politicamente intesa – di cui parlavo nella nota 2 di questo scritto. La locuzione “pensiero vivo” sta a significare che nel filosofare il pensiero millenario di Platone e quello contemporaneo di Nancy sono utili allo stesso modo per riflettere intorno alla domanda esistenziale; né l’uno, né l’altro saranno guardati come auctoritas, o meditati all’interno di una sorta di santuario universale delle opere valevole come epitome di ogni possibile sapere. È stigma della finitudine umana ripercorrere sempre di nuovo gli stessi sentieri della domanda; il fatto che lo si faccia stando “sulle spalle dei giganti” di tutti i tempi offre un miglioramento della prospettiva che non rende meno aspra la fatica della ricerca esistenziale; la quale, se è autentica, parte da ciò che si è, piuttosto che da ciò che si sa. Ancora: è – o dovrebbe essere – indubbio che il filosofo consulente, istituzione della filosofia in un singolo caso, filtrerà questo pensiero pensato da altri – ovvero la filosofia di cui egli è istituzione – attraverso se stesso; anche il consulente avrà le sue interpretazioni e i suoi autori, suoi nel senso che avranno toccato le corde della sensibilità individuale, non certo nel senso che saranno di diritto i modelli in base ai quali imposterà il suo lavoro durante la consulenza. 13 In ambito filosofico, la questione viene invece intelligentemente posta e interrogata dal recente testo di T. Possamai Consulenza filosofica e postmodernità. Una lettura critica, Roma: Carocci, 2011, interessante lettura del fenomeno consulenza. 14 Anche il termine dis-posizione verrà illuminato, benché di riflesso, dalla seconda parte del saggio relativa al dialogo. 15 Preciso, a scanso di equivoci, che amatoriale non ha valore dispregiativo e che va inteso solo nel senso della diversa competenza tra i due interlocutori.

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Con tali premesse, spero sarà più facile comprendere che quel che segue, lungi dall’essere un tentativo di piegare il pensiero di Irigaray alla mia visione della consulenza filosofica, o di adattare la mia concezione a schemi altrui, è piuttosto un’estrapolazione a partire da alcuni specifici concetti di Irigaray che mi sono sembrati in grado di illuminare la scena, ancora non del tutto definita, della consulenza, particolarmente intorno al concetto di dialogo. Il tutto, ovviamente, a partire da me, istituzione della filosofia in un singolo caso.

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2. Sul dialogo di consulenza Il dialogo è il cuore della consulenza filosofica e il tema della relazione dialogica è una delle questioni fondamentali all’interno del libro La voie de l’amour di Luce Irigaray, testo che è completamente giocato sulla necessità filosofica di riconnettere l’anima maschile e quella femminile dell’umano in vista di una nuova comprensione del mondo, sciolta dai vincoli rivelatisi insufficienti del soggetto astratto e maschile su cui si è allineata tutta la tradizione del pensiero occidentale16. La lettura del volume mi ha accompagnata nella prima fase di riflessione intorno al nucleo teorico della consulenza filosofica e ritengo che molte suggestioni di Irigaray si siano intersecate ai miei pensieri, fino a lasciarne una traccia indelebile. Le riflessioni che seguono, benché non strettamente correlate al filone di pensiero dell’autrice belga, ne hanno tuttavia il respiro. Segnalo al lettore interessato ad un eventuale approfondimento personale l’assonanza tra la descrizione proposta da Achenbach della Filosofia come professione17e le modalità dell’approccio all’altro su cui riflette Irigaray.

2.1. L’uno e molteplice volto del dialogo18 I numerosi tentativi di definire la Consulenza filosofica hanno in comune una speciale attenzione per il dialogo che io ritengo essere, nelle sue molteplici accezioni, base di partenza, strumento e fine della consulenza stessa. 16

Per ulteriori approfondimenti, mi permetto di rinviare al mio articolo Incamminarsi nella solitudine. Una lettura del La via dell’amore di Luce Irigaray, in «Phronesis», n°12, aprile 2009. 17 Ne La consulenza filosofica, cit. p. 57 (ma in part. pp. 69-70). 18 Il testo riportato in seguito è la revisione di una parte della tesi composta nel 2008 per il colloquio di accreditamento come consulente presso Phronesis.

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Considerare il dialogo come base di partenza significa fondare la possibilità dell’interazione col consultante sulla mutua dis-ponibilità a costruire un rapporto che ruoti attorno ad uno strumento di relazione, la parola, la cui utilità all’interno del dialogo non sia prevalentemente ostensiva, o semplicemente espressiva, ma soprattutto ricerca dell’intesa con l’altro, su un identico piano di autenticità; intesa che implichi un indietreggiare del sé in favore dell’avanzare dell’altro, dato che è solo nella concreta possibilità dell’espressione di sé che l’altro si es-pone. In consulenza non è solo l’altro colui che è chiamato ad es-porsi e, allo stesso modo, non compete solo ad uno dei due poli indietreggiare in favore del dialogo: la reciprocità nell’atteggiamento dialogante è l’elemento essenziale; senza di essa il dialogo non può protrarsi, semmai fosse iniziato. Ora, questa dis-ponibilità non è di per se stessa dialogo, anche se ne è uno dei fondamentali presupposti: proprio in tal senso il dialogo va inteso anche come fine della consulenza, come dirò più avanti. Dis-ponibilità implica l’aver preso o il prendere coscienza di sé (della propria posizione) e (di quella) dell’altro, ma implica anche la riconferma intenzionale dell’apertura originaria. Ha in sé l’accettazione dell’altro come valore e del rapporto reciproco come arricchimento. All’espressione di sé, del proprio potere, delle proprie abilità oratorie si addicono termini differenti da quelli che ho usato: dia-logo rimanda a due poli paritari e ad un legame fragile che va protetto, curato, voluto, ricercato con caparbietà. Il tema di cui i dialoganti di occupano è il terzo elemento del dialogo. Nell’occuparsi di esso in realtà gli interlocutori si prendono cura di sé: è la vita dell’uno e dell’altro ciò che è realmente in gioco per il tramite dell’argomento; infatti, a ben guardare esso è un complesso intreccio di vissuto e pensiero, dove le regole dell’elaborazione filosofica fanno i conti con l’incommensurabilità dei sentimenti o col peso di scelte concrete, riconducendo i due interlocutori all’umiltà di un riconoscimento: lo scintillio delle idee è altra cosa dalla materia dura incrostata di impensato pensiero che emerge dal nostro agire quotidiano. L’equilibrio del dialogo sta nella danza attorno al tema: un passo avanti e uno indietro, non un cedere terreno che faccia collassare il partner, né un incedere pesante che disturbi l’armonia dell’altro danzatore, arte paziente di attendere i tempi dell’altro. Il dialogo come strumento della consulenza è la parola dialogante. Qui l’accento cade sulla parola, sulla sua possibile comprensione, sull’interpretazione, sulla capacità di dire o di dirsi (dire di sé), sulla sensibilità dell’orecchio che ascolta e intende, sull’ampiezza dell’orizzonte in cui tutte queste variabili si collocano. Ma parola nella vastità di questo contesto diventano anche il gesto, l’espressione, il non detto perché indicibile (diverso dal non voler dire), il

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pianto, il sorriso, lo sguardo, cioè tutto quanto è segno, bersaglio dell’attenzione, della personalissima capacità di lettura, della disponibilità a raccogliere e ad accogliere del consulente. Tutto questo è parte del dominio del Medesimo, il luogo in cui diventa importante distinguere tra ciò che “semplicemente” è il detto19 o il manifesto e la sovrastruttura interpretativa che ci deriva dalla tradizione, dalla cultura, dall’abitudine, dalla disposizione d’animo, dalle tante inconfessabili chiusure. Questo è anche il luogo del possibile fraintendimento sul “filosofico” della consulenza; qui dove il filosofo, spogliato dei suoi titoli accademici, rivela o meno la sua natura filosofante e l’umiltà di chi davvero sa di non sapere. Vi è infine il dialogo come fine20 della consulenza, ovvero quasi come esito ulteriore21, acquisizione mai conclusa. È il settore dedicato al procedere congiunto e tuttavia singolare degli interlocutori, un andare in cui il passo comune non è annichilimento dell’individualità, bensì la sua esaltazione in seno all’equilibrio che caratterizza il rapporto ottimale con l’alterità. Che si possa imparare a dialogare: è questo probabilmente l’esito più invocato dai consulenti, sia che il dialogo appaia finalizzato all’espressione di un disagio e alla sua problematizzazione, sia che esso implichi la ricerca di una modalità “ecologica” di rapportarsi alle persone che ci circondano, sia che esso rappresenti il passaggio obbligato per una migliore comprensione di sé. Se in qualche modo la consulenza può darsi anche come insegnamento, questo è il punto in cui maggiormente sarebbe visibile l’eventuale acquisizione di un sapere pratico che prima non c’era, o che almeno non era consapevole in quanto sapere. L’arte del dialogo è infatti squisitamente pratica. Non può essere predisposto alcun “dover essere” del dialogo, pena l’inevitabile sua trasformazione in qualcos’altro: esame, discussione, contesa, confronto, disputa, controversia e via di seguito. Ancora, il dialogo “si accetta”, “si stabilisce”, “si ricerca”, “si offre”, “si propone”, non si impone né si pretende. La mia tesi è che sia possibile pensare ad un concetto di dialogo specifico per la consulenza filosofica e che per la sua realizzazione sia utile che 19 Lévinas ci ricorda che il detto non è semplice: esso, in quanto tradimento del dire, contiene una parte ineffabile «la quale, in un linguaggio che si torce su se stesso, si comunica lo stesso» (Trascendenza e intelligibilità, Genova: Marietti, 1990, p. 39); e, ancora, che «L’altrimenti detto sta un po’ a significare che ogni linguaggio è ancora insinuazione e comporta sempre una riduzione di quanto è stato appena affermato» (ibidem). 20 Il dialogo come fine della consulenza costituisce anche uno dei maggiori punti di stacco dalle pratiche psicoterapeutiche e psicoanalitiche. Ringrazio del rilievo, frutto di tanti appassionati scambi dialogici, la dott. Claudia Bert, psicologa. 21 “Ulteriore” rispetto alla trattazione del tema intorno a cui il dialogo si è costituito.

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il consulente adotti un particolare atteggiamento di ascolto dell’altro. Tale ascolto dovrebbe tener conto di alcune fondamentali pietre d’inciampo: il Medesimo22, le categorizzazioni improprie dell’alterità (il pensare l’altro secondo ottiche “rigide”), le strutturazioni strategiche connaturate ad ogni intervento che intenda – anche solo vagamente – “modificare” colui cui è rivolto. Vigilare costantemente su questi aspetti è compito del consulente, così come, a parer mio, lo è l’aspirazione ad oltrepassare la soglia del Medesimo, disponendosi ad incontrare, meglio, a sfiorare l’alterità, in uno sforzo generativo di nuove prospettive dove alla parola sia concesso di recuperare una sorta di stato nascente, una densità che il Medesimo non conosce. Compito del consulente è, ancora, riconoscere che in questa ricerca esiste un limite invalicabile, il quale consta proprio nell’accoglimento dell’alterità del consultante, alterità che si manifesta come “posizione” propria dell’altro, ontologicamente co-estensiva dell’alterità stessa, ma spesso assunta consapevolmente dal consultante solo in seguito al cammino di consulenza o ad alcune esperienze di rottura. Questo confine, quando interviene in sede di consulenza, interseca la prima dimensione del dialogo, nel senso che implica una sorta di retrocessione dalla dis-ponibilità a trovare una parola dialogante in grado di mantenere la relazione aperta al nuovo che proviene dall’altro e conduce invece a servirsi dell’altro al fine di mettere alla prova la propria posizione con l’intento di consolidarla. Interseca in secondo luogo la profondità della parola, nel senso che quella che ho chiamato dimensione orfica, o stato nascente, si trasforma in posizione acquisita nel contesto del pensiero singolare. Infine interseca la terza dimensione del dialogo perché crea delle attese-pretese che potrebbero trasformarlo in discussione, in confronto teso al mantenimento della posizione.

2.2. La parola La parola è l’elemento base del comunicare; essa non va intesa solo come aggregato di vocali e consonanti, in un contesto di logica, ortografia, sintassi. La comunicazione, in quanto desiderio di essere tale, passa attraverso 22 «L’uomo è un “animale parlante” a condizione di creare parola per dirsi, dire il mondo, parlare all’altro. L’obbligo di “parlare come tutti” o secondo ciò che è stato appreso non risveglia, o spegne, la coscienza umana. Se il soggetto non ha, in sé, la sorgente del suo movimento, perde la qualità di soggetto. È un meccanismo messo in moto da un’energia già fabbricata, non libera. Parla ma in qualche modo non ha niente da dire che possa dire, o non ha più niente da dire, paralizzato com’è tra ripetizioni e mutismo» (Irigaray, La via dell’amore, Torino: Bollati Boringhieri, 2008, pp. 46-47).

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l’aspirazione a raggiungere il pieno dell’espressività affinché all’altro sia offerta la possibilità del pieno della comprensione. Essa si impadronisce dell’intensità dello sguardo, della fermezza delle mani, del tremito della voce, della postura del corpo. Tutto questo ha poco a che vedere con gli schemi interpretativi forgiati dalla psicologia; attiene piuttosto alla multiforme sensibilità delle persone coinvolte – una sorta di orecchio relazionale – e all’intensità del loro desiderio di intesa. Ma anche qui occorre fare attenzione, distinguendo tra atteso (ciò che prevedibilmente potrebbe accadere – e ben sappiamo quanto questa attesa sia fuorviante per l’attenzione), dato (ciò che accade) e supposto, ovvero l’interpretato (ciò che ritengo sia accaduto). Occorre avere il coraggio della verifica immediata presso l’ospite in caso di dubbio interpretativo, perché il fraintendimento interno al dialogo, ma anche i giochi di potere, o la ricerca di impensabili rifugi da parte di chi si es-pone, sono sempre in agguato. Parola nel dialogo è tutto ciò e molto di più. Come scrivevo nel primo paragrafo, è questo il luogo del Medesimo, ossia dell’illusione che vi sia un medio termine garante della possibilità di intendersi. Non è affatto così. L’intesa va fatta sorgere ad ogni passo e deve andare al di là del linguaggio comune, verso lo scoprimento dell’interiorità ove le parole usurate del detto riprendono coscienza di sé, diventano dense grazie a questa consapevolezza e finiscono con l’acquisire una nuova indole, tale da influire profondamente nella descrizione del mondo. Questa dimensione orfica del dire non è separata da ciò che altro dice: il corpo, come ho già scritto, ma anche una poesia, una musica, un dipinto nel loro significare in relazione al bisogno espressivo. Essi entrano nella parola e la informano di sé. Ci si potrà chiedere come sia possibile comunicare senza un medium della comunicazione; tuttavia, vorrei chiarire che non è questo quello che ho detto, perché le parole usurate sono quelle (necessarie) del Medesimo23: il nuovo sta nella continua creazione di un’intesa che vada al di là di esse senza pretendere di annullarle, perché tale pretesa equivarrebbe a voler stabilire un altro medesimo. Mi si dirà allora che nessuna intesa è possibile sulla base di criteri indefiniti, come indefinita sembra essere questa parola: risponderò che la piena luce del giorno sulle parole e sui loro significati, sul senso e 23

Lévinas: «La correlazione del dire e del detto (…) è il prezzo che esige la manifestazione. (…) Nel linguaggio come detto tutto si traduce davanti a noi” E ancora: “Altrimenti che essere (…) la cui traduzione ai nostri occhi è tradita nel detto dominante il dire che lo enuncia (…) tradimento al cui prezzo tutto si mostra, perfino l’indicibile, e grazie al quale è possibile l’indiscrezione riguardo all’indicibile che è probabilmente il lavoro stesso della filosofia (…) L’altrimenti che essere si enuncia in un dire che deve anche disdirsi per strappare così l’altrimenti che essere al detto in cui l’altrimenti che essere si mette già a significare un essere altrimenti» (Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Milano: Jaca Book, 1983, p. 9 e 10).

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sulle questioni è l’illusione delle filosofie che miravano ad impadronirsi del mondo, mentre con Irigaray affermo che “un’altra via è da trovare” e che l’altro deve potersi rifugiare “in un mistero che gli assicuriamo in noi”, spesso proprio grazie a questa parola e al suo corrispettivo, il silenzio. Nel fare consulenza il tema della parola si rivela centrale perché vi è costantemente la necessità di mediare tra il sapere filosofico, intessuto di parole-concetto, e la parola quotidiana senza perdere per strada il significato che si vorrebbe far passare. Nella pratica di consulenza, ho incrociato spesso la necessità di improvvisare metafore, analogie, improbabili collegamenti al fine di rendere accessibile un concetto. Anche in questa azione ho ritrovato traccia del bisogno della parola di riprendere un carattere generativo che dica il mille volte detto con un accento nuovo. La parola può plasmare il mondo se sa restare parola, comunicazione, relazione. Il folle che espone se stesso attraverso la sua follia, propriamente non comunica, domanda di essere interpretato; ma l’interpretazione non abbisogna della reciprocità e così la pluralità dei mondi possibili si richiude su se stessa. Come filosofi consulenti occorre essere costantemente alla ricerca di un passaggio verso il mondo degli altri, mondo che comunque non ci possiamo illudere di comprendere, semmai di intravedere fugacemente, senza mai possederne una mappa che faccia perdere la consapevolezza di dover ancora e sempre ricercare.

2.3. L’alterità dell’altro La sincronia del dialogo non è solo il ritmo comune, ma soprattutto l’acquisizione della capacità di avvertire in anticipo, in certo qual modo, la direzione del passo dell’altro, proprio come nel danzare segnali impercettibili muovono i ballerini secondo traiettorie comuni. Questa percezione quasi di danza dell’andare comune è il dialogo come fine della consulenza. Ho già avuto modo di dire che, anche nell’andare sincrono, i danzatori rimangono distinti. Se questo è l’invalicabile limite etico di ogni rapporto, lo è in modo essenziale nella consulenza filosofica. Come immaginare una “consulenza” che diventi guida, insegnamento, terapia? Certo essa può esserlo, ma solo per via di esiti secondari. Ciò che ne costituisce il cuore è l’essere un filosofare, pensiero creativo strutturato secondo i canoni di quel qualcosa di indefinibile che molti chiamano “amore della sapienza”, altri “amore della saggezza”, originaria apertura sul mondo. Proprio nell’essere filosofia la consulenza rinuncia alla possibilità di essere intenzionalmente insegnamento, guida, terapia perché per insegnare, guidare o curare occorre

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sapere e ritenere quel sapere degno di essere insegnato, seguito, assunto. Ma il consulente non ha nulla da insegnare se non il filosofare stesso, e ciò solo ammesso che sia possibile, come direbbe Kant. Poiché il consulente genera il pensiero a partire dal domandare del consultante – in ciò restituendolo immediatamente alla sua stessa domanda – durante la consulenza egli si occupa di solito solo di quanto quel domandare ha messo sul tappeto; se è lui ad allargare il discorso, deve farlo tenendo conto sia delle reali possibilità di comprensione, sia della volontà al riguardo della persona che ha davanti. Per comunicare occorre essere sulla stessa lunghezza d’onda, sia nel parlare che nell’ascoltare. Dire a chi non può o non vuole intendere equivale a non dire: mette forse a posto la coscienza del consulente, ma non cambia il mondo. “Cambiare il mondo” è farsi comprendere, suscitare il desiderio dell’intesa, per amore del sapere e consapevolezza dell’essere-con gli altri. Il confine rimane sempre l’alterità dell’altro, la sua libertà, il rispetto.

3. Le peculiarità del dialogo in consulenza Quanto ho sperimentato mi porta a ritenere che vi siano delle caratteristiche ben precise del dialogo in consulenza. Proverò a descriverle, benché sia consapevole della provvisorietà delle mie considerazioni. Il tema iniziale di riflessione proviene da una delle prime obiezioni che vennero fatte alla consulenza filosofica. Si tratta della presunta difficoltà di distinguere il dialogo amicale da quello consulenziale, visto che certi aspetti macroscopici appaiono talmente simili che Schuster stessa, per indicare il rapporto consulente-consultante, non esita ad usare il termine “amicizia”, pur differenziando attraverso l’aggettivo “intellettuale” l’una dall’altra. Nel praticare la consulenza, però, mi è parso di scorgere delle diversità che ne fanno due ambiti essenzialmente dissimili. La difformità primaria e più sostanziale è che nell’amicizia si arriva al dialogo attraverso due passaggi non accidentali: il primo è che originariamente il legame di amicizia nasce da un’affinità, da una scelta reciproca all’interno della quale si è condotti al dialogo. Tra amici c’è una conoscenza che va al di là del racconto di sé: è una conoscenza esperita, in bene e in male; vi è una condivisione di contesto, di presupposti, di fiducia. Se il dialogo sia il punto d’arrivo di un’amicizia, o il punto di partenza per costituirla, potrebbe essere un interessante argomento di discussione; tuttavia, ci sono anche amici che non dialogano, che si limitano a chiacchierare, oppure che discutono, che si di-vertono, che giocano…

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Ciò mi porta al secondo passaggio, ossia al fatto che nemmeno il dialogo amicale va “in automatico”: è esso stesso elettivo, viene scelto, implicitamente proposto e accettato, coltivato. Nel dialogo amicale vi è una misura affettiva che tiene conto dell’altro e della sua sensibilità, c’è un tacito confine del dire al cui superamento occorre la concessione del consenso: “Se me lo permetti, vorrei dirti… chiederti… raccontarti…”. Ulteriore misura del dialogo amicale è l’opportuno, ciò che nel contesto è meglio dire/tacere per le ragioni più diverse – e non necessariamente utilitaristiche. Per cercare una formula riassuntiva, potrei ipotizzare che in questo tipo di dialogo il dato centrale sia l’amicizia, o l’affetto, o il presunto bene – spesso unilateralmente considerato – dell’amico. Altra cosa mi appare, in rapporto a questa visione, il dialogo consulenziale. Benché il consultante scelga il consulente, la scelta non è tanto legata ad affinità pregresse quanto, molto più spesso, ad affinità supposte, ad impressioni, a segnali, a competenze riferite magari da chi ha già sperimentato una consulenza. La fiducia è da costruire e passa attraverso la capacità del consulente di interagire col consultante (e viceversa). La misura, sempre necessaria, è però prioritariamente connessa al dialogo stesso piuttosto che al rapporto interpersonale; il che non significa affatto che ci si possa esimere dalla salvaguardia della relazione, soprattutto se si intende portare a termine la consulenza. Potremo precisare questa asserzione suggerendo che si tratta di una questione di accenti: nella consulenza prevale il filosofare, nel rispetto delle reciproche modalità relazionali che, a seconda degli interlocutori coinvolti, potrebbero implicare, ad esempio, l’esclusione di formule ironiche o polemiche; ma potrebbe darsi anche il caso opposto in cui tali atteggiamenti vengono invece sollecitati. Del resto ogni consulenza è un caso a sé. L’“opportuno” per il consulente diventa ciò che l’ospite può comprendere, sopportare, elaborare e può sovente essere aggirato maieuticamente; per il consultante, invece, esso ha una stretta relazione con ciò che egli vuole far sapere di sé e/o con l’urgenza di trovare (per sé) risposte “vere” mettendo in campo la massima sincerità, con se stesso prima ancora che con chi gli sta di fronte. Il bene dell’altro, poi, non è incarnato in un principio di valore – un’idea, una finalità, una meta – ma è piuttosto una chiara visione del suo proprio mondo, all’interno del quale i valori possono essere indagati, ma rimangono scelta precipua del nostro ospite. Se queste riflessioni sono condivisibili, mi sembra che si possa tranquillamente asserire che tra il dialogo amicale e quello consulenziale vi siano diversità talmente rilevanti da far cadere anche la seconda pesante obiezione sulla consulenza filosofica, ossia che ci si faccia pagare per qualcosa

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che tutte le persone di media intelligenza potrebbero tranquillamente fare senza essere “filosofi”. Al contrario, la “via stretta” del filosofare domanda talmente tanta accortezza e competenza da dover essere continuamente indagata. Così come ritengo che nessun titolo accademico garantisca in modo inoppugnabile che si sia di fronte ad un buon consulente, altrettanto penso che sia la filosofia la vera anima della consulenza: la “semplice” saggezza, quella dell’amico, non basta, pur essendo indubitabilmente necessaria non solo al filosofo, ma a chiunque. Tra le peculiarità del dialogo di consulenza rientra a mio avviso anche una particolare modalità di ascolto. Ciò che intendo è che la ricezione non si deve affidare ad alcun canale privilegiato che oscuri gli altri, ma vada riassorbita all’interno di un “tutto” di comunicazione. Ad esempio, penso che la parola (in quanto detto) in sé non sia garante dell’effettività della comunicazione. Intersecando il tema del racconto di sé che il consultante fa al consulente, ritengo che – proprio per questa modalità di conoscenza dell’altro filtrata attraverso un racconto, ossia una visione – il consulente debba potenziare le sue capacità di ascolto di tutte le parole, comprese le parole altre del suo ospite, per cogliere i segnali di visioni che l’ospite ha per qualche ragione scartato, non visto, rifiutato, sottovalutato, negando che potessero avere accesso alla narrazione (che è, prima di tutto, narrazione di sé a se stessi). Penso poi che solo un ascolto prolungato e attento del portato dell’ospite possa offrire l’opportunità di collocare questo racconto in un contesto vitale, una sorta di cornice dinamica a sostegno del quadro narrativo che l’ospite porge. Ma credo altresì che un ascolto attento renda possibile al filosofo un esercizio di consapevolezza assai utile a trattenerlo da quei “sofismi” che inducono ad operare sulla vita come se si trattasse di “aggiustare un puzzle logico”: riconoscere la propria opacità in quella del proprio interlocutore; avvertire su di sé il paradosso del pensiero che si innesta nella carne viva e la espone alla magnificenza del sapere, ma anche al dolore24 o alla responsabilità che ne deriva. Occorre chiarire che questo ascolto non ha molto a che vedere col concetto psicologico di empatia; si tratta piuttosto di sospendere consapevolmente la “filosofia della pretesa”, ovvero di slegarsi dalla parola che – definendo – chiude fuori di sé ogni spazio all’ulteriore necessità di espressione che – eticamente – dovremmo riconoscere come diritto all’Altro con cui entriamo in rapporto. L’espressione hegeliana ripresa da Achenbach del «cuore che pensa» è un’ottima immagine per comprendere il senso di questa distinzione. 24

Qohelet, 1, 18

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analIsI

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Scrive Irigaray:

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Un vocabolo può essere un gioiello del quale l’uno trasmette la scoperta o la conoscenza all’altro, un’opera d’arte che è possibile contemplare o gustare assieme. Ma ciò non significa ancora avanzare l’uno e l’altro alla scoperta del nuovo. La comunione nel già detto può persino paralizzare l’incamminamento verso un dir(si) mediante l’illusione di un parlar(si) al di qua o al di là delle parole: silenzio complice, effetto di imprigionamento nella parola di un altro – popolo, cultura, Dio, terzi. Questo non vuol dire che niente si diffonde ma che, non rifacendosi carico dell’articolazione al presente del senso del dire, il soggetto perde la strada della parola. E il suo incontro con l’altro è ormai intralciato da secoli di linguaggio che ripete suoni e sensi senza parlare al presente25.

Ancor meno ordinaria appare l’esigenza di disporre tutto questo su di un piano non coincidente col Medesimo in tutta la sua articolazione (il codice, il “saputo”, il facente parte del contesto culturale, lo “sfondo della parola” come l’ho definito altrove), nel reiterato sforzo creativo – che non ammette nulla di scontato – di fondare il rapporto dialogico con l’altro non (…) più a partire dall’omologazione nel medesimo ma a partire da una relazione in cui la differenza resta condizione della presenza e motore del divenire26.

Una relazione fondata sulla differenza in quanto condizione della presenza27 dell’altro, pur aspirando fortemente alla reciprocità, induce a modificare non l’altro, ma prioritariamente noi stessi28 in quanto dis-ponibili e dis-posti da tale presenza. In questa prospettiva, il dialogo, nella molteplicità dei suoi

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Luce Irigaray, La via dell’amore, cit., p. 47. Ivi, p.115. 27 Il termine “presenza” va letto come posizione assunta dall’Altro all’interno della relazione; posizione che non viene definita dall’io, ma lasciata aperta al manifestarsi dell’Altro secondo le proprie dinamiche espressive, anche ove sia necessario mediare il suo dir(si) per potersi intendere. È chiaro che questa modalità del dialogo ha come presupposto la sospensione della filosofia (e del linguaggio) della pretesa. Irigaray abbraccia l’atteggiamento ermeneutico e al contempo desidera superarlo; ma difficilmente la sapienza dell’amore troverà udienza presso i filosofi, almeno fino a quando la filosofia non si libererà della tentazione di voler essere il sapere ultimo e di dire l’ultima parola. 28 “La presenza non è più messa a disposizione. Essa esiste e cresce in maniera autonoma. Il cui approccio richiede insieme cure e lasciar essere. Non si tratta qui di modellare l’altro secondo un’intenzione propria, fosse anche quella di situarlo nel tutto di un mondo. Se dobbiamo modellare qualcuno in questo senso, siamo piuttosto noi stessi, non senza badare all’irriducibile apporto che possiamo e dobbiamo dare all’insieme già qui” (Irigaray, La via dell’amore, cit., p. 114). 26

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dall’amore

per la sapIenza alla sapIenza dell’amore

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sensi, non è più un semplice “discorrere” intorno a qualcosa in relazione alla quale le reciproche differenze vengono mediate o argomentate, ma appare come la costruzione di una relazione che travalica il detto e il medesimo (senza abolirli) per avvicinare propriamente l’altro in quanto presenza, nella ricchezza della sua piena alterità. L’altro non è un “discorso” da comprendere o da assimilare a partire da noi stessi; l’altro, che sempre trascende il nostro coglierlo, è posizione, presenza da accogliere – un accogliere che è sfiorare – creando in noi uno spazio, un vuoto attraverso cui gli sia possibile accedere alla presenza. E quella presenza, a sua volta, non è a nostra dis-posizione, ma «esiste e cresce in maniera autonoma». Ora, se nell’amicizia è possibile avere in comune visioni del mondo, fedi, principi, attese, una sorta di accordo sull’abbracciato senso dell’esserci, in consulenza secondo il mio parere tutto si riduce all’essenzialità di una presenza nella (e grazie alla) differenza, di un essere-con in cui l’altro, consapevolmente restituito alla sua alterità, è uno dei due poli della relazione che condurrà entrambi inevitabilmente all’opzione – sempre singolare e tuttavia strettamente interrelata alla pluralità delle “posizioni” venute in presenza, in quanto le considera o meno, e solo per quanto le considera29 – relativa alla propria dis-ponibilità, nei sensi che ho esaminato. Questa mi sembra un’antropologia che consente alla consulenza filosofica di restare tale, consulenza appunto, evitando la trasformazione in una dottrina, una scuola o una chiesa. Non ho nulla da “insegnare” o da “trasmettere” al mio ospite, e contemporaneamente non c’è nulla di me che debba30 sottrarre al suo domandare, alla sua richiesta di ragioni. Occorre altresì che non ci sia pretesa di reciprocità nell’impegno ad una vita filosofica, solo una silente proposta31 che, o si rivela da sé come “auto-convocazione”, o perde il suo senso di autonoma acquisizione per diventare“guida”, “consiglio”, “terapia”.

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L’attenzione all’altro è proporzionale alla considerazione che ne ho; in questo senso mi piace citare Jean-Luc Nancy che scrive «(…) non c’è etica che sia indipendente dall’ontologia e (…) solo l’ontologia, in verità, può essere etica in un senso che non si dimostri inconsistente» (in Essere singolare plurale, Torino: Einaudi, 2001, p. 31). 30 “Debba sottrarre” è scritto, non “voglia sottrarre”: il diritto alla riservatezza non viene intaccato. Si può essere autentici nel rapportarsi agli altri anche trattenendo – forse addirittura solo trattenendo – presso di sé la propria interiorità… 31 Il termine “proposta” non va inteso nel senso letterale del termine, come “offerta”, ma nel senso che l’essere ciò che è del consulente è una finestra sulla sua visione del mondo, finestra che non può essere chiusa se il consulente è se stesso all’interno della funzione che assume.

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4. Dunque? La problematicità dell’attuazione di un simile concetto di consulenza filosofica non mi è oscura: bastano i normali limiti della nostra umanità a mettere grossi ostacoli sulla strada. Quale equilibrio deve possedere un consulente per destreggiarsi tra tante variabili senza perdere lucidità? Quale atarassia per estromettere il se stesso desiderante dal rapporto col suo ospite? Come trattenersi dal quasi doloroso bisogno di difendere con ardore le proprie “verità” lasciando l’altro alle sue irriducibili divergenze? Come discernere il sempre possibile passaggio dal riflettere – l’essere specchio – al suggerire? Chi ci dice se questa è la strada giusta? Cos’è giusto? Dove inizia e dove finisce la buona consulenza? Sono tante le domande cui è arduo dare una risposta, né, forse, una risposta è possibile, ma solo molte e varie. Ancora una volta, la consulenza si intreccia indissolubilmente col consulente che la pratica. Indubbiamente, nel rapporto coi miei consultanti io sono presente, totalmente presente, coi miei dubbi, i timori, i valori, la voglia di cambiare il mondo, le scelte, gli errori, ma mi sforzo di essere semplice testimone delle cose in cui credo, senza pretendere di “diffonderle”. Mi sono domandata ragione di questo atteggiamento che mi pare irrinunciabile e ne ho individuata una che sta racchiusa proprio nel termine “filosofia”. Semplicemente, senza pretendere di fare una dotta analisi della parola, a traduzioni variabili di sophia (sapere, sapienza, saggezza) corrisponde l’unanimità nel riconoscere la philia come amore che diventa fonte di gioia. Solo l’amore gioioso per la conoscenza, la sapienza, la saggezza spinge a mantenere aperta la propria “posizione” nei riguardi dell’altro, riconoscendo che essa può modificarsi grazie all’altro. È altrettanto chiaro che solo un amore che sa condurre una persona a “cambiare il cuore” può “fare nuove tutte le cose”. C’è una enorme differenza tra l’adesione ad una forma della sapienza e l’impulso ad amare la sapienza stessa: il campo si dilata all’infinito. Un amore di questo genere non può essere insegnato, solo testimoniato.

5. Conclusione Dall’altro irradia una verità che può essere ricevuta senza che la sorgente ne sia visibile. Questo a partire da dove l’altro elabora il senso, ci resta segreto, ma possiamo indirettamente percepirne qualcosa. È un’operazione che trasforma il soggetto stesso, lo illumina in una maniera allo stesso tempo visibile ed invisibile. La luce che così ci giunge rischiara altrimenti il mondo, e ci

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dall’amore

per la sapIenza alla sapIenza dell’amore

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rivela la particolarità del nostro punto di vista. Essa non ci dice niente in un certo senso, non pronuncia alcun vocabolo ma disvela i limiti di un orizzonte, di un sito del pensare, dell’esistere, dell’essere. Apre nuove possibilità di percepire ed elaborare lo spazio e il tempo, sottraendoli all’opacità della notte pur senza disporvi ancora niente: solo il dispiegamento di un’altra maniera di vedere, di ascoltare, di accogliere il reale tenendo conto dell’importanza dell’altro nella propria esistenza. Essa mantiene vivi lo stupore, l’interrogazione, il movimento del pensare e del dire32.

Ho conosciuto questa modalità di ascolto grazie alla parola – non alle parole – di persone a volte umilissime, ma tutte a modo loro straordinarie, che la vita ha messo sul mio cammino; tra di esse il mio insegnante di filosofia teoretica, Giovanni Romano Bacchin. L’esperienza dei molti anni passati da allora mi induce a ritenere che comprendere o imitare questa modalità di ascolto non sarà mai solo una questione professionale, ma piuttosto una scelta intrinsecamente legata a ciò che riteniamo di essere e, forse ancor di più, a ciò che, fatto essere, renderebbe la nostra vita degna di essere vissuta.

Riferimenti bibliografici AAVV, 2006, Pratiche filosofiche e cura di sé, Milano: Mondadori AAVV, 2008, Filosofia praticata, Trapani: Di Girolamo Achenbach, G. B., 2004, La consulenza filosofica, Milano: Apogeo Giacometti G. (a cura di), 2010, Sofia e Psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto, Napoli: Liguori Irigaray L., 2008, La via dell’amore, Torino: Bollati Boringhieri, Jervis G., 2011, Il mito dell’interiorità. Tra psicologia e filosofia, a cura di G. Corbellino e M. Marraffa, Torino: Bollati Boringhieri Levinas E., 1990, Trascendenza e intelligibilità, Genova: Marietti Levinas E., 1983, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Milano: Jaca Book Nancy J.-L., 2001, Essere singolare plurale, Torino: Einaudi Possamai T., 2011, Consulenza filosofica e postmodernità. Una lettura critica, Roma: Carocci. Zanella C., 2009, Incamminarsi nella solitudine. Una lettura del La via dell’amore di Luce Irigaray, in «Phronesis», n° 12.

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Luce Irigaray, La via dell’amore, cit., pp. 110-111.

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Ricercare se stessi con l’esistenzialismo

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di Sabrina Francavilla

In questo testo mi propongo di trattare come in sede di consulenza filosofica possano essere utilizzati i testi filosofici, ed in particolare quelli che si riferiscono alla corrente dell’esistenzialismo. Vorrei precisare che si tratta di un approccio personale, che mi sono formata mediante la pratica della professione, sia per quanto riguarda la scelta dei testi sia per il modo in cui essi sono utilizzati. Devo riconoscere l’influenza nell’esercizio del colloquio di consulenza della mia “concezione filosofica” e di alcune mie preferenze. Tuttavia è stata la “pratica su campo” a darmi modo di testare varie modalità di approccio e il loro rapporto con la concezione stessa di filosofia e di consulenza filosofica Una delle caratteristiche peculiari della consulenza filosofica è quella di far valicare alla filosofia i confini del mondo accademico e puramente teoretico in cui, per molto tempo, è stata relegata, allontanandola così dalla sua posizione originaria. In questo modo essa si impossessa nuovamente della possibilità di instaurare una connessione con la vita concreta, prendendo così una forma più dinamica che le permette anche di proporsi come veicolo per realizzare la “cura di sé”, un cammino di profonda comprensione e incremento dell’autocoscienza e della consapevolezza di sé. Tutto questo è probabilmente visto dai più come una novità, ma in realtà non è altro che un riappropriarsi, da parte della filosofia, del ruolo originario, quale era ai tempi della sua nascita dalla meraviglia di fronte al mondo, nell’antica Grecia. Queste considerazioni, però, non devono portare a pensare che la consulenza filosofica si voglia staccare completamente dalla dimensione disciplinare, che include, tra le altre cose, anche lo studio dei testi. Separare la filosofia pratica e la filosofia come disciplina teoretica e storica in modo netto, come probabilmente si sarebbe portati a fare, non è corretto, in quanto così facendo si rischia di mettere in discussione l’unità della filosofia stessa, che è una ed una soltanto. Si tratta di una ricerca della saggezza che inizia dalla meraviglia e dall’amore per la sapienza. Le separazioni che vengono operate e che distinguono diversi settori della filosofia sono, lo si deve riconoscere, più che altro strumentali, finalizzate a facilitare lo studio e, in alcuni casi, la riflessione, ma non strutturali alla disciplina.

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analIsI

esIstenzIale e dIalettIca dell’alterItà

Personalmente ritengo che l’utilizzo di testi filosofici nell’ambito della consulenza filosofica sia molto utile, se non, in alcune circostanze, addirittura fondamentale. La formazione preliminare (e necessaria) alla professione di consulente filosofico permette di possedere una conoscenza dei testi tale da poter, attraverso la pratica, valutare quali tra essi potrebbero eventualmente costituire delle basi per la consulenza stessa o, più semplicemente, un valido aiuto. Si tratta di un punto piuttosto importante. Per impostare un lavoro, di qualsiasi genere esso sia, si ha la necessità di possedere “un punto fermo” da cui partire. Probabilmente tale esigenza si fa ancora più forte quando si deve lavorare su qualcosa di estremamente delicato, fragile e privo di caratteristiche prefissate o prestabilite, qual è la persona umana. Ecco che il testo filosofico potrebbe rispondere proprio a questo bisogno. Da questa prospettiva, dunque, il testo filosofico può venire a rappresentare un valido punto di riferimento per lo svolgimento della consulenza filosofica. Ciò, comunque, non fa venir meno la caratteristica di non prevedibilità di tale pratica, che, detto in maniera semplificata, si configura come un dialogo che prende forma con la sua attuazione. Va tenuto presente che ogni testo filosofico presuppone una particolare visione dell’uomo, del mondo e del loro reciproco rapporto, sia in senso ontologico che gnoseologico. Non è quindi marginale la scelta del testo filosofico a cui si intende fare riferimento ed il modo in cui esso è utilizzato. Innanzi tutto si dovrebbe avere a disposizione un panorama sufficientemente ampio e variegato di testi, grazie al quale poter far fronte alle diversità individuali dei consultanti e quindi alle modalità con cui si potrebbe svolgere la consulenza filosofica. La soggettività dei clienti deve sempre essere rispettata e posta in primo piano, questo è un punto assolutamente imprescindibile. Il dialogo si deve sviluppare in questa prospettiva e portare il consultante a sviluppare la consapevolezza in primo luogo di se stesso, per poi proiettarsi anche all’esterno ed arrivare a raggiungere una maggiore indipendenza. Ciò implica che il consulente deve utilizzare il testo filosofico in modo tale da evitare che esso sia vissuto come una sorta di “autorità”, una verità data a cui sottomettersi passivamente. Se ciò accadesse verrebbe meno uno dei principali “fini” della consulenza filosofica stessa, e cioè riuscire a creare un movimento nel pensiero, che in questo modo dovrebbe allargare i suoi orizzonti e il raggio d’azione. Altra cosa da tener presente, e fortemente legata a quanto detto sopra, è che non necessariamente il testo filosofico che si utilizza deve essere esplicitamente citato. Sarà il consulente filosofico a valutarne l’opportunità in base alle caratteristiche della situazione, del suo sviluppo e della peculiarità del problema portato dal consultante. Personalmente credo che nel caso in

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se stessI con l’esIstenzIalIsmo

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cui si decidesse di procedere con una citazione, sarebbe bene farne seguire almeno una seconda che proponga una visuale diversa, in modo da mostrare immediatamente che uno stesso problema, o questione, può essere interpretato secondo modalità differenti e che quindi non esiste una soluzione definitiva, preconfezionata e valida per tutti, ma piuttosto suggerisce che ognuno dovrebbe cercare la propria via. Tra le varie attività filosofiche la consulenza filosofica sembra essere tra quelle più fedeli al concetto originario della filosofia come ricerca, in cui il percorso è la parte più importante e il punto di arrivo è sostanzialmente inafferrabile. D’altra parte l’assenza di direttività è un caposaldo della consulenza filosofica. In tale ambito il filosofo ha il compito di accompagnare chi si rivolge a lui e non certo quello di insegnargli qualcosa o di, ancora peggio, imporre una sua opinione o punto di vista, anche nei casi in cui, e devo dire non sono poi così rari, sia il consultante a farne richiesta. In momenti di crisi potrebbe sembrare rassicurante ricevere indicazioni precise sul proprio agire, ma si tratterebbe di una soluzione momentanea, una sorta di palliativo che in breve tempo mostrerebbe la sua inconsistenza ed inutilità. Un testo filosofico, in sede di consulenza, può essere usato in vari modi e a diversi livelli di approfondimento e valutazione. Esso, ad esempio, potrebbe trovare un impiego concettuale esclusivamente da parte del consulente filosofico, che può avvalersi dei contenuti, anche se non troppo rigidamente, per portare avanti il dialogo. Oppure potrebbero essere letti insieme al consultante alcuni passi, significativi per il caso a cui si sta lavorando, in modo tale da fornire uno stimolo per la riflessione. Quest’ultima modalità, comunque, risulta più frequente nelle pratiche filosofiche di gruppo, poiché offre il vantaggio di permettere a tutti i partecipanti di partire da un punto di riferimento unitario. Potrebbe anche essere consigliata la lettura di un testo filosofico da svolgere individualmente, per poi farla eventualmente diventare oggetto di discussione. In questo caso ciò avviene soprattutto nelle consulenze individuali. Mi soffermerò ancora più avanti sui modi di utilizzo del testo filosofico, basandomi, però, prevalentemente sulle mie esperienze. Praticando la consulenza filosofica in veste di consulente mi sono spesso avvalsa dell’ausilio di testi filosofici di differenti epoche e correnti. Devo però riconoscere una mia generale propensione per i riferimenti all’esistenzialismo filosofico francese, ed in particolare ad uno dei suoi principali esponenti: Jean Paul Sartre. Prima di proseguire vorrei qui introdurre alcuni cenni sull’origine e le principali caratteristiche di tale corrente di pensiero, per poterne dare un’idea generale. Dopo la prima guerra mondiale il clima di crisi aveva portato a una caduta del Positivismo e del suo fiducioso ottimismo, per lasciare spazio ad una

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nuova concezione del mondo, dell’uomo e, soprattutto, del loro reciproco rapporto. In Germania si assistette alla nascita della filosofia dell’esistenza caratterizzata da riflessioni inerenti la finitudine ed il senso dell’esistenza umana. Esse scaturivano dalla constatazione del fallimento delle sintesi dialettiche, dell’impossibilità per l’uomo di accedere all’assoluto e di coniugare la realtà con la razionalità. Tale movimento, però, cominciò ben presto a dissolversi e con l’avvento del nazionalsocialismo scomparve quasi completamente. Nondimeno si deve riconoscere che alcuni esponenti della filosofia dell’esistenza tedesca esercitarono una notevole influenza nella cultura europea. La recezione del primo Heidegger, ad esempio, aveva contribuito fortemente allo sviluppo dell’esistenzialismo in Francia. Esso godette di una lunga durata e prosperità, arrivando a dominare la cultura europea anche dopo la seconda guerra mondiale, presentandosi come un movimento che coinvolse l’intero panorama culturale francese, soprattutto, comunque, a livello filosofico e letterario. Va infatti rilevato che molti pensatori appartenenti all’esistenzialismo filosofico furono anche autori di testi letterari e teatrali. L’esistenzialismo potrebbe essere definito come una “filosofia della crisi”, dovuta alla grande instabilità e all’incertezza che caratterizzarono la società europea dopo i due conflitti mondiali. L’esistenzialismo filosofico opera un capovolgimento nel pensiero e si propone di porre in primo piano l’esistenza piuttosto che la ricerca dell’essenza. In particolare esso concentra l’attenzione sull’esistenza dell’individuo in cui si annidano inquietudini, speranze, delusioni e dubbi. Angoscia e disperazione vengono concepite come le principali emozioni che attanagliano l’esistenza umana. L’uomo cerca un riscatto, si sforza, con fatica, di vivere in modo autentico con la consapevolezza dei propri limiti. Secondo gli esistenzialisti, l’esistenza umana si compie attraverso il dubbio, la scelta, l’angoscia ed il nulla. La ricerca di senso è inesorabilmente destinata al fallimento. Quelli appena accennati sono i concetti principali a cui l’esistenzialismo filosofico fa riferimento. Ogni pensatore che ha aderito a tale movimento li ha poi elaborati ed interpretati in maniera personale e originale, pur rimanendo fedele alla concezione di base che fa dell’esistenzialismo, appunto, una filosofia della crisi. D’altra parte si tratta di caratteri che trovavano riscontro nel periodo storico in cui esso nacque e si sviluppò: l’incertezza era entrata a far parte integrante della vita. Le guerre avevano comportato gravi difficoltà economiche e finanziarie e gli orrori ai quali si era assistito ponevano inquietanti interrogativi sulla natura umana. Le istituzioni politiche stesse cominciavano a sentire come pressante la necessità di agire in maniera più significativa, rispetto al passato, per proteggere e salvaguardare i diritti umani fondamentali. Si era ormai arrivati a comprendere definitivamente

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che non si poteva fare affidamento sulla capacità di autoregolamentazione dell’umanità. La crisi, quindi, coinvolgeva anche, se non soprattutto, l’opinione che l’uomo aveva di se stesso. Gli interrogativi più pressanti non erano più volti a indagare il mondo esterno, ma l’uomo in generale e la propria persona in senso più specifico. Attualmente il mondo occidentale sta attraversando un nuovo momento di crisi, sia economico-finanziaria che sociale, aspetti che sono profondamente intrecciati tra loro ed interdipendenti. Sta di fatto che l’incertezza ha ricominciato a incombere sulla vita delle persone che rischiano di rimanerne paralizzate, incapaci di proiettarsi verso una prospettiva di progettualità, sia essa a lungo o a breve termine. L’assenza di certezze, o almeno di punti di riferimento, spesso impedisce anche di rivolgere il pensiero ai propri desideri che, quindi, vengono repressi. Il desiderio, però, è ciò che più di ogni altra cosa indica all’individuo quali sono i suoi reali bisogni e, conseguentemente, la loro mortificazione si accompagna a quella della persona nella sua interezza. Un altro elemento da non sottovalutare è il cambiamento. Mai come nella nostra epoca i mutamenti sono avvenuti in maniera tanto radicale e repentina. L’adattamento a una nuova situazione richiede necessariamente del tempo ed oggi non è raro che quando esso arriva a compimento si sia verificata, nel frattempo, un’ulteriore modificazione a livello sociale, che rende necessario riprendere da capo il faticoso processo di adeguamento. Ciò può comportare un continuo “sentirsi fuori posto”, con l’affermazione di realtà di fatto che non siamo ancora in grado di collocare, ordinare ed affrontare. Il mondo che circonda l’individuo sembra essere diventato inafferrabile e anche la propria persona viene percepita allo stesso modo. Si tratta, per lo più, di tematiche esistenziali e che esprimono, per l’appunto, il disagio di vivere in una società dominata dall’incertezza e dall’inquietudine, in cui non si riesce a “sentirsi padroni della propria vita”. In questo modo si assume il ruolo di spettatori e non, come invece dovrebbe essere, di agenti attivi della propria esistenza. Per questo insieme di ragioni le questioni che erano state poste in primo piano da parte dell’esistenzialismo filosofico sono tornate, a mio avviso, ad essere attuali, dopo un periodo in cui erano state accantonate, forse però più apparentemente, in quanto si tendeva a dare più importanza ad altri fattori, quali l’efficienza, la produttività e l’apparenza, tendenza che comunque continua ad essere presente. Si provava, e spesso ancora si prova, quasi un senso di vergogna nell’affermare di dare importanza a cose e valori differenti. Sembrava non esserci più spazio per la riflessione sulla propria vita ed esistenza, sul suo senso più profondo e sul suo significato. Ho potuto notare un ritorno delle suddette istanze, sebbene il più delle volte si eviti

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di manifestarlo apertamente. Grazie alla pratica della consulenza filosofica, si delinea una ripresa di queste problematiche portate dai consultanti che, in “ambiente protetto”, si sentono più liberi di manifestare le proprie esigenze profonde. Molti infatti lamentano “il disagio di vivere una vita che non sentono propria” e l’incapacità di raggiungere uno stato di reale soddisfazione. Non sono tematiche semplici da affrontare, in quanto vanno a mettere in discussione la vita nella sua interezza e non solamente alcuni dei suoi aspetti, e trascinano con sé questioni di carattere non solo individuale ma anche sociale. Una complessità che deve trovare risposta in un lavoro radicale, che ha alla base la disponibilità a mettersi in discussione in maniera profonda ed autentica. In consulenze di questo tipo mi sono stati molto utili i testi filosofici appartenenti alla corrente dell’esistenzialismo. Il mio principale punto di riferimento è stato Jean-Paul Sartre ed in particolare il saggio L’essere e il nulla1, in cui sono presenti i concetti fondamentali che compongono il pensiero dell’autore. In senso generale nelle pagine di L’essere e il nulla viene espressa la condizione dell’uomo che è costretto all’esistenza indipendentemente dalla sua volontà, esistenza che tuttavia deve poi determinare attraverso una scelta personale. Secondo Sartre ciò sarebbe all’origine del disagio di vivere. In quest’opera il pensatore si propone innanzitutto di condurre una ricerca ontologica. Il punto di partenza è costituito da un nuovo modo di considerare l’essere, volto ad eliminare la nutrita serie di dualismi messi in campo dal pensiero filosofico tradizionale: essere/apparire; passività/ attività; apparenza/essenza. Si afferma, in primo luogo, che non esiste una realtà “dietro” quella fenomenica e da essa in qualche maniera occultata. A fondamento del pensiero sartriano c’è la modalità di concepire la coscienza: la legge interna dell’essere umano è “d’essere cosciente”, dove la coscienza non si configura, però, come un modo particolare di conoscere, ma come la dimensione d’essere del soggetto. Ogni coscienza è sempre coscienza di qualcosa. Si tratta per Sartre di una tematica di primaria importanza. Egli infatti scrive: «Il primo passo di una filosofia deve dunque essere quello di espellere le cose dalla coscienza e ristabilire il vero rapporto di questa col mondo, cioè che la coscienza è coscienza posizionale del mondo»2. In altre parole, non è possibile avere conoscenza di un certo oggetto senza averne la consapevolezza, non si può «sapere senza sapere di sapere». 1 Jean-Paul Sartre, L’être et le néant, Paris: Librarie Gallimard, 1943, tr. it. di G. del Bo, revisione a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, L’essere e il nulla, saggio di ontologia fenomenologica, Milano: il Saggiatore, 1997 2 Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 17.

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Poco più avanti Sartre preciserà anche un altro caposaldo: la necessità, affinché si possa parlare correttamente di coscienza, che essa sia prima di tutto cosciente di se stessa. Questi presupposti, trattati dall’autore già nell’introduzione dell’opera, hanno la funzione di “aprire la strada” alle questioni fondamentali, quali: l’essere in sé e l’essere per sé; il senso profondo di questi due tipi di essere; le ragioni per le quali l’uno e l’altro appartengono all’essere in generale; il senso dell’essere in generale in quanto comprendente in sé queste due zone d’essere radicalmente separate. Esse porteranno all’analisi di quei concetti che possono risultare utili in sede di consulenza filosofica e che sovente mi sono trovata ad utilizzare per affrontare alcuni casi che mi si sono presentati. Saranno poi lo sviluppo e lo svolgimento del dialogo filosofico a indicare quali debbano essere approfonditi in quanto realmente rilevanti per la vita del consultante, necessari a intraprendere il cammino per affrontare la questione o il problema che lo ha spinto a cercare una relazione di aiuto. Ogni singolo concetto, d’altra parte, può essere interpretato in modi diversi. Penso che uno dei meriti della consulenza filosofica sia propria quello di mostrare che il pensiero non deve essere statico, nemmeno quando si appresta ad un’analisi, ma, al contrario, dovrebbe mantenere una certa elasticità che consente di cambiare prospettiva in qualsiasi momento e senza porsi dei limiti. Solo in questo modo, infatti, l’uomo può esplicare le sue, secondo me infinite, possibilità di evoluzione continua. Dare a noi stessi l’opportunità di mutare ed evolvere significa, prima di tutto, evitare un irrigidimento del pensiero. L’utilizzo della corrente filosofica esistenzialista per affrontare tematiche e questioni che emergono nei colloqui di consulenza, come mi è capitato di fare, non deve, quindi, essere inteso in senso assoluto. Si tratta di una modalità interpretativa che può essere semplicemente proposta dal filosofo al consultante, ma mai imposta, e la cui opportunità è da valutare attentamente caso per caso: ogni generalizzazione in tale ambito non sarebbe corretta. Se tale interpretazione viene accettata, può comunque essere rimessa in discussione e rigettata, interamente o solo in alcune parti, in qualunque momento. Dando uno sguardo d’insieme al modo in cui ho condotto le consulenze filosofiche posso affermare che sono piuttosto numerosi i concetti di cui un’interpretazione in senso esistenzialista è risultata idonea al consultante e al caso. Si sono anche verificate circostanze in cui ho potuto notare che lo stesso consultante tendeva a interpretare le tematiche e le questioni che emergevano nel colloquio secondo i principi dell’esistenzialismo filosofico, pur non rendendosene conto, nella maggior parte dei casi per la mancanza di conoscenze filosofiche specifiche. Tra i vari concetti a cui, in un modo o

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nell’altro, è stata attribuita tale tipologia di interpretazione, quelli che sono risultati più rilevanti, almeno all’interno delle consulenze che ho seguito fino ad oggi, sono stati: ricerca di senso; esistenza; essere, con le sue accezioni quali essere in sé, essere per sé, essere con; nulla; angoscia; libertà; scelta; rapporto uomo-mondo. Questi nuclei concettuali non si presentano mai in forma isolata, ma si intrecciano e compenetrano profondamente, essendo intrinsecamente legati tra di loro. La comprensione di alcuni di questi termini è dunque condizionata, se non addirittura subordinata, a quella di altri e ritengo quindi che sia anche auspicabile mantenere uno sguardo e una valutazione d’insieme per non rischiare di perdere accezioni e sfumature rilevanti. Si dovrebbe, insomma, tenere sempre presente che i concetti non sono isolati, ma inseriti all’interno di un sistema organico. Ciò, ben inteso, vale per qualsiasi tipo di discorso si voglia intraprendere. Probabilmente, però, per la filosofia tale fenomeno è particolarmente significativo per il suo concernere lo svolgimento del pensiero, di cui una delle caratteristiche peculiari è quella di spaziare, di tendere a valicare confini e barriere. Va anche considerato che lo stesso consultante, nel momento in cui espone il problema che lo affligge, metterà in campo una pluralità di concetti. Sciogliere il loro legame significa rischiare di perdere una parte, anche consistente, di significato e di rilevanza nel quadro della sua vita. Prima di addentrarmi nel merito, vorrei specificare che di seguito non mi propongo tanto lo scopo di analizzare minuziosamente suddette nozioni all’interno del pensiero sartriano, quanto piuttosto quello di rilevare quanto e come l’interpretazione di Sartre può diventare fruibile all’interno di una seduta di consulenza filosofica. Per questo motivo mi concentrerò più che altro sugli aspetti inerenti il tipo di ricerca che mi sono prefissata, tralasciando quelli più specificatamente teoretici. Intendo iniziare considerando l’esistenza e l’essere, in quanto la loro comprensione è prioritaria e indispensabile a tutte le altre nozioni. Diciamo che in qualche modo esse rappresentano il fondamento su cui poggia l’intero sistema sartriano, ma anche molte delle questioni poste o che emergono durante una consulenza filosofica. È piuttosto comune che un consultante dichiari, indipendentemente dal problema specifico che vuole affrontare, di aver iniziato a riflettere sulla propria esistenza chiedendosi sia se essa abbia effettivamente un significato, un senso, ma soprattutto in che cosa essa consista veramente. In particolare, spesso il dilemma è cercare di capire se essa corrisponda a “come ci si sente” o a “ciò che mostriamo all’esterno”. Si tratta di una questione profondamente legata alla tematica dell’identità. Gli interrogativi sulla propria esistenza, infatti, sono quasi sempre accompagnati da una difficoltà nel riconoscere o identificare se stessi in maniera

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sufficientemente chiara, cosa che, a sua volta, porta alla mancanza di un punto di riferimento. Sartre affronta il tema dell’esistenza in maniera originale rispetto ai pensatori precedenti appartenenti ad altre correnti filosofiche. Egli evidenzia proprio la relazione tra esistenza ed apparenza, detto in altri termini tra esistenza e fenomeno, identificandoli. Come si è già accennato, secondo Sartre non vi è una realtà essenziale che stia dietro l’apparenza e la giustifichi, sostenendola (l’essenza o sostanza della tradizione filosofica). In consulenza filosofica, specie se in presenza di un non filosofo, il concetto di esistenza sartriano viene semplificato. Ma in generale viene riconosciuto che la propria esistenza ha una corrispondenza, anzi è in stretta relazione con il modo in cui si manifesta. Ovviamente una risposta di tal genere, se fosse quella conclusiva, non potrebbe essere soddisfacente, anche se costituisce un primo passo verso la comprensione della condizione umana e quindi di se stessi. Ed è essenzialmente a quest’ultima istanza che un consultante è interessato. Quando si parla “esistenza come apparenza”, ciò non fa venir meno l’incertezza generata dalla differenza tra “come ci si sente di essere” e “come ci si manifesta”. Spesso gli stati indicati come crisi di identità nascono proprio dall’avvertire questa mancanza di corrispondenza che sembra creare una spaccatura nell’individuo e provoca un forte disagio nello stare con se stessi e con gli altri. La domanda che, a questo proposito, ho sentito più frequentemente porre è stata: “chi è il vero me stesso?”. In termini filosofici una questione di questo genere investe una ricerca sull’essere, ed è su questo che il pensiero esistenzialista, e quello sartriano in modo particolare, può gettare luce. Sartre ha trattato ampiamente l’essere. È uno dei suoi temi dominanti. Ne ha distinto diverse accezioni ed ha attentamente valutato le connessioni che tra esse intercorrono. Diversamente dalla maggior parte delle concezioni filosofiche precedenti, non troviamo un’unica e generale definizione dell’essere. Da un certo punto di vista, si tratta di una complessificazione, ma secondo me ha il grande merito di tenere conto della peculiarità dell’uomo come essere percipiente e cosciente, che esplica una modalità d’essere diversa rispetto a quella del resto del mondo. Questo bisogno di palesare una differenziazione tra l’essere umano e tutti gli altri esseri è risultato particolarmente accentuato nella cultura della metà del Novecento, forse anche in riferimento ai tragici eventi verificatesi nel periodo storico considerato. Nel nostro tempo questa istanza è ancora presente e spinge molti alla ricerca di quanto li caratterizza non solo in quanto appartenenti al genere umano, ma come singoli individui. Come si è accennato Sartre indica due distinte modalità di essere: quella dell’uomo e quella della natura. Il mondo è l’insieme dei fenomeni, il dato che perviene alla coscienza, e

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Sartre lo indica come «in-sé». Esso è «ciò che è», è pieno di se stesso e non lascia disponibilità di spazio ad alcuna infiltrazione da parte del nulla in una “adeguazione perfetta”. Una definizione che si avvicina molto al principio di identità. L’essere in sé non nasconde niente dietro se stesso, esso si presenta alla coscienza nel suo essere senza ragione, brutalmente. Un esistente che, in qualche modo, deve essere preso e accettato come dato di fatto, senza andare alla ricerca delle cause, procedimento che sarebbe del tutto vano, o dagli esiti illusori. Questo concetto va considerato, nel presente contesto, soprattutto alla luce del fatto che il mondo costituisce lo “scenario” in cui l’uomo è inserito e con cui deve necessariamente entrare in rapporto. In questo caso la “ricerca di senso” riferita al mondo, atteggiamento tipico dell’uomo, è da abbandonare perché inconcludente. Siamo generalmente portati a cercare le ragioni di tutto ciò che accade, in special modo se ci investe in prima persona. Il pensiero sartriano afferma che tali ragioni non esistono. Nei dialoghi di consulenza filosofica la considerazione della sopra descritta visione del mondo mi è stata utile, anche se non in senso tanto estremo come la concepiva Sartre. Vi sono eventi della vita che si verificano al di là della nostra capacità di controllo e situazioni che una volta in atto non siamo più in grado di modificare. Si pensi, ad esempio, a una separazione, un lutto o un problema fisico. Con i consultanti che si trovavano a vivere questo tipo di situazione ci si è spesso interrogati se valesse la pena continuare a chiedersi “perché?”. Ciò corrisponde ad un tentativo di elaborazione o di annullamento del dolore. Ma alcuni eventi sono e saranno necessariamente accompagnati dalla sofferenza. Oggi viviamo in una società in cui sembra quasi vietato provare dolore, turbamento. La sofferenza in se stessa è in molti casi avvertita essa stessa come “il problema”. Bisogna dimostrare di essere il più possibile perfetti, fisicamente ed emotivamente. Ma si tratta di una finzione fortemente deleteria. Salute e malattia, gioia e dolore fanno parimenti parte della vita, a volte si alternano e negare uno stato di cose perché non ci piace non può far altro che peggiorare ulteriormente la situazione che, in ogni caso, si sta vivendo. Guardare la realtà per quello che è, anche se non la capiamo, rappresenta il primo passo, anche se doloroso, per non soccombere ad essa. In consulenza filosofica, come nella vita, le domande sul mondo sono poste, generalmente, in riferimento alla propria esistenza. Lo scenario entro il quale siamo inseriti ha sicuramente degli influssi rilevanti che non possono essere accantonati. Gli interrogativi concepiti come più stringenti e fondamentali, comunque, sono quelli che ci riguardano direttamente, che investono il nostro essere a livello profondo.

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Si è già riconosciuto a Sartre il merito di aver attribuito all’uomo una sua peculiare modalità d’essere. Essa risulta fortemente legata al concetto di “coscienza”. D’altra parte è proprio quest’ultima a caratterizzare l’uomo e a porlo, quindi, su un piano diverso rispetto al resto della natura. L’essere dell’uomo, dunque, corrisponde all’essere della coscienza e Sartre lo indica come «per-sé». Al contrario dell’in-sé che esprime adeguatezza e completezza, l’essere della coscienza implica inadeguatezza e negazione, lasciando spazio a infiltrazioni da parte del nulla: «L’in-sé è pieno di sé e non si potrebbe immaginare – scrive Sartre – pienezza più totale, adeguazione più perfetta di contenuto e contenente: non c’è il minimo vuoto nell’essere, la minima fessura per la quale il nulla possa infiltrarsi. La caratteristica della coscienza, al contrario – continua Sartre – è di essere una decompressione d’essere. Impossibile, infatti, definirla come coincidenza di sé»3. L’inadeguatezza del per-sé costituisce la causa del suo continuo e doloroso travaglio, ma anche il fondamento della sua più grande ricchezza. Il per-sé richiede la coscienza di essere, la presenza a sé. Ed è proprio su tale concetto che si viene ad insinuare l’inadeguatezza e la negazione. La presenza esige una dualità, una separazione tra “io osservato” ed “io osservatore”. L’essere si distacca da se stesso. Il per-sé non può essere una pienezza d’essere, tanto che Sartre lo indica come «una disgregazione dell’in-sé». L’uomo è allora destinato a vivere la separazione da se stesso, una mancanza di pienezza che lascia un vuoto incolmabile e produce il senso di inadeguatezza. Un uomo scisso, in quanto osservatore di se stesso ed, allo stesso tempo, oggetto di tale osservazione. Da ciò può scaturire un profondo disagio nello stare con se stessi. Il dualismo così generato accresce anche le difficoltà nel riconoscersi. È così che il prendere coscienza di se stessi diventa fonte di un conflitto tanto doloroso da far preferire, talvolta, rifugiarsi nei paradigmi prestabiliti ed evitare il confronto con se stessi. Ma le questioni più viscerali il più delle volte non possono rimanere sopite per sempre. Non sono poi così rari i casi in cui una persona dichiara di aver cercato di non ascoltare il proprio disagio esistenziale, spesso mediante un tentato processo di razionalizzazione. Non si riconoscono ragioni per l’insorgere del proprio malessere e quindi lo si reprime, lo si nega. Tentativi che poi si rivelano però vani poiché, come molti accusano, a un certo punto quel disagio ricomincia a farsi sentire più forte, più vivo e più invasivo di prima. Secondo l’interpretazione sartriana non è possibile fuggire a questo stato poiché esso ha origine dallo stesso essere dell’uomo, dalla coscienza. In effetti è innegabile che l’essere umano sia pervaso da una sorta di insoddisfazione, 3

Ivi, p. 112.

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prima di tutto nei propri confronti, fenomeno che sta ad indicare appunto la spinta a voler riempire quel vuoto, quel nulla dovuto alla spaccatura di cui prima si è parlato. Si tratta, senza alcun dubbio, di una condizione dolorosa, ma, come già accennato, riflettendo su alcune sue implicazioni la si potrebbe valutare come una ricchezza dell’uomo, forse la più grande. Nel caso in cui, come nell’in-sé sartriano, ci si trovi di fronte a una pienezza d’essere, a un’adeguatezza perfetta, a dominare sarebbe la staticità. Apportare modifiche, alterare questo perfetto stato di cose, comporterebbe necessariamente un peggioramento: l’essere comincerebbe a vacillare e si insinuerebbero il nulla e l’incertezza. In realtà non si sentirebbe neppure il bisogno di mettere in atto un qualche movimento. Al contrario, la spinta al mutamento si fa sentire dove si avverte un senso di vuoto, una imperfezione, per dare inizio a una lotta per tentare di arrivare a uno stato di adeguatezza. Questo è quanto muove il per-sé secondo l’interpretazione di Sartre. A favore di questa visione ho notato che molti consultanti, alcuni seguiti da me personalmente, hanno riferito che le svolte più significative della loro vita sono avvenute nei momenti in cui più si sentivano “manchevoli”. Un processo che può essere immaginato come una corsa finalizzata ad afferrare un “me stesso” più idoneo e capace di ridurre quella frattura che impedisce di trovare una corrispondenza tra il me stesso che si percepisce ed il me stesso percepito. In un certo senso si rigetta ciò che si è, per proiettarsi verso ciò che non si è. Considerazioni che riconducono alla definizione sartriana di per-sé come «ciò che non è ciò che è, ed è ciò che non è». Sembra quasi una gioco di parole, ma esprime invece una contraddizione. In realtà è una formula che rende perfettamente conto del movimento intrapreso dalla coscienza per sopperire al vuoto e affrontare l’avanzata del nulla. Si tratta di un punto di vista che, comunque, può anche essere ricollegato alla teoria del desiderio, formulata già ai tempi antichi, secondo cui in esso si esprime la spinta al riempimento di una mancanza. Sartre in proposito scrive: «Che la realtà umana sia mancanza basterebbe a provarlo l’esistenza del desideri”4. L’uomo in sé stesso, dunque, è manchevole e questa mancanza non può essere generata dall’essere, che è pienezza. A questo punto ci si chiede se questa corsa avrà mai fine. In termini sartriani ciò equivale a interrogarsi se sia possibile che, ad un certo punto, il per-sé si tramuti in in-sé. La risposta a tale questione è negativa ed è insita alla definizione che Sartre dà del per-sé, come modalità d’essere peculiare della coscienza. Trasformare il per-sé in in-sé, dunque, significherebbe annullare la coscienza 4

Ivi, p. 125.

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e conseguentemente l’essere umano. L’uomo, in quanto coscienza, è l’unico essere in cui l’esistenza precede l’essenza. Ciò significa che l’uomo non è precedentemente determinato nella sua natura. È egli stesso che si determina e decide come farlo e in che termini, spinto dal bisogno di colmare la voragine in cui si fa strada il nulla. L’uomo non ha la possibilità di decidere di e se esistere, ma deve scegliere come determinare e quindi esplicare questa esistenza data in cui è stato scaraventato. Questi sono i termini della sua libertà, un altro concetto fondamentale, sia nel pensiero esistenzialista che nella prospettiva della vita nella sua concretezza. L’uomo si trova di fronte ad un’infinità di possibilità d’essere. Non esiste, secondo Sartre, nessuna necessità e neppure alcuna ragione che imponga, o solo suggerisca, la preferenza e la scelta di una sulle altre. Se così non fosse, d’altra parte, non sarebbe neppure propriamente corretto parlare di libertà. Per essere veramente tale, essa non deve essere soggetta ad alcun condizionamento. Il fatto che non ci siano ragioni per orientarsi verso una via decisionale piuttosto che un’altra fa in modo che in realtà ogni scelta sia priva di senso e per questo non pienamente idonea a riempire il vuoto che caratterizza il per-sé. Dopo una prima breve fase di apparente soddisfacimento, si comincerà quindi ad avvertire nuovamente una sensazione di insoddisfazione per la scelta effettuata e conseguentemente si sentirà un rinnovato bisogno di dare avvio ad un processo analogo in un ciclo senza fine. Il possibile è anteriore all’essere, questa è la sua peculiare caratteristica che ne rende difficile la comprensione: «Grande è la difficoltà di comprendere – scrive Sartre – il suo essere, perché si presenta come anteriore all’essere di cui è la pura possibilità, e purtuttavia, almeno in quanto possibile, bisogna che abbia dell’essere»5. L’infinità delle possibilità, ognuna priva di ragione, rende l’uomo sprovvisto di qualsiasi punto di riferimento, provocando così in lui una sensazione di angoscia di fronte alla scelta. Quest’ultima non può essere evitata. L’esistenza, una volta data, deve necessariamente venir determinata. Anche il non agire, o addirittura il suicidio, costituiscono delle scelte, dei modi di dare una determinazione all’essere. Un essere costretto a esistere e a scegliere senza ragione: questa è la condizione umana. Sono concetti che probabilmente Sartre estremizza, ma che effettivamente trovano riscontro in alcune situazioni che riguardano le persone e la loro vita. Dover prendere una decisione è spesso il motivo che porta a chiedere un aiuto esterno, anche alla consulenza filosofica. Un cambiamento nella propria vita può essere avvertito come necessario, ma al contempo suscitare timore, ed è a questo punto che insorge l’angoscia. Non riuscire a reperire 5

Ivi, p. 135.

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ragioni sufficientemente valide per orientarsi verso una strada piuttosto che un’altra. In questo genere di casi ho riscontrato che un’analisi delle “ragioni” non è molto efficace. Probabilmente non esistono delle ragioni assolute che guidano le azioni e le scelte, come affermava Sartre. Neppure l’affidarsi ai valori fa venir meno il problema, poiché anche il riferimento ad una certa scala valoriale è frutto di una scelta, in sé priva di base assoluta e che quindi può sempre essere messa in discussione. È insomma suscettibile alla negazione. In questi casi, in cui la razionalizzazione delle ragioni rischia di rivelarsi inutile, si può valutare la possibilità di concentrarsi sul “sentire” invitando il consultante a prendere in considerazione quanto gli viene comunicato dalle proprie emozioni e a porsi alcune domande riguardanti la propria interiorità. Ad esempio: “Cosa mi farebbe sentire meglio?” “Mi sentirei veramente pronto ad affrontare le implicazioni del cambiamento apportato da una certa scelta?” Non si tratta di un’invasione della sfera della psicologia. Il dialogo continua a svolgersi in termini filosofici, ma contemplando la possibilità che non tutto possa essere affrontato in termini puramente razionali. Vorrei far notare che la filosofia, avendo per oggetto l’essere nella sua totalità, quando si occupa dell’uomo lo considera nella sua interezza. Ogni sua componente, quindi, merita attenzione, anche quella irrazionale, sebbene per lungo tempo molte correnti filosofiche abbiano avuto la tendenza a sottovalutarla. Si aggiunga che non riconoscere l’unità dell’uomo privilegiando un aspetto e mortificando un altro rischierebbe di accrescere ulteriormente il senso di separazione che già pervade la coscienza e ne provoca la sofferenza. Il dialogo, dopo questa parentesi, prosegue tornando ai consueti termini razionali al fine di valutare quanto l’ascolto della componente emotiva ha permesso di cogliere. A questo punto anche il concetto di presenza a sé, che pone il medesimo individuo come percepente ed al contempo come percepito, torna utile nell’invitare, se opportuno, il consultante a cercare di “osservarsi” da un punto di vista esterno, mettersi cioè in una posizione simile a chi assiste ad uno spettacolo teatrale. In questo caso, però, lui stesso ne è il protagonista. Mediante il suddetto metodo diventa più facile guadagnare una prospettiva più oggettiva e riordinare le idee: la logica che sottende al pensiero e alle azioni, in cui il primo si concretizza, si fanno evidenti. Si palesa anche in cosa consiste lo scarto, la differenza tra come ci si sente di essere ed il modo in cui, di fatto, ci si manifesta. Si attiva, insomma, un importante processo di chiarificazione per la comprensione di se stessi. Un cammino complesso lungo il quale, nei momenti più critici, si avverte il bisogno di essere accompagnati. La consulenza filosofica può farlo nel pieno rispetto delle caratteristiche e delle esigenze individuali di chi chiede aiuto.

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Ho potuto constatare che ciascun individuo, nel valutare e giudicare se stesso e il proprio operato, può assumere diversi tipi di atteggiamento. Alcuni, ad esempio, sono particolarmente indulgenti verso la propria persona, altri, al contrario, si trasformano in giudici severi ed integerrimi. Quando ci si pone nel secondo modo, il rischio di crisi certamente è più alto. Si ha la pretesa di dover saper riconoscere e prendere sempre la giusta decisione, ma come si è visto non è sempre possibile, almeno non in termini assoluti. La “non riuscita” è vissuta come una grave sconfitta, addirittura una colpa, e l’inevitabile risultato è un aumento del senso di inadeguatezza. Esso rischia di diventare paralizzante: più una voragine è ampia, più si avverte che sarà difficoltoso riempirla, impresa il cui esito positivo non è affatto scontato. Piuttosto che rischiare di dover affrontare e vivere un nuovo fallimento, che accrescerebbe ulteriormente il già fortissimo disagio, si preferisce, allora, non agire, diventare passivo e subire gli eventi. Ma poiché anche questa è una scelta che alla fine si va ad imputare a se stessi, il malessere aumenterà comunque. Si instaura un circolo vizioso di cui l’individuo è prigioniero, perde lucidità ed in cui azione e pensiero sono gravemente compromessi. E allora la libertà si configura come la principale fonte di responsabilità che grava sulla persona. Qualsiasi condotta è frutto di una decisione incondizionata. Di fatto si è spesso portati a caricare di responsabilità altre persone o situazioni in riferimento alle proprie scelte, ma si deve tener presente che è solo il soggetto a determinare quanta importanza attribuire loro e quindi il livello di condizionamento che esse possono esercitare. Da questa prospettiva, dunque, non sono veri elementi di condizionamento, ma è l’agente che sceglie, eventualmente, di trattarli come se lo fossero. La libertà come responsabilità è certamente difficoltosa da gestire, ma probabilmente è un prezzo che vale la pena di pagare per l’apertura del mondo delle possibilità. Per far fronte al disagio e alla sofferenza, la coscienza può arrivare persino a “mentire a se stessa”. Un meccanismo, riconosciuto anche dalla psicologia, attraverso il quale la mente si auto-inganna per attenuare un dolore o per nascondersi un evento che in un determinato momento non riuscirebbe a gestire. Secondo le teorie della psicologia, questi “trucchi della mente” hanno la funzione di salvaguardare l’integrità e la salute psichica dell’individuo, con particolare attenzione alla sua autostima. Anche Sartre aveva preso atto del manifestarsi di un simile atteggiamento, che chiamò «malafede», di cui l’essere umano è unico detentore: «L’essere umano non è solo l’essere per mezzo del quale compaiono nel mondo delle negazioni, è anche l’essere – prosegue Sartre – che può prendere atteggiamenti negativi nei confronti di se stesso»6. Non si tratta di una menzogna, concepita come 6

Ivi, p. 82.

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“un nascondere ad altri”: chi mente è consapevole di quanto sta facendo e della verità. La malafede è una menzogna a sé: la coscienza nasconde qualcosa a se stessa. Sartre rapporta ciò ad un meccanismo inconscio. Essa non proviene dall’esterno, ma si genera nell’uomo. Nel corso dei colloqui di consulenza filosofica, in effetti, alcuni consultanti si sono resi conto, con sorpresa, di avere un pensiero diverso da quello che credevano o di verità che non percepivano, seppure fossero evidenti. Stati che il più delle volte si verificano perché si prende in considerazione una situazione solo parzialmente, evitando di prestare la giusta attenzione a ciò che di essa meno piace, o perché si tralasciano indizi che avrebbero potuto dare informazioni rilevanti. Il tutto, però, avviene in modo assolutamente inconsapevole. Una sorta di meccanismo di selezione delle informazioni che si ricevono, di cui non si ha coscienza. La messa in atto di meccanismi del genere è indice di forte malessere. È un dato di fatto che oggi gli stati di crisi d’identità o di senso sono molto aumentati, tendenza che peraltro non accenna ad attenuarsi. Una motivazione potrebbe essere legata alla società e al concetto di libertà in essa dominate. Viviamo oggi in un mondo che ha la pretesa di porsi e di far credere che tutto ciò che in qualche modo riguarda le persone non sia determinato da fattori esterni. Una società che “ha promesso” a ciascuno, e continua a farlo, di poter usufruire di tutte le possibilità disponibili per arrivare ai risultati desiderati. In una società che si presenta così dinamica e meritocratica si ha inevitabilmente l’impressione che la riuscita o il fallimento dipendono esclusivamente dal soggetto, dalle sue capacità personali. Di fatto, però, la realtà non si configura e sviluppa esattamente in questo modo. Gli ostacoli esterni sono molteplici, alcuni dei quali alquanto ardui da superare, e non sempre il merito è il principio su cui fare affidamento per la realizzazione di obiettivi di varia natura. Probabilmente nel settore lavorativo, oggi forse più che mai, è particolarmente evidente, ma è un aspetto della realtà presente in ogni ambiente, che non raramente diventa pervasivo e dominante. Una società, insomma, che non mantiene ciò che ha promesso, che prima ha illuso e poi deluso. Si discute tanto sull’opportunità dell’elasticità sociale, della dinamicità e, ancora, sulla meritocrazia e sull’importanza di fornire a tutti le medesime possibilità per la propria realizzazione personale, lavorativa e sociale. Sono tutti principi che a parole sono ormai indiscussi, ma che tuttavia vengono messi in atto solo parzialmente e neppure in tutti gli ambiti e circostanze. Sembra quasi che da una parte ci sia una spinta verso essi, ma dall’altra una resistenza, forse dettata da un timore per i cambiamenti che una loro piena applicazione potrebbero comportare come, ad esempio, una perdita di controllo.

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Anche nella società esiste quindi una spaccatura, o meglio, una discrepanza tra come essa sostiene di essere e come essa è. Se si pensa che essa è formata dai singoli individui, non dovrebbe sembrare strano che quanto accade loro abbia un riscontro a livello collettivo. Uno stato di cose che però non può far altro che gettare nuova incertezza sulle singole persone. Ognuno si trova inserito in un mondo in cui scarseggiano i punti fermi e per questo è difficile orientarsi. Non ci si rende pienamente conto delle circostanze in cui la “promessa” sociale delle possibilità è infranta e si è portati a imputare qualsiasi insuccesso a se stessi. Come si è già avuto modo di sottolineare, le conseguenze possono essere molto gravi, ed una di esse è, appunto, la paralisi dell’individuo che non è più in grado di agire. È però pur vero che una reazione è sempre possibile ed auspicabile e la sua concretizzazione dipende solo da noi, da una scelta, come avrebbe sostenuto anche Sartre. Nascondersi dietro ciò che è esterno peggiora il modo in cui ci si sente. Spesso però non si ha una visione limpida e “l’inganno” messo in atto nell’ambiente in cui si vive rende la chiarificazione ulteriormente complicata. Un intervento esterno può aiutare poiché, privo di coinvolgimenti emotivi, offre una visione generale più ampia ed ha modo di suggerire delle differenti chiavi interpretative. Nondimeno la decisione spetta solo al soggetto che vive personalmente il conflitto. Una maggiore consapevolezza, comunque, può rendere il procedimento più chiaro. Si comprende, ad esempio, a cosa si va incontro e a cosa si rinuncia nel fare una scelta, facendo così diminuire il peggiore dei timori: quello per l’ignoto. Si tratta di una paura che rischia di essere tanto profonda da far preferire continuare a soffrire, restando in una certa situazione negativa ma nota, piuttosto che rischiare di mettersi in gioco in qualcosa di nuovo. Ma come si diceva anche questa è una scelta e come tale, prima o poi, sarà vissuta. Un circolo vizioso, insomma, da spezzare ricorrendo, quando necessario, ad un aiuto. Torna, dunque, il tema della libertà come responsabilità, prima di tutto verso se stessi. È difficile vivere veramente “la vita che si vorrebbe”, ma l’agire può comunque dare un contributo rilevante all’orientamento che essa prenderà. Per questo una visione il più possibile chiara delle proprie capacità, dei mezzi e della realtà in cui siamo inseriti è un elemento indispensabile per raggiungere una buona indipendenza e saper così esercitare in modo soddisfacente la grande possibilità costituita proprio dalla libertà. Questo è lo scopo che si prefigge la consulenza filosofica, la quale non deve essere confusa con una tecnica di problem solving che si concentra esclusivamente su problemi specifici. Certamente il punto di partenza del dialogo che si sviluppa tra il consultante e il filosofo è costituito dalla questione che il primo espone, ma è auspicabile un proseguimento a più ampio respiro.

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A sostegno di quanto ora affermato vorrei far osservare che difficilmente un problema è risolvibile puntando l’attenzione solo su di esso, in quanto è generalmente legato ad un atteggiamento o pensiero che coinvolge l’intera esistenza della persona, anche se ciò non è sempre immediatamente colto, soprattutto da parte di chi è direttamente implicato. Si è visto come il peculiare modo di essere della coscienza, il persé sartriano, abbia un ruolo fondamentale sul modo in cui un soggetto si pone davanti a se stesso, in altre parole “si vive”. Si è già evidenziato come ognuno non si ritrovi ad essere isolato ma sia inserito in una società, le cui caratteristiche influiscono sugli individui che la compongono. Si è fatto, a questo proposito, un discorso generale, in riferimento a un soggetto collettivo. Quanto finora osservato ha delle ricadute piuttosto importanti anche sull’approccio del soggetto con l’altro, inteso non come natura ma come coscienza. In termini sartriani lo si potrebbe indicare come il rapporto che intercorre tra distinti per-sé. L’incontro con un altro essere percepente mette in atto, secondo Sartre, un meccanismo alquanto complesso. Il soggetto percepisce l’altro, non potendone cogliere la coscienza, come in-sé. Immediatamente comprende di essere percepito dall’altro allo stesso modo: un oggetto di percezione, privato di quanto lo caratterizza come essere umano, ossia della coscienza. Si sente pervaso da un senso di svuotamento, il nulla lo invade e si fa strada una nuova angoscia. Oltre a questo, il non aver modo di sapere come l’altro lo percepisce, pone l’uomo in condizioni di accresciuta incertezza. Ognuno è consapevole di cogliere l’altro e, in diversa misura, di giudicarlo, cosa che gli suggerisce di essere egli stesso oggetto di giudizio. A questo punto si apre una serie di interrogativi sul corretto modo di porsi allo sguardo esterno. Ad essi è però impossibile trovare risposta, poiché i pensieri più profondi di chi ci sta innanzi non ci sono accessibili. La paura del giudizio è forse quella, nell’ambito dei problemi relazionali, che più frequentemente è portata in consulenza filosofica, almeno basandomi sulla mia personale esperienza. Anche in questi casi l’interpretazione sartriana è risultata utile come punto di partenza. Nei colloqui è emerso che chi più si sente afflitto da questo timore, è generalmente egli stesso portato a giudicare chi gli si rapporta. Sembra un paradosso, ma si teme che l’altro assuma nei nostri confronti lo stesso atteggiamento che teniamo nei suoi. Questa visione, dunque, chiarisce che si tratta di un disagio generato non tanto dal comportamento dell’altro, ma da quello del soggetto medesimo. In varie occasioni ho sentito un consultante, che soffriva a causa di problemi inerenti la sfera relazionale, dichiarare di aver compreso che il problema risiedeva in primo luogo in lui, nel modo in cui concepiva l’altro. Come si è già accennato, infatti, anche questa è una scelta: si decide liberamente

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quanta importanza dare all’altro e alla possibilità che emetta dei giudizi su di noi. La presa di coscienza non è certo sufficiente per la risoluzione del problema, ma costituisce un necessario punto di partenza. Successivamente ogni situazione particolare richiederà un proprio cammino. Va anche detto che più ci si sente manchevoli, più lo spazio lasciato libero per il giudizio altrui è ampio. Più, invece, l’essere è “pieno”, più ci si sente sicuri sia in se stessi che di fronte all’altro: abbiamo l’impressione che il suo modo di coglierci abbia una limitata possibilità di spaziare. Non si arriverà mai, comunque, ad avere un prospetto esaustivo del “come si è visti e sentiti”. Un aiuto potrebbe anche arrivare dalla consapevolezza che l’altro, in quanto da noi percepito, vive una situazione analoga. In questo modo potrebbe essere attenuata la sensazione di esserne sovrastato senza possibilità di difesa. Ho voluto qui esplicare come l’esistenzialismo, con particolare riferimento a quello sartriano, ed alcuni dei suoi concetti fondamentali possono essere utilizzati in consulenza filosofica. Il filosofo potrebbe suggerire una certa interpretazione o una lettura da cui il consultante avrebbe la possibilità di ricavare quanto ritiene utile per la sua vita. In ogni caso, si deve sempre ricordare che ogni consultante rappresenta “un caso unico ed esclusivo”: una certa visione utile per alcuni potrebbe non esserlo per altri. Ogni generalizzazione è per questo motivo nel modo più assoluto bandita. Ci si deve anche curare che nulla sia interpretato come incontestabile, cosa che potrebbe generare un atteggiamento, da parte del consultante, di sottomissione ad un’autorità. Ciò sarebbe contrario ai principi basilari stessi della consulenza filosofica, la quale mira ad un incremento della saggezza, della consapevolezza e dell’indipendenza della persona che ad essa si rivolge per chiedere un aiuto. Non solo il consulente, ma anche gli strumenti di cui egli si serve devono essere imparziali e assumere un atteggiamento da parte terza. Per rendere più chiaro come i principi e concetti presenti in un testo filosofico, con particolare riferimento all’esistenzialismo sartriano, intervengano nel colloquio di consulenza, propongo la descrizione di un caso che ho seguito. Non lo descriverò in tutti i suoi dettagli dando più che altro spazio alle parti che riguardano l’argomento che ho trattato. MAURO Informazioni preliminari Mauro, 47 anni, vive in un paese di provincia con i genitori anziani. Ha conseguito la maturità tecnica, si è iscritto al corso di laurea in lettere

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ma non ha ancora conseguito la laurea. È impiegato da 16 anni presso un ufficio pubblico. Problema iniziale Mauro non riesce ad instaurare dei rapporti interpersonali, di vario tipo, che lo soddisfino e che senta autentici. Aveva accennato alla natura del problema già al nostro primo contatto telefonico, quando abbiamo preso appuntamento per un incontro. Periodo Documento acquistato da () il 2023/04/27.

Sei mesi, con frequenza settimanale. Descrizione incontri Fin dalle prima parole il consultante manifesta una forte sofferenza per non riuscire ad instaurare dei buoni rapporti interpersonali, sia a livello di amicizia che d’amore. Anche i rapporti parentali non sono del tutto sereni. Sente l’impellente bisogno di raccontare alcuni episodi della sua vita secondo lui particolarmente significativi per spiegare la situazione generale che sta vivendo. Inizia narrando la sua prima relazione sentimentale, da adolescente, con una coetanea, Laura, la quale piaceva anche ad un suo amico, Giulio, che Mauro ammirava molto e aveva assunto come modello. Confrontandolo con se stesso, lo giudicava migliore esteticamente e, soprattutto, caratterialmente. Spiega che Giulio era sempre sicuro e disinvolto, mentre lui si sentiva impacciato e profondamente insicuro. Per questo motivo Mauro si era sorpreso di essere stato “scelto” da Laura e ne era, inizialmente, contento, tanto più che questa relazione non aveva incrinato l’amicizia con Giulio. A breve, però, la sensazione di non riuscire a reggere il confronto cominciò a farsi strada. Era consapevole che Giulio e Laura non avevano atteggiamenti che potevano suscitare sospetti, ma si aspettava che, da un momento all’altro, la ragazza si sarebbe resa conto di aver commesso un errore. Giulio, da parte sua, aveva rivolto le sua attenzione a un’altra ragazza. Il disagio di Mauro, però, continuò a crescere, tanto da portarlo a interrompere la relazione con Laura, sebbene ne fosse ancora innamorato. A questo punto si sente di dover puntualizzare che Laura e Giulio appartenevano ad una classe sociale superiore alla sua e che si sarebbe sentito molto imbarazzato a renderli partecipi del suo ambiente tipicamente contadino. Mauro si rende conto che gli altri tentativi di relazioni con l’altro sesso ricalcano questa prima esperienza. Non si sentiva mai “abbastanza”.

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Chiarisce più volte che tutte le donne per le quali ha provato attrazione appartenevano a classi sociali “elevate” e di non aver mai voluto portarle nel suo ambiente, in campagna, perché non lo considerava adeguato. Ha anche sempre temuto che i genitori gli potessero “far fare brutta figura” per il loro linguaggio e modi di persone “semplici”. Anche le amicizie sono state causa di delusione. Mauro si dispiace soprattutto per il fatto di essere sempre stato pronto a rinunce di vario genere in nome dell’amicizia, ma di essersi poi sentito “abbandonato” dagli amici che preferivano dedicarsi ad altre cose o persone. Avevano continuato la loro vita indipendentemente da lui, cosa che Mauro non avrebbe mai fatto. Tutto ciò è emerso nel corso di vari incontri. Ne esce il quadro generale di una persona sofferente a causa di un senso di disagio nelle relazioni con gli altri. L’attenzione, comunque, si è focalizzata soprattutto sulle questioni riguardanti i rapporti sentimentali, poiché il consultante le sentiva come le più urgenti da affrontare. Gli chiedo come mai aveva puntualizzato, ripetendolo più volte, che le donne per le quali aveva provato attrazione erano sempre appartenute a classi sociali superiori alla sua e cosa intendesse con questo concetto. Mauro mi spiega che si tratta di donne di famiglia benestante, istruite e che vivono in città. Si sente stupito ogni qualvolta loro dimostrano di rispondere alle sue attenzioni, ma lo reputa un simbolo, un segno che gli consente di pensare di valere. Dopo un primo periodo, però, si è sempre sentito angosciato all’idea che la donna con cui aveva iniziato una relazione potesse “scoprire” le sue origini, chi realmente è e, in conseguenza di ciò, interrompere la loro storia. A questo proposito dice che vorrebbe riuscire, finalmente, a laurearsi. Ha interrotto molte volte il percorso di studi a causa del lavoro e di problemi famigliari. Conseguire il titolo, per lui, costituirebbe un riscatto, la prova che sarebbe in grado di elevarsi socialmente. Emerge quindi una persona che insegue un se stesso che ha idealizzato e che vorrebbe concretizzare. A quel punto gli altri non avrebbero più motivo di valutarlo inferiore. Gli chiedo allora quali segnali gli sono stati dati per pensare di essere considerato in questo modo. Ci riflette ma non riesce a trovare una risposta. Si rende allora conto che ha paura che gli altri lo possano giudicare inadeguato perché è lui stesso a sentirsi tale. In effetti, dopo averci pensato, constata che il senso di vuoto che sente è presente anche quando è da solo. In qualche modo ciò riprende la condizione del per-sé sartriano. Si discute sul fatto che la sensazione di inadeguatezza potrebbe essere utilizzata come spinta per attuare il cambiamento voluto. Arrivare alla laurea sarebbe, secondo Mauro, il primo passo. Mi parla delle situazioni

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ed avvenimenti che lo hanno costretto a rallentare tanto il suo percorso. Mentre parla, però, realizza che nessuno di essi era così penalizzante come lo aveva vissuto. Giustificava certo un rallentamento ma, dice Mauro stesso, non ai livelli a cui lo aveva fatto arrivare. Gli propongo l’interpretazione secondo cui potrebbe essere stata una sua scelta. Emerge così che per Mauro sarebbe angosciante e “distruttivo”, per usare un termine che egli stesso ha impiegato, scoprire che il conseguimento della laurea non porterebbe i cambiamenti che vorrebbe e si aspetterebbe. Ha caricato di un valore talmente alto questo evento che ora lo teme. Qui è evidente il tema della scelta. Per Mauro è una sorta di rivelazione. Comprende di dover ricercare le motivazioni per proseguire gli studi in se stesso, senza cercare giustificazioni esterne ai suoi comportamenti che appaiono contraddittori. Decide allora di preparare un esame, dopo due anni di immobilità, e lo supera. Dice di sentirsi, ora, più motivato. Il discorso torna sulle relazioni sentimentali in senso più specifico. Gli chiedo se si sentiva attratto dalle donne con cui aveva avuto delle relazioni per la loro persona o per ciò che rappresentavano per lui. Non sa rispondere immediatamente, ma all’incontro successivo mi dice che in effetti i suoi non si potevano definire sentimenti autentici. In un certo senso aveva usato queste donne per confermare a se stesso il suo valore. Arriva alla conclusione che dovrebbe cercare di ascoltarsi di più per capire cosa e chi realmente vuole e desidera. Il senso di inadeguatezza che sentiva era talmente forte che ogni suo comportamento era finalizzato ad attenuarlo, senza però riuscirci. Si tratta di una sua sensazione che non può essere risolta da qualcosa che proviene dall’esterno. Anche la gestione dei rapporti interpersonali, quindi, dipende principalmente da lui. Ora ne è consapevole. Afferma che gli sembra ci sia stato un miglioramento. Forse la cosa più difficile da abbattere è l’abitudine a perpetuare e ripetere certi comportamenti, su cui però ora riesce a riflettere in modo più chiaro. Comincia a sentirsi meno manchevole e ad apprezzare alcune sue specificità che prima considerava come “cose da dover essere nascoste”. Mauro afferma, ad esempio, che la vita in campagna è stata per lui fonte di arricchimento personale. Continuiamo ad avere degli incontri, ma non più regolari. Il consultante si sente più forte e indipendente. Ho descritto sinteticamente questo caso allo scopo di mostrare come alcuni concetti dell’esistenzialismo possano rientrare in una consulenza filosofica. In particolare mi è risultato utile il concetto di inadeguatezza che,

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nel pensiero sartriano, scaturisce da quello di essere per sé. Effettivamente il cliente si era rivolto alla consulenza filosofica per cercare di trovare una via per portare un miglioramento alla sua vita relazionale che non lo soddisfaceva e gli faceva vivere numerose situazioni di profondo disagio. In realtà ciò non dipendeva dagli altri ma da lui stesso, dal suo sentirsi inadeguato rispetto alle aspettative che nutriva nei propri confronti. Come sosteneva Sartre, il nulla aveva avuto la possibilità di penetrare tra il sé e l’immagine del sé creando una voragine tra essi. All’inizio del percorso che abbiamo intrapreso, Mauro si rendeva conto che tutto il disagio che provava, o almeno la maggior parte di esso, dipendeva dal suo modo di “viversi” e dal fatto di non essere soddisfatto di se stesso. Era però convinto che non sarebbe potuto essere diversamente. Riteneva di essersi trovato, suo malgrado, a dover fare delle “scelte obbligate”. Con il procedere del dialogo ha potuto capire che in molte circostanza sentiva di non avere possibilità di dare una svolta alla propria vita perché bloccato dal senso di inadeguatezza. Il non “sentirsi all’altezza” lo portava ad attribuire il medesimo pensiero anche agli altri; questo lo spingeva a nascondere la sua reale personalità che quindi, a sua volta, subiva un blocco nello sviluppo. Procedendo con il percorso di consulenza filosofica è risultato chiaro che anche quelle che percepiva come “scelte obbligate” erano in realtà libere e rispondevano alla sua necessità di mantenersi in una “zona di sicurezza”, al riparo dal giudizio altrui. Ma non c’è modo di fuggire al proprio giudizio, il quale però rischia di mancare in oggettività. A volte esso si configura come eccessivamente severo, altre, al contrario, come eccessivamente portato all’autogiustificazione, scaricando le proprie responsabilità all’esterno. Cominciando a guardarsi dentro e a prendere maggiore confidenza con se stesso, Mauro ha imparato ad apprezzarsi di più ed ha avuto il coraggio di attuare dei comportamenti atti a migliorare la sua vita. Personalmente, ciò che più ammiro del pensiero esistenzialista è il suo peculiare modo di considerare l’individuo e l’importanza attribuita alla capacità di riflettere su se stessi coinvolgendo la parte più profonda e vera dell’io. Esistono certamente delle situazioni in cui un problema arriva dall’esterno senza che ci sia la possibilità di evitarlo. Anche in questi casi, però, il modo di affrontarli dipende in buona parte dal rapporto che intratteniamo con noi stessi, da quanto riusciamo ad essere realmente autentici al nostro stesso cospetto. Conoscere se stessi è, quindi, un elemento di prioritaria importanza, l’inizio di un processo di cambiamento.

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Riferimenti bibliografici

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Sartre J.-P., L’essere e il nulla, saggio di ontologia fenomenologica, a cura di F. Fergnani e M. Lazzari Milano: il Saggiatore, 1997. Fabro C., L’assoluto nell’esistenzialismo, volume 11 di Opere complete, Segni: Edivi, 2010. Fabro C., Introduzione all’esistenzialismo, volume 7 di Opere complete, Segni: Edivi, 2010. Ricoeur P. e G. Marcel, Per un’etica dell’alterità, sei colloqui, a cura di Franco Riva, Roma: Lavoro, 1998. Prini P., Storia dell’esistenzialismo, Roma: Studium, 1991.

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Il pensiero come ri-apertura dell’esistenza. Simondon, Bataille, Nancy

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di Salvatore Piromalli

C’è, tra le donne e gli uomini di questo tempo, un modo piuttosto sovrano di perdere la bussola senza angoscia, e di camminare sulle acque nelle quali il senso annega. Jean-Luc Nancy, Il senso del mondo Ciò che senza vergogna potrebbe pretendere al nome di senso risiede in ciò che è aperto e non in ciò che è chiuso su di sé. Theodor W. Adorno, Dialettica negativa

Premessa Le pratiche filosofiche sono oggi aperte ad un rischio e ad una chance: da una parte, il pericolo – non ancora superato – di rimanere interne a un paradigma normalizzante e terapeutico, gravate dal mito (talvolta inconsapevole, e dunque ancora più insidioso) del Soggetto, di un Soggetto che si ritiene essere consapevole e padrone di sé, capace di mantenersi distante dal caos esistenziale, ovvero di riportare tale divenire caotico ad un ordine stabile, ad una forma salva (salvus, integro, intero, compiuto), che si configura come ideale di sé e come modello con cui si misura la propria vicenda esistenziale e le relazioni con gli altri; dall’altra parte, la promessa – tutta aperta e tutta ancora e sempre da giocare, da mantenere – di un rilancio del pensiero filosofico, nella sua irrinunciabile aderenza al concreto farsi dell’esperienza esistenziale degli uomini e delle donne del nostro tempo: un pensiero che rinuncia a farsi “farmaco-che-cura”, per diventare lievito e fermento, pulsione e co-agitazione, assumendo l’altra funzione del pharmacon, il “veleno” che riapre incessantemente la scommessa dell’esistenza, che la esonera dai miti di salvezza e la consegna alla dimensione aperta, metastabile e infinita della propria finitezza. Non bisogna aver alcun timore di dare ragione a Rovatti, quando rimette in questione il presente e il futuro delle pratiche filosofiche, e in particolare della consulenza filosofica, per evitare proprio il rischio sopra

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delineato: la consulenza non ha il compito di fornire consolazioni, bensì di «smontare e decostruire pazientemente» le attese di chi vi si avvicina, e ciò «in vista – forse – di un nuovo scenario in cui le parole come “rischio” e “spaesamento” dovrebbero funzionare, piuttosto che come sintomi di un disagio, cioè di qualcosa da curare, come aperture di esperienza, cioè – paradossalmente – come la cura stessa o un suo primo affacciarsi»1. E più avanti, ancora più esplicitamente: Questa cura filosofica non è un calmante per sedare il sintomo. Non c’è alcuna guarigione staccata dal percorso di trasformazione di sé: la padronanza [di sé, secondo il mito prima richiamato] non è un esito, e neppure descrive con precisione quell’esperienza di trovarci nel medesimo tempo dentro e fuori di noi stessi che acquisiamo durante il percorso. Allargare lo spazio e il tempo, come giustamente si dice, svincolarci dalla strettoia in cui ci troviamo, creare pause e intercapedini, far ripartire il pensiero mediante la pensosità2.

Occorre mantenersi aperti a questa scommessa: saper trattare con l’esistenza attraverso la libertà del pensiero, rinunciando alla presunzione di com-prenderla nelle maglie rigide della concettualizzazione (cum-capere), di poterla s-piegare riconducendola al bisogno di salvezza e di Senso, ovvero traducendola in modelli e miti che hanno l’unica funzione di esonerarci illusoriamente dalla fatica del caos esistenziale e dallo spaesamento, ma che in realtà travisano e tradiscono ciò che l’esistenza è, costitutivamente: inquietudine e apertura, pulsione ed esposizione, oscillazione nel vuoto e assenza di fondamento, dunque esperienza della libertà. Ex-istere è starfuori da ogni mito di stabilità e salvezza, da ogni finzione di inalterabilità e di perfezione; questo nostro tempo, posteriore alla nietzschiana morte di Dio, ci offre l’opportunità di non richiudere più il vuoto apertosi sotto e dentro il Soggetto, di non salvarci più dal dis-astro del Senso, ma di fare di questo naufragio e di questo vuoto il momento propizio – il kairós – di una possibile inaugurazione di altri sensi, dell’esistenza stessa come liberazione e come libertà per l’evento del senso: un senso che è sempre a-venire e che si offre non sulla superficie liscia di un’esistenza salvata o in cerca di salvezza, bensì nel mezzo delle sue pieghe, in mezzo alle sue fratture e alle sue crepe, nei luoghi di apertura di un esistere non più chiuso su se stesso, ma spalancato sul suo fuori, passibile dell’evento infinito del senso finito. 1

Pier Aldo Rovatti, La filosofia può curare? La consulenza filosofica in questione, Milano:Raffaello Cortina 2006, p. 21. 2 Ivi, p. 79.

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Sta nel coraggio di questa consapevolezza la chance delle pratiche filosofiche, la promessa che occorre mantenere viva: fare del vuoto del Senso l’inaugurazione di un pluralismo di sensi interstiziali, che accordi al nostro essere al mondo non più la forma compiuta di un edificio architettonico, ma il movimento inoperoso e libero di una rapsodia dodecafonica sempre da reinterpretare; sostituire, al dispotismo autocratico dell’Io, la possibilità di una democrazia ospitale dei sensi che si fanno e si disfano in più direzioni, in più sensi; «allargare lo spazio e il tempo» dell’esistenza, come diceva prima Rovatti, per intravedere in essa aperture, concavità aperte e soglie per la trasformazione di sé; «creare pause e intercapedini», per far tesoro delle pieghe e dei chiaroscuri esistenziali, come luoghi di ri-creazione di sé; «far ripartire il pensiero mediante la pensosità», per liberare il pensiero nella sua curvatura verso l’esistenza, una curvatura che è – insieme – dischiusura teoretica e im-pegno del pensiero, ritracciamento etico-politico del fare filosofia, dunque della pratiche filosofiche. Le seguenti riflessioni vogliono essere un contributo in tale direzione. Raccogliendo stimoli e idee che fanno ormai parte dello humus del pensiero filosofico contemporaneo, l’intenzione è quella di indicare alcune possibili rotte teoriche, sentieri più che strade sicure, tragitti e transiti verso una possibile idea di pratica filosofica, che si approssimi con maggiore aderenza alle pieghe del vivere – alle sue rughe e alle sue ferite – sapendo e facendo emergere il loro intimo splendore, la loro potenza ri-generativa, se solo quelle pieghe e quelle ferite diventano dimora (ethos) del pensiero: cioè luogo di pensosità e di relazione, di un con-filosofare che sia volano di un ampliamento della visione di sé nel mondo, laboratorio sperimentale per imparare ad assumere, responsabilmente e con coraggio, la dynamis dell’esistenza, la pulsione che la muove e la scaglia via da sé. Lungo queste rotte, saremo in compagnia di tre pensatori contemporanei singolari, autori di proposte teoriche che – come si vedrà – sono intrecciate da un filo di intima connessione teorica: Gilbert Simondon, George Bataille, Jean-Luc Nancy. Del primo sarà presa in considerazione l’ontologia dell’essere vivente come teatro di metastabilità incessante, assunzione di forme sempre provvisorie e in divenire, che non hanno come fine la “costruzione” dell’identità e la “padronanza” del sé, bensì la loro permanente inaugurazione in forme sempre inedite, provvisorie, in movimento. Di Bataille, sarà dato spazio in particolare al suo pensiero dell’individuo come singolarità aperta e incompiuta, che soltanto in questa apertura e ri-apertura (che è ferita, blessure) può ritrovare se stesso per ri-perdersi nell’eccesso della comunicazione con l’altro e col mondo. Infine, Nancy – pensatore che si colloca al punto di convergenza dei precedenti – ci condurrà verso un pensiero

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che incrocia l’esistenza nella sua pulsione fondamentale, l’esperienza della libertà, e nella sua disposizione a restare aperti, spalancati alla dimensione infinita nel/del finito.

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1. Simondon: l’essere come divenire Il percorso teorico dovrà necessariamente prendere le mosse da un pensatore francese ancora scarsamente conosciuto, che tuttavia si colloca in un punto teoreticamente cruciale per la comprensione delle riflessioni successive, e che assume un’importanza decisiva per l’idea di pratica filosofica che si cercherà di tratteggiare. Si tratta di Gilbert Simondon (1924-1989), autore di un testo denso e complesso, in cui si gettano le basi della sua originale concezione filosofica: L’individuazione psichica e collettiva3. Facendo interagire creativamente ambiti disciplinari eterogenei (fisica, biologia, cibernetica, filosofia), Simondon tratteggia le coordinate di una nuova ontologia, che superi l’opposizione tra essere (stabile) e divenire (instabile), per accogliere il divenire come carattere costitutivo dell’essere, «ciò mediante cui l’essere diviene in quanto è, come essere»4. Da qui l’introduzione di una forma complessa di equilibrio sconosciuto agli Antichi, che conoscevano solo, dualisticamente, la stabilità e l’instabilità: cioè l’equilibrio metastabile, alla base della genesi continua del vivente e del processo di individuazione come nascita relativa e mai del tutto compiuta5. Prima di precisare il senso del termine “metastabilità”, occorre soffermarsi ancora sull’idea di essere che questo pensatore propone, ovvero su ciò che rende ragione della metastabilità come processo ontologico fondamentale. Ecco un punto esplicativo in tal senso: Lo stato originario dell’essere è uno stato che supera la coerenza con se stesso, che eccede i propri limiti: l’essere originario non è stabile, è metastabile; non è uno, è in espansione a partire da se stesso; l’essere non sussiste in rapporto con sé medesimo; non è uno, ma trattenuto, teso, sovrapposto a se stesso. L’essere non si riduce a ciò che è; è addensato in se stesso, potenzializzato. Esiste come essere, ma anche come energia. L’essere è insieme struttura e energia6. 3 G. Simondon, L’individuation psychique et collective. À la lumière des notions de Forme, Information, Potentiel et Métastabilité, Paris: Aubier 1989, tr. it. e postfazione di Paolo Virno, L’individuazione psichica e collettiva, prefazione di Muriel Combes, Roma: Derive Approdi 2001. 4 Ivi, p. 28. 5 Cfr. ivi, pp. 28-29. 6 Ivi, pp. 181-182.

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Ma perché l’essere, secondo Simondon, sarebbe attraversato da questa spinta inquieta alla metastabilità, che lo connota come un essere sempre potenziale, sinolo addensato, ogni volta singolare, di struttura ed energia? Che cosa conferisce all’essere questa pulsione permanente alla metamorfosi di forma, al continuo autotrascendimento? Si tratta, spiega Simondon, di una «riserva di essere ancora non polarizzata, disponibile, in attesa»7, un potenziale ontologico che chiede di attuarsi, ogni volta, in una forma provvisoria e impermanente; la traccia di una dimensione preindividuale, impersonale, una sorta di «rimanenza della fase primitiva e originaria dell’essere» che, riprendendo Anassimandro, Simondon chiama «carica di apeiron»: In virtù dell’apeiron che porta con sé, l’essere non è soltanto essere individuato; è una coppia formata da essere individuato e natura; mediante questo resto di natura, esso comunica con il mondo e con gli altri esseri individuati, scoprendo significati di cui non sa se sono a priori o a posteriori. [...] è necessaria la compresenza di qualche altro essere affinché l’individuazione, principio e ambiente del significato, possa manifestarsi8.

A questo punto risulta più agevole la comprensione della logica metastabile a cui soggiace (o meglio, la pulsione che muove dall’interno) il processo di formazione dell’essere vivente, che Simondon chiama “individuazione”: esso si configura come un incessante e inoperoso movimento che non si stabilizza mai in una forma finale, ma che dà luogo ad una nascita permanente, sempre relativa e mai del tutto compiuta: «Il vivente serba in sé una permanente attività di individuazione; non è solo un risultato dell’individuazione, come il cristallo o la molecola, ma è un teatro dell’individuazione»9. Vi è dunque nell’essere una «metastabilità vitale», un’alterazione incessante di forma, poiché «per l’essere è impossibile continuare a vivere senza cambiare stato, ossia senza cambiare il proprio regime strutturale e funzionale»: L’individuo non è un essere sostanziale come un elemento, né un mero rapporto, ma la realtà di una relazione metastabile. Vi è autentico individuo solo in un sistema in cui si dà uno stato metastabile [...]. Un essere non è mai completamente individualizzato; per esistere, deve poter continuare a individualizzarsi, risolvendo i problemi dell’ambiente che lo circonda e al quale appartiene [...]. L’individuo concentra in sé la dinamica che l’ha fatto nascere e perpetua la prima operazione in una individualizzazione continuata; vivere è perpetuare una permanente nascita relativa. Non basta definire il vivente

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Ivi, p. 156. Ivi, p. 158. Ivi, p. 30.

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come organismo. Il vivente è organismo in base alla prima individuazione; ma può vivere solo se è un organismo che organizza, e si organizza, attraverso il tempo. L’organizzazione dell’organismo è il risultato di una prima individuazione, che si può chiamare assoluta; ma quest’ultima, più che vita, è condizione di vita; è condizione di quella nascita perpetua che è la vita10.

Il processo metastabile dell’ontogenesi di Simondon non rimane circoscritto solo all’individuo, e la pulsione di energia pre-individuale esige una fase ulteriore di divenire dell’essere, un esito inoperoso che sovverta i confini del singolo: «essa può prodursi solo attraverso l’essere del soggetto e attraverso altri esseri, come collettivo trans-individuale»11. L’individuazione della singolarità vivente sfocia in un inarrestabile trascendimento di sé, verso una dimensione trans-individuale, collettiva e plurale, dove il singolo può trovare il campo ulteriore in cui ri-giocare e rilanciare incessantemente la propria carica pre-individuale. A fare da nesso transduttivo tra queste dimensioni ontologiche (pre- e trans-individuale) è per Simondon l’emozione che, lungi dal rappresentare un processo di disorganizzazione negativa del soggetto, è invece «innesco di una nuova strutturazione che potrà stabilizzarsi solo nel collettivo»; di per sé, l’emozione «è incompleta e incompiuta finché non si realizza nell’individuazione del collettivo; non esiste effettivamente come emozione al di fuori del collettivo», è la spinta che esorbita l’individuo e che lo espone, strappandolo alla chiusura del sé e mettendolo in relazione col mondo12. Cerchiamo di raccogliere alcune provocazioni e ricadute teoriche che questa concezione ontologica può avere sulle varie espressioni delle pratiche filosofiche. Quale atteggiamento di fondo, di fronte alle vicende esistenziali dei singoli, viene indirettamente indicato? Di certo, siamo lontanissimi dall’idea di una “stabilità identitaria” e di una “padronanza” del Soggetto su se stesso e sul proprio divenire, così come dall’idea di un individuo assoluto che sta al di qua del suo con-essere nel mondo. Siamo piuttosto messi di fronte ad un teatro di individuazione permanente, ad una nascita continua di sé e di sé agli altri, ad un processo di autotrascendimento che dalla prima individuazione (quella naturale e biologica in senso stretto) porta all’aperto della possibilità d’essere, ad una potenzialità d’essere mai azzerata, ineludibile, 10

Ivi, pp. 76, 107 e 138. Ivi, p. 170. 12 Ibid. Sembra di ritrovare qui, nell’emozione vista come rottura del limite soggettivo, come effrazione e sincope, elementi non molto distanti dalla ferita del soggetto di cui parlerà Bataille, l’apertura che estroverte e innesca la comunicazione con l’altro, come vedremo più avanti. 11

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incoercibile, ad una tras-formazione incessante che accompagna l’esistenza, e che la espone nel mondo, insieme agli altri con cui si con-divide proprio questa metastabilità del percorso umano. Quando il consulente filosofico si trova davanti la vicenda umana del singolo, agitato, emozionato, disorientato, preso nel vivo della propria particolarissima situazione esistenziale e relazionale, limitato nella possibilità di sapersi interamente, di dominare il percorso dei propri cambiamenti, di dare un senso definito alla ricerca di sé e di trovare un senso stabile alla propria esistenza; quando si è posti davanti a questo scenario di finitezza umana, si ha davanti non la carenza o l’eccezione, ma la regola dell’essere, il criterio ontologico che sottende ad ogni singolo processo di individuazione del vivente. Non uno stato di mancanza ontologicamente difettiva, la condizione negativa di un mal-essere che prelude al benessere e alla salute esistenziale; non uno stato di dis-agio, destinato ad essere sanato con l’agio e il ritrovamento di sé, bensì la concrezione singolare dell’imperativo ontologico, la testimonianza specifica delle potenzialità dell’essere, che non può essere che nella metastabilità, passando di soglia in soglia, da una forma all’altra. Una cultura millenaria troppo desiderosa di salvezza ha finito per etichettare difettivamente le varie forme della sofferenza esistenziale, parlando di dis-agio, mal-essere, dis-funzione e dis-adattamento individuale, e contrapponendoli ad uno stato illusorio dell’essere pieno, perfetto, sferico, compiuto. Tuttavia, per quanto si tratti, innegabilmente, di condizioni non disgiunte da una situazione di acuta sofferenza umana ed esistenziale, lo sguardo teoretico di Simondon ci invita a considerare tali stati momentanei come la condizione ordinaria dell’essere, conferma singolare della sua natura più propria, un essere che riversa fuori dai confini individuali l’abbondanza delle proprie potenzialità, che ribolle della sua riserva di energia originaria mai del tutto esaurita, che si cerca nelle sue forme mai definitive e sempre a-venire. Assistere – come spesso accade nelle varie esperienze di pratica filosofica – al modo assolutamente singolare in cui l’essere si dà, si offre di forma in forma, nella sua prodigalità infinita, attraverso le vicende emozionate dell’esistenza singolare, è uno spettacolo ontologico che, ogni volta e ogni volta in maniera diversa, sollecita e riattiva lo stupore e la pensosità del pensiero, un esercizio in cui il pensiero si alimenta di nuova energia e di nuova immaginazione filosofica, stando a contatto con la terra viva e pulsante dell’esistere. Per queste ragioni, la consulenza filosofica dovrebbe rifuggire dalla tentazione “terapeutica” di fermare, sedare, inibire, trattenere la metasta-

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bilità – talvolta caotica e sofferta – delle vicende esistenziali, nel tentativo di ricondurre quel caos generativo alla forma ordinata e perfetta del cosmo soggettivo, di una vita filosoficamente ordinata e quieta, razionalmente stabilizzata e immunizzata dall’inquietudine ontologica. Al contrario, la consulenza deve proporsi come momento di con-divisione teorico-pratica della legge dell’esistenza, luogo di accettazione, di ospitalità, di passibilità attiva e meravigliata della metastabilità dell’essere, della sua forma mai conclusa e mai definita: la filosofia deve diventare risorsa affinché la pulsazione della vita venga sentita, avvertita e patita come segnale ontologico primario, inaggirabile, un pensiero concavo che si lasci attraversare dal fiume metastabile della vita, e che restituisca a quel fluire inquieto riconoscimento e diritto di esistenza, un’esistenza non riconducibile a nessuna terapia, a nessuna salvezza. Nel vivo della singolare vicenda esistenziale, risuona l’eco di una legge ontologica che chiede di essere considerata nella sua dynamis inestinguibile, come il tratto singolare di una configurazione mai chiusa, come l’annuncio di un essere in divenire abitato dalla pulsione alla rinascita. Quella particolare relazione filosofica che si viene a intrecciare nella consulenza, deve allora diventare il luogo aperto in cui si sperimenta insieme, nella reciproca com-mozione, l’imperativo ontologico, facendone esperienza in senso heideggeriano: Fare esperienza di qualcosa – si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio – significa che quel qualche cosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e ci trasforma. Parlandosi di “fare” non si intende affatto che qui siamo noi, per iniziativa e opera nostra, a mettere in atto l’esperienza: “fare” significa qui provare, soffrire, accogliere ciò che ci tocca adeguandoci ad esso. Qualcosa “si fa”, avviene, accade13.

2. Bataille: la ferita come comunicazione La metastabilità dell’esistere che accompagna l’individuazione e la ricerca di sé, e di cui le pratiche filosofiche potrebbero diventare osservatorio privilegiato e laboratorio sperimentale com-partecipato e con-diviso, ci presenta uno scenario ontologico lontano dalla perfezione sferica dell’Essere di Parmenide, dove “perfezione” è sinonimo di compiutezza, realizzazione definita e chiusura in sé (perficere, fare fino in fondo, compiere). Al contrario, l’essere simondoniano è scosso e alterato senza posa dal divenire, è il letto 13

Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, tr. it. di Alberto Caracciolo e Maria Caracciolo Perotti, Milano: Mursia 1993, p. 127.

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del fiume eracliteo in cui non ci immergiamo mai due volte (e neppure una, estremizzava Cratilo): un essere mai coincidente con sé, che in luogo della chiusura nella levigata perfezione della sfera, presenta increspature, corrugamenti, avvallamenti e dune, in un’inspiegabile alternanza di luoghi rarefatti e illuminati e di luoghi oscuri, opachi, densi, impenetrabili alla conoscenza e al pensiero. In queste pieghe sconnesse e disseminate, accade che l’essere presenti non tanto superfici s-piegate e levigate, quanto punti di rottura, buchi, bocche e ferite, luoghi di un vulcanismo ontologico incessante, crateri da cui fuoriescono lapilli e lava, la dynamis del fuoco che l’essere originariamente è, prima di farsi aria, acqua, terra, prima di individuarsi nelle forme degli esseri che sono. George Bataille (1897-1962) è il pensatore che, più di ogni altro, ha conferito a queste ferite dell’essere tutta la loro potenza ontologica affermativa: il suo pensiero si muove sui bordi di quella blessure che fa l’esistenza del singolo, un pensiero magneticamente attratto dal cratere infuocato e dalla forza originaria che spinge fuori la lava. La ferita assume, con Bataille, il ruolo di dimensione costitutiva dell’esistenza, ciò che la rompe e la espone, che interrompe la chiusura perfetta dell’individuo incidendone la superficie, aprendola alla comunicazione col mondo. La ferita è ciò che fa dell’individuo una singolarità aperta e incompiuta, il luogo di una contaminazione e di un passaggio dall’uno all’altro, la soglia di un libero impulso alla dissipazione (dépense) e alla comunicazione, attraverso l’erotismo, l’amicizia, la morte, la festa, il sacro, in cui si fa esperienza dell’estasi e dell’eccesso. Il punto di partenza di tutta la teorizzazione batailliana è senza dubbio la radicale insufficienza dell’individuo, un’insufficienza originaria che non è affatto considerata un difetto, bensì una chance, anzi la base, la condizione ontologica della vita umana. Dobbiamo stare in guardia – avverte Bataille – da qualsiasi mito della perfezione e della compiutezza dell’individuo inteso come Soggetto, poiché in tal modo l’individuo si chiuderebbe in un’autosufficienza mortifera, una corazza illusoria e vana che gli impedirebbe di restare in contatto – tramite l’esperienza, più che tramite il sapere e il sapersi – con la propria indigenza costitutiva, con il buco che è al centro dell’essere, di ogni essere. Siamo abitati da questo vuoto costitutivo, una mancanza non intesa come la dimensione dialetticamente opposta al pieno e al sazio, ma che, nella misura in cui viene colmata, si scava e si approfondisce, intensifica l’eccesso a cui siamo votati, fino a diventare l’eccesso di una mancanza, l’eccesso per mancanza14. 14

Vedremo nel prossimo paragrafo che proprio a questo eccesso per mancanza si riconnette Nancy, parlando di desiderio, pulsione, libertà, infinito.

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L’incompiutezza è ciò che lascia il processo di soggettivazione aperto e sempre in fieri, consegnato alla sua inoperosità, come anche Simondon aveva detto. Per Bataille, è necessario accettare questa incompiutezza e insufficienza esistenziale come ciò che ci apre all’altro: ogni singolo essere è un essere ferito, aperto, e proprio la ferita preclude al cerchio individuale di chiudersi, al singolo di completarsi e di morire della propria autosufficienza. Se non fossimo esseri feriti, aperti, non potremmo vivere e comunicare: il limite, per Bataille, non è una linea che rinchiude nell’asfissia dell’identità, ma è ciò che apre, espone, spinge fuori di sé, attraverso una ferita che si fa feritoia, crepa dell’essere, condizione di possibilità della comunicazione. La comunicazione (in e attraverso la blessure) è l’altro momento teorico in cui si scandisce la riflessione batailleana, insieme all’incompiutezza, e il punto teorico di transito tra questi due concetti è proprio la ferita: così come l’incompiutezza individuale implica la necessità ontologica di una apertura che è ferita dell’essere, allo stesso modo tale apertura diventa la condizione di possibilità della comunicazione. Scrive Bataille: La comunicazione non è compimento. Affinché la comunicazione sia possibile, occorre trovare un difetto, una mancanza, un punto debole, un’incrinatura. Una lacerazione in se stessi e nell’altro15.

Questa lacerazione è la soglia della comunicazione, la via d’accesso infinito dall’uno all’altro, che si apre proprio nel contatto, nella tangenza delle rispettive ferite: Nella misura in cui le esistenze appaiono perfette e compiute, rimangono separate, chiuse in se stesse. Si aprono soltanto attraverso la ferita, che è in loro, del non compimento dell’essere. Ma attraverso quel che si può chiamare incompiutezza, nudità animale, ferita, esseri innumerevoli e separati gli uni dagli altri comunicano e nella comunicazione dall’uno all’altro prendono vita perdendosi16.

La comunicazione è l’evento (la chance, l’alea, il káiros) che si schiude nella coincidenza di due lacerazioni, nell’accostamento di due ferite-feritoie che rendono possibile la reciproca visione e con-divisione. Bataille assegna alla comunicazione un ruolo fondamentale, poiché solo in essa ha luogo il passaggio dall’uno all’altro, la com-mozione e il transito di un flusso di energia, che dà vita ad un campo magnetico-relazionale, una corrente dinamica, un’onda che crea l’intreccio, il contagio, la messa in gioco di ciascuno nella 15 16

G. Bataille, L’amicizia, tr. it. di Federico Ferrari, Milano: SE 2006, p. 19. Ivi, p. 19.

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relazione con l’altro da sé: «La comunicazione non ha luogo che tra due esseri messi in gioco»17, tra due esseri affacciati sul loro limite, sul bordo che li pro-voca e li espone: su questa terra di nessuno io mi perdo e mi dissipo, ritrovandomi con l’altro. Per Bataille,

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l’umanità non è fatta di esseri isolati, ma di una comunicazione di esseri; noi non siamo mai dati, neanche a noi stessi, se non in una rete di comunicazione con gli altri: noi siamo immersi nella comunicazione, siamo ridotti a questa comunicazione incessante di cui sentiamo la mancanza anche nel fondo della solitudine: come suggestione di possibilità multiple, come attesa di un momento in cui la solitudine si risolve in un grido che altri odono18.

Anche da questa sommaria descrizione dei focus teorici batailleani (incompiutezza, ferita, comunicazione), è possibile trarre interessanti elementi di riflessione per chi si occupa di pratiche filosofiche. Spesso, negli incontri di consulenza, ciò che l’ospite porta ed espone (più o meno direttamente, più o meno consapevolmente) è soprattutto la propria ferita esistenziale, il punto in cui il proprio essere sperimenta la mancanza, il luogo in cui cerca e chiede – anche attraverso la sofferenza, lo spaesamento, la disperazione – una via per trasformarsi, una soglia per ri-nascere. Talvolta, la ferita che incide l’esistenza rischia di diventare la falla rovinosa da cui tutto l’essere si riversa fuori, si disperde e si consuma: anziché essere una soglia per la trasformazione di sé, diventa un buco per la propria distruzione, per la propria consunzione. Ora, il lavoro del consulente è esattamente quello di operare, nell’altro e con all’altro, una conversione dello sguardo sulla propria ferita, di rendere possibile una visione di sé e del proprio mondo interiore (la ferita come fessura per tornare a vedersi ed essere visto dall’altro). Non si tratta di un lavoro facile, l’esito è nient’affatto scontato, e molto dipende anche dalle capacità di auto-ascolto e auto-visione dell’ospite, attraverso l’ineludibile intreccio delle parole, dei pensieri, del tempo. Quello che è importante sapere – e introdurre nella relazione e nel con-loquium – è che la ferita non è ciò da cui occorre guarire, per essere salvi, dunque autosufficienti, compiuti, interi (salvus = integro). La ferita è il vuoto da cui procede la propria inaugurazione, la propria rinascita, la propria individuazione incessante, à la Simondon. Come non ci si salva dalla metastabilità, non c’è salvezza dalla nostra ferita costitutiva, poiché la ferita è una soglia senza salvezza, la 17 G. Bataille, Dibattito sul peccato, tr. it. di Elsa D’Ambrosio, Milano: Shakespeare & Company 1973, p. 14. 18 G. Bataille, La letteratura e il male, tr. it. di Andrea Zanzotto, Milano: SE 2006, pp. 180181 (corsivo mio).

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possibilità di accedere – attraverso di essa – ad altri sensi, ad altri se stessi ancora da-venire, alla relazione con l’altro, a sua volta portatore della propria ferita. La ferita è il luogo di passaggio che, in virtù dell’incompletezza del soggetto, consente il movimento metastabile della ricerca di sé e della comunicazione con l’altro da sé. Occorre che le pratiche filosofiche diventino momento maieutico di educazione (in senso letterale, e-ducere, condurre fuori, far venire alla luce) dello sguardo sulla propria ferita, in termini di accettazione consapevole, di capacità di vedere lo splendore che da quella feritoia emerge, la luce che da essa trascorre e filtra, dal mondo a noi e da noi al mondo, a partire dalla relazione tra consulente e ospite. Il consulente è qui chiamato a mettersi in gioco, a stare davvero in con-loquium con l’altro, a fare esercizio di visione attraverso la ferita dell’altro e di se stesso, a fare esperienza del fragile splendore della nostra esistenza finita, ma proprio per questo aperta all’infinito della comunicazione con l’altro.

3. Nancy: la finitezza come infinito Percorrendo il crinale vertiginoso dei concetti batailleani, siamo giunti proprio al punto di innesto della riflessione di un altro pensatore contemporaneo, che ha saputo tessere, in maniera originale e feconda e in sintonia con Simondon e Bataille, una trama aperta di pensieri filosofici sul senso della finitezza umana e dell’essere nel mondo: Jean-Luc Nancy (1940 – vivente). Anche di questo autore, così come per gli altri, ci si limiterà ad isolare alcuni luoghi teoretici particolari, che possono avere implicazioni per le pratiche filosofiche, considerate come strumenti di assecondamento e di ri-apertura delle possibilità esistenziali19. Se Simondon aveva puntato sulla metastabilità dell’essere come legge ontologica che regola la trasformazione e la rinascita, e Bataille sull’incompiutezza e sulla ferita come condizione e via d’accesso alla comunicazione, Nancy elabora una concezione filosofica che mira a cogliere, nella finitudine, la forza di una pulsione desiderante che la muove verso il fuori, verso l’esperienza della libertà e verso la riscoperta della dimensione infinita del finito. Il tragitto teorico dovrà dunque intersecare due coppie concettuali centrali nella riflessione di Nancy: il desiderio-pulsione e la libertà-infinito. 19

Sulla concezione ontologica di questo pensatore, mi permetto di rimandare a Salvatore Piromalli, Nudità del senso, nudità del mondo. L’ontologia aperta di Jean-Luc Nancy, Il Poligrafo, Padova 2012.

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Per Nancy il desiderio, che una lunga tradizione vuole originato da una mancanza e da una privazione, è un piacere, il piacere di desiderare. Nell’esperienza del desiderare, l’autentico piacere non sta tanto nell’annullamento della tensione, nella pienezza dell’appagamento, ma nella prosecuzione del desiderio stesso, nella salvaguardia di una tensione sempre rilanciata e di una soddisfazione sempre promessa. Desiderare significa mantenersi in rapporto con ciò che non potrà mai essere oggetto di appropriazione, tenersi all’altezza di un’esposizione all’altro da sé, di un rapporto con l’infinito: «Ciò che appaga è una cosa (un oggetto, un essere), ciò che piace è un rapporto (un’apertura, un’alterazione)»20. In questo modo, la perdita che sta all’origine del desiderio si converte – senza malinconia e accenti tragici – in un movimento espansivo dell’essere, in un experiri senza origine e senza fine, che espone all’infinito del desiderio stesso; non siamo più interni alla dialettica nostalgica e mitica di ri-appropriazione del perduto, poiché nulla è perduto e nulla deve essere riscattato: il senso del desiderare trasloca in un piacere nuovo e diverso, lontano dalla facile dialettica tra vuoto e pieno, abbandonato ad «un infinito che elude insieme senso di pienezza e di incompletezza»21. L’esistere (e il pensare) consiste in questo essere affetto dal desiderio di desiderare, nella relazionalità che ci rimette in gioco e ci apre ad una transitività incessante dal finito all’infinito, e viceversa. Tramite il piacere del desiderio, l’esistente finito si modifica, si altera, si tende, si cerca, sente se stesso sentire, non è più sostanza o essenza, bensì «potenzialità di rapporto», «disponibilità all’infinito»22: movimento, rinvio e indirizzo, esposizione e con-divisione: «Il piacere in generale è legato ad un rapporto: alla percezione di un rapporto e alla sua messa in opera [...]. Il piacere è in un rapporto che tende verso il suo prolungamento o verso la ripetizione»23. Certo, da questo piacere non è disgiunta una qualche forma di patimento e di pena, che tuttavia non è né dolore, né sofferenza, né tanto meno afflizione, punizione, castigo: è quel «dispiacere immanente al piacere»24 che nasce dall’inoperosità del desiderio stesso, patire l’infinito che si cerca senza poterlo mai raggiungere, rinunciando al falso potere di appropriarsene25. 20

J.-L. Nancy, Pensare il presente, Seminari cagliaritani 11-13 dicembre 2007, a cura di G. Baptist, Cagliari: CUEC 2010, p. 117. 21 Ivi, p. 116. 22 Ivi, pp. 116 e 125. 23 Ivi, p. 115. 24 Ivi, p. 121. 25 Ivi, p. 119 e ss. Su questi aspetti, declinati in un linguaggio interno all’ambito psicoanalitico lacaniano, si rimanda a Massimo Recalcati, Figure del desiderio, Milano: Cortina 2012, in

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L’essere stesso, per Nancy, è desiderio e fervore, è pulsione: «La pulsione innanzitutto non è il rapporto di un “soggetto” con qualche “oggetto” – essa è in ogni modo per principio al di là dell’ “oggetto” – ma è condizione o natura dell’ “essere”. “Essere”, inteso come verbo, significa “spingere” (o “impulsare”, “lanciare” e ancora “squassare”, “eccitare”). Essere è pulsione e pulsione dell’ente in generale. La pulsione della ragione è il suo desiderio della cosa stessa»26. In una riconsiderazione liberatoria del Trieb freudiano, Nancy denuncia la limitatezza della concezione che vede la pulsione soltanto come «una spinta oscura, incontrollabile, selvaggia e in definitiva minacciosa»; non si tratta di smentire completamente quest’idea ormai consolidata, poiché in essa c’è del vero, la pulsione «rappresenta la o le forze che ci anticipano o ci seguono, la o le forze che non rientrano nel calcolo e nel progetto di un soggetto»; si tratta di andare oltre, di modificare il nostro atteggiamento verso queste forze che eccedono la nostra soggettività, e in cui riecheggia chiaramente il potenziale pre-individuale di Simondon: non è rifiutandole o rimuovendole che diventiamo noi stessi, ma «è accogliendole, sposando il loro slancio che il soggetto ha la possibilità di formarsi (se quanto meno teniamo a pensare che un “soggetto” debba “formarsi”; si può anche dire: che un uomo ha qualche fortuna di “passare infinitamente l’uomo”)»27. In questo punto cruciale, desiderio e pulsione si toccano: il piacere di desiderare (attività che – come si è visto – è anche pena, passibilità, essere affetti dall’infinito) si congiunge con l’accoglimento di quella pulsione, una postura anch’essa passivo-attiva che espone il singolo all’infinito, alla forza particolare l’Introduzione (pp. 11-22) e il paragrafo intitolato L’esperienza del desiderio (pp. 25-33). Il desiderio viene descritto come «esperienza di sentirsi superati» (p. 26), «un’esperienza di perdita di padronanza, di vertigine, di qualcosa che si dà a me stesso come “più forte” della mia volontà» (p. 27); una «forza in eccesso» (p. 28) che determina uno“spossessamento” e un oltrepassamento dell’Io, uno “scivolamento”, uno “sbandamento”, un “inciampo”, una “caduta”(cfr. ivi). L’etimologia della parola “de-siderio” – ricorda Recalcati – evoca una «condizione di disorientamento, di perdita di riferimenti, di nostalgia, di lontananza, ma anche l’avvertimento positivo della mancanza di ciò che è necessario alla vita, l’attesa e la ricerca della propria stella» (p. 17). Su questi aspetti, vanno segnalati due testi: quello di Ugo Volli, Figure del desiderio. Corpo, testo, mancanza, Milano: Cortina 2002; quello di Camille Dumoulié, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, Torino: Einaudi 2002. 26 J.-L. Nancy, L’Adoration, Paris: Galilée 2010, pp. 73-74. In un’altra pagina della stessa opera si legge: «Si tratta dell’essere come verbo “essere”: mozione, moto, emozione, scossa e ascesa di desiderio e di timore, attesa e tentativo, prova, accesso, crisi stessa ed esaltazione, esasperazione o sfinimento, formazione di forme, invenzione di segni, tensione incontenibile fino all’insostenibile, dove si spezza o si depone» (p. 145). 27 Ivi, p. 72.

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che lo eccede e lo sovrasta e che – sovrastandolo – lo afferma nella sua singolarità, lo forma e lo trasforma affidandolo al libero movimento di una nascita incessante, di una singolarizzazione infinita, di un’individuazione sempre av-venire, come direbbe Simondon. Esistere è per Nancy essere investiti da questa forza arcaica, essere trattenuti nel campo magnetico di questa pulsione che ci strappa al nostro ego individuale e soggettivo, e ci affida alla legge dell’essere-in-comune, alla singolare pluralità del mondo. Il piacere di desiderare è, al contempo, sottomissione e afferramento, appropriazione di ed essere appropriati da questa pulsione infinita che precede ed eccede la nostra esistenza, in un chiasmo tra attività e passività che è legge della nostra finitudine, la sua destinazione infinita. Nella lingua tedesca, Trieb è qualcosa che ha a che fare con una spinta attiva che si subisce, con la crescita di un essere vivente, con lo slancio e il desiderio che giunge alla nostra finitezza provenendo da un altrove: In definitiva – conclude Nancy –, noi stessi siamo la pulsione. È il movimento, la venuta, il sopravvento, la vita, l’esistenza che noi siamo. È il suo battito, la sua respirazione, è lo spostamento, la plasticità e la mutazione che noi siamo. È la nostra ineguaglianza, la nostra eterogeneità a “noi-stessi”, tensione e spinta proveniente dalla forza che separa il mondo dall’altrove, qualcosa dal nulla: pulsione d’essere, essere come pulsione di cui ci facciamo carico, scarto infinito dall’essere posti in sé. Senso, linguaggio, sentimento di esistere28.

La pulsione del desiderare coincide con l’esperienza della libertà. Per Nancy, la libertà segna un limite del pensiero, poiché essa è in-comprensibile. Su questo punto – già rilevato da Kant e da Heidegger – fanno leva due capitoli consecutivi del libro L’esperienza della libertà, in cui viene articolato il rapporto tra pensiero, filosofia e libertà29. «Conservare libero uno spazio per la libertà – scrive Nancy – potrebbe significare: guardarsi dal comprendere la libertà, per guardarsi dal rischio di distruggerla, imprigionandola nell’inevitabile gabbia di definizioni e restrizioni dettate dalla comprensione»30. Tuttavia, il tema della libertà è per il pensiero un tema quanto mai necessario, come del resto titola il primo capitolo di quel saggio31. È necessario dunque pensare la libertà, senza che essa diventi “oggetto” del pensiero, 28

Ivi, p. 92. J.-L. Nancy, L’esperienza della libertà, tr. it. di D. Tarizzo, Torino: Einaudi 2000. Si tratta del cap. V, Il pensiero libero della libertà, (pp. 47-62) e del cap. VI, Filosofia: logica della libertà (pp. 62-67). 30 Ivi, p. 47. 31 Ivi, p. 3; il titolo del capitolo è: Necessità del tema della libertà. Premesse e conclusioni mescolate, pp. 3-14. 29

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sapendo che essa rimane indisponibile alla prensione del concetto, e ciò per il fatto che «la libertà è tutto tranne che un’ “Idea” [...]. La libertà è un fatto: [...] è il fatto dell’esistenza come essenza di se stessa»32. Il pensiero pensa la libertà non come concetto o idea intellettuale, ma come esperienza dell’esistenza e del pensiero stesso. Della libertà è possibile solo fare esperienza, e il pensiero che pensa non fa altro che questo: Qualsiasi cosa ne risulti, si tratterà di portare alla luce come tema e di mettere in gioco come praxis del pensiero un’esperienza della “libertà”: un’esperienza, e cioè in primo luogo l’incontro con un dato di fatto, oppure, con parole meno ovvie, la sperimentazione di un reale (o comunque l’atto di un pensiero che concepisce, interroga e costruisce quel che pensa solo in quanto è dapprima catturato e lanciato, come pensiero, proprio da questo33.

Pensare la libertà significa farne esperienza nel senso heideggeriano, e solo in questo modo può darsi una correlazione tra pensiero e libertà: ciò che è pensato (la libertà) è, simultaneamente, il movente stesso del pensiero, l’impulso che lo fa essere quel che è, la pulsione interna che lo appropria e lo abbandona, lo afferra, lo scaglia e lo libera. Anche nel rapporto tra pensiero e libertà, così come abbiamo visto a proposito del desiderio-pulsione, quel che si gioca è una passività attiva del pensiero, l’attività del pensare che rimane passibile di ciò che pensa, in un rapporto di co-implicazione tra pensante e pensato, tra soggetto e oggetto, tra pensiero e mondo, che inaugura la strada originale della riflessione e della scrittura di Nancy. Proprio di questo chiasmo tra passività e attività rende ragione il termine “esperienza”. La parola, come è noto, ha due radici tra loro intimamente connesse, una greca e una latina: peira ed experiri. Peira in greco vuol dire prova, tentativo spinto all’estremo, che si confronta con l’azzardo e con ciò che sta sul limite e oltre il limite del consentito: «Un tentativo portato avanti senza riserve e lasciato in balia del pericolo della propria mancanza di basi e di certezze circa quell’oggetto di cui non è nemmeno il soggetto, ma la passione, esposta come lo era il pirata (peirates) in alto mare, che sfidava liberamente la sorte»34. L’esperienza implica sempre un saggio, un esame, un essere direttamente alle prese con una dimensione di alterità e di estraneità, con un’apertura del possibile del quale si è in balia, al quale si è abbandonati 32 33 34

Ivi, p. 4. Ivi, p. 14. Ibid.

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senza mediazioni, che si patisce nella sua assoluta non prevedibilità; la prova a cui l’esperienza sottopone è proprio questo rimanere attivamente passibili a ciò che dall’esperienza proviene, il libero evento che accade e che ci accade. Strettamente connesso a questo primo significato è quello che soggiace al termine latino experiri, composto dal prefisso rafforzativo ex e da perire, termine a sua volta composto che vuol dire andare (ire) al di là (per)35. In questa seconda accezione, l’esperienza richiama l’aspetto dinamico di un percorso, un muovere da (ex) per dirigersi-verso, l’incedere attivo verso un altrove in cui sconfina lo spazio del consentito; l’experiri è il «tentativo che giunge sino al limite, e resta sul limite», dice Nancy, nel senso che l’esperienza si fa soltanto sul limite, di fronte a un limite; ma in questo stare sul limite, l’esperienza è già sempre un essere andati oltre, un piratare, un gettare lo sguardo su ciò che è di là da venire, senza sapere nulla di ciò che verrà e che ci avverrà: «È l’esperienza di non disporre di nulla di dato, di fondato, è l’esperienza di non detenere alcun capitale d’esperienza, è l’esperienza inaugurale dell’esperienza stessa»36. Il pensiero e l’esistere sono per Nancy esperienza della libertà in atto, libertà patita e libertà agita, abbandono e pirataggio, sottomissione ad una prova e partenza verso nuovi sensi, nuovi spazi del pensiero e dell’esistenza: un po’ come accade alla dinamica cosmica delle galassie, che creano lo spazio sotto la spinta della loro espansione incessante; o come accade al pirata che, senza averne diritto, sfida il limite operando su di esso un’effrazione, una violazione, una «incisione inaugurale» che è fondazione di un luogo. Pulsione, desiderio e libertà sono per Nancy l’af-fare dell’esistenza, ciò che resta sempre da fare, l’evento che sorprende l’esistenza e la proietta al di là di sé, di forma in forma, come un teatro di individuazione sempre a-venire, secondo la concezione di Simondon. Pulsione, desiderio e libertà sono ciò che le pratiche filosofiche devono coltivare, illuminare, rendere manifesti nell’esperienza del singolo, nella dinamica talvolta caotica della sua ricerca di senso. E qui che il finito, la finitudine dell’esistenza, incrocia l’infinito, la pulsione di un infinito che attraversa l’esistenza finita e il pensiero: Nancy pensa il finito come infinito, la condizione umana come finitudine infinita, il mondo come forza, gesto, transito dell’infinito, senza che questo pensiero declini mai verso un nuovo umanesimo immanente, e senza che trascenda verso una visione metafisica del mondo, verso il tentativo “paranoico” di possederne il senso. Si tratta di mantenere viva la pulsione e concavo il 35

Per questa etimologia di ex-per-ire, cfr. Adriano Fabris, Paradossi del senso. Questioni di filosofia, Brescia: Morcelliana 2002, p. 73. 36 J.-L. Nancy, L’esperienza della libertà, tr. it. cit., pp. 88-89.

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pensiero, di fare spazio, nella porosità della scrittura, a quell’altrove che apre e mantiene aperto il senso del mondo. Si esiste, si pensa, si scrive stando in rapporto con l’infinito, con l’incommensurabile e l’altrove-qui. Anziché la rinuncia all’infinito o la sua proiezione metafisico-religiosa, Nancy ci invita a non rinchiudere il finito nella sua propria immanenza, a reintrodurre l’infinito, a pieno titolo, nel mondo, inaugurando un pensiero finito capace finalmente di ospitarlo, di vederlo e di sentirlo, di farlo risuonare e di stare al cospetto della sua venuta continua, tra le pieghe del mondo. Questa possibilità è quanto di più attuale sta accadendo alla filosofia dopo la morte di Dio, ed è ciò che si annuncia nel cuore stesso del cristianesimo, dopo la sua radicale decostruzione: tornare a fare esperienza dell’infinito del finito, dell’infinito nel finito, farsi toccare dalla nudità del senso e del mondo. Ma quale finitudine e quale infinito ha in mente Nancy, e in che modo queste due dimensioni entrano in rapporto tra loro, si intrecciano per tessere insieme il senso del mondo? Come il pensiero – o forse si dovrebbe dire quale pensiero – può tornare a cogliere, senza rappresentazione e senza cattura, senza razionalismi e senza misticismi, l’apertura di un senso e la nudità di un mondo in cui finito e infinito vengono in contatto? Il vero problema della filosofia è che essa ha fatto di finito e infinito i poli di un’ostinata opposizione, in cui la finitudine è divenuta l’esperienza di una privazione e l’infinito l’esuberanza di una trascendenza; immanenza e trascendenza si sono divaricate e assolutizzate in un dualismo senza comunicazione, senza passaggio, senza più rapporto tra un senso asfittico e svigorito dell’esistenza e un senso sconfinante e solenne della trascendenza. Nancy ha cercato di indicare per il pensiero un compito inedito, quello di «uscire dalla classica contrapposizione tra trascendenza e immanenza e di pensare la trascendenza dell’immanenza: una “transimmanenza” intesa come la differenza interna all’immanenza stessa, come la resistenza dell’immanenza alla sua propria chiusura»37. Il neologismo è utilizzato con sobrietà da Nancy, ma il ragionamento a cui esso si riferisce è reiterato e insistente, il tentativo di dare forma ad un altro habitus del pensiero, rendendolo avvezzo a questa nuova consapevolezza ed esperienza. Trans-immanenza indica la trascendenza orizzontale attraverso la quale il mondo si espone e si abbandona alla sua espansione frattalica, all’inesauribile reticolazione di voci, di corpi, esistenze che creano il senso: il trans- dell’immanenza indica il passaggio dell’infinito tra le pieghe del finito, 37

R. Esposito, Libertà in comune, introduzione a J.-L. Nancy, L’esperienza della libertà, tr. it. cit., pp. XXXIII-XXXIV.

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la soglia aperta che consente al finito di infinitizzarsi, sorprendendo ogni volta se stesso, ri-nascendo a se stesso. La trans-immanenza fa cenno, ancora una volta, ad un moto infinito che invade il finito, ad una pulsione di libertà che non proviene da un altro mondo, ma che è la breccia del finito, ciò attraverso cui il mondo si apre a se stesso, si spazia e si distende, si re-inventa nella sua singolarità plurale. L’immanenza del mondo non è più immunizzazione dall’infinito, ma accoglienza e ospitalità dell’incommensurabile, hic et nunc. Qui sta la posta in gioco della fine della filosofia e di un pensiero della fine: il pensiero finito deve affermare – sentendola e vedendola – la finitudine infinita dell’esistenza e del mondo, rimettendo in gioco l’idea tradizionale della finitudine come privazione dell’infinito, come «finità di un esistente che sarebbe privato in se stesso della proprietà di realizzarsi, inciampando e cadendo sul proprio limite (la sua contingenza, il suo errore, la sua imperfezione, la sua colpa)»38. La finitudine non è privazione, bensì piena affermazione dell’esistenza come essenza di se stessa, nell’essere-incomune singolare plurale del mondo. Di più: la finitudine è «il privilegio dell’esistenza»39, la legge propria che nella fine dell’esistenza realizza il suo proprio fine, il suo proprio senso; nella finitezza, l’esistenza di appropria di sé come senso, il senso di essere l’essenza di se stessa, di fare senso infinitamente. Finitudine infinita che si esprime e si afferma nell’ogni volta sempre nuovo della singolarità e dell’essere – in – comune tra singolarità. Le pratiche filosofiche possono, sulla scorta di queste riflessioni, restituire all’esperienza della finitudine umana tutto il suo slancio e la sua apertura infinita, la sua tensione trans-immanente: si tratta di rimettere al centro la finitudine come luogo abitato da pulsioni, tensioni, spinte, aperture, slanci, desideri, una libertà che si fa senza nessuna predeterminazione e senza nessun criterio, che può essere colta e portata alla luce nelle esperienze che le singole persone vivono, nella ricerca che intimamente le muove, nella pulsione infinita che le abita, le rilancia e le destina.

Riferimenti bibliografici Bataille G., L’amicizia, tr. it. di Federico Ferrari, Milano:SE 2006. Bataille G., Dibattito sul peccato, tr. it. di Elsa D’Ambrosio, Milano: Shakespeare & Company 1973. Bataille G., La letteratura e il male, tr. it. di Andrea Zanzotto, Milano: SE 2006. 38 39

J.-L. Nancy, Il senso del mondo, tr. it. di F. Ferrari, Milano: Lanrfranchi 1997, p. 41. Ivi, p. 44.

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Dumoulié C., Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, Einaudi, Torino 2002. Fabris A., Paradossi del senso. Questioni di filosofia, Brescia:Morcelliana 2002. Heidegger M., In cammino verso il linguaggio, tr. it. di Alberto Caracciolo e Maria Caracciolo Perotti, Milano:Mursia 1993. Nancy J.-L., Il senso del mondo, tr. it. di Federico Ferrari, Milano:Lanfranchi 1997. Nancy J.-L., L’esperienza della libertà, tr. it. di Davide Tarizzo, Torino:Einaudi 2000. Nancy J.-L., Pensare il presente. Seminari cagliaritani 11-13 dicembre 2007, a cura di Gabriella Baptist, Cagliari: CUEC 2010. Nancy J.-L., L’Adoration (Déconstruction du christianisme, 2), Paris:Galilée 2010, tr. it. di Roberto Borghesi e Antonella Moscati, L’adorazione. Decostruzione del cristianesimo Napoli: Il Cronopio 2012. Piromalli S., Nudità del senso, nudità del mondo. L’ontologia aperta di Jean-Luc Nancy, Padova:Il Poligrafo 2012. Recalcati M., Ritratti del desiderio, Milano: Cortina 2012. Rovatti P.A., La filosofia può curare? La consulenza filosofica in questione, Milano:Raffaello Cortina, 2006. Simondon G., L’individuation psychique et collective. À la lumière des notions de Forme, Information, Potentiel ed Métastabilité, Paris:Aubier 1989, tr. it. e postfazione di Paolo Virno, L’individuazione psichica e collettiva, prefazione di Muriel Combes, Roma: DeriveApprodi 2001. Volli U., Figure del desiderio. Corpo, testo, mancanza, Milano: Cortina 2002.

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Terza sezione

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L’esercizio filosofico

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Un caso di insecuritas

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di Valeria Castellini

La problematica dell’insecuritas si pose alla mia attenzione quando Carlotta si presentò nel mio studio con attacchi di panico e stati d’ansia. Qualsiasi cosa pareva precaria ed instabile: l’ambiente circostante, i rapporti familiari e la sua stessa identità. In passato si era rivolta alla psicoterapia per una situazione analoga, ma il lavoro svolto, seppure interessante, non le era parso appropriato rispetto al problema. Carlotta mi riferì che quel lungo percorso intrapreso l’aveva portata alla riscoperta e analisi dei rapporti familiari e del passato: ciò le era servito per guardare con maggiore consapevolezza alle figure genitoriali e al suo contesto educativo, ma non le aveva fornito gli strumenti adeguati per costruire una identità proiettata nel futuro e, in particolar modo, per affrontare le scelte di vita alle quali si sentiva fortemente chiamata a rispondere. Il problema della scelta e della fedeltà di ogni decisione ad un progetto valoriale era fondamentale per la mia ospite: proprio da questa necessità di trasparenza nasceva la sua insicurezza, letteralmente insecuritas, non-senza-cura. Cura1assume qui il senso di preoccupazione, affanno, pensiero che turba, ma vedremo come il pensiero angustiante, la cura, si tramuta attraverso il percorso di consulenza in necessità di cura come heideggeriana “chiamata della cura”, nella presa in carico della propria esperienza, agere curam, ossia dell’occuparsi di sé in senso attivo e progettativo. La cura come insicurezza e peso esistenziale si rivela in questa analisi nella sua natura essenziale: l’uomo non si può disfare della sua condizione di vita limitata e precaria. Gaio Giulio Igino dà una rappresentazione singolare di questa condizione nelle sue Fabulae, poi ripresa da J. W. Goethe e rielaborata nella seconda parte del suo Faust. Igino racconta come Cura, attraversando un fiume, scorse del fango argilloso e decise di prenderlo per modellarne un uomo. Mentre Cura rifletteva sul suo operato sopraggiunse Giove, al quale Cura chiese di infondere spirito alla sua creazione. Giove acconsentì, ma allorché Cura pretese di dare il proprio nome all’uomo, Giove lo impedì e reclamò che gli fosse dato il suo nome, in quanto lui 1

C. Badocco, Cura, in Enciclopedia filosofica, Fondazione Centro Studi Filosofici di Gallarate, Milano: Bompiani, 2006, pp. 2490-2494.

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aveva instillato lo spirito. Alla disputa si aggiunse poi Terra: sosteneva che occorresse dargli il suo nome perché anche lei aveva contribuito alla creazione del suo corpo. I tre nominarono infine Saturno come giudice, affinché stabilisse quale nome dare all’uomo e la decisione di Saturno parve a tutti quella giusta: «Tu Giove, poiché infondesti lo spirito, dopo la morte dell’uomo, riceverai la sua anima; la Terra che fornì il corpo, riprenderà il corpo. Cura, giacché per prima lo ha modellato, lo possederà finché egli vivrà. Ma, in quanto esiste una disputa a proposito del nome, sarà chiamato uomo, visto che fu creato dall’humus»2. Carlotta non era ancora consapevole dell’essenzialità della condizione di insicurezza umana la prima volta che varcò la soglia del mio studio, ma sentiva la necessità di liberarsi dal significato negativo della parola cura ed identificò nella sofferenza dei suoi attacchi di panico, una chiamata alla presa in carico della sua situazione esistenziale, nonché un’opportunità per sviluppare, a partire da un rinnovato atteggiamento di attenzione nei confronti di se stessa, un progetto per la sua propria vita. Il percorso di consulenza che ne è nato è stato un viaggio intrapreso in due, nel reciproco rispetto e aperto alla conoscenza, alla messa in discussione ed ai nuovi punti di vista che si venivano creando come opportunità di pensiero. Compagna di questo viaggio è stata la filosofia antica, in particolare gli scritti di Epitteto e alcuni esercizi della scuola stoica, che si sono palesati come risposte alle difficoltà intellettuali ed emotive di Carlotta. La consulenza filosofica si configurò fin dai primi incontri come un esercizio: alla mia ospite fu chiaro che nulla poteva essere mutato senza la volontà di perseguire con impegno l’ideale della realizzazione di sé. La sua prima domanda “Chi sono io?” esprimeva la necessità di ristabilire un contatto con il suo sé autentico, al di là del panico che l’assaliva, insieme alle rappresentazioni mentali che la condizionavano. Come ricorda Pierre Hadot3 gli esercizi spirituali praticati nell’antichità presentavano apparentemente una certa diversità: dagli esercizi di Plutarco destinati ad acquisire una buona condotta morale, ai più ardui esercizi di meditazione platonica, passando attraverso l’esame di coscienza praticato dalle scuole filosofiche ellenistiche e romane. Tuttavia ad uno sguardo più attento si può rilevare una unità «nei mezzi impiegati e nel fine cercato»4:

2 P. Sgreccia, La dinamica esistenziale dell’uomo: lezioni di filosofia della salute, Milano: Vita e Pensiero, 2008, p. 267. 3 P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino: Einaudi, 2005, pp. 59-60. 4 Ibid.

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Tutte le scuole concordano nell’ammettere che l’uomo, prima della conversione filosofica, si trova in uno stato di inquietudine infelice, che è vittima della cura, delle preoccupazioni, lacerato dalle passioni, che non vive veramente, che non è se stesso. Tutte le scuole concordano anche nel credere che l’uomo possa essere liberato da questo stato, che possa accedere alla vera vita, migliorare, trasformarsi, raggiungere uno stato di perfezione. Gli esercizi spirituali sono precisamente destinati a questa educazione di sé, a questa παιδεία, che ci insegnerà a vivere non già conforme ai pregiudizi umani e alle convenzioni sociali (poiché la vita sociale è essa stessa un prodotto delle passioni), ma conforme alla natura dell’uomo, che non è altro che la ragione. Tutte le scuole, ciascuna a suo modo, credono dunque nella libertà della volontà, grazie a cui l’uomo ha la possibilità di modificare se stesso, di migliorare, di realizzarsi5.

L’uomo può liberarsi dalle preoccupazioni e dalle convenzioni sociali, può essere il padrone del proprio sviluppo trasformativo: intorno a questa verità abbiamo costruito il nostro percorso. Il primo ostacolo verso la realizzazione del sé era per la mia ospite la paura. Non si trattava della paura derivata da un rischio oggettivo, ma della sua proiezione di futuri possibili. Il suo pregiudizio, nel senso di giudizio antecedente la conoscenza dei fatti, muoveva verso una visione della realtà terrificante, alla cui costruzione essa stessa contribuiva con azioni difensive derivanti dal suo errare immaginativo. Carlotta non poteva fare a meno di praticare questo giudizio preliminare negativo, sia nei confronti delle situazioni che delle persone, cosa che la poneva in un costante stato di allarme. Questo atteggiamento, oltre a renderle impossibile una valutazione della realtà diversa dal suo giudizio preliminare secondo il quale “Tutto andrà male”, la costringeva a reprimere l’azione, portandola a vivere nell’aspettativa e nell’attesa che qualcuno dissolvesse le sue paure per poi poterle consentire di muoversi. Ne seguiva uno stato di frustrazione e d’infelicità. Occorreva agire quindi sulle paure, rimuovendo ciò che non le permetteva di essere se stessa: imparare a scolpire la propria statua, secondo l’espressione di Plotino, utilizzando la filosofia come scalpello. Hadot6 ricorda come la scultura fosse per gli antichi l’arte per eccellenza che toglie, a differenza per esempio della pittura che opera per aggiunta; la statua preesisteva quindi nel blocco di marmo e occorreva semplicemente togliere il superfluo per far affiorare la forma. Come nel caso della statua del dio marino di Glauco, ricoperto di limo, si era resa necessaria la pulizia dal limo di cui era ricoperto per renderlo riconoscibile, così fu necessario lavorare per comprendere 5 6

Ibid. Ibid.

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la genesi delle paure di Carlotta e rimuoverle, permettendo infine alla sua anima di esprimersi ed alla sua volontà di agire. «La felicità consiste dunque nell’indipendenza, nella libertà, nell’autonomia, vale a dire nel ritorno all’essenziale, a ciò che è veramente “noi stessi” e a ciò che dipende da noi» dice Hadot7 in un suo passo, e proprio dalla distinzione di ciò che dipende da noi e ciò che non dipende da noi è iniziato il nostro lavoro. Sulle orme di Epitteto abbiamo iniziato a riflettere, meditando sul V capitolo del Manuale: Non sono le cose, ma i nostri giudizi, cioè noi stessi, a essere responsabili dei nostri turbamenti. Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma i giudizi che essi formulano sulle cose, per esempio la morte non ha nulla di terribile, altrimenti sarebbe sembrata tale anche a Socrate, ma è il giudizio che noi formuliamo sulla morte, cioè che essa è temibile, ad essere temibile nella morte. Pertanto quando incontriamo delle difficoltà o siamo turbati o tristi, non attribuiamone la responsabilità a un altro, ma a noi stessi, cioè ai nostri giudizi: è proprio di chi non è ancora stato educato attribuire agli altri la responsabilità dei suoi mali; è proprio di chi è all’inizio della propria educazione attribuirne la responsabilità a se stesso; è proprio di chi ha completato la propria educazione non attribuirne la responsabilità né a altri né a se stesso8.

Era sempre più chiaro a Carlotta che il suo pregiudizio negativo verso la realtà, i rapporti e le situazioni, ma non solo, anche verso se stessa, era un elemento dannoso; iniziava però, nonostante reputasse la cosa difficile, a capire che i giudizi si possono controllare e modificare. Anche il nostro pensiero può cioè subire una trasformazione: il cambiamento si rivela qualcosa di necessario e si paventa come possibile. La responsabilità di questo cambiamento è il sinonimo della libertà esperibile dalla nostra condizione umana. «Ciò che ci fa paura o ci turba non sono le cose in se stesse, ma noi stessi, cioè i nostri giudizi»9 e la prova risiede nel fatto che non tutti gli uomini hanno paura delle stesse cose. Ciò che definisce il nostro modo di porci nei confronti dell’esistenza e il nostro tono emotivo sono i giudizi di valore che noi attribuiamo alla realtà. Non dobbiamo quindi ricercare fuori la causa delle nostre paure, ma dentro di noi, poiché il giudizio è una delle cose che dipendono da noi. Ritorna qui il tema fondamentale del capitolo I del Manuale: 7

Ibid. Manuale di Epitteto, Introduzione e commento di Pierre Hadot, Torino: Einaudi, 2006, p. 153. 9 Ivi, p. 57. 8

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Bisogna distinguere tra ciò che dipende da noi e ciò che non dipende da noi. Tra le cose che esistono le une dipendono da noi, le altre non dipendono da noi. Dipendono da noi: il giudizio di valore, impulso ad agire, desiderio, avversione, e in una parola, tutti quelli che sono propriamente fatti nostri. Non dipendono da noi il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni che gli altri hanno di noi, le cariche pubbliche, e in una parola tutti quelli che non sono propriamente fatti nostri10.

Questa distinzione rispose alla necessità di definire i limiti del potere umano. Carlotta si sentiva massimamente responsabile per ogni cosa: l’educazione della figlia che il compagno le delegava, la cura quotidiana della bambina, la preparazione dei pasti per tutta la famiglia, la cura della casa. Tutto ciò era sentito come responsabilità massima e la pressione alimentava la preoccupazione. Ogni eventualità che mettesse a rischio lo svolgersi dell’abituale routine di cura, di cui si sentiva investita, era fonte di pensieri perturbanti. Lo stoicismo ci offrì un punto di vista alternativo ponendoci di fronte ad una domanda cruciale: che cosa è in mio potere? L’analisi permise a Carlotta di consapevolizzarsi rispetto al suo limite e di utilizzare quel giusto affidamento stoico al destino, che le impedisse di angustiarsi oltre, rispetto alle situazioni in cui il suo potere era nullo e di iniziare ad agire su ciò che invece era in suo controllo. Agire su se stessi è dunque possibile e questa azione corrisponde alla gioia di fare ciò che si è capaci di fare. Per raggiungere questo distacco dal proprio pregiudizio terrificante è stato importante anche raggiungere l’autonomia di cui parla Hadot, nel senso di distacco dalle emozioni negative di altri. Le paure di Carlotta venivano infatti alimentate dal carattere apprensivo della madre. Secondo Carlotta la madre era spaventata da ogni cosa, niente di nuovo si poteva fare con serenità senza incorrere nella sua visione nefasta. Il suo impegno non era solo rivolto quindi a controllare i propri giudizi, ma anche ad arginare l’effetto negativo della visione di vita materna. Anche in questo il pensiero stoico del Manuale ci invita ad un cambiamento, quando nel XVI capitolo ci offre il precetto «Non lasciarci trascinare dalle pene altrui». È il giudizio che l’altro dà delle cose che lo affligge, non quello che gli accade, quindi è sua responsabilità la disposizione interiore che assume di fronte agli eventi. La possibilità di una condivisione totale tra Carlotta e la madre era in discussione: Carlotta sentiva la necessità di affrancarsi da un certo modo di pensare e giudicare, voleva cambiare e non essere assorbita dal turbine della paura. Fu necessario da parte sua modificare anche il giudizio sull’essere

10

Ivi, p. 143.

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madre e contemplare l’idea che essere madre non implichi avere la stessa visione di vita del proprio figlio: a volte neppure in vista della felicità filiale una madre può voler cambiare il proprio sé. Difendersi dunque dai propri giudizi è un modo per ritrovare se stessi e la propria autentica spontaneità; utilizzare un atteggiamento critico anche nei confronti delle nostre rappresentazioni, come ci ricorda Epitteto, perché potrebbero essere erronee:

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Proprio come Socrate diceva che non si deve vivere senza sottoporre la propria vita a un esame, allo stesso modo non bisogna accettare una rappresentazione senza esame, ma bisogna dirle: “aspetta, lasciami vedere chi sei e da dove vieni”, proprio come le guardie ci dicono: “Mostrami i tuoi documenti di riconoscimento”11.

Sostenere il proprio punto di vista sulla realtà è complicato, dovendo difendersi dai contagi emotivi e dai giudizi negativi degli altri. Carlotta non si definiva una personalità forte, anzi, definiva il suo relazionarsi agli altri, in particolar modo alla famiglia, come un porsi a totale servizio, a discapito del suo essere. In particolare, subiva le critiche delle persone che lei riteneva avrebbero dovuto sostenerla, in primis la famiglia attuale e quella di origine. Il suo modo di essere, di credere in certi valori, il suo amore per lo spirito delle comunità africane, il suo desiderio estremo di rispetto e apertura mentale, il suo dare incondizionato in vista del piacere della condivisione, l’amore per il bello e il segreto pensiero che di tutto ciò si potesse godere senza sensi di colpa, le venivano più o meno apertamente contestati in nome di valori come la solidità economica, il buon nome delle apparenze, la necessità di difesa dal mondo esterno; modi di vita e valori che non solo non le appartenevano, ma soffocavano il suo istinto vitale. L’esercizio del dialogo filosofico ha valorizzato il suo ragionare, edificando la consapevolezza dei suoi valori. Come il Manuale ci ricorda non esistono solo doveri verso gli altri, ma anche doveri verso noi stessi da coltivare con regolarità e costanza. Il primo tra questi è quello di prefiggersi una regola di vita: Prefiggiti a questo punto un determinato stile e modello di vita a cui ti atterrai, che tu sia solo con te stesso o che tu incontri uomini12.

Rispondere alla domanda di Epitteto “Che genere di uomo vuoi essere?” è fondamentale, «Comincia con il dirlo a te stesso, dopo di che regola 11 12

Ivi, p. 43. Ivi, p. 189.

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il comportamento in base a questo modello» ricorda nelle Diatribe. Scegliere consapevolmente il proprio modello di vita, è la vera scelta di vita filosofica. Carlotta viveva nel suo intimo il “sentimento oceanico” difeso da Hadot13, che lui descrive riprendendo le parole di Michel Hulin come «il sentimento di essere presente qui e ora in mezzo a un mondo anch’esso intensamente esistente» e ancora come «sentimento di coappartenenza essenziale tra me stesso e l’universo circostante», ma l’ambiente costituiva un ostacolo alla piena espressione di questo sentire, all’adesione ferma e gioiosa alla sua scelta di vita, come tensione a questa apertura all’universale. Fu quindi importante l’esercizio del dialogo che impose a se stessa nei confronti degli altri, forte del precetto stoico della necessità di restare fedeli alla propria decisione malgrado le critiche. Dice il Manuale: Quando compi qualche azione dopo aver preso la decisione di compierla, non cercare di evitare di essere visto mentre la compi, anche se la gente dovesse giudicarla diversamente da te. Infatti, se tu non agisci in modo retto, devi evitare l’azione stessa. Ma se agisci in modo retto, perché temere coloro che ti criticheranno ingiustamente?14.

Il tentativo di non essere vista non era più efficace e soprattutto non permetteva alla mia ospite di vivere bene, il suo sé autentico reclamava di essere visto e la sua volontà e ragione erano chiamate a porsi a suo servizio. Una volta chiariti i suoi valori, l’esercizio fu quello del compiere azioni coerenti, nonostante le critiche o le mancate comprensioni. Questo momento coincise con un esercizio di meditazione nato spontaneamente: mi raccontò di come la mattina si ripetesse una sorta di mantra per restare concentrata sul suo compito e queste poche parole che indirizzavano la sua giornata erano “Alzati e fai!”. La vigilanza dello spirito è l’atteggiamento spirituale fondamentale dello stoico e Carlotta necessitava di quello per rimanere salda e non ricadere nelle paure. È un esercizio costante che richiede una coscienza sempre desta per contrastare le ricadute provocate dall’abbandono alle passioni e ai turbamenti. Come ricorda Hadot: È essenziale allo stoicismo (come d’altronde all’epicureismo) l’istanza di fornire ai suoi adepti un principio fondamentale, estremamente semplice e chiaro, formulabile in poche parole, precisamente affinché tale principio possa restare facilmente presente alla mente ed essere applicato con la sicurezza e la costanza di un riflesso: ”Tu non devi separarti da tali principî

13 14

P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, Torino: Einaudi, 2008, p. 12. Manuale di Epitteto, cit., p. 197.

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né quando dormi né quando ti alzi né quando mangi o bevi o ti intrattieni con gli uomini”15.

L’attenzione al momento presente esprime il valore di questo esercizio spirituale: la vigilanza sul pensiero nel qui e ora ci permette di controllare il tempo. Non angustie per le preoccupazioni future, non tormenti derivanti dal rimuginìo del passato, ma concentrazione su ciò che dipende effettivamente da noi, il dominio del momento presente. Solo il momento presente è padroneggiabile, ricorda Hadot16, grazie alla sua esiguità. La stessa esiguità lo rende sopportabile: qualunque cosa succeda nel momento presente non è troppo prolungata per poterci danneggiare. Il tempo, spogliato del suo carattere incombente e periglioso, si manifesta come opportunità. Per Carlotta l’opportunità si era evoluta: dall’opportunità iniziale di conoscere la propria autenticità e prendersi cura di sé, all’opportunità, infine, di agire nel tempo presente. Hadot chiarisce bene la relazione tra il modo di abitare il tempo in senso stoico e l’importanza dell’azione nella definizione del presente: Bisogna capire a fondo questo esercizio della concentrazione sul presente, e non immaginare che lo stoicismo non ricordi nulla e non pensi mai al futuro. Quanto esso rifiuta non è il pensiero del futuro o del passato, ma le passioni che questo pensiero può portare con sé, le vane speranze, i vani rimpianti. Lo stoico vuole se stesso come uomo d’azione, e per vivere, per agire, occorre fare progetti e occorre tenere conto del passato per prevedere le proprie azioni. Ma proprio perché non esiste azione se non quella presente, è solo in funzione di questa azione, nella misura in cui il pensiero può avere qualche utilità per l’azione, che occorre pensare al passato e all’avvenire. È dunque la scelta, la decisione, l’azione stessa che delimita lo spessore del presente17.

Agire dunque, in virtù della propria decisione, ma come fare in modo che l’azione diventi più semplice e che supporti la decisione in un circolo virtuoso? A questo scopo invitai Carlotta a creare nuove abitudini, attraverso l’introduzione nel suo quotidiano di gesti semplici, ma significativi, per supportare la sua trasformazione. Esercitarsi nelle cose più facili permette di acquisire un’abitudine stabile e solida. Dedicare del tempo a se stessa implicava fisicamente un rallentamento di certe attività quotidiane e la creazione di nuovi modi di essere nel mondo, che costituivano frammenti di un progetto di vita in ricostruzione. 15 16 17

P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 34. Ivi, p. 35. P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica, Torino: Einaudi, 1998, p. 187.

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La ricerca di punti fissi necessari per consentire l’azione si era evoluta: suo riferimento non potevano essere le persone, troppo diverse per comprendere, ancorate a valori a volte incondivisibili. Carlotta andava ora costruendo luoghi stabili dentro se stessa: letture, forme di meditazione, controllo del respiro, discorsi interni che la aiutassero a mantenersi salda a sé, poiché soltanto a partire da se stessa poteva instaurare la connessione essenziale con l’universale. La danza rappresentava per lei una profonda fonte di meditazione ed uno strumento corporeo imprescindibile per il raggiungimento di questa comunione con il tutto. Come un esercizio di espansione dell’io, la danza è per Carlotta ciò che Hadot18 descrive come immersione dell’io «nella totalità del mondo provando la gioia di essere una parte integrante». Riprendendo le parole di Seneca, Hadot prosegue definendo la comunione dell’anima con l’universo: L’anima raggiunge la pienezza e la realizzazione della felicità che la condizione umana può raggiungere quando si innalza e perviene fino all’intimo del seno della natura19.

Alcune notazioni, tra cui quelle di Musonio, ci ricordano che la possibilità di un esercizio filosofico si radica nell’ideale dell’atletismo, tant’è che proprio nel gymnasion, dove si praticavano gli esercizi fisici, venivano tenute spesso lezioni di filosofia. L’esercizio corporeo della danza ha trovato il suo giusto contraltare nell’esercizio filosofico della parola, del dialogo, della scrittura, strumenti con i quali, come dice Hadot, Colui che vuole progredire si sforza di “condurre con ordine i suoi pensieri” e di approdare così ad una trasformazione del mondo, della sua atmosfera interiore, ma anche del suo comportamento esterno20.

La parola rivela il suo potere terapeutico. La parola scritta usata per fare chiarezza nei suoi pensieri, le permette di poter valutare criticamente le sue prime rappresentazioni e chiedere loro conto di una ragione d’essere. Valutare i sentimenti con il distacco della ragione e poterli ripercorrere a distanza le offre l’opportunità di dedicare del tempo a sé e al suo pensiero in fase di costruzione. La parola esercitata attraverso il dialogo con se stessa e con gli altri è un esercizio di concentrazione e di ricerca di equilibrio mai esaurita. Il logos stoico è anche linguaggio, un linguaggio che va esercitato 18 19 20

Ivi, p. 197. Ibid. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 37.

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laddove era stata trascurata la forma dialogica dell’esistenza. Alla mia ospite era mancato l’Altro del discorso, e attraverso la mancanza di questo altro aveva mancato la manifestazione di se stessa.

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Nel dialogo il Tu è il solo che può rispondere alle mie domande ed è colui alla cui domande che mi riguardano, io solo posso rispondere. Mi svelo a te, facendo di te colui che mi chiarisce a me stesso. Il dialogo è una relazione espressiva abitata dall’intendimento reciproco di due esistenze che si impegnano ad attestare insieme la verità di ciò che sono21.

È nello spazio del dialogo, quello che Prini chiama privato o diadico, che il dialogo si fa esercizio di testimonianza. L’impegno richiesto per la comune ricerca della verità del proprio essere è un esercizio di presenza e concentrazione nel momento, in questo senso si può estendere l’utilizzo del temine dialogico ad ogni esercizio spirituale, poiché richiedendo la presenza piena nel momento e l’attenzione, rende sensibili alla forma dell’esistenza, una forma che non prescinde dalla relazione con se stessi e con l’altro: «Da questo punto di vista, ogni esercizio spirituale è dialogico, nella misura in cui è esercizio di presenza autentico, a sé e agli altri»22. Il dialogo privato è ancora un esercizio di pazienza, di cui la mia ospite riconosceva mancare: l’ascolto di sé e dell’altro richiede tempo, l’autenticità richiede le condizioni per manifestarsi. Carlotta non era abituata ad abitare lo spazio del dialogo inteso anche come opportunità di manifestazione. La sua indole cercava la risoluzione perché ogni apertura, ogni crisi era vista come una sofferenza da sanare il prima possibile per ristabilire una quiete apparente, nella quale tuttavia non riusciva a riconoscersi. Il dialogo è stato infine esercizio di verità esperita attraverso la relazione. Abituata a subire le verità degli altri e difendersi da richieste di adeguamento a valori non suoi, aveva perso l’attitudine al dialogo come co-costruzione di un percorso di verità. Alla mia ospite, come a molti abitanti di questo tempo, era venuta a mancare l’opportunità di uno spazio per questa co-costruzione, il luogo più prezioso dell’esistenza, perché in esso si mette in gioco l’autenticità del proprio Io-Tu. Testimoniare la propria autenticità attraverso il dialogo diventa per Carlotta l’esercizio più difficile, ma è lo strumento che le permette di percepirsi e sentire la propria presenza, di riscoprire quell’io che aveva perso e di cui andava in cerca. Seguire i propri pensieri in solitudine era stato un 21 L. Alici, E. Baccarini, C. Levi Coen, F. Miano, G. Morra, G. Mura, A. Pieretti, P. Prini, P. Ricci Sindoni, C. Sini, S. Quinzio, La filosofia del dialogo, da Buber a Levinas, Assisi: Cittadella Editrice, 1995 22 P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 46.

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viaggio che l’aveva avvicinata sempre più alla paura, non si era trattato di un dialogo ma di un monologo dell’ambiente al quale lei aveva lasciato la scena. Occorreva la presenza sincera e vera dell’altro, un altro interessato a scoprire reciprocamente l’autenticità del proprio sé. Come ricorda Hadot «Solo colui che è capace di un vero incontro con altri è capace di un incontro autentico con se stesso», ma è ugualmente vero l’inverso. Il Tu del dialogo è tanto il me stesso come l’altro, impegnati in un circolo di verità che si autoalimenta: il dialogo non è vero dialogo se non è in presenza di altri e di sé al contempo. Solo un io pregno di questo esercizio di ricerca può essere presente e diventare l’altro della relazione Io-Tu. In questo senso anche al consulente come altro della relazione è richiesto un coinvolgimento personale, in quanto in quel momento si fa Altro di una relazione autentica con la verità. L’esercizio spirituale del dialogo è «re-imparare a vedere il mondo», usando le parole di Merleau-Ponty, trasformare le proprie percezioni per aprire lo sguardo. È un esercizio rivolto a farci superare il nostro parziale modo di vedere, un esercizio del guardare che si differenzia dal vedere per l’intenzionalità del nostro occhio e del nostro spirito che si volge verso quella che Hadot chiama «una prospettiva cosmica e universale»23. È nell’universale che si nasconde il valore della Ragione stoica, nella «coscienza cosmica»24 che trasforma con il suo ingresso nella vita umana il significato della paura e dell’incertezza. Parlando dell’esercizio che consiste nel percepire le cose come estranee, già usato tra i tanti da Marco Aurelio, Hadot scrive: Non si tratta del resto soltanto di una contemplazione puramente estetica, che ha probabilmente un valore essenziale, ma di un esercizio rivolto a farci superare, ancora una volta, il nostro punto di vista parziale e particolare per farci vedere le cose e la nostra esistenza personale in una prospettiva cosmica e universale, ricollocandoci così nell’immenso evento dell’universo, ma anche, potremmo dire, nel mistero insondabile dell’esistenza. È ciò che chiamo la coscienza cosmica.

La consapevolezza dell’appartenere a una coscienza cosmica sviluppata con il dialogo, spezza l’isolamento nel particolare, costruito dalla paura e dalla cura quotidiana. È l’ideale filosofico della saggezza come massima partecipazione all’universale, al pensiero divino. Le scuole ellenistiche avevano ben considerato che, tuttavia, l’uomo non è puro spirito, ma corpo e fango, come narra la favola di Igino, e gli esercizi sono necessari per sostenere lo spi23 24

P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, cit., p 131. Ibid.

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rito e fortificarlo di fronte alle perturbazioni che provengono dall’ambiente e dai nostri smodati desideri. Carlotta non aveva smodati desideri materiali da controllare, ma la volontà di rendersi economicamente autonoma dalla famiglia. Dopotutto l’autonomia dello spirito poteva risiedere solo in un corpo libero di procurarsi il sostentamento. Il lavoro era stato in passato uno degli agognati punti fissi della mia ospite, tuttavia il fatto di essere fisso non fu sufficiente perché costituisse un “punto fisso”. Anzi, l’irreversibilità di un impegno lavorativo si era rivelata soffocante e ora la questione lavorativa le riproponeva lo stesso dilemma: libertà o sicurezza a discapito della libertà? Con estrema dedizione era riuscita a fare della sua passione per la danza un lavoro remunerato, ma la tipologia di compenso non era ciò in cui lei sperava, una sicurezza per il futuro, un agognato punto fisso. Così come le persone che le erano vicine non potevano costituire un appiglio sicuro per le sue paure, neppure il lavoro si rivelava poterlo essere. Anche questa esperienza le fu necessaria per elaborare l’ineluttabilità dell’insecuritas intesa come condizione esistenziale a cui è impossibile sfuggire. Perché perseverare in questo lavoro? Poteva un impiego insicuro dirci di più sul senso del lavorare? Nella danza Carlotta non vede solo una professione, è il progetto che lei ama e del quale si sente partecipe: fare conoscere la cultura africana ed i suoi valori attraverso la danza. È nella danza che lei si sente in pace, nel contatto con la terra attraverso le figure di questa danza, che ricongiunge con la solidità delle radici. Lo stare bassi, con il corpo vicino al suolo, le permette di recuperare una parte di sé, una parte dove non ci sono pensieri, ma contemplazione e forza. Organizzare uno stage di danza è un’attività che la assorbe completamente e la vivifica, la migliora e sviluppa il suo ordine interiore. Dalla cura intesa come preoccupazione per la mancanza di uno stipendio fisso ancora una volta siamo passati al significato di cura di sé come progetto esistenziale. Il progetto danza, nell’insicurezza del suo esito economico, era tuttavia sicuro in senso esistenziale poiché rispecchiava il suo personale disegno di donna. In questo percorso poteva incarnare i valori che le stavano a cuore, il rispetto, l’apertura, la libertà, la spiritualità, la condivisione con gli altri di un senso comune dell’essere uomini. Nessuna certezza si era andata costruendo nei fatti: la relazione problematica con certe persone della famiglia lontane dal suo modo di pensare, un lavoro che non le garantiva di conoscere in anticipo l’ammontare della sua paga. Tuttavia si era creata in lei la consapevolezza della precarietà umana come opportunità di ricerca, di azione e trasformazione, su se stessa e su ogni altro essere interessato ad imbarcarsi in questo viaggio insieme a lei. In questa forma di visione del lavoro, ciò che è retribuito è solo una parte del

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valore che è realmente prodotto: l’attenzione e la cura nei confronti delle persone sono un dono che non può essere monetizzato, ma a cui solo si può essere grati senza soluzione di continuità. Carlotta ospita a casa sua ballerini provenienti dall’Africa e dall’Europa, prepara loro il pranzo, prenota i voli aerei. La sua attività commerciale finisce molto prima che lei abbia concluso il suo lavoro, e solo il credere fermamente nel valore spirituale di cui la danza africana è a servizio le permette di superare la fatica dell’insicurezza e della precarietà dell’esistere e del lavorare. Il suo è un dono, il dono di chi sente il dovere di dire la sua verità; in questo percorso Carlotta si fa filosofo: Ma questa sospensione del vivere secondo l’interesse, per diventare autentica, cioè per fornire la prova della bontà della sua argomentazione, ha bisogno di diventare esperienza vissuta, ovvero di tradursi nella legge individuale di una persona concreta. Il dono della filosofia, per essere realmente tale, necessita quindi del dono del filosofo25.

Il dono del filosofo in questo senso è il dono di se stessi, la volontà e l’impegno di incarnare la verità. Il prendersi cura dell’altro e di sé è un dono del proprio tempo, un dono di nulla di determinato quanto l’atto del donare come testimonianza della condizione di possibilità del dono stesso. La verità di Carlotta non è stata data una volta per tutte, ma come ogni verità incarnata è un progetto di verità. “Cerco equilibrio e dialogo” sono state le sue parole in uno dei nostri ultimi incontri: un progetto che non si esaurisce, ma incarna l’idea di esercizio continuo della verità. Esercizio continuo al dialogo, il dialogo di testimonianza, per esercitare il quale siamo sempre alla ricerca di un Tu che voglia lasciarsi trasformare dalla verità che insieme andremo a creare, esercizio di equilibrio, perché ogni equilibrio è frutto di piccoli aggiustamenti e di una lotta continua contro se stessi. «È una lotta, amichevole ma reale»26 scrive Hadot, in ogni istante la colomba del pensiero deve dibattersi contro l’anima di chi risponde, come accade nei dialoghi platonici. Ogni elevazione è perciò conquistata, in un processo ascendente verso la saggezza. Il percorso di consulenza con Carlotta ha avuto tutte le caratteristiche di un viaggio di conquista, e come in ogni conquista, nessun traguardo si può dire saldo se il baluardo viene abbandonato. La cura di sé e del proprio progetto esistenziale non si può limitare agli incontri di consulenza filosofica, ma con le parole della mia ospite deve “aprire un mondo” di nuove e incessanti scoperte. La filosofia antica ha valore non in quanto organizzazione 25 26

A. Tagliapietra, Il dono del filosofo, Torino: Einaudi, 2009, p. 128. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 47.

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sistematica, ma come strumento di trasformazione: il fine ultimo è la conversione filosofica che permette all’uomo di vivere secondo Ragione, libero dalle paure e dai turbamenti, aperto alla visione dell’universale che rende l’uomo saggio. Gli esercizi spirituali servono a questa παιδεία, educazione di sé, che ci libera dalle convenzioni sociali per esprimere l’autentico del nostro essere. Carlotta è riuscita a trovare la strada per un equilibrio nella precarietà: identificando la chiave di lettura della sua insecuritas, ha trovato gli strumenti per vivere la condizione umana più serenamente, ma soprattutto in modo più attivo. In un’intervista a Pierre Hadot, Jeannie Carlier, professore incaricato all’École des Hautes Études en Science Sociales di Parigi, domandò al filosofo se non fosse una via traversa quella di cercare nella filosofia antica qualcosa di utile per l’uomo moderno, se non fosse invece più proficuo cercare di inventare nuove soluzioni più vicine ai problemi che si pongono agli uomini del XXI secolo. Hadot rispose in modo ironico che […] in attesa che appaia il genio creatore di cui si avrebbe davvero bisogno, in questo inizio del XXI secolo ciascuno deve fare ciò di cui è capace e, per quanto mi riguarda, io cerco di essere, come diceva Michelet, “l’anello di congiunzione dei tempi”, di assicurare “quella catena vitale che dal passato in apparenza morto fa circolare la linfa verso l’avvenire”27.

L’offerta di letture e di strumenti come gli esercizi spirituali della filosofia antica, risponde all’impegno professionale del consulente filosofico di contribuire all’ampliamento del punto di vista del proprio ospite e di aprire alla possibilità di una vita filosoficamente vissuta. Sta alla responsabilità personale del singolo, alla volontà di ognuno di cogliere, ed in quale misura farlo, ciò che egli ritiene più significativo per il suo proprio percorso. La testimonianza dei filosofi antichi assume valore in vista di un’esperienza che la attualizzi. Ciò che fa sì che la linfa del passato non sia mai esaurita è il suo carattere di esperienza esistenziale, segnata dall’impegno in una ricerca che varca i confini del tempo e che costituisce l’opportunità di sperimentare al contempo il limite e la potenzialità dell’umano esistere.

Riferimenti bibliografici Alici L., E. Baccarini, C. Levi Coen, F. Miano, G. Morra, G. Mura, A. Pieretti, P. Prini, P. Ricci Sindoni, C. Sini, S. Quinzio, La filosofia del dialogo, da Buber a Levinas, Assisi: Cittadella Editrice, 1995. 27

P. Hadot, La filosofia come modo di vivere, cit., p. 198.

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Hadot P., Che cos’è la filosofia antica, Torino: Einaudi, 1998. Hadot P., Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino: Einaudi, 2005. Hadot P., La filosofia come modo di vivere, Torino: Einaudi, 2008. Manuale di Epitteto, Introduzione e commento di Pierre Hadot, Torino: Einaudi, 2006. Semerari G., Insecuritas, tecniche e paradigmi della salvezza, Milano: Spirali Edizioni, 1982. Sgreccia P., La dinamica esistenziale dell’uomo: lezioni di filosofia della salute, Milano: Vita e Pensiero, 2008. Tagliapietra A., Il dono del filosofo, Torino: Einaudi, 2009.

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In dialogo con Epitteto

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di Norma Romano

Se la filosofia, intesa come metodo filosofico, è sempre presente, come protagonista indiscussa, all’interno di una consulenza filosofica1, non sono invece sempre presenti, alla luce della mia esperienza, i “filosofi”, intendendo con questo termine gli autori che nei secoli si sono succeduti enunciando il proprio pensiero filosofico ed esprimendo un proprio stile, costruendo, insomma, il percorso della storia della filosofia. Il metodo filosofico è ovviamente sempre presente in una consulenza filosofica. Ogni consulente ha il suo metodo2, si cuce addosso il proprio stile, attingendo al proprio bagaglio culturale ed esprimendo le proprie preferenze. Non sempre, invece, appare utile o interessante, per condurre una consulenza filosofica, introdurvi in modo esplicito “filosofi”, riferendosi al loro pensiero, proponendone citazioni di varia lunghezza o suggerendo la lettura di loro testi3. 1 Cfr. N. Pollastri, Filosofia, nient’altro che filosofia, in AA.VV., Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni, Trapani: Di Girolamo, 2008, pp. 21-34. Qui, come altrove, Neri Pollastri mostra convincentemente, seguendo il magistero di Gerd Achenbach, come la consulenza filosofica si caratterizzi per essere “filosofia e nient’altro”, intendendo con il termine “filosofia” l’esercizio filosofico in atto, non l’esposizione di questa o quella dottrina. 2 Come è noto, Gerd Achenbach sostiene che la consulenza filosofica non tanto lavora «con i metodi, ma sui metodi» (La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, tr. it. Milano: Apogeo, 2004, p. 13). Questo “metodo del non metodo” è condiviso da una Schlomit Schuster (cfr. La pratica filosofica. Una alternativa al counseling psicologico e alla psicoterapia, tr. it. Milano: Apogeo, 2006, p. 95), anche se guardato con sospetto da altri consulenti filosofici, come Peter Raabe (cfr. P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica. Idee fondamentali, metodi e casi di studio, tr. it. Milano: Apogeo, 2006, pp. 65 e ss). Non voglio entrare nella discussione se la consulenza filosofica debba o no seguire un metodo più o meno rigido o specifico. Qui per “metodo” intendo semplicemente il “metodo filosofico”, ciò che distingue l’approccio della filosofia alla vita da quello di altri saperi. Ogni filosofo consulente, in quanto filosofo, ha legittimamente una propria idea di filosofia da cui fa scaturire il proprio stile. Nel mio caso, ad esempio, considero paradigmatico l’approccio socratico. 3 Gerd Achenbach, il padre della “consulenza filosofica” contemporanea, esclude il ricorso sistematico ai “filosofi” con un ottimo argomento: «La filosofia non viene ‘applicata’ come se i problemi dell’ospite potessero venire trattati con Platone, con Hegel o con qualche altro.

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Quando, come consulenti, esploriamo la visione del mondo4 del nostro ospite, chiarifichiamo i suoi pensieri e ci interroghiamo sul senso delle cose che lo circondano, spesso i “filosofi” restano in ombra. Essi per lo più restano “chiusi” nel pensiero del consulente che attinge al suo sapere filosofico per meglio comprendere il punto di vista del suo ospite e così condurre il dialogo5. L’unico “filosofo” di cui il consulente filosofico si prenda veramente cura è quello che ha davanti: il suo ospite diventa il centro del suo interesse e la sua visione del mondo diventa l’oggetto della sua ricerca filosofica. Tuttavia, capita talvolta di attingere in modo diretto alla tradizione filosofica, riportando alla luce teorie e “filosofi”, ricorrendo in modo esplicito anche a testi o citazioni, che si intrecciano allora con il dialogo, arricchendolo6. Si offre così la possibilità al nostro ospite di dialogare non solo con chi ha davanti, ma anche con strani partecipanti “invisibili”: i filosofi del passato. Ma perché a volte, solo a volte, si ricorre ai filosofi e ai loro testi? Quando è opportuno farlo? Per rispondere a queste domande e illustrare limiti ed eventuali vantaggi o svantaggi di questa possibile scelta ricorrerò a un metodo a me molto caro:

Le letture non sono una medicina che si possa prescrivere. C’è forse qualcuno che va dal dottore, quando è malato, per ascoltare una lezione di medicina? Allo stesso modo, anche l’ospite nella consulenza filosofica non verrà addottorato, non gli verranno servite ‘teorie’. Piuttosto la questione è se il filosofo [cioè il consulente], da parte sua, grazie alle letture sia diventato consapevole e in grado di comprendere» (G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 14). 4 L’espressione “visione del mondo” viene usata correntemente, a partire dal volume di R. Lahav, Comprendere la vita. La consulenza filosofica come ricerca della saggezza, tr. it. Milano: Apogeo, 2004, per indicare la “filosofia implicita” dell’ospite di una consulenza filosofica che la consulenza stessa ha il compito di esplicitare, chiarire, verificare. 5 Cfr. G. Giacometti, Un’ermeneutica per la pratica filosofica? Un confronto con Ludwig Binswanger, in Sofia e Psiche, a cura di G. Giacometti, Napoli: Liguori, 2010, p. 73, dove viene messo l’accento sull’importanza della precomprensione del consulente (che non può mai essere del tutto “neutrale”) nella conduzione di una consulenza filosofica. Cfr. anche R. Lahav, Comprendere la vita, cit., p. 64: «Da una parte la consulenza filosofica deve lasciare spazio agli atteggiamenti personali e dall’altra il consulente deve influenzare la conversazione immettendovi nuova materia prima: distinzioni, concetti, idee». 6 Ran Lahav ricorre volentieri a “materiali filosofici” anche nella consulenza individuale, partendo dal presupposto che «le persone [...] comunemente non hanno una sufficiente familiarità con le risorse intellettuali per andare oltre slogan abusati, linee di pensiero comuni e veloci “soluzioni” superficiali» (R. Lahav, Comprendere la vita, cit., p. 43). D’altra parte egli osserva che in 2500 anni «le più grandi menti hanno lottato con le questioni basilari della vita e hanno sviluppato un incredibile patrimonio di insight su di esse» (ibidem). Ne consegue che «anche se le filosofie già esistenti non debbono essere prese come autorità da accettare ciecamente, si possono fornire [al consultante] materiali da esaminare, modificare, respingere o accogliere, da sviluppare e utilizzare a seconda della personali circostanze e del modo peculiare di vivere della persona» (ivi, p. 44).

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il metodo induttivo, metodo utilizzato probabilmente per la prima volta da colui che si è soliti indicare come il “fondatore” della moderna consulenza filosofica: Socrate7. Nella mia esperienza il metodo induttivo è il metodo che caratterizza le moderne pratiche filosofiche e, più in dettaglio, la consulenza filosofica. Si parte, infatti, per lo più, da una questione problematica, un dilemma, un episodio, un singolo evento della vita dell’ospite per allargare progressivamente lo sguardo alla sua complessiva visione del mondo. Si parte, ad esempio, da un’incomprensione che si è avuta con un amico per arrivare a interrogarsi sul significato dell’amicizia, in generale. Lo stesso metodo potrà ben caratterizzare, quindi, anche una riflessione sulla consulenza filosofica, riflessione che, come quella che sto proponendo in queste righe, in un certo senso, voglia essere il prolungamento della pratica. Dunque dal particolare cercherò di arrivare all’universale: la mia riflessione scaturirà da un caso di consulenza filosofica individuale che ho seguito per diversi incontri, evidenziando via via i momenti e i passaggi che ritengo più significativi per la nostra indagine, per poi cercare di fare il punto sulla situazione. Gaia, così chiamerò la mia dialogante, una studentessa di 22 anni, che mi conosce personalmente e sa quello di cui mi occupo, mi chiede di iniziare un percorso presentandomi un problema apparentemente non filosofico e non proprio attinente al mondo della consulenza filosofica: soffre di continui attacchi di ansia e vorrebbe cercare una soluzione per risolvere questo suo problema. Per correttezza professionale, la informo sulla natura della consulenza filosofica e su cosa possiamo fare insieme: non posso aiutarla a “guarire” dai suoi attacchi di ansia, ma posso con lei dialogare per comprenderne le ragioni, esplorando la sua visione del mondo. La “guarigione” potrebbe rappresentare un effetto collaterale, ma non possiamo definirlo come obiettivo. Gaia accetta questa nuova esperienza con curiosità. Durante i primi incontri la invito a scrivere le sue emozioni tutte le volte che viene presa dai suoi attacchi di ansia. Leggendo quanto Gaia, di volta in 7 Cfr. N. Pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Milano: Apogeo, 2004, pp. 151 e ss. Per una riconsiderazione del modello socratico in chiave consulenziale cfr. G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 72. Socrate può a ragione essere considerato “fondatore” ante litteram della consulenza filosofica, in quanto questa ha a che fare sempre solo con la vita concreta della persone. Per Socrate, come si sa, «una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta» (Platone, Apologia di Socrate, 38a).

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volta, ha scritto ci soffermiamo su alcune delle circostanze in cui lei diventa preda degli attacchi di ansia. Non sono solita assegnare ai miei consultanti esercizi di scrittura, come quelli che ho chiesto di fare a Gaia, poiché tendo a privilegiare, socraticamente, il dialogo; ma neppure mi vieto a priori di ricorrere a questi strumenti. In certi casi, infatti, ritengo che tali esercizi possano aiutare il mio ospite di turno a riflettere meglio su di sé, soprattutto quando egli si sente dominato da emozioni o vissuti di cui gli sfugge l’origine o su cui gli sembra di non avere un pieno controllo. Ai nostri scopi vorrei subito notare una cosa: scrivendo di se stessa Gaia è portata a poco a poco a “prendere sul serio”, per così dire, quello che le accade e il modo in cui lei vi reagisce, a fare della propria vita materia di riflessione, quasi che fosse un romanzo o, meglio ancora, un’occasione per pensare il mondo e pensarsi in esso in modo sempre più profondo. In ultima analisi che cosa hanno sempre fatto e fanno ancora i “filosofi”, quelli che riempiono le pagine dei manuali di storia del pensiero, così come quelli che rimangono sconosciuti? Vedremo tra poco il ruolo che in questa consulenza giocherà un particolare “autore” della tradizione filosofica, che diventerà quasi un terzo “interlocutore” invisibile; ma fin d’ora possiamo anche rovesciare il nostro sguardo e vedere nella mia stessa visibile interlocutrice una vera e propria “autrice”: autrice, ovviamente, della propria vita, ma anche autrice di sempre più ricche riflessioni su di essa; riflessioni più che degne, come quelle degli autori più celebri, di venire via via trascritte. Bene, che cosa emerge da questi primi scritti autobiografici di Gaia? Una frase ricorre spesso: “l’ansia di perdere tempo”. Gaia, in effetti, sente, a volte, di correre troppo e di dover prendere decisioni importanti in tempi brevi, così brevi da impedirle di “pensare”. Gaia si sente sempre “in ritardo”, vive lo scorrere del tempo “con ansia e agitazione”. E ciò si verifica con lo studio, nelle relazioni più o meno importanti, in qualsiasi evento che le capita. Il tema della “perdita di tempo” appare strettamente associato al tema del “dovere”. Gaia, infatti, sente di avere una serie di doveri nei confronti degli altri (in primis dei suoi genitori e del suo fidanzato) e anche di se stessa (ad esempio per quanto riguarda i suoi “obblighi” di studio). Posso tranquillamente confessare che, già in questa fase del nostro dialogo, ho cominciato a chiedermi se, data l’importanza da lei assegnata al tema dei doveri, la visione del mondo di Gaia non potesse essere “venata”, per così dire, di inconsapevole stoicismo. Come vedremo tra breve, questa mia ipotesi si rivelerà non del tutto peregrina, permettendomi anzi di introdurre, di lì a poco, nel nostro dialogo il terzo “interlocutore“, a cui prima accennavo, appartenente proprio a quell’antica scuola filosofica. Non posso

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escludere che questa mia ipotesi abbia anche avuto un ruolo nel farmi porre a Gaia una domanda piuttosto che un’altra o nell’assegnarle questo o quel “compito per casa”. Tuttavia ho ragione di credere che, in questa fase del dialogo, un riferimento esplicito a questa tradizione filosofica avrebbe rappresentato un inutile appesantimento del dialogo tra me e la mia ospite, dialogo che procedeva spedito “sulle proprie gambe”. Citare questa corrente filosofica, infatti, o, magari, fare riferimento a qualche specifica dottrina od opera filosofica, avrebbe potuto, in questo momento, condizionare l’autoriflessione di Gaia, inducendola magari a configurare secondo concetti “posticci”, derivati da questo o quel prestigioso filosofo, assunto come “autorità”, per esempio la propria idea di “dovere” o di “tempo”. Ci saremmo, quindi, probabilmente allontanati dal lavoro di paziente comprensione della visione del mondo del consultante, che, come in ogni consulenza che si rispetti, non deve mai essere abbandonata. Durante i primi incontri indaghiamo, dunque, l’importanza che Gaia stessa (e non altri) attribuisce a pensare bene, a riflettere e il rapporto di tutto questo con il tempo e con il dovere. Gaia giunge alla conclusione che per lei non è una perdita di tempo, né una fuga dai propri doveri... prendersi del tempo per riflettere e cercare di prendere consapevolezza su ciò che le accade, anche sugli attacchi di ansia. La consulenza filosofica, dunque, in un certo senso, comincia qui a mettere a tema se stessa. Gaia comincia a riflettere sul rapporto tra il suo stesso riflettere e la spiacevole sensazione, che spesso prova e che le mette ansia, di “perdere tempo” e di non fare il proprio dovere. Scopre via via che può concedersi il “lusso” di riflettere più spesso di quanto non immaginasse in un primo... tempo; e di poterselo permettere non solo durante le nostre consulenze, ma anche durante la sua vita quotidiana, aiutandosi, magari, con esercizi di scrittura. Durante gli incontri successivi Gaia, in effetti, ha l’impressione di riuscire a dialogare sempre meglio con se stessa. A un certo punto Gaia mi dice di avere la percezione di dialogare con “due Gaia”: una, la “vecchia Gaia”, che la porta a sentirsi in colpa per il tempo perso, che la spinge ad essere nervosa, l’altra, invece, la “nuova Gaia”, che, grazie alla riflessione filosofica, cerca di dare un senso alle cose che le capitano. È in questa occasione che interviene quel “terzo interlocutore” (o “quarto”, se prendiamo sul serio lo “sdoppiamento” di Gaia!) a cui accennavo. Il problema di Gaia, infatti, consiste ora soprattutto nel fatto che non sempre le sue “buone intenzioni”, ossia di concedersi del tempo congruo

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per riflettere, vanno a segno. Spesso, infatti, ciò che accade irrompe nella sua vita in modo così improvviso e irruento da non concederle dilazioni. Per cercare di capire meglio quello che lei intende, le chiedo di farmi qualche esempio delle situazioni a cui si riferisce. Per quanto riguarda il primo tipo di situazioni, ossia situazioni di riuscita “gestione” del tempo, mi racconta del giorno in cui accompagnò la madre, che era rimasta sola, a fare la spesa. Gaia stava già iniziando ad agitarsi, pensando che stava togliendo mezz’ora allo studio. A un certo punto, però, è riuscita a controllarsi, riflettendo sul fatto che avrebbe potuto tranquillamente recuperare e che, soprattutto, stava facendo una cosa che lei aveva scelto di fare. Per quanto riguarda il secondo tipo di situazioni, ossia situazioni caratterizzate da incapacità di gestire il proprio tempo, mi racconta della mattina in cui, all’improvviso, arrivarono certi amici di famiglia. Il fatto di dover rimanere a fare gli onori di casa la rese agitatissima, al punto da non riuscire più a studiare bene. Come mai, – ci chiediamo – alla luce di questi episodi, Gaia una volta riesce a controllarsi e una volta no? Dipende solo da una questione emotiva? Gaia sorride: ha riflettuto su questa cosa, grazie anche ai nostri dialoghi, e ha trovato una risposta: nel primo caso la scelta è dipesa da lei nel secondo, invece, no, anzi lei ha subito una scelta. Ed ecco che non posso fare a meno di suggerirle “per casa” un nuovo compito: non più quello di scrivere ció che vive, ma quello di effettuare una piccola lettura: leggere i primi capitoli (1-6) del Manuale di Epitteto, dove si tratta della differenza tra le cose che dipendono da noi e quelle che non dipendono da noi. Non aggiungo nulla e non le dico neppure perché le ho suggerito questa lettura... All’inizio dell’incontro successivo Gaia dichiara il suo stupore: ha trovato nelle semplici considerazioni di Epitteto un suggerimento che giudica prezioso: forse dovrebbe pensare più spesso alla differenza tra ciò che dipende da lei e ciò che non dipende da lei. Epitteto ha svolto, dunque, per Gaia, effettivamente, quasi il ruolo di un terzo interlocutore “in carne e ossa”, una persona che sembra averle amichevolmente dato un vero e proprio suggerimento. Sì, proprio a lei! Questo non dovrebbe stupire. Come sappiamo, infatti, ad esempio dagli studi di Pierre Hadot8, gli scritti degli antichi filosofi non avevano lo scopo degli attuali libri e articoli filosofici (riservati generalmente agli “addetti ai lavori”), ma avevano la funzione di surrogare l’insegnamento, prevalentemente orale, di un maestro di vita e di pensiero. Questi scritti, dunque, si 8

Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it. Torino: Einaudi, 1988.

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rivolgevano sempre ai propri destinatari con la precisa intenzione di aiutarli a migliorare la propria vita e a intraprendere un cammino filosofico (sotto quest’ultimo profilo svolgevano quella che si dice una funzione “protrettica”). Niente di strano che, a volte, questa funzione possa ancora essere assolta da questi libri, mutatis mutandis, attraverso i secoli! Ecco, dunque, una delle ragioni per le quali ho ritenuto opportuno suggerire questa lettura a Gaia. Generalizzando questo caso, credo di poter dire che nulla vieti di assegnare esercizi di questo tipo, durante una consulenza filosofica, ma anche che non tutti gli autori di filosofia si prestano ad essere “arruolati” come interlocutori “invisibili” in una pratica filosofica. Nella mia esperienza, per le ragioni dette, sono proprio gli autori antichi, nonostante i secoli trascorsi, per il modo in cui scrivono, a prestarsi a volte più di certi autori contemporanei. Un’altra ragione per la quale gli antichi si possono rivelare preziosi sono la quotidianità e la semplicità del linguaggio che adottano, privo di termini tecnici, di cui invece è ricco il lessico della filosofia contemporanea e che la rendono a volte di difficile comprensione per i non filosofi. Tornando alla mia consulenza, Gaia, forte dei suggerimenti di Epitteto, può ora darsi, in un certo senso quasi da sola, il prossimo esercizio per casa: distinguere, tra gli eventi quotidiani, quelli che dipendono da lei e quelli che non dipendono da lei e domandarsi, per quanto riguarda questi ultimi, che cosa è possibile fare: «Innervosirsi e farsi coinvolgere dagli eventi oppure cercare di accettarli?». Si tratta di un passaggio importante. Il dialogo filosofico, in questo caso nutrito perfino del contributo di un terzo interlocutore immaginario, Epitteto, non deve restare “astratto”, ma calarsi nella quotidianità, per verificare concretamente, attraverso l’esperienza, le conclusioni a cui di volta in volta esso giunge9. Notiamo che, in ultima analisi, i temi finora emersi, quelli del tempo da ritagliarsi o che ci sfugge, quello degli altri verso i quali possiamo o meno sentire dei doveri, quello delle scelte da operare, convergono tutti nel tema della differenza delle cose che dipendono da noi (dalle nostre scelte) e delle cose che non dipendono da noi (dagli altri, da circostanze inattese ecc.). La cosa interessante è che questo tema non solo emerge concettualmente, ma, grazie alla consulenza e al contributo di Epitteto, a poco a poco sembra 9

Come scrive Ran Lahav, «la consulenza filosofica non è una lezione di filosofia su problemi astratti, bensì essa si concentra sulla filosofia per come questa è incorporata nella vita concreta» (R. Lahav, Comprendere la vita, cit., p. 69).

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trasformarsi in un vissuto di Gaia, in un diverso e più “intelligente” modo che lei sta sviluppando di organizzare la sua vita. Gaia, che manifesta una crescente soddisfazione in riferimento ai nostri incontri, ha ormai compreso il loro obiettivo: l’obiettivo non è quello di farle passare i momenti d’ansia (cosa che le avevo precisato fin dal primo incontro), ma un altro. Quale? Secondo Gaia, quello di «riflettere e cercare di comprendere le cose che mi circondano. A volte siamo così presi dalle “cose” quotidiane da dimenticarci l’importanza di una riflessione». Gaia ha imparato a “coccolarsi” (come dice lei, altri direbbero: “si è presa cura di sé”), facendo passeggiate, bevendo tisane la sera e, perché, no pensando un po’ di più (dunque, a quanto pare, la “filosofia” è cominciata davvero a entrare nel suo vissuto quotidiano!). In questo l’hanno aiutata i nostri dialoghi, i suoi esercizi di scrittura, la lettura di Epitteto, l’attenzione alla propria personale esperienza. Gaia, in particolare, riesce sempre meglio ad affrontare non solo le cose che più chiaramente dipendono da lei, ma anche quelle che sembravano dipenderne meno. Come ci è riuscita? Glielo chiedo e lei mi risponde che ha imparato che dipendono da lei molte più cose di quello che prima immaginava (mi fa numerosi esempi al riguardo). E da che cosa lo ha compreso? Gaia, qui, mi risponde con mia meraviglia: «Soprattutto dalla riflessione filosofica, perché mi ha insegnato a conoscere meglio me stessa». Le confesso le ragioni della mia meraviglia: “Conosci te stesso” era il motto del tempio di Delfi da cui ha avuto origine la filosofia di Socrate, il filosofo per antonomasia! Non è raro che la visione del mondo, che un “non filosofo” ha sviluppato attraverso la riflessione su di sé e sulla propria esperienza, corrisponda per alcuni tratti ad antiche e nobili concezioni filosofiche. Scoprirlo è una cosa molto utile e interessante. Il “non filosofo”, così, si conferma nella propria capacità di diventare egli stesso filosofo, in quanto semplicemente essere umano, naturalmente “filosofante”, come dice Achenbach10, il moderno fondatore della consulenza filosofica. La tradizione filosofica, in questi casi, non interviene – attenzione –, “prematuramente”, a priori, per indottrinare il consultante, per indurlo a convincersi di questo o di quello, sulla base di un principio di autorità, viene piuttosto invocata, a posteriori, dopo che il dialogo filosofico vivo è pervenuto a determinati risultati per conto proprio, a conforto della qualità, credibilità e dignità “storica” di una determinata visione del nostro interlocutore di turno. 10

G. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 66: «L’uomo è un essere costituzionalmente filosofante».

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Come abbiamo visto, un’analoga funzione di conforto e di sostegno può, del resto, essere svolta non solo da esercizi di lettura, ma anche da esercizi di scrittura, in cui il “filosofo” evocato è lo stesso consultante, che, attraverso le sue riflessioni su di sé, entra in un certo senso nella “tradizione” degli scrittori di filosofia. La nostra consulenza prosegue sviluppando la questione della differenza tra le cose che dipendono da noi e quelle che non dipendono da noi. Approfondiamo, in particolare, il tema della scelta. Alla domanda «Siamo liberi di scegliere?» segue la considerazione che non sempre lo siamo. A volte fattori esterni possono perfino obbligarci a scegliere. «Siamo allora liberi di non scegliere?». Gaia prontamente risponde: «Anche non scegliere diventa una scelta!». Siamo insomma continuamente davanti a scelte. La distinzione tra ciò che dipende da noi e ciò che non dipenda da noi, calata nelle nostre vite, assume sfumature che nessun testo, per quanto autorevole, poteva prevedere. O, forse, ogni buon testo della tradizione filosofica può prevederle, ma nel senso che sa concedersi a una libera interpretazione, guidata dalla nostra esperienza, senza presumere di “ipotecarla” con prescrizioni di dettaglio. Possiamo forse dire che un buon testo è un testo che, sapendo di essere “solo” un testo, “sa di non sapere”? Per questo, forse, affida alla nostra vita il compito di decifrarlo! Esaminiamo, a questo punto, il modo in cui Gaia sceglie: passiamo da esempi quotidiani e leggeri, come la scelta di un vestito per andare all’università o per uscire il sabato, a scelte più difficili e complesse, come quella del Liceo Classico o del corso di laurea. Scopriamo che spesso, negli uni e negli altri casi, si sceglie per esclusione, optando per ciò che resta dopo avere scartato diverse alternative. Gaia scopre anche un’altra cosa: «Fino a quando non fai una cosa tu, non sai com’è!». Questo implica che occorre sempre sperimentare le cose in prima persona, a costo di sbagliare o di finire per farsene emotivamente influenzare. Scopriamo così che cose che sembravano non dipendere da noi, come le scelte apparentemente “obbligate”, alla fine ne dipendono, perché siamo noi che “sentiamo” che una certa scelta è obbligata; inversamente, scelte che sembravano dipendere da noi, una volta effettuate, ci “legano” a sé, emotivamente, più di quanto avremmo creduto o voluto. Il ruolo delle emozioni in Gaia si rivela strettamente collegato, oltre che al rapporto con gli altri, al tema delle aspettative. Se qualcosa è diverso da quello che lei si aspettava, qual è la sua reazione? Risponde: «La realtà potrebbe essere più bella di una mia aspettativa, quindi bene!». Ma verifichiamo presto, dialogando, che il suo “apparente ottimismo” nasconde una paura: la paura di avere forti aspettative da cui potrebbe essere delusa.

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Il “dipendere o non dipendere” da noi delle cose si rivolge, dunque, qui alla sfera del futuro. Il futuro ci può attrarre ma anche inquietare. Per definizione esso non dipende da noi e può rivelarsi sia una sorpresa meravigliosa, sia motivo di preoccupazione. Perché a volte sembra prevalere in Gaia la preoccupazione? Gaia è molto autocritica, non si sente mai “bravissima” in qualcosa (afferma di essere solo un’ottima fidanzata), ma potrebbe fare di più: prima di un esame immagina di prendere un voto inferiore rispetto a quello che realmente prende, e poi, anche dopo un buon voto, esclama: «Ma non sarà troppo?». Fissiamo a questo punto un altro nodo importante, che sembra interessarle molto: Gaia nel rapporto con se stessa. Si tratta, in effetti, di un passaggio chiave. Chiarita, anche sulla base del testo di Epitteto, l’importante distinzione tra le cose che dipendono da noi e quelle che non dipendono da noi, come criterio di massima per operare le nostre scelte, resta da approfondire chi siamo quei “noi” che siamo chiamati a scegliere e su che basi poi effettivamente scegliamo. Dice di non aver mai riflettuto così tanto su se stessa, sulle sue scelte e sui suoi desideri, come durante la nostra consulenza. Ma la cosa più interessante e sulla quale ci siamo soffermati è questa: lei non riesce a riflettere da sola, ha bisogno di qualcuno per farlo. E questo qualcuno è soprattutto Andrea, il suo fidanzato. Lei in certi momenti ha bisogno di parlare con lui che, essendo, secondo Gaia, caratterialmente più forte, la aiuta a guardare le cose da un’altra parte e «girare la medaglia per vedere l’altro lato» e quando lui non può risponderle (per motivi di lavoro) lei sta male. Quindi certe scelte e certe riflessioni non dipendono solo da noi, ma anche da altri da cui noi stessi, a nostra volta, dipendiamo? O, invece, in realtà noi stessi dipendiamo fondamentalmente solo da noi stessi e possiamo trovare negli altri solo eventualmente una conferma, un sostegno? Il rischio – me ne avvedo – di suggerire letture a ospiti come Gaia è fare di questi testi qualcosa di più di un semplice “sostegno”. Qualcuno potrebbe essere tentato di trasformare le sue letture in un vero e proprio sostituto della propria personale capacità di riflessione. Non è, però, questo, il caso di Gaia. Anzi, mentre il fidanzato può, a volte, rischiare di diventare, nella mente e nel cuore di Gaia, qualcuno di cui lei ha assoluto bisogno e senza di cui le è impossibile pensare di vivere (cosa accettabile, se non diventa un alibi per non fare i conti con una certa sfiducia in se stessa), le letture – scopriamo –, non solo quella di Epitteto che le ho suggerito io, la aiutano, in generale, a fare chiarezza con se stessa. Come mai le letture sì, a volte le persone no? Forse perché un libro non ti dice tutto, come si accennava

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prima, ma ti costringe, calandolo nella tua vita per interpretarlo, a fare i conti con te stessa, a chiederti se vivi come il libro ti suggerisce di vivere o meno. Naturalmente un libro non è fatto solo per confermarti quello che già pensi, ma anche, proprio come un filosofo in carne e ossa, per metterlo in dubbio11, se è il caso di farlo. In questo modo un testo, anche attraverso i secoli, può esercitare una funzione maieutica. L’importante è che il libro ti “colpisca al cuore”, ti faccia riflettere. Certo, quello che un libro suggerisce potrebbe non adattarsi a te, lasciarti freddo. In questo caso, cambiare un libro è certamente più semplice che cambiare un fidanzato! Passiamo dunque ad un altro esercizio per casa: cercare di vedere da sola “l’altro lato della medaglia”, senza dover aspettare per forza Andrea e solo dopo, al telefono, raccontargli ciò che ha pensato e non cercare più in lui una soluzione. A un mese di distanza da questa serie di dialoghi, durata complessivamente circa due mesi e mezzo, con incontri a cadenza mediamente settimanale, Gaia, piuttosto agitata, mi informa di aver iniziato a studiare per gli esami della sessione estiva e di avere avuto nuovi attacchi di ansia. Si sente in colpa se non rispetta il suo piano di studi, che lei stessa aveva prestabilito da mesi. Ricorda la pagina di Epitteto e vuole fare davvero chiarezza su ciò che dipende o non dipende da lei. Esaminiamo insieme il suo piano di studi e scopriamo che possiamo riordinarlo in modo più efficace, distribuendo in modo più adeguato i tempi di studio e le giuste pause. Ci chiediamo come mai Gaia non abbia pensato di mettere mano da sola al suo piano, correggendolo in corso d’opera, nel momento in cui cominciava a rendersi conto di non riuscire più a rispettarlo nella sua versione originaria. Riemerge la questione del “dovere”. A Gaia sembrava “non-giusto” cambiare il programma stabilito precedentemente. Anche un nostro programma può finire per diventare qualcosa che sembra non dipendere più da noi, rispetto al quale ci sembra di dovere stare al gioco, per evitare di fare una cosa non-giusta. Invece, riflettendoci, possiamo renderci conto che dipende proprio da noi riorganizzare sempre di nuovo il nostro tempo e i rapporti con gli altri. Ma da dove viene il senso del dovere di Gaia? Gaia vuole che tutti siano fieri di lei, vuole farsi vedere dai suoi genitori mentre studia, si innervosisce se ciò non succede. Ciò da cui lei, in fondo, dipende, dunque, non sono 11

Come scrive Marc Sautet, pioniere delle pratiche filosofiche con gruppi: «Filosofare è mettere in dubbio, nel senso banale dell’espressione, ciò che abbiamo già come risposta e che, di fatto, non ci torna» (M. Sautet, Socrate al caffè, Milano: Tea, 1997, p. 33).

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tanto le cose materiali o i suoi stessi progetti, quanto proprio lo sguardo, per così dire, degli altri. Gaia ora vuole cercare di riflettere da sola e servirsi dei nostri dialoghi come di strumenti: non vuole più dipendere dagli altri per pensare. Il pensare è davvero una cosa che dipende solo da lei! Questa consulenza mi sembra interessante poiché, innanzitutto, mi ha fatto concretamente riflettere su un tratto importante della Consulenza Filosofica in generale. Essa non risolve necessariamente problemi anche quando il consultante ne porta uno (nel caso di Gaia: vivere momenti di ansia); può però aiutarlo a fare chiarezza su questioni importanti che lo riguardano e a condurlo verso ricerche che ampliano la conoscenza di sé; dargli, dunque, gli strumenti che possono servire per riflettere e per cercare autonomamente il senso delle cose che lo circondano; farlo passare, infine, dal pensiero all’azione, verificando e sperimentando sul campo quello che ha capito o creduto di capire. La Consulenza Filosofica sembra quasi uno stimolo a “filosofare” con consapevolezza e soprattutto a continuare a farlo anche dopo che essa è terminata12. Gaia, infatti, più volte dice di aver trovato benefici: riflettere per conto proprio la aiuta e la fa stare meglio. Forse è questo uno degli effetti più significativi della Consulenza filosofica? O può essere considerato un suo vero e proprio fine? Quello, cioè, di continuare a filosofare per conto proprio, anche dopo la conclusione delle consulenza “ufficiale” e ben al di là dell’obiettivo di risolvere lo specifico problema per cui la si era richiesta. Un altro effetto importante riguarda la più generale trasformazione che interviene nel consultante, a seguito proprio dell’acquisizione di questo nuovo stile di vita, più riflessivo. Come scrive Neri Pollastri, «filosofare significa non essere più gli stessi che si era prima di questo particolarissimo agire; vuol dire muoversi, cambiare, in molti casi “crescere”, in conoscenza, consapevolezza, in comprensione della realtà. E la filosofia è, in questo senso, una pratica. Lo è sempre, senza che ci si sforzi a farla diventare tale, senza che escogitiamo modi per “applicarla”»13. La vita stessa di chi si rivolge a un consulente filosofico risulta, dunque, trasformata, non perché vi si applichi una particolare “ricetta” filosofica, ma per il particolare rapporto che sussiste tra esercizio filosofico e vita. Come suggerisce Pierre Hadot, filosofia e vita sono insieme “incommensurabili” e “inseparabili”. Sono incommensurabili, perché sono di 12

Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofica antica, cit., p. 159: «Filosofare è un atto continuo, un atto permanente, che si identifica con la vita, un atto che occorre rinnovare a ogni istante». 13 N. Pollastri, Il pensiero e la vita, cit., p. 11.

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ordine eterogeneo. D’altra parte, non esiste discorso filosofico che meriti di essere chiamato filosofico, se separato dalla vita filosofica, come non esiste vita filosofica, se non strettamente legata al discorso filosofico. Filosofia e vita, pur essendo incommensurabili, diventano dunque inseparabili14. Per quanto riguarda il nostro specifico tema, ossia il ruolo dei “filosofi” durante una consulenza, come abbiamo visto, possono intervenire, come “interlocutori” immaginari, anche autori appartenenti alla tradizione filosofica (nel nostro caso si è trattato soprattutto di Epitteto, anche se non è mancato un riferimento al socratico “Conosci te stesso”). Ma con quale funzione? Non certamente come maestri di una saggezza saldamente posseduta da “trasmettere” meccanicamente al nostro consultante e neppure come riferimenti dottrinali rigidi da cui il filosofo consulente non si schiodi. Il consulente deve essere, piuttosto, disposto a seguire dolcemente le linee di pensiero del consultante, non per assecondarlo o giustificarlo, ma in primo luogo per comprenderlo. Come abbiamo visto, i riferimenti autorevoli (si traducano in testi suggeriti in lettura, in massime celebri, in teorie che il consulente riassume ad uso del consultante) si rivelano utili soprattutto per rinforzare quanto il dialogo consulenziale genera dal proprio stesso seno. In altri casi questi riferimenti potrebbero anche aiutare a problematizzare certe conclusioni troppo “facili”, ma sempre solo come stimoli, mai con pretese “dogmatiche”15. Abbiamo visto in particolare che i testi suggeriti in lettura, proprio in quanto testi scritti, dunque necessariamente ambigui, come scrive Platone nel Fedro, si possono prestare a venire interpretati liberamente nei modi più diversi (a differenza, ad esempio, dei consigli sovente piuttosto “rigidi” di amici, parenti e fidanzati dei nostri consultanti, spesso per nulla “liberamente interpretabili”). Questa ambiguità o, meglio, “apertura” dei testi, in certi casi, può aiutare la riflessione della persona sulla sua vita, senza condizionarne troppo gli esiti (Gaia, nel caso presentato, ha reinterpretato 14

Cfr. P. Hadot, Che cos’è la filosofia antica?, Torino: Einaudi, 1988, p. 167. Come osserva Ran Lahav, «ci vuole molta abilità ed esperienza per essere in grado di incorporare materiali filosofici nelle conversazioni di consulenza in modo da affrontare il dilemma del consultante, senza fare lezioni astratte né usare terminologie altamente tecniche, creando una trama di idee rilevanti nella conversazione di consulenza con diretto riferimento a esperienze personali e a situazioni concrete della vita. [...] Il consulente dovrebbe essere consapevole del pericolo che i consultanti accettino ciecamente, in forza dell’autorità, le idee filosofiche che vengono loro presentate invece di prenderle come materiali per filosofare. Il genuino filosofare può avere luogo soltanto quando il consultante esamina criticamente tali idee e la loro rilevanza per il proprio personale modo di essere, e le adotta solo con gli adattamenti appropriati – sceglie e combina, modifica, sviluppa ulteriormente, restringe e specifica, mette in questione o respinge» (R. Lahav, Comprendere la vita, cit., pp. 45-46). 15

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in modo piuttosto libero, e ben oltre le prospettive rigidamente “stoiche” di Epitteto, la distinzione tra le cose che dipendevano da lei e quelle che non dipendevano da lei). È la vita stessa del consultante a suggerire come leggere un testo, purché il testo sia scelto accuratamente affinché possa prestarsi a questa libera lettura. Ci si potrebbe chiedere, allora, in conclusione, se la “consonanza” tra la “visione” di Gaia e quella di Epitteto (e anche quella di Socrate) sia dovuta all’apertura di questi antichi testi, che si prestano a venire letti nei modi più diversi, o a qualcosa di più profondo. La risposta a questo domanda è molto difficile e non ho certamente la pretesa di darla io, anche se invito il lettore a riflettervi. Si potrebbe pensare che questa consonanza dipenda dal fatto che Epitteto e Socrate (in questo caso, in altri casi può trattarsi di Aristotele, Kant, Derrida ecc.), avendo profondamente pensato, abbiano colto “verità” (umane) davvero importanti e universali. Credere questo mi sembra legittimo e possibile, anche se è difficile dimostrarlo. L’importante è che questa eventuale “credenza” (che giustifica tutte le ore che noi filosofi consulenti abbiamo dedicato a questi autori, curvi sulle loro opere), non ipotechi, come detto, l’andamento della consulenza, trasformandola in una forma di indottrinamento. Un’altra ipotesi è che questi testi e questi autori “parlino” – anche a chi non li abbia letti direttamente e, a volte, non sapeva neppure della loro esistenza –, perché siamo in qualche modo eredi della tradizione a cui tali autori appartengono (la “civiltà occidentale” che ha le sue radici nel mondo greco) e che ancora ci parla attraverso le forme e i costumi delle nostra stessa civiltà contemporanea (ad esempio: molti “valori” cari agli antichi sono arrivati fino a noi). Comunque sia, se non è certamente sorprendente che un consultante, ignaro delle dottrine di un antico filosofo, una volta che ne è venuto a conoscenza, possa riconoscervisi, magari perché condizionato dal prestigio dell’autore, non cessa di stupirmi e di meravigliarmi, confermandomi nel valore degli studi filosofici che ho intrapreso, l’evenienza inversa: ossia le volte in cui un consultante, grazie al dialogo che intrattiene con me e con se stesso, perviene autonomamente, in virtù di quello che ha imparato a volte anche dolorosamente per esperienza, a “scoperte” filosofiche documentate in qualche “classico” a lui magari ignoto.

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In

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Riferimenti bibliografici AA.VV., Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni, Trapani: Di Girolamo, 2008. Achenbach G., La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita, tr. it. Milano: Apogeo, 2004. Giacometti G. (a cura di), Sofia e Psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto, Napoli: Liguori, 2010. Hadot P., Che cos’è la filosofia antica?, Torino: Einaudi, 1988. Hadot P., Esercizi spirituali e filosofia antica, tr. it. Torino: Einaudi, 1988. Pollastri N., Il pensiero e la vita. Guida alla consulenza e alle pratiche filosofiche, Milano: Apogeo, 2004. Raabe Peter B., Teoria e pratica della consulenza filosofica. Idee fondamentali, metodi e casi di studio, tr. it. Milano: Apogeo, 2006. Sautet M., Socrate al caffè, Milano: Tea, 1997. Schuster S., La pratica filosofica. Una alternativa al counseling psicologico e alla psicoterapia, tr. it. Milano: Apogeo, 2006.

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C’è ma non si vede (specie se è di buona qualità) di Augusto Cavadi

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1. Un background invisibile Che ruolo gioca la conoscenza della letteratura filosofica nell’esercizio professionale del consulente? Nessuno. Anzi, un ruolo immenso. Dipende dai punti di vista. Se si esaminasse la videoregistrazione di molti colloqui, si potrebbe costatare che non viene citato neppure un ‘classico’ della storia della filosofia. I diffidenti che amano ironizzare sulla consulenza filosofica («Se arriva da voi una coppia in crisi, le leggete la Critica della ragion pratica e risolvete la questione?») resterebbero delusi, se solo si informassero su ciò di cui blaterano. Tuttavia un orecchio esperto non faticherebbe a riconoscere – fra una frase e l’altra del filosofo in colloquio, anzi come sfondo e humus delle frasi del filosofo – un’antica familiarità con le opere della tradizione filosofica. Perché la saggezza – anche, e soprattutto, quella saggezza che consiste nella consapevolezza di non averne abbastanza – non si acquisisce con l’assunzione di “pillole” (fossero pure d’Aristotele…1): essa matura col tempo e con l’esperienza, con l’osservazione di ciò che accade e con la conoscenza di ciò che è accaduto nella storia, con la riflessione critica e con la meditazione. E con il dialogo con interlocutori saggi. Alcuni dei quali sono a portata di mano, o per lo meno di telefono e di mouse; ma molti dei quali hanno smesso di calcare le nostre strade e ci parlano solo attraverso i loro scritti. Il filosofo consulente, come ogni altro genere di filosofo, avverte dunque l’esigenza interiore – prima che il dovere professionale – di dare almeno un breve appuntamento quotidiano ad un pensatore del passato (anche recente): proprio come Machiavelli ricorda di dedicare le ore per lui più gratificanti della giornata a colloquiare (dopo essersi persino vestito degli abiti più adatti alla solennità del caso!) con i grandi della storia. 1

Cfr. L. Marinoff, Le pillole di Aristotele. Come la filosofia può migliorare la nostra vita, Casale Monferrato (Al): Piemme, 2003. Come gli altri testi del medesimo autore, anche questo deve a una fruibilità che sconfina spesso con il semplicismo il successo editoriale immenso. Che è pur sempre utilizzabile come una testa di ponte per far entrare nel circolo mediatico versioni un po’ meno rozze della consulenza filosofica.

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2. Il necessario canone impossibile Esiste un canone, una sorta di ‘bibbia’ filosofica, formata da classici irrinunciabili per un filosofo consulente? La risposta non è ovvia. Per certi versi, infatti, sarebbe facile rispondere che il filosofo consulente deve conoscere almeno la stessa lista di opere che è obbligato a conoscere qualsiasi altro filosofo (insegnante liceale o ricercatore accademico che sia). Quando, però, si passasse a determinare in concreto l’elenco dei libri indispensabili, ci si troverebbe in serio imbarazzo: davvero, infatti, alla lunghezza dell’ars si coniuga, drammaticamente, la brevità della vita! Tutti concorderemmo nell’inserire nella white list Parmenide e Eraclito, Platone e Aristotele, Agostino e Tommaso, Cartesio e Pascal, Locke e Hume, Kant e Hegel, Wittgenstein e Heidegger. Ma – a parte i frammenti dei due sapienti presocratici – quali opere leggere di tutti gli altri grandi? Tutte, molte, alcune? E mentre sei impegnato a decidere, filosofo per filosofo, quali siano i testi davvero irrinunciabili, ecco che un retro-pensiero bussa alle porte della tua consapevolezza: perché non hai incluso anche Empedocle e Democrito, le Scuole ellenistiche, Plotino, Abelardo, Hobbes e Spinoza, Fichte e Schelling, Comte e Nietzsche, Popper e Jaspers? Inutile decidere di ospitare nella biblioteca ‘ideale’ anche questi altri nomi perché, comunque, tanti altri affollerebbero a buon diritto l’anticamera della tua mente. Ma ammettiamo pure che si avesse tempo per leggere tutti i libri di tutti i filosofi citati in un buon manuale di storia della filosofia: che ne sarebbe, comunque, di quegli altri pensatori ‘minori’ che ognuno di noi ha incontrato nelle sue scorribande intellettuali e che gli hanno dato qualcosa di speciale – se non addirittura di unico – rispetto alle letture ‘canoniche’? A molti miei colleghi Joseph Pieper o Etienne Gilson, Karl Löwith o Agnes Heller possono non evocare nulla (esattamente come tanti altri nomi di indubbio valore sono rimasti del tutto al di fuori dalle mie conoscenze); laddove, per me, rappresentano tappe importanti della mia evoluzione (o involuzione?) filosofica. Come se non fosse già abbastanza complicato, il quadro è reso ancor più problematico da un’ulteriore considerazione: se, per assurdo, uno di noi riuscisse a leggere tutte le opere (maggiori e minori) di tutti i filosofi occidentali (maggiori e minori), potrebbe ritenersi abbastanza attrezzato per svolgere con competenza la sua professione di filosofo consulente? La risposta apre orizzonti sconfinati. Qualcuno di noi rinuncerebbe, sia pur a malincuore, a una decina di filosofi pur di avere modo di leggere i padri della psicologia del profondo; altri pur di leggere alcuni romanzieri e poeti;

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altri ancora alcuni scienziati della natura e della società... Senza contare i casi davvero patologici di quanti, come me, ritengono necessario maneggiare – addirittura ! – gli elementi basilari della storia delle religioni e della teologia cristiana (cattolica, ortodossa e protestante), a cominciare – evidentemente – dalla Bibbia2. Chi condivida queste considerazioni potrà facilmente concordare su una conseguenza operativa: la biblioteca essenziale di un filosofo consulente è sempre incompleta e vale non tanto per il numero e la ‘nobiltà’ dei volumi studiati, quanto per l’atteggiamento interiore con cui egli si sia accostato ai libri che ha letto. Detto altrimenti: vale in proporzione all’autenticità dell’interesse, intellettuale ed esistenziale, con cui egli ha cercato, trovato, studiato e meditato ciascuno dei suoi libri. Un esempio in negativo può forse esprimere meglio la mia convinzione. Anni fa un collega che, a differenza di me, avrebbe intrapreso la carriera universitaria (arrivando per altro ai vertici istituzionali), così rispondeva alla domanda che gli posi sulle ragioni per cui aveva deciso di dedicare i successivi dieci anni allo studio di Giovan Battista Vico: «Se voglio vincere il concorso devo avere qualche monografia su autori di cui conosco la lingua originale. Poiché non mastico bene né l’inglese né il tedesco, potrei optare fra italiani e francesi, ma ho visto che sui francesi ci sono già abbastanza pubblicazioni: perciò ho scelto un italiano su cui da anni si scrive poco». Non so quanto efficace sia stato il suo insegnamento universitario, ma so con certezza che disastro sarebbe stata una sua eventuale professione di consulente.

3. Una consulenza interpersonale: Martino Chiarito, dunque, il criterio di fondo (il rapporto fra conoscenza della letteratura, primaria e secondaria, della storia della filosofia con l’attività pratica del filosofo non è immediato, puntuale, individuabile di caso in caso, bensì fondativo in senso remoto, pre-giudiziale), posso adesso raccontare qualche esperienza professionale nel corso della quale mi è sembrato – ad 2

«Per noi ebrei il testo è una patria, io credo che il giudaismo sia più una pedagogia trascendentale, un insegnamento che una religione. Rabbino significa insegnante e lettore della parola, non prete. La Bibbia è una mescolanza di fantastica diversità di narrazioni, saghe, racconti, leggende, leggi, rituali – come direbbe il mio grande amico Umberto Eco è veramente la ‘forma aperta’ – senza la quale non ci sarebbero né arte, né letteratura e neppure musica, nella storia occidentale»: così recentemente George Steiner (autore de Il libro dei libri. Una introduzione alla Bibbia ebraica, tradotto in italiano da Vita e Pensiero) rispondendo ad un’intervista di Maurizio Bono su “la Repubblica” del 19.5.2012.

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una riflessione successiva – che alcune letture mi siano state presenti, quasi irriflessivamente, più di altre. Martino è sposato da venti anni con una moglie dolcissima e due figli esemplari. Quando mi chiede un primo colloquio ha il volto luminoso, affabile, che avevo memorizzato dalla prima volta (anni prima) in cui ci eravamo conosciuti: ma segnato, adesso, da una malinconia che rasenta, pericolosamente, la rassegnazione del disperato. Mi spiega che cosa è successo: l’arrivo in ufficio di una collega giovane e carina; la nascita di una simpatia che diventa intesa; il graduale maturare dell’originaria intesa empatica in un sentimento sempre più intenso e sempre meno facile da nominare. O forse da accettare. Perché è sintonia nel valutare le situazioni, affinità di umore, attrazione sessuale, complicità crescente: un coinvolgimento sempre più totale che rende magici i momenti di vicinanza e crocifiggenti le lunghe ore di separazione. Già, perché – al di fuori degli orari di lavoro e di rari intervalli di intimità clandestina – Martino e Serena sono costretti a vivere vite parallele ed estranee: Martino con Gianna e i loro due meravigliosi figliuoli; Serena con Carlo, il fidanzato storico, gentile e comprensivo, premuroso e fedele. A prima vista la vicenda appare di una ‘normalità’ quasi banale: lui si avvicina ai cinquanta, intravede l’inizio del declino psico-fisiologico, cerca e trova una relazione emotivamente gratificante. Ma, approfondendo il quadro, si notano delle particolarità specifiche. Ipotizzo, infatti, che la sua esperienza coniugale abbia percorso inesorabilmente la solita parabola: entusiasmo inebriante all’inizio e poi, via via, un progressivo abbassamento della febbre passionale che può portare o a un assestamento su un piano di amicizia, di stima reciproca e di corresponsabilità all’interno di un progetto comune, oppure allo sfaldamento e alla dissoluzione del legame. Gli chiedo, perciò, se abbia dei motivi per escludere che, separatosi dalla famiglia attuale e imbarcatosi in una sorta di secondo matrimonio, sia destinato a ripercorrere la medesima parabola (magari per ritrovarsi, dopo cinque o dieci anni, in una situazione di dormiveglia affettivo e con un’inquietudine analoga). Martino mi oppone, però, una precisazione fondamentale: quando la sua strada si è incrociata con la strada di Serena, non si trovava in nessuna situazione di malessere o di ricerca della novità. Viveva in quella condizione di tranquilla assuefazione ai ritmi quotidiani in cui si era sempre trovato, sin da ragazzo. Detto in altri termini: non cercava nulla di elettrizzante perché non sapeva che potesse esistere anche un altro modo di vivere al mondo. In nessun momento della vita, neppure quando aveva conosciuto Gianna e si erano fidanzati, aveva mai avvertito quel groviglio di emozioni che stava provando in questa fase della sua storia. Incontrare Serena è stato per lui

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la rottura di un guscio del quale non aveva consapevolezza perché vi era sempre vissuto, sin dalla nascita: è stato come essere svegliato per la prima volta da un sonno profondo nel quale era immerso in totale incoscienza. Ecco perché un’eventuale nuova vita con Serena non potrebbe essere in nessun caso la replica della sua vita con Gianna: zampillavano, in origine, da due fonti incomparabili. Era già dalla radice che si differenziavano. A questo punto il contesto mi si delineava più chiaramente. Martino non si stava re-innamorando perché si sarebbe spento il suo innamoramento precedente: piuttosto si stava innamorando, stava sperimentando uno stato interiore inedito. Chiarito questo, ho chiesto al mio ospite di farmi capire quale fosse il dilemma che lo aveva spinto a chiedermi un appuntamento, su che cosa volesse riflettere in mia compagnia. Egli mi spiega a questo punto che il suo è un tipico dilemma morale: ritiene di avere diritto a sperimentare quella condizione interiore che si avvicina a ciò che suppone possa essere chiamata felicità, ma si chiede come conciliare questo indubitabile diritto con il diritto, altrettanto indubitabile, della moglie Gianna e dei suoi due ragazzi a non veder incrinata l’atmosfera di quieta routine familiare ormai consolidata in due decenni. Non è certo il luogo opportuno per raccontare tutte le tappe di questa consulenza. Dico solo che, nell’esame comune della questione, ho tenuto presente soprattutto due teorie (la prima non l’ho evocata esplicitamente al mio interlocutore perché mi sarebbe sembrata un’inutile esibizione di erudizione; la seconda, invece, mi è stato più spontaneo richiamarla, anche per offrire a Martino delle eventuali piste di riflessione ulteriore). La prima teoria è stata la dottrina aristotelica dell’amicizia che può fondarsi sul piacere, sull’interesse materiale o sulle virtù morali: se fondata sul piacere, l’amicizia è fragile quanto mutevoli gli umori passionali; se fondata sull’interesse materiale reciproco, è meno fragile ma ugualmente esposta a dissolversi qualora venga meno la comunanza nel lavoro e negli affari; più solida, invece, qualora si basi sulla stima reciproca per le qualità etiche dei due amici e per una comune tensione verso progetti ispirati a valori condivisi. In un matrimonio, sia pure a livelli e in fasi differenti, vanno realizzate queste tutte e tre le modalità d’amicizia: ed è stato istruttivo, per noi due, riflettere sull’impossibilità di mantenere a lungo una relazione coniugale in cui la dimensione sensuale, ludica, affettiva sia assolutizzata o, all’opposto, bypassata. La seconda teoria alla cui luce abbiamo cercato di orientarci è stata mutuata da Aut aut di Kierkegaard: in particolare (non so quanto fedelmente dal punto di vista esegetico) abbiamo riflettuto sulla tesi che immune dalla disperazione non è solo la vita ‘estetica’ del don Giovanni, ma anche la vita ‘etica’ del marito fedele. Sulla tesi, insomma, che ci sono molte ma-

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niere per tradire la propria ‘vocazione’ e svendere la propria ‘autenticità’: solo la morale perbenista borghese può sostenere che il rispetto formale di regole sociali consolidate preserva dal fallimento sostanziale della propria esistenza terrena.

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4. Una consulenza di gruppo: i sindacalisti della Filca (Cisl) Più d’una volta lo staff nazionale per la formazione della Filca-Cisl (la federazione che raccoglie i lavoratori delle costruzioni, del legno e di aziende affini) mi ha dato la gioia di incontrare sindacalisti di varie regioni italiane, soprattutto meridionali, per riflettere sul tema della legalità. Nell’impossibilità di riferire con completezza su questo genere di esperienza professionale, mi concentro solo sulla tematica di fondo: la legge positivamente emanata da uno Stato va obbedita sempre e comunque, in quanto legge, o non piuttosto sottoposta al giudizio critico e rispettata solo nella misura in cui essa stessa rispetta i diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino? Detto altrimenti: la legalità è un valore ultimo o piuttosto penultimo, essendo essa a sua volta subordinata al valore della giustizia? Non intendo certo sottovalutare la portata enorme di interrogativi di questa stazza. Ritengo tuttavia che siano ineludibili, almeno se si vuole trascendere il livello della proclamazione retorica (e tutto sommato ipocrita) del valore della legalità e scavare sulle ragioni più profonde della sua crisi (che sono di livello più radicale, etico e intellettuale insieme). Per affrontarli con rigore, ma senza tecnicismi, mi riesce spontaneo riferirmi (talora esplicitamente, più spesso senza fare nomi e senza citare titoli di opere) ad una tradizione costante del pensiero occidentale che dai Sofisti, passando per Platone e Aristotele, Agostino e Tommaso, arriva a Locke, Kant, Maritain, Ricoeur: una tradizione che problematizza, alla luce di quella “legge non scritta” che già l’Antigone di Sofocle avvertiva nel proprio intimo, le leggi prodotte dalle istituzioni umane.

5. Un’altra consulenza di gruppo: i medici della Samot Devo alla lungimiranza di un primario di medicina, Giorgio Trizzino, l’occasione preziosa di aver incontrato, mensilmente per quasi un intero anno sociale, gli operatori della Samot di Palermo, un’associazione che – in regime di convenzione con il Sistema sanitario nazionale – si occupa di assistenza domiciliare ai malati terminali. Sorvolando anche in questo caso su elementi

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altrove narrati, mi limito a concentrarmi sulla tematica di questo contributo: come ha giocato la mia familiarità con la letteratura filosofica nel redigere le linee essenziali degli incontri con i medici, gli infermieri, gli psicologi e gli assistenti sociali? Dico subito che si è trattato di un’esperienza in cui il ricorso a riferimenti testuali è stato più esplicito e più frequente. Avevamo infatti concordato di meditare sul tema della morte dal momento che la domanda sul senso (o sul non senso) del morire per cancro costituiva uno degli interrogativi ricorrenti nei colloqui con i pazienti. Ho pensato che fosse opportuno, dopo una presentazione sinottica preliminare, dedicare ciascun incontro a visitare uno dei possibili scenari teoretici che si registrano nella storia della cultura occidentale. Un primo incontro è partito dalla provocazione del primo Wittgenstein: forse la domanda sulla morte (e su ciò che ci aspetta oltre) è priva di senso, va assopita («Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono stati ancora neppure sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna: e appunto questa è la risposta»). Un secondo incontro si è basato sulla provocazione ‘classica’ di Epicuro: la domanda sulla morte ha senso, ma la risposta è evidente («La morte non è nulla per noi perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla»). Un terzo incontro è stato dedicato ad abitare lo scenario platonico della morte come guarigione da una condizione patologica – la vita nel corpo, nel mondo, nella storia – e il recupero della propria condizione originaria e ‘normale’. O, se non si è pronti, l’avventura della re-incarnazione. In un quarto incontro ci siamo lasciati interpellare dalla suggestione panteistica della morte come ritorno verso il Tutto da cui proveniamo; più precisamente da alcune righe di Hölderlin: «Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell’eterna calma. – Essere uno con tutto ciò che vive!». In un quinto incontro abbiamo riletto la risposta biblica in generale, e neotestamentaria in particolare, spogliandola non solo da ogni pregiudiziale di fede (essa va conosciuta e ponderata con gli stessi diritti e gli stessi oneri di altre proposte elaborate in Occidente), ma anche dalle modifiche teologiche subite sin dal Medioevo per via del filtro ellenizzante: la morte come annichilimento (nell’immediato) e (possibile) passaggio, verso la pienezza della Vita divina. Un sesto, ultimo, incontro è stato dedicato – infine – ai risvolti esistenziali di ogni riflessione teoretica su questioni così enigmatiche quali la mortalità e il decesso che la suggella. Forse una risposta chiara, convincente, sarà difficile – se non impossibile – da trovare: ma la stessa ricerca non è forse stimolo a valorizzare

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la vita che si va vivendo? Mentre ci chiediamo se ci sia vita dopo la morte, non si configura nella nostra mente l’interrogativo del saggio orientale se ci sia vita prima della morte? Simile meditazione su cosa possa significare vivere degnamente il segmento, breve o lungo, concessoci dal destino, dal caso o da un Dio ci ha indotti a rivalutare la sobrietà nei confronti delle cose, la solidarietà nei confronti degli altri e la letizia come sottofondo emotivo costante del “nudo piacere di vivere”3.

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Riferimenti bibliografici Carlier J., «Pratiques religieuses et souci de soi selon Porphyre» in AA. VV., Pratiche filosofiche e cura di sé, a cura di C. Brentari, R. Màdera, S. Natoli e L. V. Tarca, Milano:Bruno Mondadori 2006, pp. 24-48 Cavadi A., Filosofia di strada. La filosofia-in-pratica e le sue pratiche, Trapani: Di Girolamo 2010, soprattutto pp. 36-52 Dipalo F., «Consulenza filosofica e saggezza antica» in AA.VV., Filosofia praticata. Su consulenza filosofica e dintorni, Trapani: Di Girolamo 2008, pp. 35-48 Droit R.-P., Vivere oggi con Socrate, Epicuro, Seneca e tutti gli altri, Costabissara (Vi): Angelo Colla 2011 Sini C., Filosofia e scrittura, Roma-Bari: Laterza 1994 Spinelli E., «I fondamenti scettici di un’arte della vita: Sesto Empirico fra epistemologia ed etica» in AA. VV., Pratiche filosofiche, cit., pp. 7-16 Pollastri N., «I saperi e la formazione alla consulenza filosofica» in AA. VV., Saperi umani e consulenza filosofica, a cura di V. G. Kurotschka e G. Cacciatore, Roma: Molteni 2007, pp. 57-69. Pollastri N. – D. Miccione, L’uomo è ciò che pensa. Sull’avvenire delle pratiche filosofiche, Trapani: Di Girolamo 2008 Volpone A., «L’alambicco della filosofia, ovvero perché la coda non dimena il cane», in AA.VV., FilosoFare, politica e società, a cura di A. Volpone, Napoli: Liguori 2008, pp. 3-17

3

Gli addetti ai lavori riconosceranno, senz’altro, il richiamo al bel libro di Romano Màdera, Il nudo piacere di vivere. La filosofia come terapia dell’esistenza, Milano: Mondadori 2006. Più in generale, sugli scenari evocati a proposito del senso della morte, rimando al mio Senso e non-senso della morte in G. Canobbio (a cura di), Dio, l’anima, la morte, Brescia: La Scuola, 2012, pp. 131-152.

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Postfazione

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Questioni di metodo

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Consulenza e tradizione filosofica: leggere attentamente prima dell’uso di Neri Pollastri

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1. Introduzione Il rapporto tra la filosofia consulenziale e la letteratura filosofica è da sempre controverso, così come lo è il rapporto di quest’ultima con ogni tipo di pratica filosofica, visto che la prima delle forme di filosofia fuori dalle accademie a essere storicamente sviluppata – la Philosophy for Children di Matthew Lipman – aveva e ha tutt’oggi tra i propri tratti disciplinari giustappunto il “liberare” tanto il filosofo, quanto il dialogo che egli facilita in gruppo da ogni riferimento dottrinario, dalle citazioni dotte, dai referenti autorevoli, insomma dall’invadenza della cultura filosofica, considerata – tutto sommato non a torto – come un ostacolo alla “pratica della filosofia” per tutti coloro che non abbiano una formazione specifica – ovvero la stragrande maggioranza di coloro a cui è indirizzata la pratica stessa1. Con la nascita della Philosophische Praxis – ovvero la specifica pratica che in Italia è stata chiamata “consulenza filosofica”2 – questo rapporto controverso ha preso una forma anche conflittuale: il suo fondatore, Gerd Achenbach, nei primi scritti usava espressioni piuttosto vibranti nei confronti dei “prodotti” dell’Accademia, che definiva come un “self-service filosofico” i cui soli clienti sono gli stessi professori di filosofia e che

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La Philosophy for Childrem (P4C) nasce negli anni Sessanta ed è originariamente diretta ai bambini con l’intenzione di favorire in loro uno sviluppo precoce delle capacità logiche. In anni recenti alcuni suoi sviluppi, come la Philosophy for Community, sono rivolti agli adulti non esperti di filosofia. 2 Come noto l’avvento in Italia di questo tipo di pratica e la nascita dell’espressione “consulenza filosofica” risalgono al 1999, ma già alla fine del 2001 avvenne la distinzione tra chi seguiva le orme della tradizione tedesca e chi invece, nel solco di una via sviluppata principalmente in Inghilterra, portava la pratica nell’alveo delle professioni d’aiuto a sfondo psicologico, facendone una variante del counseling (cfr. Davide Miccione, La consulenza filosofica, Milano: Xenia 2007, Neri Pollastri, Il pensiero e la vita, Milano: Apogeo 2004 e Augusto Cavadi, Filosofia di strada, Trapani: Di Girolamo 2010).

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postfazIone: questIonI

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mantiene in moto il meccanismo di riciclaggio dello smaltimento della tradizione, per poter in ogni tempo alimentare il sovvenzionato mercato del libro con il vecchio patrimonio nuovamente interpretato; le fertili riserve spirituali vengono filologicamente polverizzate e bruciate e le scorie vengono immagazzinate definitivamente nelle biblioteche3.

Un sistema che dà origine a quella che egli chiamava “filosofia della pretesa”, espressione con cui indicava «quella filosofia vecchia e tramandata che scopre, amministra ed esegue la verità, che prima decide le “proposizioni vere” e poi, una volta che le ha, le impone da farisea agli uomini»; quella cioè che si identifica con l’autorevolezza della parola scritta del filosofo che pensa per gli altri, togliendo loro l’onere e la responsabilità di pensare, ma contemporaneamente sottraendo loro anche l’autonomia delle idee, cosicché se essa «conservasse l’ultima parola, non sarebbe possibile la consulenza filosofica oppure sarebbe pericolosa»4. In realtà è innegabile che Achenbach, in quei primi scritti, fosse solito eccedere nel taglio polemico, cosa che vale anche per quanto riguarda le critiche allora rivolte all’ambito psicoterapeutico. La ragione, a posteriori, è comprensibile e anche giustificabile: si trattava per lui di porre in forte evidenza gli aspetti peculiari di una pratica da un lato del tutto innovativa – chi mai aveva avuto l’ardire di proporsi come “filosofo professionista” prima di allora? – dall’altro, anche per questo, osteggiata con vigore e spregio da coloro che si sentivano (peraltro a torto) sottrarre prestigio, se non proprio potere o mercato. Così, se prendiamo in considerazione cosa lo stesso Achenbach ha poi fatto e detto nel corso dei suoi ormai trentuno anni di attività, possiamo osservare come il suo rapporto con la letteratura filosofica non sia stato certo improntato al distanziamento. Infatti, gran parte dei suoi seminari – quelli famosi “del venerdì”, che tiene settimanalmente nella sua residenza di Bergish Gladbach, o quelli di più giorni che conduce in varie località tre o quattro volte l’anno – sono incentrati su figure storiche della filosofia e spesso partono proprio da libri5, mentre nel suo articolo Per un curriculum della consulenza filosofica6 egli rivendica l’importanza, per la formazione dei futuri professionisti, dello studio di filosofi come Socrate e Agostino, Nietzsche e Kant, gli Ellenisti ed Hegel, Kierkegaard e i filosofi 3

Gerd Achenbach, La consulenza filosofica, Milano: Apogeo 2004, p. 58. Ivi, pp. 34-35. 5 Peraltro non necessariamente sempre di filosofi: il seminario estivo del 2011 era infatti basato sullo splendido romanzo di Thomas Mann, L’eletto. 6 In Vanna Gessa Kurotschka e Giuseppe Cacciatore (a cura di), Saperi umani e consulenza filosofica, Roma: Meltemi 2007, pp. 37 e sgg. 4

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analitici, ma anche di «pensatori finora considerati secondari o poco innovativi o ancora troppo poco originali», i quali con la consulenza filosofica «guadagnano un nuovo e giustificato interesse»7. D’altronde, già in prima approssimazione non pare sensato immaginare una disciplina che si richiami alla filosofia e che, al tempo stesso, metta interamente fuori gioco ciò che, non certo solo da oggi, viene considerato essere, se non proprio “la filosofia” tout court, quantomeno una sua espressione eminente, qual è il patrimonio letterario prodotto nel corso dei secoli dai filosofi. E allora, per provare a fare un po’ di filosofica chiarezza in questa complessa relazione, è necessario chiarire preliminarmente alcune questioni.

2. Filosofia e filosofare La prima cosa da mettere in chiaro è che nell’ambito della consulenza filosofica – così come in tutte le forme della cosiddetta “pratica filosofica”8 – quando si parla di “filosofia” si intende prioritariamente non già il patrimonio letterario tramandatoci dalla storia, bensì il complesso e multiforme “processo” di pensiero che sta alla base della creazione di ciascuno dei suoi reperti. Per usare un’espressione sintetica ed emblematica, la “filosofia” a cui fanno riferimento le pratiche è il filosofare. Lo spostamento dall’uso sostantivale a quello verbale è altamente significativo, perché trasferisce l’accento dallo statico riferimento a “verità” già date da altri – i Filosofi che pensano in vece degli altri – a quella “verità” che ciascun essere umano pensante ha il diritto e il dovere di costruire per conto proprio, ancorché in concorso con la comunità degli esseri raziocinanti. Tale spostamento è costitutivo delle pratiche filosofiche, giacché il loro principale obiettivo è giustappunto far tornare ogni uomo – ogni cittadino – a pensare in proprio e a dialogare con i suoi simili – da cui segue giustamente che ci sia chi le ha definite “filosofia come pratica sociale”9. Stando così le cose, allora, il rapporto tra letteratura filosofica e pratiche 7

Ivi, p. 39 Non affronteremo qui la complessa questione della delimitazione dell’ambito di tali pratiche e della loro più precisa definizione, cosa tutt’oggi fonte di aperto dibattito. Per un mio (non conclusivo) contributo, rimando a La filosofia è una pratica filosofica? Per una più precisa classificazione delle attività filosofiche extra muros, in Francesco Coniglione (a cura di), Interpretare, vivere, con-filosofare, Acireale-Roma: Bonanno 2010. 9 Cfr. Antonio Cosentino, Filosofia come pratica sociale, Milano: Apogeo 2008. Per un approfondimento su questo tema cfr. il bel saggio di Davide Miccione, Ascetica da tavolo. Pensare dopo la svolta pratica, Milano: IPOC 2012. 8

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filosofiche (delle quali la consulenza è una e solo una) prende la medesima forma di quello che la prima ha con il filosofare, ovvero con l’atteggiamento e la prassi di ricerca che fa sì che un autore produca un testo scritto rubricabile sotto la categoria “filosofia” piuttosto che sotto quelle di “letteratura”, “storia”, “scienza naturale”, ecc.

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3. La “storica” contrapposizione Torniamo allora alla posizione di Achenbach, il quale come già accennato contrappone la “filosofia della pretesa” – statica e autoritaria, ancor più che autorevole – alla nuova forma di filosofia per tutti che, nelle sue intenzioni, sarebbe la Philosophische Praxis. Una contrapposizione, come ben illustra la sua personale duplicità di approccio, non esclusiva: la tradizione filosofica appare – tanto nel teorizzare, quanto nel suo concreto operare – una risorsa a cui attingere, a condizione però che lo si faccia in modo che potremmo definire laico. Il problema non sta infatti nell’apprendere dall’opera dei filosofi, né nel recuperarne spunti e suggestioni, quanto nel conferire ai loro contributi un valore sacrale, nel fare di essi dei sine qua non validi sempre e comunque. In particolare, i due più gravi pericoli da evitare stanno nell’assumere i contributi della letteratura filosofica o come schemi da utilizzare nella pratica in modo routinario, o come fondamenti della pratica stessa. In entrambi i casi, infatti, si ricadrebbe nella “filosofia della pretesa”.

4. Una istruttiva polemica Per comprendere meglio i due pericoli sopra indicati è assai istruttiva la polemica che lo stesso Achenbach intrattenne con un altro apripista della disciplina, l’austriaco Günther Witzany10. Questi, musicoterapeuta e impegnato nel campo della politica ambientale, aveva aperto il primo studio fuori della Germania (il quinto nel mondo) il 28 novembre 1985 e in seguito aveva curato una collana di volumi dedicati alla Philosophische Praxis. Il suo approccio alla professione appariva caratterizzato in modo più marcato di altri da impegno etico, sociale e politico, in conseguenza di una ben definita 10 Ho discusso la querelle nel mio Consulenza filosofica. Breve storia di una disciplina atipica, in “Intersezioni”, XXI, 1, 2001, pp. 175-195, basandomi sul libro di Michael Zdrenka, Konzeptionen und Probleme der Philosophischen Praxis, Köln: Dinter 1997, pp. 50-56, al quale rinvio per approfondimenti

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posizione filosofica sulla quale fondava la concezione della pratica. Ispirato da Habermas, Apel e dalla critica della società tecnocratica dell’ultimo Jonas, Witzany poneva al centro della sua riflessione il rischio cui è sottoposto il mondo moderno a causa del predominio della tecnica e della perdita di misura e responsabilità delle scienze, fenomeni che a suo parere avrebbero prodotto un crollo di valori e messo a repentaglio la sopravvivenza sia di larghe masse di abitanti del pianeta, sia dello stesso ecosistema. Utilizzando i costrutti teorici del cosiddetto “pensiero ecologico”, egli concludeva a favore della necessità di un’etica globale su cui basare un’opera di formazione dell’uomo. All’interno di questo progetto, il filosofo austriaco assegnava un posto privilegiato alla Philosophische Praxis, con due compiti fondamentali: fornire la spiegazione delle conseguenze nefaste della tecnica; formare uomini in armonia con la loro natura (interna ed esterna) e capaci di assumersi le proprie responsabilità nei confronti del mondo, sia per il presente che per il futuro11. Per svolgerli, anch’egli riteneva indispensabile che la consulenza filosofica superasse il carattere di “scienza teorica” tipico della filosofia accademica, recuperando quello di “poiesis” che la filosofia aveva in passato. Distinguendone l’opera da quella delle psicoterapie (che accusava di considerare scientisticamente gli uomini alla stregua di “macchine da riparare”) e dalla psicoanalisi (che riteneva una pseudoscienza prossima alla divinazione) Witzany affermava che «la Philosophische Praxis aiuta – non terapeuticamente, ma filosoficamente – a fronteggiare l’angoscia, non eliminandola o razionalizzandola, ma utilizzandola come mezzo utile alla crescita personale»12, con l’obiettivo di avviare un processo dinamico di crescita, che aiuti a formare il personale progetto di vita in modo quanto possibile cosciente e autodeterminato, senza con ciò sotto o sopravvalutare i limiti delle proprie possibilità. L’obiettivo del partner dialogico nella Philosophische Praxis è quello di occuparsi razionalmente di se stesso, dei propri simili e della natura, diventare un po’ più saggio attraverso riflessioni e valutazioni cooperative13.

Nel definire le modalità di lavoro della consulenza, Witzany faceva esplicito riferimento alla teoria della “comunità ideale della comunicazione” di

11 Cfr. Günther Witzany, Von der Individualethik zur Globalethik, in Günther Witzany, Philosophieren in einer bedrohten Welt, Essen: Die Blaue Eule, 1989, p. 22. 12 Günther Witzany (hrsg.), Zur Theorie der Philosophischen Praxis, Essen: Die Blaue Eule, 1991, p. 116. 13 Günther Witzany, Der Nationalpark Hohe Tauern aus der Sicht der Philosophischen Praxis, in Günther Witzany, Philosophieren in einer bedrohten Welt, cit., p. 77.

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Apel, derivandovi alcune norme di comportamento del consulente, e alla concezione wittgensteiniana per la quale gran parte dei problemi filosofici sarebbero falsi problemi originati da un cattivo uso del linguaggio. Il lavoro consulenziale consisteva a suo parere nella discussione di «progetti di senso e di vita» e nel palesamento di «contraddizioni tra pensieri, parole e comportamenti»14. Come ben si vede, Witzany sposava una delle poche filosofie “forti” di fine millennio, la pragmatica trascendentale apeliano-habermasiana, diversamente da Achenbach, il quale – così come la maggior parte dei filosofi consulenti che hanno esposto la loro concezione della pratica – conservava teoreticamente libero il campo del dialogo consulenziale da qualsiasi dottrina filosofica privilegiata e da ogni tipo di valore e cognizione stabili e predefiniti, con l’obiettivo di garantire la neutralità del consulente e l’assenza di “griglie” attraverso le quali “valutare” o “interpretare” il pensiero e la personalità del consultante. Un tale approccio, essenziale per far sì che alcuni dei proclamati capisaldi della consulenza (non fornire consigli, non interpretare l’ospite in funzione della visione del mondo del consulente, prendere sul serio le sue affermazioni e proporgli una riflessione critica sul suo stesso modo di essere, ecc.) possano essere realmente praticati piuttosto che rimanere solo mere dichiarazioni d’intenti tradite di fatto, è stato poi chiarito da Achenbach in Lebenskönnerschaft15, ma era stato da questi sempre sostenuto rigettando ogni riferimento a specifiche “tradizioni filosofiche” o a singoli filosofi ispiratori16. E proprio la cornice teorica “forte” di Witzany è stata a lungo obiettivo critico di Achenbach, il quale, recensendo il libro del collega Philosophieren in einer bedrohten Welt, sottolineava il gran numero di affermazioni di conio terapeutico che questi finiva fatalmente per usare nel descrivere lo stato della cultura contemporanea e ne concludeva affermando che «Witzany fa un errore: ha la bocca troppo piena»17, che – come osserva Zdrenka – è come dire che «Witzany sa troppo»18, accusa capitale per chi pratica una professione di ricerca, aperta verso le differenze, di stampo socratico19. 14

Ibid. Gerd Achenbach, Lebenskönnerschaft, Freiburg-Basel-Wien: Herder 2001, tr. it. Saper vivere, Milano: Apogeo 2006. 16 Tutto questo senza che Achenbach abbia mai nascosto né la propria formazione hegeliana, né l’altrettanto personale predilezione per figure come Nietzsche, Socrate, Schopenhauer o il Kant dell’Antropologia pragmatica. 17 Gerd Achenbach, “Philosophische praxis?” Eine kritische Vorfuhrung des Buches von Günther Witzany, Philosophieren in einer bedrohten Welt, in «Agora», heft 7, oktober 1989, p. 7. 18 Michael Zdrenka, Konzeptionen und Probleme der Philosophischen Praxis, cit., p. 55. 19 Vale la pena di osservare che il socratismo latente che attraversa la tradizione consu15

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Devo personalmente dichiarare un forte debito nei confronti di questa polemica, anche perché, inizialmente, ero stato molto attratto dall’approccio di Witzany e solo dopo aver meditato gli snodi della critica di Achenbach e le sue successive, illuminanti pagine in Lebenskönnerschaft, sono riuscito a comprendere quali fossero i capisaldi della Philosophische Praxis e perché fosse indispensabile praticarla senza specifiche assunzioni filosofiche privilegiate tratte dalla tradizione. In Lebenskönnerschaft Achenbach chiarisce infatti la “capacità di saper vivere” – forma di “saggezza filosofica” che è necessario mettere in gioco nella consulenza – sostenendo che “è capace di saper vivere” non già chi si “adegua al giusto”, né chi «adegua il giusto – sia esso una massima, un principio o un comandamento della decenza – alla circostanza particolare», bensì «chi possiede la “flessibilità” di modificare, ed eventualmente anche di “trovare”, le proprie massime, convinzioni e idee di ciò che è giusto, buono e doveroso, a seconda di come sono le circostanze»20. Per avere una tale “flessibilità” le suggestioni tratte da quanto elaborato dai filosofi del passato possono certo avere qualche importanza e utilità, ma devono essere accolte con la sospensione del dubbio, con il costante scetticismo del socratico “non sapere”: assumerle a griglia interpretativa o a fondamento del vero, del giusto e del bene – come fa Witzany – vanifica la ricerca e la trasforma in una lotta per l’affermazione di una dottrina, in una tradizionale attività educativa (nella quale l’educatore sa già qual è la cosa giusta e la insegna a chi la ignora), talvolta perfino in un’opera di “guarigione” dal male e dall’errore. Tutte cose, queste, proprie da sempre della “filosofia della pretesa”, la vecchia filosofia praticata da pochi eletti e poi elargita (spesso anche coercitivamente) a tutti gli altri, ai “non filosofi”21. Ma allora, di nuovo, se i saperi filosofici non possono essere assunti né come schemi, né come fondamenti, in qual modo la consulenza può accoglierli?

lenziale non è una scelta di campo per un filosofo, bensì un assunto metodologico valido per la filosofia in quanto ricerca – la critica radicale verso qualunque dottrina, inclusa quella che si sia temporaneamente presa per buona – e per questo compatibile con ogni tradizione filosofica. Su questo fondamentale tema cfr. Neri Pollastri, Il pensiero e la vita, cit., pp. 151 e sg. 20 Gerd Achenbach, Saper vivere, cit., p. 46. 21 Giova sottolineare di nuovo come Witzany, non a caso, parli sia di progetto educativo, sia di crollo di valori, oltre che far uso di una terminologia terapeutica – conseguenze di quel “sapere troppo” stigmatizzato da Achenbach che, se lecito e meritorio come singolo cittadino, diviene dannoso quando trasferito nella concezione della consulenza.

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5. Un primo esempio Un primo esempio di come si possano recuperare momenti della storia della filosofia nell’agire pratico filosofico lo si può trarre dallo stesso Achenbach. Il quale, com’è noto, è piuttosto restio a “mostrare” il suo concreto modo di lavorare (cosa per la quale è stato anche troppo criticato nel movimento internazionale22), ma che ciononostante ha offerto alcuni esempi nel corso di convegni internazionali e ha messo a disposizione registrazioni audio dei suoi seminari di gruppo. Se nelle dimostrazioni pratiche la presenza della letteratura e dei riferimenti storico-filosofici è stata, a mia conoscenza, pressoché assente23, ho avuto la possibilità di apprezzare il modo in cui egli impiegò nientemeno che la Filosofia del diritto di Hegel in un “seminario del venerdì” dedicato al concetto di “matrimonio”. Riassumendo molto brevemente, egli espose schematicamente il modo in cui Hegel inquadra il matrimonio all’interno della sua concezione del sistema giuridico, indicandone – anche un po’ provocatoriamente – gli addentellati filosofici con i concetti di proprietà, di famiglia e di trasmissione della proprietà all’interno di un sistema sociale organizzato attorno al microcosmo familiare. Al termine dell’introduzione storico-filosofica, egli aprì il confronto dialogico chiedendo ai presenti quanto si riconoscessero in un concetto di matrimonio di quel genere, quesito che provocò ovviamente numerose reazioni critiche di vario genere: nulla appare infatti più lontano dall’idea oggi popolare di matrimonio come coronamento di legami sentimentali ritenuti solitamente del tutto non inquinati da questioni d’interesse e da coazioni latenti a esse legate. Ma proprio la presenza tangibile di una costruzione rigida e rigorosamente strutturata come quella hegeliana mise i dialoganti di fronte alle loro lacune e li costrinse a prendere atto del fatto che almeno parte delle “sgradite” considerazioni di Hegel trovavano di fatto posto anche nel loro concetto di matrimonio e che, pertanto, questo doveva destrutturarsi e ricomporsi per tener conto di quei

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Una tale critica, a mio parere, è dovuta da un lato al fraintendimento del suo approccio intimamente socratico (egli vuol far arrivare anche i consulenti a capire da soli, non “imboccarli” mostrando loro tutti i passi da fare come fa il Socrate platonico con lo schiavo del Menone), dall’altro a una ingenua necessità dei novizi di “vedere come si fa”, invece che capirlo. Ma qui si aprirebbe un capitolo che non è questa la sede per affrontare. 23 Alla X International Conference on Philosophical Practice di Leusden, nel 2010, ho avuto modo di assistere a una consulenza di Achenbach con un giovane docente di filosofia, che gli ha posto un quesito piuttosto preciso, discusso in modo cooperativo dai presenti, sotto la “regia” di Achenbach stesso e “dissolto” nel corso di poco meno di due ore: in quel caso il lavoro fu essenzialmente logico-argomentativo e i riferimenti teoretici a pensatori e scuole rimase meramente implicito.

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fattori che il filosofo di Jena aveva (a suo modo e certo oggi in forma non completamente accettabile da nessuno) messo in luce e organizzato in una concezione di portata ben più ampia di quanto non avessero fatto i presenti. Pur nel sommario riassunto, si vede bene che tipo di utilizzo della letteratura filosofica aveva fatto Achenbach: un uso problematizzante, finalizzato alla critica di quanto ciascuno dei dialoganti pensava, in modo “non esaminato”, di una cosa – il matrimonio – che di fatto viveva nella propria esperienza in modo immediato, non filosofico. La letteratura filosofica, qui, non era proposta né come “consiglio”, né come “suggestione positiva”, né come contenuto da assumere come valido in virtù della sua (presunta) autorevolezza, bensì – tutto al contrario – come un esempio di rigore con cui confrontarsi criticamente dal punto di vista del contenuto e da cui apprendere dal punto di vista della forma, non del contenuto24. Un esempio attraverso il quale imparare a filosofare.

6. I rischi di autoritarismo L’esempio tratto da Achenbach, confrontato con l’approccio troppo filosoficamente fondato di Witzany, aiuta a evidenziare un ulteriore pericolo in cui si rischia di incorrere facendo riferimento a dottrine filosofiche: quello dell’autoritarismo. La parola scritta, si sa, ha sempre un potere di suggestione molto forte, forse a causa di una tradizione – quella cristiana nella quale è immerso l’Occidente – che proprio in un Libro ha la fonte di autorità a cui riferirsi. La cultura filosofica stessa, poi, nel corso dei secoli ha assunto nei confronti delle pietre miliari del proprio repertorio, i cosiddetti “classici”, una reverenza eccessiva se misurata alla luce del principio metodologico che ne guidava la produzione e agiva da motore del suo stesso sviluppo – la critica, il dubbio, la costante messa in discussione dei risultati fin lì ottenuti. È innegabile, infatti, che ogni filosofo costruisca la propria originalità sulla critica, spesso distruttiva, di parti essenziali del pensiero dei suoi stessi maestri. Se a questo si aggiungono da un lato il potere che le parole autorevoli di grandi protagonisti della storia dell’umanità possono avere su chi, come la maggior parte dei consultanti, non sia o non si senta all’altezza di confrontarsi criticamente con essi, dall’altro la oggi pervasiva tendenza ad affidare le proprie opinioni alle parole di guru, leader e opinion-maker, ecco che si comprende fino a che punto l’autorevolezza di quanto tratto da personalità della storia della filosofia sia costantemente a rischio di trasformarsi 24

Tralascio qui l’annosa questione del rapporto che in filosofia lega forma e contenuto.

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in autorità e minacci quella libertà di pensiero che costituisce uno degli aspetti più importanti dello spazio filosofico-consulenziale. Questo rischio fu messo in luce fin dai primi studi condotti in Italia sulla consulenza filosofica25, ma negli ultimi anni pare essere stato perso di vista, forse a causa dell’approdo della disciplina presso le università, che hanno riconferito alla letteratura il valore sacrale che troppo spesso le danno, sovente a discapito anche dell’originalità della ricerca. Da questo punto di vista, giova ricordare che proprio il corretto riproporzionamento dell’importanza della parola scritta e la conseguente rivalutazione del pensiero dell’esperienza sono elementi chiave di quella “sfida” che – secondo Achenbach, ma anche secondo gran parte di coloro che la coltivano seguendo le sue tracce – la Philosophische Praxis pone alla filosofia accademica con la prospettiva di darle nuova linfa26. Personalmente ritengo che la pratica filosofica meriti senz’altro di approdare all’insegnamento universitario, proprio perché la libertà dagli eccessivi vincoli ai riferimenti bibliografici e alla conoscenza idealmente esaustiva di fonti primarie e secondarie che essa favorisce potrebbe permettere agli studenti di liberare anche la propria creatività, quella di cui oggi molti lamentano la mancanza e che fa sì che i novelli filosofi siano in grado perlopiù di realizzare solo note a margine dei sacri classici. Ma se quest’ultimo è un problema sociale che riguarda la filosofia27, l’autoritarismo dei testi in consulenza (e, più in generale, nelle pratiche filosofiche) riguarda invece proprio la sostanza stessa dell’attività, trascurare il quale ne mette a repentaglio l’identità e finanche la possibilità di una sua reale effettualità.

7. Libertà versus “normalità” Il tema della libertà è particolarmente importante, perché rimanda a quel tratto originario e originale della consulenza sul quale Achenbach fece 25

Fu, ad esempio, la cosa maggiormente segnalata da un gruppo di lavoro che – nel 2001 e all’interno della prima associazione italiana, l’A.I.C.F. – si occupò dell’uso della letteratura in consulenza. 26 Basti qui ricordare l’importante e forse trascurato articolo che Achenbach volle porre a conclusione dell’edizione italiana della sua prima raccolta di saggi: L’attività della filosofia e la consulenza filosofica. Il blocco della scrittura e il suo superamento (in La consulenza filosofica, cit., pp. 133 e sg.), nel quale egli mostra la sua stessa esperienza del superamento del pregiudizio accademico per il quale sarebbe indispensabile conoscere tutta la letteratura secondaria su un tema o un autore prima di poter mai scrivere una riga in proposito. 27 Quello stesso, peraltro, che sta a cuore a filosofi non a caso vicini al mondo della consulenza, come Galimberti o Rovatti.

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leva fin dall’inizio per differenziarla dalle psicoterapie: la sua capacità di meglio corrispondere alle specificità di ciascun ospite, diversamente dagli approcci psicologici che, basati sulle teorie delle scienze dell’uomo, finiscono inevitabilmente per ricondurre all’astratta universalità delle leggi gli individui, trascurandone l’irriducibile particolarità. Aldilà delle critiche cui possono incorrere affermazioni generali come questa o altre espresse da Achenbach (e non solo) nei confronti delle attività pricoterapeutiche28, resta il fatto che gli approcci psicologici e terapeutici fanno affidamento su un concetto, se non sempre di “salute”, quantomeno di “normalità”, derivato da più o meno precise concezioni antropologiche e della struttura psichica dell’essere umano, uscire dal cui perimetro è impensabile – cosicché il compito del professionista consiste proprio nel ricondurvi il “paziente”. Un’assenza di libertà, quindi, alla quale la mia personale esperienza ha mostrato accompagnarsi spesso anche una corrispondente carenza di responsabilizzazione29, che è ben lungi da quel che avviene in consulenza, ove anche i pensieri più bizzari, i comportamenti più bislacchi e i principi più immorali vengono presi sul serio, messi alla prova, studiati logicamente ed ermeneuticamente30. Ma, proprio per questo, un approccio che faccia riferimento a costrutti dottrinari tratti dei repertori filosofici corre il richio di perdere per strada la libertà che caratterizza la consulenza, virando pericolosamente verso le psicoterapie, il moralismo e l’educazione, in modo simile a quanto abbiamo visto accadere a Witzany. È un rischio che corrono in primo luogo tutti coloro che abbiano la tentazione di leggere la realtà – e soprattutto la realtà umana – seguendo più o meno unicamente la concezione di un filosofo, o di una scuola filosofica: sì facendo, essi finiranno fatalmente nel migliore dei casi per interpretare le parole e i comportamenti dell’ospite secondo i propri, limitati criteri, invece di esplorare assieme a esso il suo universo di pensiero e di offrirgli molteplici possibilità di rielaborarlo, in casi peggiori 28 Ma, si badi, Achenbach ha molto rispetto per chi opera con approcci terapeutici, al punto da consigliare ai colleghi di prestare molta attenzione alla possibilità che i propri consultanti possano trarre maggiore vantaggio da un lavoro terapeutico piuttosto che da un ciclo di consulenze e, perciò, di avere un’agenda di professionisti da consigliar loro in tal caso. Lo stesso vale per il sottoscritto, che da due anni lavora in un centro di salute mentale cooperando con psichiatri, psicologi e psicoanalisti. 29 Sul perverso legame di patologizzazione e deresposabilizzazione cfr. le illuminanti pagine di Frank Furedi, Il nuovo conformismo, Milano: Feltrinelli 2005 (ed. or. Therapy Culture, London: Routledge 2004). 30 Nella mia attività presso il centro di salute mentale ho avuto modo di affrontare, con qualche almeno parziale risultato, persino la sfida di comprendere la logica di pazienti diagnosticati dai medici come psicotici.

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per formulare (esplicitamente o implicitamente) giudizi e persino forme di diagnosi, trasformando il lavoro consulenziale, ispirato alla ricerca, in un lavoro di rieducazione31.

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8. Questioni di antropologia L’ultima questione ci porta a toccare un tema importante, che qui sarà appena accennato: quello dell’antropologia – la concezione dell’uomo – della consulenza filosofica. Da quanto fin qui osservato segue necessariamente che un consulente filosofico, nella propria idea della professione, non può assumere una determinata concezione antropologica, pena il vincolare la libertà di pensiero sua e dei propri ospiti. Egli potrà certo portare nel dialogo la propria concezione antropologica (così come ogni altro aspetto della sua propria visione del mondo), ma potrà farlo solo per metterla in gioco, non considerandola cioè fondamento della pratica. Tra i pochi, anzi minimali elementi antropologici che pare lecito considerare fondanti della consulenza – così come della filosofia tout court – c’è il fatto che l’uomo è anche – sebbene non solo – un essere sia pensante, sia capace di riflettere sul suo stesso pensiero, e che questo suo aspetto “razionale” influenza – né può essere scisso da – tutti gli altri aspetti della sua generale costituzione, come quelli emozionali o fisico-corporei. Ma come i diversi aspetti dell’unità-uomo stiano assieme e, soprattutto, come siano organizzati in questo singolo individuo, non è cosa che può essere pre-giudicata da una specifica antropologia che la prassi consulenziale possa assumere – come invece avviene in ambito psicologico, ove c’è una (almeno pretesa) selezione “scientifica” di “strutture” psichiche e antropologiche che sovraintendono le strategie terapeutiche. Coerentemente al suo carattere di ricerca filosoficamente aperta, la consulenza filosofica deve invece scoprirlo, approfondirlo e perfezionandolo strada facendo, nel corso del suo stesso operare.

31 Va da se che questo rischio è maggiore per chi abbia interpretato il suo ruolo sociale di filosofo esclusivamente come “insegnante”. La differenza tra tale ruolo e quello più proprio del filosofo è stata analizzata da molti filosofi consulenti; tra questi, cfr. Marc Sautet, Socrate al caffè, Milano: Ponte alle Grazie 1997 (ed. or. Un café pour Socrate, Paris: Laffont 1995).

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9. Come usare e come non usare la tradizione filosofica in consulenza

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Nonostante le considerazioni fatte finora, non sarebbe però sensato sostenere che la letteratura filosofica debba restare del tutto fuori dalla consulenza. D’altronde, abbiamo già osservato come lo stesso Achenbach consideri la conoscenza della storia della filosofia un elemento essenziale della formazione di un filosofo consulente, così come abbiamo visto un suo esempio di legittimo impiego di un testo filosofico in un seminario di pratica. Proviamo allora a vedere quali forme di impiego della tradizione siano possibili, cercando anche di valutarne meglio i rischi e indicare le possibili cautele.

9.1. Usi indiretti: la palestra del pensiero Il primo modo in cui la letteratura filosofica può – anzi deve – rientrare nella pratica e nella consulenza filosofica è sotto forma di addestramento dei consulenti. L’elemento più rilevante della loro professionalità è infatti costituito dalla capacità di muoversi con abilità e competenza all’interno dei sistemi concettuali, delle visioni del mondo, e perché ciò sia possibile è indispensabile non solo che essi abbiano imparato a farlo studiando nel loro percorso universitario, ma anche che continuino a perfezionarsi leggendo e impegnandosi nella ricerca filosofica cosiddetta “astratta”32. Ho chiamato quest’uso “palestra del pensiero”33, per sottolineare in modo emblematicamente metaforico che «per capire il pensiero [è] indispensabile studiare le concezioni del mondo dei filosofi. All’interno di ciascuna delle quali troveremo – come esempi in atto – ragionamenti coerenti, acute riflessioni, brillanti intuizioni tra loro connesse»34. Ma questo non già – e certo non principalmente – per trovare risposte date da altri alle nostre stesse domande, quanto piuttosto per conoscere il modo in cui alcuni illustri maestri del pensiero abbiano trovato le loro risposte e per apprendere da essi i molti possibili modi per trovare le nostre. Di conseguenza, la frequentazione della letteratura a 32

Pare poco sensata la purtroppo diffusa polemica che pone la ricerca astratta per se stessa in contrapposizione alla pratica filosofica: in realtà, come già osservato, la struttura è la medesima e consiste nel filosofare; diversi sono, è vero, il rapporto, più stretto, con i problemi che originano la riflessione, il linguaggio in genere meno specialistico, e gli interlocutori, perlopiù non filosofi. 33 Cfr. il mio Sull’utilità e il danno della filosofia per la vita, in Neri Pollastri e Davide Miccione, L’uomo è ciò che pensa. Sull’avvenire della pratica filosofica, Trapani: Di Girolamo 2008, p. 18. 34 Ivi, p. 19.

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scopo di addestramento al filosofare è qualcosa che il filosofo consulente deve fare utilizzando il più alto numero possibile di “attrezzi” – cioè studiando ogni possibile ambito della tradizione filosofica – senza specializzarsi su nessuno e senza considerarne alcuno come prioritario o essenziale – e perciò praticandoli in modo “gratuito”, del tutto scevro dell’intenzione di “farne uso” nel dialogo consulenziale.

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9.2. Usi indiretti: possibili orizzonti strutturali Un altro uso “indiretto” delle suggestioni offerte dalla tradizione è quello possibile acquisendo alcune strutture di pensiero quale scenari orientativi per il proprio modo di lavorare in consulenza. Quest’uso, tuttavia, è particolarmente delicato, perché sempre a rischio di diventare esclusivo. Per esempio, è ben possibile attingere alla tradizione fenomenologica, a quella ermeneutica o a quella dialettica per immaginare il canovaccio da seguire nel dialogo consulenziale. Lo stesso Achenbach fa qualcosa del genere, quando – attingendo alla dialettica fenomenologica hegeliana – afferma: nella consulenza filosofica mi interessa innanzitutto e decisamente prendere ciò che viene esposto come “la cosa stessa” e questo si dimostra di norma un atteggiamento fruttuoso: presa cosi, la “cosa stessa” si mostra contraddittoria e comincia a muoversi e a svilupparsi ulteriormente. La “cosa” diviene “dialettica”35.

Altrettanto hanno fatto altri, tra cui io stesso, riferendosi al modo socratico di filosofare, incentrato sul “disconoscimento della conoscenza”, sull’esplorazione critica condivisa e sull’investimento di responsabilità intellettuale dei dialoganti36. Ma queste assunzioni hanno valore solo a condizione che siano o compatibili con modelli di pensiero di altri pensatori (come nel caso del modo socratico, in realtà presente nel filosofare come processo di ricerca argomentativa, come dimostra una anche sommaria analisi del pensiero dei più importanti filosofi della storia37), oppure solo alcuni dei molti modelli di pensiero facenti parte del ben più ampio bagaglio di riferimenti di volta in volta utilizzabili per immaginare il proprio agire consulenziale. Quest’ultimo caso è esemplificato dalla suggestione tratta dalla Filosofia dello spirito di Hegel

35 36 37

Gerd Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 21. Cfr. Neri Pollastri, Il pensiero e la vita, cit., pp. 151 e sg. In proposito cfr. ivi, pp. 180 e sg.

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che ho offerto in un articolo di alcuni anni orsono38: il modo in cui Hegel organizza filosoficamente i tratti caratterizzanti lo “spirito soggettivo” fino a costruire ciò che oggi potremmo chiamare una “filosofia della psicologia” è infatti solo uno dei molti possibili scenari che si possono avere presenti, a scopo orientativo, per affrontare un dialogo consulenziale e in nessun modo può essere assunto come una “antropologia” conchiusa e definitiva – cosa che, come già osservato, porterebbe a ricadere in un modello psicologico.

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9.3 Usi diretti: cautele Oltre al riferimento indiretto a scopo di addestramento continuo che abbiamo appena indicato, vi è anche la possibilità di usi diretti di suggestioni tratte dalla letteratura filosofica nel dialogo consulenziale. Sarebbe peraltro assai irrealistico pensare quest’ultimo come una situazione argomentativa nella quale i partecipanti – e, nella fattispecie, soprattutto il filosofo – “dimentichino” affatto tutto ciò che hanno letto e studiato, creando ex nihilo ogni forma e ogni contenuto che concorrano a comporlo. Tutto ciò che, in quanto esseri simbolici, siamo in grado di pensare e dire è infatti alla fin fine sempre (ap)preso da altri: a noi spetta solo “la responsabilità del miscuglio”39. Ma, proprio per questo e – soprattutto – alla luce del fatto che nel lavoro consulenziale la responsabilità delle scelte deve sempre restare nelle mani dell’ospite (che in genere ha minore capacità critica del filosofo), è della massima importanza non far mai riferimento a un solo contributo, ma offrirne possibilmente una rosa o, comunque, sottoporre a critica in vivo anche quei riferimenti che si considerino personalmente preferibili40. Ho provato a illustrare il modo in cui si può far uso del patrimonio della tradizione filosofica in consulenza, senza però ricadere nell’assertività totalitaria della “filosofia della pretesa”, prendendo a modello il modo in cui i

38

Neri Pollastri, From Hegel to Improvisation. On the Method Issue in Philosophical Consultation, in José Barrientos Rastrojo (ed.), Entre Historia y Orientaciòn Filosofica, II vol., Sevilla: Asociación de Estudios Humanísticos y Filosofía Práctica X-XI, 2006 (l’articolo fu scritto per la raccolta e non ne esiste una versione italiana). 39 Cfr. Neri Pollastri, Sull’utilità e il danno della filosofia per la vita, cit., p. 19. 40 Una delle cose che mi capita spesso di fare in consulenza è dire all’ospite: “bene, a me sembra che questo pensiero, o questo argomento, siano conformi alla situazione che stiamo analizzando, e ho anche alcuni appigli “scientifici” per pensarlo; tuttavia, questa non è l’unica possibilità di vedere la cosa: potrei immaginare anche questa e quest’altra variante. Tu cosa ne pensi? Metti alla prova della tua esperienza la cosa che abbiamo ipotizzato e poi riparliamone”.

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musicisti dediti all’improvvisazione fanno uso della tradizione musicale nelle loro performances41. Riassumendo assai brevemente tale proposta, è possibile dire che, per improvvisare, un musicista necessita di aver assimilato molta competenza quanto a conoscenza di teoria musicale, tecniche esecutive e prodotti realizzati dai suoi colleghi nel corso della storia – la stessa competenza che serve a un musicista classico che esegue spartiti scritti (da lui o da altri) – ma, oltre a questo, ha anche bisogno della capacità di mettere interamente da parte tutte queste sue conoscenze nel momento in cui sale sul palco e interagisce con altri musicisti (che talvolta neppure conosce), con il pubblico e con l’ambiente circostante perché, così come non sa da prima né cosa suonerà, né quali sollecitazioni gli verranno, neppure può sapere da prima quale delle sue molteplici competenze e conoscenze possa essere più adatta all’occasione42. E, si noti, l’improvvisatore che effettui questa sorta di “epoché musicale” solo superficialmente e perciò corra troppo in fretta a recuperare i suoi stilemi preferiti per utilizzarli come sempre nella nuova situazione che incontra, forse se la caverà, ma assai difficilmente verrà riconosciuto come un bravo improvvisatore, perché – con un comportamento che potremmo per analogia chiamare “musica della pretesa” – avrà imposto quel che a lui sembra universalmente bello a una situazione che a quel bello non si adattava affatto, producendo solo piatta routine, musica “già sentita”, composizione (malamente) mascherata da improvvisazione. Mutatis mutandis, il filosofo consulente che si affidi sempre ai soliti e ben rodati modelli tratti dalla tradizione non sarà un buon consulente filosofico, non foss’altro perché con ciò negherà quella libertà che abbiamo visto essere lo stigma del dialogo consulenziale e pratico filosofico, perché avrà cercato di imporre il proprio pensiero all’ospite, mancandogli di rispetto, e perché – sì facendo – si sarà pericolosamente avvicinato a pratiche educative e/o psicoterapeutiche. E questo varrà sia nel caso che egli utilizzi costantemente le medesime strutture di pensiero, sia che faccia uso sempre degli stessi contenuti tratti da determinate tradizioni o autori. 41

Tra i numerosi articoli in cui ho presentato questa proposta cfr. Neri Pollastri, Consulente filosofico cercasi, Milano: Apogeo 2007, pp. 65 e sg., ma il riferimento va ai lavori che Davide Sparti ha dedicato al confronto tra musica jazz e prassi conversazionale, costruzione dell’identità e creazione di contesti sociali: Suoni inauditi. L’improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana, Bologna: Il Mulino 2005; Musica in nero. Il campo discorsivo del jazz, Torino: Bollati Boringhieri 2007; Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz, Bologna: Il Mulino 2007; L’identità incompiuta. Paradossi dell’improvvisazione musicale, Bologna: Il Mulino 2010. 42 Per l’idea della consulenza filosofica come “filosofia dell’occasione” cfr. Davide Miccione, Achenbach come educatore. Considerazioni inattuali sulla pratica filosofica, in Neri Pollastri e Davide Miccione, L’uomo è ciò che pensa. Sull’avvenire della pratica filosofica, cit., in particolare le pp. 97 e sg.

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9.4. Usi diretti: le suggestioni strutturali Fatte salve le cautele appena indicate, non c’è dubbio che possa capitare e sia tanto lecito, quanto utile in determinate circostanze avvalersi di alcuni modelli o metodiche messe a punto nella storia della filosofia per contribuire alla critica o alla riorganizzazione della visione del mondo (o parte di essa) dell’ospite. In questi casi avremo l’opportunità di far uso, all’interno del dialogo consulenziale, di elementi formali sviluppati nel corso della storia del pensiero al fine di rielaborare in forma nuova la struttura del pensiero dell’ospite, non necessariamente attingendo ai medesimi contenuti che venivano utilizzati dall’autore cui facciamo riferimento. È ciò che fa Achenbach nell’esempio che abbiamo citato in precedenza: egli propone il concetto di matrimonio di Hegel non già come alternativa a quello dei dialoganti, bensì come esempio di concetto ben fondato, in quanto connesso argomentativamente in modo coerente a un’ampia serie di concetti confinanti. In altre parole, ciò che viene messo in gioco non è il concetto di matrimonio di Hegel, bensì la struttura argomentativa con la quale questi lo giustifica: mostrando la minore cogenza delle strutture fondative degli ospiti, Achenbach gli invita, apprendendo da Hegel, a rafforzare le loro – ovvero gli induce a filosofare. Io stesso, sebbene solo raramente, ho operato in tal modo in consulenza: ne offro qualche esempio concreto più avanti. Del resto, perché escludere affatto la possibilità che determinati modelli possano realmente adattarsi al pensiero di colui che ci sta di fronte, anche quando questi – come nel mio caso – siano per l’appunto tra i nostri modelli preferiti? Ancora una volta, l’importante è da un lato proporli con la dovuta cautela e l’appropriato senso critico, per evitare quanto possibile che ciò si trasformi in una magistrale e autoritaria imposizione, dall’altro nell’evitare che ciò diventi una prassi routinaria favorita proprio dalla personale preferenza e abitudine a pensare quei modelli come gli unici giusti e veri. Personalmente, se mi ritrovassi continuamente a usare modelli hegeliani o filosofico-scientifici nell’attività consulenziale, inizierei a preoccuparmi del mio modo di lavorare, non meno di quanto mi preoccupo e resto perplesso di fronte a certi sedicenti consulenti filosofici che privilegiano in modo pressoché esclusivo determinati autori o scuole – in genere, i pensatori “esistenziali”, o figure come Nietzsche, Foucault, Wittgenstein – senz’altro autorevoli e importanti da avere a mente, ma ai quali non si riduce l’intera filosofia e che non possono essere i riferimenti unici o largamente prioritari di un consulente filosofico che voglia esser degno di questo nome.

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9.5. Usi diretti: le “ispirazioni” È possibile fare un analogo discorso riguardo agli impieghi delle suggestioni tratte dal contenuto delle opere della tradizione filosofica: può essere senz’altro importante e utile tener presente ciò che questo e quel filosofo hanno detto riguardo a un tema che ci si trovi ad affrontare con un ospite – il dolore, la morte, la sofferenza, la felicità, il bene sociale, ecc. – perché alcuni concetti, certi sguardi sul mondo, determinate concezioni hanno sicuramente la possibilità di essere usati come “mattoni” per la costruzione di nuove visioni del mondo dell’ospite. Anche qui, ovviamente, vanno usate cautele, perché un tal tipo di lavoro “ispirativo” può essere condotto in due modi diversi – critico o costruttivo – e, specie nel secondo caso, si corrono rischi che è opportuno non sottovalutare. Infatti, se l’impiego critico ha la funzione – tipica della filosofia – di scuotere certezze acquisite confrontandole con alternative fin lì non considerate e mettendole con ciò alla prova in vista di una loro riorganizzazione e giustificazione filosofica (come in parte avveniva nell’esempio del seminario di Achenbach), l’impiego costruttivo è sempre a rischio di trasformarsi in consiglio – una cosa che tutti i consulenti filosofici del mondo, a prescindere dalle loro specifiche concezioni, ritengono alieno alla pratica – piuttosto che favorire il procedere di un pensiero autonomo, ovvero promuovere il filosofare. Per questo è preferibile o non offrire suggestioni tratte dalla letteratura, o comunque non farlo in forma singolare ed esclusiva, proponendo una rosa di possibili “mattoni” per la costruzione dei nuovi edifici concettuali dell’ospite, meglio se – come già osservato – tratti da ambiti che non facciano parte del proprio e ristretto territorio filosofico preferito. Si tratta di una cautela non facile da attuare, ma che può essere facilitata dalla costante pratica della letteratura filosofica, ovvero dall’ampliamento delle conoscenze del consulente, assieme all’abbandono di quel cancro della filosofia contemporanea che è la specializzazione43.

43 La specializzazione è in stridente contrasto con il concetto stesso della filosofia, “scienza delle scienze” e perciò – per dirla con Achenbach – “specialista del non speciale”; essa è causa della chiusura di ciascun filosofo negli angusti spazi del proprio settore disciplinare – l’etica o la filosofia della scienza, l’ontologia o la storia della filosofia, l’ermeneutica o la filosofia del linguaggio – con la fatale perdita di quella visione d’insieme sistematica che, per secoli, è stata proprio lo stigma della filosofia.

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9.6. Due esempi critici Per esemplificare in breve la dialettica tra i pro e i contro dell’uso diretto dei riferimenti alla tradizione filosofica, farò riferimento qui a due lavori emblematici, uno in negativo, l’altro in positivo. Il primo è un bel romanzo del quale consiglio la lettura non solo a chi si interessi di consulenza filosofica: La cura Schopenahuer di Irwin Yalom44, noto psicoterapeuta statunitense ma anche autore di opere letterarie. Nel libro l’autore mette in scena una vicenda con protagonista un consulente filosofico che pretende di svolgere il proprio lavoro basandosi esclusivamente sul pensiero del filosofo tedesco, una visione del mondo che gli avrebbe permesso prima di liberarsi dai suoi personali problemi esistenziali, poi di condurre efficacemente l’attività professionale. Nella finzione il consulente filosofico è senza dubbio assai schematizzato, ma Yalom mostra di avere almeno una qualche idea di cosa sia una tale figura professionale (cosa testimoniata da una bibliografia che include alcuni dei volumi più interessanti in lingua inglese presenti all’epoca della stesura del libro), cosicché alla fine il personaggio risulta, come consulente filosofico, un po’ forzato, ma comunque plausibile. Il romanzo non mette in scena il modo in cui il protagonista agisce nella pratica con i consultanti, ma illustra assai bene quali siano i limiti che l’autoapplicazione di un approccio schopenhaueriano produce su di lui: un mascheramento delle sue problematiche, che se da un lato gli evita la manifestazione acuta del malessere, dall’altro lo porta sia a una mancanza di consapevolezza del proprio più articolato modo di essere, sia all’amputazione di un ampia sfera delle proprie esperienze esistenziali, in primo luogo di quelle relazionali. Nel romanzo lo psicoterapeuta – che in passato non era stato in grado di aiutare il sedicente consulente – intuisce i limiti di una vita vissuta “applicando” a se stesso modelli filosofici altrui e opera per far emergere il problema e a far uscire il protagonista dal proprio angusto recinto45. Con tutti i limiti di un’opera di narrativa, che non era neppure nelle intenzioni una critica analitica a un certo modo di svolgere la consulenza, questo romanzo può dare un’idea tangibile dei rischi che si corrono a chiudersi dentro un orizzonte filosofico unico ed esclusivo. 44

Vicenza: Neri Pozza 2005. Sul tema dell’angustia e contraddittorietà del pensiero di Schopehauer se realmente messo in pratica nell’esistenza si è cimentato anche Ran Lahav in Trascendere l’inconscio: sedute di consulenza filosofica con Arthur Schopenhauer, in Ran Lahav, Comprendere la vita, Apogeo, Milano, 2004. 45

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L’altro lavoro emblematico è La bottega del filosofo dell’olandese Paul Wouters46, testo divulgativo di un filosofo vicino, ma non interno, al movimento delle pratiche filosofiche. Il libro isola, estraendoli dalla storia del pensiero filosofico, alcuni “strumenti del pensare” – denominati metaforicamene ciascuno con il nome di uno strumento di carpenteria – e ne mostra l’uso per affrontare questioni proprie del mondo del lavoro, quali ad esempio “come posso ottenere un maggiore coinvolgimento sociale all’interno di un’azienda?”47 o “come posso gettare un ponte tra la mia direzione e i miei collaboratori”48. Degno d’interesse è qui che ogni “strumento” abbia il suo impiego più adeguato in alcune tematiche e che nessuno sia ritenuto universalmente valido: la “leva” dialettica è utile in certe circostanze, la “mano nuda” fenomenologica in altre, il “trapano” dell’ermeneutica in altre ancora; pretendere di far uso di un solo “strumento” in tutte le circostanze sarebbe vano, se non controproducente, e farebbe perdere gran parte della ricchezza della filosofia. Anche in questo caso, pur nella semplificazione delle metodiche illustrate, emerge bene un principio cardine delle pratiche filosofiche: che il riferimento alla tradizione filosofica non può limitarsi a una sua parte, bensì deve abbracciarla idealmente tutta e tenerla interamente a disposizione, per scegliere all’occasione quella più opportuna – conformemente sia all’idea achenbachiana di una capacità di saper vivere che non fa riferimento ad alcuna saggezza dottrinaria, ma reinventa le sue forme momento per momento, sia al “metodo” dell’improvvisazione che ricordavamo in precedenza.

9.7. Esempi dalla pratica Il complesso tema che stiamo esaminando richiederebbe senz’altro molte altre considerazioni e distinguo, ma gli spazi a disposizione spingono verso una conclusione, che è opportuno avvenga con alcuni esempi tratti dalla pratica professionale. Come già accennato, personalmente uso solo sporadicamente riferimenti alla tradizione filosofica, privilegiando un lavoro di analisi, riflessione e rielaborazione nel quale essa rimane implicita e agisce perlopiù indirettamente, attraverso la mia costante frequentazione di filosofi e tematiche sviluppate nella storia della filosofia – per riprendere la metafora 46 47 48

Roma: Carocci 2001 (ed. or. Denkgereedschap. Een filosofische onderhoundsbeurt, 1999). Ivi, p. 36. Ivi, p. 54.

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utilizzata in precedenza, attraverso un’attitudine filosofica che mantengo viva “allenandomi” costantemente nella “palestra del pensiero”. Anche questo atteggiamento è conforme alla tradizione consulenziale inaugurata da Achenbach, il quale come noto afferma che «la forma concreta della filosofia è il filosofo e questi, in quanto istituzione della filosofia in un singolo caso, è la consulenza filosofica»49 – e il filosofo è tale non già perché citi altri filosofi, ma perché è capace di produrre argomentazioni rigorose, ovvero perché filosofa. Nonostante questo mio modo di lavorare, non sono mancate occasioni in cui ho fatto un più diretto ed esplicito riferimento a specifici momenti della tradizione e della letteratura filosofica. Ne indicherò alcune a mo’ di esempi.

10. Gödel come antidoto al bisogno di certezza Il primo esempio potrà forse sorprendere chi pensi, piuttosto ingenuamente, che la consulenza filosofica non possa che attingere ai pensatori “esistenziali”, cioè a quella corrente (che attraversa trasversalmente la storia del pensiero) dedita quasi esclusivamente a occuparsi di come si possa e debba vivere. Ma se lo presento per primo è proprio perché, in realtà, è uno dei repertori della storia del pensiero cui più frequentemente mi capita di ricorrere: si tratta di Kurt Gödel e dei suoi noti teoremi di incompletezza. Per ragioni di spazio e di opportunità non riassumerò qui i teoremi di Gödel, limitandomi a ricordare (in modo giocoforza un po’ esteriore) che essi dimostrano che in un sistema matematico coerente non è possibile essere certi né di tutte le sue proposizioni (ce n’è almeno una indecidibile), né della sua stessa coerenza (che è dimostrabile solo dall’esterno). In che modo presentare e discutere il teorema di Gödel sia stato opportuno nei miei dialoghi consulenziali è presto detto: mi è servito per problematizzare l’esigenza, piuttosto diffusa, di certezze assolute nella vita. Infatti, spiegare – anche a grandi linee – che perfino la matematica, solitamente considerata paradigma della certezza, si dimostra “matematicamente” incompleta, ovvero che neppure essa garantisce certezze assolute, è un eccellente avvio critico-scettico di un dialogo che abbia a tema di partenza la spasmodica ricerca di certezza: ne mostra – anzi, si può a buon diritto dire dimostra – infatti il carattere di infondata pretesa. E indirizza anche il lavoro su un piano filosofico, piuttosto che psicologico, in quanto fin dall’inizio prende in considerazione le ragioni che stanno alla base delle nostre esigenze, piuttosto 49

Gerd Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 29.

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che reificare stati emotivi – qual è l’insicurezza – per poi lavorare su essi, come è uso fare la psicoterapia. Tra le diverse occasioni in cui mi è capitato di fare diretto riferimento ai teoremi di Gödel ne ricordo anche una più particolare. Il consultante era un religioso la cui fede era scossa proprio dal fatto che egli da un lato sentiva una forte esigenza di certezza, di tipo “matematico”, dall’altro si rendeva conto che ciò confliggeva con una fede autentica, che a suo parere doveva essere libera dal “bisogno” di un’autorità – Dio – che facesse da garante di certezza alle proprie concezioni del mondo. La discussione attorno ai teoremi di Gödel – per converso sufficienti a mostrare l’affidabilità dei sistemi matematici anche in assenza di dimostrazioni di completezza50 – ci dette la possibilità di ipotizzare forme diverse di “fondazione” delle opinioni51, nonché di esplorare atteggiamenti nei confronti del mondo e della vita non basati su certezze assolute52. A distanza di tempo dai nostri tre colloqui e dal nostro scambio di email, un incontro fortuito mi confortò sugli esiti del percorso: il bisogno di certezze si era affievolito e, di conseguenza, erano venuti meno anche i dubbi sulla propria fede.

11. Il dono per capire i rapporti umani Un altro repertorio della tradizione filosofica a cui mi capita spesso di ricorrere nei colloqui consulenziali è quello che va sotto il nome di “paradigma del dono”. Si tratta di studi iniziati da Marcel Mauss con il celeberrimo Saggio sul dono53 e poi proseguiti dai suoi epigoni sotto le insegne del francese MAUSS – il Movimento Anti Utilitarista delle Scienze Sociali – che hanno avuto anche in Italia una forte risonanza negli ultimi vent’anni. Anche in questo caso, non riassumerò qui un campo di riflessioni piuttosto complesso e anche ben noto, ma mi limiterò a ricordare che esso si origina dalla stringente critica a uno dei luoghi comuni più diffusi e difficili da sradicare delle nostre culture: l’idea che l’uomo sia “per natura” non 50 Neppure Gödel credeva che i suoi teoremi distruggessero la certezza matematica, ma solo che il programma hilbertiano della sua prova fosse errato. 51 Tra queste proposi alla sua riflessione le dimostrazioni aristoteliche dell’ineludibilità di alcune “verità”, in primo luogo del principio di non contraddizione, la pragmatica trascendentale apeliana e una formalizzazione delle dimostrazioni apagogiche di un logico tedesco, Dieter Wandschneider. 52 Qui sottoposi alla sua riflessione il modo orientale, non teoretico e non “progettato”, di guardare il mondo e la Lebenskönnerschaft di Achenbach. 53 Milano: Einaudi 2002 (ed. or. Eassai sur le don, Paris: PUF 1950).

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solo individualista, ma anche essenzialmente mosso da meri interessi utilitari di tipo materiale, i quali spiegherebbero tutti i suoi comportamenti, le sue scelte, le sue azioni. Su questo luogo comune poggia il paradigma al quale la scuola del “dono” si oppone: quello economico. Gli illuminanti studi da essa condotti54 mostrano efficacemente, basandosi su dati concreti, come esistano importanti e quotidiani comportamenti umani che non sono spiegabili attraverso il paradigma economico e i suoi presunti “naturali” presupposti. L’esempio più eclatante è il potlach, un fenomeno presente in alcune culture arcaiche e studiato presso popolazioni canadesi, sorta di competizione a donare fino a spogliarsi di ogni avere e rimanere in totale assenza di beni, ma ottenendo proprio per questo il massimo riconoscimento onorifico da parte della comunità. Si tratta del caso più estremo, che potrebbe essere rubricato tra i curiosi fenomeni rituali delle culture arcaiche, se non fosse strutturalmente identico ad altri fenomeni, assai meno stravaganti, che vanno in gioco in ambito familiare e amicale, ma anche in spazi sociali più allargati. Studiando il fenomeno è possibile osservare che, diversamente da quanto avviene in ambito economico, negli scambi del dono: – non sempre c’è restituzione in senso mercantile, ovvero la circolazione di beni e merci spesso non è reciproca; – quando c’è, la restituzione è sovente maggiore del dono, come se i partner si divertissero a squilibrare il rapporto, a violare l’equivalenza mercantile dello scambio; – in tali casi la restituzione c’è solo se non richiesta (se il dono è gratuito); in questo senso, essa c’è sempre, ma in un’accezione più ampia della restituzione mercantile; – la restituzione spesso consiste nel dono stesso: «c’è una restituzione immediata di energia per colui che dona, il quale ne esce ingrandito»55. Chiosa Godbout: C’è qui qualcosa d’incomprensibile per lo spirito moderno. Come si può al tempo stesso volere un fine (ricevere) e servirsi normalmente di un mezzo per ottenerlo (donare) senza considerare nello stesso tempo che si tratta di un mezzo, dato che questa è la condizione per raggiungere il fine? La preposizione “per” assume qui un senso inconsueto. Viene colpita qui tutta la logica fine-mezzi, il fondamento della razionalità strumentale (Weber) e delle orga54 Oltre il già citato lavoro di Mauss giova ricordare almeno quelli di Jacques Godbout, su tutti Lo spirito del dono, Torino: Bollati Boringhieri 1993 (ed. or. L’esprit du don, Paris: La Decouverte 1992). 55 Jacques Godbout, Lo spirito del dono, cit., p. 123.

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nizzazioni moderne. Non sembra sia possibile applicare al dono il rapporto fine-mezzi, cioè un certo tipo di legame tra un’azione presente e un’azione futura, legame lineare che è alla base dell’anticipazione, del calcolo, di tutte le teorie dell’azione, della nozione stessa d’intenzionalità56.

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Il fatto è che, nel tentativo di cogliere il significato e il valore del dono, le tradizionali interpretazioni trascurano il valore di legame. Infatti il valore del dono, così come il suo senso, consiste proprio nel produrre legame: affettivo, amicale, sociale. E questo spiega anche le sue apparenti circolarità, in primis la necessità del suo dover essere solo implicito: Perché più c’è esplicitazione, più ci si avvicina al contratto, meno il gesto di ricambiare è libero. Meno rapporto ha nel rapporto. Naturalmente, si tratta qui del valore di legame, non del valore di scambio o del valore d’uso. (…) Il dono è al cuore dell’incertezza che caratterizza il legame sociale57.

Questa complessa struttura logica, che guida una forma d’agire tipica degli uomini e che di solito sfugge, la illustro in consulenza con quello che è uno dei suoi fenomeni più comuni: “il gioco del caffé”. Un gioco che conosciamo bene, perché lo pratichiamo tutti, chi più, chi meno, quando ci rechiamo al bar in una pausa delle nostre attività e instauriamo con i nostri colleghi, compagni, amici, conoscenti, il rituale di chi “paga per primo” e offre – cioè dona – il caffè agli altri. Sarà credo ben chiaro che si tratta di un gioco: una complicità che ha di mira mostrare la propria disponibilità, per non dire munificenza, e che mira proprio a creare quella stessa complicità e a gettarla oltre l’attimo, con un’implicita promessa di restituzione. Che può non avvenire (non è detto ci sia una seconda volta), oppure può essere di tutt’altro genere (ci si può “sdebitare”, ad esempio, con una telefonata di auguri), ma soprattutto non può essere “misurata”: chi infatti “calcolasse” se il gioco vale la possibile restituzione avrebbe già perso di vista il suo valore, che è di legame e non di scambio economico, annullando il dono. Il quale, però, verrebbe annullato anche da ripetuti doni unilaterali. Si immagini infatti una situazione in cui un conoscente, con assoluta regolarità, “perda” la competizione e si faccia pagare dieci, venti, trenta caffè: cosa penseremmo? Che non è “complice”, che sta sfruttando la nostra disponibilità, che non ha con noi alcun “legame” ma solo l’interesse economico di farsi pagare il caffè – che quindi non gli doneremmo più, allentando con ciò i nostri rapporti. 56 57

Ivi, pp. 127-8. Ivi, p. 236.

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Ricorrere in consulenza a questo contenuto teoretico della tradizione filosofica può essere di grande utilità per aprire scenari inauditi per tutti coloro che siano chiusi dentro una concezione individualistica delle relazioni e in una lettura puramente economicista materiale dell’uomo e della società. Non solo, può essere importantissimo per far comprendere l’importanza delle relazioni informali a chi tenda – spesso per educazione o a seguito di spiacevoli relazioni con persone che avevano sfruttato cinicamente la sua disponibilità – ad avere con gli altri solo rapporti “funzionali”. Il caso della mia esperienza professionale in cui questo tipo di riferimento alla tradizione ha avuto maggiori conseguenze è quello di una donna soggetta a mobbing nell’azienda ove lavorava. Seria, rigorosa, efficiente, poco disponibile a passare sotto silenzio (pur senza avere uno spirito sanzionatorio) le mancanze dei colleghi, essa era diventata il capro espiatorio delle altrui responsabilità semplicemente perché mancava quasi totalmente di legame con i compagni di lavoro. Quando mi resi conto della cosa, le chiesi perché non si prendesse il tempo per fare due chiacchiere, stringere rapporti, prendere il caffè con gli altri; “non mi interessa”, rispose, “io sono lì per lavorare, il resto non conta e i rapporti con gli altri li coltivo altrove”. Una breve indagine mise in luce che, in realtà, non esistevano ambiti in cui coltivasse davvero forme di legame con gli altri. Fu allora che le parlai del “gioco del caffè” e del paradigma del dono. Con l’effetto di illuminarle un ambito che ignorava. Non solo fece passi per recuperare ciò che aveva perduto, ma mi chiese una bibliografia e, dopo qualche tempo, chiarimenti e approfondimenti. Oggi quella donna svolge la professione di counselor.

12. “Improvvisar citando” in consulenza L’ultimo esempio che voglio qui offrire è un caso nel quale ho fatto uso di molteplici riferimenti, anche assai diversi tra loro, quando “all’occasione” mi parvero elementi potenzialmente utili al quadro che io e la consultante – che chiamerò Franca – stavamo realizzando. La problematica di partenza era “a bassa sofferenza”, non impediva cioè alla consultante di vivere una vita soddisfacente: essa tendeva a dimenticare (in particolare le parti nozionistiche di ciò che leggeva, fossero saggi o romanzi) e a smarrire (le cose, la strada, l’orientamento). Ciò si verificava con una certa frequenza e lei aveva imparato a conviverci, ma le limitava parti della vita. In passato aveva provato ad affrontare la cosa con uno psicoterapeuta, ma questi aveva ipotizzato un problema cerebrale e ciò l’aveva spinta a lasciar perdere.

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Analizzando in dettaglio il modo in cui si presentavano i suoi problemi, emerse subito che Franca in realtà leggeva le parti nozionistiche dei libri con interesse piuttosto limitato: l’attraevano il lato psicologico delle vicende, il sentimento, la relazione. Quest’ultima la interessava a tal punto che aveva qualche difficoltà a costruire un’immagine indipendente di se stessa, perché capace di pensarsi “solo nelle relazioni” e perciò sempre pronta ad adattarsi alla persona che le stava di fronte. Ciò le rendeva anche difficile vivere le relazioni di gruppo, nelle quali non poteva far valere il “contatto” immediato, ma era obbligata a mostrare la propria personalità in modo verbale e concettuale, cosa per lei meno agevole. Sosteneva infatti di non essere interessata alla teoria e di non averne perciò mai affinati gli strumenti. Tutto questo si rivelò subito importante per capire meglio le difficoltà nella lettura: Franca dimenticava i dati perché non riusciva a trovarvi l’orientamento, a costruirsi una quadro organizzato della storia che le permettesse di comprenderne il senso. Le parlai allora dello storicismo tedesco e di Dilthey, del modo di “comprendere” la storia attraverso le personalità di coloro che l’hanno “fatta”, cioè per mezzo di biografie piuttosto che dell’immagazzinamento di date e dati. Franca s’illuminò: era questo che desiderava, non ne sospettava l’esistenza e si mise subito a cercare libri di tal genere. In seguito passammo a osservare analogie strutturali tra il suo dimenticare, il suo smarrire e il suo disorientamento: concettualmente, i tre problemi rimandavano l’uno all’altro, per cui provammo a fare una prima sintesi, ipotizzando che Franca portasse con sé un nucleo di riflessioni teoriche che tendeva a trascurare e che fosse importante esplicitare. Lei confermò l’ipotesi, affermando che quando parlava con le persone che incontrava per lavoro tendeva decisamente a “fare teoria” – sebbene in forma disarticolata, che applicava “all’occasione”, adattando le proprie conoscenze e convinzioni, di volta in volta, all’individuo che le stava di fronte. Emerse anche che Franca aveva fatto studi nel campo della psicologia e delle scienze dell’uomo, di cui faceva uso nelle relazioni duali, ma che faticava a usare in situazioni allargate. Ipotizzai così che la sua fosse una sorta di conoscenza non sistematica, ma aforistica: stupendomi, essa affermò di aver raccolto, negli anni, migliaia di aforismi in appositi libretti, che non aveva mai fatto leggere a nessuno, ma che ogni tanto consultava. Provammo quindi a esplorare la linea di demarcazione tra la spontaneità immediata, legata alla sfera emozionale, e l’attenzione discorsiva alla razionalità; due atteggiamenti che convivono in ogni persona e perciò devono compenetrarsi, anche se in ciascuno di noi a proprio modo. Franca appariva maggiormente a suo agio sul piano emozionale, attraverso il quale prendeva contatto con le persone, sentendosi invece debole sull’altro. E

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proprio tale debolezza ci apparve connessa alla sua latente insicurezza, che Franca – ritenendosi a priori debole nell’elaborazione concettuale – manifestava ogni qual volta fosse necessario avere un piano, un progetto. Emergeva così una situazione curiosamente paradossale: Franca era particolarmente sicura quando doveva muoversi “momento per momento”, adattandosi alla situazione; diventava insicura quando doveva invece far affidamento su “strumenti” cognitivi. Di solito avviene esattamente l’opposto: si temono le situazioni nelle quali si è obbligati a rispondere solo con sé stessi e si è rassicurati quando in possesso di progetti, metodi, strumenti. Dato che vivere la vita “adattandosi” alle situazioni è ritenuto segno di saggezza, Franca appariva paradossalmente saggia e ciononostante insicura, sebbene in ambiti atipici: quelli nei quali è richiesto il possesso di metodi e conoscenze strutturate. Precisando un po’ le cose, capimmo che l’insicurezza di Franca emergeva di fronte al giudizio degli altri su di lei, al quale – pur sospinta da un forte impulso di libertà – non riusciva a reagire: “aderendo” all’altro, priva di una precisa e autonoma immagine di sé, era incapace di contrapporsi. Qui le offrii una riflessione sul pensiero cinese tratta da Jullien, il quale osserva come la posizione del saggio taoista sia debole nei confronti del potere, perché il “non assumere una posizione” lo costringe alla sudditanza58. La concezione di Franca, così simile all’“adeguarsi” orientale, sembrava avvicinarsi anche agli esiti di quella cultura: come il saggio di Jullien, anche lei non poneva la sua posizione e perciò non si contrap-poneva (non entrava in conflitto) all’altro, ma neppure gli si giustap-poneva (non era in grado di porre la propria posizione in giusta relazione), finendo per poter solo essere il “suo altro”. Ma in tal modo non riusciva prendersi il proprio giusto spazio: sbilanciata verso l’altro, soffriva il suo scostarsi, perché mancava di una propria autonoma identità. Per questo motivo si trovava bene solo in relazione duale: l’altro le era indispensabile per l’equilibrio identitario. Per non appiattirsi sulla linea della relazione avrebbe dovuto arretrare rispetto a essa, senza staccarsene, ma solo prendendo spazio e ampliando il proprio modo di essere e pensare. Si prefigurò così davanti ai nostri occhi il progetto di dare alla concezione del mondo di Franca – implicita, aforistica e simbolica59 – una struttura 58

Cfr. Francois Jullien, Il saggio è senza idee, Torino: Einaudi 2002 (ed. or. Un sage est sans idée, Paris: Edition de Seuil 1998). 59 A conferma della prossimità della concezione di Franca al pensiero orientale, scoprimmo che aveva uno spiccato interesse per i simboli, in particolare di origine orientale, che privilegiava rispetto ai concetti.

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concettuale: non troppo “rigida”, ma sufficientemente esplicita, coerente e completa da permetterle di conferire alle varie componenti l’ordine indispensabile per dar senso alle nozioni e ricordarle, per tener assieme sé stessa e i dati d’esperienza senza smarrire gli oggetti e l’orientamento, per costituire una più precisa personalità cui far affidamento nelle relazioni pubbliche e plurali. Franca iniziò così a modificare la propria concezione della conoscenza, che intendeva come “accumulo” e reinterpretò come una costruzione che procede per approssimazioni parziali e progressive. Per aprirle possibili scenari, le parlai della concezione della scienza di Popper e della ulteriore critica portata avanti da Kuhn e Feyerabend. Concretamente, nel suo caso la trasformazione passava da un diverso modo di leggere la letteratura (i grandi romanzi ottocenteschi), che aveva iniziato a praticare lasciando da parte l’idea di dotarsi di un apparato storico cercando dati sui libri e iniziando a trarli dalle biografie storiche del periodo. Visto che la cosa funzionava, cercammo di dare all’approccio una più precisa definizione. Facendo riferimento a Hegel e a Quine60, immaginammo la conoscenza come una costruzione “a rete”, lacunosa ed elastica, mai interamente completa e della quale è importante in primo luogo costruire i “nodi” e solo secondariamente occuparsi delle “maglie”. Ciò poteva permetterle di dedicare maggiore attenzione alle maglie che coprivano le zone della realtà che le interessavano di più, ma al tempo stesso di avere a disposizione nodi e fili che tenessero tali zone in contatto con tutte le altre, consentendole all’occasione di “sporgersi” con sufficiente sicurezza anche nelle zone che conosceva meno bene. Rimaneva il problema dell’inizio: da dove partire in questa ricostruzione? Affrontammo il tema prendendo come spunto il “cominciamento della scienza” di Hegel. Com’è noto, questi giustifica l’avvio della scienza con un argomento trascendentale, ma ciò vale per un lavoro teoretico qual è quello che egli ha in mente di fare; per ciò che avevamo interesse a fare io e Franca era sufficiente molto meno, ma arrivarci attraverso il confronto con Hegel dette respiro al nostro discorso. Ne concludemmo che un inizio sia sempre qualcosa di relativo, perché la conoscenza è qualcosa di costantemente mutevole e in movimento, cosicché, se l’importante è il movimento, per avviarlo un punto vale l’altro, a condizione che la fine sia, proprio per questo, nient’altro che un (nuovo) inizio. Quindi, nel caso di Franca per iniziare non c’era già più molto da cercare: non solo poteva cominciare da dove preferiva, ma aveva di fatto già iniziato. Doveva proseguire mettendo 60

Mi sono occupato delle affinità tra questi due filosofi nell’ambito della teoria della conoscenza nel mio L’assoluto eternamente in sé cangiante. Interpretazione olistica del sistema hegeliano, Napoli: La Città del Sole 2002.

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a tema in modo rigoroso la sua relazionalità “aderente”, le sue concezioni sul corpo e sulle emozioni, la sua ispirazione al pensiero orientale, organizzando tutto questo (e altro) in quella struttura di conoscenze “a rete” che avevamo descritto. Con lenta gradualità, cogliendo gli stimoli e le necessità del momento, senza voler accumulare conoscenze non pertinenti, ma solo “sporgendo” la rete verso quella zona cui avesse di volta in volta desiderato approssimarsi, senza pretendere di “coprire” ogni zona – impresa troppo onerosa per lei come per chiunque altro. In questo modo avrebbe potuto aspirare a quel minimo di conoscenze che le servivano per non sentirsi in difetto e sviluppare un’identità “pensata”, senza tuttavia allargarsi oltremisura, cosa che avrebbe snaturato la sua personalità, che era e doveva restare prevalentemente emozionale e relazionale. Qui decidemmo di interrompere il nostro rapporto. Grazie alla rielaborazione che avevamo fatto assieme e anche alle aperture offerteci dai riferimenti alla tradizione filosofica, Franca aveva una via da intraprendere e si sentiva in grado di farlo da sola. Credo che questa descrizione sommaria metta sufficientemente in luce la pluralità dei riferimenti alla tradizione61, che non svolgevano una funzione di schema bensì di proposta ipotetica da mettere alla prova e non erano assunti come ineludibili o sacrali forme di pensiero. Il loro impiego aveva il fine di “improvvisare” con Franca, a partire degli stimoli prodotti dalle sue proprie esigenze, per costruire assieme un suo modo di pensare la realtà capace di inglobarle e rispondere ad esse, ovvero una visione del mondo che le corrispondesse praticamente. Come accennavo, non è questo il modo in cui lavoro più spesso, ma ciò dipende dalla mia particolare sensibilità; riferimenti alla tradizione di questo genere, infatti, sono congrui ai capisaldi teorici della consulenza filosofica espressi dai suoi principali esponenti internazionali e non rischiano di far collassare la pratica in altri tipi di attività, quali la psicoterapia, il consiglio, la formazione. E hanno il pregio di permettere riletture inattese di alcuni dei contributi lasciatici dalla storia del pensiero filosofico.

Riferimenti bibliografici Achenbach G., La consulenza filosofica, Milano: Apogeo, 2004 (ed. or. Philosophische Praxis, Köln: Dinter, 1982). 61

Anche se, a posteriori, mi rimane la recriminazione di aver preso in considerazione qualche spunto di troppo da quelli che fanno parte della mio proprio sguardo sul mondo.

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Achenbach G., “Philosophische praxis?” Eine kritische Vorfuhrung des Buches von Günther Witzany, Philosophieren in einer bedrohten Welt, in “Agora”, heft 7, Oktober 1989. Achenbach G., Saper vivere, Milano: Apogeo, 2006 (ed. or. Lebenskönnerschaft, FreiburgBasel-Wien. Herder, 2001). Cavadi A., Filosofia di strada, Trapani: Di Girolamo, 2010. Cosentino A., Filosofia come pratica sociale, Milano: Apogeo, 2008. Furedi F., Il nuovo conformismo, Milano: Feltrinelli, 2005 (ed. or. Therapy Culture, London: Routledge, 2004). Gessa Kurotschka V. e Cacciatore G. (a cura di), Saperi umani e consulenza filosofica, Roma: Meltemi, 2007. Godbout J., Lo spirito del dono, Torino: Bollati Boringhieri, 1993 (ed. or. L’esprit du don, Paris: La Decouverte, 1992). Jullien F., Il saggio è senza idee, Torino: Einaudi, 2002 (ed. or. Un sage est sans idée, Paris: Edition de Seuil, 1998). Lahav R., Comprendere la vita, Milano: Apogeo, 2004. Mauss M., Saggio sul dono, Milano: Einaudi, 2002 (ed. or. Essai sur le don, Paris: PUF, 1950). Miccione D., La consulenza filosofica, Milano: Xenia, 2007. Pollastri N., Consulenza filosofica. Breve storia di una disciplina atipica, in “Intersezioni”, XXI, 1, 2001. Pollastri N., L’assoluto eternamente in sé cangiante. Interpretazione olistica del sistema hegeliano, Napoli: La Città del Sole, 2002. Pollastri N., Il pensiero e la vita, Milano: Apogeo, 2004. Pollastri N., From Hegel to Improvisation. On the Method Issue in Philosophical Consultation, in Barrientos Rastrojo José (ed.), Entre Historia y Orientaciòn Filosofica, II vol., Sevilla: Asociación de Estudios Humanísticos y Filosofía Práctica X-XI , 2006. Pollastri N., Consulente filosofico cercasi, Milano: Apogeo, 2007. Pollastri N., La filosofia è una pratica filosofica? Per una più precisa classificazione delle attività filosofiche extra muros, in Coniglione Francesco (a cura di), Interpretare, vivere, con-filosofare, Acireale-Roma: Bonanno, 2010. Pollastri N. e Miccione D., L’uomo è ciò che pensa. Sull’avvenire della pratica filosofica, Trapani: Di Girolamo, 2008. Sautet M., Socrate al caffè, Milano: Ponte alle Grazie, 1997 (ed. or. Un café pour Socrate, Paris: Laffont, 1995). Sparti D., Suoni inauditi. L’improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana, Bologna: Il Mulino, 2005. Sparti D., Musica in nero. Il campo discorsivo del jazz, Torino: Bollati Boringhieri, 2007. Sparti D., Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz, Bologna: Il Mulino, 2007.

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Sparti D., L’identità incompiuta. Paradossi dell’improvvisazione musicale, Bologna: Il Mulino, 2010. Yalom I., La cura Schopenahuer, Vicenza: Neri Pozza, 2005. Witzany G., Philosophieren in einer bedrohten Welt, Essen: Die Blaue Eule, 1989. Witzany G. (hrsg.), Zur Theorie der Philosophischen Praxis, Essen: Die Blaue Eule, 1991. Wouters P., La bottega del filosofo, Roma: Carocci, 2001 (ed. or. Denkgereedschap. Een filosofische onderhoundsbeurt, 1999). Zdrenka M., Konzeptionen und Probleme der Philosophischen Praxis, Köln: Dinter, 1997.

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Gli Autori

Vesna Bijelic, laureata in Lingua e Letteratura Italiana e in Filosofia presso l’Università di Zagabria, e laureata in Filosofia presso l’Università di Genova, ha conseguito il Master di II livello in Bioetica e Scienze Medico Forensi presso l’Università di Genova e ha frequentato il Corso di Perfezionamento in Philosophy for Children all’Università di Padova. Certificata dal C.I.R.E.P. come Teacher in Philosophy for Children, dal C.R.I.F. come Formatore, ovvero come Teacher Educator, e riconosciuta come Consulente Filosofico Phronesis, lavora nell’area della consulenza individuale, consulenza di gruppo e consulenza aziendale. Da diversi anni si occupa della promozione delle pratiche filosofiche nell’ambito sanitario, come facilitatrice dei processi dialogici nel lavoro di gruppo e come docente e/o relatore a numerosi convegni e corsi ECM. Sulla consulenza filosofica ha pubblicato il volume Parole prospettive e cambiamento, Genova: Erga edizioni 2008. Valeria Castellini si è laureata in Filosofia a Parma nel 2000 con una tesi riguardante l’evoluzione delle logiche non aristoteliche e della logica fuzzy nella definizone del concetto di incertezza. Si è formata presso So.Phi.A. Society For Philosopy in Action e Phronesis Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica, per la quale è referente della Sezione Emilia Romagna. Dal 2000 si occupa di comunicazione aziendale e di pratiche filosofiche in contesti organizzativi e privati. Nel 2011 ha fondato a Reggio Emilia con altre consulenti filosofiche, l’Associazione Epochè – Scuola di pratiche filosofiche – di cui è presidente. L’associazione si occupa di promuovere le pratiche filosofiche organizzando incontri e laboratori in contesti didattici e culturali, rivalutando il significato della parola scholè. Si interessa all’applicazione delle pratiche filosofiche in contesti di disabilità, collaborando con l’Associazione Baobab alla creazione di percorsi per ragazzi che si servono della scrittura facilitata per comunicare. A Reggio Emilia si dedica alla consulenza filosofica individuale, dialoghi di gruppo e ad attività di Philosophy for Children. Ha progettato e realizzato interventi di pratiche filosofiche in contesti aziendali, volti a migliorare la relazione e definire valori e priorità comuni. Interviene come docente al Laboratorio/palestra di bioetica, corso biennale organizzato da

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Hospice Casa Madonna dell’Uliveto di Albinea (RE) patrocinato da SICP. Website: www.valeriacastellini.jimdo.it Augusto Cavadi (1950) vive a Palermo dove insegna filosofia, storia e educazione civica al liceo classico statale “G. Garibaldi”. Ideatore e presidente della Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone” è anche consulente filosofico riconosciuto dall’associazione professionale “Phronesis”. Collabora stabilmente con l’edizione palermitana di “Repubblica”, con il settimanale siciliano “Centonove” e con il mensile “Narcomafie” (Torino). Tra le sue principali pubblicazioni sui temi di questo volume: Quando ha problemi chi è sano di mente. Breve introduzione al philosophical counseling, Soveria Mannelli: Rubbettino, 2003; E, per passione, la filosofia. Breve introduzione alla più inutile di tutte le scienze, Trapani: Di Girolamo, 2008; Chiedete e non vi sarà dato. Per una filosofia pratica dell’amore, Pistoia: Petite Plaisance, 2008; Filosofia di strada. Il filosofare-in-pratica e le sue pratiche, Trapani: Di Girolamo, 2010; Filosofare dal quotidiano. Consulenza filosofica a mezzo stampa, Roma: www.ilmiolibro.it, 2010; La filosofia ci farà liberi? Un’interpretazione delle pratiche filosofiche, e-book, www.bibienne.it, Fosdinovo 2011. Ha contribuito al Quaderno di pratica filosofica, curato presso Liguori Editore da Alessandro Volpone, FilosoFare, cura e orientamento al valore (La filosofia può far bene solo quando non se lo propone. Idee ed agiti, pp. 137-143). In questa stessa Collana ha già contribuito ai volumi Paideia. Pratiche filosofiche come pratiche educative (Educare alla politica. Esperienze extra moenia e riflessioni, pp. 99-109) e Sofia e polis. Pratica filosofica e agire politico (La dimensione politica del filosofare. Qualche esemplificazione autobiografica, pp. 193 – 203). Website: www.augustocavadi.eu Emanuele Cecchinato si è laureato in Filosofia con una tesi di Estetica musicale sulla spazialità dell’ascolto nella musica contemporanea presso l’università di Padova. Ha fatto studi di composizione ed è attivo come video artista e compositore. Ha realizzato diverse composizioni musicali in iterazione con il mondo delle immagini. Alcuni dei suoi lavori fanno capo allo studio delle opere visive di Guy Debord (ONIRICAM- for Guy Debord & Walter Benjamin (2006-2007) in co-regia con Luca Rivelli: http://video.google.com/ videoplay?docid=6565530999776063501#), altre ricevono gli influssi degli studi sul paesaggio sonoro (L.E.E.D.D. – L.ast E.lectric E.vening D.ust D.ance (2004): http://video.google.com/videoplay?docid=1839886125005660882#). Ha tenuto diversi seminari di studio presso il Laboratorio per Fondamenti della Comunicazione Musicale presso l’Università di Udine (corsi per Tecnico Audiovisivo Multimediale, Facoltà di Scienze della Formazione) occu-

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pandosi di materie d’insegnamento relative al rapporto suono cinema; ha lavorato attorno al tema del paesaggio sonoro nel cinema di Michelangelo Antonioni, Andrej Tarkovskij, Jacques Tati, Wim Wenders e di altri registi. Ha collaborato con la Facoltà di Design e Arti Università IUAV Venezia – Laboratorio Multimedia Magazzino 7, in relazione al tema dell’ascolto del paesaggio e delle sue influenze sull’ascolto umano. Le sue pubblicazioni affrontano sempre il tema della relazione tra mondo ed ascolto umano, in termini filosofici e psicoacustici. Ha pubblicato: L’ascolto esiliato, in AA.VV., Passi Passaggi, Ripatransone (AP): Sestante Editrice, 1993; Luigi Nono. Frantumare l’infranto, «Rassegna veneta di musicologia», Cleup, Padova 1997; Il suono mobile, in AA.VV. La nuova ricerca sull’opera di Luigi Nono, Città di Castello (PG): Fondazione Cini Venezia-Leo Olschki, 1999; Cinema e forme sonore, Forum Ed. Universitaria Udinese, 2000; I paesaggi sonori di Michelangelo Antonioni, in AA.VV. Paesaggio con figure, Padova: Cortina, 2002; Derive del vedere, in AA.VV., Lo sguardo denigrato Padova: Il Poligrafo, 2003; Risonanze attorno a La chute de la maison Usher di Jean Epstein: le musiche per il film, in AA.VV. Fantastico Poe, Atti del convegno su Poe, Verona: Ombre Corte, 2004. Ha effettuato studi di audiopsicofonologia in relazione al metodo Tomatis, come pratica per la musicoterapia. I suoi studi filosofici lo portano a sperimentare propriamente il tema dell’ascolto, come problema portante di ricerca in relazione alla pratica della consulenza filosofica. Sabrina Francavilla si è laureata a pieni voti in filosofia presso l’Università degli Studi di Padova nel 2005. Dopo la laurea ha svolto uno stage come traduttrice e ricercatrice presso il Museo del Precinema Minici-Zotti di Padova, durante il quale ha svolto studi sull’impatto degli spettacoli delle lanterne magiche e del teatro delle ombre sul pubblico. Ha successivamente preso contatto con Phronesis, Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica di cui, dopo un percorso formativo di due anni, è socia in qualità di consulente filosofico riconosciuto. È stata docente di filosofia presso istituti privati, si è dedicata ad attività di pratica filosofica e ha scritto l’introduzione al saggio Dove vivono i bambini di Ives Celli. Oggi esercita con passione la professione di consulente filosofica a Padova utilizzando soprattutto i principi della filosofia antica e dell’esistenzialismo filosofico. Giorgio Giacometti si è laureato in Filosofia a Padova nel 1989 ed ha tenuto diversi seminari, presso quell’Università, ispirati agli studi di Pierre Hadot sulla filosofia antica come esercizio spirituale. Attualmente è dottore di ricerca in Filosofia politica e docente di Filosofia in un Liceo. È stato anche docente a contratto di Storia del pensiero politico presso l’Univer-

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sità di Udine. Ha all’attivo diverse pubblicazioni di argomento filosofico e didattico, tra le quali i volumi Ordine e mistero. Ipotesi su Schelling, Padova: Unipress, 2000 e Filosofia e amicizia. Il Liside di Platone e dintorni, un esercizio maieutico, Milano: Colonna, 2001. È Vicepresidente della Società Indologica “Luigi Pio Tessitori”, nel cui ambito ha pubblicato diversi articoli sui rapporti tra filosofia indiana e filosofia greca. Si è interessato, inoltre, di psichiatria fenomenologica, traducendo per Marsilio (Venezia, risp. 1990 e 1994) i libri di Ludwig Binswanger, Delirio. Antropoanalisi e fenomenologia e Il caso Suzanne Urban. Storia di una schizofrenia. Nel 2005 ha fondato a Udine, con altri filosofi, la Gaia scienza – Laboratorio per le pratiche e la consulenza filosofica e dal 2007 al 2011 è stato Segretario nazionale di Phronesis – Associazione italiana per la consulenza filosofica. In Friuli si dedica da anni alla consulenza filosofica individuale e di gruppo, offrendo anche uno sportello di ascolto nella scuola dove insegna. Nel 2012 è stato tra i protagonisti del primo Festival di Filosofia di Strada (Filofest) di Amendola, Smerillo e Montefortino. Vari i suoi contributi teorici sulla consulenza filosofica, pubblicati soprattutto: sulla rivista «Phronesis», sulla rivista «Edizione» della Società Filosofica Italiana (Sezione del Friuli Venezia Giulia), nella collana “Gratia et amore hominis” pubblicata dall’editore Di Girolamo di Trapani, e, infine, nella collana “Phronesis” pubblicata dall’editore Liguori di Napoli. Website: www.platon.it Maria Luisa Martini, laureata in Filosofia moderna e contemporanea, si è dedicata allo studio del pensiero del Novecento, e in particolare alla filosofia ermeneutica di Gadamer. Ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filosofia con una tesi sulla nozione gadameriana di orizzonte. Docente di Filosofia e Storia nei Licei, professore a contratto presso il Corso di laurea in Filosofia dell’Università di Trento, ha redatto e curato numerose pubblicazioni. Dal 2007 è Consulente filosofica di Phronesis ed ha fatto parte del Direttivo nazionale dell’Associazione. Attualmente è responsabile della Commissione Ricerca. Salvatore Piromalli è dottore di ricerca in Filosofia. I suoi interessi sono prevalentemente rivolti agli esiti contemporanei della riflessione filosofica continentale. Da diversi anni si occupa di pratiche filosofiche. Ha lavorato come operatore sociale nel campo del disagio psichico e dell’emarginazione, ha diretto la rivista “Tracce. Alternative al carcere e operatori sociali”, approfondendo la dimensione teorica del lavoro sociale. È co-curatore del volume Tra carcere e territorio, Milano: Franco Angeli 1994. Suoi contributi

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filosofici sono apparsi in varie riviste. Per i tipi della casa editrice Il Poligrafo di Padova ha pubblicato: Vuoto e inaugurazione. La condizione umana nel pensiero di Maria Zambrano e Jean-Luc Nancy (2009), e Nudità del senso, nudità del mondo. L’ontologia aperta di Jean-Luc Nancy (2012). Neri Pollastri, fiorentino, si occupa di consulenza filosofica dal 1998 e dal 2000 svolge la libera professione. Lavora con individui, gruppi e organizzazioni. È stato tra i fondatori di Phronesis – Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica, ne è stato Presidente e ne dirige l’omonima rivista. Ha collaborato con varie università e riviste ed è stato relatore a convegni italiani ed esteri. Nella sua attività professionale è stato tra l’altro titolare di uno sportello pubblico di consulenza filosofica per la cittadinanza su incarico del Comune di Firenze e sta sperimentando l’inserimento del consulente filosofico in un Centro di Salute Mentale del servizio pubblico ASL su incarico della Regione Toscana. In materia di consulenza e pratiche filosofiche ha scritto numerosi articoli (alcuni dei quali tradotti in inglese, spagnolo e tedesco) e quattro monografie: Il pensiero e la vita (Milano: Apogeo, 2004), Consulente filosofico cercasi (Milano: Apogeo, 2007), L’uomo è ciò che pensa (con Davide Miccione, Trapani: Di Girolamo, 2008), Il filosofo in azienda (con Paolo Cervari, Milano: Apogeo, 2010). Ha al suo attivo anche ricerche in campo tradizionalmente filosofico, tra cui la monografia L’assoluto eternamente in sé cangiante. Interpretazione olistica del sistema hegeliano (Napoli: La Città del Sole, 2001). Si occupa professionalmente anche di critica musicale, in particolare nell’ambito del jazz. Il suo sito Internet è www.consulenza-filosofica.it. Norma Romano si è laureata a pieni voti in Filosofia a Palermo nel 2005 con una tesi su La giustizia nell’etica socratica. Nel giugno 2006 ha conseguito, a Palermo, la certificazione in counseling filosofico dell’American Philosophical Practioners Association (APPA) rilasciata, a seguito di un ciclo di seminari, da Lou Marinoff e Michael Russell. Nel luglio dello stesso anno ha ottenuto il certificato di competenza in counseling filosofico, con valore di titolo di master biennale, presso Paideia, Associazione di Studi Etici per il counseling filosofico, di Palermo, con stage finale presso le Cantine Calatrasi di San Cipirello (Pa). Organizza e conduce dal 2006 Dialoghi filosofici per non filosofi presso la biblioteca diocesana “G. B. Amico” di Trapani.Dal 2007 è coordinatrice regionale della sezione siciliana di Phronesis, Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica. Nel 2009 ha conseguito la qualifica di consulente filosofico di Phronesis. Dal 2009 è componente del Direttivo di questa Associazione, di cui dal 2011 è divenuta Vicepresidente. È stata

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relatrice alle recenti Conferenze Internazionali sulla Pratica Filosofica (IX edizione del luglio 2008, svoltasi a Carloforte in Sardegna, e X edizione dell’agosto 2010, svoltasi a Leusden nei Paesi Bassi). Ha collaborato con diverse scuole come consulente filosofico di gruppo sia con docenti sia con alunni. Segnatamente con il Liceo Artistico Statale di Trapani, nell’aprile 2007, ha svolto attività di guida filosofica all’installazione di Kazumi Kurihara Prendere asilo nell’infinito con successiva Pratica Filosofica ad alcune classi uscenti. Dal 2007 è collaboratrice della Fondazione culturale Pasqua 2000 di Trapani. In quest’ambito ha svolto attività di consulenza filosofica, sia individuale che di gruppo, presso la galleria di arte contemporanea Di. ART di Trapani, di cui dal 2007 è responsabile culturale. Nel luglio 2011 ha conseguito una seconda laurea presso l’Università di Palermo in Servizio Sociale. Nel settembre del 2012 è stata tra i protagonisti del primo Festival di Filosofia di Strada (Filofest) di Amendola, Smerillo e Montefortino. Nello stesso mese ha aperto a Udine un Centro di Consulenza e Pratiche Filosofiche, presso il quale svolge regolarmente attività di consulenza filosofica individuale e di pratica di gruppo. Website: www.normaromano.it Stefano Zampieri si è laureato nel 1985 all’Università di Venezia con una tesi su Maurice Blanchot e la filosofia francese dopo Heidegger. Da allora ha pubblicato numerosi studi di carattere filosofico e letterario (Blanchot, Heidegger, Savinio, Celan). La sua ricerca si è poi focalizzata intorno alle questioni relative alla testimonianza filosofica e letteraria della Shoah, su questo tema ha pubblicato, fra l’altro, Il flauto d’osso. Lager e letteratura, Firenze: La Giuntina, 1996 e Dopo la Shoah. Apocalisse dell’umano, nel volume a cura di N. Novello Apocalisse. Modernità e fine del mondo, Napoli: Liguori Editore, 2008. Più recentemente ha pubblicato un testo scolastico dal titolo La rete della memoria. Percorsi sull’antisemitismo. Storia, letteratura, filosofia, edita da BBN nel 2011. Nel 2009 ha inaugurato la prima «Scuola Popolare di Pratica Filosofica» a Mestre dove vive e lavora come filosofo consulente. È stato Presidente di Phronesis. Associazione italiana per la consulenza filosofica dal 2009 al 2011 e ha tenuto seminari presso le università di Messina, Roma, Padova, Venezia. Intorno al tema della consulenza filosofica ha pubblicato, oltre a numerosi articoli, L’esercizio della filosofia, Milano: Apogeo, 2007, La consulenza filosofica spiegata a tutti, Milano: Ipoc, 2010, Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita quotidiana, Milano: Mimesis, 2010 e infine Alberto Savinio e la filosofia. Materiali per una vita filosofica, Milano: Ipoc, 2011. Per questa collana

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ha curato il volume Sofia e Polis. Pratica filosofica e agire politico, pubblicato nel 2012. Website: http://digilander.libero.it/eserciziofilosofico/ Chiara Zanella si è laureata in filosofia presso l’Università degli Studi di Padova discutendo una tesi di filosofia teoretica su Dio e la scienza di J. Guitton. Si occupa di tanatologia e di Death Education. Teacher expert in Philosophy for Children, ha collaborato con il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Padova al progetto Polisofia. Come consulente filosofico e formatrice di Phronesis ha tenuto alcuni moduli al Master di II livello in Consulenza filosofica dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e, anche in qualità di tanatologa, al Master Interfacoltà Death Studies: studi sulla morte e il morire per il sostegno e l’accompagnamento dell’Ateneo di Padova. Da anni propone progetti di pratica filosofica sul territorio e pratica la consulenza individuale. È redattrice della rivista Phronesis e attualmente è Presidente dell’Associazione stessa.

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Phronesis Collana di pratica filosofica diretta da Maria Luisa Martini

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G. Giacometti (a cura di), Sofia e Psiche. Consulenza filosofica e psicoterapie a confronto N. Pirillo (a cura di), Elvio Fachinelli e la domanda della Sfinge. Tra psicoanalisi e pratiche filosofiche M.L. Martini, A. Mignone (a cura di), Paideia. Pratiche filosofiche come pratiche educative S. Zampieri (a cura di), Sofia e polis. Pratica filosofica e agire politico C. Zanella (a cura di), Sofia e agape. Pratiche filosofiche e attività pastorali a confronto M.L. Martini (a cura di), Filosofie nella consulenza filosofica

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ontributi di Vesna Bijelic, Valeria Castellini, Augusto Cavadi, Emanuele Cecchinato, Sabrina Francavilla, Giorgio Giacometti, Salvatore Piromalli, Neri Pollastri, Norma Romano, Stefano Zampieri, Chiara Zanella. In copertina: Accademia di Platone, mosaico della Villa di Siminius Stephanus a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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ISSN 1973-1507

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uali correnti e quali autori della storia della filosofia costituiscono i riferimenti essenziali nel colloquio di consulenza filosofica? La domanda può sembrare impertinente, vista la discontinuità delle pratiche filosofiche rispetto alla tradizione del pensiero occidentale. E infatti in questo volume non si troverà una presunta ‘cassetta degli attrezzi’ di cui si servirebbe il consulente, dopo aver estratto qua e là dalla biblioteca dei filosofi ‘pillole di saggezza’ per venire in soccorso di persone in difficoltà. Nei saggi raccolti in questo volume professionisti consulenti compiono, piuttosto, una operazione riflessiva e chiariscono i personali presupposti che orientano i loro colloqui con l’ospite. Emerge un evidente riferimento a tutte quelle filosofie che hanno posto al centro della loro ricerca l’analisi della condizione umana, in particolare autori e testi del pensiero contemporaneo. Ma si fa strada anche un percorso comune, sotterraneo rispetto a espliciti concetti teorici: l’attenzione per il linguaggio, che rappresenta il medium fondamentale del dialogo consulenziale. La parola filosofica è qui parola viva, in cui si realizza lo sforzo dei parlanti non solo di comprendersi, esercitando così la competenza principale di tutte le relazioni interpersonali. Nel dialogo prende forma anche l’autocomprensione dell’ospite, che porta alla parola se stesso, il suo passato, la sua domanda. E dentro il linguaggio si delinea un nuovo orizzonte di pensieri, che possono aprire prospettive inedite, alludendo a nuovi equilibri esistenziali. In tutti i saggi le considerazioni teoriche nascono a partire dalla riflessione sui colloqui con l’ospite, in riferimento a uno specifico caso di consulenza, che talvolta viene descritto nei suoi momenti salienti. La consulenza filosofica si delinea così come una pratica dialogica viva, capace di esercitare, attraverso il colloquio, un ruolo primario di chiarificazione e di emancipazione esistenziale.