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Italian Pages 400 [395] Year 2014
a cura di Maurizio Tagliaferri Teologia dell’evangelizzazione
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collana BIBLIOTECA DI TEOLOGIA DELL’EVANGELIZZAZIONE diretta da Maurizio Marcheselli La collana pubblica studi e ricerche maturate nell’ambito della Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna. Essa ospita indagini di taglio teologico e culturale, biblico e storico, filosofico e sistematico in riferimento alla teologia dell’evangelizzazione. Tale orientamento è caratteristico della Facoltà teologica emiliano-romagnola, in cui a percorsi di teologia dell’evangelizzazione se ne affiancano altri interessati al momento speculativo e sistematico e altri ancora alla storia della teologia. BTE s’interessa agli aspetti «fondativi» dell’annuncio del vangelo: il concetto di evangelizzazione, i destinatari-interlocutori, il contenuto e i metodi. Al tempo stesso, e proprio per la fedeltà al binomio vangelo e cultura che determina l’ambito di una teologia dell’evangelizzazione, la collana mantiene aperto l’orizzonte sui diversi fronti in cui il fare teologia è oggi impegnato. Dire il vangelo nell’attuale contesto culturale implica un’attenzione rigorosa a cerchi concentrici, sui versanti ecclesiale, culturale, missionario, ecumenico e interreligioso. 1. E. Manicardi, Gesù, la cristologia, le Scritture. Saggi esegetici e teologici 2. M. Marcheselli, «Avete qualcosa da mangiare?». Un pasto, il Risorto, la comunità 3. G. Benzi, Ci è stato dato un figlio. Il libro dell’Emmanuele (Is 6,1–9,6): struttura retorica e interpretazione teologica 4. M. Tagliaferri (a cura di), Il Vaticano II in Emilia-Romagna. Apporti e ricezione 5. E. Castellucci, Annunciare Cristo alle genti. La missione dei cristiani nell’orizzonte del dialogo tra le religioni 6. D. Gianotti, I Padri della Chiesa al concilio Vaticano II. La teologia patristica nella Lumen gentium 7. G. Ziviani, Una Chiesa di popolo. Prefazione di mons. Franco Giulio Brambilla 8. G. Sgubbi, Pensare sul confine. Saggi di teologia fondamentale 9. M. Tagliaferri (a cura di), Teologia dell’evangelizzazione. Fondamenti e modelli a confronto
In preparazione P. Boschini, Cristianesimo e pensiero borghese all’inizio del ’900
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a cura di Maurizio Tagliaferri
Teologia dell’evangelizzazione Fondamenti e modelli a confronto
EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA
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Il presente volume, che raccoglie gli Atti del 7° Convegno annuale della Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna, è stato pubblicato con il contributo del Servizio Nazionale per gli Studi Superiori di Teologia e di Scienze Religiose.
Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze
Per i testi biblici: © 2008 Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena 2014 Centro editoriale dehoniano via Scipione dal Ferro, 4 – 40138 Bologna www.dehoniane.it EDB®
©
ISBN 978-88-10-45009-3 Stampa: Tipografia Giammarioli, Frascati (RM) 2014
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Presentazione
Maurizio Tagliaferri
1 Ormai molti sono i libri che si occupano di teologia e pratica dell’evangelizzazione.1 Questo (libro) lo fa partendo dalla proposta della Scuola teologica di Bologna e raccoglie le riflessioni di studiosi interni ed esterni a quello che si può considerare il primo Dipartimento per la specializzazione in Teologia dell’evangelizzazione sorto in Italia. I molteplici saggi contenuti nel presente volume, oltre a proporre una riflessione intorno allo statuto epistemologico della Teologia dell’evangelizzazione [TE], valorizzano i paradigmi plurali emersi nel lungo confronto interno ed esterno con le altre scuole teologiche che si occupano o si sono occupate della stessa disciplina. In questi anni si è visto che la Teologia dell’evangelizzazione (declinata per lo più dalla «scuola bolognese» come teologia della testimonianza e come prospettiva da cui rileggere tutta la sistematica, specialmente la cristologia e l’ecclesiologia) non allude a una teologia con sconti
1 Tra i più recenti e significativi segnalo: A.M. Vegliò – R. Fisichella – G. Bentoglio – M. Sanfilippo, Migrazioni e nuova evangelizzazione (Quaderni SIMI), Urbaniana University Press, Roma 2014; C. Dotolo – L. Meddi, Evangelizzare la vita cristiana. Teologia e pratiche di nuova evangelizzazione, Cittadella, Assisi 2012 (ampia bibliografia alle pp. 151-156); F. Cosentino, Sui sentieri di Dio. Mappe della nuova evangelizzazione (Problemi e dibattiti), San Paolo, Cinisello Balsamo 2012; C. Dotolo, Cristianesimo e interculturalità. Dialogo, ospitalità, ethos, Cittadella, Assisi 2012; W. Kasper – G. Augustin (a cura di), La sfida della nuova evangelizzazione. Impulsi per la rivitalizzazione della fede (gdt 357), Queriniana, Brescia 2012. Ancora ricco di stimoli il libretto di G. Colombo, Sulla evangelizzazione, Glossa, Milano 1997.
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accattivanti o con qualche nascosta semplificazione metodologica. Il riferimento è piuttosto a una teologia che, pur volendo evitare decisamente la tentazione del formalismo accademico, non è disposta a perdere niente in serietà proprio perché si sa destinata – attraverso l’ascolto e l’interpretazione del vangelo – al servizio dell’uomo, là dove la ragione incontra la fede.2 Di fatto il lavoro teologico del Dipartimento, in questi anni, si è alimentato oltre che alle riflessioni dei teologi, anche e in particolare al magistero pontificio ed episcopale, a cominciare dalle esortazioni apostoliche ed encicliche degli ultimi pontefici relative all’«evangelizzazione», «missione» e «nuova evangelizzazione»,3 per passare ai piani decennali della CEI e agli interventi dei vari episcopati nazionali e internazionali.4 Questo tipo di magistero ha sostenuto e sostiene il lavoro teologico e favorisce l’investigazione e la ricerca interna al Dipartimento.5
2 Cf. E. Manicardi, «Presentazione», in Id., Teologia ed evangelizzazione. Saggi in onore di Mons. Serafino Zardoni, EDB, Bologna 1993, 5. 3 Si allude alle indicazioni di molti testi magisteriali a cominciare dall’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975), per passare all’enciclica Redemptoris missio (1990), per finire con le recenti esortazioni apostoliche Verbum Domini (2010) ed Evangelii gaudium (2013). Su tutto si veda: Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, Enchiridion della nuova evangelizzazione. Testi del Magistero pontificio e conciliare 19392012, LEV, Città del Vaticano 2012. In copertina leggiamo: «I mutamenti culturali, sociali ed ecclesiali avvenuti negli ultimi decenni impongono un nuovo modo di annunciare il Vangelo, pertanto la Chiesa ha sentito il bisogno di fornire gli strumenti necessari per iniziare questo processo di “nuova evangelizzazione”, come intuito già da Giovanni Paolo II che per primo utilizzò questa espressione. Successivamente Benedetto XVI, sulla scia di questa brillante intuizione del suo predecessore, ha voluto istituire, il 21 settembre 2010, il Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, il cui primo compito è stato proprio quello di illustrare la ricchezza dell’espressione “nuova evangelizzazione”. Ne è scaturito così questo Enchiridion, che raccoglie i documenti magisteriali su questo tema a partire da Pio XII fino al 2012, settimo anno del pontificato di Benedetto XVI, il cui principale scopo è l’utilizzo pastorale. È dunque un valido strumento per i vescovi, sacerdoti, diaconi, catechisti e per quanti operano nel variegato mondo della nuova evangelizzazione, che intendono fare degli insegnamenti dei Sommi Pontefici il loro fondamento per un’azione efficace e duratura nel loro instancabile impegno nell’annuncio del Vangelo di Gesù». 4 Cf. I vescovi di Francia, Proporre la fede nella società attuale. Lettera ai cattolici, Elledici, Leumann 1998; Conferenza episcopale austriaca, Annuncio e nuova evangelizzazione nel mondo di oggi (Documenti ecclesiali 13), EDB, Bologna 2013; si vedano online i piani strategici per la nuova evangelizzazione delle Conferenze episcopali dei vescovi dell’America del Nord, di quelli dell’Inghilterra e dell’Irlanda. 5 Cf. in questo senso: M. Fini, «“Chiesa che evangelizza”: modelli ecclesiologici e pastorali», in Rivista di Teologia dell’evangelizzazione [Rte] 10(2006)19, 11-25. In questo saggio Mario Fini presenta la recezione dell’ecclesiologia conciliare nel post-concilio – in particolare dopo l’Evangelii nuntiandi – con speciale attenzione al cammino della Chiesa in Italia. Il teologo bolognese mostra come nel magistero da una parte emerga sempre più il tema della Chiesa mistero-comunione-missione, che si realizza in particolare nell’eucaristia, e dall’altra scompaia lentamente il tema della Chiesa popolo di Dio che nasce dall’annuncio del vangelo e ha come compito centrale l’evangelizzazione. Da ultimo Fini, richiamandosi al contributo di alcuni teologi (G. Colombo e S. Dianich), presenta la «forma» di Chiesa più idonea a esprimere la missione di evangelizzazione, indicandola nell’ecclesiologia conciliare del popolo di Dio.
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Presentazione
Nel volume si parte da una ricognizione dello statuto epistemologico della TE così come è stato presentato in questi anni dai teologi della «scuola bolognese» fino a giungere alle riflessioni attuali, dove ci si confronta con i nuovi fenomeni, le nuove sfide, le nuove situazioni di smarrimento: dalla globalizzazione alla secolarizzazione, dall’immigrazione al pluralismo religioso e al dialogo interculturale, dalla soggettivizzazione al relativismo religioso e morale, dall’indifferenza religiosa alla marginalizzazione della religione, dal neo-ateismo alla frammentazione esistenziale. Imprescindibili in questo convegno (anche se poi rilanciati e attualizzati) i quattro snodi individuati qualche anno fa da Erio Castellucci6 e da Paolo Boschini7 come elementi tipici della nostra scuola teologica: 1) la natura autenticamente teologica (e non solo pastorale) della TE; 2) il fondamento cristologico della TE (a partire dal triplice mistero di incarnazione-croce-risurrezione); 3) l’orizzonte antropologico (la post-modernità, congiunta con i tratti caratteristici degli abitanti della regione Emilia-Romagna); 4) il soggetto ecclesiale della TE (una Chiesa in comunione missionaria). In particolare Castellucci scriveva: Tenendo conto dell’esperienza maturata in questi decenni di vita della LTE, sintetizzata nell’Ordinamento, si potrebbe intendere la TE come quel l’aspetto della teologia sistematica che persegue, per la nostra regione, il grande programma consegnato da Giovanni XXIII al Concilio nel documento di indizione Humanae salutis: «mettere a contatto con le energie vivificatrici e perenni del vangelo il mondo moderno»; programma rilanciato da Paolo VI prima nella Ecclesiam suam, dove presenta una versione cristiana della sentenza terenziana: «Tutto ciò che è umano ci riguarda» (EV 2, 201) e poi nella Evangelii nuntiandi: «indipendenti di fronte alle culture, il vangelo e l’evangelizzazione […] sono […] capaci di impregnarle tutte, senza asservirsi ad alcuna» (n. 20); programma rilanciato da Giovanni Paolo II con la categoria di «nuova evangelizzazione» e con i criteri che orientano l’inculturazione: innesto del vangelo in una cultura (nel reciproco scambio), purificazione della cultura da parte del vangelo, elevazione o compimento dei germi di verità da parte dello stesso vangelo (cf. Catechesi tradendae 53: cf. anche LG 13). Emerge in tal modo l’intreccio imprescindibile tra teologia ed evangelizzazione, al punto da costituirli non due grandezze parallele ma un’endiadi. Una teologia che dall’inizio alla fine non fosse impregnata dalle istanze dell’evangelizzazione, si risolverebbe in un chiuso accademismo, si perderebbe nei meandri di un linguaggio ermetico ed autoreferenziale, diventerebbe un’operazione costruita «in provetta». Una evangelizzazione che non fosse fondata sulla teologia scadrebbe a pura elaborazione di metodi o ripetizione di slogans, finendo per accomodarsi alla cultura vincente o, al contrario, per adottare il rifiuto della modernità come atteggiamento pregiudiziale. È per mantenere la fedeltà sia al sostantivo («teologia») che al genitivo («evangelizzazione»),
6 Cf. E. Castellucci, «La Licenza in Teologia dell’Evangelizzazione: la teologia nella prospettiva dell’annuncio di Cristo», in Rte 9(2005)17, 11-29. 7 Cf. P. Boschini, «Tra vangelo e culture: la teologia dell’evangelizzazione come scienza della fede annunciata», in Rte 10(2006)19, 47-64.
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Maurizio Tagliaferri nella consapevolezza di questo fecondo intreccio, che è stato spontaneo, in corsi, seminari, tesi e studi di questi tre decenni, tornare continuamente alla cristologia, antropologia ed ecclesiologia. La cristologia costituisce il perno non solo della teologia ma anche dell’evangelizzazione; entrambe sono fondate, nel metodo e nel contenuto, sulla persona e azione di Cristo, luogo di ogni discorso-su-Dio e modello e propulsore, nello Spirito, dell’azione evangelizzatrice. La soteriologia, in quanto cristologia dinamica, è il paradigma fondamentale della TE. L’antropologia mette a fuoco l’interlocutore (più che destinatario, come si diceva un tempo) della teologia e dell’evangelizzazione; se infatti la teologia è «discorso su Dio», è però discorso per l’uomo (e non per Dio) e rivela non solo Dio all’uomo, ma anche l’uomo all’uomo; e l’evangelizzazione, a sua volta, è dimensionata sull’uomo «contemporaneo», per cui non può prescindere da una lettura approfondita dell’umano senza danneggiare l’efficacia stessa della trasmissione del vangelo. L’ecclesiologia, infine, punta la lente sul soggetto umano della teologia e dell’evangelizzazione; se il soggetto divino è la Trinità, sulla terra è però la Chiesa, immagine e riflesso della Trinità, a innestare il vangelo nelle diverse culture umane; la Chiesa nella diversità dei suoi membri – laici, ministri, religiosi – e nella complementarietà delle sue dimensioni, universale e locale. In questo contesto, le Chiese dell’Emilia Romagna sono coinvolte in prima persona nel progetto di TE. Vale la pena di riflettere più dettagliatamente su queste tre discipline che formano l’ossatura della LTE.8
Anche per Paolo Boschini – che riprendeva la valutazione di Castellucci e la rilanciava – una riflessione sullo statuto epistemologico della TE deve partire dalla definizione di TE intesa come riflessione sulla fede nell’atto del suo annunciarsi e sui contenuti dell’annuncio, come anche sui soggetti individuali e collettivi coinvolti nella comunicazione della fede. In primo luogo la Teologia dell’evangelizzazione si occupa della fides qua nuntiatur. L’atto dell’annunciare è il suo primo oggetto scientifico. In esso sono implicati due o più soggetti (individuali o collettivi), che stanno tra loro in una relazione comunicativa. A differenza della teologia della rivelazione, qui l’accento cade non sull’origine divina dell’atto comunicatore, ma sulla sua reciprocità comunicante. L’altro a cui si rivolge l’azione evangelizzatrice della Chiesa non può essere definito semplicemente come un destinatario passivo del messaggio salvifico, ma come un recettore attivo e creatore, in grado di interagire con coloro che gli inviano il messaggio. Questa interazione non riguarda solo l’atto materiale dell’annuncio e le dinamiche comunicative che esso innesca, ma anche le condizioni teologiche e culturali che rendono possibile tale avvenimento. In secondo luogo, la Teologia dell’evangelizzazione si occupa della fides quae nuntiatur. Il contenuto e la forma linguistica del messaggio sono assolutamente rilevanti in ordine alla sua comunicazione. Nella concreta formulazione del messaggio prende corpo quella doppia fedeltà a Dio e all’uomo, che rappresenta l’istanza progettuale che generò più di venticinque anni fa il progetto della Teologia dell’evangelizzazione. Si tratta di una fedeltà giocata su più piani contemporaneamente. A livello teologico, essa presuppone una riflessione trinitaria articolata: una cristologia, che nella kenosi del Figlio di Dio nell’uomo Gesù pone la condizione storica dell’atto comunica-
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Castellucci, «La Licenza in Teologia dell’Evangelizzazione», 22s.
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Presentazione tore; una pneumatologia, ovvero la tematizzazione della presenza dinamica di Dio nel mondo che precede e rende possibile l’annuncio. A livello culturale, questa doppia fedeltà richiama la questione dell’interazione tra il linguaggio della tradizione e quello dell’innovazione e pone il problema del profetismo cristiano. A livello filosofico, è in gioco la questione ermeneutica per eccellenza: la possibilità che un linguaggio del passato possa essere comprensibile e rilevante per la contemporaneità.9
In pratica per Boschini, per questo suo carattere relazionale, la TE è stata elaborata dai docenti e dai ricercatori della FTER «come un sapere aperto e in relazione con gli altri saperi teologici» in particolare con le scienze bibliche e con gli altri saperi che si occupano delle origini cristiane. Grazie a questa base esegetica e storica, essa coltiva un rapporto di favore con la riflessione sistematica della cristologia e della soteriologia, che convergono in una riflessione sulla presenza e l’azione dello Spirito Santo nell’atto ecclesiale dell’evangelizzazione. A differenza, poi, della teologia kerygmatica, la TE «supera la distinzione tra autore, destinatario e contesto dell’evangelizzazione e si muove nella consapevolezza che la verità abbia uno statuto di consensualità e sia il frutto di una ricerca convergente, condotta da soggetti differenti». Per questo motivo la TE «può così entrare serenamente in dialogo con l’odierno contesto di pluralismo culturale e con i saperi sociali e comunicativi che lo interpretano e lo rielaborano». Ovviamente tutto questo non toglie che essa [la TE] conservi un rapporto decisivo con la filosofia, a cui riconosce la funzione di «crocevia antropologico, cioè di luogo culturale in cui progettare e verificare il dialogo tra i saperi e prendere una posizione decisa in favore dell’umano, in polemica con le tesi decostruzionistiche di fine Novecento che teorizzano la crisi dell’uomo e della soggettività».10
2 Da questo retaggio si è partiti, dunque, nel recente convegno di Dipartimento – che portava il titolo laborioso: Teologia dell’evangelizzazione: paradigmi epistemologici a confronto dentro e fuori la «scuola bolognese» – per mettere a fuoco alcuni ambiti/campi: la quaestio de Deo; la cristologia come criterio ermeneutico della Teologia dell’evangelizzazione; il primato della verità del vangelo in un mondo plurale; la Chiesa come luogo di salvezza; l’evangelizzazione e i mezzi di comunicazione; gli aspetti liturgico-catechetico-pastorali e le nuove sfide. 1) Nel saluto del card. Carlo Caffarra si sottolineano due nodi. a) Evangelizzare e teologare. Ambedue hanno il medesimo oggetto materiale
9 Boschini, «Tra vangelo e culture: la teologia dell’evangelizzazione come scienza della fede annunciata», 48-49 (corsivo mio). 10 Cf. ivi, passim.
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e formale (la luce della fede). Fides quaerens intellectum è la teologia. La fede entra nello statuto epistemologico della teologia senza toglierle la caratteristica di scienza. Senza una robusta teologia ne soffre anche l’evangelizzazione. Quindi TE significa una teologia robusta per poter evangelizzare; non tanto una riflessione teologica sull’annuncio. b) Lo STAB (oggi FTER) fu voluto perché la teologia aiutasse l’evangelizzazione. Il nesso tra le due realtà ha generato lo STAB: questo legame è oggi particolarmente importante. Perché nella nostra regione sia sempre più chiaro che non è sufficiente una fede proclamata o esclamata, occorre una fede interrogata e pensata. Senza questo diventa impossibile un confronto della fede con le dimensioni del vissuto umano e con le interpretazioni delle medesime che sono condivise nella nostra regione, ma non sono generate dalla fede. Si assolve questo compito non estenuando la natura propria della teologia, ma solo essendo robustamente teologi. Tutto questo oggi va registrato sulla questione fondamentale della quaestio de Deo. Il vero problema teologico oggi non è più la quaestio de Ecclesia, ma la quaestio de Deo. Non in un senso teorico: Dio c’è o non c’è? Ma in senso pratico: che Dio ci sia o no non cambia nulla. Se come Chiesa non abbiamo la coscienza di questa centralità, non saremo in grado di svolgere il compito di cui l’evangelizzazione ha assoluto bisogno. 2) Il convegno, essendosi tenuto all’indomani della XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi su La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana (Vaticano, 7-28 ottobre 2012), si è aperto con la prolusione di mons. Rino Fisichella dal titolo: «Teologia dell’evangelizzazione. Riflessioni a conclusione del Sinodo dei vescovi». Il presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione nel suo intervento tiene conto dell’Instrumentum laboris in preparazione del Sinodo dei vescovi,11 degli interventi del papa all’interno del sinodo, del dibattito dei padri sinodali e delle Propositiones finali, e annota: Da Evangelii nuntiandi, in cui il tema dell’evangelizzazione diventava un programma per la Chiesa particolare, al sinodo del 2012 dove la nuova evangelizzazione si coniuga, di fatto, con la trasmissione della fede, ciò che si compie è l’individuazione dei luoghi, persone e contesti che specificano ulteriormente l’evangelizzazione della Chiesa come nuova evangelizzazione. La distinzione tra missio ad gentes e nuova evangelizzazione diventa, quindi, non solo necessaria ma determinante per comprendere le nuove strade che si aprono per la Chiesa nell’immediato futuro. Tutta l’evangelizzazione, quindi,
11 In questo testo si esprime la coscienza di una Chiesa chiamata a fare discernimento degli «scenari» (culturale, migratorio, economico, politico, della ricerca scientifica e tecnologica, della comunicazione mediatica e digitale) che descrivono le nuove sfide del mondo contemporaneo all’evangelizzazione «per trasformarli in luoghi di annuncio del vangelo e di esperienza ecclesiale». La riflessione sinodale si è arricchita dal legame con l’Anno della fede che, secondo le intenzioni di papa Benedetto XVI, costituiva un invito a riscoprire l’importanza del concilio Vaticano II per la vita della Chiesa e anche per i lavori sinodali.
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Presentazione richiede «nuovo ardore», «nuovi metodi» e «nuove espressioni». Questo, secondo l’Omelia di Benedetto XVI tocca di fatto la pastorale ordinaria che deve strutturarsi in modo tale da restituire slancio missionario ai battezzati. Da qui, comunque, è necessario che l’opera di evangelizzazione si apra alla missio ad gentes e alla nova evangelizatio, secondo le differenziazioni descritte.
In particolare Fisichella ci dice dell’insistenza marcata sia nei Linea menta che nell’Instrumentum laboris che nello stesso svolgimento del sinodo, di evitare di considerare la nuova evangelizzazione come un cambiamento di strategie nella proposta del vangelo e di interpretarla invece come «un’azione anzitutto spirituale» (Lineamenta, n. 5; Instrumentum laboris, n. 5). Tra le numerose affermazioni che vanno in questa linea, una delle più significative è la seguente: La domanda circa il trasmettere la fede, che non è impresa individualistica e solitaria, ma evento comunitario, ecclesiale, non deve indirizzare le risposte nel senso della ricerca di strategie comunicative efficaci e neppure incentrarsi analiticamente sui destinatari, per esempio i giovani, ma deve essere declinata come domanda che riguarda il soggetto incaricato di questa operazione spirituale. Deve divenire una domanda della Chiesa su di sé. Questo consente di impostare il problema in maniera non estrinseca, ma corretta, poiché pone in causa la Chiesa tutta nel suo essere e nel suo vivere. E forse così si può anche cogliere il fatto che il problema dell’infecondità dell’evangelizzazione oggi, della catechesi nei tempi moderni, è un problema ecclesiologico, che riguarda la capacità o meno della Chiesa di configurarsi come reale comunità, come vera fraternità, come corpo e non come macchina o azienda.12
Infine, il recente Sinodo dei vescovi ha operato una scelta di campo identificando l’Occidente come luogo (e come paradigma) dell’azione evangelizzatrice e i cristiani con le loro comunità come soggetto passivo e attivo di tale attività. Questo non ci può lasciare indifferenti nel nostro lavoro teologico. È evidente in questa scelta di campo l’influsso operato dal Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. 3) Luciano Luppi presenta il bilancio della Teologia dell’evangelizzazione a Bologna nella teologia post-conciliare entro un quadro complessivo – tra continuità e sviluppi – e ritiene che: La specializzazione in TE a Bologna in questi 35 anni, anche se all’inizio poteva sembrare un contenitore riempito a piacere dai corsi più vari, si è rivelata invece una specifica e significativa proposta accademica, benché ancora bisognosa di maturazione. Più che preoccuparsi di prendere posizione tra una interpretazione più ristretta del termine «evangelizzazione» (il kerygma) e una più larga (tutta la vita della Chiesa), la TE sviluppata a Bologna si è preoccupata di far crescere nella teologia e nella coscienza ecclesiale la presa d’atto della centralità della prospettiva evangelizzante e missionaria offerta dal concilio Vaticano II, rimanendo fedele senza tentennamenti allo stile
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Lineamenta, n. 2; Instrumentum laboris, n. 39.
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Maurizio Tagliaferri conciliare di attenzione cordiale alla storia nella prospettiva del discernimento e dell’inculturazione, riconoscendovi il compito primario delle Chiese particolari. La «scuola bolognese» di TE ha contribuito a far prendere coscienza dell’importanza del kerygma, ma anche di come questo stesso primo annuncio non sia possibile senza la testimonianza complessiva della Chiesa. Quale volto di Chiesa può evangelizzare? Il primo annuncio è possibile solo laddove la vita complessiva della Chiesa, a tutti i livelli (teologico, liturgico, catechistico, caritativo, comunicativo), non spegne il vangelo, anzi lo attesta in maniera fedele e creativa.
4) Ampio lo spazio e molti i saggi dedicati alla categoria della testimonianza nel contesto della cristologia intesa come criterio ermeneutico della TE. Anzitutto il biblista Maurizio Marcheselli ci dice che nel Vangelo di Giovanni l’evangelizzatore è il testimone e che la teologia della testimonianza è il cuore dell’evangelizzazione. Nel saggio emergono alcuni filoni importanti (tra tanti altri): la relazione con Gesù, la testimonianza come atto pubblico, le figure testimoniali nel Vangelo di Giovanni, il riferimento all’esperienza (ruolo fondamentale) e alla sua comprensione profonda, l’esperienza mediata dai sensi, la questione del lessico e del linguaggio attraverso il quale dire l’incontro e la relazione con il Signore. I temi appena ricordati rimandano in un certo senso a un recente lavoro teologico di Theobald13 là dove analizza il tema delle «esperienze di risurrezione», definendone la struttura elementare e le implicazioni, collocandole nel contesto storico dell’esperienza umana. Tali esperienze vengono analizzate sul versante antropologico (situazioni di apertura: esperienze forti che illuminano il senso complessivo della vita e aprono a orizzonti ampi) e su quello cristologico (criteri di discernimento: il modo di essere di Gesù e la relazione con lui).14 Su questo tema Theobald innesta quello della «testimonianza» (Testimoni del risorto), proponendo alcuni racconti concreti di testimoni su tre versanti: situazioni di sofferenza e di morte; situazioni segnate dal desiderio di vivere insieme; ricerca di identità nel contesto della mondializzazione.15 Quale cristologia in un contesto post-moderno? A questa domanda risponde, in particolare, Giovanni Cesare Pagazzi inserendosi nell’ampio dibattito sulle nuove tendenze della cristologia per quanto riguarda, in particolare, il valore delle formule dogmatiche, specialmente cristologiche, nel contesto culturale e linguistico post-moderno, diverso da quello in cui furono elaborate. Partendo da alcune voci critiche (un sociologo [Zygmunt Bauman: culture e identità senza forma], una psicologa [Catherine Ternynck: attese irraggiungibili e soggetti «di sabbia»], due filosofi [Slovoj Žižek:
13 Cf. C. Theobald, Trasmettere un vangelo di libertà, EDB, Bologna 2010 (soprattutto nel quarto capitolo, «Testimoni del Risorto», 59ss). 14 Cf. ivi, 70-77. 15 Cf. ivi, 139-151.
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Presentazione
deriva «gnostica» del mondo virtuale; l’appello di un ateo al cristianesimo e Günter Figal: la prepotenza del pensiero debole e il mistero delle cose]), Pagazzi tratteggia le caratteristiche ambivalenti del post-moderno: dallo smantellamento del carattere irreale e violento delle ideologie, alla maggiore disponibilità ad accogliere le ragioni degli altri, anche del sacro, all’ecclettismo che indebolisce la decisione e confonde: «Alla forza decisionale delle ideologie e dei sistemi, si preferisce un accesso debole, multiforme, adattabile e composito». Pagazzi, richiamandosi al lavoro di alcuni teologi (Elmar Salmann, Marcello Neri), considera comunque la stagione post-moderna come opportunità di doverosa pratica della temperanza intellettuale (vale a dire: occasione di fede e quindi anche di sapere critico della fede). Proprio la proposta della «virtù» della temperanza (intellettuale) potrebbe essere ripresa all’interno di uno sviluppo più ampio dedicato al tema delle virtù: come oggi possono essere rilette, approfondite e valorizzate alla luce degli attuali sviluppi biblico-teologici e di una lettura/proposta pastorale. Infine Pagazzi delinea un aspetto del mistero di Cristo – restituito dal Nuovo Testamento e dal dogma (vedi simbolo nicenocostantinopolitano) – cioè il suo unico e definitivo rapporto con tutte le cose, quale salvifico nei riguardi del mondo irreale e del soggetto narcisistico, tipici del post-moderno. Di «testimonianza» si occupano anche Fumagalli e Benzi. Il moralista Aristide Fumagalli, nel suo intervento su «La vita buona e la qualità della testimonianza cristiana», ci dà una definizione «della vita buona» ripetendoci che i fattori per i quali la vita umana consiste sono i medesimi che permettono di qualificare la vita umana come buona. Tenendo conto del dinamismo della vita umana, può allora essere definita vita buona quella in cui si promuove l’interazione tra la libertà e le sue condizioni di sussistenza e vita cattiva quella in cui l’interazione tra la libertà e tali sue condizioni venga liquidata.
Infatti – per Fumagalli – tra la libertà e le condizioni sociali, corporee, ambientali della sussistenza è all’opera un processo di liquidazione, che tende ad allentare i legami sino a farli percepire non più come relazioni costitutive, ma come connessioni facoltative. Il propulsore di questo processo è una concezione della libertà dimentica del suo essere «soltanto umana», e convinta, invece, del fatto che possa essere «simil-divina, ovvero in-condizionata», cioè, priva di condizioni che non siano quelle stabilite in proprio. L’antropologia biblica ci permette di affermare che la vita buona è la vita umana che riconosce e intrattiene la relazione con Dio. Da questa relazione fondamentale dipendono infatti tutte le altre relazioni costitutive della vita umana, per le quali essa è vita buona. Da qui la specifica testimonianza cristiana: La testimonianza cristiana della vita buona è testimonianza della vita di Cristo, del come Egli, vero uomo, abbia vissuto le relazioni costitutive della
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Maurizio Tagliaferri vita umana, di come l’interazione della sua libertà con Dio, con gli altri, con il corpo, con il mondo-ambiente, gli abbiano consentito di dare vita agli uomini.
Fumagalli invita, poi, alla contemplazione attenta e paziente della triplice attività di Gesù (terapeutica, poetica ed etica), che ha nella Scrittura la sua fonte e il suo canone e si presenta come la condizione previa della testimonianza cristiana, atta a favorire l’«immaginazione analogica» dei cristiani, vale a dire quell’attività riflessiva che, ascoltando la narrazione della storia di Gesù, elabora un’immagine di come si possa praticare l’amore ivi narrato. La «sovrabbondanza» può essere considerata – per il moralista milanese – il tratto distintivo della testimonianza cristiana. Ciò che specifica la testimonianza cristiana non è nell’ordine della quantità, ma della qualità, e tale qualità non è nell’ordine dell’efficienza, ma della trasparenza. La differenza tra la testimonianza cristiana e ogni altra forma di testimonianza non risiede, dunque, in ciò che produce, che pure può e deve essere buono, ma in ciò che essa rivela. Fumagalli termina il suo intervento notando come nell’Occidente post-moderno il mondo sembra spingere la Chiesa in esilio. E si chiede: È questa una tragica fine da evitare con ogni mezzo o un tempo provvidenziale per rinnovare la fede solo in Dio? La rinuncia della Chiesa a farsi vedere, dopo secoli di rilevanza, è l’abdicazione rassegnata ai poteri di questo mondo o la possibilità di testimoniare gratuitamente e quindi far vedere limpidamente Cristo?
Per il biblista e catecheta Guido Benzi l’intento degli orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020, Educare alla vita buona del Vangelo, è quello di aiutare le Chiese locali a riflet tere sull’«arte delicata e sublime dell’educazione», consapevoli che «non c’è nulla, nella nostra azione, che non abbia una significativa valenza educativa». Benzi pone l’accento sull’azione educativa dei cristiani nella vita delle comunità e della società tutta quanta. Come intendere dunque l’espressione vita buona del vangelo? Certamente essa esprime un contenuto: il vangelo, inteso sia come predicazione di Gesù che si prolunga nell’insegnamento degli apostoli e della Chiesa, sia come narrazione degli eventi della vita di Gesù culminante nella sua passione morte e risurrezione, contiene indubbiamente un messaggio di vita buona e bella. Tuttavia l’espressione esprime per Benzi (e per i vescovi italiani) anche un’identità di relazione: la vita buona è il vangelo, inteso non solo dunque come luogo (libro, narrazione), ma come dinamismo capace di qualificare profondamente la vita umana e di giustificare un impegno educativo. In tale prospettiva Benzi indaga il «dinamismo» trasformante (e performante) del vangelo, inscritto nello stesso termine greco, e ne mostra il radicamento «nell’annuncio profetico», con un approfondimento sulla «conversione del discepolo come attestazione» attraverso una riflessione esegetica del Quarto canto del Servo (Is 52,13–53,12). Infine il saggio di Benzi si chiude con una considerazione circa lo «stile audace» specifico della nuova evangelizzazione.
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5) Il problema antropologico e il problema della verità del vangelo in un mondo plurale. Questi aspetti sono stati affrontati da diversi relatori (Boschini, Fumagalli, Salvarani, Prodi); in modo particolare richiamo l’intervento di Paolo Boschini, dove si ribadisce che sul tema della relazione regno-Chiesa-mondo, di cui l’evangelizzazione è un aspetto saliente, il concilio Vaticano II ha segnato una svolta metodologica, perché è riuscito a dare rilievo universale a ciò che fino ad allora era rimasto a livello delle Chiese locali. Questa capacità di sintesi ha continuato a caratterizzare il magistero papale nella stagione post-conciliare ancora in atto. L’insegnamento autorevole di Paolo VI e di Giovanni Paolo II è stato il principale motore – mai l’unico – di una teologia ecclesiale dell’evangelizzazione; anche se si deve riconoscere che questo sforzo del magistero papale non è stato omogeneo, né esente da tensioni e ambiguità. Il magistero di Paolo VI e quello di Giovanni Paolo II hanno indicato nella centralità della questione antropologica uno dei principali elementi di novità del Vaticano II. Boschini si chiede quale sia stato l’impatto avuto e quali conseguenze abbia prodotto nel magistero cattolico recente questa sorta di antropocentrismo cristiano nella comprensione della questione della verità, che è il cuore teoretico dell’inculturazione della fede e della proclamazione del messaggio evangelico nel mondo secolarizzato odierno. L’ipotesi di Boschini è che su questo tema il magistero papale recente non sia omogeneo: specialmente quello di Giovanni Paolo II, per motivi legati alla contingenza storica delle sue espressioni. La «forza della verità» è stata intesa in senso dialogico: il vangelo è capace di creare consenso intorno a valori e strutture fondamentali dell’uomo. Oppure, è stata proposta in senso metafisico: senza il riconoscimento dell’origine trascendente della verità e della sua identità con Dio, non è possibile né un conoscere né un agire rispettosi dell’essere umano in quanto tale. Infine, la verità obbliga gli orizzonti conoscitivi ed etici a intrecciarsi e a fondersi nel vicendevole riconoscimento, illuminando così da molti punti di vista le tante sfaccettature dell’umano. Per Boschini, comunque, non siamo in presenza di una disomogeneità selvaggia e casuale, ma di una pluralità di modelli, tra i quali è possibile mettere ordine e scegliere. Le tensioni tra l’uno e l’altro sono innegabili, ma altrettanto evidente è lo sforzo di trovare una linea di mediazione, che può essere sintetizzata (per Boschini) in cinque tesi: (1) Nella Teologia dell’evangelizzazione la verità è un processo pragmatico interpersonale che si costruisce insieme agli interlocutori dell’annuncio. (2) In forza del suo carattere linguistico, la verità teologica detta in un mondo plurale esprime l’incondizionato dell’unica parola divina nella molteplicità delle parole umane. (3) La verità teologica fa parte dell’azione evangelizzatrice della Chiesa. La Teologia dell’evangelizzazione risveglia nella Chiesa il problema dell’annuncio come questione autenticamente antropologica. (4) Nell’odierno tempo di crisi il compito urgente della Teologia dell’evangelizzazione è l’individuazione di un crocevia antropologico, in cui proporre la propria verità sul limite umano come soglia e offrire un contributo fondato alla ricostruzione della razionalità pubblica. (5) La verità nella Teologia dell’evan-
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Maurizio Tagliaferri gelizzazione è la sintesi dinamica di teoria e prassi ed è a servizio del continuo aggiornamento dei metodi e dei linguaggi con cui la Chiesa proclama il vangelo in un contesto plurale.
6) Dell’ecclesiologia e della Chiesa come luogo di salvezza si occupano soprattutto Canobbio e Bressan, offrendoci piste di riflessione articolate e aggiornate. Del ricco excursus storico-teologico dell’intervento di Giacomo Canobbio richiamo specialmente le conclusioni sulla «Chiesa de-centrata». Il teologo bresciano scrive: Sopite le polemiche, con le conseguenti polarizzazioni, si giunge a una nuova fase: la Chiesa si comprende come segno e strumento della salvezza, cioè come traccia storica efficace dell’azione salvifica di Dio in Gesù Cristo. Non più come luogo unico della salvezza e neppure come strumento unico, bensì come luogo in cui – e strumento mediante il quale – gli umani possono incontrare l’unico Salvatore. A questo riguardo non si può dimenticare che l’esperienza di salvezza, pur conoscendo gradi, deve avere un paradigma. Questo comporta che su di esso si misurino tutte le sedicenti esperienze di salvezza. Se di esperienza si tratta, dovrà includere sia la dimensione storica sia quella escatologica. Il rapporto tra Chiesa e salvezza non riguarda però tanto la dimensione escatologica, quanto quella storica, imprescindibile per il cristianesimo. Questa richiede un aspetto di consapevolezza che si raggiunge mediante la fede, intesa come relazione «saputa» con il Salvatore (negare la dimensione di «sapere» vorrebbe dire togliere agli umani ciò che li contraddistingue). Relazione «saputa» diventa fondazione della relazione nell’amore, che si dilata oltre i confini sia temporali sia locali. Esperienza di «comunione»? Purché questa mantenga connotazioni storiche, senza le quali la Chiesa stessa perderebbe il suo senso. In ultima analisi, la Chiesa si autocomprende come espressione storica del disegno di Dio di portare a compimento l’umanità e con essa la creazione tutta. Ma il disegno di Dio può essere conosciuto solo a partire da un’esperienza di riconciliazione (cf. Ef 1–2), in forza della quale si «proietta» sul mondo ciò che germinalmente si dà in un luogo ed è interpretato come attuazione di ciò che Dio ha disposto in Gesù Cristo. Ciò equivale a dire che senza l’esperienza ecclesiale verrebbe meno nella storia anche l’azione salvifica di Dio. Da qui il senso dell’indefettibilità della Chiesa, la quale, pur non essendo costituita solo di santi, deve restare nella storia come attestazione che la grazia di Dio non è apparsa invano.
Luca Bressan risponde alla domanda «Quale forma di Chiesa per l’evan gelizzazione oggi?». Partendo dal nesso «forma Ecclesiae – annuncio del vangelo» come strumento euristico per rileggere tutto il dibattito ecclesiologico del XX secolo, arriva alla questione della Chiesa finalmente all’altezza della modernità culturale alla quale vuole annunciare la fede cristiana. Il momento dell’analisi è visto nel confronto con le due principali esecuzioni di questo modello: il paradigma dell’immersione e quello dell’evangelizzazione. Sullo sfondo di questi due paradigmi Bressan rilegge lo sviluppo della riflessione magisteriale, dal concilio Vaticano II al sinodo sulla nuova evangelizzazione. Il momento teorico finale, presente nel saggio, aiuta a cogliere la posta in gioco: la strutturazione di esercizi di immaginazione della Chiesa come condizione fondamentale
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per lo sviluppo di una riflessione seria sulla missione evangelizzatrice del cristianesimo. 7) Diversi saggi si occupano degli aspetti liturgico-catechetico-pastorali, dell’inculturazione, del dialogo interreligioso e interculturale, dei nuovi mezzi di comunicazione ovviamente sempre in relazione alla TE. In particolare alludo ai lavori di Righi, Guglielmoni, Hernández, Paganelli, Badiali, Salvarani, Cassani, Cabri e Gervasio. Davide Righi nel suo saggio dichiara: «Che la liturgia abbia un certo rapporto con l’evangelizzazione, o prima di essa, o accanto a essa o in conseguenza di essa nessuno lo mette in discussione». In pratica il culto e tutto ciò che di sensibile esso comporta (la sinassi, il libro, il luogo, i vasi, le oblate ecc.) per il coinvolgimento del corpo nell’esperienza di Dio e della Chiesa, non ha un ruolo secondario nella missione evangelizzatrice della Chiesa ma centrale. L’evangelizzazione perciò, anche se non può progettare di cominciare o di restringere al culto l’itinerario di fede o la sua attività, non può prescindere da esso né nel progresso mistagogico di accompagnamento nell’itinerario di fede, né nella dimensione ordinaria della comunità cristiana che deve sempre rimanere eucaristica. La celebrazione della liturgia e in particolare dei divini misteri è un continuo rimando a Dio e all’opera insondabile dello Spirito, che guida i credenti a una vita cristiana e a un culto in «Spirito e verità». Luigi Guglielmoni si occupa di laicato nelle parrocchie, nelle aggregazioni ecclesiali, nei movimenti al servizio della nuova evangelizzazione. Così conclude: La valorizzazione del laicato delle parrocchie e delle aggregazioni ecclesiali richiede sia momenti formativi qualificati («una fede ignorante è sempre una fede debole») sia occasioni di incontro plenario (preghiera, organismi di partecipazione, programmazione pastorale, testimonianza corale della fede). A questo dovrebbero servire i Consigli pastorali e i Consigli dei laici previsti dal concilio Vaticano II «per coordinare le varie associazioni e iniziative dei laici, salva restando l’indole propria e l’autonomia di ciascuna» (Apostolicam actuositatem 26). Tanto è stato fatto, sia nella Chiesa universale sia nella Chiesa pellegrinante nel nostro Paese, dagli auspici e dalle mediazioni di Giovanni Paolo II e dell’attuale pontefice, come dagli episcopati. […] A una fase iniziale di incertezza circa i nuovi movimenti e di una certa confusione al loro interno, come pure di una contestazione della parrocchia tradizionale e di una ricerca di rinnovamento, sta subentrando una tappa nuova: quella della «maturità ecclesiale». Un aspetto è fondamentale: non ci può essere una Chiesa in dialogo col mondo, come chiesto dal concilio Vaticano II, senza un dialogo all’interno della Chiesa, con l’identità e l’originalità di ogni sua componente laicale, in rapporto di collaborazione e di integrazione. La relazione tra aggregazioni ecclesiali e parrocchia rientra in questa grande sfida.
Jean-Paul Hernández nel suo saggio sull’evangelizzazione nello spazio sacro, attraverso un’interpretazione cultuale dell’episodio del roveto ardente (Es 3), passa in rassegna le diverse dimensioni teologiche e antropologiche dello spazio sacro in ordine alla «nuova evangelizzazione». Di
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particolare rilievo sono temi come la soglia, la curiosità, la memoria, il vuoto, l’attesa, l’identità, la gratuità, la fisicità, il silenzio, il piacere, la vocazione. Il turismo religioso come «segno dei tempi» rivela la ricerca di identità dell’uomo contemporaneo che rende il monumentum emblema e luogo privilegiato della nuova evangelizzazione, spazio dove la Parola «restituisce l’uomo all’uomo». Rinaldo Paganelli, nel suo saggio dal titolo «Noi e i ricomincianti alla luce della prassi di Gesù. Opportunità e sfide», afferma che i «ricomincianti» sono una presenza da riconoscere. Di fatto nella nostra attuale situazione, le persone che, dopo un periodo di allontanamento dalla fede, sono state «rimesse in cammino» da qualche recente avvenimento della loro vita e desiderano riscoprire che cosa significhi credere, non hanno ancora una fisionomia ben delineata e si fatica a riconoscerle. Si tratta comunque di un fenomeno in evoluzione, che come Chiesa siamo chiamati a seguire. Se si vuole parlare di attenzione ai ricomincianti bisogna fare un primo ascolto: se tutte le energie che abbiamo vanno per gestire l’esistente e le strutture è difficile mettersi in ascolto della situazione di oggi, della gente. Per i ricomincianti non si tratta di riprendere, dopo un tempo di smarrimento, un percorso religioso nel punto in cui lo hanno lasciato, si tratta piuttosto di andare avanti, di assumere tutta la loro storia con ciò che essa comporta di esperienze. Di fatto se intendono ricominciare a credere, è perché nutrono la speranza di comprendere. In questo percorso Gesù è il pedagogo, l’educatore alla fede, colui che ha tracciato per noi il modello della vita vera e ha educato l’uomo che vive in lui. È modello anche per quelli che ricominciano a credere perché in lui c’era un’arte nell’incontrare l’altro, nel comunicare con l’altro, nel tessere con l’altro una relazione: l’arte di un educatore alla fede. I riferimenti evangelici fanno vedere che Gesù sviluppa un’attenzione al superamento dei condizionamenti, denuncia i limiti e il peccato che rendono schiavi gli uomini, denuncia l’ipocrisia e il fare per essere riconosciuti. Lavora per decostruire i quadri interpretativi delle persone che incontra, fa l’annuncio di un Altro e di un oltre non pensato o non sperimentato. Ha un’evi dente autorità e lui non è solo un modello da imitare. Il cristianesimo – anche per Paganelli – non è solo educazione, o messaggio da ritenere, ma esperienza di vita nuova da vivere, ridefinizione di sé in nuovi legami e con nuovi equilibri. Per rendere attive queste possibilità la Chiesa è chiamata a non scivolare nella gestione comune al sistema sociale condiviso, ma a tener vivo il riferimento a Dio. La relazione non nasce dal patto, ma dal sacramento, non per una legge, ma per la relazione con Dio. Per questo è importante porre ogni persona che ricomincia nella condizione di fare l’esperienza della prossimità di Cristo Gesù. Federico Badiali si occupa del secondo annuncio per il risveglio della fede nell’età adulta all’interno dell’esperienza dei movimenti. Insiste sul fatto che solo un loro stile «familiare» permette al vangelo di presentarsi realmente come una proposta di «vita buona». La Teologia dell’evangelizzazione non può non riflettere sul primo annuncio, dal momento che oggi risulta sempre più evidente che «di primo annuncio vanno inner-
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vate tutte le azioni pastorali».16 Dopo aver ricostruito lo status quaestionis relativo al primo annuncio, la comunicazione prende in esame l’esperienza del secondo annuncio di alcuni movimenti. La TE e il secondo annuncio vanno così ad arricchirsi reciprocamente: la TE di fatto aiuta il secondo annuncio a valorizzare l’asse ecclesiologico dell’annuncio, ma resta il problema che spesso nei movimenti non si fa teologia. Il secondo annuncio consente alla TE di approfondire ulteriormente il proprio statuto epistemologico a patto che la TE accentui il suo carattere di fides quaerens intellectum, attraverso un maggiore ricorso alla filosofia e alle scienze della cultura. Pier Luigi Cabri nel suo contributo dal titolo: «Provocazioni dell’inculturazione al magistero e alla teologia» ricorda che l’inculturazione pone, anzitutto, in questione la fedeltà della Chiesa al vangelo e alla tradizione apostolica nell’evoluzione costante delle culture, e richiama il paradigma di Newman con cui oggi s’interpreta il Vaticano II come riforma: fedeltà nello sviluppo – per uno sviluppo che migliori la fedeltà. In secondo luogo, l’inculturazione è intesa da Cabri come critica e deculturazione, in quanto la vita cristiana non è semplicemente conformazione, ma esige anche il coraggio di contraddire stili di vita abituali. In pratica dal paradigma di inculturazione (rigido e tendenzialmente metafisico: derivato da quello teologico di incarnazione – le due nature) si passa alla teologia della cultura (plurale e soteriologico: derivabile dalla kenosi-glorificazione); del resto la predicazione principia dalla Pasqua e non dal Natale. Da ultimo Cabri sviluppa il tema del «dialogo profetico» (Bevans – Schroeder). Qui l’inculturazione si radica in una cristologia che sa cogliere e discernere i semi del vangelo in ogni situazione storica e culturale; ha una dimensione ecclesiale, in quanto assume i valori e le tradizioni delle Chiese locali, nella disponibilità al dialogo e al confronto con altre realtà locali; è opera delle comunità e non dei singoli; si basa su un’antropologia, che sa riconoscere la positività dell’esperienza umana e del processo culturale presente in ogni realtà. Il saggio di Cabri scivola così nella teologia della cultura. Infatti viene ricondotta a categorie antropologiche (e non a un metodo di annuncio): abitare la secolarità (G. Routhier), accoglienza e ospitalità (E. Lévinas e J. Derrida), il riconoscimento del dono (JeanLuc Marion), la testimonianza credibile (S.B. Bevans, R.P. Schroeder e C. Theobald). Brunetto Salvarani giudica il pluralismo religioso un dato ormai acquisito nel nostro paesaggio sociale e culturale: dalla religione degli italiani, è stato detto a più riprese con uno slogan accattivante, all’Italia delle religioni. Un mutamento, comunque, non ancora metabolizzato che, per certi versi, non è recente, e ha radici lontane, riconducibili a tendenze lunghe delle società occidentali; mentre, per altri aspetti, è connesso a fenomeni innescatisi dopo la seconda guerra mondiale, e acceleratisi dalla metà
16 Conferenza episcopale italiana, lettera pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (30.5.2004), n. 6: ECEI 7/1440.
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degli anni ’60. In tal senso, occorre, per Salvarani, attrezzarsi per affrontare un panorama eccezionalmente in progress, destinato a convivere col processo di secolarizzazione tuttora in atto (una contraddizione solo apparente). In questo contesto è chiamata a cambiare anche l’evangelizzazione, come ha dimostrato anche il Sinodo dei vescovi dell’ottobre 2012.
3 Le sfide aperte e il lavoro del Dipartimento nei prossimi anni. Tre i nodi da sciogliere: a) il primato dello spirituale; b) le nuove esigenze organizzative; c) lo sbriciolamento dello zoccolo culturale. Il futuro della Chiesa è consegnato alla dinamica del meticciato. Ora c’è differenza tra verità meticcia (che si costruisce per un processo casuale di ibridazione) e verità plurale (che si costituisce per un consapevole processo di fusione di orizzonti a partire da valori condivisi). Le linee di sviluppo restano: la teologia della testimonianza; l’ecclesiologia e il diritto canonico (vedi comunicazione Gervasio); la teologia della cultura (vedi comunicazione Cabri); il cuore dell’evangelizzazione resta la trasmissione della fede alla gente di oggi. Papa Francesco ricorda tutto questo nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Per papa Francesco anche all’interno della Chiesa le differenze tra le persone e le comunità a volte sono fastidiose, ma lo Spirito Santo, che suscita questa diversità, può trarre da tutto qualcosa di buono e trasformarlo in dinamismo evangelizzatore che agisce per attrazione. La diversità dev’essere sempre riconciliata con l’aiuto dello Spirito Santo; solo Lui può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e, al tempo stesso, realizzare l’unità. Invece, quando siamo noi che pretendiamo la diversità e ci rinchiudiamo nei nostri particolarismi, nei nostri esclusivismi, provochiamo la divisione e, d’altra parte, quando siamo noi che vogliamo costruire l’unità con i nostri piani umani, finiamo per imporre l’uniformità, l’omologazione. Questo non aiuta la missione della Chiesa.17
In pratica la Chiesa non cresce con il proselitismo, cresce attraverso l’attrazione (cf. Evangelii gaudium, n. 14) generata da un’autentica evangelizzazione della cultura e da un’inculturazione del vangelo, processo questo che non si può mai dire terminato e che richiede una relazione intrinseca tra comunicazione della parola di Dio e testimonianza cristiana: Gli orizzonti immensi della missione ecclesiale, la complessità della situazione presente chiedono oggi modalità rinnovate per poter comunicare efficacemente la Parola di Dio. Lo Spirito Santo, agente primario di ogni evangelizzazione, non mancherà mai di guidare la Chiesa di Cristo in questa azione. Tuttavia, è importante che ogni modalità di annuncio tenga presente, innanzitutto, la relazione intrinseca tra comunicazione della Parola di Dio e testimonianza cristiana. Da ciò dipende la stessa credibilità dell’annuncio. Da
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Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 131, EDB, Bologna 2013, 93s.
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Presentazione una parte, è necessaria la Parola che comunichi quanto il Signore stesso ci ha detto. Dall’altra, è indispensabile dare, con la testimonianza, credibilità a questa Parola, affinché non appaia come una bella filosofia o utopia, ma piuttosto come una realtà che si può vivere e che fa vivere. Questa reciprocità tra Parola e testimonianza richiama il modo in cui Dio stesso si è comunicato mediante l’incarnazione del suo Verbo. La Parola di Dio raggiunge gli uomini «attraverso l’incontro con testimoni che la rendono presente e viva». In modo particolare le nuove generazioni hanno bisogno di essere introdotte alla Parola di Dio «attraverso l’incontro e la testimonianza autentica dell’adulto, l’influsso positivo degli amici e la grande compagnia della comunità ecclesiale».18
Ora tali «questioni» sono ampiamente affrontate anche in questo volume.
18 Benedetto XVI, esortazione apostolica Verbum Domini, n. 97, LEV, Città del Vaticano 2010, 191s.
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Non si può slegare la fede dalla teologia, in quanto il legame con la fede è parte integrante dello statuto epistemologico della teologia e non ne annulla il suo carattere accademico, come oggi non pochi pensano. E, d’altra parte, slegare la teologia dalla fede rischia la riduzione della medesima a una delle tante scienze della religione. Stante questo legame intrinseco tra evangelizzare e teologare è indubbio che se non c’è una forte teologia, un robusto pensiero teologico, ne soffre anche l’evangelizzazione. Senza nessun mio merito o demerito comincio a essere uno dei pochi (molti sono già morti) che hanno iniziato lo STAB, come professore, e quindi coinvolti nella fondazione di questo Studio, voluto dai vescovi emiliano-romagnoli di allora in ordine a un sostegno della teologia alla missione di evangelizzazione. Lo STAB è nato da questa esigenza, ne sono testimone diretto. È stato voluto in primis dall’allora presidente, il venerato card. Antonio Poma, di indimenticabile memoria, proprio per questo scopo. Questo legame strutturale tra le due attività, teologare ed evangelizzare, la cui consapevolezza ha generato lo STAB e quindi la nostra Facoltà teologica, oggi è divenuto particolarmente importante, specialmente nella nostra regione. I pastori di anime prendono consapevolezza ogni giorno di più che non è sufficiente una fede proclamata, una fede esclamata: è assolutamente necessaria una fede interrogata e pensata. Senza questo diventa non difficile, ma impossibile un confronto consapevole della fede con le fondamentali dimensioni del vissuto umano, e diventa impossibile un confronto serio con le interpretazioni delle medesime esistenti oggi nella nostra regione e non generate dalla fede. È dunque posta una gravissima responsabilità in ordine all’evangelizzazione ai teologi in regione. Sarebbe un errore pensare di svolgere
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Saluto del card. Carlo Caffarra
o di adempiere questa responsabilità estenuando quella che è la natura propria della teologia; anzi potranno svolgere il loro servizio solo essendo veramente e robustamente teologi. Ma, oggi, tutto questo che vi ho detto, anche nella nostra regione va registrato su quella che ritengo essere la questione fondamentale, che la comunità cristiana, e quindi la teologia e l’impegno di evangelizzazione, si trova ad affrontare: la quaestio de Deo, ovvero la questione di Dio. Ritengo che non sia più così centrale per esempio, come forse lo è stata, la quaestio de Ecclesia. Oggi non lo è più. La quaestio de Deo è determinante non tanto nel senso di discutere sull’esistenza o non esistenza di Dio, quanto nel senso che il vissuto della nostra regione ci sfida continuamente dicendoci: «Vedete, che Dio ci sia o non ci sia, non cambia assolutamente niente». Questo rende la questione di Dio una questione perfettamente inutile. Non cambia niente nel modo con cui l’uomo pensa e vive il suo lavoro, non cambia niente nel modo con cui l’uomo pensa e vive la sua sofferenza, nel modo con cui l’uomo pensa e vive la sua sessualità, e così via. Perciò una riflessione teologica che non avesse questa consapevolezza, la centralità della quaestio de Deo, nel contesto emiliano-romagnolo sarebbe incapace di svolgere quel servizio di cui l’evangelizzazione ha assoluto bisogno. Grazie, dunque, perché questo voi lo avete ben presente e, sapendolo, lo avete analizzato nel vostro Dipartimento di Teologia dell’evangelizzazione. Grazie ancora: vi auguro un buon lavoro.
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Teologia dell’evangelizzazione Riflessioni a conclusione del Sinodo dei vescovi Rino Fisichella
1. Incontrare Cristo Come Gesù al pozzo di Sicar, anche la Chiesa sente di doversi sedere accanto agli uomini e alle donne di questo tempo, per rendere presente il Signore nella loro vita, così che possano incontrarlo, perché solo il suo Spirito è l’acqua che dà la vita vera ed eterna. Solo Gesù è capace di leggere nel fondo del nostro cuore e di svelarci la nostra verità: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto», confessa la donna ai suoi concittadini. E questa parola di annuncio – cui si unisce la domanda che apre alla fede: «Che sia lui il Cristo?» – mostra come chi ha ricevuto la vita nuova dall’incontro con Gesù, a sua volta non può fare a meno di diventare annunciatore di verità e di speranza per gli altri. La peccatrice convertita diventa messaggera di salvezza e conduce a Gesù tutta la città. Dall’accoglienza della testimonianza la gente passerà all’esperienza personale dell’incontro: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».1
Queste parole iniziali del Messaggio dei padri sinodali possono essere assunte come uno scenario su cui porre alcune considerazioni riguardo allo svolgimento e alle prospettive che sono emerse dalla XIII Assemblea sinodale, dedicata alla Nuova evangelizzazione e trasmissione della fede. Il Messaggio raccoglie in sintesi l’esperienza del sinodo dove riflessioni comuni, dibattito e condivisione di prospettive sono divenuti condivisione di una comune preoccupazione: riportare al centro della vita della Chiesa l’azione evangelizzatrice. Al centro di tutto, comunque, vi è sempre
1 Synodus episcoporum, XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi 7-28 ottobre 2012. Messaggio al popolo di Dio, n. 1 (cf. http://www.vatican.va/roman_curia/ synod/documents/rc_synod_doc_20121026_message-synod_it.html).
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stato l’ascolto della parola di Dio che pone al centro l’unico necessario: la persona di Gesù Cristo. È lui che deve essere annunciato come una persona viva, che mantiene viva la fede dei discepoli che nei duemila anni di storia affidano a lui la loro esistenza. All’inizio vi è sempre un incontro con lui, è necessario saper ascoltare la sua voce, e scegliere di mettersi alla sua sequela. Ciò diventa possibile, nella misura in cui si accoglie il dono della conversione. Su questa prospettiva, alcune delle Propositiones, come si vedrà in seguito, hanno cercato di raccogliere il ricco dibattito sinodale.2 La nostra fede è una libera decisione di vita, che sorge da questo incontro personale che sa cogliere il vero volto del Risorto e lo vede riflesso in quello della sua Chiesa, sposa, madre e suo corpo che nel corso dei secoli ha costituito un popolo che rende a lui testimonianza. Un incontro che si fa forte della compagnia della sacra Scrittura, Parola viva che permane nella vita della Chiesa che la trasmette e che diventa feconda intelligenza sempre maggiore del mistero a cui si dà il proprio assenso. E, tuttavia, come la samaritana, anche oggi molti dei nostri contemporanei chiedono ragione della nostra fede per trovare un senso alla loro vita. La necessità di credere non è una parentesi nella vita delle persone, ma è un’esigenza che si impone se si vuole raggiungere il senso della propria esistenza. Per questo è necessario che l’attenzione sia vigile e non abbia mai a venir meno il desiderio non solo di partecipare ad altri la gioia per aver incontrato Cristo, ma anche la capacità di saper leggere i segni del nostro tempo per cogliere lo spirito del tempo che muove pensieri e comportamenti degli uomini. Solo con questa duplice attenzione è possibile avere un’intelligenza feconda, capace di corrispondere alle mutate condizioni della storia, per far conoscere di nuovo il vangelo di Gesù Cristo. In questo contesto, merita richiamare un passaggio dell’Omelia di Benedetto XVI a conclusione del sinodo. Partendo dal commento al miracolo nei confronti del cieco Bartimeo, egli diceva: Questa interpretazione, che Bartimeo sia una persona decaduta da una condizione di «grande prosperità», ci fa pensare; ci invita a riflettere sul fatto che ci sono ricchezze preziose per la nostra vita che possiamo perdere, e che non sono materiali. In questa prospettiva, Bartimeo potrebbe rappresentare quanti vivono in regioni di antica evangelizzazione, dove la luce della fede si è affievolita, e si sono allontanati da Dio, non lo ritengono più rilevante per la vita: persone che perciò hanno perso una grande ricchezza, sono «decadute» da un’alta dignità – non quella economica o di potere terreno, ma quella cristiana –, hanno perso l’orientamento sicuro e solido della vita e sono diventate, spesso inconsciamente, mendicanti del senso dell’esistenza. Sono le tante persone che hanno bisogno di una nuova evangelizzazione, cioè di un nuovo incontro con Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio (cf. Mc 1,1), che può aprire nuovamente i loro occhi e insegnare loro la strada.3
Cf. in modo particolare Propositiones, nn. 11.22. Benedetto XVI, Omelia per la conclusione del Sinodo dei Vescovi (28.10.2012) (cf. http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_ hom_20121028_conclusione-sinodo_it.html). 2 3
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Con questa considerazione, Benedetto XVI si faceva interprete del dibattito sinodale, avendo lui stesso partecipato attivamente a ogni seduta pubblica. Come si può osservare da queste parole, un tratto della nuova evangelizzazione consiste, in primo luogo, nel ravvivare la fede dei cristiani. Spesso, infatti, essa sembra diventata come la brace del fuoco che arde, ma non è più una fiamma viva capace di dare sostegno all’esistenza. Per diversi motivi, è diventata una fede debole e necessita, pertanto, di un rinnovato impulso. Nello stesso tempo, comunque, Benedetto XVI indicava che la nuova evangelizzazione deve avere dinanzi agli occhi le «persone battezzate che però non vivono le esigenze del battesimo»;4 persone che sono sparse in tutti i continenti e in tutte le Chiese, specialmente quelle dove il secolarismo ha mietuto il maggior numero di vittime. Verso questi battezzati è necessario avere una particolare cura pastorale. Il compito della nuova evangelizzazione, quindi, è anche quello di trovare le forme adatte perché questi cristiani ritornino a incontrare Gesù Cristo, vivo nella vita della comunità cristiana, e possano in questo modo riscoprire la bellezza della fede. L’insistenza dei padri sinodali sulla necessità e urgenza della formazione, sia dei chierici come dei laici, perché la catechesi riprenda il suo ruolo centrale, è facile ritrovarla in diverse Propositiones.5 Non solo. Al termine del sinodo, il papa annunciava che dopo la riflessione aveva deciso che la competenza sulla catechesi, fino a questo momento assegnata alla Congregazione del clero, sarebbe stata trasferita al Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. La cosa non è priva di grande significato. Non si tratta, infatti, di dare il via in primo luogo a una questione burocratica quanto, piuttosto, di prospettare una visione più organica dell’impegno pastorale. Con la lettera apostolica Fides per doctrinam, Benedetto XVI ha esplicitato maggiormente il senso di questo trasferimento. Egli scrive, tra l’altro: L’insegnamento conciliare e il Magistero successivo, facendosi interpreti della grande tradizione della Chiesa in proposito, hanno legato in maniera sempre più forte la Catechesi al processo di evangelizzazione. La Catechesi, quindi, rappresenta una tappa significativa nella vita quotidiana della Chiesa per annunciare e trasmettere in maniera viva ed efficace la parola di Dio, così che questa giunga a tutti, e i credenti siano istruiti ed educati in Cristo per costruire il Suo Corpo che è la Chiesa […] ritengo opportuno che [il Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione] assuma tra i suoi compiti istituzionali quello di vegliare, per conto del Romano Pontefice, sul rilevante strumento di evangelizzazione che rappresenta per la Chiesa la Catechesi, nonché l’insegnamento catechetico nelle sue diverse manifestazioni, in modo da realizzare un’azione pastorale più organica ed efficace.6
Ib. Cf. Propositiones, nn. 28-29. 6 Benedetto XVI, lettera apostolica Fides per doctrinam (16.1.2013) (cf. http://www. vatican.va/holy_father/benedict_xvi/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20130116_fides-per-doctrinam_it.html). 4 5
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Come si può notare, dunque, un primo frutto del sinodo è già visibile concretamente nella promozione della catechesi come tappa fondamentale nella formazione dei credenti e come strumento altamente qualificato di nuova evangelizzazione.
2. Alcune
chiarificazioni sul concetto
È necessario individuare, a questo punto, il movimento che si è venuto a creare intorno al tema della nuova evangelizzazione. Se, ad esempio, si prende una delle prime espressioni di Giovanni Paolo II, secondo cui la nuova evangelizzazione doveva essere «nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nelle sue espressioni»,7 si comprende che il riferimento era all’evangelizzazione in genere come attività peculiare della Chiesa. Nella sua missione di portare il vangelo a tutti, la Chiesa deve recuperare «ardore», «linguaggio» e «metodo» che diventano nuovi sia per la rinnovata azione che viene impressa sia per l’efficacia che è chiamata a portare nell’annuncio. Giovanni Paolo II, a onor del vero, nei suoi ventisette anni di pontificato ha fatto della nuova evangelizzazione il suo leitmotiv, e ne ha esplicitato il senso allargandolo a diverse prospettive che costituiscono l’intera pastorale.8 Benedetto XVI, da parte sua, ha iniziato a specificare ulteriormente la dimensione della nuova evangelizzazione, passando progressivamente da una visione più generale all’identificazione del destinatario, come emerge dagli ultimi interventi. È possibile seguire facilmente alcuni passaggi che portano a questa sempre più diretta focalizzazione della tematica, che è stata oggetto del sinodo. 1. Nell’atto di fondazione del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, aveva descritto l’orizzonte culturale e la motivazione teologica per la nuova evangelizzazione: Tale missione ha assunto nella storia forme e modalità sempre nuove a seconda dei luoghi, delle situazioni e dei momenti storici. Nel nostro tempo, uno dei suoi tratti singolari è stato il misurarsi con il fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo. Le trasformazioni sociali alle quali abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno cause complesse, che affondano le loro radici lontano nel tempo e hanno profondamente modificato la percezione del nostro mondo. Si pensi ai giganteschi progressi della scienza e della tecnica, all’ampliarsi delle possibilità di vita e degli spazi di
7 Giovanni Paolo II, Discorso alla XIX Assemblea del CELAM (Port-au-Prince, Haiti, 9.3.1983): AAS 75(1983)1, 778. 8 Il Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, da questa prospettiva, si è incaricato da subito di preparare uno strumento di grande utilità per verificare l’ampiezza del concetto in questione. Ne è risultato l’Enchiridion della Nuova Evangelizzazione. Testi del Magistero pontificio e conciliare 1939-2012, LEV, Città del Vaticano 2012.
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Teologia dell’evangelizzazione libertà individuale, ai profondi cambiamenti in campo economico, al processo di mescolamento di etnie e culture causato da massicci fenomeni migratori, alla crescente interdipendenza tra i popoli. Tutto ciò non è stato senza conseguenze anche per la dimensione religiosa della vita dell’uomo. E se da un lato l’umanità ha conosciuto innegabili benefici da tali trasformazioni e la Chiesa ha ricevuto ulteriori stimoli per rendere ragione della speranza che porta (cf. 1Pt 3,15), dall’altro si è verificata una preoccupante perdita del senso del sacro, giungendo persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell’uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento a una legge morale naturale. Se tutto ciò è stato salutato da alcuni come una liberazione, ben presto ci si è resi conto del deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose […]. Facendomi dunque carico della preoccupazione dei miei venerati Predecessori, ritengo opportuno offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla forza dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione. Essa fa riferimento soprattutto alle Chiese di antica fondazione, che pure vivono realtà assai differenziate, a cui corrispondono bisogni diversi, che attendono impulsi di evangelizzazione diversi: in alcuni territori, infatti, pur nel progredire del fenomeno della secolarizzazione, la pratica cristiana manifesta ancora una buona vitalità e un profondo radicamento nell’animo di intere popolazioni; in altre regioni, invece, si nota una più chiara presa di distanza della società nel suo insieme dalla fede, con un tessuto ecclesiale più debole, anche se non privo di elementi di vivacità, che lo Spirito Santo non manca di suscitare; conosciamo poi, purtroppo, delle zone che appaiono pressoché completamente scristianizzate, in cui la luce della fede è affidata alla testimonianza di piccole comunità: queste terre, che avrebbero bisogno di un rinnovato primo annuncio del Vangelo, appaiono essere particolarmente refrattarie a molti aspetti del messaggio cristiano. La diversità delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di «nuova evangelizzazione» non significa, infatti, dover elaborare un’unica formula uguale per tutte le circostanze. E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova generosa apertura al dono della grazia.9
2. Nel Discorso per la prima Plenaria dello stesso Dicastero era andato oltre, identificando maggiormente le tematiche connesse con la nuova evangelizzazione: Il termine «nuova evangelizzazione» richiama l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio, soprattutto per coloro che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in Paesi di tradizione cristiana. Il Vangelo è il sempre nuovo annuncio della salvezza operata da Cristo per rendere l’umanità partecipe del mistero di Dio e della sua vita di amore e aprirla a un futuro di speranza affida-
9 Benedetto XVI, lettera apostolica Ubicumque et semper (21.9.2010): AAS 102(2010)11, 788-791.
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Rino Fisichella bile e forte. Sottolineare che in questo momento della storia la Chiesa è chiamata a compiere una nuova evangelizzazione, vuol dire intensificare l’azione missionaria per corrispondere pienamente al mandato del Signore. […] questa mutata situazione, che ha creato una condizione inaspettata per i credenti, richiede una particolare attenzione per l’annuncio del Vangelo, per rendere ragione della propria fede in situazioni differenti dal passato. La crisi che si sperimenta porta con sé i tratti dell’esclusione di Dio dalla vita delle persone, di una generalizzata indifferenza nei confronti della stessa fede cristiana, fino al tentativo di marginalizzarla dalla vita pubblica. Nei decenni passati era ancora possibile ritrovare un generale senso cristiano che unificava il comune sentire di intere generazioni, cresciute all’ombra della fede che aveva plasmato la cultura. Oggi, purtroppo, si assiste al dramma della frammentarietà che non consente più di avere un riferimento unificante; inoltre, si verifica spesso il fenomeno di persone che desiderano appartenere alla Chiesa, ma sono fortemente plasmate da una visione della vita in contrasto con la fede. Annunciare Gesù Cristo unico Salvatore del mondo, oggi appare più complesso che nel passato; ma il nostro compito permane identico come agli albori della nostra storia. La missione non è mutata, così come non devono mutare l’entusiasmo e il coraggio che mossero gli Apostoli e i primi discepoli. Lo Spirito Santo che li spinse ad aprire le porte del cenacolo, costituendoli evangelizzatori (cf. At 2,1-4), è lo stesso Spirito che muove oggi la Chiesa per un rinnovato annuncio di speranza agli uomini del nostro tempo […]. La nuova evangelizzazione, per questo, dovrà farsi carico di trovare le vie per rendere maggiormente efficace l’annuncio della salvezza, senza del quale l’esistenza personale permane nella sua contraddittorietà e priva dell’essenziale. Anche in chi resta legato alle radici cristiane, ma vive il difficile rapporto con la modernità, è importante far comprendere che l’essere cristiano non è una specie di abito da vestire in privato o in particolari occasioni, ma è qualcosa di vivo e totalizzante, capace di assumere tutto ciò che di buono vi è nella modernità.10
3. Nella santa messa di apertura del sinodo, infine, ha detto: Ora vorrei brevemente riflettere sulla «nuova evangelizzazione», rapportandola con l’evangelizzazione ordinaria e con la missione ad gentes. La Chiesa esiste per evangelizzare. Fedeli al comando del Signore Gesù Cristo, i suoi discepoli sono andati nel mondo intero per annunciare la Buona Notizia, fondando dappertutto le comunità cristiane. Col tempo, esse sono diventate Chiese ben organizzate con numerosi fedeli. In determinati periodi storici, la divina Provvidenza ha suscitato un rinnovato dinamismo dell’attività evangelizzatrice della Chiesa. Basti pensare all’evangelizzazione dei popoli anglosassoni e di quelli slavi, o alla trasmissione del Vangelo nel continente americano, e poi alle stagioni missionarie verso i popoli dell’Africa, dell’Asia e dell’Ocea nia. […] Anche nei nostri tempi lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa un nuovo slancio per annunciare la Buona Notizia, un dinamismo spirituale e pastorale che ha trovato la sua espressione più universale e il suo impulso più autorevole nel Concilio Ecumenico Vaticano II. Tale rinnovato dinamismo dell’evangelizzazione produce un benefico influsso sui due «rami» specifici che da essa si sviluppano, vale a dire, da una parte, la missio ad gentes, cioè l’annuncio del Vangelo a coloro che ancora non conoscono Gesù Cristo e il suo
10 Id., Discorso alla Seduta Plenaria del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione (30.6.2011): AAS 103(2011)6, 400-402.
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Teologia dell’evangelizzazione messaggio di salvezza; e, dall’altra parte, la nuova evangelizzazione, orientata principalmente alle persone che, pur essendo battezzate, si sono allontanate dalla Chiesa, e vivono senza fare riferimento alla prassi cristiana. L’Assemblea sinodale che oggi si apre è dedicata a questa nuova evangelizzazione, per favorire in queste persone un nuovo incontro con il Signore, che solo riempie di significato profondo e di pace la nostra esistenza; per favorire la riscoperta della fede, sorgente di Grazia che porta gioia e speranza nella vita personale, familiare e sociale. Ovviamente, tale orientamento particolare non deve diminuire né lo slancio missionario in senso proprio, né l’attività ordinaria di evangelizzazione nelle nostre comunità cristiane. In effetti, i tre aspetti dell’unica realtà di evangelizzazione si completano e fecondano a vicenda.11
Come si può osservare, si è introdotti in una distinzione di non poco conto. Da Evangelii nuntiandi, in cui il tema dell’evangelizzazione diventava un programma per la Chiesa particolare, al sinodo del 2012 dove la nuova evangelizzazione si coniuga, di fatto, con la trasmissione della fede, ciò che si compie è l’individuazione dei luoghi, persone e contesti che specificano ulteriormente l’evangelizzazione della Chiesa come nuova evangelizzazione. La distinzione tra missio ad gentes e nuova evangelizzazione diventa, quindi, non solo necessaria ma determinante per comprendere le nuove strade che si aprono per la Chiesa nell’immediato futuro. Tutta l’evangelizzazione, quindi, richiede «nuovo ardore», «nuovi metodi» e «nuove espressioni». Questo, secondo l’omelia di Benedetto XVI, tocca di fatto la pastorale ordinaria che deve strutturarsi in modo tale da restituire slancio missionario ai battezzati. Da qui, comunque, è necessario che l’opera di evangelizzazione si apra alla missio ad gentes e alla nova evangelizatio, secondo le differenziazioni descritte.
3. Il
destinatario
Poiché lo spirito missionario è venuto meno nei battezzati a causa di diverse espressioni ideologiche che si sono imposte acriticamente nel corso dei decenni, ciò che costituisce la nuova evangelizzazione viene ora maggiormente specificato nell’individuazione del destinatario che impone «nuovo ardore», «nuovi metodi» e «nuove espressioni» per la sua stessa mutata condizione storica, culturale e sociale. Il fatto non deve meravigliare. Conoscere la storia della Chiesa consente di verificare come il destinatario dell’evangelizzazione non sia mai stato un fatto accidentale, ma essenziale nella scelta dei contenuti e dei linguaggi utilizzati dai missionari e dai teologi.12 Alcuni sostengono che non si debba
11 Id., Omelia durante la celebrazione eucaristica per l’apertura del Sinodo dei Vescovi (7.10.2012). 12 È sufficiente scorrere le diverse epoche storiche dell’apologetica per verificare l’attenzione costante al destinatario nella formulazione delle rispettive contestazioni; cf. R. Fisichella, La Rivelazione evento e credibilità. Saggio di Teologia Fondamentale, EDB, Bologna 82002, 19-21.
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parlare di «destinatario», ma di «interlocutore». La differenza semantica può essere utile, ma come sempre necessita di una sua chiarificazione. L’evangelizzazione non è diretta solo a quelli che hanno animo di interloquire con i credenti, ma è destinata a tutti, anche a quanti intendono rifiutare il messaggio. Per questo motivo mi sento alquanto scettico nel dover accogliere la richiesta di sostituzione. Il destinatario pertanto rimane uno degli obiettivi a cui guardare non per modificare il messaggio dell’annuncio, che ovviamente rimane sempre lo stesso, ma per comprendere in quale modo possa e debba essere mediato.
4. Il
dibattito sinodale
Su questo scenario si può sintetizzare maggiormente il dibattito sinodale che si trova racchiuso nelle Propositiones consegnate al santo padre per la sua redazione della tradizionale esortazione apostolica. Per la personale lettura che sono riuscito a fare dell’intero dibattito sinodale, mi sembra che le linee emergenti si possano descrivere come segue. 1. Si è voluto affermare, anzitutto, il fondamento trinitario dell’opera di evangelizzazione che la Chiesa non può mai dimenticare. La Trinità è fonte e origine di ogni annuncio del vangelo come proclamazione della salvezza attuata dal mistero dell’incarnazione di Gesù Cristo. Ciò comporta il riconoscimento del primato della grazia che permette di compiere un cammino permanente, così da consentire allo Spirito di agire in noi. La grazia permette l’incontro personale con Cristo e fa riconoscere il volto della Chiesa come la comunità dei credenti che offre la salvezza e i segni efficaci per poterla vivere fin d’ora nell’attesa del pieno compimento. Tra l’altro, il riconoscimento di questo primato permetterebbe di superare molte forme di protagonismo spirituale di cui il nostro contemporaneo è purtroppo affetto. Non si è trascurato il ruolo della Chiesa particolare come primo soggetto dell’evangelizzazione, riconoscendo l’esigenza di un rinnovato rapporto tra tutte le componenti del popolo di Dio, in modo che ognuno si senta coinvolto nell’opera di annuncio e testimonianza del vangelo senza poter delegare alcuno. Ogni battezzato deve riscoprire la propria identità di essere evangelizzatore. 2. Un secondo capitolo di particolare rilevanza riguarda il contesto culturale che presenta i tratti del secolarismo come ultimo atto di un processo di secolarizzazione molto più ampio, che possiede elementi di indiscussa complessità. Questo orizzonte di pensiero merita di essere considerato sia nelle sue gravi sfide che pone alla fede, sia come un’opportunità offerta alla comunità credente per rinnovare le proprie categorie di pensiero e di linguaggio. Benedetto XVI ha più volte ribadito l’importanza di «allargare la ragione». Questo impegno si rende tanto più necessario quanto più ci troviamo in un contesto culturale fortemente segnato dal progresso della scienza e della ragione tecnica. Diventa per
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noi indispensabile, quindi, elaborare nuove categorie del sapere teologico in grado di esprimere con maggior coerenza i contenuti della fede. 3. Con gli occhi fissi sul mistero della Trinità e dell’incarnazione, che sono il fondamento della nuova evangelizzazione, si è pensato di offrire una visione nuova dell’antropologia, mostrando quanto sia fortemente caratterizzante la persona il suo essere in relazione, fonte di rapporti interpersonali, di comunione e di amore. Lo specifico del cristianesimo consiste proprio in questa volontà di incontrare ogni uomo per consentirgli di ritrovare se stesso nel momento in cui incontra Cristo. È necessario, comunque, che si trovi la forza per uscire dai diversi schemi culturali imposti dal secolarismo che non consentono più di riconoscerne i limiti e le contraddizioni di alcuni stili di vita. In questo contesto, la nuova evangelizzazione diventa importante per evidenziare che la missione della Chiesa nel suo evangelizzare sa cogliere gli aspetti basilari dell’umano e della creaturalità come elementi fondamentali in cui innestare l’annuncio di Gesù Cristo. Ciò esprime il desiderio perenne della nostalgia di Dio presente in ogni creatura ed è segno del senso religioso che può essere compromesso in alcuni momenti, ma mai cancellato dal cuore dell’uomo. Per questo si può pensare a un percorso che si fa carico di sostenere l’importanza della legge naturale come un universale riconoscimento per l’impegno nella politica, nell’economia e nei diversi ambiti del vivere civile e sociale. Maggior importanza, comunque, acquista la nostra capacità di riconoscere il «dialogo» come un linguaggio a noi proprio, che consente di relazionarci nella nostra missione con «dolcezza, rispetto e retta coscienza» (1Pt 3,16) a quanti sono destinatari del nostro annuncio. Un destinatario a cui spesso la nostra parola arriva come un primo annuncio,13 che lo raggiunge in quella situazione esistenziale che impone l’attenzione alle domande di senso che albergano nel cuore di ogni uomo. Unitamente al dialogo, si è sottolineata la nostra necessaria dedizione all’annuncio che può giungere fino al martirio come espressione ultima della credibilità della fede. Un martirio che in questa cultura assume ormai i tratti di una forma di emarginazione e controllo del linguaggio fino a giungere alla derisione. È in questo contesto, mi sembra, che si possono riportare le diverse tematiche emerse circa le emergenze del nostro tempo: la libertà e lo sviluppo della persona nella società di oggi; la centralità della famiglia; gli scenari urbani (e i centri rurali) che richiedono una pastorale diversificata; l’attenzione ai malati e ai poveri; il grande tema dell’immigrazione mondiale; le tematiche che ruotano attorno alla dottrina sociale della Chiesa; i nuovi volti della povertà e dell’emarginazione giovanile. 4. Non abbiamo tralasciato di considerare che l’urgenza della nuova evangelizzazione impone anche un serio esame di coscienza su diversi
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Propositiones, n. 9.
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aspetti della pastorale che si sono sclerotizzati con il passare del tempo e non consentono più di esprimere la forza della fede e la sua originalità. Per questo ritorna importante il termine di «conversione pastorale» come consapevolezza di una rinnovata esigenza di attenzione al momento presente e alle domande del nostro contemporaneo. Proprio la «conversione pastorale» ha portato a sottolineare il richiamo alla santità. Essa è vocazione di ogni battezzato e luogo privilegiato in cui ognuno riconosce la propria identità pur vissuta nei differenti stati. In questo contesto, si può inserire tutta la tematica riguardante i soggetti della nuova evangelizzazione e la formazione loro dovuta.14 5. Un capitolo importante è stato dedicato alla liturgia come spazio privilegiato della nuova evangelizzazione, che richiede una preparazione adeguata per essere vissuta e celebrata in modo coerente. Su questo orizzonte i padri sinodali si sono soffermati sull’importanza che riveste la formazione dei chierici e dei sacerdoti, soprattutto in riferimento ad alcuni momenti specifici. In primo luogo, alla celebrazione del sacramento dell’eucaristia, dove l’ars celebrandi può aiutare a scoprire la bellezza del mistero evocato. In essa il grande ruolo svolto dall’omelia, che va sostenuta dalla preghiera e da una preparazione seria, che parte dallo studio della parola di Dio per ritornare al momento presente a cui essa dà luce e sostegno. L’omelia deve farsi forte di un linguaggio coerente che sia accessibile a tutti, toccando la mente e il cuore dei credenti per consentire loro di condurre una vita da discepoli di Cristo. Non si può dimenticare quante persone lontane sono spesso presenti ad alcune celebrazioni e l’omelia può essere un genuino strumento di annuncio. Il recupero del concetto della «festa» appare molto importante in un contesto che tende a svuotarne il valore e il significato.15 Il sacramento della riconciliazione, la «sorella del battesimo», dovrebbe ritornare al centro della vita credente; dovrebbe essere vissuto maggiormente come esperienza dell’incontro con la misericordia di Dio che si realizza con il perdono. La proposizione in questione sottolinea l’importanza di individuare in ogni diocesi uno o più luoghi in cui i fedeli possano avere certezza di trovare sempre il sacerdote disponibile nel confessionale per aiutare il loro cammino di conversione. Si è chiesto, infine, che la Chiesa diventi di nuovo strumento di riconciliazione tra gli uomini, soprattutto in un periodo di violenza gratuita, di guerra e di egoismo.16 6. Un ulteriore capitolo ha toccato i temi relativi allo stile di vita dei credenti, ai diversi volti con cui si esprime la carità e il ruolo svolto dalle differenti categorie di persone. Prima di entrare nel merito delle singole specificazioni, si deve ricordare la posizione secondo la quale è impor-
Ivi, nn. 22s. Ivi, nn. 34s. 16 Ivi, n. 33. 14 15
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tante riconoscere nella Chiesa l’impegno del soggetto come quello di un «soggetto ecclesiale». Ogni credente porta con sé l’appartenenza alla comunità credente e la sua identità non è separabile da essa. Ogni manifestazione del credente, quindi, porta con sé la nota dell’ecclesialità. A partire da qui diventa importante la parrocchia come luogo privilegiato della nuova evangelizzazione,17 la presenza dei diaconi permanenti, dei laici e delle donne, delle persone di vita consacrata con le diverse opere formative e di carità che nella fedele dinamica al carisma originario possono di nuovo esprimere un’autentica rivoluzione culturale. Un’attenzione particolare è dovuta al mondo giovanile e alla famiglia nel suo insostituibile ruolo di trasmissione della fede. Non abbiamo trascurato di considerare i «nonni», che particolarmente oggi diventano un prezioso aiuto nella trasmissione della fede. Le associazioni laicali, in primo luogo l’ACI, e i movimenti storici e nuovi che sono nati per la nuova evangelizzazione meritano di essere riconosciuti come una presenza efficace e significativa nella pastorale.18 7. Un capitolo importante è stato segnato dall’esigenza di saper presentare il cristianesimo al nostro contesto contemporaneo. Ripetuti interventi dei padri sinodali hanno chiesto che si promuova una nuova apologia del cristianesimo, capace di compiere una presentazione coerente ed efficace del cristianesimo, soprattutto in un frangente storico come questo che vede i cristiani in uno stato di disorientamento ed emarginazione. L’esigenza si impone, tra l’altro, per superare la frammentarietà della cultura dei nostri giorni, e per ritrovare l’unità fondativa del nostro cre- dere. Questa apologia dovrebbe essere impregnata del l’espe rienza originaria dell’incontro personale con Cristo che la Chiesa consente di avere. Un’apologia della fede che dovrebbe svilupparsi in diversi capitoli: presentare ai credenti, anzitutto, le ragioni dell’atto di fede e l’unione intrinseca con la verità dei suoi contenuti; inoltre, la sua presentazione presso i tanti che spesso hanno conoscenze vaghe, distorte e false. In questo senso, si è trattato dell’importanza del Credo, preziosa sintesi della fede, che merita di essere studiato a memoria e divenire di nuovo la preghiera quotidiana dei credenti. In questo orizzonte, come si è accennato, la catechesi si è imposta con tutta la sua importanza per la formazione dei credenti come uno studio sistematico che ne ripercorre le quattro tappe classiche. Si è convenuto sull’importanza del Catechismo della Chiesa Cattolica e del Compendio, senza dimenticare la necessaria mediazione che ne è richiesta, ma superando le obiezioni ideologiche ancora presenti. Si è sottolineata l’importanza di valorizzare al meglio la figura del catechista. I padri sinodali, comunque, hanno ribadito quanto sia importante compiere un serio discernimento per l’insegnamento della catechesi. È urgente che il catechista sia accompagnato e seguito perché
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Ivi, n. 26. Di fatto è la quarta parte in cui sono racchiuse le Propositiones, nn. 41-56.
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cresca nella consapevolezza di un servizio fatto alla comunità a nome della Chiesa. In tal senso è bene che il vescovo riscopra questa sua peculiare attività svolgendo la catechesi nella propria cattedrale. Il tema della formazione è stato globale. Si è ripetutamente sottolineato che anche le Facoltà teologiche svolgono un servizio peculiare per la nuova evangelizzazione e devono strutturarsi in modo tale da rendere sempre più efficace questo servizio nella Chiesa.19 8. Da ultimo, si è trattato di tematiche legate alla comunicazione della fede e alle sue diverse forme di espressione. Se, da una parte, si sostiene la grande importanza che i mezzi di comunicazione esprimono tanto da essere divenuti loro stessi una nuova cultura, dall’altra si è ribadito quanto sia insostituibile l’incontro personale che da sempre esprime al meglio la trasmissione della fede. Esistono, comunque, forme che richiamano alla bellezza creata dall’arte cristiana nelle sue differenti manifestazioni, che oggi sono degli autentici preambula fidei per molti. Questa forma di bellezza, infatti, può corrispondere al desiderio di conoscenza presente in diversi settori. Un ulteriore ambito è fornito dai pellegrinaggi, dai santuari e dalla pietà popolare in genere. Le esperienze in tal senso sono molteplici, ma tutte evidenziano l’importanza di una simile prassi e quanto affascinino i giovani nel riscoprire l’importanza del cammino. Per questo meritano un’attenzione particolare che sappia proporre una vera pastorale del pellegrinaggio. Come si può osservare, i contenuti dei lavori sinodali sono stati molti e le Propositiones nel loro insieme possono dare un primo sguardo sulle intense settimane di lavoro svolto in un clima di autentica fraternità, di impegno comune e di entusiasmo per la scoperta della nuova evangelizzazione come provocazione data alla Chiesa per il suo cammino dei prossimi decenni. Ci accompagna la certezza che questo percorso non poggia sulle nostre povere forze – se così fosse saremmo da compiangere – ma sulla forza della presenza di Cristo risorto in mezzo alla sua Chiesa per renderla ogni volta più bella, senza macchia e, sarebbe più che mai il caso di dire, senza «ruga». Forse mai come in questo caso potrebbe essere valido il richiamo di un documento sempre attuale come Evangelii nuntiandi, quando affermava che è necessario riscoprire il fondamento della comunione per essere capaci di una nuova evangelizzazione: La forza dell’evangelizzazione risulterà molto diminuita se coloro che annunziano il Vangelo sono divisi tra di loro da tante specie di rotture. Non starebbe forse qui uno dei grandi malesseri dell’evangelizzazione oggi? Infatti, se il Vangelo che proclamiamo appare lacerato da discussioni dottrinali, da polarizzazioni ideologiche o da condanne reciproche tra cristiani in balìa delle loro diverse teorie sul Cristo e sulla Chiesa, e anche a causa delle
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Teologia dell’evangelizzazione loro diverse concezioni sulla società e le istituzioni umane, come potrebbero coloro a cui è rivolta la nostra predicazione non sentirsene turbati, disorientati, se non addirittura scandalizzati? Il testamento spirituale del Signore ci dice che l’unità tra i suoi seguaci non è soltanto la prova che noi siamo suoi, ma anche che egli è l’inviato del Padre, criterio di credibilità dei cristiani e del Cristo medesimo. In quanto evangelizzatori, noi dobbiamo offrire ai fedeli di Cristo l’immagine non di uomini divisi e separati da litigi che non edificano affatto, ma di persone mature nella fede, capaci di ritrovarsi insieme al di sopra delle tensioni concrete, grazie alla ricerca comune, sincera e disinteressata della verità. Sì, la sorte dell’evangelizzazione è certamente legata alla testimonianza di unità data dalla Chiesa. È questo un motivo di responsabilità ma anche di conforto.20
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Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8.12.1975), n. 77: EV 5/1704.
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La Teologia dell’evangelizzazione a Bologna nel quadro della teologia post-conciliare Un bilancio tra continuità e sviluppi Luciano Luppi Premessa La Licenza in Teologia dell’evangelizzazione (LTE) prese avvio a Bo logna 35 anni fa, nell’autunno del 1977, insieme allo Studio teologico accademico bolognese (STAB), che dal 29 marzo 2004 ha lasciato il posto alla Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna (FTER). In realtà il secondo ciclo dello STAB era composto da due specializzazioni, una appunto in Teologia dell’evangelizzazione presso il Pontificio seminario regionale di Bologna, e l’altra in Teologia sistematica (LTS) a indirizzo tomista, presso il Convento dei padri domenicani. Le due licenze sono state assunte dalla FTER, che le ha integrate con una terza in Storia della teologia (LST).1 Dal 1997 viene pubblicata con scadenza semestrale la Rivista di Teologia dell’evangelizzazione. Questa relazione di apertura del convegno si propone di avviare un bilancio della Teologia dell’evangelizzazione sviluppata in 35 anni di attività accademica. Non potendo prendere in esame tutta l’attività svolta in questi sette lustri, dai corsi accademici, ai convegni ufficiali, alle tesi di licenza e dottorato, agli articoli pubblicati nella Rivista di Teologia
1 Si veda E. Castellucci, «La Licenza in Teologia dell’evangelizzazione: la teologia nella prospettiva dell’annuncio di Cristo», in Rte 9(2005)17, 11, che ha svolto un primo significativo bilancio sull’argomento.
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dell’evangelizzazione, ai volumi della collana «Biblioteca di Teologia dell’evangelizzazione» (BTE),2 cercheremo di individuare i contributi più significativi, in grado di far emergere le linee principali della ricerca e della riflessione maturate in questi anni. Si tratta dunque di un bilancio che rinuncia in partenza alla pretesa di un inventario esaustivo, anche perché a un tale inventario sfuggirebbe comunque ciò che in ultima analisi è veramente decisivo: la ricaduta dell’attività accademica nel vissuto degli evangelizzatori e nel ripensamento della prassi ecclesiale evangelizzatrice.
1. Il
valore di una scelta coraggiosa e anticipatrice : una licenza in T eologia dell ’ evangelizzazione (TE)
La nostra riflessione si colloca in un convegno che vuole essere insieme occasione di bilancio e di rilancio per la Teologia dell’evangelizzazione. In questa prospettiva siamo confermati e incoraggiati dai lavori del recente sinodo sulla nuova evangelizzazione. I padri sinodali, infatti, hanno chiamato esplicitamente in causa la ricerca teologica sull’evangelizzazione, proponendo che «la nuova evangelizzazione sia considerata una dimensione integrale della missione di ogni facoltà teologica e che un dipartimento di studi sulla nuova evangelizzazione venga istitui to nelle università cattoliche» (Propositio, n. 30) e lanciano un appello «ai teologi di accettare e rispondere alle sfide intellettuali della Nuova evangelizzazione partecipando alla missione della Chiesa di proclamare a tutti il Vangelo di Cristo» (Propositio, n. 17). A maggior ragione, dunque, la scelta fatta 35 anni fa di qualificare un percorso come «Teologia dell’evangelizzazione» è stata coraggiosa e anticipatrice. Tale scelta è nata nel quadro della decisione dell’episcopato italiano di impostare il cammino pastorale comune negli anni ’70 del secolo scorso nella prospettiva di «evangelizzazione e sacramenti», e ancor più alla luce della grande esortazione pastorale post-sinodale Evangelii nuntiandi
2 Collana di studi monografici del Dipartimento di Teologia dell’evangelizzazione diretta da don Maurizio Marcheselli, che tra il 2005 e il 2012 ha pubblicato presso le Edizioni Dehoniane di Bologna i seguenti volumi: E. Manicardi, Gesù, la cristologia, le Scritture. Saggi esegetici e teologici, a cura di M. Marcheselli (2005); M. Marcheselli, «Avete qualcosa da mangiare?». Un pasto, il Risorto, la comunità (2006); G. Benzi, «Ci è stato dato un figlio». Il libro dell’Emmanuele (Is 6,1–9,6): struttura retorica e interpretazione teologica (2007); M. Tagliaferri (a cura di), Il Vaticano II in Emilia-Romagna. Apporti e ricezione (2007); E. Castellucci, Annunciare Cristo alle genti. La missione dei cristiani nell’orizzonte del dialogo tra le religioni (2008); D. Gianotti, I Padri della Chiesa al concilio Vaticano II. La teologia patristica nella «Lumen gentium» (2010); G. Ziviani, Una Chiesa di popolo. La parrocchia nel Vaticano II, prefazione di mons. Franco Giulio Brambilla (2011).
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di Paolo VI (1975). Con questa esortazione pensata nel contesto dell’Anno santo e come attuazione della richiesta dei padri del III Sinodo dei vescovi dedicato all’evangelizzazione, papa Montini voleva ribadire, a dieci anni dalla chiusura del concilio Vaticano II, la finalità profonda del concilio stesso «i cui obiettivi – scriveva Paolo VI – si riassumono, in definitiva, in uno solo: rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il vangelo all’umanità del XX secolo».3 In tal modo il Seminario regionale di Bologna, con la sua specializzazione in Teologia dell’evangelizzazione, sarebbe potuto diventare – come scriveva mons. Paolo Rabitti, uno dei principali artefici insieme a mons. Serafino Zardoni della nascita dello STAB, sostenuta fortemente dal card. Antonio Poma – «il punto di riferimento più proprio per il servizio della teologia all’opera di evangelizzazione dell’Emilia-Romagna».4 Si trattava indubbiamente di un’impresa ardua e per la quale non c’erano modelli cui ispirarsi, ma che non intendeva alludere – come scriveva nel 1993 E. Manicardi – «a una teologia con sconti accattivanti o con qualche nascosta semplificazione metodologica. Il riferimento è piuttosto a una teologia che, pur volendo evitare decisamente le tentazioni del formalismo accademico, non è disposta a perdere niente in serietà proprio perché si sa destinata – attraverso l’ascolto e l’interpretazione del vangelo – al servizio dell’uomo».5 Ma c’era anche la consapevolezza che questa scelta di qualificare il proprio ciclo specialistico come Licenza in Teologia dell’evangelizzazione avveniva a metà degli anni ’70 – come scrive sempre Manicardi – «quando alla prima recezione conciliare ne seguiva una seconda, più impegnativa e ponderata, e mentre la società italiana cercava tra grandi fatiche assetti diversi». Questa consapevolezza della decisività e delle sfide poste dall’evangelizzazione era indubbiamente viva nel tessuto
3 «È proprio ciò che Noi vogliamo fare qui, al termine di questo anno santo, nel corso del quale la Chiesa, “protesa con ogni sforzo verso la predicazione del vangelo a tutti gli uomini”, non ha voluto fare altro che compiere il proprio ufficio di messaggera della buona novella di Gesù Cristo, proclamata in virtù di due consegne fondamentali: “Rivestitevi dell’uomo nuovo”, e “Lasciatevi riconciliare con Dio”. Vogliamo farlo in questo decimo anniversario della chiusura del concilio Vaticano II, i cui obiettivi si riassumono, in definitiva, in uno solo: rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il vangelo all’umanità del XX secolo. Vogliamo farlo ad un anno dalla terza assemblea generale del sinodo dei vescovi – dedicata, come è noto, all’evangelizzazione – tanto più che questo ci è stato richiesto dagli stessi padri sinodali. Infatti, alla fine di quella memorabile assemblea, essi hanno deciso di rimettere al pastore della chiesa universale, con grande fiducia e semplicità, il frutto del loro lavoro, dichiarando che si aspettavano dal papa uno slancio nuovo capace di creare, in una chiesa ancor più radicata nella forza e nella potenza perenni della pentecoste, nuovi tempi d’evangelizzazione» (Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi [EN] [8.12.1975], n. 2: EV 5/1589). 4 P. Rabitti, «Mons. Serafino Zardoni ovverossia “della fedeltà”», in E. Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione. Saggi in onore di Mons. Serafino Zardoni, EDB, Bologna 1993, 23. 5 Si veda E. Manicardi, «Presentazione», in Id. (a cura di), Teologia ed evangelizzazione. Saggi in onore di Mons. Serafino Zardoni, 5.
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ecclesiale bolognese e più in generale emiliano-romagnolo, confrontato con una cultura e una proposta politica antropologicamente forte e militante. Il titolo stesso della specializzazione «portava anche implicita una sfida: la proposta del vangelo a fronte dell’alternativa, se non della contrapposizione, costituita da non poche proposte immanenti di salvezza».6
2. Significativi i convegni
indicatori di marcia :
Un primo bilancio lo possiamo fare ripercorrendo i convegni. I primi sei convegni dello STAB – celebrati dal 1982 al 1998 da en trambe le sezioni – attestano una tematizzazione più diretta dell’evangelizzazione nel secondo del 1985 e poi a partire dal quarto: – L’uomo e l’annuncio della Parola di Dio (23-24 ottobre 1985) (II);7 – La coscienza morale e l’evangelizzazione oggi: tra valori obiettivi e tecniche di persuasione (6-7 maggio 1992) (IV); – Approfondimento concettuale della fede e inculturazione (3-4 mag gio 1995) (V); – La teologia nella Chiesa e nel mondo: una doppia appartenenza? (6-7 maggio 1998) (VI). Col 1998 si interruppero i convegni, in seguito all’avvio nel 1999 delle procedure per l’erezione della Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna, e sono ripresi come espressione del Dipartimento di Teologia dell’evangelizzazione [DTE] nel 2005: – La Teologia dell’evangelizzazione in un mondo che cambia (17 novembre 2005). In questo convegno non solo si è ripreso intenzionalmente il titolo degli orientamenti pastorali CEI per il primo decennio del 2000, ma si è cercato di fare un bilancio di circa trent’anni d’insegnamento e ricerca a Bologna – allo STAB prima e ora alla FTER – dalla nascita, nel 1977, di un biennio specialistico di Licenza in TE. È stata l’occasione per interrogarsi, a partire da quanto maturato in questo arco di tempo, sullo statuto epistemologico e sui contenuti di una TE, nonché sul soggetto dell’evangelizzazione
6 Ivi, 5. Il volume raccoglie i contributi del «gruppo di docenti che hanno lavorato in questi primi quindici anni di vita dello STAB», riuniti insieme per festeggiare i «quarant’anni di ininterrotto insegnamento di teologia dogmatica al seminario regionale di Bologna» di mons. Serafino Zardoni (ivi, 6). 7 Di questo convegno non furono pubblicati gli Atti, salvo la relazione di Camillo Ruini (allora vescovo ausiliare di Reggio Emilia e Guastalla e docente allo STAB): «Dalla Parola alla cultura», in Vita e Pensiero 70(1987)5, 322-328, e in C. Ruini, Il Vangelo nella nostra storia. Chiesa cultura e società in Italia, Città nuova, Roma 1989.
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La Teologia dell’evangelizzazione a Bologna nel quadro della teologia post-conciliare e sul mutato contesto in cui essa avviene (in un mondo che – appunto – cambia).8
– L’apporto della Chiesa di Bologna al concilio Vaticano II e la recezione del concilio nelle Chiese dell’Emilia-Romagna (13-14 dicembre 2006),9 convegno patrocinato dalla Conferenza episcopale italiana, «rappresenta il primo tentativo in Italia di riflessione su scala regionale della recezione del concilio» («Presentazione», p. 5). I vari contributi consentono di ben individuare sia gli ambiti che sono stati privilegiati, sia le figure – vescovi, presbiteri e laici – che si sono maggiormente distinte nel lavoro di traduzione delle novità conciliari. Gli esiti di speranze, entusiasmi e delusioni vissuti in quegli anni sono inoltre approdati nelle Chiese di oggi e contribuiscono a definirne l’attuale volto poliedrico. – Il dialogo ecumenico e interreligioso in Emilia-Romagna. Aspetti e prospettive (2 dicembre 2009) (IV Convegno della FTER),10 convegno «finalizzato a offrire non solo un’indagine teologica e sociologica, ma anche un contributo alla pastorale delle nostre comunità ecclesiali» («Presentazione», p. 7). Gli Atti sono corredati di 110 pagine di interviste agli esponenti delle diverse religioni e movimenti, raccolte dal Gruppo di ricerca e informazione socio-religiosa (GRIS) di Bologna. Ripercorrendo anche solo i titoli dei convegni, constatiamo la ricerca di progressivi approfondimenti di ambiti significativi riguardanti l’evangelizzazione, con una duplice emblematica focalizzazione, quella della riflessione teologica e quella dell’attenzione ai vissuti e alle prassi delle Chiese particolari.
3. Due
primi fondamentali contributi
Fin dall’inizio la riflessione sull’evangelizzazione è polarizzata sul tema della rilevanza storica e culturale della fede. Ricordiamo su questa linea due importanti contributi.
3.1. La
redenzione di C risto operata nella storia della (mons. Serafino Zardoni)
Chiesa
Innanzitutto un’ampia relazione di mons. Serafino Zardoni, dal titolo «La redenzione di Cristo operata nella storia della Chiesa», che porta la
8 Consiglio di redazione, «Editoriale», in Rte 10(2006)19, 10. Gli Atti del convegno sono confluiti nello stesso numero della rivista: ivi, 11-83. 9 Pubblicato col titolo M. Tagliaferri (a cura di), Il Vaticano II in Emilia-Romagna. Apporti e ricezione (BTE 4), EDB, Bologna 2007, 520 pp. Il convegno è stato pensato anche come celebrazione dei dieci anni dalla morte di don Giuseppe Dossetti. 10 Gli Atti sono stati pubblicati in un Supplemento a Rte 14(2010)28, 255 pp.
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data del 1975.11 Si tratta di una riflessione che si muove sulla scia della Traccia di riflessione in preparazione al I Convegno della Chiesa italiana su Evangelizzazione e promozione umana e nel quadro del dibattito sorto al sinodo del 1974 sull’evangelizzazione. Mons. Zardoni ribadisce per prima cosa i capisaldi del vangelo della salvezza (kerygma cristologico, Cristo rivelatore della vita trinitaria e redentore, la Chiesa custode e mediatrice del vangelo della salvezza) e conclude che «ogni lettura di Cristo e della Chiesa che chiuda messianismo e salvezza entro i confini del mondo e della storia, non potrà essere una lettura cristiana […], perché mancherebbe il “proprium” del cristianesimo». Poi prende in esame il problema riconducendolo alla seguente domanda: «Se la prospettiva escatologica, propria del cristianesimo, escluda o si contrapponga alla prospettiva incarnazionistica; o come l’una continui nell’altra».12 Qui viene per noi la parte più interessante della relazione di mons. Zardoni, nella quale affronta il problema fede-storia, come orizzonte complessivo del rapporto fede-politica, evangelizzazione-promozione umana. Egli articola la sua posizione attorno a cinque affermazioni fondamentali: 1) la fede ha sempre una dimensione storica e politica, altrimenti ricadrebbe «al rango di gnosi»; 2) la fede ha una funzione critica nei confronti della storia; 3) la fede è creatrice della storia, «pur nel limite e nella fragilità intrinseca all’uomo»; 4) la fede salva la storia aprendola verso l’eskaton, perché è «creatrice di un futuro personale e sociale secondo le promesse di Dio»; 5) la fede è mediata dalla storia, cioè «è possibile costruire la storia secondo il progetto di Dio […] solo attraverso le mediazioni culturali e storiche della politica, della sociologia, dell’economia […] mezzi sempre imperfetti, relativi, temporanei […] e quindi sempre riformabili e perfettibili», superando la presunzione integralista «di applicare alla storia la fede allo stato puro» e l’altra tentazione della «neutralizzazione» della fede e della Chiesa.
11 Relazione tenuta a una «tre giorni» di studio presso il Centro di apostolato ascetico Madonnina del Grappa, Sestri Levante (Genova) nel dicembre 1975, e stampata l’anno seguente in un quaderno dello stesso Centro, intitolato Cristiani per il mondo. Evangelizzazione e promozione umana, e proposta in apertura alla miscellanea Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione. Saggi in onore di Mons. Serafino Zardoni, 27-47. 12 S. Zardoni, «La redenzione di Cristo operata nella storia della chiesa», in Manicardi (a cura di), Teologia ed evangelizzazione. Saggi in onore di Mons. Serafino Zardoni, 37 e 34. Acutamente il prof. Zardoni nota un’incongruenza nella formulazione offerta invece dalla Traccia di riflessione in preparazione al suddetto convegno: «Non esiste contrapposizione tra “uomo di Dio” e “uomo della storia”: che anzi il secondo deriva dal primo. Ma che questo non sia una cosa così facile da comprendere, è provato dal lapsus sfuggito all’esten sore della Traccia, il quale chiede come può l’evangelizzazione “aggiungere” luce e forza all’impegno nel mondo. Al di là delle intenzioni, quell’“aggiungere” significa ancora un dualismo insanabile tra uomo di Dio e uomo della storia, dualismo rappattumabile in qualche modo dall’“esterno”, coll’aggiungere qualcosa all’impegno storico derivato da altri motivi» (ivi, 35).
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Mons. Zardoni ci offre dunque delle linee sintetiche e programmatiche esemplari sull’evangelizzazione nella prospettiva della rilevanza storica e culturale della fede. Va rilevata la sua insistenza sulla necessità di far sì che i battezzati diventino «cristiani», cioè si pongano nell’ottica di una «scelta di fede» e di una fede senza amputazioni e pienamente vissuta. Si può lamentare, invece, la mancanza di un confronto più diretto con i vari teologi chiamati in causa, che avrebbe permesso di trarre maggior frutto dall’esa me delle motivazioni e linee progettuali delle diverse posizioni in campo.
3.2. L’uomo e l ’ annuncio della parola di D io (s.ecc. mons. Camillo Ruini) Un secondo rilevante contributo è proposto nel 1985 da un altro docente dello STAB, mons. Camillo Ruini, diventato nel frattempo vescovo. Nel II Convegno STAB-Sezione Seminario regionale, dal titolo L’uomo e l’annuncio della parola di Dio (23-24 ottobre 1985), mons. Ruini tenne un’importante e significativa relazione dal titolo «Dalla Parola alla cultura».13 In essa, dopo aver trattato i vari significati del termine «cultura» e aver dedicato un rapido excursus al retroterra storico del rapporto Parola-cultura (limitatamente all’antichità cristiana e alla questione del soprannaturale) e un più ampio spazio all’esame dei documenti del magistero conciliare e post-conciliare sull’argomento, offriva una piccola mappa dell’attualità teologica: 1) teologia della secolarizzazione (qui rinvia all’opera classica di F. Gogarten del 1953, ma tradotta in italiano nel 1972), che mostra la legittimità cristiana del processo storico che ha condotto all’autonomia delle realtà terrene, e quindi la distinzione/differenza tra fede e cultura, ma lascia aperto e irrisolto l’interrogativo sulla rilevanza attuale della fede, teorizzando come più opportuna e corretta pastoralmente la «diaspora» dei cristiani nel mondo secolarizzato, in convergenza con la teoria di K. Rahner dei «cristiani anonimi»; 2) teologia della speranza e conseguenti teologie politiche e della liberazione: qui rinvia a Moltmann, Metz, Gutierrez, che, a partire dal 1964, in reazione alla teologia della secolarizzazione, rivendicano il ruolo pubblico della fede e la sua capacità di orientare e guidare il futuro dell’uma nità, sulla base dell’idea della globalità della politica e facendo propria la tesi centrale del marxismo del superamento della società borghese. La teologia della liberazione latino-americana, in particolare, anche per una minore coscienza della necessità di controbilanciare la teologia della secolarizzazione, finisce per spingerla ancora più avanti, riconoscendo il ruolo-guida della società ad altre forze, piuttosto che al cristianesimo; 3) teologia dello specifico cristiano (in cui, pur nella riconosciuta loro diversità, si richiamano i contributi di Balthasar, Ratzinger, Kasper):
13
Cf. nota 7.
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iniziata negli anni ’60 del secolo scorso, si è affermata soprattutto attraverso il dibattito teologico del decennio successivo. Tale linea teologica, in reazione alla teologia della secolarizzazione e alla cristologia trascendentale o antropologica (teoria dei «cristiani anonimi») di K. Rahner, rivendica la valenza universale della fede, per ogni ambito della storia e dell’esistenza, ma ciò a partire dal centro della fede stessa, ossia perché in Cristo, unica salvezza dell’umanità, ci è data una determinata e specifica interpretazione dell’umano e pertanto un’antropologia determinata nei suoi contenuti, non ricavabile dalla considerazione, sia pure trascendentale, dell’uomo in quanto tale (è qui la differenza da Rahner). Esiste pertanto lo specifico cristiano, a tutti i livelli […]. Si tratta di una specificazione trascendente, come tale aperta a realizzazioni e incarnazioni sempre diverse, non rigida e integralistica.
Da questa mappatura mons. Ruini fa seguire il suo «tentativo di penetrazione teologica», così riassumibile: «Abbiamo così [nella teologia dello specifico cristiano] un’esplicita e approfondita fondazione teologica e cristologica della visione cristiana del mondo e della “cultura cristiana”, o naturalmente delle “culture cristiane”. Il rifiuto dell’integralismo non deve condurre cioè all’appiattimento secolaristico dei contenuti propri del cristianesimo», che, sembra di capire, secondo Ruini finisce per essere l’esito reale delle due prime linee teologiche, anche di quella politica che reagisce alla teologia della secolarizzazione, perché, pur rivendicando una «rilevanza del cristianesimo per l’uomo, la società e la cultura» e «il ruolo pubblico della fede e la sua capacità di orientare e guidare il futuro dell’umanità», finisce per favorire, «almeno tendenzialmente, una politicizzazione in chiave marxiana del cristianesimo stesso». Da qui Ruini trae precisi «orientamenti pastorali»: – «coscienza che la “modernità” è irrinunciabile, se intesa come centralità del soggetto e consistenza propria delle realtà terrene»; – «altrettanto irrinunciabile è la presenza nella modernità del cristianesimo, come presenza effettiva e pratica, trasformatrice, da realizzarsi nell’accettata e voluta centralità del soggetto e autonomia del mondo»; – «quando si è consapevoli di questa duplice necessità, si supera l’alternativa tra conservazione e progressismo, respingendo sia la visione “catastrofale” della storia moderna sia il rischio di secolarizzazione del cristianesimo, ossia di un suo assorbimento in qualche altro “umanesimo”»; – «analogamente, a livello metodologico, si evita il falso dilemma tra l’affermazione del ruolo-guida della verità cristiana, per salvare lo stesso umanesimo, e il metodo del “discernimento”: infatti lo sforzo per interpretare la complessità e “stare dentro” al continuo cambiamento sociale e culturale (che è la sostanza del discernimento) è la condizione perché il cristianesimo possa porsi, o riproporsi, alla guida della storia. Reciprocamente, il discernimento autentico è possibile solo sulla base della “coscienza di verità” e della responsabilità verso la verità cristiana». Pur in una sostanziale convergenza col contributo di mons. Zardoni, l’apporto di mons. Ruini, svolto peraltro alla distanza di un decennio dal primo e quindi dopo l’esortazione post-sinodale Evangelii nuntiandi di Paolo VI e le
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due encicliche Redemptor hominis e Dives in misericordia di Giovanni Paolo II, appare molto più articolato, e soprattutto si mette in dialogo esplicito con le diverse correnti teologiche contemporanee e con il dibattito conseguente. Di fatto entrambi hanno costituito la base di riferimento dell’iniziale attività accademica della specializzazione in TE.
4. Traiettorie di approfondimento della T eologia dell ’ evangelizzazione 4.1. Provocazioni dell’evangelizzazione alla teologia sistematica 14
Un significativo contributo metodologico è offerto nel 1998 dal prof. Erio Castellucci,15 che mostra come la prospettiva dell’evangelizzazione provochi la teologia sistematica – in particolare la cristologia e l’ecclesiologia – a ripensarsi profondamente, in dialogo con il contesto culturale e le provocazioni storiche. Infatti, nella sua rilettura del cammino della TE dal concilio in avanti mette in luce tre periodi fondamentali. 1) Il primo periodo ruota attorno al Vaticano II. Alla luce del concilio si condanna l’ateismo, ma non il mondo moderno, con il quale si apre una stagione di dialogo. Problema ecclesiologico fondamentale di quegli anni è il rapporto gerarchia-laici (vedi sinodo del 1969). Prende avvio una teologia della missione dal fondamento trinitario (Lumen gentium [LG], nn. 2-4: EV 1/285-287; Ad gentes [AG], nn. 2-4: EV 1/1090-1095), ma ancora da sviluppare. 2) Il secondo periodo ruota attorno alla III Assemblea sinodale del 1974 e alla successiva esortazione apostolica di Paolo VI «Evangelii nuntiandi». L’ateismo militante lascia il posto alla secolarizzazione, all’indifferenza religiosa, alla rimozione della domanda su Dio. Problema ecclesiologico fondamentale: scissione tra Cristo e la Chiesa. L’urgenza della missione proclamata dal concilio diventa l’esigenza dell’evangelizzazione, desti-
14 Privilegiando il confronto della TE con la teologia sistematica non si vuole per questo negare il ruolo fondativo e l’apporto significativo della sacra Scrittura e della liturgia. Si rimanda per questo, oltre agli studi esegetici specifici, ad alcuni interventi sul nostro argomento dei biblisti del DTE: E. Manicardi, «La Bibbia nell’evento dell’evangelizzazione», in Rte 2(1998)3, 21-39; G.D. Cova, «Scrittura ed evangelizzazione», in Rte 2(1998)3, 61-71; M. Marcheselli, «Contributi biblici ad una teologia dell’evangelizzazione», in Rte 10(2006)19, 65-75. Per la liturgia si veda il contributo programmatico di E. Lodi, «Liturgia ed evangelizzazione», in Rte 2(1998)3, 95-109, sulla necessità di un’evangelizzazione di carattere simbolico e liturgico, perché connaturale alla stessa struttura storico-dialogica-esperienziale della rivelazione cristiana. 15 E. Castellucci, «Ecclesiologia, cristologia ed evangelizzazione», in Rte 2(1998)3, 73-94, in particolare 74s.
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nata non più solo ai lontani, ma agli stessi cattolici (ripartire dall’ascolto del vangelo e annuncio di Gesù incarnato, morto e risorto). 3) Il terzo periodo ruota attorno al rapporto con le altre religioni. Si rinvia in particolare alla Redemptoris missio [RM] del 1990 e ai documenti del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso «Dialogo e missione» (1984) e «Dialogo e annuncio» (1991). La secolarizzazione, passando dal relativismo, sfocia nella post-modernità, dove prevale l’irrazionalismo, l’autogestione del sacro, il collage religioso. Problema cristologico fondamentale: scissione tra Cristo e Dio, tra il Logos (forza divina che ispira ciascuna religione) e Gesù (una delle tante possibili concretizzazioni storiche del Logos). La TE precisa ulteriormente il suo metodo consacrando il binomio dialogo-annuncio, fondato su una cristologia pasquale-trinitaria.
4.2. «Nuova
evangelizzazione » ossia quale C hiesa per quale vangelo ?
Accanto a questa interessante periodizzazione occorre riconoscere un ruolo centrale al tema della «nuova evangelizzazione». Avendo attraversato tutto il pontificato di Giovanni Paolo II fino al recente sinodo dell’otto bre 2012, il tema della nuova evangelizzazione è stato oggetto di una costante attenzione, in una feconda interazione con il cammino della Chiesa italiana, sviluppato attorno ai temi di Evangelizzazione e sacramenti; Chiesa, comunione, comunità; Nella storia con la testimonianza della carità; Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia; Educare alla vita buona del Vangelo. Lanciata da Giovanni Paolo II a partire dalla fine degli anni ’70, prima a Cracovia (1979) e poi ad Haiti (1983), la «nuova evangelizzazione» diventa il tema centrale del magistero di Wojtyla.16 Un’evangelizzazione «nuova nel suo ardore, nei suoi metodi, nella sua espressione» (Haiti 1983): la novità riguarda non il contenuto, che resta immutabile, ma l’atteggiamento, lo stile, lo sforzo e la programmazione, arrivando al cuore della cultura da evangelizzare (discorso inaugurale alla IV Conferenza dei vescovi latino-americani del 1992). Distinta dalla cura pastorale e dall’attività missionaria ad gentes (vedi RM 33: EV 12/613-614), la nuova evangelizzazione risponde alla necessità di «rifondare su base missionaria la nostra pastorale nella moderna società industriale» (Discorso alla Conferenza episcopale della Scandinavia, 1° giugno 1989), impegnandosi a «rifare il tessuto cristiano della società» e per questo «rifare il tessuto cristiano delle comunità ecclesiali», cioè formare comunità ecclesiali mature, capaci di una nuova sintesi tra fede e vita (vedi esortazione post-sinodale Christifideles laici del 1989, n. 34: EV 11/1747).
16 M. Fini, «Nuova evangelizzazione 1979-1993. Annunciare il Vangelo nel compimento del moderno», in Il Regno-att. (1993)2, 44-55.
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Il prof. Fini rileva acutamente come per papa Giovanni Paolo II siano due gli ambiti privilegiati della nuova evangelizzazione: la sfida al cristianesimo posta in Europa dalla modernità, caratterizzata da centralità del soggetto, esaltazione della libertà individuale e secolarismo, e la sfida posta dall’America Latina, di come dire che Dio è Padre per le persone cui è tolta ogni dignità. L’emergere di questi due contesti essenziali – dell’Europa e dell’Ame rica Latina – rimette al centro la questione del modello di Chiesa che evangelizza. Una Chiesa che da una parte deve continuamente autoevangelizzarsi e quindi rinnovarsi, dall’altra essere presente in ogni ambito umano, portatrice non solo del vangelo, ma di un’antropologia che evangelicamente ispirata sia capace di entrare nei nuovi «areopaghi», con un «progetto culturale» capace di attuare una nuova «implantatio evangelica» per «rifare il tessuto cristiano della società». Leggendo l’appello alla nuova evangelizzazione come una provocazione a ripensare il soggetto stesso che evangelizza, il prof. Fini ritiene necessario integrare il modello di Chiesa mistero-comunione-missione, proposto a partire dal sinodo straordinario del 1985 e poi nelle esortazioni post-sinodali dal 1988 al 1994, con il modello conciliare di Chiesa popolo di Dio, valutandolo più idoneo a esprimere la Chiesa come soggetto storico concreto, che nasce dall’annuncio del vangelo e ha come compito centrale l’evangelizzazione.17 Solo così la Chiesa può ritrovare la decisività delle Chiese particolari immerse nella storia degli uomini, superare la falsa alternativa tra «Chiesa di popolo» e «Chiesa comunità», visto che il popolo di Dio indica una forma comunitaria, ma non elitaria, ed evitare di rimanere concentrati sui problemi interni della Chiesa, come è avvenuto nel post-concilio, per una vera attenzione missionaria alla storia.18
Ridiventa centrale una verifica della prassi storica delle comunità cristiane e dei singoli battezzati, tenendo sempre presenti entrambi i contesti dell’Occidente secolarizzato e dei poveri dell’America Latina. L’esortazione Evangelii nuntiandi, in effetti, rimandava a Gesù Cristo e al suo messianismo, ma senza svilupparne la prassi storica. Il prof. Fini segnala la necessità di recuperare la prospettiva conciliare di «popolo messianico» (LG 9) e di riprendere in maniera organica e programmatica per la prassi ecclesiale quei temi che già nel 1975 Paolo VI richiamava: evangelizzazione dei poveri, condivisione, segni del Regno… (EN 6-12.27.34).
17 Si veda in particolare la relazione di M. Fini «Chiesa che evangelizza: modelli ecclesiologici e pastorali» al Convegno FTER del 17 novembre 2005, riportata in Rte 10(2006)19, 11-25. A questo proposito è interessante notare che nello schema che raccoglie le tematiche dei corsi di specializzazione in Teologia dell’evangelizzazione si passa da «Parola e Spirito e Chiesa» (1998) all’attenzione alla «Chiesa che evangelizza: modelli ecclesiologici e pastorali» (2005). 18 Fini, «Chiesa che evangelizza», 11-25.
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In ultima analisi «l’evangelizzazione – scrive il prof. Fini rinviando a un acuto testo sintetico di G. Colombo – è l’essere stesso della Chiesa», in quanto «si presenta come la porzione dell’umanità storica che vive l’esistenza umana come l’ha vissuta Gesù Cristo ed è destinata a proporre a tutti gli uomini di vivere come ha vissuto Gesù».19 Sempre focalizzando il tema del modello di Chiesa come popolo di Dio dentro la storia degli uomini, si invita a prendere atto che la Chiesa potrà evangelizzare e realizzare la sua missione solo se si attua come un «soggetto cattolico», che sa valorizzare tutti i doni, in particolare quelli dei fedeli laici e attuare una vera inculturazione. È infatti evidente che senza un laicato cattolico adulto non si può realizzare un’autentica evangelizzazione della cultura, una presenza nei luoghi dove viene «prodotta» la cultura come l’Università e i mass-media. Come senza lasciarsi interrogare dai diversi contesti religiosi e culturali la proposta della fede rischia di rimanere culturalmente irrilevante.
4.3. La prospettiva pasquale-trinitaria decisiva per un ripensamento fecondo dell’evangelizzazione
La visione trinitaria della Chiesa e della sua missione avviata al concilio Vaticano II (LG 2-4; AG 2-4) viene significativamente sviluppata da Giovanni Paolo II in Redemptoris missio (nn. 55-57). Ne consegue per la TE un ulteriore allargamento del suo orizzonte, poiché il dialogo interreligioso viene considerato come parte integrante della missione evangelizzatrice della Chiesa, e ne deriva anche un approfondimento del suo metodo con l’assunzione del binomio dialogo-annuncio. Il fondamento è posto in una cristologia pasquale-trinitaria: senza l’apertura al dialogo si negherebbe la prospettiva pneumatologico-trinitaria che vede lo Spirito agire al di là dei confini visibili della Chiesa, senza l’annuncio evangelico verrebbe taciuta la peculiarità del mistero pasquale e l’irriducibilità dell’evento cristiano.20 Il prof. Castellucci mette in luce come la missione, fulcro dell’ecclesiologia conciliare, postuli il recupero di tutti i «soggetti» ecclesiali: la Trinità e il popolo di Dio, rispettivamente soggetto misterico e soggetto storico della Chiesa. Inoltre rileva come il ripensamento in chiave pasquale-trinitaria dell’ecclesiologia sia indispensabile per la TE, perché solo «un’ecclesiologia che prende avvio dalla risurrezione – e quindi da una cristologia integrale – si mette in grado di affrontare le grandi sfide attuali dell’evangelizzazione»: «La Chiesa vive incarnata nelle vicende storiche,
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Ivi, 20. Castellucci, «Ecclesiologia, cristologia ed evangelizzazione», 75.
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le purifica e si lascia purificare attraverso la logica della croce e opera con l’energia della risurrezione».21 In concreto il prof. Castellucci mostra come i tre misteri cristologici [incarnazione, croce e risurrezione], in una ecclesiologia che prende avvio dalla risurrezione, diventano criteri della missione ecclesiale e in particolare degli aspetti connessi all’evangelizzazione. Negli immensi campi della teologia della missione e del dialogo-annuncio interculturale (inculturazione) e interreligioso, i misteri cristologici sottolineano come il Vangelo si innesti nelle culture e nelle religioni, ne purifichi i tratti e ne mostri il compimento in Cristo: se mantenuti in equilibrio, i tre misteri tradotti nell’ecclesiologia offrono le indicazioni essenziali per una evangelizzazione che non trascuri né la valorizzazione dei germi di verità e di salvezza presenti dovunque, né la loro purificazione alla luce di Cristo, e si impegni a mostrare che ogni elemento «umano», assunto in Cristo, anziché uscirne mortificato ne esce valorizzato. L’avvio dalla risurrezione di Gesù, poi, apre la strada a una considerazione della presenza e azione dello Spirito nelle diverse culture e religioni più ampia di quanto finora sia stata svolta.22
Proprio focalizzando la dimensione pneumatologica dell’evangelizzazione, nella linea di un approfondimento della prospettiva trinitaria, il prof. Maraldi riflette sul tema tradizionale del duplice fronte dell’azione dello Spirito, l’evangelizzatore e il destinatario, invitando a superare una visione puramente funzionale del rapporto tra i due dinamismi, alla luce di Gesù Cristo, «primo e più grande evangelizzatore» (EN 7).23 In Gesù «condotto dallo Spirito» (EN 75) l’annuncio evangelico passa dalla funzione all’incontro personale, in cui egli comunica se stesso, e tale annuncio si compie nella libertà dell’agape e nella kenosi. Egli cioè comunica e rivela se stesso come libero nell’amore del Padre, da cui tutto si riceve e a cui tutto si dona, e cerca e promuove una risposta libera nell’amore. Tale dono di sé si compie in forma kenotica, cioè come radicale uscita da sé nell’amore, che apre non tanto a uno scambio di capacità/doni, ma alla comunione, perché si realizzi come unità nella diversità. Da qui il prof. Maraldi trae alcune conseguenze per l’opera ecclesiale dell’evangelizzazione nella linea della compenetrazione tra i due dinami-
21 Ivi, 93s. «Ignorare la risurrezione di Gesù (come avviene nelle ecclesiologie che si rifanno al solo Gesù uomo) o sottovalutarla (come succede nelle ecclesiologie cristomoniste) oppure, al contrario, eguagliarla all’opera delle altre due persone della Trinità in una concezione allegorista (come in certe ecclesiologie post-conciliari), significa costruire l’ecclesiologia su una cristologia parziale e insufficiente: una cristologia integrale, che prenda avvio dalla risurrezione di Gesù, è invece capace di ispirare un’ecclesiologia che assume le istanze più urgenti della teologia dell’evangelizzazione» (ivi, 91s). 22 Ivi, 93. 23 V. Maraldi, «Lo Spirito protagonista dell’evangelizzazione», in Rte 2(1998)3, 5-20. Significativi contributi sono stati offerti a un costruttivo e illuminato dialogo interreligioso e interculturale dal prof. D. Righi, soprattutto in riferimento all’islam, dal prof. Brunetto Salvarani e, con particolare riferimento alla situazione e alle sfide presenti nella Regione Emilia-Romagna, nel già citato IV Convegno FTER Il dialogo ecumenico e interreligioso in Emilia-Romagna. Aspetti e prospettive (2 dicembre 2009): supplemento a Rte 14(2010)28, 255 pp.
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smi: l’evangelizzazione docile allo Spirito Santo nel suo dinamismo cristologico agapico-kenotico apre l’evangelizzatore all’accoglienza dell’interlocutore, in un contesto di libertà. Ne deriva una relativizzazione delle tecniche di evangelizzazione (cf. EN 75) e la considerazione dello Spirito Santo come fine e termine dell’evangelizzazione, in quanto protagonista del costituirsi della comunione ecclesiale come unità nella diversità. Inoltre, la luce del vangelo, dal cuore del destinatario che l’accoglie, si proietta sulla realtà, su tutto il vissuto del destinatario in una vera inculturazione. Vediamo così colmata quella carenza che era stata rilevata a proposito della EN: Il forte richiamo all’azione dello Spirito Santo è posto solo nel capitolo conclusivo dove vien presentata la spiritualità dell’evangelizzatore (n. 75) e il riferimento al Padre è «stemperato» in vari cenni, ove si ricorda la sua bontà (n. 15.28). Questo insufficiente riferimento alla Trinità ha delle conseguenze sulla teologia dell’evangelizzazione, perché non aiuta a cogliere il disegno di Dio Padre che è di raccogliere la «Chiesa da Abele all’ultimo dei giusti» (cf. LG 2/285), di cui la Chiesa visibile dei discepoli di Gesù è solo sacramento, non invita a riconoscere l’azione dello Spirito anche al di fuori dei confini visibile [sic!] della Chiesa che ci precede ove noi non pensiamo di trovarlo, e non ci impegna quindi a fare una lettura teologica della storia, cioè, come diceva il Concilio a leggere «i veri segni della presenza di Dio» (GS 11/1352).24
4.4. La provocazione del panorama culturale contemporaneo alla TE
La prospettiva aperta da questi sviluppi cristologico-trinitari fonda teologicamente quell’attenzione della TE al contesto culturale che ha caratterizzato dall’inizio la ricerca bolognese. Il panorama filosofico e culturale ha conosciuto in questi decenni significativi cambiamenti, in particolare il passaggio dal pensiero forte di un messianismo sociopolitico a quello debole contemporaneo, con venature nichiliste e relativiste, ma ha conosciuto anche l’emergere di forme di neo-ateismo militante come di interessanti proposte di neo-metafisica. Un panorama dunque decisamente multiforme e in movimento, indagato con approcci sia sistematici che storico-culturali.25 Significativo è anche il passaggio nei corsi alla licenza e negli articoli della rivista da temi più legati alle «emergenze» storiche (creazione ed evoluzione, bioetica, famiglia, economia/mercato, emergenza finanziaria…) a temi più volutamente trasversali in chiave storico-culturale
24 M. Fini, «Il magistero papale postconciliare sull’evangelizzazione e la sua “recezione” nella Chiesa», in Rte 2(1998)3, 48. 25 Pensiamo ai corsi e agli studi dei proff. G. Sgubbi, F. Appi, P. Boschini, M. Cassani, F. Facchini, V. Maraldi, D. Moretto, M. Nardello, G. Guerzoni, M. Prodi.
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(paura e violenza, fragilità, affettività, mass-media…), pur nella continua rivisitazione di tematiche di fondo (laicità, opzione fondamentale, modelli etici, legge naturale, diritti umani…). Sicuramente ha influito la riflessione sviluppata dal Consiglio delle Conferenze episcopali europee (CCEE) del 1992 in vista del Sinodo speciale per l’Europa, con i simposi precedenti su problematiche specifiche come il nascere e il morire, che invitava a rilevare i cambiamenti sociali come nuove sfide per l’evangelizzazione e a coglierne le cause, non limitandosi a una lettura in chiave filosofico-teologica, ma valorizzando le analisi più complesse delle scienze sociali. Tutto ciò nella volontà di contribuire a un approfondimento delle sfide antropologiche in un dialogo più attento e costruttivamente realistico tra cultura contemporanea e visione personalistica cristiana. La TE sente la responsabilità di far crescere nella Chiesa la consapevolezza che l’annuncio del vangelo è non solo per l’uomo, ma annuncio in Cristo della «verità sull’uomo», per cui deve sostenere i diritti dell’uomo, in particolare alla vita e alla libertà religiosa, ed entrare nel dibattito pubblico sulle grandi questioni etiche. Ma avverte anche il bisogno di far maturare nella Chiesa, in virtù della verità profonda della dinamica dell’evangelizzazione, e non solo perché deve operare «in una società che ha come punto qualificante il pluralismo religioso», la consapevolezza che se «la via della Chiesa è sempre l’uomo», «la strada dell’evangelizzazione è la testimonianza e il dialogo».26
4.5. La provocazione dei vissuti spirituali e pastorali alla
TE
La TE ha avvertito la necessità di riflettere sui modelli ecclesiologici – soprattutto il rapporto Chiesa-mondo-regno di Dio – ma anche sui conseguenti modelli di evangelizzazione nel mutamento dei contesti fino a quello della cosiddetta post-modernità, modelli fatti oggetto di corsi27 ma anche di studi e ricerche storiche significative.28
26 Cf. Fini, «Nuova evangelizzazione 1979-1993. Annunciare il Vangelo nel compimento del moderno», 54-55. È stato notato, infatti, come la stessa Dichiarazione finale dell’Assemblea speciale per l’Europa (1991), trattando delle «radici cristiane» dell’Europa, chiarisca che la nuova evangelizzazione non è un progetto di restaurazione del passato, ma un’esigenza della riscoperta di come la fede cristiana appartenga in modo decisivo al fondamento permanente e radicale del vecchio Continente e di come lo Spirito Santo renda sempre attuale l’inesauribile tesoro della rivelazione (ivi, 44). 27 Si veda prof. M. Fini: «L’evangelizzazione nella post-modernità: “nodi” teologici e pastorali, in particolare nel dibattito sul “primo annuncio”» (anno 2009/2010); prof. M. Tagliaferri, «L’evangelizzazione nel cammino della Chiesa italiana dopo il concilio: riflessioni teologiche e prospettive pastorali» (anno 2010/2011); prof. B. Salvarani, «Da “perfidi Giudei” a “fratelli maggiori”. Il dialogo cristiano-ebraico: storia, questioni aperte, prospettive» (anno 2010/2011); prof. L. Luppi, «Liturgia, mistagogia, spiritualità» (anno 2010/2011). 28 Fra tutte, a titolo esemplificativo, ricordiamo M. Tagliaferri, «Opere di storia dell’evangelizzazione», in Rte 2(1998)3, 175-189; F. Mandreoli, «Note di riflessione contestuale sulla
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Di fronte alla scelta tra «Chiesa di popolo» o «comunità alternativa» si è ribadita la necessità di mettere le basi per la formazione di una comunità fatta di cristiani maturi e quindi realmente evangelizzante. Questa esigenza di rinnovamento ha provocato uno sforzo di individuazione di alcune priorità alla luce anche dei documenti dell’episcopato italiano sull’iniziazione cristiana: ridare la precedenza alla parola di Dio per formare una mentalità di fede, contro ogni riduzione etica o politica del vangelo. Avviare cammini catecumenali o di iniziazione cristiana degli adulti: cristiani non si nasce, si diventa. Promuovere la concentrazione cristologica dell’annuncio e la sua dimensione storico-narrativa. Testimoniare il volto di una Chiesa madre, Chiesa di popolo ed evangelizzante, mettendo al centro l’uomo con la sua libertà e il vangelo nella sua radicalità. Evangelizzare la stessa rinascente domanda del sacro, mostrando la specificità pasquale ed escatologica della salvezza cristiana e la singolarità di Cristo rispetto alle nuove religioni.29 Questo significa che la formazione cristiana è un cammino nella Chiesa e da essa accompagnato, che comporta evangelizzazione, iniziazione, mistagogia, catechesi. La «Chiesa di popolo» può così divenire comunità cristiana di uomini e di donne evangelizzate che sanno coniugare fede e vita, che mettono al servizio del Vangelo i vari doni che lo Spirito suscita, che da cristiani fanno le loro scelte etiche, sociali e politiche.30
La pratica concreta di questi percorsi e la testimonianza di cammini personali e comunitari che incarnano la vita buona del vangelo sono anch’essi un riferimento privilegiato per la TE, come attesta il lavoro teologico di questi anni: dallo studio della recezione del concilio nelle diverse Chiese della regione31 a quello di figure spirituali che hanno segnato la storia e i vissuti ecclesiali del nostro tempo, e in particolare delle nostre terre emiliano-romagnole.32
teologia del diaconato», in Rte 12(2008)23, 9-41; Id., «Un “laboratorio” di Chiesa: istanze teologiche dei primi progetti di riforma postconciliare a Bologna», in Rte 15(2011)30, 439-468. 29 Cf. Fini, «Nuova evangelizzazione 1979-1993. Annunciare il Vangelo nel compimento del moderno», 53s. Si veda anche Id., «Il magistero papale postconciliare sull’evangelizzazione e la sua “recezione” nella Chiesa», 53. 30 Ivi, 54. Fedele a questa interazione tra modello di Chiesa e prassi di evangelizzazione e formazione, il Dipartimento di TE ha promosso percorsi specifici che hanno nel tempo preso forme diverse, dall’Aggiornamento teologico presbiteri (ATP), al Laboratorio di spiritualità (in dialogo in particolare con le scienze umane psico-pedagogiche), ai Confronti di Teologia dell’evangelizzazione fino al giovedì delle Ceneri in preparazione all’annuncio pasquale oggi. 31 Tagliaferri (a cura di), Il Vaticano II in Emilia-Romagna. Apporti e ricezione. 32 Si pensi ai profili di figure come don Giuseppe Dossetti, Madeleine Delbrêl, Mamma Nina, don Vincenzo Saltini, don Mario Prandi, don Oreste Benzi, don Gianfranco Fregni, don Paolo Serra Zanetti, Benedetta Bianchi Porro, padre Marella, Alberto Marvelli.
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5. Note
per una riflessione sullo statuto epistemologico della TE 33
La specializzazione in TE a Bologna in questi 35 anni, anche se all’inizio poteva sembrare un contenitore riempito a piacere dai corsi più vari, si è rivelata invece una specifica e significativa proposta accademica, benché ancora bisognosa di maturazione. Più che preoccuparsi di prendere posizione tra un’interpretazione più ristretta del termine «evangelizzazione» (il kerygma) e una più larga (tutta la vita della Chiesa), la TE sviluppata a Bologna si è preoccupata di far crescere nella teologia e nella coscienza ecclesiale la presa d’atto della centralità della prospettiva evangelizzante e missionaria offerta dal concilio Vaticano II, rimanendo fedele senza tentennamenti allo stile conciliare di attenzione cordiale alla storia nella prospettiva del discernimento e dell’inculturazione, riconoscendovi il compito primario delle Chiese particolari. La «scuola bolognese» di TE ha contribuito a far prendere coscienza dell’importanza del kerygma, ma anche di come questo stesso primo annuncio non sia possibile senza la testimonianza complessiva della Chiesa. Quale volto di Chiesa può evangelizzare? Il primo annuncio è possibile solo laddove la vita complessiva della Chiesa, a tutti i livelli (teologico, liturgico, catechistico, caritativo, comunicativo), non spegne il vangelo, anzi lo attesta in maniera fedele e creativa. Nella nostra relazione abbiamo tentato di documentare come lungo questi anni la riflessione teologica si sia lasciata provocare dai cambiamenti presenti nel contesto culturale, e di conseguenza dai mutamenti nell’identità e nelle problematiche degli interlocutori.
33 Queste conclusioni riprendono e cercano in parte di sviluppare le provocazioni e riflessioni programmatiche del prof. P. Boschini, «Tra vangelo e culture: la teologia dell’evan gelizzazione come scienza della fede annunciata», in Rte 10(2006)19, 47-64. In sintesi, il prof. Boschini presenta la TE come riflessione sulla fede nell’atto di annunciarsi, sui suoi contenuti e sui soggetti coinvolti, e quindi con un inconfondibile carattere relazionale. A partire da ciò, ritiene che la TE sia un sapere aperto e in relazione con gli altri saperi teologici, scienze bibliche e delle origini cristiane, cristologia e soteriologia, che convergono in una riflessione sulla presenza e l’azione dello Spirito Santo nell’atto ecclesiale dell’evangelizzazione. La TE, a differenza della teologia kerygmatica, supera la distinzione tra autore, destinatario e contesto dell’evangelizzazione, e si muove nella consapevolezza che la verità abbia uno statuto di consensualità e sia il frutto di una ricerca convergente, condotta da soggetti differenti, e perciò si possa serenamente mettere in relazione con l’odierno pluralismo culturale e con i saperi sociali e comunicativi che lo interpretano e lo rielaborano, pur con un rapporto decisivo con la filosofia, «crocevia antropologico». Il prof. Boschini arriva quindi a pensare la TE come una teologia pratica fondamentale, «organica e indispensabile alla prassi annunciante della Chiesa».
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Importanti interventi magisteriali hanno accompagnato questa evoluzione, e aiutato a focalizzare i problemi e a individuarne le sfide per la missione della Chiesa. Abbiamo visto come tutto ciò abbia definitivamente mostrato l’inadeguatezza di una TE pensata astrattamente come trattazione distinta di evangelizzatore, contenuti e destinatari, appaltati di volta in volta alle varie discipline teologiche, filosofiche e storico-sociali. Tutto ciò perché si è fatto sempre più chiaro che il destinatario si pone in realtà come un vero interlocutore e non puramente passivo, che l’opera evangelizzatrice si dà nella modalità della testimonianza, cioè «gestis verbisque» (cf. Dei verbum, n. 2: EV 1/873) secondo la logica della rivelazione biblica, e che il contesto culturale e le condizioni sociali in cui si instaura la relazione evangelizzante riguardano sia il testimone che l’interlocutore interpellandoli entrambi. Si è fatto cioè sempre più evidente che l’evangelizzazione – pur nella sua specificità – non solo fa tutt’uno con il vissuto personale e comunitario credente, ma va considerata come un agire comunicativo, come un tutto inseparabile di teoria e prassi, come una relazione ecclesiale in atto in cui Dio entra in comunione con l’uomo. Di conseguenza la TE si pone a servizio di questo evento/relazione in quanto ne studia teologicamente le forme storiche, mettendo il frutto delle sue ricerche non primariamente a servizio dell’azione pastorale ma innanzitutto in dialogo con tutta la teologia. Si tratta di riconoscere l’esigenza di attuare quella circolarità che l’evento/relazione evangelizzatrice esige tra forme storiche di Chiesa, prassi ecclesiali di evangelizzazione e riflessione sistematica. Le forme e prassi ecclesiali di testimonianza, come abbiamo visto, sono provocate dai cambiamenti a ripensarsi, spingendo a una rivisitazione creativa degli stessi nuclei fondamentali della fede. A loro volta le discipline teologiche sono sollecitate a proporsi con una maggiore consapevolezza della responsabilità che esercitano nel costituirsi dei modelli nella storia e a familiarizzarsi con le provocazioni che da essi derivano. Abbiamo visto, infatti, seppure rapidamente, come le istanze poste all’evangelizzazione dai mutamenti in atto e dalle sfide culturali abbiano provocato una maggiore esplorazione delle sacre Scritture, in quanto testimonianza originaria, normativa e creativa dell’autocomunicazione di Dio nella storia, nonché della cristologia in chiave pasquale e trinitaria, mostrandone l’originalità e le potenzialità in ordine al ripensamento delle stesse modalità della comunicazione della fede. L’attenzione all’umano in tutte le sue sfaccettature – il nascere, il morire, l’istanza lavorativa, l’esperienza degli affetti, la fragilità, la convivenza civile in un contesto democratico, l’immigrazione, la globalizzazione… – domanda alla TE di mantenere tutta la teologia in dialogo con gli apporti delle scienze umane, storiche, sociali, psico-pedagogiche e comunicative, riconosciuti come fattori imprescindibili e provocazioni provvidenziali alla missione della Chiesa, proprio in quanto destinata alla salvezza di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.
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D’altra parte si è fatto sempre più evidente che la «promozione umana», che fin dagli anni del primo post-concilio ha interrogato la Chiesa e la sua opera evangelizzatrice, non si aggiunge come dato giustapposto all’azio ne ecclesiale, ma sta al cuore della missione stessa, in quanto questa si configura come la testimonianza della vita bella e buona che il Figlio di Dio fatto uomo ha vissuto e comunicato agli uomini nel dono dello Spirito, come l’inaugurazione di una storia nuova liberata e liberante. La TE quindi, all’interno delle discipline teologiche, esprime l’esigenza della teologia di valorizzare il vissuto originario e sorgivo delle Scritture in ordine all’evangelizzazione, in costante dialogo con le forme della sua recezione storica nei linguaggi della teologia, della predicazione, della celebrazione liturgica e della concreta prassi ecclesiale, ma anche in dialogo con le provocazioni e le sfide culturali, con un’attenzione privilegiata alle risposte creative che lo Spirito suscita oggi, cioè alle esperienze di evangelizzazione e comunicazione della fede in atto. Riprendendo e parafrasando come il prof. Boschini le note espressioni fides qua e fides quae, possiamo dire che la TE esprime l’impegno della teologia a studiare non solo la fides quae nuntiatur (discipline bibliche e sistematiche) e la fides qua nuntiatur (discipline storiche e pastorali), ma quell’evento della comunicazione della fede che si dà nella circolarità tra fides quae nuntiatur e fides qua nuntiatur, caratterizzandosi come una teologia fondamentale pratica che potremmo chiamare teologia della testimonianza cristiana, di cui individua e studia i nodi teologici fondamentali ed emergenti in dialogo con le diverse aree disciplinari.34 È all’interno di questa circolarità che si può mettere in atto un processo davvero teologicamente creativo, in cui sfide culturali e forme di Chiesa sono pensate a partire dalle Scritture e dal nucleo fondante della fede nel giusto orizzonte di reciproca interazione, e la testimonianza concreta della Chiesa viene ripensata criticamente e creativamente per risultare evangelicamente decisiva.35 Per concludere, mi sembra significativo di questo metodo della TE un episodio del recente sinodo su La nuova evangelizzazione. Mons. Claude Dagens, arcivescovo di Angoulême (Francia), il 9 ottobre 2012, in occasione della III Congregazione generale del sinodo, nel
34 Non quindi – per riprendere le osservazioni del prof. Boschini – come un’ennesima forma di «teologie del genitivo», perché studiando le forme viventi della fede cristiana e della sua comunicazione non si limita a un contesto particolare caricato previamente di un valore ideologico, e si pone di fronte alla multiforme e contraddittoria realtà storica della fede vissuta e annunciata valorizzando il dogma in chiave più comprendente e orientativa che immediatamente critica (cf. Boschini, «Tra vangelo e culture», 51s). 35 La TE è quindi «organica e indispensabile alla prassi annunciante della Chiesa», perché sviscera il contenuto universale e quindi comunicabile di questa relazione salvifica e ne critica la prassi, ovvero corregge e rigorizza «le storture e le contraddizioni inevitabili che ogni agire umano porta con sé». «La sua scientificità si vede dalla capacità di ispirare cambiamenti dall’interno nella prassi annunciante delle comunità cristiane» oltre che nel risvegliare «le coscienze dal torpore dogmatico dell’etsi Christus non daretur» (cf. Boschini, «Tra vangelo e culture», 60-64).
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Luciano Luppi
suo breve intervento ha additato ai padri sinodali l’esempio di Madeleine Delbrêl (1904-1964), «una francese che ha fatto suo l’impegno della nuova evangelizzazione», invitando a lasciarsi interrogare da alcuni tratti caratteristici del suo stile di evangelizzazione: discernimento, purificazione della propria fede cominciando col parlare a Dio degli uomini che incontriamo, senza preoccupazioni presenzialiste, ma di essere Cristo per il mondo.36 La TE, come teologia della fede annunciata ossia teologia della testimonianza cristiana, si lascia dunque interpellare dalle forme di Chiesa e di testimonianza che lo Spirito suscita, e che si mostrano in grado di risvegliare l’apertura all’annuncio e di ispirare cambiamenti nella prassi annunciante della Chiesa. È il luogo privilegiato di verifica della profonda e feconda circolarità tra fides quae nuntiatur e fides qua nuntiatur. In una figura come Madeleine Delbrêl, infatti, cogliamo che l’evangelizzazione nasce dalla forza della Parola, come lei stessa afferma, e che chi la accoglie appartiene a coloro che quella Parola la aspettano: Una volta conosciuta la Parola di Dio, non abbiamo il diritto di non accoglierla; una volta che l’abbiamo accolta, non abbiamo il diritto di impedirle di incarnarsi in noi; una volta che si è incarnata in noi, non abbiamo il diritto di conservarla per noi: da quel momento apparteniamo a coloro che la aspettano. Questa incarnazione della Parola di Dio in noi, questa docilità a lasciarci da essa modellare, è ciò che chiamiamo testimonianza.
Nella Delbrêl, che ha vissuto come «terra della propria conversione» il contatto con ambienti di ateismo militante e di passione per la giustizia
36 «Questo Sinodo è un’occasione propizia per rispondere alla domanda decisiva di Gesù ai suoi discepoli: “Che cercate?”. Noi cerchiamo di essere più numerosi, di riunire più fedeli per l’Eucaristia, di manifestare con più forza la presenza dei cattolici nelle nostre società secolarizzate. Tuttavia, non ci accontentiamo di queste prospettive quantitative. Siamo chiamati a un lavoro interiore di rinnovamento della nostra vita cristiana, che comporta tre esigenze. Prima esigenza: un atto di discernimento sui tempi che stiamo vivendo. Sono tempi faticosi per la missione cristiana a causa degli effetti della secolarizzazione. Ma, in mezzo alle fatiche, si manifestano anche aspettative spirituali, che riguardano questioni di vita e di morte. Sta a noi rispondervi. Seconda esigenza: un impegno a progredire nella conoscenza del Dio vivente purificando la nostra fede da ciò che l’appesantisce e osando parlare a Dio di coloro che incontriamo, prima di parlare loro di Dio. Terza esigenza: capire che il fine della Chiesa non è la Chiesa, ma l’incontro degli uomini con il Dio vivente. Perciò, non si tratta tanto di essere presenti nel mondo, bensì di essere Cristo per il mondo. Queste tre esigenze sono state approfondite e praticate da Madeleine Delbrêl, una francese che ha fatto suo l’impegno della nuova evangelizzazione». Si veda il bollettino del 9.10.2012: http://www.vatican.va/news_services/press/sinodo/documents/bollettino_25_xiii-ordinaria-2012/01_italiano/b07_01.html o anche l’intervista più ampia in francese: http://angouleme.catholique.fr/En-direct-du-synode-Madeleine.html.
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sociale, emerge con chiarezza che l’evangelizzazione scaturisce da una vita credente vissuta con la massima prossimità verso tutti, «convinta che è nelle relazioni normali con il nostro prossimo, chiunque egli sia, che noi troviamo le circostanze normali di consolidarci e di svilupparci nella fede». Sicché per lei è ben chiaro che l’opera dell’evangelizzazione non si innesta su un movimento a senso unico, al punto da gridare «guai a me se non evangelizzo, ma anche guai a me se evangelizzare non mi evangelizza», perché la Parola creduta e annunciata è una spada che ferisce chi la maneggia: la Chiesa evangelizza solo se si lascia evangelizzare. La Parola tocca e com-muove l’altro, ma perché prima, e mentre è donata, tocca e com-muove chi la comunica.37
37 Per un approfondimento si veda P. Sequeri, «Forza del Vangelo e missione in Madeleine Delbrêl a cento anni dalla nascita», in Rte 8(2004)16, 437-445; L. Luppi, «Madeleine Delbrêl (1904-1964), guida al discernimento come “obbedienza creativa” nei deserti contemporanei», in Rte 11(2007)21, 141-174; Id., «Chiesa e missione. La testimonianza di Madeleine Delbrêl nel “venerdì santo” della Mission de France (1952-1954), parte I», in Rte 17(2013)33, 127-154; Id., «Chiesa e missione. La testimonianza di Madeleine Delbrêl nel “venerdì santo” della Mission de France (1952-1954), parte II», in Rte 17(2013)34, 433-462.
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Guido Benzi
1. Il
dinamismo « audace » della nuova evangelizzazione
La prospettiva della nuova evangelizzazione (NE) ha largamente caratterizzato il magistero di papa Benedetto XVI. Lo testimoniano, tra i tanti interventi e atti di governo, l’istituzione del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione1 e l’Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, chiamata a riflettere, nell’ottobre 2012, su Nuova evangelizzazione e trasmissione della fede cristiana. Di fronte al mutato contesto culturale dell’Occidente e all’impatto che tutto questo ha sulla vita degli uomini, nasce la domanda su come si possa annunciare oggi credibilmente il vangelo di Gesù: Il termine «nuova evangelizzazione» richiama l’esigenza di una rinnovata modalità di annuncio, soprattutto per coloro che vivono in un contesto, come quello attuale, in cui gli sviluppi della secolarizzazione hanno lasciato pesanti tracce anche in Paesi di tradizione cristiana. Il vangelo è il sempre nuovo annuncio della salvezza operata da Cristo per rendere l’umanità partecipe del mistero di Dio e della sua vita di amore e aprirla a un futuro di speranza affidabile e forte. Sottolineare che in questo momento della storia la Chiesa è chiamata a compiere una nuova evangelizzazione, vuol dire
1 Benedetto XVI, Ubicumque et semper, lettera apostolica in forma di motu proprio con la quale si istituisce il Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione (21.9.2010), in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/apost_letters/documents/ hf_ben-xvi_apl_20100921_ubicumque-et-semper_it.html.
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Guido Benzi intensificare l’azione missionaria per corrispondere pienamente al mandato del Signore.2
Ciò che cambia, dunque, non è il vangelo, ma il destinatario cui va annunciato e lo stile, il dinamismo, con cui annunciare: occorre aprirsi alle nuove sfide, apprendere nuovi linguaggi, tentare nuove forme di dialogo. «La nuova evangelizzazione – continua il papa – dovrà farsi carico di trovare le vie per rendere maggiormente efficace l’annuncio della salvezza».3 Le diocesi italiane sono impegnate da diversi anni a definire il carattere della NE, traducendo e applicando le prassi che gli orientamenti condivisi dell’episcopato hanno individuato.4 La sollecitazione del Giubileo del 2000, gli interventi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI hanno motivato la convinta istanza di dovere rilanciare l’anelito missionario, che non è mai venuto meno, ma che le trasformazioni sociali e culturali hanno riproposto con una rinnovata consapevolezza.5 L’Italia è segnata dal fatto cristiano e la sua storia nazionale, anche recente, mostra esempi dai quali si evince come il vincolo religioso è stato realmente la culla da cui è scaturita la prima coscienza di un’identità italiana. Ma anche nella nostra terra l’adesione al fatto cristiano corre il rischio di ridursi a fenomeno di «religione civile». Tale prospettiva «orizzontale», pur generando preziose iniziative nella vita comunitaria e pubblica, come ad esempio le attività caritative e assistenziali o le opere nate in spirito di sussidiarietà,6 non può però surrogare al movimento vitale nell’apertura al trascendente. Tale movimento struttura la persona, la mette in grado di accogliere la rivelazione divina, che l’aiuta
2 Id., Udienza ai partecipanti alla plenaria del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione (30.5.2011), in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/ speeches/2011/may/documents/hf_ben-xvi_spe_20110530_nuova-evangelizzazione_it.html. 3 Ib. 4 Sono una testimonianza diretta dell’impegno profuso le Note che l’episcopato italiano ha prodotto nell’ultimo quindicennio: Consiglio permanente della CEI, nota pastorale L’iniziazione cristiana. 1. Orientamenti per il catecumenato degli adulti, Roma 1997; Id., nota pastorale L’iniziazione cristiana. 2. Orientamenti per l’iniziazione dei fanciulli e dei ragazzi dai 7 ai 14 anni, Roma 1999; CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali per il decennio 2000-2010, Roma 2001; Consiglio permanente della CEI, nota pastorale L’iniziazione cristiana. 3. Orientamenti per il risveglio della fede e il completamento dell’iniziazione cristiana in età adulta, Roma 2003; CEI, nota pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, Roma 2004; Consiglio permanente della CEI, Questa è la nostra fede. Nota pastorale sul primo annuncio, Roma 2005; Commissione episcopale della CEI per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi, Lettera ai cercatori di Dio, Roma 12.4.2009; Id., Annuncio e catechesi per la vita cristiana. Lettera alle comunità, ai presbiteri e ai catechisti nel quarantesimo del Documento di base «Il rinnovamento della catechesi», Roma 4.4.2010; CEI, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, Roma 2010. 5 Un’efficace sintesi «pastorale» di questa lettura si può trovare in Commissione episcopale della CEI per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi, Annuncio e catechesi per la vita cristiana, nn. 7-9. 6 Si veda il recente saggio di G. Rusconi, L’impegno. Come la Chiesa italiana accompagna la società nella vita di ogni giorno, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013.
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a interpretare ciò che la circonda e le dona quell’idealità e quella forza morale che la materia e il concatenarsi dei fatti umani non possono garantire. Fondamentale è tornare a pensare con la categoria comunitaria del «noi». Anziché una somma di tanti «io», sicuramente legittimi e forse un po’ pretenziosi, occorre mostrare il plurale di cui si compone ogni relazione, dalla famiglia alla società,7 e aiutare l’io umano ad aprire la porta della propria vita al Dio misericordioso, che non si stanca dell’uomo, ma che anzi lo cerca e «nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé».8 Si può cogliere così il senso degli orientamenti pastorali Educare alla vita buona del Vangelo, che l’episcopato italiano ha deciso, per questo decennio (2010-2020), in ordine all’emergenza educativa, «il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove invece egli diventa “io” nella relazione con il “tu” e il “noi”».9 Più di quanto non si pensi, è oggi avvertito il bisogno di un’educazione coerente e duratura, che dia cioè oggettivi fondamenti, essendo in se stessa anche morale.10 Dal Vaticano II a oggi, il concetto di «evangelizzazione» ha avuto una notevole evoluzione semantica, a partire da Ad gentes (1965) ed Evangelii nuntiandi (1975). Se, nel decreto conciliare Ad gentes, l’evangelizzazione appariva come un «momento» specifico dell’attività missionaria della Chiesa e, precisamente, l’azione volta a suscitare la conversione e il primo atto di fede, che precede l’ingresso nel catecumenato,11 con la Evangelii nuntiandi – d’indole più marcatamente missionaria – questa sembra coincidere con l’intera missione della Chiesa: «È un processo complesso e dagli elementi vari: rinnovamento dell’umanità, testimonianza, annuncio esplicito, adesione del cuore, ingresso nella comunità, accoglimento dei segni, iniziative di apostolato».12 Questa prospettiva è ripresa dal Direttorio generale per la catechesi, che attribuisce al termine evangelizzazione un’accezione molto ampia: «Occorre concepire l’evangelizzazione come il processo attraverso il quale la Chiesa, mossa
7 Cf. A. Bagnasco, Prolusione alla 63ª Assemblea generale della CEI, Roma, 23-27 maggio 2011, n. 7, in http://www.chiesacattolica.it/documenti/2011/05/00015362_prolusione_del_ card_angelo_bagnasco_alla_.html. 8 Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum, Sessione VIII (18.11.1965), n. 2: EV 1/873. 9 CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 9. 10 Cf. Benedetto XVI, Messaggio alla 62a Assemblea generale della CEI (4.11.2010), in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/letters/2010/documents/hf_ben-xvi_ let_20101104_62-cei_it.html. 11 Cf. Concilio ecumenico Vaticano II, decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes, Sessione IX (7.12.1965), n. 7: EV 1/1104. 12 Paolo VI, esortazione apostolica sull’evangelizzazione nel mondo contemporaneo Evangelii nuntiandi (8.12.1975), n. 24: EV 5/1616. Cf. J. Gevaert, «L’Evangelii nuntiandi di Paolo VI, 25 anni dopo», in Itinerarium 8(2000)16, 125-145.
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dallo Spirito, annuncia e diffonde il vangelo in tutto il mondo».13 Sulla stessa linea si pone la Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, che attribuisce al termine un significato molto ricco: «In senso ampio, esso riassume l’intera missione della Chiesa […]. In ogni caso, evangelizzare significa non soltanto insegnare una dottrina bensì annunciare il Signore Gesù con parole e azioni, cioè farsi strumento della sua presenza e azione nel mondo».14 I Lineamenta per la XIII Assemblea generale del Sinodo dei vescovi sulla NE hanno mostrato che l’espressione, introdotta da Giovanni Paolo II, non ha avuto sempre un significato chiaro e fissato, cercando di descrivere piuttosto un dinamismo: la NE «mostra di essere l’audacia dei cristiani di non rinunciare mai, di cercare positivamente tutte le vie per imbastire forme di dialogo che intercettino le attese più profonde degli uomini e la loro sete di Dio». In definitiva, allora, la NE è un’attitudine, uno stile audace. È la capacità da parte del cristianesimo di saper leggere e decifrare i nuovi scenari che in questi ultimi decenni sono venuti creandosi dentro la storia degli uomini, per abitarli e trasformarli in luoghi di testimonianza e di annuncio del vangelo. Questi scenari sono stati individuati analiticamente e descritti più volte; si tratta di scenari sociali, culturali, economici, politici, religiosi.15
Per questo la NE passa attraverso una testimonianza credibile e gioiosa, anche se vissuta tra le lacrime, come già indicava papa Paolo VI: Conserviamo la dolce e confortante gioia d’evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime. Sia questo per noi – come lo fu per Giovanni Battista, per Pietro e Paolo, per gli altri Apostoli, per una moltitudine di straordinari evangelizzatori lungo il corso della storia della Chiesa – uno slancio interiore che nessuno, né alcuna cosa potrà spegnere. Sia questa la grande gioia delle nostre vite impegnate. Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell’angoscia, ora nella speranza, ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del vangelo, la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo.16
13 Congregazione per il clero, Direttorio generale per la catechesi (15.8.1997), LEV, Città del Vaticano 1997, n. 48. Cf. A. Napolioni, «Catechesi e pastorale», in Orientamenti pastorali 57(2010)6, 43-49. 14 Congregazione per la dottrina della fede, Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’Evangelizzazione, LEV, Città del Vaticano 2007, n. 2. Cf. A. Amato, «Alcuni aspetti dell’evangelizzazione. La Nota della Congregazione per la Dottrina della fede», in Catechesi 78(20082009)2, 3-11. 15 La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Lineamenta per la XIII Assemblea generale del Sinodo dei vescovi, nn. 5-6, in http://www.vatican.va/roman_ curia/synod/documents/rc_synod_doc_20110202_lineamenta-xiii-assembly_it.html. 16 Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 80: EV 5/1714.
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2. Vangelo:
valore di un termine
«performante»
L’intento degli orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020, Educare alla vita buona del Vangelo, è quello di aiutare le Chiese locali a riflettere sull’«arte delicata e sublime dell’educazione», consapevoli che «non c’è nulla, nella nostra azione, che non abbia una significativa valenza educativa»;17 viene immediatamente posto l’accento sull’azione missionaria ed educativa dei cristiani nella vita delle comunità e della società civile. Come va intesa l’espressione vita buona del vangelo? Certamente essa esprime un contenuto: il vangelo, inteso sia come predicazione di Gesù che si prolunga nell’insegnamento degli apostoli e della Chiesa, sia come narrazione degli eventi della vita di Gesù culminante nella sua passione morte e risurrezione, contiene indubbiamente un messaggio di vita buona e bella.18 Tuttavia l’espressione esprime anche un’identità di relazione: la vita buona è il vangelo, inteso non solo dunque come luogo (libro, narrazione), ma come dinamismo19 capace di qualificare profondamente la vita umana e di giustificare un impegno educativo. Del resto, nel documento appare questa dimensione dinamica e vitale del vangelo. Ad esempio al n. 4, dove i vescovi esplicitano il loro intento: «Proponiamo le nostre riflessioni sull’educazione a partire dall’incontro con Gesù Cristo e il suo vangelo, del quale quotidianamente sperimentiamo la forza sanante e liberante». E ancora al n. 8, dove si parla del desiderio di libertà come «terreno d’incontro tra l’anelito dell’uomo e il messaggio cristiano», possiamo leggere: «Il compito dell’educatore cristiano è diffondere la buona notizia che il vangelo può trasformare il cuore dell’uomo, restituendogli ragioni di vita e di speranza».20 Questa dimensione del dinamismo trasformante (e performante) del vangelo fa riferimento alla dottrina tradizionale che riconosce nella parola di Dio non solo un insegnamento infallibile, ma anche una potenza (una
A. Bagnasco, «Presentazione», in CEI, Educare alla vita buona del Vangelo. L’espressione viene da CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, nn. 21.57. 19 Abbiamo affrontato questa tematica in G. Benzi, «Il dinamismo del primo annuncio in un testo paolino (1Ts 1,1-9)», in Associazione italiana catecheti, Il primo annuncio, tra «kerigma» e catechesi, a cura di C. Cacciato, Elledici, Leumann 2010, 24-32; Id., «I piedi belli del messaggero. Riscoprire il dinamismo del Vangelo», in La Rivista del clero italiano 92(2011)1, 48-60; Id., «Imitatori, modello, eco (1Ts 1,1-10). Il “dinamismo educativo” del Vangelo nella giovane comunità di Tessalonica», ivi 92(2011)5, 352-361; Id., «Il coraggio di annunciare il Vangelo (1Ts 2,2). Qualità e risorse di chi annuncia: l’esempio di Paolo a Tessalonica», ivi 92(2011)10, 685-696. 20 Nella già citata «Presentazione» del card. Bagnasco, che si conclude definendo il vangelo «fermento di crescita e seme di felicità vera». I corsivi nelle due citazioni del documento sono nostri. 17 18
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dynamis) che converte e trasforma21 secondo la formulazione della Lettera agli Ebrei 4,12: «Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’ani ma e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore». Tale azione del vangelo si collega dunque al tema della «sacra mentalità» della parola di Dio che papa Benedetto XVI, nell’esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini, ha affrontato al n. 56 (EV 26/2319) richiamando il «carattere performativo della parola di Dio nell’azione sacramentale». La più recente (e ben sintetizzata) discussione del termine euangelion si trova nell’articolo «Vangelo/Vangeli» di Rinaldo Fabris, nel dizionario Temi teologici della Bibbia.22 Egli mostra come il termine «vangelo – euangelion» ricorra 76 volte nel Nuovo Testamento, per la maggior parte nella letteratura paolina (60 volte). Il verbo corrispondente «evangelizzare – euangelizō» ricorre 54 volte, di cui 21 negli scritti paolini e 33 negli altri testi del Nuovo Testamento. Vediamo dunque l’importanza del termine già prima della redazione dei quattro vangeli canonici, e forse prima di Paolo stesso.23 Se poi diamo uno sguardo veloce ai vocaboli dell’area semantica di «vangelo», dai verbi kēryssō «proclamare» (61 volte nel NT), legō «dire», laleō «parlare» (con to euangelion all’accusativo) fino ai sostantivi kērygma «proclama», didachē «insegnamento», didaskalia «dottrina», possiamo affermare con Fabris che «la varietà e l’ampiezza dell’area semantica del “vangelo” fa intuire il ruolo che ha l’annuncio cristiano per la nascita e la formazione degli scritti neotestamentari».24 Nel greco profano l’utilizzo del termine (sebbene raro, e normalmente in forma plurale) è attestato sin da Omero (Odissea 14,152-153) e rimanda a tre significati:25 la ricompensa data al portatore di una buona notizia; le vittime sacrificali offerte agli dèi per la buona notizia ricevuta; le festività indette in occasione della buona notizia. Si nota il contesto pubblico, nel quale si colloca l’uso del termine. Dal I secolo a.C. (cioè in età romana) il termine assume una sfumatura religiosa nel quadro del culto ufficiale dello Stato. Nella famosa iscrizione di Priene del 9 a.C. si afferma che «il giorno genetliaco del dio [Augusto] fu per il mondo l’inizio delle buone notizie procedute poi da lui».26 Anche il verbo euangelizomai rimanda a
21 Una delle trattazioni più significative di questa dottrina rimangono i capitoli dedicati da L. Alonso Schökel in due sue opere: La parola ispirata. La Bibbia alla luce della scienza del linguaggio, Paideia, Brescia 1967; Id., Il dinamismo della tradizione, Paideia, Brescia 1970. 22 R. Fabris, «Vangelo/Vangeli», in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi, Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 1479-1488. Si veda pure: G.G. Gamba, Dal Vangelo ai Vangeli. Una proposta di cammino, LAS, Roma 2009; G. Segalla, Evangelo e Vangeli. Quattro evangelisti, quattro Vangeli, quattro destinatari, EDB, Bologna 1992; G. Benzi, Paolo e il suo Vangelo, Queriniana, Brescia 2001. 23 Così Segalla, Evangelo e Vangeli, 13. 24 Fabris, «Vangelo/Vangeli», 1480. 25 Gamba, Dal Vangelo ai Vangeli, 13-14. Cf. R. Penna, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane, EDB, Bologna 1986, 169-171. 26 Ivi, 13-14.
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Il dinamismo dell’evangelizzazione: parola di Dio, annuncio e testimonianza
questo stesso contesto. Nell’ambiente giudeo-ellenistico il sostantivo non assume nessun significato teologico, anche se sia in Filone, sia in Flavio Giuseppe viene attestato l’uso della terminologia nel culto imperiale.27 Per quanto riguarda la LXX, il sostantivo euangelion traduce l’ebraico beśōrâ e indica la «ricompensa data per il lieto annuncio».28 Il verbo euangelizomai traduce l’ebraico biśśar (intensivo del verbo bśr) «dare un buon annuncio» ed è particolarmente rilevante in alcuni testi profetici e in alcuni salmi, dove assume una connotazione religiosa. Interessa, ad esempio, la ricorrenza del verbo euangelizomai nel Sal 40,10-11 (39,10-11 LXX). Ho annunciato [evangelizzato] la tua giustizia nella grande assemblea; vedi: non tengo chiuse le labbra, Signore, tu lo sai. Non ho nascosto la tua giustizia dentro il mio cuore, la tua verità e la tua salvezza ho proclamato [detto]. Non ho celato il tuo amore e la tua fedeltà alla grande assemblea.
Il fedele rende un’ammirata testimonianza dell’opera di Dio davanti all’assemblea dei credenti. Qui l’atto dell’annuncio è individuato chiaramente con un atto di predicazione: esso è infatti espresso dal parallelismo tra annunziare e dire, e dal fatto che il «non nascondere» di 11a.c. sia evidenziato con il «non tenere chiuse le labbra». È molto importante anche il fatto del riferimento alla grande assemblea: dà a questo annuncio il chiaro valore di testimonianza pubblica. Il verbo euangelizomai è presente in quattro passi di Isaia (Is 40,9; 52,7; 60,6; 61,1), il riferimento è all’opera divina di salvezza, che può assumere anche una connotazione messianica.29 Con Is 40,1-1130 incomincia un testo che reca un messaggio di forte consolazione. A noi interessa il verso 40,9: Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion; alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda: «Ecco il vostro Dio!».
Si tratta di un grido che viene rivolto a Gerusalemme vista come una «messaggera» di vittoria. Essa deve rendere nota a tutte le città di Giuda la salvezza di Dio realizzatasi in lei. Westermann fa notare come il verbo qui abbia la connotazione di comunicare un evento già verificatosi.31 Notiamo allora un fatto singolare: si tratta di un messaggero che comunica un messaggio già ricevuto e di cui si fa latore ad altri. Si esprime
Si vedano i riferimenti in Segalla, Evangelo e Vangeli, 11s. La corrispondenza tra i due termini si trova nella LXX solo al plurale e per 3 volte in 2Sam 4,10 e 18,22.25, esattamente con questo significato. 29 Gamba, Dal Vangelo ai Vangeli, 15. Il verbo è presente con simili caratteristiche anche nei profeti Gl 2,32 (3,5) e Na 1,15 (2,1). Cf. Benzi, Paolo e il suo Vangelo, 99-105. 30 C. Westermann, Isaia Capitoli 40–66, Paideia, Brescia 1978, 60-63. 31 Cf. 1Sam 31,9; 2Sam 18,19; Ger 20,15; Westermann, Isaia, 61. 27
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il contenuto di questo messaggio («Ecco il vostro Dio!»), si suppone la fonte prima (Dio stesso), si mette in evidenza la messaggera (Gerusalemme) nonché il suo atto di comunicare. Queste quattro realtà sono unite inscindibilmente: non si tratta di una semplice ripetizione. Dio invia un messaggio del quale egli stesso è il contenuto, attraverso un messaggero che comunica veramente. Is 52,7 è un brano vicinissimo al precedente, anzi in un certo modo ne è il corrispondente finale. Anche qui la liberazione, la salvezza è vista come un fatto già accaduto. Anche qui abbiamo i quattro passaggi che abbiamo riscontrato sopra: il contenuto («Regna il tuo Dio»), la fonte, che è Dio stesso, il messaggero e l’atto di annuncio che qui viene poeticamente descritto in modo dinamico, cioè mentre il messaggero è in cammino. Questi elementi saranno ripresi da Paolo in Rm 10,15, ove il contesto è esattamente quello dell’annuncio di salvezza accolto da Israele. In Is 60,632 coloro che «evangelizzano» sono una moltitudine che viene dalle nazioni verso Gerusalemme. Le «glorie» del Signore che saranno annunciate sono di fatto gli atti di liberazione e le enormi ricchezze che affluiranno a Gerusalemme. Emerge in un qualche modo il fattore contenutistico, nel senso però di un annuncio che si fa narrazione, racconto. Is 61,1-3 è forse uno dei testi più importanti sia per la letteratura evangelica (Mt 5,3; 11,5; Lc 4,16-21; 6,20; 7,22) sia per il primo cristianesimo e per lo stesso Paolo (At 4,27; 10,36.38; Ef 2,17; 6,15; Ap 1,6; 5,10). La forma letteraria ricalca quella dei cosiddetti Canti del Servo. Il verbo «evangelizzare» si trova al primo posto di una sequenza di verbi assai importante: si tratta di una serie di sette verbi all’infinito dei quali il primo (portare il lieto annuncio) è evidenziato trovandosi al centro di due verbi dei quali soggetto è Dio (va notato anche il parallelo delle due espressioni mi ha consacrato e mi ha mandato, due sintagmi tipici dell’invio profetico). Dunque il verbo «evangelizzare» si trova in una posizione di rilievo e possiamo pensare agli infiniti che seguono come un’esplicitazione di esso. Il brano di Is 61,1-3 esercitava una grande influenza sulla riflessione giudaica dei tempi di Gesù, basti qui ricordare i Salmi di Salomone oppure gli scritti di Qumran.33 Non deve quindi meravigliare che tali testi avessero anche un’eco nel Nuovo Testamento, soprattutto in relazione alla comprensione della missione di Gesù come attesta Lc 4,16-21. Questa breve ricognizione sui testi dell’Antico Testamento ha evidenziato così dati molto interessanti per noi, utilissimi per capire il dinamismo dell’annuncio: – in primo luogo (come risulta sin dall’analisi di Is 40,9) c’è un messaggero che deve farsi latore di un messaggio che viene da Dio e del quale è stato egli stesso investito. Dunque l’evangelizzatore è qui più di un
Ivi, 422-429. Salmi di Salomone 11,1; 11QMelch 2,15-24; 1QH 18,14; 4Q 521, 12; J.D.G. Dunn, La Teologia dell’Apostolo Paolo, Paideia, Brescia 1999, 183. Cf. anche Fabris, «Vangelo/ Vangeli», 1481. 32 33
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semplice «ripetitore», egli si riconosce coinvolto nella salvezza che deve annunciare: questa dinamica dell’annuncio sarà ereditata in Paolo; – l’evento di salvezza è già avvenuto nel momento in cui lo si annuncia: esso si manifesta come una speciale presenza di Dio in Is 40,1-11 e 52,7-10; una speciale forma di ricchezza in Is 60,1-22; la salvezza e la liberazione totale in Is 61,1-3, e una piena forma di giustizia e fedeltà nel Salmo 40; – va anche notato, in conclusione, come già nel suo uso antico il termine euangelion avesse a che fare con un’oggettivazione, o meglio con il risultato della sua espressione (la ricompensa data per il buon annuncio). Possiamo così pensare che tale sostantivo descriva non solo il contenuto, ma anche l’azione dell’annuncio nella sua dinamica, intesa come «ricompensa» ed effetto della salvezza scaturita da Dio, una dinamica che si connetterà al tema della «conversione» nei vangeli. Benché l’analisi di alcuni passi dell’Antico Testamento ci abbia già aperto squarci interessanti sul Nuovo Testamento, si deve affermare con Segalla che «non è dimostrata la derivazione del “vangelo”, con la valenza semantica che ha nel NT, né dall’ambiente ellenistico […] né da quello palestinese».34 L’ambiente giudaico prossimo a Gesù e al primissimo cristianesimo tematizzava la dimensione isaiana di salvezza escatologica e messianica. Va sottolineato come euangelion nel senso cristiano contenga sempre annuncio e storia (memoria) insieme: una promessa di salvezza posta nel passato (AT) e compiuta nel Cristo, ora e sempre.35 La caratteristica rigorosamente «cristocentrica» dell’euangelion nel Nuovo Testamento distingue inoltre il significato di questo vocabolo da quello in uso nel culto imperiale. Per P. Stuhlmacher, l’origine dell’uso cristiano del termine «sarebbe da cercare nell’ambiente palestinese della Chiesa delle origini se non addirittura a livello dello stesso Gesù storico»,36 in tal senso «vangelo» sarebbe il messaggio della venuta del regno di Dio, annunciato da Gesù stesso (Mt 4,23; Mc 1,15). Il Regno, cioè il giudizio definitivo di Dio, è ora vicino, si manifesta: vangelo è dunque questa dinamica, questo manifestarsi, questo rivelarsi di Dio nel Figlio.37 In Matteo, secondo la riflessione di U. Luz,38 va notato che l’espressione «vangelo del Regno» è sempre complemento oggetto del verbo kēryssein «proclamare», in tal modo «che la predicazione ecclesiastica (euangelion) si orienti sul Gesù terreno e non abbia altro contenuto se non le sue parole e le sue azioni».39 Ma si noterà che tale passaggio implica che la comunità dei discepoli non ponga un altro vangelo se non quello che
Segalla, Evangelo e Vangeli, 13. Ivi, 13. 36 Ivi, 15. 37 Gamba, Dal Vangelo ai Vangeli, 18-24. Cf. anche J. Ratzinger – Benedetto XVI, Vangelo catechesi catechismo, Marcianum, Venezia 2007, 44-48. 38 U. Luz, Vangelo di Matteo, 2 voll., Paideia, Brescia 2006, I, 281-284. 39 Ivi, I, 283. 34
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Gesù ha annunciato e vissuto, e cioè che essa annunci e viva ciò che Gesù è stato in parole e in opere. Se da un lato si configura così già il passaggio al vangelo come contenuto, tuttavia vi si descrive anche il dinamismo di conversione (convertirsi cioè alle parole e alle azioni di Gesù): il richiamo al «Regno» infatti rimanda a Mt 4,17, dove si comprende chiaramente che l’invito (imperativo) alla conversione avviene alla luce di un giudizio che manifesterà pienamente Dio. Tale imperativo è «dono, la possibilità di salvezza elargita ai gentili».40 La formulazione che Mc 1,15 attribuisce a Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» va quindi compresa proprio nella logica di questa dinamica: i due imperativi presenti metanoeite e pisteuete indicano una continuità di azione, una permanenza nel vivere da convertiti e nel credere al vangelo.41 E così si deve intendere il primo versetto del Vangelo di Marco: «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio»: non solo come «incipit del libro/ vangelo», ma anche «il principio/fondamento dell’annuncio che riguarda Gesù/Cristo, Figlio di Dio».42 Principio dunque che suscita un duplice dinamismo, quello dell’annuncio stesso ad opera della Chiesa e quello della conversione e della professione di fede. Al dinamismo proprio dell’annuncio «evangelico» dell’Antico Testamento si aggiunge dunque l’idea di una dinamica di conversione intesa come «cambiamento di mentalità» (metanoia), cioè capacità di osservare la storia con lo sguardo di Dio. Il termine euangelion attraversa tutto l’epistolario paolino.43 Francesco Rossi de Gasperis afferma che, per comprendere più in profondità il messaggio di Paolo, occorre tener conto della dimensione oggettiva del suo annuncio, cioè la dottrina della salvezza in Gesù Cristo, conosciuta nell’esperienza di Damasco e approfondita nella comunità cristiana, ma è anche necessario in modo complementare considerare la dimensione soggettiva e dinamica della sua testimonianza, che si riflette nell’espressione «il mio vangelo».44 Già nel primo versetto della Lettera ai Romani Paolo si presenta come «servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio» (Rm 1,1). Tale espressione verrà poi ribadita per tre volte nello stesso capitolo: in 1,9; 1,15 e all’inizio della parte dottrinale della lettera, in 1,16-17: «Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del Greco. In esso infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede, come sta scritto: Il giusto per fede vivrà».45 Nelle lettere precedenti già si
Ivi, I, 271. Gamba, Dal Vangelo ai Vangeli, 16. 42 Fabris, «Vangelo/Vangeli», 1482. 43 Cf. Dunn, La Teologia dell’Apostolo Paolo, 180; Benzi, Paolo e il suo Vangelo, 96-112. 44 F. Rossi De Gasperis, Paolo di Tarso evangelo di Gesù, Lipa, Roma 1998, 9-13. 45 Cf. anche in Rm 2,16; 10,15-16; 11,28; 15,16-21; 16,25. 40 41
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era comunque affermata l’importanza di questa espressione. In 1Cor 1,17 Paolo aveva enunciato il fatto di aver ricevuto da Dio l’incarico specifico di «predicare il vangelo», ed è mediante esso che Paolo diviene «padre» di questa comunità, colui che «genera in Gesù Cristo», come dirà in 1Cor 4,15, mentre in 9,16 afferma con vigore: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!». Il vangelo come «potenza di Dio» in vista della salvezza si manifesta particolarmente nella risurrezione (1Cor 6,14; 15,43; 2Cor 13,4; cf. anche 1Cor 4,20) con un chiaro riferimento alla «stoltezza della croce»46 (1Cor 1,18.24; 2,1-4; 2Cor 1,8; 4,7; 6,4-10; 12,9; 13,4) e a tutto il mistero di Cristo (1Cor 15,1-11). In Gal 1,6-9 Paolo afferma che non c’è altro «vangelo» se non quello da lui annunciato, e in 1,15-16 afferma di essere stato investito del «vangelo» da Dio. In 1Ts (forse la più antica lettera di Paolo) questa tematica ha un posto particolarissimo (1,5; 2,2.4.8.9; 3,2) e ugualmente in una delle ultime lettere: quella ai Filippesi (1,5.7.12.16.27 [x2]; 2,22; 4,3-15). Abbiamo inoltre molte specificazioni caratterizzanti: Paolo parla di un vangelo di Dio (Rm 1,1; 15,16; 2Cor 11,7; 1Ts 2,2.8.9) e anche di un vangelo di Cristo (Rm 15,19; 1Cor 9,12; 2Cor 2,12; 9,13; 10,14; Gal 1,7; Fil 1,27; 1Ts 3,2). Le due caratterizzazioni sono complementari, infatti «l’evangelo di Cristo giustifica la fedeltà di Dio».47 In quanto formulazione della fede, Paolo ha ricevuto il vangelo dai suoi predecessori e l’ha trasmesso a sua volta senza mutarlo (1Cor 15,1-3), ma come rivelazione della volontà di amore di Dio verso l’umanità in Gesù Cristo, Paolo afferma di aver ricevuto il vangelo da una rivelazione immediata (Gal 1,12). Chiamato a «compiere» il vangelo donando tutto se stesso (Rm 15,1619; cf. Col 1,23-29), Paolo vuole annunciare il vangelo gratuitamente, e l’identificazione tra annunciatore e annuncio è così forte che egli ne porta i segni nella sua carne (Gal 6,17). Non si tratta dunque solo di una predicazione a parole, ma è potenza nello Spirito (1Ts 1,5), impressa totalmente nella vita dell’apostolo e della sua comunità. Ecco il dinamismo paolino dell’euangelion: l’evangelizzatore, annunciando la salvezza operata da Dio attraverso la persona di Gesù Cristo, è lui stesso coinvolto in una missione, per cui tutta la sua persona, tutta la sua vita esprime questo annuncio. Egli è un «ambasciatore» (2Cor 5,18–6,1) che genera una comunità cristiana che non sia semplice ascoltatrice del vangelo ma essa stessa «evangelizzatrice». In Paolo la dinamica del vangelo diviene la possibilità, nel dono di grazia, di entrare nella salvezza con tutta la propria persona, con la propria vita, in una progressiva assimilazione a Cristo, condividendo questo cammino con coloro ai quali il vangelo viene annunciato.
46 Cf. A. Pitta «Forza e debolezza del ministero paolino 2Cor 4,1-12», in Il paradosso della croce. Saggi di teologia paolina, Piemme, Casale Monferrato 1998, 111-136. 47 Dunn, La Teologia dell’Apostolo Paolo, 182.
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La «vita buona del vangelo» è allora questa promessa di compimento, di realizzazione della misura piena della nostra umanità in Gesù Signore: «Nell’odierno vocabolario proprio della teoria del linguaggio si direbbe: il vangelo è discorso non solo informativo, ma operativo, non è solo comunicazione, ma azione, forza efficace, che entra nel mondo salvandolo e trasformandolo».48
3. Il
dinamismo dell ’ annuncio : un radicamento « profetico »
L’analisi del termine «vangelo» ci ha mostrato come esso supponga una dinamica di trasformazione e conversione che coinvolge l’intera vita sia dell’annunciatore sia del destinatario. Vorremmo così, attraverso un approfondimento nella letteratura profetica, mostrare come questa dinamica ha un radicamento biblico. Indubbiamente il messaggio profetico, proprio per il suo valore di ripresa, rilettura e riscrittura della Legge,49 si pone come grande paradigma di riferimento per la dimensione dell’annuncio evangelizzante. Possiamo così richiamare alcune dimensioni della profezia biblica.50 Nel termine greco «profeta» la preposizione pro non ha un significato temporale (colui che annuncia qualcosa prima che avvenga), piuttosto essa ha un significato spaziale: «colui che annuncia qualcosa davanti al popolo, o all’individuo». Nella LXX il termine profētēs traduce l’ebraico nābî’ e, seppur più raramente, hōzeh e rō’eh, che accentuano più l’aspetto visionario. L’origine del termine nābî’ sarebbe da porre in relazione all’accadico «chiamare». Il profeta è dunque «chiamato» a far riecheggiare con tutto se stesso (con le labbra ma anche con tutta la sua vita) nell’orecchio di un popolo distratto la Parola di giudizio e salvezza che Dio nella sua misericordia continua a donare al suo popolo. In tal senso possiamo già dire che il profeta «incarna» la Parola, perché le dà un corpo e una storia. Possiamo considerare alcune dimensioni antropologiche che caratterizzano la profezia: il tempo e lo spazio, il corpo, la parola e la vocazione profetica.51 È molto importante anzitutto considerare come i fattori temporali e spaziali siano in un qualche modo costitutivi dell’esperienza
J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 70. G. Benzi, Ci è stato dato un figlio. Il libro dell’Emmanuele (Is 6,1–9,6). Struttura retorica e interpretazione teologica (BTE 3), EDB, Bologna 2007, 34-37. 50 R.G. Kratz, I profeti di Israele, Queriniana, Brescia 2006; A. Spreafico, La voce di Dio. Per capire i profeti, EDB, Bologna 1998. Il fenomeno della profezia non è sconosciuto anche in altri popoli dell’Oriente antico, ma nel mondo biblico essa ha connotati propri. Per un’acuta riflessione biblico-teologica si veda P. Bovati, «Così parla il Signore». Studi sul profetismo biblico, EDB, Bologna 2008. 51 Cf. P. Bovati, «Il profetismo come lettura del senso della storia», in Theologia Viatorum 4(1999), 157-174; Benzi, Ci è stato dato un figlio, 65-69. 48 49
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profetica,52 anzi essi la identificano perché le permettono di presentare se stessa come avvenuta in un preciso momento della storia, in un dato luogo e in un dato contesto culturale. Il profeta annuncia una parola divina creatrice della storia:53 essa è una forza che, entrando nella storia, mette in moto un processo di giudizio e di salvezza che certamente arriverà a compimento. La parola profetica è anche interprete della storia. Anzi è proprio in questo contesto che si situa in modo del tutto originale il rapporto della profezia con il tempo: di qui il richiamo ai benefici di Dio nei confronti del popolo, e l’accusa nei confronti dei suoi tradimenti. La scrittura è lo strumento attraverso il quale la profezia si determina come «datata» non solo nel tempo del suo compimento, ma anche nel momento nel quale essa viene pronunciata e fissata54 (cf. Is 8,1; 8,16-18; 29,11-12; 30,8). Una terza funzione della parola profetica in rapporto al tempo è quella di interpellare la storia cioè di esigere una decisione, basata sulla fede nelle promesse di Dio che opera nella realtà. Il tempo e lo spazio sono due categorie che si richiamano a vicenda, anche nell’esperienza più comune, ponendo in primo piano la questione della «persona» del profeta, in particolare quella del suo corpo che rimanda al suo essere persona nel mondo cioè il suo sentire e agire. Il suo messaggio è spesso la sua biografia, la sua parola è lui stesso. Questa persona del profeta che agisce in un tempo determinato e si relaziona in uno spazio concreto è raggiunta da una parola divina, che la chiama a una specifica missione. Dio, che pone la sua parola sulle labbra del profeta, manda il suo profeta come messaggio a Israele. La sua parola, parola di Dio, trapassa il profeta, per arrivare fino a noi. Il dinamismo dell’annuncio trova così nel personaggio del profeta una sua chiara esplicitazione. E tuttavia la letteratura profetica non trascura la dinamica di conversione che l’annuncio opera. Si può rileggere in tal senso una delle pagine capitali della letteratura profetica, il Quarto canto del Servo (Is 52,13– 53,12).55 In questa pagina troviamo la conversione del discepolo come attestazione dell’opera di Dio. Gesù stesso ha utilizzato questi testi di Isaia per annunciare il mistero della sua passione, morte e risurrezione, dono di salvezza per «la moltitudine» (Mc 10,45).56 Così la prima Chiesa ha riletto in questi testi il mistero
52 Beauchamp evidenzia come il messaggio profetico sia sempre «circostanziato»; cf. P. Beauchamp, Le Deutéro-Isaïe dans le cadre de l’alliance, Faculté de Théologie de Fourvière, Fourvière-Lyon 1970, 6-7. 53 Cf. J.L. Sicre, Profetismo en Israel. El Profeta. Los Profetas. El Mensaje, EVD, Estella 3 1997, 441-458. 54 Cf. P. Beauchamp, L’Uno e l’Altro Testamento. Saggio di Lettura, Paideia, Brescia 1985, 88. 55 G. Benzi, «Il Servo Sofferente, figura di Cristo. Linee per una lettura esegetica e teologica dei Canti del Servo di Isaia», in Rte 3(1999), 211-229. 56 Il contesto di questo brano è quello del terzo annuncio della passione. Per una discussione sulla sua pertinenza ai Canti del Servo sofferente si veda Beauchamp, Le Deutéro-Isaïe dans le cadre de l’alliance, 49.
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di Gesù, e la sua identificazione con il Messia sofferente e glorificato (At 8,34).57 Si tratta unicamente di un patrimonio dell’esegesi tradizionale,58 oppure essa trova già nella tradizione delle letture contestuali alla Bibbia una sua ragion d’essere? Un’attenta lettura del testo ci permetterebbe di cogliere come gli stessi testi isaiani pongano l’esigenza di un’identificazione messianica del Servo che orienta l’ascolto credente verso l’attesa di un intervento straordinario da parte di Dio, attraverso l’opera del Servo.59 Il Quarto canto del Servo60 ha una sua peculiarità testuale che rivela uno stile tutt’altro che spontaneo, anzi profondamente meditato (ricorrono in esso ben 46 parole che non si ritrovano in Is 34–66). Si nota anche una frequente intonazione delle vocali u e o, e delle consonanti h e l, quasi il suono di un canto funebre.61 Possiamo annotare anche altre sottigliezze retoriche. Nonostante il fatto che il Servo non parli e non agisca direttamente, e che sia indicato semplicemente come «lui» o «egli» nel corpo principale della poesia (53,1-11a), è il soggetto di 39 dei 61 verbi e participi presenti nel brano. L’azione dominante è quella di una contemplazione silenziosa, riattualizzata attraverso il racconto di testimonianza: una sorta di ricordo meditativo interrotto da riflessioni (53,1.6.10). Un verbo spesso ripetuto è r’h «vedere» (52,14; 53,1.2.3.10.11). La persona del Servo, benché ben delineata, rimane diafana e sfumata a causa di questo silenzio62 che «struttura» la narrazione, in quanto funziona come spazio che si apre all’interpretazione63 già nel testo stesso e poi negli uditori/lettori. Nonostante l’intensa emozione poetica, è data poca evidenza a una terminologia affettiva o sentimentale. È piuttosto sottolineata la sofferenza fisica. Passato, presente e futuro si fondono nei tempi dei verbi ebraici, costituendo così altrettanti piani di movimento del racconto.
57 Cf. per esempio Gv 12,37-50, e lo scopo «introduttorio» che hanno questi versetti con il racconto della passione di Gesù. 58 Si veda solo a titolo di esempio la lunga citazione di Is 53,1 che Clemente fa nella sua Lettera ai Corinzi (16,3); cf. M. Simonetti, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Augustinianum, Roma 1985, 26. 59 Un ulteriore passaggio è il rapporto con la sofferenza del giusto e dei tanti sofferenti che la Bibbia ha riconosciuto come depositari di un messaggio: «Il Servo è stato inviato per incorporarsi in altri servitori» (P. Beauchamp, «Lecture et relectures du quatrième chant du Serviteur. D’Isaïe à Jean», in J. Vermeylen [a cura di], The Book of Isaiah. Le livre d’Isaïe, Leuven University Press-Peeters, Leuven 1989, 346-348). 60 R.E. Brown – J.A. Fitzmyer – R.E. Murphy, Nuovo Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1997, 443s. 61 C.R. North, The Suffering Servant in Deutero-Isaiah, Oxford University Press, London 2 1956, 168. 62 Questo silenzio, che ovviamente non è di chi racconta, ma del Servo e di chi ascolta, mostra proprio che questo canto mette in gioco più locutori (Dio e i «noi») ma anche più auditori (i «noi» del testo, ma anche noi, i lettori di ogni tempo). 63 Sulla presenza di «silenzi strutturanti» nella narrazione biblica si può richiamare il sacrificio di Isacco in Genesi 22 e il commento, magistrale, di E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Milano 1981, I, 8-14.
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Il dinamismo dell’evangelizzazione: parola di Dio, annuncio e testimonianza
Emergono così con chiarezza le questioni circa l’identità del Servo. Nelle 21 occorrenze che abbiamo della parola «servo» in Is 34–66, sempre al singolare (eccetto 54,17) e sempre in senso onorifico (eccetto 49,7), 14 volte essa viene applicata a Israele o a Giacobbe o al popolo: 41,8.9; 42,19 (x2); 43,10; 44,1.2; 44,21 (x2); [44,26];64 45,4; 48,20; 49,3;65 [54,17]. Le restanti 7 occorrenze (42,1; [44,26]; 49,5.6; 50,10; 52,13; 53,11) sembrano alludere a un individuo e difficilmente possono essere applicate a una collettività.66 Anzi talvolta il Servo è proprio contrapposto al popolo (49,56; 53,8). Attraverso una strutturazione delle «voci»67 ricorrenti all’interno del Quarto canto, Beauchamp delinea una struttura che evidenzia quanto tale testo sia altro da «un racconto anticipato, sotto forma di oracolo, delle sofferenze di un inviato di Dio».68 Naturalmente il racconto di una passione è compreso nel testo, ma la forma del racconto è piuttosto quella della testimonianza, quella dell’annuncio.69 Al centro del discorso narrativo non sono le sofferenze del Servo, ma il «noi» che piano piano si rivela
64 In realtà in questo testo si parla della contrapposizione tra i profeti e gli indovini. Il TM porta un singolare, la LXX e il Targum hanno un plurale (cf. L. Alonso Schökel – J.L. Sicre Diaz, I profeti, Borla, Roma 31996, 301). 65 Su questo versetto la critica ha però avanzato alcuni dubbi dal punto di vista testuale in quanto la dicitura «Israele» è incoerente con quanto segue nei vv. 5-6 (Dio invierebbe Israele per liberare Israele?). Di fatto non ci sono ragioni sufficienti per espungere il testo: abbiamo qui un’ambiguità che piuttosto che ovviata va assunta e interpretata (Alonso Schökel – Sicre Diaz, I profeti, 315). Gli autori suggeriscono che l’unico modo per conservare così il testo è che il «servo» acquisti il nome «Israele», manifestandosi così come il «vero» Israele, collegandosi con il ciclo dei patriarchi e con la figura di Giacobbe. 66 Alonso Schökel – Sicre Diaz, I profeti, 354, notano che tali argomenti sono stati talvolta esagerati: in 49,1-4 ad esempio abbiamo il riferimento a elementi personali (si cita persino la madre!) e tuttavia non possiamo eliminare l’interpretazione collettiva. 67 Si possono individuare essenzialmente due voci. La voce A-A’, che appartiene a Dio, in 52,13-15.53,11-12, e la voce B, segnata dal «noi» che assume due tonalità: una tonalità «narrativa» in 53,2-5.7-9 (B1 e B2) e una tonalità «assertiva» (detta anche di testimonianza) nei tre passaggi 53,1.6.10 (denominati x, y, z). La strutturazione che ne deriva, tenendo anche conto di alcune ricorrenze linguistiche, è la seguente: (13-15) A mio servo/numerosi (1) x braccio di YHWH (2-5) B1 noi (6) y noi-tutti/ YHWH (7-9) B2 lui (10) z la sua mano – YHWH (11-12) A’ mio servo/numerosi Tale struttura mostra la centralità del v. 6 che si rivela «la dichiarazione del risultato del processo narrato, sotto forma di una scoperta» (Beauchamp, «Lecture et relectures», 329). La scoperta sarebbe la rivelazione di Dio come causa prima non solo della passione-esaltazione del Servo, ma anche dell’annuncio di una sua azione (posto in forma di domanda al v. 53,1) e del compimento del disegno per mano del Servo, come viene evidenziato in 53,10. In tal modo i vv. 1.6.10 sono tre chiavi di lettura dell’intero brano, sotto forma di testimonianza (cf. ivi, 325-355). A una strutturazione simile (ma con diversi esiti interpretativi) è giunto anche Westermann, Isaia, 305-308. 68 Beauchamp, «Lecture et relectures», 327. 69 Anzi Beauchamp, riferendosi al v. 53,1 «Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?», afferma che si tratta di un annuncio di un annuncio (ivi, 337).
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come il personaggio principale, «più che della passione di un eroe, si tratta di una conversione di un testimone»,70 cioè si tratta della storia di coloro che hanno ricevuto gli effetti di tale passione. In 53,1 la parola «notizia» ha un ruolo fondamentale in quanto designa una modalità di discorso: essa svela necessariamente un destinatario, giocando un ruolo anticipato rispetto allo svolgimento della narrazione. Per coloro che hanno sperimentato il cambiamento segnalato ai vv. 52,14-15, l’accaduto è solo un «ciò che abbiamo udito»,71 come tale è una notizia di cui essi stessi sono portatori. Troviamo qui un’asserzione che ha per contenuto l’azione di Dio (il «braccio» del v. 1b), ma che mette in gioco (come si può verificare al v. 6) la compresenza dei tre attori che si muovono nella narrazione: Dio, lui (il Servo) e «noi». Anzi il «noi» si sdoppia in due figure: «noi tutti» e «ciascuno» in forte opposizione, figure unificate dall’opera del Servo, che attraverso la metafora della dispersione delle pecore si qualifica indirettamente come pastore. Se 53,1 annunciava un’azione di Dio, 53,6 ribadisce questa azione (v. 6b) manifestandone un elemento di novità assoluta: essa si profila anche come un’azione del Servo (vv. 7-9). Coloro che confessano di essere trasformati, avevano ritenuto il Servo come uno colpito da Dio, ora… confessano di essere caduti in errore e di aver badato ciascuno a percorrere la propria strada, mentre il disprezzato prendeva su di sé la loro colpa e procurava loro la guarigione.72 Sarà il v. 1073 che svelerà completamente il concorso del Servo all’azione di Dio: per sua mano infatti si compirà l’azione di Dio.74 Torna qui l’importanza della domanda posta in 53,1, che mostra come coloro che hanno ricevuto tale rivelazione sono ipso facto costituiti come testimoni-messaggeri.75 Si rinnova qui, ma con un contenuto assai nuovo, la possibilità di individuare i tre momenti della profezia annuncio-testimonianza-attestazione. Però qui la fase dell’attestazione non è tracciata sullo scritto, ma nella persona stessa del Servo, nella sua vicenda personale, proprio sul suo corpo. Qui più che mai il Servo testimonia con la sua stessa vita.76 Di tale testimonianza i «noi» sono messaggeri. Ove c’è un messaggero c’è anche un uditorio, emerge dunque dentro al testo l’esigenza di un effetto che va al di là della sua propria pagina. Il rapporto tra i gruppi di persone che agiscono dentro al Quarto canto è dunque il rapporto di un annuncio che ha come contenuto un’azione di Dio e del Servo, una parola la cui durata è stabilita dalla testimonianza che
Ivi, 329. Cf. 1Sam 2,24 e 4,19; Westermann, Isaia, 313. 72 Westermann, Isaia, 318. 73 Tale versetto porta un testo assai arduo. Cf. ivi, 321s. 74 Non possiamo non cogliere come l’analisi di questi tre versi giustifichi dunque l’accento posto dalla tradizione sull’obbedienza del Servo (Beauchamp, «Lecture et relectures», 331). 75 Ivi, 332. 76 Accogliamo qui la lettura e traduzione di Beauchamp, che mostra come tale insegnamento «alla maniera di un maestro» sia perfettamente in linea con il suo silenzio. Cf. ivi, 334 e soprattutto nota 9. 70 71
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continua a risuonare (Chi avrebbe creduto?) in coloro che credendo a loro volta divengono testimoni. Il Quarto canto del Servo suscita a sua volta un gruppo di servi,77 cioè un gruppo di persone che porteranno avanti la testimonianza. Ecco dunque il contenuto del Quarto canto: la conversione di un gruppo per un’anamnesi trasformante: prima accusatore di una vittima, è diventato accusatore di se stesso. Questa conversione non deriva dal discorso della vittima (essa è infatti silenziosa) ma dalla visione retrospettiva della sua passione. È proprio su questa pista che si possono considerare i fili sottili che legano i Canti del Servo al Nuovo Testamento.78 Il dinamismo dell’annuncio trasformante e performante è così delineato. Esso rimanda direttamente alla tematica della «nuova evangelizzazione».
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Ivi, 338. Cf. Beauchamp, Le Deutéro-Isaïe, 47-51; Id., «Lecture et relectures», 346-355.
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Davide Righi
1. La
liturgia ha un ruolo nell ’ evangelizzazione ?
Non so quanto sia presente oggigiorno la consapevolezza che la liturgia abbia un ruolo nell’evangelizzazione. Infatti, dopo il concilio, si è parlato di «evangelizzazione e promozione umana», di «evangelizzazione e sacramenti», di «pre-evangelizzazione».
1.1. Quale
ruolo nell ’ evangelizzazione ?
Che la liturgia abbia un certo rapporto con l’evangelizzazione, o prima di essa o accanto a essa o in conseguenza di essa, nessuno lo mette in discussione. Paolo VI, riflettendo sul rapporto dell’annuncio del vangelo con la liturgia, si soffermava su un momento particolare della liturgia, cioè sul ruolo dell’omelia nella liturgia rinnovata.1 Forse però è anche questa incertezza che mostra l’appannamento che regna oggi in merito al ruolo della liturgia nella vita della Chiesa nella sua missione evangelizzante. Riguardo a questo offuscamento è sufficiente notare l’inversione che, quasi insensibilmente, è stata operata nel post-concilio dell’endiadi «culmen
1 Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (8.12.1975), n. 43: EV 5/1636: «Basta una vera sensibilità spirituale per saper leggere negli avvenimenti il messaggio di Dio. Ma, dal momento che la liturgia rinnovata dal concilio ha molto valorizzato la “liturgia della Parola”, sarebbe un errore non vedere nell’omelia uno strumento valido e adattissimo di evangelizzazione».
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et fons», che è diventata quasi immancabilmente «fons et culmen»,2 mentre il testo conciliare recita: «Liturgia est culmen ad quod actio ecclesiae tendit et simul fons unde omnis eius virtus emanat» (Sacrosanctum concilium [SC], n. 10). Si sono così operati almeno due slittamenti semantici e teologici: il primo slittamento è stato una «concentrazione eucaristica» con attenzione non a tutta la liturgia, ma all’eucaristia in modo quasi esclusivo. Tale slittamento è stato preparato in realtà dalla stessa costituzione conciliare, perché più volte si fanno affermazioni inerenti la liturgia per poi specificare che il discorso è valido soprattutto per l’eucaristia.3 L’eccessiva concentrazione sull’eucaristia fa così perdere valore e attenzione alle altre celebrazioni liturgiche, ad esempio alla liturgia delle ore o all’anno liturgico o ai sacramentali. Il secondo slittamento è stato lo smarrimento del riferimento al catecumenato al termine del cui cammino, quale culmen, si colloca la piena partecipazione liturgica che diventa anche inizio, fons, della vita cristiana. Infatti il numero 9 di SC, nei primi due paragrafi, sottolinea il progresso della fede dal momento in cui se ne è all’oscuro fino all’adesione di fede in Gesù Cristo, e al conseguente cambiamento di vita e alla penitenza. Il terzo paragrafo sembra sottolineare quale deve essere lo stile di vita e di fede che accompagna i credenti e li «dispone» continuamente ai sacramenti (ad sacramenta disponere). La sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa. Infatti, prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e alla conversione: «Come potrebbero invocare colui nel quale non hanno creduto? E come potrebbero credere in colui che non hanno udito? E come lo potrebbero udire senza chi predichi? E come predicherebbero senza essere stati mandati?» (Rm 10,14-15). Per questo motivo la Chiesa annunzia il messaggio della salvezza a coloro che ancora non credono, affinché tutti gli uomini conoscano l’unico vero Dio e il suo inviato, Gesù Cristo, e cambino la loro condotta facendo penitenza. Ai credenti poi essa ha sempre il dovere di predicare la fede e la penitenza; deve inoltre disporli ai sacramenti, insegnar loro a osservare tutto ciò che Cristo ha comandato, e incitarli a tutte le opere di carità, di pietà e di apostolato, per manifestare attraverso queste opere che i seguaci di Cristo, pur non essendo di questo mondo, sono tuttavia la luce del mondo e rendono gloria al Padre dinanzi agli uomini.
2 Basti pensare che, facendo una ricerca in Google dell’espressione «fons et culmen», si ottengono circa 30.100 risultati, mentre cercando «culmen et fons» se ne ottengono un terzo di meno. L’espressione è citata nella formulazione non conciliare anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 1324: «Eucharistia est totius vitae christianae fons et culmen», che ha così recepito la forma vulgata dell’espressione, come l’XI Sinodo dei vescovi nel 2005 che si è soffermato sull’«eucaristia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa». 3 Ad esempio, nello stesso passo di SC 10: «Ex Liturgia ergo, praecipue ex Eucharistia, ut e fonte…». Similmente anche in SC 2: «Liturgia enim, per quam, maxime in divino Eucharistiae Sacrificio, opus nostrae Redemptionis exercetur»; ma anche in SC 41: «In iisdem celebrationibus liturgicis, praesertim in eadem Eucharistia» (Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione Sacrosanctum concilium [4.12.1963]: EV 1/73).
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La liturgia luogo di coinvolgimento del sensibile nello Spirito e il suo ruolo nell’evangelizzazione
I padri conciliari discutendo quei numeri 9 e 10 della Costituzione si erano interrogati sul ruolo della liturgia nella vita della Chiesa – dibattito che aveva occupato parecchi anni dei primi decenni del XX secolo – e soprattutto in rapporto alla fede dei credenti e al suo progresso: l’espressione sintetica fons et culmen diventa pertanto in un certo qual modo una «riduzione» sintetica, la quale però, tolta dal suo contesto e con l’inversione dei due termini, non significa più ciò che essa intendeva. Con essa si afferma che c’è qualcosa da attingere – fons –, si afferma che c’è qualcosa di elevato come non è possibile rinvenire in nessun altro luogo – culmen – ma si perde il riferimento alla dinamica catecumenale dell’itinerario di fede e al progresso della fede nella vita cristiana. Infatti i padri conciliari sottolineano che la Chiesa, a quanti hanno già creduto, i credenti, deve continuare a predicare la fede e la penitenza. Fede e penitenza perciò non sono due pratiche fatte una volta per sempre, ma sono attitudini e atteggiamenti che la Chiesa invita i credenti a praticare proprio a partire dalla liturgia, così da «disporli ai sacramenti».
1.2. Anche storicamente
la liturgia è stata sorgente della vita e della missione della C hiesa
Da appassionato di storia della liturgia, non posso che indicare l’esperienza liturgica e la sua centralità fin dalle origini nella vita della Chiesa quale motore propulsore dell’evangelizzazione. Parto dai segni sensibili e da ciò che di sensibile si può cogliere di essa. Nel mondo romano fino a tutto il secondo secolo il cristianesimo è stato considerato una forma di ateismo, perché già il congregarsi in case private era un elemento sensibile che non parlava di una fede, ma semmai di una superstizione (superstitio prava, immodica).4 Il radunarsi di sera, per poi accendere la lucerna e introdurla nell’assemblea orante, faceva pensare male tutti coloro che non comprendevano il rito della preghiera serale e vespertina.5 Al buio ciò che c’è di sensibile è la luce, ma se poi questa luce è accolta con il canto l’altro elemento sensibile è la musica, e l’altro ancora sono le parole: capiamo così l’antichità dell’inno «o foˉs ilaron», che già Basilio
Cf. Lettera di Plinio a Traiano 8: «Nihil aliud inveni quam superstitionem pravam, immodicam». Cf. anche il Martirio di Policarpo 9,2: «Portato davanti al proconsole, questi gli chiese se fosse Policarpo. Egli annuì e [il proconsole] cercò di persuaderlo a rinnegare dicendo: Pensa alla tua età e le altre cose di conseguenza come si usa: Giura per la fortuna di Cesare, cambia pensiero e di’: Abbasso gli atei (Ὄμοσον τὴν καίσαρος τύχην, μετανόησον, εἶπον∙ Αἶρε τοὺς ἀθέους). Policarpo, invece, con volto severo guarda per lo stadio tutta la folla dei crudeli pagani, tende verso di essa la mano, sospira e guardando il cielo disse: Abbasso gli atei (αἶρε τοὺς ἀθέους)». 5 Minucio Felice, Ottavio 8-9. 4
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dichiarava di non sapere chi l’avesse composto.6 Per la preghiera serale dunque, come possiamo immaginare secondo la descrizione della Tradizione apostolica, era sufficiente una lucerna, la mente per cantare i canti e i salmi appresi a memoria, la voce modulata nel canto. Faccio notare che la preghiera serale non comportava solo una preghiera comune, ma anche un pasto comune e la condivisione del pasto con chi era in ristrettezze.7 L’enorme produzione di apocrifi che caratterizzava la deriva gnostica non era certo estranea alla liturgia, perché tali produzioni letterarie erano proprio finalizzate a essa. Le lettere di Paolo non erano state scritte secoli prima ed erano trasmesse congiuntamente alle lettere di Ignazio di Antiochia, che non era stato martirizzato molti decenni prima. I vangeli, così come gli Atti degli apostoli, non erano stati scritti secoli addietro. Dunque nessuna meraviglia se la produzione di lettere, vangeli e atti attribuiti a questo o a quell’apostolo andavano a nutrire le liturgie delle comunità con deriva gnostica, e se il canone muratoriano della fine del II secolo dice cosa è da leggere nella Chiesa/assemblea, cosa non deve essere letto nella Chiesa/assemblea ma può essere letto in privato, e cosa non deve proprio essere letto. Tutta questa produzione letteraria nasceva dunque da persone che frequentavano la liturgia e che si dedicavano a comporre tali opere per «nutrire» la liturgia, in questo caso (vangeli, atti, lettere, apocalissi) la liturgia della Parola. La produzione del codice non sembra proprio estranea alla liturgia, anzi sembra proprio che sia stata l’esigenza liturgica a suggerire lo sviluppo e la diffusione di tale mezzo di trasmissione dello scritto. Quando Diocleziano dovrà perseguitare la Chiesa, chiederà la consegna dei libri e dei vasi.8 Quando Costantino dovrà procedere al decreto di libertà religiosa, procederà a restituire i luoghi requisiti: dunque luoghi per il ritrovo – che assumeranno l’impianto basilicale –, vasi sacri, libri/codici… apparivano anche esternamente come gli elementi essenziali della fede cristiana. L’eresia montanista come profezia assembleare nasceva come manifestazione liturgica di quella che chiamiamo «liturgia eucaristica». Una preghiera ispirata dallo Spirito, messa per iscritto da un tachigrafo/stenografo, è una scrittura ispirata alla pari delle antiche Scritture già «riconosciute» come ispirate dalla Chiesa? La Chiesa di quell’epoca mise a fuoco che per il discernimento dell’opera dello Spirito di Dio la conciliarità è il criterio sommo, anche in materia liturgica. Stando ai testi riportati da Eusebio di Cesarea si comprese che lo spirito di vanagloria può arrivare a «turbare» anche le azioni e le preghiere liturgiche «spacciandosi» per Spirito Santo.
6 È l’inno vespertino più antico che si conosca (cf. Basilio, Lo Spirito Santo 73: PG 32,205A). 7 Si comprende così l’enorme contributo di solidarietà testimoniato già da Tertulliano nell’Apologetico. 8 Cf. Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica VIII,2,4 e altri passi del medesimo libro.
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I successori degli apostoli, testimoni autorevoli della tradizione apostolica, costituita da insegnamenti e stili di vita – come già Paolo di Tarso diceva nelle sue lettere9 –, furono allora riconosciuti come i garanti sommi della permanenza nella Chiesa della tradizione apostolica, condensata, quale criterio ermeneutico, nel simbolo battesimale. Se non si richiama però il contesto nel quale avveniva la successione apostolica non si comprende molto di come essa sia stata la garanzia della permanenza nella Chiesa della tradizione apostolica. Inizialmente fu probabilmente l’apostolo a designare il successore, ma tale successore era designato tra coloro che avevano ricevuto da lui, se non i sacramenti dell’iniziazione, almeno l’insegnamento quotidiano all’interno della liturgia. Chi aveva ascoltato l’apostolo, magari per anni, non avrebbe certo deviato così facilmente dall’insegnamento del proprio maestro e inoltre, per lo meno, non lo avrebbe fatto senza che la comunità di coloro che avevano ascoltato dall’apostolo il medesimo insegnamento insorgesse di fronte a un insegnamento estraneo. Accanto ai volumi antichi ci sono i volumi nuovi negli archivi, come li chiamava Ignazio di Antiochia: la Bibbia, cioè «i libri» – antichi e nuovi –, furono così i primi libri liturgici che il successore degli apostoli e quanti da lui designati e deputati a insegnare spiegavano ordinariamente nella liturgia, almeno nella liturgia mattutina.10 Lo stesso simbolo della fede, che in questo Anno della fede viene messo al centro dell’attenzione ecclesiale, se nelle strategie pastorali finisce solo per guadagnarsi alcune serate o alcuni «incontri» o «cicli di formazione», ma non mette in discussione le liturgie dove nelle sacre Scritture e in tutta l’eucologia e negli stessi gesti e azioni liturgiche tale fede viene professata e alimentata, finisce per non essere più collocato nel contesto che ha generato tali simboli. Il contesto era la catechesi in preparazione al battesimo. Tale catechesi era intesa come educazione alle verità fondamentali della fede, le verità etiche che da tali verità scaturivano, cambiamento di vita – accertato da un garante – soprattutto in riferimento agli affetti (le persone alle quali si era affettivamente legati: se si era liberi o schiavi, se si era sposati o no) e al mestiere esercitato.11 Si doveva essere stati assidui nella frequentazione della comunità, nelle opere di carità e di solidarietà verso i più deboli e i più poveri, con una preparazione più intensa nell’ultimo periodo (quaresimale o pasquale) scandito da riti particolari e, dopo una confessione verbale dei peccati al vescovo, un lavacro ricevuto nel fonte, l’unzione crismale che «legava» al vescovo. Il tutto era «concen-
9 Cf. il riferimento a insegnamenti che non sono esplicitati per iscritto dall’apostolo in 2Tm 2,2: «Le cose che hai udito da me davanti a molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali a loro volta siano in grado di insegnare agli altri». Per quanto riguarda gli stili di vita e gli esempi, cf. Fil 3,17: «Fratelli, fatevi insieme miei imitatori e guardate quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi». 10 Cf. Ippolito, La tradizione apostolica 41. 11 Cf. ivi, 15s.
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trato» nel simbolo della fede che veniva professato al momento del lavacro battesimale, e che la Chiesa di Roma tardò a recepire e a inserire nella celebrazione eucaristica.
1.3. Lingue nuove
usate per tradurre la B ibbia e nei primi libri liturgici
In quale lingua erano scritti i libri sacri? Se consideriamo lo sviluppo delle letterature cristiane antiche (greca, latina, siriaca, copta, georgiana, etiopica) non possiamo pensare che ci sia stato un irrigidimento linguistico nella trasmissione della fede e nella diffusione della liturgia cristiana, anzi, la vitalità di tali Chiese è generata dalle esigenze liturgiche di tradurre innanzitutto le sacre Scritture nella lingua comprensibile a questi popoli, perché i fedeli le potessero udire, e non solo esserne istruiti, nella propria lingua. Un certo numero di parole che venivano lasciate appositamente non tradotte (Amen, Alleluja, Osanna, Sabaoth, Maranà tha) volevano ricordare il radicamento storico e l’origine di ciò che si aveva ricevuto e da chi lo si aveva ricevuto. Tale forzatura tuttavia non arrivò mai nei primi secoli a «imporre» la liturgia in una lingua incomprensibile, al punto che anche a Roma, dove si parlava e si comprendeva il greco, le comunità cristiane che erano di estrazione più popolare arriveranno ben presto a tradurre i testi biblici in latino. Efrem il Siro era ben al corrente delle dispute ariane che si agitavano nel mondo bizantino e che avevano nel mondo siriaco – ormai profondamente ellenizzato – tutte le loro risonanze. Egli tuttavia sapeva che non è con la disputa, con la polemica teologica che si aiuta il popolo di Dio a nutrirsi dei divini misteri e a crescere spiritualmente: per questo motivo dedicherà le proprie forze alla produzione poetica e artistica a servizio della liturgia perché dai suoi segni sensibili, accompagnato dai canti e dagli inni nella propria lingua, professando la propria fede e insieme nutrendola con la ripetizione di un ritornello denso di fede e di teologia, il popolo potesse attingere una sana esperienza di Dio. Basta scorrere alcuni di tali ritornelli: – Benedetto è chi è degno di ereditare il tuo paradiso! (Inni sul paradiso 5). – Benedetta la tua risurrezione! (Inni sulla risurrezione 1). – Lode a Te, per il quale tutte le cose sono facili, perché Tu sei onnipotente (Inni sulla natività 11). – Benedetto Colui che mi ha conquistato e ha portato vita ai morti per la Sua gloria! (Inni di Nisibi 3). – Per quanto grande sia la nostra meraviglia per Te, o Signore, la tua gloria supera ciò che le nostre lingue possono esprimere (Inni sulla verginità 7). – Rendi anche me degno di entrare nella stanza nuziale della tua gloria, vestito del tuo abito, Signore (Inni sulla verginità 33). – A te, Signore, la mia bocca porti un frutto di lode che ti è accetta (Inni di Nisibi 50).
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La liturgia luogo di coinvolgimento del sensibile nello Spirito e il suo ruolo nell’evangelizzazione
Si rischia di parlare tanto di Dio nel linguaggio ecclesiale, e ci si può dimenticare «dove» la Chiesa invita a fare esperienza di Dio o, meglio, qual è l’ambito privilegiato nella vita della Chiesa per tale esperienza. Possiamo parlare di redenzione e salvezza correndo il rischio di dimenticarci quali sono i luoghi nei quali veniamo salvati e il Salvatore passa. Tale rischio di smemoratezza non sarebbe nuovo nella vita plurimillenaria della Chiesa.
2. La
liturgia luogo di coinvolgimento del sensibile
2.1. Ritorno alle
origini ?
Il ritorno alle origini è sempre mediato dalla Chiesa e la Chiesa, si sa, è fatta di uomini, per i quali cambia anche la concezione di cosa era nelle origini e cosa no. Se tremila persone vengono battezzate nel giorno di Pentecoste, cosa ci impedisce di battezzare la domenica pomeriggio coloro che hanno chiesto il battesimo la mattina stessa? Se Filippo battezza l’eunuco dopo un viaggio di alcune ore, non giorni, cosa ci impedisce di battezzare dopo qualche ora dalla richiesta? Domande del genere sarebbero analoghe a quelle poste a Tertulliano da alcuni dei suoi fedeli: se Gesù nel vangelo dice più volte la tua fede ti ha salvato, perché c’è bisogno del battesimo per essere salvati? Ricordo che «battesimo» era sinonimo di tutto l’itinerario catecumenale che culminava nella celebrazione battesimale, crismale ed eucaristica ed era seguita dalle catechesi mistagogiche.
2.2. Il perché di un prolungamento catecumenale : parole e gesti , esperienza globale
Lo sviluppo catecumenale già testimoniato nella Tradizione apostolica non si arrestò neppure durante l’epoca carolingia, nella quale l’attenzione al battesimo e a tutti i segni battesimali fu altissima. Era dunque necessario che l’annuncio della fede e l’adesione progressiva alla fede fossero nei primi secoli seguiti, in epoca carolingia preceduti, dal segno celebrato. Ciò è chiaro a partire dalla Didaché, dall’Apologia di Giustino, dalla Tradizione e, per l’epoca carolingia, dai vari trattati riguardanti il battesimo e dagli scambi epistolari di Carlo Magno con alcuni arcivescovi.
2.3. Il rischio di un divorzio Il divorzio tuttavia tra la parte contenutistica e la parte sensibile/ espressiva si è dimostrato letale per la vita della Chiesa, soprattutto
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con l’irrigidimento linguistico in Occidente dopo la riforma carolingia e in Oriente nelle diverse tradizioni linguistiche che hanno dovuto adattarsi – talvolta a malincuore – davanti alle mutate situazioni sociali e culturali. La riflessione amalariana, con le condanne e il disprezzo che si è attirata, è testimonianza del tentativo di riempire la parte sensibile/espressiva con dei contenuti congrui. A ben vedere, il leitmotiv della riflessione amalariana – che non è isolata e ha avuto i suoi sviluppi in tutto l’Oriente a partire già da Teodoro di Mopsuestia – ha avuto il grande merito di dare un contenuto cristologico chiarissimo anche se, a riguardo dei singoli gesti e segni, nebuloso e aleatorio. La parte espressiva della liturgia, della quale non si coglieva più il significato ma solo, appunto, la parte espressiva, necessitava di qualcosa d’altro per il nutrimento dei fedeli.
3. L’attenzione
ai linguaggi della comunicazione liturgica e l ’ opera dello S pirito di D io
Purtroppo l’attenzione che si è concentrata sulle modalità di comunicazione nella liturgia e i cambiamenti inaugurati dalla riforma conciliare, talvolta già prima ancora che fosse varata – affermando che ci sono parti che «non solo possono ma anche debbono variare» –, hanno finito per far presumere ai partecipanti, e in primo luogo ai ministri, di avere il controllo di tutti i «canali di comunicazione» e i «codici comunicativi» che adesso, nel post-concilio, dovevano solo essere continuamente dosati sul destinatario, bambino, adulto, ragazzo, uomo, donna. Si è rischiato – e ancora si rischia – di pensare che una comunicazione liturgica inefficace sia da addebitarsi alla mancata o errata modulazione dei codici comunicativi, finendo però per fare illudere gli attori dell’azione liturgica di essere uno dei due poli della comunicazione e anche i giudici della sua qualità, ma facendo perdere di vista sostanzialmente due cose fondamentali. La prima: è Dio con il quale l’assemblea comunica; dunque la liturgia deve lasciare allo Spirito di Dio con la «S» maiuscola un margine «imponderato» e «imponderabile», e anche un supremo giudizio per la valutazione di tale comunicazione. La seconda: la liturgia è liturgia della Chiesa; dunque, anche se gli attori sono coloro che rendono possibile la celebrazione, non ne sono i padroni e devono cercare di essere fedeli a ciò che la Chiesa ufficialmente nei suoi libri liturgici ha indicato. L’azione educativa preconciliare, che nulla poteva nella modulazione dei «codici comunicativi», aveva concentrato la sua azione, fin dai tempi di Guéranger, a educare il fedele alla partecipazione, con strumenti, a ben vedere oggi, molto semplici, meno ricchi rispetto a quelli a nostra disposizione, ma che erano utilizzati in un’azione pastorale che nella partecipazione attiva alla liturgia e ai suoi segni sensibili aveva indivi-
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La liturgia luogo di coinvolgimento del sensibile nello Spirito e il suo ruolo nell’evangelizzazione
duato il punto cruciale e nevralgico in cui innestare un’azione pedagogica e mistagogica per la crescita spirituale del credente.
3.1. L’assemblea celebrante
è sempre evangelizzatrice perché è sempre la prima destinataria dell ’ accadimento del vangelo
Se consideriamo il fatto che la Chiesa chiama e deve chiamare i suoi figli a conversione («credentibus semper fidem et paenitentiam praedicare debet»: SC 9), allora capiamo che nella liturgia la Chiesa sempre evangelizza per il semplice fatto che essa, quale comunità congregata, è sempre la prima e immediata destinataria di tale azione evangelizzatrice. Noi che partecipiamo alle azioni liturgiche quali figli della Chiesa, già generati in passato alla fede ma continuamente chiamati a lasciarci nuovamente generare in essa e in essa crescere, siamo i primi destinatari del vangelo, non del vangelo come libro o contenuto di un libro, ma come parola del Signore proclamata; come verbo di Dio, persona del Cristo morto e risorto; accadimento e incontro che invita a una rinnovata professione di fede a partire dal nostro oggi; supplica a colui che deve venire a partire dalle situazioni di morte e di sofferenza nelle quali lavoriamo e viviamo; acclamazione a chi è indicato come presente per le vittorie che ci ha aiutato a riportare nelle scelte difficili della vita; Parola che per essere accolta ha bisogno di un silenzio meditativo e adorante in mezzo alle migliaia di parole di cui siamo circondati e che pronunciamo ogni giorno; segno povero e sempre vecchio, ma contemporaneamente sempre nuovo perché riesce a dare senso a tutto in mezzo a un mondo che ci vuole colpire con immagini e segni sempre diversi e sempre nuovi, che quando appaiono sono già diventati vecchi; lode per il memoriale delle opere nel passato – anche del nostro passato – nel quale lo pensavamo estraneo e che nel tempo scopriamo sempre presente; invocazione per l’opera che attendiamo nel futuro: è sempre lui, il Signore Gesù Cristo, che deve essere da noi nuovamente accolto per lasciarci continuamente evangelizzare. Se nel momento culminante della celebrazione eucaristica, subito prima della comunione, la Chiesa mette sulla bocca dell’assemblea dei fedeli la professione di fede di chi era considerato pagano e infedele – che non osò nemmeno incontrare Gesù –, possiamo intuire il ruolo della liturgia nell’evangelizzazione, nella nostra (genitivo oggettivo) evangelizzazione, e il coinvolgimento sensibile al quale lo Spirito di Dio chiama ogni credente per una risposta esistenziale all’amore di Dio che in Cristo si fa lavacro, unzione, cibo, bevanda, veste, parola, suono, luce, profumo, riposo, richiamo, incontro, missione, vocazione e, a dirla con Agostino, via e patria. Solo così sapremo dire a chi non è cristiano: «venite» e «gustate e vedete com’è buono il Signore!».
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Un’opportunità Tra i temi più dibattuti nella Chiesa degli anni ’80 figura il rapporto tra parrocchia e aggregazioni ecclesiali. Alcuni eventi sono centrali: il Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali a Roma nel maggio 1998 e l’esortazione Christifideles laici. Nel primo, Giovanni Paolo II ha riconosciuto alle aggregazioni ecclesiali una più matura autocoscienza e le ha definite uno dei frutti più significativi della primavera della Chiesa preannunciata dal concilio Vaticano II. Pur nella diversità delle forme, emergono elementi comuni: la consapevolezza della «novità» che la grazia battesimale porta nella vita, il singolare anelito ad approfondire il mistero della comunione con Cristo e con i fratelli, la salda fedeltà al patrimonio della fede trasmesso dal flusso vivo della tradizione. E questo genera un rinnovato impulso missionario.1 Il documento post-sinodale (30.12.1988) propone alle forme aggregative laicali alcuni criteri di ecclesialità, in un’ottica di partecipazione responsabile alla missione della Chiesa di portare il vangelo di Cristo come fonte di speranza per l’uomo e di rinnovamento per la società.2
1 Giovanni Paolo II, Messaggio ai partecipanti al Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali promosso dal Pontificio consiglio per i laici (27.5.1998), n. 2: EV 17/890. 2 Ben quattro dei cinque criteri di ecclesialità per le aggregazioni laicali hanno un connotato esplicitamente missionario: il secondo criterio evidenzia la responsabilità di confessare la fede cattolica e, quindi, richiede di essere educati a essa nel suo integrale contenuto. Il terzo criterio prevede una comunione salda e convinta con il papa e con il vescovo, e stima vicendevole e reciproca collaborazione fra tutte le forme di apostolato nella Chiesa. Il quarto criterio è la conformità e la partecipazione al fine apostolico della Chiesa, ossia l’evange-
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Anche la Chiesa in Italia, negli anni ’80, ha affrontato questa tematica all’interno dell’orizzonte della comunione e comunità.3 Oggi tale problematica è viva, ma viene vissuta con un animo più sereno e maturo. Il contesto culturale ed ecclesiale è profondamente mutato: non c’è più l’euforia del primo sinodo europeo all’indomani della caduta del muro di Berlino. La forte secolarizzazione a volte anche aggressiva, la globalizzazione, le migrazioni, la crisi dell’egemonia della politica e dello Stato, l’ateismo scientista, la quieta indifferenza, l’emergenza educativa, il vuoto sui contenuti della fede nelle nuove generazioni, la crisi antropologica e non solo economica, l’incertezza del futuro ecc. pongono serie domande e sollecitazioni a parrocchie e movimenti.4 Nessuno si può sentire esente dal ripensare il proprio atteggiamento rispetto al richiamo del papa e del sinodo.5 Dopo l’Instrumentum laboris in preparazione alla XIII Assemblea generale ordinaria dei vescovi su La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana,6 anche le Propositiones finali sono attente alla parrocchia e alle altre realtà ecclesiali. Il segretario generale del sinodo, arcivescovo Nikola Eterović, ha comunicato che tra i temi proposti all’assise mondiale dei vescovi figurava quello relativo alla parrocchia come comunità di comunità. Ma non è stato accolto, forse perché segnalato con minore insistenza dagli episcopati, e forse perché più settoriale rispetto alla problematica più ampia e trasversale della nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Senza soffermarsi sulla definizione astratta di «carisma» e di «movimento»,7 ci si limita qui a ribadire che il criterio essenziale che acco-
lizzazione e la santificazione degli uomini e la formazione cristiana della loro coscienza, in modo che riescano a permeare di spirito evangelico le varie comunità e i vari ambienti. Il quinto richiede a tutte le forme aggregative di fedeli laici e da ciascuna di esse uno slancio missionario che le renda sempre più soggetti di una nuova evangelizzazione (Giovanni Paolo II, esortazione apostolica Christifideles laici [30.12.1988]: EV 11/1606-1900). 3 Cf. CEI, nota pastorale Criteri di ecclesialità dei gruppi, movimenti e associazioni (22.5.1981). 4 Id., Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (29.6.2001); Congregazione per il clero, Il presbitero pastore e guida della comunità parrocchiale (4.8.2002); Synodus episcoporum, XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi 7-28 ottobre 2012. Messaggio al popolo di Dio, nn. 6.13. 5 In passato, alla nuova evangelizzazione dell’Europa sono già state dedicate due assemblee straordinarie di vescovi. La prima nel 1990 all’indomani del crollo del muro di Berlino, la seconda nel 1999. Ora si tratta di un sinodo ordinario, non limitato all’Europa, ma sempre sulla «nuova evangelizzazione», però con l’aggiunta «per la trasmissione della fede cristiana». 6 Instrumentum laboris per il sinodo della nuova evangelizzazione, nn. 80-84.115-117. 7 A. Favale, I movimenti ecclesiali in Italia, LAS, Roma 1980; I movimenti nella Chiesa negli anni ’80, Jaca Book, Milano 1982, 216-242; R. Cantalamessa, Il canto dello Spirito, Àncora, Milano 1997, 183-203. A. Cattaneo, «I movimenti ecclesiali: aspetti ecclesiologici», in Annales Theologici 11(1997)2, 401-427, in particolare 406-409; D. Mogavero, «I movimenti ecclesiali tra carisma e istituzione», in Scritti in onore del Card. Salvatore Pappalardo
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Parrocchia, aggregazioni ecclesiali e nuova evangelizzazione
muna parrocchia e aggregazioni ecclesiali è il radicamento nella fede della Chiesa. Chi non condivide la fede apostolica non può accampare la pretesa all’attività apostolica. Poiché la fede è una per tutta la Chiesa, ed è anzi essa a produrne l’unità, alla fede apostolica è necessariamente vincolato il desiderio di unità, la volontà di stare nella vivente comunione della Chiesa intera, con i successori degli apostoli e col successore di Pietro, cui incombe la responsabilità dell’integrazione tra Chiesa locale e Chiesa universale, quali unico popolo di Dio. È fondamentale ripartire da questi elementi essenziali, mutuati dall’esperienza della fede e non dall’organizzazione sociale di diverse realtà umane.
1. Incontrare Cristo Tutta la pastorale tende a incontrare Cristo qui e ora, nella Chiesa.8 Se il cristianesimo è l’incontro gratuito con l’avvenimento di Cristo, uno lo può incontrare in un luogo e secondo una modalità, e uno lo può incontrare in un altro e secondo una diversa modalità… L’importante è essere educati tutti al «pensiero di Cristo» (1Cor 2,16), entrando in quella Traditio che consente di fare esperienza dell’essere nuova creatura in Cristo (Gal 2,20; Rm 6,1-11; 1Cor 15,22; 2Tm 2,12), cioè di poter affrontare la vita per lui, con lui e in lui. Allora si percepisce la sapienza del principio classico: «In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas». Se si parte dalla fede che precede i singoli cristiani, dall’avere Cristo in comune e dall’obbedire tutti a lui, allora le differenze non sono più un ostacolo, ma diventano una ricchezza. Appartenere alla comunione con Cristo conta più di tutto.9 Tale impostazione rasserena il cuore del parroco e favorisce un atteggiamento di accoglienza tra i fedeli, pur nella purificazione. Infatti, spesso si fatica ad accettare che «chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,40), cioè che esistano percorsi diversi dal nostro per arrivare alla stessa meta,
in occasione del suo 80° genetliaco, a cura di F. Armetta – M. Naro, Facoltà teologica di Sicilia, Palermo 1999, 515-535. 8 Synodus episcoporum, XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, n. 3: «La fede si decide tutta nel rapporto che instauriamo con la persona di Gesù, che per primo ci viene incontro. L’opera della nuova evangelizzazione consiste nel riproporre al cuore e alla mente, non poche volte distratti e confusi, degli uomini e delle donne del nostro tempo, anzitutto a noi stessi, la bellezza e la novità perenne dell’incontro con Cristo». 9 Benedetto XVI l’8 ottobre 2012 ha detto ai padri sinodali: «La Chiesa non comincia con il “fare” nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio. […] Solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti. […] Solo il procedere di Dio rende possibile il camminare nostro, che è sempre un cooperare […]. “Confessio” è la prima colonna dell’evangelizzazione e la seconda è “Caritas”» (Benedetto XVI, Meditazione nel corso della prima congregazione generale della XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi [8.10.2012], in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2012/october/documents/hf_ ben-xvi_spe_20121008_meditazione-sinodo_it.html, sito visitato il 29.11.2013).
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Cristo. È facile cadere nel pensare che chi non è per noi è potenzialmente contro di noi, e che esista un solo modo di essere cristiano (il proprio), scivolando nella pretesa di dire come gli altri dovrebbero essere secondo un certo «prototipo» di uomo e di cristiano, che diventa la misura della nostra accoglienza e della nostra stima… Invece ci sono molti modi di incontrare il Signore e di fare del bene. Quando si ha una scarsa consapevolezza della propria identità di chiamati e di perdonati, allora si tende a restringere i confini verso chi è «fuori» e a dividersi secondo varie sigle e appartenenze con chi è «dentro». Un tale atteggiamento personale e comunitario teso a giudicare, a essere prevenuti o chiusi, ad assumere rigidità o sospettosità, si sviluppa quando si vive male il proprio seguire e servire il Signore.10
2. Pluriformità
nell ’ unità
Lo Spirito Santo assicura l’unità della Chiesa attraverso la pluriformità dei doni e dei compiti, non l’unità nella pluriformità. Più numerosi sono i doni che vivono al suo interno e più la comunità è ricca e vitale. L’unità è garantita dalla sinfonia delle differenze, poiché la verità è sinfonica. Don L. Giussani fa questo esempio: se in famiglia, invece di un figlio, ce ne sono quattro in più, allora questo può creare problemi, e generare preoccupazioni o tensioni maggiori. Ma non si possono certo sopprimere i figli per avere la casa più semplice. Una casa con cinque figli è certamente e umanamente più ricca di una casa con un solo figlio. Alla radice della Chiesa, di ogni comunità cristiana, c’è l’unità. Nell’uni ca diocesi c’è una pluriformità di parrocchie, in una parrocchia c’è una pluriformità di comunità o di aggregazioni ecclesiali. L’appartenenza è un fatto dinamico, non rigido. Non è una chiusura, al contrario è la condizione per l’apertura verso l’esterno. Quanto più una comunità sarà pluriforme nell’unità, tanto più potrà capillarmente andare incontro a tutti, in qualunque ambito dell’umana esistenza. Perché l’adesione sia personale e la pluriformità nell’unità possa at tuarsi, la comunità vive del doppio dinamismo di autorevolezza e autorità. L’autorevolezza è il dono che, attraverso un carisma, o attraverso un compito particolare, o attraverso circostanze o momenti particolarmente felici dati all’uno o all’altro, lo Spirito fa a tutta la comunità. Si è autorevoli gli uni per gli altri. È l’idea della testimonianza. L’autorevolezza reciproca è la condizione di comunicazione normale dentro la comunità. L’ideale è che tutti si sostengano, ma lo Spirito di Cristo ha stabilito un punto di
10 R. Blázquez Péres (a cura di), Relazione del Circolo Minore Hispanicus A, Sinodo dei Vescovi 7-28 ottobre 2012: «Tutta la Chiesa (vescovi, presbiteri, religiosi/e, laici; diocesi, parrocchie, congregazioni religiose, movimenti) deve essere evangelizzata, facendo un esame di coscienza e riconoscendo i suoi errori e peccati, e, allo stesso tempo, deve partecipare all’evangelizzazione».
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autorità oggettiva e costituita, non fondata necessariamente sull’intelligenza e sulla capacità. La comunione è, nel senso nobile della parola, gerarchica, ordinata. Don Giussani diceva: «Il primo segno che un movimento porta vita alla Chiesa è che chi lo vive è tutto pieno di stima, di attenzione, di valorizzazione, di collaborazione con gli altri movimenti. Chi è vivo stima, ama e collabora alla vita dell’altro».11 È dunque importante non assolutizzare il carisma ma regolamentare il suo esercizio per l’edificazione comune, in obbediente unità con i pastori.
3. Insieme
nell ’ eucaristia
«Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,17). È il richiamo all’unione sacramentale tra i cristiani, prima di ogni altro elemento di appartenenza. Se in una famiglia la discussione tra i membri è solo contingente (quale auto comprare?), lo spessore dell’amore tra i genitori e i figli è fragile, l’essenziale non incide più e ci si accapiglia per poco. Di fronte alla differenza di opinioni sulle cose relative, deve contare di più l’esperienza concreta di Cristo fatta all’interno della comunione cristiana. Se si riconosce di avere in comune Cristo con l’altro, donato come fratello dal Padre, allora anche la più marcata differenza di opinione con lui non prevaricherà sull’unità. Se il cristiano è chiamato ad amare il nemico, tanto più chi ha opinioni diverse o compie scelte differenti. Se la comunione precede sempre, questo genera una stima previa per l’altro, chiunque esso sia, all’interno della gerarchia dei fattori che la costituiscono: l’insegnamento degli apostoli, lo spezzare il pane, la preghiera comune e la comunione. L’ascolto reciproco, sotto la guida dell’autorità, fa giungere poi a un giudizio comune, che avviene anche con incontri informali. Per i vescovi della Chiesa italiana la discriminante dell’adesione a Cristo passa per l’eucaristia. Pur fra tante preoccupazioni di ordine sociale e pastorale, per vivere la comunione che viene da Dio, la comunità cristiana deve tutto misurare sull’eucaristia, per esprimere nella sua vita l’abbandono adorante della fede: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). Ogni iniziativa pastorale, così come ogni partecipazione alla vita ecclesiale, deve essere ricondotta all’eucaristia come al suo centro nevralgico e al suo alveo naturale.12 Una più intensa e metodica pastorale eucaristica potrà risvegliare in tutti non solo il desiderio dell’unità ma soprattutto l’impegno a rinsaldare i vincoli della carità, per affrettare il
11 Conferenza di don L. Giussani nella parrocchia di San Nicola a Dergano (MI), 10 ottobre 1985. 12 CEI, Eucaristia, Comunione e Comunità (1983), nn. 64.74.108.
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giorno nel quale tutti coloro che credono in Cristo potranno unirsi intorno all’unica Parola e all’unico pane. L’esortazione apostolica Sacramentum caritatis (2007) presenta l’appartenenza cristiana come una forma eucaristica dell’esistenza cristiana. Attraverso la diocesi e le parrocchie, quali strutture portanti della Chiesa in un particolare territorio, ogni fedele può fare esperienza concreta della sua appartenenza al corpo di Cristo. Associazioni, movimenti ecclesiali e nuove comunità – con la vivacità dei loro carismi donati dallo Spirito Santo per il nostro tempo – come pure gli istituti di vita consacrata, hanno il compito di offrire un loro specifico contributo per favorire nei fedeli la percezione di questo loro essere del Signore (Rm 14,8). Il fenomeno della secolarizzazione, che contiene non a caso caratteri fortemente individualistici, ottiene i suoi effetti deleteri soprattutto nelle persone che si isolano. Il cristianesimo, fin dal suo inizio, «implica sempre una compagnia, una trama di rapporti vivificati continuamente dall’ascolto della Parola, della celebrazione eucaristica e animati dallo Spirito Santo».13
4. Tutti
in missione
La gioia dell’incontro con Cristo porta a dire ad altri «vieni e vedi» (Gv 1,39).14 Tutto il resto viene dopo la forza attrattiva e insostituibile della testimonianza, che incuriosisce, sorprende e persuade. Se parrocchia e movimenti si radicano nella vita apostolica, questa non è fine a se stessa, ma offre la libertà di servire: «Caritas Christi urget nos» (2Cor 5,14). La missione che sgorga dalla comunione ha la dimensione del mondo a partire dalla prossimità. La missione è correlata alla testimonianza, in tutti gli ambiti del vissuto umano. Non è in gioco il proselitismo o qualche strategia pastorale, ma la trasparenza della sequela di Cristo. La missione non è spartizione di ambiti o competizione di risultati, non è accaparramento o attaccamento gretto al particolare. La missione è segno della verità e della vitalità della comunità cristiana.15 La missione non è né un fatto organizzativo o funzionale né l’impegno della propria generosità o la conseguenza del proprio fare. La missione non si aggiunge alla realtà comunionale della Chiesa, è inseparabile
13 Benedetto XVI, esortazione apostolica Sacramentum caritatis (22.2.2007), n. 76: EV 24/200. 14 Synodus episcoporum, XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, n. 10: «La nuova evangelizzazione ha al suo centro Cristo e l’attenzione alla persona umana, per dare vita a un reale incontro con lui». 15 Paolo VI, esortazione apostolica sull’evangelizzazione nel mondo contemporaneo Evangelii nuntiandi (8.12.1975), n. 5: EV 5/1592; Giovanni Paolo II, lettera enciclica Redemptoris missio (7.12.1990), n. 86: EV 12/717-718; Benedetto XVI, lettera apostolica in forma di motu proprio Porta fidei (11.10.2011), n. 7: EV 27/757; Id., La Gioia della fede, a cura di G. Vigini, San Paolo, Milano 2012, 105-110.
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dal suo stesso porsi.16 Quando la Chiesa è autentica, è missionaria. San Paolo, ovunque arrivasse nei suoi viaggi, comunicava a tutti la bellezza dell’incontro con Cristo, fondando nuove comunità e cercando che, a loro volta, tali comunità fossero capaci di vivere questa stessa esperienza e di aiutare altri a viverla. La missione non viene anzitutto dall’esterno, ma da un dinamismo intrinseco al proprio essere cristiano, che risente dell’amore della santissima Trinità. Come questa ha mandato Gesù, così il discepolo si sente inviato a essere suo testimone, ovunque viva (Gv 17,21). L’unità e la comunione in Cristo precedono ogni differenza, sono la radice di ogni altra fioritura. «Quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita […] noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,1-3). Questo voi esprime il tutti. La comunione e la missione sono profondamente congiunte tra loro, si compenetrano e si implicano mutuamente, al punto che la comunione rappresenta la sorgente e insieme il frutto della missione: la comunione è missionaria e la missione è per la comunione. È sempre l’unico e identico Spirito colui che convoca e unisce la Chiesa a colui che la manda a predicare il vangelo «fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Di fronte a soggetti caratterizzati da disinteresse verso ciò che è spirituale, da distrazioni e fretta, da chiusure ideologiche o da precomprensioni viziate da stereotipi e semplificazioni, solo la comunicazione di un’esperienza gioiosa può risultare di una qualche efficacia.17
5. Nessuno
è autosufficiente
L’atteggiamento del cristiano maturo non è l’isolamento ma il riconoscimento, non la sottrazione ma l’«addizione»: una Chiesa una e molteplice, viva, mobile, creativa perché fatta di tante membra quanti sono i fedeli, ciascuno col suo dono personale e la sua funzione per l’animazione corresponsabile di ciò che sta davanti e attorno. La logica è la «sinfonia della verità» (U. von Balthasar): non la separazione, la contrapposizione, la concorrenza, la gelosia, la litigiosità. Per il card. C. Caffarra il metodo dell’evangelizzazione non può essere egemonico. È la prospettiva del recente sinodo sulla nuova evangelizzazione.18
Giovanni Paolo II, Christifideles laici, n. 31. Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, L’Anno della Fede. Credere Vivere Celebrare, San Paolo, Roma 2012, 39-58. 18 Propositiones del sinodo sulla nuova evangelizzazione, n. 42: «Ogni Chiesa particolare è la comunità primaria della missione della Chiesa. Deve animare e guidare una rinnovata attività pastorale in grado di integrare la varietà dei carismi, dei ministeri, degli stati di vita e delle risorse. Tutte queste realtà devono essere coordinate all’interno di un progetto missionario organico, capace di comunicare la pienezza della vita cristiana a ognuno. Tale sforzo deve derivare dal dialogo e dalla cooperazione di tutte le componenti diocesane, tra 16
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Come nella storia l’annuncio cristiano è passato attraverso molte «porte» (l’arte, l’educazione, la liturgia, la carità ecc.), così Cristo viene incontro all’uomo per varie «porte», che spalancano i tesori della sua misericordia e danno accesso al suo mistero di salvezza, di cui la Chiesa è mediatrice. Nella logica della pluriformità nell’unità si possono rispettare i diversi carismi e le diverse sensibilità nel vivere la dimensione missionaria della Chiesa. In essa c’è spazio per il tradizionale ruolo delle parrocchie,19 il silenzio degli eremiti, delle comunità religiose, della pastorale giovanile e universitaria, dell’annuncio ai lontani, del servizio ai poveri ecc. «Radicalizzare, unilateralizzando, una o l’altra forma può diventare ideologico».20 Dio ha scelto di avere bisogno di ognuno per attuare la salvezza per tutti. Se solo Dio è autore della salvezza sarebbe fare violenza all’altro l’escluderlo solo perché non usa la mia misura o non segue il mio metodo. L’essere mandati deve verificare, in continuazione, la modalità con cui ciascuno vive il suo compito. Il problema non è accanirsi su un progetto, ma interrogarsi sulla verità di colui che compie il gesto missionario: se e come cambia il suo cuore e la sua mente, il «per chi lo si compie», se aiuta a fare spazio all’avvenimento di Cristo. La missione è sempre conversione.21 Questo è tanto più urgente nell’attuale contesto caratterizzato dalla tentazione della religiosità fai-da-te e della «religione civile», del «laicismo furioso» e dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo, dello scientismo ecc. Si avverte l’esigenza di un nuovo dinamismo missionario. In un mondo che con il crollare delle distanze si fa sempre più piccolo, le comunità ecclesiali devono collegarsi tra loro, scambiarsi energie e mezzi, impegnarsi insieme nell’unica e comune missione di annunciare e di vivere il vangelo.22 Qualunque cosa uno compia, è chiamato a compierla sapendo di appartenere alla comunità, di agire personalmente ma sentendosi
cui parrocchie, piccole comunità cristiane, comunità educative, comunità di vita consacrata, associazioni, movimenti e singoli fedeli»; ivi, n. 43: «Dal Vaticano II, la Nuova evangelizzazione ha tratto grande beneficio dal dinamismo dei nuovi movimenti ecclesiali e delle nuove comunità. Il loro ideale di santità e di unità è stato fonte di molte vocazioni e notevoli iniziative missionarie. Il sinodo riconosce queste nuove realtà e le incoraggia a utilizzare i loro carismi in stretta collaborazione con le diocesi e le comunità parrocchiali, le quali a loro volta potranno trarre beneficio dal loro spirito missionario». 19 Ivi, n. 26: «La parrocchia continua a essere la prima presenza della Chiesa nei quartieri, il luogo e lo strumento della vita cristiana […]. La presenza e l’azione evangelizzatrice di associazioni, movimenti e di altre realtà ecclesiali sono degli utili stimoli per la realizzazione della conversione pastorale delle parrocchie». 20 A. Scola, Come nasce e come vive una comunità cristiana. A partire dal IV Convegno Ecclesiale di Verona, Marcianum, Venezia 2007, 143; Benedetto XVI, La Gioia della fede, 86. 21 Synodus episcoporum, XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, n. 5: «L’invito a evangelizzare si traduce in un appello alla conversione […]. La memoria e la narrazione della vita dei santi è strumento privilegiato della nuova evangelizzazione». 22 Giovanni Paolo II, Christifideles laici, n. 35.
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anche parte della Chiesa e, quindi, di rendere presente la realtà cristiana, che è sempre più grande di quanto ognuno riesce a vivere. Vanno superati i pericoli di immaturità, tra cui la minaccia di unilateralità, che porta a vivere l’esperienza spirituale cui si appartiene non come una delle plurime forme d’esistenza cristiana, ma come l’unica, identificabile con la Chiesa stessa, come la via per tutti, escludendo altre modalità legittime e complementari. Tali atteggiamenti di assolutizzazione, di infantilismo e di alternativa dipendono anche da debolezze personali dei singoli cristiani appartenenti a movimenti, ma anche dalla chiusura e dalla mediocrità di quelle diocesi e parrocchie che avvertono l’irrompere del nuovo solo come perturbativo della situazione ecclesiale in essere.
6. Aspetti
da approfondire
Già alla fine degli anni ’80 l’allora cardinale J. Ratzinger chiedeva alle parrocchie/diocesi e alle aggregazioni ecclesiali di lasciarsi purificare, di sopportarsi e di trovare la via che conduce a quei comportamenti di cui parla nell’inno alla carità Paolo (1Cor 13,4ss). Ai movimenti, dono fatto alla totalità della Chiesa, domandava di sottomettersi alle esigenze di questa totalità per restare fedeli a ciò che è loro essenziale. Ma occorre che si dica chiaramente anche alle Chiese locali, anche ai vescovi, che non è loro consentito indulgere ad alcuna pretesa d’uniformità assoluta nelle organizzazioni e programmazioni pastorali. Non possono far assumere i loro progetti pastorali a pietra di paragone di quel che allo Spirito Santo è consentito operare: di fronte a mere progettazioni umane può accadere che le Chiese si rendano impenetrabili allo Spirito di Dio, alla forza di cui esse vivono. Non è lecito pretendere che tutto debba inserirsi in una determinata organizzazione dell’unità; meglio meno organizzazione e più Spirito Santo!23
Restano certo aperti alcuni approfondimenti interni alla vita ecclesiale, ma che non possono scalfire il comune impegno missionario. Ad esempio sarebbe illusorio concepire la comunione come l’evitare il conflitto per il quieto vivere, a prezzo della rinuncia alla totalità della testimonianza. Sarebbe errato un certo atteggiamento di superiorità intellettuale che porta a bollare di fondamentalismo lo zelo di persone animate dallo Spirito Santo e che privilegia un modo di credere per il quale il «se» e il «ma» sono più importanti della sostanza di quanto si dice di credere. Va, infine, riconosciuto e accettato che è vero tanto l’ubi Petrus, ibi ecclesia quanto l’ubi episcopus, ibi ecclesia. Precisa ancora J. Ratzinger:
23 J. Ratzinger, «Movimenti ecclesiali e loro collocazione teologica», postfazione a F.G. Fernandez, I movimenti dalla Chiesa degli apostoli a oggi, Rizzoli, Milano 2000, 353s.
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Luigi Guglielmoni Primato ed episcopato, struttura ecclesiale locale e movimenti apostolici hanno bisogno gli uni degli altri: il primato può vivere solo tramite e con un episcopato vivo, l’episcopato può salvaguardare la sua dinamica e apostolica unità solo in costante collegamento col primato. Quando uno dei due è indebolito o sminuito, è la Chiesa tutta a soffrirne.24
Per il card. A. Scola c’è ancora poco senso dell’appartenenza alla Chiesa diocesana e poco senso dell’appartenenza alla Chiesa universale nelle nostre comunità parrocchiali. C’è un’involontaria tendenza a partire da sé come se si fosse l’assoluto, il che è umanamente comprensibile, ma miope.25 Se per una migliore capillarità e inculturazione della fede è importante la struttura territoriale, il criterio territoriale non può mai essere eretto a principio assoluto, sia per non ostacolare lo Spirito sia per i nuovi fenomeni dell’urbanizzazione e della migrazione.26 Per il teologo E. Castellucci l’essere in comunione salda e convinta con il vescovo diocesano implica per ciò stesso una comunione con il papa; mentre, viceversa, un richiamo diretto alla comunione con il papa – date le sue minori implicazioni operative – non sempre comporta nei fatti una comunione effettiva con il vescovo diocesano. Perché dunque la comunione delle aggregazioni nella Chiesa «sia effettiva e concreta e non solo affettiva e generica, dovrà essere “incarnata” nel volto di una Chiesa locale. Un richiamo esclusivamente universalistico risulta facilmente evasivo rispetto alle scelte concrete, pastorali e missionarie, che una Chiesa opera nel territorio in cui vive».27
7. Un
esempio
Una certa chiusura in se stesse, specialmente nei momenti iniziali, può risultare una tappa necessaria per le aggregazioni ecclesiali al fine di permettere ai primi membri di sviluppare una precisa identità e di approfondire il loro carisma e la loro missione specifica. Col passare del tempo, tali comunità sono chiamate ad aprirsi alle diversità, nella fedeltà
Ivi, 355. Scola, Come nasce e come vive una comunità cristiana, 44. 26 I movimenti nella Chiesa negli anni ’80, 232s. 27 E. Castellucci, «Aggregazioni ecclesiali e spiritualità diocesana», in Unione Apostolica del Clero – Notizie (2011)2, inserto n. 16. Per un approfondimento, cf. L. Gerosa, Carisma e diritto nella Chiesa. Riflessioni sul «carisma originario» dei nuovi movimenti ecclesiali, Jaca Book, Milano 1989; Id., Diritto ecclesiale e pastorale, Giappichelli, Torino 1991; G. Ghirlanda, «Carisma e statuto giuridico dei movimenti ecclesiali», in Il Regno-doc. (1998)43, 407-411; P. Tartaglia (a cura di), Relazione del Circolo Minore Anglicus C, Sinodo dei Vescovi: «È stato pienamente riconosciuto che i nuovi movimenti facilitano la nuova evangelizzazione e il contatto con Gesù Cristo. È stato suggerito che i nuovi movimenti opererebbero meglio se fossero inquadrati nel progetto diocesano di evangelizzazione e ricevessero dal vescovo compiti specifici». 24 25
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Parrocchia, aggregazioni ecclesiali e nuova evangelizzazione
al vangelo, nella crescita dei membri verso una maggiore libertà interiore e nella condivisione coi poveri. Per Jean Vanier c’è sempre il rischio che dei responsabili di comunità e di movimenti, credendosi guidati dallo Spirito Santo, impediscano un’evoluzione sana, come se i fondatori fossero stati ispirati una volta per tutte, divenendo infallibili in ogni piccolo dettaglio della fondazione e rispetto a ogni generazione a venire. Nessun movimento è totalmente puro, totalmente santo e ispirato, in ogni aspetto della vita umana e spirituale. L’ideale e le intuizioni possono essere santi e ispirati, ma le realtà concrete e l’organizzazione sono soggette alle circostanze e alle persone, con la loro cultura, la loro educazione, le loro paure, i loro tabù interiori e le loro fragilità. In ogni movimento ci sono sempre degli elementi di orgoglio, di insicurezza e di errore. L’approvazione della Chiesa non significa che tutto è perfetto.28
Il fondatore dell’Arca elenca alcuni segni atti a testimoniare che un’aggregazione ecclesiale evolve secondo lo Spirito Santo. Il primo consiste nello scoprire la bellezza e i doni degli altri nella Chiesa locale, il riconoscimento dell’autorità del vescovo, come pure la priorità dell’insieme del corpo di Cristo di fronte al proprio movimento particolare. La comunità o il movimento è, forse, più grande della singola persona, ma ogni persona è più importante delle cifre o degli obiettivi del movimento. Un movimento può anche scomparire ma l’importante è che la buona novella continui a essere annunciata, di generazione in generazione, e che Gesù sia conosciuto e amato. Gesù è con il suo popolo, suo corpo, fino alla fine dei tempi. Egli non è necessariamente vicino a un gruppo particolare fino alla fine dei tempi.29 Un secondo criterio di sintonia con lo Spirito è l’ammissione dei limiti e delle debolezze sia nell’attuazione di alcuni progetti sia nei membri dell’aggregazione ecclesiale. Terzo, la capacità di rafforzare il suo carisma e di aprirsi alla Chiesa che cammina nella storia. Quarto, la matura cooperazione tra uomini e donne. Quinto, la presenza del povero e del debole evangelizza il movimento, custodendolo nell’umiltà e impedendogli di chiudersi in se stesso. Sesto, la crescita dei membri in responsabilità, anche con l’apporto di persone esterne all’aggregazione. Settimo, la qualità d’amore e di misericordia verso i membri in difficoltà: l’eventuale distacco dal movimento non va equiparato all’abbandono della Chiesa o di Dio. Ottavo, la dimensione spirituale proposta eleva e non schiaccia l’umano dei membri. Di qui il bisogno di una saggezza teologica, spirituale e psicologica. Ogni movimento non è chiamato soltanto a vivere il successo della vita pubblica di Gesù, quando molti lo seguirono, ma anche a vivere la
28 J. Vanier, Nuovi movimenti. Sette cristiane o segni dello Spirito, Piemme, Casale Monferrato 1999, 39-41. 29 Ivi, 43-45.
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sua debolezza, la sua piccolezza, la sua vulnerabilità e talvolta perfino il rifiuto e la morte. Tali sofferenze possono essere fonte di purificazione e di nuova vita per tutta la Chiesa. Il rinnovamento della Chiesa non proviene sempre da movimenti potenti e che si impongono, ma spesso da piccoli semi che crescono, fino a fruttificare, in armonia con i vescovi e come segni della risurrezione di Gesù. Ciò si realizza quando ci si lascia trasformare dall’amore di Gesù, per mezzo e nello Spirito Santo.30
8. Con
spirito evangelico
Solo la docilità alla Parola e all’azione dello Spirito fa sì che ogni espressione di Chiesa possa vivere secondo la grazia ricevuta, al servizio degli altri (cf. 1Pt 4,10-11). Ogni fase del cammino delle aggregazioni ecclesiali, come pure della vita delle parrocchie, deve potersi dire evangelica: lo stile, il linguaggio, i metodi e gli strumenti, tutto va sottoposto al criterio della croce, dell’umiltà, della verità. Questo forte richiamo del card. C.M. Martini, un anno dopo il Convegno ecclesiale di Loreto (11-15 aprile 1985), conserva integra la sua validità. Le relazioni tra realtà di Chiesa non possono ispirarsi al conflitto politico. Così si rivolgeva ai presbiteri diocesani l’arcivescovo di Milano: Occorre bandire ogni forma di denigrazione, autosufficienza, calunnia, menzogna, a parole o negli scritti. Occorre coltivare la trasparenza nei fini e nei mezzi. Occorre non dirsi soltanto bravi, ma riconoscere qualche volta anche i nostri peccati. Occorre sapere usare i mezzi a nostra disposizione con umiltà e distacco, guardandosi da ogni tentazione di potere […]. Non per il fatto che una realtà sia carismatica si deve ritenere esente da tentazioni o deviazioni e non bisognosa di correzione e di vigilanza. I carismi più belli si sono corrotti quando hanno perso il sale dell’umiltà!31
È compito del vescovo aiutare ogni aggregazione ecclesiale a chiarire la sua specificità, sia per non appiattirla secondo modelli generici o stereo tipati, sia per individuare meglio la specifica competenza e disponibilità delle diverse realtà, sia per evitare inutili doppioni, sovrapposizioni o concorrenze non necessarie. I grandi principi della Prima lettera ai Corinzi (ortodossia, unità, utilità comune: cf. 1Cor 12,1-11) sono un prezioso contributo per il giusto discernimento e ordinamento dei carismi, aiutando ciascuno a prendere coscienza del modo particolare e specifico con cui contribuisce alla crescita dell’intero corpo della Chiesa.32 La diocesaneità non è un concetto puramente geografico o una misura burocratico-amministrativa. È
Ivi, 54-56. C.M. Martini, Farsi prossimo nella città, EDB, Bologna 1987, 315. 32 Ivi, 316. 30 31
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Parrocchia, aggregazioni ecclesiali e nuova evangelizzazione un vero e proprio valore spirituale, inteso come dedizione stabile, prioritaria al cammino del popolo di Dio radunato in un preciso contesto ecclesiale, con il vescovo e il suo presbiterio, come servizio alla crescita di un’autentica santità popolare, come acquisizione delle necessarie competenze, per essere realmente disponibili a sentire, pensare e servire insieme la Chiesa particolare.33
Già al Convegno ecclesiale di Loreto, Giovanni Paolo II aveva ribadito che perché la ricchezza dei carismi porti il suo pieno contributo all’edificazione della casa comune è necessario anzitutto il riferimento costante al proprio vescovo, principio visibile e fondamento dell’unità della Chiesa particolare. Ogni ambiente ecclesiale, come anche ogni problema che in esso può sorgere, trova nella Chiesa particolare e nella concretezza delle sue strutture il luogo provvidenzialmente predisposto a cui fare riferimento nella ricerca della soluzione adeguata. Il tutto, ovviamente, nel contesto dell’indispensabile comunione con la Chiesa universale.34
9. Nuovi
stili
L’impietosa ma realistica descrizione di mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, deve far meditare: Le nostre comunità, forse, non presentano più i tratti che consentono di riconoscerci come portatori di una bella notizia che trasforma. Esse appaiono stanche, ripetitive di formule obsolete che non comunicano la gioia dell’incontro con Cristo e sono incerte sul cammino da intraprendere. Ci siamo rinchiusi in noi stessi, mostriamo un’autosufficienza che impedisce di accostarci come una comunità viva e feconda che genera vocazioni, tanto abbiamo burocratizzato la vita di fede e sacramentale. In una parola, non si sa più che essere battezzati equivale a essere evangelizzatori. Incapaci di essere propositivi del Vangelo, deboli nella certezza della verità che salva, e cauti nel parlare perché oppressi dal controllo del linguaggio, abbiamo perso credibilità e rischiamo di rendere vana la Pentecoste.35
Forse, più ancora che soffermarsi sulla differenza tra «vecchia» e «nuova» evangelizzazione, è utile approfondire il tema «evangelizzazione e nuovi stili». Per E. Bianchi c’è bisogno di uno stile altro, incentrato sulla proposta di un cammino di umanizzazione capace di preparare l’incontro fra Cristo e le culture, che non è, a sua volta, un messaggio culturalmente già confezionato. Si tratta di educare a una grammatica umana, in cui si innesti la fede: un’operazione che tenga presente come
33 34
C.M. Martini, Per una santità di popolo, EDB, Bologna 1986, 466s. Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno della Chiesa italiana, Loreto 11 aprile 1985,
n. 6. 35
R. Fisichella nel suo intervento al sinodo del 9 ottobre 2012.
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Luigi Guglielmoni i contenuti, nel messaggio cristiano, sono importanti quanto lo stile con cui vengono proposti. Evangelizza chi riesce a mostrare che c’è un «guadagno» nell’aderire al vangelo.36
Nell’attuale «desertificazione» spirituale, evangelizzare significa «testimoniare una vita nuova, trasformata da Dio, e così indicare la strada».37 Solo realizzando l’impostazione avviata dal concilio Vaticano II, volutamente di natura pastorale e non dogmatica e incentrata sullo stile di comunione interna e di dialogo all’esterno, potrà verificarsi una nuova evangelizzazione: una Chiesa in stato di missione permanente e meno ripiegata verso l’interno. Oggi non pare bastare ciò che fece Paolo VI, nell’Anno della fede indetto tra il 1967 e il 1968: spiegare i contenuti di fede (fides quae), ridire il Credo tradizionale, ampliandolo. Va ripensata la fides qua, perché l’origine della fede non è una teoria né tantomeno un’etica, ma l’incontro con Cristo, che prende la totalità del proprio essere e vivere. Non basta più vivere la parrocchia come luogo di distribuzione di servizi religiosi, né la moltiplicazione di iniziative, anche di tipo catechistico, porta automaticamente a un maggior risveglio di fede.38 Forse va curato di più l’annuncio, perché una verità che non affascina ha sempre scarsa presa sulle persone ed è richiesto un lavoro a lunga scadenza.39 Oggi la fede non è più trasmessa per osmosi culturale, ma per una storia che interpella ognuno a partire dalla propria vita lavorativa e familiare. Non ha futuro la fede se non è un’esperienza vissuta nel presente, come rapporto adulto con la realtà e pertinenza alle sfide che ciascuno deve affrontare personalmente o socialmente. Una fede «ignorante è sempre una fede debole».40
36 E. Bianchi, Nuovi stili di evangelizzazione, San Paolo, Milano 2012; B. Salvarani, «Ridire la fede ed essere minoranza», in Settimana (2012)36, 3. 37 Benedetto XVI, Omelia nella S. Messa per l’apertura dell’Anno della Fede (11.10.2012); Y. Congar, Vera e falsa riforma della Chiesa, Jaca Book, Milano 1972. 38 Si veda l’intervento del vescovo B. Forte al sinodo sulla nuova evangelizzazione, l’11 ottobre 2012: «Senza un nuovo slancio missionario della parrocchia, di cui siano protagonisti gli stessi operatori pastorali in essa operanti, sarà difficile vivere una radicale nuova evangelizzazione. In questa luce, pur apprezzando i doni dello Spirito che sono i nuovi movimenti, ritengo che uno strumento prezioso sia l’Azione Cattolica, cui fa riferimento chiaramente l’Instrumentum Laboris al n. 117, che sta totalmente nello spirito della cooperazione laicale alla missione dei pastori». Cf. anche l’intervento dell’11 ottobre 2012 di J. Rafael Quirós Quirós, vescovo di Limón (Costa Rica), che auspica la parrocchia «come una grande comunità di piccole comunità e di esperienze comunitarie, nelle quali diventa possibile riscattare il valore personalizzante dell’incontro […]. La parrocchia come una comunità di fratelli, la cui preoccupazione primaria è la preghiera, il servizio e l’accompagnamento». 39 S.J. Silva Retamales (a cura di), Relazione del Circolo Minore Hispanicus B, Sinodo dei Vescovi: «Lo stile della Nuova Evangelizzazione è una testimonianza gioiosa, attraente e audace della fede; pertanto il nuovo stile di evangelizzare non si caratterizza per il fatto di “imporre”, ma di “attrarre”». 40 C. Caffarra, in Avvenire Bologna Sette, 2 aprile 2012, 6.
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Resta vero quanto Paolo VI nel 1969, a quattro anni dalla chiusura del concilio, ha detto: «Il soffio ossigenante dello Spirito è venuto a svegliare nella Chiesa energie assopite, a risuscitare carismi dormienti, a infondere quel senso di vitalità e di letizia che a ogni epoca della storia definisce giovane e attuale la Chiesa stessa».41 Al sinodo sulla nuova evangelizzazione, il card. Stanislaw Rilko ha affermato che «movimenti e nuove comunità rimangono ancora una risorsa non ancora pienamente valorizzata, un dono dello Spirito e un tesoro di grazie ancora nascosti agli occhi di molti pastori, forse intimoriti dalla novità che apportano alla vita delle diocesi e delle parrocchie».42
10. Sguardo
di speranza
La condizione di minoranza in cui versa oggi il cristiano nei Paesi di antica cristianità (si pensi alla crisi di vocazioni e di frequenza attiva e fedele alla vita ecclesiale) espone alla debolezza.43 Un cristiano solo, isolato, rischia di essere più esposto al condizionamento del contesto culturale ed esistenziale dominante. Questo aiuta a ricuperare l’importanza dei movimenti che favoriscono un riconoscimento tra cristiani nei vari ambiti della giornata e settimana, vissuta spesso «lontano» dalla propria parrocchia di origine. Per il singolo parroco sarebbe impossibile seguire i singoli cristiani in quei contesti vitali, dove invece i battezzati possono avere altre forme di aggregazione e di sostegno reciproco. Un tempo la vita cristiana della gente si svolgeva nella parrocchia; oggi non è più così. Ma anche chi rimane in casa, attraverso i mass media e i mezzi informatici è raggiunto da una mentalità mondana. È difficile resistere a tale mentalità solo con un lavorio della sua coscienza, con un impegno della sua intelligenza, con l’esercizio della sua volontà. La parrocchia, come pure la diocesi, non può far fronte alla cultura diffusa, che penetra in tutte le case portando un’interpretazione non cristiana e non religiosa della vita. Ma in azienda, a scuola, in piazza, nello sport ci si può accorgere che c’è qualcuno che vive in modo diverso, si coglie un’affinità, si resta persuasi e si crea comunione, si condivide una valutazione della realtà. Se, nel proprio ambiente (lavoro, università, oratorio ecc.), si incontra una persona che vive la fede e comunica tale vitalità, sarà più facile reagire e lasciarsi coinvolgere. Mons. Luigi Giussani ha messo in rilievo come la parola «movimento» descriva la modalità esistenziale storica con cui la Chiesa diventa vivente. «Se una parrocchia è viva, è movimento, nel senso in cui Giovanni Paolo II
41 S. Martinez, «Quale Chiesa senza Pentecoste?», in Rinnovamento nello Spirito (2009)8, 7. 42 In Avvenire, 10 ottobre 2012, 22. 43 Intervista a R. Fisichella, in Avvenire, 6 ottobre 2012, 3.
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disse: “La Chiesa stessa è un ‘movimento’”».44 Il termine «movimento» diventa una categoria ecclesiologica fondamentale nella descrizione del dinamismo pastorale: esprime una modalità permanente nella storia della Chiesa perché la fede diventi persuasiva, pedagogicamente efficace ed edificatrice, capace di cambiare la vita. Movimento è intensità di partecipazione alla vita della Chiesa, familiarità tra fedeli e pastore, desiderio di conoscenza della fede e della dottrina cattolica, vibrazione di speranza, costruzione di popolo. Senza questo, la parrocchia resta una pura istituzione, arida e atrofizzata, giuridica e formale, lontana dalla realtà. Occorre uno stupore che fa sentire vivi come cristiani sia in parrocchia che in altre realtà ecclesiali.45 Il tema del movimento non è alternativo all’istituzione, ma indica la modalità con cui l’istituzione diventa vivente, missionaria. Movimento equivale a cuori mossi, coscienze provocate, gusto rinnovato, pedagogia nuova suscitati nella Chiesa dallo Spirito. Un autentico movimento esiste come un’anima alimentatrice dentro l’istituzione oggettiva della Chiesa, rende la gente viva dentro di essa.46 Lo Spirito è libero e sa improvvisare nella storia. La forza del cristiano è anzitutto la sua fede. Se si esclude la forza di Dio dalla storia, siamo dei perdenti, sempre.
11. Tempo
del laicato
L’azione pastorale parrocchiale è ancora piuttosto ancorata al clero e affidata ai laici solo per necessità, come risposta a specifici bisogni.47 Le forme di aggregazione tra parrocchie sono state e sono tuttora un motore della nuova evangelizzazione, soprattutto dove si è riusciti a superare quella mentalità del clero legata alla concezione tridentina, che ha visto nella parrocchia un organismo autarchico. L’unità pastorale nasce per essere invece comunione di valori, non solo di persone. La difficoltà è di passare dalla collaborazione «occasionale» alla «progettazione unitaria» o a un «progetto comune e condiviso». L’unità pastorale va affrontata non tanto come un modello organizzativo-aziendale da rendere più efficiente, quanto piuttosto come un luogo di fraternità che conserva ben saldo il vincolo dell’amicizia evangelicamente intesa e il fondamento dell’eucaristia.
Convegno Movimenti nella Chiesa, Castel Gandolfo, 27 settembre 1981. I movimenti nella missione della Chiesa (Litterae Comunionis Documenti 5), Supplemento a Litterae Comunionis (1985)11, 23-26. 46 Don Giussani fa l’esempio dei soldati che andavano all’assalto al suono delle fanfare: la fanfara non era un’alternativa ai comandi del capitano, ma elettrizzava i cuori perché lo seguissero. 47 Si veda il Seminario tenutosi a Villa Lascaris a fine giugno 2012 a Pianezza (Torino), proposto dal Centro studi e documentazione della diocesi di Torino e dal Centro di orientamento pastorale. 44 45
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Si può guardare con apprensione al futuro della parrocchia, chiedendosi quali «servizi» pastorali (liturgici, educativi, missionari e caritativi) rischiano di ridursi o di scomparire. Se invece si prende atto della «debolezza» della Chiesa, tale debolezza può diventare la sua forza.48 Ma al di là delle forme storiche assunte dall’istituzione parrocchiale o dai movimenti ecclesiali, è comune sentire della Chiesa odierna che spetta ai laici testimoniare come la fede cristiana costituisca l’unica risposta pienamente valida dei problemi e delle speranze che la vita pone a ogni persona e a ogni società. La nuova evangelizzazione non può prescindere dal mondo laicale, primo laboratorio di unità tra il vangelo e la vita. È evidente che l’azione positiva svolta dai cristiani laici sarà tanto più efficace «quanto più porteranno con sé la comunità di appartenenza che li incoraggia alla missione, li sostiene nelle difficoltà e permane come luogo di riferimento dove poter raccontare le meraviglie che il Signore compie per mezzo del loro apostolato».49 In tante parrocchie e aggregazioni ecclesiali sono già in atto segnali di nuova evangelizzazione: ad esempio gli itinerari catecumenali per giovani e adulti che desiderano accedere alla fede, la revisione dell’impianto dell’iniziazione cristiana, la risposta della carità alle nuove forme di povertà come «provocazione» di domande inerenti alla testimonianza della fede; dialogo tra credenti e non credenti circa varie problematiche sulla vita, sull’uomo e sullo sviluppo ecc.50 La valorizzazione del laicato delle parrocchie e delle aggregazioni ecclesiali richiede sia momenti formativi qualificati («una fede ignorante è sempre una fede debole»)51 sia occasioni di incontro plenario (preghiera, organismi di partecipazione, programmazione pastorale, testimonianza corale della fede).52 A questo dovrebbero servire i consigli pastorali e i consigli dei laici previsti dal concilio Vaticano II «per coordinare le varie associazioni e iniziative dei laici, salva restando l’indole propria e l’autonomia di ciascuna» (cf. Apostolicam actuositatem, n. 26: EV 1/1011). Tanto è stato fatto, sia nella Chiesa universale sia nella Chiesa pellegri-
48 S. Xeres – G. Campanini, Manca il respiro. Un prete e un laico riflettono sulla Chiesa italiana, Àncora, Milano 2011. 49 Propositiones del sinodo sulla nuova evangelizzazione, nn. 45-48.51; R. Fisichella, La nuova evangelizzazione, Mondadori, Milano 2011, 110. 50 Synodus episcoporum, XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, n. 12. Cf. Benedetto XVI, lettera apostolica in forma di motu proprio De caritate ministrando (11.11.2012). 51 Caffarra, in Avvenire Bologna Sette, 2 aprile 2012, 6. 52 Il 6 gennaio 1967 Paolo VI con il motu proprio Catholicam Christi Ecclesiam avviava il Pontificio consiglio per i laici, confermato e riformato dieci anni dopo con il documento Apostolatus peragendi, e meglio definito da Giovanni Paolo II nella costituzione apostolica Pastor bonus sulla Curia romana del 28 giugno 1988. Per approfondimenti, cf. Il Pontificio consiglio per i laici, LEV, Città del Vaticano 1997, 21. Per la Chiesa in Italia già nel 1970 la Consulta generale dell’Apostolato dei laici si è prefissa di essere «luogo di incontro delle organizzazioni di apostolato dei laici, con lo scopo di accrescere l’unità e la comunione del popolo di Dio» (Statuto, art. 1).
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nante nel nostro Paese, dagli auspici e dalle mediazioni di Giovanni Paolo II e dell'attuale pontefice, come dagli episcopati.53
Conclusione A una fase iniziale di incertezza circa i nuovi movimenti e di una certa confusione al loro interno, come pure di una contestazione della parrocchia tradizionale e di una ricerca di rinnovamento, sta subentrando una tappa nuova: quella della «maturità ecclesiale».54 Un aspetto è fondamentale: non ci può essere una Chiesa in dialogo col mondo, come chiesto dal concilio Vaticano II, senza un dialogo all’interno della Chiesa, con l’identità e l’originalità di ogni sua componente laicale, in rapporto di collaborazione e di integrazione. La relazione tra aggregazioni ecclesiali e parrocchia rientra in questa grande sfida.55 Restano ancora un faro orientativo le parole di Giovanni Paolo II che, al Convegno ecclesiale di Loreto, auspicava una rinnovata coscienza di Chiesa, grazie alla quale, nella partecipazione all’unico dono e nella collaborazione all’unica missione, tutti imparino a comprendersi e a stimarsi fraternamente, ad ascoltarsi e a istruirsi instancabilmente, affinché la casa di Dio, cioè la Chiesa, sia edificata dall’apporto di ciascuno, e perché il mondo creda e veda.56
È la scommessa di mons. Rino Fisichella al sinodo sulla nuova evangelizzazione:
53 Al Consiglio permanente della CEI, il 21 gennaio 1979, Giovanni Paolo II disse: «Bisognerà creare nuove occasioni di incontro e di confronto, in un clima di apertura e di cordialità, alimentato alla mensa della parola di Dio e del Pane eucaristico; bisognerà riprendere con pazienza e fiducia il dialogo, quando sia stato interrotto, senza lasciarsi scoraggiare da ostacoli e asperità nel cammino verso la comprensione e l’intesa». 54 B. Forte (a cura di), Relazione del Circolo Minore Italicus B, Sinodo dei Vescovi: «L’evangelizzazione non è opera di navigatori solitari, ma della comunità cristiana nel suo insieme e di ciascuno secondo il carisma ricevuto da Dio e il suo ministero cui è chiamato. Tutta la Chiesa annuncia tutto il Vangelo a tutto l’uomo, a ogni uomo […]. I Padri sottolinea no come ogni battezzato sia per vocazione e missione protagonista della nuova evangelizzazione. Ciò avviene particolarmente nella realtà della parrocchia, e attraverso l’importante azione educativa dell’Azione Cattolica, e i carismi suscitati dallo Spirito Santo nelle nuove aggregazioni ecclesiali». 55 R. Fisichella (a cura di), Relazione del Circolo Minore Italicus A, Sinodo dei Vescovi: «L’urgenza della nuova evangelizzazione impone un serio esame di coscienza su diversi aspetti della pastorale che si sono sclerotizzati con il passare del tempo e non consentono più di esprimere la forza della fede, la sua originalità e lo specifico del cristianesimo. Per questo ritorna importante il termine di «conversione pastorale» come consapevolezza di una rinnovata esigenza di attenzione al momento presente e alle domande del nostro contemporaneo». 56 Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno della Chiesa italiana, Loreto 11 aprile 1985, n. 2.
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Parrocchia, aggregazioni ecclesiali e nuova evangelizzazione Si deve coniugare esigenza di unità, per andare oltre la frammentarietà, con la ricchezza delle tradizioni ecclesiali e culturali. Unità di un progetto pastorale non equivale a uniformità di realizzazione; indica, piuttosto, l’esigenza di un linguaggio comune e di segni partecipati che fanno emergere il cammino di tutta la Chiesa più che l’originalità di una esperienza particolare.57
L’impegno di tutti è attuare l’indicazione di papa Francesco: «Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri. Siate custodi dei doni di Dio!».58 Dunque, «custodi, non proprietari»: ecco il criterio. Il futuro non è dei nostalgici ma dei sognatori: di chi riesce a cogliere ciò che unisce nella solidale responsabilità di fronte alla missione affidata da Cristo alla sua Chiesa, e di lì riconfigurare vocazioni e itinerari spirituali.59 È un atto di amore alla Chiesa60 e una grazia da invocare, in una corresponsabilità che tutti fa crescere.61
57 Fisichella nel suo intervento al sinodo del 9 ottobre 2012; cf. L. Prezzi, «Nuova evangelizzazione. Rinascere dal grembo?», in Settimana (2012)40, 8: «A proposito del rapporto fra movimenti e parrocchie è stato singolare lo spostamento registrato fra Relatio ante e Relatio post. Nella prima tutto era sostanzialmente messo in capo ai movimenti. Nella seconda, il tema e il ruolo della parrocchia emerge con priorità». 58 Omelia della S. Messa per l’inizio del Ministero Petrino del Santo Padre Francesco, 19 marzo 2013. 59 Benedetto XVI, Luce del mondo, LEV, Città del Vaticano 2010, 242s: «Abbiamo bisogno in certo qual modo di isole, nelle quali viva e dalle quali si diffonda la fede in Dio e la profonda semplicità del Cristianesimo; oasi, arche di Noè, nelle quali l’uomo può sempre trovare rifugio. Rifugi, spazi protetti sono quelli liturgici. Ma la Chiesa offre difese immunitarie anche con le diverse comunità e movimenti, nelle parrocchie, nell’amministrazione dei sacramenti, negli esercizi di pietà, nei pellegrinaggi e così via, nei quali, al contrario di ciò che di sfasciato ci circonda, si manifesta la bellezza del mondo e la bellezza della vita»; Id., Discorso ai Vescovi che hanno partecipato al concilio Vaticano II e ai Presidenti di Conferenze Episcopali (12.10.2012): «Non dobbiamo mai vedere il Cristianesimo come un albero pienamente sviluppatosi dal granello di senape evangelico, che è cresciuto, ha donato i suoi frutti, e un bel giorno invecchia e arriva al tramonto la sua energia vitale. Il Cristianesimo è un albero che è, per così dire, in perenne “aurora”, è sempre giovane. E questa attualità, questo “aggiornamento” non significa rottura con la tradizione, ma ne esprime la continua vitalità». 60 «Intervista a P.M. Carrè, Segretario speciale al Sinodo 2012», in Famiglia cristiana (2012)44, 47. 61 J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Cantagalli, Siena 2005, 63s: solo «attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini». Cf. R. Etchegaray, Tiro avanti come un asino, Paoline, Cinisello Balsamo 1985, 146s: «La Chiesa ha più bisogno di essere amata che riformata, perché l’uomo sa vedere solo nella misura in cui ama. Il rischio dell’amore è la prima condizione della fede […]. Per un paradosso costante, come scriveva già sant’Agostino, la Chiesa ha molti amici al di fuori e dei nemici al di dentro […]. Che le nostre parrocchie e i nostri movimenti apostolici siano veramente dei luoghi dove si verifica la fede nel suo dinamismo di sviluppo, di espressione e di celebrazione! […] Nessuno è padrone della Chiesa. Nessuno ha il monopolio della Chiesa. Che le nostre comunità s’interroghino sulla qualità dell’accoglienza e della condivisione, sulla gioia del perdono chiesto e accordato! Che siano intransigenti verso tutte le forme di auto soddisfazione e intolleranza. Che siano inventive nel suscitare gesti inediti di comunione da un gruppo all’altro. Per i cristiani non è facoltativo essere insieme a causa del Vangelo. Nel momento in cui tanti cristiani si ignorano a vicenda, chi non vede a quali slanci ci invita questa esigenza comunitaria?».
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Verità, parola e Spirito Il fondamento giovanneo di una teologia della testimonianza/annuncio Maurizio Marcheselli
La nostra riflessione comincia dal sottotitolo («Il fondamento giovanneo di una teologia della testimonianza/ annuncio»: cf. § 1) per passare, poi, a indagare i rapporti fra i tre termini che compongono la triade del titolo vero e proprio («Verità, parola e Spirito»: cf. § 2). In un breve paragrafo conclusivo proporremo alcune linee sintetiche (cf. § 3), non soltanto nella forma di un bilancio, ma anche di una dilatazione delle prospettive.
1. Testimonianza
e annuncio
Una ricognizione sul lessico giovanneo mostra una netta preferenza per i vocaboli del campo lessicale della testimonianza, rispetto a quelli relativi all’annuncio. Tuttavia, i termini derivati da ajggel- (angel-) non sono privi di rilievo teologico nell’universo giovanneo.1
1.1. «Annunciare» e «annuncio» nel V angelo e nella grande lettera Negli scritti giovannei (escludendo dall’indagine Ap e limitandoci a Gv e 1–3Gv) è completamente assente la terminologia dell’«evangelo/
1 In 1Gv 1,2 si trovano affiancati marturevw e ajpaggevllw per descrivere la natura dello scritto stesso. Si deve poi riconoscere che il quarto vangelo (QV) riferisce sia a Gesù che allo Spirito la doppia terminologia: l’uno e l’altro sono soggetto tanto dell’annuncio quanto della testimonianza.
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evangelizzazione» (eujaggel-);2 si trovano, però, vocaboli dalla radice ajggel-. Il campo semantico di ajggel- negli scritti giovannei è composto da tre verbi (ajggevllw [1x], ajnaggevllw [6x], ajpaggevllw [3x]: «annunciare, riferire») e un sostantivo (ajggeliva [2x]: «annuncio, messaggio»).3 Nell’insieme, questo lessico è impiegato 7x nel Vangelo e 5x nella grande lettera. Il sostantivo ajggeliva si trova in 1Gv 1,5 e 3,11 e mai altrove nel Nuovo Testamento. I tre verbi ricorrono complessivamente 10x (7x in Gv e 3x in 1Gv):4 ajggevllw s’incontra unicamente in Gv 20,18 (un hapax giovanneo e neotestamentario);5 ajnaggevllw compare 5x nel QV6 e 1x in 1Gv (1,5); ajpaggevllw si trova 1x in Gv (16,25) e 2x in 1Gv (1,2.3). All’interno del Nuovo Testamento, ajggevllw (1x) e ajggeliva (2x) sono, dunque, propri della letteratura giovannea. Dei due composti ajnaggevllw e ajpaggevllw gli scritti giovannei prediligono il primo (6x su 14x nel NT), mentre nel Nuovo Testamento è ajpaggevllw a essere impiegato più frequentemente (45x, di cui solo 3x all’interno della letteratura giovannea). Si riconoscono immediatamente due aree di maggiore concentrazione di questo vocabolario: in Gv 16,13-25 troviamo quattro impieghi di due diverse forme verbali (ajnaggevllw e ajpaggevllw); in 1Gv 1,1-5 troviamo pure quattro usi della radice (il sostantivo ajggeliva e le due forme verbali ajpaggevllw e ajnaggevllw). Le quattro occorrenze restanti sono isolate (Gv 4,25; 5,15; 20,18; 1Gv 3,11). Nel Nuovo Testamento, per tutti e tre i verbi (ajggevllw, ajnaggevllw, ajpaggevllw) «si deve distinguere tra un uso pieno e uno sbiadito, con varie gradazioni intermedie».7 Broer classifica tra gli usi giovannei sbiaditi («comunicare, riferire») Gv 5,15 (ajnaggevllw). L’uso di questo lessico all’interno dei racconti neotestamentari della risurrezione si presenta invece come più marcato; in questo gruppo va collocato anche Gv 20,28
2 Sulle ipotetiche ragioni di quest’assenza, si vedano le due diverse posizioni di J. Schniewind, «ajggeliva», in G. Kittel – G. Friedrich – O. Rühle (a cura di), Grande lessico del Nuovo Testamento [GLNT], 16 voll., Paideia, Brescia 1965-1992, I, 149-194, qui 154-157 (un’intenzionale presa di distanza dalla gnosi); e di G. Friedrich, «eujaggelivzomai», in GLNT, III, 1023-1106, qui 1049-1050 (la peculiare escatologia realizzata del QV e la polemica contro il Battista). 3 1Gv 2,25 usa anche, una volta ciascuno, ejpaggeliva («promessa») e ejpaggevllomai («promettere»). Gv conosce degli «angeli» (a[ggeloi): 1,51; [5,4]; 12,29; 20,12. 4 «I composti di ajggevllw tanto nella grecità profana, quanto nei LXX e nel NT sono intercambiabili» (I. Broer, «ajggevllw», in H. Balz – G. Schneider [a cura di], Dizionario esegetico del Nuovo Testamento [DENT], 2 voll., Paideia, Brescia 1995-1988, I, 32-35, qui 32). Anche nella tradizione manoscritta del NT ajnaggevllw e ajpaggevllw si scambiano frequentemente. 5 Conformemente alla preferenza della koinē per i composti, anche il NT offre una sola attestazione sicura della forma semplice (Gv 20,28). La tradizione testuale di Gv 4,51 è piuttosto complicata: se la lectio probabilior è indubbiamente quella col semplice levgonte~, si trovano però varianti con tutte e tre le forme verbali derivate da ajggel-: ajnaggevllw o ajpaggevllw premessi a levgonte~; ajggevllw al posto di levgonte~. 6 Gv 4,25 (la samaritana del Messia); 5,15 (il narratore dell’infermo guarito); 16,13.14.15 (Gesù dello Spirito). 7 Broer, «ajggevllw», 33.
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(ajggevllw).8 In 1Gv 1,2.3 ajpaggevllw è praticamente indistinguibile da eujaggelivzomai: «Qui con ajpaggevllw si indica […] l’evento della salvezza come oggetto dell’evangelo. Perciò i composti di ajggevllw vogliono dire più che un ampio annuncio della volontà salvifica di Dio; essi ne intendono la parola come una forza efficace».9 Se il duplice uso di ajpaggevllw in 1Gv ha un significato pieno, lo stesso ci pare si possa dire di Gv 16,25, dove Gesù riferisce a sé il verbo. Anche gli usi di ajnaggevllw in Gv 16,1315 (3x) appartengono, secondo Broer, alla categoria degli usi pieni. A nostro giudizio, a essa vanno poi indubbiamente assegnati pure Gv 4,25 (dove la samaritana usa questo verbo in riferimento al Messia) e 1Gv 1,5 (cf. la presenza di ajggeliva nella medesima frase). Il sostantivo ajggeliva («annuncio, messaggio, notizia, proclama, comando») si trova soltanto nella grande lettera (1,5 e 3,11).10 Secondo Broer, in 1,5 si tratterebbe della predicazione di Gesù («E questa è l’angelia […] che Dio è luce e in lui non c’è nessuna tenebra»), in 3,11 di quella della Chiesa («Poiché questa è l’angelia […] che ci amiamo gli uni gli altri»); in 1,5 ajggeliva = eujaggevlion, in 3,11 ajggeliva = paraggeliva. Per la comprensione della ajggeliva giovannea è, in ogni caso, decisivo stabilire in che senso le due espressioni si raccordano.11 L’autore con ajggeliva può esprimere sia il principio «Dio è luce» sia l’esortazione all’amore verso i fratelli, in quanto questo amore è una necessaria implicazione di quel principio. […] Sotto questo aspetto ambedue le frasi rappresentano principi centrali della predicazione.12
Nell’insieme, fatto salvo il problematico Gv 5,15 (sulla cui supposta banalità si potrebbe tuttavia discutere),13 la letteratura giovannea fa un uso teologicamente pieno del vocabolario dell’annuncio (comprese le due occorrenze di ajggeliva in 1Gv 1,5 e 3,11): secondo la samaritana annunciare è compito del Messia/Cristo (Gv 4,25); secondo Gesù, nel tempo successivo alla Pasqua, questo sarà il compito dello Spirito (16,13.14.15), senza cessare di essere anche il suo (16,25). Il narratore ci presenta Maria Maddalena come soggetto di annuncio (20,18) e l’autore della lettera presenta se stesso nell’atto di annunciare (1Gv 1,2.3.5). Il contenuto annunciato dal Messia, secondo la donna di Samaria (4,25), è «ogni cosa»
8 «Il gruppo verbale mette qui in risalto il particolare significato che l’evento ha per la fede cristiana» (ib.). 9 Ib. 10 In 1,5 l’uso potrebbe essere una reminiscenza di Is 28,9 (tivni ajnhggeivlamen kaka; kai; tivni ajnhggeivlamen ajggelivan, oiJ ajpogegalaktismevnoi ajpo; gavlakto~, oiJ ajpespasmevnoi ajpo; mastou§;). In entrambi i versetti (Is e 1Gv) troviamo accostati sostantivo (ajggeliva) e verbo (ajnaggevllw). 11 Broer, «ajggevllw», 34. 12 Ivi, 35. 13 In questo passaggio l’uomo guarito da Gesù è detto «riferire» (o «annunciare»?) ai giudei che è Gesù colui che lo ha reso sano. Potrebbe anche trattarsi di un caso d’ironia giovannea.
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(a{panta); mentre quello che Gesù comunicherà nel futuro riguarda specificamente il Padre (peri; tou` patrov~), secondo la sua stessa dichiarazione (16,25). Destinatari di questi due annunci sono, rispettivamente, i samaritani (4,25 hJmin ` ) e i discepoli (16,25 uJmi`n). A questi stessi discepoli lo Spirito comunicherà «le cose venture» (ta; ejrcovmena), che appartengono a ciò che è di Gesù (ejk tou` ejmou`), come egli stesso spiega ai suoi (16,1315).14 Maria Maddalena annuncia ai discepoli di aver visto il Signore e le cose che il Risorto le ha detto (o{ti eJwvraka to;n kuvrion, kai; tau§ta ei\p en aujth§/), secondo l’indicazione che ci fornisce la voce narrante (20,18). L’autore di 1Gv annuncia alla comunità destinataria dello scritto la vita eterna che si è manifestata (1Gv 1,2), ovvero ciò che i testimoni oculari hanno visto e udito (1Gv 1,3). Egli ri-annuncia alla comunità ciò che ha precedentemente udito annunciare «da lui», cioè da Gesù Cristo: che Dio è luce (1Gv 1,5). Il contenuto annunciato fin dal principio è infine sintetizzato nell’invito all’amore reciproco: «che ci amiamo gli uni gli altri» (1Gv 3,11).
1.2. «Testimoniare» e «testimonianza» nel V angelo ( e nelle lettere ) di G v Nel Vangelo e nelle lettere di Gv il verbo marturevw (martyreō) si trova 43x (76x nel NT): 33x nel QV / 6x in 1Gv / 4x in 3Gv.15 Il sostantivo marturiva (martyria) lo troviamo 21x (37x nel NT): 14x nel QV / 6x in 1Gv / 1x in 3Gv.16 La frequenza con cui viene impiegato da Gv il lessico della martyria costituisce, pertanto, uno dei tratti peculiari del QV: la radice vi si trova, infatti, complessivamente 47x, con un’incidenza maggiore del verbo (marturevw 33x) rispetto al sostantivo (marturiva 14x).17 Nelle
14 Studieremo in dettaglio questo testo nel § 2.3.2. («Lo Spirito “guiderà in tutta la verità” [Gv 16,13]»): in esso sono infatti presentati, in relazione all’annuncio, lo Spirito come soggetto e la verità come contenuto. 15 Nell’insieme del NT si possono identificare una serie di diverse costruzioni sintattiche del verbo (cf. J. Beutler, «marturevw», in DENT, II, 285-291, qui 286): uso assoluto; con oggetto (sostantivo della cosa o frase oggettiva introdotta da hoti); col dativo della persona e hoti; col semplice dativo della persona senza hoti; col dativo della cosa. Gv predilige la costruzione con periv tino~ (19x su 33x), sconosciuta al resto del NT, con l’eccezione di 1Gv. Beutler, poi, suddivide tra usi neotestamentari all’attivo (63x) e usi al passivo (13x); al passivo occorre, poi, ulteriormente distinguere se il riferimento è a qualcosa o a qualcuno. 16 Secondo Beutler si può distinguere tra un uso attivo di marturiva (l’atto di rendere testimonianza), più raro, e uno passivo (una deposizione resa in tribunale o una testimonianza in senso traslato), più frequente; c’è poi un uso propriamente religioso del termine: cf. Beutler, «marturiva», in DENT, II, 291-296, qui 292. 17 La preferenza accordata ai verbi rispetto ai sostantivi è uno dei tratti tipici del vocabolario giovanneo. Verbo marturevw (33x): 1,7.8.15; 1,32.34; 2,25; 3,11; 3,26.28.32; 4,39; 4,44; 5,31.32.32.33.36.37.39; 7,7; 8,13.14.18.18; 10,25; 12,17; 13,21; 15,26.27; 18,23; 18,37; 19,35; 21,24. Sostantivo marturiva (14x): 1,7; 1,19; 3,11; 3,32.33; 5,31.32.34.36; 8,13.14.17; 19,35; 21,24. Ci sono solo tre versetti in cui troviamo il sostantivo senza il verbo (3,33; 5,34; 8,17), che tuttavia s’incontra nelle immediate vicinanze (cf. 3,32; 5,33; 8,18). Vangelo e lettere di
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considerazioni che seguono ci concentriamo esclusivamente sul Vangelo, tralasciando l’apporto di 1Gv (12x [6x + 6x]) e 3Gv (5x [4x + 1x]). È Gesù il personaggio che usa con la massima frequenza questo tipo di vocabolario (24x, cioè più della metà delle occorrenze).18 Egli non riferisce esclusivamente a sé il lessico della testimonianza:19 in 3,11 egli sembra associarsi i discepoli («noi»); in 5,31-39 Gesù annovera nel numero di coloro che gli rendono testimonianza il Padre, Giovanni, le opere, le Scritture; il Padre e le opere sono poi da lui evocati di nuovo, rispettivamente in 8,17-18 e 10,25; in 15,26-27 Gesù indica successivamente il Paraclito e i discepoli come testimoni su di lui; infine, in 18,23 (l’uso meno significativo di questa galleria) troviamo il verbo «testimoniare» in un senso estenuato (forse non privo di una venatura d’ironia), a proposito di uno degli inservienti di Anna.20 A Gesù questo lessico viene riferito anche dalla voce narrante (2x) e da due personaggi del racconto (5x).21 L’uso da parte del narratore non ha connotazione teologica:22 si tratta di due casi in cui marturevw significa semplicemente «attestare» (come in 18,23, sulla bocca di Gesù). L’uso che ne fanno i farisei (8,13) e Giovanni (3,32-33) è invece marcatamente teologico, del tutto simile a quello che ne fa Gesù quando riferisce a sé il termine.23 In aggiunta a quanto abbiamo registrato sopra a proposito degli usi da parte di Gesù, le figure del racconto giovanneo a cui viene applicato, dal narratore o da un personaggio del racconto, il lessico della testimonianza sono complessivamente sei (16x su 47x): Giovanni (8x: 1,7.7.8.15; 1,19.32.34; 3,26);24 uno/tis (1x: 2,25); i discepoli di Giovanni (1x: 3,28); la samaritana (1x: 4,39); la folla che era con lui quando Gesù chiamò Lazzaro fuori dal sepolcro e lo risuscitò dai morti (1x: 12,17); il discepolo che Gesù amava (4x: 19,35.35; 21,24.24).25
Gv non conoscono il termine mavrtu~, che è invece frequente in Ap: cf. J. Beutler, «mavrtu~», in DENT, II, 297-301, qui 301. 18 Le ventiquattro occorrenze in bocca a Gesù si trovano nei seguenti passaggi: 3,11 (2x); 5,31-39 (11x); 7,7 (1x); 8,14.17-18 (2x + 3x); 10,25 (1x); 15,26-27 (2x); 18,23 (1x); 18,37 (1x). 19 Lo impiega per sé in 7,7; 8,14; 18,37. 20 Questo senso debole di marturevw (= «attestare») è conosciuto anche dal narratore, che lo impiega per Gesù in 4,44 e 13,21. 21 Dal narratore (2x) in 4,44 e 13,21; dai farisei (2x) in 8,13; da Giovanni (3x) in 3,32-33. 22 Il narratore usa, infatti, il termine in due contesti in cui non lo si trova sulla bocca di Gesù. 23 Il doppio uso dei farisei in 8,13, infatti, è ripreso da Gesù stesso nei versetti immediatamente successivi (8,14.17-18). 24 Il Battista gode pertanto di una molteplice attestazione: la sua natura di testimone è, infatti, certificata tanto da Gesù, quanto dal narratore. A queste due istanze di ineguagliabile autorevolezza si aggiungono, poi, la sua stessa voce e quella dei suoi discepoli: cf. la nota successiva. 25 Queste indicazioni si trovano normalmente sulla bocca del narratore; salvo due casi in cui, in riferimento a Giovanni, è usato da Giovanni stesso (1,34) o dai suoi discepoli (3,26) e un caso in cui, in riferimento ai suoi discepoli, è usato da Giovanni (3,28).
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1.3. Linee
di una teologia giovannea della testimonianza
Beutler identifica un doppio uso caratteristico dell’idea di testimonianza da parte del quarto evangelista, attestato tanto per il verbo, quanto per il sostantivo:26 1) la testimonianza sulle cose celesti, che potrebbe avere sullo sfondo un elemento linguistico e concettuale giudeo-apocalittico;27 2) l’uso giuridico di questa terminologia. Si aggiunga poi che tanto il verbo, quanto il sostantivo possono far riferimento a dei fatti che riguardano Gesù: 19,35 e 21,24.28 A noi pare di poter raccogliere attorno a cinque nuclei fondamentali la teologia giovannea della testimonianza. a) «Testimonianza» è un atto pubblico di parola, che presuppone un contesto forense. La testimonianza è un atto di parola, che contiene una dimensione pubblica; da questo punto di vista, «testimoniare» si avvicina a «confessare»: il verbo oJmologevw (homologeō) indica, infatti, l’attestazione pubblica del contenuto di fede.29 «Testimonianza» è un concetto forense, che suppone il contesto di un processo. Nel Vangelo secondo Giovanni la terminologia della testimonianza fa parte di un più ampio vocabolario di tipo giuridico che comprende termini quali «confutare» (ejlevgcw: 3x),30 «giudicare» (krivnw: 19x),31 «giudizio» (krivsi~: 11x; krivma: 1x),32 «paraclito», cioè ad-vocatus (paravklhto~: 4x).33 Tutta la vicenda di Gesù è raccontata dall’evangelista come la storia di un processo: «Gesù appare posto alla sbarra del tribunale e si appella, di fronte al forum del “mondo” e dei “giudei”, ai “testimoni”, che fanno valere il suo diritto di rivelatore».34
Beutler, «marturiva», 293. Ib. Questo aspetto è legato direttamente a Gesù: in 3,11 egli lo riferisce a se stesso, coinvolgendo probabilmente anche i suoi discepoli («noi testimoniamo»); in 3,32 Giovanni Battista lo riferisce a Gesù. Se, da un lato, per Beutler la concezione di Gesù come testimone di cose celesti (3,11 e 3,32) ha un’impronta apocalittica, dall’altro, essa è affine all’idea di Gesù testimone per la verità (Beutler, «marturevw», 288). 28 Beutler, «marturiva», 294. Secondo Beutler, Gv 19,35 e 21,24 sarebbero, però, delle glosse post-giovannee (cf. 1Gv 5,6). 29 Il verbo oJmologevw si trova in 1,20.20 (per Giovanni); 9,22 (per i genitori del cieco); 12,43 (per molti tra i capi). Le lettere lo usano volentieri (6x; cf. anche Ap 3,5): 1Gv 1,9; 2,23; 4,2.3.15; 2Gv 7. L’antonimo di oJmologevw è ajrneovmai: 1,20 (per Giovanni); 13,38 e 18,25.27 (per Pietro). Per la grande lettera, cf. 1Gv 2,22.22.23; cf. poi Ap 2,13 e 3,8. 30 Gv 3,20; 8,46; 16,8. 31 Gv 3,17.18.18; 5,22.30; 7,24.24.51; 8,15.15.16.26.50; 12,47.47.48.48; 16,11; 18,31. 32 Krivsi~: Gv 3,19; 5,22.24.27.29.30; 7,24; 8,16; 12,31; 16,8.11. Krivma: Gv 9,39. 33 Gv 14,16.26; 15,26; 16,7. 34 Beutler, «marturevw», 288. Cf. anche C. Bennema, «The Character of John in the Fourth Gospel», in Journal of the Evangelical Theological Society 52(2009), 271-284, qui 272-274. 26 27
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Nel processo che il mondo intenta contro di lui, il primo testimone per Gesù è – secondo l’ordine di apparizione dei personaggi nel racconto – Giovanni Battista: cf. 1,6-8; 1,15; 1,19-34; 3,23-36. La principale testimonianza che Gesù invoca per sé è, tuttavia, quella del Padre suo (5,32.36a.37a; 8,17-18): essa si attua nelle opere che il Padre gli ha dato da compiere (5,36b; 10,25) e nella parola che egli ha pronunciato sul suo Figlio già nell’economia antica (5,37b-39). Nel tempo successivo alla Pasqua, la testimonianza in favore di Gesù prosegue in quella del Paraclito e dei discepoli (15,26-27; ma anche 3,11). Il Paraclito nel QV è essenzialmente l’ad-vocatus: il suo compito è l’assistenza dei discepoli nel processo che il mondo intenta continuamente a Gesù (cf. 16,7-11).35 b) L’autore del Vangelo è il testimone per eccellenza, che – a livello intradiegetico – si rifrange in una serie di personaggi, soprattutto in Giovanni Battista. La categoria di testimonianza esprime l’autocoscienza dell’autore stesso del Vangelo: il discepolo amato (DA) si percepisce come testimone e il suo libro è il fissarsi per iscritto della sua testimonianza. Il testo chiave a questo riguardo è 21,20-24, che contiene un evidente rimando a 19,35: sono queste le due ultime apparizioni del lessico della testimonianza in tutto il Vangelo e si trovano entrambe in bocca al narratore. Il testo scritto del QV è presentato, in Gv 21,23-24, come il modo in cui quel discepolo permane fino al ritorno del Signore: egli rimane (mevnw) nella testimonianza da lui resa a Gesù, mediante quel libro che conosciamo come «il Vangelo secondo Giovanni».36 Nella trama del Vangelo s’incontrano almeno due personaggi (il primo individuo e l’altro collettivo), espressamente qualificati come testimoni, la cui parola sembra avere le stesse caratteristiche e sortire i medesimi effetti del libro scritto dal DA: la donna di Samaria (4,39) e la folla di giudei che ha assistito al segno della rianimazione di Lazzaro (12,37). Tuttavia, uno solo dei personaggi che popolano le pagine del Vangelo – Giovanni Battista – rappresenta un vero e proprio «doppio letterario» della figura che sta all’origine della tradizione giovannea.37 Il fenomeno del doppio letterario è una declinazione specifica della tecnica del parallelismo e della tipologia; in senso stretto, si dà un doppio letterario «quando il paralleli-
35 Dall’insieme di Gv 15,18–16,4a si evince come il ruolo dei discepoli sia propriamente duplice: da un lato, essi sono chiamati in causa come testimoni (15,26-27); dall’altro, essi subiscono la sorte dei condannati, perché la vicenda di Gesù si riproduce in loro (15,18-25; 16,1-4a). 36 Per una dimostrazione articolata di quanto qui solo accennato, cf. M. Marcheselli, «Avete qualcosa da mangiare?». Un pasto, il Risorto, la comunità (BTE 2), EDB, Bologna 2006, 185-201. 37 Cf. R. Vignolo, «Il doppio letterario tra Giovanni Battista e Discepolo Amato: un approccio narrativo al Quarto Vangelo», in Annali di Scienze religiose 9(2004), 137-159; Id., Personaggi del Quarto Vangelo. Figure della fede in San Giovanni, Glossa, Milano 22003, 167-194.
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smo si fa più stretto e completo, così che tra i due personaggi si stabilisce un rapporto di vero e proprio alter ego».38 Le due principali figure testimoniali nel QV sono indubbiamente Giovanni Battista e il personaggio che sta all’origine del Vangelo stesso. Il testimone che compare all’inizio (Giovanni, 8x) e quello che compare alla fine del racconto (il DA, 4x) raccolgono insieme 12 delle 16 occorrenze del lessico testimoniale, quando esso è impiegato dal narratore o da un personaggio del racconto per altri che non sia Gesù.39 Nell’insieme del Vangelo, si riconosce chiaramente l’intenzione del narratore di stabilire un articolato parallelismo tra i due: quello che il Battista rappresenta al livello del ministero terreno di Gesù (1,19–2,12) trova corrispondenza in quello che il DA compie nel tempo successivo alla Pasqua (19,35; 21,24).40 Giovanni Battista è il doppio letterario perfetto del testimone che sta all’origine del Vangelo.41 Un uso per ciascuno del verbo marturevw è riservato alla donna di Samaria (4,39) e alla folla (di giudei) che ha visto il segno di Lazzaro (12,17).42 La samaritana è portatrice di una parola che l’evangelista non esita a qualificare come testimonianza (4,39): tale parola mette in movimento i suoi concittadini (4,30.39-40a) e fa sì che Gesù li possa attirare a sé. Ella svolge, pertanto, un ruolo testimoniale che traduce in termini narrativi quello che il DA intende fare col suo Vangelo:43 l’attrazione universale che Gesù ha promesso di compiere una volta innalzato da terra (12,32) necessita della parola di un testimone, come l’insieme della vicenda di Gesù in Samaria mostra chiaramente (4,7-42). Non si deve, poi, in nessun modo trascurare la breve indicazione di 12,17: qui il narratore arriva al punto di descrivere la folla che era presente al segno di Lazzaro (compo-
Vignolo, Personaggi del Quarto Vangelo, 168; cf. anche ivi, 36-38. Anche sulla bocca di Gesù, Giovanni si trova qualificato come un testimone (5,33-35). Per parte sua, poi, Gesù identifica come testimoni a suo favore il Padre, le opere e le Scritture e, nel tempo successivo alla Pasqua, il Paraclito e i discepoli (cf. supra § 1.2). 40 Cf. Marcheselli, «Avete qualcosa da mangiare?», 227-246. 41 Vignolo si spinge fino a vedere in questo un indizio a favore dell’omonimia: cf. Vignolo, «Il doppio letterario tra Giovanni Battista e Discepolo Amato», 155-157. Giovanni sarebbe il nome di entrambi. 42 L’uso di 2,25 è periferico, perché qui l’oggetto della testimonianza è l’essere umano: «rendere testimonianza sull’uomo/anthrōpos» (= sulle persone). Anche l’uso di 3,28 è poco importante per noi: Giovanni si riferisce ai suoi discepoli, i quali sono in grado di testimoniare ciò che egli ha detto a proposito di Gesù. Per entrambi i casi si potrebbe sostenere una traduzione debole con «attestare». 43 Cf. Marcheselli, «Avete qualcosa da mangiare?», 94-110; S.M. Schneiders, «“Because of the Woman’s Testimony…”. Reexamining the Issue of Authorship in the Fourth Gospel», in New Testament Studies (1998)44, 513-535, ripubblicato in Id., Written That You May Believe. Encountering Jesus in the Fourth Gospel, Crossroad, New York 22003, 233-254. Per la Schneiders, è possibile che il DA storico fosse Maria Maddalena; il DA del racconto evangelico è, in ogni caso, un paradigma testuale che si rifrange nel testo attraverso personaggi (tanto maschili quanto femminili) che realizzano in diverse maniere questo discepolato ideale; l’alter ego testuale dell’evangelista è, per lei, la figura della donna samaritana. 38 39
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sta verosimilmente di giudei) nei panni di un testimone la cui parola è in grado di mettere in movimento un’altra folla numerosa, che va incontro a Gesù mentre egli sale da Betania a Gerusalemme (12,18, che rimanda a 12,12-13).44 Troviamo, anche in questo caso, una trascrizione narrativa del meccanismo dell’attrazione degli uomini a Gesù, che si realizza per la parola di un testimone: l’effetto che la samaritana produce sugli abitanti di Sicar è lo stesso prodotto dai giudei che hanno assistito al segno compiuto su Lazzaro verso la folla presente a Gerusalemme per la festa, ed è il medesimo che il DA auspica di ottenere su coloro che leggeranno il suo Vangelo (cf. 20,30-31). I destinatari di questa testimonianza sono i samaritani nel caso della samaritana, i giudei nel caso dei giudei, gli uni e gli altri nel caso del DA. Sulla base della presenza di oJmologevw in 9,22, un verbo di cui abbiamo sopra riconosciuto la parentela con il lessico della testimonianza (cf. sopra punto a), anche il personaggio del cieco nato può essere integrato nella galleria dei testimoni giovannei. Di fronte alle autorità giudaiche ostili, l’uomo che era stato cieco diventa testimone per Gesù: per contrasto con i suoi genitori (9,22), egli può, infatti, essere identificato come uno che lo «confessa» come il Cristo. L’andamento processuale di tutto l’episodio del cieco è normalmente riconosciuto dai commentatori. Nelle scene d’interrogatorio che costituiscono la parte centrale del racconto (9,18-23 e 9,24-34), egli anticipa la condizione dei discepoli nel mondo, dopo il passaggio di Gesù al Padre (Gesù è, infatti, completamente assente dalla scena del racconto tra 9,8 e 9,34). Si può dire che egli diventa discepolo di Gesù proprio perché rende testimonianza alla sua identità di inviato di Dio in un contesto ostile.45 c) La testimonianza si dà solo nella compresenza di due aspetti: l’esperienza sensibile e la comprensione del senso ultimo di essa. Nel Vangelo secondo Giovanni la testimonianza/martyria suppone un’esperienza sensibile, a cui si aggiunge la percezione del significato profondo (cioè trascendente, divino) dell’esperienza stessa.46 Testimone è
44 Cf. M. Marcheselli, «Il profilo narrativo del personaggio “i giudei” in Gv 1–12», in L.D. Chrupcała (a cura di), Rediscovering John (SBF Analecta 80), Fs. F. Manns, Edizioni Terra Santa, Milano 2013, 283-302. 45 Cf. Id., «Peccato e peccatori in Gv 9», in S. Grasso – E. Manicardi (a cura di), «Generati da una parola di verità» (Gc 1,18) (RivBibSupp 47), Fs. R. Fabris, EDB, Bologna 2006, 141-154. 46 Questa è anche la visione lucana della testimonianza apostolica, espressa nel libro degli Atti: cf. J. Dupont, «L’apostolo come intermediario della salvezza», in Nuovi studi sugli Atti degli Apostoli, Paoline, Cinisello Balsamo 1985, 103-122, qui 110-118. Nella sintesi di Dupont, l’esperienza sensibile non basta a rendere testimonianza, ma ne rappresenta una sorta di presupposto; la testimonianza, infatti, non riguarda soltanto la realtà di un fatto, ma pure il suo senso. Il confronto con le Scritture, poi, è imprescindibile: esse rappresentano per il testimone un mezzo per comprendere e uno strumento per comunicare.
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colui che ha visto, udito e toccato; secondo il QV, egli ha anche annusato.47 Per Gv l’esperienza sensibile è imprescindibile (contro i rischi connessi a varie forme di «spiritualismo»); essa, tuttavia, potrebbe restare semplicemente opaca (e intraprendere una deriva di tipo «materialista»). Da un lato, dunque, testimone è chi ha fatto un’esperienza sensibile; d’altro lato, testimone è colui che ha percepito quanto di trascendente si è dato a «vedere» (ma anche a udire, toccare, annusare) nell’esperienza fatta. Egli è colui che «ha visto» in senso profondo (1,32.34; 19,35): ha visto cogliendo il senso ultimo, divino, degli eventi da lui sperimentati.48 Il testimone non gode di un di più (quantitativo) di esperienza sensibile, ma di una maggiore capacità di penetrarne il senso.49 Identificare il QV come il vangelo dei sensi spirituali non è una novità: quello che ci preme sottolineare in questa sede è che l’interesse giovanneo per i sensi, che diventano veicolo di esperienza spirituale, è strettamente connesso alla sua idea di testimonianza.50 d) Il lessico della Scrittura dà forma alla parola di testimonianza.51 Quello che i sensi sperimentano media l’esperienza del trascendente, che si dà a conoscere unicamente attraverso tale esperienza. Il senso ultimo che acquista l’esperienza sensibile necessita, però, di un vocabolario, per poter essere comunicato: per il QV sono le Scritture d’Israele a fornire la grammatica, il lessico capace di dire il senso ultimo dell’esperienza vissuta. Se c’è, dunque, chiaramente un primato dell’esperienza, c’è però un ruolo imprescindibile delle Scritture nella possibilità di trasmettere tale esperienza. Solo le Scritture d’Israele possono fornire il vocabolario fondamentale, il bagaglio concettuale e il patrimonio d’immagini capace di dire il senso ultimo, trascendente, di ciò che i sensi percepiscono.
47
Si noti l’insistenza sull’odore del cadavere in 11,39 e, specularmente, sul profumo in
12,3. 48 Cf. F. Mirguet, «Voir la mort de Jésus. Quand le “voir” se fait récit», in G. Van Belle (a cura di), The Death of Jesus in the Fourth Gospel (BETL 200), Leuven University Press, Leuven 2007, 469-479: «vedere» la morte di Gesù è il crogiuolo del testimoniare (nonché del credere); i motivi letterari del vedere e testimoniare, nonché la finalità di suscitare il credere, permettono di accostare le figure di Giovanni Battista, del testimone di 19,35 e del discepolo amato in un’istanza testimoniale comune. 49 Un testo esemplare a questo riguardo è il racconto della visita alla tomba vuota (20,110); anche se in questi versetti manca il lessico della martyria, l’esperienza qui raccontata descrive perfettamente la capacità di «vedere» del testimone (in questo caso il DA). Cf. M. Marcheselli, «Chi è beato? Vedere e non vedere in Gv 20,1-18 e 29,29», in Parola Spirito e Vita (2008)57, 163-180. 50 Sulla teologia giovannea dei cinque sensi spirituali, cf. D. Mollat, «L’emergere dei sensi spirituali», in Giovanni maestro spirituale (Letture bibliche), Borla, Roma 1984, 88-108; A. Dalbesio, Quello che abbiamo udito e veduto. L’esperienza cristiana nella Prima lettera di Giovanni (RivBibSupp 22), EDB, Bologna 1990, 137-170. 51 Le idee qui abbozzate si trovano sviluppate più ampiamente in M. Marcheselli, «Davanti alle Scritture di Israele: processo esegetico ed ermeneutica credente nel gruppo giovanneo», in Ricerche storico bibliche 22(2010), 175-195, qui 189-192.
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L’episodio del colpo di lancia (19,31-37) costituisce un passo cruciale nel complesso della riflessione giovannea sulla testimonianza (cf. 19,35): in esso ritroviamo la medesima struttura fondamentale di 12,12-16 (dove, però, manca il lessico della martyria). Il testimone (19,35), cioè il discepolo che Gesù amava, dice il senso degli eventi da lui sperimentati (vv. 31-34) per mezzo del lessico della Scrittura (v. 36 e v. 37): il pieno dispiegarsi di questa testimonianza, che trova in 19,31-37 solo un’esemplificazione concreta, coincide con il suo libro. Allo stesso modo, secondo 12,12-16, dopo la glorificazione di Gesù si desterà nei discepoli (incluso il discepolo che Gesù amava!) il ricordo e la comprensione di quello che a lui è accaduto e di ciò che di lui dicevano le Scritture. Non si tratta però di due grandezze distinte: le Scritture, comprese come profezia relativa al Messia di Nazaret, offrono gli strumenti linguistici e concettuali per esprimere il senso di quanto egli ha detto e fatto e di quanto a lui hanno fatto. Spiegare l’ingresso in Gerusalemme con le immagini della profezia di Zaccaria (12,15) altro non è che applicare a un episodio specifico il principio che soggiace all’intero Vangelo. e) Il contenuto della testimonianza ha un’intrinseca connotazione cristologica. Evidenziamo questo aspetto facendo riferimento a Giovanni Battista e accennando alla peculiare espressione giovannea «rendere testimonianza alla verità»: transitiamo così senza scosse alla seconda parte del nostro percorso (§ 2). Nel prologo, Giovanni è presentato come testimone per la luce (1,78); nel corpo del Vangelo egli rende testimonianza alla verità (5,33), cioè alla «divina realtà della rivelazione in Cristo».52 Le due indicazioni hanno entrambe una chiara implicazione cristologica: la luce è immagine del Logos divino (1,4-5), che un giorno si è fatto carne in Gesù (1,14; cf. 3,19); la verità è intrinsecamente connessa a Gesù/Logos (14,6). Come appare fin dalla prima confessione pubblica di Giovanni (1,19-34), nel QV c’è un forte interesse per il contenuto testimoniato53 e tale contenuto ha direttamente a che fare con l’identità del Messia. In Gv 1,19-34, una composizione articolata che si distende nell’arco di due giorni (1,19-28 e 1,29-34), il Battista – figura testimoniale per eccellenza – identifica indirettamente Gesù come il Cristo (v. 20), come Elia (v. 21a) e come il Profeta pari a Mosè (v. 21b); soprattutto lo chiama allusivamente «Signore» (v. 23). Egli prosegue, poi, parlando di lui nei termini del Messia nascosto (v. 26) e del Messia che viene come sposo (v. 27). Infine, lo riconosce come agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (v. 29), come il preesistente (v. 30) e come il Figlio di Dio (v. 34), che non solo è la dimora permanente dello
Beutler, «marturevw», 288. Ciò è dimostrato anche dall’uso massiccio che Gv fa della costruzione con periv e il genitivo (19x); essa è normalmente riferita a Gesù: così avviene in 1,7-8; 1,15; 5,31-32; 5,3637; 5,39; 8,13-14; 8,18; 10,25; 15,26. 52 53
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Spirito (vv. 32-33), ma lo distribuisce agli uomini battezzandoli – cioè immergendoli – in esso (v. 33). Il contenuto ultimo della testimonianza è in definitiva la verità: per il QV si tratta di «rendere testimonianza alla verità» (5,33b; 18,37c). Come vedremo subito sotto (§ 2.1), essa contiene una ineliminabile connotazione cristologica.
2. Verità /
parola
/ Spirito
Il titolo di questo contributo presenta una triade: «verità, parola e Spirito». Essa aiuta a definire la mappa concettuale al cui interno si comprende la visione giovannea della testimonianza come atto di parola in un contesto forense. Esaminiamo questi tre termini raggruppandoli in tre binomi (verità e parola, Spirito e parola, Spirito e verità) e studiando le coppie di vocaboli nelle loro reciproche relazioni.
2.1. Verità
e parola
(= logos/Logos)
Quello della verità non è un tema dei sinottici, come non lo era del Gesù storico. Tuttavia, nella riflessione teologica giovannea (e paolina) sul tema della verità si esprime anche concettualmente il principio attivo della predicazione di Gesù; in fondo l’amen che introduce vari logia autentici deriva da אמת.54 In questo paragrafo ci proponiamo di offrire un quadro complessivo dell’uso giovanneo del lessico della verità, mostrando come questo motivo sia intrinsecamente connesso al parlare di Dio, cioè al suo rivelarsi mediante il logos/Logos. a) Statistica e distribuzione del campo lessicale della verità nel NT e nel corpus johanneum. L’impiego massiccio del vocabolario della verità costituisce uno dei tratti caratteristici del QV e, più in generale, della letteratura giovannea (Gv, 1–3Gv, Ap). Questo campo lessicale si compone di un sostantivo (ajlhvqeia «verità»), di due aggettivi (ajlhqhv~ e ajlhqinov~ traducibili entrambi – a seconda dei contesti – con tutte le possibili sfumature di «vero»: fidato, costante, reale, effettivo, sincero, fedele) e di un avverbio (ajlhqw`~ «davvero/veramente»).55
Così H. Hübner, «ajlhvqeia», in DENT, I, 152-160, qui 155s. Il sostantivo ajlhvqeia ricorre 109x nel NT, di cui 45x negli scritti giovannei (assente in Ap!): 25x in Gv e 20x nelle lettere (9x / 5x / 6x). I due aggettivi ajlhqhv~ e ajlhqinov~ ricorrono nel NT rispettivamente 26x e 28x: per il secondo di essi (ajlhqinov~) gli scritti giovannei detengono praticamente il monopolio, contando ben 23x (9x in Gv / 4x in 1Gv / 10x in Ap!), ma anche nel caso di ajlhqhv~ il corpus johanneum fa la parte del leone con ben 17x (14x in Gv / 2x in 1Gv / 1x in 3Gv / assente in Ap!). La somma delle occorrenze neotestamentarie di ajlhqhv~ e ajlhqinov~ è 54x, di cui 40x negli scritti giovannei. L’avverbio ajlhqw`~ si trova 18x nel 54 55
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Nel nostro studio ci concentriamo soprattutto sul sostantivo (ajlhvqeia alētheia), tralasciando l’avverbio (ajlhqw`~ alēthōs) e accennando ai due aggettivi (ajlhqhv~ alēthēs e ajlhqinov~ alēthinos). A proposito di essi ricordiamo innanzitutto che, negli scritti giovannei, ajlhqhv~ e ajlhqinov~ sono del tutto intercambiabili; del resto, già nel greco classico, essi spesso coincidono quanto a contenuto.56 Per quanto riguarda il Vangelo, è già di grande interesse la constatazione che è quasi esclusivamente Gesù a fare uso di questo vocabolario (23x il sostantivo; 16x i due aggettivi [9x + 7x]), concedendo a volte che anche l’evangelista lo possa impiegare (2x il sostantivo; 4x i due aggettivi [2x + 2x]). Del tutto eccezionalmente, il primo dei due aggettivi (ajlhqhv~) si trova anche sulla bocca di altri personaggi (Giovanni Battista, i farisei, una folla anonima). Questo uso preferenziale che Gesù e l’evangelista fanno del lessico della verità si accorda perfettamente con la sua massiccia attestazione nelle tre lettere (20x il sostantivo e 7x i due aggettivi [3x + 4x]) e nell’Apocalisse (10x il solo ajlhqinov~). b) Derivazione e sfondo della concezione giovannea di verità.57 Dal punto di vista etimologico il termine greco ajlhvqeia, che traduciamo con «verità», implica l’idea di svelamento; esso, infatti, deriva – con
NT, di cui 8x negli scritti giovannei (7x in Gv e 1x in 1Gv). Il verbo raro ajlhqeuvw (Gal 4,16 e Ef 4,15) è sconosciuto alla letteratura giovannea. 56 Le sette occorrenze di ajlhqhv~ (3x) e ajlhqinov~ (4x) in 1–3Gv si trovano tutte nella grande lettera, con l’unica eccezione di 3Gv 12 (ajlhqhv~). Il primo aggettivo compare esclusivamente come predicato del verbo «essere» (1Gv 2,8 e 2,27; 3Gv 12): vera è «la qual cosa», «l’unzione», «la testimonianza». Il secondo aggettivo conosce due usi come attributo (1Gv 2,8 e 5,20) e due come aggettivo sostantivato (1Gv 5,20.20). Vera è la luce (2,8) e vero è Dio (5,20); in 1Gv 5,20, poi, l’aggettivo sostantivato descrive due volte Dio stesso come «il vero». Nell’Apocalisse ricorre esclusivamente ajlhqinov~ (10x): in un solo caso (19,9) l’aggettivo si trova da solo; in tutti gli altri si tratta sempre di una coppia di aggettivi, dove alcune volte «vero» precede, altre segue. Tre usi dell’aggettivo sono di tipo cristologico (3,7; 3,14; 19,11); nell’ultima occorrenza (Ap 22,6) si tratta delle parole del libro; negli altri sei casi si tratta o di Dio direttamente (6,10) o di qualcosa che proviene da lui (le sue vie [15,3]; i suoi giudizi [2x: 16,7 e 19,2]; le sue parole [2x: 19,9 e 21,5]). 57 Per tutto questo paragrafo cf. principalmente Hübner, «ajlhvqeia», 153-154. Considerazioni simili si ritrovano anche in A. Casalegno, «Verità», in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi (a cura di), Temi Teologici della Bibbia (I Dizionari San Paolo), San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 1503-1508 (specificamente 1503-1505); J.G. Van Der Watt, «The Good and the Truth in John’s Gospel», in A. Dettwiler – U. Poplutz (a cura di), Studien zu Matthäus und Johannes / Études sur Matthieu et Jean (Abhandlungen zur Theologie des Alten und Neuen Testaments 97), Fs. J. Zumstein, Theologischer Verlag, Zürich 2009, 317-333 (specificamente 323-325, sul potenziale semantico/lessicografico di ajlhvqeia); B. Kowalski, «“Was ist Wahrheit?” (Joh 18,38a). Zur literarischen und theologischen Funktion der Pilatusfrage in der Johannespassion», in K. Huber – B. Repschinski (a cura di), Im Geist und in der Wahrheit. Studien zum Johannesevangelium und zur Offenbarung des Johannes sowie andere Beiträge (Neutestamentliche Abhandlungen 52), Fs. M. Hasitschka, Aschendorff, Münster 2008, 201-227 (specificamente 209-210); A.J. Köstenberger, «“What Is Truth?”: Pilate’s Question in Its Johannine and Larger Biblical Context», in Journal of the Evangelical Theological Society (2005)48, 33-62 (specificamente 34-35).
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alfa privativo – da un verbo che significa «nascondere qualcosa a qualcuno, essere nascosto». Il permanere di un collegamento con l’etimologia si nota ancora in età classica, dove il vocabolo significa verità come disvelatezza e apertura della realtà effettiva (che si rivela ed è perciò percepita) e quindi realtà e proprietà – o esattezza – dell’enunciato. Va rilevata anche la continuità col primo uso linguistico: nella prima grecità, infatti, il vocabolo indica la cosa in quanto è asserita e «dire la verità» è «dire la cosa com’è». Nell’antica versione greca dell’Antico Testamento ajlhvqeia è la traduzione normale di «( אמתfidatezza, consistenza, validità»).58 Nei LXX, da un lato, la dimensione storica di אמת va in gran parte perduta e, dall’altro, la determinazione ontologica della ajlhvqeia greca è modificata: essa non indica il disvelarsi dell’ente nel suo essere, ma si trasforma addirittura nella rivelazione trascendente. Non greca è, poi, l’interpretazione veterotestamentaria assunta dai LXX della verità come esecuzione, compimento: si veda il sintagma assolutamente non greco «fare la verità», ripreso nel lessico giovanneo. c) L’uso giovanneo del lessico della verità (Vangelo e lettere). Il significato delle parole non si coglie propriamente sulla base dell’etimo, quanto piuttosto attraverso un accurato esame dell’uso linguistico:59 alla domanda «Che cos’è, per san Giovanni, la verità?» si risponde correttamente solo verificando in quali combinazioni linguistiche il QV faccia uso di questo tipo di vocabolario. Da questo punto di vista, possiamo innanzitutto identificare negli scritti giovannei una serie di costruzioni sintattiche in cui entra il sostantivo «verità»: lo si trova come soggetto grammaticale (7x = 3x in Gv / 2x in 1Gv / 1x in 2Gv / 1x in 3Gv), come oggetto diretto (9x = 6x in Gv / 2x in 1Gv / 1x in 2Gv), come oggetto indiretto al dativo (3x = 2x in Gv / 1x in 3Gv), dentro costrutti preposizionali dipendenti da verbi (3x con ejk = 1x in Gv / 2x in 1Gv; 12x con ejn = 6x in Gv / 1x in 1Gv / 2x in 2Gv / 3x in 3Gv) o non dipendenti da verbi (1x in 2Gv),60 come parte nominale del predicato con il verbo «essere»
58 Dalla radice del verbo אמן («essere solido, stabile, sicuro») derivano due sostantivi: tma (il modo di essere di una persona, che si manifesta all’esterno come fedeltà provata) e hnwma (il comportamento improntato a giustizia e rettitudine di un soggetto). La LXX traduce, per lo più, il primo con ajlhvqeia («verità») e il secondo con pivsti~ («fede, fedeltà»). Nella Bibbia la verità riguarda ciò che ha consistenza, ciò che è valido e sicuro e quindi attendibile e degno di fiducia: si tratta di una concezione esistenziale della verità, basata sull’esperienza (Casalegno, «Verità», 1503). 59 Cf. A. Jepsen, «»אמן, in G.J. Botterweck – H. Ringgren – H.J. Fabry (a cura di), Grande Lessico dell’Antico Testamento [GLAT], 13 voll., Paideia, Brescia 1988-2010, I, 625-696, qui 628. 60 Ad eccezione di tutti gli altri casi, il costrutto preposizionale «in verità e amore» di 2Gv 3 non è retto da alcun verbo. Questo è anche l’unico caso, dei quattro in cui «verità» forma un binomio con un altro vocabolo, dove ajlhvqeia compare come primo termine della coppia: «grazia e verità» (2x: 1,14.17), «spirito e verità» (2x: 4,23.24), «opera e verità» (1x: 1Gv 3,18), «verità e amore» (1x: 2Gv 3).
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(4x = 3x in Gv / 1x in 1Gv), come nome retto da aggettivi (1x in Gv) o, più spesso, da sostantivi (5x = 3x in Gv / 1x in 1Gv / 1x in 3Gv).61 Ne emerge una triplice relazione: la verità sta in rapporto con Gesù, con lo Spirito, con il credente.62 La fatidica domanda che Pilato rivolge a Gesù («Che cos’è “verità”?»: Gv 18,38) trova una risposta sorprendentemente precisa negli altri tre passi giovannei in cui «verità» è parte nominale del predicato (Gv 14,6 e 17,17; 1Gv 5,6);63 ci aiuta, pertanto, fare l’inventario dei soggetti dei quali si dice che sono [la] verità. Nel Vangelo, Gesù può tanto dichiarare: «Io sono la verità» (Gv 14,6), quanto rivolgersi al Padre in preghiera dicendogli: «La tua parola è verità» (Gv 17,17) e, nella grande lettera, l’autore può affermare che «lo Spirito è la verità» (1Gv 5,6). Gesù proclama pertanto che ogni parola del Padre è verità: in questo modo, egli comprende come verità tutta la rivelazione antica, tutto l’Antico Testamento (Mosè e i profeti). Se ogni parola del Padre suo è verità, egli può poi attribuirsi tale titolo a un grado insuperabile in quanto, nella teologia giovannea, Gesù altro non è che la Parola eterna fatta carne (Gv 1,1-18): il legame parola/ verità (Gv 17,17) e Gesù/verità (Gv 14,6) è mediato precisamente dal nesso Gesù/parola (Gv 1,1-8). Il fatto, poi, che 1Gv dichiari che lo Spirito è la verità, si comprende alla luce del nesso tra Gesù e lo Spirito su cui torneremo tra poco. In ogni caso, risulta già piuttosto chiaro che la verità giovannea ha essenzialmente a che fare con la rivelazione che Dio fa di sé mediante la sua parola. In alcuni casi (6x), all’interno della letteratura giovannea, troviamo «verità» come sostantivo retto da aggettivi o da altri sostantivi. Questo gruppo di occorrenze (e specificamente le cinque in cui ajlhvqeia si trova al genitivo) chiarisce ulteriormente quanto emerso dai passi precedenti. Nel prologo abbiamo l’unico caso in cui «verità» dipende da un agget-
61 3Gv 8 è l’unico uso al dativo; negli altri cinque casi ajlhvqeia sta al genitivo. Secondo Zerwick, Analysis philologica Novi Testamenti graeci, PIB, Roma 41984, 562 l’espressione di 3Gv 8 si presta a una doppia possibile traduzione: se il dativo dipende dal suvn di sun-evrgoi, si deve allora tradurre «collaboratori con la verità»; se è invece un dativo di vantaggio, la traduzione suona piuttosto: «collaboratori (con loro) a favore della verità». In questo secondo caso, verità = predicazione del vangelo; nel primo caso la verità è quasi personificata. 62 Cf. l’impianto della celebre opera di I. De La Potterie, La vérité dans Saint Jean (AnBib 73-74), PIB, Roma 1977, I-II. I due volumi si compongono di tre parti: I. Gesù e la verità; II. Lo Spirito e la verità; III. Il credente e la verità. 63 Vari autori ritengono che proprio la domanda di Pilato (Gv 18,38a) sia il passo da cui partire per una comprensione del tema giovanneo della verità: oltre ai già citati Kowalski, «“Was ist Wahrheit?” (Joh 18,38a)» e Köstenberger, «“What Is Truth?”», si veda P.G. Kirchschläger, «Die Frage nach der Wahrheit im Johannesevangelium anhand der Pilatusfrage (Joh 18,33-38a)», in R. Hirsch-Luipold – H. Görgemanns – M. von Albrecht (a cura di), Religiöse Philosophie und philosophische Religion der frühen Kaiserzeit. Literaturgeschichtliche Perspektiven. Ratio Religionis Studien I (Studien und Texte zu Antike und Christentum 51), Mohr Siebeck, Tübingen 2009, 251-269. Per Kirchschläger, nello sviluppo giovanneo del concetto di verità si riconosce un modello discorsivo e sistematico di tensione e interazione (Spannungsfeld und Interaktion). Egli ricava dallo studio di Gv 18,33-38a tutti i tratti costitutivi di questo modello giovanneo di verità.
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tivo («pieno»): il Logos è «pieno di grazia e di verità» (1,14). Il binomio «grazia e verità» costituisce propriamente un’endiadi (cf. anche 1,17):64 la prima di una serie in cui compare il termine verità (cf. «Spirito e verità» in Gv 4,23.24; «opera e verità» in 1Gv 3,18; «verità e amore» in 2Gv 3). «La grazia e la verità» va, infatti, tradotto con «la grazia della verità»: il Logos eterno, cioè, è pieno del dono gratuito (grazia) della rivelazione divina (verità). Questa pienezza viene a noi in Gesù Cristo: è per mezzo di lui che la grazia della verità «ci fu, accadde» (ejgevneto Gv 1,17). Il costrutto più frequente in cui ajlhvqeia si trova all’interno di una catena genitivale, come nome retto da un altro sostantivo, è «lo Spirito della verità». L’espressione ricorre quattro volte: tre nei discorsi d’addio (Gv 14,17; 15,26; 16,13) e una nella grande lettera (1Gv 4,6). Essa cristallizza il nesso profondo tra Spirito e verità/rivelazione. Nella teologia giovannea il ruolo dello Spirito si gioca, infatti, essenzialmente in rapporto alla verità: è solo in ragione dello Spirito che la Parola divina non appartiene all’archeologia, ma è perennemente attuale e intima all’uomo. Abbiamo così un quadro del tutto omogeneo: se 1Gv 5,6 – come ricordavamo sopra – può dire che lo Spirito è la verità, è perché la verità fuori dall’azione dello Spirito rimane estranea all’uomo ed è consegnata irrimediabilmente al passato, fosse anche al passato di Gesù. La connotazione cristologica della verità e il ruolo dello Spirito in ordine a essa rendono ragione della famosa espressione di Gv 16,13, di cui ci occuperemo più avanti: in questo passaggio il ruolo dello Spirito, per il tempo successivo alla Pasqua, è formulato nei termini di «guidare in tutta la verità». Lungo la distesa delle generazioni, lo Spirito introduce i discepoli di Gesù in una comprensione più profonda della divina rivelazione, che – in definitiva – è una comprensione più profonda della persona di Gesù Cristo. Questa accentuazione cristologica (e subordinatamente pneumatologica) della verità non deve in ogni caso oscurare il fatto che, nella visione giovannea, il Cristo è la verità, in quanto in lui il Dio invisibile e inconoscibile può essere incontrato e sperimentato (1,18).65 «Verità» si trova poi negli scritti giovannei come soggetto grammaticale di alcuni verbi (7x).66 Nelle due lettere minori, la verità si presenta,
64 Cf. S. Panimolle, «La grazia della Verità nell’Antico Testamento», in G. Bonney – R. Vicent (a cura di), Sophia – Paideia. Sapienza e educazione (Sir 1,27) (Nuova Biblioteca di Scienze religiose 34), Fs. M. Cimosa, LAS, Roma 2012, 297-307: questo è solo l’ultimo di una serie di studi dedicati dall’autore a tale questione. La posizione di Panimolle fu accolta da De La Potterie fin dal 1975; si veda come essa viene da lui riproposta in De La Potterie, La vérité dans Saint Jean, 139-141. 65 Nel suo tentativo di confutare l’idea bultmanniana dell’ajlhvqeia giovannea come dischiusa realtà di Dio, de la Potterie arriva a sostenere che la verità in Gv non è identificata con Dio, ma con Cristo e con lo Spirito: cf. De La Potterie, La vérité dans Saint Jean, 1008s. Come, però, fa osservare Hübner, «ajlhvqeia», 159 ciò va a scapito proprio dell’idea giovannea di incarnazione: per Gv, infatti, è Dio che si rivela nell’uomo Gesù. 66 Nel Vangelo e nella grande lettera (5x) si tratta unicamente di tre verbi: givnomai (1x: Gv 1,17), ejleuqerovw (1x: Gv 8,32), eijmiv (3x: Gv 8,44; 1Gv 1,8 e 2,4). Il verbo «essere» non ha
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in questo tipo di costruzione, quasi ipostatizzata: essa dimora (mevnw) già al presente in noi e sarà con noi per sempre (2Gv 2);67 essa rende testimonianza a qualcuno, nella fattispecie a un certo Demetrio (3Gv 12).68 In tre casi lo scrittore giovanneo proclama l’assenza di verità: non c’è verità nel diavolo – il quale di conseguenza «non sta» nella verità (Gv 8,44) –, come non c’è in coloro che dicono «Non possediamo peccato» (1Gv 1,8) e in colui che dice di conoscere Dio, mentre non osserva i suoi comandamenti (1Gv 2,4). In questa duplice tipologia di persone descritta in 1Gv dobbiamo riconoscere i veri «figli del diavolo» (Gv 8,44). La connotazione eminentemente cristologica della verità giovannea è espressa con chiarezza anche dal parallelismo tra «la verità vi libererà» (8,32b) e «il Figlio vi libererà» (8,36a): per Gv non si dà una distinzione adeguata tra il Figlio e la verità! La vicenda del cieco nato (Gv 9) raffigura plasticamente un itinerario di comprensione graduale della verità, che va di pari passo con l’esperienza della sua forza liberatrice: il cieco di un tempo diventa un autentico discepolo di Gesù attraverso la conoscenza sempre più profonda dell’identità di Gesù stesso (ecco la verità!) e questa verità lo rende libero da ogni tipo di pressione sociale. Il parallelismo tra «verità» (ajlhvqeia) e «parola» (lovgo~) risalta chiaramente in 1Gv 1,8.10: «la verità non è in noi» // «la sua parola non è in noi». Per due volte nel Vangelo (Gv 5,33; 18,37) «verità» al dativo è oggetto indiretto del verbo «testimoniare». Se, nel prologo, si dice di Giovanni che egli rende testimonianza alla luce (1,7-8), nel corpo del Vangelo egli è detto, da Gesù, rendere testimonianza alla verità (5,33): come abbiamo ricordato anche sopra (cf. § 1.3 e) questa verità/luce è la divina realtà della rivelazione, che risplende in modo sovreminente nel Logos incarnato. Anche nel caso di Gesù testimone per la verità (Gv 18,37), s’intende con ajlhvqeia la divina realtà della rivelazione che si rende presente nell’uomo Gesù. La medesima costruzione in 3Gv 3 ha, invece, un diverso significato, riconoscibile per il fatto che l’autore parla in questo caso di rendere testimonianza alla «tua» [= del destinatario] verità. Abbiamo, infine, un certo numero di casi (9x) in cui «verità» è oggetto diretto di alcuni verbi. Si tratta di tre sintagmi:69 «fare» la verità (2x: Gv 3,21; 1Gv 1,6), «conoscere» la verità (3x: Gv 8,32; 1Gv 2,21; 2Gv 1), «dire»
in nessuno dei tre casi funzione di copula e compare sempre con una negazione. 67 A proposito del costrutto con il participio presente di mevnw di 2Gv 2, Zerwick osserva che «la verità è concepita come una forza e una virtù che abita e opera nell’uomo» (Zerwick, Analysis philologica, 561). L’ultima espressione di questo stesso versetto è asimmetrica, «sconveniente» (una inconcinnitas): si passa a un verbo di forma finita, mentre ci si aspetterebbe almeno un pronome relativo, per continuare con un costrutto subordinato. 68 L’accostamento di ajlhvqeia al verbo marturevw è attestato anche in un altro passo di 3Gv oltre che nel Vangelo (Gv 5,33; 18,37; 3Gv 3): in questi altri casi, però, la verità (al dativo) è oggetto indiretto del verbo «testimoniare». 69 «Conoscere» si presenta, però, in due forme (ginwvskw in Gv 8,32 e 2Gv 1 e oi\da in 1Gv 2,21) e anche «dire» ha due forme (lalevw in Gv 8,40 e levgw in Gv 8,45.46 e 16,7).
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la verità (4x: 8,40.45.46; 16,7). Solo Gesù dice la verità (Gv 8,40.45.46; 16,7), perché a lui soltanto compete il ruolo di rivelatore del mistero di Dio.70 All’uomo è offerta la possibilità di conoscerla (Gv 8,21; 1Gv 2,21; 2Gv 1) ed è posta l’esigenza di farla (Gv 3,21; 1Gv 1,6). La conoscenza in senso semitico include anche il riconoscimento pratico della verità e la prassi cristiana scaturisce dall’interiorizzazione della rivelazione divina. Il «conoscere» è un abbracciare esistenziale e il «fare» indica che la verità diventa principio dell’agire.71 Questa dimensione morale (la verità come principio della vita del credente) appare con forza anche laddove il termine ajlhvqeia entra in costrutti preposizionali con ejn («in»):72 il Padre santifica i discepoli nella verità (Gv 17,17.19) ed essi possono, pertanto, adorare in Spirito e verità (Gv 4,23-24), amare nella verità (2Gv 1; 3Gv 1) – o in opera e verità (1Gv 3,18) – e camminare nella verità (2Gv 4; 3Gv 3.4).73 L’espressione «essere dalla (ejk) verità» (Gv 18,37; 1Gv 2,21;
Poiché è la verità, egli la dice (e le rende testimonianza). Secondo Zerwick, «quelli che hanno conosciuto la verità» (2Gv 1) sono coloro che hanno abbracciato la verità (Zerwick, Analysis philologica, 561). Nella comprensione giovannea la rivelazione di Gesù deve diventare l’atmosfera abituale, la verità diventa principio interiore di vita morale, la verità è una possibilità di esistenza offerta al cristiano: Casalegno, «Verità», 1507. Dei risvolti etici della concezione giovannea della verità s’interessa direttamente Van Der Watt, «The Good and the Truth in John’s Gospel». Secondo l’ottica particolare del suo studio, che indaga il carattere e la gestione della leadership nell’ambiente giovanneo, anche Anderson sottolinea le ricadute etiche della verità giovannea: cf. P.N. Anderson, «Discernment-Oriented Leadership in the Johannine Situation – Abiding in the Truth Versus Lesser Alternatives», in J.G. Van Der Watt – R. Zimmermann (a cura di), Kontexte und Normen neutestamentlicher Etik / Contexts and Norms of New Testament Ethics, III: Rethinking the Ethics of John. «Implicit Ethics» in the Johannine Writings (WUNT 291), Mohr Siebeck, Tübingen 2012, 290-318. Per Kirchschläger, nella variegata connotazione che ha l’uso giovanneo di questo termine, non manca un senso etico e legale di verità: cf. Kirchschläger, «Die Frage nach der Wahrheit im Johannesevangelium anhand der Pilatusfrage (Joh 18,33-38a)», 253. 72 I costrutti sono sette: tre hanno un’unica attestazione («stare [sthvkw] nella verità»: Gv 8,44; «guidare [oJdhgevw] in tutta la verità»: Gv 16,13; «amare [ajgapavw] in opera e verità»: 1Gv 3,18); tre godono di una doppia attestazione («adorare [proskunevw] in spirito e verità»: Gv 4,23.24; «santificare [ajgiavzw] nella verità»: Gv 17,17.19; «amare [ajgapavw] nella verità»: 2Gv 1; 3Gv 1); uno gode di una triplice attestazione («camminare [peripatevw] nella verità»: 2Gv 4; 3Gv 3.4). In due casi abbiamo un’endiadi: «in spirito e verità» (Gv 4,23.24); «in opera e verità» (1Gv 3,18). «Amare» regge tanto un’espressione semplice («nella verità»), quanto un binomio («in opera e verità»). Secondo Zerwick, il primo costrutto in cui compare «verità» in 2Gv 1 («amare nella verità») potrebbe prestarsi a una duplice traduzione: in veritate = sinceramente; oppure in veritate = secondo le esigenze della verità (rivelata). Cf. Zerwick, Analysis philologica, 561. 73 Commentando 3Gv 3, Zerwick dice che la verità in cui si cammina è «la vita secondo le esigenze della verità (rivelata)» e rimanda a un confronto con l’espressione «fare la verità» di 1Gv 1,6: cf. Zerwick, Analysis philologica, 562. Per lui l’espressione ha, dunque, direttamente a che fare con la vita morale. Non ci pare, in effetti, convincente la posizione che De La Potterie ha sostenuto in tutti i suoi studi sul tema, a cominciare da un saggio del 1971 pubblicato in italiano come I. De La Potterie, «Verità biblica e verità cristiana», in Studi di cristologia giovannea (Dabar 4), Marietti, Genova 31992, 15-27, qui 21-25. Per questo autore l’espressione «fare la verità» non avrebbe alcuna connotazione morale: «fare 70 71
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3,19) dice l’origine e, di conseguenza, la natura di coloro che accolgono la divina rivelazione e ne fanno il principio del loro agire. Per quanto, poi, riguarda specificamente l’uso linguistico dei due aggettivi, nel Vangelo è Gesù a usare normalmente ajlhqhv~ (9x su 14x). Sono ammesse delle eccezioni, per tre dei personaggi che popolano il racconto: Giovanni (in riferimento a Dio) in 3,33; i farisei (per la testimonianza di Gesù) in 8,13; molti (a proposito delle parole di Giovanni) in 10,41. Nelle ultime due occorrenze (19,35 e 21,24) è la voce narrante che impiega il termine e lo usa per la testimonianza del DA (cf. 3Gv 12!). Come qualificativo (11x) l’aggettivo ajlhqhv~ è riferito prevalentemente alla testimonianza (6x: 5,31-32; 8,13.14.17; 21,24); lo si trova, però, anche per connotare Dio (2x: 3,33; 8,26, dove è indicato come «Colui che mi ha mandato»), la carne e il sangue del Figlio dell’uomo (2x: 6,55.55) e chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato (1x: 7,18). Lo s’incontra poi tre volte al neutro (1x al singolare ajlhqev~ e 2x al plurale ajlhqh`) collegato al verbo «dire» (4,18; 10,41; 19,35). Nel QV il nesso tra testimonianza e verità si trova, pertanto, attestato non solo nella formula più sopra ricordata «rendere testimonianza alla verità», ma anche per l’abbinamento tra testimoniare e ajlhqhv~ su cui insistono, da un lato, Gesù (5,31-32; 8,[13.]14.17) e, dall’altro, il narratore (19,35 e 21,24). Per quanto riguarda ajlhqinov~ solo Gesù (7x) e la voce narrante (2x) fanno uso di questo vocabolo. Chi/cosa è ajlhqinov~ secondo il QV? Per il narratore (cf. la prima e l’ultima occorrenza del vocabolo) lo sono la luce (1,8) e la testimonianza (19,35); per Gesù (cf. le altre sette occorrenze) gli adoratori (4,23); il discorso/proverbio (4,37); il pane (6,32); «Colui che mi ha mandato» (7,28); il giudizio (8,16); la vite (15,1); Dio (17,3). d) Verità, parola, Logos incarnato. La verità nel QV si lega alla parola (logos): ogni parola (logos) del Padre è verità («Padre, la tua parola è verità»: 17,17b) e Gesù in quanto Parola/Logos incarnato è la [pienezza della] verità («Io sono la verità»: 14,6a). Non solo l’Antico Testamento – in quanto parola che Dio ha detto per mezzo di Mosè e dei profeti (cf. 1,45) – è verità, ma esso fa già intrinsecamente riferimento a quella Parola/Logos personale preesistente che diventerà carne in Gesù di Nazaret, nel quale si dà la pienezza della verità (1,14.17). La verità è unificata precisamente dal suo intrinseco riferirsi al Logos di Dio, che un giorno si è fatto carne, pur esistendo anche al di fuori della carne: sia le Scritture antiche, che il Vangelo secondo Giovanni, sono in relazione con il Logos di Dio e, per questo, rendono testimonianza alla verità. Il Vangelo è testimonianza «di queste cose» (21,24), cioè della vicenda del Logos fatto carne. Anche Mosè ha scritto di lui (5,46b; cf. 5,36-40) e, prima dell’incarnazione, il Logos è già presente nella storia e nelle Scritture d’Israele (1,11). La grazia della piena verità
la verità» comporta tutto il processo di assimilazione della verità e significa semplicemente far propria la verità di Gesù.
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ci fu per mezzo di Gesù Cristo, cioè del Logos fatto carne (1,17b), ma l’antica economia è pure una grazia di verità, perché essa non prescinde dal Logos che un giorno si farà carne (1,16-17a).74
2.2. Spirito e parola Già sulla base di quanto siamo venuti vedendo sopra (§ 2.1), è chiaro che l’oggetto di questo paragrafo e del successivo è solo parzialmente distinguibile: i due binomi Spirito/parola (§ 2.2) e Spirito/verità (§ 2.3) appaiono, infatti, come due varianti del medesimo nesso fondamentale che unisce lo Spirito alla divina rivelazione. In questo paragrafo presentiamo dapprima in maniera schematica il modo in cui il QV sviluppa il legame tra Spirito e parola, per poi sostare in modo analitico su due passi (Gv 3,34 e 6,63), che riguardano la prima delle due fasi individuate.
2.2.1. Spirito
e parola :
due modelli di relazione per due fasi della storia
Nel QV il nesso tra parola e Spirito si esplicita in due direzioni, che corrispondono anche a due fasi della storia di salvezza.75 Prima fase: il ministero terreno di Gesù. L’accoglienza della parola media l’esperienza dello Spirito: accogliendo le parole di Gesù i suoi interlocutori vengono a contatto con lo pneuma (3,34; 6,63). La parola di Gesù è colma di Spirito, perché lui come Logos/Parola personale lo è (1,32-33)! In Gesù Logos incarnato, dimora permanente dello Spirito, è pertanto già data ai discepoli storici una prima esperienza di questo stesso Spirito.76 È in questo senso che si può interpretare anche il passo di 14,17b: «Poiché [lo Spirito] presso di voi dimora e in voi sarà» (o{ti par∆ uJmi'n mevnei kai; ejn uJmi'n e[stai). Con questa doppia frase, introdotta da un o{ti causale, Gesù indica la ragione per cui i discepoli conoscono lo Spirito, cioè ne hanno esperienza («Voi lo conoscete, perché…»). Un commentatore come Brown non fa distinzione né per i tempi verbali della doppia causale (prima un presente e poi un futuro), né per le sfumature originate dalle diverse preposizioni (prima parav e poi ejn), perché è convinto
74 Nel modo in cui Gv concepisce il rapporto tra antica e nuova economia non c’è traccia di una visione di tipo sostitutivo. 75 Cf. I. De La Potterie, «Gesù e lo Spirito secondo il vangelo di Giovanni», in Studi di cristologia giovannea, 279-289, qui 287s. 76 Cf. C. Bennema, «Spirit-Baptism in the Fourth Gospel. A Messianic Reading of John 1,33», in Biblica 84(2003), 35-60. Per questo autore il battesimo nello Spirito avviene nel corso del ministero di Gesù, in forza delle sue parole. Bennema sostiene che battezzare le persone con lo Spirito Santo è il programma dell’intero ministero di Gesù. Tale ministero consiste nel purificare e salvare il popolo attraverso la parola di rivelazione, per mezzo dello Spirito. Il battesimo con acqua di Giovanni (che probabilmente contiene anche un aspetto di purificazione) è semplicemente preparatorio per la salvezza, mentre quello di Gesù fornisce una purificazione maggiore (= la rimozione del peccato), che produce la salvezza.
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che non sempre l’evangelista le usi con lo scopo di suggerire una reale variazione di significato.77 Su questo punto ci pare, invece, preferibile la lettura di De La Potterie, il quale sostiene che qui c’è una distinzione tra due momenti cronologici successivi, in cui si danno due diverse modalità di presenza dello Spirito.78 (a) Le due diverse preposizioni suggeriscono che finora lo Spirito non era presente se non «presso» i discepoli (par∆ uJmi'n), nella persona di Gesù; in futuro sarà «con» loro (v. 16 meq∆ uJmw'n) e «in» loro (v. 17 ejn uJmi'n). La forma attuale della presenza dello Spirito «presso» i discepoli è quella data in Gesù, nel quale lo Spirito dimora stabilmente. Le tre preposizioni hanno una valenza diversa e segnano una reale progressione nel cammino di interiorizzazione dello Spirito. (b) Il presente mevnei («rimane») è realmente un presente, che distingue la prima forma di presenza dello Spirito (in Gesù) dalla seconda, attesa per il futuro. Seconda fase: il tempo successivo alla glorificazione. Dopo il suo passaggio da questo mondo al Padre, le parole di Gesù restano vive e attuali unicamente grazie allo Spirito. Solo in forza dello Spirito le parole di Gesù – e Gesù in quanto Parola – sono strappate dal passato in cui inevitabilmente si collocano e non restano semplicemente oggetto di studio dell’archeologia e delle discipline storiche. L’azione dello Spirito è precisamente quella d’insegnare tutto ciò che Gesù ha detto e ricordarlo ai discepoli (14,26). «Ricordare» non nel senso di far tornare alla mente una cosa che essi avevano dimenticato, quanto piuttosto di destare nella loro memoria un senso degli eventi da essi mai percepito prima.79 Commentando più avanti Gv 16,12-15 torneremo precisamente su questo aspetto.
2.2.2. Spirito e parole (Gv 3,34)
di
Gesù nella testimonianza
del
Battista
Il primo stico del v. 34 («Poiché colui che Dio ha inviato, dice le parole di Dio») suona come una giustificazione (gavr) della dichiarazione precedente («Chi ha accolto la sua testimonianza ha suggellato che Dio è veritiero»: v. 33). Siccome colui che è stato mandato da Dio proclama le parole di Dio (v. 34), chi accoglie la sua testimonianza sigilla la veracità di Dio (v. 33); non tanto quella dell’inviato, quanto per l’appunto quella di Dio stesso. Col suo presente (divdwsin), il secondo stico del v. 34 insiste sulla continuità del dare («non di misura, infatti, dona lo Spirito»); questa donazione dello Spirito non è però solo incessante, è anche illimi-
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Cf. R.E. Brown, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, Cittadella, Assisi 1979,
857. 78 De La Potterie, La vérité dans Saint Jean, 359-360. Il fatto che De La Potterie interpreti l’ultima espressione del v. 17 («e sarà in voi») come una proposizione a sé stante e non come una seconda causale dipendente da hoti, non incide un gran che sull’interpretazione. 79 Cf. Marcheselli, «Davanti alle Scritture di Israele», 183-192.
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tata («non di misura»). Troviamo qui un secondo gavr («poiché»), che fa di questa dichiarazione (v. 34b) il fondamento della precedente (v. 34a). Il punto maggiormente discusso nell’esegesi del versetto è chi sia il soggetto che dona lo Spirito: Dio o il suo inviato? (a) Lettura teologica. Nel dialogo con Nicodemo (3,5-8) è Dio colui che genera di nuovo a partire dallo Spirito; forse anche 3,35 («Il Padre ama il Figlio e ha dato tutto in mano sua») potrebbe essere invocato a sostegno di una lettura teologica di 3,34b: il dono dello Spirito (v. 34b) potrebbe essere un modo di specificare il «dare tutto nella sua mano» (v. 35). Se il verbo divdwsin si riferisce a Dio, il testo può essere tradotto in modo non equivoco così: «non di misura, infatti, Dio [gli] dona lo Spirito». La sua funzione è, allora, quella di sottolineare la superiorità di Gesù rispetto a tutti gli inviati precedenti: a questo inviato Dio dà costantemente e senza misura lo Spirito e per questo il suo «dire le parole di Dio» ha una pregnanza incomparabile. (b) Lettura cristologica. Ci pare preferibile l’interpretazione che riferisce all’inviato la comunicazione stabile e smisurata dello Spirito:80 «non di misura, infatti, egli [= l’inviato] dona lo Spirito». Il legame tra il Messia e lo Spirito è apparso già al termine della prima testimonianza di Giovanni (1,32-33), quando egli ha dichiarato che Gesù non è solo colui sul quale lo Spirito dimora stabilmente, ma è anche colui che può immergere (battezzare) nello Spirito. Egli non lo riceve soltanto (aspetto passivo), ma lo comunica (aspetto attivo). Se il verbo divdwsin si riferisce al Cristo, la funzione del passo è allora di sottolineare il nesso tra le parole dell’inviato e lo Spirito: siccome il Cristo dà lo Spirito senza limitazioni nella quantità e nel tempo, le parole che egli proclama sono parole di Dio. Il legame tra Spirito e parole che qui s’intravede può essere esplicitato in due direzioni. (a) La peculiare caratteristica del Messia giovanneo, di essere la sorgente dell’effusione escatologica dello Spirito, trascina come conseguenza che le sue parole sono parole di Dio: colui che può disporre dello Spirito non può dire, infatti, parole che siano semplicemente parole di uomini. (b) Le parole del Messia sono parole di Dio, perché precisamente attraverso di esse egli conferisce il divino Spirito a coloro che le accolgono. La comunicazione della vita divina da parte dello Spirito avviene già durante il ministero terreno del Logos incarnato attraverso le sue parole, delle quali si può dire che sono pneuma e sono vita. Il legame tra pneuma e parole è, in effetti, esplicitamente indicato anche in 6,63.81
80 Così H.-C. Kammler, «Jesus Christus und der Geistparaklet. Eine Studie zur johanneischen Verhältnisbestimmung von Pneumatologie und Christologie», in O. Hofius – H.-C. Kammler (a cura di), Johannesstudien, Mohr Siebeck, Tübingen 1988, 170-181; O. Hofius, «“Er gibt den Geist ohne Mass”. Joh 3,34b», in Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft 90(1999), 131-134. 81 Tanto in 3,34 quanto in 6,63 troviamo il sintagma lalein ta rēmata.
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2.2.3. Spirito e parole (Gv 6,63)
di
Gesù nell’attestazione di Gesù stesso
Gv 6,63 stabilisce esplicitamente e per due volte una connessione tra lo Spirito (to; pneu'ma) e la vita (divina). Nel primo stico («Lo Spirito è quello che vivifica, la carne non giova a nulla») lo Spirito è qualificato, attraverso un participio presente (funzione titolare), come «il vivificante» (to; zw/opoiou'n). Nella seconda parte del versetto («Le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita») lo pneuma è associato alla vita, in una delle consuete endiadi giovannee: «sono spirito e sono vita» (pneu'mav ejstin kai; zwhv ejstin). L’inutilità della carne non è oggetto di riflessione: questo secondo stico commenta solo la parte positiva della precedente sentenza («lo Spirito è quello che vivifica») e la riferisce al dialogo/discorso sul pane della vita («le parole che io vi ho detto» = 6,25-59). Per contrasto con la valutazione formulata dai discepoli in 6,60 (il discorso di Gesù è stato da loro definito come «duro»), questa dichiarazione connota le parole di Gesù come «spirito e vita». L’espressione doppia «sono spirito e sono vita» va interpretata nella stretta connessione dei due termini impiegati: il dono della vita viene attraverso lo pneuma.82 Mentre nel primo stico del v. 63 pneuma esigeva una traduzione con l’iniziale maiuscola («Spirito»), in questo secondo uso pneuma corrisponde piuttosto a «spirito»; esattamente come in 4,24a («Dio è spirito» e non «Dio è [lo] Spirito»).83 Le parole di Gesù sono spirito e vita perché, dischiudendo la realtà di Dio, inaugurano e danno la vita divina.84 Dio è spirito (4,24) e le parole di Gesù ne dischiudono il mistero: per questo esse pure sono spirito (6,63). La novità apportata da 6,63b consiste nel legame che esso stabilisce tra parole di Gesù e pneuma vivificante. Abbiamo già intravisto questo nesso nel testo appena commentato (3,34): poiché egli, Gesù, dà lo Spirito senza misura, le sue parole sono parole di Dio e lo Spirito egli lo dà precisamente proclamando le parole. Si può dunque sostenere che, secondo il QV, in una prima fase (che coincide con la sua presenza sulla terra) l’esperienza dello Spirito è mediata da Gesù: essendo egli colmo dello Spirito (1,32-34), in tutte le sue parole lo pneuma viene comunicato. Nel passaggio dalla prima alla seconda fase della rivelazione, il rapporto tra Spirito e parola viene ricalibrato: se, finché Gesù è presente sulla terra, le sue parole sono spirito vivificante, quando egli sarà presso il Padre, lo Spirito renderà attuale e intima la parola.
82 Il tema è, in effetti, già apparso nello stico precedente: è lo Spirito che comunica la vita; lo Spirito è il vivificatore. 83 D’altro canto, come vedremo infra (§ 2.3.1), dal fatto che Dio sia spirito discende la necessità di adorarlo nello Spirito: tanto in 4,23-24 quanto in 6,63 il senso più generale di pneuma («spirito») si trova accostato a quello più personale («Spirito»). 84 K. Wengst, Il vangelo di Giovanni, Queriniana, Brescia 2005, 281.
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2.3. Spirito e verità Nella teologia giovannea il rapporto tra Spirito e verità è intrinseco e inscindibile. Lo verifichiamo anzitutto sulla base di un testo della prima parte del Vangelo (4,23-24): nelle parole che Gesù dice alla samaritana troviamo accostati per la prima volta in Gv i due termini. Ci spostiamo poi nella seconda parte del Vangelo, per prendere in esame un passo dei discorsi d’addio (16,12-15): l’ultimo in cui tale nesso è esplicitamente formulato. 2.3.1. Adorare «in Spirito
e verità »
(Gv 4,23-24)
Nella parte conclusiva (vv. 23-24) della sua articolata risposta (vv. 21-24) alla domanda della donna in merito al luogo del culto autentico (vv. 18-19), Gesù precisa l’ambito dell’adorazione del Padre: si tratta di adorarlo «in pneuma e verità». La dichiarazione con cui si apre il v. 24 («Dio è spirito») costituisce il fondamento di tutto l’edificio: siccome Dio è spirito, allora bisogna adorarlo in spirito e verità. L’adorazione «in spirito e verità» appare così innanzitutto come il tipo di adorazione adeguato al carattere proprio di Dio.85 Come va intesa la proclamazione «Dio è spirito»? Posto che con essa il QV non vuole dare una definizione metafisica di Dio, ci sono essenzialmente due tipi di interpretazione. Schnackenburg legge l’espressione nella linea della santità di Dio, cioè della sua trascendenza:86 la dichiarazione che Dio è spirito significa che Dio è separato da ogni essere umano e terreno.87 Per De La Potterie, le parole «Dio è spirito» non servono a descrivere la natura spirituale di Dio, ma la sua azione presso gli uomini.88 «Dio è spirito» significa pertanto che Dio si comunica a noi attraverso il dono dello Spirito. Per due volte nei vv. 23-24 risuona la formula «adorare in spirito e verità»: un’unica preposizione (ejn) regge due sostantivi privi di articolo.89 È precisamente questa la risposta che Gesù offre alla domanda sul luogo del culto autentico, implicitamente contenuta nelle parole della sama-
85 Queste parole spiegano in modo definitivo l’esigenza posta in termini assoluti a Nicodemo di rinascere da acqua e Spirito (3,3-7): la nuova nascita è necessaria, perché Dio è spirito (4,24) e pertanto il suo regno non può essere visto (3,3) se non si rinasce dall’acqua e dallo Spirito (3,5). 86 Cf. R. Schnackenburg, Il vangelo di Giovanni I (CTNT 4/1), Paideia, Brescia 1973, 651-653. 87 «Spirito» indica nel QV ciò che è attinente a Dio e al mondo celeste, in contrapposizione a ciò che è terreno e umano: cf. l’opposizione tra spirito e carne in 3,6 e 6,63. In Gv «santo» è l’aggettivo che di norma qualifica «Spirito»: cf. 1,33; 7,39; 14,26; 20,22. 88 Cf. De La Potterie, La vérité dans Saint Jean, 676. Come nelle dichiarazioni di 1Gv («Dio è luce», «Dio è amore»), non siamo davanti a una speculazione sulla natura divina, ma a una constatazione che emerge della storia della salvezza: che Dio sia spirito, come anche che egli sia luce e amore, lo si ricava dalle modalità del suo rivelarsi. 89 Come avveniva in 3,5 per «acqua» e «Spirito».
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ritana del v. 20. Egli riprende la proposizione locale ejn che la donna ha usato due volte, passando però da un luogo materialmente inteso a un ambito che potremmo definire relazionale: lo spazio dell’adorazione non è il tempio che si trova a (ejn) Gerusalemme e non è sul (ejn) monte Garizim, è l’ambito (ejn) definito dallo spirito e dalla verità. Sono stati proposti vari significati per il sintagma «in spirito»; ricordiamo i tre principali.90 (a) L’espressione significa che il culto autentico deve prescindere dalla materia, da ciò che è corporeo. È una lettura ricorrente nelle polemiche contro ogni forma di culto esterno. Il costrutto ejn pneuvmati viene letto dentro un quadro dualistico di matrice platonica. (b) «In spirito» va riferito allo spirito dell’uomo, all’animo umano, o semplicemente alle buone disposizioni. (c) Lo pneu`ma di cui si parla qui è lo Spirito Santo, lo Spirito di Dio; quest’ultima posizione ci pare la più rispondente al contesto. Ancora più vari sono i pareri su cosa indichi l’espressione «in verità»:91 significa in sincerità, con un’intenzione pura; indica la realtà, in opposizione ai tipi e alle figure dell’AT; si tratta soltanto di un’espressione avverbiale significante «realmente», «in modo veritiero»; fa riferimento alla conoscenza del vero Dio; fa riferimento alla rivelazione divina portata da Gesù, cioè alla verità in senso giovanneo. Quest’ultima posizione è quella che De La Potterie ha sostenuto in un modo che ci pare assolutamente convincente. In conclusione, per pneu`ma si deve intendere lo Spirito Santo e per ajlhvqeia la rivelazione divina: l’adorazione che il Padre cerca deve dunque essergli resa all’interno di quello spazio definito dalla relazione dell’uomo con lo Spirito e con la rivelazione portata da Gesù. Bisogna (dei`) entrare nello Spirito e nella verità (v. 24) e lì rendere a Dio il culto che egli cerca. Questione fondamentale per l’interpretazione del passo è, infine, se Spirito e verità indichino un doppio principio, o siano una sola realtà. Anche la costruzione sintattica ci porta a escludere che pneu`ma e ajlhvqeia rappresentino due principi distinti: un’unica preposizione (ejn) regge entrambi i vocaboli.92 L’espressione doppia forma un’endiadi sotto il primato del secondo vocabolo; «verità» è pertanto qui il termine decisivo. Come abbiamo potuto riscontrare più sopra (§ 2.1 c), nel QV la verità ha intrinsecamente a che fare con Gesù, tende a coincidere con la sua persona (14,6), in quanto egli è il Logos incarnato: l’ambito del culto è, pertanto, quello definito dalla rivelazione portata da Gesù e fuori da essa non c’è culto a Dio gradito.93 Tale rivelazione, però, non diventa interiore
Per un’ampia rassegna della storia dell’interpretazione cf. De La Potterie, La vérité dans Saint Jean, 674-676. 91 Anche in questo caso, cf. la rassegna offerta ivi, 676-679. 92 Cf. ivi, 704. L’interpretazione del sintagma pneu`ma kai; ajlhvqeia data da De La Potterie è giudicata anche da Biguzzi un imprescindibile punto di partenza per l’esegesi di Gv 4: cf. G. Biguzzi, «Gv 4 e l’adorazione in “spirito e verità”», in Ricerche storico bibliche (2009)21, 203-220, qui 204-208. 93 A volte gli autori tendono a tralasciare quasi completamente il secondo termine («verità») a esclusivo vantaggio del primo; ci pare anche il caso di G. Gaeta, «Il culto 90
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all’uomo se non attraverso l’azione dello Spirito: unicamente lo Spirito rende la verità attuale per il credente e intima al suo cuore. Nel QV la verità ha intrinsecamente a che fare anche con lo Spirito, che infatti è regolarmente chiamato nei discorsi di addio «lo Spirito della verità» (Gv 14,17; 15,26; 16,13). Se si tiene presente questo legame strettissimo che unisce lo Spirito e la verità, non ci si stupisce più di questa doppia espressione («in Spirito e verità»): per l’evangelista l’azione dello Spirito consiste, infatti, precisamente nell’interiorizzare in noi la parola di Gesù, la sua verità. In questa sua risposta alla donna di Samaria, Gesù indica qual è il luogo del culto autentico nei tempi messianici in un modo che riprende ed espande quanto egli aveva già lasciato trapelare in occasione della purificazione del tempio (Gv 2,14-22) e cioè che il tempio di Dio è il suo corpo, che la casa del Padre è la sua persona: secondo Gv 4,23-24, il luogo in cui si dovrà ormai cercare la presenza di Dio e adorare il Padre è circoscritto dalla rivelazione cristologica (la verità), resa interiore e attuale dallo Spirito. Gesù non propone un terzo luogo sul piano dei precedenti due (il Garizim o Gerusalemme): se così fosse, saremmo davanti a una logica di tipo sostitutivo. In realtà, il luogo dell’adorazione escatologica si colloca su un piano completamente diverso.94 2.3.2. Lo Spirito «guiderà in tutta
la verità »
(Gv 16,13)
All’interno dei discorsi d’addio è facilmente riconoscibile la presenza di una serie di detti che ha per oggetto lo Spirito, chiamato da Gesù con diversi nomi: Spirito Santo (14,26; cf. 1,33 e 20,22), Spirito della verità (14,17; 15,26; 16,13), Paraclito (14,16.26; 15,26; 16,7), ejkei`no~ = «egli» (14,26; 15,26; 16,8.13.14). Quello che ci accingiamo a commentare è l’ultimo elemento di una sequenza che ne conta cinque.95 Esso presenta molteplici legami soprattutto con il secondo detto della serie (Gv 14,2526). In entrambi ritroviamo indicata, pur con diversa terminologia, (a) la funzione di maestro dello Spirito (didavxei pavnta kai; uJpomnhvsei uJma'~ pavnta // oJdhghvsei uJma'~ ejn th'/ ajlhqeiva/ pavsh); (b) strettamente dipendente dall’insegnamento di Gesù (ejkei'no~ […] uJpomnhvsei uJma'~ pavnta a} ei\pon uJmi'n [ejgwv] // ejk tou' ejmou' lhvmyetai kai; ajnaggelei' uJmi'n); (c) introdotta
“in spirito e verità” secondo il Vangelo di Giovanni», in Analisi di Storia dell’Esegesi [ASE]12(1995), 33-47 (= P.C. Bori [a cura di], In Spirito e Verità. Letture di Gv 4,23-24 [Epifania della Parola 6], EDB, Bologna 1996, 9-20) e di A. Destro – M. Pesce, «Lo Spirito e il mondo “vuoto”. Prospettive esegetiche e antropologiche su Gv 4,21-24», in ASE 12(1995), 9-32 (= Bori [a cura di], In Spirito e Verità. Letture di Gv 4,23-24, 21-41). 94 Esattamente come dichiarerà in 10,16, Gesù non è venuto per introdurre tutte le pecore in un recinto già esistente, ma per condurle fuori da tutti gli ovili, affinché siano costituite in unità in forza della relazione con lui («e diventeranno un solo gregge, un solo pastore»). 95 Si può discutere se sia possibile stabilire una separazione tra i vv. 7-11 (il cosiddetto quarto detto sul Paraclito) e i vv. 12-15 (il quinto detto). Noi ci concentriamo, in ogni caso, unicamente sui vv. 12-15.
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da una nota sulla limitazione di ciò che Gesù stesso poteva insegnare durante la sua vita terrena (tau'ta lelavlhka uJmi'n par∆ uJmi'n mevnwn: […] oJ de; paravklhto~ // e[ti polla; e[cw uJmi'n levgein, ajll∆ ouj duvnasqe bastavzein a[rti: o{tan de; e[lqh/ ejkei'no~); (d) contrassegnata da un’idea di completezza (pavnta […] pavnta a} ei\pon uJmi'n [ejgwv] // ejn th'/ ajlhqeiva/ pavsh). Si può dire che Gv 14,25-26 e Gv 16,12-15 siano i luoghi per eccellenza in cui il QV chiarisce cosa sia contenuto nell’espressione «Spirito della verità». Ciò vale anche per 14,25-26, benché in questo passo il sintagma non sia esplicitamente presente: si trova però in esso il tema della parola di Gesù (lalevw al v. 25 e levgw / ei\pon al v. 26). È utile distinguere due parti nello sviluppo di Gv 16,12-15: dapprima (vv. 12-13), Gesù spiega il senso profondo del titolo «Spirito della verità»; poi (vv. 14-15), egli offre una precisazione di due espressioni già impiegate al v. 13 («non parlerà da sé» e «annuncerà le cose venture»). «Ho ancora molte cose da dirvi, ma non potete sopportarle ora» (v. 12).96 I vv. 12-13 sono contrapposti dal punto di vista temporale: «non adesso» (v. 12 ouj... a[rti) / «quando però verrà» (v. 13 o{tan de; e[lqh/). L’attuale rivelazione di Gesù ai discepoli si presenta come non conclusa (v. 12): molte cose non sono attualmente sopportabili da parte dei discepoli e soltanto nel futuro lo Spirito potrà rivelarle (v. 13). Le «molte cose» (v. 12) sono un modo iniziale, più generico, di indicare «tutta la verità» (v. 13). L’espressione non ha un senso quantitativo (la rivelazione sarebbe incompleta nel senso che il Paraclito sarebbe chiamato a completarla aggiungendovi dei nuovi contenuti, dei nuovi «dogmi»), ma qualitativo: la svolta pasquale e la venuta dello Spirito susciteranno un approfondimento della comprensione.97
Alcuni autori vorrebbero collegare l’impossibilità a sopportare da parte dei discepoli a un supposto contenuto doloroso e spiacevole.98 Questa interpretazione ci pare insostenibile nel contesto: pochi versetti prima, infatti, Gesù ha potuto parlare in modo del tutto esplicito delle persecuzioni che attendono i suoi (16,1-4a). Le molte cose che Gesù avrebbe da dire e che non può dire ora, non possono pertanto essere riferite alla sorte dolorosa che attende i discepoli nel mondo. È in un senso più generale che si deve intendere l’espressione: i discepoli non sono in grado, prima
96 L’espressione è tradizionalmente una formula di conclusione; essa indica la fine del passaggio consacrato al Paraclito: J. Zumstein, L’évangile selon saint Jean (13–21) (Commentaire du Nouveau Testament IVb – Deuxième série), Labor et Fides, Genève 2007, 137, nota 50. 97 Ivi, 138. 98 Il significato proprio del verbo bastavzw è «portare», in riferimento a oggetti vari (cose leggere, ma anche più pesanti). «Oggetti diversi danno al verbo un significato metaforico, quando specialmente deve essere evidenziato l’aspetto del sopportare. […] Nell’ora del distacco di Gesù i discepoli non sono ancora in grado di sostenere la verità piena» (W. Stenger, «bastavzw», in DENT, I, 550-551, qui 551).
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della passione («ora»), «di sopportare, cioè di afferrare rettamente ciò che il Cristo avrebbe da dire loro quanto al loro futuro».99 Il v. 13 presenta l’aspetto positivo, fornendoci il massimo di informa zioni possibili su quale sia il legame che unisce lo Spirito alla verità. Dopo una protasi temporale (o{tan de; e[lqh/ ejkei'no~), lo Spirito della verità è descritto con tre frasi, che sintatticamente non stanno sul medesimo piano. Tra la prima e la seconda frase abbiamo una particella causale (gavr): «perché, infatti». Le ultime due proposizioni, pertanto, spiegano la prima: lo Spirito svolgerà la propria funzione di guidare nella verità tutta intera, perché proclamerà quanto avrà udito e annuncerà le cose venture. La frase principale del v. 13 suona pertanto: «vi condurrà in tutta la verità».100 «Guidare» ha un respiro più ampio di «insegnare» (14,26), ma costituisce di fatto la ripresa di quel medesimo tema. Il verbo «guidare» (oJdhgevw) contiene in sé l’idea della via (oJdov~): lo Spirito della verità compie l’azione di condurre sulla via. Il senso di questa immagine si comprende appieno in riferimento a Gv 14,6, dove troviamo associati, in relazione a Gesù, tanto «via» che «verità». «L’insegnamento del Paraclito non consiste dunque nella rivelazione di nuovi contenuti, ma nell’appropriazione e approfondimento della rivelazione cristologica che è verità».101 Dal punto di vista della critica testuale, il versetto pone un problema relativamente alla preposizione che segue il verbo «guidare»: la tradizione manoscritta, infatti, oscilla tra ejn e eij~.102 Il Greek New Testament (3a ed.) accetta con valutazione {B} il costrutto preposizionale con ejn + dativo, ritenendo che la costruzione con eij~ + accusativo sia stata introdotta da copisti che la consideravano più conveniente dell’altra, dopo il verbo «guidare». Complessivamente la critica esterna e il criterio della lectio difficilior depongono a favore della variante con ejn e il dativo. A nostro giudizio la lectio con ejn e il dativo potrebbe essere semplicemente una constructio pregnans e contenere, pertanto, in sé non solo l’idea del «moto verso» luogo, ma anche dello «stato in» luogo, cioè della situazione di quiete successiva al raggiungimento della meta: lo Spirito conduce dentro la verità al cui interno i discepoli rimangono.103 Non ci
Zumstein, L’évangile selon saint Jean (13–21), 138. Il DENT traduce oJdhgevw con «guidare, condurre, avviare, introdurre, istruire», scegliendo per Gv 16,13 il significato di «introdurre» (cf. «oJdhgevw», in DENT, II, 542). Formule simili con oJdhgevw si trovano nell’AT e nel NT: cf. Sal TM 25,5 [LXX 24,5] («Guidami verso la tua verità [ejpiv + acc.]»); Ap 7,17 («Perché l’Agnello che è in mezzo al trono li pascolerà e li guiderà alle fonti delle acque della vita [ejpiv + acc.]»). 101 Zumstein, L’évangile selon saint Jean (13–21), 139. 102 Zumstein ricorda che se, da un lato, nella koinē eij~ e ejn sono ormai intercambiabili, dall’altro, questo non sembra essere il caso normale in Gv: cf. ivi, 136, nota 47. 103 Di altro avviso è Zumstein (cf. ib.). A suo giudizio se ejn deve essere inteso in modo diverso da eij~, non si tratta allora di incamminarsi verso una meta, ma dell’appropriazione e scoperta di uno spazio già esistente. Il verbo allora non significherebbe tanto «condurre verso una meta con l’intento di raggiungerla», quanto piuttosto «guidare, istruire». Coerentemente, egli così si esprime nella conclusione del suo commento a Gv 16,12-15: «Egli [il Paraclito] non conduce il credente verso la verità, ma lo guida nella verità (da compren99
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sono in ogni caso ragionevoli dubbi sul significato fondamentale di questa dichiarazione, che potremmo riformulare così: «Il Paraclito ha per missione di assicurare il futuro della rivelazione attualizzandola sempre di nuovo».104 La prima frase causale recita così: «perché non parlerà da sé, ma dirà quanto avrà udito».105 Si tratta propriamente di una frase doppia («non… ma…»). Il cuore dell’affermazione è «perché dirà quanto avrà udito»: proclamando quanto avrà prima udito, lo Spirito svolgerà la funzione di Spirito della verità. Lo Spirito è qui presentato in un atteggiamento di ascolto. Solo perché ascolta, egli parla e il suo parlare altro non è che la ripetizione di quanto da lui udito. Da chi ascolta lo Spirito? Dal Padre e dal Figlio, senza che sia possibile operare una separazione tra i due (cf. vv. 14-15). Gesù e il Padre sono una cosa sola (cf. 10,30): «Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l’annunzierà». Il testo suppone, pertanto, che Gesù (e il Padre con lui) continui a parlare. In nessun modo è ipotizzata qui una rivelazione del Paraclito separata da quella di Gesù: il problema non sta nei termini di una rivelazione dello Spirito diversa da quella del Figlio, quanto piuttosto di una rivelazione del Figlio non chiusa, in atto ancora nel futuro. Quel che lo Spirito farà capire ai discepoli nel tempo successivo alla Pasqua non è, pertanto, altro che il continuo rivelarsi di Gesù. Lo snodo cruciale qui è, dunque, il rapporto tra la rivelazione storica di Gesù di Nazaret e questo continuare a parlare del Figlio (e del Padre), che lo Spirito ascolta continuamente e che fa conoscere ai discepoli. Questo continuare a parlare, che rapporto ha con il parlare precedente? È probabilmente l’ultima frase che ha la funzione di chiarire questo punto. Eccoci allora alla seconda frase causale («e vi riferirà le cose venture»). Questo annuncio delle cose future è la modalità con cui, al tempo stesso, lo Spirito introduce in tutta la verità (frase principale) e annuncia quanto avrà udito (prima causale). Per ben tre volte (vv. 13.14.15) ricorre nel presente contesto il verbo ajnaggevllw, costantemente nella forma di un futuro («annuncerà» ajnaggelei').106 Il Paraclito non esporrà nuovi contenuti, ma spiegherà il messaggio di Gesù alla comunità in modo nuovo, adatto alla situazione e a ciò che le deve avvenire.107 Il senso dell’espressione «le cose venture» (ta; ejrcovmena) è controverso. Secondo Zumstein si danno almeno tre interpretazioni. (a)
dersi in senso giovanneo, cioè come la manifestazione della realtà divina in Gesù Cristo), aprendo a un’attualizzazione costante di quest’ultima» (ivi, 141). 104 Ivi, 139. 105 Il futuro è da preferirsi rispetto alle altre possibili varianti della tradizione manoscritta. 106 Le sue radici sono riscontrabili nella letteratura apocalittica col significato di «rivelare, svelare» (cf. il libro di Daniele). In Dn 2 lo si trova ripetutamente; da Dn 2,6 (q) si ricava la sostanziale intercambiabilità tra questo verbo e ajpaggevllw. 107 Brown, Giovanni, 858 fa notare che la particella ajna- davanti al verbo corrisponde al prefisso italiano «ri-», si tratta quindi di «ri-annunciare».
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Gli eventi che debbono accadere nella sequenza del racconto: morte e innalzamento del Figlio dell’uomo. (b) Il tempo successivo alla Pasqua e cioè il presente della comunità che legge il vangelo. (c) Gli eventi che segnano la fine dell’eone presente. Da un lato, è certo l’epoca post-pasquale che si ha di mira e non la fine del destino terreno del Cristo, d’altra parte l’accento non va sul presente vissuto dalla comunità post-pasquale, ma sul suo futuro. […] La missione del Paraclito consiste nell’annunciare «il Cristo che viene», nello svelare come l’assente sta sulla soglia del presente e come abita il futuro. In questo senso, lo Spirito guida i credenti in tutta la verità, nella misura esatta in cui svela all’intendimento dei discepoli la pertinenza della rivelazione, la sua capacità di senso e di vita, per il tempo che si apre davanti a loro.108
L’accenno alle cose venture va, dunque, capito come un riferimento alla futura situazione della comunità, che i discepoli presenti non possono ancora immaginare; alla necessità di comprendere le parole di Gesù nelle diverse situazioni storiche ed esistenziali; al futuro sempre aperto in cui la rivelazione deve essere attualizzata. L’azione del Paraclito avrà un peso decisivo precisamente in questo futuro che si apre davanti alla comunità di Gesù: un futuro nel quale la verità di Gesù, la rivelazione da lui portata dovrà interagire con situazioni nuove.109 Le cose a venire sono da intendersi cristologicamente; lo Spirito non si abbandona a una creatività selvaggia, egli non fa che dire il Cristo.110 I vv. 14-15 sottolineano che il Paraclito attinge solo a ciò che appartiene a Gesù: per questo egli non manifesta una gloria propria, ma glorifica Gesù. La posizione di Gesù quale rivelatore non è così in nessun modo oscurata da lui. Il testo salda insieme – come al solito – il Padre e il Figlio, perché afferma che tutto quel che il Padre possiede è del Figlio: per questo si può dire che quel che lo Spirito prende, lo prende da Gesù. Nella sua opera di annuncio ai discepoli lo Spirito non mostra la propria gloria, ma unicamente la gloria del Figlio, che coincide con quella del Padre. In quest’ultimo detto, pertanto, lo Spirito si caratterizza per il suo ruolo d’insegnante: egli permette alla rivelazione di acquisire il suo contorno definitivo (il che è impossibile, prima della Pasqua) e, senza aggiungervi nulla, lavora ad approfondirne il significato e a permetterne l’appropriazione.111
Zumstein, L’évangile selon saint Jean (13–21), 140. Cf. De La Potterie, La vérité dans Saint Jean, 449-451. La formula «designa la seconda tappa dei tempi escatologici, quella che comincia con la partenza di Gesù, cioè la nuova economia della salvezza, che fu inaugurata dalla morte e risurrezione del Cristo e dal dono dello Spirito; in una parola il tempo della Chiesa» (451). 110 Cf. Zumstein, L’évangile selon saint Jean (13–21), 141. 111 Ib. 108
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Verità, parola e Spirito
3. La
teologia giovannea della testimonianza / annuncio : considerazioni conclusive
a) Raccogliamo, anzitutto, in alcune proposizioni sintetiche il percorso compiuto. – La letteratura giovannea conosce il vocabolario dell’annuncio e ne fa un uso marcatamente teologico, per quanto circoscritto. Gli scritti giovannei accordano, tuttavia, una netta preferenza al lessico della testimonianza che, peraltro, s’intreccia con quello dell’annuncio: troviamo, infatti, impiegate entrambe le terminologie tanto per Gesù quanto per lo Spirito. – La testimonianza è una dichiarazione pubblica, che suppone un contesto forense. Se, da un lato, Gesù è spesso rappresentato nel QV secondo il registro della testimonianza, dall’altro, la trama del QV ci presenta una serie di figure che indossano i panni del testimone: in questi personaggi – soprattutto in Giovanni Battista – si trova, almeno parzialmente, anticipata la figura del testimone per eccellenza, che è il discepolo che Gesù amava, la figura, cioè, che sta all’origine del Vangelo stesso. – Testimoniare è possibile solo laddove l’esperienza sensibile è stata compresa nella sua portata divina, trascendente. La testimonianza può essere comunicata soltanto adottando un vocabolario, una grammatica e un patrimonio d’immagini adeguato: quello che proviene dalle Scritture d’Israele. – Il contenuto della testimonianza è intrinsecamente connesso alla divina rivelazione: la formula «rendere testimonianza alla verità» è un’espressione sintetica per dire ciò che, peraltro, il racconto evangelico ribadisce in molti modi. La concezione giovannea di testimonianza chiama, perciò, direttamente in causa il grande tema della verità e una riflessione sul fondamento giovanneo di una teologia della testimonianza/ annuncio esige la verifica di ciò che è contenuto in questo concetto. – La verità nel QV è la divina rivelazione, la quale prende corpo in tutte le parole che Dio ha pronunciato, dall’inizio del suo comunicarsi fino a quella parola fatta carne, che è Gesù di Nazaret. Questa verità ha un’intrinseca dimensione morale. – Dopo che il Logos fatto carne ha lasciato questo mondo per andare al Padre, la verità – che rimane inscindibilmente connessa a lui – è viva e attuale per gli uomini solo in forza dell’azione dello Spirito. Nella persona di Gesù, parola fatta carne, e nelle sue parole era già possibile fare l’esperienza dello Spirito di Dio e, dopo la glorificazione del Figlio dell’uomo, lo Spirito e la parola restano profondamente collegati: lo Spirito ricorda le parole di Gesù e svolge la sua funzione essenzialmente come Spirito della verità. b) Riflettere sulla teologia giovannea della testimonianza significa essenzialmente indagare il modo in cui l’evangelista concepì il proprio
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lavoro e il prodotto che ne derivò, il «Vangelo secondo Giovanni». Da uno sguardo al QV ricaviamo, conclusivamente, tre tratti distintivi della testimonianza/annuncio: ciascuno di essi potrebbe essere l’oggetto di un ulteriore approfondimento monografico. – Il QV attesta che testimoniare è accettare che la storia condizioni la nostra comprensione della verità. La testimonianza resa dal DA a Gesù di Nazaret come Messia d’Israe le, Figlio di Dio, non si limita a riprodurre con leggere varianti quanto conosciamo dai vangeli sinottici. Nella concezione giovannea la testimonianza è il modo in cui, in forza dello Spirito, la parola/verità è detta, non ripetendo semplicemente quanto già detto da altri; è l’atto con cui, in forza dello Spirito, la verità è detta in modo più pieno. Lo Spirito impedisce, pertanto, che la verità sia concepita in modo astorico. – Il QV attesta che testimoniare è tradurre in un’altra lingua. Se, con ogni probabilità, la tradizione giovannea ha preso corpo in ambiente semitico, nondimeno è fuori di dubbio che essa è stata messa per iscritto in lingua greca. La testimonianza che Gv rende al Logos incarnato assume, dunque, i tratti di una grandiosa opera di traduzione in greco di quell’annuncio su Gesù che originariamente era risuonato in una lingua semitica. Il QV ci interpella non solo per i suoi contenuti, ma anche come intelligente sforzo d’inculturazione. – Il QV ricorda che la testimonianza ha una struttura «trinitaria» ed è, perciò, intrinsecamente aperta e «non violenta». Il circolo vizioso per cui dalla pretesa di verità, che il QV rivendica in modo inequivocabile, si genera violenza può essere evitato sulla base di una retta comprensione della natura che ha la verità: la verità giovannea è relazionale ed è qualcosa di continuamente ricevuto; l’ingresso nella verità non è mai definitivamente compiuto, fino alla venuta finale del Glorificato. La testimonianza giovannea alla verità si conserva, pertanto, aperta in forza del suo legame con la persona di Gesù risorto e con lo Spirito. Così si può anche rispondere all’accusa di antigiudaismo non di rado rivolta a Gv: esso non è un esito inevitabilmente inscritto nella sua cristologia.112
112 S. Motyer, «Bridging the Gap. How Might the Fourth Gospel Help Us Cope with the Legacy of Christianity’s Exclusive Claim over against Judaism?», in R. Bauckham – C. Mosser (a cura di), The Gospel of John and Christian Theology, Eerdmans, Grand Rapids 2008, 143-167. Si veda soprattutto l’ultimo paragrafo, incentrato su «La più ampia natura della verità giovannea» (163-167).
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Giovanni Cesare Pagazzi
1. Il post-moderno sospettato. Alcune voci critiche Nonostante i contorni della cultura post-moderna siano difficilmente delineabili1 – sia perché ci troviamo nel bel mezzo di questa regione della storia del costume sia per il fatto che essi non di rado sconfinano ancora nella modernità – è possibile quantomeno tratteggiarli, seppure approssimativamente. È ormai fuori di dubbio che la stagione post-moderna (comprendente comunque l’inerziale «mezza stagione» moderna) aborrisca il carattere violento e irreale delle ideologie moderne, siano esse di matrice filosofica, politica, economica, etica, religiosa o, al contrario, antireligiosa. Ciò ha senz’altro favorito una maggiore disponibilità a sentire le ragioni dell’«altro», del «diverso», evitando alla cultura (e alle singole persone) quella particolare forma di splitting che, dividendo nettamente in due («Solo qui sta la verità; al di fuori solo falsità»), rendeva cultura e persone tendenzialmente schizofreniche. Dimensioni umane che a motivo di siffatta schizofrenia venivano rimosse con violenza ad opera del costume moderno sono nel post-moderno nuovamente riconosciute come degne di essere vissute e pensate. Esempio eclatante è offerto dal fenomeno del «sacro». Dato ormai per sorpassato dalla secolarizzazione moderna, eccolo riemerso e ritornato come aspetto indissociabile dall’umanità dell’uomo. Ebbene, proprio questo aspetto – ideologicamente censurato e tuttavia
1 Assumo l’idea di cultura quale originaria mediazione nella percezione di tutte le cose, così come sostiene G. Angelini, «Uomo, verità e cultura», in Teologia (2010)35, 446-477.
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Giovanni Cesare Pagazzi
indelebile – ha trovato comoda ospitalità in ambiente post-moderno. Ma ciò che senza dubbio appare come guadagno luminoso rispetto alla «precedente» stagione culturale non è privo di cono d’ombra. In effetti la versione post-moderna del ritorno del sacro funge da cartina al tornasole che evidenzia non solo l’ambivalenza della rinnovata attenzione al sacro, ma altresì l’opacità caratterizzante il rifiuto delle ideologie. Evitando l’ideologia che colloca sul piano inclinato della dissociazione culturale e personale, il dogma post-moderno della tolleranza («Non tollero le persone intolleranti») preferisce un accesso alla realtà composito, universalizzante, multiforme, adattabile e accomodante, esponendo però al rischio di sospendere ogni decisione. Le decisioni invece – pur evitando la deriva dissociante e schizofrenica dell’adesione all’ideologia – comportano comunque una separazione (de-cidere: «separare da», «tagliare») senza la quale nessuna forma e quindi nessuna identità sarebbero possibili. Questo vale per la cesura del cordone ombelicale (altrimenti non si darebbe nessun uomo), per la fenditura e l’asportazione del marmo di Carrara (altrimenti non avremmo le Pietà di Michelangelo), per i contorni di un volto, di un monte o i confini di una proprietà. Al fine di evitare identità e pensiero «forti», tipici della modernità, si guarda quasi con senso di colpa a ogni de-cisione, preferendo scomporre e ricomporre continuamente frammenti di realtà e idee molto diversi (quando non opposti) e tuttavia considerati modulabili e amalgamabili. Non è difficile imbattersi in un programma televisivo o in un romanzo dove si dà ugual peso – senza alcuna distinzione di credito e credibilità – agli ultimi risultati di fisica sperimentale, a sedute spiritiche e fantasmi; alle estreme possibilità della bioingegneria e ai misteri del Vaticano o della NASA che non intendono mettere a parte i mezzi di comunicazione di segreti antichi quanto l’umanità; alla risurrezione di Gesù e alle classi di elfi e gnomi. Non è escluso però che siffatto modo di agire – di primo acchito confondibile con la modestia, la sobrietà, e perfino con la gentilezza di chi non mette alla porta nessuno – rappresenti una rinnovata edizione del forte «Io» moderno, riapparso sotto mentite spoglie. Certo l’«Io» non risulta più corazzato dall’evidente armatura dell’ideologia, e tuttavia il suo tendenziale rifiuto a de-cidere e de-cidersi è sintomo di una presunta potenza, per certi aspetti ben più debordante di quella moderna, vale a dire l’«onnipotenza» del narcisista. Non volendo perdere nulla (altrimenti non avrebbe «tutto» e non potrebbe «tutto»), il soggetto post-moderno non de-cide nulla e non si de-cide per nulla, ritenendo così di affrancarsi da ogni forma di resistenza, indisponibilità e contingenza. L’indubbio merito del clima post-moderno – la presa di coscienza della complessità della realtà, che invita a scansare ogni forma di semplificazione ideologica – sembra quindi guadagnato, ancora una volta, col denaro di un «Io» straripante ed esagerato. Ciò non è sfuggito ad alcuni tra i più significativi pensatori che, pur provenendo da discipline diverse, concordano nella diagnosi. In proposito do voce, seppur brevemente, a quattro studiosi. Il primo è il famoso sociologo Zygmunt Bauman, che indica come «liquida» l’odierna temperie culturale. Siamo di fronte a società, cultura,
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identità, relazioni «liquide», capaci di assumere ogni forma, per il fatto di non possederne nessuna. Certo, essendo liquide, non hanno l’urtante durezza delle loro configurazioni moderne, ma nemmeno possiedono resistenza, consistenza e quindi durata. In una recente intervista, Bauman interpreta l’attuale crisi economica come effetto della liquidità di cultura e identità. Ogni liquido non solo ben si adatta a qualsiasi contenitore, ma – per lo stesso motivo – tende a fuggirli tutti, debordando, straripando. Ebbene, all’inizio di questa crisi starebbe il narcisismo del desiderio che, fattosi a tal punto liquido, esonda dai reali confini dell’attesa. Nell’economia passata – almeno per la maggior parte delle persone – tra desiderio e compimento stava la cesura, la separazione dell’attesa. Non solo: il conseguimento dell’oggetto desiderato comportava la rinuncia (de-cisiva) ad altre cose, per indisponibilità di denaro. Invece, dalla fine degli anni ’70 al termine della prima decade del 2000, il sistema del credito disponibile a oltranza «toglie l’attesa dal desiderio», come recitava la pubblicità della prima carta di credito. Avendo sempre credito disponibile (ancorché non sia reale, perché maschera un debito contratto con la banca), non è necessario né attendere né decidersi per un oggetto, rinunciando ad altro. Ciò, naturalmente, ha creato una crescita esponenziale del debito (privato e pubblico) con la conseguente quanto mai drammatica attuale crisi del credito.2 Alle spalle della crisi economica, divenuta sistemica, starebbe quindi il soggetto narcisistico che, sfuggendo alle dinamiche reali del desiderio e delle relazioni con cose e persone, tenta di imporsi una liquidità che non corrisponde alla sua effettiva realtà. Siffatta non corrispondenza è messa in luce violentemente dall’attuale crisi economica. Una seconda voce critica è quella di Catherine Ternynck, psicoanalista francese a cui è cara un’immagine per certi versi vicina a quella di Bauman. Ella infatti descrive l’uomo post-moderno come «di sabbia», capace di assumere ogni forma poiché estremamente frantumato, appunto come una roccia sbriciolatasi in sabbia. In grado di lasciarsi imprimere da qualsiasi orma, ma privo dell’amalgama che gli consentirebbe la plasmazione in una forma stabilmente riconoscibile. Da terapista, Ternynck scopre, con notevole finezza interpretativa, che l’ideale di uomo post-moderno – sempre capace di scomporre e ricomporre a propria immagine granelli sabbiosi di pensiero e realtà, mutandone velocemente forma – è riservato a uomini «forti», quelli che cioè mantengono, nonostante tutto, un nucleo di resistenza identitario, poiché disposti a vivere l’indisponibilità di cose e persone, non ritenendola offensiva all’immagine narcisistica di sé. In caso contrario, il soggetto chiamato a dar forma alla propria identità non risulta all’altezza di costruire con la sabbia e sulla sabbia. Paradossalmente la cultura post-moderna – nell’atto stesso in cui dispensa dall’impegno di decidere e decidersi, mettendo tutto a disposizione del
2 Cf. Z. Bauman, Vite che non possiamo permetterci. Conversazioni con Citlali Rovirosa-Madrazo, Laterza, Roma-Bari 2011, 5-27.
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soggetto in maniera indifferenziata affinché abbozzi senza dogmi, confini e intolleranze il proprio «Io» – carica il soggetto di un peso insopportabile, sotto il quale normalmente soccombe. Incaricare un pittore dilettante di esprimersi come fosse Giotto, Caravaggio o Picasso significa imporgli un gravame che, qualora accettato, lo schiaccerà. Oltretutto, a differenza di un tempo, il soggetto è privo dell’aiuto proveniente da un costume riconoscibile e da una morale condivisa, la cui scomparsa anzi è stata salutata come estinzione di una società chiusa e discriminante. La malattia psichica dilagante nell’odierna stagione occidentale, vale a dire la depressione, sarebbe – tra l’altro – la conseguenza di un deprezzamento di sé, poiché il soggetto si coglie come inadatto a stare all’altezza del severissimo compito ingiuntogli dalla cultura post-moderna, proprio quando sembra emanciparlo da ogni forma di dovere e indisponibilità. Essendo tutto disponibile e tutto dello stesso valore è quantomai difficile decidere e decidersi, ma così facendo non si arriva mai a una forma identitaria, rimanendo sabbia, non scultura; e a ciò la psiche stessa si ribella, ammalandosi.3 Percepire come oltraggio inaccettabile la rinuncia conseguente a una reale de-cisione genera un’identità sì svincolata da qualsia si modello fissato, ma al contempo tendenzialmente depressa, giacché incapace di creare ex nihilo una forma «all’altezza». Il terzo interlocutore è il filosofo sloveno Slavoj Žižek. La sua tesi è netta e sostenuta con stile militante. La rimozione moderna e post-moderna del discorso ontologico fondamentale – interpretato come dogma tico e intollerante – ha generato un meccanismo perverso di progressivo svuotamento della realtà, in cui tutto finisce per perdersi nello spazio virtuale di un mondo senza mondo e soggettività reali. La logica dell’attuale cyberspazio rappresenta il compimento scientifico-tecnologico dell’obiettivo di liberazione dalla contingenza a cui invece la realtà ogni giorno richiama. Il carattere fluttuante del pensiero post-moderno prende forma inconfondibile nel mondo virtuale di internet in genere e dei social network in specie, perseguendo alacremente l’antico desiderio di emancipazione dalla realtà, tipico della gnosi antica, soprattutto di quella eterodossa rispetto al cristianesimo. «L’idea di un corpo “etereo” che possiamo ricrearci nella realtà virtuale non è forse il vecchio sogno gnostico – divenuto realtà – del “corpo astrale” immateriale?».4 Gli ideologi del cyberspazio o della virtualizzazione globale celebrano tale depotenziamento del reale come la chance post-moderna di riscatto dalla pesantezza tipica del reale, alla luce di un ideale umano fluttuante che vive di incarnazioni temporanee. L’indeterminazione e l’incorporeità che la digitalizzazione mette sul campo costituiscono per Žižek un principio dissolutivo non solo della forte soggettività moderna, ma dello stesso corpo-mondo
3 Si veda C. Ternynck, L’uomo di sabbia. Individualismo e perdita di sé, Vita e Pensiero, Milano 2012, 13-51. 4 S. Žižek, Credere, Meltemi, Roma 2005, 92.
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della vita, dando luogo a una vera e propria eresia digitale.5 Žižek insiste nell’affermare che la realtà concreta rappresenta invece quell’elemento di irriducibile estraneità e di inconoscibilità che resiste a ogni possibile manipolazione, tendente a comporla e scomporla secondo il proprio narcisistico e maniacale piacimento. Proprio la consapevolezza del carattere imprescindibile e terapeutico della realtà innesca il provocatorio appello rivolto al cristianesimo dall’ateo Žižek. La religione ebraico-cristiana, infatti, in quanto professante un Dio creatore del mondo e salvatore di esso grazie all’incarnazione, rappresenterebbe l’antidoto più efficace contro lo smarrimento della realtà e del suo senso.6 Forse all’acceso pensiero del filosofo sloveno andrebbe ricordato che il post-moderno non è così potente da portare a compimento il proprio intento di totale depotenziamento del reale, poiché anche l’homo postmodernus nasce, mangia e beve, s’innamora, s’ammala, soffre e muore. Se rimane vero che il mondo virtuale censura la realtà, ciò gli è possibile fino a un certo punto, poiché la realtà, che traspare anche dalle esperienze umane elementari, è – ringraziando Dio – più resistente.7 Il quarto pensatore è Günter Figal, filosofo tedesco, allievo di Gadamer, che con andatura pacata e sicura smaschera la scorrettezza di una diffusissima e ormai data per certa lettura della filosofia ermeneutica, vista come una delle radici teoriche del post-moderno. Stando a tale lettura l’ermeneutica mira ad affermare che non solo tutto è interpretabile, ma che tutto si riduce a interpretazione; il reale quindi non è accessibile e, di conseguenza, non risulterebbe praticabile nessuna affermazione «vera», capace di provocare alla de-cisione stabile. Dando uguale cittadinanza a ogni interpretazione, poiché non verificabile da nessuna realtà reale, il soggetto post-moderno (direbbero Bauman e Ternynck) si trova nel flusso infinito o sulla sabbia delle interpretazioni, senza alcun punto di appoggio. Si tollera una visuale della realtà, ma anche il suo contrario; altrimenti si ricadrebbe nella pretesa moderna di dire la verità, de-cidendosi per essa. La prospettiva che Figal elabora programmaticamente nel suo notevolissimo libro Oggettualità8 può essere sintetizzata come il tentativo di riabilitare l’autonomia oggettuale delle cose e l’obiettività dell’esperienza, in sostanziale contrasto con la falsata lettura nichilistica e tendenzialmente relativistica dell’ermeneutica quale si afferma in modo esemplare nel pensiero debole di Gianni Vattimo.9 Si delinea così un pensiero
5 Cf. I. Guanzini, Lo spirito è un osso. Postmodernità, materialismo e teologia in Slavoj Žižek, Cittadella, Assisi 2010, 134s. 6 Cf. S. Žižek, Il cuore perverso del cristianesimo, Meltemi, Roma 2006, 141-149. 7 È quanto emerge sottotraccia nel bel saggio di G. Angelini, «Figli della promessa: fede e cultura nella trasmissione dell’umano», in Di generazione in generazione. La trasmissione dell’umano nell’orizzonte della fede, Glossa, Milano 2012, 223-248. 8 G. Figal, Oggettualità. Esperienza ermeneutica e filosofia, Bompiani, Milano 2012; prezioso il saggio introduttivo del curatore Antonio Cimino. 9 La deriva relativistica dell’ermeneutica del filosofo italiano è evidente anche nella sua recente opera: G. Vattimo, Della realtà. Fini della filosofia, Garzanti, Milano 2012, 83-95. A
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deciso, che fa valere l’evidente riferimento alle cose, argomentando come risulta insostenibile una risoluzione completa del mondo e delle cose in un accadere linguistico, dialogico e storico. Col termine «oggettualità» Figal si riferisce proprio a questa irriducibilità del correlato, del comprendere e dell’interpretare. Da un lato l’oggettuale non può essere dissolto nel puro e semplice movimento in cui qualcosa si presenta nel contesto esperienziale dato di volta in volta; dall’altro l’oggettuale ha una sua specifica autonomia ed «esteriorità» rispetto al vissuto esperienziale con cui ci si relaziona a esso. Figal afferma non solo che l’esperienza ermeneutica è esperienza dell’oggettuale, di ciò che ci sta di fronte opponendosi e lanciandoci una sfida nella sua irriducibilità, ma anche l’oggettualità è il tema fondamentale dell’ermeneutica. Che cos’è un oggetto? Lo dice la parola stessa: è ciò che si oppone, ciò che è di fronte e rimane di fronte. […] Un oggetto è qualcosa nello stare-contro […]. La filosofia moderna ha avuto difficoltà con l’oggettualità. Ciò conferisce una venatura critica alla sua riabilitazione ermeneutica. Non appena nella filosofia moderna viene scoperta l’oggettualità, si pone subito il problema di come superarla. Il suo superamento diviene un compito filosofico in modo così marcato che, nel suo insieme, la filosofia moderna si presenta come una grandiosa impresa di deoggettivazione.10
Ancor più esplicitamente: «L’oggettuale è ciò che si presenta contro e allora, almeno per un momento, si oppone. L’opporsi costituisce l’essenza dell’oggettuale. Se l’oggetto fosse semplicemente un presentarsi, si dissolverebbe in un accadere».11 Certo, l’emergere dell’oggettuale è un accadere. Qualcosa si presenta ed è tutt’a un tratto presente. Tuttavia all’oggettuale appartiene la sua determinatezza: qualcosa si presenta di fronte e rimane. Il suo rimanere è come un attendere; è anche una promessa. Dà a intendere, attivando in questo modo la possibilità del voler comprendere. […] Bisogna accogliere ciò che ci si presenta contro, sostenendo il suo restare.12
Insomma il volere e il comprendere sono possibili solo grazie a cose che oggettivamente (stando-contro) esistono e resistono a qualsivoglia svuotamento nihilistico che di fatto delegittimerebbe il de-cidere e quindi l’agire.13 La raffinata analisi storica di Figal chiude la porta allo svilimento della filosofia ermeneutica (soprattutto quella di Gadamer), operato da chi la sfrutta per svuotare il carattere contra-stante della realtà, dando
suo dire, il realismo sarebbe una forma di regressione di fronte al relativismo tipico dell’ermeneutica. A Vattimo si potrebbe rispondere che la lettura nihilistica dell’ermeneutica è la regressione di chi non intende reggere il carattere oppositorio, urtante, dirimente delle cose. 10 Figal, Oggettualità, 367. 11 Ivi, 391. 12 Ivi, 393. 13 Cf. ivi, 569-597.1175.
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luogo a un «pensiero debole», elaborato però da un «Io forte» che non ammette resistenze e indisponibilità. Tra ciò che accomuna le analisi dedicate al frangente post-moderno dai pensatori qui interpellati sta l’osservazione critica circa l’indebolimento del senso della realtà, che investe sia la vita di società e individui sia la riflessione su di essa.
2. Il
post - moderno come occasione teologica
Se – anche per il tratto appena ricordato – il costume post-moderno è oggetto di giusta critica e di critica teologica,14 esso è pure considerato come occasione di fede e quindi opportunità teologica. Siffatta operazione non ha nulla a che vedere col maldestro tentativo di elaborare una teologia à la page, ma rappresenta un vero e proprio atto di fede che prende forma di temperanza teologica contro l’accidia. L’accidia, tra l’altro, è il vizio che spinge a fuggire dal luogo e dal tempo in cui si è chiamati a essere, rintanandosi in un «altrove», in un «ieri» o «domani» tanto idealizzati quanto irreali. L’accidioso è convinto che Dio abbia parlato solo ieri (nella Chiesa, società, cultura, teologia di ieri), o parlerà solo domani (nella Chiesa, società, cultura, teologia di domani); non crede invece che Dio possa parlare anche adesso, nella Chiesa, società e cultura di oggi. Temperanza teologica significa proprio questo: dare credito anche all’ambivalente, complessa, poliedrica, scomposta cultura di oggi come un luogo della rivelazione del Dio della storia che, in quanto storia, comprende non solo passato e futuro, ma altresì il presente… anche il presente post-moderno. Per i cristiani, infatti, ne va della fede «vivere in strettissima unione con gli uomini del loro tempo», come ricorda con voce accorata Gaudium et spes (n. 62: EV 1/1531). Prendo velocemente in considerazione due teologi, limitandomi a un unico libro per ciascuno. Il primo è il benedettino tedesco Elmar Salmann con il testo Presenza di spirito.15 Il tono bassomimetico della sua scrittura, evocato da «tentativi» e «tentoni», non deve trarre in inganno, quasi che ci trovassimo di fronte a un’esposizione debolistica della fede e delle sue ragioni. Anzi il lavoro di Salmann è una proposta forte, capace di cogliere il vangelo e la sua plausibilità perfino nelle contaminazioni a cui è sottoposto; come se la frammentazione post-moderna del Logos evangelico
14 Si vedano le acute pagine di A. Matteo, Presenza infranta. Il disagio postmoderno del cristianesimo, Cittadella, Assisi 2011 e P. Sequeri, Contro gli idoli postmoderni, Lindau, Torino 2011. 15 E. Salmann, Presenza di spirito. Il cristianesimo come stile di pensiero e di vita, Cittadella, Assisi 22011. Ben più impegnativa, ma alquanto proficua, la lettura di Id., Der geteilte Logos. Zum offenen Prozeß von neuzeitlichem Denken und Theologie, Benedictina, Roma 1992.
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non fosse altro che una forma della sua libera e potente con-divisione. Ciò permette all’autore di afferrare la «forza» vibrante perfino nelle pieghe di ogni «forse», anche degli indecisi forse post-moderni. Si compone così uno stile teologico al tempo energico e gentile, capace di far risuonare non solo i toni del pensiero e del pensiero teologico, ma anche i semitoni, restituendone tutta la scala cromatica; un pensiero in grado di assorbire e metabolizzare anche gli aspetti opachi della realtà e delle idee. Ciò conferisce capacità di scorgere le affinità tra idee contrastanti e le distanze tra posizioni contigue.16 L’attitudine ad abitare l’inter-detto apre a scenari teologici e pastorali antichi e nuovi, riattivando la speranza proprio là dove se ne certificava l’impossibilità. Quella di Salmann è una vera e propria teologia della speranza, effettivamente e pazientemente operata senza mai nominare esplicitamente la virtù. La grinta e la perspicacia della proposta sono sostenute anche da una cultura impressionante, a tutto sesto, ariosa, paragonabile a quella di Balthasar, anche se ben più garbata; come pure da una preparazione teologica (e spirituale) da vero studioso, che gli permette di muoversi con agio tra le grandi scuole medievali, la teologia barocca e illuminista, i contemporanei teologi «continentali» e «analitici», conosciuti e non, e la temperie post-moderna. A questo si aggiunge (anzi è precedente) una sensibilità fenomenologica di rango che propizia un pensiero forte nel perseguire la propria intenzione proprio perché vigoroso nella propria attenzione alle cose e ai gesti che compongono la realtà.17 Tale attenzione si esprime in uno stilema letterario ricorrente nelle pagine del libro, che chiamerei «litanico». Per rendere una cosa o un gesto Salmann utilizza di frequente una lunga lista (appunto una litania) di sostantivi e aggettivi.18 Ben lungi dall’essere mero esercizio letterario, tali litanie esprimono piuttosto il rifiuto di qualsivoglia semplificazione e fissazione di prospettiva, favorendo invece una visuale stereoscopica delle cose e dei pensieri. Ecco un tratto post-moderno che diventa benefico in un’opera teologica. Questa «logica litanica» sta alla base della garbata ironia di Salmann che «prende in giro», nel senso che «gira attorno» alle cose e ai pensieri riconoscendone la singolare grandezza proprio al momento in cui se ne ravvisano e restituiscono le giuste misure. L’ironia e l’autoironia che arieggiano e alleggeriscono anche le pagine più pensose del libro sono un vero e proprio esercizio sapienziale di acquisizione delle giuste misure e proporzioni. «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio» (Sal 90,12). Esercizio non alimentato da semplice tatticismo, ma dal carattere simbolico della verità e della verità cristiana, non per nulla confessata anche liturgicamente nella forma di simbolo, vale a dire come costellazione dei vari misteri
16 Lo si nota, per esempio, nelle pagine dedicate al rapporto tra filosofia e mistica; Salmann, Presenza di spirito, 44-102. 17 Particolarmente significative le pagine dedicate al rapporto tra amore e violenza o quelle riguardanti il dono; ivi, 135.250-265. 18 Cf. ivi, 8.10.15.28.135.
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(creazione, Trinità, incarnazione, Pasqua, Chiesa, il mondo che verrà) che stanno insieme, si richiamano e si reclamano a vicenda, si salutano, si bilanciano e si contestualizzano. L’ironia diventa quindi uno degli splendori dell’atto di fede che rende ragione della connessione dei misteri, quasi la sintesi del modo cristiano di stare-al-mondo con stile vivibile, ospitale, fermamente agile, animato da una non roboante e per questo tenace speranza che sa scorgere ovunque il Logos che è Gesù a cui (come nel nascondino) piace ri-velarsi, con-dividendosi perfino nei granelli della sabbia post-moderna. Il secondo interlocutore teologico è Marcello Neri, di cui prendo in considerazione solo la breve e perspicace opera Il corpo di Dio.19 Nonostante il punto di partenza del testo sia «epocale» (e precisamente l’organizzazione della materia teologica a partire dall’epoca moderna), l’intento è «strutturale», cioè rilevare – a partire da una «cristologia fondamentale» – lo stile della presenza cristiana (teologia compresa) nella cultura odierna, dove appare «marginale» e «contaminata» dalla pluralità delle interpretazioni e dei contatti possibili. Siffatta «cristologia fondamentale» prende in serissima considerazione il farsi corpo di Dio. L’ingresso nel corpo dell’idea di Dio, ossia il differenziale che determina fin dall’origine la specificità cristiana del pensiero dell’incondizionato, è gravido di conseguenze che la teologia ha avuto come timore di enucleare in tutta la loro portata. Finché si penserà il corpo come funzione della significazione, o come supporto esterno del semantico, ci si condanna a mancare l’effettività di quel fenomeno che, ben prima di ogni sentire e intendere, viviamo immediatamente come corpo che ci espone al contatto e alla localizzazione nella spaziatura e nella molteplicità dei corpi che è il mondo stesso. Essere un corpo, proprio questo qui, è l’ontologia inaudita che il cristianesimo dovrebbe affermare anche di Dio, non per adeguarsi alle condizioni dello spirito del tempo, ma per tener fede all’indeducibilità della forma dell’essere di Dio che desidera coincidere, senza scarto alcuno, con la spazialità cui la riconduce definitivamente la pratica e la gestualità dell’uomo di Nazaret.20
Con prosa impegnativa e rigorosa Neri deduce coraggiosamente dal corpo del Logos, esposto, localizzato, toccato e intaccato dalla molteplicità degli altri corpi, le caratteristiche dello stile del cristianesimo e della teologia nella cultura post-moderna. Cristianesimo e teologia non dovrebbero temere né molteplicità né disseminazione (esposta inevitabilmente a «contaminazione») del mistero cristiano, poiché tale fenomeno epocale (moderno e post-moderno) risulta compatibile col mistero stesso del corpo del Logos che, appunto in quanto corpo, è una volta per tutte e per sempre localizzato, esposto, toccato e intaccato. La finezza dell’intuizione induce a considerare il frangente culturale attuale non innanzitutto come cespite di rischio per la fede, ma quale effettiva opportunità di cogliere l’aspetto singolarissimo del mistero di Cristo, che si dispiega
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M. Neri, Il corpo di Dio. Dire Gesù nella cultura contemporanea, EDB, Bologna 2010. Ivi, 30.
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nella storia dell’uomo. Insomma: a partire dalla piena considerazione del corpo del Logos, Neri compie un vero e proprio atto di «temperanza teologica», vale a dire un’azione sostenuta dalla forza di un pensiero della fede capace di scoprire il portato cristologico anche in questa cultura, se è vero (ed è vero) che «i tempi antichi» e nuovi «ultimamente» sono quasi sprofondati nel corpo «preparato» al Figlio (Eb 1,1-4; 10,5). Il molteplice del portamento dei corpi nello spazio condiviso della socialità, quella che potremmo chiamare cultura, non è per il cristianesimo né un’occasione per affermare la propria univoca, separata identità a se stesso, né un semplice ambito di applicazione pragmatica dei propri fondamentali. Al contrario, questo spazio plurale e comune al tempo stesso, e quindi la modificabilità dei modi concreti con cui i corpi abitano il mondo generandolo, rappresenta lo spazio generativo del cristianesimo stesso.21
Grazie alla reale considerazione del corpo del Logos – che nella cultura post-moderna trova un riverbero finora impensato – l’autore riesce a considerare con intelligente originalità argomenti tradizionali come l’at-testazione della rivelazione e la testimonianza,22 come pure la questione del Gesù storico.23 Nella sua attenta fenomenologia del corpo e del corpo del Logos, Neri più volte sottolinea il carattere di «esposizione» tipico di ogni corpo. Un corpo si «espone» all’apprezzamento, o al ludibrio, all’accoglienza, o al rifiuto. Esso è esposto anche a marginalità. Siffatta esposizione rappresenta anche la capacità ospitale e inclusiva del corpo, in grado appunto di far proprio perfino il ludibrio, il rifiuto, la marginalità, la contaminazione che nel post-moderno si tipizza in tratti inediti. Tuttavia un corpo – proprio perché è corpo – non solo si espone, ma anche si impone nello spazio e nel tempo e nei contatti; di fronte a esso altri corpi devono prendere posizione (magari distante) e quindi de-cidersi.
3. Salvatore
delle cose e della loro com - prensione
La temperanza pastorale e, al suo interno, la temperanza teologica impediscono di «teologare» come se non si vivesse nel «clima» – come tale poco definibile – post-moderno; anzi richiede di recepirne i tratti favorevoli all’annuncio del vangelo, quali il rifiuto della schizofrenia delle ideologie, di cui si alimenta ogni forma di fondamentalismo; così pure l’apprezzamento di una visione stereoscopica delle cose quale antidoto contro ossessioni e fissazioni d’ogni genere. Del resto il canone delle sacre Scritture – che risulta decisivo non solo quanto al «contenuto» della teologia, e della cristologia in particolare, ma anche quanto al metodo della
Ivi, 44. Ivi, 41-63. 23 Ivi, 65-80. 21 22
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stessa – fornisce fin dagli inizi della fede cristiana tale quanto mai necessaria medicina. I vangeli, infatti, sono quattro, non uno e la Chiesa fin dalle origini ha sempre nutrito forte sospetto nei riguardi di una smodata unificazione e «armonizzazione» delle testimonianze evangeliche (come nel caso del Diatessaron di Taziano), ospitando, come necessaria alla fede, la non perfetta concordanza degli intrecci narrativi e la differenza delle sottolineature teologiche dei vangeli. Non solo: per dire «Gesù è il Signore» la Chiesa è ricorsa a differenti generi letterari quali i vangeli, appunto, ma anche le lettere (di diversi autori), una catechesi «sistematica» qual è la Lettera agli Ebrei e l’Apocalisse. La condizione necessaria alla temperanza pastorale e, al suo interno, alla temperanza teologica è quindi la capacità di ascoltare il «vangelo» che freme in ogni stagione della cultura (anche post-moderna). Condizione necessaria, ma non sufficiente, poiché tale temperanza, quale atto di fede, si attua qualora pure si evangelizzi la cultura, annunciandole cioè la buona notizia che la libera dalle opacità, sciogliendone le ambivalenze. Siffatta evangelizzazione della cultura può assumere anche la forma di «guarigione» della stessa da una sorta di malattia che rischia di impedire un accesso «abbondante» alla «vita» (Gv 10,10). I pensatori prima considerati diagnosticano al clima post-moderno una deficienza del senso della realtà, che risulta invece decisivo per l’attuazione dell’umanità dell’uomo. La «guarigione» della cultura post-moderna può avvenire anche grazie alla presentazione del mistero di Cristo capace di riattivare il senso della realtà. Ciò non per accomodante strategia, ma perché la realtà fa parte del mistero stesso di Cristo, così com’è restituito dal Nuovo Testamento che evidenzia perfino il suo legame nuovo e definitivo con tutte le cose.
3.1. Il magistero delle
cose
Ma una cosa cos’è? Già il garbuglio della domanda segnala quanto il vocabolo «cosa» sia presente nel linguaggio parlato, tanto da essere il termine più usato in molte lingue. Ciò non solo negli idiomi moderni, ma anche in quelli antichi, per esempio il latino res (= cosa) da cui deriva l’italiano «realtà», «reale». Probabilmente l’origine della parola si trova nell’indoeuropeo ráḥ, nel sanscrito rām, o in una simile radice indo iraniana, e significa «bene», sia nel senso di «bontà» sia in quello di «bene posseduto», e quindi «proprietà», «possedimento» e «ricchezza».24 Consistenti, solide, resistenti, le cose facendo presa sono buone, poiché accendono l’agire di chi le maneggia. Non per nulla res può significare anche «atto», «azione», «fatto», «impresa», «affare», «negozio». Richiamando all’agire e reclamando l’azione, res può indicare pure i risultati delle arti e delle industrie umane (opificialis res), come pure significare il pensare e il pensiero, impossibili senza riferimento, più o
24 Cf. A. Ernout – A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Historie des mots, C. Klicksieck, Paris 1959, 571.
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meno immediato, alle cose. L’evidente relazione tra pensiero e cose (si pensa sempre a qualcosa) ha indotto molti autori medievali a derivare la parola res dal verbo latino reor, cioè: «stimare», «credere», «giudicare», sicché res indicherebbe contemporaneamente sia qualcosa che provoca alla valutazione sia l’effettiva stima di chi, presagendone il valore, ne ratifica e conferma il bene. La parola res nomina quindi le cose non come realtà brute dalle quali l’uomo potrebbe a un certo momento prescindere, ovvero come attrezzi valevoli solo se raggiunti e utilizzati dall’intenzione umana, ma anzi le presenta come ratificazioni di un patto, antico quanto il mondo, tra tutto ciò che fa presa e colui che può prendere, ri-prendere, ap-prendere, com-prendere, intra-prendere. In latino, questo ha motivato e consentito l’importantissimo passaggio linguistico che ha visto la lenta ma inesorabile sostituzione del vocabolo res con quello di causa da cui deriva l’italiano «cosa», il francese «chose», lo spagnolo «cosa» e tutti i loro composti. Il rimpiazzo di res con causa non è maturato solo per il fatto che un bene, una proprietà (res) poteva divenire oggetto di disputa, questione, diritto, pretesa e quindi causa da difendere in tribunale, ma anche e soprattutto perché non c’è realtà (res) che non sia già ratificazione di un giudizio (causa, in senso giuridico). Un giudizio magari originariamente espresso solo a pelle, affettivo, ma pur sempre giudizio: bella, brutta, piacevole, spiacevole, attraente, urtante, liscia, ruvida, seducente, ripugnante, intrigante, indifferente… Ogni cosa è quindi una causa giudiziaria dove risultano sempre convocati affetto, volontà, pensiero, chiamati a decidersi circa le ragioni delle cose. D’altro canto (ecco nuovamente il patto originario tra «Io» e mondo, la carne…), non si darebbe sentenza senza causa, non si darebbe giudice, con tutte le sue esclusive prerogative, senza cose. Ciò che distingue l’uomo da tutte le cose – la sua insostituibile posizione di giudice che processa la realtà confidando di trovarne la verità – è consentito dalla presenza delle cose che lo chiamano in causa. Che quanto detto non sia semplice evocazione – sia pure fondata sulla storia della lingua latina – lo dimostra il fatto che le medesime dinamiche si osservano in lingue di diverso ceppo e struttura quali gli idiomi sassoni. In effetti, tutte le lingue germaniche possiedono il sostantivo ThingDing per dire «cosa», ma in origine il vocabolo si riferiva all’assemblea convocata per dirimere le dispute; chiamando le realtà ThingDing, si accertava quindi il dovere di rendere giustizia alle cose. I traduttori germanici del latino trascrivevano res e causa con Ding o Thing che, tra l’altro, risulta il sostantivo più usato dell’inglese moderno, entrato pure nella formazione di pronomi (anything, everything, nothing) e in costruzioni come many things. Limitandoci a inglese e tedesco, suona quantomai eloquente la stretta vicinanza tra ThingDing (= cosa), il verbo to thinkdenken (= pensare) e il verbo to thankdanken (= ringraziare).25 Così anche secondo
25 Impossibile non menzionare le pagine di Heidegger circa la relazione tra denken e danken (come pure gedenken = ricordare); tuttavia all’etimologia – talora un po’ troppo
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la matrice linguistica sassone ogni cosa è una convocazione, un appello a pensare, discernere e giudicare. Provando a connettere questi due profili linguistici si dice che qualsiasi cosa provoca l’istruzione di una causa, affinché – tra le possibili imputazioni – si renda comunque testimonianza del bene (res, ráḥ, rām), ringraziando.26 Se da un lato la mano tocca e prende le cose, modificandole, dall’altro le cose accrescono le potenzialità della mano. Grazie alla loro esigente resistenza, le cose addestrano le mani, propiziandone destrezza, attitudine e abilità. Non essendo confondibili, esse favoriscono la mano e la educano a distinguere e ponderare.27 Lasciandosi prendere, spostare, modificare, misurare e utilizzare, le cose obbediscono all’abilità delle mani e al contempo ricevono l’obbedienza delle mani, reclamandone il rispetto. La maestria delle mani si esercita solo se disposta a imparare dal magistero delle cose.28 Innanzitutto le cose in-segnano – «segnano-dentro», disegnando l’identità umana – presentandosi a portata di mano, maneggiabili. Così le cose istruiscono circa la praticabilità del mondo, offerto a mano e a umano come prossimo, vicino, disponibile.29 La vicinanza delle cose chiama in causa la mano affinché ne attesti la loro disponibile certezza: le cose ci sono, reali, consistenti e resistenti. Per nulla evanescenti, le cose rimangono come presenze fedeli al patto stretto con la mano. Le cose sono utilizzabili, «utensili» – e così esposte a un impiego meramente utilitaristico – proprio a motivo della loro affidabilità. Usiamo le cose perché abituati alla loro presenza costante e alla loro permanente efficacia. D’altro canto l’abitudine alla presenza e all’efficacia delle cose risulterebbe impossibile se queste ripetutamente non ne avessero dato prova. Praticare le cose significa essere chiamati
svelta – del filosofo tedesco, anche se pochi anni prima si era cimentato nello studio della cosa (Ding), sfugge proprio la radice «cosale» (Ding) dei tre verbi. Cf. M. Heidegger, Cosa significa pensare? Qual è l’essenza nascosta della tecnica moderna, SugarCo, Milano 1979, 27-32. 26 Tutto ciò è ancor più significativo se si considera che per i grandi scolastici res, cioè «cosa», è inteso come un nomen transcendens, un trascendentale dell’essere. Ciascun essere e tutto ciò che è, è anche res, sicché ens e res hanno lo stesso significato, anche se sotto aspetti diversi: l’essere come «atto d’essere» è chiamato ens; dal lato dell’essenza è invece nominato res. Si veda, solo a titolo esemplificativo, Tommaso d’Aquino, Commentaria in quattuor libros Sententiarum I, d. 2, q. 1, a. 5. Se res è un trascendentale, tutto ciò che è, è l’istruzione di una causa. Anzi, al dire di alcuni commentatori res sarebbe un «supertrascendentale» poiché è estendibile sia alle cose reali sia in quanto pensate (res realis, res rationis). Si veda L. Oenig-Hanhoff, «Res comme concept trascendental et sur-trascendental», in M. Fattori – M. Bianchi (a cura di), Res. III Colloquio internazionale (Lessico intellettuale europeo 26), Edizioni dell’Ateneo, Roma 1982, 285-295, soprattutto 285-287. 27 Cf. F. La Cecla, Non è cosa. Vita affettiva degli oggetti, Elèuthera, Milano 1998, 18. 28 «Vogliamo lasciarci istruire dalle cose»; così E. Husserl scriveva nelle prime pagine di un denso testo che – contro l’atteggiamento scettico del fenomenismo – intendeva mostrare la ragionevolezza della credenza umana nella realtà fedele delle cose (E. Husserl, La cosa e lo spazio. Lineamenti fondamentali di fenomenologia e critica della ragione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, 12; cf. anche 5.19-20). 29 Si veda G.C. Pagazzi, Sentirsi a casa. Abitare il mondo da figli, EDB, Bologna 2010, 39s.
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in causa a rendere giustizia alla loro necessaria prossimità servizievole. È possibile agire abilmente, con attitudine perché la mano si è abituata alla consistenza fedele e alla prossimità servizievole delle cose. Le cose sono a tal punto a portata di mano da trasformarsi quasi in una seconda pelle tramite l’abbigliamento, il vestito che, coprendo, mostra lo stile ed esprime l’identità di chi lo indossa. La vicinanza delle cose diventa somma nell’esperienza originaria ed elementare di mangiare e bere. Ci nutriamo di viventi (vegetali e animali) e grazie a viventi (latte, vino…), ma preparati in maniera da far risaltare la «cosalità» che li accomuna a tutte le altre cose. Sotto forma di alimenti e bevande, le cose non sono solo vicine, ma addirittura «dentro», «in» noi, realizzando quotidianamente la loro parentela col corpo. Mangiando, avviene una «consustanziazione» tra carne, terra e cose.30 Le cose sono a portata di una mano che veste il corpo e lo nutre; sono a fior di pelle, «dentro», «in», tuttavia esse sono anche «non-prendibili», «incomprensibili» e «contro». Tra mano e cosa avviene sempre un in-contro, un patto che è pure un im-patto.31 Le cose insegnano a mano e umano anche la loro resistenza. Si presentano modeste e servizievoli, ma anche traumatizzanti, contundenti, impenetrabili e perturbanti. Quanto la psicoanalisi, da Freud in poi,32 definisce come «perturbante» le sicurezze arcigne dell’«Io» dovrebbe essere considerato non solo alla luce dell’«inconscio», del «diverso» o dell’«altro», ma anche grazie alla resistenza ruvida delle cose. Resistendo alla presa della mano, esse sono pure incomprensibili, refrattarie alla ri-presa e alla comprensione del pensiero; ostinate di fronte all’arroganza del concetto, tanto da sfidare e smentire le ipotesi e le previsioni più argomentate di ogni forma di sapere. La loro resistenza che propizia il senso di affidabilità e durata ci resiste, in-segnando la legge originaria dell’esteriorità delle cose rispetto a qualsiasi presa, ri-presa, im-presa, ap-prendimento e com-prensione. Le cose quindi segnano-dentro, originariamente e contemporaneamente, sia l’esperienza dell’affidabilità sia l’esperienza del lutto, mostrandole come aspetti ordinari e fisiologici dell’«in-contro» tra umano e mondo. Così se è vero che palmo, dita e braccio misurano le cose, è altrettanto vero che le cose misurano l’uomo: la mano può arrivare fin qui, non oltre. Maneggiare le cose significa allora riconoscere come bene (res, ráḥ, rām) la reciproca misurazione, la commisurazione di cose e «umano».33 Le cose quindi non sono semplici presenze a portata di mano, ma stabiliscono anche un’opposizione, qualcosa che va contromano. Agire secondo giustizia significa
Si vedano le pagine magistrali di G. Lafont, Eucaristia. Il pasto e la parola, Elledici, Leumann 2002, 18-23. 31 Cf. Salmann, Presenza di spirito, 28.39. 32 S. Freud, «Il perturbante», in Id., Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1977, 269-307. 33 Si veda Figal, Oggettualità, 1175. Pur con stile a volte fin troppo perentorio, lo studio pubblicato nel 1947 da J. Pieper sul pensiero medievale è però preciso nel ricostruire l’intenzione antropologica della proposta tommasiana, secondo cui l’uomo è tenuto a commisurarsi alle cose, al reale: J. Pieper, La verità delle cose. Un’indagine sull’antropologia del Medio Evo, Massimo, Milano 1981, 29-40. 30
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appropriarsi delle possibilità promesse e permesse dalle cose, ma anche accettare come im-pegno la loro opposizione e la loro indisponibilità. Insomma, grazie alla loro resistenza, indisponibilità ed esteriorità – indisgiungibili dalla loro servizievole, fedele vicinanza – le cose in-segnano fin dal sorgere della vita il senso della trascendenza. Sono un pegno di trascendenza e santità, che impegna. L’alfabeto per dire il mistero santo degli altri e di Dio è appreso grazie al magistero delle cose, necessarie ma non per questo perfettamente corrispondenti a tempi e modi di chi le maneggia. L’indisponibilità delle cose obbliga alla dilazione, al differimento e all’attesa. Sentire la vicinanza gratificante e affidabile degli altri e di Dio, provare fatica veramente luttuosa a motivo dell’indisponibilità ruvida e urtante degli altri (fin nella forma estrema dell’indisponibilità di chi muore) e di Dio è già effetto dell’in-segnamento delle cose. Se così stanno le cose, i deficit di affidamento agli altri e a Dio, le antiche e recenti rimozioni del lutto sarebbero effetto anche della sordità al magistero quotidiano delle cose. Esse, opponendosi fin dall’inizio della vita all’egocentrismo – inerzia del senso di onnipotenza prenatale – sono vere e proprie ostetriche dell’uomo: il dolore che provocano è travaglio di parto e il loro tratto effettivamente traumatizzante prelude al fisiologico trauma di una nascita. Che la secolare fatica del pensiero di ammettere (bontà sua!) l’esistenza del mondo esterno a esso sia espressione della volontà di non nascere, di non venire al mondo come figli?
3.2. Per mezzo di lui tutte
le cose
È impossibile, data la brevità dell’intervento, argomentare le affermazioni seguenti. Rimando il lettore a un altro testo, più ricco e ragionato dal punto di vista filosofico, biblico e teologico.34 Scorrendo l’Antico Testamento, si scorge in ciò che si potrebbe chiamare la «Legge della carne», la forma efficiente della creazione tutta e la nota d’intonazione dell’intera Torah, delle sue (ri-)letture e (ri-)scritture. Il luogo d’emergenza di siffatta Legge sta fin dall’inizio e precisamente nella creazione di Adamo, che è plasmato con quella cosa che è la terra. Ciò potrebbe apparire un dettaglio, invece è ritenuto rilevante teologicamente dai primi teologi.35 La pagina di Genesi che narra della plasmazione di Adamo dalla terra (Gen 2,4-13) rivela l’interdipendenza, la mediazione reciproca, il patto (e im-patto) tra umano e cose, senza cui non si darebbero presa, ri-presa, ap-prendimento, com-prensione, im-presa; in breve: non si darebbe
34 Mi permetto di rinviare, anche per la parte più schiettamente cristologica, a G.C. Pagazzi, Fatte a mano. L’affetto di Cristo per le cose, EDB, Bologna 2013. 35 Cf. Ireneo di Lione, Esposizione della predicazione apostolica 9-10 (adotto la traduzione dalla più antica attestazione in armeno, reperibile in Id., Contro le eresie e gli altri scritti, a cura di E. Bellini, Jaca Book, Milano 1981, 485-528); si veda anche Tertulliano, De resurrectione mortuorum V, 6-9, in Tertulliani Opera (Corpus Christianorum. Series Latina II), Brepols, Turnhout 1954, 919-1012.
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l’uomo e il suo agire. Se inizio e compimento dell’agire (e quindi dell’uma no) è fidarsi, affidarsi e credere,36 se risulta impossibile agire senza cose, e agire bene qualora sordi al loro magistero, se è impossibile conoscere Dio senza cose e il suo amore per esse, allora – parafrasando la tagliente espressione dell’apostolo Giacomo – «la fede senza le cose è morta» (cf. Gc 2,26).37 Del resto l’Antico Testamento ritiene necessario il ricorso alle cose per conoscere Dio e l’uomo. Staccarsi da esse equivale a intralciare l’accesso alla rivelazione, inibendo l’atto della fede, poiché l’identità di YHWH è pienamente riconoscibile non solo grazie alla sua opera di liberatore, ma anche – indisgiungibilmente – tramite la sua singolarissima relazione con tutte le cose, come emerge fin dalla prima pagina delle sacre Scritture (Gen 1). Ciò è valso parimenti per il Nuovo Testamento: si accede pienamente al mistero di Cristo anche confessando il suo irripetibile legame con ogni cosa. Ciò è ben chiaro fin dai testi più antichi, come la professione di fede di 1Cor 8,6: «Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui». L’evidente costruzione parallela del testo attribuisce a Cristo la medesima prerogativa paterna: il rapporto con tutte le cose, espresso in termini di provenienza (ex) quando riferito al Padre e come vincolo efficiente (dia) se applicato a Gesù Cristo.38 Dal Padre deriva l’esistenza di tutte le cose, grazie a Cristo la loro con-sistenza. Poco oltre, citando il Salmo 110 e il Salmo 8, Paolo scrive: È necessario infatti che egli [Cristo] regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa (1Cor 15,25-27).
Se in 1Cor 8,6 il legame di Cristo con tutte le cose è pacifico, nel secondo testo appare drammatico e in corso d’opera,39 come se la con-sistenza d’ogni cosa non fosse ancora giunta a pienezza, anche se certamente avverrà (1Cor 15,28a). Stando Cristo all’inizio e al compimento di tutte le cose, la relazione con esse diventa un criterio decisivo per stabilire la qualità cristiana della fede. Infatti, se uno davvero «ama Dio», prova il concorso benefico delle cose: «Tutto concorre al bene, per quelli che
36 Rimando in proposito alla «parte seconda», «terza» e «quarta» di P. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996. 37 Credo sia possibile sintetizzare con la parafrasi dell’espressione apostolica anche le poche ma illuminanti pagine di P. Sequeri, «Introduzione», in Id. (a cura di), Esteriorità di Dio. La fede nell’epoca della perdita del mondo, Glossa, Milano 2010, VII-XIX, particolarmente VII-X. 38 Cf. W. Schrage, Der erste Brief an die Korinther, 2: 1Kor 6,12-11,16, 4 voll., BenzingerNeukirchener, Düsseldorf-Neukirchen-Vluyn 1995, 222-225. 39 La stessa cosa si nota in Eb 2,5-8, dove pure è citato il Salmo 8. Si veda A. Vanhoye, Situation du Christ. Épître aux hébreux 1 et 2, éditions du Cerf, Paris 1969, 282-292.
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amano Dio» (Rm 8,28).40 Fidarsi della vicinanza fedele di Dio come della sua indisponibilità santissima addestra a stimare le ragioni delle cose, servizievoli e resistenti. E (aggiungerei) viceversa: quanto più si è ammae strati dalle cose tanto più si è disposti a fidarsi del loro Creatore. Non solo: si riceve realmente l’inestimabile dono del Figlio se, insieme a lui, si ottengono tutte le cose: «Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?» (Rm 8,32). L’insensibilità alla compagnia delle cose dovrebbe quindi insinuare il dubbio circa l’effettiva amicizia con Cristo. Il credente è caratterizzato dal vincolo con Cristo e – perciò – con tutte le cose: «Tutto è vostro!» (1Cor 3,22). Le pagine citate dalla Prima e Seconda lettera ai Corinzi e quella della Lettera ai Romani sono tra i testi cristiani più antichi. È alquanto significativo che fin dal momento germinale del Nuovo Testamento si colga l’importanza delle cose per la rivelazione del mistero di Cristo e per l’adesione credente. Non si tratta di una scoperta tardiva, ma di un punto fermo fin dall’inizio. Il ruolo di Cristo come legame efficiente che dà consistenza a ogni cosa è senza dubbio professato anche grazie alla meditazione sapienziale – di Sapienza e Siracide innanzitutto – che assunse e convertì il logos stoico, identificando nella Torah la Legge che tiene insieme tutte le cose. Ma proprio in questo iniziale momento della storia testuale del Nuovo Testamento, capita un fatto d’importanza teologica unica le cui conseguenze, al momento, non sono studiate come meriterebbero. Quanto fin dall’inizio è confessato e scritto – con formule di fede o argomentazioni – circa il legame tra Cristo e tutte le cose, pur ritenuto necessario per credere, non è giudicato sufficiente dalla Chiesa delle origini. La Chiesa infatti sente l’urgenza di narrare, raccontare la vicenda concreta, la storia di Gesù Cristo e quindi la sua effettiva relazione con le cose. Certo anche nelle formule di fede e nell’argomentazione è reperibile un nocciolo narrativo: professando Cristo e argomentando il suo mistero, si racconta comunque qualcosa di lui. Tuttavia la Chiesa ha ritenuto insufficiente tale minimum narrativo, racchiuso in espressioni quali «in virtù [di Gesù Cristo] esistono tutte le cose» (1Cor 8,6) e, di conseguenza, realizza una rivoluzione letteraria: dall’innologia alla prosa narrativa che racconta una vicenda concretamente situabile nello spazio e nel tempo; descrivibile, per alcuni aspetti, fin nel dettaglio. Al momento della formazione del canone biblico si assiste al desiderio di un’espansione narrativa senza pari, segno del carattere normativo della storia concreta di Gesù anche per gli altri generi letterari della rivelazione scritta (formule di fede, inni, lettere, apocalissi…). Emblematica in proposito è l’antichissima collocazione dei quattro vangeli: prima di Atti degli apostoli e delle lettere (perfino delle già citate Rm e 1Cor, più anti-
40 Tutte le cose concorrono quindi a rendere la pienezza della salvezza, ottenuta grazie al dono del Figlio. Cf. J.D.G. Dunn, Romans 1–8, Word Publishing, Dallas-London-Vancouver-Melbourne 1988, 502; così anche U. Wilckens, Der Brief an die Römer, 2: Röm 6-11, 3 voll., Benzinger-Neukirchener, Düsseldorf-Neukirchen-Vluyn 1993, 173s.
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che dei vangeli stessi), con l’eclatante intrusione del Vangelo secondo Giovanni che rompe l’unità letteraria del Vangelo secondo Luca e Atti degli apostoli.41 Prima di giungere alle pensose lettere di Paolo e alle visioni dell’Apocalisse circa il rinnovamento di tutte le cose in Cristo (Ap 21,1-5), il lettore deve accostare (con insistenza impressionante!) una, due, tre, quattro volte la narrazione della concreta vicenda del Figlio, del suo stile effettivo di stare al mondo, del suo divenire carne.
3.3. Per noi uomini e per la nostra salvezza
Ancor prima dell’apparizione di Gesù sulla scena del mondo, Giovanni il Battista lo descrive come uno che tiene in mano una pala per separare il grano dalla crusca e pulire l’aia (Mt 3,12). Le narrazioni evangeliche sono così insistenti nel descrivere le mani di Gesù da potersi delineare una cristologia partendo da questo dettaglio. Di frequente l’azione salvifica del Signore è resa grazie alla sua manualità.42 Egli prende per mano una malata e la rialza, guarendola (Mc 1,31). Mano nella mano del cadavere di una ragazza, le ridona vita (Mc 5,41); poco prima della morte della giovane, il padre aveva implorato: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva» (Mc 5,23). Con le mani Gesù guarisce ciechi (Mc 8,23), lebbrosi (Mt 8,3), indemoniati (Mc 9,27), sordomuti (Mc 7,32), paralitici d’ogni genere (Mt 12,10; Lc 13,13; 14,4) e sana da qualsiasi specie di malattia (Lc 4,40), tocca la bara di un morto e lo risuscita (Lc 7,11-17). Perciò una delle domande circa la misteriosa identità del Nazareno scaturisce proprio dall’osservazione delle sue mani benefiche: «Molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?”» (Mc 6,2). Prendendoli tra le braccia e imponendo loro le mani, Gesù benedice i bambini, nonostante l’avversione dei suoi discepoli (Mc 10,16). Con la mano salva dall’annegamento l’impaurito e incredulo Pietro (Mt 14,30-31). E con lo stesso dito con cui scaccia i demoni (Lc 11,20), scrive per terra, prima di perdonare una peccatrice (Gv 8,6.8). Con le mani apre e riavvolge il rotolo del libro di Isaia (Lc 4,17.20), costruisce una frusta di cordicelle e rovescia i tavoli dei cambiavalute (Gv 2,13-22). Con le mani si sveste, prende un asciugatoio, versa l’acqua in un catino, lava i piedi dei discepoli, li asciuga e si riveste (Gv 13,5.12). Con la mano prende un boccone, lo intinge e lo porge a Giuda (Gv 13,26). Proprio quelle mani salvifiche
41 Cf. B.M. Metzger, The Canon of the New Testament. Its Origin, Development and Significance, Clarendon Press, Oxford 1989, 191-207 e A.M. Artola – J.M. Sánchez Caro, Bibbia e Parola di Dio, Paideia, Brescia 1994, 79-87. 42 Cf. K. Gryston, The Significance of the Word Hand in the New Testament, in A. Descamps – A. De Halleux (a cura di), Mélanges bibliques en hommage au R.P. Béda Rigaux, Duculot, Gemblox 1970, 479-487, in particolare 479.
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vengono legate (Gv 18,24), costrette a tenere una canna a mo’ di ridicolo scettro (Mt 27,29) e inchiodate a un patibolo da coloro che da lungo tempo volevano «mettergli le mani addosso» (Lc 20,19). In alcune occasioni sfuggì alle loro mani (Gv 7,30; 10,30) perché «non era ancora giunta la sua ora», ancorché sapesse e avesse dichiarato che il Figlio dell’uomo «doveva» e «stava per essere consegnato nelle mani dei peccatori» (Mt 17,22; 26,45). Con le mani inchiodate, un attimo prima di morire, consegnò nelle mani del Padre il suo spirito (Lc 23,46). Se a guarire e salvare sono esclusivamente le mani del Figlio di Dio divenuto uomo, come le mani di tutti gli umani, anch’esse, fin dall’inizio della vita, sono state addestrate dalle cose e ammaestrate (le mani del Maestro!) dal loro in-segnamento che favorisce il senso di affidabilità, imponendo la loro resistenza. Se non è possibile conoscere il Salvatore senza le sue mani, egli è inimmaginabile trascurando il patto con le cose, dato dalla sua carne la quale non è semplicemente un «corpo», pensabile a prescindere dalle cose, ma originaria mutua mediazione, reciproca appartenenza di mano e cose. Non c’è Salvatore senza carne; non si dà Salvatore senza familiarità con le cose e col loro non sempre gradevole magistero. Perciò non può sfuggire un dettaglio importante: le mani di Gesù non hanno a che fare solo con persone da salvare, ma anche con cose: libri, bare, catini, asciugamani, corde, tavoli, terra, «scettri», chiodi… E, vista la perseveranza dei vangeli nel raccontare pranzi e cene di Gesù, non bisogna dimenticare quelle cose che sono gli alimenti.43 Nel miracolo più raccontato dai vangeli – la moltiplicazione dei pani (Mc 6,30-44; 8,1-10; Mt 14,13-21; 15,32-39; Lc 9,10-17; Gv 6,1-13) – Gesù è descritto innanzitutto come soggetto del tipico verbo della mano: prendere. Egli «prese» (lambanō) i pani e i pesci (Mc 6,41). Stando alle pagine evangeliche, ripetutamente Gesù compie l’azione manuale di prendere qualcosa che fa presa; qualcosa «alla mano», eppure indisponibile a motivo della propria consistenza. «Prendere» non ritorna solo nei testi della moltiplicazione dei pani, ma altresì nelle pagine che restituiscono l’Ultima cena, quando il Signore consegna se stesso ai suoi, nel pane e nel vino, suo corpo e suo sangue. Il fatto è così importante da rappresentare la più lunga narrazione della vicenda concreta di Gesù, contenuta nella Prima lettera ai Corinzi (1Cor 11,23-25), come se concentrasse tutta la vita di Cristo. Sicché sia da un punto di vista meramente quantitativo sia da quello della strategia narrativa si coglie la straordinaria rilevanza accordata dai vangeli (e non solo) all’atto di «prendere» da parte di Gesù, al fine di intuirne il mistero. Nei racconti dell’Ultima cena brillano le azioni manuali del Signore che «prese [lambanō] il pane» (Mc 14,22) e «prese [lambanō] un calice» (Mc 14,23). Non ci sarebbe stata l’eucaristia se le mani del Signore fossero rimaste «vuote», come quelle aborrite da YHWH (Es 23,15; 34,20; Dt 16,16). Nell’eucaristia il Signore si conse-
43 Cf. G.C. Pagazzi, In principio era il Legame. Sensi e bisogni per dire Gesù, Cittadella, Assisi 2004, 15-22.
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gna realmente (res!) come uno che innanzitutto prende, riconoscendo e realizzando l’originaria compagnia delle cose, data dalla carne. «Prendere» è il gesto che accende la successione delle seguenti e (almeno per il Signore) conseguenti azioni eucaristiche: «benedire/ringraziare», «spezzare», «dare». Senza presa di qualcosa, nessuna gratitudine, nessuna condivisione, nessun dono sarebbero stati possibili. D’altro canto, proprio ringraziamento, condivisione e dono esplicano il modo di prendere delle mani di Gesù. Pane, vino e il suo corpo stesso, parente di queste cose consustanziali alla carne, lo chiamano in causa, mettendolo alla prova, affinché ne riconosca le ragioni. Prendendo il pane (il suo corpo stesso), Gesù ringrazia come per un dono ricevuto. Se si pone attenzione alla prima «presa» dell’umanità, raccontata dalla Bibbia, balza all’occhio che è proprio il ringraziamento a distinguere le mani di Gesù; infatti anche Eva «prese» il frutto indisponibile e ne «diede» a Adamo, condividendolo (Gen 3,7), ma non ringraziò. Il Signore, prendendo una cosa che chiama in causa, la giudica come «grazia», «dono» meritevole di ringraziamento. Le mani del Nazareno prendono ringraziando, mai forzando l’indisponibilità delle cose, ritenuta invece offensiva e inaccettabile dalla prima coppia umana. La manualità eucaristica del Signore considera dono (e perciò indisponibile a qualsivoglia pretenziosa forzatura) il pane, a lui inaccessibile durante i quaranta giorni nel deserto della tentazione (Mt 4,1-2) e da lui richiesto ad altre mani: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» (Mt 6,11). Anche per questo egli arriva all’ora cruciale addestrato all’indisponibilità della propria stessa vita, sapendola comunque sicura nelle mani del Padre (Lc 23,46). I vangeli ostendono agli occhi del discepolo lettore la singolarità inaudita delle mani di Gesù: egli vuole avere a che fare con le cose perfino nel momento mortale della passione, quando tutto il suo mondo precipita nella «paura», «angoscia» e «tristezza» (Mc 14,33-34). Tuttavia, le sue mani aperte alle cose sanno di poter agire perché qualcun altro, il Padre, «gli ha dato tutte le cose», anche il pane, «nelle mani» (Mt 11,27; Gv 13,3). Come è stato giustamente evidenziato, l’eucaristia, il pane/corpo preso con gratitudine, drammaticamente spezzato e donato, non è solo l’anticipazione e la ripresentazione sacramentale della croce di Gesù, ma la sua necessaria e giusta spiegazione.44 Il sacrificio di Gesù, prima di essere e per poter essere «il dono di sé», è «la presa di sé» e delle cose (senza le quali non ci sarebbe «sé»), ringraziando. Prima di essere la rinuncia alla propria vita, il sacrificio di Gesù è la rinuncia alla relazione sbagliata con la propria vita,45 quella cioè che – sorda al magistero delle cose – interpreta l’esistenza nei termini di dovuta, assoluta e scontata disponibilità.
44 Si legga integralmente A. Bertuletti, Conoscenza simbolica, Rivelazione e Eucaristia, in Seminario di Bergamo (a cura di), Il mangiare di Dio con noi, Edizioni del Seminario, Bergamo 1980, 81-102. 45 Cf. F. Manzi – G.C. Pagazzi, Il pastore dell’essere. Fenomenologia dello sguardo del Figlio, Cittadella, Assisi 2001, 101-140.
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Il sacrificio di Gesù è accettare di essere il Figlio, vale a dire impegnarsi in ogni momento a riconoscere cose, carne, vita come doni ricevuti da altre mani, quelle del Padre. Certo, il sacrificio di Gesù mostra incomprensibile generosità nel dare, ma prima realizza l’inaudita gratitudine nel prendere, riconoscendo come «grazia» sia l’affidabile vicinanza delle cose sia la loro muta resistenza e indisponibilità. La presa eucaristica di Gesù attua – articolandoli come fossero uno la condizione di possibilità dell’altro – i due significati del misterioso verbo greco lambanō, normalmente ritenuti opposti e alternativi. Il Nuovo Testamento ben conosce i due sensi di lambanō, che indica sia «prendere» sia «ricevere». Evidentemente «prendere» esalta la tonalità attiva, libera e intraprendente del soggetto, mentre «ricevere» ne evidenzia il risvolto passivo.46 Prendendo, Gesù riceve; e quindi, prendendo, ringrazia. Se prendere è la scintilla del ri-prendersi/prendersi, ap-prendere, com-prendere/com-prendersi e intra-prendere, le mani filiali di Gesù sono state fin dall’inizio e durante tutta la sua esistenza mortale lo spunto corporeo, carnale della sua coscienza d’essere il «Figlio amato» che ha ricevuto «tutte le cose nelle sue mani» (Gv 3,35; 13,3; 17,7.10-11). «Sacrificio» non è quindi solo il riassunto e il significato degli ultimi, drammatici, mortali momenti della vita del Signore, ma indica la mano – unica, irripetibile e perciò inconfondibile (come quella di Giotto, Caravaggio, Picasso) – con cui egli ha preso le cose nel corso di tutta la sua vita. Non per nulla, dopo aver preso, ringraziato, spezzato e dato, Gesù invita i suoi a «prendere» (Mt 26,26; Mc 14,22), «facendo memoria» (1Cor 11,24) delle sue mani. «Prendere» diversamente da Gesù trasforma la mano in «motivo di scandalo»; in tal caso è preferibile «tagliarla e gettarla via», affinché la sua presa peccaminosa non segni tutto l’apprendere, il comprendere e l’intraprendere dell’uomo, privandolo della vita eterna (Mt 5,30; 18,8). Malvagie sono pure le mani ipocrite, abilissime nel legare e sistemare gravami sulle spalle altrui, rifiutando però di muoverli «neppure con un dito» (Mt 23,4). Inutile tentare di purificarle ricorrendo a lavaggi che nettano soltanto gli «arti superiori», ma non il prendere, comprendere, apprendere e intraprendere. Il sotterfugio igienico provoca l’aspra reazione di Gesù: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli [Gesù] rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7,5-7).
Il risultato di tali lavaggi esclusivamente epidermici non è poi diverso da quello ottenuto da Pilato che ostenta mani pulite, mentre condanna un
46 Si veda A. Kretzer,«λαμβάνω», in H. Balz – G. Schneider (a cura di), Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, 2 voll., Paideia, Brescia 1998, II, 148-152.
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innocente. Mani rapaci, fossilizzate nella posizione di presa, e mani pigre, immobili di fronte a qualsiasi cosa, non possono essere semplicemente lavate, bensì guarite. È ciò che i sinottici narrano, restituendo l’incontro di Gesù con un uomo dalla mano paralizzata (Luca precisa che si tratta della destra; Lc 6,6-11). Incapace di stendersi, la mano è impossibilitata a «prendere», a prendere bene, cioè secondo il bene delle cose. Inabile alla presa, essa è quindi inibita anche nel «ringraziare», «spezzare» e «dare». Gesù ha di fronte un uomo incompiuto nella sua carne, nel legame tra anima e cose. Colui che unicamente prende tutte le cose e la propria carne ringraziando, risana quella mano, ricreando la familiarità con le cose, senza cui è impossibile vivere e credere. Di un’altra mano «malata» narra il Vangelo secondo Luca, quella del figlio più giovane che prende dal padre cose non sue, sperperandole subito «con mani bucate», e alla fine addirittura incapaci di sottrarre un po’ di carrube ai maiali. Il cammino di conversione del figlio e l’abbraccio misericordioso del padre si sigillano anche con un anello prezioso, fatto indossare proprio a quella mano che pretendeva con fretta ciò che, a suo tempo, avrebbe ricevuto (Lc 15,11-32). Ecco, la presa delle cose secondo lo stile unico e definitivo espresso dalla carne del Figlio potrebbe essere la medicina per il recupero del senso della realtà e quindi dell’umanità dell’uomo a cui, come primo regalo, Mani capaci e generose hanno donato le cose come ostetriche e sorelle.
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L’evangelizzazione nello spazio sacro
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«Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo» (Es 3,5). L’episodio del roveto ardente è forse una delle più antiche teologie narrative sullo spazio sacro.1 Al di là delle attribuzioni esegetiche della geografia biblica,2 il testo presenta un paradigma di ingresso nel luogo sacro. Plastaras spiega: «Così il racconto del roveto ardente presentava Mosè come loro modello agli israeliti che si accingevano a entrare nel santuario di Dio. Quando l’uomo incontra Dio, dev’essere aperto ad accogliere la parola di rivelazione».3 Questa funzione del testo è l’assunto da cui parte la nostra riflessione e la nostra attualizzazione. Cerchiamo di operare una «fusione degli orizzonti» fra il Sitz im Leben del testo biblico e il contesto odierno della nuova evangelizzazione. Mosè si avvicina «un po’ per caso», mentre sta pascolando il gregge. Il testo descrive uno spazio sacro che irrompe nel quotidiano, nel lavoro del pastore, nella geografia raggiungibile. È esattamente l’esperienza che l’uomo della moderna city può vivere sulla soglia degli spazi sacri che segnano il centro delle città europee.4 Più che una «saga eziologica» per legittimare la santità di un luogo,5 il racconto dell’Esodo è un atto di
Cf. B.S. Childs, Il libro dell’Esodo. Commentario critico-teologico, Piemme, Casale Monferrato 1995, 63ss; e B. Jacob, Das Buch Exodus, Calwer, Stuttgart 1997, 42ss. 2 Per una discussione accurata sul luogo a cui si riferisce il testo, si veda P. Weimar, Die Berufung des Mose, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1980. 3 J. Plastaras, Il Dio dell’Esodo, Marietti, Torino 1976, 51s. 4 Cf. J.P. Hernández, «Nuevos caminos que expresan la belleza y acercan a la belleza», in SalTerrae 100(2012)2, 117-130. 5 Tesi di H. Gressmann, Mose und seine Zeit. Ein Kommentar zu den Mose Sagen, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1913, 23ss. 1
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comunicazione che rivela all’israelita la portata storico-teologica e spirituale del gesto che lui compie recandosi al tempio. Come sottolinea Childs interrogandosi sul Sitz im Leben del racconto,6 si tratta dello hieros logos, di un luogo sacro che ha molto della vocazione profetica. È il racconto di una rivelazione-vocazione che trae la sua forza dall’identificazione fra lo spazio sacro del racconto e lo spazio sacro dove avviene l’atto di comunicazione del racconto. È esattamente in questo modo che opera l’evangelizzatore odierno all’interno dei luoghi sacri della città post-secolare.7 Nel testo dell’Esodo lo spazio sacro «gli apparve», cioè prende l’iniziativa. E Mosè si ritrova d’emblée dentro al sacro. Per Mosè la scoperta dello spazio sacro coincide con la scoperta che lo spazio è sacro, che il suo stesso spazio è sacro: «Il luogo sul quale tu stai è suolo santo» (Es 3,5). Già nel 1913 Gressmann commenta questo versetto: «Lo scopritore è diventato lo scoperto».8 Così un primo ruolo dello spazio sacro nella nostra topografia antropologica è quella sacralizzazione del profano che avviene solo dall’interno stesso del sacro. O meglio: quella rivelazione del profano come sacro.9 Dall’interno dell’edificio religioso, l’uomo scopre che tutto è religioso e dunque che lui stesso è religioso. Nella tradizione biblica i racconti della creazione sono stati avvicinati ai racconti della costruzione del tempio, perché l’intera creazione è il tempio di Dio. Così nella città medievale l’edificio religioso centrale è concepito come il «sancta sanctorum» di un tempio che coincide con l’intera città, come nella descrizione di Apocalisse 21.10 Ma in Esodo 3 «l’apparizione» dello spazio sacro non avviene senza un previo cammino di Mosè «oltre il deserto». È evidente che abbiamo qui una trasposizione letteraria dell’intera avventura dell’esodo di Israele attraverso il deserto fino ad arrivare alla terra promessa.11 Mosè vive già nel piccolo del suo quotidiano ciò che sarà la vocazione della sua vita: condurre il gregge d’Israele oltre il deserto. Il deserto è quella tappa di totale spoliazione previa all’avvento del dono. Il deserto è la distanza che separa il profano dal sacro. È lo spalancarsi della soglia. Si può dire che il deserto è il confine diventato spazio. Perciò l’esperienza del deserto è l’esperienza del limite, del proprio confine. Con il desiderio di arrivare
Childs, Il libro dell’Esodo, 65. Cf. J.P. Hernández, «El arte de ver: la experiencia de piedras vivas», in SalTerrae 100(2012)11, 1043-1050; M.-L. Simonato, Dar vita alle pietre, Tesi di laurea in «Economia e gestione dell’arte e delle attività culturali», Venezia 2013; N. Sunda, «Piedras Vivas y Nueva Evangelizaciòn», in Razòn y Fe (2013), 1377. 8 Gressmann, Mose und seine Zeit, 25. 9 Cf. J.P. Hernández, «Lo spazio sacro come kerygma e mistagogia», in Rte 14(2010)28, 353-380. 10 Cf. ib. 11 Cf. U. Cassuto, A Commentary on the Book of Exodus, Magnes press – Hebrew University, Jerusalem 1967, 30ss; e L. Alonso Schökel, Salvezza e liberazione: l’Esodo, EDB, Bologna 1996, passim. 6 7
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alla terra santa, Israele entra nel deserto, ma in quel deserto si perde per quarant’anni finché non comprende che la terra santa è dono. L’uomo arriva fino alla soglia, fino al deserto. Il resto è dono. Il resto «gli appare». Quest’esperienza del limite consiste nel verificare l’insufficienza del proprio desiderio. Nel deserto si scatena il combattimento dei desideri. Il desiderio della terra promessa è contrastato dalla tentazione di tornare indietro. Anche l’uomo di oggi vive un combattimento ogni volta che varca la soglia di uno spazio sacro. L’arido «deserto della soglia» è il momento decisivo. Sono i quarant’anni fino a imparare a fidarsi, sono i quaranta giorni delle tentazioni, fra le belve. Perciò l’architettura cristiana riprende il tema del leone iniziatico ai lati dei portali. Perciò ogni porta è un passaggio, una passione, segnata da grandi combattimenti cosmici. La porta affascina, attrae e al tempo stesso fa paura. La porta, proprio in quanto limite, è la de-finizione del sacro. L’apostolato «della porta» è oggi di nuovo in molte chiese storiche quel luogo dove incontrare l’uomo desideroso di entrare ma che rischia di rimanere nel labirinto del deserto, labirinto rappresentato appunto in molte soglie medievali (Lucca, Chartres…). A questo punto, nella soglia, lo spazio sacro deve donarsi, deve «apparire». Deve «parlare». Uno sguardo, un canto, un saluto, una comunità orante, un benvenuto… e l’uomo profano si ritrova nel sacro. È importante ricordare che Mosè si avvicina da uomo rassegnato, alienato. Quarant’anni di routine lo separano dai suoi grandi desideri di liberazione. Grandi desideri falliti. Egli adesso lavora «per un altro». E la sua vita sembra poter finire così.12 Lo spazio sacro attende il fallito, il rassegnato. L’uomo dell’ennui. Mosè non tematizza il suo desiderio del sacro prima di scoprirsi dentro al sacro. L’uomo del tranquillo nichilismo non confesserà mai il suo desiderio del sacro, se non proprio entrando nello spazio sacro «per curiosità». Ogni ingresso di un turista o di un semplice passante dentro un edificio sacro è la confessione di questa noia. È la ricerca fuori dal quotidiano di qualcosa che aiuti a vivere il quotidiano. Qualcosa di «diverso», e nel fondo «qualcuno di diverso», il Santo. In questo il turismo, e in particolare il turismo religioso, è oggi uno dei più parlanti «segni dei tempi». Esso è il tentativo sempre rinnovato di uscire dal deserto informe della noia. Uscire dalla solitudine radicale resa ancora più acuta perché parallela a tante altre solitudini. In che modo l’uomo solo incontrerà «l’altro» di cui ha tanto desiderio e al contempo tanta paura? La mediazione biblica dell’incontro con l’altro è la memoria. Nell’esercizio di memoria l’uomo rimane se stesso pur estraniandosi. Incontra se stesso come un altro e scopre allora che può incontrare l’altro. Scopre in se stesso una diversità radicale che lo abilita a incontrare ogni diversità. Proprio questo rende lo spazio «sacro», l’incontro con il «sacro», che significa con il diverso. Il luogo sacro è allora prima di tutto luogo della memoria che diventa relazione. È il monumentum.13
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Cf. A. Spreafico, Il libro dell’Esodo, Città nuova, Roma 1992, 33ss. Cf. Hernández, «Lo spazio sacro come kerygma e mistagogia», 353-380.
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Oggi la città cerca i suoi monumenti. I grandi monumenti delle ideologie sistemiche non sono più. Allora è di nuovo nel monumentum religioso che l’uomo cerca la sua memoria. L’edificio religioso è già da sempre un «memoriale» che rivela il divino facendo memoria. Perciò si «consacra» uno spazio sacro quasi come si consacra il pane e il vino eucaristico. Come la liturgia che esso ospita, lo spazio sacro restituisce all’uomo la pienezza della propria storia. La pienezza di se stesso. Gaudí aveva capito questa equivalenza sineddotica fra liturgia ed edificio sacro, quando sottolineava che la costruzione della sua basilica è già in sé una leitourgeia, cioè «un’opera del popolo».14 Ma già nel mosaico absidale di San Vitale a Ravenna vediamo come il vescovo Ecclesio, costruttore dell’edificio che tiene in mano, è messo a confronto con lo stesso martire Vitale. Costruire la chiesa diventa un Realsymbol dell’edificazione dell’ekklesia, equiparata allo stesso martirio.15 Già nei capitoli 31 e seguenti dell’Esodo la costruzione del santuario è legata al dono della «sapienza», cioè dell’abilità tecnica dell’artigiano. La costruzione dello spazio sacro è così la più formidabile «metafora viva» della costruzione di quello spazio sacro che è l’uomo stesso. Come ribadiva Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti, l’arte rivela la vita dell’uomo come il principale capolavoro dove l’uomo stesso è chiamato a collaborare con il Creatore. Nel libro dell’Esodo Dio dona all’uomo l’arte per un solo scopo: la costruzione del santuario, cioè di se stesso come spazio sacro. Ma la prima cosa che l’uomo fa appena ha ricevuto questa abilità tecnica è l’opposto del santuario: l’idolo, il vitello d’oro (Es 32). Nei suoi studi sull’idolo e l’icona, Jean-Luc Marion, sulla scia di Nicea II, ha messo in evidenza la dicotomia fra lo spazio sacro che è vuoto e l’idolo che è pieno di sé, «di oro massiccio».16 L’idolo attira solo su se stesso e si esaurisce in se stesso. L’icona è quella difficile arte della kenosi che rimanda alla relazione. Come dice Florenskij, l’icona è solo «la cornice di un incontro».17 Nell’urbanistica attuale è interessante studiare la topografia del tempo libero, dove flussi e riflussi oscillano fra i luoghi «pieni» e i luoghi «vuoti». Ai due estremi troviamo la ridondanza acustica e visiva dei grandi centri commerciali e il silenzio di una chiesa buia. L’idolo uccide la memoria (il racconto del vitello d’oro inizia con l’affermazione «non si ricordarono»), mentre invece il vuoto dello spazio sacro non è altro che un’attesa, come dice Francesco Dal Co,18 ma un’attesa di quella memoria che è l’uomo.
Cf. Id., Antoni Gaudí. La Parola nella pietra, Pardes, Bologna 2007, 21. Cf. F.W. Deichmann, Ravenna. Geschichte und Monumente, Wiesbaden, Wiesbaden 1969, 234-256. 16 Cf. J.-L. Marion, L’idole et la distance, Grasset, Paris 1977; e Id., Il visibile e il rivelato, Jaca Book, Milano 1997. 17 P. Florenskij, Le porte regali, Adelphi, Milano 1987, 74. 18 Cf. F. Dal Co, Abitare nel moderno, Laterza, Roma-Bari 1982. 14 15
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L’uomo può ricuperare la memoria, cioè ricuperare se stesso, grazie al vuoto che lo attende. L’uomo che entra in uno spazio sacro percepisce che quello spazio lo stava attendendo già da sempre. In questo essere atteso lui può essere se stesso, perché «attendere è l’infinito di amare». Il vuoto-attesa che sono gli spazi sacri, sono già un segno di amore nel cuore della città. Un luogo dove l’uomo non si vergogna più di se stesso, non si vergogna più di «ricordare». La dimensione «mnemotica» del monumentum ne fa oggi la meta ambita dell’uomo in disperata ricerca di identità. L’uomo accorre allo spazio sacro, in ricerca di se stesso, cioè della propria memoria perduta. Perduta o rubata, dall’assenza del racconto, dalla crisi delle strutture di trasmissione narrativa (famiglia, scuola…). Alle pietre morte che l’uomo va a vedere in un monumento egli chiede il racconto di se stesso. Proprio l’identità liquida ricerca quasi fisicamente quelle pietre solide che le danno una forma, fermandola, arginandola. Il confronto con le pietre della propria storia ridona all’uomo un’identità. Perciò è proprio intorno all’edificio religioso centrale di ogni città che si scatenano i più violenti conflitti di interpretazione. La narrazione relativa allo spazio sacro diventa l’interpretazione dell’intera città. Le pietre ti dicono chi sei. Ma le pietre sono simboli, sempre «da interpretare». Esse «danno a pensare». È naturale che il riduzionismo ideologico cercherà sempre di ridurre la narrazione dello spazio sacro a un livello puramente umano. Ma dire «puramente umano» è dire già «infra-umano». Non è raro notare nelle interpretazioni riduzionistiche dei monumenti religiosi l’esasperazione dei racconti che presentano gli aspetti più turpi relativi al monumento. Il ritrovare invece la profondità teologica dello spazio sacro significa ritrovare la memoria, ritrovare la dimensione teologica dell’intera città e di ogni cittadino. Ma cosa vede Mosè in questo spazio sacro? Vede un roveto. Non è affatto un caso. In tutte le letterature l’albero o il roveto è un’immagine dell’uomo.19 Nello spazio sacro, proprio perché è vuoto, l’uomo si trova di fronte a se stesso. Se stesso oltre il limite del deserto. Se stesso come un altro. In questo roveto ciò che parla a Mosè non è il roveto stesso ma una fiamma. Non è l’uomo che parla all’uomo ma quell’altro dell’uomo che sta nell’uomo. La fiamma è la radicale alterità dentro all’uomo. Essa è un simbolo primordiale e arcaico di divinità. Nel luogo sacro l’uomo scopre se stesso come contenitore del sacro, come luogo sacro. Perciò tutta l’architettura cristiana è un’enorme proiezione tridimensionale del processo spirituale interiore, dell’incontro con Dio. Quest’affermazione deve stare alla base di ogni approccio pastorale e teologico allo spazio sacro. La chiave ermeneutica di ogni arte sacra è l’incontro con Dio, in altre parole: la preghiera. Un’ermeneutica dell’architettura sacra che ignorasse la pre-
19 Cf. G. De Champeaux – S. Sterckx, Introduction au monde des symboles, Zodiaque, Paris 41989.
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ghiera e in particolare la preghiera della comunità, cioè la liturgia, non è un’ermeneutica scientificamente accettabile. La liturgia è quell’orizzonte di senso con cui operare la «fusione degli orizzonti» quando si vuole interpretare con «verità e metodo» l’arte cristiana. Il testo dell’Esodo aggiunge però subito che «quella fiamma non si consuma». Siamo qua di fronte a un ossimoro. La fiamma è l’emblema stesso della legge di natura: essa fornisce luce e calore solo se viene alimentata. È la legge del do ut des. Dire «fiamma che non si consuma» è coniare una sorpresa che è la sorpresa della gratuità. Solo la gratuità «parla». Dio parla all’uomo dall’interno delle sue esperienze di gratui tà. Nel contesto iper-crematistico attuale lo spazio sacro sarà un incontro con la gratuità o non sarà «sacro». Come sottolinea l’urbanista Claudia Manenti, oggi solo lo spazio sacro parla di gratuità nelle nostre città, e proprio per questo rimane ancora punto di riferimento incancellabile e spesso unico «centro» possibile perché il centro non può essere che un mistero. È proprio questo «spettacolo» della gratuità che accende il desiderio di Mosè. La gratuità crea quello sbilanciamento, quella meraviglia che sta alla base della ricerca e che è la ri-attualizzazione della gratuità radicale dell’essere. Le cose «ci sono», «si donano» e proprio questa gratuità, da Aristotele a Otto, desta paura e attrazione, meraviglia. L’esperienza del sacro è l’esperienza primordiale di fronte al creato. Proprio perché questa gratuità è radicalmente «altra», cioè «fuori controllo», Mosè la teme e la vuole com-prendere, controllare. Ma la gratuità è inafferrabile, pone irresistibilmente di fronte al mistero. Perciò molte interpretazioni dello spazio sacro tentano disperatamente di ridurre al massimo la dimensione della gratuità. A livello teoretico ci si sforza di raccontare che le motivazioni di quell’edificio non erano affatto gratuite. E a livello pratico (ad es. pagando un ingresso) ci si sforza di rendere oggi quel luogo non gratuito. Cioè non diverso. Non sacro. Oggi rendere una chiesa «a pagamento» non è solo dare un appiglio alle critiche superficiali sulla «ricchezza della Chiesa», ma è soprattutto togliere la sacralità di quello spazio. Nel racconto dell’Esodo Dio sfugge a questa riduzione «ontoteologica» cambiando il codice comunicativo. Mosè si è avvicinato «per vedere». Dio lo fa avvicinare ma per «parlargli». E rimane così consegnato e al tempo stesso «non utilizzabile». Lo spazio sacro è allora il luogo di un cambiamento nel codice della comunicazione con Dio: dal vedere all’ascoltare.20 Dal voler controllare all’accettare la priorità dell’altro. Solo quando inizia ad ascoltare, Mosè riconosce che c’è «un altro». Si può vedere un morto, un idolo «che ha bocca e non parla». Chi parla invece è vivo. Il passaggio dal vedere all’ascoltare è l’incontro con un Dio vivente. Chi parla prende l’iniziativa. Il passare dal vedere all’ascoltare è l’accettare l’iniziativa di Dio, l’incontro dove accetto di non essere «il
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Interessanti al riguardo le analisi in Cassuto, A Commentary on the Book of Exodus, 32.
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Signore». Ecco allora la finalità dello spazio sacro: riconoscere un altro da me come «il Signore». E la mediazione di questo riconoscimento è la Parola. La prima cosa che Dio dice è il nome stesso di Mosè. Due volte. Lo spazio sacro è il luogo dove ascoltare il proprio nome pronunciato da Dio. Consegnando se stesso in una parola, Dio «pronuncia Mosè». L’uomo è «parola di Dio». Perciò la parola di Dio si è fatta uomo. Mosè si scopre allora come modulazione particolare del fiato di Dio. L’evangelizzazione nello spazio sacro consiste nel permettere agli uomini di riconoscere la propria identità nella voce di Dio. La predicazione, la lectio divina, il servizio della Parola consiste proprio in questo. Uno spazio sacro dove non risuonasse più la Parola non sarebbe più sacro. Quando Dio chiede a Mosè di togliersi i sandali, gli sta dicendo di sentirsi a casa. Ma anche di non aver paura di un contatto diretto, pelle a pelle, fisico. Lo spazio sacro crea così quel miracolo che è l’ossimoro di ogni vero incontro: essere a casa nel contatto con la radicale alterità. E questo ossimoro passa attraverso la fisicità. Le comunità oranti che riescono a far «sentire a casa» non sono quelle che fanno dello spazio sacro un luogo «come gli altri», che ricorderebbe «la casa», ma sono quelle che sanno parlare attraverso la fisicità mantenendo la radicale differenza dello spazio sacro. I canti, i gesti, l’incenso… vanno in questa direzione. Il fallimento dei luoghi di preghiera «funzionali», delle «sale a uso religioso», degli spazi «multi-cultuali», dell’architettura religiosa che si confonde con l’architettura civile, coincide con il venir meno dell’ossimoro. Quando Mosè «tocca» la terra santa, allora Dio rivela il proprio nome. Ma questa prima rivelazione dell’identità di Dio è un nome formato da nomi di uomini: il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Quasi che Dio avesse bisogno dei nomi degli uomini per dire chi è lui. Siamo abituati a commentare questo Nome come emblema della rivelazione biblica, che è una rivelazione nella storia. L’identità di Dio non è una definizione fissa e non è legata a un luogo magico, ma si rivela nella storia degli uomini. L’applicazione di questo «nome» alla Teologia dell’evangelizzazione è interessante. Nello spazio sacro il nome di Dio si dice nei racconti di tanti «uomini di Dio». È il ruolo dei santi nell’evangelizzazione. Il turista che entra in una chiesa non cerca solo delle chiavi estetiche ma dei racconti di vita vera. Basta pensare alla forza di attrazione di figure come sant’Antonio o Padre Pio. Ma basta ricordare che una delle prime forme di edificio sacro cristiano è il martyrium, dove lo spazio è reso sacro dai resti di quel testimone che ha rivelato con la sua vita chi è Dio. Davanti a questo volto rivelato di Dio, Mosè si copre il proprio volto. È certo un convenzionale segno di rispetto, ma che qui esprime tutta la sua valenza antropologica e teologica. Coprirsi il volto significa accettare di non vedere, di non controllare la situazione. Proprio per questo Dio potrà cominciare a parlare. Mosè coprendosi il volto accetta finalmente di ascoltare. Possiamo immaginare questo gesto come un islam, cioè un inchino con la faccia per terra e ricoperta dalla stoffa che Mosè portava
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sul capo, e che adesso cade davanti come una sorta di tenda. Questo gesto è in effetti l’archetipo primordiale della tenda nel deserto, la tenda del santuario, che poi diventerà il tempio. Il santuario è allora quel luogo dove si accetta di non vedere per poter ascoltare. Così come si dice che «si scrive» un’icona, si può dire che «si ascolta» un luogo sacro. Dio invece inizia il suo lungo discorso con il verbo «ho osservato». Solo lui può osservare, può «com-prendere». Ma cosa com-prende, cosa guarda? Lo sguardo di Dio è irresistibilmente attratto dalla «miseria del mio popolo». Ciò che Dio «com-prende» di più, ciò con cui si identifica maggiormente è «la miseria del popolo». Uno spazio sacro dove non si vive questa identificazione fra Dio e il più miserabile non è uno spazio sacro. La storia di Dio è la storia dell’ultimo degli schiavi. Allora l’evangelizzazione nello spazio sacro inizia proprio dallo schiavo. Questa è «la discesa di Dio». Non si tratta di aiutare «i poveri» in modo assistenzialista, ma si tratta di riconoscere nel loro «lamento» la più alta delle preghiere. Parte centrale del discorso di Dio è la promessa: «… verso una terra dove scorrono latte e miele» (Es 3,8). Non c’è spazio sacro se non c’è promessa. I termini con cui viene espressa questa promessa richiamano i primi piaceri dell’uomo: il latte del lattante e la dolcezza del miele. La promessa è promessa se parte dalla ricerca del piacere. Un’evangelizzazione che non parte dall’eros ignora del tutto l’uomo. Ma il latte e il miele richiamano un piacere solipsistico, egocentrico. Il lattante non vuole nessuno accanto a lui a ricevere il latte della madre. Allora il testo dell’Esodo compie un salto prodigioso nell’educazione di questa ricerca di piacere. Il paese dove scorre il latte e il miele è un paese da condividere con il cananeo, l’ittita, l’amorreo ecc., cioè con i nemici giurati d’Israe le. Come a dire che il piacere primordiale è vero piacere se si compie nella condivisione con il nemico. Il piacere di tutti i piaceri, il piacere che il fondo del cuore e della carne cerca è il piacere del perdono, della riconciliazione, della condivisione. Una comunità evangelizza in un luogo sacro se quel luogo sacro è capace di esprimere perdono, riconciliazione, condivisione. Infine lo spazio sacro è il luogo dove si ascolta la propria vocazione: «Va’ dal faraone». Una richiesta impossibile. La vocazione è quell’impossibile che Dio chiede. Eppure corrisponde a quello che Mosè aveva già da sempre desiderato e che non era riuscito a fare da solo: la liberazione del popolo. Adesso l’impossibile diventa possibile perché diventa storia comune di Dio e Mosè. Un luogo diventa sacro quando si inizia a percepire che ha una forte valenza vocazionale. Non c’è evangelizzazione senza approccio vocazionale. Davanti all’impossibile, Mosè pone la domanda fondamentale dell’antropologia: «Chi sono io?» (Es 3,11). La domanda per la quale, in fondo, è arrivato al luogo sacro. La risposta di Dio non è una definizione. È una risposta sconcertante. Dove il soggetto cambia: «Io sarò con te». Il soggetto dell’identità umana è Dio. La definizione dell’uomo è una promessa di fedeltà di Dio. È lo sbilanciamento radicale.
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L’evangelizzazione nello spazio sacro
La chiusura di questo episodio parla di un «segno» che Dio darà a Mosè. Uno potrebbe aspettarsi un segno previo per rendere salda la convinzione di Mosè. Invece leggiamo: «Quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte» (Es 3,12). È un segno a posteriori. Come a volte i segni nella Bibbia.21 Ma questo segno riconduce il lettore al suo presente, all’atto stesso di lettura o di ascolto. Questo testo si rivela allora come una grande catechesi sullo spazio sacro. «Servire Dio» ha qua una valenza evidentemente cultuale e richiama la presenza del tempio.22 Tutto l’episodio del roveto ardente è così di colpo ambientato nel luogo stesso del tempio di Gerusalemme. Da cui i sandali, la «terra santa», il velo che copre gli occhi. L’autore sacro è il primo geniale evangelizzatore in quello spazio sacro per cui è composto questo testo. Siamo di fronte a un potentissimo esempio della tensione creativa che intercorre fra testo e tempio, fra Parola e spazio. Solo la Parola illumina lo spazio. Ma senza lo spazio la Parola non è udibile. Lo spazio è la «condizione di udibilità» della Parola. Lo spazio di un edificio sacro è metafora prima di quello spazio fra locutore e uditore dove passa la Parola. Lo spazio sacro è l’immagine di una Parola che «passa». È il «segno» della passione della Parola.
21 22
Cf. la trattazione particolareggiata in Childs, Il libro dell’Esodo, 63ss. Cf. Alonso Schökel, Salvezza e liberazione, 66s.
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Noi e i ricomincianti alla luce della prassi di Gesù Opportunità e sfide Rinaldo Paganelli
Nella nostra attuale situazione, le persone che, dopo un periodo di allontanamento dalla fede, sono state «rimesse in cammino» da qualche recente avvenimento della loro vita e desiderano riscoprire che cosa significa credere, non hanno ancora una fisionomia ben delineata e si fa fatica a riconoscerle. Si tratta comunque di un fenomeno in evoluzione, che siamo chiamati a seguire. Anche lo stesso termine di ricomincianti è usato ancora in modo piuttosto fluido. Ricorre a volte come titolo generico e poi ritorna in senso più specifico per distinguere queste persone dai «catecumeni» e dai «convertiti». In senso generale si potrebbe parlare di «nuovi venuti alla fede», distinguendo poi le varie tipologie, ma il problema vero non è certo la terminologia, quanto piuttosto la realtà stessa che da questo punto di vista è ancora molto fluttuante.
1. I
ricomincianti presenza da riconoscere
Nella pratica pastorale sono sempre più numerosi gli uomini e le donne maturi che, giunti a una svolta della loro esistenza, dalla paternità-ma ternità alla vecchiaia, dal lutto sperimentato a incontri considerati decisivi, sentono il bisogno di interrogarsi circa il senso della loro vita. Ci si ritrova nell’esperienza descritta da Paolo ad Atene: si dicono religiosi ma non conoscono la vera identità cristiana e soprattutto non vivono in modo coerente tale identità (At 17,16-34). Il problema pastorale è come aiutare a risvegliare la fede in coloro che non hanno mai fatto una vera iniziazione cristiana, ma hanno solo celebrato dei gesti religiosi, senza capirli e senza viverne le conseguenze. Magari dimenticandoli poi per lunghi anni.
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Rinaldo Paganelli
Molte storie appartengono al vissuto delle nostre Chiese locali, ma da sole non sembrerebbero in grado di chiedere modifiche nei comportamenti della pastorale. I ricomincianti, si sa, mostrano radicalismi e sottolineano elementi che i cristiani comuni, limati e formati da una lunga appartenenza, guardano con qualche perplessità se non accondiscendenza.
1.1. Motivi
per ricominciare
Si riprende un cammino perché si fa l’esperienza di una fede che trasforma veramente la propria vita, incontrando anzitutto l’amore di Dio, con il conseguente frutto della pace, custodita con piccoli e precisi mezzi spirituali. Tutto questo rafforza la capacità di stare in un mondo duro, conflittuale e concorrenziale. Gesù Cristo è il solido appoggio per persone che hanno coscienza della propria fragilità. I ricomincianti imitano «la forma di vita, che il Figlio di Dio abbracciò quando venne nel mondo per fare la volontà del Padre e che propose ai discepoli che lo seguivano».1 Dal legame spirituale assumono un’identità più sicura. Sono tratti comuni a quel cattolicesimo in parte tradizionale in parte intrepido e assertivo, che cominciamo a conoscere fin dentro le nostre comunità. I ricomincianti arrivano nelle comunità e cercano semplificazioni, e le nostre comunità sono in difficoltà perché si pensano subito come corpo, non come collettivo composto da singoli. Inoltre, il dispositivo con cui rendono presente Dio è rigorosamente celebrato e definito (dogma e teologia), poco adatto alle esigenze personali. C’è anche il problema di valorizzare gli elementi cristiani sedimentati nella cultura diffusa, l’eredità delle radici cristiane. E a volte questo è percepito come la volontà di riconquistare spazi di potere perduti.
1.2. L’attenzione alle
persone
In questo tempo umano ed ecclesiale è importante fare sperimentazioni piuttosto che offrire grandi sintesi, pensieri o riflessioni. Se si vuole parlare di attenzione ai ricomincianti bisogna fare un primo ascolto, tuttavia se tutte le energie che abbiamo vanno per gestire l’esistente e le strutture è difficile mettersi in ascolto della situazione di oggi, della gente. Non è sufficiente fare analisi, è necessaria una frequentazione delle persone, è importante mettersi accanto, mettersi in ascolto, camminando con loro. In questo mettersi accanto si individuano dei punti di intersezione, dove e come poter dire una parola che non sia calata dall’alto, che non sia prepensata. Per arrivare a dire che Gesù è il Figlio di Dio, in quel modo che noi sappiamo, una persona e due nature, ci sono voluti quattro secoli. I cristiani
1 Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (21.11.1964), Sessione V, n. 44: EV 1/406.
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non hanno iniziato da questo, ma sono partiti dall’incontro con Gesù di Nazaret e per arrivare a questo incontro hanno percorso una storia lunghissima. Ora noi come Chiesa, da un certo momento in poi, abbiamo avuto l’ingenuità o la presunzione che tutto quello che Dio aveva fatto per preparare un popolo, per preparare degli ascoltatori poteva essere scavalcato dando subito il risultato finale di questa storia, di questa crescita e consapevolezza che era maturata nei secoli. Dare il prodotto finale è una grande ingenuità perché non si prende sul serio l’evangelizzando. La realtà dei ricomincianti ha messo in moto qualcosa, ha costretto a pensare. Insieme a questo un altro fattore decisivo è stata la presa di coscienza del processo di scristianizzazione soprattutto dell’Europa. Importante è stata la presa di coscienza progressiva della portata esplosiva del concilio dopo parecchi anni. Imboccate alcun linee conciliari, ci si è resi conto che non si poteva e non si sapeva giustificare più un certo apparato esistente.
1.3. Parlare
di
Dio buono
Crollate alcune equazioni del tipo se ti comporti bene vai in paradiso, se ti comporti male vai all’inferno, è aumentata l’ignoranza e quasi lo smarrimento. Si è arrivati a quello che è il punto decisivo: la separazione tra Dio e felicità. Mentre per alcune generazioni precedenti a noi, Dio e felicità in qualche modo non erano dissociati, nella coscienza della gente che avviciniamo Dio e felicità sono ormai dissociati. Le immagini di Dio che sono mediamente in circolazione tra i credenti sono immagini che non riescono più a cogliere che Dio è interessato e ha a che fare con la nostra felicità. Le diverse indagini mostrano attenzioni diverse verso Dio: si va dal Dio che non c’è, al Dio disinteressato, a quello mercante di favori o anche al Dio imprevedibile. Nella battaglia per la felicità, un Dio secondo queste tipologie di immagini si rivela un partner inaffidabile se non addirittura sconsigliabile. Se non si hanno ben presenti queste immagini di Dio e come esse giochino in ciascuno, si dà ingenuamente per scontato che parlare di Dio è parlare di cose buone perché Dio è buono, e non è possibile aprirsi ai ricomincianti. Di fronte a questa situazione ci sono diverse reazioni, che si possono raggruppare secondo queste tre tipologie: 1) i nostalgici: si accorgono dei cambiamenti in atto, ma sono chiusi al nuovo che occorre inventare e scoprire. A questa categoria appartengono coloro che vivono la cultura del piagnisteo religioso e della nostalgia. È tutta quella gente che vive nelle nostre comunità cristiane e che vede soprattutto il negativo nella storia di oggi, non coglie il presente come il tempo favorevole per l’evangelizzazione; 2) gli illusi: queste persone sono convinte di avere la verità. Guardano alla realtà, vedono il caos che c’è e cercano dei modi per portare la buona novella, il vangelo. Sono illusi perché le difficoltà della gente sono le loro difficoltà;
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3) i consapevoli: sono coloro che accettano la sfida di un cristianesimo che per continuare a essere fedele alla sua ispirazione originaria deve, da una parte, ritornare alle radici della propria fede, e dall’altra, prendere sul serio la constatazione che è necessario un nuovo modo di esprimere la fede.
1.4. La
strada della consapevolezza
Se imbocchiamo la pista della consapevolezza, comprendiamo che oggi la situazione è favorevole per comprendere che cosa è accompagnare chi ricomincia a credere. Prima ancora di capire in che cosa consiste è importante capire chi deve essere accompagnato. Per i ricomincianti non si tratta di riprendere, dopo un tempo di smarrimento, un percorso religioso nel punto in cui lo hanno lasciato. Si tratta piuttosto di andare avanti, di assumere tutta la loro storia con ciò che essa comporta di esperienze. Se intendono ricominciare a credere, è perché nutrono la speranza di comprendere. Intendono capire anzitutto la loro storia, rileggerla, attraversarla nuovamente per riprendere l’iniziativa ed eventualmente riorientarla. Avanzano sui nuovi sentieri della fede con determinazione, serenamente, senza aver nulla da perdere, con l’obiettivo di raggiungere una più grande profondità, verità e qualità della vita. Desiderano sperimentare il vangelo come carico di senso, ma, contemporaneamente, leggero da portare.2 I ricomincianti mostrano che il nostro è un destino di incompiutezza. Ogni vita «impara se stessa» mettendosi alla prova. Facendosi largo nell’imprevisto: ora scoprendo sentieri, ora tracciandone di nuovi. Finché si vive la sensazione di camminare, la strada sarà ben lungi dal potersi ritenere conclusa. E quel che non si è stati capaci di diventare, non per questo si è lasciato alle spalle senza ormai più valore. Ogni desiderio rimane come inestinguibile annuncio di nuove possibilità, e di speranza.3
1.5. Cambiamenti
a livello pastorale
A livello pastorale può cambiare tutto e nulla. Cambia tutto se si prende sul serio che chi ricomincia vuole dare valore alla vita nei suoi vari significati e che questo è l’ambito della bontà di Dio. Cambia tutto perché non puoi più dare per scontato che la persona che fa la catechesi o la coppia che viene per il matrimonio, siccome hanno il battesimo, hanno il fondamento per un cammino di fede. Cambia il nostro modo di porci di fronte agli impegni, alle persone, alle opere. A livello pastorale si può partire da dove si vuole, dalla carità o dalla
A. Fossion, Ricominciare a credere. 20 itinerari di vangelo, EDB, Bologna 2004, 16s. Cf. D. Demetrio, Filosofia del camminare. Esercizi di meditazione mediterranea, R. Cortina, Milano 2005. 2 3
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liturgia, ma sempre dentro l’annuncio del mistero pasquale altrimenti ci si trasforma in assistenti sociali, senza leggere i segni che ci sollecitano.4 Non cambia nulla perché non si tratta di azzerare tutto, ma di procedere in modo ordinato. Tutte le occasioni di incontro che ci vengono offerte sono per metterci a servizio delle persone e non per mantenere le nostre strutture anche pastorali. È importante perciò mettere in moto dei processi, che prendono sul serio il fatto che l’annuncio a chi ricomincia è ciò che dà colore a tutto il resto. In questo tempo è importante far conoscere esperienze, far circolare idee, perché nessuno sa bene come muoversi, si possono solo fare sperimentazioni che insieme valuteremo, verificheremo, correggeremo, preciseremo o cambieremo. Sappiamo che realisticamente una conversione operativa a livello pastorale è possibile solo su tempi lunghi, accettando la logica del piccolo che è anche la logica evangelica.
2. Gesù
educatore alla fede
Avendo accennato alla fede come adesione a Gesù Cristo, vorrei ora sviluppare più approfonditamente ciò che Gesù stesso ci ha insegnato sulla fede. Gesù Cristo, il nostro pedagogo, ha tracciato per noi il modello della vita vera e ha educato l’uomo che vive in lui. Queste parole sono dettate dalla convinzione che c’era in Gesù un’arte nell’incontrare l’altro, nel comunicare con l’altro, nel tessere con l’altro una relazione: l’arte di un educatore alla fede.5 In particolare Cristo consegna ai discepoli la sua pedagogia della fede come condivisione piena della sua causa e del suo destino. Ci avviciniamo a questo tema a partire dalle narrazioni evangeliche, tenendo presente che esse ci attestano: – i segni e gli episodi propri della fase pre-pasquale; – ciò che la comunità cristiana crede di Gesù, ricorda di lui, pensa di lui come Cristo e Signore dopo la Pasqua.
2.1. Come avvicinarci al Gesù educatore Ci accostiamo alla figura di Gesù per cercare di individuare le coordinate portanti, sul piano dello stile, degli obiettivi, della forma dell’educare, delle fonti evangeliche. Parto però dalla necessità di contestualizzare l’opera educativa di Gesù, per evitare letture acritiche, e tenendo presente che i vangeli, così come ci sono consegnati nella redazione canonica, portano con sé due livelli di narrazione e di interpretazione:
4 Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (7.12.1965), Sessione IX, nn. 4.11: EV 1/1324ss.1352ss. 5 Cf. B. Chevalley, La pedágogie de Jésus, Desclée de Brouwer, Paris 1992.
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– le narrazioni che noi abbiamo (i discorsi riportati, i gesti compiuti) sono scritte alla luce della Pasqua, della novità della risurrezione; – essi rimandano a fatti storici, per cui possiamo ricostruire le vicende e in alcuni casi gli stessi ipsissima verba Christi o l’intentio Christi. Così come essi ci sono dati sono riletture e interpretazioni teologiche legate all’autore e ai destinatari dei diversi evangeli. Possiamo così risalire alla vita di Gesù, alla sua coscienza di missione, al rapporto con il Padre, nel contesto storico-culturale-religioso, in riferimento alle attese del suo popolo, e guardare il suo essere educatore, scoperto prima di tutto nello spessore umano della sua vicenda e nella dimensione salvifica di questa storia. Il riferimento a Dio è piuttosto raro nelle sue parole, dischiude alla percezione stilistica, la dimensione dell’altezza, dello spazio ospitale della vita, di cui abbiamo già misurato la larghezza e la profondità. Gesù ha raccontato e annunciato Dio; ha mostrato come Dio regnava su di lui e, regnando, combatteva e vinceva la malattia, il male, la sofferenza, la morte. È per averlo visto vivere in questo modo che Giovanni ha potuto scrivere alla fine del prologo del quarto Vangelo: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18). Gesù ha «evangelizzato» Dio, e ha mostrato l’uomo autentico, chiamato a essere a sua immagine e somiglianza. Con la sua umanità piena e non segnata dal peccato, Gesù è riuscito a raggiungere l’intimo dell’uomo e a generarlo alla fede in un Dio che ama per primo (cf. 1Gv 4,10.19), un Dio il cui amore ci precede sempre, e non dobbiamo meritare, perché è il suo stesso essere: «Dio è amore» (1Gv 4,8.16). Ciò che Gesù chiedeva, o destava in chi incontrava, era nient’altro che la possibilità di credere all’amore. Ecco il fulcro della fede cristiana: credere all’amore attraverso il volto e la voce di questo amore, cioè attraverso Gesù Cristo. Alcuni elementi appaiono importanti anche oggi per chi voglia educare con stile evangelico, altri appaiono legati alla figura di Gesù nella sua assoluta singolarità e nella concretezza della sua storia. Ad esempio agisce come predicatore itinerante, non sono importanti le strutture, tutto il suo messaggio sta sotto l’urgenza della venuta del regno di Dio. E allora ciò che diventa significativo è dato dai segni anche minimi, che Gesù valorizza per dare significato al suo annuncio. Purtroppo noi dimentichiamo questa modalità, e rischiamo di rendere sterili la nostra missione e lo sforzo per comunicare il vangelo. Proprio perché il vangelo è buona notizia, vuole raggiungere l’uomo nel suo cuore e suscitare in lui in primo luogo la fede nella bontà della vita umana, in modo che egli possa intraprendere l’avventura dell’esistenza credendo all’amore. È in questo senso che Gesù insegnava che nulla resiste alla fede, anche quando essa è nella misura di un granello di senape (cf. Mt 17,20; Lc 17,6), «il più piccolo di tutti semi che sono sul terreno» (Mc 4,31); che occorre non dubitare (cf. Mc 11,23; Mt 21,21), perché «tutto è possibile per chi crede» (Mc 9,23); e si diceva addirittura impegnato a pregare affinché la fede di uno dei suoi discepoli non
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venisse meno (cf. Lc 22,32). Ricominciare a credere non è solo andare verso Dio, ma prima di tutto è un andare verso se stessi per divenire se stessi. Significa trovare la libertà della propria vita in modo che si compia.
2.2. Gesù profeta
e maestro
Un altro dato che colpisce guardando alla figura di Gesù, è che la sua missione è apparsa ai suoi contemporanei come l’attività di un profeta. Gesù ha sempre accettato questa indicazione, anzi si è definito in questa prospettiva profeta perseguitato. Il profeta nell’Antico Testamento è un educatore del popolo, parla a nome di Dio per educare il popolo. Allo stesso tempo troviamo attestato più volte che Gesù è chiamato «rabbì» o «rabbunì» (in aramaico). Secondo Gv 13,13 Gesù accetta questa definizione. La fecondità della rete relazionale di Gesù si radica in primo luogo in un tipo di ospitalità assolutamente unico. Di episodio in episodio i racconti evangelici riescono a mostrare la sorprendente distanza del Nazareno nei confronti della propria esistenza. Quando gli capita di parlare di se stesso, lo fa come se stesse parlando di un altro, ad esempio del Figlio «dell’uomo», del seminatore, o ancora del padrone di casa, in tal modo aggiorna continuamente la questione della sua identità e non lascia che venga definita permanentemente. Gesù in qualità di profeta e maestro non incontrava il povero in quanto povero, il peccatore in quanto peccatore, l’emarginato in quanto emarginato, rinchiudendolo dentro un ambito non più modificabile. In Gesù Dio si fa prossimo dell’uomo e l’uomo trova il suo compimento in questa stessa prossimità. Gesù incontrava l’altro in quanto uomo come lui, membro dell’umanità, uguale in dignità a ogni altro uomo. E nell’incontrare e ascoltare un uomo Gesù sapeva coglierlo, come una persona segnata da povertà, da malattia, da peccato. Quando Gesù incontrava l’altro, cercava di creare un clima relazionale, consentiva all’altro di emergere come persona e soggetto, non lo giudicava mai, ma sapeva accogliere il linguaggio di cui l’altro era capace: il linguaggio corporeo della prostituta (cf. Lc 7,37-38.44-47), il linguaggio espresso dalla donna emorroissa con il fugace tocco del suo mantello (cf. Mc 5,25-44; Lc 8,43-48), il linguaggio sconnesso di tanti malati di mente. Più in generale, quando incontrava l’altro colpito da ogni sorta di malattia, Gesù si prendeva cura di tutto l’uomo, fino ad assumere le nostre debolezze e ad addossarsi le nostre malattie (cf. Mt 8,17; citazione di Is 53,4). Lui era veramente un uomo di compassione, capace di sentire-con fino a patire-con, dunque un uomo per il quale ogni relazione era aperta alla comunione.6
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Cf. A. Durand, Dieu choisit le dernier, éditions du Cerf, Paris 2009, 36-40.
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Abbiamo in questo comportamento di Cristo Gesù una duplice sottolineatura di un ministero di parola, che va nella linea dell’annuncio e nella linea dell’insegnamento/ammaestramento – in parole e in opere/segni significativi. Cristo Gesù educa come profeta e come maestro. Nella sua azione di maestro Gesù sapeva incontrare veramente tutti: in primo luogo i poveri, i primi clienti di diritto della buona notizia, del vangelo; poi i ricchi come Zaccheo (cf. Lc 19,1-10) e Giuseppe d’Arimatea (cf. Mc 15,42-43; Gv 19,38); gli stranieri come il centurione (cf. Mt 8,5-13; Lc 7,1-10) e la donna siro-fenicia (cf. Mc 7,24-30; Mt 15,21-28); gli uomini giusti come Natanaele (cf. Gv 1,45-51) o i peccatori pubblici e le prostitute presso i quali alloggiava e con i quali condivideva la tavola (cf. Mc 2,15-17 e paralleli; Mt 21,31; Lc 7,34.36-50; 15,1).7 Lungi dall’essere un’astuzia o uno stratagemma, questo atteggiamen to è l’espressione della sua singolare capacità di imparare da chiunque, così come da ogni nuova situazione che gli si presenti. Tutto ciò era possibile perché Gesù non nutriva prevenzioni, sapeva creare uno spazio di fiducia e di libertà in cui l’altro potesse entrare senza provare paura e senza sentirsi giudicato. Sulle strade, lungo le spiagge, nelle case, nelle sinagoghe, Gesù creava uno spazio accogliente tra se stesso e l’altro che veniva a lui o che lui andava a cercare; si metteva sempre innanzitutto in ascolto dell’altro, sforzandosi di percepire cosa gli stava a cuore, qual era il suo bisogno. Queste indicazioni ci dicono che Gesù è un rabbì anomalo, diverso dagli altri. Incontra le persone: – in luoghi diversi: casa, strada, piazza, tempio; – sotto il segno della novità: è il profeta escatologico, non un profeta qualsiasi, è per i tempi definitivi; – sotto il segno dell’elezione: è lui che sceglie i suoi discepoli e non viceversa, come avveniva normalmente per gli altri. Da ciò ricaviamo alcune conseguenze. Il discepolo rimane discepolo dell’unico maestro, non come avveniva nel giudaismo rabbinico per cui a un certo punto c’è il distacco dal maestro. Non si diventa discepoli di Gesù per apprendere una dottrina, per una motivazione morale, una tradizione religiosa, ma per vivere la vita e il rapporto con Dio in comunione con la persona di Gesù. Infine vale sottolineare che al centro c’è Gesù, in questo il processo educativo è unico. In tal senso ogni accompagnatore è chiamato a spingere «oltre sé» lo sguardo di chi incontra. Gesù pone nella relazione il nodo della centralità della sua mediazione in rapporto alla venuta del Regno.
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Cf. J. Rigal, Horizons nouveaux pour l’église, éditions du Cerf, Paris 1999, 179ss.
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2.3. La fede sollecitata Educare alla fede è lo specifico educativo. Gesù non è venuto a fondare una nuova religione, ma a mostrarci la vita. I processi educativi da lui attuati tendono a mostrare questo dato, tendono a una formazione integrale della persona, «raccolta», «riunita» e «portata a compimento» a partire dalla relazione con Dio che abita e qualifica l’intersoggettività della persona. Nel rispondere a chi incontrava, Gesù cercava la fede già presente, come se volesse risvegliare e far emergere la sua fede. Egli sapeva infatti che la fede è un atto personale, che ciascuno deve compiere in libertà: nessuno può credere al posto di un altro. Sapeva che a volte negli uomini c’è l’assenza di fede, atteggiamento che lo stupiva e lo rendeva impotente a operare in loro favore (cf. Mc 6,6). Era anche consapevole che ci può essere una fede non affidabile nel suo nome, suscitata dal suo compiere segni, miracoli, come annota il quarto Vangelo: «Molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro» (Gv 2,23-24), perché l’uomo diventa rapidamente religioso, ma è lento a credere.8 Assumendosi la responsabilità di educare, Gesù intendeva offrire un modello imitabile; sapeva bene che l’obiettivo di un’educazione riuscita è la maturazione di un’altra persona, non l’opportunità di «riprodursi» in un altro essere umano. Il suo splendore non abbaglia, ma si fa discreto, al punto da ritirarsi a vantaggio di chiunque, e suscita e rivela in ognuno l’elementare senso di vita chiamato fede, di cui non si appropria mai l’origine. La santità vi si comunica abbondantemente grazie alle possibilità ultime che Gesù coglie negli altri e che gli altri scoprono in lui. La sua capacità di apprendimento non cessa così di fare scuola. Gesù annuncia non un Dio lontano, ma il Dio della vita, il Dio dell’al-di-qua, del Regno che viene e della presenza amorevole. Annuncia un Dio che vuole avere qualcosa a che fare con l’uomo peccatore, non perché pentito o convertito. È attento a cogliere i segni autentici, e quando la fede autentica era presente poteva dire: «La tua fede ti ha salvato». Si noti che Gesù non ha mai detto: «Io ti ho salvato», bensì: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 5,34; 10,52; Lc 7,50; 17,19; 18,42); «Va’, avvenga per te come hai creduto» (Mt 8,13); «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri» (Mt 15,28). Gesù rendeva possibile la fede, faceva emergere la fede già presente nell’altro: attraverso la sua presenza di uomo affidabile e ospitale. Non dice di essere lui a guarire e a salvare, ma la fede di chi a lui si rivolge. Lui si rende disponibile all’imitazione, perché senza mostrare concretamente una strada reale, nessun percorso può essere persuasivamente indicato come possibile.
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Cf. C. Théobald, Il cristianesimo come stile, 2 voll., EDB, Bologna 2009, I, 59-60.
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Il centro della missione educativa, di ogni discorso e di ogni atto educativo di Gesù, è il regno di Dio. Con esso si vuole realizzare un’umanità rinnovata nella comunione con Dio e nell’unità tra le persone. Egli volge lo sguardo sulla meta. Non educa attraverso norme e principi astratti, ma facendo concentrare lo sguardo sull’essenziale che è il regno di Dio. Gesù, nell’annuncio, non faceva riferimento a se stesso, ma nell’opera di evangelizzazione appariva sempre decentrato rispetto a Dio, al Padre che, con fiducia assoluta, chiamava: «Abbà! Padre!» (Mc 14,36). Egli è l’evento per cui Dio ha potuto parlare in un uomo senza alcun ostacolo. Con l’intera sua vita, fatta di azioni e di parole, Gesù cercava di raccontare Dio, di rendere il Dio dei padri una buona notizia, distruggendo tutte le immagini perverse di Dio elaborate dagli uomini. Parlava di Dio soprattutto nelle parabole, narrando vicende umane, mostrando come il regno di Dio sia buona notizia per uomini e donne, buona notizia nelle loro storie quotidiane, reali. Attraverso la sua vita umanissima, da vero uomo, l’autentico adam voluto da Dio (cf. Col 1,15-16).9 Attenzione che ogni accompagnatore non può dimenticare.
2.4. La pedagogia differenziata Gli interlocutori di Gesù sono adulti, soggetti di libere scelte. Li incontra per gruppi o tipologie: la folla, i discepoli, i Dodici e «i tre/quattro». Le prime tre cerchie hanno confini non così netti, ma fluidi: si generano pertanto gruppi aperti in particolare in riferimento a poveri, peccatori, uomini e donne in condizioni di povertà, ed esclusi secondo la legge. Gesù si accosta in modo intelligente, meditato ai diversi destinatari, considera il punto di partenza di ognuno, per offrire un’azione differenziata. Con i Dodici, il gruppo a lui più vicino, l’insegnamento è specifico. Con «i tre/quattro», Pietro, Giacomo, Giovanni, più Andrea, affronta i temi legati alla risurrezione dai morti, compie gesti che rivelano l’identità messianica di messia sconfitto che il Padre risusciterà. Nel parlare alla folla prevale un modello comunicativo unidirezionale, la proposta è aperta e vasta; l’appello è sempre alla coscienza del singolo, ma in una dinamica comunicativa che va dal Maestro verso chi ascolta. Quando si guarda invece al gruppo più ristretto dei Dodici o al piccolo gruppo, intorno a lui la dinamica comunicativa è volutamente pluridirezionale, sostenuta dal gioco di domande e risposte. Gesù non consegna mai a chi incontra una verità astratta, ma instaura una relazione umana, nella quale il momento concreto dell’incontro è un kairos (cf. 2Cor 6,2). Il suo è un comunicare «in situazione» e apre un dialogo. La proposta è sempre preceduta da un cammino di abbassamento, di condiscendenza, per andare a trovare l’altro là dove questi si trova. Gesù si fa viandante assetato al pozzo di Sicar, dove incontra
9 Cf. Benedetto XVI, lettera enciclica Deus caritas est (25.12.2005), n. 1: AAS 98(2006)3, 217s.
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la donna samaritana (cf. Gv 4,5-30); diventa pellegrino sulla strada di Emmaus, dove incontra i due pellegrini (cf. Lc 24,13-35); è frequentatore della tavola dei pubblicani e dei peccatori, per incontrarli e poter annunciare loro la buona notizia (cf. Mc 2,16; Lc 7,34). La modalità vera di Gesù non è altro che questa finezza sapienziale che nasce dentro la sua aperta ospitalità, e che nel medesimo tempo la genera. C’è la capacità di vedere e di ascoltare, in ciò che è visto e udito, l’invisibile e l’inaudibile concordanza di chiunque con se stesso. Si diceva che Gesù educa con un ricorso costante alle domande. Ci sono passaggi evangelici in cui tutto è dato da un intreccio di domande, da un fare emergere le domande sottese e chiuse nel cuore. Le domande sono collocate nei punti chiave dei vangeli. Mettendosi in dialogo con l’interlocutore, Cristo Gesù suscita come primo effetto dell’incontro con lui, l’interrogarsi su cosa cerca, cosa vuole, e che cosa brucia nel cuore. Basta ricordare alcune domande che rivolge a quanti incontra: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38); «Donna, chi cerchi?» (Gv 20,15); «Che cosa sono questi discorsi che state facendo?» (Lc 24,17). A partire da domande come queste, nel dialogo avviene un vero incontro, un’esperienza condivisa, un parlare e un rispondersi reciprocamente. Questo tratto dell’educazione alla fede praticata da Gesù sollecita a prendere coscienza della vita come «vocazione». Comprendere la propria vita come vocazione è trovare in qualcun Altro la fonte del proprio compimento. È la consapevolezza che ciò che noi siamo ci è donato, che siamo preceduti, e su questo si fonda la possibilità di essere liberi e fedeli. Questa convinzione strappa la vita sia dal destino, come determinazione da cui non è possibile sfuggire, sia dal senso del doversi costruire esclusivamente a partire da sé. Il credente e chi ricomincia a credere si sente «chiamato».
2.5. La proposta concreta Il profilo di Gesù è definito anche da spazi nuovi che si aprono a partire da certi gesti, capaci di raggiungere l’altro nella sua esistenza carnale (la vista e l’udito), è al tempo stesso abitato dalle sue parole che hanno una portata più universale perché si rivolgono non solo a questo o a quel gruppo, ma alla folla. La decisione di chiunque di entrare e di trovarsi effettivamente nello spazio ospitale di Gesù occupa questa soglia assolutamente decisiva. È una nuova maniera di situarsi nel mondo. Richiamandoci al tema delle dinamiche possiamo mettere in evidenza che Gesù fa una proposta diretta con uno sguardo sulla realtà, e un annuncio esplicito di un nuovo mai udito. Nella proposta c’è l’immedesimazione, soprattutto nel ricorso alle parabole che sono sempre aperte, perché la persona possa essere coinvolta veramente. Davanti ai dubbi e alle resistenze dei soggetti Gesù adotta una tecnica che non comporta l’affrontarli direttamente, ma li invita su un terreno a prima vista neutrale, per poi coinvolgerli nella valutazione della realtà. Incontrando Gesù, tutti percepivano che non c’era frattura tra le sue parole, i suoi gesti, i suoi sentimenti e il suo comportamento. Ed è proprio da questa integrità che nasceva la sua autorevolezza, che spingeva gli
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uomini a esclamare con stupore: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità!» (Mc 1,27); e a constatare che egli non insegnava come gli scribi (cf. Mc 1,22), come chi lo fa per mestiere, come chi ha solo una competenza tecnica. Se avveniva una persuasione di uomini e donne in ascolto di Gesù, questa era soprattutto causata dalla testimonianza, non da una somma di parole. In tal modo sa correggere, indicando l’atteggiamento da tenere e proponendo motivazioni e insegnamenti in positivo, aprendo al futuro. Favorisce l’esplicitazione delle implicazioni per cogliere cosa comportano le scelte. Chiede la rottura vissuta e sofferta ai suoi discepoli, perché non c’è educazione secondo il buon senso, la tradizione. Il giusto mezzo non è cristiano e non rientra nello stile di Gesù.
2.6. La via
per accompagnare
Per indicare quale via di accompagnamento diventa necessaria, Gesù aiuta a distinguere «potere» da «autorità». Il potere può essere preso anche con la forza. L’autorità mai. Perché l’autorità è sempre ricevuta da un altro. Gesù non aveva, nella società del suo tempo, nessun potere istituzionale, ma godeva di una grande autorità. E questa autorità, sentita come pericolosa dai poteri del suo tempo, gli era conferita da coloro che lo ascoltavano. La sua parola senza potere, originava autorità, «erano stupiti del suo insegnamento…» (Mc 1,22). Il termine autorità viene dal latino augere, che significa aumentare, far crescere. Tale era l’autorità di Gesù, la sua parola era riconosciuta dai suoi interlocutori come una forza di maturazione, capace di far crescere ogni uomo e ogni donna nella libertà. Nel suo agire autorizza e permette all’altro di essere autore e attore della sua esistenza.10 In tal modo permetteva alle persone di crescere nella fedeltà. Pensando a chi accompagna i ricomincianti possiamo dire che è chiamato a suscitare la fedeltà verso l’apertura, cioè la ripresa continua della propria decisione, reinterpretandola attraverso l’integrazione degli avvenimenti della vita. La «rigida perseveranza» diventa la morte della fedeltà. Qui si colloca dunque un concetto di fedeltà aperta e di fede in cammino, in cambiamento. I termini fedeltà e cambiamento non solo non si oppongono, ma si richiamano. Allo stesso tempo la fedeltà chiede una sequela radicale, senza condizioni, chiede la rinuncia alla ricchezza, ai legami parentali per la definizione di sé. L’accompagnatore con la sua stessa presenza mostra che è il tempo delle decisioni, insegna e chiede di decodificare i tempi, interpretare l’oggi. Rivolge sempre un appello alla libertà – il vangelo è proposto così: «Se vuoi…» – e a divenire liberi. I confini e gli spazi dell’educazione sono i confini e gli spazi della «libertà come liberazione».
10
Fossion, Ricominciare a credere. 20 itinerari di vangelo, 89.
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La credibilità di Gesù nasceva principalmente dal suo avere convinzioni, e dalla sua coerenza tra ciò che pensava e diceva e ciò che viveva e operava. Non erano solo le sue parole che, raggiungendo l’altro, riuscivano a vincere le sue resistenze a credere; non era un metodo o una strategia pastorale a suscitare la fede: era la sua umanità contrassegnata da una pienezza di grazia e di verità (cf. Gv 1,14).11 Grazia e verità che dicevano l’autenticità e la coerenza di Gesù, non lasciando alcuno spazio tra le sue convinzioni e ciò che egli diceva e viveva. Per comprenderlo più in profondità, potremmo dire che in Cristo Gesù è Dio stesso che ama gli uomini al punto da farsi uno di loro. In lui vi è anche l’uomo che rende grazie a Dio e trova davanti a lui la sua dignità di figlio, Dio si fa prossimo dell’uomo e l’uomo trova il suo compimento in questa prossimità. È così che Cristo Gesù è per chi ricomincia vero Dio e vero uomo, mediatore di un’alleanza nuova tra Dio e l’umanità. È anche mediatore degli uomini tra loro: è nell’amore dell’altro che Dio è onorato.
3. Conseguenze
operative
Da tutto questo ricaviamo alcune conseguenze operative, o sfide per un’azione efficace con i ricomincianti. Sintetizzando possiamo dire che Cristo Gesù: – sviluppa un’attenzione al superamento dei condizionamenti; denuncia i limiti e il peccato che rendono schiavi gli uomini, stigmatizza l’ipocrisia e il fare per essere riconosciuti; lavora per decostruire i quadri interpretativi delle persone che incontra; fa l’annuncio di un Altro e di un oltre non pensato o non sperimentato; – richiama sempre alle motivazioni interiori più profonde, verifica se si è disposti a compiere quelle opere buone nel segreto, dove Dio solo vede ed è presente; – spinge all’assunzione di responsabilità in prima persona, senza alibi; – suggerisce un timido «se vuoi…», che implica la sfida a prendere coscienza delle possibilità presenti nella vita; lascia aperta la possibilità di definirsi come altro rispetto alla proposta di Gesù; – educa attraverso un appello alla promessa e uno sguardo alla speranza; non è mai solo il presente in gioco, ma il futuro, il compimento del regno di Dio; – promuove il processo educativo, specie nel caso dei discepoli, con un radicale coinvolgimento nella sua vita e nel suo cammino verso Gerusalemme. Attraverso gli incontri e le scelte li educa a comprenderne identità, missione e stile.
11
Cf. C. Théobald, Trasmettere un Vangelo di libertà, EDB, Bologna 2010, 15-26.
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3.1. Lo specifico di Gesù Ci sono testi in cui la redazione post-pasquale è evidente. Su tutti ricordiamo i dialoghi nel quarto Vangelo. Nicodemo, la samaritana, il cieco nato mostrano un rapporto diretto e immediato con Gesù, che prende in considerazione il punto di partenza e il punto di vista dell’interlocutore per «guidarlo/trarlo fuori» dalla condizione in cui si trova. In particolare: – evidenzia la progressività nel percorso formativo (titoli cristologici, domande); – chiede di ragionare, di avere un’intelligenza su ciò che si sta vivendo; – mostra l’universalità del messaggio e della proposta educativa; – sottolinea l’importanza del confronto con la Scrittura. In sostanza, per chi ricomincia, si ribadisce il coinvolgimento radicale. Nell’episodio della chiamata dei primi due discepoli, «venite e vedete», risulta necessaria un’esperienza diretta per essere educati. Non si ha a che fare con un apprendimento di nozioni, ma con una condivisione di vita. Nei sinottici troviamo l’educare, come «condurre fuori» e «condurre oltre». I due aspetti sono ben collegati: – Luca 24 è modello di accompagnamento che Gesù stesso mette in gioco per far prendere coscienza del livello di comprensione e di adesione di fede, per poi offrire nel confronto con la Scrittura una risposta alle domande; – nello stesso testo ci insegna anche ad accettare il limite presente in ogni processo educativo, sempre esposto alla riuscita parziale o al fallimento. Nella proposta di Cristo Gesù è evidente il rapporto tra educazione e modello antropologico sotteso al compito assunto. C’è una strategia educativa per rimettere al centro l’umano, tale antropologia ha la sua radice nel Dio creatore e nel Dio che porterà a compimento la storia umana: «Ma io vi dico…». Cristo Gesù evidenzia la centralità della mediazione cristologica: egli è a un tempo «educatore» e «mediatore» della salvezza e della relazione con Dio. Ha un’evidente autorità e non è solo un modello da imitare. Con lui il cristianesimo non è solo educazione, o messaggio da ritenere, ma esperienza di vita nuova da vivere, ridefinizione di sé in nuovi legami e con nuovi equilibri.
3.2. Corollari
per gli educatori
Il percorso fatto ci aiuta a tener fissi alcuni elementi nei processi educativi con quelli che ricominciano a credere. In particolare è importante: – coniugare la referenza originaria di ogni intervento educativo incentrato sull’essenziale del regno di Dio, con i vissuti individuali e comunitari leggendoli come passi verso il Regno; – avere viva la ricerca della dignità e della significatività dell’umano; – formare l’essere prima di proporre ogni norma;
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– sentire e riconoscere ogni opera educativa nella relazione con la venuta del regno di Dio, regno di piena umanizzazione, di relazioni ricostituite e vissute nell’amore. A noi educatori Cristo Gesù mostra nei fatti, e con il suo stile unico, cosa voglia dire rendere l’uomo autore del proprio bene, in rapporto al Regno e in rapporto alla società.
3.3. Elementi da ritenere Per rendere attive queste possibilità, la Chiesa è chiamata a non scivolare nella gestione, comune al sistema sociale condiviso, ma a tener vivo il fondamento del riferimento a Dio. La relazione non nasce dal patto ma dal sacramento, non per una legge ma per la relazione con Dio. Per questo è importante porre ogni credente nella condizione di fare l’esperienza della prossimità di Cristo Gesù. Mostrando come la dinamica della confidenza personale con Gesù non si limita al singolo o a una celebrazione calorosa fra pari, ma dà spazio a un impegno a vantaggio di tutti. Alla Chiesa spetta di mostrare come questa dinamica di confidenza non è destinata a restare confinata nel cuore dei credenti e nell’evento eccezionale di una calda celebrazione, ma che essa dà luogo a impegni del tutto profani. La Chiesa ha il dovere di offrire ai fedeli le molte vie e possibilità di giungere all’esperienza di Dio in Gesù, riscoprendo la pluralità delle grandi tradizioni spirituali, portatrici ciascuna di punti d’attenzione specifici. Occorre inoltre chiedere alle singole comunità che esse diventino luoghi propizi per un’autentica esperienza spirituale. Questo suppone qualità nei rapporti personali e la rimozione delle forme tradizionali del clericalismo. La possibile comunione dei diversi e non degli uguali costituisce un’eredità preziosa della Chiesa, suggestiva anche per i ricomincianti e gli itineranti, e costituisce un segnale forte per tutti i nostri contemporanei.
Conclusioni Mentre ci domandiamo cosa si sta spegnendo e cosa sta nascendo nelle nostre comunità, dobbiamo liberarci dall’annuncio di un declino irreversibile, dalla paura della scomparsa, dall’erosione inevitabile delle nostre comunità. Non dobbiamo essere prigionieri dei numeri, né delle statistiche. La minorità del cattolicesimo è evidente, le prospettive future sono molto sobrie. Ma questo non significa il venir meno del compito della speranza e della testimonianza cristiana. È più urgente avere la percezione del rinnovamento già in atto. La società attuale è un luogo favorevole al vangelo e non la sua tomba. Dobbiamo superare gli ostacoli che ci impediscono di vedere il nuovo che nasce. Abbandonare la percezione esclusivamente funzionale della vita delle nostre comunità, il numero di preti da attendere, la presenza dei religiosi da difendere, i
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servizi finora erogati da proseguire. Cominciare a guardare a quanti si fanno carico di funzioni essenziali come la preparazione ai sacramenti, l’introduzione al matrimonio, le molte iniziative di solidarietà, l’assunzione di responsabilità sociali e politiche. Rinunciare al facile modello di una Chiesa erede dell’intransigentismo, quella del monolitismo ecclesiale. È importante valorizzare il percorso delle persone e le loro domande di vita, e affrontare con coraggio la cultura contemporanea. Non confondere la spiritualità come la fuga dall’intelligenza o la riduzione della fede a semplice patrimonio culturale del passato. Ogni cammino di vita, spirituale o soltanto intellettuale, conta nel momento in cui se ne fa materiale esperienza senza mai cessare, però, di guardarsi indietro gioendo di ciò che si è imparato strada facendo.
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La questione antropologica come luogo della verità teologica in un contesto plurale
Paolo Boschini
1. Premessa
storico - metodologica
Sulla scia del concilio, l’insegnamento autorevole di Paolo VI e di Giovanni Paolo II è stato il principale motore – mai l’unico – di una teologia ecclesiale dell’evangelizzazione, proprio perché si è sforzato di recepire e di trasmettere a tutte le Chiese i fermenti teologici che provenivano dalle Chiese locali impegnate in prima linea nel rinnovamento dell’annuncio del vangelo. Tuttavia si deve riconoscere che questo sforzo del magistero papale, profuso nell’arco di oltre trent’anni, non è stato omogeneo, né esente da tensioni e ambiguità.
1.1. La centralità della questione antropologica nel magistero post - conciliare
Sin dalle rispettive prime encicliche – Ecclesiam suam (1964)1 e Redemptor hominis (1979)2 – Paolo VI e Giovanni Paolo II sono stati unanimi nell’indicare la centralità della questione antropologica come uno dei principali elementi di novità del Vaticano II. L’uomo «è la prima e fondamentale via della Chiesa» (RH 14), la quale a sua volta nella massima assise mondiale si presenta come «esperta in umanità».3
Paolo VI, lettera enciclica Ecclesiam suam [ES] (6.8.1964): EV 2/163-210. Giovanni Paolo II, lettera enciclica Redemptor hominis [RH] (4.3.1979): EV 6/1167-1268. 3 Paolo VI, discorso Au moment all’Assemblea delle Nazioni Unite [d’ora in poi Discorso all’ONU] (4.10.1965), n. 1: EV 1/375*. 1 2
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Quale impatto ha avuto e quali conseguenze ha prodotto nel magistero cattolico recente questo antropocentrismo cristiano nella comprensione della questione della verità? Come è stata intesa nel magistero dei due papi del post-concilio l’affermazione secondo cui «la verità non s’impone che in forza della verità stessa, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore»?4 Volta a volta, anche per motivi legati alla contingenza storica, la «forza della verità» è stata intesa in senso dialogico: il vangelo è capace di creare consenso intorno ai valori fondamentali dell’uomo. Oppure, è stata proposta in senso metafisico: senza il riconoscimento dell’origine trascendente della verità e della sua identità con Dio, non è possibile né un conoscere né un agire rispettosi dell’essere umano in quanto tale. Ancora, la verità obbliga gli orizzonti conoscitivi ed etici a intrecciarsi e a fondersi nel vicendevole riconoscimento, illuminando così da molti punti di vista le tante sfaccettature dell’umano. Non siamo in presenza di una disomogeneità selvaggia e casuale. Le tensioni sono innegabili, ma altrettanto evidente è lo sforzo di trovare una linea di sintesi.
1.2. Un’analisi per modelli: 1967-1998 Di fronte a questa disomogeneità su una questione teologica importante, come quella della verità teologica nei processi legati all’evangelizzazione, ho impostato un’analisi per modelli. La loro costruzione vuole dare conto delle principali tendenze che il magistero papale ha manifestato dopo il concilio nei confronti del mondo occidentale secolarizzato. Ho identificato tre modelli fondamentali: dialogico, metafisico, ermeneutico. Ciascuno di essi è stato ulteriormente suddiviso in due paradigmi, in modo da evidenziare variazioni e fluidità, pur in una sostanziale unitarietà di impianto epistemologico. È chiaro che nessuno dei modelli qui proposti si potrà ritrovare allo stato puro nei documenti in questione. Si tratta di ideal-tipi che esistono solo nella mia testa, anche se ritengo siano indicazioni di ricerca dotate di una loro coerenza interna e perciò utili per una comprensione meno grossolana e superficiale della ricchezza epistemologica, non solo dottrinale, del magistero post-conciliare. Questa pluralità del magistero recente sulla questione della verità non deve spaventare: è un fatto normale, se si considera che nell’ultimo mezzo secolo la scrittura di ogni documento ecclesiale ufficiale è il frutto di una molteplicità di autori e di redattori. Si tratta poi di un magistero dilatato nell’arco temporale di circa quarant’anni e, non di rado, legato a problematiche contingenti. Che l’idea di una verità cattolica monolitica sia una caricatura storica è proprio ciò che nelle pagine seguenti si vuole ancora una volta illustrare.
4 Concilio ecumenico Vaticano II, dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae (7.12.1965), Sessione IX, n. 1: EV 1/1044.
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Occorre poi spiegare il motivo della delimitazione temporale di questo studio, che abbraccia un trentennio, in pratica l’insegnamento autorevole dei successori di Pietro nel post-concilio: da Populorum progressio (1967)5 a Fides et ratio (1998).6 Non perché prima e dopo quelle date il magistero papale non abbia prodotto testi rilevanti per il nostro tema: basterebbe la lettura di Mater et magistra (1961), Pacem in terris (1963),7 Ecclesiam suam (1964) o delle più recenti Deus caritas est (2005) e Caritas in veritate (2009), per smentire questa affermazione. Il motivo è di carattere prudenziale. Come termine a quo ho scelto la chiusura del concilio Vaticano II, nella convinzione che esso comporti nel magistero cattolico una svolta radicale nella comprensione della verità cristiana e della sua comunicazione: ovviamente, una svolta i cui segni erano già presenti nel magistero papale durante il concilio. Come termine ad quem mi fermo a FR, l’ultima enciclica papale del XX secolo. Quindici anni sono una distanza storica appena sufficiente, per evitare che l’analisi possa essere inquinata da impliciti pregiudizi dell’interprete, o scivolare nella cronaca teologica.8
2. Il
modello dialogico : il profilo antropologico della verità
La Chiesa cerca la verità in dialogo con la condizione umana contemporanea,9 al fine di «rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il vangelo all’umanità del XX secolo» (EN 2). In questo modello la questione della verità prende l’avvio non da affermazioni dogmatiche, ma da «brucianti domande», che toccano l’essere stesso della Chiesa: esse nascono da un’analisi – disincantata nei contenuti e appassionata nei modi – della situazione in cui versano il cristianesimo e la Chiesa nel mondo odierno. «Che ne è oggi di questa energia nascosta della buona novella, capace di colpire profondamente la coscienza dell’uomo?» (EN 4). Non si comincia dall’uomo genericamente preso, che è un’essenza astratta, ma da quel particolare tipo di umanità che è il
Paolo VI, lettera enciclica Populorum progressio [PP] (26.3.1967): EV 2/1046-1132. Giovanni Paolo II, lettera enciclica Fides et ratio [FR] (14.9.1998): AAS 91(1999)1, 5-88. 7 Giovanni XXIII, lettera enciclica Pacem in terris [PT] (11.4.1963): EV 2/1-60. 8 C’è un ulteriore problema ermeneutico relativo al magistero di Benedetto XVI, che consiste nell’oggettiva difficoltà di distinguere il pensiero del prof. Joseph Ratzinger da quello del papa teologo. L’intenzione di un testo scritto da un teologo in quanto teologo non è più la stessa: quei pensieri transitano nelle pagine scritte dallo stesso teologo divenuto vescovo di Roma (P. Boschini, «La stoffa ermeneutica del Gesù di Nazaret di J. Ratzinger», in M. Tagliaferri [a cura di], Il Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger. Un confronto, Cittadella, Assisi 2011, 155-161). 9 Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi [EN] (8.12.1975): EV 5/1588-1716, qui 1588 (n. 1). 5 6
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cristiano, considerato nella sua relazione storica con i propri contemporanei. La verità da conoscere e da diffondere sta in questa relazione vangelo-Chiesa-mondo: «Fino a quale punto e come questa forza evangelica è in grado di trasformare veramente l’uomo di questo secolo? Quali metodi bisogna seguire nel proclamare il vangelo affinché la sua potenza possa raggiungere i suoi effetti?» (EN 4). La risposta si può trovare solo ripristinando il legame, fatto di dialogo e di impregnazione reciproca, tra il vangelo e le culture; legame che si è rotto drammaticamente nella modernità secolarizzata (EN 20). La verità sta nel dialogo e nello sforzo incessante del suo ripristino. La verità non è un deposito di informazioni e dati, ma un evento di relazioni reciproche che arricchiscono la conoscenza del fenomeno umano. Questo modello si caratterizza per essere essenzialmente antropologico: la verità non è solo una conoscenza sull’uomo, ma è anzitutto un processo dell’uomo. Nel magistero post-conciliare questo paradigma si diversifica: c’è una concezione dialogica della verità; ma ci sono due modi di declinarla teologicamente e, conseguentemente, di attuarla nella prassi storica della Chiesa.
2.1. L’antropologia relazionale: il profilo creaturale della verità
La verità è la dimensione creaturale che meglio esprime la struttura relazionale dell’uomo. Quest’idea s’incontra frequentemente nel magistero di Paolo VI, tanto da costituire il modello di verità in lui predominante (ES 60-121). Ma è ampiamente presente anche in luoghi significativi dell’insegnamento di Giovanni Paolo II. Esso è caratterizzato dalla convinzione filosofica e teologica secondo cui «non si può dissociare il piano della creazione da quello della redenzione». La verità del vangelo si dà nei «legami profondi tra evangelizzazione e promozione umana – sviluppo e liberazione». La verità è la condizione concreta dell’uomo e come tale non può essere dissociata dall’«ingiustizia da combattere» e dalla «giustizia da restaurare» (EN 31). In forza della sua concretezza antropologica, la verità cristiana – come ogni altra verità – non è particolarista, ma ha di mira l’«uomo intero, in ogni sua dimensione, compresa la sua apertura verso l’“assoluto”, anche l’Assoluto che è Dio» (EN 33). La verità è teologica e antropologica al tempo stesso: si manifesta nel dinamismo dello spirito umano, che dal quotidiano della sua condizione materiale si apre all’aspirazione incondizionata di un mondo nuovo. La condizione che rende possibile questa congiunzione è il desiderio umano di Dio, ovvero il desiderio naturale di unione intellettuale tra la creatura e il Creatore. L’uomo è il luogo della verità, il «dove» essa prende forma storica e si comunica. Perciò senza un’antropologia che principia da questa concezione relazionale della verità non è possibile ripristinare il legame tra vangelo e culture, dunque non è possibile inculturare la fede cristiana ai fini della sua comunicazione.
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Questa antropologia è più che una dottrina filosofico-teologica: è un «umanesimo», che Paolo VI definisce «plenario». Esso consiste nello «sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini» (PP 42). Ciò significa che la vicenda umana non è casuale, ma risponde a un progetto. La verità dell’uomo e sull’uomo consiste nel consentire e accompagnare lo «svolgimento» delle sue capacità. Prima che essere il nome della pace, «sviluppo» è il nome dell’uomo, inteso come essere dotato di «un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare». Le più importanti sono «intelligenza e libertà» (PP 15). Perciò la verità dell’uomo è la sua capacità di autocostruirsi esercitando la responsabilità verso sé e gli altri. «Col solo sforzo della sua intelligenza e della sua volontà, ogni uomo può crescere in umanità, valere di più, essere di più» (PP 15). Alla voce di Paolo VI farà eco, quasi venticinque anni più tardi, quella di Giovanni Paolo II, che in Centesimus annus (1991)10 ripete che «la principale risorsa dell’uomo insieme con la terra è l’uomo stesso», con le sue capacità intellettive, pratiche e poietiche (CA 32). Questo continuo autotrascendimento risponde al dinamismo dell’intera creazione. È il riflesso nell’essere umano dell’intenzione sapiente e benevola di Dio. Impegnato in questo sforzo incessante di miglioramento di sé, l’uomo incontra il mistero dell’incarnazione divina (PP 16). Accogliendola nella propria vita, «l’uomo accede a una dimensione nuova, a un umanesimo trascendente, che gli conferisce la sua più grande pienezza» (PP 16). La verità può essere colta e vissuta a differenti livelli e con differente intensità. La vita umana ha senso, anche se non ha ancora attinto alla novità e alla perfezione che le vengono dall’adesione credente al vangelo e al Dio, di cui quell’annuncio è rivelazione. Si può essere uomini nella verità, anche se non si è ancora uomini nella fede. Paolo VI lo dice chiaramente, quando afferma che lo sforzo di tutti – scienziati, tecnici e intellettuali – oggi deve essere volto alla ricerca di un «“umanesimo” nuovo, che permetta all’uomo moderno di ritrovare se stesso, assumendo i valori superiori di amore, di amicizia, di preghiera e di contemplazione» (PP 20). La verità dell’uomo sta nel dinamismo che segna «il passaggio, per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane» (PP 20). Sviluppo plenario e planetario è anche il nome della verità. Seppur dinamico e storico, questo modello antropologico di verità non è né relativista, né storicista. La responsabilità con cui l’uomo è chiamato a crescere in umanità e a far crescere la civiltà odierna risponde a una «natura» ricevuta in dono dal Creatore, a cui egli liberamente si conforma. Natura non significa struttura immutabile, né codice etico su base genetica. Natura sono «le possibilità e le esigenze» (PP 34), che l’uomo stesso trova inscritte dentro di sé e che riconosce impresse nell’esistenza altrui. La natura umana – in cui consiste la radice ultimativa della verità sulla
10 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Centesimus annus [CA] (1.5.1991): AAS 83(1991)10, 793-867.
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e della sua esistenza – è possibilità, apertura, sguardo rivolto verso l’oltre. In questa relazione incondizionata con l’alterità, l’uomo scopre di non essere «la norma ultima dei valori». La verità lo precede e sopravvivrà alla sua morte. Perciò «l’idea vera della vita umana», la migliore rappresentazione della verità, in cui l’uomo è e si muove, sta nella parola «vocazione» (PP 42). Tutto il dinamismo umano si compie nell’aderire con fiducia alla parola di un Altro, che ha la capacità – altrimenti impossibile all’uomo stesso – di rendere più «degna dell’uomo» la sua esistenza sulla terra (RH 15): in concreto, di rendere l’uomo «più maturo spiritualmente, più cosciente della dignità della sua umanità, più responsabile, più aperto agli altri, in particolare verso i più bisognosi e più deboli, più disponibile a dare e portare aiuto a tutti» (RH 15). Nel modello dialogico è presente una tensione tra l’idea di una certa autonomia della natura umana, creata intelligente e libera, e l’affermazione soteriologica circa la sua insufficienza ontologica ed etica a perseguire la pienezza per cui è stata creata. L’umanesimo cristiano si presenta come una determinazione contenutistica dell’umanità naturale: vi aggiunge un modo di essere umano che altrimenti non sarebbe dato raggiungere. Il dialogo con la Chiesa perciò consente all’umanità di raggiungere una verità altrimenti inconoscibile. Ma anche la Chiesa ottiene un vantaggio effettivo da questo dialogo con gli umanesimi, specialmente con quelli che, mossi da un’istanza di giustizia e di fraternità, sono sensibili alle condizioni di miseria in cui vivono oggi miliardi di esseri umani. La Chiesa apprende la concretezza della verità sull’uomo, quando ascolta e fa propria «la voce dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli anelanti alla giustizia, alla dignità della vita, alla libertà, al benessere e al progresso».11 Ammaestrata da questo dialogo con gli umanesimi odierni, in cui sente riecheggiare un linguaggio a lei familiare – la parola del vangelo – la Chiesa si offre per ascoltare e amplificare il grido di tutta quanta l’umanità: essa ne è una parte, ma in forza di questo suo amore alla verità concreta che è l’uomo, può rappresentare autenticamente la totalità umana. La difende perché la conosce; e la conosce perché la ama, riconoscendosi anch’essa costituita di esseri umani e intessuta della medesima stoffa creaturale dell’umanità intera. La verità, di cui la Chiesa è araldo e testimone, è più grande della Chiesa stessa, perché consiste in quella ricerca a tentoni di Dio come senso dell’esistenza umana, che Paolo proclamò nell’Areopago.12 Nel discorso all’Areopago la fede biblica mostra come la sua lotta contro l’idolatria si esplichi attraverso un uso demitizzatore del linguaggio teologico.13 Paolo lascia in sospeso la questione dell’identità metafisica
Paolo VI, Discorso all’ONU, n. 1: EV 1/376*. Ivi, n. 7: EV 1/397*. 13 In At 17,22-31 l’atteggiamento di Paolo nei confronti del politeismo greco si compone di due fasi, proprio come il pensiero demitizzatore dei filosofi antichi e dei teologi moderni. 11 12
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di Dio, perché la ragione non può sostituirsi all’esperienza credente, che è il punto di partenza del discorso biblico su Dio. La verità cristiana è il frutto della comprensione teologica di un vissuto antropologico: la fede. La teologia cristiana è quella forma di sapere razionale che riflette criticamente sull’atto vivente del credere e sulle sue implicazioni antropologiche, culturali e sociali.14 L’immagine del tribunale ateniese viene ripresa da Giovanni Paolo II per indicare i sentimenti di «stima, rispetto e discernimento», con cui la Chiesa si avvicina oggi «al magnifico patrimonio dello spirito umano, che si è manifestato in tutte le religioni» (RH 12). La verità dell’uomo ha anche un afflato religioso che, in questo tempo di radicale secolarizzazione della cultura e della vita sociale, ormai solo la Chiesa riesce a riconoscere e valorizzare. Perciò, oltre che «esperta in umanità», essa è anche custode della dimensione spirituale, dell’orientamento verso il Creatore, che una visione riduttiva dello sviluppo e del progresso hanno oscurato. Il dialogo è più che un semplice consenso tra i differenti umanesimi odierni, alla ricerca di una verità che suoni come un minimo comune denominatore. Ci sono questioni, come quella del futuro – e del futuro ultimo dell’uomo – in cui la Chiesa non ha paura di essere una voce profetica e anche critica se occorre, proprio perché scorge la differenza tra l’umanità reale e quella ideale (RH 16). Essa vive alla frontiera tra il tempo e l’eternità: ama l’uomo temporale. Ma in «ciò che è più profondamente umano», nell’«inquietudine creativa del suo cuore», scorge il rimando a una radicale ulteriorità, quella della sua destinazione eterna (RH 18). Ogni atto autenticamente umano è un passo in quella direzione. L’uomo che verrà, di cui la Chiesa è testimone nel presente, sarà caratterizzato dalla «priorità dell’etica sulla tecnica, [dal] primato della persona sulle cose, [dalla] superiorità dello spirito sulla materia». Giovanni Paolo II prende le distanze dall’umanesimo emancipatorio e borghese dell’illuminismo: l’uomo nuovo non coincide con un generico e astratto dover-essere. È in gioco «tutto il dinamismo della vita e della civiltà»; è in gioco il senso della vita quotidiana: «essere di più». Un uomo che aspirasse soltanto ad «avere di più», andrebbe nella direzione di una parcellizzazione del proprio essere e della propria vita; diventerebbe meramente funzionale alla propria «manipolazione» e sancirebbe la propria «schiavitù» nei confronti del sistema economico-produttivo e del consumo (RH 16). Anche quando si fa profetico e critico, questo dialogo sulla verità dell’uomo non perde di vista l’impegno della Chiesa nel mondo presente
Nella pars destruens, cita due inni a Zeus, senza mai nominare la divinità principale del pantheon greco: il divino mitologico esula dalle possibilità logiche della ragione teologica; essa non può parlare di ciò che non le appartiene. Nella pars construens, si sofferma sul «dio ignoto», che è un dio senza nome. 14 P. Boschini, «Tra Vangelo e culture. La teologia dell’evangelizzazione come scienza della fede annunciata», in Rte 10(2006)19, 47.
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come annuncio del mondo nuovo, quale è stato affermato autorevolmente dal concilio Vaticano II.15 Ne è un caso eminente il discorso a cui la Chiesa si sente chiamata, sin dalla Rerum novarum (1891), intorno alla questione del lavoro. Qui emerge in tutta la sua forza la novità storica dell’umanesimo cristiano. Proprio per il fatto di lavorare sempre in relazione con altri, l’uomo si libera oggi e domani dalla schiavitù del bisogno e dalla dipendenza nei confronti del sistema economico-produttivo. Sviluppando legami sociali di mutualità e relazioni economiche di interdipendenza, i lavoratori diventano già adesso uomini nuovi e scoprono la verità ultima custodita nelle attività penultime. L’agire economico e produttivo rende sì l’uomo «“padrone” delle creature», ma a condizione che egli si veda dipendente dal «Datore di tutte le risorse della creazione» e nello stesso tempo, con il proprio lavoro, si renda liberamente interdipendente rispetto agli altri uomini, mettendosi al loro servizio.16 Non si tratta di una critica astratta, articolata intorno a ragioni di principio, ma di una critica concreta, come concreta è la verità che qui è in gioco: che il lavoro crei uno sviluppo nella dimensione dell’essere e non in quella dell’avere; ovvero, che susciti un progresso nell’equa distribuzione delle possibilità umane e delle risorse economiche e non aumenti piuttosto l’ingiustizia, la schiavitù e la miseria. È una critica che assume la forma della «costante preoccupazione e dedizione della Chiesa» verso i prediletti da Gesù: l’«opzione preferenziale per i poveri» è la manifestazione storica della verità sull’uomo, che non può essere conosciuta se nello stesso tempo non è anche accolta, amata e difesa (CA 11). La verità è riconoscere che, al di là di tutto ciò che è legato al soddisfacimento dei bisogni umani, «esiste un qualcosa che è dovuto all’uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità» (CA 34). Questa ricerca della verità teologica sull’uomo attraverso il dialogo non può prescindere anche dal dialogo con l’umanesimo scientifico. La Chiesa cerca la verità sull’uomo instaurando «un dialogo che si preannuncia fruttuoso» anche con le scienze umane, che elegge come propri interlocutori privilegiati. Pur con i loro limiti strutturali, legati al loro impianto specialistico – sono saperi del particolare, a cui sfugge il senso della totalità – le scienze dell’uomo possono aiutare la Chiesa a percorrere con più consapevolezza e forza critica la via dell’uomo.17 Scrive Paolo VI: «Queste scienze sono un linguaggio sempre più complesso, ma che dilata, più che non riempia, il mistero del cuore dell’uomo e non dà la risposta definitiva al desiderio che sale dalle profondità del suo essere» (OA 40). La scienza non ha la chiave della verità, che rimane riservata a una sapienza più profonda e complessiva, capace di uno sguardo sulla totalità dell’uomo: è il sapere della razionalità filosofica, che riconosce l’insuffi-
15 Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes [GS] (7.12.1965), Sessione IX, n. 39: EV 1/1439-1441. 16 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Laborem exercens [LE] (14.9.1981), n. 13: EV 7/1446. 17 Paolo VI, lettera apostolica Octogesima adveniens [OA] (14.5.1971), n. 40: EV 4/764.
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cienza ontologica dell’umano come condizione della sua apertura relazionale. Intendendo l’uomo come l’essere che si realizza «mediante il dono di sé e l’accoglienza dell’altro», la capacità di relazione dialogica è la verità dell’uomo, nel suo darsi più autentico. Ma tale capacità di donarsi è dono essa stessa: è il «grande dono del Creatore», che così «affida l’uomo all’uomo».18
2.2. Il
personalismo cristologico : il profilo teologico della verità
Il cauto antropocentrismo montiniano viene corretto da un secondo paradigma antropologico di verità, che è predominante in RH (1979) e ritorna con minore enfasi in alcuni passi del magistero successivo di Giovanni Paolo II. La tesi fondamentale suona: il senso ultimativo della creazione, e dunque la verità dell’uomo, rifulge nell’incarnazione, la quale svela il carattere dialettico della verità. La carne di Cristo è l’umanità di Dio. L’umanità diventa così il luogo dell’epifania di Dio, che manifesta l’origine e la destinazione divina dell’uomo stesso. Il primo movimento – l’incarnazione – determina il secondo – la rivelazione. Solo colui che facendosi uomo «è penetrato, in modo unico e irripetibile, nel mistero dell’uomo ed è entrato nel suo “cuore”», può svelare pienamente l’uomo all’uomo. È un tema ben presente nel magistero del concilio Vaticano II e in particolare in GS 22: questo testo è la chiave per intendere il nesso tra umanesimo e cristianesimo nel magistero di Giovanni Paolo II, almeno fino a FR (1998), che rappresenta su questo tema un significativo punto di svolta. Cristo conosce l’uomo meglio di quanto l’uomo conosca se stesso, perché lo conosce non solo dall’interno dell’umanità, ma a partire dal cuore stesso di Dio: lo vede nell’unica prospettiva libera dalle deformazioni del peccato (RH 8). Questa conoscenza dal profondo, che comincia dal cuore e non dalla ragione, da Dio e non dall’uomo, è espressione dell’amore di Dio per le sue creature. Non lo sviluppo e l’autotrascendenza, ma l’amore divino e la potentia oboedentialis umana sono qui il nome dell’uomo e della sua verità. L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente.19
L’antropologia si fa spiccatamente teocentrica. L’accento si sposta dal protendersi dell’uomo in ricerca verso Dio alla condiscendenza di Dio nei confronti dell’uomo. Questo cambiamento contiene un differente giudizio sulla modernità e ne dipende. Per Giovanni Paolo II la parzialità dello
18 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Evangelium vitae [EVi] (25.3.1995): AAS 87(1995)5, 401-522, qui 422 (n. 19). 19 RH 10: EV 6/1194.
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sguardo scientifico e la parcellizzazione prodotta dalla società complessa odierna si possono superare, solo a condizione di assumere un punto di vista totalmente nuovo sull’uomo: guardandolo cioè «con gli occhi del Creatore». Non più una prospettiva plurale, protesa verso il tutto, pur consapevole di non poterlo raggiungere qui e ora, come quella dominante in Paolo VI; ma un punto di vista totalizzante sull’uomo. La conoscenza della verità dell’uomo non è il frutto di una faticosa via che procede induttivamente dal basso verso l’alto. Essa comincia da uno sguardo d’insieme, di cui l’uomo stesso è ontologicamente capace. Concretamente, questa nuova via antropologica, che funge anche da rivelazione naturale, viene percorsa quando l’uomo si contempla con una «profonda meraviglia di se stesso» (RH 10). Platonicamente, lo stupore è l’origine di ogni conoscenza: la verità è figlia della meraviglia e la meraviglia è suscitata dal bene ricevuto. Ciò apre davanti agli occhi dell’intelligenza umana orizzonti più grandi e profondi di quelli osservati ogni giorno: questa è «la dimensione umana del mistero della redenzione» (RH 10). Non sfugge che questa tesi poggia su un punto storicamente e teoreticamente molto debole, anche se spesso considerato solidissimo entro la tradizione del pensiero cristiano: l’identificazione del bene platonico con l’amore cristiano e più in generale la questione – storica e dogmatica al tempo stesso – del rapporto tra le filosofie elleniste e la prima teologia cristiana. Quando l’uomo scopre questa verità su di sé – il suo essere frutto di un dono d’amore – «la sua inquietudine e incertezza e la sua debolezza e peccaminosità» acquistano un significato nuovo, che prima non avevano. L’uomo sente l’intima esigenza di «avvicinarsi a Cristo», «per ritrovare se stesso» (RH 10). Per questo, nel mondo secolarizzato il messaggio cristiano non ha perso la sua significatività: è ancora attuale «dopo duemila anni». Il Cristo che il vangelo annuncia «appare a noi come Colui che porta all’uomo la libertà basata sulla verità»; è colui che riporta l’uomo alla sua dimensione autentica, spezzando le catene che imprigionano la sua libertà fin dentro la sua anima (RH 12). Questa impostazione risulterebbe ancora sensata se, per ragioni di ordine culturale e sociale, si oscurasse l’orizzonte di una domanda collettiva di salvezza? La via antropologica della verità va ora «da Cristo all’uomo», non più dall’uomo a Cristo: è la «via sulla quale Cristo si unisce a ogni uomo» (RH 13). Questa inversione di rotta impegna la Chiesa a «guardare l’uomo quasi con gli occhi di Cristo stesso», arricchendo così il tesoro creaturale dell’umanità con l’«ineffabile mistero della figliolanza divina». La fame dell’uomo contemporaneo si svela così in tutta la sua portata drammatica: non è solo fame di giustizia, pace, dignità. La sua è soprattutto fame di mistero (RH 18). Così la questione della verità può uscire dalla contrapposizione moderna tra teocentrismo e antropocentrismo20 e la Chiesa può riprendere a parlare di Dio all’uomo contemporaneo, usando però un
20 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Dives in misericordia [DM] (30.11.1980), n. 1: EV 7/860.
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nuovo linguaggio: il linguaggio della compassione, che «ci consente di “vederlo” [Dio Padre delle misericordie] particolarmente vicino all’uomo, soprattutto quando questi soffre» (DM 2). Questo nuovo modo di dire Dio prende il posto della razionalità etica con cui GS, DH e il successivo magistero montiniano avevano impostato il loro approccio antropologico alla questione della verità. Giovanni Paolo II ritiene che questa virata verso un’antropologia cristologica risponda meglio allo spirito di GS e, in generale, sia più fedele alla missione evangelizzatrice della Chiesa. Lo si legge chiaramente in questo passo di LE: La Chiesa […] crede nell’uomo: essa pensa all’uomo e si rivolge a lui non solo alla luce dell’esperienza storica, non solo con l’aiuto dei molteplici metodi della conoscenza scientifica, ma in primo luogo alla luce della parola rivelata del Dio vivente. Riferendosi all’uomo, essa cerca di esprimere quei disegni eterni e quei destini trascendenti, che il Dio vivente, creatore e redentore, ha legato all’uomo.21
Il processo dell’evangelizzazione può liberarsi da quelle attenzioni preliminari – la pre-evangelizzazione – le quali, nella prima fase post-conciliare, non di rado avevano più rilievo dell’annuncio stesso e di fatto ne oscuravano la forza. Priva di queste sovrastrutture, l’evangelizzazione può parlare espressamente di Cristo e presentarlo come colui che risponde all’«attesa anche se inconscia di conoscere la verità su Dio, sull’uomo» e sulla via della salvezza dalla morte: è un’attesa che nasce «per l’azione dello Spirito»22 e perciò ha la forma e la forza di un desiderio profondo del cuore umano. La voce della Chiesa e quella del suo capo terreno risuonano come un appello accorato, rivolto senza paura anche ai più lontani e refrattari: Popoli tutti, aprite le porte a Cristo! Il suo Vangelo nulla toglie alla libertà dell’uomo, al dovuto rispetto delle culture, a quanto c’è di buono in ogni religione. Accogliendo Cristo, voi vi aprite alla parola definitiva di Dio, a colui nel quale Dio si è fatto pienamente conoscere e ci ha indicato la via per arrivare a lui.23
Lo stesso appello viene rivolto anche ai cristiani, perché depongano ogni complesso di inferiorità nei confronti dell’umanità moderna e delle culture non ancora (o non più) impregnate dallo spirito evangelico. Il crollo del comunismo, la globalizzazione economica e mass-mediale, la crescita dell’etica neoumanista dei diritti umani, ma anche l’affermarsi di una tecnologia impersonale e di società burocratizzate: tutto ciò costituisce per la Chiesa un kairos, di fronte al quale «impegnare tutte le forze ecclesiali per la nuova evangelizzazione e la missione ad gentes» (RMi 3). Molti
LE 4: EV 7/1399. Giovanni Paolo II, lettera enciclica Redemptoris missio [RMi] (7.12.1990): EV 12/547732, qui 637 (n. 45). 23 RMi 3: EV 12/555. 21 22
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sono gli strumenti a disposizione della Chiesa per fare risuonare il vangelo in un momento così propizio. Fra tutti, il più conforme a questo personalismo cristologico, lo «strumento di evangelizzazione» più efficace, è la dottrina sociale cattolica: grazie al suo linguaggio concreto è una sorta di cristologia in atto e perciò «annuncia Dio e il mistero di salvezza in Cristo a ogni uomo e, per la medesima ragione, rivela l’uomo a se stesso» (CA 54). Da una parte, accantonando la pre-evangelizzazione, Giovanni Paolo II pare escludere che l’approccio antropologico alla questione della verità debba avere una chiara connotazione etica. Dall’altra, l’etica, in specie l’etica sociale, è e resta un proficuo terreno di dialogo. Non è più il punto di partenza, ma semmai è il punto d’arrivo di una fondazione teocentrica del dialogo sulla verità dell’uomo, che si è formata grazie alla cristologia. Nella prospettiva di questo secondo paradigma dialogico, l’universalità dell’etica e del suo linguaggio sociale dipende dalla verità della cristologia e dalla corrispondenza tra la rivelazione del cuore divino e le attese universali del genere umano. La razionalità teologica ha preso il sopravvento e la verità si è fatta decisamente cristologica. L’uomo è la via del dialogo; non ne è più il centro.
3. Il
modello metafisico
Il magistero pontificio del trentennio post-conciliare presenta anche una nutrita schiera di testi che sono riconducibili a un concetto metafisico di verità. Nella lettura selettiva su cui si basa la mia ricerca, questi sono la maggior parte: circa la metà dei testi pertinenti alla questione della verità in ordine all’evangelizzazione. Essi appartengono tutti (tranne uno) al magistero wojtyliano. Anche in questo caso, mi pare che debbano essere suddivisi in due paradigmi, ciascuno dei quali rappresenta una speciale declinazione del modello metafisico-cristiano di verità, ereditato dalla tradizione scolastica e centrato sul primato della questione dell’essere. I suoi caratteri sono: il concetto di evidenza come corrispondenza tra realtà e concetto; l’equivalenza semantica tra il concetto teologico di soprannaturale e quello filosofico di trascendenza. Prima di indicarne i tratti specifici, mi soffermo brevemente su quelli comuni. C’è un ordine nella realtà, che non è in potere di nessun uomo modificare. Questo ordinamento del reale ha il valore di una legislazione universale e immutabile, di cui «la Chiesa non è stata autrice, né può, quindi, esserne arbitra; ne è soltanto depositaria e interprete». Il riconoscimento di questo ordinamento originario e indisponibile della realtà obbliga la Chiesa a essere – quando necessario – «segno di contraddizione»: essa è costituita per servire la verità immutabile, posta in essere da Dio; non per compiacere le opinioni correnti. Solo a questa condizione può mostrarsi, senza secondi fini, «amica sincera e disinteressata degli uomini che vuole aiutare».24
24
Paolo VI, lettera enciclica Humanae vitae (25.7.1968), n. 18: EV 3/604.
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Questo servizio alla verità, quand’anche sembrasse inattuale, è un compito a cui la Chiesa non si può sottrarre, per due ordini di motivi. Storicamente – e queste argomentazioni sono preponderanti nella prima fase del pontificato wojtyliano – i problemi denunciati da GS come pericoli seri del mondo contemporaneo si stanno rivelando più profondi e nocivi di quanto si pensasse allora e hanno fatto svanire le «illusioni» dell’epoca conciliare (DM 10). Teologicamente, la Chiesa non può ignorare l’azio ne dello Spirito, che è descritta in Dominum et vivificantem (1986)25 co me un’opera di convincimento interiore proprio riguardo alla verità e all’amore (DeV 45): è lo stesso Spirito che manifesta l’identità tra la verità e l’evento dell’incarnazione (DeV 48), tra il Logos della metafisica e il Logos della fede. L’intreccio di questi due ordini di motivi, congiuntamente all’ulteriore avanzata della secolarizzazione, fa dire che questo ritorno a una concezione metafisica della verità è ancora più urgente (DM 15).
3.1. La fondazione
metafisica della verità nella trascendenza e nell ’ intuizione dell ’ essere
Per Giovanni Paolo II la riflessione teologica sulla verità nasce dalla pneumatologia. Lo Spirito Santo è l’autore dell’identità tra verità e redenzione, perché convince chi lo riceve sia in ordine al peccato dell’uomo, sia in ordine alla giustizia di Dio manifestata e donata nella croce di Cristo (DeV 28). Chi riconosce il proprio peccato e si converte, scopre l’«azione dello Spirito di verità nell’intimo dell’uomo» (DeV 31). Diviene capace di «scrutare la coscienza umana, quale intimo mistero dell’uomo». Lo Spirito sospinge il credente dal piano antropologico a quello più propriamente teologico-trinitario, fino a farlo «penetrare nell’intimo del mistero di Dio». In questo processo si manifesta il dinamismo pneumatologico della rivelazione: essa principia dall’intimo dell’uomo, dove lo Spirito fa scoprire il «mistero di iniquità» che la coscienza umana «in sé contiene e nasconde». Poi si passa alla dimensione storico-oggettiva della rivelazione, allorché nello Spirito la croce di Cristo manifesta tutta la radicalità del male e l’efficacia della redenzione. In queste due fasi, lo Spirito svela l’effettiva natura della realtà: la peccaminosità dell’uomo e la grazia salvifica di Dio. Per questo è proclamato dalla fede cristiana «Spirito di verità». Infine – dimensione soteriologica della verità – lo stesso Spirito fa vedere all’uomo il nesso altrimenti inconoscibile tra male e salvezza, nesso che costituisce l’essenza della croce di Cristo. Qui lo Spirito è spirito di veracità, è il «consolatore», perché ispira nell’uomo un sentimento di fiducia, rivelandogli ciò che non potrebbe nemmeno immaginare sull’efficacia salvifica dell’azione di Dio (DeV 32).
25 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Dominum et vivificantem [DeV] (18.5.1986): EV 10/448-631.
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Per evitare il rischio dell’estrinsecismo, Giovanni Paolo II offre un’argomentazione metafisica sull’homo capax Dei. Ci sono testi (ad es. EVi 2) che ripropongono la dottrina tradizionale del lumen naturale. Più innovativa è la versione personalista di questa metafisica della conoscenza. All’atto della creazione, l’uomo «riceve in dono una speciale “immagine e somiglianza” da Dio», che consiste nella «capacità di rapporto personale con Dio, come “io” e “tu”» (DeV 34): in forza di tale «capacità di alleanza» l’uomo sperimenta quella singolare «amicizia, nella quale le trascendenti “profondità di Dio” vengono, in qualche modo, aperte alla partecipazione da parte dell’uomo» (DeV 34). La verità posta in essere dall’atto creatore è molto più che la semplice capacità dell’uomo di farsi concetti adeguati della realtà che lo trascende. È capacità di ricevere, cioè di conoscere l’essere e di riconoscerlo come dono (DeV 35), fino a farsi dono. È mediante il libero dono di sé che l’uomo diventa autenticamente se stesso, e questo dono è reso possibile dall’essenziale «capacità di trascendenza» della persona umana. L’uomo non può donare se stesso a un progetto solo umano della realtà, a un ideale astratto o a false utopie. Egli, in quanto persona, può donare se stesso a un’altra persona o ad altre persone e, infine, a Dio, che è l’autore del suo essere ed è l’unico che può pienamente accogliere il suo dono.26
La verità è dono, non produzione. Perciò l’«intima verità dell’essere», in quanto essere creato, è il «riflesso del Verbo», il dono eterno del Dio eterno (DeV 36). La verità ultimativa del reale può essere formulata così: in principio era il dono. Di questa intima struttura oblativa dell’essere fanno parte anzitutto «la sapienza e la legge eterna, fonte dell’ordine morale nell’uomo e nel mondo». Per cui l’errore e la menzogna non sono difetti nel processo della conoscenza, ma «rifiuto» e «disobbedienza» nell’ordine moralmente vincolante del dono (DeV 36). Se la verità è dono, rifiutare il dono della grazia è «l’anti-verità». E se tale dono non è solo l’essere in quanto creato, ma è anche il riflesso del Verbo concreatore, rifiutare il dono è «l’anti-Verbo». L’esito di questa metafisica del dono è quello di radicalizzare la questione della verità, per cui ogni mancanza nell’ordine delle verità contingenti finisce per falsare la verità totale dell’uomo e la sua comprensione della verità dell’essere. Ogni errore comporta l’inversione di tutti i valori e rischia di «“falsare” il Bene stesso, il Bene assoluto» (DeV 37). Qui è all’opera il cosiddetto principio di totalità, secondo cui negare – o anche solo non riconoscere – la verità in un punto significa negarla tout court, fino alle estreme conseguenze. Questo principio non appartiene alla tradizione della metafisica aristotelico-tomista, che procede secondo il principio di induzione-deduzione, afferma la conoscenza della verità per gradi e dunque ne ammette la strutturale perfettibilità. Il principio di totalità che qui prende la parola appar-
26
CA 41: AAS 83(1991)10, 844.
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tiene piuttosto alla tradizione neoplatonica e risponde all’adagio metafisico: Bonum diffusivum sui. Il bene viene inteso come «amore creativo» (DeV 37), che imprime nei molti la tensione metafisica all’unione con l’Uno originario. Perché il bene così concepito sia ricondotto all’essere e al vero non si deve fare ricorso alla predicazione logica, entro la quale sussiste sempre la possibilità dell’errore. Bisogna invece presupporre nell’uomo la facoltà di intuizione dell’essere: nella fede l’intelletto umano diviene capace di intuire la luce dell’Uno, riflessa nei molteplici enti finiti, grazie alla quale la verità si offre nella sua totalità ineffabile. L’uomo diventa ciò che è già: la grazia non sconvolge la sua natura creata, ma la porta a compimento. Alla predicazione dell’essere in quanto processo di graduale scoperta della verità, si sostituisce un’illuminazione che apre orizzonti inimmaginabili di conoscenza. Nell’incipit di Veritatis splendor (1993)27 incontriamo una delle espressioni più sintetiche ed efficaci di questo approccio metafisico «neoplatonico cristiano» alla questione della verità.28 Chiamati alla salvezza mediante la fede in Gesù Cristo, «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), gli uomini diventano «luce nel Signore» e «figli della luce» (Ef 5,8) e si santificano con «l’obbedienza alla verità» (1Pt 1,22). […] In seguito a quel misterioso peccato d’origine […] l’uomo è permanentemente tentato di distogliere il suo sguardo dal Dio vivo e vero per volgerlo agli idoli (cf. 1Ts 1,9), cambiando «la verità di Dio con la menzogna» (Rm 1,25); viene allora offuscata anche la sua capacità di conoscere la verità e indebolita la sua volontà di sottomettersi a essa. E così, abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo (cf. Gv 18,38), egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa verità. Ma nessuna tenebra di errore e di peccato può eliminare totalmente nell’uomo la luce di Dio Creatore. Nella profondità del suo cuore permane sempre la nostalgia della verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua conoscenza.29
I riferimenti alla nostalgia e alla fame non sono da intendere nel senso di un’affermazione della verità come cammino e ricerca. La verità è evidenza e la sua assenza ne manifesta l’indispensabilità. Laddove la verità è smarrita, l’errore non è la condizione di un’ulteriore ricerca, ma è tenebra che produce una struggente nostalgia della luce.
3.1.1. La metafisica della verità e la critica
della modernità
Questa fondazione metafisica della verità viene utilizzata per interpretare la modernità come inversione dei valori,30 per spiegare le difficoltà odierne del cristianesimo in Occidente come dovute al rifiuto filosofico di
27 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Veritatis splendor [VS] (6.8.1993): AAS 85(1993)12, 1133-1228. 28 L’espressione è di E. Troeltsch, che la applica alla propria concezione metafisica del rapporto tra verità storica e verità metastorica del cristianesimo (E. Troeltsch, L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni [1902-1912], Queriniana, Brescia 2006, 237). 29 VS 1: AAS 85(1993)12, 1133s. 30 R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1993, 80-89.
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Dio e, in taluni passi, per criticare la «razionalità tecnico scientifica […] che nega l’idea stessa di una verità del creato da riconoscere o di un disegno di Dio sulla vita da rispettare» (EVi 22). Lo spirito delle tenebre è capace di mostrare Dio come nemico della propria creatura e, prima di tutto, come nemico dell’uomo, come fonte di pericolo e di minaccia per l’uomo. In questo modo viene innestato da Satana nella psicologia dell’uomo il germe dell’opposizione nei riguardi di colui che «sin dall’ini zio» deve essere considerato come nemico dell’uomo – e non come Padre.31
L’antropocentrismo moderno viene interpretato come una forma di secolarismo e di ateismo intrinsecamente erroneo. A esso corrisponde il materialismo dialettico e storico, che viene presentato come «lo sviluppo sistematico e coerente di quella “resistenza” e opposizione» dell’uomo a Dio, espressa dalla dialettica paolina carne-Spirito (DeV 56). L’uomo sarà incline a vedere in Dio prima di tutto una propria limitazione, e non la fonte della propria liberazione e la pienezza del bene. Ciò vediamo confermato nell’epoca moderna, nella quale le ideologie atee tendono a sradicare la religione in base al presupposto che essa determini una radicale «alienazione» dell’uomo come se l’uomo venisse espropriato della propria umanità, quando, accettando l’idea di Dio, attribuisce a lui ciò che appartiene all’uomo, ed esclusivamente all’uomo! Di qui un processo di pensiero e di prassi storico-sociologica, in cui il rifiuto di Dio è pervenuto fino alla dichiarazione della sua «morte».32 La radice del moderno totalitarismo è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare.33
Le moderne ideologie ateo-materialiste sono tutto il moderno? Ne esprimono esaurientemente lo spirito? Vengono presentate come la sua più pericolosa essenza: si sono insinuate «fin nell’intimo dell’uomo», fin nel «santuario della coscienza» e così ne impediscono la piena maturazione. L’uomo moderno occidentale è compreso come uno sradicato dalla «genuina verità del suo essere» e sottomesso al «principe di questo mondo» (DeV 60). Di questa «morte dell’uomo» (DeV 38), «la prima causa è l’ateismo» (CA 13). «La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a riorganizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona» (CA 13). A causa del suo secolarismo il mondo moderno attraversa una profonda «crisi intorno alla verità»: trasforma la coscienza da luogo dell’evi denza dell’essere e del bene in luogo dell’interesse utilitaristico, e dunque della costruzione arbitraria della verità. Questo è il dramma del l’«etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la
DeV 38: EV 10/540. Ib.: EV 10/541. 33 CA 44: AAS 83(1991)10, 849. 31 32
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sua verità, differente dalla verità degli altri» (VS 32). Con tutta probabilità, queste sono le affermazioni più duramente antimoderne del magistero wojtyliano. In forza del dono dello Spirito qui si presuppone la perfetta identificazione tra la dottrina cattolica e la verità tutta intera: come se la dimensione escatologica di tale verità si fosse già compiuta nella Chiesa. Anche in altri testi appartenenti alla seconda fase del pontificato di Giovanni Paolo II – seppure con formulazioni meno intransigenti – il moderno viene interpretato come l’epoca in cui l’uomo e la verità sono stati ridotti «alla sola dimensione orizzontale». Sicché viene riproposta di continuo la domanda: che ne sarà dell’uomo e della verità «senza l’apertura verso l’Assoluto» (RMi 8 e 18)? Le risposte sono perentorie. La dottrina nietzschiana della morte di Dio porta con sé l’esito non meno nichilista della «morte dell’uomo» (DeV 38). Indulgendo nel dialogo con la cultura secolarizzata odierna il cristianesimo rischia di ridursi a «una sapienza meramente umana, quasi una scienza del buon vivere», a servizio non di «tutto l’uomo e tutti gli uomini» ma di un «uomo dimezzato, ridotto alla sola dimensione orizzontale» (RMi 11). Se il regno di Dio, che costituisce la verità profonda dell’annuncio evangelico, venisse incentrato solo «sui bisogni terreni dell’uomo», finirebbe per identificarsi con «le lotte per la liberazione» materiale dell’uomo. Conseguentemente, la missione della Chiesa si esaurirebbe in un compito umanitario (RMi 17). Se si perde di vista il «teocentrismo», tutto crolla: il «mistero della creazione» si sgancia dal «mistero della redenzione»; Cristo e la Chiesa vengono zittiti (RMi 17). Teocentrismo significa: affermazione del primato della trascendenza (RMi 20); ineliminabilità del sacro nella coscienza umana; evidenza dell’identificazione tra l’Assoluto filosofico e il Dio biblico dell’alleanza. È in forza della concezione intuizionistica della verità, che tali questioni fondamentali non necessitano di alcuna discussione. Si dà per scontato che siano i capisaldi della dottrina salvifica e dell’annuncio della Chiesa. Sono le fondamenta su cui si regge il nuovo cristocentrismo del magistero wojtyliano dal 1986 in poi: «Cristo è l’uni co mediatore tra Dio e gli uomini. […] Gli uomini, quindi, non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l’azione dello Spirito» (RMi 5). Non più quel Cristo, immagine originaria ed escatologica dell’uomo, colui che precede la Chiesa sulla via dell’uomo. Ma l’unico Cristo, «via stabilita da Dio stesso» per la conoscenza della verità, «pienezza della verità che Dio ci ha fatto conoscere intorno a se stesso» (RMi 5). Dall’accettazione di questa suprema verità dipende la conoscenza di ogni altra verità rilevante per la vita dell’uomo. Questa tesi si coniuga con l’affermazione del primato di quella verità soprannaturale, di cui nella prospettiva cattolica è depositaria la tradizione della Chiesa; un primato del quale, in questa fase del magistero wojtyliano, si danno frequenti attestazioni (ad es. CA 3; VS 27).
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3.1.2. La metafisica della verità come superamento della modernità La pars construens di questa concezione metafisica della verità viene tratteggiata con rapide pennellate. «È nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità» (CA 13). La verità dell’uomo è responsoriale. Non c’è verità senza chiamata trascendente; non c’è moralità, se prima non c’è rivelazione. Ciò significa che la verità è intrinsecamente correlata alla dimensione della libertà personale, che nessun collettivismo può surrogare (CA 25). Assetato di libertà ma frustrato dalla propria incapacità di conquistarla, l’uomo contemporaneo può accedere alla verità non per via di tentativi esistenziali e di ricerca intellettuale, ma per via di «obbedienza» (CA 41). Per questo motivo – antimoderno, o oltremoderno – è solo dalla «verità [oggettiva] che deriva la dignità della coscienza» (VS 63). Davanti al mistero del male a cui l’uomo non riesce a porre rimedio con le proprie forze, la Chiesa ribadisce la «dipendenza della ragione umana dalla Sapienza divina» e critica quelle filosofie che teorizzano la «completa sovranità della ragione umana» (VS 36). L’assolutismo della ragione produce il relativismo della verità e del bene. L’autonomia relativa della ragione, subordinata a «un originario e totale mandato di Dio all’uomo», produce invece il riconoscimento del carattere indisponibile della verità e del bene. E conduce all’accettazione della natura che precede e norma ogni costruzione culturale (VS 32 e 36). Questa «verità trascendente», di cui Dio è l’autore e il garante, spinge gli uomini al riconoscimento e al rispetto della dignità altrui (CA 44). Questa aspirazione alberga nel cuore dell’uomo contemporaneo, senza che egli possa darle una realizzazione effettiva. Il superamento della modernità contiene un’antitesi e una tesi. L’antitesi consiste nella negazione del carattere ultimativo della verità dell’essere finito. La tesi è il riconoscimento della «relatività della vita terrena dell’uomo e della donna». Ciò non va a detrimento, ma semmai rafforza il carattere sacro dell’esistenza umana, che non dipende dal suo statuto di autonomia biologica o morale, ma dalla sua origine trascendente e dalla sua destinazione escatologica (EVi 2). Questa è la «verità cristiana sulla vita» (EVi 38), da cui deriva per deduzione un’antropologia metafisica su base teologica. La vita porta indelebilmente inscritta in sé una sua verità. L’uomo, accogliendo il dono di Dio, deve impegnarsi a mantenere la vita in questa verità, che le è essenziale. […] La verità della vita è rivelata dal comandamento di Dio. La parola del Signore indica concretamente quale indirizzo la vita debba seguire per poter rispettare la propria verità e salvaguardare la propria dignità.34
Anche per una verità così concepita è essenziale comunicarsi attraverso il dialogo. Però non è inteso come «momento conoscitivo», in cui la verità
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EVi 48: AAS 87(1995)5, 453s.
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viene cercata e trovata entro una relazione di reciprocità. Nella prospettiva della metafisica del dono e della verità come evidenza, il dialogo «ha in sé una dimensione globale», che riguarda l’esistenza dell’uomo «nella sua interezza».35 Si dialoga sulla verità solo nel momento in cui ci si consegna a essa e la si accoglie nella sua evidenza esistenziale e razionale. Si dialoga nella – e non sulla – verità. Se gli interlocutori non condividono il dono della fede cattolica, tra loro può esserci una certa asimmetria nella conoscenza della verità, perché i cattolici dialogano «con la convinzione che la Chiesa è la via ordinaria di salvezza e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza» (RMi 55). Una siffatta teoria della verità e della sua conoscenza implica serie difficoltà, qualora si voglia condurre il dialogo con interlocutori che non condividono lo stesso impianto metafisico di pensiero: con molti nostri contemporanei, non solo nel mondo occidentale ma anche in culture e Paesi per tradizione lontani dalla metafisica greco-cristiana.
3.2. La verità come fondamento ontologico della persistenza nel vero
La verità si manifesta nell’evidenza: essa persiste identica a se stessa. L’essere è il principio della verità non solo perché ne è l’origine, ma anche perché è la condizione della sua permanenza senza variazioni. L’identità ontologica è fondamento dell’identità epistemologica. La verità è e rimane sempre tale: è principio immutabile della conoscenza del reale. La conoscenza del vero è permanere-nella-verità. Nel magistero di Giovanni Paolo II il principio teologico di questa persistenza è lo Spirito Santo. [Egli] aiuterà a comprendere il giusto significato del contenuto del messaggio di Cristo; ne assicurerà la continuità e identità di comprensione in mezzo alle mutevoli condizioni e circostanze. Lo Spirito Santo farà sì che nella Chiesa perduri sempre la stessa verità, che gli apostoli hanno udito dal loro Maestro.36
Lo Spirito è il «supremo sostegno», l’«interiore fondamento», che «ispira, garantisce e convalida la fedele trasmissione» della verità rivelata (DeV 5 e 7). La fede è il frutto dell’azione nell’uomo da parte dello Spirito di verità. «Nella fede e mediante la fede» lo Spirito è «la suprema guida dell’uomo, la luce dello spirito umano» (DeV 6): garantisce il permanere dell’uomo nella verità. Lo stesso concilio Vaticano II e il magistero successivo sono fondati su questo principio pneumatologico di continuità. Solo grazie allo Spirito, «nel suo pellegrinare terreno lungo il corso dei secoli», la Chiesa produce «i frutti della verità e dell’amore» e sa «attentamente discernere» il vero dal falso, il bene dal male (DeV 26).
35 Giovanni Paolo II, lettera enciclica Ut unum sint [UUS] (25.5.1995): AAS 87(1995)11, 921-982, qui 939 (n. 28). 36 DeV 4: EV 10/460.
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In Dominum et vivificantem (citato anche in testi successivi) si trasforma l’immanenza metafisica dello Spirito in immanenza antropologica. Lo Spirito è immanente sì, ma nel cuore dell’uomo (DeV 54) e perciò lo è solo indirettamente nel processo storico del mondo. Egli rende l’uomo capace di comprendere in modo più profondo se stesso e la propria umanità, perché rinnova in lui la coscienza della somiglianza divina (DeV 59). In quanto principio immanente al cuore dell’uomo, si presenta come «il custode della speranza» (DeV 67). La coscienza personale e la missione della Chiesa sono perciò «sempre e solo “nella” verità» (VS 64). Solo grazie a questa immanenza della verità nel cuore dell’uomo «è possibile costruire una società rinnovata» (VS 99). Tutte queste affermazioni indicano la strada che Giovanni Paolo II intraprende: la verità non si fa nella storia, ma solamente si interiorizza per virtù divina nel corso degli accadimenti umani. La verità in quanto fondamento immanente alla storia è «la via del ritorno al principio», cioè al Dio creduto nella fede (VS 112). L’immanenza non è dunque il processo del divenire della verità nella storia, ma è la condizione storica in cui la verità si depura dagli elementi materiali e transeunti e si spiritualizza, assumendo una configurazione simile al suo principio, il Dio ineffabile e trascendente. La storicizzazione della verità si mostra così come un processo mediato, che presenta due fasi, distinte ma inseparabili. La prima fase è costituita dall’azione dello Spirito: il principio della verità entra «incessantemente nella storia del mondo attraverso il cuore dell’uomo» (DeV 67). Nella seconda fase, la mediazione veritativa dello Spirito si esprime nell’insegnamento dottrinale della Chiesa, frutto della «retta comprensione gerarchica del popolo di Dio». Perciò non è ammesso il dissenso nei confronti dell’insegnamento della gerarchia ecclesiale. Sarebbe come rifiutare la mediazione ecclesiale dello Spirito; sarebbe un atteggiamento strumentale e provocatorio (VS 113). Se lo Spirito è il principio ineffabile della verità, che si rende presente nell’uomo come anelito spirituale e poi si storicizza nella Chiesa come dottrina infallibile, ogni visione dialogica e consensuale, pluralistica e democratica della verità deve essere rigettata, perché contiene in sé un pericoloso germe relativista, il quale sacrifica la verità oggettiva del vangelo sull’ara dell’interesse soggettivo. Ogni volta che la libertà, volendo emanciparsi da qualsiasi tradizione e autorità, si chiude persino alle evidenze primarie di una verità oggettiva e comune, fondamento della vita personale e sociale, la persona finisce con l’assumere come unico e indiscutibile riferimento per le proprie scelte non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse e il suo capriccio.37
La ragione naturale chiude i conti con la modernità e la supera, facendo riferimento al senso comune e alle sue evidenze. Ma nella società della co-
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EVi 19: AAS 87(1995)5, 422.
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municazione mass-mediale non è facile distinguere le opinioni soggettive dalle verità oggettive, perché è sempre meno chiara la linea di demarcazione tra il vero e il verosimile. Il superamento della modernità presuppone la ripresa di strutture epistemiche che sono state vanificate proprio dall’inarrestabile democratizzazione della verità: con il rischio che la verità cristiana si manifesti non solo inattuale, ma anche impossibile a conoscersi.
4. Il
modello ermeneutico
Quello che ho denominato modello ermeneutico di verità è il più difficile da rintracciare, perché si presenta solitamente mescolato agli altri due. Secondo questo modello, la verità non è un’evidenza, antropologica o teologica che sia. Non è neppure solo ricerca. La verità è un intreccio di teoria e prassi, di principi teoretici e azioni storiche, di orizzonti antropologici e orizzonti teologici. La verità è un ibrido, un composto di concetti, sentimenti, azioni, entro cui si pone in modo ultimativo la questione del senso. Non è una parola definitiva sulla totalità dell’esistente, ma l’indicazione di un’area di consenso tra locutori differenti, a partire dalla quale è possibile comprendere il senso globale della realtà, di cui gli stessi locutori fanno parte. «L’elemento che decide della comunione nella verità è il significato della verità» (UUS 19). Nel modello ermeneutico la verità non si dà né antropologicamente per via dialogica, né metafisicamente per via di evidenza razionale. È una verità prospettica e intersoggettiva, perché è frutto di una rete di relazioni che orientano lo sguardo sulla realtà. In questo modello hanno grande importanza le operazioni che distinguono e portano alla luce i differenti fili, di cui sono intessute le esperienze e i linguaggi umani. Parimenti importante è l’aspetto simbolico della verità, la quale si annuncia per immagini e metafore. Nel magistero cattolico di cui ci stiamo occupando il più importante testo di riferimento per questo modello è contenuto in OA 30, che è a sua volta una citazione di PT 84. Qui si distinguono le «false dottrine filosofiche» (il riferimento implicito è al materialismo marxista) dai «movimenti storici» che da esse sono stati generati e «hanno tratto e traggono tuttora ispirazione». Il motivo di tale distinzione è che le dottrine filosofiche rimangono sostanzialmente immutate, mentre i movimenti storici si evolvono, subendo gli influssi delle trasformazioni culturali e sociali. Perciò da una dottrina radicalmente erronea possono anche discendere movimenti di pensiero e di azione capaci di farsi «interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana». Tali aspirazioni sono giuste, anche se la dottrina che le ispira non è vera. C’è un’area di consenso e dunque di verità, che Giovanni XXIII identificava nella conformità ai «dettami della retta ragione».38 Quest’area di consenso non è tutta la ve-
38 In questo testo si fa riferimento agli ambiti economico, sociale e politico come ad aree di verità condivisa tra la Chiesa e i movimenti storici che hanno un’ispirazione non cristiana o addirittura antireligiosa.
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rità, ma è la verità che due o più interlocutori possono riconoscere come comune, pur permanendo nella loro diversità di vedute. Ciò è possibile, perché proprio in certi ambiti della vita umana la verità dell’uomo assume i medesimi simboli: con Cristo anche la Chiesa riconosce il «segno» dei piccoli e dei poveri e dà a esso «una grande importanza» (EN 12; OA 42). L’escluso, lo sfruttato, l’impoverito, il sofferente non sono solo un problema sociale, ma metafore viventi della condizione umana. Essi sono il simbolo di una verità più grande sull’uomo, che attende di essere scoperta, liberata, proclamata. Sono il luogo verso il quale differenti sguardi sull’uomo convergono e si dispongono ad acquisire un linguaggio comune. La verità si manifesta quando, intorno a un simbolo condiviso, orizzonti differenti di pensiero s’incontrano e parzialmente si fondono. La verità è nel simbolo e perciò si esprime attraverso immagini, le quali evocano di più di quello che effettivamente gli interlocutori riescono a dirsi o a capire l’uno dall’altro. Tutto questo risponde a un’esigenza profonda del vangelo, affidato alla Chiesa perché sia annunciato agli uomini entro le fatiche e le gioie della loro esistenza quotidiana, perché solo lì la sua verità si comunica e si dà a comprendere. L’evangelizzazione perde molto della sua forza e della sua efficacia se non tiene in considerazione il popolo concreto al quale si rivolge, se non utilizza la sua lingua, i suoi segni e simboli, se non risponde ai problemi da esso posti, se non interessa la sua vita reale.39
4.1. La
fusione degli orizzonti linguistici : la verità come A reopago
Se cerchiamo questo modello ermeneutico di verità nelle immagini più ricorrenti nel magistero papale recente, ci imbattiamo non di rado in quella di Paolo all’Areopago. Per Giovanni Paolo II il tribunale ateniese non è solo l’icona del «mondo delle comunicazioni, che sta trasformando l’umanità rendendola […] un “villaggio globale”» (RMi 37). È la metafora che evoca una molteplicità di campi della vita umana, a cui oggi è chiamata a rivolgersi l’attività evangelizzatrice della Chiesa.40 Come Paolo, anche la Chiesa di oggi accetta volentieri l’invito a rendere conto della propria fede e a sottoporre il proprio messaggio al vaglio delle culture – le più tradizionali, come le più nuove – del mondo plurale contemporaneo. Non si tratta di una disponibilità tattica, dettata dall’istanza di rompere l’isolamento in cui spesso la Chiesa si trova, proprio come Paolo
EN 63: EV 5/1676. «… L’impegno per la pace, lo sviluppo e la liberazione dei popoli; i diritti dell’uomo e dei popoli, soprattutto quelli delle minoranze; la promozione della donna e del bambino; la salvaguardia del creato sono altrettanti settori da illuminare con la luce del Vangelo. È da ricordare, inoltre, il vastissimo areopago della cultura, della ricerca scientifica, dei rapporti internazionali che favoriscono il dialogo e portano a nuovi progetti di vita» (RMi 37: EV 12/626). 39 40
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nei primi giorni del suo soggiorno ateniese (At 17,16-17). Salire all’Areo pago per parlare ai sapienti e ai responsabili dell’umanità odierna è una scelta che la Chiesa abbraccia in forza della sua comprensione della condizione umana; nel nostro tempo «gli uomini avvertono di essere naviganti nel mare della vita, chiamati a sempre maggiore unità e solidarietà». Una metafora – l’Areopago – che ne richiama subito un’altra: la navigazione in mare aperto, il cui significato si fonde con quello precedente. Da questo rafforzamento semantico prende il via l’affermazione secondo cui è necessario fondere gli orizzonti delle differenti verità, ovvero serve il «concorso di tutti» per trovare e sperimentare «le soluzioni ai problemi esistenziali» che impegnano l’umanità di oggi (RMi 37). Già Paolo VI aveva indicato il magistero sociale della Chiesa come luogo in cui realizzare dinamicamente questa fusione tra differenti orizzonti di verità. Esso si sviluppa attraverso una riflessione condotta a contatto delle situazioni mutevoli di questo mondo, sotto l’impulso dell’evangelo come fonte di rinnovamento, allorché si accetta il suo messaggio nella sua totalità e nelle sue esigenze. […] Attinge infine a una ricca esperienza secolare che gli permette di assumere, nella continuità delle sue preoccupazioni permanenti, l’innovazione ardita e creatrice, richiesta dalla presente situazione del mondo.41
La concezione ermeneutica della verità risponde all’esigenza, essenziale alla missione evangelizzatrice della Chiesa nella pluralità delle culture, di offrire ai propri interlocutori messaggi concreti, capaci di dare senso all’esistenza quotidiana. Gli scogli da evitare sono ben evidenziati. Da una parte, non si deve scadere nel deduttivismo dogmatico di una teologia metafisica, che presenti soluzioni prefabbricate, calate dall’alto e difficilmente praticabili, perché inadatte alle situazioni concrete dell’esi stenza. Dall’altra, è parimenti necessario girare al largo da certo astrattismo morale, che indica principi normativi e criteri d’azione talmente generali, da risultare inefficaci alla comprensione della situazione concreta e alle conseguenti esigenze pastorali. Un altro luogo concreto in cui la Chiesa è chiamata ad attuare questo modello di verità come fusione di orizzonti è l’afflato religioso, antico e nuovo, che accompagna questo nostro tempo «drammatico e insieme affascinante». Pur con tutte le sue ambiguità, l’odierno movimento di risveglio religioso, che sta desecolarizzando l’occidente post-moderno,42 è anch’esso «un areopago da evangelizzare». L’area di verità, che esso ha in comune con l’«immenso patrimonio spirituale» della Chiesa, è la convinzione secondo cui l’esperienza religiosa è un efficace «antidoto alla
OA 42: EV 4/766. P. Boschini, «Chiesa cattolica e mass-media: comunicazione della fede o visibilità mediatica?», in Rte 11(2007)22, 479-483.511-514; Id., «Le religioni tra violenza e paura. A dieci anni dall’11 settembre 2001, parte II», ivi 16(2012)31, 60-73. 41 42
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disumanizzazione» che affligge il mondo contemporaneo (RMi 38). In questa prospettiva, il dialogo con le altre religioni rappresenta una «sfida positiva» – un kairos – che stimola la Chiesa in una duplice direzione: «scoprire e riconoscere i segni della presenza del Cristo e dell’azione dello Spirito»; «riscoprire la propria identità e testimoniare l’integrità della rivelazione». La fusione di orizzonti non richiede né «abdicazione» alla propria verità, né tacere irenisticamente gli elementi di divergenza (RMi 56). Lo stile richiesto ai locutori è descritto nella prospettiva del pensiero ermeneutico contemporaneo: L’interlocutore dev’essere coerente con le proprie tradizioni e convinzioni religiose e aperto a comprendere quelle dell’altro, senza dissimulazioni o chiusure, ma con verità, umiltà, lealtà, sapendo che il dialogo può arricchire ognuno.43
La verità, a cui in tal modo si ha accesso e verso cui insieme si procede ulteriormente, ha un respiro relazionale e pratico: consiste nel rimuovere i «pregiudizi» e nel superare «intolleranze e malintesi» (RMi 56). Occorre tenere sempre «presenti sia le categorie mentali che l’esperienza storica concreta dell’altro» (UUS 36). Quest’ultimo principio, che è enunciato a sostegno del dialogo ecumenico, deve valere a maggior ragione laddove la distanza tra le dottrine teologiche è di gran lunga maggiore: nel dialogo con le religioni non cristiane, con le culture laiciste e con le filosofie atee. Il frutto della fusione degli orizzonti è la comprensione reciproca; non il trionfo di una delle dottrine in campo, né il consenso intorno a verità diluite, né il ricorso a compromessi e sincretistiche vie di mezzo. Per i cristiani, questo approccio alla verità non riduce la portata della rivelazione. Nasce piuttosto dalla fedeltà della Chiesa alla «verità intorno alla redenzione» e si traduce in una «corresponsabilità che deve abbracciare tutti gli uomini». Non c’è fedeltà a Dio fuori dal riconoscimento che tutto l’umano è connotato dalla cultura, in cui si esprime il «cuore dell’uomo» e si «esplica la sua creatività, la sua intelligenza, la sua conoscenza del mondo e degli uomini» (CA 51). In forza di questa costante trasformazione in cultura, non la verità in sé, ma le sue espressioni possono essere multiformi (UUS 19). Ciò richiede che dal piano della praxis – quello della collaborazione etica e sociale – la fusione degli orizzonti si estenda fino ad abbracciare anche l’ambito della filia, laddove la verità viene declinata nel linguaggio della passione e dei legami, della relazione interpersonale e della comprensione reciproca. «L’amore della verità – prosegue Giovanni Paolo II – inseparabilmente associato [con] lo spirito di carità e di umiltà» («carità verso l’interlocutore, umiltà verso la verità») giunge fino a «richiedere revisioni di affermazioni e di atteggiamenti» (UUS 36). Passando attraverso la mediazione della filia, la fusione di orizzonti può arrivare fino al piano
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RMi 56: EV 12/659.
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teorico e dottrinale della verità: in certi casi, le ragioni dell’altro possono diventare anche le proprie, modificando e arricchendo la comprensione della verità. La Chiesa può sempre scoprire che la verità, che le è stata affidata, abita ed è custodita anche altrove. Il luogo storico della rivelazione non è solo la Chiesa, ma l’umano; e la Chiesa lo è, in quanto fa parte a pieno titolo dell’umano (GS 1). Quando nel processo della fusione di orizzonti la questione della verità si sposta sugli aspetti teorici e dottrinali, la teologia è chiamata a svolgere un ruolo indispensabile. È a servizio non solo della comprensione del vangelo affidatole da Cristo, ma anche della partecipazione della Chiesa «in modo creativo e fecondo alla missione profetica di Cristo» (RH 19) nel discernimento dei segni dei tempi e nella creazione di nuovi luoghi e nuove condizioni per l’annuncio del regno di Dio. In un tempo segnato dalla frattura tra l’orizzonte della fede cristiana e quello delle culture umane (EN 20), la teologia e i teologi – insieme a tutti gli uomini cristiani di scienza e di cultura – «sono chiamati a unire la fede con la scienza e la sapienza, per contribuire alla loro reciproca compenetrazione». Gli intellettuali cattolici sono dunque parte attiva in questa fusione degli orizzonti. Ciò sarà un vantaggio per la fede, che trarrà giovamento proprio dal continuo allargarsi e differenziarsi della conoscenza teologica, stimolata a sua volta da questo continuo intreccio con conoscenze altre (RH 19). La stessa ricerca teologica deve esercitarsi tenendosi «in relazione con gli studiosi delle altre discipline, siano essi credenti o non credenti»: si tratta qui in particolare dei cultori delle scienze antropologiche, psicopedagogiche e sociali. Il motivo teologico che autorizza questa fusione di orizzonti è la distinzione tra la verità del depositum fidei e le sue molteplici formulazioni, come aveva affermato Giovanni XXIII nel Discorso di apertura del concilio Vaticano II. Solo entro questo paradigma ermeneutico di verità è ritenuto legittimo «un certo pluralismo di metodi» nell’insegnamento teologico. Due sono le condizioni perché la pluralità di prospettive non si trasformi in relativismo teologico, ma generi un autentico pluralismo di approcci alla verità. Anzitutto, si deve riconoscere che non è pensabile la pluralità della verità senza presupporre anche la convergenza di molteplici verità verso l’unità del vero. Si tratta di trasformare la molteplicità in interrelazione dei saperi. In secondo luogo, ogni ricercatore, a qualunque ambito scientifico appartenga, deve avere un «atteggiamento onesto di fronte alla verità» e rendersi responsabile della maturazione anche nei discenti del medesimo amore alla verità (RH 19). L’onestà intellettuale non è solo un’istanza metodologica, ma è anche un’esigenza imprescindibile della relazione comunicativa. L’amore alla verità si traduce in attenzione ai processi conoscitivi che possono disvelarla e in cura nei confronti delle persone e delle istituzioni educative e scientifiche, dove questa fusione di orizzonti assume un profilo scientifico e non solo culturale.
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4.2. La
convergenza di prospettive : i semi della verità
Il secondo paradigma del modello ermeneutico di verità si fonda sul riconoscimento, tutt’altro che ovvio e scontato, del fatto che il vangelo, affidato alla Chiesa per essere annunciato, è «anche parola di verità». Si tratta di una verità poliedrica: «verità su Dio, verità sull’uomo e sul suo destino misterioso, verità sul mondo». Essa esige da chi la cerca di porsi di continuo in prospettive differenti, perché nessuno può disporne: la si può solo servire «generosamente senza asservirla». Proprio quando gli uomini si incontrano con l’inesauribilità incondizionata della verità, se la rappresentano come poliedrica. Essa ha molte facce conoscibili, proprio perché la sua totalità è trascendente e in quanto tale non è non suscettibile di concettualizzazioni esatte. Per essere comunicata ad altri, questa verità va amata, creduta, in certo senso anche adorata (EN 78). L’apertura del condizionato all’incondizionato esige di percorrere una molteplicità di strade differenti. Perciò chi si avvicina alla verità, sa sin dall’inizio di poterla conoscere e comprendere solo a partire dal proprio punto di vista. Questa dimensione prospettica della verità non dipende solo dall’interesse soggettivo, con cui viene approcciata. La verità è prospettica anche in senso oggettivo, perché Dio creatore, che ne è l’origine, e lo Spirito, che la comunica, la fanno conoscere al «cuore di ogni uomo mediante i “semi del Verbo”». È un principio teologico a salvaguardia della trascendenza divina, ma anche della sua possibilità di storicizzazione nell’umano. L’incondizionato si dà a conoscere nella storia sempre in forma condizionata e dunque in modo parcellizzato e per mezzo di segni che rinviano al tutto.44 Il dinamismo dello spirito umano, le sue domande esistenziali e religiose, i «nobili ideali e le iniziative di bene dell’umanità in cammino»: ecco i semi della verità collocati provvidenzialmente nella coscienza umana (RMi 28). Qualunque sia la prospettiva con cui un determinato uomo guarda alla realtà di sé e intorno a sé, egli non può mai restare indifferente alla questione della verità, perché il suo interesse conoscitivo è comunque un punto di vista autentico sulla verità. Perciò ogni ricerca della verità ha la sua «dignità». Si esige un «profondo rispetto» per quella verità germinale che ogni uomo e l’umanità intera custodiscono dentro di sé e che, come un raggio di sole, illumina la condizione umana (RMi 56). La relazione dialogica è il modo autentico per valorizzare queste differenti prospettive, senza mai metterle in parentesi o relativizzarle. Sarebbe un pessimo amore alla verità quello di chi ne riducesse l’inesauribile ricchezza prospettica, trasformandola in mera avalutatività metodologica. Questo vale in ogni campo della ricerca scientifica e dell’azione sociale. Riconoscere e difendere la poliedricità della verità
44 D. Righi (a cura di), Il tutto nei frammenti. Fecondità del cristianesimo tra teologia, filosofia e storia. Atti del 3° Convegno della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (Bologna 3-4 dicembre 2008), EDB, Bologna 2009 (suppl. a Rte 13[2009]26).
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significa opporsi in radice al «pericolo del fanatismo, o fondamentalismo, di quanti, in nome di un’ideologia che si pretende scientifica o religiosa, ritengono di poter imporre agli altri uomini la loro concezione della verità e del bene» (CA 46). La verità cristiana «non è di questo tipo». È altra rispetto al pensiero unico delle ideologie, che pretenderebbero di «imprigionare in un rigido schema» la realtà umana, la quale invece è sempre molteplice e in continuo divenire. È altra anche rispetto al pensiero non meno monolitico della tecnica, che vorrebbe un mondo perfetto, mentre «la vita dell’uomo si realizza nella storia in condizioni diverse e non perfette». Nel pensiero cristiano la concezione prospettica della verità trova il suo fondamento nel riconoscimento della «dignità della persona», la quale trascende il dato storico pur vivendo nella storia (CA 46). La radice della poliedricità della verità è la condizione paradossale dell’uomo, immanente e trascendente nello stesso tempo rispetto al mondo e alla storia. Questa condizione eccentrica ne fa un essere radicalmente libero, capace di assumere posizioni differenti rispetto all’unica verità e quindi di conoscerla secondo differenti prospettive. Se paragonata all’intero della verità, ognuna di queste prospettive è un «frammento». Eppure in questo frammento si offre il tutto: la verità così conosciuta accende il dialogo, interpella la libertà degli interlocutori e li invita, tramite «il corretto esercizio della ragione», a una verità più grande e perciò più comprensiva (CA 46). È il caso del «vangelo della vita». È un frammento della verità intera; è una faccia del poliedro. Tuttavia esso ha fondate «ragioni antropologiche» per essere sostenuto e, a partire da esso, i cristiani – in particolare, «educatori, insegnanti, catechisti e teologi» – possono illuminare il senso dell’uomo e della sua esistenza nel mondo (EVi 82). «Troveremo preziosi punti di incontro e di dialogo anche con i non credenti, tutti insieme impegnati a far sorgere una nuova cultura della vita» (EVi 82).
5. Perché
è preferibile il modello ermeneutico . Sei tesi sulla verità teologica nel magistero post - conciliare
1. Nel magistero cattolico post-conciliare non c’è un modello unico di verità. I cattolici – in specie i teologi e gli scienziati – sono perciò liberi di assumere quello che, con fondate ragioni epistemologiche, ritengono più idoneo per la loro ricerca. Lo stesso vale per le comunità effettivamente impegnate nel compito dell’evangelizzazione e per i loro pastori.45
45 P. Boschini, «Una sola evangelizzazione, molti stili di missione. Una chiave di lettura dell’Instrumentum Laboris», in Missione Oggi 109(2012)8, 18.
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2. La compossibilità di questi modelli di verità non dà diritto a nessun cattolico – compreso lo stesso magistero papale, che altrimenti sconfesserebbe se stesso – di porre secchi aut-aut, che impongano l’adozione di uno tra i differenti paradigmi di verità. Il fatto che in determinate situazioni l’uno o l’altro sia indicato come preferibile non può impedire ad altri di collocare la propria riflessione teologica e la propria azione evangelizzatrice entro un modello differente. Sarà compito del magistero, tramite le sue istituzioni teologiche, favorire un sereno confronto tra questi paradigmi, in modo da prevenire nella Chiesa situazioni di conflitto epistemologico sulla verità. 3. Da un punto di vista di storia della teologia, questi modelli non hanno tutti la medesima rilevanza. Il modello dialogico, con le sue implicazioni antropologiche che rimandano a Blondel, Teilhard de Chardin, Rahner e molti altri, sembra avere esaurito la sua carica ed è andato lentamente scemando durante i primi dieci anni del magistero wojtyliano. Oggi, un ripensamento della Teologia dell’evangelizzazione non può trovare molti stimoli dalla riproposizione della questione della verità secondo un modello di tipo dialogico-antropologico. Questa visione si presenta datata e, a meno di imprevisti sempre possibili nella storia umana, pare destinata alla dismissione. Viceversa, il modello metafisico, che negli anni dell’immediato dopo-concilio pareva destinato a finire in soffitta, ha ripreso vigore e oggi è quello di gran lunga predominante.46 Infine, il modello ermeneutico, che trova i primi timidi riconoscimenti nel magistero roncalliano (in specie nel Discorso inaugurale del concilio, 1962; ma anche in Mater et magistra e in Pacem in terris), si è lentamente fatto spazio, soprattutto laddove non si cerca lo scontro frontale con il pensiero moderno e le sue derive relativiste post-moderne. 4. Il modello più fecondo per il ripensamento della Teologia dell’evangelizzazione è quello ermeneutico, specialmente a partire dalla metafora dell’Areopago, che evidenzia la centralità e la problematicità del rapporto teologia-filosofia.47 Il discorso paolino di At 17,22-31 non autorizza la teologia cristiana a «optare per il Dio dei filosofi contro gli dèi delle religioni».48 Crea un terreno d’incontro tra Paolo e i suoi interlocutori – chiunque essi siano, filosofi o diversamente credenti (At 14,15-17) – e sortisce l’effetto di
46 Id., «L’evangelizzazione in Benedetto XVI. Quasi un bilancio», in Missione Oggi 110(2013)5, 13-16. 47 Id., «Areopago. Una metafora cristiana del rapporto tra filosofia e teologia», in Filosofia e Teologia 27(2013)1, 39-53. 48 J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 1979, 99s.
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approfondire il campo dell’indagine razionale (FR 36).49 Se così non fosse, finirebbero «nella spazzatura» non solo gli dèi dell’antico Olimpo greco,50 ma anche quelli delle religioni tradizionali con cui da secoli i missionari cristiani più intraprendenti si ingegnano di dialogare.51 Lo afferma molto chiaramente lo stesso Giovanni Paolo II: «Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la filosofia greca, non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri approcci» (FR 72). Questa disponibilità della teologia ad assumere molteplici prospettive è la risposta a un’esigenza imprescindibile del pensiero, specialmente in un contesto plurale: la capacità autocritica è la condizione in cui qualunque razionalità si mantiene disponibile al dialogo con le altre modalità di ricerca della verità. Detto altrimenti: la critica di sé – e non il ricorso ad argomenti ex autoritate – è la strategia di cui la razionalità, ogni tipo di razionalità, si avvale per orientarsi nel mare dell’incertezza e per porre limiti al suo campo di ricerca altrimenti sconfinato. Con il suo esito interlocutorio, il discorso all’Areopago testimonia che «l’incontro del cristianesimo con la filosofia non fu immediato né facile» (FR 48). E tale è rimasto ancora oggi. Se Paolo è l’emblema dei teologi che si pongono domande da filosofi, la modernità ci presenta molti filosofi che, al contrario, si pongono le domande dei teologi.52 Nonostante la massiccia cristianizzazione della filosofia ellenistica attuata dalla teologia patristica dal III al V secolo e la successiva trasformazione della teologia in metafisica cristiana, persiste in Occidente una teologia filosofica, erede dei filosofi greci antichi e di quelli arabi ed ebrei medievali. Storicamente, la teologia filosofica è stata – e continua a essere – l’interlocutore più scomodo della teologia confessionale, perché, come affermava Lessing, al «possesso della verità» preferisce «il solo eterno impulso verso la verità, seppur con la condizione di andare errando per l’eternità».53 Quello del pensiero illuminista, qui rappresentato dalle parole di Lessing, non può suonare come un diktat per la teologia cristiana. Da sempre, essa è stata capace di esercitare la razionalità ben consapevole dei propri limiti e, già dal tempo delle dispute medievali, è bene addestrata al criterio metodico
49 «Una ragione purificata e retta, quindi, era in grado di elevarsi ai livelli più alti della riflessione, dando fondamento solido alla percezione dell’essere, del trascendente e dell’assoluto» (FR 41: AAS 91[1999]1, 37). 50 Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 99. Questa tesi è sintetizzata nello slogan: «Contro il mito della sola consuetudine per la verità dell’essere» (ivi, 103). 51 G. Gutierrez, Alla ricerca dei poveri di Gesù Cristo. Il pensiero di Bartolomé de Las Casas, Queriniana, Brescia 1995, 276-278. «Se l’evangelizzazione è un dialogo, non lo si realizza senza uno sforzo per comprendere dall’interno le posizioni dell’altro in modo da avvertirne l’impulso vitale e coglierne la logica interna» (ivi, 247). 52 P. Boschini, «Modelli di epistemologia teologica nel pensiero filosofico europeo moderno (Prima Parte)», in Rte 10(2006)20, 283-330; Id., «Modelli di epistemologia teologica nel pensiero filosofico europeo moderno (Seconda Parte)», ivi 11(2007)21, 73-114. 53 G.E. Lessing, «Una controreplica», in Id., Religione e libertà, Morcelliana, Brescia 2000, 33.
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della continua messa in discussione dei propri presupposti, delle proprie ipotesi e conclusioni. 5. A differenza del modello metafisico e a somiglianza del modello dialogico, il modello ermeneutico non richiede troppi prerequisiti al destinatario dell’annuncio. Né prerequisiti teoretici, quali ad esempio l’accettazione dei principi della metafisica classica: il principio di totalità, o quello di corrispondenza tra intelletto e realtà. Né prerequisiti pratici, come il riconoscimento della natura umana in quanto struttura invariante del soggetto-uomo. Il modello ermeneutico propone il sapere come frutto di una ricerca e di una costruzione cooperativa, che valorizza le istanze presenti nelle ragioni altrui, senza dover sacrificare le proprie: la verità è sempre incondizionata e perciò è più grande di qualunque prospettiva particolare. Lo ricorda lo stesso Giovanni Paolo II, interpretando ancora il discorso di Paolo all’Areopago. L’incontro tra due differenti razionalità demitizzatrici e critiche ha spinto e spinge «la ragione ad andare sempre oltre» (FR 42), nella ricerca di ciò che di più grande può essere pensato; ma anche nella consapevolezza che Dio è, ultimativamente, più grande del pensiero umano.54 Per esercitarsi nell’odierno contesto plurale, la Teologia dell’evangelizzazione richiede un rinnovato dialogo tra filosofia e teologia, che sia fondato sull’accettazione della radicale e simultanea condizione di apertura e di finitudine della propria e dell’altrui razionalità. Apertura nella finitudine: l’oltre a cui mira il pensiero – sia quello teologico, sia quello filosofico – non assume la configurazione dell’illimitato e dell’anonimo, ma quella della prossimità e del volto. Non un pensiero proteso verso ciò che è supremo, svincolato dai limiti del mondano; ma concentrato sul concreto dell’umano, intento a cogliere la storicità del suo darsi e del suo divenire, e capace di leggere nella storicità delle relazioni i segni dell’apertura verso l’ulteriorità. Anche per la sua gradualità nell’accesso a gradi differenti di verità (pratica, empatica, teoretica), il modello ermeneutico si propone oggi come particolarmente idoneo a supportare l’azione evangelizzatrice in un contesto come quello europeo-occidentale, in cui la secolarizzazione priva di rilevanza culturale e di identità soteriologica la verità teologica.55 6. Favorita dalla pluralità di modelli di verità presenti nel suo magistero recente, la Chiesa cattolica si trova oggi in una situazione di effettivo pluralismo teologico. Perché tale pluralismo possa essere governato nel rispetto della triplice modalità della verità (dialogica, metafisica, ermeneutica), non sono necessari interventi di censura né di controllo. È sufficiente che tali differenti visioni della verità possano liberamente e apertamente confrontarsi
54 55
Anselmo d’Aosta, Proslogion, XV. P. Berger, Il brusio degli angeli, il Mulino, Bologna 1970, 9-51.
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nei luoghi a ciò deputati, in primis le facoltà teologiche. Questi dibattiti porteranno a nuove e significative acquisizioni di verità in campo epistemologico, teologico e pastorale. Ne trarrà beneficio non solo la vita delle comunità ecclesiali, ma anche il volto pubblico della Chiesa, che si presenterà nelle nuove agorà come maestra di verità perché essa è innanzitutto madre generatrice di umanità. Da queste considerazioni discendono cinque tesi conclusive.
6. Cinque
tesi conclusive per il ripensamento della T eologia dell ’ evangelizzazione alla luce dell ’ idea ermeneutica di verità teologica
1. Nella Teologia dell’evangelizzazione la verità è un processo pragmatico interpersonale, che si costruisce insieme agli interlocutori dell’annuncio. La verità teologica è il frutto di un processo dell’intelligenza credente che s’interroga sulle condizioni di possibilità della relazione uomo-Dio all’interno di un concreto contesto storico e culturale. Ciò dà vita a un sapere pragmatico che implica più soggetti, posti in una relazione comunicativa segnata dalla reciprocità. Come avvenne all’Areopago, gli altri a cui si rivolge l’azione evangelizzatrice della Chiesa sono recettori attivi e creativi, in grado di interagire con coloro che gli inviano il messaggio.56 La Teologia dell’evangelizzazione non considera un atto di debolezza intellettuale o di relativismo epistemologico riconoscere che anche i propri interlocutori non cristiani abbiano importanti cose da offrirle in ordine alla concettualizzazione dell’esperienza cristiana e della relazione attraverso cui la fede si comunica. Essa sostiene una posizione non pregiudiziale nei confronti dell’odierno pluralismo culturale e, più in generale, nei confronti di tutto ciò che è terreno e penultimo. Il soggetto, grazie a cui questo processo veritativo prende forma, è la Chiesa, in quanto essa è una comunità interpretante, capace di comprendere un linguaggio del passato e di renderlo rilevante per le molteplici forme di razionalità di una società e di una cultura plurali. La verità teologica della Chiesa evangelizzatrice nasce dalla riflessione credente sull’azione evangelizzatrice collettiva e pubblica dei cristiani. Come l’annuncio, anche la verità teologica è un’opera intrinsecamente legata alla prassi organica della comunità cristiana.57
Boschini, «Tra Vangelo e culture», 48. M. Fini, «Il magistero papale post-conciliare sull’evangelizzazione e la sua ricezione nella Chiesa», in Rte 2(1998)3, 41-60. 56 57
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2. In forza del suo carattere linguistico, la verità teologica detta in un mondo plurale esprime l’incondizionato dell’unica parola divina nella molteplicità delle parole umane. In una società secolarizzata, plurale e disincantata come la nostra, l’evangelizzazione non può essere intesa né come una tattica di proselitismo, né tanto meno come una strategia per incrementare l’influenza culturale della Chiesa cattolica. Come fu per Paolo ad Atene, la Teologia dell’evangelizzazione ripensa il farsi storia dell’Eterno. Comunica in forma razionale un vissuto a cui attribuisce una sensatezza incondizionata: parla della rivelazione nella storia umana di una verità assoluta, che non può essere scritta soltanto con l’inchiostro del relativo. Come Paolo, essa afferma la verità dell’Eterno a partire dagli interrogativi che esso rivolge all’umano e dalle risposte dell’uomo a un appello che non ammette neutralità. Trascrive l’assolutezza della verità cristiana entro l’autocomprensione contemporanea della realtà intesa come rete di relazioni, ovvero come un insieme di soggetti tra loro collegati linguisticamente. Riconosce che la realtà in sé delle cose naturali e dei fatti storici resta irraggiungibile per l’intelligenza umana e che essa può essere conosciuta razionalmente solo nell’intreccio tra differenti orizzonti comunicativi. La verità non è distinta dalla sua comunicazione. Riconosce la capacità delle tante parole umane di veicolare l’unica parola divina, attraverso un paziente e faticoso lavoro di mediazione, come quello tentato da Paolo all’Areopago. Anche la verità teologica, come ogni altra verità umana, si dà a conoscere nell’intreccio tra differenti orizzonti linguistici. Perciò anch’essa partecipa alla creazione e al mantenimento di quel contesto pluralista entro cui oggi la verità diviene conoscibile. 3. La verità teologica fa parte dell’azione evangelizzatrice della Chie s a. La Teologia dell’evangelizzazione ripropone nella cultura laica il problema cristologico come questione autenticamente filosofica. E risveglia nella Chiesa il problema dell’annuncio come questione autenticamente antropologica. L’evangelizzazione è un atto ecclesiale che nel suo costituirsi non può fare a meno della razionalità teologica: il discorso all’Areopago ne è un’illustrazione eminente. Ciò significa che la verità teologica fa parte dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, la quale non può prescinderne in alcun modo, pena la trasformazione della verità cristiana in una scommessa o in un sacrificium intellectus e della propria azione in una prassi irragionevole. Anche se mossi da un sacro furore apologetico, i cristiani che disprezzano la verità teologica svalutano l’essere della Chiesa e banalizzano il suo vangelo. La parola della teologia infatti richiama la società e la cultura odierne a prendere sul serio quel messaggio sul Dio biblico, che per indifferenza o per laicismo era stato pregiudizialmente accantonato. Anche all’interno della Chiesa la verità teologica ha una funzione simile, perché risveglia le coscienze dal torpore dogmatico di pensare la verità cristiana con la pseudo-certezza dei beati possidentes.
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La questione antropologica come luogo della verità teologica in un contesto plurale
Nello specifico, il compito della Teologia dell’evangelizzazione è di presentare alla filosofia e alla cultura laica la possibilità di pensare criticamente la verità sull’uomo, superando il veto di un’antropologia etsi Christus non daretur. Parimenti, all’interno della Chiesa la Teologia dell’evangelizzazione obbliga a prendere sul serio l’atto della comunicazione della fede e i contenuti che un simile atto veicola. Quando la Chiesa perde il riferimento al contesto come essenziale per il darsi della verità dell’annuncio, la Teologia dell’evangelizzazione può contribuire a crearlo di nuovo, tramite un atto comunicativo che rende nuovamente parlanti il vangelo e i suoi interlocutori. La Teologia dell’evangelizzazione toglie il veto, talvolta ancora presente nella Chiesa cattolica, a pensare etsi homo historicus non daretur. Laddove, per eccesso di laicismo o di fondamentalismo religioso, gli orizzonti epistemici della teologia e della filosofia non dovessero fondersi per una sorta di moto culturale spontaneo, la Teologia dell’evangelizzazione si fa carico di favorire tale incontro. 4. Nell’odierno tempo di crisi il compito urgente della Teologia dell’evan gelizzazione è l’individuazione di un crocevia antropologico, in cui proporre la propria verità sul limite umano come soglia e offrire un contributo fondato alla ricostruzione della razionalità pubblica. Lo sforzo che la Teologia dell’evangelizzazione è chiamata a produrre nel prossimo futuro consiste nell’individuare un nuovo Areopago, ovvero un concreto «crocevia antropologico», in cui convergere insieme a tutti i saperi che si occupano del carattere relazionale dell’uomo e conseguentemente del carattere consensuale della verità e della prassi. Ciò è reso ancora più urgente dal realizzarsi della profezia di M. Foucault, che quasi cinquant’anni fa vaticinava la «fine dell’uomo»: intendo, la fine dell’uomo moderno, fondato sull’ego cogito cartesiano e sul principio positivista di funzionalità sociale. In altri termini, la Teologia dell’evangelizzazione è chiamata a dire una parola di verità sull’attuale crisi dell’umano. Si tratta di interpretare il senso profondo dell’«assoluta dispersione dell’uomo» causata dal «ritorno delle maschere» e contrassegnata dalla ricomparsa dei «nuovi dèi» della nazione, della razza e della religione.58 Si tratta di un atto intellettuale urgente, che non può esaurirsi nella costruzione di baluardi immaginari, per contrastare un processo di riformulazione del divino che, viceversa, ha già preso piede da molto tempo, anche in ambienti cattolici. Un atto che la Teologia dell’evangelizzazione deve compiere senza indugi né reticenze: in nome della verità evangelica e dell’onestà intellettuale; in forza del fatto che – come Paolo ad Atene – essa si colloca proprio là dove si gioca la partita della finitudine dell’uomo. La Teologia dell’evangelizzazione è un discorso sulla domanda: il limite dell’umano è da intendere come morte o come frontiera? È chiusura o apertura? E con l’apostolo Paolo dice che la condizione umana è soglia
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M. Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1977, 411s.
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relazionale: è volto e sguardo rivolto all’altro; è felice e pensosa ospitalità della differenza; è attesa di un futuro la cui realtà supera ogni immaginazione. Pur interessandole tutto l’umano, la Teologia dell’evangelizzazione predilige il comunitario, il relazionale, il pubblico. È consapevole che il suo è solo un piccolo contributo, purtroppo destinato a pochissimi addetti ai lavori. Ma sa che il suo sforzo, talvolta sottovalutato, è una tessera di quel mosaico di pensieri e di progetti che da molte parti si stanno compiendo in Occidente per il ripristino della razionalità pubblica. 5. La verità nella Teologia dell’evangelizzazione è la sintesi dinamica di teoria e prassi, ed è a servizio del continuo aggiornamento dei metodi e dei linguaggi con cui la Chiesa proclama il vangelo in un contesto plurale. Nel suo discorso all’Areopago Paolo ragiona e annuncia. L’annuncio reinterpreta, rendendolo vivo e attuale, il pensiero in cui si è cristallizzata la tradizione credente. Il pensiero teologico riflette sulla prassi annunciante, per manifestare il contenuto universale e perciò comunicabile di questa relazione salvifica; ma anche per correggere le inevitabili distorsioni della verità che ogni agire umano – anche la prassi evangelizzatrice della Chiesa – porta con sé. Non si può comprendere la verità dell’annuncio cristiano dal di fuori, come spettatori neutrali. La teologia non può mai essere un sapere indifferente all’azione della Chiesa e dei cristiani. Perciò la Teologia dell’evangelizzazione è organica alla prassi annunciante della Chiesa. Questa condizione non è teologalmente indispensabile, perché altrimenti si sostituirebbe all’azione dello Spirito Santo. Ma è epistemologicamente necessaria, perché l’evangelizzazione possa essere storicamente efficace: nel creare e trovare i punti in cui gli orizzonti di verità s’intersecano; nel dire il Dio biblico in modo filosoficamente corretto e culturalmente comprensibile; nell’ispirare alle comunità cristiane che vivono in un contesto plurale un continuo «aggiornamento» di metodi e di linguaggi.
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Aristide Fumagalli
Introduzione L’idea di vita buona, strettamente imparentata a quella di virtù e di felicità, ne ha condiviso la sorte,1 occupando in posizione centrale la scena del pensiero classico e medievale, e finendo invece smarrita nel pensiero moderno. Solo di recente, insieme alla virtù e alla felicità, anche la vita buona ha ricevuto nuova attenzione,2 consistente in una rivisita-
1 Per la filosofia: A. MacIntyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, Duckworth, London 21985 (1981); per la teologia: J. Lauster, Dio e la felicità. La sorte della vita buona nel cristianesimo (Biblioteca di Teologia contemporanea 134), Queriniana, Brescia 2006. 2 La riscoperta della categoria di «vita buona» è dovuta soprattutto al rinnovato interesse per l’etica di Aristotele conseguita specialmente al già citato saggio di MacIntyre, After Virtue. Limitandoci al panorama italiano, ecco qualche titolo indicativo: G. Abbà, Felicità vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale (Biblioteca di Scienze religiose 83), LAS, Roma 1989; S. Natoli, Vita buona, vita felice: scritti di etica e politica (Campi del sapere 128), Feltrinelli, Milano 1990; S. Mocellin, Ripartire dalla «vita buona». La lezione aristotelica in Alasdair MacIntyre, Martha Nussbaum e Amartya Sen (La filosofia e il suo passato), CLEUP, Padova 2006; E. Irrera, Sulla bellezza della vita buona. Fini e criteri dell’agire umano in Aristotele (Koinos Logos), Carabba, Lanciano 2012. Per quanto ancora incipiente, la categoria di vita buona ha fatto ingresso in ambito teologico: M. Cozzoli, Per una teologia morale delle virtù e della vita buona, Lateran University Press, Roma 2002; C. Palazzini, Per la vita buona. Teologia e scienze umane in dialogo, Lateran University Press, Roma 2011; nell’accompagnamento spirituale: A. Grün, Invito alla vita buona, Queriniana, Brescia 2012; S. De Fiores, Educare alla vita buona del Vangelo con Maria (Modello e presenza), San Paolo, Cinisello Balsamo 2012; nel dialogo culturale: A. Scola – A. Cazzullo, La vita buona. Un dialogo sulla Chiesa, la fede, l’amore, la vita e il suo senso (Saggi), Mondadori, Milano 2012; in campo pedagogico: V. Salerno, Identità, azione, racconto. Il dramma della vita buona in Paul Ricoeur (Strumenti/Pedagogia e scienze educazione), Vita e Pensiero,
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zione critica dell’idea che, per quanto antica, si trova ora immessa in un contesto inedito.3 Una delle riproposizioni più ponderate dell’antico concetto socratico e aristotelico di eu zen è quella suggerita da Paul Ricoeur in Sé come un altro, la sua opera più sintetica e matura, ove si dice che «la “vita buona” è per ciascuno la nebulosa di ideali e di sogni di realizzazione rispetto a cui una vita viene considerata come più o meno compiuta o non compiuta».4 Questa definizione pone due difficoltà rispetto alla riflessione sulla vita buona e sulla sua testimonianza da parte dei cristiani, a tema in questo contributo. La prima difficoltà è che la vita buona, essendo tale per «ciascuno», sembrerebbe un affare privato, che ogni individuo decide in proprio. La seconda difficoltà è che la vita buona, essendo una «nebulosa», non risulta nitida e contornata, cosicché ogni sua rappresentazione risulta solo relativa e mai sufficientemente definita. Queste due difficoltà – l’individualismo e il relativismo –, fenomeni tipici dell’attuale congiuntura culturale,5 sfidano il dialogo comune e tanto più l’accordo su «che cosa» sia vita buona e su «come» possa essere testimoniata. Senza la pretesa di darne una definizione univoca e netta, limitiamoci a indicare i tratti essenziali di una vita buona sui quali propiziare, se non l’accordo, almeno il dialogo sociale e indirizzare la testimonianza cristiana, specialmente in quella forma che, data la storia del cristianesimo in Occidente, va sotto il nome di «nuova evangelizzazione».6 A tal fine assumiamo la vita senz’altra qualifica che quella di «vita umana», nel senso della vita specificamente umana distinta da quella di tutte le altre specie viventi.7
Milano 2011; e psicologico: C. Helferich, La «vita buona». La ricerca esistenziale tra filosofia e psicoterapia corporea (Scaffale aperto – Filosofia), Armando, Roma 2004. 3 Nella riflessione etica, antica e recente, la vita umana, oltre che buona, viene qualificata come bella, felice, nuova, piena, ma anche come liquida, minacciata. Per un primo approccio alle varie qualificazioni della vita umana: O. Aime, «Educare alla vita buona. Appunti filosofici», in Archivio teologico torinese 17(2011)2, 291-298. 4 P. Ricoeur, Sé come un altro (Di fronte e attraverso 325), Jaca Book, Milano 1993, 274. 5 Per una valorizzazione, invece, dell’individualità e del pluralismo che eviti il difetto del soggettivismo e del relativismo: K.-W. Merks, Grundlinien einer interkulturellen Ethik. Moral zwischen Pluralismus und üniversalität (Studien zur theologischen Ethik 132), Universitätsverlag-Herder, Fribourg-Freiburg i.B. – Wien 2012. 6 «Il momento però che stiamo vivendo, almeno presso numerose popolazioni, è piuttosto quello di una formidabile provocazione alla “nuova evangelizzazione”, ossia all’annuncio del Vangelo sempre nuovo e sempre portatore di novità, una evangelizzazione che dev’essere “nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nella sua espressione”. La scristianizzazione, che pesa su interi popoli e comunità un tempo già ricchi di fede e di vita cristiana, comporta non solo la perdita della fede o comunque la sua insignificanza per la vita, ma anche, e necessariamente, un declino o un oscuramento del senso morale: e questo sia per il dissolversi della consapevolezza dell’originalità della morale evangelica, sia per l’eclissi degli stessi principi e valori etici fondamentali» (Giovanni Paolo II, lettera enciclica Veritatis splendor [6.8.1993], n. 106: AAS 85[1993]12, 1216). 7 Così intesa, la vita umana è più che la vita fisica, biologica dell’uomo, la quale, tuttavia, può divenire oggetto di indagine specifica, anche teologica. Si veda a tal riguardo: G. Scal-
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1. Una
definizione della vita buona
La differenza specifica della vita umana rispetto a quella delle altre specie viventi sulla terra può essere indicata in termini di libertà, categoria sintetica comprensiva di intelligenza e volontà. Umana è una vita dotata di sapere e di potere, pur entro certi limiti, circa il suo decorso. La vita umana, dotata di libertà, dipende nondimeno da condizioni che permettono alla libertà di sussistere e di esercitarsi e, così facendo, la condizionano. Limitandoci a evocarle, tali condizioni sono: gli «altri umani», dai quali la vita umana di ciascuno è generata, cresciuta, educata ecc.; il «corpo», mediante il quale la libertà è presente al mondo; il «mondo-ambiente» della natura e della cultura, rispetto al quale la libertà corporea vive in osmosi. Oltre a queste condizioni, la libertà dipende da una condizione ancora più radicale, quella di ritrovarsi a esistere senza averlo scelto, senza essere, dunque, all’origine di se stessa. Sull’identità di questa «origine», casuale o intelligente, immanente o trascendente, classicamente indicata con il nome di Dio, da sempre, gli uomini si arrovellano, addivenendo alle più diverse conclusioni. Di fatto, la vita umana, non può astrarre da questa condizione, rispetto alla quale – ricorda il celebre pari di Pascal – «bisogna scommettere».8 In base a queste schematiche indicazioni, la vita umana può essere definita come «l’interazione della libertà con le condizioni necessarie alla sua sussistenza». Da ciò consegue che la vita umana è tale quando gode delle condizioni necessarie affinché la libertà sussista e quando la libertà custodisce le condizioni necessarie alla sua sussistenza. Da ciò pure consegue che la vita umana viene meno quando mancano le condizioni necessarie affinché la libertà sussista e quando la libertà non custodisce le condizioni necessarie alla sua sussistenza. I fattori per i quali la vita umana consiste sono i medesimi che permettono di qualificare la vita umana come buona. Una vita è buona qualora si danno le condizioni necessarie per la sussistenza della libertà e, da par suo, la libertà le custodisce e le promuove. A complemento di questa idea della vita buona, va aggiunto che la libertà e le sue necessarie condizioni di sussistenza, essendo realtà dinamiche, evolvono nel tempo, potendo crescere sino alla pienezza di vita oppure decrescere sino allo svuotamento della morte. In riferimento a queste eventualità, la vita umana può essere detta più o meno buona. Tenendo conto del dinamismo della vita umana, può allora essere defi-
mana, Teologia e biologia (Novecento teologico – Supplementi 24), Morcelliana, Brescia 2010; P. Sardi, «Vita», in Dizionario teologico interdisciplinare, 3 voll., Marietti, Genova 1977, III, 563-581. 8 «Oui; mais il faut parier. Cela n’est pas volontaire, vous êtes embarqué» (n. 451) (B. Pascal, Pensieri [Bompiani Testi a fronte 19], Bompiani, Milano 32006, 249).
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nita vita buona quella in cui si promuove l’interazione tra la libertà e le sue condizioni di sussistenza, e cattiva quella in cui l’interazione tra la libertà e tali sue condizioni venga liquidata.
2. La
liquidazione della vita buona
La vita buona, dovuta all’interazione della libertà con le sue necessarie condizioni di sussistenza, appare oggi, più che in passato, in crisi. Lungo tutto il corso della storia umana, per la verità, non sono certo mancate le tensioni e gli squilibri, ma ciò che caratterizza l’epoca attuale è che la crisi dell’interazione tra la libertà e le sue condizioni di sussistenza non consta solo di fatto, ma assurge a questione di diritto. Non solo la prassi di vita mette in luce i difetti di interazione, ma la stessa interazione è contestata di principio. Tra la libertà e le condizioni sociali, corporee, ambientali della sua sussistenza è all’opera un processo di liquidazione, che tende ad allentare i legami e farli percepire non più come relazioni costitutive, ma come connessioni facoltative. Il propulsore di questo processo è una concezione della libertà dimentica del suo essere «soltanto umana»9 e convinta, invece, del fatto che possa essere simil-divina, ovvero in-condizionata, priva di condizioni che non siano quelle stabilite in proprio. La libertà dell’uomo, insomma, avrebbe finalmente raggiunto quella che Nietzsche prospetta come terza e ultima metamorfosi dello spirito umano. Dopo aver sopportato l’eteronomia, come un cammello che, piegando pazientemente le ginocchia, viene caricato dei pesi più gravosi eppure corre forte nel deserto sotto il suo carico; dopo aver rivendicato l’autonomia, come il leone che, spodestando ogni altro animale s’impone quale re della foresta; lo spirito umano diviene infine «fanciullo».10 A seguito di quest’ultima metamorfosi, lo spirito umano non è più «sotto», ma nemmeno «contro» chi lo condiziona; egli è semplicemente «senza» condizioni, con il potere di creare nuovi valori, così come un fanciullo inventa da sé i suoi giochi. Uscendo dalla metafora nietzschiana e semplificando la storiografia si potrebbe dire che, dopo l’epoca antica dell’eteronomia e quella moderna dell’autonomia, nell’attuale epoca post-moderna l’uomo si sente all’origine di se stesso, accarezzando, come forse mai prima, l’antico sogno di Adamo ed Eva di essere come Dio (cf. Gen 3,4).
9 P. Ricoeur, Filosofia della volontà, 1: Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1990, 479. 10 «Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota rotante da sola, un sacro dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì» (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno [Piccola Biblioteca Adelphi 36-37], Adelphi, Milano 29 2008, 24s).
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Ciò che agli occhi dell’uomo e della donna di oggi risulta, come l’albero nel mezzo del giardino per gli antichi progenitori, «gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gen 3,6) è soprattutto rappresentato dalle prestazioni delle tecno-scienze, il cui «biopotere», ovvero il potere di intervento in tutti gli ambiti di vita, va così rapidamente ingigantendo da lasciar supporre che il progetto fallito a Babele possa oggi riuscire: l’onnipotenza divina può essere, quanto meno, simulata. Non più concepita in solido con le sue condizioni, modificabili come mai prima, la libertà interagisce con gli altri, il corpo, il mondo-ambiente, alla stregua di un utente che, stando al di qua dello schermo del computer, opera sulla realtà al di là dello schermo, avendo l’idea di potersi collegare e scollegare quando e come meglio ritiene. Non è possibile in questa sede, e non è peraltro compito di questo contributo, descrivere le molteplici forme che l’idea diffusa di una libertà in-condizionata genera nelle prassi di vita. Possiamo limitarci a richiamare la metafora ormai più che nota con cui Zygmunt Bauman ha interpretato questa fase della modernità, da lui definita «liquida».11 Anche la vita, in questa epoca, in tutte le sue dimensioni,12 appare liquida, poiché la libertà si connette solo accidentalmente con le sue condizioni. La vita liquida, osserva Bauman, è «una serie di nuovi inizi», ovvero la «storia di fini successive»,13 cosicché essa «non è in grado di conservare la propria forma o di tenersi in rotta a lungo».14 La vita liquida consegue a un processo di liquidazione dei legami che intercorrono tra la libertà e le sue condizioni, cosicché gli altri, il corpo, il mondo, Dio, insomma tutto ciò che è altro rispetto alla libertà tende a essere concepito come un’entità alla quale connettersi e disconnettersi, ma rispetto alla quale non sussiste alcuna necessità di riconoscimento e obbligo di relazione. Stante il processo di liquidazione dei legami che intercorrono tra la libertà e le sue condizioni, l’idea di vita buona si dissolve o, tutt’al più, si trasforma nell’opinione che ciascuno, sulla sola base della sua libertà, decide in proprio. L’interesse per la vita buona cede allora il posto alla ricerca della vita piacevole, concepita su base individuale. L’idea di bene viene rimpiazzata da quella di benessere, posta al centro della vita: l’attuale fortuna dei «centri benessere» esprime, in tal senso, non solo l’attenzione alla salute psico-fisica dell’uomo, ma una concezione della vita umana in cui l’etica evapora nell’estetica. Sull’ideale della vita piacevole, stabilita su base individuale, ha però un duro impatto la realtà, tale per cui essa appare piuttosto come un miraggio, continuamente inseguito e mai raggiunto. La libertà indi-
Z. Bauman, Modernità liquida (Sagittari 133), Laterza, Roma-Bari 152006. Id., Paura liquida (I Robinson/Letture), Laterza, Roma-Bari 42008; Id., Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi (Economica Laterza 388), Laterza, Bari-Roma 62007. 13 Id., Vita liquida (I Robinson/Letture), Laterza, Roma-Bari 2006, IX. 14 Ivi, VII. 11
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viduale, infatti, deve fare i conti con quella degli altri,15 e questo non solo qualora sia avida di conquista, e dunque invada il terreno altrui, ma anche qualora tema di essere conquistata e voglia difendersi. Non è un caso che proprio le società post-moderne, alla continua ricerca di espandere gli spazi di libertà, vedano incrementarsi a dismisura le leggi e le regole. Slegata da ogni riferimento morale, la libertà si ritrova soffocata da mille regolamenti. I luoghi emblematici in cui questo paradosso torna prepotentemente alla ribalta riguardano tutti i principali ambiti della vita umana. La vita personale deve oggi far fronte alle impressionanti potenzialità della combinazione «GRIN», ovvero di Genetica, Robotica, Informatica e Nanotecnologie, mediante la quale si giunge a manipolare lo stesso patrimonio genetico che contraddistingue la specie umana. La vita sociale, strattonata per un verso dai processi di globalizzazione e per altro verso dai particolarismi regionali ed etnici, vede alzarsi il tasso di conflittualità e di violenza. Lo scontro sociale trova enfasi e giustificazione nel fondamentalismo religioso, che impugna la fede quale arma contro l’infedele e l’eretico. A urgere l’istanza etica nella vita personale, sociale e religiosa contribuisce l’impazienza, quella sorta di violenza nei confronti dei ritmi e dei tempi dell’umano vivere che la cultura del «tutto e subito» ha inoculato nell’individuo post-moderno. L’uomo post-moderno si trova stretto in una situazione paradossale: da una parte deciso a non avere altra regola che la propria libertà, dall’altra ansioso di regole che la proteggano. Irretita dal miraggio della propria assolutezza, la libertà da un lato tenta di liquidare i legami che le sono essenziali, dall’altro tenta di rimediare stabilendo legami convenzionali sulla base di un contratto. L’idea della vita piacevole, a fronte della violenza dovuta ai conflitti di interesse tra gli individui, ciascuno mirante al benessere proprio, accetta, eventualmente, di integrare l’idea dell’utilità sociale, in vista della quale il piacere individuale tollera di essere temperato. La vita piacevole di ciascuno ammette allora il compromesso con l’utilità per tutti, secondo il principio dell’utilitarismo non a caso oggi dominante nelle società democratiche.
3. La
visione biblica della vita buona
La vita umana, costituita dall’interazione della libertà con le sue condizioni di sussistenza e soggetta a processi di liquidazione, trova riscontro nella visione biblica della vita buona e della sua fragilità. Nell’impossibilità, in questa sede, di presentare adeguatamente l’antropologia biblica,
15 F. Buzzi, «Parte seconda. La coscienza in azione», in E. Borghi – F. Buzzi, La coscienza di essere umani. Percorsi biblici e filosofici per un agire etico (In cammino), Àncora, Milano 2001, 63-65.
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limitiamoci a evocarla mediante una delle sue rappresentazioni più originarie e incisive, quella contenuta nei primi tre capitoli del libro della Genesi.16 Il valore attuale di tale rappresentazione, che pur si presenta nella forma del mito, è dato dal suo carattere di «eziologia meta-storica», tale per cui «la “storia narrata”, con un ricco linguaggio mitico, ha lo scopo di esprimere il senso dell’uomo e della storia dell’uomo di sempre».17 Il racconto genesiaco, mettendo in scena la creazione dell’uomo, permette di riconoscere quali siano le relazioni che gli danno e lo mantengono in vita. La creazione dell’uomo evidenzia, da subito, la relazione con l’altro, simile eppur differente, emblematicamente rappresentato dalla donna: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gen 1,27). Nel prosieguo del racconto di creazione si legge, poi, che «il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gen 2,7). Nelle due azioni di Dio, che plasma la polvere del suolo e soffia l’alito di vita, si allude al fatto che l’uomo è costituito dalla relazione di spirito e corpo. Il corpo che Dio plasma dalla polvere del suolo già evoca la relazione dell’uomo con il mondo-ambiente, la quale trova poi sviluppo nella figura del «giardino», ove l’uomo viene collocato da Dio, affinché lo coltivi e lo custodisca (cf. Gen 2,18). Tutte le relazioni costitutive dell’uomo hanno la loro origine nell’azio ne di Dio che, in quanto creatore dell’uomo, è l’origine stessa della sua vita. Quella con Dio è la relazione fondamentale dalla quale dipendono tutte le altre relazioni strutturanti l’essere umano. La speciale relazione che Dio intrattiene con l’uomo, l’unica creatura della quale Dio dice non solo che è «cosa buona», ma che è «cosa molto buona» (Gen 1,31), è dovuta al fatto che l’uomo è creato a immagine (ṣelem) e somiglianza (demût) di Dio. I due termini, da intendere come sinonimi, esprimono «una certa “similitudine” o meglio una certa possibilità di sintonia tra Dio e l’umanità».18 Più che da riferire a una qualche dimensione specifica dell’essere uomo, come non si è mancato di fare lungo tutta la storia,19 essi esprimono l’originaria e costitutiva capacità di entrare in relazione. L’uomo è l’essere in relazione: «Dio ha posto in essere una creatura che
16 Per un inquadramento complessivo del tema nella Bibbia: C. Frevel, «Vita», in A. Berlejung – C. Frevel (a cura di), I concetti teologici fondamentali dell’Antico e del Nuovo testamento (Biblioteca di Teologia contemporanea 143), Queriniana, Brescia 2009, 780-784. 17 G. Borgonovo, «La grammatica dell’esistenza alla luce della storia di Israele (Gen 2,4b–3,24)», in Id. et al., Torah e storiografie dell’Antico Testamento (LOGOS – Corso di studi biblici 2), Elledici, Leumann 2012, 434-438, qui 431. 18 Id., «L’inno del Creatore per la bellezza della creazione (Gen 1,1–2,4)», in Id. et al., Torah e storiografie dell’Antico Testamento, 393-428, qui 417. 19 Per un ragguaglio essenziale della storia dell’interpretazione biblica del tema dell’«immagine e somiglianza», di grande importanza nella tradizione cristiana, si veda: P. Rota Scalabrini, «Da principio fu così… Antropologia e teologia della coppia in Genesi», in Maschio e femmina li creò (Disputatio 20), Glossa, Milano 2008, 117-149, qui 120-126.
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potesse “rispondere” a lui, una creatura “libera” che potesse essere suo interlocutore».20 A differenza di tutte le altre creature, l’uomo è in relazione libera con Dio, nel senso per cui a lui è concesso, unico tra le creature, di corrispondere o rinnegare tale legame. L’abilitazione dell’uomo a tale compito e la responsabilità nell’esercitarlo sono promosse dal comandamento che il Signore Dio impone all’uomo, miticamente rappresentato come «l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male» (Gen 2,9). Più che a due alberi distinti, la trama narrativa del testo rimanda a una duplice funzione dell’albero posto in mezzo al giardino. Esso è anzitutto l’albero della vita che origina da Dio, e che l’uomo può ricevere e trasmettere ma non può creare o trattenere. Il divieto di mangiarne i frutti, cioè di farlo proprio, esprime l’impossibilità per l’uomo di rimpiazzare Dio quale origine della vita e dunque la necessità di mantenere la relazione vitale con lui. Questa condizione ontologica implica il criterio etico del bene e del male, di cui pure l’albero è simbolo: bene è riconoscere e intrattenere la relazione vitale con Dio, male è misconoscerla e romperla. Buona è la vita umana che si garantisce la condizione divina della sua possibilità, cattiva è la vita che se ne priva, finendo inesorabilmente nell’ombra della morte. Questa spiegazione del mito genesiaco, frutto di una meditazione sapienziale sulla storia dell’alleanza di Dio con Israele, trova riscontro al di fuori del linguaggio mitico in altri testi biblici, come, emblematicamente, nel libro del Deuteronomio: Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male. Oggi, perciò, io ti comando di amare il Signore, tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore, tuo Dio, ti benedica nella terra in cui tu stai per entrare per prenderne possesso. Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dèi e a servirli, oggi io vi dichiaro che certo perirete, che non avrete vita lunga nel paese in cui state per entrare per prenderne possesso, attraversando il Giordano (Dt 30,15-18).
Come già osservato a proposito del genere letterario del racconto genesiaco – l’eziologia meta-storica –, ciò che in esso si narra si attua in ogni oggi della storia degli uomini. La legge di Dio che salda insieme vita e bene, male e morte è la grammatica dell’esistenza umana. La controprova della verità illustrata nei primi due capitoli della Genesi è offerta nel terzo capitolo. La scelta di rompere la relazione con Dio, per essere, come lui, all’origine della propria vita, precipita l’uomo nella morte, le cui ombre si stendono sulla vita umana ancor prima che l’uomo sia ridotto in polvere. Tutte le relazioni costitutive dell’uomo vengono mortificate: quella con la donna diviene di schiavitù e dominio
20 G. Borgonovo, «Genesi», in La Bibbia Piemme, Piemme, Casale Monferrato 31998, 53-180, qui 72.
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(v. 16: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà»); quella con il corpo si dissocia, polverizzandosi (v. 19: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai»); quella con il mondo-ambiente affatica e addolora (vv. 3,1719: «Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. […] Con il sudore del tuo volto mangerai il pane»). Questa succinta evocazione dell’antropologia biblica è già sufficiente per affermare che la vita buona è la vita umana che riconosce e intrattiene la relazione con Dio. Da questa relazione fondamentale dipendono anche tutte le altre relazioni costitutive della vita umana, per le quali essa è vita buona. L’antropologia biblica non si risolve, però, nell’affermazione «che» la vita buona è dovuta alla custodia e alla promozione della relazione con Dio e delle altre relazioni costitutive della vita umana da lui create, ma rivela «come» ciò possa avvenire. Affrontando questo nuovo aspetto, giungiamo a considerare la visione specificamente cristiana della vita buona e della sua testimonianza.21
4. La specifica testimonianza cristiana «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6): in questa autopresentazione, Gesù si rivela come colui per il quale l’uomo accede alla verità della vita. È guardando a lui che all’uomo è concesso di vedere, in forma compiuta, la vita buona; è fissando lo sguardo su di lui che l’uomo impara «come» possano e debbano essere custodite e coltivate le relazioni costitutive della vita umana, ovvero «come» la libertà debba interagire con le sue condizioni vitali. Sulla base di questo fondamentale criterio cristologico, per esempio, i vescovi italiani hanno prospettato, per il decennio 2010-2020, gli orientamenti pastorali, così riassumibili: «Educare alla vita buona del vangelo significa, infatti, in primo luogo farci discepoli del Signore Gesù, il Maestro che non cessa di educare a un’umanità nuova e piena».22 Il riferimento a Cristo è ciò che specifica la concezione cristiana della vita buona rispetto a ogni altra visione dell’eudaimonia, sia essa connessa alla virtù o al piacere, sia essa concepita in chiave terrena o ultraterrena.23 La concezione cristiana svolge semmai nei confronti di ogni altra concezione una triplice funzione: rivelativa, critica e integrativa, che rivela, cioè, i tratti della vita buona ivi presenti, ne contesta le riduzioni, la integra in una visione compiuta. Nel riferimento a Cristo risiede dunque lo
21 U. Sartorio, Fare la differenza. Un cristianesimo per la vita buona (Teologia Saggi), Cittadella, Assisi 2011. 22 A. Bagnasco, «Presentazione», in CEI, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020 (4 ottobre 2010), Paoline, Milano 2010, 3s, qui 3. 23 Per una rassegna sintetica ma ricca del tema si veda N. Abbagnano – G. Fornero, «Felicità», in Id. (a cura di), Dizionario di filosofia, UTET, Torino 31998, 467-469.
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specifico della vita buona in senso cristiano e della sua testimonianza, che se non avesse in Cristo la sua condizione di possibilità e il suo criterio di esercizio non potrebbe, ovviamente, dirsi cristiana. La testimonianza cristiana della vita buona è testimonianza della vita di Cristo, del come egli, vero uomo, abbia vissuto le relazioni costitutive della vita umana, di come l’interazione della sua libertà con Dio, con gli altri, con il corpo, con il mondo-ambiente, gli abbiano consentito di dare vita agli uomini: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). La testimonianza della vita di Cristo da parte dei cristiani non ha altro criterio di autenticità e di credibilità che quello da lui stesso indicato: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Per evitare pericolosi equivoci e ben comprendere l’amore inteso da Gesù in questa dichiarazione, è necessario rifarsi al comandamento che egli lascia ai suoi affinché, vivendolo, siano testimoni della sua vita: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Come dunque ha amato Gesù? Quali tratti qualificano il suo amore e specificano la testimonianza cristiana della vita buona? Più precisamente, come egli ha annunciato la vita buona a coloro per i quali l’evangelizzazione risultava nuova, non avendola prima ricevuta?
5. Una
triplice attività testimoniale
L’amore di Gesù, in quanto vero uomo, si manifesta mediante gesti e parole, e diventa specialmente eloquente quando egli giunge ad amare gli altri ancor più di se stesso. A queste tre forme testimoniali dell’amore, corrispondono in Gesù tre forme della sua attività: terapeutica, poetica ed etica. Sono le tre attività che, secondo Christoph Theobald, costituiscono la «“spiritualità” della vita»24 mediante la quale Cristo ha testimoniato la vita buona e simultaneamente ispirato ai cristiani di ogni tempo come testimoniarla. L’attività terapeutica di Gesù consiste nel guarire uomini e donne dalle malattie fisiche e dai mali spirituali, nel permettere dunque loro di vivere integralmente, in spirito e corpo, e di essere reintegrati nella vita sociale e religiosa, dalla quale la malattia li alienava. L’attività poetica di Gesù consiste specialmente nel parlare a tutti in parabole, sollecitando l’intraprendenza e la creatività degli uditori, affinché scoprano, sotto la patina dell’ovvietà, dei pregiudizi, delle inerzie, il segreto della vita umana.
24 C. Theobald, Il cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella post-modernità 2 (Nuovi Saggi teologici 79), EDB, Bologna 2009, 832-834.
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L’attività etica di Gesù promuove l’amore del prossimo, sollevandolo dal grado basilare del non mortificare la vita degli altri, secondo l’insegnamento del Decalogo, sino al grado supremo di quell’amore del prossimo che è l’amore dei nemici. La contemplazione attenta e paziente della triplice attività di Gesù, che ha nella Scrittura la sua fonte e il suo canone, si presenta come la condizione previa della testimonianza cristiana, atta a favorire l’«immaginazione analogica»25 dei cristiani, vale a dire quell’attività riflessiva che, ascoltando la narrazione della storia di Gesù, elabora un’immagine di come si possa praticare l’amore ivi narrato.26 Le ovvie differenze soggettive e oggettive che intercorrono tra la pratica narrata nella Scrittura e le circostanze di vita dei cristiani di oggi impediscono di pensare a una copia identica mimando, per esempio, il buon samaritano che carica il ferito sul suo giumento o Gesù che fa il pediluvio ai suoi discepoli. D’altra parte, il comando di fare in modo simile al samaritano o come Gesù, pure esclude un’invenzione arbitraria dell’azione da compiere. Rispetto alle azioni narrate nella Bibbia l’azione immaginata dovrà risultare, al contempo, uguale e differente, ovvero analogica: «il che vuol dire essere fedeli e creativi allo stesso tempo».27 L’immagine che l’analogia riflessiva è sfidata a elaborare è quella di un’azione che realizzi nei confronti del prossimo la medesima relazione interpersonale che traspare dalle azioni narrate nella Scrittura. Immergendosi nei particolari del racconto della lavanda dei piedi, per esempio, ai cristiani è chiesto di cogliere la relazione che Gesù instaura con i suoi discepoli, così da poterla attualizzare nei confronti del proprio prossimo. Non è questo il luogo per sviluppare l’immaginazione analogica relativa all’odierna evangelizzazione, compito inesauribile e affidato a ogni cristiano. Con il solo scopo di mostrare la fecondità di questo metodo, forniamo però almeno qualche spunto per immaginare la testimonianza creativa della vita buona del vangelo, riprendendo la triplice attività di Gesù. L’attività terapeutica di Gesù, rivolta al corpo e allo spirito degli uomini, specialmente malati e peccatori, invita a un rispolvero delle opere di misericordia.28 Al di là dell’innegabile formalità del settenario, tipica espressione dell’indole didattica della teologia medievale, le
25 Riprendiamo il concetto da W.C. Spohn, Go and Do Likewise: Jesus and Ethics, Continuum, New York 1999, 50-71, che a sua volta lo mutua da D. Tracy, The Analogical Imagination: Christian Theology and the Culture of Pluralism, Crossroad, New York 1981. 26 Metto qui a frutto quanto ho scritto in A. Fumagalli, «Sacra Scrittura e agire morale. Una proposta teoretica», in Studia Moralia Supplemento 4 47(2009)1, 73-94. 27 Spohn, Go and Do Likewise, 56. L’attualità di questa sfida può contare su risorse presenti nel patrimonio della teologia morale: la casistica di un tempo, oggi nuovamente in auge dopo qualche decennio di dura critica, faceva del confronto tra i singoli casi un tratto distintivo del suo procedimento argomentativo. 28 J.F. Keenan, Le opere di misericordia cuore del cristianesimo (Itinerari), EDB, Bologna 2010.
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opere di misericordia corrispondono alle varie necessità cui gli uomini, nel loro corpo e spirito, vanno soggetti. La distinzione delle opere di misericordia in corporali e spirituali, pur corrispondendo alla duplice natura dell’uomo, non può essere irrigidita sino a dimenticare la spiritualità delle opere corporali e la corporeità di quelle spirituali. La cura fisica del corpo, trattandosi del corpo di una persona, è benefica per lo spirito personale e, viceversa, la cura dello spirito della persona favorisce il suo benessere psicofisico. Una malattia oggi assai diffusa, la cosiddetta «depressione», costituisce prova evidente di come cause psicofisiche e spirituali convergano nel dar luogo alla patologia, e di converso, di come la miglior cura debordi dalla somministrazione medica di psicofarmaci e auspichi un sano contesto relazionale e spirituale. Già la sapienza popolare, del resto, conosce l’importanza di tenere alto «il morale» dell’ammalato. L’attività poetica di Gesù, nei confronti di chi non è già suo discepolo, privilegia i racconti in parabole: egli, infatti, amava parlare in parabole, e non parlava a quelli di fuori se non in parabole (cf. Mc 4,11). Il genio di Gesù non consiste solo nel fatto di aver trovato le parole che aprono il segreto della vita, ma di aver parlato in modo tale che altri abbiano potuto rischiare la loro parola alla sua sequela e inventare altre parabole: il Nuovo Testamento è la traccia di questa creatività parabolica; consegnandoci una certa «regola» di composizione (per es. Mc 4,1-34), egli invita il lettore a intraprendere un lavoro poetico capace di esercitare la funzione di «ouverture» delle parabole di Gesù in altre culture.29
La parabola, sia che riguardi le esperienze elementari della vita (cf. Lc 7,41-43), i suoi paradossi (cf. Mt 20,1-16), le leggi della sua evoluzione (cf. Mc 4,3-9), esigendo più che altri generi letterari l’attivazione degli uditori, i quali devono indovinare la «morale» in esse racchiusa, suscita comunque una reazione, sia essa di interessamento, come quella dei discepoli che chiedono spiegazioni a Gesù (cf. Mt 13,36; 15,15), sia essa di noncuranza, come quella di coloro che «guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono» (Mt 13,13). Attivando il destinatario, la comunicazione in parabole instaura uno stile dialogico, meglio corrispondente a quel dialogo con il mondo che il concilio Vaticano II ha additato quale stile della missione della Chiesa per il terzo millennio dell’era cristiana.30 Lo stile dialogico delle parabole invita a rivedere il linguaggio della Chiesa, che anche quando si rivolge ad extra sembra ancora privilegiare altri due registri, quello parenetico e quello normativo, validi in una società cristianizzata, ma forse non propriamente adatti alla nuova evangelizzazione. L’annuncio odierno si colloca, infatti, entro il «conflitto delle
Theobald, Il cristianesimo come stile 2, 833. Giovanni Paolo II, lettera apostolica Novo millennio ineunte (6.1.2001), nn. 54-56: EV 20/112-116. 29 30
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convinzioni»,31 tale per cui non si tratta, anzitutto, di sollecitare l’impegno rispetto a una convinzione già presente, secondo il registro parenetico, e nemmeno di insistere sulle norme che permettano di misurare chi è fuori e chi è dentro, secondo il registro normativo. Ciò che oggi, specialmente, appare opportuno è l’indicazione di un senso delle cose che non è visto perché sommerso. Se solo alcuni beneficiano della guarigione di Gesù, le sue parabole sono indirizzate a tutti, come dei gesti di parola destinati, come il bastone con il quale Mosè colpisce la roccia (Es 17,6), ad aprire in coloro che hanno orecchie per intendere sorgenti di vita, «cose nascoste fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13,34).32
L’attività etica di Gesù, promuovendo l’amore del prossimo sino all’amore dei nemici, sollecita la gratuità dell’amore, secondo la misura perfetta del Padre celeste, il quale «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). Prima ancora che ad extra la Chiesa rischia di non vivere la gratuità ad intra, con grave danno della testimonianza: è infatti dall’amore dei discepoli, anzitutto vicendevole, che proviene la trasparenza dei cristiani rispetto a Cristo. Piuttosto che la gratuità dell’amore per la vita dell’altro, anche dentro la Chiesa serpeggia l’interesse per la propria vita, per esempio in termini di carrierismo, uno dei sintomi della sete mondana di potere e di gloria. Lotte di potere attraversano la storia della Chiesa, da un capo all’altro, non risparmiando nemmeno le sue origini, se è vero che nel gruppo dei Dodici sorgevano discussioni circa chi di loro fosse più grande (Lc 9,46; 22,24), e conseguenti reazioni fino allo sdegno (Mt 20,24). Ma su di esse vige la parola decisa e la testimonianza personale di Gesù: Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (Mt 20,25-28).
6. La
bellezza della testimonianza
La testimonianza cristiana della vita buona ha la sua sorgente nell’attività terapeutica, poetica ed etica di Cristo, riassunta e culminante nel «dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Nella misura in cui lascia scorgere la vita di Cristo, la vita dei cristiani, oltre che buona è vita bella.
31 A. Lob-Hüdepohl (a cura di), Ethik im Konflikt der Überzeugungen (Studien zur theologischen Ethik 105), Universitätsverlag-Herder, Fribourg-Freiburg i.B. – Wien 2004. 32 Theobald, Il cristianesimo come stile 2, 833.
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La bellezza, infatti, può essere intesa come il risplendere in una forma visibile di una profondità invisibile.33 La bellezza è rivelazione, il darsi a vedere di ciò che resta nascosto: ri-velare significa, infatti, velare ciò che si svela. «La bellezza rivela ciò che non è esaurito in una presenza visibile, l’invisibile che non si rende evidente».34 Stante questa concezione della bellezza, si può riferire alla testimonianza cristiana l’auspicio di Gesù rivolto agli ascoltatori nel Discorso della montagna: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone/ belle (ta kala erga) e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). La testimonianza cristiana è l’opera visibile dell’invisibile amore di Dio, ciò che la distingue e la specifica rispetto ogni altra testimonianza dell’amore. Nelle opere della testimonianza cristiana l’amore è «tanto schiettamente umano (col gran peso che in esso ha la “misericordia materiale”) quanto in ciò prettamente divino (perché determinato e istigato dalla pazienza e dall’umiltà divina)».35 La bellezza della testimonianza cristiana, derivante dal trasparire in essa dell’amore divino, la rende gravida di una fecondità che eccede i limiti delle potenzialità solo umane. «La prima cosa che deve saltare agli occhi del non cristiano nella fede cristiana è il fatto che essa palesemente osa molto, troppo. È troppo bello per essere vero».36 È così che la «sovrabbondanza» può essere considerata il tratto distintivo della testimonianza cristiana.37 La testimonianza sovrabbonda non laddove si fanno molte cose, ma dove si dà tutto di sé, secondo l’insegnamento dello stesso Gesù, il quale, osservando «come la folla vi gettava monete [nel tesoro]» e vedendo prima «tanti ricchi [che] ne gettavano molte» e poi una vedova povera [che] vi gettò due monetine, che fanno un soldo. […] Chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc 12,42-44).
Ciò che specifica la testimonianza cristiana non è nell’ordine della quantità, ma della qualità, e tale qualità non è nell’ordine dell’efficienza, ma della trasparenza. La differenza tra la testimonianza cristiana e ogni
33 Riprendendo l’insegnamento di Tommaso d’Aquino, Hans Urs von Balthasar definisce la bellezza mediante l’intreccio delle due categorie di forma (species) e splendore (lumen) (H.U. von Balthasar, Gloria. Un’estetica teologica. La percezione della forma [Già e non ancora 3], 7 voll., Jaca Book, Milano 1971, I, 4). 34 P. Gilbert, Corso di Metafisica. La pazienza d’essere (Piemme Theologica), Piemme, Casale Monferrato 1997, 319. 35 H.U. von Balthasar, Solo l’amore è credibile, Borla, Roma 1982, 123. 36 Ivi, 104. 37 L. Melina, Azione: epifania dell’amore. La morale cristiana oltre il moralismo e l’antimoralismo (Amore umano 2), Cantagalli, Siena 2008, 115.
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altra forma di testimonianza non risiede in ciò che produce, che pure può e deve essere buono, ma in ciò che essa rivela.38
7. La
testimonianza della
Chiesa
Un’eloquente metafora che la tradizione patristica ha in serbo per descrivere la testimonianza dei cristiani nella Chiesa è forse quella del mysterium lunae.39 La Chiesa non brilla di luce propria ma della luce di Cristo, il suo Sole, e in tal modo illumina il mondo. Proprio su questa metafora si apre la costituzione dogmatica sulla Chiesa del concilio Vaticano II, Lumen gentium: «La luce delle genti è Cristo; e questo santo sinodo, riunito nello Spirito Santo, desidera ardentemente illuminare tutti gli uomini con la luce di Cristo che si riflette sul volto della Chiesa, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cf. Mc 16,15)» (n. 1: EV 1/284). Nell’orizzonte post-moderno, privo di stelle, la luce lunare della Chiesa testimonia l’esistenza di un Sole, e lo testimonia non proiettandone un’immagine, ma riflettendone la luce. La luna non è il Sole. Per quanto possa incantare, la luce lunare non è sufficiente per illuminare a giorno. Solo i raggi del Sole lo possono. La possibilità che il mondo post-moderno sia illuminato dipende dunque dal suo stare di fronte a Cristo. Fissando lo sguardo su Cristo il desiderio religioso del neopaganesimo post-moderno può essere attratto alla fede in lui, così come fu indotto a credere il centurione pagano che sul Calvario, stando «di fronte» al Crocifisso, confessò: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). Se la Chiesa non è Cristo, allora non dovrà temere se il mondo sarà di essa insoddisfatto. E nemmeno dovrà ansiosamente pretendere di soddisfarlo. All’essenza della testimonianza della Chiesa appartiene la confessione di non essere il Signore. Lo provano i vangeli, i quali sono la testimonianza di Gesù resa dai discepoli e insieme, inscindibilmente, la confessione della loro incomprensione sino al rinnegamento e al tradimento.40 L’immancabile fragilità della testimonianza cristiana dovrebbe liberare la Chiesa dallo spirito di performance che pervade il mondo attuale all’insegna della triplice «p»: potere, prestigio, possesso.41 Nel mondo post-moderno la Chiesa è invitata a contemplare la kenosi di Dio in Cristo al fine di testimoniare il suo venire nel mondo spoglio di onnipotenza
Su questo tema si veda il capitolo «L’amore come opera», in Balthasar, Solo l’amore è credibile, 109-124. 39 Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, n. 54: EV 20/112. 40 P. Sequeri, «L’insuperabile alterità di Dio. Perdita della differenza come negazione», in Mi sarete testimoni. L’origine e i modi della testimonianza cristiana (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia), EMI, Bologna 2002, 71-81. 41 C. Champagne, «Être missionnaire dans une société fortement sécularisée. Symposium des Missionnaires Oblats, Ottawa, juin 2002», in Neue Zeitschrift für Missionswissenschaft 58(2002)4, 261-266. 38
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e rivestito di fragile carne. Ciò che traspariva luminoso nella Chiesa delle origini umile e perseguitata è andato, infatti, confondendosi con il lustro riconosciuto alla Chiesa a seguito dell’epoca di Costantino, il cui editto di Milano (313 d.C.) è ormai antico di millesettecento anni. Ma già le radici ebraiche del cristianesimo insegnano che la testimonianza di Dio risplende luminosa più nell’esperienza dell’esilio che nel tempio di Gerusalemme. L’esilio, indubitabilmente doloroso, è il tempo in cui si ode distinta la voce profetica che annuncia la nuova alleanza. L’esilio a Babilonia, come già la schiavitù in Egitto, è il luogo in cui, data l’estrema debolezza del popolo, la presenza di Dio si manifesta in modo inequivocabile. Nell’Occidente post-moderno il mondo sembra spingere la Chiesa in esilio. È questa una tragica fine da evitare con ogni mezzo o un tempo provvidenziale per rinnovare la fede solo in Dio? La rinuncia della Chiesa a farsi vedere, dopo secoli di rilevanza, è l’abdicazione rassegnata ai poteri di questo mondo o la possibilità di testimoniare gratuitamente e quindi far vedere limpidamente Cristo? Valgano a questo riguardo e a chiusura di questo discorso sulla testimonianza cristiana le parole di Giovanni Paolo II in vista del terzo millennio dell’era cristiana: Gli uomini del nostro tempo, magari non sempre consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di «parlare» di Cristo, ma in certo senso di farlo loro «vedere». E non è forse compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia, farne risplendere il volto anche davanti alle generazioni del nuovo millennio?42
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Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte, n. 16: EV 20/37.
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Pluralismo religioso ed evangelizzazione
Brunetto Salvarani
Ouverture. «Né su questo monte né a Gerusalemme» Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità (Gv 4,21-24).
Il Nuovo Testamento narra l’incontro presso un pozzo detto popolarmente di Giacobbe, nella regione della Samaria, fra Gesù e una misteriosa donna samaritana: è descritto, unico tra i quattro vangeli canonici, dal Vangelo di Giovanni (4,1-26). Gli esegeti spiegano che l’aspetto determinante del colloquio fra i due personaggi è rappresentato dal fatto che, agli occhi dei pii ebrei, da molti secoli i samaritani apparivano di regola dei veri e propri eretici, scismatici impenitenti che avevano consapevolmente deciso di rompere con alcune consolidate leggi di Israele; e viceversa, beninteso. In aggiunta a tale disagio di fondo, c’è poi il fatto che di fronte a Gesù – stanco e assetato – si trovi una donna, sconosciuta: il che, in una società patriarcale e maschilista come quella ebraica dell’epoca, rafforza l’anomalia della situazione. È mezzogiorno. Un uomo e una donna. Due interpreti di altrettante letture della Torah, divaricanti ma a loro modo fedeli alla rispettiva tradizione, fino a condurre inevitabilmente allo scontro: ad esempio, a proposito del luogo santo più efficace presso cui adorare Dio, rispettivamente il tempio di Gerusalemme e il monte Sinai, da una parte, e il monte Garizim, dall’altra. Tuttavia Gesù, davanti alla domanda di lei su dove sia più 239
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opportuno pregare, accetta le differenze e mantiene le identità in campo, radicalizzando la questione e proiettando piuttosto il quadro su un futuro escatologico, peraltro già avviato: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre…». E sarà adorato «in spirito e verità». Viene in mente, a mo’ di suggestione, la ben nota considerazione lapidaria di Marcel Gauchet secondo cui il cristianesimo sarebbe «la religione dell’uscita dalla religione».1 In ogni caso, qui quelle due identità in perenne conflitto si vedono riflesse in un domani in cui saranno annullate, per fondersi in un unico sguardo. Uno sguardo in cui le raffinate discussioni teologiche sulla localizzazione corretta di Dio cesseranno, perché Dio sarà oltre: oltre tutti i santuari, le montagne e i fiumi sacri, le chiese e le moschee, le sinagoghe e le pagode. Ma soprattutto, perché «Dio sarà tutto in tutti», «e asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4).
1. Vedere. Dalla religione degli italiani all ’I talia delle religioni «L’idea che l’Italia sia un paese in cui la religione si coniuga sempre più al plurale – ha scritto qualche tempo fa Franco Garelli – sembra non trovare conferma dai dati delle più recenti indagini empiriche».2 Secondo il sociologo torinese, infatti, tutti i sondaggi e le indagini sulla situazione della religiosità nel Belpaese evidenzierebbero un’appartenenza al cattolicesimo che si aggira da parecchi anni intorno all’80% della popolazione, con scarti poco significativi, dipendenti più dal modo in cui sono formulate le domande che da un sentimento mutato nel corso del tempo. Alla domanda: «A quale religione sente di appartenere?», ad esempio, nel quadro di una ricerca su La nuova religiosità in Italia (2006), risponde: «Alla religione cattolica» ben l’86,1%, mentre la quota riservata al capitolo delle «altre religioni» è del 4,8% e il 9,1% dichiara di non appartenere ad alcuna religione. Cosa pensare di queste cifre? È lo stesso Garelli a metterci in guardia dal giungere a conclusioni affrettate, spiegando che l’idea di far parte di una Chiesa o di un determinato gruppo religioso, in effetti, appare più selettiva del senso di appartenenza a una religione, termine che può evocare una generale accettazione del repertorio di simboli e significati prevalenti all’interno dell’ambiente socioculturale in cui si vive e nel quale ci si è formati. Elemento di fatto confermato dall'indagine condotta nel 2010 da Paolo Segatti, docente di sociologia politica all’Università di
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M. Gauchet, Un mondo disincantato?, a cura di D. Frontini, Dedalo, Bari 2008, 72. F. Garelli, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, il Mulino, Bologna 2006.
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Milano, per la rivista Il Regno, secondo cui il processo di secolarizzazione in Italia non si è fermato, bensì ha prodotto un’accentuata varietà nei modi di vivere il rapporto con la religione, nel quadro di un Paese che da cattolico è divenuto genericamente cristiano.3 Sta di fatto che non solo una progressiva secolarizzazione, ma anche il pluralismo religioso è un dato acquisito del nostro paesaggio sociale e culturale: dalla religione degli italiani, è stato detto a più riprese con uno slogan accattivante, all’Italia delle religioni. Un mutamento – certo – non ancora metabolizzato che, per certi versi, non è recente, e ha radici lontane, riconducibili a tendenze lunghe delle società occidentali; mentre, per altri aspetti, è connesso a fenomeni innescatisi dopo la seconda guerra mondiale, e acceleratisi dalla metà degli anni ’60.4 In ogni caso, l’attuale quadro di un’Italia delle religioni era impensabile, sino a poco tempo fa. Nel giro di soli venti anni (meno di una generazione) la nostra carta socioreligiosa è radicalmente cambiata: anche se l’aumento del tasso di pluralismo religioso e culturale sembra andare in questa fase storica di pari passo con la crescita del tasso di ostilità nei confronti di ciò che tale fenomeno induce, un senso di spaesamento, l’idea dell’invasione e della minaccia d’imbarbarimento. Detta in sintesi: gli italiani sono certo ancora in maggioranza cattolici, per storia e deposito culturale, ma meno e diversamente rispetto a ieri e, soprattutto, vivono in vari mondi cattolici.5 In tal senso, occorrerà attrezzarsi per affrontare un simile panorama eccezionalmente in progress, destinato a convivere col processo di secolarizzazione tuttora in atto (una contraddizione solo apparente). Verso la realizzazione effettiva di una casa comune delle fedi, per ora in larga parte ancora tutta da costruire, e impossibile da edificare se non accettando a pieno titolo la sfida faticosa di una laicità inclusiva e del pieno riconoscimento reciproco.
2. Giudicare. Fare missione
in un mondo plurale
«Un’altra terra è possibile». Questo lo slogan – oltre dieci anni fa, era il gennaio del 2002 – della seconda edizione del Social forum mondiale (SFM), a Porto Alegre, capitale dello Stato brasiliano del Rio Grande do Sul. C’era molta speranza nell’aria, e la maggior parte degli oratori inter-
3 P. Segatti – G. Brunelli, «Da cattolica a generalmente cristiana», in Il Regno-att. (2010)10, 337-351. Cf. anche R. Cartocci, Geografia dell’Italia cattolica, il Mulino, Bologna 2011. 4 Per una panoramica complessiva rimando al nostro P. Naso – B. Salvarani (a cura di), Un cantiere senza progetto. Secondo rapporto sull’Italia delle religioni, EMI, Bologna 2012; e a E. Pace, Vecchi e nuovi dei, Paoline, Cinisello Balsamo 2011. 5 Utile, al riguardo, l’analisi di M. Marzano, Quel che resta dei cattolici, Feltrinelli, Milano 2012.
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venuti ripetevano, come un mantra: «Ma non un’altra terra nell’aldilà. Un’altra terra è possibile qui, su questo pianeta!». Solo un’utopia millenaristica? O uno dei tanti sogni infranti, in questa stagione confusa e segnata più dalle chiusure identitarie e dalle paure diffuse che dall’accoglienza e dal dialogo?6 Qualsiasi risposta finisce per essere fragile… Come difficile è stabilire, in un mondo sempre più saldamente globalizzato e nell’avanzare sicuro di un cristianesimo globale,7 quanto le religioni, con il loro potenziale di sogni e di profezia, siano in grado di assumersi la loro porzione di responsabilità in vista di un radicale cambiamento etico e ambientale. Le cronache di quel SFM, in ogni caso, raccontano che, tra i mille colori di quel popolo convenuto sulle rive dell’impetuoso fiume Guaíba, si potevano scorgere i paramenti sacri di tante differenti tradizioni di fede: vi si percepiva un pressante pluralismo culturale e religioso, proteso verso l’idea che questo mondo possa essere finalmente altro, differente, qualitativamente diverso. Ma quale altra terra sarebbe possibile? In teoria tutti noi vogliamo, da sempre, pace e giustizia, e le vogliamo per tutti. Ora, però, questi beni che caratterizzano lo shalom messianico dipendono dalla sostenibilità delle risorse economiche e politiche, tecnologiche e scientifiche in un pianeta squassato dal vento della globalizzazione eppure, paradossalmente, sempre più limitato dalla misura stessa del suo progresso. In altre parole, perché questa terra sia sostenibile, è necessario che sia altra. La prima sostenibilità è, allo stesso tempo, ecologica ed etica: un’etica di convivenza pacifica e di abitabilità; e, di conseguenza, di pluralismo e di giustizia. In che modo le religioni, la spiritualità, la missione possono aiutare questo pianeta a essere sostenibile ecologicamente ed eticamente, aiutandolo a diventare altro? A questo punto del nostro percorso, occorre soffermarsi sul rapporto dialettico, ma vitale, che oggi deve intercorrere nel cristianesimo tra missione e dialogo.
2.1. La
trasformazione della missione …
A partire da un presupposto decisivo, anche se non sempre condiviso nella sua ampiezza: l’agenda missionaria la stabilisce il mondo. Non meraviglia, pertanto, che in un’epoca di eccezionali e vorticosi mutamenti l’idea e la prassi missionaria – al pari del dialogo – stiano attraversando una crisi d’identità e di crescita. «La missione – scrivono Stephen Bevans e Roger Schroeder – testimonia, annuncia, celebra e opera per un nuovo modo di pensare e di vedere gli esseri umani, le
6 Sulla necessità di demistificare gli attuali identitarismi, rinvio a A. Sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006. 7 Cf. P. Jenkins, La terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi, Roma 2004 (nuova edizione aggiornata e ampliata: The Next Christendom. The Coming of the Global Christianity, Oxford University Press, New York 2007).
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creature della terra e lo stesso universo creato».8 Mentre già due decenni fa David Bosch incoraggiava, nel monumentale La trasformazione della missione,9 a leggere tale crisi con occhi pieni di speranza, e comunque non come qualcosa di meramente accidentale e reversibile, ma piuttosto come l’esito di un basilare mutamento di paradigmi (si badi: non soltanto per la missione stessa o la teologia, bensì per l’esperienza e il pensiero del mondo nel suo complesso). Come in passato, quando diversi paradigmi della missione si succedettero nel corso dei secoli, ciascuno di essi – sosteneva Bosch10 – rappresentava la fine di un mondo e la nascita di un altro, in cui dovette essere ridefinita gran parte di ciò che la gente era abituata a pensare e a fare. Si può ritenere senz’altro, in effetti, che l’odierno pluralismo culturale e religioso – e in particolare l’appello a ciò che si è usi chiamare la promozione umana, il processo di sempre maggiore umanizzazione del mondo – costituisca un’autentica sfida per il cristianesimo, ma anche un’occasione forse irripetibile per un suo rinnovamento radicale. È necessario perciò evidenziare, almeno in sintesi, una serie di elementi cruciali dell’odierno panorama pluriculturale, cominciando a riflettere su come il messaggio cristiano – e segnatamente la missiologia – potrebbe relazionarsi felicemente a essi. «Voi Africani siete ormai i missionari di voi stessi. La Chiesa di Cristo è davvero piantata in questa terra benedetta!».11 Quando Paolo VI pronunciava questo appello, a metà fra la constatazione e l’augurio, era il 31 luglio di oltre quarant’anni fa. Era l’Omelia della celebrazione eucaristica conclusiva del primo Simposio dei vescovi africani e del Madagascar, a Kampala, in Uganda. È fondamentale dunque mettere a fuoco le problematiche legate al cristianesimo del continente nero: nella consapevolezza che siamo di fronte non più alla cenerentola di quello che è ormai definito il cristianesimo globale, ma piuttosto a una terra su cui, verosimilmente, si giocheranno non pochi dei destini del domani ecclesiale. Come ha messo felicemente in luce lo stesso Jenkins ne La terza Chiesa,12 stiamo oggi attraversando un momento di trasformazione profonda nella storia delle religioni, un mutamento silenzioso che il cristianesimo ha in realtà cominciato a conoscere già nel secolo scorso, col suo centro di gravità spostatosi notevolmente verso il Sud: Africa, America Latina, Asia (si badi, trattasi di aree soggette a vaste migrazioni tanto intra-continentali quanto inter-continentali). Tale tendenza è, con ogni probabilità, destinata a divenire più visibile, e di molto, nei prossimi decenni:
8 S.B. Bevans – R.P. Schroeder, Teologia per la missione oggi. Costanti nel contesto, Queriniana, Brescia 2010, 594. 9 D. Bosch, La trasformazione della missione. Mutamenti di paradigma in missiologia, Queriniana, Brescia 2000 (ed. or. 1991). 10 Ivi, 17. 11 Paolo VI, Discorso ai vescovi del SECAM: AAS 61(1969), 573-578. 12 Jenkins, La terza Chiesa.
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col cristianesimo che dovrebbe godere di un autentico boom mondiale, anche se la grande maggioranza dei credenti non sarà bianca, né europea, né euroamericana. Anzi – come ipotizza l’autore sulla base delle proiezioni statistiche attualmente disponibili13 – nel 2050 solo un quinto dei tre miliardi di cristiani (delle diverse confessioni, sempre più omologate) sarà costituito da bianchi non-ispanici: eppure, ancora, le Chiese dell’emisfero australe cristiano permangono pressoché invisibili agli osservatori del Nord, mentre lo stesso Samuel P. Huntington, nel suo celebrato bestseller che ha fondato nella vulgata corrente la teoria dello scontro fra le civiltà, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale,14 si riferisce comunemente al cristianesimo come fenomeno occidentale, e come se non potessero darsene altri. Interessante è la descrizione proposta da Jenkins, ovviamente ipotetica ma non priva di credibilità, di questo futuribile cristianesimo: sostanzialmente povero dal punto di vista economico, conservatore nella fede, nella dottrina e in morale, largamente orientato al soprannaturale. Carismatici, apocalittici, visionari, attirati da guarigioni non meno che da esorcismi e visioni oniriche, attaccati alla lettera della Scrittura, i cristiani di domani dovrebbero essere in larga misura dei pentecostali (i quali, dal canto loro, contando la versione originale evangelica e la traduzione cattolica, Rinnovamento nello Spirito e gruppi carismatici vari, rappresenterebbero secondo stime verosimili già oggi un quarto dei cristiani sparsi sul pianeta).15 Ma non solo! Fautori di «un cristianesimo post-coloniale, fiero delle proprie caratteristiche indigene, che pensa con categorie culturali proprie (non più modellate su quelle della tradizione filosofica europea) e si organizza in modo molto più flessibile rispetto alle complesse formazioni ecclesiastiche che hanno dominato la storia del cristianesimo occidentale».16 Sono già, in ogni caso, dei nuovi cristiani, «i nuovi cristiani del terzo millennio» (E. Pace), che non sono nati né stanno crescendo nel classico (per l’Europa, almeno) regime di cristianità: e con cui appare indispensabile fare i conti.
13 Il riferimento, in particolare, è all’ormai classico D.B. Barrett – G.T. Kurian – T.M. Johnson, World Christian Encyclopedia: A Comparative Survey of Churches and Religions in the Modern World, Oxford University Press, New York 2001. Ottimi dati sono reperibili anche sul sito del Center for the Study of Global Christianity, collegato con il GordonConwell Theological Seminary (www.gordonconwell.edu). 14 S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000 (ed. or. 1996). 15 Cf. E. Pace – A. Butticci, Le religioni pentecostali, Carocci, Roma 2010 (con una buona bibliografia alle pp. 127-136). «Il successo religioso più notevole del secolo scorso è stato ottenuto dalla religione che più di tutte fa appello alle emozioni: il pentecostalismo» (J. Micklethwait – A. Wooldridge, God Is Back, Pinguin Press, New York 2009, 17). Sul (presumibile) roseo futuro del pentecostalismo, rimando all’ormai classico H. Cox, Fire from Heaven, Reading Mass, Addison-Wesley 1985. Uno sguardo antropologico al riguardo non privo d’interesse è offerto da M. Marzano, Cattolicesimo magico. Un’indagine etnografica, Bompiani, Milano 2009 (si vedano in particolare le pp. 147-182). 16 Pace – Butticci, Le religioni pentecostali, 19.
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2.2. Nel tempo del
cristianesimo globale
Ripetiamolo: anche il cristianesimo è diventato un fatto globale (in fondo, si tratta di inverare finalmente la vocazione cattolica, cioè universale, del messaggio di Gesù). Si può ammettere che l’idea di un cristianesimo che sta letteralmente andando verso il Sud risulti abbastanza familiare, sia agli studiosi di cose religiose sia agli ambienti missionari, ma molto meno ai media generalisti e ai cristiani feriali. Il tema, infatti, è stato analizzato sin dagli anni ’70 del secolo scorso, quando Walbert Bühlmann coniava un’espressione che avrebbe avuto parecchio successo, quella di Terza Chiesa, basandosi sull’analogia con Terzo Mondo,17 a suggerire come il Sud rappresenti una nuova tradizione paragonabile per importanza alle Chiese occidentali e orientali del passato. E un fine missiologo come Andrew Walls si spingeva a vedere nella fede dell’Africa una tradizione cristiana altra, comparabile addirittura a cattolicesimo, protestantesimo e ortodossia, leggendovi «il cristianesimo standard dell’epoca presente, un modello che mette in evidenza il proprio carattere».18 Sono quegli stessi anni, i ’70, in cui, del resto, ha cominciato a prendere piede una radicale revisione del ruolo delle congregazioni e degli istituti missionari europei in conseguenza del decreto conciliare Ad gentes e della definitiva decolonizzazione, via via sostituiti da congregazioni nate in loco, che ora inviano missionari in altri Paesi del mondo. Già nel ’66, del resto, era stato Karl Rahner a parlare del Vaticano II come del primo concilio autenticamente cattolico, germe di una Chiesa mondiale (Weltkirche) che avrebbe trovato nuove espressioni nella diversità conciliata di popoli e culture19 (l’espressione ha ispirato il teologo Rosino Gibellini, che, in occasione del Congresso internazionale di missiologia di Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo, del ’94, pronosticava: «Se si guarda alla recente storia della Chiesa e della sua teologia, si potrebbe definire il XIX secolo come il secolo missionario, il XX secolo come il secolo ecumenico, e già si può intravedere il XXI secolo come il secolo di una Chiesa mondiale, che si realizza nelle diverse culture e nei diversi contesti sociali, praticando un’inculturazione, che appella nella reciprocità, alla pratica dell’inculturalità: la Chiesa mondiale è una comunità di apprendimento, una comunità dove si apprende reciprocamente»).20 Poco più di quarant’anni dopo, è il vaticanista di Le Monde, Henri Tincq, ad ammettere plasticamente che «i cattolici hanno cambiato emisfero e colore», essendo «precipitati in un altro mondo».21 Un esempio,
W. Buhlmann, La Terza Chiesa alle porte. Un’analisi del presente e del futuro ecclesiali, Paoline, Alba 1976. 18 A. Walls – C. Fyfe (a cura di), Christianity in Africa in the 1990s, University of Edinburgh, Edinburgh 1996, 3. 19 K. Rahner, Nuovi Saggi: Società umana e Chiesa di domani, Paoline, Roma 1986. 20 Cf. www.queriniana.it/blog/la-missione-in-una-chesa-mondiale/34. 21 H. Tincq, I cattolici. Chi sono e che fine faranno, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, 346 (ed. or. 2008). Cf. anche M. Graziano, Il secolo cattolico. La strategia geopolitica della Chiesa, Laterza, Roma-Bari 2010. 17
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ormai classico, è quello offerto da Odon Vallet, che suggestivamente ha evidenziato che Dio sta cambiando indirizzo: se durante la seconda guerra mondiale i primi tre Paesi cattolici su scala mondiale erano la Francia, l’Ita lia e la Germania (che aveva annesso l’Austria), con relativa leadership sul piano simbolico e teologico, ora sono stati rimpiazzati rispettivamente da Brasile, Messico e Filippine, con un forte ridislocamento verso la cultura ispanica e il terzo mondo. Non diverse le risultanze in campo protestante: se gli Stati Uniti conservano il primato, al secondo posto c’è la Nigeria, più o meno alla pari con la Germania e l’Inghilterra. Mentre la maggioranza degli anglicani è di pelle nera, africani, americani o australiani.22 Nel complesso, le Chiese cristiane si trovano esposte a una cesura che può essere considerata la più profonda dal tempo della comunità primitiva. Come il pianeta economico, infatti, oggi anche quello cristiano ha i suoi Paesi emergenti: quelli dell’Africa subsahariana, in primis Congo e Nigeria, e poi Brasile, Messico, Filippine, Corea del Sud, ma pure India e Cina. Fra l’altro, in poco più di un quarto di secolo – quello corrispondente al lungo papato di Karol Wojtyla – la popolazione cattolica è aumentata di oltre il 45%: da 757 milioni del ’78 a più di un miliardo e cento milioni del 2005. Ancora. Un’ipotetica mappa del centro di gravità statistico del cristianesimo globale indica che tale centro si sta costantemente spostando verso il Sud: da un punto dell’Italia settentrionale nel 1800, alla Spagna centrale nel 1900, al Marocco nel 1970 e a Timbuctu – antica città del Mali – ora. E mentre lo spagnolo è considerabile, almeno dagli anni ’80 del secolo scorso, la lingua principale dei cristiani nel mondo, l’hindi, il cinese e lo swahili sono destinati in un prossimo futuro – sostiene qualche commentatore – a svolgere un ruolo persino più rilevante.23 «Anche se in Europa assistiamo a un certo affanno delle nostre chiese – scrive Claude Geffré – dobbiamo prendere le distanze da questo continente e contemplare il mondo dall’alto»; e «quando ci lamentiamo che le nostre chiese stanno diventando deserte, non possiamo dimenticare la vitalità demografica e spirituale delle giovani chiese di quello che definiamo Terzo Mondo».24 Mentre già nel 1979, in un importante discorso a Strasburgo, Yves Congar sosteneva la centralità del Vaticano II in tale processo: un concilio che aveva operato «una sorta di decentramento dell’Urbs sull’Orbis, della Città sul Mondo, per il fatto che l’Orbis prendeva possesso sull’Urbs», perché la Chiesa aveva nell’occasione finalmente preso atto della sua cattolicità, della sua universalità.25 La stessa elezione dell’argentino Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco, a vescovo
22 O. Vallet, cit. in I. Ramonet, «Géopolitique des religions», in Manière de Voir. Le Monde diplomatique (1999)48, 6. 23 P. Jenkins, «Verso Sud. Uno sguardo al cristianesimo che verrà», in Rivista del clero italiano (2008)4, 270. Una breve panoramica dell’odierno cristianesimo globale è reperibile in F. Mastrofini, Geopolitica della Chiesa cattolica, Laterza, Roma-Bari 2006. 24 C. Geffré, «Il futuro della fede cristiana e la sfida del pluralismo», in Il Regno – Annale 2007, EDB, Bologna 2008, 129. 25 Cit. in www.queriniana.it/blog/i-mulini-di-dio-macinano-lentamente/61.
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di Roma il 13 marzo 2013, può essere letta nella medesima direzione: è il primo pontefice proveniente dal Sud planetario, che – come ha detto egli stesso appena eletto – i fratelli cardinali sono andati a prendere quasi alla fine del mondo.
3. Agire. La missione come dialogo profetico Cosa comportano queste trasformazioni per la missione?26 In primo luogo, va denunciato il rischio di trovarsi in un mondo interpretato entro categorie tradizionali e vissuto entro abitudini consolidate, incapaci di cogliere le trasformazioni in atto, e di costruire relazioni positive ed esperienze dotate di senso. Il disorientamento sembra essere la condizione più comune. Come può rispondere a ciò una missione non più ingenua, e consapevole di trovarsi di fronte a quello che Bosch definiva l’emergente paradigma ecumenico del cristianesimo?27 In primo luogo, evitando di arroccarsi su posizioni di retroguardia, di rinchiudersi nella difesa di un mondo tramontato, che non può più essere. Eppure, molti imprenditori della politica propongono (purtroppo con successo) la soluzione della chiusura localistica, che fa riferimento a un concetto deprivato, rigido, difensivo di cittadinanza. È la cittadinanza che fonde in modo perverso il sangue (la stirpe, la genealogia) con la terra (la nostra terra), la genetica con la cultura, in barba alle più elementari acquisizioni della scienza. E lo Stato è tentato, ora più che mai, avendo drammaticamente perduto presa sul mondo economico, di rilanciare la logica della paura: disinteressandosi della condizione d’incertezza che viene dalla logica del libero mercato, e lasciando, come scrive Beck, che siano gli individui a trovare soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche.28 Si può immaginare che la missione possa assumere una direzione di marcia diversa, evitando le trappole e le strumentalizzazioni sia della politica della paura, sia di un mercato lasciato in balìa degli animal spirits? La costruzione di un mondo più equo, sostenibile, partecipato e rispettoso delle differenze, è certo e prima di tutto un compito politico, ma è anche un’irrinunciabile sfida missionaria, religiosa, culturale ed educativa, che chiama in causa tutti i soggetti che ne sono protagonisti. Per far ciò sarà indispensabile prendere sul serio le trasformazioni sopra citate, accettare la propria scomposizione in atto, non pretendere di aggrapparsi nostalgicamente a identità che nulla hanno più da dire al mondo, ma cercare
26 Riprendo qui alcune considerazioni proposte da R. Morselli – A. Tosolini, «Nomadi del presente, cittadini del futuro», in CEM Mondialità (2010)6, 18ss. Per una sintetica panoramica delle attuali tendenze della missiologia, rimando a M. Menin, Missione, EMI, Bologna 2010. 27 Bosch, La trasformazione della missione. 28 U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2001.
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nelle proprie storie, individuali e collettive, gli elementi utili a costruire il nuovo. Con gli altri, attraverso il dialogo e la co-evoluzione solidale.29 È la missione, in effetti, a essere messa in crisi in modo sorprendente (anche) dalla svolta epocale che il nostro villaggio globale sta vivendo, per affrontare la quale occorre disporsi a una rivoluzione del pensiero, del metodo e delle forme di relazione. Ma anche guardare con occhi nuovi al campo di gioco. Se infatti il territorio diviene lo spazio di articolazione tra globale e locale, tra economia dei flussi ed economia dei luoghi, lo scenario entro il quale le differenze si incontrano e si scontrano, confliggono e si ibridano, il luogo della scomposizione ma anche della possibile ricomposizione, allora gli attori del sistema-missione devono partire da qui, da questa nuova categoria interpretativa e da questo spazio di azione. Nel quadro di una quanto mai necessaria messa in relazione di tutti gli attori educativi (istituzionali e non) che hanno un ruolo rilevante sul territorio, affinché si confrontino sui temi della convivenza nonviolenta, della solidarietà intergenerazionale, della sobrietà materiale e della crescita culturale. Servirà dunque un nuovo patto tra questi soggetti, nella costruzione della cittadinanza glocale. Ecco il panorama in cui andrebbe inserita la riflessione missiologica.30 Ai credenti delle diverse Chiese, essa è chiamata a porre in particolare due aut-aut. Da una parte, l’obiettivo di un’estensione globale della solidarietà, di una pratica di giustizia, di pace e di salvaguardia del creato su scala planetaria; dall’altra, l’esigenza di un nuovo stile di cattolicità ecumenica, capace di affrontare una dialettica tra località e universalità, e di porsi al servizio di un mondo riconosciuto come casa della vita, nella ricerca dialogica di un’etica condivisibile. Due sfide da far tremare i polsi, ma ineludibili, pena la sostanziale, progressiva insensatezza dell’annuncio evangelico.31
3.1. Un approccio comprensivo alla missione
Molti sono i tentativi di definire la missione, ma quasi tutti compiuti in epoca recente, poiché se guardiamo alla Chiesa delle origini non troviamo alcun esperimento del genere: gli scritti degli evangelisti e di Paolo, però, ci mostrano che sin dai suoi esordi era ben presente una definizione di cosa la Chiesa era chiamata a fare nel mondo, e la consapevolezza della
Rinvio, a tale proposito, al mio Vocabolario minimo del dialogo interreligioso, EDB, Bologna ²2008. 30 Cf. S. Morandini, Da credenti nella globalizzazione. Teologia ed etica in orizzonte ecumenico, EDB, Bologna 2008. 31 Sulla visione di un cristianesimo globale, oltre ai testi già citati, rimando almeno a A. Hastings (a cura di), A World History of Christianity, Eerdmans, Grand Rapids 1999; D. Chidester, Christianity: A Global History, Harper, San Francisco 2000; P.R. Spickard – K.M. Cragg, A Global History of Christians, Baker Book House, Grand Rapids 2001; C. Albini, Quale cristianesimo in una società globalizzata, Paoline, Milano 2003. 29
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centralità del grande mandato ricevuto dallo stesso Gesù in Mt 28,18-20. A cominciare dal XIX secolo si sono sviluppate diverse teorie a riguardo, ma hanno portato al rischio di vedere la missione in ogni attività della Chiesa: «Se tutto è missione, nulla è missione». In buona sostanza, fino al XVI secolo il termine missione veniva riferito solo al mandato di Dio Padre al Figlio (in chiave teologica), mentre a partire dal Cinquecento, con l’azione e la riflessione dei gesuiti, assunse una caratterizzazione più tecnica. La missiologia vera e propria, peraltro, nascerà molto più tardi: per diversi secoli quindi si andò nelle terre di missione senza rifarsi a una riflessione sistematica, che veniva rimandata ad altre branche della teologia, come l’ecclesiologia. Dalla conferenza del Consiglio missionario internazionale a Gerusalemme del 1928 si iniziò a cercare un approccio comprensivo al tema missionario, fino a definire la missione, negli anni seguenti, come testimonianza resa con l’annuncio, la comunione e il servizio: una formula, peraltro, un po’ limitativa agli occhi del missiologo David Bosch, che ammetteva però fosse servita a liberare la missione dal semplice accostamento con l’annuncio o l’insediamento di chiese, la classica plantatio Ecclesiae.32 Negli ultimi anni il concetto di missione è stato sottoposto a una forte revisione rispetto ai modelli finora adottati, revisione attuata non solo dai teorici della missione, ma anche dagli stessi operatori sul campo, dai missionari stessi. Le risposte sono assai diversificate, così come i vissuti concreti: dai modelli più tradizionali a esperienze che nel corso della loro messa in opera hanno vissuto un forte cammino di inculturazione del proprio lavoro, del proprio annuncio, nella consapevolezza che occorre partire ascoltando la realtà, prima ancora di detenere dottrine e idee da portare sic et simpliciter. Dal primo convegno missionario, poco più di un secolo fa (Edimburgo 1910, fonte riconosciuta anche del movimento ecumenico), la tesi di fondo che emergeva è che nel giro di poco tutto il mondo sarebbe diventato cristiano. Oggi, evidentemente, quell’ipotesi appare per lo meno ingenua! Questa considerazione è tratta da La trasformazione della missione, l’opera già citata in cui Bosch, teologo riformato sudafricano morto in un incidente stradale nel 1992, un anno dopo la prima edizione del volume, raccoglie il frutto di anni d’intenso studio e di esperienza missionaria in presa diretta. Si tratta di un lavoro tuttora insuperato, in cui, dopo un rapido sguardo sul Primo Testamento ma prendendo le mosse soprattutto dal Nuovo Testamento (cui è dedicata tutta la prima parte, che comincia con la vicenda di Gesù e si sofferma poi su Matteo, Luca-Atti, Paolo), l’autore ripercorre le tappe storiche del modo di pensare e attuare la missione. Ne risulta una sorta di storia della Chiesa e della teologia, lette magistralmente secondo la prospettiva della missione. L’assunzione della nozione
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Bosch, La trasformazione della missione.
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di paradigma, in connessione con le descrizioni che ne dà l’epistemologo T. Kuhn, permette a Bosch di individuare sei paradigmi, corrispondenti ad altrettante grandi epoche. Egli si preoccupa di mostrare i fattori culturali, economici, storici e teologici, che hanno determinato le trasformazioni del paradigma. L’ampio capitolo dodicesimo, dedicato agli elementi di un nascente paradigma ecumenico (quello più recente e ancora in progress), evidenzia la conoscenza che egli aveva dei processi in atto anche nella Chiesa cattolica (un’attenzione particolare è rivolta al Vaticano II e alla Ad gentes) circa alcuni temi specifici: l’evangelizzazione, la liberazione, l’inculturazione, il dialogo ecumenico e interreligioso. Salutato con entusiasmo dalla critica, questo volume fa testo negli studi di missiologia, e continuerà ancora a lungo a essere utile a quanti intendano comprendere alla luce della storia come si possa/debba attuare la missione.
3.2. Fedeltà del
passato , fedeltà nel presente
Ora, finalmente, a questo volume cruciale se ne può accostare un altro di un livello non inferiore, pure già citato (l’edizione originale risale al 2004), predisposto da una coppia di teologi statunitensi che, senza trascurare il riferimento a Bosch, hanno l’ambizione di portare avanti alcune sue intuizioni, aggiornandole e ampliandole ulteriormente. Il suo titolo è Teologia per la missione oggi. Costanti nel contesto, compare – come il Bosch – nella collana «Biblioteca di teologia contemporanea» della Queriniana, e gli autori si chiamano Bevans e Schroeder.33 Perché questo titolo? I due missiologi verbiti lo spiegano da subito: la missione cristiana è sia ancorata alla fedeltà del passato sia sfidata alla fedeltà nel presente. Essa è chiamata a preservare, difendere e annunciare le costanti delle tradizioni della Chiesa; allo stesso tempo, deve rispondere in maniera creativa e coraggiosa ai contesti in cui si viene a trovare. La storia cristiana è, principalmente, una storia della Chiesa in missione; si potrebbe dire, prendendo a prestito l’eloquente espressione di Harvie Conn, una storia dell’incontro del Verbo eterno con mondi cangianti. Nei termini utilizzati in queste pagine, una storia di costanti nel contesto. Punto focale del volume è il tentativo di dare risposta a due fondamentali sfide degli studi teologici, missiologici e storici contemporanei. La prima, articolata in particolare dal testo di Bosch, è quella di costruire una teologia che tragga ispirazione dalla costante azione missionaria di Dio nel mondo, e che abbia come scopo non solo una maggiore conoscenza di Dio e dei suoi propositi, ma una partecipazione più riflessa e intelligente a questi ultimi. Tutta la teologia, in altri termini, dovrebbe essere una teologia missionaria. La seconda sfida è quella di elaborare una storia della Chiesa cristiana che sia in realtà una storia del movimento cristiano mondiale,
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Bevans – Schroeder, Teologia per la missione oggi.
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che incorpori tutte le diverse correnti del cristianesimo e in questo modo racconti la vicenda del cristianesimo così com’è realmente accaduta: non come qualcosa di unidirezionale (dalla Palestina all’Europa al resto del mondo), ma come qualcosa di multidirezionale (dalla Palestina all’Asia, dalla Palestina all’Africa, dalla Palestina all’Europa); non semplicemente come l’espansione di un’istituzione, ma come l’emergere di un movimento; non semplicemente come la diffusione di una dottrina precostitui ta, ma come l’ininterrotta scoperta dell’infinita traducibilità e dell’intenzione missionaria del vangelo. Per cogliere il senso della proposta di Bevans e Schroeder, è utile riportare le tre importanti lezioni che i due ammettono di aver appreso in vari anni di esperienza di vita, di insegnamento e di ministero interculturale.34 La prima è che, quando si attraversa il confine di un altro contesto – culturale, razziale, religioso o di gender –, inevitabilmente si impara non soltanto qualcosa sull’altro, ma, ed è questa forse la cosa più importante, su se stessi. In secondo luogo, una parte preziosa di ciò che impariamo su noi stessi è che la storia, le lotte e la gioia dell’altro sono realmente, in ultima analisi, parte delle nostre stesse storie, lotte e gioia. In terza battuta, in tutto questo processo ci rendiamo conto anche di quanto non sappiamo, né potremo mai sapere, dell’altro. Quando si partecipa davvero alla missione divina del dialogo profetico, concludono, sono queste le lezioni che si apprendono!
3.3. La missione come dialogo profetico La seconda parte del testo di Bevans e Schroeder mette a fuoco sei momenti nella storia del movimento cristiano, dalla Chiesa primitiva alla fine del XX secolo, collocando ogni particolare modello di prassi missionaria all’interno del suo contesto politico, sociale, religioso e istituzionale, descrivendo le principali dinamiche del periodo e identificando i principali agenti missionari del tempo. Alla fine di ciascuno dei sei capitoli relativi, si argomenta come le sei costanti trovino espressione e agiscano all’interno di un particolare contesto storico, quindi vengono tratte diverse conseguenze circa il modo in cui il periodo in questione potrebbe accrescere e mettere in discussione la teologia della missione e la prassi missionaria odierne. Mentre la terza parte, infine, elabora una teologia della missione per i nostri giorni. Nel cristianesimo cattolico, ortodosso, protestante storico, evangelicale e pentecostale gli autori riconoscono tre tendenze di pensiero che hanno rappresentato la base per la prassi e la teologia missionaria dell’ultimo quarto del XX secolo. Il climax del volume, dichiarano gli stessi Bevans e Schroeder, è costituito dal dodicesimo capitolo (dal titolo «La missione come dialogo profetico»), ammet-
34 Si noti la terminologia, modernissima, che segnala il tentativo di rispondere il più adeguatamente possibile alle sfide dell’odierna società liquida (cf. Z. Bauman, Paura liquida, Laterza, Roma-Bari 2008).
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tendo che a loro parere, se tutti e tre gli approcci discussi nelle pagine precedenti sono validi, soltanto una loro sintesi potrà produrre una teologia capace di dare un fondamento alla prassi missionaria della Chiesa in questi anni iniziali del XXI secolo e del nuovo millennio. A tale sintesi essi assegnano appunto il nome di dialogo profetico. Dialogo, in quanto attinge alla natura dialogica della vita missionaria trinitaria di Dio e a una valutazione positiva del contesto dell’esistenza umana in quanto buono, degno di fede e santo. E profetico, almeno in un duplice senso. Da un lato, la Chiesa in missione deve parlare chiaramente in favore degli esclusi del mondo, contro la violenza umana ed ecologica, e in nome del regno di Dio di giustizia e pace; dall’altro, anche di fronte ai «raggi di verità divina» che si trovano all’interno delle religioni del mondo, deve annunciare senza esitazioni, fedelmente – e però rispettosamente – il nome, la visione e la signoria di Gesù Cristo. La missione come dialogo profetico andrà inoltre considerata come una «realtà unitaria, ma complessa» (Redemptoris missio [RM], n. 41: EV 12/631), e perciò concepita ora come costituita di un certo numero di elementi in relazione fra loro e critici gli uni degli altri. Se i documenti ecclesiali e svariati teologi hanno proposto diversi insiemi di tali elementi, i nostri avanzano l’idea che la missione sia composta da questi sei: testimonianza e annuncio; liturgia, preghiera e contemplazione; giustizia, pace e integrità del creato; dialogo interreligioso; inculturazione; riconciliazione. La missione, essi concludono, deve essere vissuta in un’audace umiltà: audace nella testimonianza e nel discorso profetico, umile nel dialogo riguardoso.
3.4. Un compito essenziale Come risulta evidente dalla sintesi sinora tracciata, e per stessa ammissione degli autori, Teologia per la missione oggi è certo un volume complesso, quanto ambizioso. Sebbene esso contenga numerosi dettagli, il suo scopo non è né potrebbe realisticamente essere quello di presentare una teologia sistematica esaustiva né una storia esauriente del movimento cristiano. Non tutte le dottrine teologiche, evidentemente, sono trattate dettagliatamente dal punto di vista storico o sistematico; non tutti gli eventi, i movimenti, i Paesi, le persone e le culture sono affrontate nei capitoli storici (dal terzo all’ottavo). Il nostro scopo – spiegano – non è quello di fornire una teologia o una storia completa, ma quello di discernere e presentare degli schemi di teologia cristiana che hanno plasmato, esplicitamente o implicitamente, la teologia e la prassi della missione della Chiesa, e inoltre di discernere e presentare determinati modelli di attività missionaria che sono influenzati da, e a loro volta influenzano la teologia e la vita della comunità cristiana.35
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Bevans – Schroeder, Teologia per la missione oggi, 24s.
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Pienamente coerente con la rinascita missiologica della fine del secolo scorso, Teologia per la missione oggi richiama dunque i cristiani a riconoscere nel profondo di essere partecipi, innanzitutto, della missione di Dio. A riconoscere nel proprio servizio al Regno e alla giustizia di Dio un elemento costitutivo della propria identità ecclesiale. A confessare l’assolutezza e l’unicità di Gesù Cristo, riflettendo allo stesso tempo sulle implicazioni della presenza evidente dello Spirito all’interno delle tradizioni e delle pratiche delle altre vie religiose. Se in chiave di sintesi ribadiscono con forza che «oggi la missione dovrebbe essere caratterizzata innanzitutto come esercizio di dialogo»,36 in tale direzione Bevans e Schroeder non nascondono i rischi più vistosi attualmente in agguato, che potrebbero depotenziare, e persino annullare, la forza profetica dell’annuncio evangelico. Ad esempio, in un mondo compresso dal punto di vista spaziale e temporale, attento ai diritti umani e consapevole dei raggi di verità presenti nelle diverse religioni, i cristiani liberali possono essere tentati di togliere mordente alla tradizione profetica del cristianesimo, accontentandosi di una testimonianza impegnata in un dialogo rispettoso che però finisce per sposare, in realtà, le cause liberali, illuministiche e post-illuministiche. Ancora. In un mondo segnato da una crescente violenza religiosa, dal fervore pentecostale e dai problemi ecologici, una Chiesa del terzo mondo tendenzialmente più conservatrice – che rappresenta già la maggioranza dei cristiani37 – potrebbe essere tentata di scegliere uno stile di testimonianza e comunicazione cristiana vigoroso e profetico, ma di trascurare alcuni dei valori di tolleranza e di dialogo che la modernità occidentale ci ha lasciato come preziosa eredità. Secondo la tesi del volume, cedere all’una o all’altra di queste due tentazioni significherebbe tradire la complessità del contesto odierno. Una volta di più, spiegano i due, la missione deve essere a tutti i costi dialogica, perché in ultima analisi non è altro che la partecipazione alla natura dialogica del Dio unitrino, missionario; ma deve altresì essere profetica, perché in fondo non vi può essere alcun dialogo reale quando la verità non è espressa e articolata chiaramente. Fino a concludere: «Soltanto annunciando, servendo e testimoniando il regno di Dio in un dialogo profetico audace e umile, la Chiesa missionaria sarà costante nel contesto di oggi».38 Un compito essenziale, peraltro, se s’intende rispondere alle «gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi» (Gaudium et spes [GS], n. 1: EV 1/1319).
3.5. Per un pianeta
dal volto umano
Assumendo seriamente tali preoccupazioni, sarà necessario dunque con ogni mezzo perorare l’istanza di una missione – «realtà unitaria, ma complessa» (RM 41) – in grado di collocarsi in modo consapevole nell’orizzonte
Ivi, 550. Cf. Jenkins, La terza Chiesa. 38 Bevans – Schroeder, Teologia per la missione oggi, 626. 36 37
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socioculturale che abitiamo, cogliendone gli interrogativi e le domande emergenti. La storia, ricorda la costituzione conciliare Gaudium et spes (EV 1/1324ss), è pur sempre lo spazio abitato dal soffio dello Spirito e bisogna scrutarla con attenzione, per leggere i segni dei tempi che vi si manifestano (GS 4.11). In essi siamo invitati a cogliere, nella complessità del loro darsi, elementi rilevanti per la vocazione dell’umanità e della Chiesa. La stessa istanza di complessità evidenzia, però, anche l’urgenza di uno sforzo ermeneutico attento, per leggere l’attuale contesto in tutta la sua dimensione multiculturale e multireligiosa. Una prospettiva esplicitamente teologica, poi, potrà leggervi, cioè, un segno concreto dell’agire di quello Spirito che chiama la storia umana a diventare spazio di autentica fraternità, in una convivenza giusta e solidale (e sostenibile, va aggiunto adesso) sul pianeta Terra. Pur nell’ambiguità che caratterizza ogni fenomeno storico, è allora possibile vivere anche questo tempo accidentato e caotico come autentico kairos e inedita occasione di crescita, per quella che lo stesso Vaticano II definisce famiglia umana (GS 1). Si tratta di una realtà non riducibile a dato biologico o sociologico, ma che si presenta invece come densa di profonde connotazioni etiche e teologiche: è la figura di un’umanità che – al di là dei differenti stili di vita che la caratterizzano – ha la sua origine comune nell’atto creatore di Dio, è interamente redenta in Cristo e interamente chiamata alla comunione escatologica nello Spirito. Libertà, responsabilità, giustizia, diritti, dignità umana, salvaguardia del creato: ecco allora, a conti fatti, le parole chiave della globalizzazione, su cui si misurerà – in un futuro che è già iniziato –, per una Chiesa tutta missionaria, la capacità di contribuire a edificare un pianeta (finalmente) dal volto umano.39
4. Finale. Attrezzarsi
al dialogo
Di fronte a quanto sopra esposto, esiste solo la possibilità di assumere il rischio di porsi consapevolmente in gioco nella corrente. Questo è uno dei compiti primari delle Chiese oggi, chiamate a leggere le domande di formazione della società e dei territori in cui si collocano, elaborando risposte competenti e processi formativi adeguati. Se le città in cui viviamo sono sempre più multiculturali e multireligiose, esse dovrebbero sentire l’obbligo di contribuire a formare cittadini capaci di vivere con pienezza dentro i nuovi contesti glocali caratterizzati dal pluralismo. Rispetto ai quali la soluzione a tale inedita sfida non può certo venire da una ripresa del multiculturalismo identitario, che postula la creazione di spazi sociali divisi, e nemmeno dall’imposizione di un modello assi-
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Cf. ivi, 583-598.
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milativo in cui una mitica e fantomatica identità italiana (al singolare) è proposta come termine cui adeguarsi. Rispetto alle città interculturali, che saranno altre dalle nostre attuali città, ognuno di noi (autoctoni e immigrati) è straniero, straniero a noi stessi.40 Vale a dire, ognuno di noi è chiamato a farsi pellegrino e a mettersi in viaggio verso un nuovo spazio comune dove ciascuno e tutti, a partire dalle proprie differenze, possano sentirsi a casa e nessuno sia ospite/straniero/estraneo. Solo così saranno ricostruiti i legami sociali e la solidarietà che tengono assieme la vita delle/nelle città. Per farlo, occorre attrezzarsi al dialogo, all’incontro, alla mediazione e alla continua ri-negoziazione di vissuti e significati. Non si tratta di fondere i propri orizzonti in un sincretismo omogeneizzante o nell’universo simbolico del più forte, quanto di costruire assieme un nuovo linguaggio plurale e dialogico.41 Al riguardo lo scrittore Alessandro Baricco, ne I barbari, ha descritto con evocatività la sfida che la società, ma anche le Chiese e le religioni tutte, si trovano oggi a dover affrontare: Non c’è mutazione che non sia governabile. Abbandonare il paradigma dello scontro di civiltà e accettare l’idea di una mutazione in atto non significa che si debba prendere quel che accade così com’è, senza lasciarci l’orma del nostro passo. Quel che diventeremo continua a esser figlio di ciò che vorremo diventare. […] Detto in termini elementari, credo che si tratti di essere capaci di decidere cosa, del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo. Cosa vogliamo che si mantenga intatto pur nell’incertezza di un viaggio oscuro. I legami che non vogliamo spezzare, le radici che non vogliamo perdere, le parole che vorremmo ancora sempre pronunciare, e le idee che non vogliamo smettere di pensare. È un lavoro raffinato. Una cura. Nella grande corrente, mettere in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo.42
J. Kristeva, Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano 1990. Mi permetto di rimandare, per un’analisi della condizione del dialogo oggi, al mio Il dialogo è finito? Ripensare la Chiesa nel tempo del pluralismo e del cristianesimo globale, EDB, Bologna ²2012. 42 A. Baricco, I barbari, Feltrinelli, Milano 2006, 179s. 40
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Premessa Il vangelo contribuisce a portare a felicità l’uomo? Come può toccare ambiti così concreti della vita delle persone come l’economia e la politica? La definizione più vicina alla nostra sensibilità propone l’evangelizzazione così: essa si risolve in una proposta di vita, presentata a tutti gli uomini, propriamente la proposta di vivere l’esistenza umana come l’ha vissuta Gesù Cristo.1 La parte del magistero che si occupa di politica ed economia è la dottrina sociale della Chiesa (d’ora in poi DSC). Come la DSC è evangelizzazione? La DSC si presta a interpretazioni molteplici: è un mezzo di evangelizzazione secondo il Compendio della dottrina sociale della Chiesa2 e alcuni moralisti; è invasione di campo della Chiesa che non rispetta il dettato costituzionale sul rapporto Stato-Chiesa, secondo altri.3
1. Uno
sguardo alla
DSC
oggi
La DSC è sempre più una questione antropologica: la Caritas in veritate lo conferma: «La questione sociale è radicalmente questione antro-
Cf. G. Colombo, Sull’evangelizzazione, Glossa, Milano 1997. Cf. Pontificio consiglio della giustizia e della pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, LEV, Città del Vaticano 2004. 3 Cf. ad esempio G. Zagrebelsky, Scambiarsi la veste. Stato e Chiesa al governo dell’uomo, Laterza, Roma-Bari 2010. 1 2
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pologica».4 La sfida è, quindi, elaborare un’antropologia che porti a una maggiore felicità l’uomo, partendo dal vangelo e irradiando la vita sociale. Quale modello di uomo si ha presente? Esistono molte e divergenti visioni sull’uomo (cf. CV 18). La via della CV è l’umanesimo trascendente: Lo sviluppo umano integrale sul piano naturale, risposta a una vocazione di Dio creatore, domanda il proprio inveramento in un umanesimo trascendente, che […] conferisce [all’uomo] la sua più grande pienezza: questa è la finalità suprema dello sviluppo personale. La vocazione cristiana a tale sviluppo riguarda dunque sia il piano naturale sia quello soprannaturale; motivo per cui, «quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l’ordine naturale, lo scopo e il “bene” comincia a svanire».5
Solo nell’apertura a Dio l’uomo è in grado di conoscere e attuare la giustizia e il bene, costruendo il suo essere felice, arrivando al suo pieno sviluppo (cf. CV 52). L’enciclica parte dal vangelo: Gesù dice di essere la Verità; e la dottrina della Chiesa cattolica vede in Gesù il compimento dell’essere umano, il compimento della legge naturale.6 Infatti, «lo sviluppo umano integrale ha come criterio orientatore la forza propulsiva della carità nella verità» (CV 77) e «non vi è quindi umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto nel riconoscimento di una vocazione che offre l’idea vera della vita umana» (CV 16). È, quindi, il vangelo elemento fondamentale di sviluppo (cf. CV 18). Solo seguendo il Cristo, cioè la Verità, l’uomo è libero (cf. CV 9), e può diventare capace di quella novità che il mondo esige per il suo progresso e sviluppo che devono avere come fine l’uomo e la sua pienezza: «Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza umana e umanizzante» (CV 9). Ogni uomo deve sentire questa chiamata a un futuro migliore e ciò «equivale a riconoscere, da una parte che esso nasce da un appello trascendente e, dall’altra, che è incapace di darsi da sé il proprio significato ultimo» (CV 16). Fondamentale diventa, allora, «la libertà responsabile della persona e dei popoli» (CV 17). L’umanizzazione comporta, quindi, il rendere ogni persona capace di dare risposte con la propria vita al mondo (cf. CV 17), coltivando, promuovendo e suscitando capacità per lo sviluppo. Frontiera decisiva nella CV è il lavoro degno, nel desiderio di rendere l’uomo a sua volta creatore (cf. CV 41), facendolo crescere in libertà e creatività (cf. CV 25), favorendo non solo la conservazione ma anche lo sviluppo del capitale umano e del capitale sociale, misure di uno sviluppo integrale. L’accesso al lavoro per tutti è un obiettivo prioritario (cf. CV 32), perché
4 Benedetto XVI, lettera enciclica Caritas in veritate [CV] (29.6.2009): AAS 101(2009)8, 641-709, qui 705 (n. 75). 5 CV 18: ivi, 654. 6 Cf. Commissione teologica internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, LEV, Città del Vaticano 2009.
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ogni uomo deve essere in grado di contribuire allo sviluppo: occorre guardare alle nuove generazioni, soprattutto nei Paesi poveri, sapendo che i giovani «reclamano la parte attiva che loro spetta nella costruzione di un mondo migliore» (CV 49, che cita Populorum progressio, n. 65). L’altra frontiera è il rapporto uomo-ambiente. L’uomo è stato collocato nel creato perché tutto sia ricapitolato in Cristo e tutto sia plasmato dalla carità: L’uomo interpreta e modella l’ambiente naturale mediante la cultura, la quale a sua volta viene orientata mediante la libertà responsabile, attenta ai dettami della legge morale. I progetti per uno sviluppo umano non possono pertanto ignorare le generazioni successive, ma devono essere improntati a solidarietà e a giustizia internazionali, tenendo conto di molteplici ambiti: il giuridico, l’economico, il politico, il culturale.7
Solidarietà e giustizia, quindi, come pilastri per valorizzare e custodire il grande dono del creato. Una terza pista è l’ecologia umana (cf. CV 51), intendendo riflettere sull’aspetto morale della società, ma anche su ciò che promuove la fraternità e le relazioni interpersonali. Il tarlo dell’ecologia umana è la presunzione «di bastare a stessi, oppure di essere solo un fatto insignificante e passeggero, uno straniero in un universo costruitosi per caso» (CV 53). Lo sviluppo dei popoli, invece, può contare sul fatto che «oggi l’umanità appare molto più interattiva di ieri: questa maggiore vicinanza si deve trasformare in vera comunione. Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in piena comunione» (CV 53). L’immigrazione è, quindi, una sfida per creare una vera e unica famiglia. L’inclusione è la via capace di superare l’integrazione e la ghettizzazione. Infatti, la prima genera sottomissione alla cultura del Paese ospitante, la seconda genera rifiuti da confinare negli angoli del mondo. Il percorso, invece deve portare a una nuova ricchezza umana per tutti, dove tutti portano il loro dono come offerta per la felicità comune. È il dono il protagonista della riflessione della CV sullo sviluppo economico: La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza. L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime e ne attua la dimensione trascendente.8
È la dinamica trinitaria a suggerire questo percorso di felicità: «L’orizzonte è un amore che si dona, la fraternità come dono di sé».9 Il dono
CV 48: AAS 101(2009)8, 685. CV 34: ivi, 668. 9 F. Imoda, «La questione antropologica nella Caritas in veritate», in Aggiornamenti sociali (2010)2, 113-124, qui 118. 7 8
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diventa, quindi, la base della vita economica dei singoli e dei popoli: «Anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica» (CV 36). La fine della contrapposizione dei blocchi occidentale e comunista ha consentito di rileggere con meno faziosità la vita sociale. Se l’evangelizzazione è definibile come il condurre l’uomo a vivere con la stessa qualità che ha caratterizzato la vita terrena di Gesù, allora la DSC può essere evangelizzazione se – e solo se – riesce a condurre ogni individuo a integrare anche nella dimensione sociale la dinamica più profonda del vangelo. Gesù ha offerto la sua vita; tale offerta potrebbe essere, allora, il criterio interpretativo di quanto la DSC sia evangelizzazione. Quali sono, quindi, i modelli e le forme che si possono scegliere in economia e in politica perché ogni uomo, ogni persona sia condotta a offrire la sua vita, realizzando se stessa e contribuendo contemporaneamente alla felicità pubblica?
2. Il
ruolo della DSC nella vita del mondo
Il punto decisivo è che la politica e l’economia, in un contesto plurale come quello in cui viviamo, non possono essere lasciate a letture neppure velatamente confessionali. Il vangelo contribuisce alla ricerca della verità, soprattutto attraverso la sua interpretazione della persona. La DSC diventa, quindi, un luogo privilegiato di dialogo per la ricerca di una verità sull’uomo. Qui entra in questione il tema della legge naturale. Ognuno, nella ricerca della verità sull’uomo e sulla sua vita sociale, deve avere il coraggio dell’umiltà, per ricordare sempre che nessuno possederà mai la verità nella sua interezza e che tutti possono imparare gli uni dagli altri. Emerge, così, il rapporto tra vangelo e verità nell’attuale Chiesa. È sufficiente, per iniziare, misurare la distanza tra gli incipit della Gaudium et spes e della CV per capire quanto siano cambiate la lettura del rapporto tra Chiesa e mondo.10 Il documento conciliare afferma che le gioie e i dolori degli uomini sono anche le gioie e i dolori dei credenti; il rapporto Chiesa-mondo è il luogo del camminare insieme, dell’essere solidali, commisti. L’ultima enciclica sociale inizia partendo dal binomio carità-verità, tratto dall’epistolario paolino, ma ribaltandone l’ordine. Il dibattito pubblico diventa luogo di contrapposizione di verità, dove la Chiesa cattolica arriva con la presunzione di possedere la verità, perché la verità è Cristo e Cristo è nella Chiesa cattolica. Il vero sviluppo dell’uomo può e deve avere il suo contributo anche dalla fede cristiana, a patto che il credente e tutta la comunità si mettano
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Cf. M. Prodi, «Dalla Gaudium et spes alla Caritas in veritate», in il Margine 32(2012)10,
3-10.
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in ascolto e dialoghino con le altre impostazioni che si occupano del bene comune. Il magistero del papa emerito presenta il costante tentativo di recuperare l’identità cristiana all’interno di un ragionamento sulla cultura: Il fattore dominante nel discorso pubblico di Benedetto XVI è l’assolutizzazione non già della fede cristiana, consapevolmente situata in un contesto pluralista, ma di una ragione (o meglio della ragione) assunta come organo unico preposto alla conoscenza della verità.11
Nelle sue parole si legge un giudizio negativo su ogni pensiero che non sappia cogliere l’unica verità, che è appunto depositata nella rivelazione.12 «In definitiva, la volontà di assegnare un ruolo strategico a un’esausta difesa di una determinata concezione della ragione consegna l’attuale magistero all’incomprensione degli apporti più qualificanti della cultura moderna e all’estraneità del mondo reale».13 Occorre trovare una reale pista da percorrere. La restituzione di centralità alla comunicazione, e, nel caso nostro, al dibattito pubblico, può infatti far scoprire, al di là delle differenti ragioni, l’esistenza di una ragione comune, sulla quale ancorare un sistema (non solo minimale) di valori condivisi. Si deve riconoscere il limite della propria visione per un reciproco arricchimento nello scambio.14
Questa comunicazione è base per la laicità: consente di tendere alla verità, non quella ridotta a rappresentazione, ma quella che ci pone in stato di relazione. Significa trovare quello che consente di accostare il prossimo; significa, recuperando l’ordine paolino al binomio carità-verità, accostare con carità le persone con cui cerchiamo la verità, a cui desideriamo comunicare la verità che abbiamo trovato. Significa abbandonare, in vista del dialogo, l’identità conclusa in favore della partecipazione alla verità, la potenza in favore della logica della pietra scartata, la proprietà in favore dell’esigenza della solidarietà, il sacrificio dell’altro in favore della misericordia e la competizione in favore della mitezza.15 Qui nasce la politica come servizio,16 come capacità di ascolto di chi ha meno sia in termini di risorse che di capacità e di opportunità; solo così sarà accresciuta e valorizzata la dignità di ogni uomo e di tutti gli uomini. Occorre, quindi, una necessaria storicizzazione del rapporto tra vangelo ricevuto e verità posseduta. Due sono i temi in cui la Chiesa cattolica ha cambiato radicalmente atteggiamento: la libertà religiosa e la centralità della coscienza dell’individuo.
P. Stefani, Fede nella Chiesa?, Morcelliana, Brescia 2011, 183. «Siccome la verità è per definizione una e siccome il messaggio cristiano è vero, i due hanno contratto in linea di principio, un matrimonio indissolubile» (ib.). 13 Ivi, 184. 14 G. Piana, La verità dell’azione. Introduzione all’etica, Morcelliana, Brescia 2011, 283. 15 Cf. R. Mancini, La laicità come metodo, Cittadella, Assisi 2009, 61-71. 16 Cf. ivi, 105-150. 11 12
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Matteo Prodi Ieri la Chiesa cattolica negava ogni espressione di libertà di coscienza in materia religiosa; oggi la promuove in ordine al rapporto tra i credenti e il potere politico; domani dovrà giungere a riconoscerla e a garantirla anche al proprio interno, in ordine al rapporto tra la coscienza dei credenti e il proprio potere.17
È ovvio il rischio che si intravede: se la coscienza è l’autorità assoluta, allora esistono tante verità quante sono le persone. Ma è la ricerca continua che può salvare da questa deriva soggettivistica. Se la coscienza è l’eco che risuona in noi a partire dalla voce dello Spirito,18 le situazioni di vita, la storia, educheranno gli uomini a capire, proprio dall’esperienza individuale, quale sia la strada da percorrere insieme. È la messa in dubbio, l’interrogazione inquieta, l’indagine che procede senza predeterminare già quale debba essere il risultato finale, a costruire il metodo verso una libertà che libera. Eresia e verità sono contrarie e incompatibili solo per il potere, ma non lo sono in alcun modo per la ricerca del vero, del bene, del giusto.19
Ovviamente la ricerca di un semplice dialogo può portare ad annacquare la proposta.20 L’obiettivo deve essere davvero la nascita di una riflessione teologica pratica, capace di indirizzare la vita dell’uomo di oggi.21
3. Il mondo oggi. Alcune fotografie 1. La pace. Siria, Libia, rapporti tra le religioni, i Balcani, l’Africa: sono ferite apertissime, luoghi in cui le guerre già combattute non hanno certo risolto i problemi; e l’immobilismo europeo contribuisce a rendere queste regioni ulteriori occasioni di conflitto.22
17 V. Mancuso, Obbedienza e libertà. Critica e rinnovamento della coscienza cristiana, Fazi, Roma 2012, 26. 18 Cf. A. Fumagalli, L’eco dello Spirito. Teologia della coscienza morale, Queriniana, Brescia 2012. 19 Mancuso, Obbedienza e libertà, 28. 20 «Il prevalente consumo ecclesiastico della DSC in termini di mero “aggiornamento” teologico-morale dei credenti, in vista di un “dialogo” con la società contemporanea, invece che come nucleo generatore di una dottrina alta e competente del superamento laico-politico dell’individualismo etico e della democrazia mercantile, è certo un fattore di grave indebolimento delle probabilità di successo pacifico e costruttivo dell’inevitabile transizione» (P. Sequeri, Contro gli idoli post-moderni, Lindau, Torino 2011, 50). 21 La teologia di Metz va in questa direzione. 22 Prendiamo i Balcani: «Venti anni dopo le guerre jugoslave, i Balcani sono meno europei di quanto l’Unione europea sia balcanica […]. Fra le opinioni pubbliche d’Oltre Adriatico si è diffuso negli anni un senso di scetticismo sulla costruzione europea, al confine con la rassegnazione. Sentimento giustificato anche dal disinteresse ostentato a Bruxelles per l’integrazione dei Balcani occidentali nello spazio comunitario» (L. Caracciolo, «L’alienazione dei Balcani», in la Repubblica, 15 settembre 2012, 29).
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2. La globalizzazione. «È la prima volta che succede nella storia: ci ritroviamo in un mondo senza governo. La globalizzazione dei mercati non si è accompagnata a quella del diritto. Questa è la fonte dei nostri malanni».23 La globalizzazione è un’opportunità, ma va governata perché possa consentire sviluppo a tutti. «La maggiore integrazione nell’economia globale ha portato a un aumento della volatilità e dell’insicurezza, e a una maggiore diseguaglianza, arrivando addirittura a minacciare i valori fondamentali».24 3. L’economia: la disoccupazione sempre crescente; la dittatura della finanza; il debito pubblico; lo sviluppo dei Paesi emergenti. 4. La politica: ha poche carte da giocare rispetto ai problemi che si trova ad affrontare; è subordinata all’economia; in Italia è crisi di idee, di partecipazione, di leadership. 5. Crisi dei partiti. La Costituzione ricorda che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49). I partiti, quindi, sono i mediatori del consenso in vista dell’indirizzo del cammino dell’Ita lia. I due più gravi problemi che vediamo oggi nel nostro Paese sono: siamo da vari mesi governati da tecnici; inoltre, prendono sempre più piede movimenti di antipolitica, desiderosi di bypassare completamente il decrepito sistema dei partiti (salvo manifestare analoghi problemi di democrazia interna). 6. Crisi dello Stato nazionale: a quale compito storico risponde la nascita degli Stati nazionali? Qualunque sia la risposta, si deve ammettere che oggi la globalizzazione da una parte e gli egoismi localistici dall’altra hanno tolto importanza e potere agli Stati nazionali. «La delegittimazione europeista dello Stato nazionale non ha finora prodotto un nuovo modello di democrazia, mentre ne ha minato quello vigente. La crisi dei debiti sovrani è crisi della sovranità solo poi del debito».25 7. Crisi delle democrazie. «A che cosa deve servirci la democrazia? Ad assicurarci pace, ordine, benessere, e libertà. Nell’ordine».26 I tentativi di esportare la democrazia hanno prodotto solo infiniti lutti. E così è facile prevedere che le sconfitte parallele del globalismo americano e dell’europeismo escludono che la democrazia occidentale sia il destino dell’umanità. 8. Politica privata. Tutti i politici, di fatto, sono diventati parte integrante di un establishment privatistico, perché la scena pubblica è stata privata in un duplice senso: viene privatizzata, in quanto sequestrata monopolisticamente dal collettivo dei politici di mestiere, e viene sottratta al cittadino, che in questo modo scompare, almeno come titolare di un frammento di sovranità (anche da esercitare per delega).27
J. Attali, Domani, chi governerà il mondo?, Fazi, Roma 2012, quarta di copertina. J. Stigliz, La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino 2007, 335. 25 «La democrazia dopo la democrazia», editoriale di Limes (2012)2, 7-20, qui 14. 26 Ivi, 8-9. 27 P. Flores D’Arcais, «La sinistra presa sul serio», in MicroMega (2011)8, 3-15, qui 9. 23 24
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9. Crisi della convivenza. Tutti noi, individui per decreto del destino, sembriamo abbandonati alle nostre risorse individuali, certamente inadeguate rispetto ai grandi compiti che dobbiamo affrontare e agli ancor più terrificanti compiti a cui sospettiamo di essere esposti fino a quando non verrà trovato il modo di rispondervi. Alla base di tutte le crisi di cui abbondano i nostri tempi c’è la crisi delle agenzie e degli strumenti efficaci di azione. Di qui l’intensa sensazione di essere stati condannati alla solitudine di fronte a pericoli comuni.28
10. Vorrei proporre l’ipotesi seguente: tutte queste fotografie del nostro oggi hanno alcuni nodi comuni: il rapporto con il potere e i poteri;29 il rapporto con i beni, le ricchezze, le risorse naturali.
4. Alcune
pagine bibliche potenzialmente decisive
Ritengo decisiva la lettura di Rm 13 (il celeberrimo testo di Paolo sull’obbedienza allo Stato), di Ap 13 (dove si mostra che il potere è di origine diabolica), di Mt 20 (la parabola degli operai inviati a lavorare nella vigna) e di Lc 16 (la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro). Mi sono soffermato a commentare queste pagine in altri contributi, ai quali rimando.30 Vorrei solo indicare alcuni punti decisivi: 1) il rapporto del cristiano con ogni forma di potere deve essere critico; il rischio più grande è di asservirsi al potere; 2) chi ha possibilità di plasmare la vita delle persone, deve consentire a tutti di sentirsi invitati a lavorare nella vigna, per il bene proprio e quello comune; 3) ci si deve fare carico delle persone più povere; 4) ci si deve scoprire fratelli proprio per superare le fratture, le diseguaglianze, la povertà; 5) l’immagine di Chiesa che ne deriva è Chiesa libera, liberante, povera ma arricchente, attenta alla persona per mettere ognuno in grado di offrire la propria vita. Una Chiesa popolare, cioè dove ognuno senta il bisogno di portare quello che si trova ad avere, fossero anche solo i due spiccioli della povera vedova lodata da Gesù.
Z. Bauman, «Lo spettro dell’indignazione», in MicroMega (2011)8, 165-182, qui 180. E continua: «Avendo perso la fiducia in una salvezza che venga “dall’alto” (i parlamenti e gli uffici governativi), in cerca di strumenti alternativi per far sì che vengano fatte le cose giuste, le persone sono scese in strada come in un viaggio di scoperta e/o di sperimentazione». 29 R. D’Ambrosio, Il potere e chi lo detiene, EDB, Bologna 2008. 30 Cf. M. Prodi, Felicità e strategie d’impresa. Persona, relazionalità ed etica d’impresa, Dehoniana Libri, Bologna 2010; e Id., «Prospettive della Dottrina sociale della Chiesa: riflessioni a partire dalla Caritas in veritate», in Rte 16(2012)31, 111-139. 28
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5. Quale
via percorrere ?
Un’ipotesi percorribile è l’antropologia della popolarità del Dossetti politico. Il «professorino» lavorò nella prima sottocommissione della Costituente che si occupava della creazione d’uno «Stato di popolo», dell’inserimento dell’idea di persona umana come titolare di diritti inviolabili, precedenti lo stato stesso, e per lo sviluppo della socialità delle persone che si raggruppano in comunità autonome e indipendenti rispetto allo Stato.31
La sua impostazione emerge con chiarezza nel sottolineare le diverse risposte che lui e De Gasperi hanno dato alla situazione italiana del secondo dopoguerra. Nella linea dossettiana occorre inserire nella nuova democrazia le masse egemonizzate dai partiti della sinistra, attraverso una coraggiosa politica di riforme sociali e lo spostamento a sinistra dell’asse del governo: continuando a governare con i comunisti e i socialisti, in un primo momento; anche senza di loro, in un secondo momento. Dopo il 18 Aprile, in altri termini, la DC avrebbe dovuto, secondo Dossetti, continuare a privilegiare il rapporto con la sinistra, non più a livello di vertice (e cioè con le dirigenze dei due partiti) bensì a livello di base, facendo proprie le istanze e le esigenze legittime delle masse lavoratrici e fidando in un loro successivo consenso a uno Stato democratico capace di realizzare l’eguaglianza e la giustizia sociale.32
Il popolo fatto di persone al centro per accogliere ogni soffio di vita, ogni riflessione, ogni esperienza umana. Ma soprattutto un accesso costantemente allargato e rinnovato alla sfera politica implica una sorta di illuminismo di massa: un cittadino che per cultura ed ethos si appassioni alla cosa pubblica e si rifiuti al conformismo e alla manipolazione. Non è utopia. L’educazione permanente al dissenso e alla logica, fin dalla scuola elementare, abitua a interiorizzare che democrazia non è solo conta dei voti ma innanzitutto deliberazione attraverso l’argomentazione razionale, mettendosi sempre mentalmente nelle condizioni sociali altrui (universalizzazione vuol dire questo).33
La fraternità universale può nascere dal riconoscimento dell’interdipendenza dei comportamenti e degli esiti dei nostri comportamenti; occorre rileggere il processo costituente, per poterne proporre uno nuovo che metta al centro il comune. Le costituzioni liberal-democratiche hanno nella proprietà privata un perno decisivo. Oggi non può più esserlo. La dittatura della finanza è volta ad appropriarsi di tutto, a partire da ciò che
F. Mandreoli, Giuseppe Dossetti, il Margine, Trento 2012, 33. G. Campanini, Dossetti politico, EDB, Bologna 2004, 55. 33 Flores D’Arcais, «La sinistra presa sul serio», 3-15, qui 14. 31 32
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viene prodotto, cancellando posti di lavoro, annullando esistenze, famiglie, convivenza. Il solo terreno sul quale attivare il processo costituente è oggi il comune – «comune» concepito come la terra e le altre risorse di cui partecipiamo, e anche e soprattutto come quel comune prodotto dal lavoro sociale. Questo comune, tuttavia, deve essere costruito e organizzato.34
Occorre una nuova antropologia cristiana, per superare approcci troppo superficiali, troppo legati al contingente; anche la Gaudium et spes è incappata in queste sabbie mobili.35 E occorre ridisegnare con coraggio il rapporto Chiesa-mondo. Sempre Dossetti, tornando a parlare nel 1994, mostra di vedere la vita della Chiesa subordinata alla vita del mondo, nel senso che la perfezione e la riforma della Chiesa sono finalizzate alla felicità della famiglia umana; Dossetti non poteva non sapere che le sue parole avrebbero portato divisioni nel corpo visibile della Chiesa, ma volle combattere a tutti i costi per la difesa di quella ricerca comune di valori e ideali che avevano portato a scrivere la Costituzione italiana nel 1948. Ha aperto con il suo stile la stagione dell’indignazione? Certamente ha gridato nel mondo, a partire dalla sua fede, contro un’ingiustizia così palese. Non si possono certo paragonare gli indignados di oggi con il Dossetti del 1994. Tuttavia, occorre considerare quale vento di novità portano queste rivolte di piazza. I movimenti di protesta, infatti, possono far nascere una reale necessità di una solidarietà globale, di fratellanza universale. Questo è possibile assumendo la tragicità del mondo, la capacità di lasciarsi ferire dalle vite degli altri, ben sapendo che una vita che si difende dai sentimenti, dalle emozioni è una vita più lineare e tranquilla. In quest’ottica dovrebbe nascere un’attenzione all’educazione delle persone, unico e vero patrimonio per ogni ipotesi di progresso e sviluppo. La riflessione nella Chiesa deve tener sempre più conto della globalizzazione e della crescita dell’ingiustizia nel mondo, dei Paesi emergenti,
34 M. Hardt – A. Negri, «La sinistra come potenza costituente», in MicroMega (2011)8, 16-27, qui 26. Non tutto (forse) è condivisibile. Ma occorre costruire una società nuova a partire dal contributo di tutti per il bene comune. È l’esatto contrario della società della concorrenza, un frutto desiderato dal neoliberismo (cf. E. Pnel, «Questione democratica e questione sociale», in MicroMega [2011]8, 59-67), è l’esatto contrario dell’economia consumistica che è un’industria che promuove l’interesse personale piuttosto che la solidarietà e l’unione (cf. Bauman, «Lo spettro dell’indignazione», 165-182). 35 Dossetti, nel 1966, scriveva: «Quindi non è più possibile un discorso che accosti compromissoriamente il dinamismo dello sviluppo coll’immutevole di Cristo; ma si deve continuamente riverificare sempre, tutto; non solo le valenze dei singoli modi di sviluppo per discernere la loro positività, negatività o ambiguità, ma il concetto stesso di sviluppo; il concetto di sviluppo è un concetto superficiale, non è un concetto profondo; è solo negli strati più esterni dell’antropologia che si può cogliere uno sviluppo» (G. Dossetti, «Appunti per una antropologia critica o del profondo. Documento 14», in G. Alberigo [a cura di], L’officina bolognese, 1953-2003, EDB, Bologna 2004, 196).
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soprattutto scrutando l’antropologia che sottende il loro percorso. Dove, ad esempio, si rintracciano influenze confuciane, è impossibile distinguere la dialettica Stato-mercato che caratterizza l’Occidente. Ma l’arrivo della Cina potrebbe portare non solo un impatto economico, ma proprio culturale, perché tante volte anche il nostro mercato sembra non essere più in rapporto con altri poteri.36 Il vangelo ci spinge a farci carico dei poveri e riporta spesso persone che gridano e che «vengono ascoltate proprio perché gridano».37 Ogni riflessione che riguardi il vivere sociale dell’uomo deve avere come orizzonte di fondo, come prospettiva la pace; a maggior ragione se il ragionamento avviene dentro la teologia cattolica: «La teologia morale cattolica, se per secoli si è impegnata a riflettere sulle condizioni della guerra giusta, ora deve impegnarsi sulle condizioni di una pace giusta».38 Il futuro dell’umanità deve essere vagliato nelle sue conseguenze dirette e indirette sulla pace all’interno dei singoli popoli, e tra tutti i popoli. La questione ambientale, ad esempio, esige che si abbandonino i combustibili fossili; tale fonte di energia ha certo causato lotte di potere e guerre. Le energie sostitutive dovranno essere valutate nella loro capacità di generare pace.
6. Conclusione Avviandoci verso la conclusione, vorrei proporre uno schema sintetico che parta dalle virtù teologali, confidando nel fatto che possano indicarci concrete vie dell’agire nella politica e nell’economia, a partire dalla persona umana di Gesù. Fede: auspico una fede e una Chiesa purificate e dedicate non al possesso, al controllo, al potere, ma alla cura delle persone, alla denuncia delle diseguaglianze. Speranza: la speranza definisce in qualche modo il futuro che è lecito e bello attendersi. La speranza, quindi, deve saper definire il vero sviluppo da cercare, cioè la fioritura delle persone. Carità: la carità che il mondo attende dai cristiani deve essere capace di andare oltre la giustizia per tenere vivo il ruolo della grazia, per mostrare il volto di Dio che si china concretamente sulla vita dell’uomo. La CV, infine, ci invita alla preghiera affinché lo sviluppo possa conseguire il suo obiettivo (cf. CV 79). Il modello per capire se la nostra preghiera è cristiana è il Padre nostro, in particolare, se parliamo di poli-
36 Cf. a proposito P. Prodi, «Monoteismi e religioni politiche», in il Mulino (2011)2, 191-208. 37 Prodi, «Prospettive della Dottrina sociale della Chiesa: riflessioni a partire dalla Caritas in veritate», 138. 38 L. Lorenzetti, «La sorte della teoria della guerra giusta», in C. Bresciani – L. Eusebi (a cura di), Ha ancora senso parlare di guerra giusta? Le recenti elaborazioni della teologia morale, EDB, Bologna 2010, 19.
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tica, di economia e di giustizia, nelle parole «dacci oggi il nostro pane quotidiano». Qui chiediamo l’essenziale per vivere, lo chiediamo per noi e per tutti gli uomini, in quanto figli di Dio. La conversione a queste parole, per noi occidentali in modo particolare, è davvero una strada ancora lunga.
Appendice. Un’ipotesi riassuntiva:
il lavoro
Il lavoro è la frontiera dello sviluppo.39 Ma è anche lo snodo per capire le cause profonde della crisi: I rischi per l’euro derivano da un problema sistemico: gli squilibri macroeconomici dovuti alle divergenti dinamiche di competitività e di costo del lavoro per unità di prodotto (il rapporto tra costo del lavoro e la produttività) […]. Senza promuovere lo sviluppo sostenibile e valorizzare il lavoro, senza sostenere la domanda interna europea, non si riduce il debito pubblico (Grecia insegna) […]. Il sostegno alla domanda può derivare non soltanto da risorse pubbliche. Può derivare da una meno squilibrata distribuzione del reddito e della ricchezza. Oggi l’equità è una variabile macroeconomica propulsiva dello sviluppo sostenibile.40
Qui sta l’intreccio maggiore tra economia e politica; ed è qui che la politica latita.41 La latitanza della politica non è latitanza del potere; chi comanda sulle nostre vite, in base a cosa si decide? La risposta potrebbe suonare così: è il mondo della finanza, è il capitale a dare forma alle nostre vite, alle nostre democrazie. Il rigore finanziario sembra l’unico obiettivo necessario da perseguire. Anche qui è in gioco una parola molto importante: verità. Sono vere le analisi dei grandi decisori? E di chi e che cosa tengono conto? In questa sede credo sia sufficiente ricordare che altre strade possono essere seguite: da quella di Keynes42 a quelle attuali di Krugman43 e Roubini.44
Per una riflessione sul lavoro nell’ambito dell’etica aziendale cf. M. Prodi, Sentieri di felicità. L’impresa nella crisi globale, Cittadella, Assisi 2013. 40 S. Fassina, Il lavoro prima di tutto. L’economia, la sinistra, i diritti, Donzelli, Roma 2012, 43-46. L’indice Gini del 2011 mostra come l’Italia sia tra i Paesi in cui regna la diseguaglianza, e questa continua ad aumentare, come aumenta la frattura sociale. La maggiore diseguaglianza in Italia, inoltre, non è generazionale ma potremmo dire di classe. 41 «Nella UE è in atto una regressione della democrazia dietro l’offensiva tecnocratica verso la finanza pubblica» (ivi, 47). 42 La sua tesi principale potrebbe essere espressa così: l’austerità va praticata nelle fasi di espansione non in quelle di crisi. 43 Nel suo ultimo libro parte dalla disoccupazione, affermando che la dimensione più tragica della crisi è quella umana: il problema di fondo è la mancanza di domanda interna, smitizzando il fatto che si debba tenere l’inflazione al 2%, che occorre diminuire le tasse (in particolare ai ricchi), che occorre aumentare la spesa pubblica per sostituire la spesa privata mancante (cf. P. Krugman, Fuori da questa crisi, adesso!, Garzanti, Milano 2012). 44 Una sua intervista a la Repubblica del 9 settembre 2012 era intitolata: «Bene la svolta Draghi ma va allentata l’austerity per rilanciare la crescita». L’appello era soprattutto rivolto 39
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Occorre «promuovere, in una sinergica interazione tra miglioramento della distribuzione del reddito e valorizzazione delle risorse ambientali, sentieri di sviluppo orientati verso i beni comuni e i consumi di cittadinanza e relazionali».45 Occorre, parimenti, tornare a politiche industriali che tengano conto delle capacità specifiche dell’Italia e dei suoi lavoratori. La crisi ha penalizzato i lavoratori: sono aumentati i disoccupati, i precari, i lavoratori con contratti atipici nati sotto la spinta della flessibilità, è diminuita la formazione, non si investe in ricerca e innovazione. Il lavoro è merce come tutti gli altri fattori produttivi; sta qui il nodo culturale da risolvere. «L’intera scena del mondo del lavoro è stata sconvolta per poter rendere i movimenti del lavoro il più possibile somiglianti ai movimenti del capitale in circolazione nel mondo»,46 subordinati all’arricchimento di pochi. Ossessionate dal lavoro al minor costo, le imprese occidentali hanno messo «in concorrenza tra loro poco più di mezzo miliardo di lavoratori aventi retribuzioni elevate e ampi diritti, con un miliardo e mezzo di lavoratori aventi retribuzioni irrisorie e diritti minimi, se non inesistenti».47 L’eccesso di forza lavoro ha portato a trovare l’equilibrio tra domanda e offerta verso il punto più basso. Le imprese transnazionali non hanno interesse a seguire linee etiche e nessuna legislazione statale le obbliga a farlo. Lo scenario lavorativo dei nostri giorni, quindi, dovrebbe portarci a dire che «le politiche del lavoro sono alla nostra epoca, o dovrebbero essere, il problema centrale e prioritario della politica mondiale […]. Tale politica non è priva di strumenti».48 «Il lavoro oggi è frammentato e fisicamente, non solo politicamente, disperso. Ha perso rilievo nell’elaborazione dell’identità della persona, da tempo affidata a molteplici fonti».49 La sfida è «ridefinire il senso del lavoro per affermare, nel quadro di un’economia globale oggi senza regole democratiche, un neo-umanesimo laburista».50 Occorre ricomprendere gli interessi in gioco, in vista del bene comune. «Il faro dell’irriducibile differenza di interessi tra chi offre lavoro e chi domanda lavoro deve rimanere acceso e illuminare la varietà e la variabilità delle situazioni per poter dare visibilità alle asimmetrie di potere e alle condizioni di sfruttamento».51 La politica dovrebbe occuparsi di queste frontiere, ma
a una maggior coesione della UE, invitando i Paesi con i bilanci più sani a varare politiche di investimenti pubblici e privati per favorire la crescita in tutto il continente. 45 Fassina, Il lavoro prima di tutto, 109s. 46 L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012, 154. 47 Id., Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità, Laterza, Roma-Bari, 137. 48 Ivi, 150. 49 Fassina, Il lavoro prima di tutto, 171. 50 Ivi, 172. 51 Ivi, 174. «È necessario riabilitare, fuori da ogni impianto culturale antagonistico, la categoria del conflitto sociale come categoria legittima della democrazia effettiva. Il conflitto sociale come strumento possibile, non fine in sé, per il riconoscimento, l’incontro e la promozione della cooperazione tra interessi diversi» (ivi, 187.) La lotta di classe ricompare in forme singolari. Ad esempio le élite finanziarie hanno spesso come alleati i lavoratori dipendenti
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Matteo Prodi le democrazie nazionali non hanno strumenti adeguati per rispondere alle domande. Questione democratica e questione sociale stanno insieme, ma rischiano il cortocircuito. La debolezza della democrazia ha le stesse radici della debolezza del lavoro. Il futuro del lavoro è il futuro della democrazia.52
Il problema da affrontare è anche filosofico, antropologico. È necessario andare oltre il liberalismo, che ha consentito che chi più aveva avesse ancora di più, impoverendo gran parte del resto della popolazione. I primi interessati a tale programma sono i lavoratori dipendenti, i precari, i pensionati, i giovani, i disoccupati. Ma, se davvero l’equità è un fattore etico e l’etica è premio a se stessa, proprio l’equità può divenire un collante per la comunità. L’equità può essere desiderata da tutti. Il liberalismo ha stabilito l’assoluto primato dell’economia sulla politica. Ciò ha portato al rattrappimento delle democrazie delle classi medie, non solo a enormi disuguaglianze e alla conseguente paralisi economica. Ha portato alla regressione delle condizioni del lavoro e allo svuotamento della civiltà del lavoro caratteristica di fondo dell’economia sociale di mercato made in EU. È la regressione delle condizioni di lavoro e la conseguente diseguaglianza nella distribuzione del reddito, della ricchezza e delle opportunità di mobilità sociale la causa prioritaria della rottura dell’equilibrio dell’ultimo trentennio. La regressione del lavoro nel suo insieme, incluse le classi medie. La sfida decisiva per i progressisti è per la dignità del lavoro.53
Il trentennio in questione era caratterizzato non tanto e non solo dall’ipo tetico compromesso tra capitale e lavoro, ma soprattutto dalla comunanza di intenti di politica ed economia di creare stabilità, attraverso «l’aumento delle pensioni, le politiche industriali sostenute dallo Stato, lo sviluppo dei sistemi sanitari nazionali, che offrono prestazioni di alto livello a tutti, a prescindere dal reddito».54 Per questo le politiche di austerità introdotte dai governi UE, compreso quello italiano, si connotano sempre più come una lotta di classe condotta dalle forze economiche e politiche al potere contro chi dal potere è escluso […]. Uno degli aspetti di maggior rilevanza politica da sottolineare in tutto questo è che l’economia
che versano cospicue parti del loro reddito in fondi pensione, dai quali attendono aumenti di valore, a volte creati a danno delle loro imprese. Sono in competizione tra loro le diverse anime della classe lavoratrice: gli immigrati contro gli autoctoni, gli operai dei Paesi occidentali contro quelli dei Paesi emergenti e così via, in modo da frazionare e quasi annullare il potere di lotta (cf. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe). 52 Fassina, Il lavoro prima di tutto, 176. 53 Ivi, 183. 54 Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, 121. La sicurezza che deriva dal lavoro è un fattore decisivo per la fioritura della persona. «Richard Sennet ha parlato a riguardo di corrosione del carattere, intendendo con ciò gli effetti sulla personalità provocati dal lavoro del capitalismo flessibile (sinonimo di capitalismo finanziario)» (ivi, 169).
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Verità e vangelo in economia e politica pare governata con criteri che con la democrazia non hanno molto a che fare, perché sono tutte decisioni calate dall’alto.55
Le classi al vertice della piramide sono riuscite a far pagare i costi della crisi alle fasce che occupano la base. Un processo democratico deve, invece, «far crescere l’occupazione, in primo luogo perché le famiglie ne hanno un’esigenza primaria, e poi perché solo dall’occupazione deriva la crescita».56 Il lavoro è la variabile più umanizzante affinché tutti collaborino al bene comune. L’esito peggiore dell’individualizzazione estrema e radicale della persona è la delusione, il disinganno, a volte la rabbia, è la caduta se non la scomparsa di una speranza collettivamente condivisa […]. Nell’idea di partecipazione individuale a scelte collettive che hanno poi ricadute su tutti e su ciascuno è insita la speranza in un mutamento tangibile, una innovazione della società e del mondo che renda un po’ più liberi, più padroni del proprio destino, che avvii verso qualche forma di emancipazione […]. Non potremo mai fare passi decisivi in questa direzione senza una ripresa del movimento dialettico tra classi che riconoscono di essere divise da un conflitto strutturale ineludibile, e tuttavia sono disposte ad ammettere che un compromesso dialetticamente mobile, attuato nel quadro di una convivenza realmente democratica, è per entrambe le parti preferibile a uno scontro frontale.57
In Italia, un faro nella crisi del lavoro è la Costituzione. È rispettata oggi? La Repubblica italiana su cosa si basa? Lo Stato fa qualcosa per eliminare gli ostacoli affinché tutti lavorino? Tutti sono posti nelle condizioni di offrire il loro contributo? La retribuzione è sufficiente? C’è tutela per le donne, per i figli, per i minori, per i diversamente abili, per chi si ammala, per gli anziani? Che ne è del diritto di sciopero? Che ne è della possibilità per i lavoratori di partecipare alla gestione delle imprese? La retribuzione è proporzionata alle esigenze della persona e della famiglia? Sono domande cruciali; risposte scontate. Le frontiere per ripensare al lavoro potrebbero così essere elencate: essere sempre imprenditori; essere creativi; avere possibilità di crescita, di formazione, di spendere competenze e capacità; flessibilità in ordine alla condizione di vita; complementarità uomini donne; non la vendita del proprio lavoro, ma la dignità suprema della propria opera; un nuovo concetto di mercato del lavoro.58
Ivi, 123-132. Ivi, 136. 57 Ivi, 209-211. 58 Cf. Gallino, Il lavoro non è una merce, 159. Se il lavoro non è una merce, allora non può avere un mercato e non si possono vendere i diritti dei lavoratori in cambio di garanzie sull’occupazione, o addirittura vendere o affittare lavoro. 55 56
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Proposte 1. Definizione di un contratto per l’ingresso dei giovani e per il reingresso dei lavoratori. 2. Drastica riduzione delle forme contrattuali precarie. 3. Indennità di disoccupazione universale di natura assicurativa. 4. Retribuzione o compenso minimo orario. 5. Potenziamento dei servizi pubblici. 6. Defiscalizzazione dei primi tre anni. 7. Regolazione e remunerazione degli stage. 8. Universalizzazione dell’indennità di maternità. 9. Politiche attive e riforma dei servizi. 10. Introduzione dello statuto per i lavoratori autonomi e professionisti.59 11. I sindacati e le regole del gioco condivise. 12. Introdurre un nuovo lessico: persona che lavora e non lavoratore o classe lavoratrice. Credo importante ricordare un martire del nostro tempo che ha offerto la vita per il mondo del lavoro: Massimo D’Antona.60 Le nuove BR l’hanno ucciso per impedire questa ricomposizione della sana lotta di classe. D’Antona ha lavorato per garantire i giusti diritti dei lavoratori dentro un’equilibrata dinamica democratica. Chi lo ha ucciso, voleva massimizzare i vantaggi per la classe operaia, ma con la prassi della violenza.61 Adriano Olivetti è un campione nella storia aziendale italiana. Il figlio di Camillo, fondatore della società nel 1908, aveva ereditato dal padre la fabbrica e le linee guida per dirigerla. La fabbrica chiede tanto ai suoi operai, in termini di intelligenza, fatica, vincoli sul lavoro, orari della vita quotidiana, organizzazione familiare, spostamenti, modifiche del territorio. In quanto si rende conto di chiedere tanto, ha il dovere di restituire molto. Di fatto la Olivetti effettuava tale restituzione nei confronti dei dipendenti, della città e di tutto il territorio sotto forma sia di alti salari, sia di case per i dipendenti, scuole, biblioteche, ambulatori, asili, colo-
Fassina, Il lavoro prima di tutto, 138-140. Un primo approccio con il suo pensiero è reperibile in P. Pascucci (a cura di), Massimo D’Antona: l’attualità di un pensiero, Franco Angeli, Milano 2009. Ricordo che come lui è stato ucciso Marco Biagi, ed era stato preparato l’assassinio di un altro giuslavorista, Ichino. 61 Questo è confermato dalla rivendicazione scritta dalle BR: «Con questa offensiva le Brigate Rosse per la Costruzione del partito Comunista combattente, riprendono l’iniziativa combattente, intervenendo nei nodi centrali dello scontro per lo sviluppo della guerra di classe di lunga durata, per la conquista del potere politico e l’instaurazione della dittatura del proletariato, portando l’attacco al progetto politico neo-corporativo del “Patto per l’occupazione e lo sviluppo”, quale aspetto centrale nella contraddizione classe/Stato, perno su cui l’equilibrio politico dominante intende procedere nell’attuazione di un processo di complessiva ristrutturazione e riforma economico-sociale, di riadeguamento delle forme del dominio statuale, base politica interna del rinnovato ruolo dell’Italia nelle politiche centrali dell’imperialismo». 59 60
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Verità e vangelo in economia e politica nie estive, servizi sociali, mostre d’arte. Aveva così dato origine a una sorta di Stato sociale a misura di comunità che per dimensioni, completezza e qualità non aveva allora l’uguale, e oggi appare semplicemente inimmaginabile. Era un’impresa radicata nella comunità e nel territorio per la quale, ad esempio, l’idea di trasferire all’estero il grosso della produzione al fine di ridurre i costi del lavoro sarebbe apparsa priva di senso.62
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L. Gallino, «Olivetti, capitalista democratico», in MicroMega (2011)8, 228-244, qui 229s.
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Giacomo Canobbio
1. Nota
metodologica
La prima questione che si pone quando si voglia cogliere l’autocomprensione della Chiesa riguarda la via attraverso la quale la si possa raggiungere. La soluzione potrebbe consistere nell’affidarsi ai testi normativi, in particolare alla Scrittura, notoriamente fonte perenne della vita e quindi dell’autocomprensione della Chiesa. Peraltro si potrebbe giustificare tale soluzione ricordando che la Scrittura è espressione della Chiesa nel suo momento sorgivo: è la Chiesa che si dà il canone scritturistico riconoscendo in esso l’attestazione dell’evento che la fa essere. Indiscutibile la soluzione, non solo perché la Scrittura è la parola di Dio che modella in forma permanente la Chiesa e quindi la fa essere nel tempo,1 ma pure perché essa è la norma cui la Chiesa si volge per riscoprire continuamente la propria identità. Non si può tuttavia dimenticare che la Scrittura, proprio in quanto norma in ogni tempo della Chiesa, mantiene una certa distanza rispetto agli stili di esistenza concreti della medesima Chiesa e quindi non esprime di fatto l’autocomprensione che si riscontra nei diversi tempi: se ci fosse identità tra Scrittura e autocomprensione non si capirebbe come la Scrittura possa/debba continuare a essere norma. Di fatto l’autocomprensione della Chiesa ha assunto colorazioni diverse in dipendenza dalle circostanze e, in alcuni momenti, ha rasentato l’ideologia, almeno in alcuni testi autorevoli che pretendevano
1 Cf. A. Maffeis, «Creatura Verbi. Possibilità e limiti di una nozione ecclesiologica», in S. Noceti – G. Cioli – G. Canobbio (a cura di), Ecclesiam intelligere. Studi in onore di Severino Dianich, EDB, Bologna 2012, 367-380.
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di esprimerla. Del resto nessun testo, per quanto autorevole, nonostante la sua Wirkungsgeschichte, riesce a racchiudere tutte le forme di autocomprensione della Chiesa di un tempo: la vita della Chiesa è articolata nei suoi soggetti e nelle scelte che questi attuano2 e, se si prescinde da una comune concezione di fondo, la diversità appare essere la caratteristica delle autocomprensioni, perfino quando i soggetti utilizzano le medesime categorie. La constatazione conduce a «relativizzare» tutti i testi nei quali si potrebbe rintracciare l’autocomprensione della Chiesa, riconoscendoli dipendenti da circostanze storiche, da obiettivi particolari, con le relative scelte di categorie. Sicché, per quanto riguarda il nostro tema, non ci si potrà limitare a considerare alcuni pronunciamenti facendoli diventare assoluti anche solo in un tempo particolare: «L’espressione extra ecclesiam nulla salus non sta da sola nella storia del dogma; perciò non può essere considerata isolatamente».3 In tal senso l’accusa di «esclusivismo soteriologico» rivolta alla tradizione teologico-magisteriale cattolica fino al Vaticano II rispecchia uno schematismo storiografico che non fa giustizia alla storia del pensiero. Può apparire paradossale, ma, in alcune ricostruzioni, mentre, per un verso, si dichiara che si devono storicizzare tutte le affermazioni, per un altro se ne assolutizzano alcune, dimenticando sia l’obiettivo che esse si prefiggevano (molte volte pratico) sia il contesto dottrinale più ampio nel quale esse sono poste. L’autocomprensione non avviene in uno spazio neutro: avviene solo in circostanze storiche, benché queste facciano emergere accentuazioni particolari di un dato di coscienza fondamentale, che a volte rischia perfino di essere nascosto dalle medesime accentuazioni. Si deve poi aggiungere che i testi, siano essi teologici, magisteriali o scritturistici, non rispecchiano necessariamente l’autocomprensione della Chiesa nella sua generalità: tra i testi e il modo di pensare della stra-
2 Il richiamo alle scelte vuole rimarcare che non solo nell’ecclesiologia, ma pure – e forse soprattutto – nelle pratiche si evidenzia un’autocomprensione della Chiesa. Si dovrebbe qui aprire il capitolo relativo al rapporto tra vita ecclesiale ed ecclesiologia: cf. A. Antón, El misterio de la Iglesia. Evolución histórica de las ideas eclesiológicas, I: En busca de una eclesiología y de la reforma de la Iglesia, BAC, Madrid 1986, 23-35. Resta indiscutibile che le pratiche erano/sono frutto di una visione ecclesiologica, che sta prima e, in alcune circostanze, sta dopo le medesime pratiche, anche in funzione ideologica. Per il nostro tema si pensi alle ragioni dell’attività missionaria sia nella prospettiva della Scuola di Münster sia in quella della Scuola di Lovanio: se la prima intendeva la missione prevalentemente in vista della conversione delle persone al fine di ottenere la salvezza, la seconda la intendeva come dilatazione della Chiesa fino alla sua taglia adulta. Nei due casi il modo di pensare la Chiesa è evidentemente diverso: nel primo essa è pensata anzitutto in funzione della salvezza, nel secondo invece è pensata nella sua identità di «cattolica» e quindi orientata a raggiungere tutti; qui il tema della funzione salvifica, pur non essendo negato, passa in secondo piano (cf. G. Colzani, La missionarietà della Chiesa, EDB, Bologna 1975). 3 J.-H. Tück, «Extra ecclesiam nulla salus. Das Modell der gestuften Kirchenzugehörigkeit und seine dialogischen Potentiale», in Id. (a cura di), Erinnerung an die Zukunft. Das Zweite Vatikanische Konzil, Herder, Freiburg-Basel-Wien 2012, 253.
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grande maggioranza dei fedeli si deve registrare uno scarto. In tal senso una Denzingertheologie, una teologia biblica, una storia del pensiero teologico non dicono ancora cosa di fatto in un determinato periodo si pensasse relativamente al nostro tema. Per dirla con Karl Rahner, il catechismo della mente e del cuore non corrisponde al catechismo ufficiale, benché questo abbia il compito e quindi la pretesa di orientare la coscienza dei fedeli. Quanto vale per la storia vale anche per l’attualità: chi avrebbe oggi l’ardire di sostenere che la maggioranza dei fedeli pensi alla Chiesa come luogo e strumento di salvezza per tutti? Questa notazione rende difficile l’esecuzione del compito assegnato a questo contributo: si dovrebbe fare un’indagine accurata sulla mentalità, cosa non facile perché comporterebbe studiare i catechismi, quando ci fossero, le espressioni pittoriche e scultoree, la letteratura, le pratiche devozionali, la predicazione. Siamo così costretti a limitarci ai testi «dotti», nella consapevolezza che in qualche modo i maiores influiscono sui rudes, lasciando aperta la questione se i maiores esprimano maggiormente la coscienza ecclesiale che non i rudes. Si potrebbe certamente eccepire che i primi esprimono la coscienza che si dovrebbe avere. Ma tra questa e quella che effettivamente si ha è innegabile uno scarto, benché si debba riconoscere che alcuni aspetti della coscienza «normativa» siano presenti anche nella maggioranza dei fedeli, anche solo come meta verso cui orientarsi. È infatti indiscutibile che i testi, espressione della recezione di una tradizione e quindi di un’esperienza imperdibile, sono specchio di una coscienza non semplicemente registrata nel momento nel quale si redige il testo, bensì di una coscienza dilatata nel tempo e quindi radicata nell’esperienza originaria della Chiesa, che il testo ha voluto e vuole conservare, almeno in alcuni aspetti: nessun testo (neppure la costituzione dogmatica sulla Chiesa del Vaticano II) dice la totalità dell’esperienza ecclesiale, benché in un particolare tempo esprima e indichi l’aspetto di essa che si vuole/deve mettere in evidenza.4 Comunque sia, un dato è riscontrabile in tutta la storia della Chiesa: la consapevolezza di essere il luogo di un’esperienza originale provocata dalla rivelazione/fede; per quanto la Chiesa «sperimenti con il mondo la medesima sorte terrena» (Gaudium et spes [GS], n. 40: EV 1/1443), rispetto al mondo costituisce un’eccedenza che rende possibile alle persone umane incontrare l’automanifestazione definitiva di Dio in Gesù Cristo.
4 Ovviamente va fatta una differenza tra i testi del NT e quelli successivi: i primi restano testimonianza normativa di esperienze paradigmatiche; non così i testi, siano essi magisteriali o teologici, che nei secoli successivi si sono redatti. Se è vero che ogni testo porta con sé il suo mondo, i testi del NT portano il mondo originario, sorgivo, e vogliono introdurre il lettore (la Chiesa di ogni tempo) in quel mondo che resta normativo per tutti i mondi mediati dai testi successivi.
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2. Dato fondamentale: la C hiesa luogo dei « salvati » Le attestazioni neotestamentarie, soprattutto in alcuni generi letterari, pur riconoscendo che in essi si manifesta l’autocomprensione della Chiesa in un momento particolare (per es., la celebrazione liturgica), possono essere lette come specchio di un’esperienza: per i cristiani si è attuato un passaggio «dal potere delle tenebre» al «regno del Figlio del suo amore» (Col 1,13). Per quanto sia retoricamente fosca la descrizione del mondo nel quale il cristianesimo si inserisce (basterebbe leggere i primi due capitoli della Lettera ai Romani o l’avvio del capitolo secondo di Efesini per rendersene conto), resta innegabile che i cristiani delle prime generazioni hanno la consapevolezza di essere stati introdotti in una nuova condizione vitale, che anche in rapporto a Israele comporta un superamento: la consapevolezza dell’elezione già presente in Israele viene ripresa e sviluppata nelle comunità primitive a partire dal gruppo dei discepoli di Gesù.5 L’elezione non è più intesa semplicemente in rapporto al mondo (ta ethnē), ma pure in rapporto a Israele: già i discepoli di Gesù e poi i cristiani provenienti dal giudaismo percepiscono di essere stati trasferiti in una nuova condizione vitale grazie all’adesione al vangelo. Di fatto il compimento antimessianico del messianismo giudaico6 porta con sé la consapevolezza che per la salvezza non basta più l’appartenenza a Israe le: l’adesione a Gesù/Vangelo è diventata determinante, poiché ormai Gesù è la definitiva, originale manifestazione di Dio che eccede in forma inanalogabile quella già conosciuta nella tradizione ebraica precedente; la conversione a Gesù è necessaria non solo per i pagani, ma pure per gli israeliti (cf. 2Cor 3,7-18).7 Si dovrebbe, al riguardo, richiamare tutta la teologia paolina sulla Legge, la quale, pur mantenendo il suo valore, non ha la capacità di rendere giusti; solo la fede procura la giustificazione, e questa è ora possibile a tutti grazie allo Spirito. Si dovrebbe altresì richiamare la teologia giovannea che fa leva sulla polemica con i giudei per presentare l’adesione a Gesù come condizione per la nuova nascita, la libertà, la vita eterna (cf. Gv 3; 5; 8; 10). L’idea è riscontrabile anche in At 2: l’adesione all’annuncio di Pietro e il battesimo diventano ingresso nella condizione
5 I termini eklektos, kletos, con i relativi verbi ritornano frequentemente negli scritti del NT. Si dovrebbe però notare l’accentuazione di un aspetto già presente in un filone della tradizione ebraica: l’elezione è in vista di un compito, quello di far conoscere a tutto il mondo le grandi opere di Dio; sta qui il senso della missione secondo la prospettiva del NT. 6 Appare innegabile che il messianismo di Gesù non corrisponde al messianismo giudaico, almeno nel suo orientamento prevalente: basti riferirsi a Mt 16,16ss, dove si coglie una distanza tra il contenuto del titolo «Cristo» applicato a Gesù da Pietro e quello indicato da Gesù, che include la morte. 7 Del resto non si può dimenticare che l’annuncio del vangelo, stando alla narrazione di At, è rivolto anzitutto alle comunità ebraiche; solo quando queste rifiutano, gli annunciatori si rivolgono ai pagani.
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di salvezza alla quale Dio introduce. Sintomatico che all’invito di Pietro a convertirsi e a ricevere il battesimo Luca faccia seguire il sommario della vita della comunità, con la conclusione del v. 47: «Il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità (epi to auto)8 quelli che erano salvati». Merita attenzione anche At 7, dove Stefano mostra che tutto quel che era stato scritto conduce all’evento Gesù Cristo; ma più in generale andrebbero ricordati i discorsi di Pietro (At 2; 10–11) e di Paolo quando si rivolgono alle comunità giudaiche: tutto è finalizzato a mostrare che ora Dio ha compiuto il suo disegno e quindi se si vuol aderire a lui si deve accogliere il vangelo; nel tempo è avvenuta una svolta, e non si può pensare di restare nella condizione precedente.9 Questa concezione permane ancora negli scritti dei primi secoli, sia nella forma polemica nei confronti del giudaismo e del paganesimo sia nella forma dialogica degli apologisti:10 in tutti si manifesta la consapevolezza che un’epoca è finita e quindi chi voglia essere salvato deve aderire al vangelo ed entrare nella comunità cristiana.11 Tale consapevolezza sta sullo sfondo anche della polemica antieretica: chi si allontana dalla verità rompe la comunione e quindi non può più fruire della comunione, che è nello stesso tempo con la Chiesa e con Dio, poiché è solo nella catholica, dirà Agostino al seguito di Cipriano, e con la sua Wirkungsgeschichte nei simboli di fede exculta,12 che si può avere
8 L’espressione greca, «usata ora non in senso spaziale» (rispetto ad At 1,15; 2,1) (J. Fitzmyer, Gli Atti degli Apostoli. Introduzione e commento, Queriniana, Brescia 2003, 261), rimanda alla totalità dell’esperienza descritta; non si tratta pertanto di una semplice adesione alla comunità, bensì a tutti gli elementi costitutivi di essa, che sono segno della novità di vita introdotta da colui che ha donato lo Spirito. 9 Sullo sfondo di tale visione sta la «pretesa» di Gesù di essere il determinante nel rapporto con Dio: si riscontra specularità tra tale «pretesa» e l’invito a tutti di aderire al vangelo; l’affermazione lapidaria di At 4,12 («In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati») si propone come sintesi di una visione che attraversa tutto il NT. 10 A questo riguardo non si può dimenticare che la letteratura cristiana dei primi secoli non è solo «dialogica», come a volte si vuol far credere per giustificare oggi la necessità del dialogo con gli appartenenti alle altre religioni: si riscontra anche un filone polemico nei confronti sia del giudaismo che del paganesimo (cf. J. Ries, I cristiani e le religioni, Queriniana, Brescia 1992, 13-191). 11 Anche gli autori che colgono negli scritti degli ebrei una praeparatio evangelica e in quelli dei pagani i «semi del Verbo» manifestano la consapevolezza che ora quel regime è terminato: basterebbe leggere il Protrettico di Clemente Alessandrino, uno degli autori ai quali ci si richiama volentieri nella recente teologia delle religioni. Sulla questione cf. C. Saldanha, Divine Pedagogy. A Patristic View of Non-Christian Religions, LAS, Roma 1984; G. Canobbio, «Verbo eterno e salvezza storica», in G. Canobbio – F. Dalla Vecchia – R. Tononi (a cura di), La Parola e le parole, Morcelliana, Brescia 2003, 211-241. 12 Si pensi al simbolo Quicumque, che dichiara all’inizio e alla fine che per avere la salvezza si deve credere quanto vi è contenuto. Diventerà un topos in tutte le professioni di fede anche nei secoli successivi, soprattutto quando si chiederà agli «eretici» di sottoscrivere una professione di fede (H. Denzinger, Enchiridion Symbolorum [Denz], edizione bilingue, a cura di P. Hünermann, EDB, Bologna 1995, 75s).
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la salvezza.13 La retta fede, che è condizione indispensabile per ottenere la salvezza, si ha solo nella Chiesa, la quale sempre più verrà considerata il luogo della verità.14 Per esprimere detta consapevolezza vengono utilizzate immagini fondate in buona parte sull’esegesi allegorica già presente negli scritti del Nuovo Testamento. Le principali sono: l’arca, che richiama sia il luogo di riparo nella prospettiva del giudizio/diluvio sia il luogo nel quale si entra grazie al battesimo/diluvio;15 la casa di Rahab, che diventa il luogo nel quale si deve entrare per essere salvati, cioè per sfuggire al giudizio che incombe;16 l’ovile, che assume i contorni del rifugio nel quale si è custoditi dal Pastore; la madre, che nutre e quindi dona vita a coloro che una volta da lei generati non se ne allontanino.17 Tutte dicono riferimento sia alla diversità della condizione storica dei «salvati» rispetto a quella degli altri, sia alla diversa condizione che si profila sull’orizzonte escatologico, anche perché la seconda dipende dalla prima. Si potrà anche leggere l’accentuazione della diversità in funzione «etica» (invitare a entrare/restare nella Chiesa);18 ciò non toglie che quand’anche fosse solo così, si dovrebbe coglierne la ragione, e questa sta appunto nella convinzione che la Chiesa è il luogo dei salvati e della salvezza. Quando si tratta di descrivere la salvezza, man mano passa il tempo, diventa prevalente la prospettiva escatologica. In tal senso si constata uno spostamento di accento rispetto alla visione del Nuovo Testamento: se qui la condizione attuale era già di «salvati», benché a volte si aggiunga «che si è salvati in speranza» (cf. Rm 8,24), nel periodo successivo l’accento tende a cadere sulla condizione escatologica. Lo spostamento deriva sia
13 Cf. G. Canobbio, Nessuna salvezza fuori della Chiesa? Storia e senso di un controverso principio teologico, Queriniana, Brescia 2009, 170-187. 14 L’accentuazione della verità, che prende avvio nella letteratura neotestamentaria della seconda generazione (si pensi alle pastorali e agli scritti giovannei), va di pari passo con la comprensione della fede come accoglimento di quanto Dio ha voluto far conoscere e che la Chiesa ha il compito di salvaguardare. Va da sé che il conoscere coincide con lo sperimentare, dal quale tuttavia non si può escludere la dimensione noetica, cioè dottrinale. Peraltro va tenuto presente che nel confronto con la filosofia/religione ellenistica non si poteva prescindere dalla dimensione noetica. 15 Cf. H. Rahner, L’ecclesiologia dei Padri, Paoline, Roma 1971, 865-938. 16 Sul motivo di Rahab nella tradizione teologica antica, dove è usato in genere per descrivere il passaggio della Chiesa da meretrice a sposa, cf. H.U. von Balthasar, «Casta meretrix», in Id., Sponsa Verbi. Saggi teologici II, Morcelliana, Brescia 1972, 207-223. 17 Cf. G. Canobbio, «La Chiesa “genera” i figli di Dio», in G. Canobbio – F. Dalla Vecchia – R. Tononi (a cura di), La trasmissione della fede, Morcelliana, Brescia 2007, 13-51. L’immagine della Chiesa madre è presente in maniera costante nel corso del tempo ed è ripresa anche dal Vaticano II (cf. G. Ziviani, La Chiesa Madre nel concilio Vaticano II, PUG, Roma 2001). 18 In questo senso legge J. Ratzinger, «Nessuna salvezza fuori della Chiesa?», in Id., Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia 1971, 365-389. La lettura di Ratzinger ha fatto scuola soprattutto in coloro che vogliono relativizzare la funzione della Chiesa in ordine alla salvezza, quasi si abbia paura a riconoscere che nel corso dei secoli ci possa essere variazione almeno di accentuazioni «dogmatiche» e non solo «etiche».
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dalla constatazione che i cristiani non vivono all’altezza della loro chiamata (come già peraltro negli scritti del Nuovo Testamento si riscontra: basterebbe richiamare il nesso tra indicativo e imperativo attestato in tutta la letteratura neotestamentaria) sia dalla preoccupazione di legittimare l’appartenenza anche dei peccatori alla Chiesa.19 Contestualmente si trasforma anche l’idea generale di Chiesa: da luogo dei «salvati» a luogo in cui si può ottenere salvezza, poiché in esso si hanno a disposizione i mezzi che altrove non si hanno.20 Il modello fondamentale che si assume per descrivere la salvezza resta comunque la comunione con Dio quale si è realizzata in Cristo mediante lo Spirito. Questa è destinata a dilatarsi e a includere tutta l’umanità21 anche mediante la missione.22 Merita attenzione al riguardo che l’esperienza della concreta comunità venga letta come segno e quindi anticipo di un disegno universale: questo non si limita all’umanità, ma coinvolge il cosmo.23 La categoria che nella letteratura paolina appare dominante per questo aspetto è quella di «riconciliazione»: in un mondo umano e in un cosmo frammentati, Dio ha stabilito di ricostituire l’unità, quella che in germe si può sperimentare nella comunità cristiana, nella quale quanti erano lontani ora sono diventati vicini (cf. Ef 2,13).24 Il fatto che il «disegno» non si sia ancora realizzato compiutamente non toglie nulla all’esperienza che si sta vivendo, la quale trova la sua fonte e il suo luogo precipuo nella celebrazione liturgica.25 Qui la presenza del Signore realizza, pur in forma simbolica, l’unificazione del tutto. L’accentuazione di questa prospettiva nel corso dei secoli ha portato in alcuni orientamenti «confessionali» a pensare la Chiesa come societas (communio) sanctorum. Tale concezione appartiene in genere ai movi-
19 Cf. G. Canobbio, «Richieste di perdono e santità della Chiesa», in G. Canobbio – F. Dalla Vecchia – R. Tononi (a cura di), Perdono e riconciliazione, Morcelliana, Brescia 2006, 343-373; Id., «“Casta meretrix”? Peccato e santità della/nella Chiesa», in A. Melloni (a cura di), Tutto è grazia. In omaggio a Giuseppe Ruggeri, Jaca Book, Milano 2010, 469-489. 20 La polemica antiprotestante – ma già prima in rapporto alle «eresie» e agli scismi – metterà in evidenza particolare questo aspetto, che va di pari passo con la questione della «vera» Chiesa. La questione non è assente neppure nei documenti del Vaticano II, nei quali resta chiara la traccia della prospettiva apologetica in ecclesiologia: si pensi soprattutto a Lumen gentium [LG], n. 8 (EV 1/304ss) e Dignitatis humanae, n. 1 (EV 1/1042ss), oltre che alla visione generale di Unitatis redintegratio (EV 1/494-572). 21 Cf. Gv 11,52; 12,32. 22 Cf. Mt 28,18-20. 23 Questa prospettiva si riscontra soprattutto nelle lettere deuteropaoline: cf. soprattutto Ef 1,10. 24 L’idea è ripresa nei documenti del Vaticano II (cf. R. Tononi, «La Chiesa, segno e strumento dell’umanità riconciliata. Un aspetto dell’ecclesiologia del Vaticano II», in Canobbio – Dalla Vecchia – Tononi [a cura di], Perdono e riconciliazione, 305-342). 25 Sull’importanza che la celebrazione liturgica riveste per la formazione dell’autocomprensione ecclesiale cf. F. Montagnini, «Elementi costanti nel linguaggio ecclesiologico», in G. Canobbio – F. Dalla Vecchia – G. Montini (a cura di), La parrocchia come Chiesa locale, Morcelliana, Brescia 1993, 67-81.
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menti riformatori ed è assunta in funzione polemica nei confronti di una Chiesa che non avrebbe mantenuto la purezza originaria, peraltro miticamente pensata. L’istanza inscritta in tale concezione è innegabile: se la Chiesa è l’esito dell’azione salvifica di Dio in Gesù Cristo ed è frutto dello Spirito, come si confessa nel Simbolo di fede, diventa logico concludere che a essa appartengono solo i giusti. Nella polemica si faceva però osservare ai riformatori, peraltro facendo eco ad alcune loro affermazioni, che in questo modo non si sarebbe potuto precisare chi effettivamente appartenga alla Chiesa, poiché solo Dio conoscerebbe chi siano i giusti. La sottolineatura dell’appartenenza dei soli giusti alla Chiesa aveva il vantaggio di richiamare il nesso tra Chiesa e salvezza, che va intesa non semplicemente in dimensione escatologica ma anzitutto in dimensione terrena: l’esperienza ecclesiale è, infatti, esperienza di vita conforme al vangelo. Sulla scorta del medesimo nesso si era conservata nella storia del pensiero ecclesiologico l’idea che la Chiesa si estende fino al giusto Abele e comprende tutti i giusti fino alla fine del tempo.26 Con ciò non si voleva mettere in discussione la dimensione storico-visibile della Chiesa: solo le accentuazioni polemiche dall’una e dall’altra parte portavano a contrapporre una Chiesa «spirituale» a una Chiesa dai connotati societari. Se la prima sottolineatura richiamava l’esigenza di non equiparare la Chiesa, oggetto di fede, a qualsivoglia società e quindi a rimarcarne l’origine trascendente, la seconda difendeva la dimensione fenomenica della medesima Chiesa: senza una dimensione (di dimensione si tratta, perché nessuno, neppure il tanto vituperato Bellarmino ha mai pensato che la Chiesa sia semplicemente equiparabile alla repubblica di Venezia) visibile, societaria, non si saprebbe dove sia la Chiesa e quindi non si conoscerebbe dove stia l’esito dell’azione salvante di Gesù Cristo.
26 Il tema della ecclesia ab Abel risale ad Agostino. Descrivendo il corpo di Cristo il vescovo di Ippona lo vede esteso fino ad Abele: «Se siamo membra di Cristo, siamo anche suo corpo, e lo siamo tutti insieme. Non solo quanti siamo qui presenti in questo luogo ma anche quanti sono sparsi per tutta la terra; né soltanto quanti viviamo nel nostro tempo ma (cosa dirò?) quanti da Abele, il giusto, vivranno sino alla fine del mondo, quando gli uomini cesseranno di generare e di essere generati» (Agostino, Discorsi nuovi 22,19, in Opere di sant’Agostino, Città Nuova, Roma 2002, XXXV/2, 485). Non si può tuttavia ricavare da questa e altre simili citazioni che Agostino pensi a una Chiesa priva di un riferimento a Gesù Cristo: in Esposizione sui Salmi 90, discorso 2,1 (in Opere di Sant’Agostino, Città Nuova, Roma 1976, XXVII, 159) precisa che la Chiesa che prende avvio da Abele e si estende fino alla fine del tempo è costituita da quanti crederanno in Cristo. Va poi ricordato che per il santo vescovo la caritas, che è la dimensione interiore e definitiva della Chiesa, non è disgiungibile dalla dimensione esterna della medesima Chiesa: nell’attuale condizione non è possibile partecipare alla societas sanctorum se non si partecipa alla communio sacramentorum, benché le due non coincidano totalmente. Pertanto chi è fuori della Chiesa – non si può dimenticare la sua polemica con la pars Donati – non può illudersi di partecipare alla salvezza. Il tema della ecclesia ab Abel resterà nella storia del pensiero cristiano: cf. la documentazione addotta da Y.M. Congar, «Ecclesia ab Abel», in M. Reding (a cura di), Abhandlungen über Theologie und Kirche, Patmos, Düsseldorf 1952, 79-108.
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La polemica, che, va ricordato, non prende avvio solo con la Riforma, portava a mettere in secondo piano la descrizione della Chiesa come luogo dei salvati per rimarcare che la Chiesa è il luogo della salvezza: si trattava di difendere il senso della Chiesa nella storia, a fronte soprattutto delle divisioni, le eresie, ma pure delle «pretese» sia dell’ebraismo sia del paganesimo (più tardi dell’islam) di essere la vera religione.27 Va ricordato che fin dall’inizio (già nel Nuovo Testamento: si pensi alle lettere pastorali o alla 1Gv) gli autori cristiani hanno cercato di collegare la retta professione di fede e la caritas, che sono possibili solo nella Chiesa, con la salvezza: anche in questo senso la Chiesa è madre. La Chiesa quindi non è solo luogo dei «salvati», ma pure luogo e mezzo di salvezza.
3. Un dato «derivato»: la C hiesa luogo in cui
si ottiene
la salvezza
La consapevolezza della propria condizione diventa fondamento della consapevolezza di un compito. A questo riguardo sono numerosi i testi del Nuovo Testamento. A titolo esemplificativo si potrebbe rileggere Mt 5,14ss, da collegare con i testi che dicono missione, che si vede emblematicamente riuscita in At 2: alla condizione di «salvati» si giunge in seguito all’annuncio (cf. anche Rm 10,5-13). La Chiesa si comprende pertanto come «araldo»28 o, più ampiamente, come «sacramento». Su quest’ultima categoria interpretativa la riflessione teologica si è esercitata, non senza dibattito (soprattutto nel confronto ecumenico), in particolare dopo il Vaticano II,29 fluttuando tra «segno» (o anche «rappresentanza»)30 e «strumento».
27 Il tema della vera religione attraversa la letteratura cristiana fin dall’inizio: la dimensione apologetica della teologia trova espressione già nel NT e si è cristallizzata in alcune opere: si pensi al De vera religione di Agostino, ma più avanti ai «dialoghi» di Abelardo, Raimondo Lullo, Nicolò Cusano, per giungere all’apologetica cattolica moderna nella quale, una volta «dimostrato» che l’uomo è naturaliter religioso e ha quindi bisogno di una religione, si cercava di mostrare che il cristianesimo è l’unica vera religione e questa trova nella Chiesa cattolica la sua autentica concrezione. 28 È uno dei modelli illustrati da A. Dulles, Modelli di Chiesa, Messaggero, Padova 2005, 93-106. Senza la consapevolezza di un compito ricevuto, ma pure di una condizione di compiutezza nella quale si devono introdurre gli umani, non si capirebbe la missione evangelizzatrice della Chiesa. 29 Cf. G. Canobbio, «La Chiesa come sacramento di salvezza. Una categoria dimenticata», in Associazione teologica italiana, La Chiesa e il Vaticano II. Problemi di ermeneutica e recezione conciliare, Glossa, Milano 2005, 115-181; la posizione assunta in questo saggio è discussa da S. Pié-Ninot, «Sacramentalità», in G. Calabrese – P. Goyret – O.F. Piazza (a cura di), Dizionario di ecclesiologia, Città Nuova, Roma 2010, 1242-1255. 30 È la posizione proposta da J. Ratzinger: cf. G. Canobbio, Chiesa, religioni, salvezza. Il Vaticano II e la sua recezione, Morcelliana, Brescia 2007, 64-72.
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Nell’accentuazione del «segno» gioca un notevole ruolo la comprensione della condizione umana connotata dall’esistenziale soprannaturale, che rimanda al problema del soprannaturale vivacemente discusso tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 del secolo scorso, nonché alla teologia della storia della salvezza, la quale ha però assunto, sintomaticamente, connotazioni diverse nel passaggio dall’interpretazione protestante (O. Cullmann, G. von Rad) a quella diffusa in ambito cattolico.31 Tenendo insieme i due significati (segno e strumento) si giunge a pensare che la Chiesa sia il luogo nel quale si hanno a disposizione i mezzi per ottenere la salvezza, e quindi il luogo nel quale questa si può ottenere «con maggiore sicurezza». Il comparativo ha valore sia in riferimento alla condizione degli appartenenti alle altre Chiese/confessioni cristiane32 sia in riferimento agli umani in generale. A questo riguardo si deve ricordare la classica dottrina del voto, che LG 14 riserva ai catecumeni e «traduce» nei nn. 15-16 con i termini «congiunti» e «ordinati».33 Il Vaticano II, pur riaffermando la necessità della Chiesa per la salvezza, assume e sviluppa la dottrina della possibilità per tutti di ottenere la medesima salvezza.34 Peraltro tale dottrina, mediante la categoria dell’«ignoranza invincibile», era già stata proposta da Pio IX e ripresa in occasione del cosiddetto «affare L. Feney».35 Queste ultime notazioni permettono di ridimensionare l’accusa di «esclusivismo» rivolta alla dottrina tradizionale, benché in alcuni episodi esso sia innegabile.
4. Esclusivismo soteriologico in funzione « politica » Indiscutibile che l’esclusivismo soteriologico sia stato presente in alcuni momenti. Va però rilevato che si trattava, almeno in alcune circostanze, di uso «politico-ideologico» dell’assioma extra ecclesiam nulla salus. Di tale uso si possono ricordare due casi: il primo è costituito dalla bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII (1302), che trasforma un caso «poli-
31 Cf. ivi, 72-82; G. Pasquale, La teologia della storia della salvezza nel secolo XX, EDB, Bologna 2002. 32 La visione qui allusivamente richiamata aveva trovato espressione nell’ultima parte della Mystici corporis, dove si invitavano quanti si erano separati dalla Chiesa a ritornare al luogo nel quale possono essere sicuri della salvezza (cf. EE 6/251). In questa enciclica si trova l’affermazione: lo Spirito Santo «membra tamen, a Corpore omnino abscissa, renuit sanctitatis gratia inhabitare» (EE 6/205). La frase, piuttosto problematica, ha fatto discutere a lungo (cf. G. Canobbio, «“Lo ‘Spirito’ soffia dove vuole”. Dove opera lo Spirito?», in G. Canobbio – F. Dalla Vecchia – R. Maiolini [a cura di], La vita nello Spirito, Morcelliana, Brescia 2012, 113-154, qui 115-122). 33 Cf. Canobbio, Nessuna salvezza fuori della Chiesa?, 318-325; cf., anche Tück, Extra ecclesiam nulla salus, 257-264. 34 Cf. Canobbio, Chiesa, religioni, salvezza, 19-56. 35 Cf. Id., Nessuna salvezza fuori della Chiesa?, 270-295.
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tico» in una questione soteriologica; il secondo è costituito dal Decreto per i giacobiti del concilio di Firenze (1442), nel quale, pur con affermazione dogmatica, si persegue un intento «politico-ecclesiastico». La bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII (18 novembre 1302) merita attenzione perché in essa l’affermazione della necessità di appartenere alla Chiesa per ottenere la salvezza non solo è posta in forma «esclusivista» ma pure in funzione «politica»; e non si tratta soltanto di politica ecclesiale, ma anche «civile». L’occasione della bolla è la polemica del papa con Filippo IV di Francia (Filippo il Bello) circa il potere del papa nei confronti dell’imperatore (dei laici, che in questo periodo sono in genere i principi). La bolla prende avvio dall’affermazione dell’unicità della Chiesa,36 giustificata attraverso riferimenti scritturistici, letti secondo un’esegesi allegorica.37 Dall’unicità della Chiesa si evince l’unicità del capo: affermare che esistono due capi sarebbe proporre un mostro e negare l’unicità del principio della realtà, come fanno i manichei. Quest’unico capo è Gesù Cristo e con lui il suo vicario, il papa. Chiunque voglia aderire a Cristo, cosa che è possibile solo attraverso l’adesione alla Chiesa, unica arca di salvezza, deve quindi sottomettersi al romano pontefice. E questa è la condizione assolutamente necessaria per ogni creatura umana. Il testo non potrebbe essere più perentorio: «Dichiariamo, affermiamo, definiamo che l’essere sottomessi al romano pontefice è, per ogni creatura umana, assolutamente necessario per la salvezza» (Denz 875). La conseguenza che si ricava è altrettanto perentoria: chi non si riconosce come affidato a Pietro, che è il capo della Chiesa, corpo di Cristo, e ai suoi successori, non appartiene alle pecore di Cristo; si trova quindi fuori della Chiesa e non può ottenere la salvezza.38 Per cogliere il risvolto «politico» dell’uso del principio extra ecclesiam nulla salus nella forma irrigidita non si può dimenticare la genesi della
36 «L’idea di unità e perfino di unicità domina tutto» (Y.M. Congar, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, éditions du Cerf, Paris 1970, 276). 37 Oltre all’immagine dell’arca si introduce anche quella della tunica senza cuciture (cf. Gv 19,23), del corpo, della sposa, delle pecore, dell’ovile (cf. Denz 870-872). 38 Le affermazioni della bolla verranno riprese dal concilio Lateranense V, nella Sessione XI (19.12.1516), con una leggera variazione: dove Unam sanctam dice che per ogni creatura umana è necessario sottomettersi al pontefice romano, il Lateranense V dice: per ogni fedele (cf. Istituto per le scienze religiose, Conciliorum Oecumenicorum Decreta [COD], EDB, Bologna 1973, 643s, righe 38-40; 1-5). Il restringimento di orizzonte rispecchia non solo una situazione politica mutata, ma pure, connessa, la convinzione che gli infedeli non possono aver coscienza di doversi sottomettere al romano pontefice e quindi potrebbero avere salvezza anche solo sulla base delle condizioni che la teologia scolastica aveva individuato: bastava realizzare quanto scritto in Eb 11,6. Non si può non notare che nella teologia scolastica la condizione per ottenere la salvezza escatologica implica un minimo contenuto della fides quae collegato con la disponibilità ad accettare quanto Dio potrebbe far conoscere e quindi con la fides qua. In tal modo, pur senza negare la necessità di appartenere alla Chiesa per la salvezza, si dava spazio alla volontà salvifica universale di Dio connettendola con il necessario atto umano della fede: una salvezza che non coinvolgesse la persona umana (con l’uso di ragione) negherebbe il valore della medesima persona: cf. Canobbio, Nessuna salvezza fuori della Chiesa?, 199-214.
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bolla. Redattore della stessa sembra essere il card. Matteo di Acquasparta, uno dei massimi difensori dell’autorità del papa in questo periodo. La fonte remota della bolla, per quanto attiene al nostro principio, sembra essere l’opera di san Tommaso Contra errores Graecorum, un memoriale inviato dall’illustre teologo al papa Urbano IV, il quale gli aveva chiesto un parere sul Liber de fide Trinitatis Graecorum di Nicola di Cotrone. Tommaso, attraverso un florilegio di testi patristici sullo Spirito Santo, arrivava a dichiarare che credere alla processione dello Spirito dal Padre e dal Figlio è necessario per la salvezza.39 Il motivo è da vedere nel fatto che questa è la fede della Chiesa latina, la vera Chiesa, senza la quale non è possibile ottenere la salvezza. Ma, procede Tommaso, tocca al papa determinare quale sia la vera fede;40 quindi «sottostare al romano pontefice è necessario per la salvezza».41 Matteo di Acquasparta rafforza l’affermazione di Tommaso, che era relativa ai greci, estendendola a ogni creatura umana e aggiungendo l’avverbio «assolutamente» (omnino).42 Tale estensione rispecchia il parere del redattore, secondo il quale l’autorità del papa si estende agli infedeli, ebrei, pagani e saraceni. L’idea non era particolarmente originale, era anzi ampiamente condivisa.43 Di fatto però è indice di un orientamento nell’interpretazione del nostro principio: solo chi appartiene alla vera Chiesa può ottenere la salvezza; ma il segno di tale appartenenza è la sottomissione al romano pontefice, la quale diventa pertanto la condizione per la salvezza. Si profila il criterio dell’obbedienza alla suprema autorità per l’appartenenza alla Chiesa. Il fatto non desta meraviglia, se si tiene presente che a partire dal secolo XI, con la riforma di Gregorio VII, si tendeva a sottolineare la funzione primaziale del papa come principio costitutivo della Chiesa. Nella bolla Unam sanctam, col riferimento diretto ai greci e a tutti quelli che negano di essere stati affidati a Pietro e ai suoi successori (Denz 872), la sottolineatura si fa decisamente esplicita. Il pensiero procede con logica rigorosa: una volta affermato che la Chiesa è unica, che appartenere a essa è condizione indispensabile per salvarsi dal giudizio del diluvio, che il capo di essa è unico, si conclude che solo chi è sottomesso al capo appartiene alla Chiesa e quindi si può salvare.44
Tommaso, Contra errores Graecorum, Pars II, c. 31. Ivi, c. 36. 41 Ivi, c. 38. 42 Si noti che la traduzione italiana di Denz dimentica l’omnino. 43 Si tratta di un’idea derivata dal rapporto di unità tra Cristo e il suo vicario, il papa: se Cristo è re dell’universo, siccome il papa fa tutt’uno con lui, tutto gli è sottomesso. L’idea verrà fatta valere in occasione della scoperta/conquista dei nuovi mondi: il papa può donare ai reali di Spagna e Portogallo le terre che non sono ancora di proprietà di re cristiani. 44 Sul valore dogmatico della «definizione» contenuta nell’ultima frase della bolla si discute. B. Sesboüé, Hors de l’Église pas de salut, Desclée de Brower, Paris 2004, 86, ritiene che le discussioni «tradiscano la preoccupazione, abbastanza generale nei teologi contemporanei, di dare l’interpretazione più debole possibile a dichiarazioni ingombranti del passato»; ma poi sembra che lui stesso rappresenti la medesima preoccupazione per il 39 40
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La bolla costituisce il quadro dottrinale entro il quale può essere risolta la questione tra Filippo il Bello e Bonifacio VIII: il re non può rivendicare alcuna autonomia rispetto al papa; se non riconoscesse l’autorità di costui non potrebbe raggiungere la salvezza, per il fatto che non apparterrebbe al gregge di Cristo. Si può dire che in tal modo Bonifacio VIII «spiazza» il contendente, trasferendo la questione da un piano prettamente «politico» a un piano teologico e da un piano ecclesiologico (quello del rapporto tra i laici e l’autorità ecclesiastica) a un piano soteriologico, benché l’obiettivo resti «politico». È precisamente l’intento pratico della bolla che porta a restringere la visione elaborata dai teologi scolastici. Questa includeva il tema della possibilità che Dio, il quale non lega la sua potenza ai sacramenti,45 raggiungesse tutti gli uomini per vie a lui solo note. In un contesto di confronto polemico, introdurre una tale possibilità avrebbe significato indebolire il principio dell’autorità suprema del papa su ogni creatura. Naturalmente Bonifacio VIII non misconosce la libertà di Dio. Il suo intervento si pone al livello del principio della visibilità della Chiesa e della sua necessità per la salvezza.46 Del resto, era convinzione comune che non ci fosse nessuno che non avesse ancora conosciuto la Chiesa: anche gli ebrei e i maomettani potevano vedere la presenza della Chiesa e quindi erano nella condizione di credere; se non lo facevano erano certamente in cattiva fede e quindi meritevoli di condanna. Nella direzione «politica» si colloca pure il secondo intervento magisteriale che vogliamo considerare, il Decreto per i giacobiti del concilio di Firenze (4 febbraio 1442). La Chiesa giacobita era sorta nel secolo VI come reazione al concilio di Calcedonia, nell’intento di difendere la dottrina cristologica dall’interpretazione nestoriana, che, a parere di questa e di altri gruppi monofisiti, il simbolo di Calcedonia avrebbe avallato attraverso l’affermazione delle due nature di Cristo. Il concilio di Firenze, che intende essere un concilio di unione con le Chiese orientali, vuol riavvicinare anche i copti e gli etiopi, che condividevano le dottrine monofisite. Nella bolla Cantate Domino, dopo aver ricordato alcuni elementi di carattere dottrinale relativi alla Trinità, alla Scrittura, all’incarnazione, al battesimo e alla nativa bontà della creazione, si introduce un’affermazione perentoria circa l’impossibilità di salvarsi per chiunque non aderisca alla Chiesa cattolica:
fatto che ritiene legittimo dare un’interpretazione minimale. Forse basterebbe tenere conto dell’obiettivo «politico» della bolla. 45 Vigeva il principio Deus gratiam suam sacramentis non alligavit (cf. Pietro Lombardo, Sententiae IV, dist. 4, c. 4, § 10). 46 Sottesa vi era anche la questione del potere e della sua origine: la famosa teoria delle «due spade» stava nel sottofondo della polemica tra il papa e il re di Francia.
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Giacomo Canobbio [La Chiesa] fermamente crede, confessa e annuncia che «nessuno che viva fuori della Chiesa cattolica, non solo i pagani», ma anche i giudei, gli eretici e gli scismatici, potranno diventare partecipi della vita eterna; ma andranno nel fuoco eterno «preparato per il diavolo e per i suoi angeli» [Mt 25,41], se prima del termine della vita non saranno aggregati a essa; crede tanto importante l’unità del corpo della Chiesa, che solo a quelli che in essa perseverano, i sacramenti della Chiesa procurano la salvezza, e i digiuni, le altre opere di pietà e gli esercizi della milizia cristiana ottengono i premi eterni. «Nessuno, per quante elemosine abbia fatto e persino se avesse versato il sangue per il nome di Cristo può essere salvo, se non rimane nel grembo e nell’unità della Chiesa cattolica».47
Ci si può domandare anzitutto perché in una confessione di fede che intende ristabilire l’unità con cristiani che condividono per molti aspetti la medesima fede cristiana, pur apparendo scismatici, si introduca un riferimento anche ai pagani e ai giudei. Va ricordato che nel linguaggio cristiano medievale «pagani» tendeva a corrispondere ai musulmani.48 Si tratta perciò delle due categorie religiose con le quali la Chiesa si confrontava. La ragione dell’inserzione sta nel convincimento che costoro rappresentano quanti, pur avendo avuto notitia del vangelo, lo avevano rifiutato.49 Accanto a questi si pongono gli eretici e gli scismatici, altri gruppi che hanno rifiutato la vera fede o si sono separati dal corpo della Chiesa.50 L’equiparazione dei diversi gruppi in relazione alla salvezza
47 Denz 1351. I testi tra virgolette (eccetto quello di Mt) sono citazioni di Fulgenzio di Ruspe, De fide ad Petrum 38-39.81-82. 48 Basterebbe ricordare il Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano di Abelardo oppure il Cur Deus homo di Anselmo d’Aosta. 49 Per questo non pare condivisibile l’affermazione di B. Sesboüé secondo cui non ci sarebbe alcun riferimento alla responsabilità delle persone (cf. Sesboüé, Hors de l’Église, 89). Si deve piuttosto convenire con F. Sullivan, secondo cui i vescovi a Firenze condividevano la convinzione vulgata: i pagani, i giudei, gli eretici e gli scismatici erano colpevoli di infedeltà per il fatto che avevano rifiutato la vera fede o si erano allontanati da essa (F.A. Sullivan, Salvation Outside the Church? Tracing the History of the Catholic Response, Paulist Press, New York-Mahwah 1992, 67-69). Peraltro al termine dell’elencazione delle eresie cristologiche antiche la bolla dichiara che solo mediante la fede nel mediatore si ha la salvezza: «[La Chiesa] crede fermamente, professa e insegna che mai uno concepito da uomo e da donna è stato liberato dal dominio del demonio, se non per la fede nel mediatore tra Dio e gli uomini Gesù Cristo nostro Signore» (Denz 1347). Si lascia così intendere che si assume la visione medievale più comune circa il contenuto della fede in vista della salvezza. Vi è nella bolla la convinzione che ormai il vangelo è stato proclamato e quindi anche i giudei non possono più attenersi alle loro pratiche se vogliono avere la salvezza: «La Chiesa non nega […] che nel tempo che intercorre tra la passione del Cristo e la promulgazione del Vangelo esse [le prescrizioni legali dell’AT] potessero osservarsi sebbene non fossero credute necessarie alla salvezza. Ma dopo la proclamazione del Vangelo non possono più essere osservate, pena la perdita della salvezza eterna. Essa, quindi, denuncia come separati dalla fede del Cristo ed esclusi dalla vita eterna, salvo che si pentano dei loro errori, tutti quelli che, dopo quel tempo, osservano la circoncisione, il sabato e le altre prescrizioni legali» (Denz 1348). 50 Si tenga conto che, dopo l’esposizione della fede trinitaria, la bolla conclude che la Chiesa «condanna, riprova e colpisce con anatema tutti quelli che credono cose diverse e contrarie e li dichiara separati dal corpo di Cristo, che è la Chiesa» (Denz 1332) (corsivo
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vuole rimarcare che da essa si è esclusi per una scelta. Il testo vuole pertanto ricordare che la salvezza può essere ottenuta solo mediante la vera fede che si trova nella Chiesa cattolica romana,51 e suona perciò come condizione non solo ecclesiologica bensì anche soteriologica per i destinatari della bolla: la loro condizione di separazione dalla Chiesa cattolica impedisce loro l’accesso alla salvezza. L’accento, più che sulla Chiesa, cade sulla fede in rapporto alla quale la Chiesa appare «strumentale». In questo senso la bolla Cantate Domino non fa altro che riproporre la dottrina comune nel medioevo.52 Merita attenzione il fatto che nella bolla non si faccia menzione della Chiesa ab Abel, che pure era presente nell’opera di Giovanni de Torquemada, uno dei probabili redattori della bolla. La ragione è da cercare nell’obiettivo della bolla e nella concezione, sviluppata anche da Torquemada, secondo la quale la fede vera ora è quella tenuta dalla Chiesa cattolica, che è quella romana. Dopo la venuta di Cristo non è più possibile una fede implicita, e ancora meno abbandonare l’unica fede. Sicché chiunque, in qualsiasi modo abbia rifiutato la fede cattolica, si rende colpevole di peccato di infedeltà e quindi non può sperare di essere salvato.53 Sullo sfondo si può intravedere anche un intento «politico». Il concilio era iniziato infatti a Basilea nel 1431,54 dove proseguiva anche mentre una parte di vescovi l’aveva abbandonato per continuare i lavori prima a Ferrara poi a Firenze. A Basilea il concilio aveva nominato un antipapa, Felice V. Appare chiaro che i vescovi e, pur defilato, il papa, a Firenze,
mio). L’equiparazione tra pagani e scismatici è accennata anche nel decreto Moyses vir con il quale si riprova il concilio di Basilea: dopo aver citato un episodio sacrilego riportato da Girolamo, si aggiunge: «Non è diverso quanto è stato fatto in questi giorni nei confronti nostri e della Chiesa da quegli uomini perduti di Basilea, rispetto a quanto è stato fatto dai pagani e da coloro che non conoscono Dio; solo che questo è stato fatto da coloro che conobbero e odiarono, mostrando così che la loro superbia, come dice il profeta, aumenta continuamente [Sal 73,23]; e ciò appare ancora più pericoloso, poiché sotto il nome di riforma, che in verità essi hanno sempre avuto in orrore, spargono veleni» (COD 531, righe 3-8). Questa equiparazione permette ancora di più di dissentire dall’opinione di Sesboüé sopra riferita. 51 L’aggettivo «romana» indica la Chiesa di Roma, madre e maestra, che coincide con la Chiesa cattolica: cf. Y.M. Congar, «Ecclesia romana», in Cristianesimo nella storia (1984)5, 225-244, qui 237. 52 Sulla coerenza delle decisioni del concilio di Firenze pone interrogativi Sesboüé, Hors de l’Église, 90-94, il quale ritiene che «la formula drastica della bolla Cantate Domino non è altro che l’affermazione di un principio dottrinale e generale, e si guarda bene di precisare coloro ai quali intende riferirsi con i termini utilizzati» (ivi, 93). Se però si tiene conto del clima nel quale il concilio di Firenze si svolge, non è difficile comprendere chi siano i destinatari dell’affermazione. 53 Torquemada tra il 1450 e il 1453 aveva scritto una Summa de Ecclesia nella quale riproponeva la visione di Fulgenzio di Ruspe (cf. M. Semeraro, «Extra Ecclesiam nulla salus. L’interpretazione di J. de Torquemada», in Lateranum 62[1996], 459-478). 54 Torquemada vi aveva partecipato in qualità di procuratore del suo ordine e si era distinto per la difesa del primato del papa. Sulle tormentate vicende dei concili di Costanza, Basilea, Ferrara, Firenze cf. J. Gill, Costance et Bâle-Florence, éditions de L’Orante, Paris 1965.
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mentre discutevano dell’unione con gli Orientali, avevano lo sguardo puntato anche su Basilea, dove il primato del papa era stato apertamente sconfessato. Dichiarare che solo nella Chiesa cattolica è possibile ottenere la salvezza serviva pertanto in rapporto non solo agli Orientali, ma anche a quegli scismatici che recentemente si erano costituiti. Si può certamente discutere sul valore dogmatico della formula citata.55 Resta innegabile che l’inserzione di essa nella bolla Cantate Domino riflette la convinzione più comune della teologia medievale, la quale riteneva di potersi fondare sull’autorità di Agostino56 per risolvere soteriologicamente un grave problema ecclesiologico. Ma qui il problema ecclesiologico rivestiva colorazioni «politiche», sicché si potrebbe dire che la soteriologia diventa strumentale alla «politica» attraverso la mediazione dell’ecclesiologia. I due esempi addotti rispecchiano una prassi abbastanza abituale nel la vita ecclesiale: l’affermazione di una verità è funzionale a difenderne un’altra, che non sempre ha la medesima rilevanza della prima. Si deve mettere in conto che il metodo apologetico comporta necessariamente una funzionalizzazione di principi alla difesa di pratiche, oltre che di altri principi. Se però ci si attenesse all’interpretazione riscontrata nei due esempi considerati, non si farebbe giustizia alla storia del pensiero. Se si vuole effettivamente ricercare l’autocomprensione della Chiesa in rapporto alla salvezza, non si può dimenticare che in altri momenti interventi autorevoli del magistero cattolico hanno condannato interpretazioni troppo rigide del principio extra ecclesiam nulla salus. Basti qui accennare a due episodi: nella controversia giansenista si condanna la proposizione secondo la quale fuori della Chiesa non si darebbe alcuna grazia (1713, ma già nel 1690);57 nel cosiddetto «affare L. Feeney» (1949) si condanna l’interpretazione esclusivista del principio e si spiega il senso autentico della dottrina del voto proposta da Pio XII nella Mystici corporis.58 Toccherà al Vaticano II tentare una sintesi tra l’affermazione della necessità della Chiesa per la salvezza e la possibilità che Dio offre a tutti, per vie che solo lui conosce, di raggiungere il destino beato da lui stesso disposto: pur riconoscendo la funzione «sacramentale» della Chiesa il concilio sposta l’accento sul versante cristologico/pneumatologico (GS 22)59 e teo-logico (Nostra aetate e Ad gentes). Se si volesse stabilire un confronto tra gli episodi sopra illustrati e la visione del Vaticano II, si
Cf. Sesboüé, Hors de l’Église, 94-104. Va ricordato che le opere di Fulgenzio di Ruspe erano attribuite ad Agostino. 57 Cf. Canobbio, Nessuna salvezza fuori della Chiesa?, 250-258. 58 Cf. la puntuale ricostruzione in M. Carosio, «Extra Ecclesiam nulla salus: il caso Feeney», in Cristianesimo nella storia (2004)25, 833-876. 59 Su questo testo, diventato uno degli appigli della recente teologia cattolica delle religioni, cf. R. Tononi, «Mistero pasquale e salvezza per tutti. Analisi storico-critica di un testo della Gaudium et spes», in G. Canobbio – F. Dalla Vecchia – G. Montini (a cura di), Cristianesimo e religioni in dialogo, Morcelliana, Brescia 1994, 171-202. 55 56
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Autocomprensione della Chiesa come luogo di salvezza
potrebbe dire che, mentre in essi l’accento cade sulla Chiesa come luogo/ mezzo di salvezza, nell’ultimo concilio l’accento si sposta sulla volontà salvifica di Dio, normalmente vista affermata da 1Tm 2,4.60 In tal senso, pur senza negare la necessità della Chiesa per la salvezza, si ripropone la concezione medievale della libertà di Dio rispetto ai mezzi da lui stabiliti.
5. Conclusione: una C hiesa de - centrata Se si volesse ricostruire l’autocomprensione della Chiesa in rapporto alla salvezza, si dovrebbe tenere conto dei due aspetti considerati: da una parte la Chiesa si intende come luogo dei salvati; dall’altra, e coerentemente, la Chiesa si comprende come luogo in cui e attraverso cui diventa possibile raggiungere la salvezza. Se però questa è intesa in senso escatologico, la Chiesa si dilata fino a comprendere tutti i salvati e perde quindi la sua connotazione storica, oltre a perdere la sua funzione: non è un caso che alcuni orientamenti recenti della teologia delle religioni dilatino, per un verso, l’idea di salvezza onde renderla riscontrabile in ogni religione, per un altro, rimandino a un soggetto «indefinito» l’azione salvifica onde includere tutte le forme di trascendenza pensate dagli umani.61 Se invece salvezza è intesa anche in senso storico, non si potrà rinunciare a considerare come la Chiesa possa proporsi come il luogo paradigmatico di essa.62 Sopite le polemiche, con le conseguenti polarizzazioni, si giunge così a una nuova fase: la Chiesa si comprende come segno e strumento della salvezza, cioè come traccia storica efficace dell’azione salvifica di Dio in Gesù Cristo. Non più come luogo unico della salvezza e neppure come strumento unico, bensì come luogo in cui – e strumento mediante il quale – gli umani possono incontrare, grazie allo Spirito, l’unico Salvatore. A questo riguardo non si può dimenticare che l’esperienza di salvezza, pur conoscendo gradi, deve avere un paradigma. Ciò comporta che su di esso si misurino tutte le sedicenti esperienze di salvezza. Se di esperienza si tratta, dovrà includere sia la dimensione storica sia quella escatologica. Il rapporto tra Chiesa e salvezza non riguarda però tanto la dimensione escatologica, quanto quella storica, imprescindibile per il cristianesimo. Questa richiede un aspetto di consapevolezza che si raggiunge mediante la fede, intesa come relazione «saputa» con il Salvatore (negare la dimen-
60 Questo testo è diventato in tutta la storia del pensiero cristiano riferimento per affermare la volontà salvifica universale. Che questo fosse l’intento del testo si potrebbe eccepire (cf. F. Montagnini, «“Dio vuole che tutti si salvino” (1Tm 2,4a)», in Canobbio – Dalla Vecchia – Montini [a cura di], Cristianesimo e religioni in dialogo, 147-156). 61 Per un’illustrazione degli orientamenti recenti delle teologie delle religioni cf. P. Knitter, Introduzione alle teologie delle religioni, Queriniana, Brescia 2005. 62 Cf. Canobbio, Nessuna salvezza fuori della Chiesa?, 342-396.
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sione di «sapere» vorrebbe dire togliere agli umani ciò che li contraddistingue). Relazione «saputa» diventa fondazione della relazione nell’amore, che si dilata oltre i confini sia temporali sia locali. Con quali categorie esprimere la relazione nell’amore? Nell’ecclesiologia recente è invalso l’uso della categoria «comunione».63 Nulla da eccepire sull’uso di tale categoria, purché con essa non si perda la connotazione storica, senza la quale la Chiesa stessa perderebbe il suo senso.64 In ultima analisi, la Chiesa si autocomprende come espressione storica del disegno di Dio di portare a compimento l’umanità, e con essa la creazione tutta. Ma il disegno di Dio può essere conosciuto solo a partire da un’esperienza di riconciliazione (cf. Ef 1–2), in forza della quale si «proietta» sul mondo ciò che germinalmente si dà in un luogo ed è interpretato come attuazione di ciò che Dio ha disposto in Gesù Cristo. Ciò equivale a dire che senza l’esperienza ecclesiale verrebbe meno nella storia anche l’azione salvifica di Dio che si è realizzata in Gesù Cristo. Da qui il senso dell’indefettibilità della Chiesa, la quale, pur non essendo costituita solo di santi, deve restare nella storia come attestazione che la grazia di Dio non è apparsa invano. Su questo sfondo si comprende la missione evangelizzatrice della Chiesa, che può certamente attuarsi mediante il dialogo, ma con l’intento di mostrare l’eccedenza dell’esperienza umana che è possibile solo dove si confessa Gesù come Signore. In tal senso non si può illustrare l’autocomprensione della Chiesa in ordine alla salvezza senza una contestuale illustrazione della dottrina cristologica e, in dipendenza da questa, della dottrina teo-logica. Almeno nelle loro espressioni critiche nei maiores. Quanto ai rudes, benché si debba riconoscere anche in essi il sensus fidei, si dovrebbe verificare se e come esprimano l’autocomprensione della Chiesa. Non pare si sia lontani dalla verità se si sostiene che la loro comprensione abbia bisogno di essere corretta e fatta crescere.
63 Cf. ancora W. Kasper, Chiesa cattolica. Essenza – Realtà – Missione, Queriniana, Brescia 2012. 64 Cf. G. Canobbio, «Comunione nel tempo e oltre il tempo», in L. Sandoná (a cura di), La struttura dei legami. Forme e luoghi della relazione, La Scuola, Brescia 2010, 171-178.
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Quale forma di Chiesa per l’evangelizzazione oggi? Nuova evangelizzazione e riforma della Chiesa Luca Bressan
All’interno del disegno del convegno mi è stato chiesto di sviluppare il nesso tra azione evangelizzatrice e istituzione ecclesiale. Accetto volentieri di svolgere il compito assegnatomi, convinto di quanto questo nesso sia al tempo stesso la sfida e il miglior luogo di futuro per la Chiesa e il cristianesimo, come il recente sinodo sulla nuova evangelizzazione [NE] ha saputo mostrare. In effetti, il nesso forma Ecclesiae - annuncio del vangelo è uno strumento euristico capace di rileggere e dire il significato profondo di tutto il dibattito ecclesiologico del XX secolo. La questione che attraversa la Chiesa da ormai settant’anni è infatti la seguente: come immaginare e realizzare una Chiesa che sia finalmente all’altezza della modernità culturale alla quale vuole annunciare la fede cristiana? La risposta a questa domanda è risultata meno semplice di quanto i primi riformatori legati alla Mission de France avessero immaginato. Una simile domanda mette in gioco la tradizione della Chiesa e la sua capacità di generare al suo interno quella che M. De Certeau ha definito nei termini di «frattura creatrice», ovvero la capacità di generare ripresentazioni assolutamente originali del fondamento della nostra fede (come unire l’originalità con la fedeltà alla tradizione?).1 Quanto la nostra Chiesa è capace di questo? Affronteremo la domanda in due momenti significativi (il sinodo sulla NE appena celebrato, il concilio Vaticano II e il suo modo di immaginare la riforma della Chiesa), per giungere poi a una conclusione che ci riporta alle sfide del presente e ai compiti della Chiesa per il futuro dell’evangelizzazione.
1 M. De Certeau, L’écriture de l’histoire, Gallimard, Paris 1975; Id., La faiblesse de croire, Seuil, Paris 1987.
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1. L’urgenza
della nuova evangelizzazione
Che significato dare a tutto quel movimento che il concetto di NE ha saputo creare dentro il cattolicesimo? Come definirlo e valutarlo? E, soprattutto, quale legame tra tutto questo movimento e il tema che riguarda questa nostra riflessione, ovvero il nesso forma Ecclesiae - annuncio del vangelo? Paradossalmente, se partiamo dalla fine, la risposta a queste domande si dipana in modo limpido.
1.1. Una
ricostruzione storica volutamente originale
Chiudendo il sinodo, l’allocuzione all’Angelus del 28 ottobre 2012 è l’occasione scelta da Benedetto XVI per una riflessione breve ma incisiva sul suo modo di intendere il contenuto della NE: La stagione conciliare ci ha aiutato a riconoscere che la nuova evangelizzazione non è una nostra invenzione, ma è un dinamismo che si è sviluppato nella Chiesa in modo particolare dagli anni ’50 del secolo scorso, quando apparve evidente che anche i Paesi di antica tradizione cristiana erano diventati, come si suol dire, «terra di missione». Così è emersa l’esigenza di un annuncio rinnovato del Vangelo nelle società secolarizzate, nella duplice certezza che, da una parte, è solo Lui, Gesù Cristo, la vera novità che risponde alle attese dell’uomo di ogni epoca, e dall’altra, che il suo messaggio chiede di essere trasmesso in modo adeguato nei mutati contesti sociali e culturali.
In questo breve passaggio Benedetto XVI accende volutamente un’ope razione di reinterpretazione del concetto di NE che stupisce per il suo carattere allo stesso tempo ardito e denso di prospettive. Legando il tema della NE ai tentativi di riforma della Chiesa avviati dalla Mission de France, Benedetto XVI stravolge il modo abituale di comprendere sia questo termine che la sua genesi. Si tratta di un’operazione ermeneutica carica di conseguenze: intende infatti da un lato rileggere gli ultimi decenni della storia ecclesiale imprimendo loro una chiave unitaria di lettura; e dall’altro intende elevare il concetto di NE a categoria interpretativa di tutta la vicenda conciliare (preparazione, celebrazione, recezione), sottraendola alla sua genesi storica, che l’ha vista emergere come «un secondo paradigma» di declinazione della riforma ecclesiale, seguito al primo paradigma, detto della «secolarizzazione» per via di sostituzione oppositiva.2
2 Cf. R. Luneau – P. Ladrière (a cura di), Le retour des certitudes. Événements et orthodoxie depuis Vatican II, Centurion, Paris 1987; R. Luneau – P. Ladrière (a cura di), Le rêve de Compostelle. Vers la restauration d’une Europe chrétienne?, Centurion, Paris 1989; N. Mette, «Von Säkularisierungs- zum Evangelisierungsparadigma», in Diakonia (1990)21,
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Quale forma di Chiesa per l’evangelizzazione oggi?
Per raccogliere in positivo le istanze di un movimento di riforma che ha animato la Chiesa negli ultimi settant’anni e la sta ancora attraversando, evitando però i rischi di contrapposizione e di lacerazione che in più di un momento di questa storia sono emersi; per superare una declinazione di questa riforma che sembra funzionare per paradigmi che si succedono sovrapponendosi e contrapponendosi, Benedetto XVI immagina dunque un lavoro di decostruzione e di ricostruzione del concetto di NE. Si tratta di un lavoro preparato, come dimostra la pubblicazione dell’Enchiridion della nuova evangelizzazione,3 che anticipa e documenta questa reinterpretazione del termine, intravedendone l’origine proprio in alcuni discorsi di papa Pio XII. Così facendo, Benedetto XVI pensa alla NE come a un concetto da riformulare nei suoi contenuti essenziali: una sorta di neologismo, un terzo paradigma che si affianca, assume e sostituisce i due precedenti, della secolarizzazione e della (nuova) evangelizzazione. Al paradigma della secolarizzazione il papa rimprovera il difetto di identità e di spiritualità, come vedremo più avanti; a quello della NE nella sua prima accezione, elaborato in modo simmetrico e contrappositivo, il rischio di burocrazia e proselitismo, e di scarsa capacità di riconoscimento dell’interlocutore (come ebbe a dire alla Curia vaticana).4 Così intesa, la NE è un’attitudine anzitutto spirituale (riforma nel senso della fede), che permette alla Chiesa di porsi in modo nuovo dentro la storia; una modalità capace di portare di nuovo la questione di Dio al cuore delle domande degli uomini. Come affermato nell’omelia di chiusura del sinodo, sempre il 28 ottobre 2012: Un terzo aspetto riguarda le persone battezzate che però non vivono le esigenze del Battesimo. Nel corso dei lavori sinodali è stato messo in luce che queste persone si trovano in tutti i continenti, specialmente nei Paesi più secolarizzati. La Chiesa ha un’attenzione particolare verso di loro, affinché incontrino nuovamente Gesù Cristo, riscoprano la gioia della fede e ritornino alla pratica religiosa nella comunità dei fedeli. Oltre ai metodi pasto-
420-429; J.A. Van Der Ven – H.G. Ziebertz (a cura di), Paradigmenentwicklung in der praktischen theologie, Netherlands Kok Publ. House, Kampen 1993. 3 Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, Enchiridion della nuova evangelizzazione, LEV, Città del Vaticano 2012. 4 «Considero importante soprattutto il fatto che anche le persone che si ritengono agnostiche o atee, devono stare a cuore a noi come credenti. Quando parliamo di una nuova evangelizzazione, queste persone forse si spaventano. Non vogliono vedere se stesse come oggetto di missione, né rinunciare alla loro libertà di pensiero e di volontà. Ma la questione circa Dio rimane tuttavia presente pure per loro, anche se non possono credere al carattere concreto della sua attenzione per noi. A Parigi ho parlato della ricerca di Dio come del motivo fondamentale dal quale è nato il monachesimo occidentale e, con esso, la cultura occidentale. Come primo passo dell’evangelizzazione dobbiamo cercare di tenere desta tale ricerca; dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza. Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in essa si nasconde» (Benedetto XVI, Discorso alla Curia vaticana [21.12.2009]).
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Letta da questa prospettiva emerge in modo nitido l’intenzione di papa Benedetto: immaginare l’appuntamento sinodale (la sua preparazione, la sua recezione) come una sorta di gestazione, di tempo dedicato alla raccolta di energie in vista dello sforzo di rinnovamento richiesto alla Chiesa.
1.2. I contenuti
della nuova evangelizzazione , volutamente riformulati
Quali sono in modo analitico i contenuti del concetto di NE rideclinato da Benedetto XVI secondo i canoni di un nuovo paradigma? Immaginato come uno strumento per il rinnovamento della Chiesa, il concetto di NE assume dalla Mission de France (grazie alla nuova origine immaginata per questo termine) tre dati fondamentali: l’intuizione che non è possibile trasmettere la fede senza pensare questo gesto in collegamento stretto con la forma che la Chiesa assume dentro la società; la constatazione che l’avvento della cultura urbana non è una semplice evoluzione per via lineare della cultura umana, ma piuttosto l’avvento di un nuovo paradigma che chiede anche al cristianesimo un ripensamento radicale delle forme culturali attraverso le quali esprime la sua identità dentro la storia; la certezza che una simile trasformazione non può non assumere anche per la Chiesa i tratti di una riforma dai contorni estesi e radicali. In modo critico tuttavia, proprio in riferimento ai presupposti appena elencati, Benedetto XVI rimprovera a questo primo paradigma (quello della Mission de France, ribattezzato dalla letteratura come «paradigma della secolarizzazione») di avere elaborato risposte non all’altezza delle sfide intraviste. Più in particolare, rimprovera di aver lavorato per una riforma strutturale della Chiesa, che però si è rivelata incapace di raggiungere l’obiettivo di una riforma spirituale, cadendo così nel rischio di un’«autosecolarizzazione» spiegata in questi termini: le comunità cristiane, che non sono collocate dentro uno spazio astratto ma sono inserite nelle culture del mondo, hanno vissuto senza accorgersi più di un processo di omologazione alla cultura dell'ambiente. È accaduto così che la secolarizzazione ha eroso il loro patrimonio linguistico, indebolendo il loro modo di comprendersi, privandole delle parole per la preghiera, svuotando del loro significato gli strumenti per mantenere attiva la loro relazione con Dio, indebolendo i loro processi di tradizione; portando di conseguenza molte comunità cristiane all’esito (non voluto in termini e-
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spliciti) di trovarsi private del legame fondamentale che nutre e sostiene la loro fede e la loro identità.5 In questo clima, agli occhi di Benedetto XVI, la NE è lo strumento che permette alle Chiese di arrestare ogni processo di involontaria autosecolarizzazione. La NE chiede ai cristiani e alle loro comunità di tornare a cercare i segni della nostalgia di Dio, di immaginare delle risposte a questa sete, senza porre in alternativa ciò che è essenziale con le ineludibili conseguenze sociali della fede pregata. Non si deve contrapporre la preghiera e l’azione sociale a favore dei poveri. Se si è impoverito il lessico della fede ed è stato eroso il linguaggio che teneva viva la relazione con Dio, bisogna far sì che questo nostro tempo divenga il luogo per la costruzione di un nuovo linguaggio che dica nell’oggi l’identità cristiana e la sequela Christi. La NE si trova così a confrontarsi con una seconda dimensione della trasformazione in atto, quella organizzativa: i forti movimenti di popolazione, la caduta della pratica religiosa hanno avuto come conseguenza l’indebolirsi e, in più di un luogo, il venir meno delle tradizionali forme di presenza della Chiesa tra la gente, in molti casi trasformando in sportelli fornitori di servizi quelli che una volta erano luoghi vitali in cui fare esperienza di fede. Benedetto XVI ha indicato la NE come lo strumento per abitare in modo non ingegneristico la necessaria trasformazione della presenza della Chiesa tra le case degli uomini, ma mantenendo la questione al giusto livello che le compete, quello teologico, della forma Ecclesiae. La NE ha il compito di aiutare la Chiesa a disegnare la forma di comunità cristiane che siano davvero in presa con l’oggi, capaci di annunciare il vangelo in termini non solo comprensibili ma affascinanti. In effetti il sinodo ha aiutato a identificare questi tratti: un radicamento evangelico capace di parlare al mondo di oggi; la capacità di porsi ai crocevia della vita sociale del proprio tempo non avendo paura di prendere la parola in prima persona per testimoniare la propria fede; la ricerca attiva di momenti di comunione vissuta, nella preghiera e nello scambio fraterno; una predilezione naturale per i poveri e gli esclusi; la passione per le giovani generazioni e per la loro educazione.
5 «Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone» (Benedetto XVI, lettera apostolica in forma di motu proprio Porta fidei [11.10.2011], n. 2, in http://www.vatican.va/ holy_father/benedict_xvi/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20111011_ porta-fidei_it.html).
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1.3. La
nuova evangelizzazione , ovvero la faticosa ricerca di una forma E cclesiae adeguata al tempo
«Come può accadere questo?» (Gv 3,9); «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?» (Gv 3,4). L’immagine di Nicodemo, concentrato nello sforzo di entrare nella visione che Gesù gli sta aprendo davanti agli occhi – e allo stesso tempo sbalordito e confuso per la novità di ciò che sta apparendo con chiarezza alla sua mente –, dice bene il senso dell’assunzione del concetto di NE, così come papa Benedetto XVI lo aveva immaginato: aiutare la Chiesa a entrare con maggiore audacia nella gestazione di quella nuova forma di cui tutti avvertiamo l’esigenza, perché l’annuncio del vangelo continui con la sua efficacia e la sua forza. Inoltre, il carattere di gestazione e il tono di attesa della metafora giovannea – quasi una sorta di parto (Rm 8,22) – esprimono a mio parere in modo lucido le distanze che si sono percepite tra il disegno appena illustrato di Benedetto XVI e la sua recezione dentro la dinamica sinodale. E danno contenuto anche al gesto delle dimissioni, visto come una conferma della necessità e dell’urgenza di una riforma della Chiesa, perché sappia rilevare le sfide che abbiamo descritto. Una riforma della Chiesa, che la renda capace di testimoniare con la propria fede la credibilità del volto di Dio che Gesù Cristo ci ha rivelato, è il compito che Benedetto XVI ha consegnato al suo successore, e che papa Francesco dimostra di avere assunto con determinazione ed energia. Durante i suoi interventi nell’assemblea sinodale papa Benedetto si era rifatto più di una volta alle parole dell’Apocalisse: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo» (Ap 3,15); «Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore» (Ap 2,4). La Chiesa ha bisogno dello stimolo della NE per evitare la mediocrità che rischia di contagiarla, come conseguenza delle trasformazioni che il cambiamento culturale sta generando in noi. Una Chiesa tiepida non in conseguenza di particolari peccati o specifiche deviazioni morali, ma soprattutto in conseguenza di un atteggiamento di ignavia, di uno stordimento di fronte ai mutamenti che la paralizza e la rende incapace di testimoniare. A trasformazioni così forti si risponde con un soprassalto di calore della nostra fede: ecco il senso della NE. Interpretava in questo modo la sfida della NE il testo dei Lineamenta, che assumeva e ben spiegava la prospettiva ermeneutica di Benedetto XVI: come mai – chiedeva in più punti il testo dei Lineamenta – non riusciamo a costruire una lettura del presente che sappia svolgere il duplice compito da un lato di unificare un corpo ecclesiale smarrito e frammentato (in seguito alle emozioni e alla paura di trovarsi dentro un contesto via via più estraneo alle nostre tradizioni e ai linguaggi) e, d’altro lato,
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sappia allo stesso tempo dare a questo corpo le energie per immaginare un futuro al nostro essere cristiani? La risposta a questa domanda è proprio quell’esercizio di unificazione sintetica delle trasformazioni e di una loro declinazione all’interno della questione di una forma Ecclesiae adeguata alla (post-)modernità, che non soltanto è la premessa a quel compito di NE a cui è stata chiamata la Chiesa tutta intera, ma ne è anche il contenuto più profondo. La domanda circa il trasmettere la fede […] non deve indirizzare le risposte nel senso della ricerca di strategie comunicative efficaci e neppure incentrarsi analiticamente sui destinatari, per esempio i giovani, ma deve essere declinata come domanda che riguarda il soggetto incaricato di questa operazione spirituale. Deve divenire una domanda della Chiesa su di sé. Questo consente di impostare il problema in maniera non estrinseca, ma corretta, poiché pone in causa la Chiesa tutta nel suo essere e nel suo vivere. E forse così si può anche cogliere il fatto che il problema della infecondità dell’evangelizzazione oggi, della catechesi nei tempi moderni, è un problema ecclesiologico, che riguarda la capacità o meno della Chiesa di configurarsi come reale comunità, come vera fraternità, come corpo e non come macchina o azienda.6
1.4. La fotografia
del presente , ovvero un passaggio che chiede delle scelte
Riletta in questa luce, tutta la vicenda del rilancio del concetto di NE si è così rivelata come un’utile palestra per comprendere la posta in gioco, la sfida che sta animando la Chiesa cattolica (ma non solo) in questi ultimi settant’anni. La Chiesa vive un’esperienza di disagio nei confronti del proprio corpo, ma allo stesso tempo fatica a trovare strade che la aiutino a costruire una forma che sia al tempo stesso sufficientemente inculturata per poter abitare e dialogare con il mondo d’oggi e capace di presentare la novità del vangelo cristiano. Con due elementi che appesantiscono la ricerca: la scoperta di essere meno autonoma e indipendente, in questa ricerca, di quanto immaginato dagli influssi dei movimenti culturali; e, in secondo luogo, la constatazione che il periodo ormai sufficientemente lungo di ricerca inizia a presentare il conto in termini di fatica e di energie da investire in questa sfida legata alla sua forma.7 Ecco perché occorre una riprecisazione della questione e un chiarimento dei termini in gioco, per poter continuare ad abitare la sfida in modo lucido e non troppo dispersivo. È ciò che faremo nel punto successivo.
6 Sinodo dei vescovi, Lineamenta della XIII Assemblea generale ordinaria La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana (2.2.2011), n. 2 (cf. www.vatican.va). 7 Cf. G. Routhier, Un concilio per il XXI secolo. Il Vaticano II cinquant’anni dopo, Vita & Pensiero, Milano 2012.
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2. Il
concilio V aticano II e l ’ aggiornamento della
Chiesa
Non si può affrontare la questione del rapporto forma Ecclesiae - evangelizzazione senza immaginare una sosta nel concilio Vaticano II. Senza troppe cautele si può infatti affermare che un simile rapporto è la quaestio profonda che anima l’evento conciliare, come gli studi più recenti a esso dedicati confermano.8 Una simile quaestio è presente nell’evento conciliare anzitutto non soltanto attraverso la strada maestra della via informativa, ovvero come oggetto esplicito di dibattito, ma anche per via indiretta, come lato nascosto di quel «primato della pastoralità» che fa da motore a tutto il concilio. Quando Giovanni XXIII spiega l’intenzione programmatica a partire dalla quale ha prima immaginato e poi convocato il concilio, la spiega con quelle parole divenute ormai famose: È necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando a esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata. Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione; e si dovrà ricorrere a un modo di presentare le cose che più corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale.9
Il rapporto forma-contenuto viene introdotto come strumento di complicazione di un procedimento di comunicazione del magistero che ha bisogno di essere rivisto: soltanto in questo modo la Chiesa può dotarsi degli strumenti idonei per restare fedele alla propria funzione di santificazione e di comunicazione della salvezza del Dio di Gesù Cristo al mondo. Questa complicazione viene definita nella riflessione di papa Giovanni XXIII attraverso il sostantivo di «pastorale»: pastorale ai suoi occhi è quella Chiesa che si preoccupa non soltanto della custodia del depositum fidei, ma considera parte del suo compito anche la preoccupazione per una tradizione/traduzione di questo depositum che consenta agli uomini del presente di accedere al contenuto di salvezza che custodisce. Tradizione/traduzione, ovvero consegna ma anche aggiornamento: la questione del rapporto forma della Chiesa - annuncio del vangelo è quindi ben presente e al centro della riflessione. Questa intuizione di Giovanni XXIII, fatta poi intenzione e motore del concilio, viene assunta e rilanciata dal suo successore, che decide in un contesto di forti perplessità di continuare l’opera conciliare avviata.
8 Cf. J.W. O’ Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, Vita & Pensiero, Milano 2010; C. Theobald, La recezione del Vaticano II, 1: Tornare alla sorgente, EDB, Bologna 2011. 9 Giovanni XXIII, discorso Gaudet mater Ecclesia nella solenne apertura del concilio (11.10.1962), Sessione I: EV 1/55*.
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Quale forma di Chiesa per l’evangelizzazione oggi? Se noi, venerabili fratelli, poniamo davanti al nostro spirito questa sovrana concezione: essere Cristo nostro fondatore, nostro capo, invisibile, ma reale, e noi tutto ricevere da lui così da formare con lui quel «Christus totus» di cui parla sant’Agostino e la teologia della chiesa è tutta pervasa, possiamo meglio comprendere gli scopi principali di questo concilio, che per ragione di brevità e di migliore intelligenza Noi indicheremo in quattro punti: la conoscenza o, se così piace dire, la coscienza della chiesa, la sua riforma, la ricomposizione di tutti i cristiani nell’unità, il colloquio della chiesa col mondo contemporaneo.10
In Paolo VI la pastoralità comincia a essere declinata in modo analitico, lasciando così trasparire in modo ancora più chiaro il legame con la questione al centro di questa nostra relazione. E il suo esito: la necessaria operazione di riforma della Chiesa.
2.1. Uno strumento e le sue produzioni Il principio pastorale, geniale nella sua semplicità e allo stesso tempo incredibilmente potente nella sua dimensione operazionistica, una volta attivato è stato in grado da se stesso di produrre effetti e cambiamenti inizialmente nemmeno immaginati. E, insieme a lui, la questione della forma Ecclesiae in ordine all’evangelizzazione comincia a conoscere declinazioni inedite, sempre più complesse e anche audaci. Rileggendo il concilio come corpus si può comprendere che la pastoralità del concilio si traduce in modo sempre più forte in un’attenzione prestata alla forma dell’annuncio, alle forme della proposta del messaggio cristiano. Una forma che intende dire un nuovo stile di presenza, di azione e di autocoscienza della Chiesa, un nuovo atteggiamento. Tutto questo può essere precisato così: un atteggiamento basato sul dialogo e non sul confronto apologetico col mondo; capace di leggere la realtà della Chiesa cogliendone la dimensione istituzionale, storica, sociale; imparando un modo diverso di abitare la Scrittura, come fonte per una comprensione della storia e dell’uomo, ma soprattutto del disegno di salvezza di Dio e, più ancora, della sua figura; cercando di individuare un metodo di lettura e intervento nella storia (il metodo vedere-giudicare-agire, l’idea di discernimento). Pastorale è dunque questa forma di riarticolazione della figura della Chiesa, non così facile né immediata. Le quattro costituzioni conciliari hanno il compito di tracciare i confini e il percorso di questa operazione, che si rivelerà sempre più come un cantiere che si apre, e che chiede a tutta la Chiesa di avviare uno sforzo di riflessione e di autocomprensione davvero imponente. Un primo passo: l’intuizione del rapporto forma-contenuto, annunciata da Giovanni XXIII, viene assunta come motore di trasformazione del campo liturgico. Come mostra in modo chiaro questo passo della Sacrosanctum concilium:
10 Paolo VI, discorso Salvete fratres in apertura del secondo periodo del concilio (29.9.1963), Sessione II: EV 1/148*.
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Luca Bressan Per assicurare maggiormente al popolo cristiano l’abbondanza di grazie nella sacra liturgia, la santa madre chiesa desidera fare un’accurata riforma generale della liturgia stessa. Infatti la liturgia consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono o anche devono variare, qualora in esse si fossero insinuati elementi meno rispondenti all’intima natura della stessa liturgia, o si fossero resi meno opportuni. In tale riforma, occorre ordinare i testi e i riti in modo che esprimano più chiaramente le sante realtà che significano, e il popolo cristiano, per quanto possibile, possa capire facilmente e parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria.11
Il rapporto forma-contenuto diventa motore di una duplice trasformazione/maturazione dell’idea e della pratica liturgica: a livello oggettivo (una concezione più articolata del sacramento, del suo funzionamento celebrativo, della possibilità di intervenire sulla forma rituale), a livello soggettivo (la finalità spirituale dell’actuosa participatio come motore di tutta l’operazione di revisione della liturgia).12 Il processo di trasformazione attivato dal principio pastorale sarà così forte da favorire un esito assolutamente non previsto all’inizio, nella linea del lato nascosto, ovvero del rapporto forma della Chiesa - evangelizzazione: il riconoscimento della diversità del corpo ecclesiale; l’affermazione del primato della figura della Chiesa locale, ovvero il riconoscimento del legame identità della Chiesa - storia del genere umano, sviluppo della sua cultura.
2.2. Sviluppi
sorprendenti del principio pastorale
Il principio pastorale continua il suo cammino evolutivo di maturazione, permettendo all’evento conciliare di conoscere un secondo passo di trasformazione: l’immaginazione di una forma molto più complessa dell’istituzione ecclesiale. Il parallelismo forma-sostanza constatato nel primo passo viene qui amplificato dall’assunzione nel ruolo di princeps analogatum del dogma cristologico di Calcedonia, come afferma la costituzione dogmatica Lumen gentium: La santa chiesa, che è comunità di fede, speranza e carità, è stata voluta da Cristo unico mediatore come un organismo visibile sulla terra; egli lo sostenta incessantemente e se ne serve per espandere su tutti la verità e la grazia. Ma la società gerarchicamente organizzata da una parte e il corpo mistico dall’altra, l’aggregazione visibile e la comunità spirituale, la chiesa della terra e la chiesa ormai in possesso dei beni celesti, non si devono considerare come due realtà; esse costituiscono al contrario un’unica realtà complessa, fatta di un duplice elemento, umano e divino. Per una non debole analogia essa è para-
11 Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum concilium (4.12.1963), Sessione III, n. 21: EV 1/32s. 12 Al riguardo sarà utile evidenziare il parallelismo istituito tra verità e istituzione; e l’approfondimento del legame forma-sostanza.
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Quale forma di Chiesa per l’evangelizzazione oggi? gonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti come la natura umana assunta serve al Verbo divino come vivo organo di salvezza indissolubilmente unito a lui; in modo non dissimile l’organismo sociale della chiesa serve allo Spirito vivificante di Cristo come mezzo per far crescere il corpo. È questa l’unica chiesa di Cristo che nel simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, e che il nostro Salvatore ha dato da pascere a Pietro dopo la risurrezione, affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida; egli l’ha eretta per sempre come colonna e fondamento della verità.13
Il funzionamento del parallelismo permette di dare un nuovo significato al corpo sociale della Chiesa: questo corpo sociale è lo strumento visibile sul quale opera il principio animatore invisibile che è lo Spirito Santo. In questo modo, grazie all’«invenzione» di uno spazio di trascendenza dentro la struttura sociale visibile, la riflessione ecclesiale riesce a costruire uno strumento allo stesso tempo di rivelazione e di discernimento che permette di comprendere in modo più profondo e allo stesso tempo più spirituale l’istituzione ecclesiale. Addirittura, grazie a questo ulteriore passaggio di declinazione del principio pastorale, la teologia si scopre dotata degli strumenti per comprendere in modo nuovo la natura profonda e la finalizzazione escatologica di tutta la costruzione sociale e istituzionale del corpo ecclesiale. Nasce in questo modo lo spazio per riconoscere all’interno del pensiero cristiano la giusta autonomia della dimensione storica della Chiesa, e al tempo stesso la sua finalizzazione strumentale, il suo compito di essere porta di accesso al mistero da essa custodito e trasmesso. Il principio di trasformazione già intuito dalla riflessione della Mystici corporis, che intendeva compiere un percorso di sviluppo rispetto alla dottrina della Chiesa come societas perfecta, si vede qui assunto e ulteriormente amplificato nel suo funzionamento metaforico, aprendo così uno spazio di legittimità a tutte quelle scienze che si occupano della dimensione sociale della Chiesa; e permettendo alla teologia di fare il suo ingresso nello spazio rinvenuto.14 A conferma e allo stesso tempo come ulteriore sviluppo del passaggio precedente può essere osservato un terzo passo operato dal principio pastorale attivato da Giovanni XXIII: una considerazione più matura della dimensione sociale della Chiesa, del compito affidato a questa dimensione, del rapporto tra annuncio del vangelo e cultura (la legge di ogni evangelizzazione: l’ascolto della cultura, l’utilizzo del suo linguaggio e dei suoi strumenti per dire il vangelo) rendono la Chiesa molto più capace di riconoscere le culture e l’influsso che queste esercitano nella costruzione del volto storico del cristianesimo (e di conseguenza il loro influsso nel processo di costruzione della forma Ecclesiae). Come recita la costituzione pastorale Gaudium et spes:
13 Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (21.11.1964), Sessione V, n. 8: EV 1/304s. 14 Cf. M. Kehl, Dove va la Chiesa? Una diagnosi del nostro tempo, Queriniana, Brescia 1998.
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Luca Bressan Come è importante per il mondo che esso riconosca la chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento così pure la chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano. […] Essa, infatti, fin dagli inizi della sua storia, imparò a esprimere il messaggio di Cristo ricorrendo ai concetti e alle lingue dei diversi popoli; e inoltre si sforzò di illustrarlo con la sapienza dei filosofi: allo scopo, cioè, di adattare, quanto conveniva, il Vangelo, sia alla capacità di tutti sia alle esigenze dei sapienti. E tale adattamento della predicazione della parola rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione. Così, infatti, viene sollecitata in ogni popolo la capacità di esprimere secondo il modo proprio il messaggio di Cristo e al tempo stesso viene promosso uno scambio vitale tra la chiesa e le diverse culture dei popoli.15
Alla cultura viene riconosciuto un ruolo attivo nella costruzione della Chiesa e della sua pastorale; addirittura alla cultura viene riconosciuto un ruolo rivelativo: permette alla Chiesa storica di accedere al mistero che essa stessa trasmette e comunica all’umanità. Continua, infatti, in questa linea il testo di Gaudium et spes: La chiesa, avendo una struttura sociale visibile, che è appunto segno della sua unità in Cristo, può far tesoro, e lo fa, dello sviluppo della vita sociale umana, non come se le mancasse qualcosa nella costituzione datale da Cristo, ma per conoscere questa più profondamente, per meglio esprimerla e per adattarla con più successo ai nostri tempi.16
Il principio pastorale si configura ormai come lo spazio di esibizione di un nuovo modo di declinare da parte della Chiesa il rapporto cristianesimo-cultura, un rapporto che ha fatto del discernimento lo spazio per la costruzione e la presentazione di questo nuovo modo di articolare tra loro fede cristiana e cultura degli uomini; un discernimento capace di arricchire in modo reciproco entrambi i termini in questione, permettendo alla Chiesa lo sviluppo di nuove forme di comprensione anche teologica della sua identità, della sua missione, dei suoi compiti e delle sue azioni dentro la storia. Davvero il nesso forma Ecclesiae - evangelizzazione sta conoscendo forme di declinazione assolutamente inedite.
2.3. Un fondamento
poco esplorato
Dove il concilio come evento fissa il fondamento da cui trae energia tutto questo movimento di trasformazione ecclesiale legato al rapporto forma-contenuto, legato al principio pastorale? Secondo gli studi di C. Theobald il luogo originante la forma di questa originale struttura dell’espe rienza ecclesiale e del suo istituirsi sta nel pensiero teologico attivato dalla Dei verbum:
15 Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (7.12.1965), Sessione IX, n. 44: EV 1/1460s. 16 Ivi, n. 44: EV 1/1462.
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Quale forma di Chiesa per l’evangelizzazione oggi? Tutto quello che aveva rivelato per la salvezza di tutti i popoli, con somma benevolenza, Dio dispose che rimanesse sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta la rivelazione del Dio altissimo, ordinò agli apostoli che l’evangelo – prima promesso per mezzo dei profeti e da lui adempiuto e promulgato di sua bocca – fosse predicato a tutti, come la fonte di ogni verità che salva e di ogni regola morale, comunicando loro i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito tanto dagli apostoli, che con la predicazione orale, con l’esempio e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Signore, dalla frequentazione e dalle opere di Cristo, sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito Santo, quanto da quegli apostoli e uomini della loro cerchia i quali, sotto l’ispirazione del medesimo Spirito Santo, affidarono agli scritti l’annunzio della salvezza. Gli apostoli poi, affinché l’evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella chiesa, lasciarono come successori i vescovi, a essi «affidando il loro proprio posto di maestri». Questa sacra tradizione e la sacra Scrittura dell’uno e dell’altro Testamento sono dunque come uno specchio nel quale la chiesa pellegrina sulla terra contempla Dio, dal quale riceve ogni cosa, finché sarà condotta a vederlo faccia a faccia così come egli è.17
Questa lunga citazione ci permette di cogliere il fondamento teologico che viene via via elaborato nel corpus conciliare: il rapporto forma-contenuto trova la sua logica ultima nel principio dell’autocomunicazione di Dio. Il desiderio di amore di Dio verso gli uomini ha assunto una forma storica (economica) per dare visibilità alla sua intenzione originaria (immanente), al suo disegno di comunicarsi agli uomini. La forma è quindi la via che consente, attraverso i segni interposti (anzitutto Gesù Cristo, la fede d’Israele, la Chiesa [tradizione, episcopato, comunità], le Scritture), di raggiungere il contenuto, ovvero l’autorivelazione di Dio. Il principio pastorale diventa così in questo quadro un principio teologico a tutto tondo, che intende descrivere e dare traduzione analitica alla forma storica che Dio ha assunto per rivelarsi agli uomini. Questo principio teologico struttura un’idea di pastorale basata su due assi: verticale (teologico) e orizzontale (ecclesiologico). La dimensione verticale fonda l’identità della Chiesa (la Chiesa sussiste per continuare la rivelazione di Dio realizzata in Cristo), dando contenuto e forma pratica alla sua istituzione, ovvero all’asse orizzontale (Parola, sacramenti, ministero apostolico) e strutturandola come un’istituzione simbolica (luogo di decifrazione del carattere profondo della presenza di Dio nella storia). Il discernimento ritorna così come un elemento fondamentale del principio pastorale, ma in questo caso a un livello diverso: non è più un discernimento legato semplicemente alle condizioni, alle modalità culturali di comunicazione del messaggio della salvezza; molto più profondamente, è un discernimento legato alla struttura stessa dell’esperienza di fede che viene veicolata da questo modo di pensare e di comprendere la rivelazione del Dio di Gesù Cristo. Il rapporto cristianesimo-cultura non funziona più semplice-
17 Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum (18.11.1965), Sessione VIII, n. 7: EV 1/880s.
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mente come strumento regolatore della forma dell’istituzione ecclesiale, ma viene assunto come strumento interno alla dinamica fondamentale del darsi della rivelazione; diventa cioè un elemento essenziale del contenuto stesso della rivelazione cristiana. Dispiace che a una simile intuizione l’evento conciliare arrivi soltanto al termine del suo percorso riflessivo, proprio mentre la scrittura di un altro testo, la Gaudium et spes, sembra invece confermare la comprensione ormai classica del principio pastorale e la sua funzionalizzazione socio-culturale: il rischio è che il discernimento non venga compreso come una dimensione essenziale per l’accesso storico alla rivelazione, per l’accesso alla rivelazione da parte della Chiesa stessa, intesa nella sua dimensione di comunità istituzionale. Il risultato infatti non è soltanto l’indebolimento dei processi interpretativi che a partire dal concilio vengono attivati per comprendere il senso della storia alla luce della fede, ma un impoverimento degli strumenti attraverso i quali dare forma e contenuto alla fede cristiana, come la riflessione di C. Theobald mostra; il risultato è l’indebolimento e la consegna di un metodo di discernimento quale quello del «vedere-giudicare-agire» alle regole della ragione sociale e culturale, estraniandolo invece dal fondamento biblico e teologico che avrebbe potuto sviluppare, costruire, esibire.18 E il risultato è una concettualizzazione del rapporto forma Ecclesiae - evangelizzazione a un livello di profondità di comprensione inferiore a quanto si sarebbe potuto sviluppare.
3. Conclusione. La sfida di una
forma adeguata al tempo
Ecclesiae
Arrivati alla fine di questo percorso di rilettura, possiamo dire di essere riusciti a maturare alcune conclusioni che possono servire come punti di rilancio della problematica iniziale. Il rapporto forma Ecclesiae - annuncio del vangelo ci si è rivelato come uno snodo essenziale e prioritario, in grado di spiegare le fatiche e anche le prospettive di sviluppo del cattolicesimo mondiale, dagli anni ’40 del XX secolo in poi. Assunta perciò come prisma prospettico, la questione consegnata alla nostra riflessione ci ha aiutato a costruire una periodizzazione più complessa del nostro passato recente: il concilio Vaticano II non va assunto come principio, come luogo di produzione di questa questione, quanto piuttosto come luogo sintomatico di emersione di un problema profondo (e che tocca l’esperienza cristiana dalla sua origine) che ha conosciuto una forte affermazione nell’epoca moderna (il confronto coi Lumi), e che
18 Cf. J. Greisch, Entendre d’une autre oreille. Les enjeux philosophiques de l’herméneutique biblique, Bayard, Paris 2006; C. Theobald, Trasmettere un Vangelo di libertà, EDB, Bologna 2010.
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cerca ancora di essere organizzato in un equilibrio stabile (come abbiamo potuto vedere a livello di referenza, la questione è stata il tema profondo del sinodo dei vescovi sulla NE). Il concilio va quindi assunto e letto come esempio di inculturazione, come luogo alla ricerca di strumenti capaci di mostrare il processo continuo di «emersione» della Chiesa dentro la storia degli uomini. Solo così possiamo entrare in una discussione della forma Ecclesiae che ci consenta di approdare a risposte percorribili e praticabili di riforma delle pratiche pastorali di evangelizzazione. La Chiesa come presenza (spazio) che dice (linguaggio) l’atteggiamento di Dio verso l’uomo: uno spazio e un linguaggio che sono culturalizzati dal loro inizio. La Chiesa quindi come frutto di una continua ecclesiogenesi che richiede di saper sviluppare meglio la propria dimensione immaginativa nel pensare il cristianesimo e la sua presenza tra gli uomini: occorre uno studio attento dei legami attraverso i quali prende forma (grazie all’azione dello Spirito Santo) in ogni momento della storia il popolo chiamato a testimoniare il disegno di salvezza di Dio, disegno annunciato da Gesù Cristo.19 Lo studio delle pratiche di evangelizzazione diviene così un luogo a partire dal quale entrare a scoprire il processo di costruzione del legame ecclesiale; e il confronto con la questione della forma Ecclesiae passa da un livello di semplice ricerca di contenuti (informativo) a uno di comprensione dei motivi e delle forme del suo istituirsi (referenziale), proprio come, abbiamo visto, è accaduto nella revisione e nel rilancio del rapporto Chiesa - mondo moderno operato dal concilio Vaticano II.
19 Sarà interessante vedere in quale modo l’ecclesiologia cattolica saprà appropriarsi degli strumenti immaginati da L.S. Mudge, Rethinking the Beloved Community. Ecclesiology, Hermeneutics, Social Theory, University of America Press, Lanham (MD) 2001.
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Il secondo annuncio: l’esperienza dei movimenti Federico Badiali
Introduzione Una riflessione sulla Teologia dell’evangelizzazione che tenga conto del contesto secolarizzato e pluralista all’interno del quale viviamo non può non prendere in considerazione il tema del primo annuncio. Risulta, infatti, sempre più evidente che il primo annuncio non si configura semplicemente come un’azione di evangelizzazione tra le altre ma, piuttosto, come quell’attenzione che deve caratterizzare tutta l’opera evangelizzatrice della Chiesa. È quanto hanno indicato i nostri vescovi nella loro lettera pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, quando hanno affermato che «di primo annuncio vanno innervate tutte le azioni pastorali».1 Ed è l’ipotesi avanzata da Renato Zenezini nella sua tesi di laurea, difesa qualche anno fa presso la nostra facoltà, nella quale si legge che il primo annuncio è «ciò che sostiene tutte le pratiche messe in atto da una comunità cristiana, la ragione che ne determina le scelte».2 Il presente contributo si prefigge, prima di tutto, di istruire lo status quaestionis relativo al tema del primo annuncio. Cosa si intende oggi con questo termine? Quale riflessione è stata condotta a riguardo? Quali prassi sono state poste in essere? Ma col nostro contributo intendiamo compiere un ulteriore passo in avanti. Cosa si può fare perché il primo
1 Conferenza episcopale italiana, lettera pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (30.5.2004), n. 6: ECEI 7/1440. 2 R. Zenezini, Il primo annuncio fondamento della teologia pratica. Prospettive per la situazione italiana, Pardes, Bologna 2011, 12.
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annuncio venga a plasmare in maniera più profonda la nostra azione evangelizzatrice? Per rispondere a questa seconda domanda ci siamo posti in ascolto delle prassi di evangelizzazione seguite dai movimenti presenti nella diocesi di Bologna, incontrando i loro responsabili ed esaminando la letteratura pubblicata a riguardo dai singoli movimenti.3 Riteniamo, infatti, che i movimenti abbiano alle loro spalle un’esperienza di primo annuncio più dilatata nel tempo rispetto a quella della pastorale parrocchiale ordinaria e, per questo, meritevole di particolare attenzione. Seppur con sfumature diverse, fin dal loro sorgere, il Cammino neocatecumenale, Comunione e liberazione [CL], il Movimento dei Cursillos di cristianità, il Movimento dei Focolari, il Rinnovamento nello Spirito Santo hanno avuto, tra i loro obiettivi principali, quello di annunciare il vangelo ai lontani.4 Benché la parrocchia continui a rappresentare il volto
3 Cf. Per una umanità più unita. Rapporti d’unità tra persone di convinzioni diverse. Atti del Congresso, Castelgandolfo 28-29 maggio 1994, Città Nuova, Roma 1994; M. Camisasca, Don Giussani. La sua esperienza dell’uomo e di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009; Cammino neocatecumenale, Statuto, Centro neocatecumenale, Roma 2008; Organismo mondiale dei Cursillos di cristianità, Idee fondamentali del movimento dei cursillos di cristianità, Gruppo di lavoro interdiocesano, Roma 1992; Comitato nazionale di servizio del Rinnovamento nello Spirito Santo, Progetto Unitario di Formazione. Livello di Base. Seminario di vita nuova nello Spirito, Edizioni RnS, Roma 2008; Id., Vademecum 2011-2014, Associazione Rinnovamento nello Spirito Santo, Roma 2011. 4 Nel Decreto di approvazione definitiva dello Statuto del Cammino neocatecumenale, dopo un breve accenno agli inizi del Cammino, si legge che esso «promuove la missione ad gentes non solo nei Paesi di missione, ma anche in quelli di antica tradizione cristiana oggi purtroppo profondamente secolarizzati» (Cammino neocatecumenale, Statuto, 14). Massimo Camisasca, in un suo recente volume su don Giussani, ritornando agli inizi dell’impegno pedagogico del fondatore di CL, ricorda lo stupore di questo sacerdote di fronte al fatto che «Cristo non suscitava più l’interesse delle nuove generazioni. […] “Salendo per la prima volta i tre gradini d’entrata del liceo Berchet […] avevo chiaro che si trattava […] di rifare l’annuncio del cristianesimo come avvenimento presente, umanamente interessante e conveniente all’uomo che non voglia rinunciare al compimento delle sue attese e all’uso senza riduzioni del dono della ragione. Tutto ciò che ne conseguì […] dipese […] unicamente da quella intuizione iniziale”» (Camisasca, Don Giussani, 26s). Nel testo-guida del Movimento dei Cursillos di cristianità, si legge che, alla fine degli anni ’40, i suoi fondatori notarono che il mondo «aveva voltato le spalle a Dio, a Cristo e alla sua Chiesa dato che la vita cristiana aveva cessato di essere cristiana, perché l’influenza del Cristianesimo sul quotidiano era praticamente nulla, anche negli ambienti chiamati cattolici» (Organismo mondiale dei Cursillos di cristianità, Idee fondamentali, n. 17). «Fu così che, in contrapposizione a una pastorale incentrata prevalentemente sulle pratiche di pietà, il MCC optò per una soluzione innovativa, cioè la proclamazione kerygmatica del fondamentale cristiano» (ivi, n. 23). Anche il Movimento dei Focolari nasce negli anni ’40. Il suo carisma è quello dell’unità, sintetizzato da queste parole di Chiara Lubich, la sua fondatrice: «“Farsi uno”, sai che cosa significa? Significa entrare nella cultura dell’altro e capirlo e lasciare che si esprima, finché l’hai compreso dentro di te; e quando l’hai compreso, allora sì, potrai iniziare il dialogo con lui e passare anche il messaggio evangelico attraverso le ricchezze che lui già possiede» (Per una umanità più unita, 100s). Il Rinnovamento nello Spirito si percepisce come «uno strumento ecclesiale per una nuova comunicazione spirituale della fede» (Comitato nazionale di servizio del Rinnovamento nello Spirito Santo, Vademecum 2011-2014, 17). L’evento fondamentale del Rinnovamento, il cenacolo di preghiera, è considerato «una “liturgia missionaria”, una forma di evangelizzazione nella quale i partecipanti, sulla base
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Il secondo annuncio: l’esperienza dei movimenti
più familiare della Chiesa per la maggioranza dei nostri connazionali,5 riteniamo che il ruolo giocato dai movimenti in relazione al primo annuncio sia innegabile.6 La Teologia dell’evangelizzazione ha il compito di prendere in esame questo prezioso patrimonio e compiere un adeguato discernimento.
1. Stato
della questione
I testi del Vaticano II mostrano che, di fatto, cinquant’anni fa i padri conciliari identificavano l’evangelizzazione con la missio ad gentes, con l’annuncio del vangelo a chi, abitando in terre lontane, ancora non lo conosceva; quindi, in un certo senso, con il primo annuncio.7 A partire da Evangelii nuntiandi il termine «evangelizzazione» assume un significato più ampio. Esso è inteso come quell’azione attraverso la quale la Chiesa assolve il compito di «portare la buona novella a tutti gli strati dell’umanità».8 È chiaro, quindi, che il primo annuncio rappresenta solo uno degli elementi di quella ricca e complessa realtà che è l’evangelizzazione.9 Negli ultimi anni, come abbiamo già anticipato nell’introduzione, è maturata l’idea secondo la quale il primo annuncio non rappresenta semplicemente una fase tra le altre dell’evangelizzazione, ma la «prima», non solo da un punto di vista cronologico, ma anche e soprattutto dal
del sacerdozio comune dei fedeli, sono condotti a un incontro immediato con Gesù, tramite la testimonianza personale, spontanea, gioiosa comunicata nella fede» (ivi, 20). 5 «È la parrocchia a rendere visibile la Chiesa come segno efficace dell’annuncio del Vangelo per la vita dell’uomo nella sua quotidianità e dei frutti di comunione che ne scaturiscono per tutta la società» (Conferenza episcopale italiana, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia», n. 3: ECEI/1428). 6 «Il clima culturale e la situazione di affaticamento in cui si trovano parecchie comunità cristiane rischiano di rendere debole la capacità di annuncio, di trasmissione e di educazione alla fede delle nostre Chiese locali. […] In una situazione simile vanno riconosciute come un dono dello Spirito la freschezza e le energie che la presenza dei gruppi e movimenti ecclesiali è riuscita a infondere in questo compito di trasmissione della fede» (Sinodo dei vescovi, «Lineamenta della XIII Assemblea generale ordinaria La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana», n. 15, in Il Regno-doc [2011]5, 144). 7 «Ecclesiae tamen necessitas incumbit, simulque ius sacrum, evangelizandi, ac proinde missionalis activitas vim suam et necessitatem hodie sicut et semper integram servat» (Concilio ecumenico Vaticano II, decreto Ad gentes [7.12.1965], n. 7: EV 1/1104). 8 Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi [8.12.1975], n. 18: EV 5/1610. 9 «In opere evangelizantis Ecclesiae quaedam elementa et partes profecto sunt, quae retineantur oportet. Immo vero aliqua eorum tanti sunt momenti, ut interdum existimentur simpliciter constituere totam ipsam evangelizationem. Ita videlicet evangelizatio definiri potuit tamquam demonstratio Christi Domini iis qui illum non noverunt, uti praedicatio, catechesis, baptismus et aliorum Sacramentorum dispensatio. Attamen, nulla talis manca et imperfecta definitio satisfacere valet implicatae et locupleti et dynamicae veritati illius rei, quae evangelizatio appellatur, quin periculum simul exsistat, ne sensus ipsius infirmetur veletiam deformetur. Etenim nullo modo comprehendi ea potest, nisi uno conspectu omnia eius necessaria elementa respiciuntur» (ivi, n. 17: EV 5/1609).
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punto di vista fondativo.10 Il primo annuncio deve essere considerato come l’anima di tutta l’evangelizzazione. Ma, accanto a questa intuizione, soprattutto nel nostro contesto italiano, ne va emergendo un’altra. Il primo annuncio si rivolge a persone che, in genere, non ignorano del tutto il fatto cristiano. Sono persone battezzate che, in genere, hanno ricevuto un’istruzione cristiana di base nella preparazione catechistica ai sacramenti dell’iniziazione e nell’ora di religione a scuola. Dati questi presupposti, il primo annuncio, nel nostro contesto italiano, non può definirsi a tutti gli effetti «primo», ma, come suggerisce efficacemente Enzo Biemmi in una sua recente pubblicazione, si presenta sempre come un «secondo annuncio».11 Questo fatto costituisce un particolare non indifferente: annunciare il vangelo a chi pensa di conoscerlo già rappresenta una sfida ulteriore, di cui non si può non tenere conto. Di fatto, negli ultimi anni molto è già stato fatto. È condivisa la convinzione che le prime grandi occasioni per il secondo annuncio siano quelle che la pastorale ordinaria offre già: le grandi feste liturgiche e i passaggi più significativi della vita delle persone, che chiedono di celebrare tali avvenimenti attraverso i segni della fede: i sacramenti dell’iniziazione, i matrimoni, i funerali.12 Perché queste occasioni possano essere feconde, occorre avere un determinato registro nell’annuncio, un linguaggio che faccia leva sulla rilevanza antropologica della fede. La Lettera ai cercatori di Dio13 rappresenta un esempio davvero ben riuscito di questo tentativo. In genere, nelle nostre parrocchie, se ne è fatto un uso abbondante. Ma la svolta antropologica della prassi evangelizzatrice non deve limitarsi semplicemente alla dimensione linguistica. Deve plasmare tutta l’azione pastorale della Chiesa, a partire dalla maniera stessa in cui essa viene concepita e strutturata. A questo proposito il Convegno di Verona ha indicato la necessità di passare da una pastorale articolata attorno ai tre principali uffici della Chiesa: la catechesi, la liturgia e la carità, a una pastorale articolata attorno a cinque ambiti della vita dell’uomo: la vita affettiva, il lavoro e la festa, la fragilità umana, la tradizione, la cittadinanza,14 un’articolazione forse meno fondata dal punto di vista teologico rispetto a quella
10 «La “priorità” del primo annuncio va intesa soprattutto in senso genetico o fondativo» (Conferenza episcopale italiana – Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi, nota pastorale sul primo annuncio del vangelo Questa è la nostra fede [15.5.2005], n. 6: ECEI 7/2364). 11 Cf. E. Biemmi, Il secondo annuncio. La grazia di ricominciare, EDB, Bologna 2011. 12 Cf. Conferenza episcopale italiana, orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del 2000 Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (29.6.2001), n. 57: ECEI 7/236; Conferenza episcopale italiana – Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi, Questa è la nostra fede, n. 23: ECEI 7/2416-2419; Vescovi delle diocesi lombarde, La sfida della fede: il primo annuncio, EDB, Bologna 2009, 11-26. 13 Cf. Conferenza episcopale italiana – Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi, Lettera ai cercatori di Dio, EDB, Bologna 2009. 14 Cf. Conferenza episcopale italiana, Traccia di riflessione in preparazione al Convegno ecclesiale di Verona Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo (29.4.2005), n. 15: ECEI 7/2316.
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precedente, ma senza dubbio più capace di mostrare ai nostri contemporanei la rilevanza della fede. Accanto a questi elementi, che possiamo ritenere ormai acquisiti, cosa si può fare ancora per rendere il secondo annuncio l’asse della nostra pastorale? Riteniamo che l’ascolto dell’esperienza dei movimenti possa offrirci qualche indicazione a riguardo.
2. Cammino
neocatecumenale
Nel suo Statuto, il Cammino neocatecumenale mostra, fin da subito, il suo profondo legame col secondo annuncio. Esso, infatti, annovera al primo posto, tra i beni spirituali di cui il Cammino dispone, «il “Neocatecumentato” o catecumenato post-battesimale»,15 quello strumento, cioè, che il Cammino mette a disposizione delle Chiese particolari «per la riscoperta dell’iniziazione cristiana da parte degli adulti battezzati»,16 i quali o, nel corso della loro vita, si sono allontanati dalla Chiesa, o, a suo tempo, non hanno ricevuto un annuncio adeguato del vangelo, o desiderano approfondire ulteriormente la loro fede, o provengono da confessioni cristiane non in piena comunione con la Chiesa cattolica. Il secondo annuncio proposto dal Cammino neocatecumenale si struttura attorno al «tripode della vita cristiana»,17 parola di Dio, liturgia e comunità, e si articola in una serie di catechesi, dette «catechesi iniziali», proposte da una équipe di catechisti, all’interno di una parrocchia, su invito del parroco. L’art. 9 dello Statuto descrive dettagliatamente questa fase iniziale del Cammino: Le catechesi kerigmatiche […] si svolgono nell’arco di due mesi, in quindici incontri serali, e si concludono con una convivenza di tre giorni. […] Le catechesi iniziali sono articolate in tre parti: 1) l’annuncio del kerigma che chiama a conversione: la buona notizia della morte e della risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo. […] Questa «parola di salvezza» chiama alla conversione e alla fede, invita a riconoscersi peccatori, ad accogliere il perdono e l’amore gratuito di Dio e a mettersi in cammino verso la propria trasformazione in Cristo, per la potenza dello Spirito. La conversione è sigillata dalla celebrazione della Penitenza. […] 2) Il kerigma preparato da Dio attraverso la storia della salvezza […]: si danno le chiavi ermeneutiche necessarie per l’ascolto e la comprensione della Sacra Scrittura: vedere in Gesù Cristo il compimento delle Scritture e mettere i fatti della propria storia sotto la luce della Parola. Quest’iniziazione alla Scrittura viene sigillata in una celebrazione della Parola, in cui i partecipanti ricevono la Bibbia dalle mani del Vescovo. […] 3) Il kerigma nei sacramenti e nella koinonia: le catechesi culminano nella convivenza con la celebrazione dell’Eucaristia. Detta celebrazione […] aiuta a riscoprire lo splendore pasquale e a sperimentare la comunione tra i fratelli.18
Cammino neocatecumenale, Statuto, art. 1 § 3. Ivi, art. 5 § 1. 17 Ivi, art. 8 § 2. 18 Ivi, art. 9. 15
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Da questo testo emergono i tratti essenziali del secondo annuncio proposto dal Cammino neocatecumenale. Ne evidenziamo le linee principali. Il cuore delle catechesi iniziali è il kerygma, «la buona notizia della morte e della risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo». I catechisti lo espongono con semplicità, mettendo in luce il proprio incontro con la persona di Cristo. Al centro del kerygma sta l’annuncio della croce. Quella croce che l’uomo vorrebbe sfuggire, perché gli richiama continuamente il proprio limite, è presentata come fonte di gioia, perché è là che l’uomo arriva a incontrare il suo Signore. La Scrittura ha un ruolo fondamentale all’interno del secondo annuncio proposto dal Cammino. Le catechesi sono profondamente radicate nella parola di Dio. La consegna della Scrittura da parte del vescovo indica che essa è veramente lo strumento privilegiato dell’itinerario neocatecumenale. I battezzati vengono aiutati a familiarizzare con la Bibbia. Le celebrazioni settimanali della Parola, che accompagneranno la neonata comunità neocatecumenale, all’indomani della convivenza che conclude le catechesi iniziali, rivelano l’approccio del Cammino alla Scrittura: un approccio ecclesiale, guidato dalla tradizione e dal magistero, e, al tempo stesso, sapienziale: alla luce della storia della salvezza presentata dalla parola di Dio, ogni battezzato è invitato a rileggere la propria esperienza personale e a prendere coscienza del fatto che il Signore fa con ogni uomo una storia, come l’ha fatta con i grandi personaggi della Scrittura.19 Questo permette di comprendere che, nella propria vicenda personale, nulla è in balìa del caso, ma tutto deve essere letto all’interno di un disegno, da comprendere e accettare, nella certezza che in esso il Signore è all’opera. Anche alla liturgia viene dato grande rilievo all’interno del secondo annuncio attuato dal Cammino neocatecumenale. Lo testimoniano la celebrazione comunitaria della penitenza, durante le catechesi iniziali, e l’eucaristia, celebrata durante la convivenza e poi settimanalmente dalla comunità neocatecumenale, come quel sacramento che «completa l’iniziazione cristiana».20 Non manca, all’interno di questo secondo annuncio, una proposta di tipo etico: l’annuncio dell’«amore gratuito di Dio» fa sì che il battezzato prenda coscienza del proprio peccato e maturi il proposito di una vita nuova. L’ultimo fondamento del tripode su cui si regge il secondo annuncio del Cammino neocatecumenale è la comunità, «dato che la forma completa o comune dell’iniziazione cristiana degli adulti è quella comunitaria»21 e che «l’educazione alla vita comunitaria è uno dei compiti fondamentali dell’iniziazione cristiana».22 Essa non appare come l’elemento fondatore. In principio, infatti, è il kerygma ed è attorno al kerygma che, al termine delle catechesi iniziali, si costituisce la comunità neocatecumenale. Il kerygma accoglie tutti, mettendo tutti sullo stesso
Cf. ivi, art. 11. Ivi, art. 13 § 1. 21 Ivi, art. 7 § 1. 22 Ivi, art. 15 § 1. 19 20
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piano, rendendo tutti fratelli, in quanto tutti raggiunti dalla grazia di Cristo. La comunione, pertanto, risulta come dono di Cristo, non come opera dell’uomo. Lo conferma il fatto che la comunità neocatecumenale appare estremamente eterogenea al suo interno, a partire, ad esempio, dall’età anagrafica dei suoi componenti. La sua composizione dipende da chi concretamente aderisce all’invito proposto alla fine della convivenza. Questa piccola comunità, che ha come proprio modello la sacra famiglia di Nazaret,23 diventa, per i neocatecumeni, un’esperienza concreta di Chiesa: è lì che ci si impara a conoscere, si condividono le grazie e le prove vissute, ci si incoraggia a vicenda, si cresce nell’accoglienza, nella carità, nel perdono, nel servizio e nella comunione.24
3. Comunione
e liberazione
La vocazione di Comunione e liberazione per il secondo annuncio si manifesta già a partire dal modo in cui la fraternità comprende se stessa, come «una comunità di persone adulte che liberamente, in nome del loro battesimo e della maturità della fede favorita dall’educazione ricevuta nel movimento, condividono una regola di preghiera, l’impegno a educarsi alla povertà, ad approfondire la conoscenza della dottrina della Chiesa e ad evangelizzare gli ambienti della vita quotidiana».25 Gli spazi che CL privilegia nel suo secondo annuncio sono, dunque, gli ambienti, come ad esempio l’università e i luoghi di lavoro, proprio nella consapevolezza che la fede è vita e la vita è vissuta all’interno degli ambienti. Lo stile del secondo annuncio di CL è fortemente caratterizzato da un’intuizione pedagogica che Giussani formula già in G.S.: riflessioni sopra un’esperienza (1959). All’inizio dell’annuncio cristiano non può esserci semplicemente una parola; deve esserci un’azione. Si tratta, in altri termini, di coinvolgere il destinatario dell’annuncio all’interno di quell’esperienza che, precedentemente, ha colpito, persuaso, conquistato chi ora si fa araldo di quel medesimo annuncio. In una parola, per Giussani – come scrive Camisasca in un suo recente volume dedicato alla vita e alle opere del fondatore di CL – «proporre il cristianesimo vuol dire vivere con l’altro l’ideale che muove la mia giornata».26 È grazie a questo fare insieme che la persona a cui è diretto l’annuncio perviene all’incontro con Cristo, un incontro che passa più per gli occhi e per il cuore, che non per le orecchie. Infatti, perché tale incontro possa realizzarsi, l’uomo deve porsi in ascolto del suo cuore, un cuore che, purtroppo, appare spesso assopito. Le risposte da offrire all’intelligenza dell’uomo non mancano. Spesso ciò che manca nell’uomo è, piuttosto, la domanda, l’attesa, senza le quali non è possibile
Cf. ivi, art. 7 § 2. Cf. ivi, artt. 15-16. 25 Camisasca, Don Giussani, 14s. 26 Ivi, 36. 23 24
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offrire alcuna risposta. E perché l’uomo possa di nuovo mettersi in ascolto del suo cuore, delle sue aspettative più profonde, Giussani ricorre spesso alle più belle pagine che la letteratura di tutti i tempi ha prodotto. In esse l’uomo avverte perfettamente interpretata la sua domanda di senso. Il bello viene così a essere una delle strade privilegiate attraverso le quali l’uomo può giungere al vero e, per questa ragione, Giussani fa dell’arte uno dei pilastri della sua proposta educativa. La via che egli propone è la via che egli stesso ha percorso. Come ha detto il cardinale Ratzinger, nell’omelia pronunciata in occasione delle esequie di Giussani, il 24 febbraio 2005, nel duomo di Milano, il fondatore di CL «sin dall’inizio era toccato, anzi ferito, dal desiderio della bellezza, non si accontentava di una bellezza qualunque, di una bellezza banale: cercava la Bellezza stessa, la Bellezza infinita; così ha trovato Cristo, in Cristo la vera bellezza».27 Quindi, solo quando l’uomo si è posto in ascolto del desiderio più profondo del suo cuore, allora gli può essere presentata la persona di Cristo, come la risposta più autentica a questo suo desiderio. Il kerygma viene annunciato mettendone in rilievo la sua perfetta consonanza antropologica. Giussani, infatti, è persuaso del fatto che «i contenuti della fede hanno bisogno di essere abbracciati ragionevolmente, devono cioè essere esposti nella loro capacità di miglioramento, illuminazione ed esaltazione degli autentici valori umani».28 A compiere questa operazione contribuisce la cultura, che, insieme alla carità e all’universalità, va a comporre le tre dimensioni fondamentali della proposta cristiana di CL. Cultura, per Giussani, non significa conoscere tante cose, ma, piuttosto, conoscere il senso delle cose, «il nesso che lega una cosa all’altra e tutte le cose fra di loro»,29 quindi Cristo, la chiave di volta della realtà. Attraverso la cultura, la fede dimostra di essere perfettamente aderente alla vita, colta nella sua quotidianità. La Scrittura, in particolare, viene a illuminare l’esperienza vissuta: l’incontro con Cristo. Non a caso, quindi, Giussani fa spesso riferimento al brano della vocazione dei primi discepoli, descritta in Gv 1,35-39,30 dove Gesù propone ai discepoli un’esperienza concreta (venire e vedere), cui essi aderiscono perché, ai loro occhi, essa risulta umanamente desiderabile. Le altre due dimensioni fondamentali della proposta educativa di CL, la carità e l’universalità, rappresentano gli strumenti attraverso cui il movimento propone la morale evangelica, nel suo invito a imitare il Dio-Amore e a vivere per tutta l’umanità. Attorno alla cultura, alla carità e all’universalità prende forma la comunità. Per Giussani la Chiesa è prima di tutto dono dello Spirito, per cui si fa concretamente esperienza di Chiesa là dove «è proprio la realtà quotidiana a trasformarsi, sono i normali connotati dell’esistenza umana a essere mutati: l’amore tra un uomo e una donna,
Cit. ivi, 12. L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, 42. 29 Id., Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, 36. 30 Cf. Id., Il tempo e il tempio. Dio e l’uomo, BUR, Milano 2002, 46-50; Id., Si può vivere così? Uno strano approccio all’esistenza cristiana, Rizzoli, Milano 2007, 49-51. 27 28
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l’amicizia tra gli uomini, la tensione della ricerca, il tempo dello studio, del lavoro».31 Per Giussani, quindi, la Chiesa, in una parola, è comunione. Ed è a partire dall’esperienza di questa comunione, che è dono dello Spirito, che è possibile rivolgere all’uomo l’annuncio di Cristo.
4. Movimento
dei di cristianità
Cursillos
Il Movimento dei Cursillos di cristianità nacque in Spagna, alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, proprio come una proposta di secondo annuncio per una società che aveva cessato di essere cristiana. Poiché la causa di tale scristianizzazione veniva attribuita soprattutto all’ignoranza dei contenuti fondamentali della fede, il Movimento pose al centro della sua azione pastorale «la proclamazione kerygmatica del fondamentale cristiano, […] presentando le realtà teologiche fondamentali che soddisfano le migliori aspirazioni degli uomini».32 Questi semplici riferimenti storici consentono di cogliere che, sin dagli inizi, l’impegno missionario del Movimento dei Cursillos di cristianità era rivolto a un destinatario che, a suo tempo, aveva già ricevuto l’annuncio del vangelo, ma che, per varie ragioni, aveva abbandonato la pratica religiosa. Per ridestare in lui il desiderio di Dio, gli veniva annunciato il kerygma, presentato, da una parte, come qualcosa di totalmente diverso rispetto ai contenuti della religiosità naturale, ma, dall’altra, come un annuncio perfettamente corrispondente alle attese umane più profonde. Oggi il Movimento dei Cursillos di cristianità si percepisce come «un movimento di Chiesa che, mediante un metodo proprio, rende possibile la “vivenza” e la “convivenza” del Fondamentale Cristiano, aiuta la singola persona a scoprire e a rispondere alla propria vocazione personale e promuove la creazione di gruppi di cristiani che fermentino di Vangelo gli ambienti».33 Gli ambienti, infatti, per il Movimento condizionano fortemente la religiosità di una persona, per cui, per «vertebrare cristianamente un mondo già strutturato»,34 diventa fondamentale conoscere tali ambienti e favorire, al loro interno, la nascita di gruppi di cristiani che li possano fermentare di vangelo. A tal scopo viene proposto il Cursillo, un’esperienza di tre giorni che ha al suo centro l’annuncio del kerygma, il mistero di Cristo e il dono del suo Spirito, un annuncio dato con gioia e convinzione, presentato nel suo legame con la vita, non semplicemente come una verità da conoscere e da accettare, veicolato attraverso testimonianze concrete, volto a suscitare un profondo cambiamento di vita.35 Pertanto, «il Cursillo è, principalmente, la procla-
Id., Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2003, 118. Organismo mondiale dei Cursillos di cristianità, Idee fondamentali, n. 23. 33 Ivi, n. 74. 34 Ivi, n. 32. 35 Cf. ivi, nn. 246-249. 31
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mazione di una dottrina»,36 esposta in maniera organica, attraverso una serie di rollos, di catechesi, che, partendo dal kerygma, presentano la vita del cristiano e il suo impegno nel mondo. Durante il Cursillo l’uomo è posto di fronte alla verità di se stesso, di Dio e della fede. Il cursillista è invitato a prendere coscienza di chi è in quel preciso momento della sua vita e di chi è chiamato a essere, in quanto creatura, figlio di Dio, membro della Chiesa, discepolo del Signore. È chiamato ad abbandonare le false immagini di Dio che si è costruito nel corso della sua vita, per accogliere quella del Padre misericordioso rivelata dal vangelo. La vita cristiana viene tratteggiata nei suoi elementi fondamentali: il primato della vita spirituale, l’impegno nella formazione, la vita sacramentale, l’agire morale, presentato come conseguenza della vocazione battesimale, la serietà della lotta spirituale, la responsabilità nei confronti del mondo. In esso il cristiano deve essere come il lievito che fermenta la pasta, ma questo è possibile solo grazie al sostegno fornito dalla vita di grazia e dalla partecipazione alla vita ecclesiale. Sebbene i rollos abbiano una connotazione soprattutto dottrinale ed esperienziale, in essi non mancano i riferimenti alla Scrittura. La Parola è utilizzata soprattutto per mostrare lo sguardo che Dio ha sull’uomo, uno sguardo che permette a questi di fare verità su se stesso, ma che, al tempo stesso, lo lascia libero nella sua risposta. Il Cursillo è anche un’introduzione alla vita liturgica e spirituale della Chiesa. Nei tre giorni le sollecitazioni che il cursillista riceve in questa direzione sono svariate: l’eucaristia quotidiana, presentata come il centro della vita, punto d’incontro con il Signore e i fratelli; il sacramento della penitenza, cui il cursillista è stimolato dalla testimonianza dei responsabili; la celebrazione della liturgia delle ore; la visita al santissimo Sacramento, individuale e in gruppo, durante la quale si confidano i propri pensieri al Signore e si cresce nella comunione; il rosario; la via crucis; l’esame di coscienza. Accanto a tutto ciò, un elemento non meno importante del Cursillo è quella rete di relazioni che, da una parte, ha portato il cursillista a partecipare all’esperienza, e che, dall’altra, viene intessuta nel corso dei tre giorni. La dimensione orizzontale, infatti, non è meno curata di quella verticale. Una delle massime che guida l’azione dei responsabili del Cursillo è: «Diventare amici dei cursillisti, per farli diventare amici di Cristo».37 I responsabili vivono i tre giorni costantemente a servizio dei cursillisti, facendo attenzione a ciascuno di essi, riprendendo con loro le tematiche affrontate nei rollos e le reazioni suscitate, rendendosi disponibili al dialogo, interessandosi con discrezione alle loro problematiche, orientandoli nei loro dubbi. L’intera comunità accompagna con la preghiera e l’offerta personale il Cursillo, in uno spirito di vera comunione spirituale. Al ritorno, l’incontro con i membri del Movimento permette ai cursillisti di cogliere il senso ecclesiale dell’esperienza vissuta e alla comunità di essere beneficamente contagiata dall’entusiasmo di chi ha appena concluso l’esperienza. Anche
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Ivi, n. 346. Ivi, n. 287.
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il Postcursillo trova nell’amicizia uno strumento imprescindibile. È attorno a essa, infatti, che cresce il Gruppo, «un insieme di persone che sono o vogliono essere amiche e cristiane, e si riuniscono per essere più amiche e più cristiane».38 Il Gruppo viene così a essere «un’immagine della Chiesa, […] un modo pratico per unirci […] con i fratelli nella carità di Cristo, profittando della amicizia umana».39
5. Movimento
dei
Focolari
Il secondo annuncio compiuto dal Movimento dei Focolari è inserito all’interno di un’intensa attività di dialogo, condotta a diversi livelli (interpersonale, locale, internazionale), attorno a differenti questioni (riguardanti la politica, l’economia, l’educazione), con persone di diversa convinzione religiosa (tra loro c’è chi rifiuta positivamente la fede, chi la ignora, chi l’ha dimenticata o rimossa, chi non prova alcun interesse per essa, chi è in ricerca),40 per realizzare un’umanità più unita. Tutti, credenti e non credenti, partecipano al dialogo promosso dal Movimento portando la propria particolare sensibilità. I credenti intendono la fratellanza universale come un dono di Dio, che attende di essere realizzato dall’uomo. I non credenti la considerano un ideale iscritto nella nostra stessa natura.41 Ma, indipendentemente da ciò, tutti sono consapevoli di condividere alcune convinzioni di fondo, in primo luogo il grande fascino esercitato su di essi dall’amore. Esso «è possibile a tutti, è l’elemento più attuale, prezioso e necessario, anche se difficile da praticare, nel nostro tempo, è un passo importante verso l’unità fra i popoli».42 In secondo luogo, tutti, indipendentemente dalla loro opzione di fede, sono persuasi di poter dare un contributo significativo per il raggiungimento dell’obiettivo comune. I credenti sono i primi a riconoscere l’arricchimento che il dialogo rappresenta per ciascuno di essi, come affermò Chiara Lubich, la fondatrice del Movimento, rivolgendosi, nel 1992, a un gruppo di persone non credenti: «La vostra partecipazione alla nostra Opera è essenziale per noi».43 Ma, proprio per contribuire a questo arricchimento reciproco, il Movimento
Ivi, n. 466. Ivi, n. 468. 40 Cf. C. Dal Rì – A. Diana, «Presentazione», in Per una umanità più unita, 7. 41 Cf. ivi, 8. Le diverse motivazioni che spingono credenti e non credenti a dare il proprio contributo per accrescere la fraternità universale non devono essere considerate antitetiche, ma assolutamente complementari, come si può notare in questo brano, in cui il «noi» utilizzato dall’autore rende esplicita una comunione che, da un punto di vista sociologico, è ancora implicita: «C’è chi di noi prendendo dal Vangelo, cerca di attuare le parole di Gesù, e di fare quello che Lui ha fatto: ha dato la vita per gli uomini. C’è tra noi chi prende dalla saggezza umana, dalla parte più buona di sé e cerca di valorizzare l’uomo, ogni uomo, sempre con questo obiettivo di una mentalità più unita» (C. Dal Rì, «Come realizzare l’unità», in Per una umanità più unita, 86). 42 Dal Rì – Diana, «Presentazione», 8. 43 Cit. in Dal Rì, «Come realizzare l’unità», 76. 38 39
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dei Focolari porta nel dialogo la propria esperienza, il proprio tentativo di realizzare un’umanità più unita, a partire dalla parola del vangelo, accolta come parola di vita. All’origine c’è una parola sorgiva di Gesù: «Che tutti siano uno» (cf. Gv 17,21), cui il Movimento cerca di rispondere accogliendo, in particolare, due insegnamenti del maestro di Nazaret: «Essere figli d’un solo Padre ed essere fratelli gli uni degli altri».44 Di qui l’idea di una fratellanza universale, che spinge ad amare tutti come se stessi, come se fossimo noi il padre o la madre del nostro prossimo, facendoci uno con lui. Chiara Lubich cerca, in particolare, di approfondire questo tema del «farsi uno», nel quale vede condensato tutto l’amore evangelico: Per farci uno, non possiamo permetterci di pensare a risposte da dare o ad azioni da fare mentre amiamo, ascoltando il prossimo. Dobbiamo anzi fare il vuoto completo di noi per addossarci tutto quanto grava sull’altro, i suoi problemi, le sue necessità. Facendoci uno perfettamente coll’altro, facendo il vuoto, […] troviamo spesso la risposta da dare o comprendiamo quale azione compiere. Poi, siccome l’altro si sentirà capito da noi e sgravato a sua volta, si interesserà di ciò che interessa a noi.45
Ma questa dinamica dell’amore, che è, in primo luogo, un esercizio di povertà, di spoliazione, è esattamente la dinamica su cui si regge il dialogo: Farsi uno, sai cosa significa? Significa tagliare completamente la radice della tua cultura e entrare nella cultura dell’altro, capirlo e lasciar che si esprima finché l’hai compreso dentro di te, e quando l’hai compreso allora sì che potrai iniziare il dialogo con lui. Il farsi uno […] è entrare nell’anima dell’altro, è entrare nella cultura, è entrare nella mentalità, è entrare nella tradizione, è entrare nelle consuetudini, capirle e far emergere i semi di verità che ci sono.46
Dunque, vivere l’atteggiamento del dialogo non significa altro che vivere in pienezza l’amore. In questo modo, il dialogo non viene a essere solo la forma del secondo annuncio scelto dal Movimento dei Focolari, ma viene a essere l’annuncio stesso, in quanto, nella forma del dialogo, si rende visibile il contenuto stesso dell’annuncio, il vangelo dell’amore. Il fatto che il dialogo consenta al non credente di trovarsi nel bel mezzo del vangelo, fa sì che la fede divenga per lui qualcosa di desiderabile. E, a questo punto, l’annuncio può diventare esplicito, sempre all’interno della relazione dialogica. D’altra parte, tale relazione rappresenta per il credente qualcosa di insuperabile, per la sua particolare pregnanza teologica. Infatti, per il cristiano la Relazione è il momento nel quale si fa presente la divinità incarnata, Cristo, che vuole – come ha promesso – farsi presente nel «fra» di più persone che si incontrano nell’amore. […] Questo terzo presente non
Cit. ivi, 79. Cit. ivi, 82. 46 Cit. ivi, 83. 44 45
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Il secondo annuncio: l’esperienza dei movimenti fagocita né annulla le persone, perché per esse – credenti e non – si è già fatto nulla al culmine della sua vita terrena.47
E questa certezza mette il credente nella condizione di guardare con piena fiducia al futuro del dialogo, sebbene non ne possa mai dedurre a priori i risultati.48
6. Rinnovamento
nello
Spirito Santo
Il Rinnovamento nello Spirito Santo si è sviluppato in Italia agli inizi degli anni ’70, come espressione di quella grande corrente spirituale, denominata Rinnovamento carismatico cattolico, diffusasi in America alla chiusura del concilio Vaticano II. Il Rinnovamento è caratterizzato soprattutto dal «costituirsi di gruppi cristiani che pregano insieme e chiedono nella preghiera, per ognuno dei propri membri, una nuova effusione dello Spirito Santo, in virtù della quale si aggiunga alla grazia dell’iniziazione cristiana, una nuova presa di coscienza della Signoria di Gesù, una nuova esperienza dei doni e dei carismi dello Spirito e una nuova disponibilità a usare, a servizio dei fratelli e della Chiesa, tutti i talenti e i carismi dei quali Dio ha voluto dotarli».49 A partire da questa definizione, si può ben comprendere la ragione per la quale oggi il Rinnovamento si sente particolarmente implicato nel primo e nel secondo annuncio della fede e si presenta come un movimento che «opera nella Chiesa per il rinnovamento della vita cristiana»,50 che ha tra le sue finalità «la riscoperta della grazia battesimale e dell’identità cristiana»,51 che «esiste per educare alla fede le nuove generazioni e per rieducare alla fede tanti cristiani dimentichi o lontani da Cristo e dal Suo Vangelo».52 Solitamente il Rinnovamento viene conosciuto attraverso i cenacoli di preghiera, gli incontri di preghiera settimanali cui partecipano i membri di ogni gruppo. Essi cominciano con una preghiera di lode e di ringraziamento, cui seguono l’ascolto della parola di Dio, testimonianze, catechesi, esortazioni, preghiere di intercessione
47 A. Diana, «Esigenze e tendenze della società contemporanea», in Per una umanità più unita, 25. 48 «Come proseguirà questo dialogo? Noi non ne possiamo già conoscere tutti gli aspetti. Ora sappiamo di essere già legati personalmente da un’amicizia forte e dal rispetto di ciascuno per le convinzioni dell’altro: questa base e la nostra comune umanità ci saranno di grande aiuto» (Dal Rì – Diana, «Presentazione», 8). 49 S. Martinez, «I movimenti ecclesiali nella sollecitudine pastorale dei Vescovi», in Comitato nazionale di servizio del Rinnovamento nello Spirito Santo, Vademecum 20112014, 19. 50 «Estratto dello Statuto dell’Associazione “Rinnovamento nello Spirito Santo”», in Comitato nazionale di servizio del Rinnovamento nello Spirito Santo, Vademecum 20112014, 23. 51 Ib. 52 S. Martinez, «Presentazione», in Comitato nazionale di servizio del Rinnovamento nello Spirito Santo, Vademecum 2011-2014, 5.
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e canti. I cenacoli di preghiera vogliono essere essi stessi una forma di secondo annuncio, o, per usare alcune delle espressioni care al Rinnovamento, «una liturgia missionaria», «una forma di evangelizzazione nella quale i partecipanti […] sono condotti a un incontro immediato con Gesù».53 Nei cenacoli, particolare cura viene riservata all’accoglienza di ogni partecipante, e questa attenzione data alla situazione umana e spirituale che ciascuno sta vivendo crea un bel clima di famiglia. A chi comincia a frequentare il gruppo e mostra il desiderio di progredire nel proprio cammino di fede, viene proposta la partecipazione al «Seminario di vita nuova nello Spirito», un breve percorso di iniziazione cristiana, il cui stile è più quello dell’annuncio kerygmatico che della catechesi sistematica, in quanto, nel Seminario, «si parla al cuore dei fratelli, ancor prima che alla mente; si antepone a ogni percorso dottrinale precostituito la libera manifestazione dello Spirito e la testimonianza di vita nuova degli “anziani-testimoni”, che guidano il Seminario».54 Sebbene il metodo del Seminario sia prevalentemente esperienziale, ciò non toglie che esso sia saldamente ancorato alla Scrittura e al magistero della Chiesa. In particolare, l’approccio al testo biblico è di tipo spirituale: facendo bene attenzione alla lettera del testo, si dà spazio alle risonanze che la Parola suscita nel singolo e nella comunità. Ciò implica che «comprendere la Scrittura non significa averla capita da un punto di vista intellettuale, quanto “viverla”, farne il programma della propria esistenza, metterla in pratica».55 Scopo del Seminario è, tra le altre cose, quello di preparare i suoi partecipanti a ricevere una nuova effusione dello Spirito, che, per il Rinnovamento, rappresenta una vera trasformazione del battezzato per quanto riguarda «la coscienza della propria identità cristiana, le relazioni con la SS. Trinità, il modo di sentirsi Chiesa, il rapporto con la Parola, i sacramenti, la liturgia».56 Dopo la preghiera di effusione, i fratelli possono liberamente aderire al gruppo, nel quale possono trovare soprattutto un sostegno per il loro cammino di fede.
7. L’esperienza dei movimenti: un ’ etica familiare del secondo annuncio
Ripercorrendo sinteticamente l’itinerario compiuto, risulta evidente che, oltre alla consapevolezza della singolare tipologia dei destinatari dell’annuncio evangelico e oltre alla consapevolezza dell’importanza di proporre loro il kerygma con un linguaggio capace di intercettare le loro aspettative e di prendere seriamente in considerazione il loro ambiente
Id., «I movimenti ecclesiali nella sollecitudine pastorale dei Vescovi», 20. Comitato nazionale di servizio del Rinnovamento nello Spirito Santo, Progetto Unitario di Formazione, 12. 55 Id., Vademecum 2011-2014, 81. 56 Ivi, 78. 53 54
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di vita, i movimenti, fin dall’immediato post-concilio, hanno percepito l’esigenza di integrare il secondo annuncio in un contesto che permetta, a chi intraprende un cammino di ricerca, di sentirsi a casa. Il Cammino neocatecumenale considera un pilastro del proprio itinerario di riscoperta dei sacramenti dell’iniziazione cristiana la vita comunitaria, tanto quanto la parola di Dio e la liturgia. Il modello cui la comunità neocatecumenale si ispira è quello della sacra famiglia di Nazaret. Massimo Camisasca, nel suo già citato volume su don Giussani, scrive che, per il fondatore di CL, «l’inizio non è mai semplicemente una parola, ma è un gesto, un’azione. Occorre coinvolgere coloro a cui ci rivolgiamo in una azione, come Cristo ha fatto con i primi: “Venite e vedrete”».57 L’icona biblica che ispira la pedagogia del primo annuncio di CL viene a essere, quindi, la chiamata dei primi discepoli, Giovanni e Andrea. Il Movimento dei Cursillos di cristianità vede nell’amicizia un’autentica «opportunità per l’apertura e il dialogo efficaci».58 Anche Gesù è presentato come l’amico che continua a essere presente nella sua Chiesa.59 Il Movimento dei Focolari, nel suo dialogo con i «lontani», cerca prima di tutto di mettersi in ascolto della loro esperienza, nella convinzione che questi possano poi essere più disponibili a un dialogo fecondo. A sostenere questa prassi è la fede nel Dio-amore, per cui chi ama, indipendentemente dalla sua adesione di fede, viene già considerato parte del Movimento.60 Il Rinnovamento nello Spirito Santo, di fatto, compie il suo primo annuncio all’interno dei cenacoli di preghiera settimanali, vissuti come una sorta di liturgia missionaria, in cui viene particolarmente curata «l’accoglienza attenta di ogni fratello o sorella, con una chiara e personale proposta di cammino».61 Questa breve rassegna permette di cogliere che, per compiere un secondo annuncio, non è necessario solo conoscerne i destinatari, il kerygma, il linguaggio più idoneo a trasmetterlo. Bisogna anche fare in modo che la comunità che annuncia dia prova di essere una famiglia che attende, accoglie, si pone in ascolto, propone e accetta di condividere delle esperienze, desidera intrecciare legami profondi. Questa dimensione familiare rappresenta senza dubbio la carta vincente delle esperienze di secondo annuncio vissute dai movimenti, soprattutto perché essa va a incontrare quel bisogno di relazioni profonde a cui i nostri contemporanei mostrano di essere particolarmente sensibili. C’è un grande bisogno di vivere una fede che faccia trovare una casa e faccia sentire a casa.
Camisasca, Don Giussani, 35. Organismo mondiale dei Cursillos di cristianità, Idee fondamentali, n. 314. 59 Cf. ivi, n. 392. 60 «La piccola comunità custodiva un segreto, la scoperta che Dio è Amore. Questo segreto veniva rivelato a chiunque sapeva chiederlo. Ma chi non aveva la fede aveva però la capacità di amare: e questo lo inseriva nel cuore della comunità» (A.M. Baggio, «L’esperienza del Movimento dei Focolari nel rapporto con amici di convinzioni diverse», in Per una umanità più unita, 12). 61 Comitato nazionale di servizio del Rinnovamento nello Spirito Santo, Vademecum 2011-2014, 28. 57
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Molto spesso, invece, proprio questa dimensione familiare costituisce l’aspetto più carente della pastorale parrocchiale ordinaria, più preoccupata di creare occasioni e percorsi istituzionali, anche ben strutturati e accattivanti, ma che raramente pongono in essere luoghi accoglienti per chi domanda di essere ri-generato alla fede. D’altra parte, anche i documenti magisteriali prodotti in questi anni a proposito del secondo annuncio sembrano, in fondo, più attenti alle questioni legate al contenuto e al linguaggio del kerygma che non alle prassi da mettere concretamente in atto nei confronti dei cosiddetti ricomincianti.62 Si tratta, dal nostro punto di vista, di una vera e propria aporia etica. Come fare il secondo annuncio? Come porsi di fronte a chi attende di ascoltare per la seconda volta il vangelo? I movimenti ci indicano una pista, quella di un’etica che potremmo definire «familiare», come suggeriscono le icone bibliche cui essi si ispirano: quella della sacra famiglia di Nazaret; quella della chiamata dei primi discepoli da parte di Gesù, che li invita a condividere la propria quotidianità; quella dell’amicizia; quella dell’amore trinitario; quella dell’intimità del Cenacolo. Molto spesso, invece, l’etica del secondo annuncio praticata all’interno delle nostre comunità parrocchiali è un’etica che risulta più «scolastica» che «familiare». Alle spalle di questo modello etico stanno secoli di storia, durante i quali la parrocchia ha avuto prevalentemente il compito di istruire alla fede più che di generare alla fede, per il fatto che questo compito era assolto prevalentemente dalla famiglia. Oggi non è più così e la comunità cristiana deve riappropriarsi di questa missione generativa, ma non lo può fare continuando a vivere un’etica «scolastica». Deve assumere quell’etica «familiare» di cui i movimenti danno prova.
8. Conclusione:
quale apporto da parte della T eologia dell ’ evangelizzazione ?
L’ascolto dell’esperienza dei movimenti ha fatto emergere in maniera piuttosto evidente, a proposito del secondo annuncio, che, se da una parte la prassi pastorale parrocchiale e gli orientamenti dei documenti magisteriali insistono fortemente sul contenuto del kerygma e sul linguaggio che lo deve veicolare, dall’altra presentano qualche carenza nel momento in cui si tratta di suggerire delle pratiche concrete da proporre ai ricomincianti, soprattutto per quanto riguarda la dimensione relazionale, dimensione che, dal punto di vista esperienziale, più di ogni altra è in grado di
Cf., ad esempio, Conferenza episcopale italiana – Commissione episcopale per la dottrina Questa è la nostra fede: ECEI 7/2338-2422; Vescovi delle diocesi lombarde, La sfida della fede: il primo annuncio. 62
della fede, l’annuncio e la catechesi,
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comunicare quella «vita buona del vangelo» di cui parlano i nostri vescovi.63 Si avverte, quindi, l’urgenza di elaborare un modello pastorale del secondo annuncio, che mostri una propria solidità sia dal punto di vista antropologico, sia dal punto di vista teologico.64 La Teologia dell’evangelizzazione può, senza dubbio, offrire un contributo importante nell’elaborazione di quest’etica del secondo annuncio e, al tempo stesso, può trarre da questa riflessione un grande beneficio per una comprensione sempre più profonda del suo statuto epistemologico. Come è emerso dal nostro convegno, la Teologia dell’evangelizzazione, per sua natura, si sviluppa su due assi: l’asse cristologico e l’asse ecclesiologico. Possiamo affermare con una certa sicurezza che, fino a oggi, la riflessione sul secondo annuncio ha prediletto l’asse cristologico, quello relativo al kerygma – per intenderci –, mentre quello ecclesiologico, più relativo, invece, all’esperienza di vita nuova che l’annuncio evangelico offre, è stato tenuto piuttosto in secondo piano. Oggi, nella riflessione relativa al secondo annuncio, il compito della Teologia dell’evangelizzazione è proprio quello di ristabilire un certo equilibrio fra questi due assi, attuando un vero e proprio déplacement in rapporto al dibattito in corso. Dopo aver a lungo riflettuto sul kerygma, occorre ora porre al centro della riflessione la Chiesa. Che modello di Chiesa può compiere il secondo annuncio? Quale etica essa deve mettere in atto? Riflettere sull’etica del secondo annuncio significa inevitabilmente riflettere sul modello di Chiesa che attua il secondo annuncio. Compiere un secondo annuncio secondo un’etica familiare comporta, infatti, una certa comunione di vita, l’esigenza di creare piccoli gruppi di persone che insieme accettano di intraprendere un cammino di fede, la necessità di una Chiesa tutta ministeriale. Dopo aver a lungo riflettuto sul contenuto dell’annuncio, è giunto il momento di riflettere sulle modalità pratiche dell’annuncio e sul tipo di comunità che annuncia, senza, con questo, accontentarsi di relazioni psicologicamente appaganti e di ambienti rassicuranti dal punto di vista identitario, ma custodendo quella carica profetica e quella tensione missionaria esigite dal kerygma.
63 Cf. Conferenza episcopale italiana, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020 (Documenti Chiese locali 154), EDB, Bologna 2010. 64 Si tratta di partire, ad esempio, da tutti quei testi del Nuovo Testamento in cui il vocabolario utilizzato per esprimere la comunicazione della fede rimanda all’ambito familiare e domestico. Si pensi ai diversi detti di Gesù, riportati dai sinottici, dai quali è evidente che, all’interno della comunità cristiana, ci sono dei «piccoli» nei confronti dei quali è necessario avere una particolare cura (cf. Mt 18,5-6; Mc 9,37; 10,42; Lc 9,48; 17,2). Si pensi, ancora, ai discorsi di addio di Gesù, riportati da Giovanni, nei quali si insiste fortemente sulla pratica dell’amore che deve caratterizzare la vita della comunità (Gv 13,14.34-35; 15,12-17). Si pensi, infine, a un testo come 1Ts 2,7, in cui l’azione evangelizzatrice è paragonata all’amo re di una madre che nutre e cura le proprie creature. Questi riferimenti vogliono essere solo degli spunti per aprire una pista di ricerca.
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La famiglia soggetto di evangelizzazione
Massimo Cassani
Introduzione: l’autorevole
parola
degli ultimi pontefici
Sul tema di questa comunicazione, «la famiglia soggetto di evangelizzazione», a fronte di una sua sostanziale marginalità all’interno della riflessione teologica contemporanea,1 nel magistero pontificio contemporaneo si possono invece leggere affermazioni che potremmo dire «profetiche», perché teologicamente originali e forti e pastoralmente impegnative. Già Paolo VI nella Evangelii nuntiandi (1975) aveva scritto: La famiglia [cristiana], come la Chiesa, deve essere uno spazio in cui il vangelo è trasmesso e da cui il vangelo si irradia. Dunque nell’intimo di una famiglia cosciente di questa missione, tutti i componenti evangelizzano e sono
1 Colpisce constatare che ricerche teologiche su questo specifico argomento, almeno nella pubblicistica in lingua italiana, di fatto non esistono o si riducono a qualche capitolo o paragrafo all’interno di studi più generali sulla nuova evangelizzazione o sulla famiglia. Lo studio che forse più direttamente si connette col tema è il volume di L. Melina – J.B. Edart (a cura di), L’amore che fa rifiorire il deserto. Evangelizzazione, famiglia e movimenti ecclesiali, Cantagalli, Siena 2009. Si tratta di una serie di conferenze organizzate dal Pontificio istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia e successivamente pubblicate. Inoltre, il Pontificio consiglio per la famiglia, nel novembre 2010, ha promosso un congresso internazionale proprio su questo argomento, La famiglia cristiana soggetto di evangelizzazione, i cui atti però non sono stati pubblicati. Non è casuale che l’interesse al tema trovi riscontro soprattutto in organismi istituzionalmente molto vicini al magistero pontificio, la cui finalità è spesso proprio quella di favorire e promuovere l’approfondimento di tematiche a esso care.
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Massimo Cassani evangelizzati. […] E una simile famiglia diventa evangelizzatrice di molte altre famiglie e dell’ambiente nel quale è inserita.2
Ma i pontefici successivi hanno accentuato i toni. Cito solo due affermazioni di Giovanni Paolo II: La futura evangelizzazione dipende in gran parte dalla chiesa domestica.3 Chiesa santa di Dio, tu […] non puoi compiere la tua missione nel mondo, se non attraverso la famiglia e la sua missione.4
1. La
significativa testimonianza della C hiesa dei primi secoli
Che la famiglia come tale, e non solo i suoi singoli componenti, possa essere soggetto e protagonista dell’opera di evangelizzazione è non solo un’affermazione di principio o un auspicio, ma un dato esistenziale che la storia della comunità cristiana si è ripetutamente incaricata di evidenziare. A partire già dai primi secoli, anzi potremmo dire fin dall’inizio. Il bello e documentato studio di don Erio Castellucci su La Chiesa domestica dai Padri al Vaticano II5 mostra bene il ruolo rilevante giocato dalla famiglia nei primi tre secoli del cristianesimo. Gli Atti degli apostoli e le lettere paoline ci offrono molteplici esempi di case private (in epoca post-apostolica denominate domus Ecclesiae, cioè «case della Chiesa» o «della comunità») dove la comunità cristiana locale si radunava periodicamente, in particolare «il primo giorno della settimana», per insieme «spezzare il pane», pregare, ascoltare la predicazione degli apostoli o dei loro inviati, e per vivere momenti e gesti di comunione e solidarietà fra loro e con i più poveri. Fino agli albori del IV secolo d.C., l’esperienza ecclesiale si svolge perciò prevalentemente, per non dire esclusivamente, nelle case/famiglie.6 Il termine casa (oikos/oikia in greco, domus in latino) indica così la casa come edificio, ma soprattutto la famiglia, che all’epoca è una famiglia patriarcale, comprendente anche gli schiavi e i servi. E la «casa» gioca un ruolo importante nell’evangelizzazione, con l’acco-
Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi [EN] (8.12.1975), n. 71: EV 5/1688s. Giovanni Paolo II, esortazione apostolica Familiaris consortio [FC] (22.11.1981), n. 52: EV 7/1688. 4 Id., Messa per le famiglie neocatecumenali in partenza per le missioni. Omelia (30.12.1988), in http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/homilies/1988/documents/ hf_jp-ii_hom_19881230_porto-s-giorgio_it.html. 5 E. Castellucci, «La Chiesa domestica dai Padri al Vaticano II», in R. Fabris – E. Castellucci (a cura di), Chiesa Domestica. La Chiesa-famiglia nella dinamica della missione cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, 127-210. 6 Non tutte, ovviamente, ma soprattutto quelle sufficientemente grandi da poter contenere un numero considerevole di persone, ossia tutti i battezzati della città o della zona. «Le dimensioni ancora molto ridotte delle comunità cristiane e l’impossibilità per loro di disporre di luoghi pubblici per il culto facilitano il mantenimento di un ancoraggio solido dell’esperienza di fede alla “casa-famiglia”» (ivi, 135). 2 3
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La famiglia soggetto di evangelizzazione
glienza dei missionari, l’ospitalità dei cristiani nel bisogno e la testimonianza di fede dei suoi membri. Oltre al fenomeno in sé, interessanti anche alcune conseguenze, evidenziate da Castellucci, di questa strutturazione «familiare» della Chiesa delle origini. Ne richiamo due. 1) Nella medesima epoca le comunità cristiane vanno strutturandosi in maniera sempre più articolata, e si dotano di ministeri stabili e istituzionali, preposti alla guida della comunità. Tre in particolare: vescovi, presbiteri e diaconi. Ma le loro figure e la loro azione vengono spesso intese e interpretate secondo modalità «familiari», così che le relazioni interne alle comunità cristiane sono modellate su quelle della famiglia. Già nelle lettere pastorali attribuite a Paolo traspare questa tonalità familiare. Il responsabile della comunità (episcopo o presbitero) deve ispirarsi nella sua azione alla figura del padre e dello sposo esemplare, e questo è anche ciò che gli viene richiesto per poter assumere l’incarico (cf. 1Tm 3,2-5.12; Tt 1,6). «Il ritratto del candidato all’episkopê come un buono sposo e buon padre rientra nell’orizzonte di una Chiesa pensata come la “famiglia di Dio” – 1Tm 3,15 – dove il responsabile tratta “l’anziano come un padre, i più giovani come fratelli, le donne anziane come madri e le più giovani come sorelle” (1Tm 5,1-2; cf. Tt 2,3)».7 2) «Il fatto che la Domus Ecclesiae non fosse un luogo d’élite, ma fosse aperto a tutti i battezzati, faceva sperimentare nel concreto la nota sentenza paolina di Gal 3,27-288 […]. Nelle Chiese domestiche si incontravano fianco a fianco, pregavano assieme, celebravano e discutevano: “giudei e greci”, ossia cristiani provenienti dall’ebraismo e altri dal paganesimo; “uomini e donne”, poiché le comunità domestiche erano ovviamente miste e, anzi, spesso guidate e organizzate da donne dato il legame stretto tra donna e casa; “schiavi e liberi”, poiché se già la oikia/domus era una famiglia di sangue allargata, la Domus Ecclesiae comprendeva
7 Ivi, 105-106. Anche per i diaconi sono indicati, come tratti esemplari, due aspetti di ordine familiare: «Siano mariti di una sola donna e capaci di guidare bene i figli e le proprie famiglie» (1Tm 3,12). La medesima prospettiva si ritrova anche negli scritti cristiani dei primi secoli. Ignazio, ad esempio, nelle sue lettere, presenta il vescovo come una specie di paterfamilias attorniato dai presbiteri che abitano con lui, lo consigliano e lo aiutano nella predicazione, e dai diaconi che invece lo aiutano nel servizio. «Non è escluso – commenta Castellucci – che Ignazio, tratteggiando i tre ministeri, pensi proprio alla famiglia allargata, così come era concepita in quell’epoca: oltre al vescovo-paterfamilias, vi sono i presbiteri-figli, fratelli tra di loro, che lo aiutano nella conduzione della vita familiare, e i diaconi-servi, che portano avanti le attività pratiche e organizzano il lavoro di cui necessita la casa» (ivi, 135). E così conclude: per i primi tre secoli dell’era cristiana, dunque, «le dimensioni delle prime comunità cristiane sono di carattere domestico. La loro organizzazione è quella tipica della casa. Il responsabile della comunità è un padre di famiglia. Un ruolo importante per l’accoglienza e l’ospitalità è riservato alle donne di casa» (ivi, 120s). 8 «… Poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».
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battezzati di tutti gli strati sociali – cittadini o schiavi, ricchi o poveri, intellettuali o illetterati – che si riconoscevano nella comune categoria teologica di “fratelli”. Fu dunque nelle Chiese Domestiche che maturò a poco a poco la coscienza di una vera “uguaglianza” di fondo tra tutti i battezzati, a qualunque etnia, sesso, condizione sociale appartenessero. […] Dalla relazione interpersonale, e non solo dalla riflessione, emerse questa “rivoluzione” […] sarà proprio l’agape, vissuta dentro le relazioni tra cittadini e stranieri, tra uomo e donna, tra schiavi e liberi, a corrodere gradualmente dall’interno le ingiuste strutture, creando quella consapevolezza della fondamentale uguaglianza di tutti gli esseri umani, che è uno dei regali più apprezzati del Cristianesimo all’umanità. Ora: questo regalo è stato preparato, sperimentato e confezionato proprio all’interno delle Chiese Domestiche».9 In sintesi: la famiglia era il paradigma e il centro di organizzazione e di attività della comunità ecclesiale. La situazione si modificò però in seguito alla pace costantiniana (IV secolo). Le mutate esigenze pastorali, derivanti dal massiccio ingresso nella comunità ecclesiale di ampi strati di popolazione, prima pagana, determinarono un cambiamento rilevante anche nelle strutture ecclesiali. Nascono le parrocchie, che assorbono in gran parte le funzioni fino ad allora svolte dalle comunità riunite nelle case/famiglia (domus Ecclesiae) e ne determineranno ben presto la scomparsa. A poco a poco, correlativamente allo sviluppo delle parrocchie, le case saranno sempre meno luoghi significativi di esperienza cristiana.10 Tuttavia, alcuni grandi Padri come Crisostomo e Agostino tentarono di mantenere viva l’idea della Ecclesia domestica, intesa però non come Domus Ecclesiae ma come «piccola Chiesa», luogo in cui si favoriva un’educazione cristiana che veniva poi portata avanti nelle parrocchie.11
Castellucci, «La Chiesa domestica dai Padri al Vaticano II», 147-149. Scrive Castellucci: «Per questo si può parlare di un compito ormai solamente “propedeutico” della casa rispetto alla parrocchia: i genitori, in particolare, devono favorire la formazione cristiana dei figli, che però essi riceveranno nel centro parrocchiale. Prende avvio a poco a poco una prassi pastorale che non solo prescinde dalla “casa-famiglia” come luogo di formazione cristiana, ma rischia di prescindere persino dalla “famiglia” come soggetto ecclesiale; la famiglia appare piuttosto come l’ambito dal quale “pescare” volta per volta i diversi soggetti della pastorale parrocchiale: i bambini da battezzare, i fanciulli da catechizzare, i giovani da sposare e, almeno i migliori, da impiegare come catechisti e collaboratori, gli uomini a cui chiedere i vari servizi più adatti ai maschi e le donne quelli più adatti alle femmine, i malati e gli anziani da assistere, i morti da seppellire. Ovviamente in questa pastorale si riconoscono tratti preziosi, come l’attenzione a tutte le fasce d’età e alle diverse condizioni, ma si corre il rischio di “vivisezionare” la famiglia, trattandola da “insieme di battezzati” ma trascurando le potenzialità del sacramento del matrimonio in quanto tale» (ivi, 158s). 11 Ivi, 151s. 9
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2. La
famiglia soggetto di evangelizzazione in epoche di persecuzione
Malgrado la progressiva emarginazione della dimensione familiare dal IV secolo in poi, il ruolo della famiglia nell’opera di evangelizzazione non si è irrimediabilmente perduto. È a tutt’oggi diffusa la consapevolezza di quanto incida sull’identità e la formazione cristiana di tante persone l’educazione ricevuta in famiglia fin dai primi anni dell’infanzia. Ma non è solo questo. L’esperienza della famiglia quale soggetto attivo di evangelizzazione, non solo ad intra, cioè per i componenti lo stesso nucleo familiare, ma pure ad extra, si è ripresentata più volte nella storia e nella vita della Chiesa, soprattutto nei momenti di difficoltà e persecuzione. Forse non esplicitamente tematizzata, ma come realtà di fatto, nascosta e sotterranea, che però, all’occorrenza, riprende vigore, si manifesta e dà frutti decisivi. Lo prova la vicenda di tante comunità cristiane locali che, in epoche diverse, in momenti comunque critici della loro storia, con strutture ecclesiali istituzionali deliberatamente impedite o perseguitate dalle autorità politiche, sono riuscite a tenere viva la fiamma della fede cristiana proprio grazie alla presenza di famiglie che, nella clandestinità, correndo serissimi rischi e talora a prezzo di veri e propri martiri, fino all’effusione del sangue, hanno reso splendida testimonianza a Cristo Signore e operato affinché il vangelo continuasse a essere annunciato anche a parenti, conoscenti, colleghi di lavoro. Cito un esempio. Nel già menzionato volume L’amore che fa rifiorire il deserto. Evangelizzazione, famiglia e movimenti ecclesiali, nelle ultime pagine, è riportata la significativa testimonianza di due coniugi rumeni, Anton e Maria Gotia, che, nel secondo dopoguerra, ai tempi della dittatura comunista, hanno visto la loro fede e comunità ecclesiale, la Chiesa greco-cattolica rumena di rito bizantino, sciolta d’autorità e forzatamente «annessa» alla comunità ortodossa. Scrivono: Lo scopo dei comunisti era […] di distruggere la Chiesa. Speravano di riuscire in tale intento attraverso la soppressione della gerarchia, lo scioglimento delle parrocchie e di tutte le strutture, e attraverso la confisca del patrimonio. Effettivamente, le diocesi sono state decapitate, le parrocchie hanno cessato di esistere, il patrimonio è stato accaparrato dallo Stato e offerto per la maggior parte alla Chiesa Ortodossa, comprese tutte le chiese, le scuole confessionali, le biblioteche, le accademie di teologia e gli ospedali. Allo stesso tempo, gli ordini religiosi sono stati sciolti. Con l’eliminazione fisica dei cinque vescovi e di decine di preti nelle prigioni, con lo sterminio dell’élite culturale e politica del paese, assieme alla sottrazione di qualsiasi mezzo di sussistenza, lo scopo dei comunisti sembrava raggiunto. Nelle città e nei villaggi si è svolta una campagna incessante per obbligare i preti e i fedeli a passare alla Chiesa Ortodossa. Regnava una grande paura, poiché non c’era nessuna famiglia senza almeno un membro, un parente lontano oppure un amico in prigione. Gli interrogatori della Pubblica Sicurezza erano duri, brutali e senza risparmio,
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Massimo Cassani e si ripercuotevano anche sugli altri membri della famiglia, che perdevano il loro lavoro, restando senza sostentamento e spesso anche senza alloggio.12
È una testimonianza scioccante, specie per noi cattolici italiani che queste cose non le abbiamo mai sperimentate. Ma subito dopo aggiungono: «Malgrado le persecuzioni, il piccolo resto del Popolo di Dio è miracolosamente sopravvissuto».13 Grazie a cosa? I coniugi Gotia rispondono che si è trattato indubbiamente e primariamente di un dono di Dio. Dono che non può essere impedito dai suoi nemici. Ma che passa sempre attraverso delle mediazioni umane. E infatti vi sono quattro pilastri sui quali si è appoggiata la vita della Chiesa durante il tempo della clandestinità [e] hanno permesso che la fede si conservasse, si trasmettesse e portasse frutto. Questi pilastri sono: le famiglie, i preti, le persone consacrate e le comunità costituite intorno a loro.14
Non sto qui a presentare quanto viene raccontato nel seguito. Rimando alla lettura dell’articolo. Solo sottolineo il ruolo fondamentale svolto in vari modi dalle famiglie (quelle, ovviamente, che hanno scelto di non rinnegare la loro fede): hanno accolto e nascosto i preti che non accettavano di passare all’ortodossia («quando questi preti venivano scoperti e incarcerati, anche a molti dei membri di queste famiglie toccava la stessa sorte», scrivono i Gotia), hanno loro permesso di celebrare nelle loro case, clandestinamente, i sacramenti, in particolare l’eucaristia e il battesimo, e, così facendo, hanno raccolto intorno al loro focolare coloro che non volevano rinnegare la fede. Si è così ripetuta, a secoli di distanza, la situazione delle domus Ecclesiae dei primi tempi.
3. Fondazione
teologica della soggettività della famiglia
Nasce però a questo punto spontanea una domanda: la famiglia può espletare un ruolo attivo nell’annuncio del vangelo ad extra solo quando si verifichino situazioni di emergenza? Se così fosse, si dovrebbe parlare di essa come fattore sussidiario e suppletivo nell’evangelizzazione rispetto a clero e consacrati. Ma, teologicamente, non è, non deve essere così. Se la famiglia, come dice il concilio Vaticano II, ripreso poi in documenti pontifici posteriori, è «chiesa domestica» (cf. Lumen gentium, n. 11: EV 1/314; FC 21; Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1656), o «piccola chiesa» o «chiesa in miniatura» (cf. FC 49), e se, come dice Paolo VI, «evangelizzare è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più
Melina – Edart (a cura di), L’amore che fa rifiorire il deserto, 136s. Ivi, 137. 14 Ivi, 138. 12 13
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profonda. Essa esiste per evangelizzare»,15 allora anche la piccola «chiesa domestica» non potrà avere finalità differente. Anzi, è proprio la natura stessa della famiglia fondata sul matrimonio che, come tale, la rende protagonista e strumento privilegiato di evangelizzazione. Provo a chiarire questo punto decisivo. La formula «famiglia Chiesa domestica» non è solo il ricorso a un’immagine suggestiva e pia, ma tocca l’identità stessa delle due realtà coinvolte e chiama ad approfondire la natura della famiglia nella sua relazione con la Chiesa. Perché la coppia di sposi, costituita «Chiesa domestica», non è più solo immagine della Chiesa, ma è essa stessa realtà ecclesiale. Che cosa la rende tale? La Chiesa, così la definisce Lumen gentium fin dal n. 1, è «come sacramento, ossia segno dell’intima comunione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». Questa natura relazionale/comunionale della Chiesa conduce al riconoscimento della dimensione ecclesiale della famiglia, giacché, secondo la rivelazione biblica, la coppia uomo/donna è la struttura comunionale più originaria che esista nella natura umana.16 Nella comunione interpersonale che si crea tra i suoi membri è possibile fare «in piccolo» l’esperienza ecclesiale della comunione con Dio e fra gli uomini. Per questo, dice Familiaris consortio, la famiglia costituisce «una rivelazione e un’attuazione specifica della comunione ecclesiale» (n. 21), e può addirittura essere definita una «Chiesa in miniatura» (n. 49). A questo dato, offerto dal più antico racconto biblico della creazione (Gen 2), Gen 1 (racconto più recente) ne aggiunge un altro, teologicamente rilevantissimo: l’archetipo di questa relazione duale/comunionale
EN 14: EV 5/1601. Secondo Gen 2,18, infatti, l’uomo non è creato da YHWH per vivere solo: ciò non sarebbe «bene». Dio lo ha creato essenzialmente relazionale. E tale relazionalità caratterizza tutto l’uomo e non solo la sua genitalità. In realtà, sempre stando al racconto di Gen 2, anche prima della creazione della donna l’uomo non è solo. Al v. 19 viene raccontata la creazione di «ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo», al v. 9 quella di «ogni sorta di alberi», e in 3,8 si dice che Dio «passeggiava nel giardino [dove abitava l’uomo] alla brezza del giorno». Dunque l’uomo è immerso in una miriade di presenze e gode dell’amichevole presenza di Dio. Ma ciò non basta. L’uomo ha bisogno di entrare in rapporto con un ezer kenegdo (vv. 19-20), espressione ebraica che la CEI traduce con «aiuto simile a lui» o «che gli corrisponda». Il termine ebraico ezer significa principalmente «aiuto», ma può anche significare, a seconda dei contesti, «sostegno», «favore», «salvezza». Indica qualcuno o qualcosa di cui ci si può fidare e in cui si può trovare sicurezza. Attesta, in concreto, l’essenziale «povertà» di ogni individuo, la sua non autosufficienza. L’aiuto, però, l’uomo lo può materialmente ricevere anche dagli animali (ad es. nel lavoro). Ma l’uomo ha bisogno di un aiuto kenegdo, parola composta che, tradotta alla lettera, significa «come di fronte a lui» e che include due concetti (resi anche dalla traduzione italiana): 1) somiglianza, corrispondenza, pari dignità; 2) complementarità, integrazione nell’alterità, non solo fisica, ma personale e dialogica. La derivazione del termine dalla radice nagad (che può avere molteplici significati: «parlare», «annunciare», «comunicare», «rivelare», «svelare», «scoprire», «interpretare») mostra come, nell’ottica del racconto, la donna è per l’uomo non soltanto un aiuto per il lavoro o per la riproduzione, ma una compagna, una partner che fa da specchio all’uomo, gli rivela il suo io e dialoga con lui. Questa sottolineatura della donna come uguale e complementare all’uomo fatta da Gen 2 è un fatto unico in tutta la letteratura dell’antico Medio Oriente. 15 16
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è trascendente: uomo e donna insieme, infatti, costituiscono l’«immagine di Dio» (Gen 1,27). Scrive Giovanni Paolo II nella Lettera alle famiglie: Il modello originario della famiglia va ricercato in Dio stesso, nel mistero trinitario della sua vita. Il «Noi» divino costituisce il modello eterno del «Noi» umano; di quel «Noi» innanzitutto che è formato dall’uomo e dalla donna, creati a immagine e somiglianza divina.17
Ed è questa stessa realtà comunionale e feconda uomo/donna, che il Signore Gesù ha assunto e, per i battezzati che si sposano, ha elevato alla dignità di sacramento, cioè di segno efficace della sua unione d’amore con la Chiesa. Per completare il quadro, ci sono però altri due elementi da tenere in considerazione. 1) Il fatto che questo sia il disegno di Dio sulla coppia/famiglia umana non comporta alcun determinismo o automatismo. Perché, come fanno rilevare vari biblisti, l’essere «davanti» o «di fronte» dell’uomo e della donna in Gen 2 può essere interpretato, oltre che come reciprocità, anche come un essere «contrapposto», o quanto meno come un essere capace di «tener testa», di «reggere il confronto». L’espressione kenegdo denota cioè un tipo di relazione che può esprimere sia l’intesa reciproca, quindi la capacità di accoglienza e di donazione, che il conflitto generato dalla tensione fra due realtà che si respingono o vivono un rapporto sbilanciato, col prevalere dell’uno/a sull’altro/a.18 2) La presenza e incidenza nel mondo e nella storia umana del peccato e delle sue conseguenze (prime fra tutte la concupiscenza, cf. Gen 3) fa sì che la relazione coniugale/familiare necessiti della grazia divina per germogliare e crescere. Il disegno creativo divino e il dono sacramentale in Cristo per lo Spirito Santo, pertanto, fondano e costituiscono il valore intrinseco e permanente del matrimonio e della famiglia. Ma l’esito esistenziale di ogni singola realtà ed esperienza coniugale/familiare dipende in modo sostanziale anche dall’apertura alla grazia sacramentale e dalla qualità positiva o negativa (nel senso dell’amore come donazione e servizio reciproco) delle concrete scelte e azioni che uomini e donne sposati, genitori e figli compiono. Varie le conseguenze teologiche che se ne possono trarre. Ne colgo quattro, che esprimo per punti.
Giovanni Paolo II, lettera alle famiglie Gratissimam sane (2.2.1994), n. 6: AAS 86(1994)1, 874. 18 La tradizione rabbinica ha ben compreso e sottolineato tale duplicità. Dice infatti un testo del Talmud: «Chi non ha moglie vive senza bene, senza gioia, senza benedizione, senza Torah, senza muro di protezione, senza aiuto, senza espiazione, senza pace, senza vita» (Midrash Rabbah 17,2). Ma un altro aggiunge: «Se l’uomo la [donna] merita, ella è un aiuto, diversamente ella è contro di lui». E così spiega: «Perché la Torah descrive la moglie come “opposta” all’uomo? Questo termine indica che se ne sarà degno, la moglie sarà d’aiuto all’uomo; in caso contrario, diventerà una sua nemica». 17
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1) La soggettività specifica degli sposi, anche in ordine all’evangelizzazione, non è identificabile/riducibile alla sola ministerialità dei laici che scaturisce dal battesimo. Non che questa non sia importante. Ma i coniugi nella Chiesa non sono semplicemente due «laici» che, tra le altre cose, sono «anche» sposati. La loro relazione, il loro «essere una carne sola», la loro chiamata (perché di autentica vocazione si tratta) a formare in Cristo non più solo un «io» e un «tu» ma un «noi», costituiscono un dono e assegnano loro un ruolo e un compito specifico nella Chiesa. 2) Di riflesso, l’originalità della grazia sacramentale delle nozze è che viene data alle due persone degli sposi non in quanto «singoli» ma in quanto in relazione fra loro, e concerne la stessa loro «relazione». Più precisamente, «la grazia non è data loro per metterli in comunione con Cristo, perché già lo sono in virtù del sacramento del battesimo, ma per rendere presente nella loro relazione il rapporto d’amore che unisce Cristo alla Chiesa e per fare del loro amore un soggetto diffusivo e comunicativo della relazione Cristo-Chiesa. […] Lo Spirito Santo, come sigilla il legame di Cristo con la Chiesa, così trasforma gli sposi in con-vocati, con-chiamati a “dire”, proprio attraverso il loro vissuto coniugale, questo stesso legame Cristo-Chiesa».19 3) Potremmo allora affermare che, in un certo senso, la famiglia è già in se stessa, per volontà di Dio, un «vangelo» vivente, una buona notizia, perché immagine di Dio Trinità e segno dell’amore di Cristo per la Chiesa. E questa è anche la specificità del contributo che essa, come famiglia, può dare all’evangelizzazione. Perché l’evangelizzazione si fa certamente con l’annuncio verbale dei mirabilia Dei compiuti dal Padre in Cristo per lo Spirito. Ma la prima e più autentica evangelizzazione è quella operata con la testimonianza della vita. Ora, una famiglia in cui l’amore e il servizio reciproco, insieme alla fede in Dio, siano quotidiana regola di vita e cammino di perfezione perseguito insieme è già in se stessa una testimonianza viva e credibile del vangelo, visibile a tutti, anche se non da tutti compresa o accettata, scritta dallo Spirito di Dio non su fogli di carta ma dentro i cuori e le vite. Come dice il documento della CEI Comunione e comunità nella Chiesa domestica, «la fede scopre e contempla, con umile e gioiosa gratitudine, il mistero stesso della comunione di Dio con l’umanità e con la Chiesa “dentro” il tessuto quotidiano dell’esperienza di comunione propria della coppia e della famiglia cristiana».20 La famiglia, pertanto, per evangelizzare, non ha bisogno innanzitutto di «fare» delle cose, partecipare ad attività promosse dalla comunità parrocchiale o da movimenti e associazioni di riferimento (gruppi-sposi, catechismo, anima-
19 R. Bonetti, Chiesa-famiglia: verso una nuova evangelizzazione. Scuola di evangelizzazione (in vista della formazione delle comunità familiari di evangelizzazione), 12 (testo in http://www.parrocchiabovolone.it/public/mat/file/Scuola%20Evangelizzazione%20Libro/ Libro%20cfe%20completo.pdf). 20 Conferenza episcopale italiana, documento pastorale Comunione e comunità, II: Comunione e comunità nella Chiesa domestica [CCCD] (1.10.1981), n. 10: ECEI 3/718.
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zione di gruppi di giovani e/o giovanissimi, servizi caritativi a poveri, anziani, malati, momenti ricreativi, preparazione di fidanzati al matrimonio). La famiglia evangelizza anzitutto cercando di essere se stessa e di vivere in conformità al dono ricevuto col sacramento del matrimonio.21 4) Tutto questo non significa però l’autonomizzazione o, peggio, l’assolutizzazione dell’identità/esperienza coniugale/familiare, anche sul piano dell’evangelizzazione, rispetto all’identità/esperienza ecclesiale. Il testo della CEI del 1981 offre in proposito due precisazioni importanti: – la prima riguarda la conditio sine qua non affinché una famiglia possa essere chiamata ed essere realmente Chiesa domestica: «La famiglia cristiana, in quanto Chiesa domestica, è partecipe della comunione ecclesiale solo per l’amorosa e gratuita iniziativa di Dio. La radice ultima da cui scaturisce e a cui continuamente si alimenta la comunione della coppia e della famiglia cristiana, non sta dunque nell’amore dell’uomo verso la donna e viceversa, e neppure nell’amore reciproco tra genitori e figli: sta nel dono dello Spirito Santo effuso con la celebrazione del sacramento del matrimonio»;22 – la seconda concerne i limiti della realtà/famiglia rispetto alla realtà/ Chiesa: «La famiglia cristiana […] rivela e rivive il mistero della Chiesa soltanto in alcuni suoi aspetti e non in tutti. In particolare la Chiesa domestica ha bisogno per esistere e per vivere la propria identità di comunione-comunità cristiana dell’eucaristia e del ministero dei pastori che annunciano il Vangelo e il comandamento del Signore: per questo la famiglia cristiana, mentre è inserita nella Chiesa, si apre a tutto il mistero della Chiesa di Cristo e solo così può vivere in pienezza la grazia della comunione. Sta qui la ragione dell’essenziale “relativizzazione” della famiglia cristiana alla Chiesa. La qualifica di “Chiesa domestica” data alla famiglia cristiana è da intendersi perciò in senso analogico: dice sì il suo inserimento e la sua partecipazione, ma anche la sua “inadegua-
21 Per dirla con Giovanni Paolo II: «La famiglia cristiana è chiamata a prendere parte viva e responsabile alla missione della Chiesa, in modo proprio e originale, ponendo cioè a servizio della Chiesa e della società se stessa nel suo essere e agire, in quanto intima comunità di vita e d’amore» (FC 50: EV 7/1681). La sempre più diffusa coscienza delle famiglie cristiane circa la loro identità e missione ha riflessi positivi non solo sulla vita interna delle parrocchie e delle diocesi, ma pure sul piano della missione universale della Chiesa. Diceva papa Giovanni Paolo II in occasione della beatificazione dei coniugi Beltrame Quattrocchi: «Nel nostro tempo sono sempre più numerose le famiglie che collaborano attivamente all’evan gelizzazione, sia nella propria parrocchia e diocesi, sia condividendo la stessa missione ad gentes» (Id., Angelus, 21.10.2001, in http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/ angelus/2001/documents/hf_jp-ii_ang_20011021_it.html). E Kiko Argüello, nella testimonianza resa su «la comunità familiare al servizio dell’evangelizzazione» nell’esperienza del Cammino neocatecumenale (cf. Melina – Edart [a cura di], L’amore che fa rifiorire il deserto, 118-123), parla di migliaia di famiglie che, dal 1988, hanno lasciato il Paese d’origine e sono partite per andare in missione in terre lontane e dove spesso il vangelo non è conosciuto o, peggio, è combattuto. E, con grande franchezza, evidenzia la novità e il valore di tale testimonianza, ma pure la sua estrema difficoltà e lentezza nel generare frutti. 22 CCCD 8: ECEI 3/716.
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tezza” a manifestare e a riprodurre, da sola, il mistero della Chiesa in se stesso e nella sua missione di salvezza».23 Dunque nessuna soggettività della famiglia nell’opera di evangelizzazione senza la Chiesa, fuori della Chiesa o contro di essa.
4. Una concreta proposta di « famiglia soggetto di evangelizzazione » Come dare concreta attuazione pastorale a questa identità/soggettività della famiglia nell’opera di evangelizzazione? Varie proposte e iniziative sono sorte in questi ultimi anni da parte di organismi ed enti cristiani attivi nella pastorale familiare o comunque sensibili e attenti verso il «pianeta famiglia». Mi riferisco sia a movimenti, gruppi e associazioni, sia a parrocchie e diocesi. Qui mi limito a citarne una, che a me pare molto significativa e che è presente anche nella diocesi di Bologna: le Comunità familiari di evangelizzazione (CFE). Hanno in mons. Renzo Bonetti, già direttore dell’Ufficio famiglia nazionale della CEI, il loro ideatore e principale promotore e la loro origine più prossima nel «Progetto parrocchia-famiglia», un laboratorio pastorale promosso dalla stessa CEI negli anni 2001-2006.24 Si basa su una duplice convinzione di fondo: che l’evangelizzazione oggi sia compito estremamente necessario e urgente,25 e che in essa la
CCCD 6: ECEI 3/713. Tutte le informazioni circa le CFE, e soprattutto il testo guida per la loro formazione, si possono trovare e scaricare dal sito della parrocchia di Bovolone (diocesi e provincia di Verona) già indicato sopra alla nota 19, oppure dall’altro sito http://www.misterogrande.org. 25 Interessante, e per certi versi impietosa, l’analisi che Bonetti fa della situazione attuale della nostra pastorale in rapporto all’evangelizzazione. «È sotto gli occhi di tutti – egli scrive nel testo che funge da guida per la formazione delle CFE – il fatto che oggi le nostre parrocchie, salvo alcune eccezioni, fanno una grandissima fatica a convertire nuove persone a Cristo. L’impostazione pastorale delle nostre comunità parrocchiali, infatti, si riduce sostanzialmente a “mantenere le posizioni”, perché protesa unicamente a tenere viva la pratica della fede in coloro che già partecipano alle attività parrocchiali», così che, di fatto, esse spesso si trovano «nell’impossibilità di proporsi a quanti non si presentano alle convocazioni promosse dal parroco o dai gruppi ecclesiali». D’altra parte, «è convinzione comune che, se si riesce a “sfamare” sufficientemente coloro che frequentano la parrocchia, costoro saranno poi in grado di vivere un’autentica vita cristiana e testimoniare così la fede ai non credenti. Tuttavia i risultati non sono confortanti». La fede in Cristo dei praticanti «certamente si mantiene, ma rimane privata e intimistica. Tanto che […] se ai credenti delle nostre parrocchie risulta ovviamente connaturale partecipare a delle celebrazioni e fare opere di carità, risulta, invece, “innaturale” non solo evangelizzare i non credenti che essi conoscono, ma anche parlare della propria fede con i figli o con altri credenti. Tutto questo […] deriva da un’impostazione pastorale che concepisce l’identità del cristiano solo come, potremmo dire, “uno stare il più vicino possibile a Gesù”», mentre «l’identità del cristiano è sì stare con Gesù ma per poi annunciarlo». Ci convinciamo che la fede, e i sacramenti che la nutrono, servano «esclusivamente per darci una “carica” spirituale nell’affrontare la vita», mentre «per far 23 24
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famiglia abbia, come già detto, un suo specifico ruolo da svolgere, non solo collaborando alle attività in parrocchia, ma cercando di rendere sempre più se stessa «chiesa domestica» o «piccola chiesa». In che modo? Con la testimonianza della comunione intra-familiare, che rende la famiglia un’autentica comunità di vita e d’amore, ma anche mettendo a frutto la fitta rete di conoscenze e relazioni che ogni famiglia naturalmente crea e gestisce (parenti, amici, colleghi di lavoro, compagni di scuola dei figli e loro famiglie, vicini di casa, conoscenti ecc.), affinché possa diventare luogo e canale effettivo di annuncio e trasmissione del vangelo. Per sua natura, infatti, la famiglia è immersa nel mondo e in relazione anche con tanti che non sanno o non vogliono saperne dell’amore di Dio in Cristo. Questa sua capacità naturale di generare relazioni e di condividere l’esistenza con le persone che la attorniano la rende strumento privilegiato di evangelizzazione.26 Ed è qualcosa che potrebbe avvenire con grande naturalezza, perché chi ha già incontrato e sperimentato in Gesù la gioia di scoprirsi amato e perdonato da Dio, è spontaneamente portato a indirizzare il primo annuncio del vangelo ai propri familiari e a tutti coloro che gli sono più cari o più vicini nel suo ambiente di vita. L’obiettivo è dunque «fare della Chiesa domestica la porta di accoglienza per nuovi fratelli, per introdurli nella vita della Chiesa o rianimarli, qualora fossero membri stanchi o delusi»,27 così da far conoscere Cristo e portare a lui
crescere la fede non si deve solo alimentarla ma è necessario comunicarla, donarla» (Bonetti, Chiesa-famiglia: verso una nuova evangelizzazione, 5). Con un’ulteriore avvertenza: che «spesso noi dividiamo le persone in “adatte” a ricevere l’annunzio del vangelo e in “non adatte”. Riteniamo impossibile che quella determinata persona possa accogliere il vangelo. Ma il seminatore della parabola semina il seme ovunque (cf. Lc 8,4-8): non sta a noi decidere se un terreno è pronto per ricevere il seme, a noi compete solo di seminare ovunque. Anzi, le persone che sembrano più lontane per sofferenze e gravi problemi di vita, hanno ancor più bisogno di ascoltare l’annuncio dell’Amore di Dio, della salvezza e del perdono di Gesù. Nessuno può essere escluso dal nostro amore e dal nostro annuncio, perché Gesù vuole amare tutti» (ivi, 17). Conclusione: «Le nostre parrocchie devono necessariamente passare dal “venite” all’“andate”. E dal “vai tu” all’“andiamo tutti”». Solo così prenderemo coscienza tutti insieme del «chi siamo: il “popolo degli inviati”, la luce e il lievito del mondo» (ivi, 6). 26 Scrive al riguardo mons. Bonetti: «Una rete relazionale si potrebbe definire come quel gruppo di persone che ha regolari rapporti perché, gravitando per parentela, amicizia o altro attorno a un nucleo, generalmente rappresentato dalla casa di una coppia di sposi, condivide lo stesso ambiente di vita […]. È logico che una comunità cristiana, nonostante la grande volontà di evangelizzare i “lontani”, sia destinata a fallire nel suo intento se pensa di raggiungerli senza utilizzare le reti relazionali nelle quali sono inseriti. È un “non senso” sia per il parroco che per i laici. Al sacerdote, infatti, viene chiesto l’impossibile. Si sente dire che “non si può annunciare la fede se non c’è rapporto umano”, dunque egli dovrebbe riuscire a conoscere e diventare amico di tutti i “lontani” della sua parrocchia. Per il laico, il non senso è costituito dal fatto che da una parte egli condivide la sua vita quotidiana con i “suoi”, tra i quali ci sono pure molti “lontani” dalla fede, e dall’altra ogni domenica sta con dei “fratelli” dei quali, soprattutto se frequenta una grande parrocchia, per lo più non conosce i loro nomi. […] Il luogo per portare “a ogni creatura” il vangelo non può che essere la vita di tutti i giorni […]. Se già si condivide tempo e parole con “quella” persona, allora si è proprio colui/colei che questa persona “attende” per essere accompagnata all’incontro con Dio» (ivi, 28). 27 Ivi, 3.
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non tanto e non solo le persone che già in lui credono e praticano, ma in primo luogo proprio coloro che, all’interno del proprio ambiente di vita e di relazioni, da lui più sono lontani e/o indifferenti, per qualsiasi motivo. Con un’ulteriore, acutissima osservazione: che valorizzando le relazioni esistenti, non si va a evangelizzare, ma si evangelizza mentre si va: «e strada facendo, predicate che il Regno dei cieli è vicino» (Mt 10,17). Il comando di Gesù non è quello di fare tanta strada, ma di predicare il Regno dei cieli mentre si percorre la strada della vita.28
Senza tuttavia costringere nessuno, né preoccupandosi di indottrinare, ma cercando innanzitutto di portare a Cristo attraverso la propria testimonianza, insieme «personale» e «familiare», a cui aggiungere sempre il ricordo costante nella preghiera. Il comando di Mt 10,17 vale ovviamente per tutti i battezzati, indipendentemente dal fatto di essere sposati o meno. Ma la famiglia cristiana, in forza del sacramento del matrimonio che la fonda e delle grazie dello Spirito Santo che la animano, può costituire un luogo e un testimone privilegiato del vangelo e del suo messaggio fondamentale: l’amore di Dio uno e trino. Le modalità attraverso cui giungere a questo sono varie: la testimonianza della propria personale esperienza di fede, che implica un iniziale esplicito annuncio di Gesù e della sua opera di salvezza; la costituzione, all’interno della parrocchia, di gruppi di evangelizzazione che si incontrano nelle case delle famiglie e che comprendono persone appartenenti all’ambiente di vita e di relazioni della famiglia stessa; attraverso incontri periodici, la graduale introduzione e educazione alla preghiera, alla messa domenicale, all’adorazione eucaristica; la lettura e meditazione insieme della parola di Dio; il servizio; l’accompagnamento personalizzato; l’accoglienza dei nuovi fratelli in Cristo; la scoperta/esperienza dei doni dello Spirito.29 Questa delle CFE è, ovviamente, una fra le tante possibili modalità di rendere la famiglia, come appunto chiedeva il titolo di questa relazione, «soggetto di evangelizzazione», senza alcuna pretesa di esclusività. Presenta però il vantaggio di essere giustificata teologicamente, strutturata in modo sistematico e proposta a tutta la Chiesa, così da consentire a qualunque parroco o comunità parrocchiale siano interessati di poterla esaminare ed eventualmente adottare, adeguandola alle proprie particolari esigenze.
28 Ivi, 29. Perché, continua Bonetti, «non si tratta di andare appositamente da qualcuno per evangelizzarlo (neppure i missionari lo fanno: prima infatti condividono la vita della gente e poi danno ragione della speranza cristiana), ma di utilizzare “strada facendo” (mentre percorri il tuo cammino ordinario di vita), le occasioni che ti vengono presentate dalle relazioni che vivi». 29 Per ulteriori, più precise e dettagliate informazioni circa il percorso, le sue modalità e le sue tappe, non potendo qui dilungarci oltre, rinviamo ai testi sopra indicati.
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Un apologo della teologia asiatica racconta la storia di un aviatore, che – partito dall’Europa verso i cieli dell’Asia – per guasti al motore ha dovuto catapultarsi con il paracadute, che poi finisce per impigliarsi su una enorme pianta in una selva sconfinata del continente asiatico. Dopo una lunga attesa l’incauto aviatore intravede in lontananza un passante, al quale grida: «Dove sono?». E il passante di rimando gli grida: «Sei su un albero». Era vero, ma poco significativo per lui. La risposta non era un vero aiuto a orientarsi: l’avventura continuava.1
Il racconto – riportato da Rosino Gibellini a commento di un breve testo di Ad gentes – ha uno scopo teologico e intende avvertire il missionario cristiano, che si reca in Asia o in altri Paesi, a deporre il complesso occidentale di superiorità portando un’evangelizzazione che dica la verità del vangelo in modo significativo per la vita di quei popoli, nel loro contesto linguistico, culturale e sociale. È il tema che va sotto il nome di «inculturazione», un processo – come lo hanno descritto i vescovi africani nel primo sinodo sull’Africa (1994) – mediante il quale «la catechesi “s’incar na” nelle differenti culture» e che «ingloba tutti gli ambiti della Chiesa e dell’evangelizzazione: teologia, liturgia, vita e struttura della Chiesa».2 Compito prioritario e urgente ma anche difficile e delicato, in quanto
1 R. Gibellini, in M. Vergottini (a cura di), Perle del Concilio. Dal tesoro del Vaticano II, EDB, Bologna 2012, 320. Il testo viene riportato a commento di un passaggio contenuto in Concilio ecumenico Vaticano II, decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes [AG] (7.12.1965), Sessione IX, n. 26: «Chiunque sta per recarsi presso un altro popolo, deve stimare molto il patrimonio, le lingue e i costumi» (EV 1/1179). 2 Giovanni Paolo II, esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa (14.9.1995), nn. 59.62: EV 14/3103.3110.
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Pier Luigi Cabri
l’inculturazione pone in questione la fedeltà della Chiesa al vangelo e alla tradizione apostolica nell’evoluzione costante delle culture. L’apologo asiatico in fondo intende affermare che «l’evangelizzazione non può essere paracadutata». L’inculturazione richiede attenzione, prudenza e creatività, non esistono formule predeterminate, non c’è un solo modello a cui attenersi. Lo ricordava Paolo VI quando, parlando ai popoli africani, disse che si professa l’unica fede secondo la propria lingua, il proprio stile e il proprio genio: Avete valori umani e forme caratteristiche di cultura che possono assurgere a una loro perfezione, idonea a trovare nel cristianesimo e per il cristianesimo una genuina e superiore pienezza, e quindi capace di avere una ricchezza d’espressione sua propria. Occorrerà un’incubazione del mistero cristiano nel genio del vostro popolo, perché poi la sua voce nativa più limpida e più franca si innalzi armoniosa nel coro delle altre voci della Chiesa universale.3
1. Il
termine
«inculturazione»
L’inculturazione non riguarda soltanto il cristianesimo ma anche le altre religioni nel momento in cui ciascuna si diffonde al di là del proprio luogo di origine, quando allarga per così dire i propri confini. In questa sede, trattando il tema in questione, noi ci limiteremo a considerare il termine in riferimento alla religione cristiana. Parlare di «inculturazione» del cristianesimo significa riferirsi a un processo permanente, nel corso del quale il vangelo viene presentato in una determinata situazione socio-politica e socio-culturale in maniera tale che esso non si esprime soltanto con elementi di questa situazione (per esempio nella liturgia e nella dottrina), bensì ne diventa la forza ispiratrice, determinante e trasformante.4
Si tratta dunque di un processo che non si riferisce semplicemente a un adattamento o a un inserimento all’interno di una cultura preesistente, ma riguarda anche una sua critica e deculturazione, in quanto la vita cristiana non è semplicemente conformazione, ma esige pure il coraggio di contraddire stili di vita abituali. Anche se il tema dell’inculturazione non è nuovo – di fatto si presenta con la nascita e la conseguente diffusione del cristianesimo –, la riflessione teorica su di esso cominciò nel periodo successivo al medioevo e il corrispondente dibattito teologico interpretativo fu avviato soprattutto a partire dagli anni ’70 del XX secolo. La problematica dell’inculturazione, strettamente collegata alla prassi religiosa delle Chiese locali, cerca di
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Id., Ecclesia in Africa, cit. da M. Antonelli, in Vergottini (a cura di), Perle del Concilio,
311. 4 G. Collet, «… fino agli estremi confini della terra». Questioni fondamentali di teologia della missione (BTC 128), Queriniana, Brescia 2004, 194.
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Provocazioni dell’inculturazione al magistero e alla teologia
stabilire un’unità tra fede e vita, e di superare l’«estraneità del cristianesimo» che si manifesta nei vari campi della liturgia, della pastorale, del diritto ecc. Le Chiese dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina e dell’Ocea nia cercano di affrancarsi dall’eredità coloniale e dal dominio culturale occidentale, per realizzare un cristianesimo più autentico, legato alle singole realtà culturali locali. Un problema che, pur con le dovute differenze, riguarda oggi anche l’Occidente, per il quale la separazione tra vangelo e cultura, come vedremo in seguito, costituisce uno dei punti più critici, a livello religioso e culturale, della nostra epoca. Nel processo di inculturazione non soltanto la cultura ma anche il vangelo «cambia», dal momento che esso viene compreso più a fondo in relazione al vissuto concreto di uomini e di donne. Già il Nuovo Testamento ci mostra la lettura e l’interpretazione del vangelo a partire da contesti diversi, la sua adattabilità alle provocazioni e alle esigenze dell’umano. Un’intuizione che dice il valore dell’esperienza come luogo fondamentale per il vissuto e la traducibilità della Scrittura. Ciò aiutò a comprendere che dottrine come l’incarnazione, la sacramentalità del mondo, la natura della rivelazione divina intesa come incontro personale, l’universalità della Chiesa e la natura trinitaria di Dio, facevano emergere il fatto che l’inculturazione costituiva un vero imperativo teologico e missiologico.5
2. Il
processo di inculturazione in un contesto cambiato
La relazione tra fede e cultura, che costituisce il perno della problematica dell’inculturazione, è entrata nei decenni scorsi con maggiore forza nella coscienza teologica, ed è diventata una delle sfide fondamentali per le Chiese e per la trasmissione della fede. Ciò è dovuto sostanzialmente a due dati di fatto: da un lato, lo spostamento del cristianesimo dal Nord al Sud del mondo ha portato a riconoscere che l’evangelizzazione di popoli extraeuropei è consistita spesso in una trasposizione ed esportazione del cristianesimo occidentale (l’approccio cosiddetto della tabula rasa), dall’altro lato il manifestarsi sempre più chiaramente di un distacco delle persone che vivono nel contesto occidentale dal cristianesimo e dalle Chiese, la cui espressione culturale è considerata antiquata e superata soprattutto dalle giovani generazioni, che trovano difficoltà a aderire al vangelo.6 Di conseguenza, specialmente per il secondo punto, è necessario pensare a nuovi linguaggi e a nuove modalità di vita che rendano più attuale ed efficace la comprensione del vangelo. Risulta ancora oggi vero quanto l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi nel 1975 affermava:
5 Cf. S.B. Bevans – R.P. Schroeder, Teologia per la missione oggi. Costanti nel contesto, Queriniana, Brescia 2010, 610s. 6 Il riferimento su alcune questioni affrontate in questa parte di analisi rimane il volume di Collet, «… fino agli estremi confini della terra», 235-245.
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Pier Luigi Cabri La rottura tra vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture. Esse devono essere rigenerate mediante l’incontro con la buona novella.7
Ma in che cosa consiste più esattamente il mutamento delle condizioni sociali e culturali del contesto di post-modernità in cui viviamo e quali possono essere le nuove modalità di trasmissione del vangelo? Facciamo qui riferimento ad alcuni aspetti che appaiono nella loro evidenza nel contesto attuale. Il primo riguarda il cambiamento che si è prodotto fra lo spazio-territorio e le culture. In passato ciascuno aveva a che fare con un mondo culturale sostanzialmente omogeneo, con una concezione condivisa del mondo e della religione. L’ambiente confessionale, nel quale esistevano ancora una religiosità e una cristianità tradizionali, si è in gran parte dissolto. Nella situazione multiculturale e plurireligiosa nella quale ci troviamo, essere cristiani non è più una cosa ovvia, come in passato; questo esige delle scelte maggiormente personali e responsabili a fronte di altre offerte religiose. Una situazione che acuisce la questione di ciò che il cristianesimo propriamente è e del modo in cui la comunicazione della fede cristiana può riuscire nel contesto di una società, nella quale si è verificata una rottura della tradizione e una diminuzione della plausibilità della vita ecclesiale. Per molte persone il cristianesimo è adesso un «termine straniero» che non conoscono (più) e che devono reimparare a conoscere, qualora siano disposte a farlo e non siano travolte da correnti agnostiche e nichiliste, che hanno liquidato le questioni del senso.8
Un secondo aspetto emerge dal profilo di una società che diventa sempre più anonima e funzionale, caratterizzata dalla razionalità scientifica e dalla tecnica, che rende gli uomini e le donne del nostro tempo più poveri in fatto di esperienze, con conseguenze anche nell’ambito della fede, che per molti aspetti è appunto esperienza di vita. Analogamente, l’impoverimento dei rapporti interpersonali e la perdita di orientamenti e di convinzioni si ripercuotono sulle relazioni sociali, che sono il presupposto di esperienze umane riguardanti la ricerca di senso e la fede. Punto di partenza della comunicazione della fede e dell’inculturazione dev’essere in ogni caso la realistica accettazione di questa realtà socio-culturale, che non esclude di per sé il senso religioso e il riferimento a Dio. L’inculturazione, annota Collet, deve perciò presentarsi come un tentativo di condurre alla fede, tentativo le cui esigenze elementari consistono nello scoprire il senso della fede cristiana per l’uomo di questa società concreta, che è ricettiva nei confronti di numerosi valori cristiani e di Dio, a patto ovviamente che questa fede sia annunciata e
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Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi [EN] (8.12.1975), n. 20: EV 5/1612. Collet, «… fino agli estremi confini della terra», 243.
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Provocazioni dell’inculturazione al magistero e alla teologia sia avvicinata ai nostri contemporanei in un modo per essi chiaro, accessibile e comprensibile. Ciò non significa rinunciare all’identità cristiana, però significa tradurre, decifrare e rendere perspicuo con pazienza il vangelo come «parola di vita» (1Gv 1,1).9
Inculturazione non è rianimare e riprendere usanze religiose ed ecclesiali del passato, ma proporre alternative credibili all’interno di una molteplicità di offerte religiose e culturali che provengono dall’esterno, invitando a confidare e a scommettere nel vangelo e nelle sue promesse. Ciò presuppone di prendere sul serio la presenza di altre culture e religioni, in un contesto di interculturalità e di plurireligiosità, che rimanda al confronto e al dialogo con un ambiente certamente più complesso e diversificato rispetto al passato.
3. Modelli e tesi sull’inculturazione Stephan Bevans, nel già citato Teologia della missione oggi, individua sei diversi modelli di inculturazione che la Chiesa ha applicato nelle situazioni che di volta in volta ha incontrato nella sua opera di evangelizzazione.10 Nessuno di questi modelli (traduzione, antropologico, prassi, sintetico, trascendentale e controculturale) può tuttavia essere ritenuto assoluto o applicabile in qualsiasi contesto; ogni singola situazione infatti è diversa e presenta elementi originali che la distinguono, a volte radicalmente, da altre. Il modello antropologico, ad esempio, può rivelarsi adatto a situazioni in cui vi è stato un massicco intervento nella cultura locale a tal punto da svilirla o in certi casi da sradicarla, come in Africa o in Paesi dell’Asia; il modello controculturale appare invece più consono in Occidente, in Europa o in Nord America, e così via. Il compito primario dell’inculturazione risulta in ogni caso l’atteggiamento di dialogo rispetto al contesto in cui il vangelo viene annunciato. Dialogo significa disponibilità ad ascoltare e a capire come mediare tra gli aspetti fondamentali e irrinunciabili della fede cristiana e gli elementi di una specifica esperienza, cultura o situazione sociale, in un luogo o in un popolo specifico. Tenendo conto che, se da un lato occorre un vero rispetto per ogni cultura perché contiene i «semi del Verbo»,11 dall’altro occorre accettare che il vangelo manterrà sempre un carattere sovraculturale, ponendosi nei confronti di ogni cultura in termini critici. Il teologo vietnamita americano Peter C. Phan ha espresso cinque convinzioni sull’inculturazione che meritano di essere presentate.12 In
Ivi, 244. Cf. Bevans – Schroeder, Teologia per la missione oggi, 137-445 (c. 2). 11 Cf. AG 11.15: EV 1/1112.1126. 12 Cf. P.C. Phan, In Our Own Tongues: Asian Perspectives on Mission and Inculturation, Orbis Books, Maryknoll (NY) 2013, XII, cit. in Bevans – Schroeder, Teologia per la missione oggi, 612s. 9
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primo luogo, l’inculturazione sarà «la questione più urgente e controversa della missione per i decenni a venire», soprattutto per il fatto che oggi il cristianesimo e la Chiesa hanno una dimensione mondiale e coinvolgono, pur in forme diverse, tutti i Paesi. In secondo luogo, le idee e la prassi di inculturazione sono oggi messe in questione dal processo di revisione e di riflessione che sta avvenendo su questi problemi da parte della teologia, della missiologia e dell’antropologia. L’inculturazione, è questa la terza convinzione, trarrà profitto da una maggiore valorizzazione della religiosità popolare, dalla riscoperta delle tradizioni locali, dal vissuto di uomini e di donne comuni. In quarto luogo, una comprensione più approfondita della storia della missione offrirà «utili lezioni sul processo dell’inculturazione e il ruolo svolto entro di esso dalla religione popolare». Infine, il teologo Phan sostiene che dal successo o dal fallimento dell’inculturazione dipenderà il futuro stesso della Chiesa. L’inculturazione costituisce senza dubbio un compito e una sfida affascinanti ma, nello stesso tempo, come ha messo in evidenza Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio, costituisce anche un processo che «richiede tempi lunghi», in quanto «non si tratta di un puro adattamento esteriore, poiché l’inculturazione “significa l’intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l’integrazione nel cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture”»; un processo «profondo e globale» e nello stesso tempo «difficile» e «lento». Compito e sfida in quanto grazie a questa azione nelle chiese locali, la stessa chiesa universale si arricchisce di espressioni e valori nei vari settori della vita cristiana, quali l’evangelizzazione, il culto, la teologia, la carità; conosce ed esprime ancor meglio il mistero di Cristo, mentre viene stimolata a un continuo rinnovamento.13
4. L’inculturazione come « dialogo profetico » Per rendere possibile un incontro autentico tra fede cristiana e i contesti locali è necessaria una «spiritualità dell’inculturazione».14 Per chi agisce dall’esterno, il principale compito spirituale nel processo di inculturazione è di rinunciare all’atteggiamento di superiorità e di potere, all’illusione di poter arrivare a comprendere fino in fondo una cultura, al ritenere che la propria sia la concezione vera del cristianesimo. Soltanto dopo anni di ascolto, di apprendimento e di evangelizzazione nel contesto in cui vivono come stranieri e ospiti, costoro potranno trovare i modi e i linguaggi per poter intervenire con critiche e suggerimenti. Per coloro che vivono all’interno di una determinata cultura, al contrario il compito
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Giovanni Paolo II, lettera enciclica Redemptoris missio (7.12.1990), n. 52: EV 12/651s. Cf. Bevans – Schroeder, Teologia per la missione oggi, 613-624.
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spirituale sarà di avere fiducia in se stessi e nella comprensione del proprio contesto culturale o sociale, e proporre modalità di incontro fra il vangelo e la situazione specifica in cui essi vivono. Proprio attraverso questo dialogo reciproco le comunità locali potranno scoprire nuovi modi di vivere, percorsi di riconciliazione e di vita nuova. L’inculturazione, letta in questa prospettiva, può essere intesa come un «esercizio di dialogo profetico», come sostengono Bevans e Schroeder, che sa cogliere ciò che in una cultura è buono e nello stesso tempo non ha paura di denunciare pregiudizi o ostacoli che impediscono l’incontro con il vangelo. L’inculturazione si radica in una cristologia che sa cogliere e discernere i semi del vangelo in ogni situazione storica e culturale; ha una dimensione ecclesiale, in quanto assume i valori e le tradizioni delle Chiese locali, nella disponibilità al dialogo e al confronto con altre realtà locali; è opera delle comunità e non dei singoli; infine, si basa su un’antropologia, che sa riconoscere la positività dell’esperienza umana e del processo culturale presente in ogni realtà. La cultura mantiene il proprio valore per la teologia e per la vita cristiana, in essa si innesta la promessa di salvezza che proviene dal vangelo.
5. Sfide
e provocazioni
Alcuni aspetti critici sono già emersi nelle considerazioni presentate. Qui vogliamo mettere in luce alcune prospettive che ci sembrano proponibili a indicare una direzione su cui procedere, tenendo conto dell’attua le contesto rispetto al problema dell’inculturazione o dell’interculturalità. Le riassumiamo nei seguenti punti.
5.1. Abitare la secolarità Il tratto caratteristico del cristianesimo è la cattolicità, cioè la capacità di abbracciare la totalità, di trovarsi a casa e a proprio agio in ogni cultura, poiché nulla gli è estraneo. Questo avviene sia sul piano diacronico sia su quello dello spazio: il cristianesimo, nato in ambiente semitico, ha potuto abitare successivamente l’impero romano, adottando le strutture stesse di questo impero, varcandone poi i confini, raggiungendo il Nord e l’Ovest, il mondo anglosassone e il mondo slavo, fino a raggiungere tante altre culture. Transitare da un mondo all’altro, abitare «nuovi mondi» non è mai stato comunque semplice. Gilles Routhier, teologo e prete canadese, in uno studio proposto ai superiori provinciali europei dei padri dehoniani, affronta la problematica dell’evoluzione del cristianesimo nella cultura occidentale e della conseguente ristrutturazione dei rapporti fra la Chiesa e la società, che richiede un nuovo incontro fra il vangelo e la contemporaneità. Lo studio disegna un quadro concettuale di analisi e di prospettive che ci sembrano convincenti per il nostro tema e al quale intendiamo ispirarci.
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È vero che è proprio del cristianesimo entrare in nuove culture, abitare luoghi differenti, vivere presso popoli diversi, e tuttavia occorre riconoscere che il passaggio del cristianesimo al mondo moderno è più complesso di quelli precedenti. Soprattutto a motivo del fatto che per la prima volta, la Chiesa avvertiva che questo passaggio significava per essa non solo una conquista e un’espansione, ma una perdita e uno spossessamento di quanto pensava appartenerle. Le volte precedenti il prezzo era stato avventurarsi in mondi sconosciuti, privi di riferimenti familiari. Il transito dalla cristianità medievale al mondo moderno e ancora di più al mondo contemporaneo comporta invece una perdita, conseguente all’autonomizzazione del potere politico o al processo di fuoriuscita dalla Chiesa, in quanto il mondo (la cultura, lo stato, il pensiero, la scienza) a poco a poco si costituisce come autonomo.15
Il mondo è diventato per la Chiesa un concorrente, ne è nata una sorta di «inimicizia», un conflitto che ha segnato questo periodo di opposizione, come indica Benedetto XVI: Questo rapporto [fra la Chiesa e l’epoca moderna] aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la «religione entro la sola ragione» e quando, nella fase radicale della Rivoluzione francese, venne diffusa un’immagine dello stato e dell’uomo che alla Chiesa e alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale e anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponeva caparbiamente di rendere superflua l’«ipotesi Dio», aveva provocato nell’Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell’età moderna. Quindi, apparentemente non c’era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell’età moderna.16
A partire da quel momento, sottolinea Routhier, la Chiesa si è dedicata maggiormente a considerare la perdita del mondo, che si rendeva sempre più autonomo, anziché comprendere l’opportunità di sviluppare un nuovo rapporto con esso, un rapporto di accoglienza e di dialogo, così come veniva suggerito dal concilio.17 Ancora oggi la Chiesa, nella mi-
15 G. Routhier, «Il cristianesimo nelle società “secolarizzate”», in Il Regno-doc. (2012)17, 569-560. Lo studio riprende una relazione presentata ai superiori maggiori dei dehoniani nel quadro della European Conference on Secularity (Conferenza europea sulla secolarità), tenuta a Clairefontaines (Lussemburgo) dal 18 al 21 ottobre 2011. 16 Benedetto XVI, «Discorso alla curia romana» (22.12.2005), in Il Regno-doc. (2006)1, 8. 17 Per esempio, l’idea di rivelazione che presenta la Dei verbum, quando indica la categoria del dialogo come figura chiave che caratterizza il modo in cui Dio si pone in relazione con l’uomo, lui che «per il suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé» (Concilio ecumenico Vaticano II, costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum [18.11.1965], Sessione VIII, n. 2: EV 1/873). Si veda anche il formidabile incipit della Gaudium et spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti
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sura in cui la modernità sembra avanzare, continua a provare un senso di perdita. La globalizzazione, le migrazioni e il multiculturalismo, la secolarizzazione delle istituzioni e delle mentalità – termini che si trovano in molti testi e documenti ecclesiali, ad esempio nei recenti Lineamenta e Instrumentum laboris che hanno preparato il sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione e trasmissione della fede – sembrano giocare contro la Chiesa, che in Occidente sta conoscendo un’importante diminuzione delle vocazioni sacerdotali e religiose e un invecchiamento del clero e dei fedeli. Più importante ancora è l’exculturazione del cristianesimo,18 il quale non sembra più costituire un riferimento in Occidente, dove cultura, pensiero e leggi si elaborano senza un richiamo alle radici cristiane. Rifiutare la modernità o la post-modernità, non accettare che siano esattamente questi il tempo e la cultura che vanno abitati e con i quali il cristiano è chiamato a confrontarsi, significherebbe «cessare di credere nello Spirito Santo nella Chiesa cattolica». Permettere al vangelo di abitare tutte le culture, compresa la nostra, quali ne siano le grandezze o i limiti, non significa avere una visione ottimistica o ingenua del mondo e neppure «inginocchiarsi davanti al mondo, affascinati da esso, fino a rinunciare a qualunque apporto critico richiesto dall’escatologia, dall’avvento del regno di Dio». Di conseguenza: Resterò sempre cristiano, anche se mi integro in un’altra cultura, anche se parlo la lingua dell’altro. Si tratta semplicemente, come punto di partenza e come condizione indispensabile, di credere che il vangelo è capace di qualsia si cultura e che Cristo può abitare qualsiasi cultura, tutti gli ambienti e tutti i mondi, compresi la società occidentale contemporanea e il mondo presente.19
Per Routhier, occorre arrivare ad abitare evangelicamente i diversi mondi vitali che si affacciano sulla scena del post-moderno. Inscrivere il cristianesimo nella «secolarità» (termine secondo il teologo canadese da preferire rispetto a secolarizzazione), rappresentata dalle nostre Galilee delle genti, là dove i cristiani sono inviati all’incontro con il Risorto che là ci precede, presuppone alcuni convincimenti.20 Innanzitutto, l’idea del mondo e della secolarità concepiti non come luogo di esportazione di u n’idea prefabbricata di cristianesimo, ma come possibilità di apprendimento dove può svilupparsi una figura originale, storica e culturalmente caratterizzata, di cristianesimo. In secondo luogo, una conoscenza del mondo contemporaneo, dei suoi diversi ambienti e delle sue sfide, dell’Europa di oggi, con le sue domande, i suoi dubbi, i suoi progetti e le sue ricerche.
coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Id., costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes [7.12.1965], Sessione IX, n. 1: EV 1/1319). 18 Cf. D. Hervieu-Léger, Catholicisme. La fin d’un mond, Bayard, Paris 2003. 19 Routhier, «Il cristianesimo nelle società “secolarizzate”», 572. 20 Cf. ivi, 576.
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È necessario partire dal luogo concreto, dal mondo vitale ove si pongono le domande attuali, secondo il metodo utilizzato nell’elaborazione della costituzione pastorale Gaudium et spes; occorre chiedersi: qual è il mondo entro il quale ci troviamo e quali sono le domande che vi si pongono? In terzo luogo vanno proposte una teologia dell’incarnazione e una pneumatologia adeguata, che sono alla base di una sana teologia della missione. Va sottolineato che la parola «missione» esprime un concetto relazionale, e una concezione inadeguata o sbagliata della missione porta a una relazione falsata fra la Chiesa e la parte di umanità in cui la Chiesa si inscrive. Infine, abitare evangelicamente le diverse Galilee contemporanee, dove il Risorto ci precede, presuppone degli atteggiamenti e delle pratiche che sono propriamente cristiani, cioè che adottano lo stile che è caratteristico di Gesù di Nazaret.
5.2. Accogliere
e ospitare
Affinché si dia una vera inculturazione è necessaria la disponibilità ad accogliere, a ospitare e a lasciarsi ospitare. A tal proposito, riteniamo che il pensiero di Emmanuel Lévinas, pur ponendosi su un piano sostanzialmente filosofico ed etico, contenga alcune provocazioni utili al nostro tema. Cogliamo in esso l’invito a pensare l’alterità e la differenza (che fonda la relazione con l’altro) nella sua valenza ontologica, in quanto iscritta nell’essere stesso. Al contrario, la «totalità» significa annullamento delle differenze e quindi sostanzialmente violenza.21 Intraprendere la strada della relazione etica, per il filosofo francese, non significa rinunciare alla verità, ma piuttosto andare «verso l’essere nella sua esteriorità assoluta e mettere proprio in atto l’intenzione che anima il cammino verso la verità».22 Un cammino che è sempre rivolto «altrove», all’«altro». Un movimento che parte da un mondo che ci è familiare, da una casa nostra e nella quale abitiamo, e che si dirige verso un’abitazione estranea. Questa relazione individua una via d’accesso originale verso l’altro, un «umanesimo altro», in cui il soggetto non è l’io soddisfatto e chiuso in se stesso ma il soggetto ospite, responsabile e prossimo. Il tema dell’ospitalità, nella ricchezza semantica ed etica che esprime, può costituire un tassello prezioso nel percorso filosofico e teologico odierno. L’ospitalità – che si intreccia con le parole attenzione, accoglienza e volto – esprime la tensione verso l’altro, il «sì» pronunciato all’altro. Ma molto acutamente, J. Derrida, grande interprete di Lévinas, fa notare che «l’accoglienza dell’altro sarà, in qualche modo, già una risposta: il sì all’altro risponderà già all’accoglienza dell’altro, al sì dell’altro».23 Questo significa che la risposta responsabile verso l’altro che si ha di fronte è certamente un sì, ma è un sì rivolto verso qualcuno che, a sua volta, ha
Cf. E. Lévinas, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1977. Ivi, 45. 23 J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano 1998, 85. 21 22
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pronunciato il suo sì precedendo il movimento di accoglienza da parte del soggetto. Un movimento che non si cancella nell’accoglienza dell’altro ma che si apre piuttosto all’infinito dell’altro che lo precede. La decisione e la responsabilità in ordine all’accoglienza e all’ospitalità sono sempre dell’altro. Se una decisione rimanesse puramente e semplicemente «mia», di fatto essa non sarebbe una decisione. Non abbiamo il diritto di utilizzare il termine «decisione» per indicare un movimento totalmente autonomo, fosse pure di accoglienza e di ospitalità, un movimento che non procede altro che da noi stessi e dalla nostra soggettività. È soltanto l’altro che può dire di sì, di conseguenza l’accoglienza è sempre dell’altro. Tutto deve cominciare con un sì, dalla risposta. La chiamata avviene a partire dalla risposta e in relazione a essa o almeno a partire dalla promessa di una risposta. La parola accoglienza esprime il primo gesto verso l’altro. O forse, ancor più che il gesto, essa costituisce per Lévinas il primo movimento buono verso l’altro. È infatti tale movimento accogliente che rende possibile tutto ciò che il filosofo francese afferma riguardo al volto, come apertura dell’io, come possibilità del rapporto con l’altro, che avviene nel servizio e nell’ospitalità. Il tema del «volto» costituisce il filo rosso che attraversa tutta l’opera levinasiana e che contiene ampi spazi di possibili sviluppi per la riflessione e per il pensiero moderni. L’epifania del volto dell’altro, il faccia-afaccia, che è alterità e separazione, instaura una prossimità che è differente dalla cultura del sapere. In questo di fronte al volto, l’io viene chiamato alla responsabilità, non può tirarsi indietro e rimanere insensibile alla chiamata, quando questa lo raggiunge soprattutto dalla voce e dal volto del povero. Dal povero che si offre nella sua nudità indifesa, l’io è messo radicalmente in questione e non può sottrarsi a questa responsabilità verso l’altro: «Il volto mi si impone senza che io possa essere sordo al suo appello né dimenticarlo, cioè senza che io possa smettere di essere ritenuto responsabile della sua miseria».24 È nel povero, in colui che si presenta a me nella nudità del suo volto e che io non ho generato, che si rivela Dio. Dio non lo si può cercare sul piano teoretico, quello dell’ontologia, ma soltanto su quello etico. Lo si cerca e lo si trova soltanto rispondendo all’appello-visitazione del volto d’Altri, che si pone nella traccia della sua assoluta trascendenza. «Essere a immagine di Dio – scrive Lévinas – non è essere l’icona di Dio, ma trovarsi nella sua traccia […], è andare verso gli Altri che si tengono nella Traccia».25
5.3. Riconoscere il dono «Il dono non è un momento circoscritto e delimitato nel tempo ma un’attività che abbraccia la totalità dell’esperienza»: così il pensatore Jean-Luc
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E. Lévinas, La traccia dell’Altro, Libreria Tullio Pironti, Napoli 1979, 35. Id., En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967, 188.
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Marion, considerato uno degli autori più brillanti della filosofia francese contemporanea, presenta il tema del dono, al quale intendiamo dedicare una breve analisi, considerandolo importante in questa nostra ricerca.26 Non siamo qui interessati a tutta la problematica e analisi filosofica che questo autore sviluppa, ci interessa piuttosto porre l’attenzione ad alcuni elementi che emergono dal dono e che valutiamo utili in questa lettura e rilancio del tema dell’inculturazione. È a partire dal primato della donazione che Marion intende affrontare la questione del dono. La categoria del dono, sostiene Marion, investe tutta la vita quotidiana a tal punto che ogni esperienza, in fondo, può essere letta e compresa attraverso il tema del dono. Infatti, noi doniamo sempre senza contare, in tutti i sensi del termine, incessantemente; doniamo allo stesso modo in cui respiriamo, dalla mattina alla sera, in ogni istante, in ogni circostanza. Soltanto di rado ci troviamo in situazioni nelle quali possiamo dire che non stiamo donando: doniamo quando insegniamo, quando parliamo con qualcuno. Doniamo, inoltre, senza misura, perché non ci sono ragioni che facciano iniziare o cessare il nostro donare. Il dono non è un momento circoscritto e delimitato nel tempo, ma un’attività che abbraccia la totalità dell’esperienza.27
Il dono è evidente e, tuttavia, non mancano argomenti che contestano e mettono in discussione tale evidenza. Ad esempio, se l’estensione del dono è così ampia, difficilmente per esso si potrà trovare un concetto ben definito; inoltre, il dono spesso è letto alla luce di una contro-interpretazione che lo pensa a partire dallo scambio. Infatti il dono ha bisogno di un donatore, di un donatario (colui che riceve il dono) e di qualcosa di donato. Se è così, cioè se il dono viene letto nella logica economica dello scambio, il dono risulta come tale impossibile, in quanto viene a mancare il suo requisito specifico che è la gratuità. L’economia, infatti, di per sé non sopprime il dono ma lo razionalizza attraverso il principio del do ut des, del donare affinché l’altro a sua volta doni. Il do ut des non è però la definizione del dono, quanto piuttosto la sua eliminazione, l’impossibilità di pensare il dono come «vero dono». Se il dono, secondo lo schema dello scambio, chiude la possibilità di pensare la donazione, per Marion è possibile tentare un’altra strada, quella di pensare il dono alla luce della donazione, per vedere se questa permette di cogliere un concetto di dono diverso da quello di scambio, di coglierlo cioè come «puro dato».28 Nel paragrafo «La riduzione del dono alla donazione», Marion sostiene che l’aporia indicata precedentemente (dono-scambio) deriva dall’ambiguità del concetto di presenza che accompagna il dono. Ciò fa pensare che al dono sia essenziale divenire presenza, porsi come il
26 Al tema del dono, Jean-Luc Marion ha dedicato soprattutto un impegnativo testo, che lo occupò ben «dieci anni di duro lavoro». Si tratta di J.-L. Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, trad. it. di R. Caldarone, SEI, Torino 2001. 27 Id., Dialogo con l’amore, Rosenberg & Sellier, Torino 2007, 53-54. 28 Id., Dato che, 103.
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presente. Perché piuttosto non pensare, suggerisce Marion, che sia possibile un «presente» (dono) senza «presenza», cioè fuori dall’essere come presenza? Perché non pensare che il dono si produrrà solo quando lo si libererà da questa «presenza» che lo fa sussistere? A questo punto, risulta necessaria la ricerca di un «donatario universale», che non si confonda con nessun donatario concreto, e che Marion individua in due situazioni: quella evocata da Mt 25,31-46, in cui Cristo appare come il donatario universale del bene, pur non riconosciuto in questa figura; e quella della dedizione alla comunità (ad esempio, il dono di sé per il bene di tutti), dove il dono del donatario universale si dà senza discriminazione fra le persone, con indifferenza rispetto al merito o demerito del donatario, in piena ignoranza dell’eventuale reciprocità. Rompere con il primato del calcolo e della ragione significa aprirsi concretamente all’amore e al dono. Di dono ce n’è in abbondanza, anzi la donazione è presente in ogni fenomeno. È l’ottica nella quale tutto si dà, con il rischio di un appiattimento di tutto sulla donazione. Il fatto che nella logica della fenomenologia della donazione sia venuta prima la classificazione della donazione come principio universale della fenomenologia e in seguito sia stata affrontata la questione dell’amore, è indicativo. L’intento di Marion, più che fare entrare l’amore nella fenomenologia, umanizzandola, o indicare le condizioni di donazione perché ogni fenomeno si doni, è quello di allargare gli orizzonti della fenomenologia stessa, in modo tale che essa possa abbracciare tutti i fenomeni. Più che accedere fenomenologicamente ad altri, è meglio rispondere ad altri, entrare cioè in una dinamica di umanità e di responsabilità. Di fronte alla chiamata dell’altro, ciò che ho e ciò che sono mi si presenta immediatamente come dono da donare, dono che era diventato mia proprietà. L’altro, con il suo appello, mi fa sentire dono proprio nel momento in cui vi è la sospensione di sé e l’esposizione totale all’altro. L’esposizione verso l’altro è la bontà, che è la piccola-grande sospensione di sé, la piccola-grande bontà che avviene nella trama delle relazioni quotidiane. È il rispondere senza calcolo alla chiamata dell’altro, è l’andare incontro al povero e allo straniero. Il per me riceve il suo senso dal per-altri, il senso dell’io sta nella perdita di sé perché l’altro possa vivere. Ci pare, infine, di ritrovare in questo testo di Paul Ricoeur una ripresa e un rilancio della problematica del dono nell’ottica del «riconoscimento» e della recezione del dono: Potremmo riconoscere nell’ottica di contraccambiare un’intensificazione della generosità del primo dono (quello che ci è stato fatto). Considerare il contraccambiare come un «secondo primo dono»: è il contagio della generosità del primo dono che crea il debito senza costrizione e senza colpevolezza. Allora l’atto importante non è affatto donare-contraccambiare, bensì ricevere. Perché è nella maniera di ricevere che il donatore è riconosciuto, ed è nella generosità del ricevere che colui che contraccambia si trova preso nella dinamica di generosità del donatore, e nella recezione è coinvolto nel cerchio della reciprocità. Ritroviamo l’agape, come nel donare senza contropartita: contrac-
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Pier Luigi Cabri cambiare è, in una certa maniera, essere nella ripetizione del donare senza contropartita.29
5.4. Testimoniare
in modo credibile
Il primo mezzo di evangelizzazione – ha scritto Paolo VI – è la testimonianza di una vita autenticamente cristiana […] donata al prossimo con uno zelo senza limiti. […] È dunque mediante la sua condotta che la Chiesa evangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità.30
Parlare di testimonianza cristiana significa rimandare a uno stile di vita e di presenza, che costituisce la premessa e la condizione stessa dell’inizio del processo di evangelizzazione, come ricorda l’Evangelii nuntiandi: Un cristiano o un gruppo di cristiani, in seno alla comunità di uomini nella quale vivono, manifestano capacità di comprensione e di accoglimento, comunione di vita e di destino con gli altri, solidarietà negli sforzi di tutti per tutto ciò che è nobile e buono. Essi irradiano in maniera molto semplice e spontanea la fede in alcuni valori correnti, e la speranza […], con tale testimonianza senza parole, questi cristiani fanno salire nel cuore di coloro che li vedono vivere, domande irresistibili […], una tale testimonianza è già una proclamazione silenziosa, ma molto forte ed efficace della buona novella. Vi è qui un gesto iniziale di evangelizzazione.31
A fondamento di questa testimonianza, vi è il rapporto di Gesù di Nazaret con coloro che egli genera alla stessa sua esistenza. I tratti che caratterizzano questo rapporto riguardano principalmente la generazione di vita, che avviene nella guarigione e nell’esperienza di santità.32 Gesù si mostra anzitutto sensibile a ciò che rischia di impedire l’accesso alla fonte di vita; compie gesti e parole che suscitano, in coloro che lo incontrano, un’energia di vita che egli chiama «fede». «È proprio per il fatto che Gesù stesso vive in intimità con la sorgente di vita in lui e perché è convinto che l’atto di fede che apre questa stessa sorgente è un dono dato a tutti, che egli si rende così prossimo a coloro che fanno fatica ad accedervi: gli sventurati, i malati, gli esclusi, i poveri».33 Anche se non tutti vengono guariti da Gesù, le sue parabole sono dirette a tutti, come parole destinate a fare sgorgare sorgenti di vita nascoste nell’universo, come racconti capaci di indicare nel cuore della vita dei possibili inauditi che, senza queste parole, resterebbero non percepiti. La genialità di Gesù consiste nel fatto di avere parlato in modo tale che altri hanno potuto rischiare, seguendolo, la loro stessa parola e inventare così altre para-
P. Ricoeur, «Il riconoscimento, il dono», in Il Regno-att. (2014)6, 180. EN 41: EV 5/1634. 31 EN 21: EV 5/1613. 32 Per la parte che segue, cf. C. Theobald, La rivelazione, EDB, Bologna 2006, 195-197. 33 Ivi, 196. 29 30
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bole: «Il Nuovo Testamento è la traccia di questa creatività parabolica in quanto invita il lettore a impegnarsi in un lavoro poetico e artistico, suscettibile di esercitare la funzione di apertura delle parabole di Gesù in altre culture».34 Gesù inizia, inoltre, all’esperienza di santità della vita, all’amore del nemico che caratterizza il santo e lo rende figura universalmente riconoscibile. La vita viene donata gratuitamente a tutti, senza escludere nessuno, in quanto «egli [il Padre] fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). La scoperta della gratuità della vita e di conseguenza l’invito a donare gratuitamente, anche al nemico, non sono propri del discepolo di Gesù, ma sono accessibili a ogni essere umano. Ispirare la propria vita a Gesù di Nazaret significa riconoscerlo come «donatore della vita», adottare un determinato stile di vita e cioè un certo modo di porsi in un mondo globalizzato e pluralista, percependo la presenza di Colui che garantisce libertà all’uomo. Alla domanda su come le tradizioni religiose o altre tradizioni dell’uma nità possano lasciarsi coinvolgere dalla questione del futuro della vita, il cristianesimo e altre teologie delle religioni cercano di dare una risposta. In ogni caso, esse non possono evitare l’associazione tra vita e santità: per la tradizione cristiana sono i santi che assicurano la vita, affidata gratuitamente a tutti e a ciascuno in maniera unica. La tradizione cristiana è portatrice di questo avvenire, a condizione comunque che faccia spazio a tali molteplici manifestazioni – ogni volta uniche – di una santità all’opera in ogni tradizione e ai molteplici significati attribuiti al sorgere e all’avvenire della vita sul nostro pianeta.35
34 35
Ib. Ivi, 197.
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Forme e strutture di corresponsabilità nella Chiesa a servizio dell’evangelizzazione
Giuseppe Gervasio
Può essere utile iniziare la nostra riflessione precisando il significato a cui vogliamo riferirci rispetto ai due termini evidenziati dal titolo di questa comunicazione: «Chiesa» ed «evangelizzazione»; parlando della Chiesa intendiamo riferirci particolarmente alla realtà delle nostre Chiese particolari, delle nostre diocesi, e parlando del «servizio dell’evangelizzazione» intendiamo riferirci al servizio, alla missione essenziale che connota la comunità ecclesiale: cioè l’annuncio e la testimonianza della parola di Dio, nel concreto delle nostre situazioni storiche, nel tessuto reale della convivenza, nel contesto della varietà delle culture, delle mentalità che caratterizzano questo nostro tempo; un annuncio che vuole essere fonte di salvezza per ogni persona e fonte di rinnovamento nella storia, alla luce di quella «verità dell’uomo» che la parola di Dio illumina e fa cogliere in pienezza.
1. Nella Chiesa, comunità dei credenti: sinodalità , partecipazione , corresponsabilità
Le Chiese particolari, le nostre diocesi sono chiamate a mettere a frutto tutti i doni con i quali lo Spirito del Signore le arricchisce e le sostiene per percorrere efficacemente questo cammino di proclamazione e di annuncio, questo cammino di testimonianza e di servizio nel concreto della realtà in cui sono costituite e chiamate a operare: è questa l’essenziale dinamica ecclesiale che ha la sua fonte e il suo costante alimento nell’eucaristia che costituisce la Chiesa come comunità dei credenti, come comunità viva e operante nel tessuto della storia; dalla dimensione
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comunitaria propria della Chiesa, propria di ogni Chiesa particolare, scaturisce una caratteristica essenziale del suo essere, del suo agire, la «sinodalità»: è il «camminare insieme», è il cammino condiviso e solidale a cui tutti i credenti sono chiamati per il battesimo che li ha rigenerati e costituiti popolo di Dio, nella storia; da qui gli aspetti parimenti essenziali del modo di essere e di agire a cui la comunità ecclesiale è chiamata: la «partecipazione» e la «corresponsabilità» di ciascuno e di tutti per la vita della comunità ecclesiale e per la sua missione; ciascuno per la sua parte, in virtù dei sacramenti che lo connotano nel popolo di Dio (con il battesimo, la confermazione, il diaconato, il presbiterato, l’episcopato e il matrimonio), ciascuno per la sua parte, per il servizio e per la testimonianza che è chiamato a svolgere in virtù dei carismi, dei doni naturali che lo caratterizzano per le capacità di cui in concreto è portatore. La vitalità della comunità ecclesiale e lo sviluppo della sua missione trovano la loro radice proprio nel fondamento dei sacramenti, dei carismi, delle virtù che segnano e arricchiscono la vita di ogni credente, e perciò strutturano e alimentano la stessa vita pastorale: la plantatio ecclesiae (il suo costituirsi e crescere come comunità) è condizione per lo sviluppo dell’implantatio evangelica (l’annuncio e la testimonianza della Parola, l’evangelizzazione, l’inculturazione della fede).
2. Il
dialogo intraecclesiale , il dialogo con le culture , il discernimento comunitario
Nell’ottica del servizio dell’evangelizzazione come oggi le nostre Chiese particolari, le nostre diocesi, sono chiamate a svolgerlo, sinodalità, partecipazione, corresponsabilità sono linee essenziali che vanno tenute presenti, con specifica attenzione anche a un altro rilevante aspetto. L’annuncio della Parola, la testimonianza della fede, il servizio che da tale testimonianza e da tale annuncio scaturisce, l’inculturazione della fede richiedono attenzione al concreto contesto storico, capacità di ascolto, capacità di analisi e di ricerca, capacità di confronto, capacità di dialogo. In questo quadro, l’incarnazione nella realtà della storia della testimonianza di fede che la comunità cristiana e i credenti sono chiamati a promuovere, l’animazione cristiana delle culture per la quale essi devono operare, richiedono anche il misurarsi ed esprimersi con esperienze, valutazioni prudenziali, giudizi storici, e questo necessario e impegnativo procedere critico può condurre anche a prospettazioni differenziate, pur nella conformità alla determinante radice evangelica. Da ciò la particolare rilevanza della capacità di ascolto e di confronto, e quindi del dialogo: certamente il dialogo nel quadro della pluralità delle culture che è caratteristica del nostro tempo, della nostra società, ma anche il dialogo con riferimento alla legittima varietà delle analisi e delle attenzioni e indicazioni che possono scaturire nella comunità ecclesiale nella fedeltà alla comune matrice di fede. 358
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Forme e strutture di corresponsabilità nella Chiesa a servizio dell’evangelizzazione
Il campo dell’ascolto, dell’analisi, della ricerca, del confronto e del dialogo, proprio per le sue caratteristiche e per gli interrogativi con cui deve misurarsi, richiede particolarmente di valorizzare la linea della partecipazione e della corresponsabilità, perché coinvolga il popolo di Dio nella varietà e nella ricchezza delle sue espressioni e delle sue capacità, per condurre un cammino di evangelizzazione significativo ed efficace, orientato e sorretto da quella «verità dell’uomo» che la parola di Dio annuncia. Questo cammino dell’evangelizzazione è chiamato a essere un cammino di comunione che, dalla varietà della partecipazione e nella corresponsabilità che tutti lega, intende discendere ciò che in concreto appare come il bene per la comunità ecclesiale e per la sua missione nel concreto della situazione storica, a fronte delle prospettive e dei problemi emergenti con cui è necessario misurarsi. È la via del discernimento comunitario che richiama e coinvolge tutta la comunità ecclesiale, e che trova nel ministero del vescovo che presiede la Chiesa particolare, nel ministerium communitatis che lo contraddistingue, il momento conclusivo e determinante dell’autenticazione. Il discernimento comunitario richiede un modo di procedere propriamente ecclesiale, certamente articolato e complesso, volto alla crescita della comunione e allo sviluppo della missione, rispondente ai criteri della partecipazione e della corresponsabilità, e ciò sia per i suoi diversi, successivi momenti (ricerca, ascolto, dialogo, progettazione, valutazioni e autenticazione conclusiva), sia per i soggetti coinvolti (laici, diaconi, presbiteri, religiose e religiosi, attraverso loro espressioni significative, il pastore della comunità). Per questo, il discernimento comunitario è stato autorevolmente indicato come «espressione dinamica della comunione ecclesiale e metodo di formazione spirituale, di lettura della storia e di progettazione pastorale».1
3. Per
il cammino dell ’ evangelizzazione : alcune condizioni di base nella linea della formazione e del servizio in una dinamica di partecipazione e corresponsabilità
Le considerazioni fin qui svolte ci aiutano a cogliere, proprio con riferimento al cammino dell’evangelizzazione a cui le nostre Chiese particolari sono chiamate, le condizioni, le forme, le strutture di corresponsabilità necessarie e opportune.
1 Comunità Episcopale Italiana, nota pastorale Con il dono della carità dentro la storia (26.5.1996), n. 21: ECEI 6/146.
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La condizione essenziale, di base, è la crescita della dimensione e della dinamica comunitaria, a partire dalla matrice battesimale, è la dinamica della sinodalità, della partecipazione di tutti e di ciascuno secondo i sacramenti, i carismi, le virtù e le capacità che connotano ogni fedele: ogni comunità ecclesiale in cui la dimensione comunitaria e la dinamica della sinodalità siano scarsamente incisive non potrà che trovare maggiori difficoltà nell’impostare e sviluppare il proprio cammino per l’evangelizzazione. Un’altra condizione preliminare, sempre per impostare e sviluppare il proprio cammino per l’evangelizzazione, è quella di un efficace assetto della formazione nella comunità ecclesiale che faccia crescere e sappia accompagnare e sostenere laici, presbiteri, religiosi nella loro specifica testimonianza e nel loro specifico servizio ecclesiale, con apertura e con attenzione alle problematiche e alle esigenti prospettive che caratterizzano la pastorale per l’evangelizzazione.
4. Per
il cammino dell ’ evangelizzazione : il discernimento comunitario
Insieme a una costante attenzione per dare risposta a queste condizioni di base, preliminari, è necessario prendere atto della necessità di promuovere e sostenere, proprio nell’ottica del servizio per l’evangelizzazione, le iniziative, le modalità operative nelle nostre comunità ecclesiali che intendono porsi nella linea del discernimento comunitario. È necessario promuovere nelle nostre Chiese particolari modalità e momenti che aiutino al discernimento comunitario e che ne consentano un efficace esercizio con riferimento ai suoi diversi passaggi: sia, quindi, alle fasi dell’analisi, della ricerca, dell’ascolto e del dialogo, dell’elaborazione e delle valutazioni sulle proposte, sia alla fase conclusiva da cui scaturiscono, per l’autenticazione del vescovo, le indicazioni e le scelte per il cammino della comunità ecclesiale, e quindi per il servizio dell’evangelizzazione a cui è chiamata. Un’attenta e condivisa riflessione nelle nostre comunità ecclesiali per rilevare ciò che di buono e positivo già vi è al riguardo e per prospettare i completamenti, i miglioramenti, le innovazioni che potrebbero essere opportunamente sperimentati, potrebbe essere certamente opportuna.
5. Alcuni
spunti per una riflessione sul disegno e l ’ esperienza dei «C onsigli pastorali diocesani »
In questo quadro, nella riflessione sulle forme e strutture di corresponsabilità nella Chiesa a servizio dell’evangelizzazione, è bene riprendere questo tema facendo riferimento a quanto previsto dal concilio ecumenico
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Vaticano II e disciplinato dal vigente Codice di diritto canonico [CIC], in ordine al Consiglio pastorale diocesano. L’esperienza dei Consigli pastorali nelle Chiese italiane porta certamente a evidenziare difficoltà, limiti, inefficienze e quindi anche valutazioni critiche sull’opportunità di avvalersi di questo strumento, di questo organismo per promuovere e sviluppare la vita pastorale delle diocesi. La cosa non deve destare meraviglia: una struttura di partecipazione e di corresponsabilità – come il Consiglio pastorale è chiamato a essere – presuppone nel reale contesto ecclesiale una prassi di comunione e di dialogo, un’apertura alla partecipazione, una ricerca di adeguate forme di corresponsabilità; i nostri contesti ecclesiali, spesso, devono invece fare i conti con l’indifferenza verso il fatto religioso, con un modo individualistico di vivere e di condurre l’esperienza religiosa, con un rapporto all’interno di questa esperienza che non è tanto quello fra «compartecipi», quanto quello dell’«erogatore» e dell’«utente» di servizi religiosi, ritenuti necessari o in qualche modo utili. Le difficoltà e i limiti dell’esperienza dei Consigli pastorali diocesani non devono fare ritenere superato il disegno che li sorregge e li propone, che è essenzialmente disegno di partecipazione e di corresponsabilità nella Chiesa particolare, a servizio della crescita della comunità ecclesiale e dello sviluppo della sua missione. Questo disegno può essere utilmente ripreso, e vanno pensati modi e forme che possano evitare le difficoltà evidenziate e possano rispondere anche alle prospettive e alle esigenze che sono andate via via maturando nella concreta esperienza pastorale delle nostre Chiese particolari: e in questa prospettiva possono avere risalto proprio le attenzioni emergenti per promuovere e sostenere un efficace esercizio del «discernimento comunitario» di cui si è parlato e per fare emergere e puntualizzare le specifiche attenzioni per la pastorale dell’annuncio, per la prospettiva dell’inculturazione della fede.
6. Per
un rinnovato disegno dei C onsigli pastorali diocesani , secondo la dinamica della sinodalità
Una rinnovata attenzione, un rinnovato disegno in ordine al Consiglio pastorale è certamente un traguardo esigente che va preparato, un traguardo che richiede un previo lavoro paziente di verifica e di sperimentazione: i modi, le forme, i tempi attraverso i quali preparare e dare attuazione a un simile disegno possono essere certamente vari, e devono essere pensati e adeguati con attento riferimento alla concreta situazione ecclesiale in cui si opera: ed è in questo quadro complessivo che possono trovare appropriato ed efficace riferimento anche specifiche strutture, che facciano riferimento a puntuali indicazioni e scelte pastorali più diret-
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tamente volte ad attuare linee e programmi per il servizio dell’evangelizzazione. È però importante che, comunque, nel fare maturare un cammino che riprenda il tema delle strutture di partecipazione e di corresponsabilità, vengano riaffermate e valorizzate le connotazioni essenziali che questo disegno richiede. Deve perciò trattarsi di dare vita a una dinamica, a un assetto ecclesiale che risponda a queste finalità: sia effettivamente significativo della comunità diocesana, e quindi formato in modo che attraverso di esso «sia veramente configurata la porzione di popolo di Dio che costituisce la diocesi» (cf. CIC 512); sia quindi uno strumento attraverso il quale si esprima la partecipazione e la corresponsabilità dei credenti alla vita della Chiesa e alla sua missione, «al fine di promuovere la conformità della vita e dell’azione del popolo di Dio con l’Evangelo»;2 sia luogo significativo di ascolto e di dialogo per la comunità ecclesiale e strumento che coadiuva il vescovo nel ministerium communitatis che gli è proprio (cf. CIC 511).
2 Paolo vi, lettera apostolica in forma di motu proprio Ecclesiae sanctae (6.8.1966), I, n. 16 § 1: EV 2/786.
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Appendice
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Narrare per aiutare a vivere: la narrazione per la comunicazione della fede
Riccardo Tonelli* In memoriam
1. Senso
e limite di una riflessione
Affronto un tema che ha una letteratura molto ampia alle spalle1 e, di conseguenza, è interpretato e proposto secondo modalità molto differenti. Diventa urgente indicare immediatamente il senso e il limite della mia riflessione, per permettere un confronto e un arricchimento reciproco sul merito. Preferisco non partire da una definizione – neppure descrittiva – di «narrazione», per evitare riduzioni ingiustificate di ambiti di ricerca. Proporrò più avanti una mia descrizione di narrazione, organizzando gli elementi su cui ho riflettuto nel primo tratto di cammino. Per ora lo vorrei comune e condiviso, in un confronto sincero sui problemi, quelli veri.
* Testo inviato da Riccardo Tonelli nel maggio 2013 per favorire l’incontro del Dipartimento di Teologia dell’evangelizzazione di quel mese, ma non discusso a seguito della malattia dell’autore (scomparso il 1° ottobre 2013). 1 Ho studiato il tema della narrazione nel mio libro R. Tonelli, La narrazione come proposta per una nuova evangelizzazione, LAS, Roma 2012. Il libro contiene un’abbondante bibliografia, organizzata secondo alcuni orientamenti di guida (Problemi di comunicazione – La teologia verso la narrazione – Modelli di narrazione pastorale). Molte delle riflessioni offerte in questo articolo hanno alla radice lo studio citato. Preferisco rimandare al libro e alla sua trama riflessiva, invece di appesantire l’articolo con richiami bibliografici.
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Riccardo Tonelli
1.1. Nell’ambito
dell ’ evangelizzazione
La mia riflessione si colloca all’interno di un esplicito tentativo di approfondire un modello preciso di evangelizzazione. M’interrogo sul senso e sulla qualità dell’evangelizzazione, nella trepida speranza di trovare modalità operative che permettano al vangelo di Gesù di risuonare ancora come bella notizia. Penso quindi all’evangelizzazione, con la preoccupazione esplicita di rinnovarla, con attenzione al contesto attuale. Questa indicazione mostra immediatamente il senso e il limite della proposta offerta da queste pagine. Giustifica persino lo spostamento di accento dalla «teologia narrativa» a quell’evento comunicativo che chiamo «narrazione» in cui si raccoglie il frutto e l’esito della ricerca teologica. Utilizzo un approccio di carattere soprattutto transdisciplinare, perché collocato sul piano pratico.
1.2. Evangelizzare…
perché ?
Un altro approfondimento mi sembra doveroso, proprio perché discriminante. Di solito, la gente che come noi s’interroga sull’evangelizzazione, sul suo significato e sulle modalità in cui realizzarla, considera come centrali due questioni: quella dei contenuti e quella del metodo. Con la prima questione l’attenzione corre verso il «che cosa» dire. Ci s’interroga su quello che dobbiamo comunicare e sulla sua oggettività. Spesso il terreno di confronto e di scontro si divide tra chi è preoccupato di rispettare il dato teologico che ci è consegnato dalla tradizione ecclesiale e coloro che invece avvertono come particolarmente inquietante la spinosa questione della fedeltà all’uomo d’oggi, alle sue attese e speranze, alle delusioni che attraversano la sua esistenza e alla forte ricerca di speranza che sale dalla sua vita. La questione del metodo riguarda invece soprattutto le modalità espressive e comunicative, gli strumenti e le strategie, attraverso cui realizzare il processo. In questo modo di affrontare il problema, si dà per scontato il fatto di aver risolto la prima questione. Assodati i contenuti, ci si chiede in che modo renderli disponibili alle persone concrete. Sono fuori discussione l’importanza e l’urgenza delle due questioni. Sono convinto però che ce ne sia un’altra, molto più radicale delle due precedenti. Per me è tanto importante che può funzionare quasi da criterio di verifica per trovare soluzioni adeguate alle stesse questioni precedenti. Può essere espressa da una domanda: perché evangelizzare? La risposta data a questo interrogativo influenza e determina fortemente la qualità degli altri. Infatti, chi evangelizza per trasmettere informazioni che l’interlocutore non conosce o non apprezza, concentra la sua ricerca sui metodi e dà facilmente per scontato il contenuto (ciò che vuol fare conoscere, possibilmente nella sua integrità). Chi, invece, evangelizza per «fare dei
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Narrare per aiutare a vivere: la narrazione per la comunicazione della fede
proseliti» (anche se non arriva a una formulazione così estrema delle sue intenzioni…), si preoccupa fondamentalmente dell’efficacia della sua comunicazione e incrementa la carica di fascino e di persuasione della sua proposta. Chi cerca ascolto e consenso, alla preoccupazione della verità tende a sostituire quella della sua significatività. La mia ricerca, orientata a decidere alcune scelte di fondo a proposito dell’evangelizzazione, dei contenuti da privilegiare in essa e di modelli metodologici che la facciano funzionare anche oggi, si pone come punto di riferimento centrale la domanda sul «perché». Si chiede, in concreto, cosa può sollecitare a percorrere con coraggio la via dell’evangelizzazione, nonostante difficoltà e resistenze. Sembra una questione prevalentemente di prassi quotidiana. La considero invece formalmente teorica e teologica, fino al punto da condizionare il percorso che segue.
1.3. Sotto l’urgenza di problemi inquietanti
Aggiungo un’altra sottolineatura, per mettere maggiormente in evidenza il limite della mia riflessione. Mi piace collegare l’evangelizzazione alla vita, piena e abbondante, di tutti. Ci ritornerò tra poco. Ci vuol poco a costatare come le cose non vadano davvero così. Abbiamo ritrovato la gioiosa responsabilità di annunciare il nome del Signore Gesù, ma l’onda di morte non si è arrestata. Mi sono scoperto così costretto a pensare e a progettare sotto l’urgenza di problemi gravi e inquietanti. Certo, non è il modo migliore per pensare. Per meditare con più calma e profondità siamo abituati a chiudere porte e finestre. Ma… dalla prospettiva scelta non lo posso fare. Per questo, mi rendo conto della fragilità della proposta, della necessità di approfondire e rielaborare, di attivare confronti e ridimensionare prospettive eccessivamente sicure. La ricerca in compagnia è davvero preziosa: non per difendere posizioni ma per rivederle e correggerle.
2. Individuare
i problemi per trovare soluzioni
Ho l’impressione che la riflessione sull’evangelizzazione dalla prospettiva del servizio alla vita e al consolidamento della speranza, faccia risaltare immediatamente una costatazione assai provocante. Evito le necessarie sfumature per sottolineare meglio il contrasto. Da una parte, l’attesa di vita e di speranza attraversa fortemente la grande maggioranza degli uomini e delle donne di oggi. Lo sappiamo per
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Riccardo Tonelli
esperienza diretta e ce lo confermano moltissime indicazioni di natura empirica. Siamo proprio nel cuore delle attese della gente: qualcosa che fa parte della trama complessa della vita e che risuona, con una forza originale, nei nostri contesti culturali e sociali. Sarebbe facile concludere: l’evangelizzazione mira veramente al centro dei problemi e ha le carte in regola per assicurare un alto indice di consenso. D’altra parte, però, le cose non vanno proprio così. Anche questo lo costatiamo frequentemente e ce ne lamentiamo insistentemente. Nel ritmo normale dell’esistenza di tanti uomini e donne che vivono con noi, l’evangelizzazione dice poco: è assai scarsa la disponibilità ad ascoltare la sua proposta e più deludenti sono gli esiti che da essa scaturiscono. Ci sono eccezioni felici, persone e momenti, ma restano casi eccezionali… tant’è vero che impazziamo alla ricerca di soluzioni, capaci di affrontare il problema alla radice. Perché l’offerta non è in grado di saturare una domanda, tanto alta e diffusa? Cerco d’immaginare una risposta, approfondendo, prima di tutto, la questione. Scelta la prospettiva, è più facile cogliere meglio i problemi e cercare poi soluzioni adeguate.
2.1. Una
prospettiva che dà da pensare
Chi deve comunicare con una persona di cui ignora la lingua, non è messo in crisi sulle cose che deve dire, ma sullo strumento di cui si serve per esprimersi. Può uscire dall’impasse, cercando un interprete o sottoponendosi a un corso accelerato di apprendimento. Nulla gli chiede di verificare il contenuto della sua proposta. La crisi che attraversa oggi l’evangelizzazione, in una società complessa, è solo a questo livello o, al contrario, le difficoltà si annidano altrove? Non è difficile, dopo il contributo autorevole offerto dalla costituzione conciliare sulla rivelazione, che conosciamo sotto il titolo Dei verbum [DV: EV 1/872-911], penetrare con la nostra riflessione la struttura fondamentale della rivelazione e, di conseguenza, cogliere le esigenze dell’evan gelizzazione. Il modo con cui Dio si è rivelato a noi determina, infatti, le modalità concrete con cui i credenti sono impegnati a continuare l’annuncio della sua presenza, per la vita e la salvezza di tutti. Punto di riferimento è DV 13: «Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo». Come si nota, la costituzione conciliare ricollega la rivelazione all’incarnazione. Dio, invisibile e ineffabile, si fa volto e parola nella grazia dell’umanità di Gesù di Nazaret. Il testo afferma il fatto e, nello stesso tempo, ritrova da questo evento le indicazioni necessarie per sottolineare le modalità comunicative della rivelazione. Dio si fa vicino in Gesù: il volto e la parola di Gesù si portano dentro un mistero più grande di quello che si potrebbe costatare a prima vista. Gesù rivela Dio, in quello che è, fa e dice. Il Dio lontano si è fatto in lui
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Narrare per aiutare a vivere: la narrazione per la comunicazione della fede
vicino. Ma c’è di più. La vicinanza è assicurata dalla grazia dell’umanità di Gesù. Questo significa che la rivelazione percorre una logica sacramentale: la parola umana, che Gesù pronuncia a nome di Dio, è la parola stessa di Dio per noi. Le mille parole d’uomo che corrono lungo le strade della storia dell’umanità, sono, nella solidarietà con Gesù, la parola che Dio pronuncia per noi, il suo svelamento e il suo progetto su di noi. Davvero, Dio parla all’uomo in parole d’uomo: nelle sue parole e assumendo la logica che caratterizza la nostra quotidiana comunicazione. Quello che si vede, si costata, si ode… si porta dentro un mistero, altrimenti indicibile, che è la presenza e la parola di Dio. È importante costatare che questo intreccio misterioso riguarda, in modo radicale, l’evento della rivelazione. Riguarda però anche la sua traduzione sul piano concreto e quotidiano della vita della comunità ecclesiale: l’evangelizzazione. Dio si rivela in modo sacramentale: ciò che si vede si porta dentro qualcosa di misterioso e tanto decisivo da determinare la verità dell’evento. I discepoli di Gesù continuano a parlare di Dio agli uomini, ripetendo lo schema sacramentale: pronunciano parole umane per dare volto e parola al mistero ineffabile di Dio. Anche la risposta che l’uomo dà all’appello contenuto nella rivelazione (che l’evangelizzazione continuamente rilancia) ripete lo stesso schema comunicativo. La persona dice la sua decisione attraverso esperienze e parole del proprio vissuto quotidiano. Dio ci chiama alla salvezza e noi diciamo la nostra decisione di accogliere il suo dono o di rifiutarlo. Non lo facciamo, dicendo sì oppure no; e neppure dicendo «Signore, Signore». Lo facciamo con la vita: nel ritmo delle ventiquattro ore del nostro quotidiano. I gesti e le parole che pronunciamo sono i segni di quello che riempie il nostro cuore e che altrimenti resterebbe indicibile: la voglia di essere figli di Dio o la pretesa suicida di arrangiarci da soli.
2.2. Il
nodo della questione : una comunicazione protesa verso il senso
Comunichiamo per offrire un contributo speciale alla ricerca di senso. In genere diciamo che la vita ha senso quando è ritenuta degna di essere vissuta. Più specificamente, quando essa è abitata da uno scopo, da un ideale che le si dà o le si riconosce. Una vita senza senso è una vita senza ragioni per vivere e per sperare. Si tratta, come si vede, di qualcosa che riguarda strettamente ogni singola persona nella sua intima soggettività. Infatti, in ultima istanza è il singolo soggetto a decidere (più o meno consapevolmente) se la vita vale la pena di essere vissuta o meno, e lo fa in forza delle ragioni che lo soddisfano. Ciò non vuol dire che il senso si collochi soltanto dalla parte della soggettività. La vita ha in se stessa delle ragioni che la rendono degna di essere vissuta. Di fatto però solo quando il singolo soggetto le coglie e le fa sue, arrivano a dare senso alla sua vita.
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L’evangelizzazione restituisce vita a chi si trova immerso nella morte e dà ragioni per credere alla vita a chi le cerca con trepida attesa. Essa risuona come una parola interessante solo perché fa vibrare l’orizzonte del senso, offrendo nel vangelo un progetto che dà speranza all’esistenza quotidiana. Quando dico «Dio è padre» a una persona in crisi, piegata sotto il peso del dolore e dell’oppressione, non diffondo solo un’informazione con la pretesa di dire una cosa nuova o di ripetere qualcosa di vero e importante. Faccio molto di più. Penetro nel santuario intimissimo dell’esistenza di questa persona e gli suggerisco una ragione per vivere e per sperare, nonostante la dura esperienza di morte di cui soffre. Ripeto con forza l’affermazione non perché immagino che sia nuova rispetto alle conoscenze dell’interlocutore; e neppure perché rappresenta solo un enunciato vero, da dichiarare senza tener conto della risonanza che scatena. La propongo per suggerire un’esperienza di cui costato la ricerca o l’urgenza. La comunicazione del vangelo si colloca perciò, di natura sua, nel cuore dell’umana ricerca e produzione di senso: la esige, la provoca, la satura. Essa non è autentica solo quando dà informazioni formalmente vere né è urgente solo perché comunica notizie altrimenti ignote; è autentica quando è sperimentata come «sensata»: capace di assicurare vita e di dare ragioni per credere alla sua consistenza e alla sua qualità. La produzione di senso per la propria esistenza è sempre un fatto strettamente personale: ogni uomo elabora un suo sistema di significati, giocando in questo la sua autonoma capacità progettuale. La costatazione è sempre stata vera, anche se alcuni modelli culturali rendevano più facilmente disponibili ad accogliere offerte di senso, maturate all’esterno della propria esperienza. Oggi invece l’autonomia è vissuta come un’esigenza inalienabile: molto difficilmente siamo disposti ad accogliere offerte di senso che provengono dall’esterno. Con questa sensibilità si scontra l’evangelizzazione. Essa propone eventi dotati di uno spessore di verità oggettiva, che non possono essere ridimensionati a piacimento né possono essere filtrati attraverso le categorie della soggettività. Nasce, per forza di cose, un conflitto tra la pretesa d’autonomia e la verità provocante del vangelo, che sconvolge questa pretesa, riportando verso un senso che opera come il fondamento e la critica d’ogni personale valutazione. Il conflitto non può essere risolto, inventando uno spazio protetto in cui i due contendenti ridimensionano le loro esigenze. L’uomo non può rinunciare alla propria autonomia, perché il vangelo cerca libertà e responsabilità e può essere accolto e vissuto in pienezza solo da chi è signore della propria esistenza. L’evangelizzazione non può passare sulla testa della gente, come se non riguardasse la loro vita quotidiana e parlasse solo d’eventi astratti e remoti. Tutto questo esercita un influsso non piccolo nella ricerca di quali possano essere i segni più adatti per evangelizzare.
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3. Una
distinzione che spalanca la prospettiva della narrazione
A questo punto della mia riflessione, chiarita la radice del problema, mi sono messo a cercare un’ipotesi di soluzione, immerso nella letteratura e in tante prassi affascinanti.2 Quando tutto sembrava abbastanza gestibile, mi si è affacciato qualcosa che sembrava fatto apposta per mettere in crisi le soluzioni troppo facili. E per fortuna. Cerchiamo segni capaci di assicurare una comunicazione coinvolgente, lanciata verso il senso della vita, come deve essere l’evangelizzazione; li vogliamo rispettosi della libertà e responsabilità di ogni persona, com’è il vangelo di Gesù, e profondamente inseriti nella tradizione ecclesiale. Abbiamo pretese eccessive e poco realizzabili? Una distinzione, comune tra i cultori delle scienze della comunicazione, apre una prospettiva interessante verso la soluzione del problema. Il rapporto tra segno ed evento si può realizzare secondo modi differenti. Semplificando un poco le cose, si possono immaginare modelli comunicativi a carattere denotativo e modelli a carattere evocativo. Un esempio può aiutare a chiarire meglio l’affermazione. Chi cerca un libro in una grande biblioteca, può lavorare sullo schedario o può ottenere l’autorizzazione di entrare nella sala-deposito. Lavorando nello schedario, rintraccio la scheda di collocazione del libro desiderato. Essa mi dà informazioni preziose per trovare il libro. Non ho ancora il libro tra le mani. Ma sono in grado di arrivare sicuramente a esso. In questo caso, il rapporto tra segno (la scheda) e referente (il libro) è molto stretto e ben determinato. La scheda informa in modo denotativo rispetto al libro. La scheda deve contenere informazioni esatte, identiche tutte le volte che ricorre nello schedario. Chi invece entra nella sala-deposito, si muove con alcune informazioni generali. Conosce la pianta della biblioteca e conosce la logica di sistemazione dei libri. Forse sa anche in quale scaffale è collocato il libro desiderato. Cercandolo, s’imbatte in altri libri. Li consulta frettolosamente e forse arriva a concludere che ce ne sono di più aggiornati rispetto a quello richiesto o si convince che la scelta fatta era proprio la migliore possibile. L’informazione conduce al libro, in un gioco raffinato di fantasia e
2 Nel mio libro, già citato (Tonelli, La narrazione come proposta per una nuova evangelizzazione, cf. 50-56), ho ricordato come autori e prassi convergano stranamente verso l’ipotesi del modello narrativo come soluzione praticabile nei confronti di alcuni problemi comunicativi e educativi, riscontrati nelle situazioni attuali. È interessante costatare che gli approcci non sono assolutamente di tipo pastorale. Strade differenti portano a una stessa conclusione. Sembrano giustificare la presentazione che U. Eco fa del suo famoso romanzo Il nome della rosa: «Se ho scritto un romanzo è perché ho scoperto, in età matura, che di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare».
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di responsabilità personale. Si tratta di un segno a carattere evocativo. Informa, evocando e dando responsabilità. L’evangelizzazione si realizza in una struttura simbolica. Di quale ordine? Evangelizzando, la comunità ecclesiale lancia segnali univoci, che conducono deterministicamente all’oggetto, oppure utilizza di fatto solo dei segni a carattere evocativo? I contenuti dell’evangelizzazione sono veri solo quando denotano l’evento? Oppure possono essere veri anche quando lo evocano? Non ci chiediamo quale ipotesi sia la migliore. Ci chiediamo, prima di tutto, quale sia quella più vicina al progetto di Dio, riconosciuto in Gesù. Questo interrogativo lascia profondamente inquieti. L’ipotesi evocativa affascina, anche come modo maturo di vivere nella fede. La decisione ultima che fa vivere di fede, interpretando la chiamata alla fede contenuta nella parola dell’evangelizzazione, è sempre infatti un atto di coinvolgimento libero e responsabile della persona: l’esperienza di un credente che ha sperimentato l’espansione di senso della fede nella storia umana, nella catena ininterrotta di altre esperienze credenti, che conduce fino ai discepoli di Gesù di Nazaret. Eppure non possiamo concludere in termini tranquilli. Una lunga tradizione ecclesiale sembra spingere in altre direzioni. Fa anche paura il gioco scatenato della soggettività, cui sembra aprire la scelta di preferire i modelli evocativi. Ho provato a cercare come evangelizzare, alla scuola di chi ha annunciato il Signore Gesù e sollecitato a vivere nella sua sequela, e ho costatato un fatto di estremo interesse pastorale: i vangeli e le testimonianze apostoliche non sono mai il resoconto materiale degli avvenimenti della vita di Gesù di Nazaret, di cui i discepoli sono stati testimoni; essi sono invece un documento di fede: espressione autentica di eventi, riscritti nella confessione trepidante dell’agiografo e in dialogo con i concreti destinatari. Sono, in fondo, un documento tra fede e storia, capace di suscitare altre esperienze di fede, nell’autorevolezza e nella verità, assicurate dalla presenza specialissima dello Spirito del Risorto. Con lo sguardo fisso su questi modelli, possiamo decifrare secondo quali procedure comunicative siamo chiamati a servire la verità della fede nell’evangelizzazione. La parola umana non è mai in grado di obiettivare l’evento misterioso di cui è manifestazione. Nella parola pronunciata l’evento è presente e assente nello stesso tempo: presente nella povertà del segno e assente perché la parola è sempre espressione limitata e opaca. La verità, così importante nel cammino della fede, è nella relazione tra espressione verbale ed evento: non tutte le parole possono obiettivare l’evento e non in tutte le obiettivazioni l’evento si esprime nella sua ricchezza. La comunità (e i fratelli cui nella comunità è affidato il ministero della verità per l’unità) valuta questa congruenza e sollecita a una progressiva adeguazione dell’espressione soggettiva della fede verso la sua formulazione oggettiva ed ecclesiale.
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4. La
proposta della narrazione
A questo punto del cammino, il gioco tra intuizioni personali, esperienze felicemente realizzate e contributi dell’abbondante letteratura sull’argomento mi hanno aiutato a costruire un modello comunicativo teologicamente giustificabile e concretamente realizzabile: la narrazione. Per evangelizzare oggi siamo invitati a narrare storie, intrecciando la storia di Gesù, della fede e della vita della Chiesa, la storia di chi narra e la storia di coloro cui la narrazione è offerta, per aiutare a vivere. La narrazione non dà informazioni altrimenti sconosciute, ma aiuta a vivere, intrecciando le grandi esperienze che stanno alla radice dell’esistenza cristiana (le esperienze di Gesù, dei suoi primi discepoli e quelle della Chiesa) con le attese di vita e di speranza di chi ascolta e con l’esperienza di chi inizia la comunicazione. Essa cerca di raggiungere la globalità da qualche frammento significativo, immagina un modello linguistico in cui anche l’interlocutore si senta coinvolto nelle cose proposte, impegnato a sostenere la forza evocativa delle informazioni.
4.1. Per definire la narrazione per l ’ evangelizzazione Di modelli narrativi ce ne sono molti nel panorama dell’educazione e dell’evangelizzazione. Molti di noi ricordano i tempi in cui ogni buon educatore, catechista ed evangelizzatore possedeva un ricco repertorio di racconti (più o meno edificanti) che servivano a ricatturare l’attenzione quando essa era in calo. La narrazione che sto proponendo è un’altra cosa. Come distinguere, dunque, la figura di narrazione raccomandata dai suoi surrogati? Suggerisco una specie di criteriologia, sottolineando tre condizioni determinanti, anche sul piano operativo, per qualificare come narrazione una comunicazione.
4.1.1. Prima condizione:
comunicazione di un ’ esperienza
In primo luogo, è narrativo quel modello di evangelizzazione che è costruito sulla comunicazione dell’esperienza di colui che narra e di coloro cui si rivolge il racconto. Tante volte ci siamo impressionati fortemente dal tono delle grandi catechesi apostoliche, come sono documentate dagli Atti e dalle lettere. Giovanni, per esempio, apre la sua lettera con una testimonianza solenne: «Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi» (1Gv 1,1-2).
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Anche Paolo ricorda l’esperienza personale quando sottolinea i temi centrali della sua predicazione (si veda, per esempio, 1Cor 15 e 2Cor 12). Questa è una dimensione qualificante dell’annuncio cristiano: quello che è comunicato proviene da un’esperienza personale diretta e si protende verso gli altri con l’intenzione esplicita di suscitare nuove esperienze. Esso non è prima di tutto un messaggio, ma un’esperienza di vita che si fa messaggio, in una catena ininterrotta che riporta all’esperienza fondante che alcuni credenti hanno avuto in Gesù. Chi racconta sa di essere competente a narrare solo perché è già stato salvato dalla storia che narra; e questo perché ha ascoltato questa stessa storia da altre persone. La sua parola è quindi un pezzo di vita vissuta, interpretata e trasformata in parole. La storia narrata non riguarda solo eventi o persone del passato, ma anche il narratore e coloro cui si rivolge la narrazione. Essa è in qualche modo la loro storia. Chi narra, lo fa da uomo salvato, che racconta la sua storia per coinvolgere altri in questa stessa esperienza.
4.1.2. Seconda
condizione :
una comunicazione che spinge alla sequela
In secondo luogo, la narrazione si caratterizza per l’intenzione esplicita di coinvolgere anche gli interlocutori nell’esperienza narrata. L’evangelizzazione è, infatti, sempre il racconto di una storia che spinge alla sequela. La sua struttura linguistica non è finalizzata cioè a dare delle informazioni, ma sollecita a una decisione di vita. L’invito alla conversione non è assicurato perché sono diffuse informazioni non ancora note, ma perché l’interlocutore è chiamato in causa in prima persona. Non può restare indifferente di fronte alla provocazione: le due braccia spalancate del padre che aspetta con ansia il ritorno a casa del figlio perduto, costringono a decidere da che parte si vuole stare. Nasce informazione non sulla misura delle cose nuove apprese, ma nel riconoscimento dello stile di vita cui sono sollecitati coloro che desiderano far parte del movimento dei credenti. Il significato di queste affermazioni e le ragioni che le giustificano si collegano all’esperienza dei discepoli di Gesù. Pensiamo, per fare qualche esempio, alle parabole. Esse non sono il resoconto di avvenimenti, consegnati all’analisi critica dello storico. Non sono preziose e significative perché riusciamo a ricostruire il tempo e il luogo in cui si svolge l’avvenimento narrato o perché possiamo verificare la congruenza dei particolari. Sono invece una chiamata personale a coinvolgersi nell’avvenimento per prendere posizione. La scelta di privilegiare una prospettiva implicativa su quella descrittiva è importante anche per una ragione di competenza. Quando si è chiamati a trasmettere informazioni tecniche, il diritto alla parola è misurato sulla competenza posseduta: chi conosce le cose da dire, può parlare; chi non le conosce bene, deve tacere. Quando invece al centro della comunicazione c’è l’invito alla sequela e al coraggio della conversione, la scienza
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non basta più. Ci vuole la passione e il coinvolgimento personale. Il diritto alla parola non è riservato solo a chi sa pronunciare enunciati che descrivono in modo corretto e preciso quello cui ci si riferisce. Chi ha vissuto un’esperienza salvifica, la racconta agli altri; così facendo aiuta a vivere e precisa lo stile di vita da assumere per poter far parte gioiosamente del movimento di coloro che vogliono vivere nell’esperienza salvifica di Gesù di Nazaret. Per questa ragione, l’evangelizzazione è sempre interpellante.
4.1.3. Terza
condizione :
una comunicazione che anticipa nel piccolo quello che si annuncia
In terzo luogo, l’evangelizzazione è narrativa quando possiede la capacità di produrre ciò che annuncia, per essere segno salvifico. Il racconto si snoda con un coinvolgimento interpersonale così intenso da vivere nell’oggi quello di cui si fa memoria. La storia diventa racconto di speranza. Non si tratta di ricavare dalla memoria di un calcolatore delle informazioni fredde e impersonali, ma di liberare la forza critica racchiusa nel racconto. I cristiani sono per vocazione gli annunciatori della speranza, perché testimoni della passione di Dio per la vita di tutti. Per parlare in modo sensato della salvezza di Dio che è Gesù dobbiamo mostrare con i fatti che è possibile crescere come uomini e donne nella libertà e nella responsabilità, capaci di amare in modo oblativo, impegnati per la realizzazione della giustizia, testimoni del senso della sofferenza e della morte. Solo così, possiamo mostrare efficacemente la forza dello Spirito, «come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33), quella che si traduce in gesti che non sono mai posti invano (Gal 3,4). Annunciare la fede significa dunque narrare di un Dio «che dona lo Spirito e opera meraviglie» (Gal 3,4), poggiando questa narrazione «non su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza» (1Cor 2,4). La comunità ecclesiale condivide la storia e la vita di tutti, per gridare, a parole e con i fatti, dal suo interno la grande promessa di Dio, che la riguarda direttamente: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19). Così chi narra di Colui che ha dato la vista ai ciechi e ha fatto camminare gli storpi, fa i conti con la quotidiana fatica di sanare i ciechi e gli storpi di oggi. Anche se annuncia una liberazione definitiva solo nella casa del Padre, tenta di anticiparne i segni nella provvisorietà dell’oggi. Troppe volte le situazioni tragiche restano nella loro logica disperata e oppressiva. Sembrano un grido di rivolta contro il vangelo della vita e della speranza. Il racconto della storia di Gesù, a differenza dell’argomentazione che tutto spiega e su ogni caso ha la parola sicura, parla con concretezza e con
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realismo della sofferenza dell’uomo. Non possiede la chiave dialettica per risolvere tutte le situazioni e non ha la pretesa di districare in modo lucido i meandri oscuri della storia. Condivide il cammino faticoso dell’uomo; cerca di superare le contraddizioni in compagnia con tutti; parla, con parole buone, rispettose, riconcilianti, concrete. La parola evangelizzata mostra con i fatti il Dio della vita: libera e risana, rimettendo a testa alta chi procede distrutto sotto il peso degli avvenimenti, personali e collettivi; restituisce dignità a coloro cui è stata sottratta; dà a tutti la libertà di guardare al futuro, in una speranza operosa, verso quei cieli nuovi e nuove terre dove finalmente ogni lacrima sarà asciugata (Ap 21).
4.2. Un modello:
una storia a tre storie
Il cammino percorso fino a questo punto mi permette finalmente di suggerire una specie di definizione descrittiva di narrazione per l’evangelizzazione. Due dimensioni caratterizzano la mia prospettiva: – l’evangelizzazione si caratterizza come racconto salvifico di una storia a tre storie; – le tre storie si intrecciano secondo un modo originale.
4.2.1. Le
tre storie
Nello stesso racconto s’intrecciano tre differenti storie: l’evento di Dio che si fa vicino a ciascuno di noi, per la nostra vita e la nostra speranza, le attese e le esperienze delle persone cui è offerto il racconto, l’esperienza, vissuta e sofferta, di chi ritrova la gioia e il coraggio di condividere quello che ha sperimentato nell’incontro salvifico. Questi tre dati, di peso e di significato tanto diverso, diventano una parola unica, perché l’autenticità e verità di ogni elemento richiede gli altri, in un gioco di rapporti reciproci. Chi vuole servire la vita e consolidare la speranza non può ridurre la sua proposta a frammenti della propria esistenza. Nessuno può dare la vita piena: né a sé né agli altri. Dolore, incertezza e morte minacciano continuamente ogni pretesa di autosufficienza. Abbiamo bisogno di offrire un riferimento più alto e sicuro, quello dell’unico nome in cui possiamo avere tutti la vita. L’evangelizzatore racconta quindi i testi della sua fede ecclesiale: le pagine della Scrittura, le storie dei grandi credenti, i documenti della vita della Chiesa, la coscienza attuale della comunità ecclesiale attorno ai problemi di fondo dell’esistenza quotidiana. In questo primo elemento, propone, con coraggio e fermezza, le esigenze oggettive della vita, ricompresa dalla parte della verità donata. Credere alla vita, servirla perché nasca contro ogni situazione di morte, non può certo significare stemperare le esigenze più radicali e nemmeno lasciare campo allo sbando della ricerca senza orizzonti e della pura soggettività.
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L’evangelizzatore non riesce però a parlare come se lui non c’entrasse e fosse ormai sopra la mischia. La vita è avventura di solidarietà profonda e continua, che neppure la morte fisica riesce ormai a spezzare. Questo coinvolgimento personale gli assicura l’autorevolezza di cui ha bisogno per pronunciare parole esigenti, che giudicano e inquietano con la forza di un’esistenza riconquistata in modo riflesso. Anche questa esigenza ricostruisce un frammento della verità della storia narrata. La sottrae dagli spazi del silenzio freddo dei principi per immergerla nella passione calda della salvezza. I suoi interlocutori non sono i destinatari passivi della comunicazione. Essi diventano protagonisti del racconto stesso. La loro esistenza dà parola al racconto: fornisce la terza delle tre storie, su cui s’intreccia l’unica storia. L’evangelizzatore parla di loro in prima persona, delle loro attese e dei loro progetti, anche quando racconta di uomini e donne sprofondati in tempi lontani o quando aiuta a decifrare il percorso della natura e della storia o quando ritesse la trama di una solidarietà che dà volto a gente mai vista. Come nel testo evangelico, la narrazione coinvolge nella sua struttura l’evento narrato, la vita e la fede del narratore e della comunità narrante, i problemi, le attese e le speranze di coloro cui il racconto s’indirizza. Questo coinvolgimento assicura la funzione performativa della narrazione. Se essa volesse prima di tutto dare informazioni corrette, si richiederebbe la ripetizione delle stesse parole e la riproduzione dei medesimi particolari. Se invece il racconto ci chiede una decisione di vita, è più importante suscitare una forte esperienza evocativa e collegare il racconto alla concreta esistenza. Parole e particolari possono variare, quando è assicurata la radicale fedeltà all’evento narrato, in cui sta la ragione costitutiva della forza salvifica della narrazione. In forza del coinvolgimento personale del narratore, la narrazione non è mai una proposta rassegnata o distaccata. Chi narra la storia di Gesù vuole una scelta di vita: per Gesù, il Signore della vita o per la decisione, folle e suicida, di vivere senza di lui. Per questo l’indifferenza tormenta sempre chi evangelizza narrando. Egli anticipa nel piccolo le cose meravigliose di cui narra, per interpellare più radicalmente e per coinvolgere più intensamente.
4.2.2. Un modo originale
e normativo
per intrecciare le tre storie
Le tre storie costruiscono un’unica storia, capace di aiutare a vivere, solo se il loro intreccio corrisponde a esigenze normative originali. Esse non sono sullo stesso piano e non risolvono uno stesso obiettivo. Tre dimensioni sono in gioco: – siamo salvati (aiutati a vivere…) dagli eventi e non dai racconti: non abbiamo però gli eventi ma solo i loro racconti (At 10,38); – incontriamo e sperimentiamo gli eventi nel sacramento dei racconti;
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– il racconto non è rievocazione ma attualizzazione che produce efficacemente l’esito (la vita nell’incontro): come nell’eucaristia.
5. Il
narratore come testimone
Affronto un’ultima questione, selezionandola tra le tante, che suscita una ricerca sulla narrazione per l’evangelizzazione. Pongo il problema. Avanzo qualche preoccupazione e suggerisco una prospettiva di soluzione, tutta da approfondire e da verificare.
5.1. Un modo nuovo di pensare alla testimonianza
È affiorata in questi anni la proposta della testimonianza, come radice indiscussa di autorevolezza. L’ipotesi è interessante e sollecita a maturare in responsabilità. Si porta dentro però limiti molto seri. Se l’unica fonte di autorevolezza fosse la testimonianza, come qualcuno suggerisce, ho l’impressione che saremmo troppo spesso condannati al silenzio. È davvero difficile convincere la propria coscienza di avere il diritto di parlare di cose tanto impegnative… Solo facendo silenzio, una persona si sente abbastanza rincuorata. Una seconda ragione, quasi opposta alla precedente, mi suggerisce l’insufficienza della testimonianza: la testimonianza è troppo convincente. Di fronte a persone che hanno il coraggio di pagare sulla propria pelle, che dicono cose dure come macigni nel loro concreto quotidiano vissuto, non riusciamo a restare indifferenti. Ci convincono subito e basta. La testimonianza è segnata dal rischio di fare poco spazio a quella capacità riflessiva e critica che, invece, è esigenza irrinunciabile in una stagione di pluralismo. Per decidere in libertà e responsabilità abbiamo bisogno di confronti stimolanti e inquietanti; ma abbiamo bisogno di maturare la nostra decisione nel silenzio sofferto della nostra interiorità. Dubito sull’efficacia della testimonianza anche per una terza ragione. Essa si porta dentro il grave limite di non riconoscere che il fondamento della vita e della speranza non siamo noi. Mi spiego. La vita e la speranza non sono mai il frutto delle parole che noi pronunciamo né della loro, alta o bassa, credibilità. Sono invece un dono da accogliere. Ci vengono da lontano: da un mistero cui dobbiamo affidarci, come il bimbo si getta nell’abbraccio della madre. Possiamo fare tante cose per rendere giustificato questo abbandono. Nessuna delle nostre parole e nessuno dei nostri gesti può dare però ciò che conquistiamo solo nel momento in cui accettiamo di perderci nell’abisso sconfinato di un mistero che ci sovrasta. Per queste ragioni, non mi piace caricare la testimonianza di eccessiva enfasi. Ne riconosco l’importanza e sono convinto che ogni evangelizzatore è chiamato a misurarsi su questa esigenza inquietante: essa
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ci sollecita a verificare continuamente la nostra vita nel momento in cui proclamiamo agli altri la sua qualità. Voglio solo ricordare che abbiamo il diritto e il dovere di dire cose impegnative, anche quando non riusciamo a produrre fatti coerenti.
5.2. L’urgenza
di autorevolezza
Immagino un’alternativa nella logica della narrazione e la consegno alla verifica. L’evangelizzazione rappresenta un modello comunicativo, orientato da una metacomunicazione di questo tipo: «Bada! Sta’ attento a quello che viene detto! È importante per la tua vita!». Lo stretto legame che lega gli avvenimenti raccontati al fluire del tempo, intrecciando nella storia narrata il presente con il suo passato e il suo futuro, fa scaturire spontaneamente questo invito a «stare attento». Eventi insignificanti diventano esempi coinvolgenti. La storia raccontata appella all’interlocutore, con la stessa intensità con cui si sente coinvolto il narratore. Egli si sente piegato verso quest’avventura; si rende conto di doverla accogliere in sé, proprio perché si sente «ospitato» nel racconto. La forza di coinvolgimento non è data dalla razionalità dei motivi e dall’acutezza dei concetti. Non nasce dalla pretesa del narratore di entrare con violenza nella vita di altri. A questi attacchi sappiamo difenderci: reagiamo fuggendo nell’indifferenza e ascoltando con i piedi in un altro mondo. Sono i fatti a chiedere attenzione, rispetto, disponibilità: fatti evocati in un’onda di emozioni, che porta ad «amarli», a sentirli «nostri», anche se hanno protagonisti lontani. Chi racconta, ama la realtà raccontata e la fa amare. Per questo diventa invito a una decisione personale coraggiosa. Il racconto, interpretato dall’invito: «Bada! C’entri anche tu! T’interessa veramente», supera la tentazione dell’indifferenza. Chiede una decisione coraggiosa e rischiosa. Per questo, chi evangelizza narrando ha un grande bisogno di autorevolezza, soprattutto in una stagione com’è la nostra, in cui prevale la soggettivizzazione come criterio di verifica e di validazione.
5.3. Il
fondamento dell ’ autorevolezza
Dove fondare l’autorevolezza? La mia proposta è decisa e senza mezzi termini: l’autorevolezza necessaria è fondata sull’evento narrato. Costruita altrove è come la casa fondata sulla sabbia. Forte di questa consapevolezza, il narratore diventa testimone appassionato del Crocifisso risorto. La fede è affidamento al Dio di Gesù. Il racconto gira attorno a questa pretesa. È lui il protagonista nascosto, all’opera per far terminare bene la 379
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storia raccontata, anche quando le previsioni portavano in tutt’altra direzione. Raccontando, il narratore sa estraniarsi, a tempo debito, per porre in risalto il protagonista, unico e autentico, del racconto. La sua parola descrive con toni e figure soggettive qualcosa che sta alla base di tutto, che permette di raccontare certe cose per aiutare a vivere. La narrazione cerca e sollecita un coinvolgimento e un’espressione personale. Il narratore e i destinatari pongono la loro esperienza al servizio della parola di verità e dell’incontro con la persona di Gesù. Il narratore sa coinvolgersi, sollecita al coinvolgimento. E sa continuamente ricentrare verso Gesù il Signore, sorgente unica della forza vitale contenuta nel racconto. L’ampio coinvolgimento del narratore nel racconto è giustificato dal fatto che il narratore dichiara, raccontando, di essere stato lui stesso molte volte «già» salvato da quella storia che ora dona ad altri. Si mette di mezzo, con foga e con passione, «solo come servitore» di un’esperienza che ha cambiato la sua vita. Se dice certe cose in un certo modo, la ragione è in chi l’ha salvato tante volte, e che ora, per mezzo suo, sta proponendosi come salvatore di altri.
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Social network, spazio di esperienza condivisa e luogo di possibile evangelizzazione Una sfida fondativa al nostro agire ecclesiale Paolo Padrini La diffusione dei social network nella vita sociale e relazionale delle persone, non solo giovani, pone la Chiesa, ormai da anni, di fronte a sfide educative ed evangeliche fondamentali. Questo tema così importante viene spesso affrontato dal punto di vista della pervasività di questi strumenti, principalmente per il tempo d’utilizzo e la vastità della diffusione. Se la presa di coscienza di questa questione è positiva, la prospettiva che ne risulta è però decisamente insufficiente. Soprattutto perché nasconde un peccato originale tendenzialmente pericoloso: l’idea che queste realtà siano semplici strumenti, indifferenti al nostro uso, e quindi non richiedano una presenza responsabile, formata, sapiente. Questo conseguentemente porta ad atteggiamenti dannosi: a volte sot tovalutazioni, altre volte demonizzazioni e fughe lontano dalla realtà (al grido paradossale del «ritorno alla realtà per fuggire dalla virtualità!»). È necessario che dal punto di vista teologico e fondativo (prima che semplicemente «concreto» e «pratico») ci sia da parte della Chiesa una riflessione davvero profonda e sapiente. Soprattutto perché nella linea del concilio Vaticano II, come scrive ad esempio Dario Viganò nel suo ultimo volume Il Vaticano II e la comunicazione. Una rinnovata storia tra Vangelo e società (Paoline 2013), non si può pensare la comunicazione come una realtà funzionale all’interno della Chiesa, ma – al contrario – è urgente considerarla da un punto di vista fondativo in riferimento alla realtà comunionale stessa della Chiesa e conseguentemente alla sua azione evangelizzatrice e pastorale. Una delle maggiori e complesse sfide per chi si occupa di comunicazione – scrive Viganò – sta proprio nell’abbandonare i modelli comunicativi propri
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Paolo Padrini delle logiche mondane e ritrovare lo specifico cristiano del linguaggio che non è forma, ma molto di più. Infatti «noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali» (1Cor 2,12-13).
All’inizio di questo breve articolo, mi sembra assolutamente necessaria quindi una chiara premessa metodologica. Sono perfettamente a conoscenza del fatto che, per quanto mi sforzi di scrivere con un linguaggio semplice e terra terra, non potrò mai sintonizzarmi perfettamente con coloro che non abbiano almeno minimamente familiarità con il «tema» dei social network. Da una parte – è una promessa che vi faccio – cercherò di non dare nulla per scontato. Dall’altra però, è necessario che vi chieda uno sforzo di ulteriore approfondimento e ulteriori letture, al fine di colmare eventuali lacune terminologiche o concettuali con le quali potreste scontrarvi in questa lettura. L’oggetto del nostro approfondimento sono i social network naturalmente inseriti nel tema molto più vasto e profondo della comunicazione attraverso i nuovi media digitali, che comunemente semplifichiamo con il nome di «internet». Più che proporne un approccio dal punto di vista tecnico o semiotico, preferisco pormi dalla parte dei semplici utilizzatori, chiedendomi, altrettanto semplicemente: come appaiono a me i social network? Cosa sento di avere in mano, quando penso/uso questi nuovi strumenti di comunicazione e socializzazione? Senza alcun dubbio, la prima risposta che ci viene in mente è troppo semplice: i social network sono uno strumento. Se fino a ieri le comunicazioni e le relazioni con i miei amici o i miei confratelli avvenivano tramite il telefono, e comunque lo «strumento» parola, se tra la cerchia dei miei amici e delle mie conoscenze lo strumento principe di relazione era quello dell’incontro fisico, oggi tali interazioni e incontri avvengono grazie al nuovo strumento dei social network. Chi di noi utilizza i social network, si è sicuramente posto, preventivamente o nel momento stesso dell’uso (magari anche compulsivo) la fatidica domanda: a cosa mi serve Facebook? Cosa ottengo grazie alla comunicazione attraverso Twitter? Lo stesso quesito è presente anche nei nostri ambienti formativi e pastorali, e anche in una certa impostazione accademica. Sintetizzo al massimo: perché occorre parlare di questi «nuovi strumenti» all’interno della Chiesa, all’interno dei nostri ambienti? Risposta (scontata? tautologica?): perché si sono diffusi anche in questi ambiti e vengono utilizzati ampiamente. Ecco: la nostra riflessione, che vuole rimanere molto concreta, spesso parte da queste considerazioni «strumentali», funzionali. Il rischio è che si fermi a questo livello di valutazione e considerazione. Ad esempio, è certamente vero che si parla dei social network in ambito pastorale, perché i giovani li usano e perché i formatori li perce382
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piscono all’interno di una nebbia fitta di ignoranza e di preoccupazione; ma la nostra riflessione – che legittimamente può partire da qui – non può fermarsi a questo livello. È molto importante definire subito cosa intendiamo per social network. Essi non sono in realtà dei semplici strumenti. O meglio, pur conservando una dimensione strumentale – come tutte le cose che teniamo in mano e che usiamo – non possono essere rinchiusi all’interno di questa gabbia di comprensione. Partiamo da un esempio molto concreto: quando siamo davanti a un computer e decidiamo di iniziare a navigare su un qualsiasi social network (pensiamo per semplicità a Twitter) compiamo alcune operazioni preliminari. Intanto, per cominciare accendiamo (se è necessario) il nostro computer oppure prendiamo in mano il nostro telefono; due operazioni apparentemente semplici e innocue. Certamente due azioni differenti: un conto, infatti, è avere a che fare con uno strumento tendenzialmente ingombrante, inizialmente spento, che necessita di essere acceso (operazione che richiede passaggi e tempo), posizionato di fronte a noi, e, infine, nel quale attivare l’applicazione con cui entriamo all’interno del software utilizzato per connettersi a Twitter ecc. Altro conto è prendere in mano un cellulare, sul quale basta fare click (a volte neppure quello) per trovarci subito immersi nel «mondo di comunicazione» attivato grazie al social network. Su entrambi i dispositivi poi occorre «entrare» nelle applicazioni adeguate, dichiarando la propria identità attraverso il procedimento di immissione di login e password; anche nel caso potessimo bypassare questo procedimento (dati già salvati), è comunque chiaro che stiamo entrando, con la nostra faccia, con la nostra identità (storia, emozioni, desideri, problemi ecc.) all’interno di qualcosa di nuovo, qualcosa nel quale prima non eravamo e ora ci stiamo inserendo. Questo processo di «accesso» e di attivazione della nostra operatività appare quindi come un qualche cosa di strutturato (in passaggi), di coinvolgente; qualcosa di molto simile a ciò che noi, in ambito liturgico, chiamiamo «rito». Quello che si sta compiendo è in effetti un vero e proprio rito; un’azione rituale con un valore che va ben al di là del semplice meccanismo tecnico/ tecnologico; un’azione simbolica, attraverso la quale si esprimono significati, azioni, relazioni. Un’azione che coinvolge tutta la mia persona. U n’azione… significativa. Quando riflettiamo sulla realtà dei social network, occorre quindi usare altre categorie, attraverso l’ausilio di un linguaggio diverso, che ci permetta di cogliere nuovi spazi di analisi e conseguentemente di conoscenza esperienziale. Luogo, spazio, ritualità, relazione, comunicazione: pur nell’inevitabile incompletezza della nostra riflessione questi elementi possono cercare di definire la complessità e insieme la potenzialità di quello che può avvenire all’interno di questo nuovo luogo comunicativo che chiamiamo «social
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network». Un luogo, quindi, che si identifica in una relazione fondata su un testo, che si crea, si forma, si struttura all’interno di uno spazio ben definito dalla forma della comunicazione specifica che avviene nei luoghi sociali. Proprio per questo i social network non sono luoghi disabitati, o luoghi non significanti/significativi per noi. Sono luoghi nostri, nei quali si realizza e si costruisce la nostra vita (relazioni, comunità, affettività). Proprio in questo senso si è espresso papa Francesco nel messaggio per la 48° Giornata delle comunicazioni sociali: «La rete digitale può essere un luogo ricco di umanità, non una rete di fili, ma di persone». Come precedentemente affermato, lo spazio nel quale ciò si realizza è concretamente il testo, la narrazione sui social network, realizzata nell’atto dello scrivere oltre che nel suo contenuto; un atto, un evento che si realizza all’interno di un luogo di esperienza significativa, pesante dal punto di vista del valore relazionale e comunicativo. Così come in ogni altro testo, ciò che si scrive all’interno dei social network crea un suo peculiare spazio comunicativo e si realizza attraverso e «dentro» un tempo specifico. Spazio e tempo non sono semplici coordinate all’interno delle quali si colloca la comunicazione, ma vere e proprie «dimensioni esperienziali»; esse sono l’humus, l’ambiente vitale, della comunicazione, anzi, a ben guardare, la comunicazione stessa. Spazio e tempo diventano così luoghi comunicativi di una vera e propria esperienza, di cui gli utenti fanno parte, nella quale vivono, si strutturano, respirano, esistono come uomini e donne, e come – soprattutto – credenti responsabili. Il passaggio successivo della nostra riflessione non può che condurre a ri-definire lo «strumento-social» come ambiente comunicativo; in esso si viene a realizzare l’incontro di persone che, manifestandosi agli altri, creano processi comunicativi e partecipativi. Quando parliamo di ambiente comunicativo è necessario fare riferimento al fattore della localizzazione e della temporalità, ovvero al fatto che l’ambiente si costruisce fondamentalmente attorno alle coordinate dello spazio e del tempo. L’ambiente è perciò prima di tutto «spazio», o sarebbe meglio definirlo «luogo sociale». I social network, così come le «vecchie» chat line e come tutte le altre forme di interazione mediate dal computer, non si realizzano infatti all’interno di un luogo fisico (anche se sono rese possibili da elementi fisici rappresentati dai computer e dalle loro interfacce), ma danno l’occasione ai partecipanti di condividere un nuovo tipo di luogo: un luogo sociale. Essere in un «luogo sociale» di comunicazione presuppone allora la partecipazione dei membri alla stessa dinamica comunicativa, la quale determina l’accadere di specifiche dimensioni relazionali, vitali e significative; la costruzione di una vera e propria «comunità di comunicazione e relazione». Ma come è possibile realizzare in modo compiuto la nostra presenza nella comunicazione e nella relazione, non essendoci fisicamente? Qual è il «codice», quale la «materia prima» attraverso la quale si realizza questa nostra presenza significativa?
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Attraverso la comunicazione intesa come partecipazione – questa credo sia la nostra risposta – i membri dei social network si manifestano agli altri in particolare attraverso una dinamica relazionale di «autonarrazione». Se è vero – anche se solo in parte – che la comunicazione, essendo mediata da uno strumento tecnico quale il computer, non riesce a dare in modo perfettamente chiaro una «descrizione» degli utenti che ne fanno uso, è altrettanto vero che il linguaggio discorsivo che in essa viene utilizzato porta gli utenti a rappresentarsi e raccontarsi. Anzi: a rappresentarsi… raccontandosi! Così facendo danno di loro un’immagine, una definizione; questa non sarà certamente di tipo «descrittivo» (immagine fisica, carattere ecc.) ma di tipo «discorsivo». Realizzando la presenza all’interno dei social network attraverso la modalità del dialogo, gli utenti non solo raccontano «delle cose» ma si raccontano; per essere più precisi potremmo dire che «raccontano se stessi», facendo trasparire la propria personalità, mettendo in comunione alcuni sentimenti piuttosto che altri, gestendo la comunicazione attraverso dinamiche relazionali specifiche. La dinamica del racconto determina la manifestazione delle persone all’interno della Rete; nello stesso tempo però, in virtù delle sue specifiche dimensioni relazionali, si percepisce e si realizza nell’incontro con l’altro. L’incontro con l’altro nasce dal dialogo non puramente oggettuale che diventa discorso; attraverso di esso, l’utente riesce a incontrare l’altro come colui al quale «raccontare» la propria «biografia». L’altro diventa così non solo uno a cui «dire qualche cosa», ma un vero e significativo spazio vitale; un luogo e un tempo nel quale l’autorappresentazione di sé diventa «biografia» di sé, nel quale l’incontro con l’altro diventa creazione di uno spazio e di un tempo di vita, un vero e proprio «luogo dell’esistenza». Il papa emerito Benedetto XVI, nel messaggio per la 47° Giornata delle comunicazioni sociali, diede importanza a questo aspetto affermando che «se i network sono chiamati a mettere in atto questa grande potenzialità, le persone che vi partecipano devono sforzarsi di essere autentiche, perché in questi spazi non si condividono solamente idee e informazioni, ma in ultima istanza si comunica se stessi». In questo spazio vitale, che abbiamo chiamato «luogo dell’esistenza», i soggetti comunicativi ritrovano una possibilità di crescita personale e sociale. Diventa così un luogo pedagogico, capace di specifiche potenzialità educative anche all’interno dei nostri percorsi formativi a tutti i livelli pastorali. Quello che avviene all’interno dei social network è la realizzazione di un progetto di costruzione del sé e delle nuove forme di interazione sociale grazie alle quali l’individuo si colloca e si rende disponibile alla comunicazione. Si tratta di un percorso che tende a definire il sé non come un’entità di tipo fisico, ma come un progetto simbolico riflessivo alla cui costru-
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zione il soggetto partecipa attivamente; la costruzione avviene attraverso il reperimento di materiali simbolici che vengono attinti dall’ambiente comunicativo del quale si fa parte e incorporati in questo «progetto su di sé», i quali vengono inseriti all’interno di un racconto «autobiografico» sottoposto a una continua revisione e ricerca di coerenza. Attraverso una sorta di «narrazione» ininterrotta, viene perpetuata l’unità della consapevolezza del sé all’interno di questo processo di autoformazione e di una nuova strutturazione sociale. Ovviamente tutto ciò rientra in un piano pedagogico, nel quale – attraverso la dimensione comunitaria della relazione – io cresco come credente nella responsabilità dell’incontro quotidiano (e reale) con gli altri suoi social network. In questa prospettiva biografico-relazionale, attraverso la quale abbia mo sottolineato alcuni dei guadagni teorico-pratici della comunicazione attraverso i social network, si realizza quella che può essere chiamata «responsabilità linguistica». Una responsabilità nei confronti della costruzione del sé in relazione con gli altri; una responsabilità che ha molta attinenza con la dimensione sempre in divenire della «casa» del popolo di Dio che è la storia. In questa casa si gioca la nostra continua risposta al patto di amore che Dio realizza con noi in Cristo. In questa casa – che non è fuori dal mondo dei social network ma in essi si «abita» – si realizza quella che può essere a mio parere considerata la sfida più grande: vivere significativamente l’incontro con l’altro, viverlo nella carità, viverlo nella presenza dello Spirito che inabita le nostre relazioni rendendole così ancora più «reali», valoriali, responsabili. In conclusione, possiamo riprendere le parole del papa emerito Benedetto XVI, per la 47° Giornata delle comunicazioni sociali: L’ambiente digitale non è un mondo parallelo o puramente virtuale, ma è parte della realtà quotidiana di molte persone, specialmente dei più giovani. I network sociali sono il frutto dell’interazione umana, ma essi, a loro volta, danno forme nuove alle dinamiche della comunicazione che crea rapporti: una comprensione attenta di questo ambiente è dunque il prerequisito per una significativa presenza all’interno di esso.
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Federico Badiali Docente incaricato presso la FTER Guido Benzi Direttore Ufficio catechistico nazionale della CEI Paolo Boschini Docente di Filosofia presso la FTER Luca Bressan Docente presso la FTIS (Milano) Pier Luigi Cabri Docente incaricato presso la FTER S.em. card. Carlo Caffarra Arcivescovo di bologna e Gran cancelliere delle FTER Giacomo Canobbio Docente presso la FTIS (Milano) Massimo Cassani Docente di Teologia morale presso la FTER S.e. mons. Rino Fisichella Presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione
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Aristide Fumagalli Docente presso la FTIS (Milano) Giuseppe Gervasio Già docente presso la FTER Luigi Guglielmoni Teologo, catecheta e pastoralista, parroco a Salsomaggiore Terme Jean-Paul Hernández Docente invitato presso la FTER Luciano Luppi Docente incaricato presso la FTER Maurizio Marcheselli Docente di Sacra Scrittura presso la FTER Paolo Padrini Sacerdote esperto di comunicazione e nuove tecnologie Rinaldo Paganelli Docente presso l’Università Pontificia Salesiana (Roma) Giovanni Cesare Pagazzi Docente presso la FTIS (Milano) Matteo Prodi Docente incaricato presso la FTER Davide Righi Docente di Patrologia, Liturgia e Islamistica presso la FTER Brunetto Salvarani Docente incaricato presso la FTER Maurizio Tagliaferri Docente di Storia della Chiesa presso la FTER Riccardo Tonelli Salesiano, già docente presso l’Università Pontificia Salesiana (Roma)
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Presentazione Maurizio Tagliaferri......................................................................... p. 5 Saluto del card. Carlo Caffarra.................................................... » 23 Teologia dell’evangelizzazione. Riflessioni a conclusione del Sinodo dei vescovi Rino Fisichella.................................................................................. » 25 1. Incontrare Cristo.................................................................... » 25 2. Alcune chiarificazioni sul concetto....................................... » 28 3. Il destinatario......................................................................... » 31 4. Il dibattito sinodale................................................................ » 32 La Teologia dell’evangelizzazione a Bologna nel quadro della teologia post-conciliare. Un bilancio tra continuità e sviluppi Luciano Luppi.................................................................................. » 39 Premessa..................................................................................... » 39 1. Il valore di una scelta coraggiosa e anticipatrice: una licenza in Teologia dell’evangelizzazione (TE)........... » 40 2. Significativi indicatori di marcia: i convegni....................... » 42 3. Due primi fondamentali contributi....................................... » 43 4. Traiettorie di approfondimento della Teologia dell’evangelizzazione................................... » 47 5. Note per una riflessione sullo statuto epistemologico della TE.................................. » 55 Il dinamismo dell’evangelizzazione: parola di Dio, annuncio e testimonianza Guido Benzi...................................................................................... » 61 1. Il dinamismo «audace» della nuova evangelizzazione...... » 61
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2. Vangelo: valore «performante» di un termine.................... » 65 3. Il dinamismo dell’annuncio: un radicamento «profetico»... » 72 La liturgia luogo di coinvolgimento del sensibile nello Spirito e il suo ruolo nell’evangelizzazione Davide Righi..................................................................................... » 79 1. La liturgia ha un ruolo nell’evangelizzazione?.................... » 79 2. La liturgia luogo di coinvolgimento del sensibile............... » 85 3. L’attenzione ai linguaggi della comunicazione liturgica e l’opera dello Spirito di Dio................................................. » 86 Parrocchia, aggregazioni ecclesiali e nuova evangelizzazione Luigi Guglielmoni............................................................................ » 89 Un’opportunità............................................................................ » 89 1. Incontrare Cristo.................................................................... » 91 2. Pluriformità nell’unità........................................................... » 92 3. Insieme nell’eucaristia.......................................................... » 93 4. Tutti in missione.................................................................... » 94 5. Nessuno è autosufficiente..................................................... » 95 6. Aspetti da approfondire........................................................ » 97 7. Un esempio............................................................................ » 98 8. Con spirito evangelico.......................................................... » 100 9. Nuovi stili............................................................................... » 101 10. Sguardo di speranza............................................................. » 103 11. Tempo del laicato................................................................. » 104 Conclusione................................................................................ » 106 Verità, parola e Spirito. Il fondamento giovanneo
di una teologia della testimonianza/annuncio
Maurizio Marcheselli....................................................................... 1. Testimonianza e annuncio.................................................... 2. Verità / parola / Spirito......................................................... 3. La teologia giovannea della testimonianza/annuncio: considerazioni conclusive.....................................................
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Quale cristologia in un contesto post-moderno? Giovanni Cesare Pagazzi................................................................ 1. Il post-moderno sospettato. Alcune voci critiche................ 2. Il post-moderno come occasione teologica.......................... 3. Salvatore delle cose e della loro com-prensione.................
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L’evangelizzazione nello spazio sacro Jean-Paul Hernández...................................................................... » 163 Noi e i ricomincianti alla luce della prassi di Gesù. Opportunità e sfide Rinaldo Paganelli............................................................................. » 173 1. I ricomincianti presenza da riconoscere.............................. » 173
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2. Gesù educatore alla fede...................................................... » 177 3. Conseguenze operative........................................................ » 185 Conclusioni................................................................................. » 187 La questione antropologica come luogo della verità teologica in un contesto plurale
Paolo Boschini.................................................................................. 1. Premessa storico-metodologica............................................ 2. Il modello dialogico: il profilo antropologico della verità...................................... 3. Il modello metafisico............................................................. 4. Il modello ermeneutico......................................................... 5. Perché è preferibile il modello ermeneutico. Sei tesi sulla verità teologica nel magistero post-conciliare................................................ 6. Cinque tesi conclusive per il ripensamento della Teologia dell’evangelizzazione alla luce dell’idea ermeneutica di verità teologica.............
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La vita buona e la qualità della testimonianza cristiana Aristide Fumagalli........................................................................... Introduzione................................................................................ 1. Una definizione della vita buona......................................... 2. La liquidazione della vita buona.......................................... 3. La visione biblica della vita buona....................................... 4. La specifica testimonianza cristiana..................................... 5. Una triplice attività testimoniale.......................................... 6. La bellezza della testimonianza........................................... 7. La testimonianza della Chiesa..............................................
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Pluralismo religioso ed evangelizzazione Brunetto Salvarani........................................................................... Ouverture. «Né su questo monte né a Gerusalemme»............ 1. Vedere. Dalla religione degli italiani all’Italia delle religioni.......................................................... 2. Giudicare. Fare missione in un mondo plurale................... 3. Agire. La missione come dialogo profetico.......................... 4. Finale. Attrezzarsi al dialogo................................................
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Verità e vangelo in economia e politica Matteo Prodi..................................................................................... Premessa..................................................................................... 1. Uno sguardo alla DSC oggi.................................................. 2. Il ruolo della DSC nella vita del mondo............................... 3. Il mondo oggi. Alcune fotografie.......................................... 4. Alcune pagine bibliche potenzialmente decisive............... 5. Quale via percorrere?............................................................ 6. Conclusione........................................................................... Appendice. Un’ipotesi riassuntiva: il lavoro.............................
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Autocomprensione della Chiesa come luogo di salvezza Giacomo Canobbio.......................................................................... 1. Nota metodologica................................................................ 2. Dato fondamentale: la Chiesa luogo dei «salvati».............. 3. Un dato «derivato»: la Chiesa luogo in cui si ottiene la salvezza.............................................................................. 4. Esclusivismo soteriologico in funzione «politica»............... 5. Conclusione: una Chiesa de-centrata.................................. Quale forma di Chiesa per l’evangelizzazione oggi? Nuova evangelizzazione e riforma della Chiesa Luca Bressan.................................................................................... 1. L’urgenza della nuova evangelizzazione............................ 2. Il concilio Vaticano II e l’aggiornamento della Chiesa....... 3. Conclusione. La sfida di una forma Ecclesiae adeguata al tempo................................................................. Il secondo annuncio: l’esperienza dei movimenti Federico Badiali............................................................................... Introduzione................................................................................ 1. Stato della questione............................................................. 2. Cammino neocatecumenale................................................. 3. Comunione e liberazione...................................................... 4. Movimento dei Cursillos di cristianità................................. 5. Movimento dei Focolari........................................................ 6. Rinnovamento nello Spirito Santo........................................ 7. L’esperienza dei movimenti: un’etica familiare del secondo annuncio............................. 8. Conclusione: quale apporto da parte della Teologia dell’evangelizzazione?..........................................................
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La famiglia soggetto di evangelizzazione Massimo Cassani............................................................................. Introduzione: l’autorevole parola degli ultimi pontefici.......... 1. La significativa testimonianza della Chiesa dei primi secoli................................................. 2. La famiglia soggetto di evangelizzazione in epoche di persecuzione.................................................... 3. Fondazione teologica della soggettività della famiglia...... 4. Una concreta proposta di «famiglia soggetto di evangelizzazione»........................
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Provocazioni dell’inculturazione al magistero e alla teologia Pier Luigi Cabri................................................................................ 1. Il termine «inculturazione»................................................... 2. Il processo di inculturazione in un contesto cambiato........ 3. Modelli e tesi sull’inculturazione......................................... 4. L’inculturazione come «dialogo profetico».......................... 5. Sfide e provocazioni..............................................................
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Forme e strutture di corresponsabilità nella Chiesa a servizio dell’evangelizzazione Giuseppe Gervasio.......................................................................... 1. Nella Chiesa, comunità dei credenti: sinodalità, partecipazione, corresponsabilità...................... 2. Il dialogo intraecclesiale, il dialogo con le culture, il discernimento comunitario................................................ 3. Per il cammino dell’evangelizzazione: alcune condizioni di base nella linea della formazione e del servizio in una dinamica di partecipazione e corresponsabilità...... 4. Per il cammino dell’evangelizzazione: il discernimento comunitario................................................ 5. Alcuni spunti per una riflessione sul disegno e l’esperienza dei «Consigli pastorali diocesani»............... 6. Per un rinnovato disegno dei Consigli pastorali diocesani, secondo la dinamica della sinodalità...................................
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Appendice Narrare per aiutare a vivere: la narrazione per la comunicazione della fede
Riccardo Tonelli............................................................................... 1. Senso e limite di una riflessione........................................... 2. Individuare i problemi per trovare soluzioni....................... 3. Una distinzione che spalanca la prospettiva della narrazione...................... 4. La proposta della narrazione................................................ 5. Il narratore come testimone..................................................
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Social network, spazio di esperienza condivisa e luogo di possibile evangelizzazione. Una sfida fondativa al nostro agire ecclesiale Paolo Padrini.................................................................................... » 381 Elenco degli autori.......................................................................... » 387
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