Letteratura e geografia. Atlanti, modelli, letture

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Lettera tura e geografia Atlanti, modelli, letture A cura di Francesco Fiorentino e Carla Solivetti Quodlibet Studio

Indice

7

Premessa Francesco Fiorentino e Carla Solivetti

13

Verso una geostoria della letteratura Francesco Fiorentino

45

Letteratura e geografia: la via italiana Gabriele Pedullà

93

Cartografie sonore e modernità migranti Iain Chambers

99

Semiotica e geografia letteraria Isabella Pczzini

11 5

Costellazione Soglia Dario Gentili

131

Puskin e Tolstoj: il tema del Caucaso Boris Andreevic Uspcnskij

149

«Tutti a Chersonl» Cartografia delle Anime morte Carla Solivetti

171

Topografia e metafisica nel Maestro e Margherita di Michail Bulgakov Rita Giuliani

6

INDICP.

187

Riscritture dello spazio urbano: l'appartamento in coabitazione (kommunal'naja kvartira) Laura Piccolo

201

Volga: folclore e letteratura Lena Szilard

217

I paesi di confine nella coscienza letteraria russa Marija Virolajnen

Premessa Francesco Fiorentino e Carla Solivetti 1

r. Scriveva Edward Said in Culture and Imperialism (1993) che «nessuno di noi sta al di fuori o al di là della geografia», «nessuno sta del tutto fuori dalla lotta per la geografia». Questo vale pure e sempre per la critica e la storiografia letteraria: anche quando la geografia non sembrano considerarla, esse sono sempre implicate in questa lotta che - sottolineava Said - «non riguarda solo soldati e cannoni ma anche idee, forme, rappresentazioni e meccanismi dell'immaginario»2.. Come gli altri cultural turns che negli ultimi due decenni hanno riorganizzato profondamente gli studi umanistici3, anche lo spatial turn riporta alla ribalta - ma declinandoli in una prospettiva assolutamente contemporanea - saperi occultati sul rapporto strettissimo che lega il potere, lo spazio e i modi di rappresentazione della storia. Saperi occultati dall'interesse per il tempo e per la storia che ha a lungo esercitato un ruolo egemonico negli studi umanistici. Poi la crisi del concetto tradizionale - occidentale, teleologico, omogeneo - di Storia, il processo di decolonizzazione e l'abbattimento della cortina di ferro, le migrazioni che ne sono derivate, l'accelerazione della mobilità, la globalizzazione con la conseguente perdita di significato dei confini nazionali e, non da ultimo, la rivoluzione digitale hanno smosso il nostro senso dello spazio, mostrandoci la contingenza, la mutevolezza ' Queste pagine sono il frutto di un dialogo tra i due autori. A Francesco Fiorentino si deve la stesura del primo paragrafo, a Carla Solivetti quella del successivo. 1 Edward W. Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell'Ocddente, Gamberetti, Roma 1998, p. 82 (cd. or. Culture and Imperialism, Knopf, New York 1993). J Per un panorama critico generale sulle svolte culturologiche si può vedere Doris Backmann-Mcdick, Cultura/ Tums. Neuorte,1tien111gen in den Kulturwissenschaften, Rowohlt, Reinbcck 2006, sullo spatial tum pp. 284-328.

8

PREMESSA

delle geografie. Hanno rivelato in modo sempre più incontrovertibile una contemporaneità di mondi eterogenei che non si lasciano sussumere sotto un'unica temporalità storica. Così lo spazio sale alla ribalta, si profila come la categoria che, più del tempo, pare adeguata per pensare e rappresentare l'eterogeneità sempre più palese dei sistemi culturali e delle loro storie. L'idea di Kant che la Storia «non è altro che una ininterrotta geografia» 4 acquista più che mai attualità. Anche nell'analisi e nella teoria della letteratura si è imposta una prospettiva critica che fa leva, in modi molteplici, sulla categoria dello spazio per pensare la stessa storia della letteratura come una «ininterrotta geografia», una continua riscrittura della terra, una persistente produzione di topografie immaginarie, di cartografie mitiche e simboliche che contribuiscono in maniera determinante a quella complessa organizzazione di un sistema di luoghi - materiali, sociali, simbolici - che è fondamentale per ogni cultura: essendo essa uno dei modi primari in cui gli individui danno senso e riferimenti all'identità, istituiscono un'alterità, regolano la relazione con essa, determinano la sfera del reale e del possibile, dell'interdetto e del simbolico. È così alla geografia che sempre di più ci si affida per elaborare più convenienti modalità di concepire e rappresentare la storia e la storicità della letteratura. Si tenta di ripensare la tradizione letteraria come rete di luoghi non omogenei che la letteratura contribuisce in modo determinante a costruire, quindi anche come mutevole geo-grafia immaginaria che interferisce con quella "reale", ridefinendola continuamente, non di rado rimandando al suo carattere fattizio, ricordando che lo spazio non è ma si produce e diviene nella comunicazione sociale, politica, artistica, e che ogni "mappa" costituisce la realtà di cui vuol essere descrizione, che a disegnarla sono la storia come il presente, l'immaginario, la memoria come i desideri e gli interessi dell'attualità. È la nostra era digitale e globalizzata che ci spinge a elaborare modelli di rappresen◄ lmmanuel Kant, Vor/esungen uber physische Geographie (1802.), in Imma1111e/ Kant's sammtliche Werke, hrsg. v. Kart Rosenkranz u. Friedrich Wilhelm Schubert, sechster Theil (Immanuel Kant's Schriften zur physische,i Geographie, hrsg. v. Friedrich Wilhelm Schubert), Leopold Voss, Leipzig 1939, pp. 415-775: 42.7.

PRl!Ml!SSA

9

tazione diversi da quelli dell'epoca in cui la terra era ancora una mappa e non un globo. L'attenzione accresciuta per la dimensione spaziale dell'accadere, per i contesti locali o topografici dei discorsi, delle rappresentazioni, dei linguaggi dell'esperienza è più o meno sottesamente stimolata dall'esperienza sempre più ineludibile che non si dà un sapere sul mondo che non sia reso particolare, limitato e contingente dalla realtà dei luoghi l'uno all'altro irriducibili in cui esso si articola. L'orientamento geografico che da oltre un decennio anima la teoria e la critica letteraria parte da due assunti fondamentali: prima di tutto, l'idea che ogni spazio geografico è sempre anche - e costitutivamente - uno spazio simbolico prodotto dai testi che lo hanno descritto e investito di significati, attraversandolo con discorsi e saperi, esperienze e sogni i più disparati; e poi l'idea che, viceversa, ogni testo è sempre modellato dallo spazio in modi molteplici e prende sempre implicitamente posizione rispetto alle topografie culturali costituite. In altre parole, i luoghi del mondo vengono intesi come prodotti dell'immaginario, oltre che di necessità materiali, e allo stesso tempo come produttori di realtà, riferimenti essenziali per il lavoro del desiderio come della memoria, per l'evocazione di fantasmi privati e collettivi, per l'articolazione del racconto di sé e degli eventi. Se così è allora - e torniamo al secondo assunto - ogni testo letterario sottende una propria geografia, declina o immagina in un modo suo proprio la nostra inscrizione nella materialità del mondo, contribuendo a disegnare una topografia collettiva che, stabilendo un insieme di possibilità e di interdizioni, organizza i flussi dell'immaginario e orienta quindi il «desiderio narrativo»s di attualizzarle, trasgredirle, di mobilitarle per dislocarle e inventarne altre. Così la letteratura lavora a un'altra geografia - poetica, immaginaria - che si correla in modi molteplici e più o meno criticamente con quella reale, qualsiasi cosa si voglia intendere con questo aggettivo. I saggi raccolti in questo volume interrogano, da prospettive e con approcci ermeneutici diversi, il rapporto tra letteratura e geos Il concetto è di Peter Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto ,re/ discorso narrativo, Einaudi, Torino 1995, pp. 41-66 (ed. or. Reading for the P/ot. Desig,r a11d Intetztio,r in Narrative, Knopf, New York 1984).

IO

PRl!Ml!SSA

grafia, propongono categorie nuove per rappresentare la spazialità contemporanea, indagano i significati culturali dello spazio geografico e i modi in cui la letteratura li rielabora o contribuisce a produrli. In questione sono gli spazi costruiti - o ricostruiti dalla letteratura e gli spazi in cui la letteratura viene prodotta.

2. Molti dei testi presentati in questo volume trattano di letteratura russa. Non a caso, giacché in Russia la geografia ha da sempre avuto un ruolo di gran rilievo nell'immaginario collettivo, esercitando un'azione determinante sui percorsi e sulle grammatiche della creatività letteraria. Lo spazio geografico è stato per i russi un organo della storia e della cultura. L'orgoglio della vastità della loro patria ha lasciato tracce sostanziose nella letteratura, dove poi non è difficile incontrare personaggi come quelli di Lev Tolstoj, che si considerano gente della steppa, nomadi-pellegrini. E spesso la letteratura ha dato rilievo, oltre che alla vastità, alla varietà di spazi tanto estesi: le regioni polari, la tundra, le foreste, le steppe, i semideserti con i monti, gli altipiani, e poi quelle regioni "asiatiche" del Caucaso e della Crimea considerate nella mentalità russa come "proprie". Per molto tempo la letteratura russa è stata quasi solo letteratura pietroburghese e moscovita; come notava ancora Chlebnikov, scarsa è in essa la presenza di zone come gli Urali o la Siberia o altri territori orientali. Solo con le avanguardie del Novecento gli orizzonti geografici dell'arte e della cultura russa avrebbero conosciuto una progressiva espansione con l'arrivo dalle zone periferiche del Paese di scrittori e pittori che diedero visibilità alle regioni più remote dell'estremo Oriente russo. Da sempre in terra russa hanno giocato gli effetti di differenze spaziali, non solo riguardo ai conflitti interculturali tra la superetnia russa e i vari popoli inclusi nel "suo" territorio. Nella culturologia russa le particolarità di carattere geografico hanno assunto un ruolo cruciale nella produzione ovvero nella articolazione di idee soprattutto in relazione all'antico asse Nord-Sud ("la via dai Variaghi ai Greci") come anche alla contrapposizione tra Russia e Europa, Oriente slavo e Occidente europeo, generando fenomeni come il panslavismo e l'eurasismo. Si pensi soltanto allo sia-

PREMESSA

II

vofilismo di Nikolaj Danilevskij e al suo La Russia e l'Europa (1869 ), di cui è noto l'influsso che ebbe su Dostoevskij. Il conflitto tra Russia e Europa è, come si sa, costitutivo per l'opera di questi come, in genere, per il «romanzo di idee» russo del tardo Ottocento, il quale - ha scritto Franco Moretti - è un esempio evidentissimo di come la geografia possa «indirizzare l'evoluzione formale: poiché solo un paese che era al tempo stesso "dentro" e "fuori" l'Europa -solo la Russia, cioè-poteva "mettere in discussione" la cultura dell'Europa moderna, e sottoporla anzi (con Dostoevskij), a dei veri e propri "esperimenti"»'. Anche il «dialogismo» di Michail Bachtin può essere riportato alla posizione geografica, anzi geoculturale di confine in cui si situa la Russia, al poliprospettivismo dialettico che si genera dal suo essere tra Oriente slavo e Occidente europeo?. Lo spazio geografico come generatore di teoria: ciò vale anche per un altro concetto euristico fondamentale sviluppato da Bachtin come quello di «cronotopo» 8 • E vale anche per la semiotica dello spazio letterario elaborata dalla Scuola di Tartu. Il tentativo di «costruire il metalinguaggio della descrizione della cultura sulla base di modelli spaziali», intrapreso da Lotman, si fonda sull'assunto che l'immagine del mondo di ogni cultura si articola in termini spaziali e, nelle opere letterarie, trova una codificazione primariamente spaziale che poi organizza tutti gli altri livelli dell'espressione9. La prospettiva topologica di questo approccio è certo diversa da quella topografica che caratterizza l'orientamento generale degli studi sullo spazio letterario dopo il cosiddetto spatial turn, tanto che si è anche parlato di topographical turn10• Tut'Franco Moretti, Atla11te del roma11:,:o europeo. 1800-1900, Einaudi, Torino r997, PP· 33-35. 7 lvi, p. 35. 8 Michail Bachtin, Le forme del tempo e del cro11otopo 11el romanzo (r937-38, r973), in Id., Estetica eromatizo, Einaudi, Torino 1979, pp. 2.31-405. 'Jurij. M. Lonnan, Semiotica dello spazio culturale, in Jurij M. Lonnan, Boris A. Uspcnskij, Tipologia della cultura (1973), Bompiani, Milano 1975, pp. 143-2.48: 150151; cfr. anche Id., La struttura del testo poetico (1970), Mursia, Milano 1972., pp. 2.61-2.73. 1° Francesco Fiorentino, I se11tieri del canto. L'Europa dei romanzi e il pensiero co11tempora11eo, in Id. (rur.), Topografie letterarie, «Cultura tedesca» 2.007, 33, pp. 13-54: 18-19.

12

PREMESSA

tavia la riflessione semiotico-culturale di Tartu, come l'opera di Bachtin, restano fondamentali per ogni indagine sul rapporto tra spazio e scrittura letteraria. Ma soprattutto per comprendere come lo spazio geografico possa agire da produttore di teoria letteraria, oltre che di letteratura, e come queste possano trovare proiezioni spaziali che poi a loro volta fungono da superfici di proiezione - ma anche di generazione - di idee, valori, norme, immagini, metafore, memorie. Il volume raccoglie le comunicazioni proposte al convegno internazionale «Geografia e letteratura» che si è svolto il 9 e 10 gennaio 2011 presso il Dipartimento di Letterature comparate dell'Università Roma Tre, dal quale è stato promosso.

Verso una geostoria della letteratura Francesco Fiorentino

Luoghi e testi Sosteneva Oscar Wilde che la letteratura, ben lungi dall'imitarla, precorre la vita, plasmandola ai suoi fini; quantomeno - recita un suo celebre postulato - «la vita imita l'arte molto di più di quanto l'arte non imiti la vita» 1 • Guido Gozzano, descrivendo una Torino d'altri tempi, aggiunge poi che «le cose non esistono se prima non le rivelano gli artisti» 2 • Questo credo antirealistico e perciò assolutamente moderno esercita la sua seduzione persuasiva soprattutto quando si tratta di definire il rapporto tra la letteratura e i luoghi del mondo. Tre esempi tra gli innumerevoli possibili. Italo Calvino in una delle sue pagine da eremita metropolitano: Prima che una città del mondo reale, Parigi, per me come per milioni d'altre persone d'ogni paese, è stata una città immaginata attraverso i libri, una città di cui ci si appropria leggendo3.

Claudio Magris su Trieste: Svevo, Saba, Slapater, non sono tanto scrittori che nascono in essa e da essa, quanto scrittori che la generano e la creano, che le danno un volto, il quale altrimenti, in sé, come tale forse non esisterebbe4. 1 Oscar Wilde, LA decadema della me,zzogna, in Id., l11tenziotli e altri saggi, BUR, Milano 1994, pp. 31-68: 57. La frase parafrasata all'inizio è: «La letteratura è sempre il precursore [sic] della vita. Essa non imita la vita, ma la plasma ai suoi fini». 1 Guido Gozzano, Toritw d'altri tempi, in Id., L'altare del passato, Treves, Milano 1918, pp. 141-167: 152. J Italo Calvino, Un eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Mondadori, Milano 1994, p. 190. ◄ Angelo Ara, Claudio Magris, Trieste. Uti'identità di fronUera, Einaudi, Torino 1982, p. 9.

FRANCESCO FIORENTINO

14

Ryszard Kapuscinski su Pietroburgo, giungendovi per la prima volta in uno dei suoi viaggi attraverso l'impero sovietico morente: Venendo dalla stazione (ero arrivato da Mosca con un treno notturno), pensavo al signor Goljadkin e alle sue incredibili avventure. Non pensavo solo a lui. Pietroburgo compare in talmente tanti romanzi, poesie e leggende, che pare una città quasi più inventata che reale, e la forza del talento di Puskin, Gogol' e Dostoevskij fa sì che a tratti i loro eroi ci appaiano più veri di quelli che incrociamo camminando per strada5.

Ci sono città che per noi sono fatte in una misura non trascurabile di letteratura, almeno finché è dalla letteratura (e non dal cinema) che arrivano la stragrande maggioranza dei racconti dell'immaginario e finché l'immaginario non è assediato dall'informazione. Dire però - come sembrano fare Calvino, Magris, Kapuscinski - che il testo letterario "inventa" il luogo, che ne precede e ne determina la percezione reale, significa dire che la mappa viene prima del territorio e che il territorio è una copia della mappa. Questo - ha sottolineato Franco Farinelli - è stato il rapporto tra mappa e territorio nel mondo moderno occidentale. Non è nel postmoderno, come voleva Baudrillard, quanto piuttosto nell'epoca moderna che il simulacro precede il reale, che la mappa precede il territorio. Al contrario, l'epoca che dicevamo postmoderna e ora - più propriamente e abbandonando un punto di vista assolutamente occidentale - chiamiamo della globalizzazione «si fonda proprio sulla fine di tale anticipo, perché ormai la carta e il territorio non sono più distinguibili fra loro» 6• Ma questa indistinguibilità non può essere decostruita per tornare - come propone Farinelli - «a scoprire il carattere labirintico non della superficie terrestre ma del nostro pianeta»?, cioè della realtà vera che immaginiamo al di là della rappresentazione. La mappa crea il territorio e il territorio crea la mappa: nessuna delle due affermazioni, presa da sola, è vera; lo è soltanto se si riconos RyS7.ard Kapuscinski, Imperium, Fcltrinclli, Milano 2002, p. 246. 'Franco Farinelli, Geografia. U11't11troduzione ai modelli dt mondo, Einaudi, Torino 2003, p. 201. 1

Ibid.

VERSO UNA GEOSTORIA DELLA Ll!lTI!RATURA

r5

sce anche la verità dell'altra. Tra le due entità che il passato sembrava tener ben distinte - tra mappa e territorio, come tra testo e luogo - la distanza si è assottigliata e lo spazio reale è ciò che appare nello iato che continua a separarle, nello scarto tra ciò che mostra la carta e ciò in cui ci imbattiamo seguendo le sue indicazioni. Lo spazio che consideriamo reale si produce sempre da questa tensione, da questa dialettica tra l'esperienza dei luoghi del mondo e le loro rappresentazioni. La consapevolezza intensificata del loro reciproco implicarsi è una delle cause e delle conseguenze del cosiddetto spatial turn, ovverosia di una rinnovata attenzione alla dimensione spaziale nei fenomeni culturali e alla dimensione culturale di ogni spazio nominato dall'uomo. Il rapporto tra testo e luogo non può, dunque, non essere uno degli oggetti costitutivi di ogni approccio critico che tenti di recuperare la dimensione geografica o topografica nello studio della letteratura. Si tratta cioè di comprendere in quali modi i luoghi di una cultura si manifestano nel linguaggio letterario, ma anche in che modo la letteratura partecipa alla costruzione - o alla decostruzione - di spazi, di semantiche geopolitiche e geoculturali. L'orientamento geografico che da una decina d'anni si può rilevare negli studi letterari è generato e sospinto da un doppio interesse per lo spazio nella letteratura e per la letteratura nello spazio, per la spazializzazione del testo e la testualizzazione dello spazio. I luoghi possono raccontare, possono produrre letteratura, oppure essere concepiti attraverso le forme del discorso letterario. Michel Butor diceva della città che può essere considerata «come genere letterario», al cui interno si trovano «differenze di stile tra Tokyo, Città del Messico, New York o Parigi» 8• Ma la città può presentarsi anche come un libro dell'inconscio collettivo, un libro sterminato e mobile in cui nulla si perde e tutto è sottoposto a processi di simbolizzazione, a slittamenti e condensazioni metaforiche, sostituzioni metonimiche, dispersioni, riassemblaggi... «Possiamo interpretare Parigi come un libro di sogni», scriveva ancora Calvino, «come un album del nostro inconscio, come un catalogo di mostri»9. Ma poi, a un livello più di super8 Michel Butor, Répertotre V, Minuit, Paris 1982., p. 36. , Italo Calvino, Utt eremita a Parigi, cit., p. 190.

16

FRANCESCO FIORENTINO

ficie, però non per questo meno profondo, Parigi può essere vista come «una gigantesca opera di consultazione, è una città che si consulta come un'enciclopedia: ad apertura di pagina ti dà tutta una serie di informazioni, d'una ricchezza come nessun'altra città» 10• Vladimir N. Toporov ha ricostruito uno specifico «testo di Pietroburgo»: la città produce un cronotopo peculiare, un ordito simbolico dalle caratteristiche specifiche, continuamente tessuto dalla letteratura in una fitta circolazione intertestuale11 • I luoghi esistono - prevalentemente forse - in forza dell'immaginario che essi producono e da cui poi sono ri-prodotti. Lo studio delle topografie letterarie è in buona parte studio di questo scambio incessante tra la scrittura letteraria e lo spazio geografico che agisce sui testi e dentro i testi in cui è incluso o anche escluso, taciuto o descritto, sognato, meditato ... I luoghi sono sempre anche testi e la scrittura letteraria è sempre anche topografia: cioè descrizione di luoghi che, già in quanto tale, è altresì una scrittura operata dai luoghi stessi. I luoghi sono insomma oggetto e medium di letteratura. Fondamentale è allora chiedersi perché determinati luoghi abbiano un'esistenza letteraria più intensa e duratura rispetto a molti altri. O più esattamente: perché ci sono tanti luoghi letterari che portano lo stesso nome di uno specifico luogo reale. Perché certi luoghi sono più intensamente visitati da racconti o producono più eventi letterari. Sono questioni fondative di una geografia storica della letteratura, anche perché ne implicano molte altre: questioni riguardanti la topografia delle istituzioni letterarie, dei luoghi di produzione e distribuzione della letteratura, i viaggi e i domicili e le migrazioni degli scrittori, ma anche le migrazioni di generi metafore temi forme simboli trame miti ecc. ecc. Per sottolinearlo ancora: non è soltanto lo studio dello spazio in letteratura, ma anche lo studio della letteratura nello spazio. In generale, un approccio geografico alla letteratura funziolvi, p. 179. Vladimir Nikolaycvich Toporov, Peterburgskij Tekst, Nauka, Moskva 2009. Al proposito si veda Carla Solivctti, I topo,ztmi di Pietroburgo e la memoria letteraria, in F. Fiorentino (cur.), Figure e forme della memoria culturale, Quolibet, Macerata 2011, pp. 163-192. 10 11

VERSO UNA GEOSTORIA DELLA LETfl!RATURA

na veramente soltanto se riesce a includere ogni tipo di aspetto e fenomeno letterario. I curatori dell'Atlante della letteratura italiana Einaudi lo hanno enunciato come «postulato di base» del loro lavoro: «non vi è questione di storia della letteratura che riesca impossibile trattare more geographico» 12•

Referenzialità Nei Promessi sposi, Manzoni ci porta con Renzo alla ricerca di Lucia in una Milano sconvolta dalla peste, dalla periferia ai vicoli attorno al Duomo e poi nel lazzaretto di via Festa del Perdono. Del romanzo questa è una delle scene più belle. Ma questa città che attraversiamo con Manzoni è - o è stata - veramente Milano? Qual è la vera Milano? Quella che scorre davanti al nostro sguardo quando passeggiamo per corso Magenta o via Brera? Quella che conosciamo attraverso Manzoni? o Stendhal o tanti altri scrittori o il cinema o la televisione? La distinzione, ovviamente, non è possibile. Per ognuno di noi, in gradi diversi, Milano è un luogo fatto di realtà e finzioni, esperienza personale e informazione culturale. E poi la finzione è una dimensione della realtà istituita culturalmente, per più o meno tacita convenzione. La differenza tra essa e il reale (in qualunque modo Io si voglia definire) non è ontologica ed è soggetta a periodiche rinegoziazioni. Da qualche decennio, lo si sa, la finzione sta sottoponendo l'idea di realtà a una revisione radicale. Visitando Disneyland e altri nonluoghi con Io sguardo dell'etnologo del quotidiano, qualche anno fa Mare Augé osservava: Ci fu un tempo in cui il reale si distingueva chiaramente dalla finzione [... ], in cui si andava in luoghi specializzati e ben delimitati (parchi di divertimenti, fiere, teatri, cinema) in cui la finzione copiava il reale. Ai nostri giorni, insensibilmente, si sta producendo l'inverso: il reale copia la finzione [... ]. Questa spcttacolarizza7jone, questo passaggio alla finzione integrale che fa saltare la distinzione reale/finzione, si estende al mondo intero'3. 11

Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, I11troduziotie a Iid. (rur.), Atlante della let-

teratura italiatw, voi. 1, pp. xv-xxv: xxi. 13 Mare Augé, Disturyland e altri 1101,luoghi, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 47.

18

FRANCESCO FIORENTINO

Ma forse non è possibile realmente distinguere tra un tempo in cui «le finzioni si nutrivano della trasformazione immaginaria del reale» e un tempo «in cui il reale si sforza di riprodurre la finzione» 14. Lo spazio sociale è fatto di luoghi ibridi che concernono diversi livelli di rappresentazione. Disneyland è reale come Guantanamo, ma è anche incomparabile con quest'ultimo. È uno di quei nonluoghi da cui siamo attirati in una zona di indeterminazione dove si palesa che reale e finzione non sono mai veramente separabili né mai del tutto separati e che la loro differenza è istituita soltanto da una prassi discorsiva. La letteratura è anch'essa un luogo classico di questa indeterminazione - che spesso è ci-determinazione della antitesi discorsiva tra reale e immaginario -, il luogo del contatto, della confusione, del rimescolarsi di queste due istanze che hanno bisogno l'una dell'altra per potersi costituire. La distanza tra esse, che nell'esperienza collettiva del presente va assottigliandosi, in letteratura invece sottile lo è sempre stata. Sempre la letteratura ha mostrato una natura immaginaria dei luoghi e delle localizzazioni, lavorando così sulle rappresentazioni dello spazio e del rapporto con il territorio. Come i luoghi sono decisivi nella costituzione dei testi, lo abbiamo detto, così i testi lo sono nella costruzione dei luoghi, come pure nella loro decostruzione, o nella loro deterritorializzazione. Le rappresentazioni letterarie agiscono sui loro referenti spaziali - i luoghi quali li definisce l'orizzonte discorsivo extralettario - manipolandoli, attualizzandone virtualità, mischiandoli, spiazzandoli, spostandoli in tempi che non sono i loro. La scrittura letteraria svuota i luoghi reali del loro significato consueto per inscrivervi le opacità e le luci della storia, le ambiguità del desiderio, per catalizzare fantasmi privati e collettivi o dare forma e corpo alle storie più molteplici. Per questo, perché la letteratura trova nello spazio un medium per dispiegarsi e per articolarsi, lo spazio può essere un medium dell'analisi e della rappresentazione della letteratura.

14

lvi, p. 44.

VERSO UNA GEOSTORIA DELLA Ll!lTl!RATURA

Il palcoscenico e il libro

Una volta, lo abbiamo visto, gli atlanti non si chiamavano così. Il primo atlante in senso moderno fu approntato da Abraham Ortelius raccogliendo una serie di cartine geografiche accompagnate da testi in un volume apparso ad Anversa nel 1570, che prende il titolo di Theatrum Orbis Terrarum. Il termine Theatrum verrà poi presto soppiantato da quello di atlante, ma la metafora dello spazio come teatro sopravvive a lungo. Nelle Lezioni sulla filosofia della Storia di Hegel, ad esempio, la geografia figura come lo studio dello «Schauplatz des Welttheaters», cioè del palcoscenico del teatro universale 15 • Anche Herder, in un discorso del 1784 Sulla Piacevolezza, utilità e necessità della geografia, definisce quest'ultima uno «Schauplatz», un palcoscenico, e paragona invece la storia a un «libro» it:, auspicando una pedagogia che riveli le connessioni strettissime tra la Ereignisgeschichte, la storia degli eventi che scrivono il libro della vita, e il divenire del paesaggio in cui essa si dispiega. «Insomma», scrive, «la geografia è la base della storia e la storia non è nient'altro che una geografia dei tempi e dei popoli messa in movimento» 11. E ancora: «Per mezzo della geografia la storia diventa per così dire una carta illuminata per l'immaginazione, per la memoria, per la capacità di giudizio, poiché soltanto con il suo aiuto diventa chiaro il perché questo e nessun altro popolo ha recitato quello e nessun altro ruolo sul palcoscenico della nostra Terra» 18 • •s Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Vorlesutzgen uber die Philosophie der Weltgeschichte (Ber/in 1822h823). Nachschriften von Karl Gustav Julius von Griesheim, Heinrich Gustav Hotho und Friedrich Cari Hermann, Victor von Kehler, hg. v. Karl Heinz llting et al., in Id. Vor/esungm,. Ausgewiihlte Nachschriften u,uJ Manuskripte, Meiner, Hamburg 1996, Bd. 12, pp. 92-93. '' Johann Gottfried Herder, Von der An,,ehm/ichkeit, Nutzlichkeit und Nothwmidigkeit der Geographie (1784), in Id., samtliche Werke, hg. von Bcmhard Suphan, Bd. xxx, Olms, Hildesheim 1968, pp. 96-103: 103. 11 Jvi, p. 102 ( «Kurz, die Geographie ist die Basis der Geschichte und die Geschichte ist nichts als eine in Bcwegung gesetzte Geographie der Zeiten und Volker» ). 18 Jbid. («Durch die Geographie wird die Geschichte gleichsam zu einer illuminierten Charte fiir die Einbildungskraft, das Gediichtniss, ja fiir die Beurtheilungskraft selbst, denn nur durch ihre Hiilfe wird es deutlich, warum diesen und keine andre Volker, solche und keine andere Rolle auf dem Schauplatz unserer Erde spielten?» ). Bd.

12,

20

FRANCESCO FIORENTINO

Si legge in queste frasi una dimensione geodeterministica che oggi possiamo superare dialetticamente, cioè disinnescare e insieme mantenere, aufheben, pensando alla geografia come dimensione che determina la storia ma anche come orizzonte mutevole, perché inscindibile dall'agire degli uomini, dal farsi e disfarsi delle loro relazioni, da comportamenti e strutture emergenti, dai disegni ingovernabili dell'immaginario. «Lo spazio è un'apertura su fenomeni contingenti», ha scritto Gianni Celati1 9• Ma questa contingenza resta per sempre catturata nello spazio e allo stesso tempo liberata da ogni semplice determinazione, similmente a come - secondo il modello della lavagna magica proposto da Freud - ogni percezione resta scritta nell'inconscio dove non smette di lavorare all'emergenza di comportamenti e strutture imprevedibili. Così, in questo modo sostanzialmente indeterminabile, gli accadimenti della storia non smettono di trasformare la geografia e questa non smette di orientare quelli. Nel 1802, Kant consegna alla sua Geografia fisica questa splendida frase: «La vicenda di ciò che accade in tempi diversi, che è propriamente la Storia, non è altro che una ininterrotta geografia, perciò è una della più grandi manchevolezze storiche quando non si sa in quale luogo una cosa sia accaduta, o cosa questo abbia comportato» 20 • Ecco uno dei postulati di base di una storiografia geo-letteraria: l'idea alquanto elementare, alquanto scontata, ma a lungo rimossa, che se si guarda alla storia letteraria dimenticando i luoghi in cui essa si realizza, ciò che non si coglie è proprio la realtà degli accadimenti storici nella loro contingenza e nella loro continuità, il loro aver luogo qui e adesso, e per sempre. Si dovranno allora leggere romanzi e drammi, poesie e saggi tenendo ben '9 Gianni Celati, Visio11i di spazi e ultraspaZi (2002), in «Golem L'indispensabile», http://www.golemindispcnsabile.it/index.php?_idnod0=6872&page=5&_idfnn=6 1 [30 giugno 2012] • 0 lmmanuel Kant, Vorlesungtm uberphysiscbe Geograpbie (1802.), in Imma1111e/ Kant's siimmtlicbe Werke, hrsg. v. Karl Rosenkranz u. Friedrich Wilhelm Schubert, scchster Theil (Immanuel Kant's Scbrifte,i zur physiscbtm Geographie, hrsg. v. Fricdrich Wilhelm Schubert), Lcopold Vass, Leipzig 1939, pp. 415-775: 42.7 («Die Geschichte dcsjenigen, was zu verschiedenen Zeiten geschieht, und welche die eigentliche Historie ist, ist nichts Anders, als eine continuierliche Geographie, daher es eine der grossesten historischen Unvollstandigkeiten ist, wenn man nicht weiss, an welchem Ort Etwas geschehen sey, oder welche Bcschaffenheit es damit gehabt habc» ).

VERSO UNA GEOSTORIA DELLA Ll!lTI!RATURA

21

presente che il luogo di produzione, il luogo di enunciazione è determinante per il processo creativo così come per la determinazione del significato di un'opera letteraria. All'inizio di Levins Muhle (1964), il primo romanzo di Johannes Bobrowski, c'è una curiosa frase che poi subito si perde nelle volute poetiche del racconto, ma non cessa di chiedere al lettore di posizionare quel racconto in un posto preciso: Forse è sbagliato se racconto come mio nonno ha fatto portare via dalle acque il mulino, ma forse non è neanche sbagliato. Anche se si ripercuote sulla famiglia. Se qualcosa è inopportuno oppure è opportuno [unanstiindig oder anstiindig] dipende da dove ci si trova - ma dove mi trovo io? -, e al racconto si deve semplicemente dare inizio.

Bobrowski mette all'inizio quella frase a dirci che basterebbe spostarla - nello spazio e nel tempo - questa narrazione e avrebbe tutto un senso diverso. Il dove determina il significato, ma il dove implica sempre il quando, giacché i luoghi non possono essere uguali a se stessi. Si trasformano non da ultimi tramite i racconti che li abitano, li attraversano, li abbandonano ma per sempre segnandoli ...

Lo spazio plurale della letteratura Nel 2002, Heinz Schlaffer suscitò molte perplessità ma anche diversi plausi con un piccolo, gustosissimo libro intitolato Die kurze Geschichte der deutschen Literatur. L'autore è un germanista giustamente illustre, di vasta cultura e un'intelligenza critica felicemente spiazzante. La tesi che propone è riassunta dal titolo: La breve storia della letteratura tedesca. La letteratura tedesca, quella che veramente viene letta e vale la pena di leggere, è stata prodotta solo in due periodi: tra il 1770 e il 1830, ossia più o meno nell'età classico-romantica, e tra il 1890 e il 1950, ossia più o meno nell'età classico-moderna. Per il resto nulla che sia degno di nota, se non per gli specialisti. «Stagnazione», al più «latenza», per secoli2. 1 • 11

chen

Heinz Schlaffer, Dte kurze Geschtchte der deutschen l.iteratur, Hanser, Miin-

2002,

p.

21.

22

FRANCESCO FIORENTINO

Una visione selettiva - selettiva dal punto di vista temporale come da quello spaziale - conferisce alla letteratura di lingua tedesca una brevità indicata come tratto affatto particolare che la distinguerebbe dalle altre letterature europee, conferendole la sua specificità, la sua specifica fisionomia. Il fatto è che questa fisionomia è ritagliata sulla storia (politica, sociale, culturale, religiosa) della Germania. Nel disegno di Schlaffer, la Germania è il centro per così dire esclusivo della letteratura di lingua tedesca. Il centro nella cui orbita vengono attirati di tanto in tanto autori provenienti da altre aree germanofone. È un atteggiamento tipico della storiografia letteraria tedesca: si delimita e si osserva il campo letterario "tedesco" a partire da un punto di vista che è determinato da pre-supposizioni critiche e convenzioni di gusto generate da un'esperienza e una memoria culturali che sono tedesche. Ma in fondo questo sguardo storiografico non è soltanto germanocentrico o, almeno, lo è in quanto determinato da una particolare visione spaziale che guarda all'intera area di lingua tedesca come a uno spazio omogeneo, isotopico, centralizzato. Insomma, come allo spazio dello stato territoriale moderno. Pertanto nel campo percettivo non possono entrare quelle differenze storico-culturali che sollecitano una percezione più complessa e diversificata dell'area culturale di lingua tedesca. Che è uno spazio in cui si intrecciano contesti di produzione e ricezione - diversi, nei quali agiscono determinanti geopolitiche che implicano diversità profonde nella mentalità, nel rapporto con la cultura e nella relazione che sempre e ovunque esiste tra la cultura e le strutture politico-sociali. E tutto ciò si ripercuote non poco sui modi in cui si dispiega l'immaginazione letteraria. Basta pensare alla Svizzera tedesca, dove l'identità culturale non coincide con quella nazionale e lo scrittore è chiamato a interrogarsi continuamente sul rapporto tra la sua scrittura e il territorio o l'ambiente da cui nasce, ma anche a confrontarsi con le altre memorie storiche e culturali codificate nella propria lingua. Per questo, sin dall'Ottocento, la letteratura svizzerotedesca ha fornito molto materiale per la riflessione sulla dimensione transculturale e localizzata di ogni cultura: e quin-

VERSO UNA GEOSTORIA DELLA Ll!lTl!RATURA

di offre suggestioni preziose per i dibattiti prodotti dal cosiddetto spatial turn 22 • Tutto un potenziale di conoscenza altamente proficuo per il nostro presente resta inattivo fintanto che non si tiene conto adeguatamente del fatto che la localizzazione geo-politica agisce sempre - con diversi gradi di intensità - sulla produzione letteraria. Può allora avvenire che, ancora nell'epoca di una comunicazione e di una coscienza collettiva che si vogliono globalizzate, scenari culturali come quello svizzero-tedesco restino delle macchie bianche nelle mappe tracciate dalla storiografia letteraria. La rappresentazione delle dinamiche culturali - a dispetto delle nostre conoscenze e esperienze - resta ancora segnata a fondo da quella nazionalizzazione della cultura che nell'Ottocento ha dato vita alle filologie nazionali e ha relegato paesi come la Svizzera in una periferia dimenticata. L'assetto centralistico che la modernità ha conferito ai processi culturali è correlato a un predominio del tempo sullo spazio, ovvero a una svalutazione della dimensione spaziale nell'osservazione dei fenomeni culturali. Valore ha soltanto ciò che appare all'altezza dei tempi accelerati del moderno. Si guarda al mutamento dei tempi e si dimenticano i luoghi in cui esso si realizza con ritmi, modi e vigore spesso molto diversi. Anche se questa modernità appartiene alla storia, è utile non smettere di ripetersi questa verità lapalissiana: gli eventi letterari - come tutti gli altri eventi - hanno luogo, e questo luogo non può più essere considerato in modo alcuno come palcoscenico di drammi o di commedie che si svolgono essenzialmente nel tempo. E tutti questi drammi e queste commedie non possono più apparirci come momenti di un unico grandissimo dramma come quello di una modernità che avanza imperiosa e si lascia alle spalle tutto ciò che non è moderno, per poi magari arenarsi in un girare a vuoto su se stessa. Questo grand récit ci ha permesso di mettere ordine nella complessità disorientante della realtà fenomenica. Forse perciò si è tanto poco guardato allo spazio: perché ciò significa trovarsi di fronte un'insuperabile compresenza dell'eterogeneo, ma 11

2.001.

Francesco Fiorentino, La letteratura della Svizzera tedesca, Carocci, Roma

FRANCESCO FIORENTINO

anche, proprio per questo, alla possibilità di una conoscenza più complessa dei fatti culturali, e della nostra contemporaneità. Ma poi, negli ultimi decenni, l'indebolimento del concetto di Storia e dei grandi racconti che l'hanno sostenuto, insieme al fenomeno complesso che va sotto il nome di globalizzazione, ha reso sempre più manifesta la molteplicità di tempi nascosta dal concetto di modernità. In questo la letteratura ha tutt'altro che un ruolo secondario. La rielaborazione delle storie coloniali, anche nei paesi dell'Est Europa, ha fatto riemergere regioni dimenticate con i loro racconti e i loro tempi. Ma già prima il romanzo aveva continuamente descritto la metropoli, che sempre vi figura come quintessenza della modernità, come un «corpo poliritmico», per usare una bella espressione di Lefebvre:i.J. Questa visione molteplice della temporalità e della storia, percepita sempre più nel segno dell'eterogeneo e dell'incompiuto, ha come suo inevitabile correlato una spazialità che si presenta anch'essa mobile e molteplice, che rende fluidi i territori nazionali: quei territori che la storiografia letteraria ha contribuito non poco a costituire e conservare si sciolgono in una moltitudine di luoghi, espressione di spazi ma anche di tempi eterogenei. Così l'emergenza dello spazio coincide con una deterritorializzazione che rivela altre immagini e possibilità di rappresentazione delle letterature del mondo. Al racconto lineare di una letteratura confinata in una determinata porzione della Terra subentra il racconto di spazi e luoghi, delle loro mille forme, delle innumerevoli connessioni che li legano ... La coerenza del racconto storiografico della letteratura non è più costituita nella dimensione del tempo, dello sviluppo temporale, bensì in quella dello spazio inteso come una tramatura in divenire. La categoria del divenire si combina con quelle della coesistenza e dell'interazione di luoghi eterogenei, interdipendenti, molteplicemente connessi in un sistema aperto. Discutendo della Divina commedia, del modo in cui riesce a catturare «tutta la contraddittoria molteplicità dell'epoca», Bachtin parlava di una «coesistenza di tutto nell'eternità» come punto di fuga dell'immagine del mondo disegnata da Dante. Il 13

Hcnri Lcfcbvrc, La produzione dello spazio, Moiz1j, Milano 1976, p. 326.

VERSO UNA GEOSTORIA DELLA LETil!RATURA

25

disegno del poeta ci racconta - secondo Bachtin - che per comprendere il mondo bisogna porre tutte le cose una accanto all'altra in un unico tempo, vedere le cose in una loro assoluta contemporaneità del coesistere, perché solo così esse rivelano il loro senso24. Per analogia, si può dire che lo spatial turn assume come suo punto di fuga la coesistenza di tutto non nell'eternità ma nell'infinità dello spazio colto in un determinato momento. La prospettiva dantesca è topologica: elimina il tempo per far valere soltanto rapporti strutturali. La contemporaneità con cui invece lo spatial turn invita a lavorare la critica e la storiografia letteraria è invece topografica: accoglie il tempo, anzi le varie temporalità che si danno contemporaneamente in uno spazio-per sottoporci alla sfida insopportabile, eppure sempre rivitalizzante, di una incontrollabile complessità.

Il modello del luogo proprio

Verso la fine delle Città invisibili (1972) di Italo Calvino, Marco Polo si volge a Kublai Kan dicendogli: - Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco. - Ne resta una di cui non parli mai. Marco Polo chinò il capo. - Venezia,- disse il Kan. Marco sorrise. - E di che altro credevi che ti parlassi? - L'imperatore non batté ciglio. - Eppure non ti ho mai sentito fare il suo nome. E Polo: - Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia. - Quando ti chiedo d'altre città, voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia. - Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia. - Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia così com'è, tutta quanta, senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei. [... ] Lf

Michail Bachtin, Fanne del tempo e del aonotopo nel romanzo, in Id., F.ste-

ttca eromam;o, Einaudi, Torino 1979, pp. 2.31-405: 304.

FRANCESCO FIORENTINO

- Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano, - disse Polo. - Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d'altre città, l'ho già perduta a poco a poc25.

Dietro ogni luogo di enunciazione c'è il fantasma della propria città, del luogo proprio, della Heimat. In fondo, di qualsiasi luogo si parli, dice Marco Polo a Kublai Kan, si parla sempre della propria città. Sarebbe allora ogni volta decisivo sapere da dove viene chi scrive, perché è a partire da lì che ogni scrittore continua a scrivere, sempre. È un altro assunto sperimentale che sta alla base di qualsiasi tipo di analisi geo-letteraria. Non è possibile tenere distinta la propria città da tutte le altre, come vorrebbe l'imperatore. Perché poi è proprio per distinguere le altre che si ha bisogno di aver in mente sempre la città propria, per farla funzionare da implicito strumento di misurazione delle qualità degli altri luoghi, che inevitabilmente colora di sé l'altro. Il luogo proprio si specchia e si proietta in ogni racconto dei luoghi del mondo, ne costituisce sempre il riferimento, per quanto implicito e irriflesso, giacché è dal luogo proprio che chi parla trae le esperienze iniziali, originarie forse, e non di rado crede di poterne trarre giudizi che riguardano il mondo tutto. Ma raccontare di altri luoghi è anche un modo di dimenticare il proprio, dice ancora il Marco Polo di Calvino, un modo per dimenticare e cioè per rivedere quelle esperienze e quei giudizi originari che possono assumere la fissità del pregiudizio. Raccontare altri luoghi per raccontare ogni volta del luogo proprio è un modo per guardare la propria origine ogni volta nello specchio dell'altro e così a poco a poco perderla. La letteratura ha da sempre a che fare da vicino con questo movimento di una perdita sempre temuta eppure ricercata. Odisseo appare dall'inizio del racconto omerico mosso soltanto dal desiderio di tornare a Itaca, ma nel raggiungerla poco alla volta la perde; ogni sua avventura certo lo avvicina alla sua isola, ma anche lo allontana da essa perché lo trasforma lontano dalla casa che perciò ritroverà diversa. Questo stesso anda1

s Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, p. 94.

VERSO UNA Gl!.OSTORIA DELLA LETil!RATURA

mento paradossale resta un modello base, che si ritrova in tante forme. Spesso - come ad esempio nel Bi/dungsroman - il luogo d'origine può stare a rappresentare una normatività che il protagonista rifugge ma nella quale poi alla fine si trova invischiato, oppure una condizione di minorità da cui è impegnato a emanciparsi, oppure tante altre cose ancora: qualsiasi significazione o funzione narrativa esso assuma, sempre però il luogo d'origine determina la percezione sociale del protagonista come il suo senso dell'identità, le sue pratiche spaziali come i suoi desideri, i suoi giudizi, il suo racconto. Ma questo è appunto il modo per neutralizzarne la presenza dominante. Raccontare altri luoghi per raccontare ogni volta qualcosa del luogo proprio - ci dice il Marco Polo delle Città invisibili - è un modo per far maturare la propria origine nell'esperienza dell'altro. Raccontare del mondo sarebbe allora un modo per dimenticare l'origine senza traumi, senza la «paura di perderla tutta in una volta». E insieme un modo per far sì che quel luogo resti sempre, come fantasma: fantasma dell'origine necessario a strutturare un senso dell'alterità e della distanza, del vicino e del lontano, forse anche dell'intimo, del diverso ... Le voci della distanza,

All'inizio del racconto sta spesso la distanza: la distanza che il protagonista mette tra sé e il luogo dov'è a casa, poi la distanza attraversata e colmata col racconto stesso. Un naufragio porta Ulisse, porta Giasone fuori dalle rotte del noto, li consegna allo sconosciuto, al selvaggio, persino all'informe, all'intrattabile. Basta un incidente, basta uno spostamento anche minimo dai tragitti consueti e si può essere lontanissimi, in un altro mondo dove le distinzioni che funzionano nel mondo usuale possono non servire più a molto, ma si aprono tutte le possibilità dell'ignoto. Queste distanze - è stato spesso detto - sono state via via cancellate dalla modernità occidentale, che con la sua tecnica ha conquistato e riavvicinato ogni angolo del mondo. Anche di questo parlava Walter Benjamin quando diagnosticava il dissolversi dell'aura, cioè un annullamento delle distanze dovuto al

FRANCESCO FIORENTINO

diffondersi di nuovi media che permettono di avvicinare il mondo alle masse: Che cos'è, propriamente, l'aura? Un singolare intreccio di spazio e di tempo: l'apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina [... ]. Ora, il bisogno di avvicinare le cose a se stessi, è intenso quanto quello di superare l'irripetibile e unico, in ogni situazione, mediante la sua riproduzione. Giorno per giorno si fa valere sempre più incontestabilmente il bisogno di impadronirsi dell'oggetto da una distanza minima, nell'immagine o meglio nella riproduzione 16•

La riproducibilità tecnica consuma il senso dell'unicità di un'opera o di un accadimento e corrisponde a una percezione sempre meno sensibile alle gerarchie, ma anche alle differenze. Questa è appunto una delle manifestazioni di uno svanimento delle distanze indotte dai nuovi media: prima di tutto, ma non solo, della distanza tra gli uomini e tra gli uomini e la realtà che si lascia da essi riprodurre. Alcuni decenni dopo Benjamin, Paul Virilio parlerà di un inquinamento delle distanze indotto dalla nuove tele-tecnologie e dalla perdita di vicinanza corporea che ne deriva: Le più nuove tecnologie fanno sparire lo spazio nella sua estensione e durata. Esse riducono il mondo a un nulla, come si dice. Questa è una perdita profonda[ ... ]. C'e un inquinamento, non solo dell'ambiente materiale, della fauna e della flora[ ...], ma anche delle distanze e delle durate, che mi fanno vivere qui e adesso, in un luogo e in una relazione con altri esseri umani che ha origine mediante incontri, e non attraverso una tele-presenza, una tele-conferenza o tele-shopping17.

È l'incubo più volte evocato di un mondo senza più distanze e quindi senza neanche prossimità reale. Il villaggio globale può essere anche questo. Più o meno esplicitamente, la letteratura non ha mai smesso di ricordarlo, anche combattendo contro l'orrore 1 ' Walter Bcnjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., L'opera d'arte ne/l'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, p. 70. 1 1 Cosl Virilio in una conversazione con Kittler trasmessa nel novembre 199 5 sul canale ARTI!: Die Informationsbombe. Paul Viri/io und FTiedrich Kittler im Gespriich, la si può leggere in rete all'indirizzo: hydra.humanities.uci.edu/kittler/bomb.html [2.9 luglio 2.012.].

VERSO UNA GEOSTORIA DELLA Ll!lTl!RATURA

di questa opprimente prossimità senza contatti, senza distacchi e riavvicinamenti e desideri insoddisfatti di ricongiungersi. Basta pensare soltanto a Kafka, che di una tale condizione ha rivelato e accolto tutta l'angosciosa dimensione nevrotica, trasformandola in una illuminante poesia del negativo. Così - ma ovviamente non così soltanto - la scrittura letteraria lavora per difendere o ricreare il senso delle distanze e perciò della singolarità e della molteplicità dei luoghi che la rendono possibile. Mostra in sempre nuove variazioni come sia un'illusione pensare che le distanze essenziali siano quelle misurabili in metri: queste sì, forse, le si può ridurre fino quasi a renderle irrilevanti, ma ciò non significa sparizione dello spazio, perché lo spazio non è soltanto spatium, intervallo tra due punti rilevato mediante una misura lineare standard. Poi il mondo si espande nuovamente anche attraverso altri media che creano nuovi spazi, virtuali, si estende in nuove distanze che hanno la caratteristica di essere a priori annullate, anche se per lasciar spazio a una vicinanza dimidiata, una vicinanza soltanto acustica e visiva. Al di là dello spazio reale e dentro di esso si apre la possibilità di nuovi incontri e nuove esperienze di sé e dell'altro. Cyberspazio è il nome con cui spesso viene definita questa forma nuova - virtuale - di spazialità, immaginata dalla letteratura prima di essere tecnicamente realizzata e di prendere questo nome che uno scrittore, William Gibson, le aveva dato nell'immaginarla nel romanzo Neuromante del 1984. Questo spazio di comunicazione mediato dalle tecnologie digitali ha una sua geografia peculiare e nient'affatto deterritorializzata, come spesso si tende a pensare 28 • Lo si deve considerare in connessione stretta con il fenomeno complesso che chiamiamo globalizzazione. Entrambi cyberspazio e globalizzazione - inducono un'emancipazione dai vincoli territoriali e dalla spazialità fisica: dei processi economici, culturali, sociali, del senso dell'identità come dell'alterità ... Nella rete tutti i siti sono equidistanti, tutti i percorsi ugualmente veloci. Almeno in via di principio. In realtà poi sono diversamente vicini e la loro vicinanza o lontananza è organizzata 18 Sulla geografia del cyberspazio sono importanti i lavori di Martin Dodge e Rob Kitchin: Mapping Cyberspace e Atlas of Cyberspace, nonché il sito cybergcography.org reali:aato da Dodge.

FRANCESCO FIORENTINO

dalle infrastrutture tecniche, dai meccanismi che regolano l'accessibilità e la ricerca e da altre cose ancora. Resta però il fatto che in essa è data una possibilità di relazione interpersonale che non conosce quasi più l'ostacolo della distanza fisica. La prossimità illimitata resa possibile dalla videotelefonia online è però, ad esempio, attraversata da una intimità bloccata dal contatto fisico negato. Un senso nuovo della distanza si crea accanto alla possibilità di una vicinanza permanente con chi sta anche a migliaia di chilometri. Lontananza e prossimità si riconfigurano. Ma il loro enigma si ripropone, insistente. Che cosa significa essere lontani? O vicini? Ryszard Kapusciii.ski: Come si fa a misurare l'impressione di lontananza, di distanza? Da che cosa, da quale posto si è lontani? Dov'è il punto del nostro pianeta allontanandosi dal quale uno può provare la sensazione di avvicinarsi sempre più alla fine del mondo? È un punto dotato di significato puramente emotivo (la mia casa come centro del mondo)? Oppure culturale (per esempio, la civiltà greca)? Oppure religioso (per esempio, la Mccca)? 29.

C'è bisogno di un luogo del proprio per poter dire dove sono le cose rispetto a me e io rispetto alle cose. C'è bisogno cioè di un luogo dell'intimità: il luogo a partire dal quale tutto il resto può apparire come spazio in cui il mio corpo interagisce e in cui si dispiegano i mondi intersoggettivi che condivido con gli altri. Ogni discorso sovversivo rispetto allo spazio pubblico, alla sua attuale organizzazione, non può che alimentarsi di una tale dimensione dell'intimità con se stessi: era questa, forse, che una volta veniva detta "autenticità". Se così è, allora la condizione in cui questo luogo è negato nel cyberspazio ha gli arroventati risvolti politici di una trasformazione antropologica. Tutto ciò riguarda molto da vicino la letteratura, giacché la sua posta in gioco è sempre anche il desiderio di inventare una relazione accettabile con la sfera pubblica, trasformando quest'ultima o invece rimodulando il senso dell'intimità. La posta in gioco della letteratura - e insieme un suo momento costitutivo - è perciò la casa e la sua decostruzione. Gaston Bachelard ha descritto la 19

Ryszard Kapuscinski, Imperium, cit., p. 35.

VERSO UNA Gl!.OSTORIA DELLA LETil!RATURA

31

casa come il luogo che soddisfa un desiderio di riparo che è metafisico, un rifugio intimo in cui potersi consegnare, protetti, alla fantasticheria, un catalizzatore e un centro unificante di desideri, aspirazioni, possibilità 30• Più prosaicamente, la casa può esser descritta come luogo del privato e del domestico, del familiare: dimensioni che originariamente, alla nascita della famiglia moderna, confluivano in un solo termine: borghese. La casa dunque è il luogo per eccellenza dell'identità borghese; il luogo di un'intimità, però, che sin dall'inizio è alienata a se stessa da una dimensione ideologica che la trasforma tendenzialmente in inferno borghese. Non c'è bisogno di aspettare una prosa come quella di Kafka per comprenderlo. Già leggendo un dramma fondativo della coscienza borghese come l'Emilia Galotti di Lessing appare chiaro perché la casa borghese, opposta come alternativa virtuosa alla corte, è il luogo di nascita della nevrosi e del rapporto promiscuo e insistente che così, attraverso la casa borghese, si stabilisce tra nevrosi e identità. Anche per questo essa resta cruciale da ogni punto di vista, almeno per determinate generazioni e determinati strati sociali: «Una spiegazione generale del mondo e della storia» - si legge nella Strada di San Giovanni di Calvino - «deve innanzi tutto tener conto di com'era situata casa nostra»3I.

Localizzare

Se è vero che il luogo di enunciazione è decisivo nella costituzione del significato di un qualsiasi enunciato e che ogni volta dietro di esso si nasconde il luogo (mutevole) di provenienza di chi enuncia, se questo è vero, allora la determinazione di entrambi del luogo dell'enunciazione e quello (mutevole) dell'origine diventa cruciale per la comprensione del testo, cioè per la costruzione del suo senso. Ma non soltanto per questo. Nell'Uomo senza qualità c'è un passo che invita a riformulare la questione Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Roma 1989. Italo Calvino, La strada di San Giova,mi, in Romanzi e racconti, voi. 111, Mondadori, Milano 1997, p. 7. 1° Cfr. 11

32

FRANCESCO FIORENTINO

dell'identità storica a partire dalla dimensione spaziale. Ulrich, il protagonista, riflettendo sulla storia, sui suoi strani corsi e ricorsi, a un certo punto si dice: Ogni generazione si chiede stupita: chi sono io e chi erano i miei antecessori? Farebbe meglio a chiedersi: dove sono io? E a tener per sicuro che gli antecessori non erano fatti in modo diverso, ma semplicemente in un altro luogo; e ci avrebbero guadagnato qualcosa, pensava Ulrich3 2 •

Gli uomini di epoche passate non erano fatti in un altro modo ma erano soltanto in un altro luogo, «nicht anderswie, sondern bloB anderswo», scrive Musil. Decisive per determinare le differenze dell'essere storico sarebbero le differenze spaziali non quelle temporali. Fondamentale è perciò identificare il luogo in cui accadono gli eventi della propria vita. Ma proprio questo è divenuto altamente problematico; e la possibilità di una tale localizzazione spesso è stata contestata o decostruita proprio dal romanzo moderno, è stata da questo attirata in uno spaesamento che alla fine fa emergere il carattere fantasmatico di ogni localizzazione, la sua natura di miraggio concreto e complesso, che determina e talvolta ossessiona lo spazio romanzescoH. Si può ben dire che la letteratura è legata al luogo, ortsgebunden34, ma questo non coincide con l'intenderla come radicata in un territorio. Certo, la letteratura moderna ha prodotto forme di feticismo del luogo, ideologie delle radici e del radicamento che rispondono reattivamente alle dinamiche deterritorializzanti della modernità. Ma la letteratura moderna - soprattutto quella che ha raccontato la metropoli - ha principalmente esplorato la pluralità di tempi da cui ogni luogo è costituito, mostrando anche la molteplicità dei legami da cui sono tenuti insieme. I luoghi si configurano così come insiemi poliritmici, discontinui di accadimenti, di entità materiali e immateriali. Non tanto il bisogno, né l'im31 Robert Musi!, Der Ma,m ob1,e F.ige,iscbaften (1930-1943), trad. it. di A. Rho, L'uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1972, voi. 1, p. 350. 33 Cfr. Francesco Fiorentino, I sentieri del ca1ito. L'&ropa dei romanzi e la riflessione co,itemporanea sullo spaz;o, «Cultura tedesca» 31, luglio-dicembre 2007, pp.

13-54: 13-15. H Come fa per esempio anche Franco Moretti nell'Atlante del romanzo europeo, Einaudi, Torino 1997, p. 7.

VERSO UNA GEOSTORIA DELLA LETil!RATURA

33

portanza, bensì la possibilità stessa di una localizzazione è messa radicalmente in questione da questo movimento di pluralizzazione, da questo passaggio dall'omogeneo all'eterogeneo che nella modernità segna il rapporto con lo spazio come con il tempo. Paul Virili o ha parlato di «crisi di uno spazio sostanziale (continuo e omogeneo) ereditato dalla geometria arcaica» 35 ; in realtà si tratta di uno spazio ricostruito ovvero costruito in quanto tale (in quanto continuo e omogeneo) dalla cartografia moderna contro la narratività di quella medievale. Come ha ampiamente mostrato Franco Farinelli, la modernità è l'era della ragione cartografica, ma anche della sua crisi3 6• E questa ha tra i suoi effetti quello di riportare lo spazio alla sua dimensione narrativa. L'attività della localizzazione si fa complessa, laboriosa e richiede un lavoro connettivo nuovo e insieme antichissimo. «Per farla breve, gli spazi si sono moltiplicati, frantumati, diversificati», scriveva Georges Perec. « Vivere è passare da uno spazio all'altro cercando il più possibile di non scontrarsi» 37 • La scrittore è chiamato allora a cucire tra loro questi spazi eterogenei, per ricreare la possibilità - per quanto immaginaria - di una localizzazione.

Conrad, i tempi della geografia In uno dei punti più significativi di quel romanzo splendido e inquietante che è Cuore di tenebra, sentiamo dire a Marlow, la voce narrante, parole che danno sconcerto: Risalire quel fiume era come viaggiare indietro nel tempo sino ai più lontani albori del mondo [... ]. Penso che nessuno di loro avesse un'idea chiara del tempo, come l'abbiamo noi al termine di innumerevoli ere[ ... ]. Stavamo vagano su una terra preistorica[ ... ]. Non potevamo capire, perché eravamo troppo lontani e non ricordavamo più nulla, perché stavamo viaggiando nella notte dei primi tempi, di quei tempi che sono scomparsi, e hanno lasciato ben pochi segni - e nessun ricordo3 8• spazio critico, Dedalo, Bari 1988, p. 35. Franco Farinelli, Geografia, cit.; Id., La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009. J7 Georgcs Percc, F.spéces d'espaces (1974), Galilée, Paris 1985, p. 14. JB Joseph Conrad, Cuore di tenebra, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 48-49. Js Paul Virilio, Lo 3'

34

FRANCESCO FIORENTINO

Il moto nello spazio geografico equivale a una risalita lungo l'asse del tempo, dell'unico tempo della Storia che porta dati'Africa o - come in Hegel - dall'Oriente all'Europa, il capo del mondo39. È - come si sa - l'Europa dell'Ottocento a imporre questa ideologia della Storia che ordina diacronicamente anche ciò che si dà sincronicamente: le diversità qualitative dei mutamenti, le differenze costitutive degli accadimenti sono cancellate nel flusso omogeneo di un tempo unico, universale, occidentale, misura di ogni processo. Il tempo è un fiume che scorre magnifico e progressivo, portando sempre più verso la civiltà, tecnica ma anche morale; lo spazio non è che il palcoscenico su cui il progresso dello spirito si manifesta, cioè si svela e si attualizza. Ma poi quel fiume ha portato a Auschwitz, a Hiroshima e ad altri luoghi della barbarie tecnologizzata. E allora viene meno la credibilità del grande racconto di una storia universale scandita dal tempo del progresso, viene meno la credibilità di ogni grande racconto, perché - come scrive Mare Augé - il tempo smette di essere un «principio di intelligibilità»4°. Come affermava Foucault già nel 1967, il mondo smette di concepirsi «come un grande percorso che si sviluppa nel tempo», per guardare a se stesso «come un reticolo che incrocia dei punti e che intreccia la sua matassa» 41 . E questo credo che si debba non poco anche al romanzo moderno con la sua simultaneità pluriprospettica, le sue complesse discontinuità, le sue logiche permutative, le sue polifonie: alla sensibilità che esso ha prodotto per la natura plurale, composita, disomogenea del tempo della vita. Non è stato irrilevante il ruolo che il romanzo, nel Novecento, ha avuto nello scardinare l'idea vigente di una temporalità universalmente e eternamente omogenea, lavorando invece a una rappresentazione del tempo come istanza plurale, frammentata, eterogenea, inintelligibile. 39 Jacques Dcrrida, L'altro capo, in Id., Oggi l'Europa, Garzanti, Milano 1991, pp. 19-22. ◄ 0 Mare Augé, Nonluoght. Introduzione a una m1tropo/ogta della surmodemità (1992), Eléuthcra, Milano 1993, pp. 227-228. ◄ • Miche! Foucault, Spazi altri, in Id., Spaz; altri. I luoghi delle eterotopie, Mimcsis, Milano 2001, pp. 19-32: 19.

VERSO UNA GEOSTORIA DELLA LETil!RATURA

35

Ma la letteratura aveva avuto, prima, e continuava a avere, nel Novecento, un ruolo allo stesso modo rilevante nel confermare una topografia geopolitica imperiale. Edward W. Said: Gran parte degli storici, e certamente tutti gli storici della letteratura, non hanno evidenziato la connotazione geografica, il processo di rilevazione e di mappatura teorica del territorio sotteso alla narrativa occidentale, agli scritti storici e ai discorsi filosofici del tempo.P..

C'è stata una complicità virulenta tra una geografia politica eurocentrica e imperialista, e un determinato modo di considerare la storia nel segno di un progresso che porta a Occidente e da lì riparte per conquistare il mondo. La letteratura, anche nelle sue strutture formali, ha perpetuato questa alleanza. Poi è venuta la decolonizzazione a mettere fine al monopolio descrittivo dell'Occidente. Ma prima, almeno fino a metà Novecento, la scrittura letteraria, così come noi oggi la intendiamo, è stata pratica esclusiva delle società occidentali. Il mondo, descritto e narrato dal loro punto di vista, non contestato da ottiche alternative, finiva per apparire "naturale". Ancora Said (siamo nel 1993): «l'Europa comandava il mondo; la mappa imperiale autorizzava una determinata visione culturale. A noi, un secolo più tardi, la coincidenza o la somiglianza tra un'idea e l'altra del sistema mondiale, tra geografia e storia della letteratura, appare interessante ma problematica»43. La decolonizzazione e i processi migratori che ne sono seguiti hanno contribuito a portare in primo piano - e in modo nuovo - la dimensione geografica: favorendone e anzi imponendone una percezione complessa e plurale. In Africa come in Europa, a Bombay, a Londra, a Berlino voci nuove hanno iniziato a parlare dall'interno delle culture (e delle lingue) da cui erano state dominate e di cui in parte hanno assimilato - creativamente, criticamente - prospettive, possibilità e molto altro ancora. Hanno così rivelato, queste voci, che ogni spazio partecipa a temporalità diverse, che non possono essere ridotte alla semplificante omogeneità ◄• Edward W. Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto dell'Occidente (1993), Gamberetti, Roma 1998. ◄J

Ivi, p. 74.

FRANCESCO FIORENTINO

di un unico tempo della nazione. Così queste donne, questi uomini che si sono spostati portando altrove le loro storie, sono venuti "da fuori" non tanto a ricordarci la presenza degli altri spazi dai quali provengono, ma soprattutto a rendere eterogeneo lo spazio del nostro vivere quotidiano. L'implosione dei grandi racconti di emancipazione - racconti la cui coerenza era costituita nella dimensione del tempo, dello sviluppo temporale - ha generato così una vivificante ri-localizzazione della lettura critico-letteraria, dove lo spazio diventa appunto un piano di orientamento cognitivo e narrativo, e la categoria fondamentale non è più soltanto quella del divenire ma anche quella della coesistenza e quindi dell'interazione. «La forma dello spazio sociale è l'incontro, l'unione, la simultaneità», scriveva Lefebvre44. Così anche nella storiografia lo spazio continuo e omogeneo e sostanziale della cartografia moderna e dello stato nazionale ha iniziato a perdersi nello spazio relativo, discontinuo, eterogeneo della glocalizzazione45.

Atlanti Guardando la pratica letteraria dal punto di vista della geografia, vale a dire della scrittura della terra, geo-grafia, possiamo pensare lo scrittore come François Hartog, in Le Miroir d'Hérodote, proponeva di immaginare il ricercatore: come un agrimensore che sappia essere anche un rapsodo, ovvero «nel senso etimologico del termine», uno in grado di «cucire» gli spazi, fungere da «agente di collegamento che unisce spazi tra di loro, continuamente»46. Cioè che di continuo istituisce collegamenti tra ciò che collegato non è o tale non appare, così creando del nuovo. La letteratura è anche un modo per misurare il mondo raccontandolo e, insieme, per disegnare continuamente nuove terre e ◄◄ Lucien Lcfcbvre, La produ,:,ione dello spavo, Moissi, Milano 1976, p. 114. ◄S Su questo concetto vedi Zygmunt Bauman, Globa/izzazjone e glocalizzazione,

Armando, Roma 2005. ◄' François Hartog, Lo specchio di Erodoto (1980), Il saggiatore, Milano 1992. Cfr. Bcrtrand Westphal, GeocriUca. Reale Fmzio11e SpaZio, Armando, Roma 2009, p. 54.

VERSO UNA Gl!.OSTORIA DELLA LE'ITERATURA

37

nuovi cieli intrecciando i luoghi conosciuti. È allora una pratica propriamente spaziale, ovvero territoriale, se produrre spazio o fare territorio è - come scrivono Deleuze e Guattari - un "legare-insieme" elementi di ambienti e ritmi diversi in un «atto che modifica ambienti e ritmi» 47 • Se dunque lo spazio risulta dalla combinazione di elementi eterogenei - eterogenei, ovviamente, dal punto di vista delle classificazioni, dei discorsi, dei racconti correnti - , allora anche la storiografia letteraria, anche il racconto dell'accadere della letteratura nel mondo dovrà lavorare ad annodare insieme ciò che altrimenti appare slegato, dovrà cucire spazi diversi con le loro temporalità disomogenee, dovrà lavorare continuamente - e vanamente - alla ricomposizione di una immagine globale della letteratura che ininterrottamente si decompone sotto la lente delle nostre rappresentazioni discorsive, ideologiche, narrative ... Negli ultimi anni la storiografia letteraria italiana ha trovato una forma per rispondere a questo compito: la forma atlante4 8 • Atlas. How to Olrry the World on One's Back? è il titolo di una splendida mostra curata da Georges Didi-Hubermann nel 201149 per il Zentrum fiir moderne Kunst und Medientechnologie di Karlsruhe. L'atlante è un modo per mettersi il mondo sulle spalle, portarlo in carico, il mondo tutto intero. È cioè una forma dall'ambizione globale. Nella mitologia greca, si ricorderà, Atlante è condannato a portare sulle spalle la volta celeste per scontare la sua ribellione contro gli dèi dell'Olimpo. Fu Gerardus Mercator con il suo Atlas sive cosmographicae meditationes de fabr'ica mundi del 159 5, il primo a usare questo nome per designare una raccolta sistematica di carte geografiche, sostituendo quello in uso di Theatrum. Il ◄7 Gillcs DclcU7.C, Félix Guattari, Millepiani. Capitalismo e scb;zofrenia (1980), Castclvccchi, Roma 2006, pp. 463-474. ◄ 8 Cfr. Francesco Fiorentino, Giovanni Sampaolo (rur.), Atlante della letteratura tedesca, Quodlibct, Macerata 2.009; Sergio Luzzato, Gabriele Pcdullà (cur.), Atlante della letteratura italiana, 3 voll., Einaudi, Torino 2.010-2.012.. ◄ 9 E ovviamente anche del relativo catalogo: Gcorgcs Didi-Hubcrmann (cd.), Atlas. How to carry the World on One's Back?, Madrid 2.012.. si veda anche il testo di presentazione della mostra alla pagina http://om.zkm.de/zkm/storics/storyRcadcr$7493; e l'intervista dello stesso Didi-Hubcrmann: http://wwwo2..zkm.de/vidcocast/indcx.php/aktucll/411 -atlashowtocarrythcworldononcsback.html[2.9luglio2.012.J.

FRANCESCO FIORENTINO

termine atlante viene poi usato anche per raccolte di immagini riguardanti altri ambiti del sapere: nascono atlanti anatomici, botanici, astronomici, e poi storici, linguistici ecc. ecc. C'è poi il grandioso esperimento di Aby Warburg: Mnemosyne, l'Atlante delle immagini cui egli lavora tra il 1924 e il 1929, propone una nuova modalità di rappresentazione della storia dell'arte, che è allo stesso tempo un nuovo modo di investigarla lasciandosi alle spalle le tradizionali distinzioni epocali e stilistiche, o comunque attraversandole liberamente, per inventare modalità nuove di connessione delle immagini prodotte dagli uomini. Warburg può così far entrare nel campo visivo fenomeni oscurati dalle classificazioni abituali e aprire prospettive inesplorate della percezione. VAtlante di Warburg è quindi soprattutto un metodo inedito per cogliere, rappresentare e indagare i fenomeni culturali. Dopo Warburg il concetto di "atlante" non sta più soltanto per una raccolta di carte geografiche o immagini d'altro tipo che vogliono mostrare in modo sistematico o anche associativo un insieme complesso di fenomeni; dopo Warburg è impossibile considerare un atlante semplicemente come forma di visualizzazione del sapere e non invece una modalità - non necessariamente e non esclusivamente visuale- di rappresentazione e produzione di sapere che esibisce la complessità della propria materia, senza ansie di sistematicità, accogliendo anzi come esperienza produttiva lo spaesamento delle sistemazioni tradizionali della materia artistica, letteraria ecc. Così un atlante della letteratura è un archivio di testi e immagini che lega insieme in modo nuovo i dati della storia letteraria e in modo nuovo ricava i dati come le informazioni. Il montaggio di saggi - talvolta spiccatamente eterogenei per impostazione e fattura stilistica - è un mezzo per poter scomporre i fenomeni letterari e poterli ricombinare secondo criteri inusuali che perciò ne accrescono la conoscenza. Il racconto spaziale che sostituisce la temporalità lineare del racconto storiografico invita a raccogliere la sfida di una rappresentazione ipertestuale in cui molte connessioni sono affidate al lettore. E la lettura sempre sarà vivificata - e tormentata, forse, comunque sempre produttivamente tormentata - dal «senso della complessità del tutto, il senso del brulicante o del folto o dello screziato o del

VERSO UNA GEOSTORIA DELLA LETil!RATURA

39

labirintico o dello stratificato»5°. Il racconto storiografico monolineare ottocentesco è stato un potente medium di produzione di conoscenza attraverso una decisa riduzione di complessità. La forma atlante confida invece nella possibilità di produrre conoscenza esibendo piuttosto la complessità e riducendo invece le pretese di ogni forma di rappresentazione che creda di poter dominare il reale con cui si trova a trattare.

Globalizzazione e storia letteraria

Abbiamo a lungo chiamato postmoderno quel tempo inaugurato dalla fine dei grandi racconti annunciata da Jean-François Lyotard in un libro del 1979. Ma poi a quella descrizione dello stato del mondo e del sapere ne è subentrata un'altra che mette in primo piano i processi di globalizzazione che segnano la condizione del mondo attuale. Sono due descrizioni in contraddizione per una differenza di prospettiva che è decisiva: se la prima si muoveva in una prospettiva storiografica, l'altra interessa piuttosto la geografia; la prima era ancora eurocentrica, occidentale, la seconda segna invece il venir meno del primato ermeneutico dell'Occidente. Eppure le due descrizioni si implicano a vicenda e riguardano due processi paralleli: la prima registrava la crisi del tempo unico della Storia universale, l'irriducibilità dell'accadere storico alle grandi narrazioni storiografiche approntate dalla modernità; la seconda rileva la crisi dello spazio continuo, omogeneo, isotopico della cartografia moderna, il palesarsi dell'irriducibilità dello spazio postmoderno a quella «ragione cartografica» che - come ha mostrato Franco Farinelli - non riguarda soltanto la cartografia ma rappresenta una modalità specifica dell'episteme nella modernità occidentale 51 . I grandi racconti della modernità si fondavano sulla postulazione di un destino unico per tutta l'umanità, di una unica temposo Riprendo una bella formulazione di Italo Calvino, Il mare dell'oggettività, in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Mondadori, Milano 1995, p. 54. s• Il rimando è ancora una volta a Franco Farinelli, Geografia, cit.; Id., La crisi della ragto1,e cartografica, cit.

FRANCESCO FIORENTINO

ralità progressiva che rendeva unico anche lo spazio del mondo, omogenei i suoi luoghi. Come quello geometrico, euclideo, lo spazio del mondo appare allora isotopico, uguale in tutte le sue parti, appunto, omogeneo. Lo spazio della nostra era globale può invece dirsi isotropico, cioè uno spazio di tensioni, movimenti, flussi e variazioni in cui molteplici sono gli ordini di coesistenza e nessuno di essi è capace di assoggettare gli altri in una gerarchia stabile. Globalizzazione, certo, significa prima di tutto che esiste uno spazio globale in cui tutti i luoghi sono presi. Ma in modi differenti, disomogenei. Lo spazio della globalizzazione è globale e fratturato, totale e molteplice. Globalizzazione significa anche forse primariamente - percezione plurale e diversificata dello spazio del mondo, ma anche del tempo della storia. Il tempo e lo spazio del mondo ci appaiono nel segno del molteplice, dell'eterogeneo, del mutevole e plurivoco e del diseguale. La storiografia letteraria non può non essere interessata dalla globalizzazione, essendo questa anche una condizione della conoscenza che implica la fine di quel «nazionalismo metodologico» che fa valere lo stato-nazione come unità di base dell'analisi sociologica, politologica ecc. 52 • Il racconto della storia letteraria, con le sue epoche e le sue periodizzazioni, continua a essere governato da questo «nazionalismo metodologico» che è il prodotto assolutamente moderno dell'epoca dello stato nazionale, territoriale e centralizzato, e della ragione cartografica, che governa anche il sistema dei saperi e la definizione dei campi di indagine. Certo, la storia letteraria è un genere narrativo assolutamente moderno, nato sotto il segno e al servizio della nazione, che gioca un ruolo decisivo nella costituzione di quelle «comunità immaginate» (Benedict Anderson) che sono, appunto, le nazioni moderne, soprattutto nel caso di Kulturnationen senza stato come l'Italia e la Germania (si pensi alle Storie di Gervinus e De Sanctis). Il modello della linea unica e continua nel tempo era funzionale all'intento di costruire un'identità collettiva inventando la biografia, fornendo un Bildungsroman della giovane nazione. Ma quel modello, per quanto lo si possa aggiornare e riadats1 Cfr. Ulrich Bcck, OrtsbesUmmungen der Sozto/ogte. Wte dte komme,rde Ge,reraUon Gescbtchtswtsse,rscbaft betretben wt/1, Nomos, Baden-Baden 2.000.

Vl!RSO UNA Gl!OSTORIA Dl!LLA Ll!lTl!RATURA

tare, appare oramai soltanto un debole esorcismo del fluire intricato di eventi e testi, di biografie e di incontri, di temi e coincidenze, forme e relazioni, metafore e istituzioni, di riprese e cancellazioni e di tantissime altre cose che fanno la storia letteraria. In questa situazione la storiografia letteraria si volge alla geografia per elaborare modi nuovi di ordinare narrativamente questa complessa materia, per sviluppare più adeguate modalità di concepire e rappresentare la storia e la storicità della letteratura. Si prova così a ripensare la tradizione letteraria come rete di luoghi eterogenei che la letteratura produce e da cui la letteratura è prodotta, quindi come mutevole geo-grafia immaginaria che interferisce sempre di nuovo con quella politica, economica, con quella "fisica", giocando sempre e comunque un ruolo decisivo nella loro rappresentazione. Al succedersi di epoche, correnti, movimenti, stili o autori si sostituiscono costellazioni di luoghi presi in epoche diverse, situati non in uno spazio nazione, ma in reti spaziali che trascendono i confini nazionali e le periodizzazioni con cui operava tradizionalmente la storia letteraria. La linearità del racconto storiografico della tradizione - come ci ha insegnato la Metahistory di Hayden White - aveva il proprio modello nel romanzo dell'Ottocento, la multilinearità spezzata del racconto geografico proposto dai nuovi atlanti della letteratura si modella invece sull'ipertesto digitale. È la nostra era digitale e globalizzata che ci chiede di elaborare, anche nello studio dei fenomeni culturali, modelli di spazialità, cioè di «ordini di coesistenza possibili» (Leibniz) diversi da quelli dell'epoca in cui la terra era ancora una mappa e non un globo. L'epoca della mappa è quella dei territori omogenei, isotropi, centralizzati degli stati nazionali o, più genericamente, delle nazioni. Nell'epoca globale, invece, lo spazio non è più quello dei territori contigui, ben divisi e delimitati, ma è quello reticolare che unisce gli innumerevoli luoghi del globo. Allora anche la tradizione letteraria - una volta che venga disattiva la prospettiva centrata sulle nazioni- può così apparire alla nostra rappresentazione come una galassia mutevole di luoghi plasmati dai mille racconti che li hanno attraversati, dai mille eventi che li hanno abitati. In questo contesto si legge la proposta geocritica di Bertrand Westphal:

42

FRANCESCO FIORENTINO

La specificità della geocritica risiede nell'attenzione che essa presta al luogo. Lo studio del punto di vista dell'autore o di una serie di autori che sono ascrivibili a un'isotopia identitaria sarà trascurato per concentrarsi invece su una molteplicità di punti di vista, magari eterogenei, che convergono tutti verso un dato luogo, vero e proprio primum mobile dell'analisi in corsoS3.

Raccontare la storia della letteratura a partire dai luoghi, però, non significa semplicemente che il luogo prende il posto degli autori, delle opere, delle correnti, delle epoche ecc. Non interessa una storia letteraria dei luoghi: della loro rappresentazione letteraria o della letteratura che in essi è stata prodotta. Narrare la letteratura a partire dai luoghi non significa che i luoghi sono l'oggetto o il telos del racconto storico-letterario; non significa che l'analisi e la narrazione storiografica convergono sui luoghi, ma piuttosto che dai luoghi si dipanano, che usano i luoghi per dipanarsi. In altre parole, narrare la storia della letteratura a partire dai luoghi significa usare questi ultimi come medium. Come archivi di dati letterari disparati, macchine connettive di enunciazioni anche lontanissime nel tempo. Un criterio di rilevanza è appunto l'addensarsi dell'eterogeneo, di compossibilità, l'accumularsi di eventi e di connessioni, l'incrociarsi di cronologie, punti di vista e di fuga molteplici. Lo spazio contenitore della tradizione storiografica svanisce per far posto a reti di luoghi che stanno nel segno dell'apertura, dell'interdipendenza, dell'instabilità, e sono legati tra loro da un concerto densissimo di interazioni di cui la storiografia letteraria è chiamata ad approntare valide partiture. Si può concepire questo spazio secondo il modello dell'ipertesto: un sistema aperto ovvero non delimitabile, estendibile all'infinito, modificabile nella sua struttura - di luoghi molteplici, tra loro collegati secondo linee plurime. Sconfinato nella sua virtualità. Il singolo luogo è un elemento, una parte del corpus inafferrabile di questa galassia di frammenti interconnessi. Tuttavia, per i legami che lancia verso il resto della rete, per gli incroci o i bivi che propone, costituisce anche una selezione organizzatrice, un agente strutturanSJ

B. Wcstphal, La geocritica, cit., pp.

170-171.

VERSO UNA Gl!OSTORIA DELLA Ll!lTl!RATIJRA

43

te, un filtro del corpus sconfinato della storia letteraria. Ogni luogo di questo spazio incircoscrittibile è una parte di un tutto ipercomplesso e un punto di vista originale su di esso. È un archivio di dati e un programma di navigazione, è una selezione unica e particolare dei dati che lo spazio produce e che, in quanto tale, suggerisce anche modelli di organizzazione cognitiva dell'oceano di informazioni in cui naviga. Ogni luogo è uno snodo della grande rete della letteratura, ma anche una finestra che offre uno sguardo unico ed esclusivo sul resto di quella rete, ma acquista senso perché è connessa a mille altri suoi snodi, mille altre finestre, nessuna delle quali offre un panorama o anche soltanto la porzione prospettica di un paesaggio, o un filo d'Arianna per uscire dal labirinto.

Dal territorio alla rete

Due modelli di rappresentazione del sapere hanno caratterizzato la modernità. Prima di tutto un modello territoriale in cui le culture e i saperi appaiono come territori autonomi e ben delimitati, continui e omogenei al loro interno, che intrattengono scambi tra loro. Accanto a questo modello territoriale, che poi implica - come abbiamo detto - un «nazionalismo metodologico», c'è il modello della rete in cui lo spazio di una cultura o di un sapere viene pensato come prodotto di una moltitudine di processi dinamici di interazione, un incastro di molteplicità variamente correlate. Nello spazio piatto, omogeneo, isotropico della mappa ogni luogo, ogni cosa occupa un posto solo e soltanto quello; nello spazio reticolare ogni luogo può invece costituire un nodo preso in diverse reti oppure apparire esso stesso come una rete i cui nodi sono parte di reti differenti che si estendono oltre il luogo stesso oppure restano al suo interno. Il problema resta quello di pensare insieme le svariate reti, che per lo più sono tessiture non tanto o preminentemente di elementi stabili e definiti, quanto piuttosto di flussi e processi autopoietici. In questo senso lavorano appunto i nuovi atlanti della letteratura: individuando schemi di connessione comuni a entità le più diverse. Ogni luogo un nodo che può essere inserito in una mol-

44

FRANCESCO FIORENTINO

titudine di reti; ogni capitolo una rete; ogni parte una rete di reti... Abbandonando la modellizzazione territoriale della storia letteraria, per affidarsi a quella reticolare, i nuovi atlanti della letteratura raccontano più di una storia della letteratura, nel senso che offrono percorsi di lettura molteplici, invitano a connettere i luoghi presentati in differenti reti... Non una storia continua, lineare, ma un intreccio di storie frammentarie, un racconto irregolare con molteplici sentieri e complesse diramazioni, capace forse di attivare più intensamente le potenzialità cognitive che la narrazione storiografica sempre porta con sé.

Letteratura e geografia: la via italiana Gabriele Pedullà

Di tanto in tanto, tra le discipline umanistiche, emerge un sapere privilegiato che all'improvviso sembra porsi alla testa della ricerca nei più disparati campi di studio. La linguistica ha ricoperto questo ruolo per un quarto di secolo - all'incirca tra il 19 55 e il 1980 - quando pareva che nozioni come langue e parole, diacronia e sincronia, sintagma e paradigma potessero spiegare in maniera soddisfacente il più gran numero di fenomeni. La stagione di Hjelmslev, Jakobson, Barthes, Greimas, Eco, Todorov. Almeno dalla fine degli anni Novanta, invece, si vanno moltiplicando in tutto il mondo i segnali di un'irresistibile ascesa della geografia. E c'è già chi parla di un vero e proprio spatial turn che caratterizzerebbe il nostro tempo. Il convegno odierno ne offre, in qualche modo, anch'esso una piccola conferma. Pure l'Atlante della letteratura italiana da me curato presso Einaudi assieme a Sergio Luzzatto 1 si colloca - ovviamente all'interno di questo rinnovato interesse per la dimensione spaziale che negli ultimi anni ha ispirato le opere di autori peraltro a stento riconducibili a un unico paradigma di ricerca, quali Franco Moretti, Bertrand Westphal o Karl Schlogel - per non parlare di Francesco Fiorentino e Giovanni Sampaolo, con il loro recente Atlante della letteratura tedesca. Come indica anche sol1 Mi corre il gradito obbligo di ricordare tutta la squadra che ha partecipato all'ideazione della nostra opera: i co-curatori dei tre volumi, rispettivamente Amedeo De Vinccntiis, Erminia Irace e Domenico Scarpa, e gli altri due membri del comitato scientifico del progetto, Mauro Bersani e Michele Luz1.atto. Le considerazioni che seguono, in ogni caso, sono a me solo ascrivibili, anche quando nella parte finale ricorro a una doverosa prima persona plurale per indicare quello che (per mc) è il senso più profondo dcli' Atlante all'interno della tradizione storiografica italiana. Dedico, infine, queste pagine ad Amedeo Quondam, che in un memorabile seminario del 2002. mi ha insegnato a leggere Tiraboschi.

GABRIELE PEDULLÀ

tanto questa breve lista di nomi, non si tratta di un fenomeno specificamente italiano, né strettamente legato all'italianistica (Moretti e Westphal sono due comparatisti, Schlogel uno storico dell'Europa orientale, mentre Fiorentino e Sampaolo due germanisti): esattamente come non solo italiani sono i motivi che hanno probabilmente determinato questo colpo di fulmine per la geografia - dalla crisi di una temporalità scandita ancora fino a pochi decenni or sono dall'idea di progresso al tentativo di reagire all'odierna "smaterializzazione" del mondo favorita dalla civiltà delle immagini e della comunicazione per scommettere piuttosto sulla immediata concretezza del territorio. Tutto vero. Eppure non c'è dubbio che proprio in Italia sembrano sussistere le condizioni perché questa dimensione spaziale della letteratura venga valorizzata meglio che altrove. Detto in altri termini: accanto alle ragioni più generali per cui la geografia appare oggi, a chi fa storia della cultura, una appetibile compagna di strada, un'opera come l'Atlante della letteratura italiana non nasce forse per caso a sud delle Alpi. Non nasce, soprattutto, nel vuoto. Siamo un paese policentrico, e - giustamente non smettiamo di ripetercelo. Ancora più importante, questo policentrismo originario ha per forza di cose condizionato sin dall'inizio la storiografia nazionale. Non è strano dunque che, nello stivale delle cento città, segnato da una lunga storia di autonomie locali e giunto con grande ritardo all'unificazione statale (e linguistica) rispetto alle altre nazioni europee, i massimi studiosi di letteratura abbiano tutti dovuto confrontarsi con la dimensione geografica assai più che non i loro colleghi europei francesi e inglesi in testa. Solo l'area tedesca ha conosciuto una vicenda in qualche modo simile, e non dobbiamo stupirci se, anche da noi, la riflessione sull'endiadi letteratura & geografia risulti così vivace proprio tra i germanisti. In Italia raccontare la letteratura ha implicato sempre la necessità di fare i conti con la divisione. Naturalmente si poteva rispondere alla sfida posta da questo accentuato policentrismo nelle maniere più diverse; e non sarebbe difficile mostrare, per esempio, come, nella grande maggioranza degli autori che hanno contato, la peculiare vocazione centrifuga della vicenda italiana sia stata giudicata anzitutto una potenziale minaccia alla coeren-

LETTERATURA l! Gl!OGRAFIA: LA VIA ITALIANA

47

za della struttura. Gli sforzi dello storico, in questi casi, sono stati indirizzati tutti a controllare le forze disgreganti: come in particolare avviene nella narrazione fondativa, e ancora straordinariamente influente, di Francesco De Sanctis. Si tratta di un aspetto cruciale, con precise ricadute anche sul modo in cui gli italiani si rappresentano tuttora ai propri stessi occhi. Eppure, a quanto ne so, gli alti e i bassi del rapporto controverso che gli storici della letteratura italiana hanno intrattenuto con la dimensione geografica non sono mai stati veramente raccontati (se si escludono alcune pagine illuminanti di Dionisotti). L'invito a parlare dell'Atlante a questo convegno, così, mi è sembrato subito una splendida occasione per provare a ordinare i miei pensieri sul modo in cui, negli ultimi duecentocinquant'anni, la nostra storiografia ha fatto i conti con la minaccia di veder dissolversi il proprio oggetto di studio - la letteratura italiana, appunto - sotto la sollecitazioni delle multiformi spinte locali che su di essa insistevano e insistono. Almeno dal Risorgimento in poi, la storia delle storie letterarie nel nostro paese è stata anche, se non soprattutto, la storia dei diversi esorcismi lanciati contro una dimensione spaziale avvertita come implicita sfida al processo unitario: un paese, ricordiamolo, nel quale a tutti gli studenti si insegna sin dalle elementari a fremere di sdegno davanti alla battuta di Metternich sull'Italia come semplice «espressione geografica». Tuttavia, ripercorrere more geographico le opere di Tiraboschi, De Sanctis e Dionisotti non vuole essere un alibi per sottrarsi alla richiesta di parlare dell'Atlante. Le pagine che seguono intrecciano infatti a una dimensione oggettiva una prospettiva decisamente più soggettiva; non ambiscono cioè soltanto a ricostruire a freddo una storia conclusa, ma mirano piuttosto a riorganizzare in ordine cronologico alcune delle riflessioni che mi hanno accompagnato mentre lavoravo al progetto del1' Atlante e non potevo eludere il confronto con i monumenti della disciplina: come modello, come stimolo ma spesso anche come punto di riferimento polemico. In altre parole, persino quando il tono appare più distaccato, le considerazioni delle prossime pagine provengono tutte - almeno idealmente - dal cantiere dell'Atlante. Per usare una metafora che in questo contesto non dovrebbe suonare peregrina, assomigliano più al dia-

GABRIELE PEDULLÀ

rio di bordo del viaggiatore che alla mappa del cartografo. O, in ogni caso, non meno a quello che a questa.

1.

Istituzioni e mecenati: Girolamo Tiraboschi

Partirò da lontano, cioè dal primo vero capolavoro della storiografia letteraria italiana: il monumento con cui noi italianisti facciamo cominciare idealmente la nostra disciplina (anche se altri inizi più remoti potrebbero essere scelti e occasionalemente sono stati tirati in ballo). Mi riferisco alla Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi, pubblicata tra il 1772 e il 1782 (in dieci tomi divisi in quattordici volumi) e poi, in edizione definitiva, tra il 1787 e il 1794 (in otto tomi per un totale di sedici volumi). Come suggeriscono questi numeri, si tratta di un'opera imponente. A ciascun secolo è dedicato grosso modo un tomo, anche se la scansione si fa più rigorosa a partire dal Duecento (che viene fatto cominciare con la pace di Costanza del 1183) e sistematica solo dal Trecento (tomo cinque della seconda redazione). Pure per via delle dimensioni, assai di rado la Storia è stata letta dall'inizio alla fine. Piuttosto essa è stata adoperata come un grande regesto, da consultare per questa o quella notizia di difficile reperibilità - accertare una data di nascita, verificare una dedica, individuare la localizzazione di un manoscritto. Non vi è dubbio che la Storia nasca da una concezione essenzialmente erudita dell'indagine critica, che la rende ancora oggi particolarmente affidabile ogni volta che ci confrontiamo con interrogativi come questi. Tiraboschi visse in un'epoca in cui regnava ancora grande incertezza persino sui dati più elementari relativi alla vita e alle opere dei maggiori autori della nostra tradizione ed è proprio a questo tipo di lacune che la sua ricerca intende porre rimedio. Può sembrarci un obiettivo limitato, ma non appena riflettiamo meglio ci rendiamo conto che tale atteggiamento di sufficienza è possibile solo perché qualcuno ha già svolto per noi quell'umile ma indispensabile lavoro di scavo. E quel qualcuno è appunto, quasi sempre, Tiraboschi. Con la conseguenza che, su molte questioni, ogni indagine di accertamento parte spesso ancora dalle sue pagine.

LETTERATURA l! Gl!OGRAFIA: LA VIA ITALIANA

49

Con simili premesse, era in qualche modo inevitabile che Tiraboschi, proprio in virtù della sua erudizione, venisse letto principalmente così, scheda per scheda e biografia per biografia, come se il bibliotecario modenese avesse progettato una sorta di dizionario e la sua opera non avesse un suo disegno e una sua organicità: come se quel titolo, Storia della letteratura italiana, fosse usurpato (polemicamente, Ugo Foscolo aveva proposto di cambiarlo in Archivio ordinato di materiali, cronologie, documenti e disquisizioni per servire alla storia letteraria d'Italia). Non appena però ci confrontiamo direttamente con il lavoro di Tiraboschi ogni condanna del genere è destinata a cadere all'istante, come ha dimostrato una ventina di anni fa Michele Mari in un libro importante, Il genio freddo (anche se Mari trascura un poco il ruolo chiave delle istituzioni, che, come vedremo, è invece uno degli aspetti caratterizzanti del lavoro di Tiraboschi). A differenza dei suoi immediati precursori, Giovanni Mario Crescimbeni e Francesco Saverio Quadrio, qui siamo in presenza di una vera e propria ricostruzione storica, in cui il contesto politico e culturale attraversa ogni pagina dell'opera di Tiraboschi e non rimane limitato ai cappelli introduttivi che aprono i diversi secoli o alle sezioni dedicate alla principali istituzioni letterarie in attività. La polemica contro i suoi predecessori diventa anzi, a tratti, piuttosto aspra proprio alla luce della considerazione che essi si sono limitati a compilare «magazzini» di notizie, «fondaci», «depositi». Esattamente quello che Tiraboschi invece si è ben guardato dal fare. Già la prefazione all'opera è molto esplicita su questo punto e vale la pena di citarla se non altro per sfatare un ingiusto mito storiografico: «Ella è la Storia della Letteratura Italiana, non la Storia de' Letterati Italiani, ch'io prendo a scrivere. Quindi mal si apporrebbe chi giudicasse che di tutti gli Italiani scrittori e di tutte le opere loro io dovessi qui ragionare, e darne estratti, e rammentarne le diverse edizioni. Io verrei allora a formare una Biblioteca non una Storia». Nonostante una dichiarazione tanto solenne e, soprattutto, nonostante la natura delle pagine che vengono dopo, la doxa su Tiraboschi lo risospinge continuamente verso quel mondo di Cataloghi e Biblioteche dal quale il bibliotecario modenese tentava invece di affrancarsi.

50

GABRIELE PEDULLÀ

Le ragioni di questo persistente equivoco sono però chiare. I giudizi ancora correnti sulla Storia di Tiraboschi si sono imposti col Romanticismo e si fondano su una serie di preconcetti sfavorevoli. I critici ottocenteschi miravano a un tipo completamente diverso di storiografia letteraria: pedagogica, teleologica, anticlassicista, militante tanto in politica quanto in letteratura. Tutto il contrario di quello che era stata l'opera del modenese. Ridurla a una sorta di affidabile archivio della civiltà della parola in Italia era dunque funzionale alla sua progressiva marginalizzazione. Se il Romanticismo ha attribuito alla Storia di Tiraboschi essenzialmente tre caratteristiche - una straordinaria ricchezza e affidabilità di informazione, un gusto smaccatamente classicista (dunque militante sul fronte dei nemici) e l'assenza di un disegno d'insieme - è questo terzo aspetto che, per quanto riguarda il suo rapporto con la geografia, deve starci più a cuore. Si tratta, a dire il vero, anche del punto più controverso. In realtà, infatti, questo disegno d'insieme esiste, ma è un disegno che, per quanti sono abituati ad associare la letteratura italiana alla materia scolastica che porta questo nome, possiede qualcosa di necessariamente sconcertante. Innanzitutto sconcertante nella cronologia: la storia della letteratura italiana comincia con gli Etruschi e con le colonie della Magna Grecia. E se ci fossero rimaste tracce scritte della civiltà sannitica, sicuramente Tiraboschi ci avrebbe incluso anche i Sanniti. Eppure questa partizione appare meno strana non appena consideriamo che, a differenza dei romantici, i quali avrebbero costruito le loro cattedrali storiografiche sulla necessaria identità di lingua e letteratura, nella Storia del modenese la parlata di Dante non gode di nessuna posizione privilegiata. In altre parole, l'italiano è soltanto uno dei molti idiomi nei quali gli uomini che hanno abitato a sud delle Alpi si sono espressi negli ultimi tremila anni o giù di lì. Come si legge ancora nell'introduzione: «Come allorquando si scrive la storia civile di una provincia, altro non si fa se non raccontare ciò che in quella provincia accadde, qualunque sia il popolo da cui essa fu abitata, così quando si parla della storia letteraria di una provincia, altro non si fa che rammentare la storia delle Lettere e degli uomini dotti che in quella provincia fiorirono, qualunque fosse il paese da cui i lor maggiori erano venuti». E, vale la pena aggiungere: qualunque fosse la lingua in cui avevano deciso di esprimersi.

LETTERATURA l! Gl!OGRAFIA: LA VIA ITALIANA

51

Anche in questo Tiraboschi era un uomo del suo tempo. È sufficiente ricordarci che la cultura settecentesca era ancora pazialmente bilingue e che il latino non aveva ancora perso tutte le posizioni di prestigio (soprattutto nelle università), ed ecco che subito comprendiamo meglio la scelta di Tiraboschi. E ancora di più non appena poniamo mente a tutti gli autori italiani che - da Baretti a Casanova, da Galiani ad Algarotti - nel xvm secolo hanno scelto un'altra lingua europea per esprimersi e raggiungere un uditorio più vasto. Proprio il Romanticismo avrebbe lottato per infrangere questa secolare disponibilità linguistica a servirsi, quando necessario, degli idiomi altrui e non poteva dunque condividere un simile approccio al passato. Peraltro, a duecento anni di distanza, l'opinione corrente, non dico degli studiosi ma quella che si insegna nelle scuole, ricalca ancora la precettistica romantica. Le sorprese non finiscono qui e toccano direttamente la definizione e i confini dell'oggetto al quale Tiraboschi consacra tante ricerche. Sotto il termine di letteratura noi rubrichiamo in genere quelle che gli uomini del tempo di Tiraboschi definivano le «Belle Lettere»: l'epica, la lirica, la tragedia e la commedia, la storiografia, un certo tipo di trattatistica, l'epistolografia, l'oratoria civile e sacra (il romanzo cominciava appena a essere preso in considerazione come genere serio). Nella Storia della letteratura italiana c'è naturalmente tutto questo. Ma ci sono anche tutta una serie di discipline che noi non ci aspetteremmo mai di trovare in un'opera con un simile titolo. Ci sono le scienze, il diritto, la teologia; c'è la medicina; c'è la matematica. Un poco come se un odierno docente di letteratura italiana interrogasse agli esami, oltre che su Machiavelli e su Goldoni, sulla giurisprudenza di Bartolo di Sassoferrato o sulle ricerche di Giovanni Girolamo Saccheri a proposito del quinto postulato di Euclide. La letteratura italiana di Tiraboschi traccia dunque un perimetro assai più ampio rispetto alla disciplina che porta oggi questo nome nelle scuole e nelle università e coinvolge per intero la cultura della parola scritta. Anzi, in queste pagine c'è spazio persino per l'arte: «la Pittura, la Scultura e l'Architettura hanno una troppo necessaria connessione colle scienze perché non debbano essere dimenticate; benché nel ragionare di esse sarò più breve, poiché non appartengono al mio argomento», come si legge a un

52

GABRIELE PEDULLÀ

certo punto. Alla fine resta fuori solo la musica (non la teoria musicale). Ma per il resto la Storia offre al lettore un profilo della civiltà italiana còlta nella sua interezza. Le «Scienze» e le «Belle Lettere» occupano rispettivamente la seconda e la terza parte di ciascuno dei tomi tiraboschiani. In tutte e due le sezioni si procede per generi, e la geografia occupa qui un posto tutto sommato modesto. Assai diverso è quanto avviene invece nella prima sezione di ciascun volume - di gran lunga la più importante, ma curiosamente anche quella a lungo più trascurata, a seguito della progressiva trasformazione della Storia del modenese in un semplice regesto di dati eruditi. La prima parte di ogni tomo si apre con un rapido profilo del periodo: una sorta di sintesi d'insieme dei principali eventi politici dell'età presa in esame che va sotto il titolo di «Idea generale dello stato d'Italia in questo secolo» e che assomiglia ai grandi capitoli d'orientamento che ancora oggi campeggiano in apertura delle odierne storie letterarie in più volumi. L'organizzazione tiraboschiana si fa subito strettamente geografica negli altri capitoli della prima sezione, generalmente dedicati al «Favore e munificenza dei principi verso le lettere», al sistema educativo («Università e altre pubbliche scuole ed accademie»), alle biblioteche e alle raccolte librarie (nonché alla tipografia, da quando si diffonde la stampa a caratteri mobili), per concludersi infine con un capitolo sui «Viaggi», da Tiraboschi considerati a ragione un tassello indispensabile alla diffusione del sapere (oltre che il soggetto di un vero e proprio genere letterario). A volte, secondo necessità, altri capitoli si aggiungono, come nel caso del Quattrocento, dove una cinquantina di pagine sono dedicate alla scoperta e alla raccolta di antichità - vale a dire delle testimonianze epigrafiche del mondo classico - ma nel complesso l'ordine generale rimane invariato da volume a volume. È qui, in questa prima sezione, che le non comuni doti storiografiche di Tiraboschi emergono in tutto il loro spessore. Soprattutto, bisogna riconoscere che queste doti sono strettamente legate a una speciale sensibilità per la dimensione spaziale (in questo senso, come si vedrà, non si può sottoscrivere il giudizio di Dionisotti secondo cui «nel Tiraboschi l'intelligenza dei fattori geografici resta inferiore a quella che egli ebbe dei fattori cronologi-

LETTERATURA l! Gl!OGRAFIA: LA VIA ITALIANA

53

ci»). Puntando con forza sulle istituzioni senza le quali la letteratura non potrebbe svilupparsi e sopravvivere (come patrimonio di tecniche e di saperi, ma anche come strumenti di conservazione del passato), Tiraboschi è vincolato alla loro collocazione nello spazio e procede necessariamente per luoghi. Qui non ci sono alternative: e la Storia avanza ordinatamente centro per centro e mecenate per mecenate. Per i mecenati il racconto procede da Nord a Sud e si conclude con i papi (i quali dominano su Roma, ma possono venire da qualsiasi altro luogo della cristianità, e soprattutto non interrompono mai del tutto la relazione privilegiata con la comunità d'origine); negli altri casi si comincia dalle istituzioni più antiche e prestigiose (per l'università: Bologna e Padova) per poi raggiungere a poco a poco le periferie e financo le sedi più marginali. Una volta stabilite con chiarezza le gerarchie, nella Storia c'è infatti posto anche per i minori e i minimi. Non credo ci sia bisogno di insistere troppo sui motivi di questo primato delle istituzioni nell'opera di Tiraboschi. Se gli individui non stanno mai fermi - esattamente come le idee e i libri - le istituzioni permettono invece di tracciare il reticolato attraverso cui quel movimento si compie; poiché esse costituiscono le sue condizioni di possibilità, partendo da qui emergeranno le caratteristiche generali del sistema nel quale vengono poi a operare i diversi attori - cosa che invece non si potrebbe fare procedendo nella direzione opposta, dagli attori al sistema. Lo spazio letterario non assomiglia, in altri termini, a un uniforme diagramma cartesiano, ma descrive invece un mondo fortemente connotato in senso qualitativo e quantitativo. Non si va da un posto all'altro casualmente ma ci si sposta da un centro di cultura a un altro centro di cultura: in cerca di maestri, lavoro, protezione, codici, o semplicemente di interlocutori con cui scambiare le proprie idee e di tipografi presso cui stampare a buon mercato le proprie opere. Il fondamento della letteratura, intesa come sistema di relazioni, è dunque intimamente geografico. E la Storia di Tiraboschi non è un regesto di opere e autori classificati per generi anche perché quell'apparente elenco caotico rimanda costantemente ai punti fissi della prima sezione - mecenati, università e accademie, biblioteche e tipografie - e si inscrive sempre in un tempo e in uno spazio.

54

GABRIELE PEDULLÀ

Ho parlato di mecenati. Per Tiraboschi mecenati e geografia vanno necessariamente assieme; mi spingerei a dire addirittura che forse il suo interesse per la dimensione spaziale della letteratura è inseparabile proprio dalla sua sensibilità di uomo di Antico Regime per le dinastie. Le istituzioni non nascono per generazione spontanea: ci vogliono uomini che le promuovano e le finanzino. E questi uomini sono appunto i mecenati. Non sempre si tratta di principi, perché diversi soggetti presi in esame sono delle repubbliche (Venezia, Lucca, Genova, per tacere di Firenze e Siena), e a volte in queste sezioni viene dato giustamente grande spazio a privati cittadini che si sono spesi per diffondere la cultura in un determinato centro - figure come Pier delle Vigne per Palermo, Lorenzo de' Medici per Firenze o Aldo Manuzio per Venezia. La preminenza concessa alle istituzioni implica che nella summa di Tiraboschi parlare di letteratura voglia dire parlare sempre anche di coloro che rendono possibile la poesia e la ricerca. Per questo, nonostante i confini della sua letteratura italiana rimandino a una particolare «provincia» cui non corrisponde un unico soggetto statale né una sola lingua («nostri diciamo tutti coloro che vissero in quel tratto di paese che dicesi Italia»), la geografia di Tiraboschi nasce intrinsecamente politica. Che si tratti di un monarca o di un magistrato repubblicano, tutto dipende dal princeps, inteso come colui che, in un determinato tempo e in un determinato spazio, procura che le condizioni generali siano propizie alla creazione e allo studio. Naturalmente non tutti i prìncipi sono uguali. Ci sono prìncipi buoni e prìncipi cattivi: vale a dire prìncipi che spendono per la cultura e per l'istruzione dei cittadini (prìncipi che non hanno remore ad allargare la corda della borsa coi danari), e prìncipi che invece lesinano gli investimenti e affamano gli uomini di lettere, condannandoli magari all'emigrazione intellettuale. E, nonostante il ruolo decisivo dei privati cittadini e delle istituzioni universali come la Chiesa, proprio la qualità di coloro che controllano gli investimenti di uno Stato (repubblica o signoria poco importa) è spesso all'origine del fiorire o dell'insterilirsi di un particolare centro. Allo stesso tempo, però, Tiraboschi sta bene attento a evitare qualsiasi forma di determinismo. Nella Storia non mancano pre-

LETTERATURA l! Gl!OGRAFIA: LA VIA ITALIANA

55

cisi caveat in tal senso, come quando leggiamo che «la munificenza de' principi può dunque giovar certamente, ma non può bastare perché lo stato della letteratura sia generalmente lieto o felice». O che, malgrado «il favore e la liberalità dei principi sì grande influenza abbia sullo stato della letteratura, è a confessar nondimeno che essa non basta, non solo perché essa può star insieme col cattivo gusto che allora regni [... ] ma perché l'effetto che produrre dovrebbe questa munificenza può essere da altre ragioni ritardato e impedito». Anche nella loro onnipotenza, insomma, i prìncipi possono al massimo rimuovere alcuni ostacoli materiali, nella speranza che gli ingegni fioriscano più rigogliosi in un ambiente favorevole alle arti e al sapere. Queste correzioni sono indispensabili proprio a causa della preminenza assegnata ai mecenati (si ricordi che il secondo capitolo della prima sezione è sempre riservato a loro). Nonostante il riconoscimento che i principi non tutto possono, a volte abbiamo comunque l'impressione che nell'opera di Tiraboschi viga lo stesso qualcosa di molto simile a un principio del cuius regio, eius litterae. Ma sarebbe un errore insistere su questa strada. Infatti, non appena impariamo a orientarci meglio nel suo opus magnum ci rendiamo conto che accanto ai volubili principi-mecenati, che spesso dominano su ampi settori della penisola, le istituzioni rispondono a un criterio organizzativo più profondo e intrattengono un legame con quella cellula minima della vita culturale (non solo italiana) che è la città. La letteratura di Tiraboschi è una letteratura eminentemente cittadina perché è nei centri urbani che gli uomini si incontrano e il sapere si concentra, indipendentemente dal trascurabile dettaglio per cui questa o quella grande opera della nostra tradizione possa essere stata scritta in un riparo campestre, fuori dal caos dei capoluoghi. A volte mecenati e città si corrispondono; altre volte, più spesso, la sovrapposizione non è perfetta e può mutare con il passare del tempo. La stessa dinastia regnante nella Modena di Tiraboschi, gli Este, alla fine del Cinquecento aveva dovuto restituire allo Stato della Chiesa quella Ferrara che per lungo tempo era stata capitale del piccolo ducato ospitando poeti del calibro di Boiardo, Ariosto, Tasso e Guarini. Da grande storico, quando parla di istituzioni, Tiraboschi ha sempre piena consapevolezza di tutti questi livelli. C'è la volon-

GABRIELE Pl!DULLÀ

tà dei diversi mecenati, che agisce su uno spazio limitato (quello del dominio politico su cui ciascuno di essi governa). Ci sono i poteri sovrastatali (come gli ordini religiosi e la Chiesa, che con le sue scelte non condiziona soltanto i territori a lei direttamente soggetti). C'è l'azione dei privati cittadini. Ma c'è - direi: soprattutto - una sorta di permanenza delle istituzioni, che riescono a superare indenni anche le crisi più dure e a poco a poco imprimono i propri caratteri agli uomini e ai luoghi quasi si trattasse di una seconda natura. Lo sconforto di Tiraboschi davanti alla dispersione di un patrimonio librario accumulato con pazienza negli anni (come nel caso della biblioteca aragonese in seguito alla conquista di Carlo vm) dipende direttamente dalla consapevolezza delle fatiche necessarie per ottenere quel risultato ma soprattutto dalla constatazione della perenne fragilità di ogni conquista culturale: pensata per resistere e colmare la frattura tra le generazioni nel segno di un'idea condivisa di classico, ma comunque sottoposta anch'essa alla minaccia della violenza, dell'incuria e delle passioni umane. In questo campo, sembra ripeterci Tiraboschi con una sfumatura malinconica che contraddistingue il meglio del classicismo settecentesco, ogni successo è dolorosamente reversibile. Che, poi, una simile consapevolezza tragica ci appaia oggi nutrita della speciale sensibilità del bibliotecario modenese per la geografia (in tutte le sue possibili articolazioni), non è che un motivo in più per insistere sulla centralità della dimensione spaziale nella sua Storia.

2.

Topologia vs geografia: Francesco De Sanctis

Se le opere procedessero linearmente, per filiazione diretta, dalla matrice di Tiraboschi avremmo dovuto attenderci una storiografia letteraria particolarmente sensibile ai problemi dello spazio e della pluralità. Le cose però sono andate in maniera assai diversa, e l'Ottocento ha coinciso con una netta inversione di rotta. Varrebbe anzi sicuramente la pena di analizzare in maniera più precisa che cosa questo rifiuto della geografia letteraria tiraboschiana abbia significato per figure quali Cesare Cantù,

LElTERATURA E GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

57

Luigi Settembrini o Giosue Carducci2. Qui, per ragioni di tempo, basterà segnalare che tutt'altri princìpi guidano l'opera di quello che ancora oggi è lo storico della letteratura italiana per eccellenza: Francesco De Sanctis. Con De Sanctis non potremmo essere più lontani da Tiraboschi. Ma questo non sorprende certo, perché, come abbiamo visto, gli intellettuali risorgimentali e romantici non avevano alcun motivo per amare le soluzioni adottate dal bibliotecario modenese. Davanti a sé Tiraboschi non vedeva che una penisola frammentata in una serie di entità statali autonome, al punto da promuoverle implicitamente a fondamento logico e organizzativo del suo sistema? Ebbene, i patrioti risorgimentali lottavano esattamente contro quella stessa frammentazione che Tiraboschi dava per scontata. Tanto meno potevano dunque apprezzare che qualcuno presentasse come impalcature portanti quelle che ai loro occhi erano soltanto le sbarre di una grande prigione. La divisione era certo nella realtà delle cose ma poteva essere negata attraverso un processo di riappropriazione di un'identità comune, vale a dire del patrimonio di opere e di memorie che univano tutti i parlanti italiano, dalle Alpi sino al mar di Sicilia. Purché, appunto, si abbandonasse la partizione geografico-istituzionale di Tiraboschi. Constatare che le divisioni esistevano e che esse avevano una influenza diretta sul tipo di letteratura che si era fatta in ciascuna parte del paese non bastava più; un simile atteggiamento poteva anzi suonare un atto di compiacenza verso i nemici del processo risorgimentale: un atto di disfattismo. Di altro aveva bisogno il paese. Soffermarsi troppo sulle politiche dei diversi prìncipi, per promuoverne alcuni e condannarne altri, appariva un modo di disconoscere quell'Italia più grande (in tutti i sensi) che fondava su un'antica identità culturale il proprio diritto a scrollarsi di dosso lo straniero e ad adeguare i confini politici a quelli della lingua (e della letteratura). Il primato delle istituzioni andava cioè contestato attraverso il primato delle opere e dell'idioma. 1 Per Settembrini e Carducci (comparati a Dc Sanctis) posso rimandare il lettore a un mio saggio recente, « n guardo e ti fo mia». Francesco De Sanctis e la storia letteraria, in Beatrice Alfonzctti, Francesca Cantù, Marina Formica e Mariasilvia Tatti (a cura di), L'Italia verso l'Unità. Letterati, eroi, patrioti, F.dizioni di Storia e Letteratura, Roma 2011, pp. 421-444.

58

GABRIELE PEDULLÀ

De Sanctis muove da qui. E non è un caso che la sua Storia della letteratura it:aliana abbia avuto una funzione e un successo che raramente libri analoghi hanno conosciuto in altri paesi d'Europa (l'equivalente francese non è infatti opera di uno storico della letteratura, ma di uno storico tout court, cioè Michelet). Tale constatazione smette di sorprenderci non appena consideriamo che, in assenza di una tradizione politica unitaria, per i patrioti risorgimentali l'unico modo per raccogliere in un unico fascio una vicenda contraddistinta dai particolarismi fosse scommettere risolutamente sugli aspetti unificanti: a cominciare proprio dalla comune tradizione culturale (lo ha mostrato bene Stefano Jossa in un libro recente, L'It:alia letteraria). De Sanctis, soprattutto, non ha esitazioni. Per tenere assieme tante storie diverse occorre fare una scelta, cioè puntare su una tradizione linguistica - quella del toscano - nella speranza di costruire su di essa una tradizione nazionale più ampia. C'erano stati, ovviamente, Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma, anche dopo, il fatto che per secoli gli abitanti delle più diverse zone della penisola avessero letto con eguale entusiasmo le opere delle «tre corone», e che nel Cinquecento avesse vinto la proposta bembesca di costruire la moderna lingua italiana su quel canone ristrettissimo, rendevano meno arbitraria l'operazione. Scegliere con tanta nettezza di puntare sulla via maestra della letteratura italiana imponeva naturalmente una serie di rinunce niente affatto trascurabili. Bisognava anzitutto ridurre il peso di quelle istituzioni che altrimenti, inevitabilmente, avrebbero riproposto il vistoso policentrismo di Tiraboschi: tacere il ruolo decisivo che scuole, conventi, università, cenacoli, raccolte librarie e artistiche, gabinetti scientifici, accademie e tipografie disseminate per tutta la penisola avevano giocato nella nascita, nello sviluppo e nella conservazione della letteratura italiana. Come per i giuristi romantici le codificazioni legali non erano altro che altrettanti fermo-immagine, riproducenti un istante particolare della volontà della nazione, così per De Sanctis la rete delle istituzioni rappresenta tutt'al più il riverbero superficiale di un'energia creativa che trovava il suo cuore pulsante nel popolo e nella sua lingua. Che cosa sarebbero infatti le istituzioni senza questa vita dello spirito? Edifici vuoti, o poco altro. E qui De Sanctis,

LETTERATURA l! GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

59

nel suo rifiuto del modello tiraboschiano, appare sorretto e legittimato dal culto tipicamente romantico del genio e della spontaneità creatrice che percorre tutte le sue pagine. I grandi autori, evidentemente, sono comunque più forti dei condizionamenti esterni - sino a rendere questi ultimi sostanzialmente irrilevanti. Un ragionamento che non stona affatto in bocca di un patriota della tempra di De Sanctis, che aveva speso gli anni di detenzione a Castel dell'Ovo traducendo dal tedesco in italiano la Scienza della logica di Hegel. La seconda grande rinuncia di De Sanctis, che molto gli sarebbe stata rimproverata nel Novecento, è quella alle esperienze in dialetto, che nella sua Storia della letteratura italiana occupano un posto decisamente marginale. Nella prospettiva desanctisiana ogni scrittura vernacolare è automaticamente regressiva, e nonostante la grandezza di questo o quell'autore - rappresenta una potente minaccia all'ispirazione unitaria del suo disegno storiografico. Figure di primissimo piano come Giambattista Basile, Giovanni Meli e Giuseppe Gioacchino Belli non vengono mai citate; al Ruzzante si accenna al volo con l'epiteto (usato ironicamente) di «famosissimo»; Carlo Porta è solo un nome tra tanti in un elenco di letterati milanesi. Quasi che De Sanctis avesse paura di indebolire la propria costruzione allargando le maglie del setaccio per accogliere anche loro. La terza rinuncia è forse ancora più pesante in termini di conseguenze storiografiche. Se la letteratura italiana è la letteratura composta dal popolo italiano nel suo idioma naturale, secondo un altro assunto tipico della cultura romantica, allora la cospicua e qualitativamente eccezionale produzione in latino è destinata inevitabilmente a cadere. Agli occhi di De Sanctis la dedizione degli umanisti a Cicerone e a Virgilio è infatti molto più che una innocua distrazione da quello che, nella sua prospettiva, avrebbe dovuto essere il loro obiettivo - lavorare alla costruzione di una grande letteratura in lingua italiana. Assai peggio, essa viene vista come un pervertimento rispetto alla direzione spontanea dell'arte nazionale: una malattia dello spirito e dell'intelletto. Con buona pace di tutti i grandi umanisti e poeti che avevano deciso, ben oltre i confini del Rinascimento, di esprimersi nella lingua per eccellenza degli antichi, per De Sanctis una letteratu-

60

GABRIELE PEDULLÀ

ra composta in una lingua morta non può che essere, a sua volta, una letteratura morta in partenza. E la sua Storia, con l'abbondanza di metafore cadaveriche che contraddistingue la prosa desanctisiana, si limita a sancire una condanna inappellabile senza neanche provare a comprendere che cosa avesse voluto dire per gli uomini del Quattro e Cinquecento quel particolare latino restituito alla purezza della Roma classica. Per quanto gravose (doveva accorgersene lui per primo), queste rinunce De Sanctis le compiva tutte volentieri. Si trattava niente meno che di fondare, a posteriori, la legittimità del processo unitario. E proprio la particolarissima storia italiana - una storia di divisioni, di spinte centrifughe e di persistenti tentazioni campanilistiche - imponeva che lo studioso di letteratura che quella vicenda intendeva ricostruire dalla fine accettasse di sacrificare qualche dettaglio alla tenuta del quadro complessivo. A fronte dell'importanza del progetto intrapreso erano solo quisquilie. Non c'è bisogno di sottolineare, credo, come tutti e tre i sacrifici ricordati abbiano direttamente a che fare con lo spazio. Le istituzioni si incardinano in un territorio; la letteratura dialettale è legata alle parlate regionali e locali; mentre il latino rimanda a una dimensione cosmopolitica della scrittura che a De Sanctis appariva un altro indizio del tradimento che gli scrittori avevano operato nei confronti del loro mandato nazionale (un tema che sarebbe tornato in Gramsci). Naturalmente, il rischio delle scelte desanctisiane era che, una volta imboccata una simile strada, la dimensione spaziale venisse a perdersi del tutto. Per fortuna non è così. E quello che in questo caso impedisce la completa eclissi della geografia è soprattutto il concetto di «situazione». Già i discepoli diretti di De Sanctis avevano tutti insistito sull'importanza di questo termine, che nella Storia della letteratura italiana ricorre spesso e sempre in contesti carichi di senso, prima che Gianfranco Contini vi tornasse sopra in un famoso saggio desanctisiano del 1949 (probabilmente non immemore delle Situations di Jean-Paul Sartre, di appena due anni prima). Ma che cos'è - esattamente - la «situazione» per De Sanctis? Si potrebbe rispondere in molti modi, dicendo per esempio che la «situazione» è il vincolo che costrin-

LElTERATURA l! GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

61

ge gli autori a scrivere una particolare opera e non un'altra; un sigillo del tempo in cui vivono, pensano, operano; il punto d'incontro tra il piano astratto della creazione letteraria in quanto pura forma (ritmo, struttura, suono ... ) e la dimensione più prettamente storica. O forse, più in generale, bisognerebbe dire semplicemente che la «situazione» è la particolare serra culturale in cui ciascun essere umano si trova a fare esperienza del mondo. Tali risposte sono a loro modo tutte vere, ma è difficile comprendere fino in fondo l'importanza di questo concetto se non si parte dalle sue implicazioni polemiche. De Sanctis si era formato alla scuola di uno dei più grandi storici della lingua del suo tempo, un purista, Basilio Puoti e, in qualche modo, puntare sulla «situazione» invece che sulla immobilità dei valori cara ai classicisti significa per lui fare i conti proprio con il metodo retoricostilistico di lettura dei testi appreso in gioventù. Il compromesso di De Sanctis è che l'arte può ambire sì a una perfezione sovrastorica, ma che questa perfezione è il frutto di un confronto-scontro con un sistema di pregiudizi estetici, istanze politiche e persino opportunità pratiche. Laddove insomma l'isolamento nella torre d'avorio è sempre sinonimo di morte, una (parziale) compromissione con il proprio tempo appare invece la premessa necessaria alla sopravvivenza letteraria. Solo la lotta e la passione fecondano davvero: come, peraltro, risulta apertamente anche dalla eloquentissima metaforica di De Sanctis, che nei suoi scritti, in un personalissimo giudizio di Paride, elegge sempre a nume tutelare delle Lettere la matrona Giunone contro l'illibata Minerva e la sin troppo disponibile Venere. Naturalmente questa scommessa sulla condizione impura dell'arte ha i suoi pericoli. De Sanctis lo sa. E se la «situazione» è il motore segreto del Bello, a essa viene però contrapposta sempre l' «occasione», intesa al contrario come mero asservimento alle sollecitazioni esterne (l'arte d'occasione essendo, ai suoi occhi di patriota, essenzialmente l'arte cui i letterati di Antico Regime si prostituivano per ottenere benefici dai potenti). Dove cominci esattamente l'una e dove finisca l'altra non è chiaro con esattezza; eppure, nonostante le difficoltà, il rischio di rimanere intrappolati nelle passioni del presente bisogna correrlo egualmente. De Sanctis sceglie dunque di puntare risolutamente sulla storia, e

GABRIELE PEDULLÀ

subordinatamente anche sulla geografia, in polemica con un'idea di letteratura eternamente uguale a se stessa innanzitutto perché scritta in una lingua convenzionale e in partenza sottratta al tempo - la lingua della poesia italiana da Francesco Petrarca a Giacomo Leopardi. Insistere tanto sul contesto vuol dire dunque puntare sulla centralità dell'humus da cui nasce la «pianta uomo» (un'espressione alfieriana, anch'essa molto cara a De Sanctis). Compito dello storico della letteratura ma anche del critico militante sarà perciò analizzare, accanto alle caratteristiche formali di ciascuna opera, lo speciale genius loci in cui ogni scrittura letteraria è maturata. Ed è per questa via che la dimensione spaziale, all'inizio esclusa in quanto foriera di frammentazione, può tornare in maniera prepotente nella Storia della letteratura italiana. In senso stretto, a De Sanctis non interessano né la geografia fisica, né tanto meno la geografia politica. Eppure, proprio il modo in cui lo studioso napoletano ha saputo controbilanciare la sostanziale scomparsa della variabile spaziale è forse una delle prove più sicure del suo genio storiografico. Come compensazione per questa assenza, il suo racconto della nostra civiltà letteraria è infatti saturo di luoghi simbolici, che sono ovviamente tutt'altra cosa dalla geografia in senso stretto, ma che hanno la ftmzione di assicurare quel rapporto con la «situazione» senza cui la grande arte non sarebbe possibile. Questi luoghi simbolici portano nomi come Piazza, Corte, Convento, Studiolo, Accademia, Villa, Biblioteca, Prigione, e rimandano a uno spazio immediatamente connotato in chiave morale e affettiva: vale a dire uno spazio che allude anzitutto alle trappole che possono traviare uno scrittore nel difficile percorso verso la gloria letteraria - desiderio di facili onori, amore delle comodità, tendenza a seguire le mode, paura del confronto col mondo esterno, eccessiva partigianeria. Non è difficile comprendere per quale ragione De Sanctis punti sui luoghi contro la geografia. A differenza degli spazi reali, gli spazi simbolici hanno infatti il vantaggio di combattere la dispersione e di riportare a unità una vicenda tanto complessa e diversificata e sono dunque funzionali al progetto patriottico della sua Storia. Passano i secoli, mutano le forme, si susseguono gli individui; eppure Piazza, Corte, Convento, Studiolo, Acca-

LETTERATURA l! GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

demia, Villa, Biblioteca e Prigione (per fare solo alcuni esempi) sono sempre lì: come ipotesi esistenziali e come ipotesi letterarie. In particolare, se si legge con attenzione la Storia, ci si rende conto come De Sanctis ripercorra l'intero sviluppo della civiltà italiana attraverso le categorie di dentro e fuori e di alto e basso. Proviamo a vedere in che modo. Dopo la falsa partenza della corte fredericiana, per De Sanctis la letteratura sorge sulla piazza dei comuni («Tutto è piccolo, tutto va a finire là, nella piccola maldicenza sulla piazza del comune»): un luogo che è al tempo stesso simbolo di partecipazione diffusa (nessuno è lasciato fuori) ma anche di grettezza municipale. In un simile contesto, la laicizzazione della cultura viene descritta essenzialmente come un processo di allargamento rispetto al mondo circoscritto dei conventi e degli studia («già il laicato usciva dalle università, vigoroso e istrutto, con la giovanile confidenza nella sua dottrina e nella sua forza»); mentre all'estremo opposto, sul fronte della resistenza al nuovo, troviamo ancora le sacre rappresentazioni, le quali, «chiuse nel recinto delle chiese, de' conventi e delle curie vescovili, rimangono tradizionali e immobili, senza sviluppo artistico, come anche oggi si vedon in parte nelle feste del contado». Nella piazza invece il mondo improvvisamente si apre: la cultura varca i confini e scende tra il popolo (verso il fuori e verso il basso). Così, anche il fenomeno rinascimentale, per lo meno nei suoi aspetti migliori, non è che graduale diffusione della «gentilezza» aristocratica tra la gente comune ( «Il risorgimento [... ] penetrò dalle corti nel contado»). Per un liberale come De Sanctis si tratta sicuramente di un progresso - e tuttavia, da buon hegeliano (dunque da buon dialettico), egli non manca mai di cogliere il rovescio della medaglia. Per questo dopo aver esaltato il processo di democratizzazione del sapere, non esita a collocare sulla medesima direttrice alto-basso la decadenza morale del Quattrocento, quando, sulle orme di Boccaccio, «la letteratura nasceva fra le giostre, gli spettacoli e le danze». In tali condizioni, evidentemente, la stessa piazza poco prima esaltata come simbolo di libera partecipazione diventa sinonimo di poca serietà e di rinuncia ad ambizioni meno corrive. Questo non vuol dire affatto, però, che De Sanctis rimpianga l'isolamento e la separazione dal mondo. La grande crisi cinquecentesca appare segnata infatti da una

GABRIELE PEDULLÀ

nuova stagione di chiusura: «Ora il circolo della vita si restringe: la vita letteraria è nelle accademie e tra' convegni privati. Per le piazze si aggirano ancora i cantastorie e si sentono canzoni plebee. Ma la coltura se ne allontana, e la trovi in corte o nell'accademia o nelle conversazioni». È, nel lessico della Storia, la stagione del predominio dell' «artista» sul «poeta» e dell' «immaginazione» sulla «fantasia». Una (colpevole) condizione di separazione del letterato dal popolo destinata, secondo De Sanctis, a riproporsi almeno fino a quando la nuova scienza non avrebbe fatto saltare ancora una volta quelle barriere artificiali tra alto e basso e tra chiuso e aperto preparando la fine dell'Antico Regime e la definitiva riscossa nazionale. Questa caratterizzazione non riguarda però soltanto le grandi tendenze epocali. Nella Storia della letteratura italiana tutti gli autori principali sono collocati in questo spazio dalle forti implicazioni simboliche. In Dante si riconosce il cittadino che, strappato al piccolo mondo del comune, impara a declinare le proprie passioni in chiave universale e si libera delle piccolezze partigiane dei suoi compagni di esilio; Petrarca, figlio di un esule fiorentino, con i suoi viaggi in cerca di codici antichi incarna il cosmopolitismo del senza dimora, «ritirato nella solitudine e nell'intimo commercio degli antichi», e in qualche modo sconta la mancanza di un vero e proprio centro ( «Dante è sbandito da Firenze, ma la sua anima è sempre colà. Il Petrarca è costretto a dimostrare la sua italianità»); Giovanni Boccaccio è destinato a portare per tutta la vita i segni dell'esistenza edonistica trascorsa in gioventù a Napoli, presso la «corte spensierata e licenziosa della regina Giovanna»; il Quattrocento è «il cinismo di Boccaccio giunto in piazza e portato in trionfo», ovvero «una pozzanghera»; Angelo Poliziano vive scisso tra il sospirato isolamento nella villa di Fiesole e le feste cortigiane di Mantova e Firenze (tra i letterati di questo periodo, chiosa De Sanctis, domina il tipo dell' «uomo in villa»); Leon Battista Alberti sperimenta l'irrequietezza di chi non si ferma mai perché cerca il sapere in ogni luogo; Luigi Pulci si limita a pigliare «il romanzo come lo trova tra le vie»; il Cinquecento è il secolo della migrazione della letteratura dalla città al contado (è l'ideale dell'Arcadia) e dalla piazza all'accademia; Ludovico Ariosto, nonostante le ambasciate che lo

LETTERATURA l! GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

hanno portato in giro per la penisola, impersona il tipo del sedentario che preferisce immaginare il mondo da fermo piuttosto che percorrerlo davvero (più un cartografo che un esploratore, diremmo noi), ed è per questo contrapposto a un Machiavelli che da San Casciano riprende il testimone dantesco mettendo a frutto l'esperienza delle legazioni in Europa per «allargare» la propria idea di patria dal piccolo comune alla nazione; in Teofilo Folengo l'incertezza dei luoghi corrisponde all'incertezza tra l'italiano e il latino, e tra la vita in convento e lo stato laicale; Pietro Aretino ripete l'esperienza di sradicamento esistenziale di Petrarca ( «senza nome, senza famiglia, senza amici e protettori, senza istruzione»), ma poi, invece di incamminarsi verso la solitudine fortificante dello studiolo, si corrompe frequentando le corti; «educato in Napoli da' gesuiti, vissuto nella prima gioventù a Roma», Torquato Tasso conquista finalmente la libertà nella reclusione forzata che lo mette al riparo dalla tanto deprecata corte degli Este (secondo il topos romantico della prigionia che affranca); Bruno e Campanella simboleggiano la fuga dal convento di una filosofia che si fa a un tempo laica ed europea; la nuova scienza di Galileo è il pensiero che «dalle alte cime della speculazione scendeva nelle piazze dagli uomini», dunque l'annuncio della democrazia del sapere; Giambattista Vico incarna l'isolamento della biblioteca in un'Italia ormai divenuta periferia del mondo civilizzato (e capace di entrare in contatto con l'Europa solo grazie ai libri); per Metastasio la vocazione poetica segue una precisa traiettoria geografica prima della comoda sistemazione a Vienna («Roma ne aveva fatto un arcade; Napoli ne fece un poeta»). E così via. Persino la contrapposizione fondamentale su cui è costruita la Storia di De Sanctis, vale a dire quella tra la Commedia dantesca (frutto della civiltà medievale del sillogismo a priori) e il Faust di Goethe (simbolo del nuovo mondo fondato sulla ricerca empirica) viene risolta in una meravigliosa immagine spaziale: «La terra si manifesta meglio al coltivatore che al proprietario. Dante sa di avere i tali fondi, ma non ci va, non entra in comunione con quelli, non vive della vita de' campi, non li lavora: li conosce sulla carta. Rimane una proprietà astratta, senza effettiva possessione, senza assimilazione, un mio che non è me, non è fatto parte del-

66

GABRIELE PEDULLÀ

l'anima mia. Non ci è investigazione e non ci è passione, dico la passione che è generata da un amoroso lavoro intellettuale. Il filosofo fora la superficie e si seppellisce nel mondo sotterraneo, dove, come dice Mefistofele, stanno le profonde radici della scienza. Ma qui la scienza è salita sulla superficie, e se ne coglie i frutti senza fatica. Tutto è dato, la scienza con esso le sue prove e il suo linguaggio: sì che, ferme e intangibili le parti superiori della scienza, non rimane libera che l'ultima e più bassa operazione dell'intelletto: distinguere e sottilizzare». Anche un passaggio chiaramente metaforico come questo merita di essere preso sul serio. Ma, al di là delle molte citazioni possibili, soprattutto importa sottolineare la costanza con cui il grande critico napoletano ricorre a simili procedimenti. Se in De Sanctis abbiamo pochissima geografia rispetto a Tiraboschi, l'ossessione topologica si presenta come uno dei caratteri più significativi e originali della sua costruzione: dimmi dove vivi e ti dirò chi sei (come scrivi). D'altra parte, come si è già detto, i due fenomeni sono verosimilmente correlati: se non altro nel senso che la topologia è pensata anche quale surrogato di una geografia (e di una storia delle istituzioni) che rimanderebbe necessariamente a una condizione di policentrismo che proprio la letteratura, nel disegno di De Sanctis, ha invece il compito di smentire una volta per tutte. Gli italiani sono stati italiani - e non piemontesi, napoletani, veneti, romani - anche prima dell'unità politica. E lo sono stati in virtù di una lingua e di una serie di riferimenti comuni che hanno contato per loro più dei confini tra stato e stato. I luoghi simbolici di De Sanctis servono allora precisamente a questo: a creare un tessuto di rimandi ideali tra le biografie dei grandi nomi della letteratura italiana, sino a quando l'esilio di Dante non entra in sintonia con quello di Machiavelli relegato a San Casciano e lo sradicamento di Petrarca non rivive - pure così diverso nello sradicamento di Aretino. A queste precise condizioni, una volta esorcizzato il fantasma di Metternich, la dimensione spaziale può così svolgere un ruolo di tutto rispetto anche nella storia letteraria desanctisiana.

LElTERATURA E GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

3. Geografia letteraria come geografia linguistica: Olr/o Dionisotti Nata come manuale per le classi superiori, la Storia di De Sanctis (1870-71) nel corso del tempo si è imposta per generazioni e generazioni di studenti e di studiosi come il racconto standard della nostra tradizione letteraria. È su queste pagine che gli italiani hanno appreso, accanto ai primi rudimenti su Boiardo, Castiglione e Leopardi, il senso profondo di sette secoli di civiltà della parola. Persino l'ostilità dei positivisti della «scuola storica», dopo le iniziali frizioni, si sarebbe risolta con un compromesso, che lasciava ai filologi di formazione teutonica l'accertamento minuto dei fatti particolari (sulla scia di un Tiraboschi privato del suo disegno storico) a patto che le linee fondamentali della grande narrazione desanctisiana non venissero messe in dubbio: la fioritura iniziale, l'accelerazione ipertrofica, la svolta imitativa dell'umanesimo, lo scollamento tra arte e vita nel secolo della perdita dell'indipendenza nazionale, la lunga narcosi secentesca, il recupero del buon gusto e la rinascita della scienza come premabolo al riscatto risorgimentale. Il modello desanctisiano è rimasto sostanzialmente valido anche per Benedetto Croce, al quale peraltro va ascritto in gran parte il merito della definitiva canonizzazione della Storia della letteratura italiana a testo di riferimento, nelle scuole e fuori delle scuole. Pure per il filosofo napoletano infatti la divisione amministrativa e statuale non aveva minimamente intaccato la profonda unità culturale della penisola: nemmeno nei secoli della dominazione straniera. In un celebre saggio del 1936 pubblicato sui «Proceedings of the British Academy», Croce si sarebbe spinto a sostenere che, a rigore, prima del 1861 non era possibile fare storia d'Italia, ma che piuttosto occorreva indagare autonomamente le vicende di ciascuno degli Antichi Stati in cui era stata frazionata la penisola. Tuttavia questo metodo di lavoro valeva solo per la politica: per la cultura rimaneva invece vero l'assunto fondamentale di De Sanctis, per il quale, anche in assenza di un'unità dinastica e istituzionale, la lingua e l'arte avevano comunque costituito un motivo di fratellanza così forte da superare le frontiere artificiali costruite dai principi e da preparare la futura riscossa.

68

GABRIELE PEDULLÀ

Naturalmente nel corso del xx secolo non sono mancati contestatori al disegno desanctisiano, ma per quasi un secolo nessuna delle numerose obiezioni sollevate su questo o quel punto specifico - il moralismo di fondo, la condanna politica della stagione aurea del Rinascimento o l'incomprensione per la grande stagione musicale del Seicento - è stata sufficiente a mettere in crisi il modello o a fondare una tradizione alternativa. Ai margini della disciplina, in realtà, una controtradizione esisteva da tempo, alimentata da quei colleghi che lavoravano sì sullo stesso corpus di testi degli storici della letteratura ma che lo facevano mossi da interessi almeno in parte divergenti. Mi riferisco naturalmente ai linguisti e ai glottologi, i quali sapevano benissimo che l'Italia era stata (e ancora era) frammentata in dialetti, e che anzi, in questo campo, le divisioni si stavano dimostrando persino più difficili da sanare di quelle alimentate dalla politica. Petrarca e Boccaccio avevano costruito una tradizione valida per la poesia e per la prosa, su questo non c'era dubbio. Eppure il grosso della popolazione, nella vita di tutti i giorni, non era stata sfiorata che in minima parte da questo poderoso movimento di toscanizzazione. La geografia, che De Sanctis poteva mettere tra parentesi a beneficio della topologia, riemergeva qui in tutta la sua forza. Non è strano che gli storici della lingua siano stati anche i primi a sentire l'esigenza di tracciare delle mappe per chiarire meglio i propri ragionamenti: se, ancora oggi, c'è una piantina che tutti gli studenti della scuola superiore hanno verosimilmente incontrato nel loro cammino di studio, questa è appunto la mappa con i diversi dialetti della penisola secondo il De vulgari eloquentia dantesco. Puntando sulla lingua, anzi sulle lingue, invece che sulle opere letterarie, era possibile dunque rimettere in discussione il grande affresco desanctisiano. Per fare questo occorreva però superare prima alcuni ostacoli teorici. Non bastava cioè rilevare la presenza dei dialetti se non si concedeva a essi, almeno in astratto, una dignità paragonabile al toscano. Benedetto Croce, per esempio, era stato un grande studioso di produzione dialettale, in poesia e in prosa, ma aveva continuato a ragionare sempre secondo un dualismo che vedeva la letteratura popolare (in dialetto) come uno stadio destinato a esser superato dalla letteratura in volgare (la sua famosa traduzione di Basile nasce

LElTERATURA E GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

esattamente con questo intento). Per tale via il vernacolo si avvicina e alla fine si schiaccia necessariamente sul folclore, e le espressioni poetiche in dialetto finiscono necessariamente alla periferia del sistema, tra i capolavori locali destinati a non uscire dalla regione d'origine o a giacere tra le permanenze di un mondo superato (o mai raggiunto) dalla storia. Se non si contestava esplicitamente questa interpretazione gerarchica delle due culture, non era possibile attribuire il giusto peso alla frammentazione linguistica che aveva accompagnato la storia nazionale. Nell'Italia del primo Novecento, però, l'unico intellettuale che abbia criticato con forza questa visione sembra essere stato Antonio Gramsci, quando nei Quaderni del carcere propone di studiare le credenze popolari come «"concezione del mondo e della vita", implicita in grande misura, di determinati strati [... ] della società, in contrapposizione [... ] con le concezioni del mondo "ufficiali" (o in senso più largo delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico». Con simili presupposti era possibile giungere a una valutazione meno riduttiva del posto che i diversi dialetti avevano occupato nella letteratura italiana (e attaccare il grande edificio desanctisiano), ma le riflessioni carcerarie del segretario del Partito comunista sarebbero state conosciute solo nel dopoguerra, grazie all'edizione promossa da Togliatti presso l'Einaudi tra il 1948 e il 1951. Inoltre, il paradigma desanctisiano risultava inattaccabile nelle sue componenti fondamentali per il grumo di motivazioni politiche ed etiche che determinano il teleologismo del suo impianto. La letteratura regalava agli italiani almeno sei secoli di unità prima che le truppe di Garibaldi sbarcassero a Calatafimi e non era pensabile che essi fossero disposti a rinunciarvi tanto facilmente. Affinché qualcuno potesse riaprire con successo il discorso su geografia e policentrismo era dunque necessario un nuovo clima intellettuale, in cui le implicazioni più vaste delle critiche del linguista e del dialettologo alla tirannia del toscano cominciassero a farsi evidenti a tutti. Anche grazie alla disfatta del fascismo e della sua retorica nazionalista, quel clima maturò nel secondo dopoguerra. Che i limiti geografici del modello desanctisiano dovessero essere messi in luce da una prospettiva linguistica appare oggi,

GABRIELE PEDULLÀ

con il senno di poi, quasi scontato. Quel che è certo, però, è che la terza e ultima figura decisiva di questa rapida carrellata Carlo Dionisotti - ebbe sempre per questo genere di problemi un'attenzione e una sensibilità fuori dal comune. Non poteva essere diversamente. Dionisotti si era laureato a Torino, alla scuola di Vittorio Cian e del «Giornale Storico della Letteratura Italiana» (uno degli "organi ufficiosi" dell'anti-desanctisismo di marca positivistica), ma soprattutto aveva dedicato tutti i suoi primi lavori alla figura di Pietro Bembo: vale a dire alla figura chiave della questione della lingua cinquecentesca. Nessuno aveva mai posto il problema con la stessa lucidità dell'autore delle Prose della volgar lingua e nessuno avrebbe avuto un'influenza così profonda sulle scelte linguistiche dei poeti e dei prosatori italiani per almeno due secoli e mezzo: un dato che non bisogna mai trascurare quando si parla di Dionisotti. Il saggio decisivo si intitola, come è noto, Geografia e storia della letteratura italiana e venne pronunciato nel novembre 1949 come relazione a un convegno a Bedford, in Inghilterra, dove lo studioso piemontese si era trasferito all'indomani della guerra. Pubblicato due anni dopo sulla rivista «Italian Studies», sarebbe entrato nel dibattito italiano soltanto nel 1967, quando Giulio Einaudi riuscì finalmente a persuadere Dionisotti a raccogliere alcuni dei suoi scritti più importanti in un libro che porta il medesimo titolo. A quanto ne so, nessuno ha mai confrontato la versione di Geografia e storia del 1951 con quella del 1967 per verificare l'eventuale innesto successivo di suggestioni gramsciane (il volume importante è in questo caso Letteratura e vita nazionale, apparso nel 1950). Tale influenza non è da escludersi a priori, ma non è nemmeno indispensabile per comprendere lo scarto operato nelle densissime ventitré pagine del saggio. È nel rapporto pluridecennale con Bembo che infatti va probabilmente cercato il vero nucleo generatore dell'attacco mosso da Dionisotti alla tradizione desanctisiana. Bembo era stato al tempo stesso poeta in proprio, teorico della letteratura e editore di testi antichi (un filologo, diremmo oggi) e la sua figura mostrava a quale punto, nell'Italia del Rinascimento ma non solo, la creazione letteraria non potesse scindersi dalle scelte linguistiche. Dionisotti non lo ha mai dimenticato, e Geografia e storia può essere letto anche come il frutto più maturo di una lunga militanza bembesca.

LETTERATURA E GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

Prima di addentrarsi nel saggio eponimo vale però la pena di spendere qualche parola sull'organizzazione della raccolta. Se scorriamo anche solo l'indice del volume ci rendiamo conto che Dionisotti aggredisce il disegno di De Sanctis da prospettive molto diverse, ma in qualche modo convergenti. Il quarto saggio, nato come recensione alla Storia della lingua italiana di Bruno Migliorini, è una difesa della pluralità degli idiomi adoperati nella nostra tradizione letteraria - i dialetti, il provenzale, il francese, il latino - e una rilettura della stessa alla luce dei determinanti fattori linguistici. Il quinto, dedicato ai volgarizzamenti, ripropone da una prospettiva molto tagliata (ma cruciale) la grande questione della pluralità di idiomi in cui gli italiani del Rinascimento leggevano e si esprimevano per scritto. Il terzo è invece un tentativo di ripensare le categorie di «chierico» e «laico», tanto care alla storiografia risorgimentale (Luigi Settembrini in testa), qui rievocate per dissolvere una volta per tutte la loro automatica assimilazione al partito guelfo e ghibellino. Per secoli - dimostrava con facilità Dionisotti - la scelta di prendere i voti non aveva implicato un speciale vocazione ma aveva ubbidito ai cicli e agli anticicli della politica italiana: vale a dire che era stata condizionata dalla presenza (o meno) di altre posizioni appetibili per gli uomini di lettere nell'insegnamento o nell'amministrazione. E la conclusione della sua indagine era che, quando le altre potenziali fonti di sostentamento si disseccavano, per i non nobili rimaneva sempre aperta la possibilità di trovare protezione sotto le ampie ali della Chiesa. E vi è poi il saggio eponimo della raccolta, che colloca per la prima volta di nuovo la geografia al centro del discorso storicoletterario come non era più stato fatto dai tempi di Tiraboschi. Anche qui, come nella recensione a Migliorini, il ragionamento si concentra soprattutto sulla lingua: anzi, non si esagererebbe affermando che la ricostruzione di quasi sette secoli di letteratura italiana proposta da Dionisotti si fonda nella quasi totalità su considerazioni di natura linguistica. Anche rispetto agli altri saggi, in queste pagine la requisitoria contro De Sanctis si fa particolarmente esplicita. Scrive Dionisotti: «In una storia [= quella di De Sanctis] che pur si apre ai primi del Duecento in quanto a tale data si hanno i primi documenti di un uso letterario della lin-

GABRIELE PEDULLÀ

gua nuova [... ), il filo conduttore linguistico fin dapprincipio si perde, e l'altro ne prende il posto, della storia morale e politica d'Italia». Si tratta di una forzatura al tempo stesso fatale e indispensabile al disegno complessivo. Dionisotti lo sa. È evidente, infatti, che se De Sanctis avesse puntato unicamente sulla sostanza prima dell'espressione letteraria (l'idioma, parlato e scritto), la sospirata unità si sarebbe dissolta e il progetto della Storia sarebbe morto sul nascere. Non appena si riconosce a ciascun dialetto la medesima dignità (toscano compreso), le fratture prevalgono e l'idea che un unico fiume unisca gli uomini del xix secolo ai siciliani della scuola di Federico II si rivela nient'altro che una pietosa illusione. Nella realtà - ammonisce Dionisotti - il percorso era stato ben più accidentato e per assicurare l'adeguata circolazione delle acque De Sanctis aveva dovuto scavare in gran numero dei canali artificiali che evitassero la stagnazione delle singole esperienze locali. La Storia della letteratura italiana era certo un capolavoro. Ma la maestria con cui lo studioso napoletano aveva realizzato i suoi interventi di ingegneria idraulica non compensava affatto il difetto d'origine, vale a dire che l'unità del suo disegno si reggesse sulla commistione di elementi troppo eterogenei per stare assieme. Il ricorso massiccio a categorie etico-politiche, cui pure si doveva molto del successo di De Sanctis, era da questo punto di vista un chiaro indizio di debolezza cui occorreva rimediare ripensando l'intero assetto. La grande intuizione di Dionisotti è stata quella di giocare, contro il romantico De Sanctis, una carta tipicamente romantica: di radicalizzare, cioè, uno degli assunti fondamentali della prospettiva desanctisiana (l'identità di lingua e di letteratura) fino a sovvertire dall'interno il suo racconto. Ora, la speciale centralità accordata agli aspetti linguistici emerge anche a una lettura superficiale di Geografia e storia. Per tutto il Duecento la letteratura toscana si estende al massimo fino a Bologna, mentre in area veneta, padana e umbro-marchigiana fioriscono tradizioni alternative; ancora nel Trecento, «nonostante la rivelazione di Dante, subito confermata ed estesa dal Petrarca e dal Boccaccio, ben più che mezza Italia, così al Nord come al Sud, non risponde all'appello»; il Quattrocento è il primo secolo davvero unitario, ma

LElTERATURA E GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

73

l'unificazione dei diversi centri si compie solo grazie al latino, che consente di superare su un altro piano le identità locali; tutta la prima parte del Cinquecento è all'insegna della vivacissima questione della lingua (canonizzazione di Petrarca e Boccaccio e municipalizzazione del toscano vivo); alla fine di questo difficile processo, gli autori del secondo Cinquecento, e in particolar modo Torquato Tasso e Battista Guarino, formano la prima generazione di poeti «nati italiani», cioè apparsi sulla scena dopo la definitiva affermazione della proposta di Bembo. È un punto decisivo. Sino a questo punto la questione della lingua ha offerto a Dionisotti il grimaldello per scardinare l'edificio desanctisiano. Ma ecco che, venuto meno il policentrismo linguistico (se non altro a livello di letteratura culta), il saggio non può più procedere su questa strada, e dagli anni Ottanta del Cinquecento alla fine del Settecento, quando il dibattito ormai tace, Dionisotti si vede costretto ad affrettare il passo e liquida quasi duecentocinquant'anni di storia letteraria in due smilze paginette. Il motivo di questo cambio di ritmo si comprende facilmente: dalla fine del Cinquecento proprio perché Bembo ha vinto, e vinto con l'ampiezza di consensi che ben conosciamo, il modello unitario di De Sanctis risulta più efficace per descrivere la produzione del tempo. Con il paradosso che, nella prospettiva di Dionisotti, il paradigma della Storia della letteratura italiana sembra funzionare meglio proprio per i secoli meno amati dal grande studioso napoletano. Si avverte in questa sezione del saggio un chiaro disagio. Che in due paginette frettolose Dionisotti riesca a nominare solo Bologna e Napoli, e poi Milano, per ricordarci come in tutte queste città fosse attiva una fiorente tradizione dialettale, dimostra la sua palese difficoltà a fondare un discorso sul policentrismo italiano in assenza di un dibattito linguistico. Ancora nel secondo Settecento incontriamo le medesime difficoltà: anche se - con uno slittamento non troppo diverso da quelli rimproverati a De Sanctis - qui Dionisotti cerca conferma della sua ipotesi storiografica nell'eccezionale concentrazione di talenti nelle sole regioni settentrionali, lungo la direttrice Torino-Milano-Venezia (un dato certo da non sottovalutare, ma non congruo ai criteri linguistici con cui sino a questo momento Geografia e storia aveva descrit-

74

GABRIELE PEDULLÀ

to le difficoltà delle diverse esperienze regionali a farsi italiane). Non appena però la questione della lingua si riaccende, ecco che la pagina di Dionisotti perde ogni impaccio. La polemica contro il francese, la reazione puristica, lo scontro tra classici e romantici e Manzoni che risciacqua i panni in Arno sono insomma sufficienti a riattivare all'istante la componente propriamente geografica del saggio, permettendo allo studioso piemontese di affrontare l'Ottocento con il medesimo piglio dei primi secoli, quando la diversità degli idiomi regionali bastava ampiamente a revocare in dubbio i capisaldi dell'affresco desanctisiano. Da questo punto di vista non è escluso che la rapidità dei giudizi sulla letteratura post-unitaria, fondati anche in questo caso sulla maggiore forza creativa dei singoli centri (la Napoli di De Sanctis e Croce e la Sicilia di Verga), tradisca un nuovo imbarazzo di fronte alla conciliazione linguistica attorno al modello manzoniano. Ma il primo a rendersene conto, in questo caso è lo stesso Dionisotti, quando scrive che «l'età del Carducci, e poi del Pascoli e del D'Annunzio [... ] vuol essere esaminata con altri criteri che di semplificazione e classificazione geografica». Se si insiste tanto sul primato della lingua in Geografia e storia è anche perché esso costituisce il principale elemento di discontinuità di Dionisotti rispetto al pur affine Tiraboschi, il quale, come abbiamo visto, aveva fondato invece il policentrismo letterario sulla frammentazione politica (anche per Dionisotti, si direbbe, la frattura romantica non è dunque passata invano). Naturalmente, in Geografia e storia la dimensione istituzionale non è del tutto assente, ma si affaccia piuttosto in altri saggi della raccolta, a cominciare dal già citato Chierici e laici, dove però le istituzioni vengono osservate da un'unica prospettiva: come opportunità di impiego che ciascun centro di potere, statale o ecclesiastico, offriva agli uomini di lettere. Silenzio completo, invece, su tutte le altre questioni sollevate da Tiraboschi nella sua Storia, dal peso dei diversi circoli intellettuali al ruolo delle scuole e delle università nella formazione dei futuri letterati, dall'importanza delle raccolte librarie per la diffusione delle idee alle tipografie come propulsore della proposta culturale. Non che Dionisotti non conoscesse l'importanza di questi temi, come peraltro dimostrano facilmente tanti dei suoi saggi (a

LElTERATURA E GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

75

cominciare da quelli su Aldo Manuzio ). Semplicemente, il cuore del suo ragionamento batte altrove: nella diversità linguistica delle molte Italie. Ed è soprattutto lungo questa via che troveremo Dionisotti ogni volta che nelle sue pagine tornerà l'invito a integrare la prospettiva cronologica della storia con la prospettiva spaziale della geografia. A stretto contatto con i conflitti tra italiano, latino, vernacoli e idiomi stranieri. Nel corso degli anni l'impostanzione di Dionisotti ha riscosso crescente successo presso gli addetti ai lavori ma non si può dire che abbia fatto davvero scuola. I motivi di questo successo sono facili da comprendere. Infranta l'egemonia del toscano, la letteratura italiana svelava di colpo tutta una rete di tensioni sotterranee. Al posto di una sola tradizione pacificata, ecco invece un gran numero di linee e di ipotesi in lotta tra loro - i dialetti, il latino medievale e quello degli umanisti, il toscano vivo, il prestigio della prosa di Boccaccio e della poesia di Petrarca, il compromesso di un italiano «curiale» che sapesse assimilare il meglio di ogni parlata locale, il presunto primato di tutti i trecentisti... Per questa strada la letteratura italiana si scopriva improvvisamente plurale: più segnata dal confronto tra centri e ipotesi alternative di quanto sino ad allora si fosse mai ammesso. E una simile immagine non poteva non colpire gli studiosi degli anni Sessanta (il saggio di Dionisotti entrò nel dibattito della comunità scientifica solo alla sua ripubblicazione in volume), abituati a confrontarsi quotidianamente con i nuovi conflitti - anche linguistici che percorrevano l'Italia dell'emigrazione dalle campagne del Sud alle fabbriche del Nord. Solo tra il 1955 e il 1970 a compiere questo tragitto furono più di nove milioni di italiani. In un simile contesto, restituire dignità ai dialetti e alle periferie assumeva di per sé un preciso significato politico e sembrava annunciare il futuro riscatto di quel mondo. Anche per questo il saggio di Dionisotti, ignorato nel 1951, divenne rapidamente un punto di riferimento obbligato per una nuova generazione di studiosi. Naturalmente, mentre Tiraboschi e De Sanctis avevano scritto le loro Storie, Dionisotti si è limitato a enunciare i princìpi secondo cui una narrazione alternativa potrebbe essere scritta, abbozzandone tutt'al più un primo, sintetico, schizzo. Ci si può anche domandare se un manuale organizzato secondo quei prin-

GABRIELE PEDULLÀ

cipi avrebbe potuto davvero funzionare. Di sicuro sappiamo che Dionisotti preferì non confrontarsi con una simile impresa: richiesto di stendere il volume dedicato alla cultura italiana dalle origini all'Unità per la Storia d'Italia Einaudi diretta da Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, Dionisotti si ritirò dal progetto per protesta contro la linea di apertura di Giulio Einaudi verso i giovani contestatori del Sessantotto torinese. Tanto più per questo rifiuto, l'ipotesi di una storia geografica della letteratura italiana (non necessariamente su base linguistica) era destinata ad aleggiare nell'aria. E come spesso succede con le interpretazioni più originali, negli anni successivi non sono mancati tentativi di sviluppare e sistematizzare le fertili intuizioni di Dionisotti. In questo caso, purtroppo, gli epigoni non sono stati all'altezza di colui che aveva aperto la strada. Il più famoso di questi tentativi, grazie all'autorevolezza della sede editoriale e alla notorietà del curatore, è costituito sicuramente dai tre volumi della Letteratura Italiana Einaudi intitolati Storia e geografia e pubblicati tra il 1987 e il 1989. Vale la pena di spenderci un po' di parole perché i quattro tomi dell'opera offrono uno splendido esempio di come il paradigma di Dionisotti - semplificato ma soprattutto frainteso - possa produrre una serie di equivoci pericolosi. Cosa intende per «geografia» il curatore del progetto, Alberto Asor Rosa? L'indice non offre una risposta univoca. Nel primo volume (L'età medievale) incontriamo capitoli dedicati a entità molto diverse tra loro quali «La letteratura dell'Italia mediana dalle Origini al XIII secolo», «La letteratura volgare in Toscana dalle Origini ai primi decenni del secolo XIII», «Il regno normanno-svevo», «La letteratura dell'Italia settentrionale nel Duecento», «La Toscana nel Duecento», «Genesi della tradizione letteraria italiana in Dante, Petrarca e Boccaccio» (di fatto un tradizionalissimo capitolo monografico sulle tre corone), «Il regno angioino e la Sicilia indipendente», «Roma e Italia centrale nel Duecento e nel Trecento» e «La letteratura dell'Italia settentrionale nel Trecento». Nel secondo volume (L'età moderna) la distinzione si fa più rigorosa, e immediatamente fondata sulla politica; nel primo tomo (quattro-cinquecentesco) troviamo «Firenze», «Siena e la Toscana», «Napoli e l'Italia meridionale», «Roma», «Urbino

LElTERATURA E GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

77

e le Marche», «Il Rinascimento padano», «Milano, Mantova e la Padania nel secolo xvi» e «Venezia e il Veneto»; nel secondo tomo (dal Concilio di Trento all'Unità) i capitoli sono intitolati a «Firenze e il Granducato di Toscana», «Il Piemonte», «La Lombardia», «Venezia e il Veneto dopo Lepanto», «Lo Stato della Chiesa», «I Ducati di Modena e di Parma» e «Il Regno di Napoli». Infine, nel terzo e ultimo volume (L'età contemporanea), con l'unità d'Italia la partizione rispecchia invece, con qualche forzatura, le diverse regioni: c'è «Torino», «Il Piemonte e la Lombardia nell'età dell'industrializzazione», «Milano», «Venezia e il Veneto», «La Liguria», «L'Emilia e la Romagna», «Firenze e la Toscana», «Roma», «Napoli», «Il Mezzogiorno e la Sicilia», «Trieste e la Venezia Giulia», «Il Friuli», «Il Trentino», «La Svizzera italiana» e «La Sardegna» (gli ultimi cinque capitoli e la Liguria riassuntivi dell'intera vicenda letteraria di queste regioni dalle origini al Novecento). Nonostante la molteplicità dei criteri adoperati per dividere la penisola, emerge subito la netta prevalenza delle aggregazioni politiche: e non appena le frontiere tra gli Antichi Stati diventano abbastanza stabili Asor Rosa le assume senza troppe esitazioni a principio ordinatore. Siena e Firenze, finché quest'ultima non finisce anch'essa sotto il principato mediceo, sono trattate separatamente; Ferrara viene trattata nel «Rinascimento padano» (con Modena e altri centri) fino a quando è ducato indipendente, mentre appena torna sotto il dominio diretto del papa viene rubricata sotto «Lo Stato della Chiesa» (e la Modena estense finisce in un capitolo di "scarti", assieme a Parma). Infine, nei casi piuttosto rari in cui un singolo capitolo racchiude più di un soggetto politico, come avviene per esempio con «Il Rinascimento padano», «Milano, Mantova e la Padania nel secolo xvi» e «I Ducati di Modena e di Parma», la paragrafatura interna provvede a separare le singole esperienze secondo i confini doganali. Nonostante gli ostentati richiami del curatore dei volumi al metodo di Geografia e storia, una simile organizzazione della materia è quanto di più lontano potremmo immaginarci dalla suggestione di Dionisotti, che invitava a cercare il fondamento del policentrismo italiano anzitutto nelle diversità linguistiche. Se infatti Asor Rosa abbracciasse davvero la lezione del grande stu-

GABRIELE PEDULLÀ

dioso piemontese, che senso avrebbe separare nettamente Siena da Firenze, o Ferrara da Bologna? O, viceversa, tenere assieme Napoli e Palermo? La conclusione è semplice: i riferimenti a Dionisotti sono frutto di un equivoco; se tanto spazio viene dato alle aggregazioni statali è perché Asor Rosa ha in mente una storia tiraboschiana, vale a dire schiettamente istituzionale. Peraltro, proprio il primissimo volume della Letteratura Italiana Einaudi era stato dedicata a Il letterato e le istituzioni (1982), con una serie di saggi per l'epoca molto innovativi su accademie, ordini mendicanti e cenacoli umanistici. All'inizio la partizione dell'indice sulla base di criteri strettamente politici lascerebbe credere perciò che il medesimo approccio sia destinato a ritornare nei volumi di Storia e geografia: anche a costo di banalizzare un poco la complessità dell'approccio di Tiraboschi, il quale non dimentica mai come le istituzioni siano diretta emanazione del potere statale solo in casi eccezionali e come dipendano piuttosto da soggetti molteplici (laici e religiosi, locali e nazionali, privati e pubblici). E tuttavia le cose non stanno affatto così. Niente Dionisotti ma soprattutto niente Tiraboschi nelle pagine di Asor Rosa. Non appena infatti cominciamo a scorrere i diversi capitoli ci rendiamo conto che le istituzioni occupano un posto marginale nel discorso degli autori: quando poi non sono del tutto assenti. Nella maggior parte dei casi, anzi, i contenuti dei saggi non si discostano molto da quelli di una tradizionalissima storia letteraria in più volumi: un accenno ai movimenti intellettuali e alle poetiche, e poi i soliti profili, individuali e per gruppi, con qualche sondaggio più approfondito sulle opere maggiori e "canoniche". Il tutto, in alcuni casi, arricchito da qualche spunto di critica tematica sull'immagine delle diverse città nelle opere dei contemporanei. Nulla di tutto ciò suona particolarmente nuovo: e questo soprattutto se consideriamo che la dominante cronologica, rinnegata a beneficio della geografia politica, ritorna subito all'interno di ciascun capitolo, dove si procede dal più antico al più recente, esattamente come farebbe una qualsiasi storia letteraria. Poiché la classificazione per luoghi non è insolita nemmeno nei manuali scolastici (debitamente ibridata con altri criteri), in questo caso l'unica vera differenza è che, invece di trovare delle porzioni di tempo suddivise al proprio interno per autori e centri, il

LElTERATURA E GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

79

lettore incontra delle porzioni di spazio suddivise al proprio interno per autori e blocchi cronologici. Il primato della geografia influisce dunque unicamente sulla disposizione della materia senza che riesca a far emergere nuovi oggetti di ricerca rispetto alle più convenzionali storie della letteratura in uso nei licei. Con simili premesse non è difficile comprendere per quale motivo Dionisotti in una serie di interviste abbia sempre preso duramente le distanze dall'operazione di Asor Rosa. Persino quella che appare l'unica novità di rilievo di Storia e geografia - vale a dire il taglio delle singole sezioni -, si rivela infatti più di ostacolo che di aiuto alla comprensione dei fenomeni letterari. Che senso ha assumere i diversi soggetti statali come altrettante monadi separate, quando si ha a che fare con una entità mobilissima quale la letteratura, se non per mettere al centro il reticolato delle istituzioni? In altre parole, siamo sicuri, tanto per fare un esempio facile, che la cultura della Firenze e della Bologna medievale si comprenda meglio separando in maniera così netta le loro vicende? Ma la domanda è solo retorica e presuppone un no estremamente netto. Una simile concezione dello spazio come pura fotografia del potere politico, viene a nascondere proprio gli aspetti dinamici dell'esperienza letteraria: la capacità degli autori e delle opere di migrare al di là dei confini fisici e amministrativi diffondendo idee e forme in giro per l'Italia e per l'Europa - a differenza delle istituzioni care a Tiraboschi e delle comunità linguistiche care a Dionisotti, le quali hanno invece una decisa propensione all'immobilità (anche se pure nel loro caso non sempre è così: si pensi al papato avignonese, alle compagnie teatrali o ai salotti itineranti dell'Ottocento, tanto per fare pure qui qualche esempio). È possibile che le aporie di Storia e geografia e lo schiacciamento delle opere e degli autori sulla politica dipendano dalle debolezze teoriche di un certo marxismo accademico italiano e dalla sua tendenza a ridurre la letteratura a semplice manifestazione ideologica o, peggio, occulta propaganda. Il resto dell'opera di Asor Rosa spingerebbe ad accogliere questa interpretazione. C'è però un altro aspetto che stupisce in tutta questa vicenda. Quando è stata lanciata, la Letteratura Italiana Einaudi si proponeva esplicitamente come una continuazione ideale della

80

GABRIELE PEDULLÀ

Storia d'Italia Einaudi: tanto più che il volume in essa dedicato alla cultura dell'Italia unitaria era stato interamente redatto proprio da Asor Rosa. Anche l'opera di Romano e Vivanti era stata influenzata profondamente dalle categorie geografiche, sulla scia della grande esperienza delle «Annales» e della lezione di Femand Braudel. A livello letterario, far emergere la forza dei luoghi e la lunga durata avrebbe dovuto dire valorizzare il prius della lingua rispetto alla creatività dei singoli autori, e non sorprende affatto che in un primo momento Romano e Vivanti avessero pensato a Dionisotti per il profilo della cultura italiana tra Due e Ottocento. Per riprendere la famosa immagine braudeliana, la lingua corrisponde alle correnti oceaniche profonde, che non vengono raggiunte dai cambiamenti atmosferici, mentre i diversi autori e le diverse opere assomigliano piuttosto alle onde che increspano la superficie del mare, pronte a cambiare rapidamente forma e direzione a seconda del vento. Le istituzioni, in questa immagine, dovrebbero porsi a un livello intermedio, proprio per la loro capacità di durare e di condizionare le opere e gli autori superando i secoli: un poco come una sorta di natura "culturalizzata" (al punto che i contemporanei tendono a perdere la consapevolezza della loro convenzionalità). Nonostante i riferimenti a Dionisotti e alla Storia d'Italia Einaudi non è questa la strada percorsa da Asor Rosa. Niente di male in questo: purché però Asor Rosa avesse accettato fino in fondo le conseguenze della sua scelta di assumere la politica come unità di misura geografica e avesse puntato decisamente sulle istituzioni, invece di limitarsi a offrire una versione regionalizzata di un manuale standard di letteratura, organizzato cioè per autori e movimenti. Con il risultato che alla fine i quattro tomi di Storia e geografia ricordano piuttosto la Storia d'Italia diretta a partire dal I 979 da Giuseppe Galasso per la Utet e crociana mente suddivisa per entità amministrative, cioè antico stato per antico stato (anche se, come abbiamo visto, il desanctisiano Croce non avrebbe mai accettato che questo stesso principio, valido per la storia politica, venisse applicato alle vicende culturali e segnatamente letterarie, come fa invece Asor Rosa). Peggio di non scegliere è soltanto non rendersi conto che una scelta si impone: necessariamente. È questo, forse, il peccato ori-

LElTERATURA E GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

81

ginale di Storia e geografia. Il risultato di tante incertezze finisce per essere, così, un oggetto storiografico ibrido: dionisottiano a parole; tiraboschiano nell'importanza accordata (a livello di indice) alle partizioni amministrative; tradizionalissimo nei contenuti; assai poco geografico nel complesso. Non ci si può stupire, di fronte a simili incongruenze, che la proposta dei tre volumi di Asor Rosa non abbia esercitato grande influenza sugli studi di letteratura italiana e che sia sostanzialmente caduta nel vuoto. Ma dal suo fallimento si può trarre egualmente almeno una lezione preziosa: come qualsiasi approccio o metodo, anche quello geografico non assicura a priori dei risultati soddisfacenti.

4. L'Atlante della letteratura italiana E veniamo infine ali'Atlante. Dei tre modelli di geografia della letteratura offerti dalla critica italiana non c'è dubbio che l'Atlante si rivolge soprattutto al magistero, troppo a lungo disconosciuto, di Girolamo Tiraboschi. Almeno per quanto mi riguarda, questa spiccata affinità è stata evidente sin dall'inizio. Alla Storia del grande modenese ci avvicinano alcune precise opzioni strutturali: l'inclusione nella letteratura italiana di opere e discipline che l'Ottocento ha espunto dai manuali di Belle Lettere (teologia, giurisprudenza, medicina, scienze... ), sino a far coincidere tout court letteratura e civiltà della parola, literature e literacy; la valorizzazione delle "altre" lingue degli italiani (latino, greco, ebraico, provenzale, francese, inglese... ); ma soprattutto l'assoluta centralità accordata alla cultura materiale e alle istituzioni nelle loro più diverse forme. Vi sono naturalmente delle differenze almeno altrettanto importanti: a cominciare dalla cronologia, considerato che l'Atlante non prende in considerazione la cultura italiana prima del Duecento. E vi è la novità delle carte e dei censimenti quantitativi - dove, con qualche distinguo (l'Atlante non mappa le geografie immaginarie dei romanzi e dei poemi), ci siamo mossi sulla scia di Franco Moretti. Eppure, nel complesso, Tiraboschi rimane il principale punto di riferimento della nostra impresa. In quanto italianista, il progetto dell'Atlante è nato dalla percezione di una scissione sempre più ampia tra quello che abbia-

GABRIELE PEDULLÀ

mo appreso della nostra tradizione letteraria e il modo in cui, nonostante tutto, la si continua a raccontare. È come se sapessimo da tempo che un determinato modello di storiografia lineare non funziona più, ma non avessimo il coraggio di cercarne di nuovi: quasi che gli italianisti non riuscissero a disfarsi della matrice hegeliana delle loro sintesi scolastiche, quando da parecchio tempo la Fenomenologia dello Spirito e la Scienza della logica hanno smesso di ispirare concretamente la loro ricerca di studiosi. Ma si tratta di un fenomeno ormai antico e non solo italiano, se Ernst Gombrich poteva scrivere qualcosa di simile in un saggio del lontano 1967, notando il paradosso per cui tutti coloro che scrivono una storia dell'arte o della letteratura finiscono per «salvare gli assunti hegeliani senza accettare la metafisica hegeliana» (In Search of Cultura/ History). Dopo più di quarant'anni nulla sembra essere cambiato. !;Atlante nasce da questo disagio e dalla volontà di smuovere le acque. Con Sergio Luzzatto, infatti, siamo partiti da una riflessione sul tempo assai più che sullo spazio. Lui come storico e io come italianista eravamo interessati al modo in cui alcune delle grandi innovazioni della storiografica del xx secolo potessero essere tradotte in una rappresentazione coerente e farsi "senso comune". Dalla «lunga durata» di Fernand Braudel alla «microstoria» di Carlo Ginzburg, i maggiori storici del Novecento non hanno smesso di interrogarsi sull'enigma del tempo. Come far fruttare dal punto di vista storiografico la contraddizione tra una serie di istanti tutti uguali eppure non altrettanto carichi di senso? Come mostrare, cioè, che non esiste una sola temporalità, ma che nella storia della cultura (e più in generale nella storia) si alternano momenti di bruciante accelerazione a fasi di stallo e quasi di immobilità? Che alcuni fenomeni possono essere compresi solo se li misuriamo con la scala dei secoli, mentre altri vanno inquadrati piuttosto con il calendario dei giorni e delle settimane? Se mi si passa la metafora, abbiamo cercato di immaginare un'opera che riuscisse a tenere assieme lo sprint del centometrista e la capacità di resistenza del corridore di fondo. Ovviamente so bene che Hegel per primo aveva piena consapevolezza dell'importanza di queste diverse temporalità. Proprio nella prefazione alla Fenomenologia dello Spirito si legge un passo cruda-

LElTERATURA E GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

le, in cui il filosofo tedesco ragiona sui motivi che fanno del suo «un tempo di gestazione e di passaggio a una nuova epoca» e propone una rappresentazione del processo storico come alternanza tra fasi in cui lo Spirito, «mai in quiete, anzi in un sempre progrediente movimento» avanza in maniera quasi inavvertibile, «lento e silenzioso incontro alla nuova configurazione», e fasi di rapida metamorfosi, quando un «salto qualitativo» spezza il normale processo con un «rivolgimento che, simile a un lampo, riplasma il disegno del nuovo mondo». Tutto verissimo. Eppure è come se gli studiosi di letteratura si siano lasciati sfuggire questo prezioso suggerimento, limitandosi a mutuare da Hegel l'impianto generale delle loro storie senza preoccuparsi troppo delle sfide che la rappresentazione del tempo lancia a chiunque si appresti a raccontare una vicenda plurisecolare. Non a caso, dunque, l'Atlante si struttura attorno a due tipologie fondamentali di saggi: quelli che abbiamo chiamato i «saggi evento» e quelli che abbiamo chiamato «saggi grafici», a loro volta divisi in «reti» e «sistemi». I «saggi evento» sono tutti costruiti attorno a una data simbolica e a un luogo chiave della nostra storia letteraria, quando è avvenuto qualcosa di potenzialmente decisivo per le patrie lettere: la lite tra due scrittori, l'apertura di una tipografia o di un teatro, l'invenzione di una nuova tecnologia tipografica, l'inizio di un sodalizio intellettuale, la tumulazione di un maestro della precedente generazione, la scomparsa (spesso inavvertita) di un'istituzione secolare ... Si tratta di avvenimenti tutti puntuali ed esattamente circoscrivibili nel tempo, che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori di raccontare con piglio narrativo nelle primissime pagine del loro saggio, per poi passare a trarre le conseguenze di quei fatti sulla lunga durata della letteratura italiana - a volte seguendone il filo anche per parecchi decenni o addirittura secoli. Se il lettore dell'Atlante ha spesso a che fare con albe e tramonti, non mancato i fenomeni colti al loro zenit. Per noi, infatti, era molto importante che i «saggi evento» non offrissero soltanto una monotona sequenza di prime volte. Il tratto che rende una data specialmente adatta per l'Atlante è piuttosto il suo potenziale simbolico: vale a dire la sua capacità di evocare questioni generali a partire da un caso singolo trascendendo la

GABRIELE PEDULLÀ

sostanza apparentemente aneddotica della vicenda da cui il saggio ha preso spunto. Dietro alla decisione di parlare della condanna al rogo delle vite alternative di san Francesco da parte del suo stesso ordine, di Petrarca che converte Boccaccio all'umanesimo latino, dell'invenzione del luogo teatrale moderno al Teatro Olimpico di Vicenza o della riscrittura in dialetto bolognese dell'Orlando Furioso c'è ovviamente un atto di arbitrio dei curatori, che hanno reputato un certo avvenimento e non un altro particolarmente adatto a introdurre una domanda chiave della storiografia letteraria. E tuttavia la nostra speranza è che i lettori, a conclusione di ciascun saggio, riconoscano che proprio quella vicenda particolare consente di osservare un grande problema da una prospettiva particolarmente favorevole. Mentre con i «saggi evento» ci muoviamo in un orizzonte qualitativo, che privilegia il momento eccezionale (anche se non necessariamente famoso) e distingue i diversi istanti in base alla loro significatività, i «saggi grafici» rimandano piuttosto a un orizzonte quantitativo. Questa è stata probabilmente la parte più difficile dell'opera, anche perché solo per la storia del libro potevamo fare affidamento su una tradizione di studi sufficientemente consolidata e in cui, soprattutto, indagini di questo tipo facevano da tempo parte degli strumenti di ricerca abitualmente adoperati dagli specialisti del settore. In tutti gli altri casi - che si trattasse di calcolare l'incidenza della Peste Nera del 1348 sui letterati, di soppesare la frequenza delle incoronazioni poetiche o di ricostruire il ruolo dei gesuiti nella formazione delle élite italiane - la raccolta dei dati per realizzare le mappe, gli istogrammi e i paliogrammi dell'Atlante ha richiesto ai diversi autori mesi di ricerche di prima mano, tanto in archivio quanto in biblioteca, prima che fossero in grado di rispondere alle domande che ci eravamo posti. Proprio per indicare che i fenomeni letterari possono essere colti nella loro complessità solo se teniamo conto allo stesso tempo della dimensione qualitativa e quantitativa, così come della breve e della lunghissima durata, spesso i «saggi grafici» sviluppano su una scala completamente diversa (e con gli strumenti di indagine a essi peculiari) un problema già discusso nel «saggio evento» che li precede. L'alternanza ci aiuta a non "tipizzare" i casi eccezionali (come può capitare quando ci immaginia-

LElTERATURA E GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

85

mo, per esempio, l'esilio dei letterati medievali sul modello irripetibile dell'esperienza dantesca), e anzi ci consente di comprendere meglio in che cosa consistesse una simile eccezionalità. Tengo molto a questo approccio duplice. È possibile che l'aspetto più vistoso dell'Atlante sia la cartografia, che è la cosa più nuova e "parla" al lettore ad apertura di pagina. Eppure le due serie sono del tutto complementari e i «saggi evento» rimangono indispensabili al progetto complessivo proprio perché ci ricordano che, oltre le serie numeriche, ci sono i casi che esulano dalla norma. Che cos'è infatti un'opera d'arte riuscita se non un evento singolare e irripetibile? Occupandoci di letteratura (e non solo di storia) non potevamo permetterci di perdere il rapporto con l'individuum ineffabile. Un ipotetico Atlante unicamente quantitativo, cioè sprovvisto dei «saggi evento» e magari dei lunghi commenti che accompagnano diagrammi e cartine e che ne chiariscono il senso (a volte anche relativizzando la portata di un particolare dato numerico), sarebbe stato qualcosa di molto diverso dall'opera che abbiamo cercato di realizzare. Nel caso dell'Atlante l'uso degli strumenti quantitativi è soprattutto un modo (nuovo) per affrontare una (vecchia) questione delle così dette «scienze dello Spirito». Gli scienziati matematizzano il mondo e procedono per campioni statistici. E noi umanisti? Da duecento anni gli storici della cultura hanno continuato a porsi il problema delle generalizzazioni. Su quali basi compierle? Ovvero: che cosa è veramente tipico di un'epoca? E che cosa condensa - invece - il senso di una stagione proprio in virtù della sua irriducibile eccezionalità? La questione è ancora scottante. Nel sistema hegeliano lo Spirito Assoluto si manifesta per lampi improvvisi. Per questo gli storici idealisti hanno cercato i caratteri fondamentali di un'intera civiltà nelle sue manifestazioni artistiche più riuscite - si trattasse della Nike di Samotracia, di una cattedrale gotica o di una sonata di Beethoven. Sino a identificare una stagione storica unicamente con le sue rare vette. Rispetto a questo modello le serie numeriche hanno invece il pregio di evitare qualsiasi confusione tra l'elemento quantitativo e l'elemento qualitativo, aiutandoci a distinguere in quale delle due possibili accezioni un'opera o un autore sono "significativi"

86

GABRIELE PEDULLÀ

di una particolare epoca. I nudi dati (stampe della Gerusalemme liberata per decennio, affiliazioni alla massoneria per città, indici di analfabetismo ... ) colgono i fenomeni più macroscopici e spesso, tra un picco e l'altro, registrano soprattutto i momenti di inerzia. Ma, al contrario della vecchia sociologia della letteratura, interessata unicamente a "pesare" le diverse mode culturali per dare sempre e comunque ragione alla forza dei numeri, i «saggi grafici» puntano piuttosto a dissolvere l'equivoco originario dello storicismo; a ricordarci che ciò che davvero conta - in letteratura - non è tanto l'opera media di più ampio successo, quanto il libro eslege, restio a lasciarsi collocare secondo le categorie tradizionali: il libro non suscettibile di riusi e di imitazione diffusa; persino il libro che all'inizio si nega alla comprensione e che talvolta è destinato a non diventare mai popolare. A lavoro ormai quasi concluso posso dire che l'applicazione sistematica del metodo quantitativo ci ha permesso di censire soprattutto tre tipologie di figure della vita culturale: gli uomini (nascite, spostamenti, morti, affiliazioni a un gruppo, partecipazioni a un evento collettivo... ), i manufatti (manoscritti e libri a stampa, giornali, riviste, testi appartenenti a un particolare genere letterario ... - tanto nella loro produzione quanto nella loro diffusione, censura compresa) e le istituzioni. Ovviamente non tutti i fenomeni letterari rientrano in questa tripartizione. ~Atlante non offre per esempio una rappresentazione cartografica dei dialetti della penisola. Sondaggi del genere, sulle parlate delle diverse zone della penisola, sono già stati realizzati dai linguisti per l'Italia contemporanea, e noi, in assenza di una documentazione completamente affidabile per il passato, abbiamo preferito non ripetere l'esperimento per i secoli più antichi. Senza dubbio, questo è anzi il punto su cui la nostra distanza dalla proposta dionisottiana di Geografia e storia della letteratura risulta maggiore. La lingua, naturalmente, non è assente dalle nostre analisi quantitative ma è osservata attraverso prismi diversi. I volumi delle diverse biblioteche antiche sono catalogati anche in base al peso di ciascun idioma, così come le pubblicazioni e gli interventi della censura. E l'Atlante concede grande spazio agli snodi cruciali della questione della lingua, provando a mettere - per la prima volta - in correlazione la posizione dei diversi protagoni-

LElTERATURA l! GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

sti del dibattito con la loro provenienza geografica e con i luoghi della loro formazione (dunque puntando, ancora una volta, sugli uomini). Per non parlare poi dei censimenti per aree geografiche della poesia dialettale e delle raccolte folcloriche. Come si è visto, i dati quantitativi sono particolarmente preziosi quando ricostruiscono l'andamento di un fenomeno letterario su un'estensione cronologica molto ampia e disegnano lo sfondo su cui collocare i grandi libri della tradizione letteraria italiana. In alcuni casi però abbiamo voluto dare anche ai saggi grafici una curvatura più esplicitamente qualitativa. E lo abbiamo fatto attraverso una serie di approfondimenti su alcune città, còlte in un momento particolarmente significativo della loro vita culturale. Qui la misura temporale è generalmente più contenuta: di solito una, al massimo due generazioni, perché se si dilatasse troppo la cronologia gli eventi mappati smetterebbero di essere contemporanei e non farebbero più sistema tra loro. Alla fine dei tre volumi i lettori troveranno tre Firenze, Roma e Milano, due Torino, una Padova, Ferrara, Venezia, Trento, Napoli, Catania, Trieste e Bologna. Più tre città italiane "fuori d'Italia": l'Avignone del Trecento, la Lione del Cinquecento e la Lugano sette-ottocentesca (questo un elemento di netta discontinuità rispetto a Tiraboschi, che programmaticamente non valica le Alpi). Ci è dispiaciuto molto perdere, per banali ragioni di tempistica, una seconda Napoli. Mentre solo per motivi di spazio alla fine abbiamo rinunciato a una Buenos Aires italiana di inizio Novecento che si annunciava ricchissima di sorprese. Nel progetto dell'Atlante la geografia è centrale in tutte e due le tipologie fondamentali di saggio, eppure coglie fenomeni diversi proprio perché le loro scale sono così diverse. In una prospettiva grafica, i «saggi evento» identificano un punto - come indicato anche dalla piccola piantina che, in alto sulla destra della prima pagina, colloca immediatamente su una carta l'azione da cui prende avvio il racconto. I saggi quantitativi mirano invece a individuare piuttosto degli agglomerati di punti o a tracciare dei vettori, nello spazio o nel tempo (in questo secondo caso quando la diffusione di un'opera o di un'istituzione viene seguita nel suo sviluppo diacronico attraverso un apposito diagramma o istogramma a barre). Questi agglomerati di punti e questi vettori richiedono naturalmente di essere interpretati caso per caso. A questo fine, per me è

88

GABRIELE PEDULLÀ

molto importante che i diversi segni vadano a collocarsi su quelle che si definiscono solitamente delle piantine mute. Salvo casi eccezionali, quando l'argomento del saggio imponeva che particolari confini o elementi del territorio venissero segnalati (il Tevere di Bartolo di Sassoferrato, per esempio), abbiamo preferito infatti adottare quasi sempre come base delle mappe completamente bianche. In questa direzione ci portavano sicuramente delle esigenze grafiche (evitare che i troppi segni rendessero poco leggibile l'immagine) e dei motivi prettamente storici (perché quando la cronologia era molto ampia potevamo trovarci a dover fare i conti con entità politiche cangianti, soprattutto nei secoli più remoti). Forse non avremmo potuto comportarci in maniera diversa; eppure, anche in assenza di simili contraintes, l'opzione per le piantine mute si è imposta subito come autoevidente. Nel nostro tornare a Tiraboschi, cioè nel nostro mettere al centro del progetto dell'Atlante le condizioni materiali in cui la letteratura italiana si è sviluppata nel corso di otto secoli, la cancellazione dei confini statuali ci si è presentata come uno degli accorgimenti necessari per evitare uno schiacciamento sulla politica che altrimenti sarebbe stato inevitabile. Come era avvenuto nel caso di Storia e geografia di Asor Rosa, che per noi ha costituito da subito una sorta di caveat e di anti-modello. In che rapporto stanno tra loro politica e letteratura? A una domanda tanto generale l'Atlante non fornisce una risposta univoca. A volte gli addensamenti di punti e di palle sulle mappe del1'Atlante rispecchiano esattamente, nel campo della cultura, le frontiere degli Antichi Stati; altre volte si avverte in maniera particolarmente evidente il potere della conformazione fisica del territorio sulla diffusione delle idee: la forza frenante della montagna, la centralità dei fiumi e in generale delle vie d'acqua, la persistenza del tessuto stradale romano ... Altre volte, invece, i punti sembrano organizzarsi secondo logiche completamente diverse, che sfidano in maniera aperta tanto il determinismo politico quanto il determinismo fisico. E questi sono i casi, diciamo pure la verità, che sollecitano di più il desiderio di comprendere dello studioso. Soprattutto, gli aggregati di punti cambiano continuamente. Tanto per fare un esempio scontato, a seconda del momento storico Bologna e Firenze, separate dagli Appennini e legate a due compagini statuali diverse, possono essere vicinissime o distan-

LElTERATURA l! GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

tissime. Riportando sulle mappe soltanto i fenomeni culturali (diffusioni dei codici, luoghi di nascita degli umanisti, residenze dei corrispondenti di uno scienziato ... ), l'Atlante ripropone in forma di problema aperto la questione del loro rapporto con i poteri politici e con la conformazione del territorio. Da questo punto di vista i risultati grafici dell'Atlante intendono essere dei punti di partenza almeno quanto dei punti di arrivo. Di volta in volta lettori comuni e studiosi potranno infatti confrontare le nostre mappe con quelle che si trovano in qualunque atlante geografico o storico verificando - caso per caso - corrispondenze e divergenze, secondo il principio di un geografia variabile (non saprei chiamarla in altro modo), in cui le città italiane ora si avvicinano e ora si allontanano, saldandosi spesso in agglomerati che nulla hanno a che vedere con le entità statali della penisola o con le dorsali montuose e i corsi d'acqua. In questi anni di lavoro le soddisfazioni più grandi sono venute sempre dall'arrivo dei grafici. A volte mappe e istogrammi non facevano che offrire una conferma di quanto era già ampiamente risaputo (penso per esempio al primato di Petrarca su Dante in età moderna); spesso però a prevalere era la sorpresa, persino negli autori che avevano raccolto i dati ma che, non avendoli ancora visti proiettati nello spazio, scoprivano solo a questo punto tendenze e rapporti sino a quel momento insospettati. Il caso più clamoroso è stato quello dell'Italia meridionale. Fino all'Unità la maggioranza delle nostre piantine sono tagliate subito sotto Napoli, e quando la penisola viene rappresentata nella sua interezza lo si deve quasi sempre solo all'apporto della Sicilia. Che cosa voleva dire questa reiterata assenza del Sud? A un certo punto, a mano a mano che il dato si ripeteva, la domanda si è imposta con assoluta urgenza. Eravamo noi ad aver sbagliato qualcosa nel formulare le domande? O invece stavamo involontariamente rafforzando i peggiori stereotipi contro il Mezzogiorno? Solo dopo un po' di tempo la risposta ci si è imposta in tutta la sua evidenza e persino in tutta la sua banalità: la geografia culturale italiana rispecchia il dualismo di un paese che al Nord, con il suo particolarismo, guarda all'area tedesca, mentre al Sud riproduce un modello più simile a quello della Francia e dell'Inghilterra, vale a dire di due paesi fortemente accentrati

GABRIELE PEDULLÀ

attorno a una solida monarchia, con una corte che prosciuga la provincia attirando tutte le migliori intelligenze nella capitale. Il modello franco-inglese prevede così una testa ipertrofica e un corpo piccolo, con poche realtà culturali di rilievo fuori dalla capitale (per l'Inghilterra: Oxford e Cambridge), e il Regno di Napoli non fa che riproporre uno schema di sviluppo in tutto e per tutto analogo (per avere un'idea della sproporzione, si tenga conto che nel 1500 Napoli aveva una popolazione tra i 200 e i 250 mila abitanti, subito seguita da Lecce con circa 20 mila). Esattamente il contrario del mondo teutonico, dove invece ogni singolo centro può vantare un'antica tradizione cittadina di autonomia, anche culturale. Come nell'Italia centro-settentrionale. Quanto abbia influito su questo modello la presenza di una tradizione monarchica assente nel resto d'Italia e quanto invece si tratti di un semplice riflesso del minore sviluppo urbano o della diversa reazione alla Peste Nera rispetto alle regioni del CentroNord (con la creazione del latifondo meridionale) l'Atlante non lo spiega. Come non sempre, per la verità, spiega tutte le coincidenze, spaziali e cronologiche, che sondaggi sui campi più diversi della vita culturale italiana hanno messo improvvisamente in luce. E non lo fa per il semplice motivo che, fino alla conclusione dell'opera, nessuno possedeva la totalità dei dati e delle informazioni di prima mano che noi mettiamo per la prima volta a disposizione della comunità degli studiosi e degli studenti. È giusto che sia così: una volta giunti alla fine del cammino le piantine sono destinate a diventare, almeno idealmente, un trampolino di lancio per future ricerche. Il lettore incontentabile che io sogno per la nostra opera non avrà infatti che da sovrapporre mentalmente molte delle nostre mappe e dei nostri grafici per trovarsi proiettato in un nuovo mondo di interrogativi. L'Atlante, da questo punto di vista, rimanda dunque a un ideale metaAtlante, nel quale le acquisizioni dei diversi saggi cominciano a dialogare tra di loro sollecitando ulteriori accertamenti. Se nei prossimi anni la nuova generazione di italianisti e di storici che già si affaccia all'orizzonte riterrà che alcune delle curiose sincronie e simmetrie emerse dai nostri «saggi grafici» meritino di essere ulteriormente approfondite, uno dei principali obiettivi del nostro lavoro potrà dirsi raggiunto.

LElTERATURA E GEOGRAFIA: LA VIA ITALIANA

91

Riferimenti bibliografici I principali libri cui si allude a proposito della "svolta geografica" sono: Franco Moretti, Atlante del romanzo europeo. z800-z900, Einaudi, Torino 1997; Id., La letteratura vista da lontano, Einaudi, Torino 2005; Kart Schlogel, Leggere il tempo nello spazio. Saggi di storia e geopolitica (2003), Bruno Mondadori, Milano 2009; Id., Arcipelago Europa. Viaggio nello spirito delle città (2005), Bruno Mondadori, Milano 2011; Bertrand Westphal, La geocritica. Reale finzione spazio (2007), Armando, Roma 2009; Id., Le monde plausible. Espace, lieu, carte, Éditions de Minuit, Paris 2011; Francesco Fiorentino e Giovanni Sampaolo (a cura di), Atlante della letteratura tedesca, Quodlibet, Macerata 2009. Per un panorama complessivo delle storie della letteratura nel nostro paese si legge ancora con profitto Giovanni Getto, Storia delle storie letterarie (1942, rivista e ampliata nel 1969), Liguori, Napoli 2011 (nuova edizione accresciuta). Ottimo il recente profilo di Paolo Grossi, Pierre-Louis Ginguené, historien de la littérature italienne, Pctcr Lang, Bcrn 2006. La Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi è ormai consultabile online; di Michele Mari occorre vedere Il genio freddo. La storiografia letteraria di Girolamo Tiraboschi (1990), CUEM, Milano 1999 (nuova edizione accresciuta). Anche La storia della letteratura italiana di Francesco Dc Sanctis è disponibile in rete; io mi sono servito dell'edizione a cura di Niccolò Gallo, con introduzione di Giorgio Ficara, Einaudi, Torino 1996. Il saggio di Gianfranco Contini è Introduzione a De Sanctis (1949), in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Einaudi, Torino 1970, pp. 499-53 1; di Stefano Jossa si veda L'Italia letteraria, il Mulino, Bologna 2006. L'interpretazione topologica della letteratura italiana è stata ripresa da Alessandro Fontana e Jcan-Louis Fourncl, Piazza, corte, salotto, caffè, in Alberto Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana, voi. v, Le questioni, Einaudi, Torino 1982, pp. 635-638. Carlo Dionisotti si cita da Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1967. Il passo di Gramsci proviene dai Quaderni del carcere 2 7, p. 2 3 1 1, Einaudi, Torino 197 5. In Search of Cultural History (1967) di Ernst H. Gombrich è raccolto in Id., Ideals and Idols, Clarcndon Prcss, Oxford 1979.

Cartografie sonore e modernità migranti Iain Chambers

Lo spazio non è mai semplicemente qualcosa di stabile; è sempre composto dal passaggio di tante storie e tante culture diverse. Lo spazio, come ci ha insegnato Henri Lefebvre, è sempre socialmente e culturalmente immaginato, elaborato e costruito; si tratta di una serie di processi mai conclusi, sempre in atto. In questo senso, la geografia non è tanto il prodotto di premesse astratte, e perciò "universali", quanto umana, sociale, storica e specifica. I suoi spazi non sono vuoti o statici; sono i prodotti di atti temporali, di forze e poteri sociali portati avanti dal desiderio di rendere il mondo trasparente a una volontà. Lo spazio è sempre una struttura dinamica, un processo in cui il mondo è reso disponibile per essere sondato, piegato e contestato. Nel leggere e narrare lo spazio, proponendo un percorso critico che sfida la geografia normativa composta di paesaggi stabili, si possono incrociare diversi modi per mappare la nostra inscrizione nella materialità del mondo. Una prospettiva di questo tipo dovrebbe avere anche il compito di muoversi tra l'etica della misura del mondo, che potrebbe emergere da una geografia critica, problematica, e l'estetica che s'inscrive nel mondo tramite l'arte della scrittura proposta dalla letteratura, ma anche dalle grafie disseminate dalle arti visivi e dai suoni della musica. Opporsi alla rigidità epistemologica che pensa di essere in grado di "mappare" il mondo, e contestare la conoscenza che emerge da quest'operazione, implica una più ampia critica delle premesse delle scienze sociali e degli studi umanistici che abbiamo ereditato. Il desiderio di una certezza - quella "scientificità" in cui si manifesta il prolungamento del positivismo europeo dall'Ottocento fino ai giorni nostri - che cerca di conservare l'autorità del discorso intenta a riprodursi è spezzato, deviato, reso vulnerabile. Qui saperi eia-

IAIN CHAMBERS

94

borati tra coordinate più fluide e instabili potrebbero suggerirci una serie di mappe mobili della modernità che non rispondono a una prospettiva stabile o unica. La combinazione di una "critica marittima" - dove le conoscenze sono portate in mare e sradicate rispetto a una "casa" disciplinare singolare o un territorio di appartenenza stabile - e l'incertezza semantica disseminata dal passaggio dei suoni, può spingerci a riaprire il nostro archivio. Esporre i propri saperi, i propri poteri alle domande insospettate che arrivano da un mondo che non siamo solamente noi a definire, spiegare e gestire, segna una cesura. Imparando dal mare, possiamo accogliere nella po-etica recente dei Caraibi, per esempio, un archivio del rimosso composto di corpi, storie e culture persi e buttati nelle acque degli oceani che hanno sorretto il passaggio dell'Occidente e il suo "progress". In una dimensione marina possiamo tracciare altre correnti con cui scrivere una storia diversa della modernità. Le voci degli storici, dei poeti, artisti e musicisti dell'Atlantico nero - C. L. R. James, Stuart Hall, Pani Gilroy, Edouard Glissant, Derek Walcott, Michele Cliff, Wilson Harris, Aubrey Williams, Bob Marley propongono una cartografia subalterna e sovversiva che parla della violenza di una modernità tracciata sui corpi rapinati, incatenati, schiavizzati, brutalizzati, razzializzati. Tali corpi, ridotti a oggetti economici e simbolici, sono stati derubati della loro soggettività storica e culturale: «Ho incontrato la Storia una volta, ma non mi ha riconosciuto», scriveva Derek Walcott 1 • Ascoltando queste voci, magari ai ritmi di reggae che pongono l'accento musicale nelle pieghe di una composizione storica e culturale ben ordinata, possiamo sentire nella musica che arriva da quest'archivio le battute fomite da tempi e ritmi che nella loro con-temporaneità suonano l'ora, )'adesso di paesaggi mobili e migranti. Questi suoni propongono attraversamenti obliqui della linearità implacabile richiesta dalla teleologia umanistica (e capitalistica) del "progresso" occidentale. Insistere, con Walter Benjamin e Bob Marley, sul fatto che il tempo non è né vuoto né D. Walcott, La goletta «Flight», in Id., Mappa del nuovo mondo, Adclphi, Mila(cd. or. TbeSchooner «Flight», in Id., Collected Poems, 19481984, Farrar, Straus & Giroux, New York 1986). 1

no

2.001, pp. 12.2.-12.3

CARTOGRAFIE SONORE E MODERNITÀ MIGRANTI

95

omogeneo significa tirare fuori dall'inferno senza sfondo della storia (il «bottomless pit» di Bob Marley, Redemption Song) una configurazione dello spazio-tempo sempre eterogeneo, multiplo, contestato e costruito dai diversi poteri nel suo divenire. Insistendo su questa prospettiva scopriamo delle storie e delle culture sostenute dai suoni in un'economia musicale. Qui, ben oltre il regime scopico favorito dalla modernità occidentale, per cui la verità dev'essere rappresentata per essere registrata (dalla scrittura e l'iconografia religiosa al telegiornale e lo schermo del computer), entriamo in uno spazio eterotopico che interroga e interrompe la narrazione egemonica dei vincitori. Questo ritorno del rimosso storico e culturale che trasvalutano la forza planetaria della modernità produce il taglio postcoloniale. Dall'archivio dell'altro, dell'altra, dal nostro archivio reso altro, custodito nel cuore di tenebra della modernità stessa, emergono delle schegge del tempo - in un quadro, un video, un pezzo di musica, una poesia - che fanno esplodere il presente con altri presenti. Davanti a quest'orizzonte, l'interruzione postcoloniale arriva a un appuntamento con Aby Warburg e Walter Benjamin e la loro critica dello storicismo europeo. In ambedue i casi, la memoria storica, di solito consegnata alla cripta intoccabile del passato, diventa un archivio vivente in grado di incidere sul presente e disturbare e deviare il desiderio di una spiegazione ben ordinata, omogenea, stabile e fissa. In ambedue i casi, l'arte dell'interruzione si trasforma nell'interruzione dell'arte che si presenta come un dispositivo critico. L'opera dell'arte a questo punto non è un ornamento culturale o un'illustrazione storica; non si tratta di pensare sull'opera, ma di pensare con l'opera. L'opera ci spinge a considerarla come immagine del tempo che interroga il nostro stesso senso del tempo: «L'immagine ha spesso più memoria e più avvenire di colui che la guarda» 2 • Quando lo spazio-tempo è tagliato in questa maniera, le distinzioni topografiche tra Nord e Sud, Occidente e Oriente, svelano i rapporti asimmetrici che hanno costruito una modernità 1 G. Didi-Hubcrman, Storia dell'arte e anacro11ismo delle immagt11t, Bollati Boringhicri, Torino 2007, p. 13 (cd. or. Devant le temps. Histoire de l'art et anacbro11isme des images, ~itions dc Minuit, Paris 2000).

IAIN CHAMBERS

storicamente e culturalmente realizzata attraverso il colonialismo europeo, i suoi imperi, e la riduzione del resto del pianeta a un oggetto dei suoi poteri e delle sue conoscenze. In questo scenario possiamo parlare di una ferita coloniale esposta in un'arte che rifiuta di fornirci una prospettiva consolante che confermi la nostra visione e versione del mondo. La ferita che non si guarisce diventa il luogo dell'interruzione postcoloniale. Qui, nel ritorno del rimosso coloniale, l'interruzione ontologica dell'arte quell'eccesso di senso che scompagina i ritmi quotidiani dell'abituale - si trasforma nell'arte dell'interruzione in cui l'estetica e l'etica (o la poetica e la politica) diventano tutt'uno. Com'è stato già detto, l'opera e l'operato dell'arte (Artworking: Bracha Ettinger) non resta un oggetto per illustrare al soggetto una situazione storica o una condizione culturale, quanto un medium per promuovere l'istanza di sentirsi in processi e rapporti aperti in cui siamo assoggettati. Passando dalla presunta stabilità dell'opera dell'arte (e del soggetto) all'operare o al processo aperto e inconclusivo dell'arte (e della soggettivazione) il presente implode: non per cancellarsi ma per rinnovarsi instaurando coordinate diverse, inaspettate, non sempre autorizzate da noi. Seguendo questo percorso possiamo, e dobbiamo, insistere sulla riapertura dell'archivio dell'Occidente. Da qui, dal luogo della memoria storica, spesso consegnata alla cripta intoccabile dello storicismo per essere custodita e congelata nel museo, nel testo scolastico o nelle opere d'arte che diventano feticci stabiliti dai circuiti internazionali del mercato dell'arte, emerge la sfida dell'archivio vivente. Quest'archivio è in grado di incidere sul presente, disturbare il desiderio di omogeneità e dialogare con il futuro. L'archivio, come Jacques Derrida ci ha ricordato, diventa «una questione di avvenire, la domanda dell'avvenire stesso, la domanda di una risposta, di una promessa e di una responsabilità per il domani» 3• Torniamo ai suoni del mare e al mare dei suoni. Spingendoci oltre il regime scopico possiamo far ricorso a una cartografia sonora. Al posto di pensare sulla musica, pensiamo con la musi3 J. Dcrrida, Mal d'archivio. Un'tmpressto11e freudiana, Filcma, Napoli 1996, p. 47 (cd. or. Mal d'archive. U11e tmpression freudte,11,e, Galiléc, Paris 1995).

CARTOGRAFIE SONORE E MODERNITÀ MIGRANTI

97

ca, e nel seguire i suoni tracciamo altri modi per narrare il mondo. In questa maniera, la sociologia della musica è soppiantata dalla musica come sociologia; le storie dei suoni sono sostituite dai suoni delle storie: i suoni non illustrano più le storie ma le propongono. Con questa politica dell'interruzione viaggiamo con una bussola che suggerisce un diverso assetto del presente. Qui, la forza critica dipende esattamente dall'instabilità nella nota musicale e dall'incertezza nella partitura culturale. Stiamo navigando un mondo che ci precede e ci eccede; un mondo non semplicemente "nostro", un mondo che non siamo noi a definire, dirigere e rappresentare. In questo spazio siamo condotti a incontrare la potenza del non-detto, dell'indicibile, del significato che insiste sul suo diritto all'opacità e al rifiuto di apparire davanti ai nostri occhi. Questi sono gli intervalli che tagliano il nostro rendiconto del tempo con altri tempi. .. altre voci ... altre vite. Qui l'arte postcoloniale elabora il luogo per le materie che sono "fuori posto" e "fuori tempo": quei corpi, quelle storie, culture e voci che rifiutano di restare oggetti della nostra economia politica ed estetica. In questa contro-storia della modernità registriamo le ombre del passato che diventano gli spettri del presente; quegli spettri che propongono risposte che graffiano le nostre lenti con quell'eccesso di senso dove l'agonismo storico e culturale acquista una poetica. Così il panottico della metafisica occidentale, che cerca l'unicità del mondo nella sua ragione, riducendo l'altro/l'altra all'oggetto del suo regime di verità, è reso problematico. Lo specchio dell'auto-conferma della soggettività occidentale come unico Soggetto della Storia è frantumato; ormai viviamo tra le sue schegge in una casa ridotta a una rovina. L'ultima osservazione. L'etica-estetica dell'arte postcoloniale fa entrare e circolare la novità nel mondo tramite la sua ripetizione della modernità. Per esempio, la musica afroamericana e la cultura hip hop hanno proposto un passato, un archivio, frammentato e aperto, pronto per essere raddoppiato, campionato, assemblato, graffiato e "dubbed". Tale ritorno (del rimosso) "rilascia" una rinascita, un rinnovamento, che espone un'idea chiave della critica postcoloniale: quella del nuovo che emerge nella ripetizione del già accaduto. Dalla lettura di un noto saggio

IAIN CHAMBERS

di Salman Rushdie in Patrie immaginarie (1991), ripreso, approfondito ed esteso da Homi Bhabha in I luoghi della cultura (2001), ci accorgiamo che la ripetizione scaccia il "genio" occidentale con l'argomento tagliente (evidenziato nella cultura dei Dj e nella musica afroamericana- dal jazz all'hip hop e oltre) che la novità non è inventata dal nulla, ma emerge nella mescolanza di elementi già disponibili, già in circolazione. John Coltrane prendeva una canzone da uno spettacolo musicale - My Favorite Things - per tracciare un lungo percorso sonoro del tutto inaspettato; nella stessa maniera un Dj fa incontrare sui due "piatti" dei giradischi suoni già incisi per fornire un ritmo, una tonalità, un paesaggio sonoro mai sentito prima. Questa procedura di "taglio" e "missaggio" non propone semplicemente un atto estetico, una tecnica musicale; si tratta di una richiesta etica, dove la logica lineare del "progresso" dello storicismo occidentale è attraversata, tagliata e mescolata da un percorso che risponde a esigenze storiche che culturalmente sono state strutturalmente escluse, rimosse e negate dalla narrazione vincente. La modernità ripetuta dall'altrove, nell'altrove, rilascia altre versioni, propone altri percorsi, per portarci a considerare non solamente un mondo composto di migranti, ma un mondo e una modernità migrante. Mettendo insieme due sequenze video, possiamo assistere alla ripetizione della famosa scena nella sala da ballo a Palazzo Gangi a Palermo nel film Il Gattopardo (1966) di Luchino Visconti, ripresa e ripetuta da Isaac Julien nella sua opera Western Union: Small Boats (2007). Lo stesso spazio - come in un archivio vivente - occupato da corpi e storie diverse fa emergere dalla danza della storia una modernità multipla, ancora in atto, ancora da narrare.

Semiotica e geografia letteraria Isabella Pezzini

Le mie prime esplorazioni nei territori della geografia letteraria si sono equamente distribuite fra la geografia immaginaria e la letteratura di viaggio 1 • Sono stata affascinata dalla curiosa necessità di scrittori di opere assolutamente fantastiche - almeno nel senso corrente del termine - di dotarle di una geografia precisa, organicamente ricostruibile e spesso anche esibita in forma di mappe e carte illustrative. Lo sono stata anche dal profondo interpenetrarsi di dimensione immaginaria e vocazione documentaria, ritrovato in opere in apparenza ben calate nella realtà, come nello sviluppo della stessa cartografia scientifica, nella sua fase congetturale densa di narrazioni mitico-leggendarie, istoriata di figure e di potenti allegorie. Di qui alcune linee di riflessione in prospettiva semiotica che cerco qui di riprendere in breve. Esse muovono anzitutto dal riconoscimento della disponibilità elettiva delle forme spaziali a farsi espressione ricca e stratificata di contenuti specifici dell'immaginario individuale e collettivo: lo spazio, particolarmente in letteratu1 Or. principalmente il progetto di una mostra di cui resta il catalogo Hic sunt leo11es. Geografia fantastica e viaggi straorditulri, a cura di Omar Calabrese, Renato Gio-

vannoli, Isabella Pczzini, Electa, Milano 1983; la serie di volumi Electa, coordinati da Isabella Pczzini, Storie di viaggiatori italiani, 4 voli., Elccta, Milano 1985-1988; la mostra sull'immaginario interculturale delle esplorazioni geografiche e il relativo catalogo F.xploratorium. Cose dell'altro mondo, a cura di Isabella Pezzini, Elccta, Milano 1991; Isabella Pezzini, L 'immagtnazto1,e della carta. Letteratura e geografia fantastica, in Carlo Tugnoli (rur.), I contami della terra e del mare. La geografia tra rappresentaziot,e e itwem:ione della realtà, Pitagora, Bologna 1997, pp. 173-200; Id, Le passioni del lettore. Saggi di semiotica del testo, Bompiani, Milano 1998; Id., Geograpby Topograpby - Maps - ltineraries, voci in Vita Fortunati, Raymond Trousson (eds.), Dictiotzary of Litera,y Utopias, Champion, Paris 2.000, pp. 2.41-2.44; Id., Lo spazio letterario: sguardi e razionalità e confronto, in Carmelina Imbroscio (rur.), Il testo letterario e il sapere sdentifico, Clueb, Bologna 2.003, pp. 99-116.

100

ISABl!LLA Pl!ZZINI

ra, è un linguaggio che parla anche e soprattutto di altro da sé, che articola valori e sperimenta nuove relazioni semantiche. Dai modelli spaziali di base elaborati nell'ambito della teoria della narratività, l'attenzione si concentra poi su geografia immaginaria e rappresentazione cartografica, su dispositivi, concetti e figure che possono divenire strumenti efficaci tanto di seduzione quanto di legittimazione intellettuale. La costruzione discorsiva dell'utopico offre in questo senso un caso esemplare, che permette di risalire alle caratteristiche del tutto particolari della produzione segnica all'origine dell'espressione cartografica e della sua retorica.

1.

Temi e figure dello spazio letterario

Lo spazio è materia prima del simbolico, inteso come la capacità di instaurare in modo efficace rapporti tra "cose" ed "esseri": non c'è cultura che tralasci il tentativo di normare e controllare tanto gli spazi di residenza quanto quelli del potere, dell'amministrazione, del lavoro o del tempo libero. «Essi significano o simboleggiano eventualmente qualcosa soltanto se sono riusciti a collegare, a riunire, a ordinare e a identificare coloro che li abitano o li frequentano, anche rispetto a coloro che escludono», come osserva Mare Augé 2 • Se la letteratura è uno dei modi attraverso cui si fissano e discutono i valori di una cultura, il suo spazio - cioè lo spazio di cui essa si serve convocandolo, costruendolo e ricostituendolo all'interno dei suoi testi - sarà dunque sempre ipercodificato e ipersignificante. L'approccio semiotico cerca di tradurne concettualmente le valenze tentando di rilevare ed articolare in modo esplicito e coerente le sue funzioni strutturali, distribuendole su diversi strati o livelli, dal più concreto al più astratto. Così, dagli scenari e dalle ambientazioni incontrate ad una prima lettura del testo, si cerca di risalire alla geometria soggiacente in base alla quale essi si organizzano, e poi ancora e soprattutto ai valori semantici e alle assiologie che essi esprimono attraverso temi e 1 Mare Augé, Disneyla,uJ e altri no11 luoghi, Bollati Boringhicri, Torino 1999 (cd. or. L 'impossible voyage. Le tourisme et ses images, Payot & Rivagcs, Paris 1997).

Sl!MIOTICA I! Gl!OGRAFIA Ll!'ITl!RARIA

IOI

figure specifici. In quel testo esemplare che è l'analisi della novella Deux amis di Maupassant, Greimas anzitutto ricostruisce il sistema spaziale, chiuso e concentrico, in cui si svolge l'avventura sulle prime banale di due pescatori, che in modo un po' guascone escono dalla Parigi assediata dai prussiani per tornare almeno una volta in riva al loro fiume, dimenticando per qualche ora la cruda realtà della guerra. Ma presto l'analisi si focalizza sugli elementi del paesaggio e sugli agenti atmosferici che li accompagnano con innocenza apparente: dal Mont-Valérien che tuona lontano alla riva famigliare, dall'acqua del fiume all'aria del tramonto. In apparenza sullo sfondo, in effetti è come se con l'avanzare del racconto queste figure venissero progressivamente in primo piano, partecipando con la loro presenza e le loro trasformazioni agli eventi narrati e soprattutto alla costruzione del loro significato, dalla cattura dei due amici da parte dei prussiani sino al loro sacrificio da patrioti, dopo il rifiuto di tradire. Ad un'analisi attenta le figure dell'universo sensibile si rivelano in effetti i veicoli potenti del campo di valori che si scontrano nel racconto, dalla vita alla morte, dalla paura al coraggio, dalla disperazione alla consolazione dell'amicizia3. Sul piano semantico la scelta dei temi e della figure arricchisce dunque la generazione dei discorsi letterari. La tematizzazione ha il compito di assumere i valori della semantica fondamentale e di "disseminarli" sotto forma di temi nei programmi e nei percorsi narrativi, mentre si potrebbe dire che la figurativizzazione ne completi l'allestimento in modo più specifico. Per riprendere un esempio illustrato da Denis Bertrand4, il valore "libertà" può essere tematizzato come «evasione spaziale» o «evasione temporale», da un luogo fisico o anche da stessi: nella Certosa di Parma di Stendhal Fabrizio Del Dongo è una figura complessa e instabile, la descrizione della sua evasione fisica dalla prigione (nel cap. xxn del n libro) supporta in realtà sia un percorso pasJ Algirdas Julien Greimas, Maupassant. Esercizi di semiotica del testo, Centro Scientifico Editore, Torino 1995, pp. 11-1v (cd. or. Maupassant. La sémiotique du texte: exercices pratiques, Scuil, Paris 1976). ◄ D. Bcrtrand, Basi di semiotica letteraria, Meltemi, Roma 2002, cap. 11 (cd. or. Précis de sémiotique littéraire, l!dition Nathan Hl!R, Paris 2000).

102

ISABHLLA PEZZINI

sionale, riguardante cioè le modulazioni del suo essere, sia un percorso anagogico, figurativamente dettagliato, che raffigura la nascita di un soggetto "nuovo" rispetto a ciò che l'eroe era prima della cattura. Così le «mani insanguinate» che Fabrizio si ritrova alla fine della sua complicata discesa dall'ultimo muro della prigione sono una figura che può essere letta su una doppia isotopia, una più concreta e realistica - la corda utilizzata gli ha provocato delle escoriazioni -, l'altra decisamente metaforica - la discesa difficile è assimilata alla nascita.

2.

La costruzione semiotica dello spazio

Nel Dizionario della teoria del linguaggio di Greimas-Courtés troviamo un lemma dedicato allo Spazio in cui si riassumono le linee principali di questo approccio 5 • L'idea di base è che lo spazio sia in ogni caso un "oggetto" costruito, il risultato di un'azione formativa che introduce elementi discontinui nella continuità di un'estensione indifferenziata, considerata come una grandezza piena e totalizzante. La costruzione semiotica dell'oggetto-spazio può così essere esaminata da diversi punti di vista: da quello geometrico, isolato da ogni altra proprietà; da quello psico-fisiologico, come emergenza progressiva delle qualità spaziali a partire dalla confusione percettiva originaria, o dal punto di vista socio-culturale, come organizzazione culturale della cosiddetta "natura" 6• Il punto centrale è che all'analisi delle forme, dei volumi e delle loro reciproche relazioni, come accade in architettura, si accompagna l'esame dei comportamenti programmati dei soggetti umani, fruitori oltre che produttori degli spazi. Gli spazi mondani e quelli letterari si ricongiungono in modo evidente attraverso questa consis Aldirgas Julien Greimas, Joseph Courtès, Semiotica. DiZionario ragionato della teoria del linguaggio, a cura di P. Fabbri, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 339340 (ed. or. Sémiotique - Dictionnaire raison,ié de la théorie du langage, Hachette, Paris 1979-2007). ' Usiamo questo termine in senso intuitivo e in modo precritico: sulla natura come nozione costruita dr. Gianfranco Marrone, Addio alla natura, Einaudi, Torino 2011. Sulla diversità degli sguardi che costituiscono lo spazio in totalità significante, cfr. Jacques Geninasca, La parola letteraria, Bompiani, Milano 2000 (ed. or. La parole littéraire, PUF, Paris 1997) e I. Pe1.1jni, Lo spaZio letterario, cit.

Sl!MIOTICA I! Gl!OGRAFIA Ll!lTl!RARIA

103

derazione prioritaria dei soggetti e dei loro modi di abitare narrativamente gli spazi. Per comprendere il significato reciproco di questi ultimi, in effetti, si ricorre a nozioni come quella di programmazione spaziale, in cui la distribuzione degli spazi viene in prima istanza considerata in modo funzionale rispetto ai vari programmi di azione che vi si iscrivono. Oltre ai concetti di spazialiZZ'Jlzione e di localiZZ'Jlzione spaziale, la semiotica narrativa e discorsiva utilizza anche quello di spazio cognitivo, che riguarda l'iscrizione nello spazio delle relazioni tra soggetti che riguardano l'acquisizione e la circolazione del sapere - come vedere, udire, toccare, avvicinarsi per ascoltare e così via. Ancora una volta lo studio del racconto si rivela prezioso nel mostrarci la doppia faccia dello spazio, la cui geografia è al tempo stesso fisica quanto intrisa di conoscenze e di affetti?. Le azioni iscritte e modulate dalle forme spaziali sono sempre coordinate su più dimensioni: solo per camminare e spostarsi in un unico luogo bisogna essere in grado di evitare gli ostacoli e selezionare i percorsi, i diversi materiali possono rendere possibili contiguità anche solo sensoriali fra diversi spazi, come i vetri, i vuoti o i dislivelli che da un ambiente all'altro lasciano passare solo lo sguardo. Ed in effetti quando cogliamo uno specifico "effetto di spazio", entrando ad esempio in un ambiente che non conosciamo, operiamo una prensione unitaria ed affettivamente marcata delle varie componenti che contribuiscono ad articolarlo, dalla sua geometria al suo allestimento, dall'illuminazione che lo modula ai colori e agli oggetti che lo arredano. Vi cogliamo cioè una certa atmosfera, un oggetto di senso di recente esaminato con interesse anche dall'estetica8 •

3. Modelli spaziali, enunciazione e racconto Nel modello greimasiano le voci dedicate alla spazialità si focalizzano sul livello discorsivo del senso testuale e quindi affrontano il tema della produzione di effetti di spazio accanto alle procedure di temporaliZZ'Jlzione e attorialiZZ'llzione. Il riferimento alle coordinate di enunciazione, l'io/qui/ora al quale, 1

ar. I. Pezzini, Le passio,ii del lettore, cit.

a ar. Tonino Griffero, Atmosferologia, Laterza, Bari-Roma 2010.

104

ISABl!LLA Pl!ZZINI

secondo Benveniste (1966) 9, si ancorano nella produzione linguistica i sistemi delle persone, dello spazio e del tempo, è evidente. La produzione semiotica dello spazio invita così a distinguere fra lo spazio enunciato e quello che esso presuppone e a suo modo iscrive con la sua stessa presenza, cioè uno spazio de/l'enunciazione. I dispositivi enunciativi non sono qui trattati in termini di circostanze pragmatiche che precedono e presiedono alla produzione testuale; piuttosto, si suppone che siano disimplicabili da ogni forma di manifestazione, ricostruibili à rebours, attraverso i meccanismi del débrayage I embrayage, cioè della proiezione presupposta, sempre graduabile e reversibile, di un non io/non qui/ non ora nel discorso. Proiezione che ha per effetto, come abbiamo accennato, l'allestimento di un'organizzazione spaziale globale che serva da cornice all'iscrizione dei programmi narrativi e alle loro concatenazioni, "programmata" in base alle esigenze di ogni specifica narrazione, cioè disposta in spazi parziali articolati fra loro, funzionali alle varie sue fasi. Un modo "canonico" di distribuzione degli spazi parziali relativamente allo spazio globale del racconto emerge dalla riflessione sul cosiddetto percorso na"ativo, scandito nelle quattro fasi della manipolazione, competenza, performanza, sanzione, che, conservando in memoria la propria ascendenza dalla morfologia della fiaba di Propp, è a più riprese considerato nei termini di una organizzazione topologica specifica. Nella fiaba in effetti l'agire dell'eroe si innescava in seguito al suo allontanamento dallo spazio famigliare o di riferimento, le prove si svolgevano nel cosiddetto spazio dell'altrove, da cui l'eroe ritornava per essere riconosciuto e trasfigurato. Greimas riarticola lo spazio proppiano rovesciandone i termini, e ponendo come spazio di riferimento o zero quello della performanza, o spazio topico (il "qui"), che si contrappone agli spazi eterotopici (l'"altrove") che lo inglobano. A sua volta lo spazio della prova si suddivide in uno spazio paratopico, dove essa è preparata, e nello spazio utopico, dove il fare dell'uomo trionfa sulla permanenza dell'essere. 9 lmtilc Bcnvcnistc, &sere di parola: semantica, soggettività, cultura, a cura di Paolo Fabbri, Bruno Mondadori, Milano 2009.

Sl!MIOTICA I! Gl!OGRAFIA Ll!lTl!RARIA

105

Per comprendere l'articolazione complessa della spazialità fra dimensioni enunciative e stratificazioni semantiche, il confronto fra manifestazioni testuali di diversa sostanza semiotica si rivela fondamentale. Per fare un esempio di un certo interesse, l'organizzazione della spazialità "profonda" del contenuto del racconto è tradotta in termini morfogenetici da Jean Petitot e messa alla prova relativamente ad un corpus di quadri di San Giorgio e il Drago ispirati alla Leggenda. aurea (n70) di Jacopo da Varagine. La struttura elementare del mito, assunta come piano di riferimento, manifesterebbe, nelle rappresentazioni dal Rinascimento al Barocco, una «flessione regolata», che avrebbe per causa una conversione progressiva ma radicale nella concezione dello spazio pittorico10•

4. Mappe e percorsi, strategie del discorso utopico Se ogni testo narrativo si sostanzia di una propria geografia, allora contiene potenzialmente una propria mappa, ossia una rappresentazione unitaria e quanto più possibile coerente dell'articolazione dei suoi luoghi, talvolta enunciata a sua volta, corredo e parte integrante del testo 11 • Luis Marin, nei suoi studi sull'immaginario cartografico e sul discorso utopico, richiama l'attenzione sulla duplice dimensione enunciativa di cui anche la mappa, come ogni altro dispositivo di rappresentazione, si sostanzia: La prima è transitiva: una mappa rappresenta qualcosa - il suo oggetto. La seconda è intransitiva o riflessiva: essa si (rap)presenta rappresentando qualcosa- il suo soggetto[ ... ]. Questa "mostrazione" o presentazione costituisce l'enunciazione cartografica, di cui vanno ricercate le modalità specifiche 12 •

1° Cfr. Jean Petitot, S011 Giorgio: note sullo spazio pittorico, in Omar Calabrese (cur.), Semiotiche della pittura, Il Saggiatore, Milano 1980, pp. 179-241 (ed. or. Saint Georges. Remarques sur l'espace pictural, in Aldirgas Julien Greimas et al., Sémiotique de l'espace, Denoel, Paris 1979, pp. 95-153). 11 Cfr. la sistematica raccolta sui luoghi fantastici di Alberto Mangucl, Gianni Guadalupi, Diztonario dei luoghi fmitastici, Archinto, Milano 2.010 (cd. or. The Dictionary of lmagi,iery Places, Macmillan, New York 1980). 11 Louis Marin, Della rappresentaz;o,ie, a cura di Lucia Corrain, Mcltcmi, Roma 2.001, p. 76 (tr. parz. di De la représentation, Gallimard, Paris 1994).

106

ISABl!LLA Pl!ZZINI

Queste ultime potrebbero corrispondere a modo loro alle finalità che si propone il discorso verbale: avvalorare una tesi, illustrare un progetto, dar conto di un'ipotesi, convincere un uditorio. Un esempio classico, in questo senso, lo offrono le figure dell'utopia, le cui caratteristiche spaziali si riproducono incessantemente, perché paiono definire una sorta di condizione logica di possibilità, riattualizzabili secondo innumerevoli varianti significative. Lo spazio dell'utopia è uno spazio marcato anzitutto dalla discontinuità (è difficilmente raggiungibile, è fisicamente separato, vuoi naturalmente vuoi artificialmente), costituisce una singolarità (l'isolamento spaziale è al tempo stesso isolamento temporale, dalla storia oltre che dalla geografia "umane"), esibisce un'organizzazione interna univoca, rappresenta l'espansione coerente di un unico principio, è la proiezione omogenea di un solo punto di vista: il nesso tra i rapporti spaziali e il funzionamento della società vi è esplicito. Nell'allestimento della discorsività utopica incontriamo enfatizzate tutte le funzioni che assume in generale la dimensione spaziale all'interno di un racconto, come offrire una griglia topologica in cui si distribuiscono le azioni o gli eventi narrati, secondo un sistema organizzato a partire da un centro (il luogo di appartenenza dell'eroe e della comunità di cui è espressione), in relazione dialettica con un altrove, in cui è però necessario avventurarsi per affermare o recuperare la propria identità. Nel testo in cui Tommaso Moro espone il suo ideale di giustizia sociale e di ordine morale attraverso il racconto di Raffaello Itlodeo, marinaio-filosofo compagno di Vespucci, la figura di Utopia è un'isola a forma di luna crescente, simbolo di fecondità, protetta ai bordi da montagne. Passa dallo stato di natura (Abraxa) a quello culturale in seguito a un gesto fondatore esplicito, dato che Utopo, il suo re, ha fatto recidere e cancellare il lembo di terra che la legava al continente, e l'ha ribattezzata col suo proprio nome. Generata topograficamente a partire dalla geometria del cerchio, linea chiusa in se stessa, segno di inclusione e esclusione al tempo stesso, in realtà Utopia rappresenta una figura complessa. È infatti chiusa verso l'esterno e aperta all'interno, a partire dalle funzioni che può assumere il mare protetto

Sl!MIOTICA I! Gl!OGRAFIA Ll!lTl!RARIA

107

che la scava a sud e quindi tutta la circonda: accesso o difesa, via o ostacolo. L'isola è totalmente pianificata, secondo l'opposizione della città e della campagna, dello spazio urbano e dello spazio naturale: il centro, il luogo del potere, è ombelico terrestre e matrice marittima, terra e mare, capitale e città, risponde alle esigenze di un grande disegno mercantile e coloniale. Ognuna delle cinquantaquattro città ha la stessa pianta e edifici identici, mentre la distribuzione dei campi e dei villaggi è funzionale al lavoro agricolo e ai bisogni degli abitanti. Come le città ideali realizzate che nel Rinascimento ad essa si ispirarono, l'Utopia appare al suo interno fortemente monologica, e cioè dipendente da un'unica visione e principio organizzatore, in qualche modo negazione della storia e della diversità, «un testo fuori dal contesto» 1 3. Eppure presuppone sempre un confronto e una polemica nei confronti di ciò che pone come il proprio altrove, la propria alterità. Oltre ad essere "luogo che non c'è" e "luogo del dover essere", l'utopia è solo a questa condizione "luogo del poter essere", del cambiamento e della trasformazione dell'esistente. Il testo di Moro presenta nel frontespizio delle edizioni del 1516 (fig. 1) e del 1518 (fig. 2) due diverse rappresentazioni cartografiche dell'isola, opere dei fratelli Holbein, ancora una volta a sottolineare la padronanza e il controllo di quel particolare spazio di cui trattano, che la carta esprime come messa in figura, in un linguaggio altro rispetto a quello verbale 1 4. Le due carte sono molto interessanti non solo per quanto rendono "visibile" di Utopia, della sua fisionomia, dei suoi rapporti con il resto del mondo e della sua organizzazione interna, ma anche perché inducono ad una riflessione sulla stessa enunciazione utopica, sul significato metadiscorsivo di questo tipo di narrazione. Essa emerge in modo schematico proprio dal confronto fra le due carte. Fra le principali differenze fra di esse emerge l'addizione, nella seconda, di un primo piano, un bordo scosceso sul canale di mare che divide dall'isola, popolato di figure umane i •J Cfr. Jurij M. Lonnan, Il girotondo delle muse. Saggi sulla semiotica delle arti e della rappresentazione, Moretti & Vitali, Bergamo 1998. 1 ◄ Cfr. Louis Marin, Utopiques. ]eux d'espaces, Minuit, Paris 1973.

ISABHLLA Pl!ZZINI

108

Fig.

1.

Tommaso Moro, Utopia, frontespizio dell'edizione del I 516.

cui gesti e puntatori (mani, sguardi, ma anche piedi, spade... ) formano un gioco articolato di rimandi il cui "bersaglio", però, sembra essere, prima dell'isola che alle loro spalle si estende perfettamente visibile, il discorso che verte su di essa, e che contribuisce a costruirla. Ecco che lo spazio dell'enunciazione trova una sua iscrizione esplicita nel testo enunciato. Questi personaggi sono figure-soglia, delegati delle istanze discorsive esplicitamente rappresentate nel testo, come sottolinea un cartiglio sul bordo inferiore sinistro, con il compito di condurre, in un percorso regolato e progressivo, anzitutto dall'esterno (luogo del Lettore) all'interno del testo. Così la prima figura in basso a destra, di tre quarti, indica contemporaneamente sia verso la coppia dei "narratori", sulla sinistra, sia verso un'ulteriore figura, sulla nave, a

Sl!MIOTICA I! Gl!OGRAl'IA Ll!'ITl!RARIA

u

V T-

Fig.

OP

2. Tommaso

I A~ . I

109

.tf

S V L AB T A B :'V-'.L Jl.

Moro, Utopia, frontespizio dcll'cdi1jonc del

1518.

110

ISABl!LLA Pl!ZZINI

metà strada prima dell'isola. Quanto ai due narratori, danno le spalle all'isola, e sono quindi in postura frontale rispetto al lettore, pur non guardandolo: i loro gesti tracciano un reticolo di rimandi che sfocia nell'indicazione finale verso l'isola (la mostrazione della carta), solo dopo aver messo in scena le modalità stesse del discorrere, quasi a sottolineare che la mappa - e Utopia sono figure del discorso e della narrazione, descrizioni accanto e prima che pure iscrizioni. Questo dispositivo sembra volerci ricordare che la mappa di un testo letterario non è mai né pura decorazione, né pura ostensione, ma dovrebbe permettere al Lettore di acquisire la competenza necessaria a padroneggiare lo spazio del testo come - o quasi come - l'Autore che l'ha immaginato, esibendo una serie di condizioni di possibilità, ma al tempo stesso articolandolo e traducendolo, facendo proprio il fondo spaziale per i suoi scopi. La carta afferma il suo essere testo attraverso le possibili motivazioni cui si prestano i suoi segni, dal volto fisico del territorio che esso descrive, l'orografia, i colori, le decorazioni e i cartigli, il tipo di proiezione scelto, la stessa forma, la fisiognomica del territorio che rappresenta. La normale simbologia geografica si presta così a significare altro da sé, in una rete di collaudate tropologie. Ad esempio: l'utopia non è soltanto politica o sociale, può esserlo anche di uno spazio interiore, delle nuove relazioni intersoggettive che esso rende possibili e desiderabili. Sul bordo esterno della Carte de Tendre (1654) (fig. 3) fatta disegnare da Madeleine de Scudery per il suo romanzo storico-sentimentale Clélie, sullo sperone di paesaggio in cui si collocano, come nei frontespizi di Utopia dei fratelli Holbein, i delegati alla visione totale del nuovo territorio. Le figure disegnate sono stavolta quelle di un cavaliere, del suo paggio e di due dame; essi sono impegnati, più che nell'osservazione della carta, nei gesti e nelle attitudini della conversazione, della ricerca dialogica di un accordo tra le proposte di nuove modalità del sentire. L'immaginazione geografica ormai alla moda presta stavolta le sue figure al gioco solo in apparenza semplice di una seduzione ben temperata, che segua quanto più possibile rettamente il percorso centralizzato e ascendente dalla città di Nouvelle Amitié sino a Tendre sur Inclination, seguendo il corso velo-

Sl!MIOTICA I! Gl!OGRAFIA Ll!lTl!RARIA

III

Fig. 3. Carte de Tetulre (1654).

ce del fiume dell'Inclinazione, ma arrestandosi ben prima di sfociare nelle insidie della Mer Dangereuse, o divagando più lentamente fra i villaggi periferici come Billets Doux o Obéissance, verso Tendre sur Reconnaissance o Tendre sur F.stime1 s.

5. L'efficacia semiotica dell'oggetto cartografico

Nel discorso utopico si rileva d'altro canto una preoccupazione di realismo, di saturazione dello spazio semantico che esso costruisce, il tentativo di affermarne la verità, la sua forza, il suo potere pragmatico. Benché immaginaria, l'utopia si vuole vera: non si tratta di affermare la sua esistenza reale, quanto la verità del suo discorso, la sua verità in quanto discorso. La possibilità di tradurre il discorso utopico in una carta rientra allora perfettamente in questa strategia di veridizione, che è orientata alla richiesta e sollecitazione dell'adesione del destinatario al mondo di valori proposto, perché la carta è un testo a cui, nel mondo 1

s Cfr. I. Pczzini, Le passio11i del lettore, cit.

112

ISABl!LLA Pl!ZZINI

reale, sono associati una modalità di fruizione, un contratto di lettura fortemente pragmatici: la carta è ciò che per antonomasia ci aiuta a situarci e a reperirci, a orizzontarci. Schematicamente, infatti, cartografare un territorio reale significa produrre un testo verbo-visivo, la carta, dopo aver operato una serie di trasformazioni a partire dall'esperienza percettiva del luogo verso la sua iscrizione simbolica. Umberto Eco, nel Trattato di semiotica generale, propone la seguente definizione, in termini di produzione segnica: «una carta geografica è il risultato di una trasformazione (a metà tra proiezione e grafo), che diventa stilizzazione e come tale è soggetta a replica» 16 • Questo percorso consiste nella trasposizione, attraverso un processo di astrazione, di una serie di tratti emergenti o proprietà di un modello percettivo, in un modello semantico, dal quale, per similitudine, verranno isolati i tratti dell'espressione, vuoi verbali, vuoi visivi, secondo lo schema seguente 1 7:

L'aspetto che qui ci interessa è la possibilità che questo processo funzioni anche al contrario, e quindi che si possa risalire dalla carta alla postulazione di un percetto, anche dove non si è dato ma si è solo immaginato. La carta diventa così: il risultato di convenzioni trasformative, per cui determinate tracce su una superficie sono stimoli che spingono a trasformare all'indietro e a postulare un tipo di contenuto là dove di fatto c'è solo una occorrenza di espressione. Quindi è possibile proiettare dal nulla o da contenuti a cui non corrispondono referenti (come in un quadro che rappresenti un personaggio fittizio). L'esistenza di convenzioni sociali nelle proiezioni (così che è possibile proiettare da un modello percettivo o semantico) rende faci'' Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975, p. 325. 11 Ivi, fig. 41, p. 312.

Sl!MIOTICA I! Gl!OGRAFIA Ll!lTl!RARIA

113

le la procedura inversa, e cioè la proiezione dalla espressione ali'entità proiettata di cui si suppone soltanto l'esistenza 18•

Per le sue qualità di oggetto semiotico la mappa presenta aspetti solo in apparenza paradossali, come nell'esempio citato: i luoghi reali, una volta cartografati, si smaterializzano, perché ridotti e tradotti dal suo sistema di rappresentazione (la mappa non è il territorio!), i luoghi immaginari viceversa ricavano dalla sua evidenza un effetto di realtà: un maggiore spessore ontologico, una sorta di dignità di esistenza. In entrambi i casi la "messa in carta", e cioè questa specifica messa in forma dei contenuti, orienta e fa emergere la qualità relazionale dei dati in gioco, permette di scoprirvi nessi trascurati, di tracciarvi nuovi percorsi di senso. Non v'è da stupirsi, allora, se la ricchezza semiotica dell'oggetto cartografico, per di più nella forma magnificata dell' Atlante•9, offra alla geografia letteraria le sue insegne, con la sua capacità di fare da catalizzatore e conduttore fra territori di diversa natura, spazi simbolici e spazi vissuti, davvero oggetto e insieme soggetto di rappresentazione.

lvi, p. 325. Francesco Fiorentino, Giovanni Sampaolo (cur.), Atlm,te della letteratura tedesca, Quodlibct, Macerata 2009. 18

'9

Costellazione Soglia Dario Gentili

È da qualche tempo ormai che il più recente passaggio d'epoca viene rubricato con la formula spatial turn. Con la consueta capacità di anticipazione, già qualche decennio fa Michel Foucault scriveva: «quella attuale potrebbe essere considerata l'epoca dello spazio. Viviamo nell'epoca del simultaneo, nell'epoca della giustapposizione, nell'epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso» 1 • Il fenomeno della globalizzazione ha di certo confermato la diagnosi di Foucault; il compito a cui siamo oggi chiamati è allora quello di concepire e definire nuove topografie spaziali in grado di leggere e interpretare la spazialità contemporanea. Perché se è vero, come sostiene Foucault, che a dover essere messo in discussione è il primato che il pensiero occidentale ha finora attribuito alla riflessione sul tempo, non bisogna tuttavia dimenticare che, da sempre, ogni epoca ha eletto una propria topografia peculiare su cui ha costruito la sua concezione spaziale del mondo. Prima di tutto è necessario dunque decretare qual è la topografia che oggi è in crisi, quella le cui coordinate non sono più in grado di ordinare, di cartografare di afferrare e di far presa sullo spazio globale. In crisi, direi, è la topografia del confine, cioè quella topografia disegnata a partire dalla linea che separa e distingue nettamente interno ed esterno, inclusione ed esclusione - topografia che ha caratterizzato per secoli l'epoca moderna, dal piano geopolitico a quello delle scienze, sia naturali che umane. Non può allora essere una coincidenza - si tratta invece del venir meno di distinzioni rigide tra le diverse discipline - che la crisi della topografia del confine e della 1 M. Foucault, Spazi altri (1967) in Id., Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Mimcsis, Milano 2002, pp. 19-32: 19.

116

DARIO GENTILI

cosiddetta «ragione cartografica» 2 abbiano indotto, negli ambiti più disparati, a interrogare quella della soglia come la topografia più adatta a interpretare la spazialità contemporanea3. Soglia - Seuil

Pochi concetti come quello di "soglia" presentano sfumature di senso e significato tanto varie e complesse in base alla lingua in cui sono formulati4. Cominciamo dall'italiano soglia e dal francese seuil: entrambi derivano dalla parola latina solia, che indica la suola del sandalo (solea), designando pertanto, al contempo, il movimento del passaggio e il radicamento al suolo (solum ). Leggiamo come Derrida, nelle lezioni su La Bestia e il Sovrano, interpreti tale etimologia: La stessa parola "soglia" indica la solidità del suolo; deriva dal latino solum che significa suolo o più precisamente il fondamento sul quale poggia l'architrave di una struttura architettonica o la pianta dei piedi; solum è la parte più bassa, il suolo o anche la suola; solea è il sandalo, ccc. [... ). Ciò significa, secondo mc, cd è l'atto di un pensiero decostruttivo, che non consideriamo certa l'esistenza (naturale o artificiale) di alcuna soglia, se per soglia si intende la linea di confine indivisibile o la solidità di un suolo fondatore[ ... ]. La soglia, dunque. Che cos'è una soglia? Da cosa è costituita la sua indivisibilità, sia essa puntuale o lineare? E la sua solidità fondatrice o terrestre, territoriale, naturale o tecnica, architettonica, fisica o nomica? Da un po' parlo della soglia come della linea falsamente indivisibile superata la quale si entra o si esce. La soglia è quindi sempre un inizio, l'inizio del dentro o l'inizio del fuoris.

Da questo brano, sembrerebbe che, per Derrida, quella della soglia appartenga alla topografia del confine: a quella topograCfr. F. Farinelli, La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009. Cfr. M. Ponzi, D. Gentili (a rura di), Soglie. Per una nuova teoria dello spazio, Mimesis, Milano 2011. Oltre che nel loro Geografie della soglia compreso in questo volume (pp. 47-6o), Paolo Giaccaria e Claudio Minca hanno proposto un'utiliu.azionc geografica della concezione agambeniana della soglia in Topograpbiesltopologies of the camp: Auschwitz as a spatial threshold, in «Political Geography», 30 (2011), pp. 3-12. ◄ Cfr. B. Waldenfcls, Soglie di estraneità, in M. Ponzi, D. Gentili (a cura di), Soglie, cit., pp. I 5-30. s J. Derrida, La Bestia e il Sovrano, volume 1 (2001-2002), Jaca Book, Milano 2009, pp. 384-385 e 387. 1

3

COSTELLAZIONI! SOGLIA

fia la cui linea, «apparentemente indivisibile», distingue dentro e fuori, interno ed esterno. Delineata sul suolo, tale linea demarca due territori qualitativamente differenti; differenza che rende "solida" e "fondata" sulla terra la distinzione tra interno ed esterno, che quindi può essere concepita esclusivamente in chiave oppositiva: o dentro o fuori. E tuttavia, Derrida aggiunge che l'"indivisibilità della linea" in cui consisterebbe la soglia - la linea che divide e distingue dentro e fuori - è "falsa". Ma come può una linea essere divisibile al suo interno? Eppure- prima che un passo ci faccia procedere oltre: o dentro o fuori - la soglia deve essere divisibile, se lo spazio dove iniziano il dentro e il fuori è con-diviso da entrambi. Insomma, se la soglia fosse una linea, come sarebbe possibile sostarvi? Da tale aporia, tuttavia, scaturiscono alcune delle concezioni più significative di Derrida. In Sull'ospitalità, per esempio, nel cercare di pensare la coappartenenza che l'ospitalità istituisce tra chi ospita e chi è ospitato, tra il padrone di casa e lo straniero, Derrida - nel commentare Le leggi dell'ospitalità di Klossowski, opera paradigmatica di tale antinomia - ricorre proprio alla topografia della soglia: Varcare la soglia equivale a entrare e non soltanto avvicinarsi o venire [ ... ]. È possibile formalizzare [le leggi dell'ospitalità]? Sì, certo, e secondo un'antinomia abbastanza semplice. Cioè la simultaneità, I' «al contempo» di due ipotesi incompatibili: «Non si può al contempo prendere e non prendere, esserci e non esserci, entrare se si è all'interno». Ebbene, l'impossibilità di questo «al contempo» è a sua volta ciò che avvienc6.

Derrida sta citando dalle prime pagine di Roberta stasera, il primo romanzo della trilogia di Le leggi dell'ospitalità, in particolare dal capitolo intitolato significativamente Difficoltà. Proseguendo la lettura del brano di Klossowski, ecco che compare espressamente la «soglia»: Zio Ottavio pretendeva troppo, volendo prolungare l'attimo della porta aperta. Era già molto avere ottenuto che l'invitato comparisse sulla soglia e che, nel medesimo istante, lo stesso sorgesse dietro Roberta per consentire a Ottavio di sentirsi lui stesso invitato, avendo preso a prestito a que-

, J. Derrida (con A. Dufourmantelle), Sull'ospitalità (1997), Baldini & Castoldi, Milano 2.000, pp. n2. e n3-n4.

118

DARIO GENTILI

st'ultimo il gesto di aprire la porta e, venendo da fuori, scorgere la coppia dalla soglia, con l'impressione d'essere lui, Ottavio, a sorprendere la zia 7.

Lasciare aperta la porta significa "dividere la linea al suo interno" per potervi sostare, cioè sospendere il confine tra dentro e fuori: significa convertire il confine in «soglia». Nel romanzo di Klossowski, tale conversione puramente spaziale comporta la perdita dell'identità univoca di ognuno dei personaggi: il semplice gesto di prolungare l'attimo della porta aperta decostruisce ogni identità e determina una soggettività plurale. È il principio, a cui accennavo, della «legge dell'ospitalità», per cui padrone di casa e straniero si "sovrappongono" nel medesimo soggetto: poiché il padrone di casa invita qui lo straniero a risalire alla fonte di tutte le sostanze, al di là di ogni accidente, ecco in che modo egli inaugura una relazione sostanziale tra sé e lo straniero, un rapporto in realtà non più relativo ma assoluto, come se confusosi il padrone di casa con lo straniero, la sua relazione con te che sci appena entrato non fosse più che una relazione di sé con se stcsso8•

Eppure, il romanzo di Klossowski presenta questa situazione come una "difficoltà". Ed è questa stessa difficoltà che anche Derrida fa propria: la difficoltà di sradicare l'identità dalla sua fissazione al suolo. È come se, insieme al confine tra dentro e fuori, la porta aperta non sospendesse anche l'identità separata del padrone di casa e dello straniero; è come se fosse impossibile determinare nello spazio una differenza tra padrone di casa e straniero che non comporti la loro separata identificazione. E tuttavia, a ben guardare, la difficoltà per Klossowski sembra essere piuttosto di natura temporale: non è tanto la porta aperta - la soglia spaziale che sospende il confine - a rappresentare la difficoltà, quanto piuttosto la soglia temporale che comporta il «prolungare l'attimo» e il sostare «al contempo», «nel medesimo istante», dentro e fuori. Sullo spazio della soglia, zio Ottavio è diviso in padrone di casa e straniero, ma questo attimo e questo 7

P. Klossowski, Roberta stasera. Le leggi dell'ospitalità (1953), SugarCo, Mila-

no 1981, p. 17.

s lvi, p. 18.

COSTELLAZIONI! SOGLIA

119

istante non "durano" nel tempo. È il "primato" della temporalità, dell'ordine temporale, a rendere "difficile" la concezione e la rappresentazione della soglia. Per Derrida, invece, la difficoltà che soggiace al "passo d'ospitalità" è costituita anche- se non soprattutto - dalla soglia spaziale: Che mai significa, questo passo di troppo, e la trasgressione, se, per l'invitato e per il visitatore, il superamento della soglia rimane sempre un passo di trasgressione? se anzi deve restarlo?[ ... ] Dove portano questi strani processi di ospitalità? Queste soglie interminabili, dunque insuperabili, e queste aporie? Tutto avviene come se andassimo di difficoltà in difficoltà. Meglio o peggio, e più gravemente, d'impossibilità in impossibilità9.

L'aporia di cui scrive Derrida nasce dall'esigenza di salvaguardare la differenza - o meglio, la différance - tra dentro e fuori nel medesimo spazio: nasce dalla difficoltà di pensare una différance radicata al suolo. È il suolo, infatti, che impedisce il «passaggio» - quel «passo» che è «di troppo» perché non si arresta nell'identità codificata - implicato nella différance: è il suolo e la linea che vi è tracciata a rendere il «passo di troppo» una «trasgressione». Quella soglia che per Derrida costituisce un' «antinomia» -essere «al contempo» e «simultaneamente» dentro e fuori - rappresenta invece, per Foucault, come abbiamo visto, la topografia che lo induce ad affermare che «quella attuale potrebbe essere considerata l'epoca dello spazio». Insomma, per Foucault, il «simultaneo» e la «giustapposizione» non costituiscono affatto un'antinomia, nemmeno se - o forse proprio perché - pensati a partire dallo spazio. Anzi, in La prosa di Atteone, un saggio dedicato proprio all'opera di Klossowski, Foucault ne individua la contemporaneità per la letteratura in quanto lo spazio vi è concepito come originariamente «duplice» - a caratterizzarlo è pertanto l'ambivalenza, o tutt'al più l'ambiguità, ma non certo l'antinomia: «Klossowski scrive un'opera, una di quelle rare opere che portano alla scoperta: vi s'intravede che l'essere della letteratura non concerne né gli uomini né i segni, ma questo spazio del doppio» 10• 9

J. Derrida, Su/l'ospitalità, cit., p. 83.

M. Foucault, La prosa di Atteone (1964), in Id., Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 87-100: 99. 10

120

DARIO GENTILI

A essere antinomico è piuttosto quello spazio la cui topografia di riferimento è quella della linea di confine, varcata la quale o si è dentro o si è fuori. A essere in crisi, per Foucault, è dunque l'epoca moderna, caratterizzata dalla topografia del confine: da una topografia che organizza lo spazio in base alla contrapposizione di luoghi. È noto che Foucault ha focalizzato la sua analisi dello spazio sulla produzione di «luoghi altri» rispetto ai luoghi del dentro, che hanno rappresentato la norma della modernità, come in ambito filosofico-giuridico sono quelli prodotti dall'istituzione dello Stato-nazione. Tali «luoghi altri» si caratterizzano per la localizzazione del loro essere «assolutamente differenti» u; sono pertanto luoghi dell'esclusione, luoghi del fuori o - come Foucault anche li definisce - «contro-luoghi». In una parola, sono eterotopie: Ci sono anche, e ciò probabilmente in ogni cultura come in ogni civiltà, dei luoghi reali, dei luoghi effettivi, dei luoghi che appaiono delineati nell'istituzione stessa della società, e che costituiscono una sorta di contro-luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali che si trovano all'interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contestati e sovvertiti; una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto possano essere effettivamente localizzabili. Questi luoghi, che sono assolutamente altro da tutti i luoghi che li riflettono e di cui parlano, li denominerò, in opposizione alle utopie, eterotopie 12•

In Spazi altri, Foucault passa in rassegna diverse tipologie di eterotopie, da quelle «di crisi» rispetto alla «norma sociale» (l'adolescenza, le donne nel periodo mestruale, le partorienti, i vecchi) a quelle di «deviazione» (case di riposo, cliniche psichiatriche, prigioni). Sebbene i due tipi di eterotopie non si escludano a vicenda e possano sovrapporsi nella medesima epoca e forma sociale, la modernità si è caratterizzata per il progressivo prevalere delle eterotopie di deviazione su quelle di crisi. Ciò accade, alla luce del discorso che sto portando avanti, in seguito al progressivo affermarsi della topografia del confine, che finisce 11 M. Foucault, Le eterotopie (1967), in Id., Utopie Eterotopie, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2011, pp. 11-28: 12. •~ M. Foucault, Spaz; altri, cit., pp. 23-24.

COSTELLAZIONI! SOGLIA

121

per dar luogo al "confino" e al "confinamento". È come se del significato di "soglia" fosse prevalsa la definizione e la chiusura del luogo radicato sul suolo a discapito del passaggio, del «passo» che attraversa i luoghi e che - «al contempo» - li giustappone. Lo scarto tra eterotopie di crisi ed eterotopie di deviazione si consuma nel momento in cui il «passaggio» è localizzato e, pertanto, chiuso e confinato. È in tal modo che il passaggio diventa «trasgressione» - il «passo di troppo» al di là della linea di confine - da localizzare in quanto contro-luogo della norma. Se, in Spazi altri, la nave è, in quanto «assoluto passaggio», «l'eterotopia per eccellenza» 13 , in Storia della follia essa ritorna nell'immagine medievale della stultifera navis, la nave dei folli, il prototipo della Reductio ad Unum di passaggio e luogo. Quella differenza che il passaggio determina, quando si irrigidisce in localizzazione, produce "definizione" e "separazione". La stultifera navis rappresenta, infatti, l'eccezione e l'estrapolazione della follia dalla trans-formazione della ragione umana, dal suo passaggio di forma in forma. Una volta attraccata, radicata al suolo, la stultifera navis si configura nel confinamento dell'esclusione, della devianza e della trasgressione: Questa navigazione del pazzo è nello stesso tempo la separazione rigorosa e l'assoluto Passaggio. In un certo senso, essa non fa che sviluppare, lungo tutta una geografia semi-reale e semi-immaginaria, la situazione "liminare" del folle all'orizzonte dell'inquietudine dell'uomo medievale; situazione insieme simbolizzata e realizzata dal privilegio che ha il folle di essere "rinchiuso" alle "porte" della città: la sua esclusione deve racchiuderlo; se egli non può e non deve avere altra prigione che la "soglia" stessa, lo si trattiene sul luogo del passaggio. t'. posto all'interno dell'esterno e viceversa 14.

Una volta che il passaggio è interdetto e la simultaneità di interno ed esterno diventa luogo di confinamento, la soglia finisce nella modernità per configurarsi nel dispositivo topografico del manicomio - e in seguito, come apprendiamo da Agamben, lvi, p. 32. •• M. Foucault, Storia della follia nell'età classica (1961), a cura di M. Galzigna, Rizzoli, Milano 2011, p. 70. 13

122

DARIO GENTILI

del campo di concentramento. È tuttavia questa - l'eterotopia di devianza - l'unica configurazione spaziale che può assumere la topografia della soglia o non ne è piuttosto una degenerazione? Lo stesso Foucault, in Le parole e le cose, individua chiaramente quell'interdetto che l'eterotopia rappresenta: Le eterotopie inquietano, senz'altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i nomi comuni, perché devastano anzi tempo la sintassi e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma anche quella meno manifesta che fa "tenere insieme" (a fianco e di fronte le une alle altre) le parole e le cose 15.

Come Derrida ha utilizzato il romanzo di Klossowski per interrogare le antinomie dell'ospitalità in quanto spazio della soglia, così è ancora la letteratura che fornisce a Foucault lo spunto per tematizzare le eterotopie in Le parole e le cose: stavolta si tratta del testo di Borges L'idioma analitico di fohn Wilkins 16, che mostra i paradossi in cui s'incorre nel tentare di catalogare una volta per tutte - ovvero de-finire mediante confini - le differenze, tutte le differenze 1 7. Certo, l'ordine del discorso di Le parole e le cose non è immediatamente di natura né spaziale né topografica, ma ciò non toglie che la questione sia la stessa: nominare, pensare, rappresentare, dar spazio - al contempo e simultaneamente a «questo e quello», al Medesimo e ali' Altro, a interno ed esterno, a dentro e fuori, senza cadere nell'antinomia a cui, per Derrida, condurrebbe la definizione spaziale della differenza 18• È davvero, come sembra pensare Foucault a proposito delle eterotopie, •s M. Foucault, Le parole e le cose. Un'archeologia delle scie11ze umane (1966), Rizzoli, Milano 1998, pp. 7-8. '' J. L. Borges, L'idioma a11alitico di Joh11 Wilkins (1952), in Id., Altre itU/UisiZioni, Fcltrinclli, Milano 1993, pp. 102-105. 17 «Questo libro nasce da un testo di Borges: dal riso che la sua lettura provoca, scombussolando tutte le familiarità del pensiero - del nostro, cioè: di quello che ha la nostra età e la nostra geografia - sconvolgendo tutte le superfici ordinate e tutti i piani che placano ai nostri occhi il rigoglio degli esseri, facendoli vacillare e rendendo a lungo inquieta la nostra pratica millenaria del Medesimo e dcli' Altro» (M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 5). •• t significativo come, in La prosa di Atteone, Foucault interpreti l'opera di Klossowski in base alla semantica del "simulacro", quel segno che dice simultaneamente "questo e quello": • Un simile segno è al tempo stesso profetico e ironico; interamen-

COSTELLAZIONI! SOGLIA

123

quello del mare l'unico spazio s-confinato, dove la polizia che sorveglia i confini predisposti non subentra ai corsari che li ignorano? 19 È possibile fluidificare il suolo, increspare la sua solidità? Foucault fa un passo proprio in questa direzione: Su tale soglia [ciò che ci separa dal pensiero classico e costituisce la nostra modernità] apparve per la prima volta la strana figura del sapere chiamata uomo, schiudendo uno spazio proprio alle scienze umane. Tentando di riportare alla luce questo profondo dislivello della cultura occidentale, non facciamo altro che restituire al nostro suolo silenzioso e illusoriamente immobile, le sue rotture, la sua instabilità, le sue imperfezioni; e, sotto i nostri passi, di nuovo si turba:i.o.

La difficoltà di pensare «questo e quello» deriva per Foucault dal fatto che l'essere-soglia dell'uomo non ha un corrispettivo topografico 21 ; come già in Derrida, tale difficoltà è fondata sul suolo e sulla sua solidità, ma questa sembra ora scricchiolare, creparsi, "turbarsi" al passaggio.

Schwelle - Threshold La parola tedesca per "soglia", Schwelle, aggiunge qualcosa per me di decisivo rispetto all'etimologia del termine francese e italiano. Anche Schwelle si riferisce all'architrave della porta, ma in particolare indica il "davanzale", la "traversa", come del resto l'inglese sili. A un primo sguardo, ciò che viene meno è il riferimento al suolo, al fatto che la soglia sia "radicata al suolo". Tale impressiote sospeso su un avvenire che ripete in anticipo e che lo ripeterà a sua volta in piena luce; dice questo e poi quello, o piuttosto diceva già, senza che si potesse saperlo o a nostra insaputa, questo e quello. Nella sua csscn:za è simulacro - dicendo tutto simultaneamente e simulando sen1.a sosta una cosa diversa da quella che dice» (M. Foucault, La prosa di Atteone, cit., p. 92). '9 «Nelle civiltà senza navi, i sogni si inaridiscono, lo spionaggio sostituisce l'avventura e la polizia i corsari» (M. Foucault, SpazJ altri, cit., p. 3 2). 10 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 14. 11 La stessa difficoltà interviene quando, in La volontà di sapere, Foucault deve spiegare l'affermarsi della biopolitica, e ricorre ancora una volta alla soglia: «quel che si potrebbe chiamare la "soglia di modernità biologica" di una società si colloca nel momento in cui la specie entra come posta in gioco nelle sue strategie politiche» (M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1988, p. 127).

124

DARIO GENTILI

ne è confermata dal fatto che il più antico significato attestato del corrispettivo inglese di Schwelle, swi/1, è addirittura "the rise of the sea", "l'ingrossarsi del mare": alla matrice terrestre della parola latina sembra quasi che si contrapponga la matrice marittima del termine anglo-sassone. Ma le differenze sostanziali non finiscono qui: Io spazio che il davanzale o la traversa determinano non è riconducibile alla topografia della linea. A tal riguardo è molto suggestivo il termine spagnolo per soglia, umbra/, che significa anch'esso "davanzale", ma finisce per indicare l'ombra che il davanzale, proteso sulla strada, vi allunga. Piuttosto che una linea, questa soglia determina allora una zona. Non solo quindi la Schwelle non appartiene alla topografia del confine, non ne è una variante, ma determina una spazialità del tutto diversa, alternativa a quella della linea. Nel libro sui passages di Parigi, Benjamin fornisce un'analisi della soglia a partire dall'etimologia di Schwelle2-2, trattando dei «riti di passaggio», proprio quelli da cui Foucault trae spunto per definire l'eteronomia di crisi: Rites de passage - così sono dette nel folclore le cerimonie connesse alla morte, alla nascita, al matrimonio, al diventare adulti, ecc. Nella vita moderna questi passaggi sono divenuti sempre più irriconoscibili e impercettibili. Siamo diventati molto poveri di esperienze della soglia. L'addormentarsi forse è l'unica che c'è rimasta. (E con essa, però, anche il risveglio). [... ] La soglia deve essere distinta molto nettamente dal confine (Grenze). La Schwelle è una zona. La parola schwel/en (gonfiarsi) racchiude i significati di mutamento, passaggio, straripamento, significati che l'etimologia non deve lasciarsi sfuggire. D'altra parte è necessario osservare il contesto tettonico e cerimoniale che ha portato la parola al suo significato2 3.

Prima di tutto, ripetiamo, la soglia va distinta nettamente dal confine: dalla linea che divide e distingue due territori diversi - qualitativamente diversi, come risulta evidente dalla topografia che cleri11 Sulla concezione della soglia in Bcnjamin, cfr. W. Menninghaus, Schwellenkunde. Walter Benjamins Passage des Mythos, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1986; U. Perone, Soglia: l'altro mo11do a casa propria, in E. Guglielminetti, U. Perone, F. Traniello (a cura di), Walter Benjamin: Sogno e industria, Celid, Torino 1996, pp. 31-39; M. T. Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia, Quodli-

bet, Macerata 2008. 1 1 W. Bcnjamin, J ~assages» di Parigi, in Opere complete, ix, a cura di R. Tiedemann e H.Schweppenhauser, ed. it. a cura di E. Ganni,Einaudi, Torino 2000, p. 555.

COSTELLAZIONI! SOGLIA

125

va dal confine: dentro/fuori, inclusione/esclusione. La soglia, invece, come ci ricorda Benjamin, è una sorta di linea di confine che si gonfia, lievita, straripa - eccone la dimensione liquida - fino a configurare una "zona", che, pur contemplando l'interno e l'esterno, non li distingue rigidamente, ma li comprende entrambi nel medesimo spazio, nel medesimo territorio. Come sembra suggerire anche Foucault, per comprendere «questo e quello», e quindi la spazialità della soglia, Benjamin invita a risalire al di qua della modernità - e al di qua della topografia del confine: «presso i greci - e anche presso gli altri popoli - la soglia non fu mai considerata in modo altrettanto significativo che presso i romani»24. I romani, dunque. Che ne è allora del riferimento della solia al solum, alla linea demarcata sul suolo di cui parlava Derrida? A differenza di Derrida, per Benjamin - che ha presente l'architettura del Tempio di Giano, a forma di corridoio coperto a volta a cui fa corrispondere per analogia l'architettura dei passages, le "soglie" della Parigi del XIX secolo - la solia non appartiene alla topografia del finis, bensì a quella del limes. Se infatti è dal finis che il con-fine deriva la sua linearità, la spazialità della soglia corrisponde a una genealogia del tutto diversa, quella del limes. Avvalendomi ancora una volta dell'etimologia, limes deriva da limus - "trasversale, obliquo" - e dalla radice '1.-/ei: "piegare". Ecco che in limes risuona quella "traversa" che abbiamo visto essere uno dei significati della polisemia della soglia. Le spazialità del tutto alternative, che questo breve riferimento al mondo romano ci consegna, corrispondono in pieno alla "distinzione netta" tra confine e soglia proposta da Benjamin: mentre il finis descrive una linea, il limes configura una zona. Sulla scorta di Benjamin, dunque, sulla soglia, tra dentro e fuori, non s'istituisce una linea di demarcazione, bensì una zona di trasformazione: un passaggio da una condizione a un'altra, dove tuttavia nessuna di quelle che ne derivano è presupposta né definibile una volta per tutte come prevede il confine. La condizione di escluso o di estraneo, per esempio, non è attribuibile e individuabile in contrapposizione a chi è incluso, bensì attraversa ogni identità, e ne deriva che, tra l'altro, a livello politico-giuridico, il paradigma tradizionale della cittadinanza nazionale non è più in grado di rappresentarla. E tut-

126

DARIO GENTILI

tavia, la distinzione tra inclusione ed esclusione non si risolve in una generica indistinzione, che nega e sopprime ogni differenza 2 5• Nella differenza, nell'alterità, nell'estraneità s'inciampa come in un «gradino di cui non ci si era accorti», come capita al flaneur benjaminiano, che incarna l'esperienza quotidiana dell'uomo contemporaneo nell'attraversare gli spazi urbani disseminati di soglie: Conoscere [le città] significa avere un sapere di quelle linee che, con funzione di confini, corrono parallele ai cavalcavia, attraversano caseggiati e parchi, lambiscono le rive dei fiumi; significa conoscere questi confini nonché le enclavi dei vari territori. Come soglia, il confine passa attraverso le strade; un nuovo territorio ha ini1Jo come un passo nel vuoto, come se si inciampasse in un gradino di cui non ci si era accorri1.6 •

Basta confrontare questo passo benjaminiano con uno analogo di Le paysan de Paris di Louis Aragon, in cui è cantato il mito moderno di Parigi, per poter soppesare l'attualità della concezione spaziale di Benjamin: Ciò che m'importava tanto, la mia povera certezza, in questa grande vertigine in cui la coscienza si sente un semplice pianerottolo degli abissi, che è mai divenuta? Non sono che un momento di una caduta eterna. Il piede perduto non lo si ritrova mai. Il mondo moderno è quello che sposa le mie maniere d'essere1.7_

•s In Giorgio Agambcn, la spazialità della soglia riveste un ruolo determinante, tanto da caratterizzare alruni dei paradigmi e dei dispositivi fondamentali della sua filosofia, come la «nuda vita», lo «stato d'eccezione» e il «bando sovrano». La concezione della soglia di Agambcn risulta dalla composizione originale di motivi benjaminiani e motivi foucaultiani: «[L'ccce1jone sovrana) è, in questo senso, la localizzazione (Ortu11g) fondamentale, che non si limita a distinguere ciò che è dentro e ciò che fuori, la situazione normale e il caos, ma traccia fra di essi una soglia (lo stato d'eccezione) a partire dalla quale interno cd esterno entrano in quelle complesse relazioni topologiche che rendono possibile la validità dell'ordinamento» (G. Agambcn, Homo sacer. Il potere sorna110 e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 23). Agamben utilizza la soglia anche come elemento compositivo del suo stile saggistico, inserendo alla fine di ogni capitolo di molti suoi libri una Soglia come approfondimento dell'argomentazione appena svolta e passaggio a quella successiva. Un corrispettivo retorico potrebbe essere la figura della tornado nella poetica medievale, adoperata appunto per ritornare a una determinata parte del canto, come indica lo stesso Agambcn in Il tempo che resta (Bollati Boringhieri, Torino 2000). •' W. Bcnjamin, I «passages» di Partgt, cit., p. 94. •1 L. Aragon, Ilpaesatto di Parigi (1926), il Saggiatore, Milano 1996, p. 104.

COSTELLAZIONI! SOGLIA

127

La topografia descritta da Benjamin non sembra appartenere pienamente al «mondo moderno» di Aragon. Sulla soglia benjaminiana s'inciampa, il piede perduto per un attimo lo si ritrova e non si precipita in una «caduta eterna»; anzi, è richiesta una certa vigilanza e attenzione per non cadere nel mito (che, nella Parigi capitale del XIX secolo, è quello generato dal primo configurarsi del capitalismo di mercato e dello spazio urbano della metropoli)28. La soglia, dunque, si manifesta e si materializza con l'inciampare, perché nessuna linea netta e dritta - presupposta e prevista - solca il suolo urbano delle metropoli globali. Il suolo su cui poggia il piede non è più così solido e rassicurante come quello dei territori demarcati dalle linee di confine della modernità; le nostre metropoli si presentano piuttosto come un insieme di territori e di zone "oscuri", dai confini non chiari e dai tratti incerti - all'ombra dei davanzali. Quello che abitiamo è lo spazio della soglia, che in nessun modo può essere ridotto ai confini e ai confinamenti chiari e distinti del luogo, fosse pure quello "altro" delle eterotopie. Il dispositivo della localizzazione, infatti, definisce il perimetro dei corpi e delle cose e li colloca nello spazio in modo che non si possa giustapporre «questo e quello»: la localizzazione è a tutti gli effetti un dispositivo identitario. Nella soglia di Benjamin, invece, il passaggio non è collocabile non è il passaggio a configurarsi in suolo e luogo, ma esattamente il contrario: sono suolo e luogo a essere configurati dal passaggio. Ecco che, come scrive Foucault, il suolo, «sotto i nostri passi, di nuovo si turba». Nell'attraversare questi spazi-soglia, tuttavia, non si può procedere con piglio sicuro; bisogna invece sempre fare attenzione a dove si mettono i piedi, perché i «gradini di cui non ci si era accorti», su cui si può «inciampare», sono dappertutto. Questa del gradino e del rischio di inciampare non è soltanto una metafora, ma - ancora una volta - ci riporta alla variegata e complessa etimologia di "soglia". L'inglese threshold, infatti, si richiama in senso materiale al gradino o al battistrada (thresh) posto sulla soglia, ma comprende anche il senso di "trattenersi, esitare, ten18

Cfr. D. Gentili, Topografie del capitalismo nella Parigi metropoli del XIX seco-

lo, in M. Ponzi, D. Gentili, Soglie, cit., pp.

213-225.

128

DARIO GENTILI

tennare" (to hold). Il passaggio attraverso la soglia, dunque, non configura nemmeno - come lascerebbe supporre un'enfatizzazione della matrice liquida e marittima di Schwelle/Swill - lo spazio fluido e liscio del postmoderno, caratterizzato da una sorta di indistinzione tra dentro e fuori, tra interno ed esterno, ma un territorio dove, in quanto «zona comune» a trasformazioni che non danno mai luogo a definizioni incontrovertibili, s'inciampa continuamente nell'inclusione e nell'esclusione, nell'identità e nella differenza. Qui, su questa soglia, non c'è antinomia tra dentro e fuori, perché si è «simultaneamente e al contempo» dentro e fuori, padrone di casa (cittadino) e straniero: la soglia è quello spazio della differenza che Derrida non poteva radicare al solum. Passaggio, zona, trasformazione, esitazione: questi sono, in sintesi, i significati che ho raccolto attraverso l'indagine etimologica del termine soglia, la cui polisemia, se distoglie dall'attribuire un significato univoco, non preclude affatto alla determinazione di una costellazione coerente di senso. Se infatti la soglia «deve essere distinta molto nettamente dal confine», come suggerisce Benjamin, in essa tuttavia persiste la determinazione del dentro e del fuori, seppure non in chiave oppositiva. Anzi, la soglia è la pietra d'inciampo tra dentro e fuori, l'esitazione che accompagna ogni trasformazione. Insisto su questo punto perché la soglia rappresenta la possibilità di pensare l'inclusione e l'esclusione senza che tra di esse debba necessariamente passare quella linea di confine che nella modernità ha portato anche al confinamento del1'esclusione e della trasgressione. Il persistere del dentro e del fuori nello spazio della soglia significa - e vengo così alla questione che ha fatto finora da sfondo - poter determinare questo spazio in senso politico. È infatti possibile la politica senza la dialettica, anche conflittuale, tra inclusione ed esclusione? E se è vero che si dà politica ogniqualvolta è in questione il rapporto tra dentro e fuori, non è certo meno politico quello spazio che, invece di ordinare tale rapporto mediante il dispositivo del confine per dar luogo a identità (nazionali o personali)29 , lo dispone piuttosto 1 9 Il dispositivo del confine, a mio parere, gioca un ruolo decisivo anche nel dispositivo della "persona" cosl come è elaborato da Roberto Esposito in Terza perso1,a. Politica della vita e filosofia dell"impersonale, Einaudi, Torino 2007.

COSTELLAZIONI! SOGLIA

129

lungo soglie di passaggio e di differenza. Non sono infatti l'esclusione, la differenza a far tremare il suolo sotto i nostri passi, a farci esitare di fronte a sicurezze e certezze date per acquisite e a spingerci ad accettare la trasformazione, nostra - della nostra forma di soggettività, politica e non solo - e della società in cui viviamo? Insomma, inciampare nel gradino tra dentro e fuori diventa ormai una pratica politica fondamentale: perché è per di qua che, seppur esitando e facendo attenzione, si passa.

Puskin e Tolstoj: il tema del Caucaso Boris Andreevic Uspenskij

Il tema del Caucaso nella letteratura russa è specificamente messo in evidenza da due autori, Puskin e Tolstoj, poiché né prima di Puskin né dopo Tolstoj l'argomento è stato affrontato in modo significativo. Tuttavia bisogna considerare che i loro approcci al Caucaso - e in generale all'Oriente - sono diametralmente opposti e la posizione di Tolstoj è innegabilmente in contrasto con quella di Puskin. Così, Il prigioniero del Caucaso di Tolstoj richiama esplicitamente l'omonimo puskiniano (e non soltanto per la scelta del titolo: in entrambe le opere, infatti, l'eroe viene fatto prigioniero ed è salvato da una donna}, evidenziando in tal modo un atteggiamento polemico nei confronti di Puskin: davanti a noi, in sostanza, abbiamo una sorta di traduzione, dal linguaggio della poesia romantica a quello della prosa psicologica. Nel primo caso l'eroe emerge fra gli avvenimenti del testo ed è rappresentato in una prospettiva distaccata, poetica: il lettore non si identifica con lui, ma lo vede dal di fuori, come un soggetto di contemplazione estetica; lo ammira come si può ammirare un paesaggio esotico. Nel secondo caso, al contrario, gli avvenimenti sono rappresentati attraverso la percezione dell'eroe, nel quale il lettore in qualche modo si identifica. Questa polemica si configura in maniera talmente chiara che difficilmente può essere considerata casuale: piuttosto, non è circoscritta al racconto in questione, ma riflette la posizione programmatica di Tolstoj, come si riscontra anche nelle altre sue opere dedicate allo stesso tema. Pertanto, da questo punto di vista è lecito supporre che Chadzi Murat di Tolstoj nasconda una polemica contro il Viag-

132

BORIS ANORJ!J!VJt USPJ!NSKIJ

gio ad Arzrum puskiniano 1 : in questo caso, però, non si tratta di un attacco allo stile romantico, byroniano, ma ci si riferisce alla differenza nella percezione del mondo e, in particolare, nella comprensione della storia. La posizione di Puskin è eurocentrica poiché egli arriva nel Caucaso come rappresentante della civiltà europea e, per di più, si percepisce come il rappresentante di quella grande potenza che, dopo la guerra con Napoleone, occupa una posizione preminente: infatti la Francia è scomparsa dall'orizzonte politico, l'Austria è indebolita e l'Europa è ora rappresentata da due imperi, Russia e Inghilterra, che- ottenuta la vittoria su Napoleone - conducono una politica coloniale in Oriente. Questa colonizzazione ha carattere sia politico sia civilizzatore, riflettendo la concezione storica e filosofica dell'Illuminismo fondata sull'idea del progresso, secondo la quale tutti i popoli si dirigono verso un unico obiettivo, ma alcuni di essi procedono nel loro cammino, mentre altri restano indietro. È in questa ottica che la colonizzazione viene giustificata e interpretata come un processo di civilizzazione; le peculiarità nazionali o culturali vengono viste come una tappa nello sviluppo dell'umanità2 • ' Il Viaggio ad Arzrum si distingue nettamente per lo stile dal puskiniano Prigio11iero del Caucaso e, in qualche modo, è scritto in contrapposizione ad esso come un'opera marcatamente distante dal romanticismo (a questo proposito è curioso il richiamo del Prigioniero del Caucaso nel primo capitolo del Viaggio ad Arzrum: «Tutto è fiacco, immaturo, incompleto; ma molto è indovinato ed espresso con precisione»; A. S. Puskin, Putesestvie v Arzrum, in Id., Pohzoe sobranie soàne11ij v XVI tt., Nauka, Moskva-Leningrad 1937-1949, v. vm, p. 451). Importante è sottolineare che il Viaggio ad Arzrum è un'opera appartenente a tutt'altro genere, dove Puskin si presenta non come il poeta romantico, ma come l'autore di cronache di viaggio, il quale descrive la realtà che lo circonda, sell7.3 far ricorso alla propria immaginazione. Mentre nella poesia Puskin cercava di seguire la tradizione letteraria, la sua prosa ha invece carattere sperimentale: crea esempi di narrazione prosaica in diversi generi e i suoi testi in prosa si differen1Jamo sostanzialmente l'uno dalraltro per le loro caratteristiche stilistiche. Ciò è dovuto al fatto che la letteratura russa nasce con la poesia, mentre la prosa è stata sostanzialmente creata da Karamzin e Puskin. ~ significativa in questo senso l'espressione di Puskin riferita a Radiscev: «Radiscev scriveva meglio in versi che in prosa. Per quest'ultima non aveva modelli, mentre Lomonosov, Cheraskov, Derzavin e Kostrov avevano già elaborato il linguaggio poetico» (A. S. Puskin, Polnoe sobranie socinenij v XVI tt., cit., t. Xli, p. 3 5). I puntini di sospensione nelle citazioni, qui e altrove, sono, là dove non esplicitamente indicato, dell'autore del presente saggio. 1 Allo stesso modo è giustificata in queste circostanze la sottomissione della Polonia (che può essere associata proprio con l'Oriente): vedi Ju. M. Lotman, Fatalist" i problema Vostoka i Zapada v tvorlestve Lermontova, in Id., O russkoj literature: StaM

PU~KIN E TOLSTOJ: IL TEMA DEL CAUCASO

133

In Chadii Murat (nonché nei Cosacchi e in altre sue opere) Tolstoj traduce invece la contrapposizione civiltà/barbarie con artificialità/naturalità, quindi la contrapposizione Occidente/Oriente, così attuale per Puskin, nelle sue opere è del tutto assente. Per quanto riguarda il legame con le idee dell'Illuminismo, possiamo dire che entrambi gli scrittori, nel complesso, pur attingendo alla stessa fonte ne traggono, per così dire, sostanze diverse. La posizione di Tolstoj rientra nelle idee di Rousseau e pertanto la civilizzazione - in tale contesto ideologico - può essere vista come un avvenimento negativo, ma la contrapposizione naturale/artificiale riguarda prima di tutto la personalità umana e non le singole istituzioni sociali. Le differenze tra Puskin e Tolstoj riflettono la diversità delle concezioni tra Voltaire e Rousseau. In sostanza, Chadii Murate Viaggio ad Arzrum sono contrapposti così come contrapposti sono Il prigioniero del Caucaso di Tolstoj e Il prigioniero del Caucaso di Puskin: si tratta dell'opposizione tra prospettiva esterna e prospettiva interna. Nel poema puskiniano il Caucaso è mostrato con gli occhi dell'osservatore esterno, che sta visitando la regione e la vede come un quadro generalizzato/tipizzato; nel racconto tolstojano, invece, è mostrato dall'interno. Pertanto in un caso il Caucaso costituisce oggetto di valutazione, estetica o ideologica, nell'altro è penetrazione del mondo interiore del personaggio. Questa contrapposizione è analoga a quella della prospettiva diretta e rovesciata: si potrebbe quindi dire che Puskin narra in prospettiva diretta, Tolstoj in quella rovesciata.

La concezione della storia di Puskin è strettamente legata e in piena armonia con quella di Karamzin che, trattando delle riforme di Pietro, scrisse nelle Lettere del viaggiatore russo: La strada dell'educazione e dell'istruzione è unica per tutti i popoli; tutti la percorrono uno dopo l'altro. Gli stranieri erano più intelligenti dei t'i i issledovmlija 1958-199 3 (lstorija russkoj prozy. Teorija literatury), lskusstvo-SPb., Sankt-Peterburg 1997, pp. 605-620: 615 (ed. or. in Id., V sko/epoetileskogo slova: Puskin, Lermo11tov, Gogol'. Kmga dlja ulitelja, Prosvcscenic, Moskva 1988, pp. 5-22).

134

BORIS ANORl!l!Vlt USPl!NSKIJ

Russi: e così era necessario apprendere da loro, studiare, usare la loro esperienza[ ... ]. Quale popolo non imitava l'altro? E non sarebbe necessario uguagliarsi, prima di superarsi?[ ... ] Tedeschi, Francesi, Inglesi, sono stati più in avanti dei Russi almeno sei secoli: Pietro ci ha mosso con la sua mano poderosa, e noi in pochi anni li abbiamo quasi raggiunti [... ]. Tutto ciò che è popolare è nulla davanti all'umano. La cosa più importante è essere uomini, non Slavi. Ciò che è buono per gli uomini, non può essere cattivo per i Russi; e tutto ciò che gli Inglesi o i Tedeschi hanno inventato per l'utilità dell'uomo, è mio, perché io sono un uomo3.

Altrove (Lettre au spectateur sur la littérature russe) Karamzin afferma: Il popolo francese è passato attraverso tutte le fasi della civilizzazione, per ritrovarsi su quella sommità su cui si trova al giorno d'oggi. Confrontando il suo passo strascicato con il rapido volo della nostra gente verso lo stesso traguardo, si parla di miracolo. È stupefacente l'onnipotenza del genio creativo che, avendo strappato la Russia dal letargo nel quale era immersa, l'ha indirizzata sulla via della luce con tale forza che dopo pochi anni ci troviamo davanti insieme ai popoli che per molti secoli ci avevano superato4.

3 N. M. Karamzin, Pis'ma russkogo putesestevetmika, pod. tekstaju. M. Lonnana, N. A. Man:enko, B. A. Uspenskogo, Nauka, Leningrad 1984, pp. 2.53-2.54. Il corsivo è di Karamzin. ◄ N. M. Karamzin, Lettre au spectateur sur la littérature russe, in «Le Spectateur du Nord. Joumal politique, littéraire et mora!» (Hamburg), 1797, n. 10; vedi N. M. Karamzin, Pis'ma russkogo putesestevetmika, cit., pp. 453,460. In seguito, tuttavia, Karamzin fa notare, come polemizzando con se stesso: «Ma adesso altre idee e immagini nuove si addensano nella mia mente: sono sufficientemente robuste le costruzioni erette con eccessiva fretta? Forse che il corso della Natura non si manifesta sempre gradualmente e lentamente? Forse che l'irregolarità brillante può essere stabile e duratura? I!. forse possibile che i bambini che apprendono troppe materie in tenera età diventino poi grandi uomini? ... lo taccio». Le riforme di Pietro I celano in sé il pericolo di una crescita veloce, sconvolgono il naturale ciclo evolutivo e celano pericoli. In seguito Karamzin cambierà la propria opinione sulle riforme di Pietro I e dirà: «Siamo diventati cittadini del mondo, ma abbiamo smesso, in alcuni casi, di essere cittadini della Russia. Colpa di Pietro» (N. M. Karamzin, Z'.apiska o drevnej i novo; Rossii v ee politileskom i grai,da1,skom otnosenii, Nauka, Moskva 1991, p. 35). Questa annotazione probabilmente va collegata agli avvenimenti della Rivoluzione francese, la quale pose il dilemma sul rapporto del processo evolutivo e rivoluzionario che si manifesta sotto forma di sconvolgimenti: le riforme di Pietro I vengono interpretate da un contemporaneo della Rivoluzione francese in virtù di ciò che accade in Francia. Diciamo, a questo proposito, che è proprio grazie all'influenza dell'ideologia illuminista dopo

PU~KIN E TOLSTOJ: IL TEMA DEL CAUCASO

135

Infine Karamzin si esprime analogamente anche nel discorso pronunciato ali'Accademia russa: Pietro il Grande, avendo trasformato la patria con la sua mano possente, ci rese simili agli altri Europei. Le lamentele sono inutili[... ]. Noi non vogliamo imitare gli stranieri, ma scriviamo così come scrivono loro: perché viviamo come loro vivono; leggiamo ciò che essi leggono; abbiamo gli stessi modelli di intelligen7.a e gusto; partecipiamo all'avvicinamento mondiale e reciproco dei popoli, frutto dell'evoluzione culturale. Le bellezze particolari, che compongono il carattere delle Belle Lettere popolari, non competono con le bellC7.Ze generali: le prime cambiano, le seconde sono eterne. È bene scrivere per la Russia, ancor meglio è scrivere per tutti. Se per noi è offensivo procedere dietro gli altri, allora possiamo procedere accanto agli altri verso il traguardo dell'umanità tutta; seguendo il cammino del proprio sccolo5.

Così Karamzin alla fine del XVIII secolo. Dopo la vittoria su Napoleone la situazione era cambiata: la Francia era diventata un paese di provincia, mentre Pietroburgo (dove emigravano gli aristocratici francesi) si ritrovava al centro della vita politica europea (dopo la guerra di Crimea la situazione sarebbe cambiata nuovamente - e qui è fondamentale la voce di Dostoevskij -, ma di questo si parlerà in seguito). Karamzin, sulle orme degli Illuministi francesi, formula l'idea dello sviluppo graduale e ininterrotto della conoscenza umana che, percorrendo la strada della civilizzazione, dal buio e dall'ignoranza conduce al sapere e alla perfezione. In pratica, copia Condorcet, secondo il quale la Rivoluzione francese che cambia il concetto stesso di rivo/uzjo,ze: se prima, in senso strettamente etimologico, questa parola aveva il significato di restaurazione, giro della ruota, cioè ritorno al passato (che riflette la conce1Jone ciclica del tempo), dopo la Rivolu1Jone il termine viene associato al moto lineare e progressivo del tempo, come un sequenziale movimento in avanti, come un salto in avanti anticipato - il che presuppone il rapido raggiungimento di qualche risultato, di qualche tappa, di qualche limite. Vedi R. Koselleclc, Vergange,,e Zuku,zft: Zur Semantik geschichticher Zeite11, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1979, pp. 69-78, pp. 60-61; B. A. Uspenskij, lstorija i semiotika {Vosprijatie vreme,zi kak semiotileskaja problema), in Id., Jzbran,rye trudy t. I: Semiotika istorii, semiotika kultury, izd. 2-c ispr. i pererabot., Jazyki russkoj kul'tury, Moskva 1996, pp. 10-70: 65-66. Cfr. inoltre-in un altro contesto- l'immagine della Russia dormiente di A. S. Puskin, K Oiadaevu, in Id., Polnoe sobranie soli,umij, cit., v. 11, p. 72: «La Russia si sveglierà dal suo sonno». s N. M. Karamzin, Socinenija, tt. 1-111, A. Smirdin, Sankt-Peterburg 1848, t. 111, p. 649. Il corsivo è di Karamzin.

136

BORIS ANDRl!l!Vlt USPl!NSKIJ

il movimento delle altri genti sarà più rapido e più sicuro rispetto al nostro in quanto loro riceveranno da noi ciò che noi abbiamo dovuto scoprire per primi, e perché la conoscenza di queste semplici verità, di questi metodi che noi abbiamo acquisito dopo lunghe peripezie, loro li potranno acquisire seguendo lo sviluppo delle dimostrazioni nei nostri discorsi e libri6•

Così l'orientamento generale dello sviluppo della Cultura (Civilizzazione) di fatto viene percepito analogamente all'evoluzione della Natura, come, ad esempio, la descrive Lamarck. Ora, una tale concezione della storia può giustificare l'uso della violenza in virtù di un obiettivo storicamente indispensabile e imprescindibile, la civilizzazione (in maniera simile l'ideologia cattolica del passato tendeva a giustificare gli eccessi della cristianizzazione forzata). Tolstoj, in contrasto con questa posizione, elabora una propria filosofia della storia: vediamo quindi che la sua polemica con le idee di Puskin è una specie di riflesso della polemica fra Voltaire e Rousseau, rielaborata nel contesto russo. Da qui nasce il loro atteggiamento verso il Caucaso.

Dunque, la concezione filosofica della storia di Puskin, come anche quella di Karamzin, rientra nelle idee di Voltaire e dei suoi seguaci Illuministi francesi?. Ma, nel confronto, risalta in tutta evidenza la specificità dei seguaci russi di Voltaire quando le espressioni di questi ultimi risalgono a fonti straniere (fenomeno frequente dopo Pietro il Grande): se le coincidenze con l'originale in queste condizioni sono facilmente spiegabili, le divergenze, al contrario, possono essere estremamente significative 8• 'Uean-Antoinc-Nicolas de Caritat, marquis de Condorcet], P.squisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain, Ouvrage posthume, s. I. 1797, p. 257; cfr. Ju. M. Lotman, B. A. Uspenskij, •p;s•ma russkogo putesestvettnika" Karamvna i ich mesto v razvitii russkoj kultury, in N. M. Karamzin, Pis'ma russkogo putesestevennika, cit., pp. 525-606: 533. 7 Si tratta di Voltaire filosofo. Puskin si rapportava con Voltaire uomo con disprezzo: «Voltaire durante tutta la sua hmga vita non seppe mai conservare la propria dignità» (A. s. Puskin, Vo/'ter' in Id., Po/1,oe sobrmde sowtenij, cit., v. Xli, p. 80). Contemporaneamente, parla di una sua «incredibile» influenza sulla nuova cultura europea (A. S. Puskin, O niàazestve literatury russkoj, in Id., Pobwe sobrmlie solinenij, cit., v. x1, p. 272). 8 Vedi B. A. Uspenskij, Rossija i Zapad v xvm veke, in S. M. Karp (red.), Istorija prodoliaetsja: Izul.enie vosemnadcatogo veka na poroge dvadcat' pervogo, FemejVolrer, Moskva-Sankt-Peterburg 2001, pp. 375-415: 396 e sgg.

PU~KIN E TOLSTOJ: IL TEMA DEL CAUCASO

137

Gli Illuministi francesi nella loro filosofia della storia si basavano sulla Ragione: l'evoluzione storica secondo loro era un movimento progressivo, determinato dalla lotta della Ragione contro il fanatismo, l'ignoranza e i pregiudizi. I seguaci russi di Voltaire, invece, non ponevano l'accento sulla Ragione, ma sulla Cultura, non si basavano sulla razionalità, ma sull'orientamento verso la cultura d'avanguardia, la cultura più progredita. Seguendo le parole di P. I. Makarov, epigono di Karamzin, i Russi devono imparare a «ragionare come i Francesi, come i Tedeschi, come i popoli acculturati di oggi»9. La differenza è evidente. Noi dobbiamo ragionare, dicono gli Illuministi francesi. Noi dobbiamo ragionare come gli Europei, dicono i loro seguaci russi. In questo modo, si tratta non dell'appellarsi direttamente alla Ragione, ma di appellarvisi per il tramite della cultura. Essi non si ispirano alle considerazioni sulla natura della ragione (ciò che corrisponde o ciò che si contrappone alla ragione umana), ma alla visione generale sul carattere dell'evoluzione della cultura. La cultura europea (la cultura dei «popoli illuminati») si presenta come un'espressione naturale e organica del processo di sviluppo dell'intelligenza e dei costumi e, di conseguenza, per imparare a ragionare come i popoli acculturati di oggi è necessario assimilarne la cultura. D'altronde, questa conseguenza non segue la premessa. In sostanza, l'appello alla Ragione qui viene sostituito con l'appello alla Cultura, nella quale si vuole trovare l'espressione della Ragione: il punto d'orientamento diventa non la Ragione come tale, ma le forme del pensiero e del comportamento condizionate dalla Cultura. Il contenuto e la forma (la causa e la conseguenza) si cambiano di posto: si presume che sia necessario adottare le forme dell'espressione proprie della cultura progressista per assimilare il contenuto stesso che ha reso possibili queste forme culturali1°. 'P.1. Makarov, Kritika na knigu pod 110:zvaniem •RazsuiJJe,ii;a o starom i novom s/oge Rossi;skogo ;azyka" [A. S. Siskovaj, ,,apecata,muju v Peterburge, 1803 goda, v s-;u dol;u lista, «Moskovskij Merkurij» [Peterburg] 1803, parte 1v, dicembre, pp. 155-198: 170. 10 Vcdi Ju. M. Lotman, Ocerki po istorii russko; kul'tury XVIII - nalala XIX veka, in Iz istorii russko; kul'tury, t. IV (XVIII - nacalo XIX veka), Jazyki russkoj kul'tury, Moskva 1996, pp. 11-346: 14-15. Un giovane Trcdiakovskij traduce in modocarat-

138

BORIS ANDRJ!J!Vlf USPJ!NSKJJ

Ciò emerge sia nelle concezioni storiche (nella valutazione delle riforme di Pietro il Grande), sia nei confronti delle altre culture (dell'Oriente e dell'Occidente). La fiducia nella Ragione, così tipica per gli Illuministi francesi, viene sostituita con la fiducia nella Cultura, che può assumere carattere irrazionale. Quel che è stato detto sinora accomuna Puskin e Karamzin che partono, in sostanza, da un'unica concezione, mentre cambia la prospettiva della loro analisi: Karamzin in Lettere del viaggiatore russo parla del passato della Russia, Puskin in Viaggio ad Arzrum del suo presente. Karamzin contrappone la Russia prepetrina all'Occidente, Puskin contrappone la Russia europeizzata all'Oriente: così come la cultura francese poteva essere considerata progressista rispetto alla Russia, la cultura russa è considerata progressista rispetto all'Oriente.

Questa differenza fra gli Illuministi francesi e i loro seguaci (in questo caso Puskin) si manifesta forse più chiaramente nei confronti della Chiesa e della tradizione cristiana. La posizione anticristiana e anticlericale degli Illuministi francesi è ben nota a tutti (e ciò logicamente ha condizionato l'introduzione di nuove forme di culto durante la Rivoluzione francese): la Chieteristico il romanzo précieux di Paul Tallemant, opera appartenente alla cultura francese dei salotti ([P. Tallemant) Ezda v ostrov Ljubvi. Perevedena s francuzskogo na russkoj stude,ua Vasil'ja Trediakovskago [... ], Tipografija Akad. Nauk, SanktPeterburg 1730. Cfr. [P. Tallemant], Le ooyage de liste d'Amour, à Licidas, chez Abraham Gogat, Leyde 1671), non perché in Russia ci fosse una cultura simile, ma proprio per creare qualcosa di analogo al salotto francese; cfr. Ju. M. Lotman, "Ezda v

aez

ostrov Ljubvi" Trediakovskogo i funkcija perevodnoj literatury v russkoj kul'ture pervoj polovitry XVIII veka, in Id., O russkoj literature: Stat'i i iss/edova11ija 1958-1993, cit., pp. 168-175: 17 5 (ed. or. in G. V. Stepanov [red.J, Prob/emy izulenija ku/'tumogo nas/edija, Nauka, Moskva 1985, pp. 222-230); B. A. Uspenskij, Kratki; olerk istorii russkogo literatumogo jazyka (Xl-XIX w.), Gno1Js, Moskva 1994, p. 13 1. Se, di norma, un testo è dovuto a un determinato ambiente che motiva la sua nascita, in questo caso succede il contrario: la stesura del testo è chiamata ad anticipare l'apparizione del contesto. Cfr. B. A. Uspenskij, Car' i patriarcb: Charisma vlasti v Rossii {Viz,mtijska;a model' i ee russkoe pereosmyslenie), Skola "Jazyki russkoj kul'tury", Moskva 1998, pp. 6-7; Id., Rossija i Zapad v XVIII veke, in Istorija prodoli,aet.sja, cit., pp. 375-415: 381 esgg.

PU~KIN E TOLSTOJ: IL TEMA DEL CAUCASO

139

sa ai loro occhi appare come il principale nemico del progresso e dell'Illuminismo 11 • La posizione di Puskin è invece completamente diversa. Il Cristianesimo per lui è un'epoca di civilizzazione: i popoli non civilizzati si trovano in una fase antica della loro storia e dovranno accogliere il Cristianesimo, mentre la Chiesa in questa prospettiva inaspettatamente viene vista alla luce del progresso e dell'istruzionen. Secondo Puskin, «il Cristianesimo è la grande svolta spirituale e politica del nostro pianeta [... ]. La storia recente è la storia del Cristianesimo. Sciagurato è il paese che si trova all'infuori del sistema europeo!» 1 3. Di conseguenza, in una lettera a Caadaev del 19 ottobre 1836 Puskin parla di «civilizzazione Cristiana (la civilisation Chrétienne)» - abbinamento che a Voltaire sarebbe sembrato ossimoro! 14 È del tutto naturale, da questo punto di vista, che tale approccio al Cristianesimo compaia proprio quando Puskin parla dell'Oriente, in particolare nelle opere sul tema del Caucaso. Così in Viaggio ad Arzrum l'illuminazione cristiana è vista come un mezzo efficace di avvicinamento dei popoli caucasici alla civiltà europea e si prospetta la necessità di inviar loro dei missionari cristiani per predicare il Vangelo: Bisogna[ ... ] sperare che l'acquisizione della sponda orientale del Mar Nero, tagliando i Circassi dal commercio con la Turchia, li costringerà ad avvicinarsi a noi. L'influenza del lusso potrebbe favorire la loro sottomissione: il samovar sarebbe un 'innovazione importante. C'è un mezzo più forte, più morale, più conforme all'acculturazione del nostro secolo: la predicazione del Vangelo [... ]. Il Caucaso attende i missionari Cristiani. Ma 11 t sufficiente ricordare l'invito di Voltaire a «schiacciare la Carogna» (écrascr l'Infame) nella lettera a D'Alembcrt del 30 ottobre 1760 oppure l'articolo Cannibalismo (Anthropophagie) nel primo volume dell'E.ncyclopédie, con un accenno all'articolo sull'Eucarestia. Vedi R. Damton, lstori;a - zurnalistika- a,rtropologi;a, in Istori;a prodoli,aetsa, cit., pp. 416-452: 440, 442. 11 Cfr. i pensieri analoghi di M. P. Pogodin, lstorileski;eaforizmy, Universitetskaja tipografija, Moskva 1836, p. 7; vedi anche E. A. Toddcs, O ,zezakonien11o;poeme Puskina "Tazit", in V. N. Golicyna (rcd.), Puski,rski; sbonrik, Ucennye 1.apiski l.cningradskogo gos. ped. lnstituta im. A. I. Gerzcna, Pskov 1973, pp. 59-76: 67. •J Annotazioni del secondo volume della Storia del popolo russo di N. Polevoj (A. S. Puskin, Polnoe sobranie soli,zenii, cit., v. x,, p. 127). •◄ lvi, t. XVI, pp. 171, 392.

BORIS ANORl!l!VJt USPl!NSKIJ

per noi pigri piuttosto che professare la parola viva è più facile versare parole morte e mandare muti libri a persone analfabcte•s.

Questa posizione, però, non è religiosa, ma da Kulturtriiger: la predicazione del Vangelo qui è posta sullo stesso piano del commercio, degli oggetti di lusso, dell'introduzione del samovar. Nello stesso modo, ad esempio, nella postfazione di Puskin al saggio La pianura Azitugaj, pubblicato nel «Sovremennik», ad opera di un ufficiale circasso dell'armata russa, noi leggiamo: «è curioso notare [ ... ] con quale pensiero profondo il musulmano guarda alla croce, questo gonfalone dell'Europa e dell'Illuminismo» 16• Infine, allo scontro della cultura cristiana con quella musulmana è appositamente dedicato il poema incompiuto di Puskin Tazit (1829-1830), scritto nello stesso periodo di stesura di Viaggio ad Arzrum 11. In questo modo, Puskin vede il Cristianesimo in chiave storico-filosofica e da questa posizione polemizza con Caadaev parlando, in questo caso, non già del Cristianesimo in generale, ma dell'ortodossia 1 8• Allo stesso modo anche Caadaev, presentando•s A. S. Puskin, Putesestvie v Arzrum, cit., p. 449. L'ultima frase, a quanto pare, è un'invettiva contro l'attività della Società biblica e in particolare contro il metropo-

lita Filarete. '' A. S. Puskin, Doli11a Aiigutaj, in Id., Polnoe sobra11ie soà11et1ij, cit., v. XII, p. 25. Il corsivo è di Puskin (le parole evidenziate in corsivo, sono citazioni del saggio La pianura Ai,itugaj). •7Vedi E. A. Toddcs, O 11ezakonlen110j poeme Puskina «Tazit», cit., pp. 59-76. Che Tazit sia cristiano risulta evidente nelle versioni non definitive del poema. •• Cosl nella lettera a Caadaev del 19 ottobre 1836 (scritta nel 25° anniversario della fondazione del Liceo!) Puskin dice: «Sono ben lungi dall'essere completamente d'accordo con Lei. Non vi è dubbio che lo scisma (la divisione delle chiese) ci ha divisi dal resto dell'Europa e che non abbiamo preso parte nemmeno a uno dei grandi avvenimenti che l'hanno vista protagonista, ma abbiamo avuto una nostra particolare predestinazione. Questa è la Russia con le sue interminabili distese, che ha arrestato l'avanzata dei Mongoli. I Tartari non hanno osato attraversare i nostri confini occidentali e lasciarci alle loro spalle. Sono tornati ai loro deserti, e la civiltà cristiana fu salva. Per questo scopo abbiamo dovuto trascorrere un'esistenza particolare, la quale lasciandoci cristiani ci ha comunque resi completamente estranei al mondo cristiano, tanto che con il nostro sacrificio lo sviluppo dell'energia dell'Europa cattolica non ebbe ostacoli[ .•. ]. Il nostro clero prima di Tcofanc era degno di rispetto, non si era mai macchiato delle bassezze del papismo, e certamente non avrebbe provocato una riforma

PU~KIN E TOLSTOJ: IL TEMA DEL CAUCASO

si come apologeta del Cattolicesimo, parla prima di tutto del suo significato per la cultura europea e quindi mondiale. La polemica di Puskin e Caadaev non è il solito contrasto fra ortodosso e cattolico, ma è la polemica fra due Kulturtriiger; non è una discussione su due religioni, ma su due concezioni filosofiche della storia: entrambi gli autori infatti parlano della Chiesa come di un'istituzione culturale e non come corpo di Dio. E così Puskin, seguendo gli Illuministi francesi, antepone le culture progressiste a quelle arretrate, ignoranti; inoltre, in lui il concetto di progresso si lega spontaneamente alla civilizzazione europea 19. La posizione di Tolstoj è completamente diversa: come Rousseau, alla cultura egli antepone la non-cultura e cioè lo stato naturale dell'uomo, non appesantito dalle forme convenzionali della civilizzazione. Il problema che particolarmente lo coinvolge è quello della sincerità, dell'onestà morale, contraddistinta da un carattere individuale, personale e non sociale; il conflitto principale che emerge dalle sue opere è quello fra la sincerità e la falsità. Tolstoj - a differenza, per esempio, di Dostoevskij - nelle sue proprio nel momento in cui si aveva maggior bisogno di unità. Sono d'accordo con Lei nell'affermare che il nostro clero di oggi è arretrato. Volete sapere il perché? Ha la barba, ceco tutto, non appartiene alla buona società,. (A. S. Puskin, Pol,roe sobra11ie soànerùj, cit., t. XVI, pp. 171-172, 392-393). Cfr. sullo stesso argomento l'articolo Della 11111/ità della letteratura russa (1834): «A lungo la Russia è rimasta estranea all'Europa. Ereditato il Cristianesimo da Bisanzio non ha partecipato né agli avvicendamenti politici, né all'attività intellettuale del mondo romano-cattolico. La grande epoca del Rinascimento non ha avuto sulla Russia alcuna influenza; la cavalleria non ha animato i nostri avi con il suo puro entusiasmo, e la scossa benefica dovuta alle crociate non si è sentita nei territori dell'ibernato Nord ... Alla Russia è stato destinato un alto compito... Le sue interminabili distese hanno inghiottito l'orda dei Mongoli e hanno fermato la loro avan1.ata ai confini dell'Europa, i Barbari non hanno osato lasciare la Russia conquistata alle loro spalle e sono tornati alle steppe del loro Oriente. L'Illuminismo nascente fu in questo modo salvato da una Russia lacerata e morente,.. In una nota si legge poi: «e non la Polonia, come fino a poco tempo fa affermavano le riviste europee; ma l'Europa è sempre stata nei confronti della Russia tanto rude quanto ingrata,. (A. S. Puskin, O nictaiestve literatury russkoj, cit., p. 268). 19 Questa contrapposizione figura anche nelle sue opere di stampo romantico: la cultura orientale appare qui prima di tutto come strana (esotica, selvaggia), ma mai autentica. La posizione romantica di Puskin a volte si avvicina a quella di Rousseau, ma rimane distinta da essa. Contemporaneamente il romanticismo si può manifestare nella contrapposizione tra l'eroe romantico e la natura selvaggia.

BORIS ANORl!l!VJt USPl!NSKIJ

opere letterarie non parla dell'immanente, della verità e della menzogna, del bene e del male come tali; a lui interessa altro: l'organicità, la naturalezza del comportamento umano. Tolstoj non parla di Dio, così come non parla dell'Assoluto: la questione risiede non nell'essere sincero davanti a Dio, ma nell'essere sincero davanti a se stesso. Il problema del bene e del male diventa il problema del naturale e dell'artificiale ovvero del convenzionale. Gli eroi delle sue opere si dividono in sinceri e in falsi, in portatori di verità e in paladini della bugia. Il percorso dell'eroe è una crescita interiore, una liberazione dalla falsità. Poiché in ciò si può vedere una contrapposizione tra naturale e artificiale, il popolo può apparire come portatore di principi morali, ma non si tratta di un conflitto sociale: è un conflitto tra naturale e artificiale, tra la Natura e la Civilizzazione20 • Allo stesso tempo, però - a differenza di Rousseau - Tolstoj non scrive della condizione primitiva della società, né parte dall'utopica idea del suo stato originario di perfezione: non gli interessa la società naturale (che rappresenta un'utopia pura e irraggiungibile), ma l'uomo. Tutte le forme sociali della vita sono regolate da convenzioni e pertanto false. In ciò troviamo un'altra differenza di Tolstoj da Rousseau (che lo avvicina in parte a Meister Eckhart): un antisemiotismo di fondo 21 • Noi trasformiamo i nostri pensieri e i nostri sentimenti in segni esternati tramite mezzi di espressione convenzionali che ci vengono imposti, con il risultato di una forma non adeguata al contenuto. Noi parliamo non come sentiamo, ma in modo convenzionale, falso; quando ci rapportiamo con le altre persone percepia10 In Chadi,i Murat, per esempio, non si contrappongono i Russi coi montanari, ma vengono messe a confronto le persone, il comportamento delle quali è subordinato a un fine autentico e la psicologia delle quali è comprensibile in un modo o nell'altro (e che potrebbero essere sia Russi che montanari appartenenti a tutte le classi sociali), e quelli che sono subordinati alle conven1joni sociali, e che vivono in un mondo artificiale fatto di nonne. Il che è caratteristico anche per le altre opere di Tolstoj. Nel primo caso viene descritta (ma non sempre) la vita interiore dei personaggi, nel secondo caso i personaggi possono essere rappresentati come esseri automatizzati, come delle bambole; vedi: V. V. Gippius, Ludi i kukly v satire Saltykova, in Id., Ot Puskina do Bloka, Nauka, Moskva-Leningrad 1966; B. A. Uspenskij, Poetika kompozicii, Azbuka, Sankt-Peterburg 2000, pp. 257-259 (ed. or. lskusstvo, Moskva 1970). 11 Cfr. su questo argomento K. Pomorska, Tolstoj- co11tra semiosis, «lntemational joumal of Slavic Linguistics and Poetics», 1982, voi. 25-26, pp. 383-390.

PU~KIN E TOLSTOJ: IL TEMA DEL CAUCASO

143

mo noi stessi come da un punto di vista esterno - con gli occhi di un'altra persona -, e questo ci costringe a recitare una parte, indossare una maschera sociale, in poche parole a mentire 22 • Queste considerazioni e questa valutazione della lingua come mezzo di comunicazione sociale, decisamente negativa perché ravvisa un incitamento alla menzogna, costituiscono un paradosso per uno scrittore e determinano per Tolstoj come uomo un conflitto interiore: il processo della creazione letteraria entra in conflitto con la sua stessa ideologia e questo attrito avrà termine solo con l'interruzione della sua attività di scrittura. Tale è il rapporto di Tolstoj con la cultura intesa come insieme di forme convenzionali dell'esistenza sociale. Tolstoj si scontra con il carattere artificiale della lingua e della cultura. Ma sia la lingua sia la cultura rappresentano di per sé null'altro che sistemi di segni: possiamo affermare quindi che Tolstoj combatte la lingua e la cultura nella stessa misura in cui esse possono entrare in conflitto con lo stato naturale dell'uomo. Insomma, egli contrappone la Cultura alla Non-Cultura e tale contrapposizione, in linea di massima, ci permette di dare una stessa valutazione a culture diverse (che, dal punto di vista di Tolstoj, probabilmente, possono essere considerate sempre negativamente).

Ma torniamo a Puskin. Come già accennato prima, le sue considerazioni si avvicinano molto alla corrente di pensiero che nasce in Russia dopo la vittoria su Napoleone. L'idea che si ha di Napoleone in Russia è generalmente molto negativa, e questa è una delle principali differenze tra i Russi e i Polacchi 23 • Tale atteggiamento diventa uno dei tratti più ricorrenti della cultura russa. La percezione negativa di Napoleone accomuna i più diversi scrittori russi, in particolare Puskin, Tolstoj e Dostoevskij. Questo atteggiamento si manifesta sia attraverso valutazioni dirette (si pensi Con ciò, infine, è collegato anche il procedimento di "straniamento" cosl importante per Tolstoj. 1 3 Della devozione religiosa dei Polacchi nei confronti di Napoleone scrive Her1.cn in Passato e pensieri (A. I. Gerzcn, Sobranie soàmmij v tridcati tomach, Nauka, Moskva 1954-1965, t. x,pp. 41-42). 11

144

BORIS ANORl!l!VJt USPl!NSKIJ

alle poesie di Puskin che trattano di Napoleone24, oppure l'immagine di Napoleone in Guerra e Pace di Tolstoj) sia attraverso personaggi letterari: ci basta ricordare German nella Dama di Picche di Puskin e Raskol'nikov in Delitto e Oistigo di Dostoevskij (notiamo inoltre che l'immagine di Raskolnikov si rifà direttamente a quella di German)25 • Questo atteggiamento, che tra l'altro può provocare una cattiva impressione dei Decabristi e della loro cerchia, si manifesta chiaramente nell'atteggiamento nei confronti di Ermolov, il quale apertamente si immedesimava con Napoleone26; che Puskin si riferisse proprio a Ermolov quando nel poema Evgenij Onegin (11, 14), scriveva: «tutti crediamo di essere un Napoleone»? La vittoria su Napoleone viene percepita in un clima di con2..4 Napoleone sull'Elba, Napoleone, l'ode Vo/',rost' e diversi altri componimenti. In generale sull'atteggiamento di Puskin verso Napoleone vedi: Ju. M. Lotman, Aleksandr Sergeevil Puski11: Biografija pisatelja. Posobie dlja ulaslichsja, in Id., Puskin: Biografija pisatelja. Stat'i i zametki 1960-1990. F.vgenij Onegin: kommentarij, Iskusstvo, Sankt-Pcterburg 1995, pp. 87-88 (ed. or. Prosvcscenie, Leningrad 1981); Id., Roman Puskina "Evgenij Otzegin": Komtnentarij. Posobie dl;a ulitel;a, in Id., Puskin: Biografija pisatelja. Stat'i i zametki 1960-1990. Evgetlij Otzegin: komme,ztarij, cit., pp. 472-762: 600 (cd. or. Prosvcsccnic, Lcningrad 1980); Id., "Fatalist" i problema Vostoka i 'Zapada v tvorlestve Lermotztova, cit., p. 610; Ju. M. Lotman, Literaturovedetlie do/zno byt' ,zaukoj, in Id., O russkoj literature: Stat'i i iss/edova11ija 19581993,cit., pp. 756-765: 763 (ed. or. in «Voprosy literatury», 1967, n. 1, pp. 90-100). 2 s Ju. M. Lotman, «Pikovaja danza» i tema kart i kartolno; igry v russkoj literature tzalala XIX veka, in Id., Puskin: Biogra(i;a pisate/ja. Stat'i i zametki 1960-1990. Evgenij Otzegi11: kommetztarij, cit., pp. 786-814: 803 (ed. or. Tema kart i kartolnoj igry v russkoj literature naia/a XIX veka, «Uc. Zap. Tartusskogo gos. Un-ta», 1975, vyp. 365, pp. 120-142 [«Trudy po znakovym sistcmam»,n. VIIJ). Cfr. anche Id., Jstoki "tolstovskogo napravlenija" v russkoj literature 1830-ch godov, in Id., Stat'i i issledovanija 1958-1993, cit., pp. 548-593: 555 (ed. or. in «Uc. Zap. Tartusskogo gos. Un-ta», 1962, vyp. 119, pp. 3-77 [«Trudy po russkoj i slavjanskoj filologii» n. v, TartuJ); Id., Povest' o kapita,ze Kopejkine (Reconstrukcija zamysla i idejno-komposicionnaja funkcija), in Id., Puskin: Biografija pisatelja. Stat'i i zametki 1960-1990. Evge,zij Ot1egi11: kommentarij, cit., pp. 266-280: 278-280 (ed or. in «Uc. Zap. Tartusskogo gos. Un-ta», 1979, vyp. 467, pp. 26-43 [ «Trudy po znakovym sistcmam», Xl]); Id., O Chlestakove, in Stat'i i issledovanija 1958-1993, cit., 659-688: 684 (ed. or. in Id., V skole poetileskogo slava, cit., pp. 293-324). 26 Gribocdov nelle lettere chiama Ennolov «Signor proconsole d'Ibcria». In un'altra lettera, paragonando esplicitamente Ennolov a Napoleone, Griboedov dice: «Esiste una circostanza, che rivelerà se egli tiene alle persone [•.• J. E nello stesso tempo una grande eloquenza, e non la moderna retorica napoleonica spezzettata e scollegata» (A. S. Gribocdov, Solinetzija, Gosud. izd. Chudoi.cstvcnnoj Literatury, Moskva 1953, pp. 481,397, cfr. anche pp. 381,406).

PU~KIN E TOLSTOJ: IL TEMA DEL CAUCASO

145

trapposizione tra Occidente e Oriente, molto attuale per la coscienza collettiva russa, anche se nelle diverse epoche questa vittoria poteva essere interpretata diversamente. Sull'atteggiamento di Puskin già mi sono espresso: la vittoria sui Francesi venne percepita come uno degli eventi più significativi della storia nazionale. Si ebbe la sensazione che dopo la vittoria su Napoleone la Russia fosse diventata una grande potenza a livello europeo, uno dei centri della civiltà europea (mentre pareva che la Francia fosse stata declassata a provincia dell'Europa: in sostanza ciò che la Russia era stata fino al quel momento). «Per la generazione dei Decabristi, Griboedov e Puskin, con il 1812 si ha l'entrata della Russia nella storia mondiale»2.7 • Sta qui il senso delle parole di Puskin rivolte a Napoleone: Gloria a lui! egli al popolo russo la suprema sorte ha indicato:!.8.

In Poltava (canto 1°) Puskin esalta Napoleone come «l'uomo del destino», e questa definizione cela in sé un voluto duplice significato: Napoleone è sia un prediletto del destino, sia uno strumento del destino, e nel contesto del poema sono possibili entrambe le interpretazioni: Lui [Karl] camminava per la via dove aveva lasciato le sue tracce nei giorni nostri un nemico nuovo e forte, quando l'uomo del destino con la propria caduta impresse brutta nomea alla sua ritirata2.9.

La situazione cambia dopo la guerra di Crimea del 18541856, quando la Russia subisce una pesante sconfitta da parte delle armate alleate della Francia, dell'Inghilterra, della Turchia 11

Ju. M. Lotman, «Fatalist» i problema Vostoka i Zapada v tvorcestve Lennon-

tova, cit., p. 610. 18

A. S. Puskin, Napoleon, in Id., Polnoe sobranie solinenii, cit., v. 11, p. 216. A. S. Puskin, Poltava, in Id., Po/11oe sobra11ie soiinetlii, cit., v. v, p. 23. E in un altro punto Puskin definisce Napoleone in modo analogo: «Apparve l'uomo del destino, gli schiavi tacquero di nuovo»; «Perché sei stato inviato? E chi ti ha mandato?» (A. S. Puskin, Polnoe sobrmie solineni;, in Id., Po/11oe sobra11ie soli11eni;, cit., v. 11, p. 314). Cfr., infine, nel capitolo x dell'Evge,1;; Onegin: «Questo uomo del destino, questo battagliero vagabondo» (Po/noe sobranie soà1ie11ij, cit., v. VI, p. 522). 19

BORIS ANDRl!l!Vll: USPl!NSKIJ

e del regno di Sardegna (Tolstoj riapre il suo romanzo Decabristi con un confronto tra la guerra napoleonica e quella di Crimea: «Questo stato di cose, ripetuto due volte nel corso del XIX secolo in Russia: la prima volta quando nel '12 abbiamo sculacciato Napoleone I, e la seconda volta, quando nel '56 ci ha sculacciato Napoleone III» )3°. È curioso confrontare la posizione eurocentrica di Puskin con quella di Dostoevsij nel diario di quest'ultimo (1881). Rispondendo alle domande «Quale è la necessità di conquistare in futuro l'Asia? Cosa ne faremmo?» - Dostoevskij risponde: È indispensabile poiché la Russia non si trova solo in Europa, bensì anche in Asia; poiché il Russo non è solamente europeo, ma è anche un asiatico. E vi dico di più: nell'Asia forse, abbiamo ancora più obiettivi di quanti non ne abbiamo in Europa[ ...]. Dobbiamo scacciare la servile paura di essere ritenuti in Europa dei barbari asiatici e di essere considerati più asiatici che europei. Il timore di apparire agli occhi degli europei come degli asiatici ci perseguita ormai da più di due secoli [dai tempi di Pietro 1). [.•• ] Questo nostro infondato timore, questa nostra sbagliata percezione di noi stessi per la quale ci riteniamo solamente europei e non anche asiatici (in realtà non abbiamo mai smesso di esserlo) -questo timore e questa percezione sbagliata ci sono costate tanto, tantissimo, negli ultimi due secoli, e abbiamo pagato sia con la nostra identità spirituale, sia con la nostra inadeguata politica europea [... ]. E cosa non abbiamo fatto per farci considerare dall'Europa come genti europee, esclusivamente europee e non come Tartari. E ci aggrappavamo incostantemente e instancabilmente all'Europa, entrando di forza nelle sue vicende e nei suoi rivolgimenti. Ora noi la terrorizzavamo con la forza inviando le nostre armate a "salvare i monarchi", ora ci inchinavamo nuovamente dinanzi ad essa, come non si deve mai fare, rassicurandola del fatto che siamo nati per servire l'Europa e per renderla felice.

In seguito Dostoevskij afferma che la Russia si sarebbe dovuta rappacificare con Napoleone e dividere con lui il mondo: alla Francia sarebbe appartenuto l'Occidente, alla Russia l'Oriente, che invece l'Inghilterra sta conquistando. E continua dicendo: Ma noi abbiamo dato tutto per una immagine[ ... ]. Non siamo forse stati noi a rafforzare gli stati germanici, non siamo forse stati noi a dare 3° L. N. Tolstoj, Sobranie soànenii, tt. 1-x11, Chudo1.estvennaja literatura, Moskva 1973, t. lii, p. 349·

PU~KIN E TOLSTOJ: IL TEMA DEL CAUCASO

1 47

loro forza? [... ] Siamo arrivati al punto che adesso tutti in Europa si tengono sulla difensiva verso di noi [... ]. Cosa abbiamo ottenuto in Europa con questo nostro servilismo? Solo il loro odio! [... ] Ma perché questo odio verso di noi? Perché tutti loro non riescono a fidarsi di noi, a convincersi una volta per tutte della nostra innocuità, credere che siamo amici e servi, ottimi servi, e che anche addirittura tutta la nostra affinità europea può servire l'Europa e può fare il suo bene[ ... ]. No, non riescono a fidarsi! La principale ragione di ciò sta proprio nel fatto che non riescono a considerarci come genti loro. Non crederanno mai e poi mai che noi davvero possiamo partecipare al pari di loro nelle vicende della loro civiltà. Ci hanno identificato come estranei alla loro civiltà, forestieri, impostori. Ci considerano dei ladri, che hanno rubato il loro sapere, che hanno indossato le loro vesti3'.

Come possiamo vedere, la posizione di Puskin e quella di Dostoevskij sono diametralmente opposte. Ciò si spiega in parte col fatto che rappresentano periodi storici differenti: la posizione di Puskin è caratteristica della prima metà dell'8oo (dopo la vittoria sui Francesi, quando la Russia prese parte ali' Alleanza europea), la posizione di Dostoevskij della seconda (quando la Russia subì una sconfitta nella guerra di Crimea da parte delle forze unite dell'Europa alleate con la Turchia). Tuttavia in entrambi i casi il ruolo della Russia si inserisce in una contrapposizione tra Oriente e Occidente: Puskin interpreta l'Oriente attraverso l'Occidente, con una prospettiva occidentale3 2 , contemporaneamente per lui il Caucaso rappresenta una parte dell'Oriente interna all'Impero Russo, che può essere osservata da vicino. Dostoevskij, al contrario, interpreta l'Occidente attraverso l'Oriente, in una prospettiva orientale. Come ho già detto, Tolstoj dal canto suo elimina ogni contrapposizione tra Oriente e Occidente.

J • F. M. Dostoevskij, Pol,roe sobranie soà,zenlf v trldcatl tomacb, Nauka, Lcningrad 1972-1990, v. XXVII, pp. 33-35. Il corsivo è di Dostoevskij. J1 Vcdi a questo proposito B. A. Uspcnskij, Puski,i i Vostok, «Russica Romana», VI (1999), pp. 87-98.

«Tutti a Chersonl » Cartografia delle Anime morte Carla Solivctti

Nella storia molto viene deciso dalla geografia N. Gogol'

«La geografia dovrà dar spiegazione a molte cose, che senza di essa rimarrebbero inesplicabili per la storia. Essa deve mostrare come le condizioni della terra abbiano influito su intere nazioni; come abbiano conferito all'una o all'altra di esse il suo carattere particolare» 1, asseriva Gogol' già nel r 833. Parafrasando lo scrittore, si potrebbe affermare che solo la geografia, assieme alla storia, può chiarire i passaggi indecifrabili, altrimenti considerati alogici, di gran parte della produzione letteraria di Gogol', la cui scrittura riflette la sua enigmatica e ambigua personalità. Fondamentale è per lo scrittore l'interazione tra le caratteristiche "fisiche" della terra e lo "spirito" di un popolo, il suo sviluppo storico, finanche le forme di governo e le leggi. Ciò non è indicativo solo della poetica "romantica" di Gogol', ma svela un'insospettata, quasi irrefrenabile fascinazione per ogni aspetto della geografia. L'imponente mole di materiale preparatorio alle lezioni (tenute per breve tempo presso la cattedra di storia universale all'Università di Pietroburgo) come quello relativo ai progettati volumi sulla storia e sulla geografia - la «geografia viva» 2. - , nonché le informazioni raccolte per le sue opere letterarie, stupiscono per la maniacale meticolosità: appunti, schemi e tabelle regi1 N. Gogol', Su/l'insegnamento della storia universale, in Id., Opere, in 2 voli., a cura di S. Prina, Mondadori, Milano 1994, v. ,, p. 910. 1 N. Gogol', Nabroski. Konspekty. Plany. 'Zapisnye knii/t.i, in Id., Pol,roe sobra,zfe soànentf v 14-x tomacb, lzd. Akadcmii Nauk SSSR, Moskva 1940-1952, v. rx ( 19 5 2), p. 642. Or. anche il volume Neu;dannyf Gogol', a cura di I. A. Vinogradov, Nasledic, Moskva 2001, pp. 3-600: 431-501 e Ju. Mann, Trudy i d11i: 1809-1845, Aspckt Prcss, Moskva 2004, pp. 207-210.

150

CARIA SOLIVl!ITI

strano con rigore tassonomico dati sulla lingua, sull'etnografia russa e ucraina, sulla fauna e sulla flora. L'ansia nomenclatoria spinge lo scrittore a stilare copiosi elenchi di animali, insetti, alberi e piante - con nomi in latino e russo - di cui annota persino il periodo di semina e di fioritura nelle diverse zone climatiche3. La critica ha solitamente ignorato questa documentazione, evidenziando piuttosto gli elementi etnografici inerenti alle opere sull'Ucraina e su Pietroburgo. Si è analizzato come Le Veglie alla fattoria presso Dikan'ka (1831-1832) rispecchino il colore, l'allegria della vita comunitaria nella Russia meridionale contadina, la spontanea solidarietà che si va sfaldando nei racconti di Mirgorod (18 3 5), dove la pozzanghera al centro della città e le case con i loro recinti marcano l'intorpidimento e il graduale distacco nei rapporti umani4. Si è messa in luce la realtà burocratica e alienante della capitale del Nord nei cosiddetti Racconti di Pietroburgo, che frammenta la società, riduce l'uomo ad un grado della Tabella dei Ranghi5, conducendolo spesso alla pazzia. Si è ricostruito lo sfondo storico-etnografico di Taras Bul'ba (1835, 1842), il mondo libero e bellicoso dei cosacchi, affratellati nelle scorribande per le steppe ucraine e nella lotta contro i nemici dell'ortodossia. Più approfonditi sono stati invece gli aspetti geopolitici, etnoculturali e climatici del frammento Roma (1842), riflesso del lungo soggiorno dell'autore nella città eterna, sua patria dell'anima, luogo ideale più volte associato alla terra natìa6. Qui Gogol' attribuisce al popolo 3 N. Gogol', Nabroski. Konspekty. Platry. 'Zapisnye kniiki, cit., in particolare pp. 275-438. Durante il lavoro sulle Anime Morte, Gogol' si dedica a letture sulla geografia e sui viaggi di esplorazione e chiede ripetutamente agli amici di inviargli libri di storia, geografia, etnografia, descrizioni dei vari settori dell'apparato amministrativo, informazioni sul commercio, sull'industria e sull'agricoltura (ivi, p. 641). 4 Cfr. A. d'Amelia, Introduzjo11e a Gogol', Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 34-47, 60-71; Ead., Paesaggio co11 figure. Letteratura e arte nella Russia moderna, Carocci, Roma 2009, pp. 53-68. s Sulla fun1lone della sineddoche in Gogol' vedi C. Solivetti, «Roma» di Gogol': totum pro parte, in M. Vajskopf, R. Giuliani, P. Buoncristiano (cur.), Gogol' e l'Ita-

lia. Atti del co11veg,io i11ten,azionale di studi •Nikolaf Vastl'evil Gogol'. Uno scrittore tra Russia e Italia, Roma" (30 settembre- 1° ottobre 2002), c.1.R.v.1., Moncalieri pp. 155-180. 'Vedi R. Giuliani, Il paradiso perduto, in Id., La •meravigliosa" Roma di Gogol'. La città, gli artisti, la vita culturale 11ella prima metà dell'Ottocento, Edizioni Studium, Roma 2002, pp. 237-252: 238. 2006,

cTUITI A CHl!RSONI» CARTOGRAFIA Dl!LLI! «ANIMI! MORTI!»

151

romano quell'ideale di "bellezza" che nella cultura russa è una categoria etico-estetica?: nell'uomo bello (prekrasnyj) le doti spirituali si uniscono armonicamente a quelle materiali, risultato questo che in Roma nasce dal connubio di «una natura sempre in fiore» 8 con le vestigia di epoche diverse. Nei secoli l'atmosfera climatica e culturale della città eterna ha "modellato" il carattere e il senso artistico dei suoi cittadini, appartenenti a una «società patriarcale» basata su rapporti umani, che permette all'individuo di non contrapporsi al popolo ma di fondersi con esso9. Sostanziale in Gogol' è infatti l'antitesi Sud/Nord che contrappone Dikan'ka - e in genere l'Ucraina - a Pietroburgo, e Roma a Mosca, a Pietroburgo e a Parigi, città mitologizzate dallo scrittore e lette dalla critica alla luce dell'opposizione tradizione/progresso 1°. Nell'antinomia Dikan'ka/Pietroburgo il contrasto tra meridione/settentrione non è meno rilevante di quello campagna/città. Akakij Akakevic, il protagonista della Mantella (racconto noto con il titolo Il cappotto), è costretto a farsi cucire un nuovo cappotto proprio a causa del gelo nordico e del vento di Pietroburgo, «potente nemico di tutti coloro che ricevono quattrocento rubli all'anno di stipendio o giù di lì» 1 1. Il «segreto incanto» 1 2. di Roma, invece, influisce anche sull'aspetto dei pittori tedeschi là residenti13 e ridesta, anche solo in sogno, l'abitante del Nord, strappandolo 7 Or. Ju. Lotman, Le origi11i della • corrente tolstoja,,a n nella letteratura russa, in Id., Da Rousseau a Tolstoj. Saggi sulla cultura russa, Il Mulino, Bologna 1984, pp. 2.51-345: 310-32.6. 1 N. Gogol', Roma, a cura di R. Giuliani, intr. e note di A. Romano, Marsilio, Venezia 2.003, p. 101. 9 Vedi R. Giuliani, Il paradiso perduto, cit., pp. 2.39-2.43; C. Solivctti, «Roma» di Gogol': totum pro parte, cit., pp. 155-156. 10 Vedi M. Virolajncn, Mify goroda v mire Gogolja, in S. G. Bocarov (rcd.), Gogol' v russkoj kritike. A11tologija, Fortuna l!L, Moskva 2.008, pp. 652.-662.. 11 N. Gogol', LA 11,antella, in Id., Opere, cit., v. 1, pp. 746-784: 752.-753. 11 Lettera del 30 marzo 1837 di Gogol' a N. Ja Prolopovic, in N. Gogol', Dall'Italia. Autobiografia attraverso le lettere, intr. di C. Dc Lotto, Voland, Roma 199 5, p. 2.0. Sul clima di Roma, sul suo ciclo limpido cfr. in particolare le lettere a vari destinatari nei primi due anni del soggiorno di Gogol' a Roma (ivi, pp. 17-86). 1 3 «Qui persino il tedesco con le sue gambe arcuate e la pancia debordante aveva assunto un'aria espressiva, spargendo sulle spalle i riccioli dorati e drappeggiandosi nelle pieghe leggere d'una blusa alla greca, o in un abito di velluto noto con quel nome di cinquecento che avevano fatto proprio solo alcuni artisti, a Roma» (N. Gogol', Roma, cit., p. 89).

CARLA SOLIVl!Trl

152

dal mezzo di una gelida esistenza consacrata a occupazioni che induriscono l'anima [... ], facendogli balenare un'inattesa prospettiva verso luoghi lontani, una notte di luna al Colosseo,[ ... ] un cielo di splendore inaudito e i tiepidi baci di un'aria incantata, perché nella sua vita almeno una volta egli sia un uomo bello ... 14.

Nella commedia Il revisore (1836) e nel romanzo-poema Le anime morte ( r 842), ambientate in città prive di nome, l'interazione tra dato letterario e territorio reale è stato affatto trascurata dalla critica. Negli ultimi anni di vita Gogol' definirà, in effetti, il luogo che fa da sfondo al Revisore, la «nostra[ ... ] città spirituale, nella quale [... ] le nostre passioni degenerano come cinovniki abietti, depredando l'erario delle nostre anime» 1 s, facendo così assumere alla cittadina di provincia un significato prettamente metaforico. In modo analogo è stata letta la città di NN, teatro dell'azione nelle Anime morte, che nella vuota denominazione convenzionale rappresenta tutta la Russia, ampliandosi, per la missione redentrice assegnata alla sua patria dall'autore, al mondo intero. Il "poema" è un romanzo nazionale destinato a far riflettere sull'organizzazione della Russia, sul suo posto nel mondo e sul suo destino. Com'è noto, alla prima parte delle Anime morte (dove il viaggio di Cicikov nella città di NN, in un governatorato di provincia, è un pretesto per mostrare vizi e guasti della società, la volgare banalità e l'ignavia dell'uomo russo), avrebbe dovuto far seguito, nelle due parti successive, una progressiva rinascita. Cicikov concepisce il piano fraudolento di comprare con poca spesa servi della gleba, chiamati allora genericamente "anime", vivi soltanto nelle ultime liste del censimento, ma in realtà già morti: un ingegnoso stratagemma per usufruire di sovvenzioni e prestiti statali assicurandosi un futuro da rispettabile proprietario terriero. L'ossimoro "anime morte" scelto a titolazione del poema è ambiguo e non si riferisce tanto ai defunti oggetto di commercio, quanto piuttosto al protagonista, ai proprietari terrieri e a tutti gli abitanti della città, totalmente privi d'interiorità, "morti nell'anima". Gogol' non riuscì a portare a termine quest'opera che aveva pretenziosamente progettato secondo il modello triadico lvi, p. 101. •s N. Gogol', Appendici al «Revisore», in Id., Opere,cit., v.

14

11,

pp. 599-648: 639.

«TU1TI A CHl!RSONI» CARTOGRAFIA Dl!LLI! «ANIMI! MORTI!»

153

della Divina Commedia. Il primo volume si conclude con un'ennesima sconfitta di Cicikov - come veniamo a sapere dalla sua biografia a conclusione della prima parte -, che è costretto dalle innumerevoli e assurde chiacchiere intorno alla sua persona a fuggire dalla città di NN. Frainteso da pubblico e critica, Gogol' sostiene più volte la cripticità del primo volume e la necessità di leggere l'opera nella sua completezza per poterla interpretare correttamente16; vi aggiunge in seguito note e commenti che, come le parti ricostruite del secondo volume, non chiariscono peraltro dov'è iniziato, né dove finirà il viaggio di Cicikov, né come il personaggio arriverà alla preannunciata rinascita spirituale. Nel I 84 5 scrive all'amica A. O. Smirnova: Oggetto delle Anime morte non è né il governatorato, né tantomeno i mostruosi possidenti[ ... ]. È per ora un enigma che improvvisamente, con stupore di tutti (nessun lettore l'ha ancora scoperto) si svelerà negli ultimi volumi [... ]. Vi ripeto di nuovo, che è un enigma, e la sua chiave per ora è posseduta solo dall'anima dell'autore'7.

Nell'analizzare la città di NN come esempio della tipica provincia russa, regno della noia, dell'ignavia, dei pettegolezzi, modellato a imitazione della capitale, esteriormente ordinato e interiormente caotico, si parla genericamente di spazio metaforico e simbolico: «microcosmo, contenente tutte le caratteristiche del macrocosmo Russia» 18• Lotman connota lo spazio specifico delle Anime morte sulla base dell'opposizione «orientato vs non orientato», vedendo nel passaggio dal concetto di «strada» a quello di «itinerario», «la norma esistenziale dell'individuo, dei popoli e dell'umanità» 19. Da qui la divisione tra «eroi immobili (con un itinerario) 1 ' Cfr. I. A. Vinogradov, Gogol'. Chudobiik i myslitel', Nasledie, Moskva 2.000, pp. 3 1 3-3 1 5• 17 Lettera alla Smimova del 2.5 luglio 1845, in N. Gogol', Poltroe sobranie soli11et1lf, cit. v. 12., 1952., Pls'ma (1842-1845), p. 596. 1 s Cfr. R. Kazari, Russkij provincial'nyj gorod v literature XIX v. Paradigma i varla11ty, in A. Bclousov i T. Civ'jan (red.), Russkafa provlnclfa: mi{ - tekst - real'11ost', Kollektiv avtorov, Moskva-Sankt Peterburg 2.000, pp. 164-170: 164. 1 9 Ju. Lotman, Lo spazio artistico iti Gogol', in Ju. Lotman, B. A. Uspcnskij, Tipologia della cultura, Bompiani, Milano 1973, pp. 193-2.48: 2.46.

154

CARI.A SOLJVl!ITI

e mobili» - eroi questi ultimi che si muovono verso un fine, pur se meschino. Per questi personaggi, «non ancora irrigiditi nell'immobilità, l'autore confida di poter mutare il loro movimento da temporaneo e egoistico in permanente e organico. [... ] A ciò risalgono anche le speranze dello scrittore riguardo alla rigenerazione morale di Cicikov» 20• Nel primo volume, Cicikov si prefigge uno scopo materiale, arricchirsi, e ciò lo porta a errare, a deviare dal percorso che nel progetto dell'autore lo avrebbe condotto a un itinerario moralmente orientato e che induce il narratore alla domanda espressa con un'altra immagine spaziale: «Dov'è l'uscita? Dov'è la strada? Dov'è la scappatoia?» 21 • Relazionare la città di NN ai toponimi reali citati nel romanzo rende possibile individuare sulla carta geografica della Russia alcune tappe del viaggio di Cicikov e la meta progettata per lui dall'autore: nelle Anime morte, infatti, come in un rebus, la lingua delle relazioni spaziali, le semantiche geopolitiche e geoculturali russe organizzano tutti gli altri livelli espressivi rivelandosi sostanziali per un'ermeneutica del vissuto e dell'investimento simbolico presenti nel "poema". A una siffatta analisi, l'opera si rivela agli occhi del lettore un'elaborata traduzione in racconto di una mappa di luoghi e territori, un palinsesto dal quale emergono memorie storico-culturali, caricate qui di un nuovo senso, che alludono alla possibile futura scelta di Cicikov verso un itinerario moralmente orientato 22 • Va colto così l'invito a ricercare una seppur vaga ubicazione della città di NN, suggerito, nel modo cifrato proprio di Gogol', all'inizio del primo capitolo, nel famoso dialogo tra i due mugiki russi che, all'arrivo della vettura del protagonista nel capoluogo del governatorato, discettano sulle condizioni precarie della ruota: «Guarda la ruota», aveva detto il primo. «Secondo te, ci arriva, casomai, a Mosca?» «Ci arriva», aveva risposto l'altro. «Ma a Kazan', però non ci arriva». «Non ci arriva» aveva risposto l'altro. Fine del discorso 2 3. 10

Ibid.

N. Gogol', Le a11ime morte, intr. e trad. di N. Marcialis, Gruppo Editoriale L'Espresso, Roma 2004, p. 252. 11 «L'itinerario è in Gogol' isomorfo alla strada e, in linea di principio, illimitato in entrambe le direzioni: può essere ascesa senza fine o caduta sen1.a fine» Uu. Lotman, Lo spazio artistico ili Gogol', cit., p. 246.) 1JN. Gogol', Le anime morte, cit., p. 5. 11

«TU1TI A CHl!RSONI» CARTOGRAFIA Dl!LLI! «ANIMI! MORTI!»

1 55

Lo scambio di battute, considerato alogico e privo di senso, vuole unicamente sottolineare che la città di NN è più vicina alla vecchia capitale che a Kazan'. Se tuttavia Gogol' vuol rappresentare con NN tutta la Russia, perché scegliere di rapportarla a Mosca e a Kazan' e non, per esempio, a Pietroburgo, ben presente nel testo attraverso la «Storia di Kopejkin»? Il dialogo non chiarisce, per ora, né l'ubicazione della città di NN, né dove l'eroe sia diretto, ma piuttosto l'indicazione del luogo dove egli non potrà e non dovrà arrivare. Kazan' (che in tataro significa "caldaio", "paiolo")24 è percepita come segno di alterità e di lontananza estrema, oltre il confine dell'ecumene. La presa di questa città, dislocata una volta al confine delle terre russe, è recepita dalla coscienza russa quale vittoria storico-religiosa di Ivan il Terribile sui Tatari (1552), simbolicamente correlata alla conquista di Costantinopoli 25. Il poeta Andrej Belyj, le cui sottili intuizioni hanno sciolto molti nodi dell'opera gogoliana, a commento del citato dialogo, propone una sequenza fono-semantica che associa Kazan', il nome della città, con na-kazan' (sul paiolo, moto a luogo) e nakazan'e (castigo), suggerendo così, attraverso il gioco linguistico delle assonanze, che questa città rappresenti per Gogol' un luogo di pena-castigo26, un paiolo di acqua bollente dove immergere i peccatori. La semantizzazione del toponimo trova un'eco inaspettata nella seconda parte delle Anime morte, nel monologo del principe sull'inutilità del castigo: «So che non c'è modo, minaccia o punizione (nakazanie) che possa sradicare l'ingiustizia: troppo LI M. Vasmer, Etimo/ogileskij slovar' russkogo jazyka, Progress, Moskva 1986, v. 11, p. 150. Poiché si parla del mondo artistico gogoliano vale sottolineare che anche il termine kazak (cosacco) è prestito dalle lingue turche al quale Vasmer attribuisce il seguente significato: «individuo libero e indipendente, avventuriero, vagabondo» (ivi, p. 168). 1 s Cfr. M. Pljuchanova, Sjui.ety i simvoly Moskovskogo carstva, Akropol', Sankt Peterburg 1999, pp. 177-190. 16 «V Kazan' (Nakazan'?) ne docdetl» (A. Belyj, Masterstvo Gogol/a, Wilhelm Fink Verlag, Miinchen 1969, p. 102). Tale sequen7.a si chiarisce alla luce degli appunti di viaggio scritti da Belyj dopo la visita a Kazan' dove, partendo dalla somiglianza fonetica, costruisce la seguenza: Kaza11'- Kazat'- Nekazan' - Nakaza11'- Nakazan'e (cfr. N. Sotnikova, Kuà,iskij kalendar' A. Belogo, Podol'skaja Fabrika Ofsetnoj Pccati, Podol'sk 2010, pp. 75-76).

CARLA SOLIVl!Trl

profonde sono le sue radici ... »2.7_ Ulteriore conferma dell'intuizione onomastica di Belyj è la citazione reiterata (diretta o indiretta) della città di Cherson, speculare rispetto a Kazan', anch'essa territorio che marca il cronotopo storico-religioso dello stato russo, la vittoria del mondo ortodosso sui Canati tatari. Cherson, peraltro, era percepita quale culla dell'ortodossia russa, erede del ramo greco-bizantino della cristianità. La conquista della Crimea e delle zone confinanti al tempo di Caterina II rappresentava per l'ortodossia e per tutto l'impero una vittoria ancora più importante e significativa della presa di Kazan'2. 8• Come ha mostrato Lichacev, l'asse Nord-Sud aveva per la Russia un'importanza religiosa, culturale e geopolitica incomparabilmente maggiore dell'asse Oriente-Occidente e risaliva a quella "via dai Variaghi ai Greci" che univa il Nord al Sud dal Ladoga a Chersones2.9_ Cherson e Kazan' vanno dunque intesi come spazi geopolitici che, insieme a Mosca, delimitano i confini simbolici del mondo russo preso in considerazione da Gogol' (fig. 1 ). Il governatorato di Cherson è menzionato all'inizio dell'ottavo capitolo nella risposta, a prima vista improvvisata, di un imbarazzato Cicikov che, alla domanda del presidente del tribunale, indica proprio questo come il luogo dove intende trasferire i contadini da lui acquistati3°. In seguito nel testo ricorrerà più volte la locuzione «proprietario di Cherson», denominazione attribuita dai notabili e dal narratore al personaggio, quando non dallo stesso Cicikov, che nei momenti di esaltazione si percepisce davvero come un proprietario. Scaltro espediente letterario, gioco abituale in Gogol', che raggiunge l'effetto comico attraverso una ambigua dialettica di vero e di falso, qui operando su due piani: quello dei lettori informati e quello degli ignari cittadini di NN. La ripetuta attribuzione a Cicikov di una proprietà a Cherson che il lettore sa inesistente, spinge quest'ultimo N. Gogol', Le anime morte, cit., p. 452. Da tempi remoti nella coscienza russa la Crimea era considerata mitologicamente all'interno dello Stato e metonimicamente associata a Bisanzio, dr. O. M. Goncarova, Krym kak Vi1t111tija, in N. Buks e M. N. Virolajnen (red.), Krymskij tekst v russkoj kyl'ture, Izd. Puskinskogo Doma, Sankt Peterburg 2008, pp. 7-22: 11 -22. 1 9 D. S. Lichaccv, Russkaja kul"tura, Iskusstvo, Moskva 2000, p. 22. 3° N. Gogol', Le anime morte, cit., p. 174. 11 11

«TU1TI A CHl!RSONI» CARTOGRAFIA Dl!LLI! «ANIMI! MORTI!»

Fig.

1.

157

Città simbolo della "Rus" di Gogol'.

a recepire meccanicamente anche Cherson come meta immaginaria, inventata lì per lì. Diverso è il caso dei provinciali, all'oscuro della compravendita di contadini defunti, i quali invece accettano sia la proprietà sia Cherson quale effettiva destinazione del viaggio di Cicikov. Sfugge così al lettore che nell'ultimo capitolo del poema, dedicato alla biografia del protagonista, quest'ultimo abbia già previsto quale presunto luogo di trasferimento delle anime morte proprio Cherson: Soprattutto, è buono il fatto che nessuno ci crederà, sembrerà tutto inverosimile. ~ vero che senza terra non è possibile né comprare né impegnare. Ma li compro da portar via, da portar via! Adesso la terra nei governatorati di Cherson e della Tauridc la regalano, purché la si popoli. E io li porto tutti laggiù! Tutti a Chcrson! Che vivano là!3 1

J•

lvi, p. 2.90.

CARI.A SOLIVl!ITI

L'acquisto effettuato dal "milionario" Cicikov diventa oggetto di congetture contraddittorie tra i logorroici notabili della città sulle effettive possibilità di trasferire nella «nuova terra» le «anime» comprate, esito condizionato sia dal prevalere dei loro vizi o delle loro virtù, sia dalle capacità di controllo sui contadini da parte dello stesso Cicikov {o di un capitano della polizia), nonché dalle caratteristiche geografiche del nuovo spazio32.. Nella sostanza l'animata discussione doppia la scena di apertura del primo capitolo quando i due mugiki s'interrogano sulla ruota "storta" e sulla sua inadeguatezza a coprire lunghi percorsi: ora, al posto di Mosca e Kazan', troviamo, invece, sottintesa, Cherson, quale anticipazione del futuro percorso di Cicikov, progettato da Gogol' nei successivi due volumi mai pubblicati: Arriverà Cicikov con i suoi contadini a Cherson? Nel corso della vivace disputa, due funzionari esprimono, rispetto alle supposizioni pessimistiche degli altri notabili, la possibilità del futuro cammino di redenzione del protagonista e delle anime morte. Afferma il primo: «Ma bisogna pensare che proprio in ciò consiste la morale della faccenda, esattamente in questo: oggi sono buoni a nulla domani, in un altro posto, possono diventare sudditi modello»H. La nuova terra, quasi terra promessa, condizionerà il comportamento dei contadini. Il primo funzionario condivide dunque la concezione "geografica" di Gogol'. Il secondo, il direttore delle poste "filosofo", formula in modo chiaro «il compito sacro» di Cicikov: «quello di divenire un padre[ ... ] per i suoi contadini, e di avviare un processo di crescita spirituale» 34 , attribuendogli così il ruolo-guida che intendeva assegnargli lo stesso Gogol'. Per afferrare la rilevanza di queste congetture, a prima vista inutili e solo comiche per il lettore, giova considerare l'ambiguità del riferimento a Cherson come toponimo. Da un lato agli occhi dei lettori del tempo si presenta l'immagine reale di un territorio al confine meridionale dell'impero dove - come afferma Cicikov - si potevano ottenere ampie estensioni di terra gratuitamente o a poco prez31

H H

lvi, pp. 183-185. lvi, p. 183-184. Il corsivo è mio. lvi, p. 185.

«TU1TI A CHl!RSONI» CARTOGRAFIA Dl!LLI! «ANIMI! MORTI!»

1 59

zo; all'epoca, infatti, per l'assenza di mano d'opera si allettavano i contadini al trasferimento nella Nuova Russia con la promessa della libertà dalla servitù 35. Dall'altro, Cherson è associata ai cosiddetti "villaggi di Potemkin" -creati dal conte Grigorij Potemkin-Tavriceskij in previsione del viaggio di Caterina II in Crimea - espressione divenuta poi un fraseologismo per indicare una realtà fittizia, l'apparenza illusoria del nulla3 6, che ben si addice alle imprese di C:icikov. Su uno sfondo storico remoto, dietro la figura del presunto proprietario di Cherson, al quale Gogol' in prospettiva voleva affidare la missione di creare una "Russia nuova", si staglia quella reale di Potemkin, il favorito di Caterina 11, conquistatore e poi governatore dell'ampio territorio della Nuova Russia. Gogol' crea così uno spazio metaletterario designato da reali toponimi geografici e fa entrare in consonanza il soggetto letterario con un fatto storico, ben noto ai russi dell'epoca. Sostanziale, infine, il rimando di Cherson a Chersones, l'antica colonia greca nella Tauride, in russo Korsùn. Il decreto del 9 settembre 1775, con il quale Caterina ordinava l'edificazione di Cherson e della sua diocesi slava, rivela con chiarezza il potenziale simbolico racchiuso nel nome della città: Con questa denominazione noi rinnoviamo anche i nomi più significativi che la storia russa conserva dall'antichità [•.. ], perché il nostro popolo è di un'unica stirpe del ramo degli antichi slavi, e perché Cherson [si noti che qui la stessa Caterina usa Cherson e non Chersones] è stata la fonte della cristianità della Russia, dove grazie al battesimo del principe Vladimir, la luce della beata fede e dell'autentico ufficio divino ha illuminato, diffondendosi, la Russia37.

3S

Cfr. I. de Madariaga, Caterina di Russia, Einaudi, Torino 1988, pp. 486,495.

3, Negli ultimi anni A. M. Panccnko ha dimostrato che le realiZ7.azioni di Potemkin

nel Governatorato di Cherson erano rivolte non tanto alla creazione di un'illusione, quanto alla dimostrazione del modello di quella realtà che egli sperava di realizzare nel territorio a lui assegnato. Vedi A. M. Panccnko, ·Potemskie dere1111r kak ku/'tumyj mi{, in XVIII vek. Sb. 14: Russka;a literatura konca XVIII - nala/a XIX veka v obslestvennokul'tumom ko11tekste, Leningrad 1983, pp. 93-102. t difficile dire se questa interpretazione fosse tale anche per Gogol', anch'egli del resto interessato a presentare un modello-compendio di quella realtà che sperava di poter cambiare. Vale ricordare che tutto il romanzo gioca, come abbiamo accennato, su un'ambigua dialettica vero/falso. 37 A. Zorin, Korm;a dvug/avogo orla ... Uteratura i gosudarstvem,a/a ideologi/a v Rossii pos/edne; treti xv111-pervo; treti XIX veka, Novoe literatumoe obozrenie, Moskva 2001, p. 105.

160

CARIA SOLJVl!Trl

All'interno del "progetto greco" di Caterina II, mirante a sottrarre anche Costantinopoli ai Turchi e a creare una seconda capitale al Sud38 , Cherson veniva intenzionalmente identificata con la colonia greca Chersones-Korsùn e il nuovo governatorato di Cherson, alla foce del Dnepr (cioè esterno alla Crimea), si associava simbolicamente e amministrativamente alla Tauride, che rappresentava il mondo greco-bizantino all'interno della Russia. Confermando il proprio diritto all'eredità storico-spirituale di quelle terre, entrando in possesso e riorganizzando la Nuova Russia, la politica imperiale avrebbe ridestato la Grecia, Costantinopoli e la religiosità bizantina, calpestata dai Turchi39. E non solo: nella visione di Caterina II e di Potemkin, ripristinando finalmente nella Nuova Russia «la sua natura slava e cristiana, essa diventerà una immagine del futuro paradiso terrestre»40 . Se nelle intenzioni di Gogol' il viaggio di Cicikov doveva diventare un cammino di ricerca spirituale e di redenzione, Cherson, territorio antico e sacro, sarà la sua meta, un «paradiso terrestre» 41 al confine sud-ovest della Russia, opposto all'inferno musulmano di Kazan', frontiera a nord-est. Ma di questo itinerario ideale è a conoscenza solo l'autore mentre Cicikov continua a deviare dalla "retta via", e a perdersi letteralmente e metaforicamente (fig. 2). Non è un caso che "errando", nelle sue deviazioni incroci non il percorso di Caterina II da Pietroburgo a Cherson verso la Crimea nel famoso « Viaggio a beneficio della Russia»4\ come avrebbe dovuto, bensì il suo cammino di ritorno, verso nord, e tocchi, come l'imperatrice le città di Tuia, Mosca e Torlok. Dunque un percorso che spezza la linea "retta" che graficamente congiunge Vjatka a Cherson lungo il vettore nordest-sudovest43 (fig. 3 ). 38 M. A. Virolajnen, Severo-fug Rossii, in N. Buks e M. N. Virolajnen (red.), Krymskij tekst v russkoj kul'ture, dt., pp. 235-248: 236. 39 A. Zorin, Kormfa dvuglavogo orla ... , cit., pp. 31-64. ◄o lvi, p. 114. ◄ 1 Tra la fine del xvm e l'inizio xix secolo, la mitologi1.zazione russa della Tauride esalta gli aspetti irripetibili di questa terra meridionale con la sua natura rigogliosa e con le sue vestigia antiche, una sorta di giardino dell'Eden (cfr. M. Virolajnen, Severo-Jug Rossii, cit., p. 240). ◄ 1 Il viaggio venne celebrato da una medaglia, coniata a Feodosia, recante sul verso l'immagine dell'imperatrice e sul recto una cartina geografica con la scritta « Viaggio a beneficio,.. ◄3 «Quante strade tortuose, cicche, strette, impraticabili, quante inutili devia1joni ha imboccato l'uomo alla ricerca della verità eterna, mentre davanti a lui si apriva

Fig.

2.

Presumibile ricostruzione del viaggio reale e ideale del protagonista.

Fig. 3. Itinerari del protagonista e del viaggio di Caterina 11.

CARLA SOLIVl!TII

L'epoca di Caterina II è uno dei periodi storici che maggiormente hanno attirato l'attenzione di Gogol' perché racchiude «una serie quasi favolosa di avvenimenti straordinari, le cui immagini colossali sono ancora davanti a noi, come in Omero, benché ancora non siano passati neanche cinquant'anni»44. La stessa sovrana appare più volte nelle Veglie presso la fattoria di Dikan'ka e Gogol' ricalca, nel titolo dato ad alcuni suoi appunti, quello del giornale redatto da Caterina II, Di tutto un po'. Aneddoti e dettagli del famoso viaggio imperiale erano, del resto, noti a Gogol' sin dall'infanzia grazie a Dmitrij Troscinskij, suo parente e all'epoca segretario di Stato, nonché per l'amicizia con il pittore Vladimir Borovikovskij, autore di un noto ritratto dell'imperatrice45 • Fatti e curiosità relative allo stesso periodo storico e al suddetto viaggio possono chiarire scene, allusioni e svolte narrative delle Anime morte a prima vista casuali, inspiegabili, addirittura insensate. Per non perdersi nel labirinto gogoliano quasi ad arte intessuto dall'autore, quale sorta di filo d'Arianna si indicheranno alcune coincidenze tra gli avvenimenti storici e il romanzo: Il nome dato al viaggio imperiale («Viaggio per l'utilità della Russia») nonché la denominazione dei territori conquistati da Potemkin (Nuova Russia) coincidono con la missione che aveva segnato la vita di Gogol' e da lui trasmessa al suo personaggio: essere utile alla patria facilitando la nascita di una "Russia nuova". Obiettivo primario del viaggio organizzato da Potemkin con grande sfarzo (senza precedenti per ampiezza: 5.657 verste; per il numero di partecipanti: circa tremila; per durata: da gennaio 1787 a giugno 1787) era quello di mostrare ai dignitari delle la via maestra simile al cammino che conduce allo splendido palazzo destinato a residenza di rei [...]magli uomini le scivolavano accanto, immersi in una cicca oscurità» (N. Gogol', Le a11ime morte,cit., pp. 2.51-2.52.). H Cfr. la lettera del 1842. in cui Gogol' esorta P. A. Vjazemskij a dedicarsi alla stesura di un libro sul regno dell'imperatrice (N. Gogol', Polnoe sobra11ie socimmij, cit. voi. 12., 1952., Pis'ma {1842.-1845), p. 106. t noto che già dal 1830 lo scrittore aveva cominciato a leggere libri su Caterina II e su Potcmkin (cfr. N. P. Morozova, Gogol' t Ekaterina 11 (K voprosu o sjuzete povestt •Nol' pod Rozdestvom Ml, in Tradicii v ko11tekste russkoj kul'tury. Sb. Statej i materialov, v. 1, mu, Ccrcpovcc 1993, pp. 12.1-12.5. 4S Ju. Mann, Trudy i dni: 1809-1845, Aspckt Prcss, Moskva 2.004, pp. 32., 39, 49-50.

«TUITI A CHERSONI» CARTOGRAFIA Dl!LLI! «ANIME MORTI!»

potenze europee invitati a parteciparvi la vastità, la ricchezza, la potenza militare e l'influenza ormai acquistata sulla mappa del Vecchio continente dall'Impero russo che, per la sua vittoria sui tatari e sui turchi, diventava il primo difensore della cristianità. Il fine ultimo delle peregrinazioni di Cicikov dovrebbe essere quello di condurre il suo popolo a Cherson, nella Nuova Russia, le cui caratteristiche geografiche e sacrali avrebbero permesso un rinnovamento spirituale che da lì - come all'epoca della cristianizzazione - si sarebbe diffuso in tutto il paese, divenendo oggetto di ammirazione e modello per le altre nazioni. La città di NN si rivela una realizzazione del fraseologismo "i villaggi di Potemkin": tutto è costruito sull'apparenza, tutto è artatamente diverso da quel che appare, tutti mentono, stravolgono la realtà, si perdono letteralmente e metaforicamente. Sono distorti anche lo spazio geografico (sbilenche le case, curvilinee le strade), l'atteggiamento fisico e morale dei personaggi corrotti, la trasmissione dell'informazione46 . I contadini da trasferire a Cherson, comprati da Cicikov, sono vivi solo sulla carta e del resto il nostro truffatore evita di parlare direttamente di «anime morte», parlando invece di «anime inesistenti»47. Il fondo stradale della città, che per il narratore «era ovunque malconcio»4 8, nelle parole dell'adulatore Cicikov diventa liscio come un «un biliardo» 49 ; il giardino pubblico, «i cui alberelli stenti erano tenuti in piedi da sostegni triangolari verniciati con cura di verde [... ] non più alti di una canna», assume nei giornali locali le sembianze di «un parco ombroso, i cui alberi dalle grandi chiome regalano ristoro agli abitanti nei giorni di calura»5°. La grandiosa e teatrale accoglienza riservata a Caterina II nelle tappe del suo viaggio era stata pianificata per tempo dalle auto◄ 6 Su questo argomento dr. K. Solivctti, Spletnja i stil': iskrivlenie i krivda v •Mertvych dusachn Gogolja, in Toporovskie ltenja 1-1v, Izbrannoe, "Probe! 2000", Moskva 2010, pp. 215-226; K. Solivctti, A. Marccnko, Ko/eso i okolesica v poeme •Mertvie dusi" Gogolja, in Gogol' i xx vek: Materialy mei,du1,arod11oj konferencii ELTE. Russkaja literatura i kul'tura mei.du Vostokom iZapadom, Dolce Filologia VIII, l!LTE BTIC,

Budapest, 2010, pp.

◄7 N. Gogol', ◄ 8 Ivi, p. 10. ◄9

lvi, p. s0 Ivi, p.

12. 10.

199-209.

Le anime morte, cit., p.117.

CARLA SOLIVl!lTI

rità locali che avevano impartito precisi ordini di pitturare case e palizzate, di rendere le strade agevoli e di organizzare attrazioni per divertire la zarina. Il governatore di Kursk e Orel, Franz Klicka, angustiato dallo stato indecoroso del proprio territorio, morì improvvisamente per l'agitaziones 1 • Nel testo gogoliano la paura e il senso di colpa dilagante tra i notabili della città per la nomina di un nuovo Governatore generale e per il mistero sull'identità e sugli scopi di Cicikovs:z. - da loro accolto sulle prime con calore e festeggiamenti -, «non si sa bene perché ebbero effetto soprattutto sul povero procuratore», il quale «tornato a casa, si era fatto pensieroso e pensa e ripensa di punto in bianco, come si suol dire, era morto»H. È fatto storico che una delle quattordici carrozze del corteo imperiale nel viaggio verso la Crimea si ruppe e fu abbandonata a Ekaterinoslav (oggi Dnepropetrovsk), dov'è ancora esposta nel locale museo etnografico54. Probabilmente il dialogo dei due mugiki russi sull'inaffidabilità della ruota del calessino di Cicikov prende spunto proprio da tale episodio. Il viaggio dell'imperatrice nel meridione fornisce un'indicazione, pur se approssimativa, dell'ubicazione della città di NN: Caterina parte da Pietroburgo (da Carskoe Selo), passa per Smolensk, Kiev, Ekaterinoslav, Cherson, arriva in Crimea dove si ferma a Bachcisaraj, a Sebastopoli e a Feodosia, città dalla quale inizia il viaggio di ritorno a est, attraverso Taganrog, Cerkassy, Azov, per poi deviare verso ovest passando per Belgorod, Kursk, Orel, Tuia, Serpuchov, Mosca e proseguire a Nord attraverso Torfok per Novgorod e San Pietroburgo. Nelle Anime Morte Gogol' nomina fuggevolmente alcune città e governatorati che ci permettono di ricostruire parte delle peregrinazioni del protagonista. Il narratore ci informa, con il solito s• V. B. Stepanov, Namestniki i gubematory Kurskogo kra;a 1779-1917 gg.: http://old.kurskcity.ru/book/stepanov/namesto5.html [ultima consult. 4 febbraio 2012).

s~ "Tutte le ricerche dei funzionari servirono solo a stabilire che loro non sapevano affatto chi fosse Cicikov [... ] se uno da trattanere e arrestare come malintenzionato, o se invece uno in grado di trattenerli e arrestali tutti come maleintenzionati» (N. Gogol, Le anime morte, cit., pp. 233-234). n lvi, p. 250. S4 Cfr. il sito http://museum.dp.ua/ [ultima consult. 4 febbraio 2012).

«TUITI A CHERSONI» CARTOGRAFIA Dl!LLI! «ANIME MORTI!»

tono noncurante, di alcuni spostamenti del personaggio, mostrandocelo nell'intento di intrattenere l'avvenente biondina (che sbadiglia annoiata) su «una quantità di cose interessanti che già gli era capitato di tirar fuori in casi simili in diversi luoghi, e cioè: nel governatorato di Simbirsk [... ), nel governatorato di Rjazan' [... ], nel governatorato di Penza [... ] nel governatorato di Vjatka»55. Tappe da seguire sulla carta geografica con direzione però inversa rispetto alla sequenza che si ricostruisce dal romanzo: con partenza da Vjatka oltre la Volga, cioè da nord-est, il protagonista si sposta sempre più verso sud-ovest, in direzione di Cherson, attraverso Kazan', Simbirsk, Penza, Rjazan' fino all'arrivo nella città di NN, un percorso che, sulla carta geografica, si presenta come "retto", nella direzione di Cherson, dal Nord al Sud (fig. 2). Nel romanzo, legate a Cicikov, sembrano essere anche Mosca (qui ha comprato il famoso cofanetto nel quale conserva tutto ciò che ritiene utile e "segreto"), e Torzok (qui sembra aver comprato «gli stivali di marocchino con inserti colorati»), punti d'incontro del percorso di Cicikov con il viaggio di ritorno di Caterina. Tuttavia il passaggio a Mosca e Torfok, come forse quello in altre città, appare una delle tante deviazioni dalla "via maestra" verso il Sud compiute dallo stesso Cicikov, imputabili alla ruota "storta" del suo calesse56• Tra le città presenti nel romanzo di Gogol' incontriamo, anche qui nominata quasi di sfuggita, Tuia, evidentemente vicina alla città di NN, luogo di passaggio obbligato nella direzione di Mosca, anch'essa attraversata dal corteo di Caterina di ritorno verso il Nord. L'inserimento, altrimenti immotivato, del giovanotto che sfoggia una spilla di Tuia raffigurante una pistola di bronzo (Tuia era ss N. Gogol', Le anime morte, cit., pp. 201-202. ). f.: probabilmente Vjatka (oggi Kirov, una volta chiamata "Kolyn" ovvero "malfattore", "farabutto"), la cittadina dove ha inizio la vita di Cicikov, che nella biografia delineata dal narratore muove da un'infanzia fredda e sen1.a amore, un'adolescenza altrettanto isolata e segnata dai diseducativi precetti paterni come l'adulazione, il calcolo interessato, una maturità improntata al lavoro indefesso e alle rinunce, vanificati ogni volta dagli imbrogli cui alla fine ricorreva per arricchirsi in fretta e diventare finalmente un rispettato proprietario terriero con moglie e figli. s' Su questo argomento dr. K. Solivetti, Spletnja i stil': iskrivletlie i krivda v • Mertvych dusach" Gogo/ja, cit., pp. 215-226 e K. Solivetti, A. Marèenko, Koleso i okolesica v poeme "Mertvie dusi" Gogolja, cit., pp. 199-209.

166

CARLA SOLIVl!TII

rinomata per la produzione di armi leggere, di bronzo, rame ecc.) e che subito scompare dalla narrazione, è pretesto per citare la città stessa 57 • Viceversa, l'ufficiale di Rjazan', che prova e riprova gli stivali, anch'egli destinato a scomparire di lì a poco, non ha la funzione di introdurre la città, di marcare così un percorso geografico riconoscibile58 , bensì quella di evidenziare gli stivali, evidentemente acquistati dal "viaggiatore" nella città di NN 59 • Un modo, al solito obliquo, per suggerire metonimicamente che in quella città, come indicato dalle insegne «slavate dalla pioggia», oltre alle bevande alcoliche, ai capi d'abbigliamento, si vendono anche «taralli, stivali» 60, che del resto appaiono sulla copertina della prima edizione del 1842 delle Anime Morte, disegnata dallo stesso Gogo1' 61 • La città di NN dovrebbe quindi trovarsi nell'area dove appunto si incrociano il viaggio di Caterina e quello di Cicikov, forse Kursk, famosa per la lavorazione del pellame (gli stivali) o, a nord di Mosca, Torfok «che fa vigoroso smercio di stivali di marocchino con inserti colorati» 62 • È interessante notare che le città legate a Cicikov, fondate nell'antichità dai Russi come fortezze, e occupate dai Mongoli contro i quali hanno combattuto strenuamente, sono tutte per qualche ragione legate a Caterina 11 63. N. Gogol', Le anime morte, cit., p. 5. Rja7.an' compare altre volte nel testo sia come città attraversata da Ùcikov sia come ubicazione dei boschi dove imperversa il brigante Kopejkin. 59 N. Gogol', Le anime morte, cit. p. 182. '° lvi, p. 10. '' Cfr. A. d'Amelia, Mot et dessin dans /es manuscriptes des écrivains russes, in Diagonales dostoievskiennes. Mélmiges en l'hon,ieur de Jacques Catteau, Presses dc l'Univcrsitè dc Paris-Sorbonnc, Paris 2002, pp. 209-221: 217. ' 1 N. Gogol', Le anime morte, cit. p. 159. Tuttavia questi stivali sono usati come pantofole. Non è da escludere che TorJ.ok sia una delle tante deviazioni di Cicikov, e quindi possa essere il prototipo della città di NN. '1 La città più importante della provincia di Vjatka, chiamata nei secoli XVI e XVII Chlynov, fu rinominata Vjatka da Caterina II nel 1780 e con l'Istruzione dcll'11 aprile 1785 per la riforma dei governatorati fu riorganizzata amministrativamente e territorialmente. Anche Pereslavl'-Rjazanskij sembra sia stata rinominata più brevemente Rja1.an' per decreto dell'imperatrice nel 1778. A Tuia, invece, ormai una città nota per l'industria di armamenti leggeri, Caterina nel 1779 ratifica un piano di ricostruzione della città che diviene capitale del governatorato (come anche Penza e Kursk), crea il primo teatro professionale, una scuola e una biblioteca. 57

58

«TUITI

A

CHERSONI» CARTOGRAFIA Dl!LLI!

«ANIMI!

MORTI!»

Di fatto Cicikov si sta dirigendo verso Cherson, ma partendo da nord-est (Vjatka) verso sud-ovest rispetto al percorso di Caterina n, che parte invece da nord-ovest (Pietroburgo) verso sud-est e, sulla via del ritorno da Feodosia sceglie un itinerario spostato verso nord-est (Taganrog, Cerkassy, Azov, Belgorod), per poi dirigersi verso nord-ovest (Kursk, Orel, Tuia, Serpugov, Mosca, Torfok, Novgorod, San Pietroburgo). Cicikov si dovrebbe trovare in questa zona della Russia e comunque, pur considerando altre possibili deviazioni, si dovrebbe dirigere verso l'Ucraina64, patria dei cosacchi e inizio delle terre nere, la cui fertilità è simbolo di potenziale rinascita. Uno spazio centrale tra settentrione e meridione6 5 sulla "soglia" della vecchia Russia (Rus'), come "sulla soglia" è lo stesso Cicikov: ancora "nel mezzo del cammin" della propria vita (ha quarant'anni) il nostro trafficante, come altri personaggi gogoliani, è ancora "né carne né pesce", né giovane né vecchio, né grasso né magro, né un completo farabutto né un santo. Un personaggio di fronte al quale si apre la possibilità di prendere sia la via del male sia quella del bene perché, contrariamente alle altre creature gogoliane, non si lascia abbattere, è attivo, caparbio, mostra idee e capacità imprenditoriali. Gogol' del resto giustifica gli "errori" del suo personaggio quasi fossero quelle "cadute" che il Signore accoglie per spingere l'uomo a rialzarsi (le parole dell'apostolo Paolo «Bisogna prima morire per poi rinascere», sono alla base del significato del titolo-sintagma "anime morte"). Sostiene infatti: «forse la passione che trascina Cicikov non viene da lui, forse '4 Nel 1830 rispondeva alla madre a proposito di un romanzo da lei attribuitogli: «L'azione del romanzo si svolge nel profondo della Russia dove non sono mai stato. Se dovessi scrivere qualcosa del genere, sceglierci la Piccola Russia, a mc nota, piuttosto che paesi e uomini di cui non conosco né gli usi né i costumi»; cit. in I. A. Vinogradov, Gogol'. Chudoinik imyslitel', "Naslcdic", IMLI RAN, Moskva 2000, p. 316. Cfr. l'inizio del secondo volume dove si parla della nuova località dove si è recato Cicikov come un luogo dove «il settentrione e il meridione del regno vegetale si erano qui raccolti insieme: la quercia, l'abete, il pero selvatico, l'acero, il ciliegio, il rivo, il citiso, e il sorbo, avviluppati dal luppolo, ora aiutandosi l'un l'altro, ora soffocandosi a vicenda, si inerpicavano per tutto il pendio» (N. Gogol', Le anime morte, cit., p. 304). t probabile che un confronto tra le piante citate e gli elenchi di Gogol' delle zone in cui queste crescono potrebbe darci l'ubicazione del distretto di Trcmalachansk, nome di proposito inventato dal "sibillino" Gogol'.

's

168

CARLA SOLIVl!lTI

nella sua fredda esistenza è racchiuso qualcosa che saprà ridurre gli uomini in polvere, in ginocchio al cospetto della sapienza celeste» 66 • Se osserviamo la carta geografica, eccetto Vjatka, tutte le altre città collegate a Cicikov si trovano entro i confini dello spazio geografico e simbolico delle Anime morte, cioè nella zona della Rus' kieviana e della Moscovia. Del resto Gogol' si attiene alle convinzioni di cui abbiamo parlato all'inizio: l'importanza della funzione di frontiera dei confini naturali che hanno dato «agli avvenimenti un'altra direzione» e mutato «l'aspetto del mondo, isolando e condannando all'immobilismo un popolo e spingendo un altro ad espandersi», poi soprattutto la certezza che un sistema di governo «non siano affatto gli uomini a costituirlo, e lo costituisca bensì, insensibilmente, la disposizione stessa di quella sua terra; e che appunto perciò le forme di esso sono sante, e un mutamento che vi intervenisse dovrà inesorabilmente attirar la sventura su quel popolo» 67• Si capisce allora perché l'Europa e Pietroburgo che la "scimmiotta" (con la provincia che a sua volta "scimmiotta" la capitale) siano caratterizzate in senso negativo: Pietroburgo rappresentava l'imposizione di modelli di vita stranieri a una società patriarcale strettamente legata alle proprie tradizioni sociali e religiose, per la quale la stessa edificazione della nuova città "artificiale" costituiva una sfida alla natura e ai confini territoriali della Russia prepetrina68 , considerati da Gogol' "sacri". Coerentemente il testo propone al lettore due mondi completamente diversi. C'è la Russia contemporanea a Gogol', con i dettagli della quotidianità, dai comportamenti alle predilezioni culinarie, ai differenti stili di vita (della capitale, della provincia, delle proprietà terriere), con i realia storici (russi ed europei) e le stratificazioni sociali dovute a una rigida organizzazione gerar'' N. Gogol', Le anime morte, cit., p. 2.93. ' 7 N. Gogol', Sull'inseg,ramento della storia u11iversale, cit., p. 910. ' 1 Cfr. a questo proposito i miti di Pietroburgo nell'Ottocento in cui prevale la visione "pessimistica" della città, dei quali ha scritto E. Lo Gatto, Il mito di Pietroburgo, Feltrinelli, Roma 2.003, e V. N. Toporov, Peterburgski/Tekst, Nauka, Moskva 2.009, in particolare pp. 106-481, 644-777. Per una breve panoramica in italiano del mito di Pietroburgo fino ad oggi cfr. C. Solivetti, I topo11imi di Pietroburgo e la memoria letteraria, in F. Fiorentino (cur.), Figure e forme della memoria culturale, Quodlibct, Macerata 2.011, pp. 163-192..

«TUITI A CHERSONI» CARTOGRAFIA DELLE «ANIME MORTI!.»

chica (burocrati, proprietari terrieri, mercanti, servi della gleba). Un mondo superficiale, propenso alla frode, immobile, come pietrificato nella morte di ogni forma di vita emozionale e spirituale. Accanto a questa Russia si profila l'antica Russia patriarcale (Rus'), sognata come ideale, ma luogo geopolitico preciso di cui Gogol' definisce i confini, vivaio di bogatyry, di eroi, di cosacchi liberi e coraggiosi. Se da una parte il territorio dell'antica Russia, raccogliendo ormai la banale volgarità di tutto il paese, coincide con la Russia contemporanea allo scrittore, dall'altra essa rappresenta un mondo d'altri tempi al quale il tradizionalista Gogol' auspica utopisticamente un ritorno. Ciò spiegherebbe l'alternanza nel testo del termine Rus' - che allude al periodo prepetrino - e di Rossija, quando ci si riferisce a quello posteriore69. Solo l'interazione di Cicikov e delle sue "anime morte" con questi territori ad elevato potenziale di rigenerazione permetterà al popolo russo di uscire dal circolo vizioso della vita statica, superficiale e corrotta per tornare sulla "retta via" che conduce alla salvazione. Nel primo volume le tappe del futuro cammino di Cicikov restano indefinite, ma la meta è chiara, Cherson: la direzione verso il Sud è, del resto, confermata dal secondo volume che, pur fornendo il nome immaginario del governatorato di Tremalachansk, descrive un paesaggio decisamente diverso dal precedente. La vegetazione più ricca, le condizioni atmosferiche primaverili, le giornate chiare e assolate denunciano l'avvicinamento di Cicikov al meridione70, verso Cherson. Da questo spazio storicogeografico sacro la nuova Rus' -trojka, spiritualmente rigenerata, un giorno si leverà trionfante costringendo, come nel viaggio di Caterina in Crimea, altri popoli e altri Stati a farsi da parte per guardarla invidiosi e ammirati. Ahi trojka, alata trojka, uccello di fuoco, chi ti ha inventato? Certo un popolo audace ti ha partorito, una terra che fa sul scrio, e lenta e regola'9 Su questo argomento cfr. l'articolo di V. Krivonos, "Mertvle dusi" Gogol/a: Rus', Rossi/a, Europa, in Gogolevskij sbornik, vyp. 3 (5), PGSGA, Sankt-PctcrburgSamara 2009, pp. II3-128. 10 Cfr. E. S. Smimova-Cikina, Poema Gogol/a •Mertvye dusi". Kommentarl/, Prosvcsccnic, Lcningrad 1974, pp. 229-230.

CARLA SOLIVl!TII

170

re si è estesa su mezzo mondo, che a contare le pietre miliari ti si annebbia la vista! [... ] e vorticano i cavalli, e i raggi delle ruote si fondono in un cerchio uniforme, trema la terra, urla di spavento il pedone impietrito! Ed ecco vola via, via, via! [... ] Forse sei tu, vecchia Russia [Rus' C.S.] quella audace, irraggiungibile trojka? [... ] Qual è il senso di questa terribile corsa? Che ignota forza è racchiusa in questi cavalli, ignoti al mondo?[ ... ] Avete inteso all'unisono un canto familiare, e subito all'unisono avete gonfiato il bronzeo petto, e quasi non sfiorano terra gli zoccoli e vi lanciate nello spazio, e sfreccia la trojka ispirata da Dio! Vecchia Russia [Rus' C.S.], dove corri? Rispondi! Non risponde. Tintinnano squillanti le sonagliere, rimbomba l'aria e si straccia in folate di vento; turbina intorno ogni cosa sulla terra, e scansandosi si fanno da parte e le cedono la strada popoli e nazioni7 1 •

11

N. Gogol',

Le anime morte, cit., p. 2.99.

Topografia e metafisica nel Maestro e Margherita di Michail Bulgakov Rita Giuliani

Per tutto l'arco della sua attività letteraria Michail Bulgakov dedicò una particolare attenzione alla città, dimostrando di essere uno scrittore prettamente urbano. Teatro dell'azione nella sua opera sono soprattutto grandi città come Kiev, Parigi, Mosca, Roma, Gerusalemme, che configurano una sorta di pentagono geografico irregolare, con un lato idealmente più lungo degli altri: Mosca. Nel romanzo La guardia bianca (Belaja gvardija, 19241925) Kiev, città natale dello scrittore, è indicata semplicemente come "Gorod", la Città per antonomasia, al pari dell'Urbs classica 1 • Mosca campeggia nell'opera bulgakoviana come co-protagonista, più che come sfondo, e questo fin dall'inizio degli anni Venti, dal momento stesso (1921) in cui lo scrittore vi si trasferisce definitivamente. Si vedano i feuilletons degli anni Venti, gli Appunti sui polsini (Zapiski na manf.etach, 1922-23) ecc.2. Delle città (Kiev, Mosca, Gerusalemme) egli guarda soprattutto il centro storico, non la periferia. I suoi testi si possono leggere con interesse anche dal punto di vista topografico, dal momento che la loro precisione toponomastica è alta. Al riguardo un caro amico dello scrittore, Sergej Ermolinskij, ha scritto: «Nel romanzo Il Maestro e Margherita i dettagli di vita quotidiana moscovita sono riportati con un'esattezza e fedeltà assolute, e proprio su questo terreno si sviluppano gli avvenimenti fantastici scatenati da Woland»3. Sappiamo che, quando scriveva un 1 Cfr. M. Petrovskij, Master ; Gorod. Kievskie konteksty Michai/a Bulgakova, Duch i Litera, Kiev 2001. 1 Cfr. B. Mjagkov, Bulgakovska;a Moskva, Moskovskij rabocij, Moskva 1993, pp. 15-37; cfr. anche L. Fialkova, Moskva v proizvedetiijach M. Bulgakova i A. Belogo, in Bulgakov-dramaturg i chudoiestvetmaja kul'tura ego vremeni, sostav. A. A. Ninov, Sojuz Teatral'nych dejatelej RSFSR, Moskva 1988, pp. 358-368. 3 Cit. in G. Lesskis, K. Atarova, Putevoditel' po roma11u Michaila Bulgakova •Master i Margarita", Raduga, Moskva 2007, pp. 281-282.

RITA GIULIANI

testo, Bulgakov consultava le carte topografiche4. Ulteriore prova della sua meticolosità topografica ci è fornita da Ettore Lo Gatto che ha ricordato come, durante un suo soggiorno in uRss, nel 1931, lo scrittore gli chiedesse notizie sulla statua di Molière collocata, a Parigi, sulla Fontaine Molière, all'angolo tra rue Molière e rue de Richelieu 5• All'epoca, Bulgakov stava approntando i materiali preparatori per la Vita del signor di Molière (Zizn' gospodina de Mol'era), biografia romanzata del drammaturgo francese, che stese tra il 1932 e il 1933. Data l'ampiezza che il tema urbano ha nell'opera di Bulgakov, in questa sede mi limiterò a prendere in considerazione l'argomento relativamente a Il Maestro e Margherita (Master i Margarita ), romanzo a cui lo scrittore lavorò dal 1928 all'inizio del 1940, lasciando il testo incompiuto dopo circa otto redazioni (ma sul loro numero - sei o otto - non c'è accordo tra gli studiosi). Nella complessa trama del romanzo si intersecano tre linee tematiche fondamentali. La prima è quella del ritorno di Satana sulla terra, nella Mosca degli anni Trenta, sotto le spoglie di un professore di magia nera, Woland, accompagnato da un seguito diabolico che si incarica di smascherare ipocrisie e avidità, mettendo in subbuglio tutta Mosca e riempiendo il locale manicomio di cittadini deliranti. La seconda linea è quella della Passione e morte di Gesù (Yeshua6 nel romanzo) e del tardivo tormento di Pilato. La terza è la travagliata storia d'amore del Maestro e di Margherita. Il romanzo si apre con l'azione inserita in coordinate spaziotemporali precise e chiarissime dal punto di vista topografico: siamo a Mosca, un'afosa sera di maggio agli Stagni del Patriarca (Patriarsie prudy), nel quartiere Presnenskij. Dopo la morte del giornalista Berlioz sotto un tram, il suo giovane collega Ivan Bezdomnyj si lancia, attraverso i centralissimi quartieri Presnenskij e Arbat, all'inseguimento del professore straniero (Woland) che aveva predetto a Berlioz l'imminente morte per decapitazione. Nel prosieguo dell'azione vengono descritti e/o nominati nume◄

Cfr. L. Janovskaja, Gorizontali i vertikali Ersa/aima, ..Voprosy literatury", 3, elettronica: http://magazines.russ.ru/voplithoo2'3/ianov.hnnl [ultima consult. 14 gennaio 2012). s Cfr. E. Lo Gatto, I miei iticontri con la Russia, Mursia, Milano 1976, p. 109. ' Nella tradu1ione che citeremo, "Jeshua". 2002; versione

TOPOGRAFIA E METAFISICA NEL «MAESTRO E MARGHl!RITA•

1 73

rosi edifici, alcuni dei quali sedi di istituzioni culturali, come la Casa di Griboedov e il Teatro Variété, o di grandi magazzini e ospedali, come il Torgsin e la clinica psichiatrica del professor Stravinskij. Altri edifici sono invece case d'abitazione, come la Casa del Dramlit, il caseggiato al n. 302 bis della via Sadovaja7, dove prende alloggio Woland col suo seguito diabolico, la palazzina neo-gotica dove vive Margherita, lo scantinato in cui abita il Maestro e così via. L'esattezza topografica e toponomastica del testo ha fatto sì che si sia scatenata una caccia ai luoghi reali, agli edifici concreti nominati nel romanzo, ai "prototipi" non solo umani ma anche edilizi e urbanistici che si nascondono dietro alla finzione romanzesca. Fanno infatti da sfondo al piano moscovita dell'azione il centro storico della città, soprattutto i quartieri dell'Arbat e Presnenskij, e anche luoghi ed edifici particolarmente significativi nella storia e nell'architettura moscovite, quali i Monti dei Passeri (Vorob'iivy gory), altura da cui Napoleone contemplò Mosca, e la neoclassica Casa Paskov (Dom Paskova), sul colle di Vagan'kino prospiciente il Cremlino. Stabilita la topografia della Mosca bulgakoviana non si è però, a nostro avviso, fatto granché. Non appare produttivo ricostruirla in dettaglio, dal momento che sull'argomento esiste già una copiosa letteratura 8• Basta entrare nei tanti siti russi che raccontano la storia degli edifici variamente identificati come luoghi dell'azione del romanzo9, o, se si è sul posto, iscriversi a una delle numerose visite guidate ai luoghi immortalati dal Maestro e Margherita. In realtà a che serve sapere quale fosse il seminterrato in cui vive-va il Maestro? Non sarebbe più interessante interrogarsi sul senso 7 Il caseggiato, un elegante palazzo liberty al numero civico IO della via Bol'saja Sadovaja, ritorna in molte prose di Bulgakov: N. 13. Casa El'pit-Comune operaia, Il salmo, Un lago di vodka casali11ga, Tre tipi di porcherie. Lo scrittore vi aveva vissuto dal 1921 al 1924. Attualmente, lo stabile ospita due musei intitolati a Bulgakov. 8 Cf. B. Mjagkov, Bulgakovskie mesta (Literaturno-topografileskie ocerki), in Tvorcestvo Michaila Bulgakova. Jssledov011i;a. Materialy. Bibliogra{i;a, kn. 1, otv. red. N. A. Gromova, A. I. Pavlovskij, Nauka, Leningrad 1991, pp. 142-174; D. Di Sora, L. Negarville, Mosca, la città del Maestro con i diari inediti di Michai/ Bulgakov e 23 immagi11i di I. Muchin, Biblioteca del Vascello, Roma 1991; B. Mjagkov, Bulgakovska;a Moskva, cit.; L. Bojadfjeva, Moskva bulgakovska;a, Astrel', Moskva 2009. ' Cfr., tra i tanti, il sito http://trassa.narod.ru/moscow/bulgakov/master208.htm [ultima consult. 14 gennaio 2012).

1 74

RITA GIULIANI

del seminterrato? Luoghi chiave dell'azione romanzesca, quali il palazzo di Erode il Grande a Gerusalemme, la Casa Paskov e i Monti dei Passeri a Mosca, sono in posizione elevata, ma il Maestro abita in un seminterrato10• Può questo particolare alludere alla dimensione di solitudine e di esclusione dal mondo in cui vive lo scrittore? Può essere una reminiscenza del "sottosuolo" dostoevskiano? In russo "clandestino" si dice podpol'nyj, podpol'scik, "sotterraneo". Lo scrittore, l'intellettuale è forse un clandestino? C'è dunque nel romanzo un ritratto dell'artista da clandestino? Altra domanda interessante da porsi è se gli itinerari che i personaggi seguono nel romanzo siano semanticamente significativi, se abbiano un senso, magari occulto. Ciò è molto probabile. Ha scritto Nina Mednis: «Nella cultura la carta topografica è una variante della metafora visiva, e proprio per questa sua qualità si è rivelata molto interessante per la letteratura» 11 • Durante l'inseguimento di Woland, ad esempio, Ivan Bezdomnyj ripete nella sostanza il rituale del battesimo: spogliatosi, scende i gradini della scalinata di granito antistante la chiesa di Cristo Salvatore (dove fino al 1931 c'era una vasca battesimale chiamata "il Giordano") e si immerge seminudo nelle acque della Moscova: quasi la discesa in una fonte battesimale. Una volta uscito dall'acqua, Ivan prosegue l'inseguimento del sedicente professore straniero, (ormai in forte odore di zolfo), armato di una piccola icona di carta e di un cero nuziale (420-421) 12 • Nella spasmodica ricerca di un codice per decifrare la cifra del romanzo si sono però commessi tanti e tali delitti ermeneutici, si • 0 Varie ipotesi sono state avanzate sul "prototipo" del seminterrato, individuato di volta in volta in stabili con indirizzi diversi (cfr. B. Mjagkov, Bulgakovska;a Moskva, cit., pp. 170-176). Bulgakov non visse mai in un seminterrato, dal 1928 al 1932 visse in un appartamento al pianterreno della via Bol'saja Pirogovskaja (n. 35, int. 6, dr. illustrazione in Michail Bulgakov. i tvorcestvo. Fotoal'bom, sostav. B. S. Mjagkov, B. V. Sokolov, Ellis Lak, Moskva 2006, p. 200), che non è comunque identificabile con l'alloggio del Maestro. 11 N. E. Mednis, Kartograficeskie obrazy v literature, in Interpretaci;a teksta: s;ldet i motiv. Sbomik ,wubrych trudov, otv. red. E. K. Romodanovskaja, Sibirskij Chronograf, Novosibirsk 2001, p. 136. 11 M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, tradu1Jone di V. Dridso, in Id., RomanZi e racconti, a cura di M. Cudakova, Mondadori, "I meridiani", Milano, 2000, pp. 355-867. I numeri tra parentesi che seguono le cita1Joni di passi del romanzo si riferiscono a quest'edizione.

nzn'

TOPOGRAFIA E METAFISICA NEL «MAESTRO E MARGHERITA•

1 75

è così ecceduto in quella che Umberto Eco chiama «sovrainterpretazione» che preferisco tornare al tema di questo intervento: la topografia e la geografia del romanzo bulgakoviano. Nella narrazione, alla Mosca contemporanea corrisponde, specularmente, la Gerusalemme del I secolo dell'era cristiana, descritta dal Maestro nel suo romanzo su Pilato. Sulla vicenda neotestamentaria Bulgakov si era documentato con grande scrupolo. Prima dell'inizio del lavoro aveva steso dei materiali preparatori e dal 1936 si era avvalso del libro del professore dell'Accademia Ecclesiastica di Kiev N. Makkavejskij Archeologia della storia della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo (Archeologija istorii stradanij Gospoda Iisusa Christa, Kiev 1891 ), sulla Gerusalemme del I secolo dopo Cristo. A lavoro quasi ultimato, nella redazione manoscritta del 1938, egli controllò nuovamente, appuntandoli su due quaderni, la cronologia degli eventi narrati, i nomi, le date e i riferimenti storici su Pilato e sulla Gerusalemme dell'epoca 1 3. Lo sfondo storico della vicenda gerosolimitana è curato con una precisione miniaturistica, in cui si intrecciano lavoro di documentazione, citazione dotta e piacere personale. Lo scrittore mostra una cura attentissima nel disegnare la pianta della Gerusalemme dell'epoca, fin nel rispetto dell'esposizione del palazzo di Erode il Grande, dell'altezza e della posizione del sole rispetto a personaggi e a cose, con una precisione quasi visiva, fotografica, del tracciato delle vie che uscivano dalla città14 • Ad esempio, il palazzo di Erode il Grande, in cui si svolge l'interrogatorio di Yeshua, è situato su un alto colle, nella parte occidentale di Gerusalemme, con la facciata rivolta a oriente, verso il Tempio, particolari che Bulgakov tiene ben a mente nell'episodio dell'interrogatorio di Yeshua da parte di Ponzio Pilato: «il procuratore guardò l'arrestato, poi il sole che saliva inesorabile sopra le statue equestri dell'ippodromo, in basso sulla destra, [... ] ebbe di fronte 11 Cfr. M. O. Oidakova, Archiv M. A. Bulgakova. Materialy dlja tvorleskoj biografii plsate/ja, «Gosudarstvennyj ordena Lcnina Biblioteka sssR imeni V. I. Lcnina.

Zapiski otdela rukopiscj» vyp. 37, Moskva 1976, p. 131. 1 ◄ Cfr. L. Janovskaja, Gorizantali i vertika/i Ersalaima, cit. La cura e il controllo dei dettagli topografici e cartografici della Gerusalemme del I secolo, assente nelle prime redazioni del romanzo, iniziarono nella primavera del 1938.

RITA GIULIANI

a sé tutta l'odiata Jerushalaim con i ponti sospesi, le fortezze e, soprattutto, l'indescrivibile massa di marmo con squame di drago dorate in luogo del tetto- il tempio di Jerushalaim» (383, 395). La topografia della Gerusalemme bulgakoviana è talmente precisa che, così come a Mosca, anche a Gerusalemme agenzie turistiche offrono ai turisti visite guidate sui luoghi e lungo i percorsi descritti nel romanzo, anche se ormai irriconoscibili o scomparsi. La Gerusalemme di Bulgakov non è l'equivalente di un set cinematografico di cartapesta, ma uno straordinario medaglione "romano". È una piccola Roma che l'autore si diletta a ricostruire in una provincia orientale dell'impero. Nel romanzo egli si concede un'immersione in quella "romanità" che aveva invano cercato di ricreare nella riduzione scenica delle Anime morte di Gogol', commissionatagli dal Teatro d'Arte, e la cui ambientazione romana Stanislavskij gli aveva bocciato. «La mia Roma è stata distrutta non appena ho iniziato a esporre il mio progetto. E mi dispiace infinitamente per la mia Roma!» 1 s, scrisse amareggiato Bulgakov nel 1932. Nelle redazioni del romanzo successive alla bocciatura della variante "romana" della pièce, l'azione del piano gerosolimitano-romano si amplia, distendendosi su più capitoli. Con erudizione e passione l'autore indugia sui particolari del vestiario e del cibo in uso all'epoca, sulla composizione e l'organizzazione delle truppe romane di stanza a Gerusalemme, sulla descrizione del palazzo di Erode, della piazza antistante e dei vicoli della città bassa. Simbolo di un potere statale, militare e burocratico-amministrativo forte, tentacolare ed efficiente, Roma ben si prestava ad essere metafora del potere sovietico, i cui metodi, fatti oggetto di una satira feroce nei capitoli moscoviti, stavano dando terribile prova di sé negli anni del Terrore. Ad onta della fascinazione che Bulgakov provava per Stalin, non sarebbe azzardato sovrapporre all'immagine di Tiberio, imperatore tirannico e capriccioso, che balena agli occhi di Pilato, quella di Stalin. È stato notato come, alla predicazione anarcoide di Yeshua, Pilato dia •s M. Bulgakov, Dnevtiiki. Pis'ma 1914-1940, Sovrcmcnnyj pisatcl', Moskva 1997, p. 2.74. Cfr. anche K istorli postanovki «Mertvych dus» v MChT, publik. D. A. Blagova, in Tvorlestvo Michaila Bu/gakova, kn. 1, Nauka, Lcningrad 1991, pp. 2.63-2.75.

TOPOGRAFIA E METAFISICA NEL «MAESTRO E MARGHERITA•

1 77

una risposta d'ufficio - «Non vi è mai stato al mondo, non vi è e non vi sarà mai un potere più grande e più splendido per gli uomini del potere dell'imperatore Tiberio!» (391) - che riecheggia gli slogan sovietici degli anni Trenta 1~ inneggianti a Stalin. Altro elemento "romano" del romanzo è la neoclassica Casa di Paskov, a Mosca, "romana" sia per la struttura architettonica11, sia perché nel capitolo Il destino del Maestro e di Margherita viene deciso, guardando il panorama che si apre dalla sua terrazza, il diavolo Azazello, all'annotazione di Woland «Che città interessante, non è vero?», risponde con la celebre frase «Messere, a me piace di più Roma» (819). La battuta ha un intertesto gogoliano, poiché proprio su quella stessa terrazza, contemplando la città ai suoi piedi, nell'estate del 1851 Gogol' osservò: «Come mi ricorda questa veduta la Città eternal» 18. La descrizione di Gerusalemme è contenuta nel romanzo del Maestro. Siamo quindi di fronte a un romanzo nel romanzo, a una narrazione speculare, a un procedimento di mise en abyme procedimento frequentissimo nel Maestro e Margherita 19 -, che non è solo mise en abyme tematica - nella narrazione principale e in quella del Maestro è centrale il tema della codardia - ma anche geografica: la città nella città, Gerusalemme ricreata, "contenuta" nella città di Mosca. Luogo dell'azione sono dunque due città sante della cristianità: a Mosca, che è al tempo stesso Terza Roma e Nuova Gerusalemme, si ripete, moltiplicandosi all'infinito, l'antico peccato di codardia consumato a Gerusalemme da Pilato. Riguardando con pessimismo il processo storico, Bulgakov vede non le divergenze, ma i parallelismi tra le due epoche e società, entrambe insofferenti della libertà di pensiero e dominate dalla viltà nei confronti del potere, dal conformismo dettato 16 Cfr. G. El'baum, Anali,:, judejskich glav «Mastera i Margarity» M. Bulgakova, Ardis, Ann Arbor 1981, p. 71. 11 Cfr. C. Di Meo, R. Giuliani, Riflessi del mito di Roma nell'architettura russa. Prima parte. XVIII e XIX secolo, in «Toronto Slavic Quarterly. Academic Electronic Joumal in Slavic Studies», n. 21, Summcr 2007, http://www.utoronto.ca/tsqh1/giuliani21.shtml (ultima consult. 14 gennaio 2012); R. Rachmatullin, Dve Moskvy, ili Meta{izika stolicy, AST Olimp, Moskva 2008, pp. 82-83. 18 Cit. in R. Rachmatullin, Dve Moskvy, ili Metafizika stolicy, cit., pp. 83-84. 19 Cfr. R. Giuliani, Pilat u Bulgakova: ot struktury k poetike «Mastera i Margarity», Krakow, in corso di stampa.

RITA GIULIANI

dalla paura e dalla convenienza, dalla viltà tout court, lo stigma che, a partire dal racconto La corona rossa (Krasnaja korona, 1922), segna tanti personaggi bulgakoviani. Lo scrittore collega specularmente le due città attraverso una nutrita serie di procedimenti e motivi, soprattutto attraverso la mise en abyme. Il parallelismo è rafforzato dalla descrizione delle due città: entrambe sono viste dall'alto, nell'ora del tramonto e, dopo la morte di Yeshua e del Maestro, vengono inghiottite dalla medesima tenebra temporalesca e lavate da una pioggia che non lava. Come in un dramma sacro, nelle due città ritroviamo personaggi portatori dalle medesime "funzioni" e che si configurano, al di là della felice caratterizzazione individuale, come "figure" nel senso biblico, figure della fedeltà, dell'amore, del tradimento, dell'artista. Del resto, l'importanza della Bibbia per Bulgakov, come del grande, potente codice della letteratura, è nota ed evidente. La Bibbia gli offriva la chiave per interpretare e dar senso e finalità ad avvenimenti storici, come la rivoluzione e la guerra civile. Si veda l'epigrafe apposta al romanzo La guardia bianca, tratta dall'Apocalisse: «I morti vennero giudicati secondo le loro opere, in base a ciò che era scritto in quei libri». L'esattezza topografica della descrizione delle due città è parte di un giuoco molto raffinato: le due città sono infatti città metafisiche, visitate l'una da Cristo e l'altra da Satana che, ricordiamolo, erano i protagonisti delle prime redazioni del romanzo. Sia Mosca sia Gerusalemme scompaiono, inghiottite dalla tenebra temporalesca che viene dall'Occidente, ovvero dal luogo del demonio, opposto a quell'Oriente da cui si leva la luce. La descrizione della tenebra temporalesca e del nubifragio che si abbatte su Gerusalemme durante la Crocifissione si ripete due volte nella narrazione principale: dapprima la legge Margherita nel manoscritto dell'amato, poi la ripete Azazello al momento dell'incontro con la protagonista: Le tenebre, venute dal Mediterraneo, coprirono la città odiata dal procuratore. Scomparvero i ponti sospesi che univano il tempio alla terribile torre Antonia, l'abisso discese dal ciclo sommergendo gli dèi alati sopra l'ippodromo, il palazzo degli Asmonei con le sue feritoie, i mercati, i caravanserragli, i vicoli, gli stagni... Sparì Jerushalaim, la grande città, come se non fosse mai esistita (637-638, cfr. 645).

TOPOGRAFIA E METAFISICA NEL «MAESTRO E MARGHERITA»

1 79

Quasi con le stesse parole il narratore dell'azione principale descrive la tenebra apocalittica gonfia di pioggia che inghiotte Mosca al momento della partenza di Woland e dei due protagonisti: «Quelle tenebre, venute da occidente, coprirono la città immensa. Scomparvero i ponti, i palazzi. Tutto sparì, come se non fosse mai esistito. L'intero cielo fu attraversato da un unico filamento di fuoco. Poi la città fu scossa da un tuono. Questo si ripeté e il temporale ebbe inizio» (824). Questi passi evocano la distruzione di un'altra «grande città» (velikij gorod}: la Babilonia dell'Apocalisse: «Poi un potente angelo sollevò una pietra grossa come una grande macina, e la gettò nel mare dicendo: "Così, con violenza, sarà precipitata Babilonia, la gran città, e non sarà più trovata"» (Ap., 18, 21). Da Roma in miniatura, la Gerusalemme bulgakoviana si trasforma nella Gerusalemme celeste dell'Apocalisse giovannea, di cui è scritto: «L'angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio» (Ap., 21,10). Alla fine del romanzo, osservata dalla cima di una montagna, Gerusalemme riaffiora dall'abisso della storia: «Sul nero abisso nel quale erano rovinate le mura si accese una città immensa, con gli idoli lucenti che la dominavano sopra un giardino rigoglioso cresciuto nel corso di molte migliaia di lune. Proprio fin fi, al limitare di questo giardino, si protese la strada illuminata dalla luna, tanto attesa dal procuratore» (848-849 ). In questa "nuova Gerusalemme" la morte di Yeshua e il peccato di Pilato vengono annullati, come se mai ci fossero stati. Nel sogno che lo agita ad ogni plenilunio di primavera, Ivan vede Pilato e Yeshua discutere animatamente lungo la strada lunare: «Numi, numi!» dice l'uomo col mantello, rivolgendo il volto alterato al compagno. «Che supplizio triviale! Ma tu, ti prego, dimmi», il suo volto, qui, da altero si fa implorante, «non c'è stato, il supplizio! 1i scongiuro, dimmi che non c'è stato.» «Ma certo che non c'è stato» risponde con voce roca il compagno, te lo sci immaginato soltanto.» «E lo puoi giurare?» prega insinuante l'uomo col mantello. «Lo giuro!» risponde il compagno, e i suoi occhi, chissà perché, sorridono (866).

180

RITA GIULIANI

È scritto nell'Apocalisse che nella civitas Dei non ci sarà più né pianto, né lutto, né lacrime, lì il lupo pascerà con l'agnello, come ha profetizzato Isaia. Il lupo Pilato con l'agnello Yeshua. Tutto questo avviene nella quinta dimensione, luogo dello scioglimento delle vicende del romanzo. La quinta dimensione convive nel romanzo con la precisione topografica e toponomastica dei luoghi teatro dell'azione nei piani moscovita e gerosolimitano. Bulgakov scriveva compulsando carte topografiche, ma poi trasportava parte dell'azione nella quinta dimensione, che all'epoca era al centro di studi di carattere scientifico-filosofico, che trovavano un'eco anche in campo artistico. La topografia non serve a nulla, le tre dimensioni non servono a nulla. La soluzione dei problemi che agitano la vita del personaggi si dà non in 3D, ma in un'altra dimensione, che è al tempo stesso metafisica, escatologica, fantastica. Bulgakov si riconosceva allievo di Gogol' e come tale si comportava. Anche per quel che riguarda geografia e topografia. Chi non ricorda come il racconto Il naso di Gogol' inizi con l'indicazione di un luogo preciso e di una data, con un incipit impeccabilmente realistico? «Il venticinque marzo accadde a Pietroburgo un fatto di eccezionale stranezza. Il barbitonsore Ivàn Jàkovlevic, con dimora al Corso Ascensione [... ] si destò assai di buon'ora» 20• Di lì a poco però il barbitonsore trova un naso in un fragrante panino, mentre contemporaneamente il protagonista, il maggiore Kovalev, si sveglia nel suo appartamento di via Sadovaja (stessa toponomastica che ritroveremo nel Maestro e Margherita!) senza naso, parte anatomica che, a sua volta, se ne va in giro per Pietroburgo accigliata, in uniforme e che dà ordini al cocchiere. Il protagonista del Diario di un pazzo si compiace di una sua scoperta: «Ho scoperto che Cina e Spagna sono assolutamente un unico paese, e solo per ignoranza vengono considerati due stati diversi. Io consiglio espressamente a tutti di scrivere Spagna sovra ad un foglio - e verrà fuori Cina» 21 • 10 11

N. Gogol', Tutti i racconti, trad. di L. Pacini Savoj, Casini, Roma 1957, p. 681. Ivi, p. 674. Il corsivo è del traduttore.

TOPOGRAFIA E METAFISICA NEL «MAESTRO E MARGHERITA»

181

Al riguardo, non s'invochi lo stato di confusione mentale del protagonista, ché nel racconto Roma il diavolo, preso in sogno Peppe per il naso, lo trascina dalla chiesa di Sant'lgnazio fino alla scalinata di Trinità dei Monti: «cominciando dalla chiesa di Sant'Ignazio, poi lungo tutto il Corso, poi per vicolo dei tre Ladroni e via della Stamperia, per fermarsi infine proprio sulla scalinata della Trinità»2.2.. A fronte di indicazioni topografiche così precise, la verosimiglianza del percorso risulta però del tutto falsata: a che pro percorrere tutto il Corso e poi tornare all'altezza del punto di partenza, quando sarebbe bastato attraversare il Corso e imboccare subito il Vicolo dei tre Ladroni?2.3 Né si dica che il diavolo segua per definizione percorsi tortuosi, dal momento che nel Revisore è lo stesso Podestà a collocare il teatro degli eventi in una città di provincia iperbolicamente remota: «Ma da qui, neppure cavalcando tre anni non si arriva in nessuno stato» 24 • Ma torniamo alla geografia e alla topografia del Maestro e Margherita. Al pari di Gogol', anche Bulgakov "giuoca" coi luoghi e con la topografia. Questa è, ad esempio, l'indicazione che il narratore dà riguardo all'indirizzo della casa di Margherita: «una bellissima palazzina con giardino in uno dei vicoli vicino ali' Arbat. Un sito incantevole. Chiunque potrà convincersene se vorrà andare in quel giardino. Basterà rivolgersi a me, gli darò l'indirizzo, gli insegnerò la strada, la palazzina è tutt'ora intatta» (633). Il direttore del teatro Variété, Stepa Lichodeev, viene spedito dai diavoli a Jalta, in Crimea, da dove manda accorati telegrammi, ma al teatro credono che si tratti della taverna "Jalta", in una piccola città vicino a Mosca. Nel romanzo Bulgakov si attiene a una geografia non euclidea, a una topografia metafisica: tra i suoi libri preferiti figurava il trattato Numeri immaginari in geometria (Mnimosti v geometrii, 1922) di Pavel Florenskij, dove si porta, ad esemplificazione del concetto, l'esempio dell'organizzazione spaziale della Divina Commedia, opera che appare al filosofo-matematico russo non " N. Gogol', Roma, a cura di R. Giuliani, trad. e note di A. Romano, Marsilio, Venezia 2003, p. 129. 1 3 Il Vicolo dei tre Ladroni si chiama ora Vicolo Sciarra. 14 N. Gogol', Il revisore, a cura di E. Magnanini, Marsilio, Venezia 1990, p. 75.

RITA GIULIANI

solo insuperata, ma addirittura anticipatrice della scienza contemporanea 2.s. Sulla sua amata copia del trattato, Bulgakov aveva sottolineato ed evidenziato proprio quei passi2. 6• Lo spazio del Maestro e Margherita appare strutturato in base al criterio dei numeri immaginari in ... geografia. Con questo criterio è costruito lo spazio dell'appartamento n. 50 di via Sadovaja 302-bis, che si dilata a dismisura, aumentando la sua pur ampia superficie, per ospitare il gran ballo da Satana. Il giudizio su Pilato e sul Maestro viene pronunciato in cima a una montagna dal desolato paesaggio stilizzato, mentre l'eterna dimora che viene assegnata al Maestro e a Margherita sembra un limbo antropomorfizzato, architettonico, dotato di ruscello, ponticello, casa con finestra rinascimentale a tre luci, vite rampicante e candele accese la sera (850). La topografia, l'urbanistica e la toponomastica della Mosca del Maestro e Margherita si prestano a riflessioni e considerazioni che mi sembrano interessanti. Bulgakov scrive il romanzo negli anni Trenta, in un'epoca di radicali e repentine trasformazioni dell'assetto urbanistico della città. Venivano demoliti gli edifici di culto, come la chiesa di Cristo Salvatore, luogo molto caro ai moscoviti. Già dagli anni Venti si era iniziato a ribattezzare con nomi "sovietici" località e strade. Nel 1935 fu varato il piano regolatore della città, voluto da Stalin - il cosiddetto «piano Stalin» -, e gli interventi urbanistici si fecero febbrili e spettacolari. È interessante verificare se e come si rifletta nel romanzo la metamorfosi urbanistica in atto in quegli anni nella capitale russa. In alcuni casi Bulgakov la ignora volutamente, in altri la registra, in altri inventa, crea. Un esempio eclatante di come egli "rimuova" le trasformazioni in corso a Mosca è l'episodio della partenza di Woland e dei suoi da Mosca, che avviene sulla terrazza-belvedere della Casa Paskov. Prima di spiccare il volo Woland abbraccia con lo sguardo la città, che definisce «interessante» (819), ma non un accenno è riservato dal personaggio o dal narratore alle due ferite aperte nel cuore della città proprio accanto •s Or. P. Florcnskij, Mnlmostl v geometri/. Rasstrenie oblasti dvuchmenrych obrazov geometrii, Pomor'c, Moskva 1922, pp. 45-53. •' Or. M. Cudakova, Biblioteka M. Bu/gakova I krug ego ltenlja, in Vstrell s knigoj, Kniga, Moskva 1979, pp. 246-247.

TOPOGRAFIA E METAFISICA NEL «MAESTRO E MARGHERITA»

al palazzo, ferite che avevano mutilato lo skyline urbano: il gigantesco cantiere del Palazzo dei Soviet sulla destra e, immediatamente alle spalle del palazzo, il cantiere del nuovo corpo della Biblioteca Lenin. Per quel che riguarda la toponomastica, lo scrittore si rivela la cosa non stupirà - fedele a quella tradizionale, per cui continua a chiamare Tverskaja la via reintitolata a Gor'kij nel 1932 (ulica Gor'kogo), stagni del Patriarca quelli che dal 1924 erano divenuti stagni dei Pionieri (Pionerskie prudy), senza che il nuovo nome diventasse peraltro mai popolare, e Monti dei Passeri quelli che Lazar Kaganovic aveva voluto, sia pure informalmente, ribattezzare nel 1924 Monti di Lenin (Leninskie gory). Però accoglie anche due nuove denominazioni, quali via Kropotkin2 7, invece che Preè'istenka, e via Herzen, di cui ricorda anche il nome storico: «Ivan vide il berretto grigio emergere tra la folla, all'inizio di via Bol'saja Nikitskaja, ovvero via Herzen» (418). In alcuni casi la toponomastica del romanzo, caratterizzata da piccoli "slittamenti" (sdvigi) rispetto a quella reale, potrebbe definirsi ludica, perché l'autore "giuoca" coi toponimi come un giocoliere con le biglie. Egli trasforma la via Bol'saja Sadovaja nella più semplice, ma inesistente a Mosca, via Sadovaja 28, la località di villeggiatura della "nomenclatura", Peredelkino, in Perelygino, dando vita a un calembour, poiché inserisce nel toponimo la radice loz"', bugia. La Casa di Herzen2 9, famosa sede di alcune associazioni letterarie moscovite, divenuta dal 1 7 La nuova denominazione della strada, introdotta nel 1921, fu abolita nel 1994, allorché venne ripristinata quella storica. Non è sempre agevole nemmeno per gli specialisti russi stabilire la durata nel tempo della toponomastica moscovita d'epoca sovietica, dal momento che il cambiamento delle denominazioni storiche, iniziato subito dopo la rivoluzione d'Ottobre, continuò per tutta l'epoca sovietica. Ad esempio, in M. Bulgakov, 1/ Maestro e Margherita, cit., p. 1643, si legge a proposito del vicolo Ennolaevskij, agli Stagni del Patriarca: «Bulgakov preferisce indicare una strada con il suo nome prerivolu1Jonario: il vicolo Ennolaevskij divenne, in epoca sovietica, via Zoltovskij». L'affermazione è vera, ma non riguarda la toponomastica del romanzo, poiché il nome venne cambiato nel 1961. 1 1 Secondo Mjagkov, negli anni Venti-Trenta la Bol'§aja Sadovaja veniva comunemente chiamata o Sadovaja o Sadovaja-Triumfal'naja; cfr. B. Mjagkov, Bulgakovskafa Moskva, cit., pp. 103-104. 1 9 Nella Casa di Herzcn, adibita dal 1920 a sede di diverse associazioni letterarie, nel 1925 venne aperto il ristorante descritto nel roman1.0.

RITA GIULIANI

1934 Casa Centrale dei Letterati (Central'nyj Dom Literatorov), si trasforma nel romanzo in «Casa di Griboedov». Bulgakov la intitola quindi a un altro scrittore, Aleksandr Griboedov, grande amante di Mosca e che a Mosca aveva ambientato il suo capolavoro, la commedia Che disgrazia l'ingegno/ (Gore ot umal, 1824)3°. Bulgakov le dà un'ubicazione che non coincide con quella della Casa di Herzen (Tverskoj bul'var, 25), ma la sposta sulla circonvallazione: «L'antica casa a due piani, color crema, si trovava sul viale della circonvallazione, in fondo a un anemico giardino separato dal marciapiede da una cancellata di ghisa battuta» (423). La modernissima ed efficiente clinica psichiatrica del professor Stravinskij sembra invece essere un parto della sua acre vena satirica, dal momento che a Mosca non c'erano nosocomi modello di quel tipo e Bulgakov, da medico, lo sapeva bene 31 . La Mosca del Maestro e Margherita registra, oltre a numerosi rea/ia della vita sovietica degli anni Venti-Trenta32., alcuni interventi urbanistici d'epoca successiva. Luoghi in cui si svolge l'azione romanzesca sono infatti anche edifici di recente costruzione, come il Torgsin al mercato Smolenskij, grande magazzino per acquisti in valuta riservati agli stranieri, edificato nel 1928, situato all'angolo tra la via Arbat e la piazza Smolenskaja (Arbat, 54'2), e la Casa del Dramlit, nome di fantasia, cui nella realtà corrispondeva un grande stabile di recente costruzione al vicolo Lavrusenskij, 17, dove abitavano scrittori e critici appartenenti alla "nomenclatura". All'inizio degli anni Trenta Stalin aveva stabilito che gli scrittori dovessero vivere in una loro "cittadella" dotata dei comfort necessari per la loro professione (mensa, biblioteca, ecc.). Agli scrittori venne così attribuito un alloggio 3° La Mosca di Gribocdov è stata oggetto di uno studio storico-critico, cfr. M. O. Gerscnzon, Griboedovskaja Moskva, Gelikon, Moskva-Berlin 1922. 3' Cfr. G. Lcsskis, K. Atarova, Putevoditel' po romanu Michaila Bulgakova «Master i Margarita», cit., p. 380. L. Bojadl!ieva, Moskva bulgakovskaja, cit., p. 250. Di diverso avviso il compianto B. Mjagkov che, nella sua accurata ricostruzione della Mosca bulgakoviana, partiva dal presupposto che ogni indicazione fornita nel romanzo dovesse avere immancabilmente un corrispettivo nella realtà urbanistica e topografica della città, cfr. B. Mjagkov, Bulgakovskaja Moskva, cit., pp. 156-167. 31 Cfr. G. Lcsskis, K. Atarova, Putevoditel' po romanu Michaila Bulgakova «Master i Margartta», cit., pp. 281-285.

TOPOGRAFIA E METAFISICA NEL «MAESTRO E MARGHERITA»

185

prima presso la Casa di Herzen, poi in via Furmanov, dove visse, a partire dal 1934, lo stesso Bulgakov, e poi, dal 1937, nella gigantesca casa degli scrittori al vicolo Lavrusenskij, costruita ad hoc nello stesso annoH. Nel romanzo "scompaiono" non solo personaggi di fantasia - allusione alle ondate di arresti del periodo del Terrore - ma anche edifici storici, la cui presenza viene espunta dal testo, perché abbattuti. È il caso della chiesa di Cristo Salvatore, edificata nella seconda metà dell'Ottocento in ricordo della vittoria su Napoleone, che, dopo essere stata parzialmente demolita, venne fatta brillare il 5 dicembre 193134 per far posto all'erigendo, ciclopico Palazzo dei Soviet. La chiesa figurava in una redazione intermedia del testo, nell'episodio dell'immersione di Ivan nella Moscova35, ma nell'ultima redazione Bulgakov eliminò l'esplicito riferimento ad essa, lasciando solo l'accenno alla scalinata di granito sulla riva della Moscova, antistante la chiesa e rimasta al suo posto fino alla metà degli anni Trenta3.,;. Il romanzo non registra però i grandi interventi urbanistici seguiti all'approvazione del piano regolatore del 193 5: mai nominato, ad esempio, il metrò, la cui prima linea era stata inaugurata con grande enfasi e battage propagandistico nel maggio del 1935, mentre alcune stazioni della seconda linea erano state aperte al pubblico tra il 1937 e il 1938. Lo scrittore quindi "snobba" i monumenti-simbolo del regime, come il nuovo, pioneristico, sfarzoso metrò, i giganteschi cantieri aperti nel cuore della città (ad esempio, quelli per i nuovi edifici della Biblioteca Lenin). Sarà interessante ricordare che nel romanzo il Cremlino è nominato solo in occasione dell'apparizione del diavolo Azazello a Margherita nell'antistante giardino di Alessandro (Aleksandrovskij sad). 33 Cfr. L. Bojadfieva, Moskva bulgakovskaja, cit., pp. 235-237. Invece l'edificio del Teatro Variété, nome di fantasia che verosimilmente aveva il prototipo in un edificio concreto, il Music-hall (Bol'saja Sadovaja, 18), era d'epoca prerivoluzionaria, essendo stato costruito nel 1911; cfr. G. Lesskis, K. Atarova, Putevodite/' po romatzu Michaila Bu/gakova «Master i Margarita», cit., p. 389. 3◄ Cfr. la foto dell'abbattimento della chiesa in Michail Bulgakov. Zizn' i tvorlestvo. Fotoal'bom, cit., p. 207. 1s Il passo è citato in B. Mjaglcov, Bulgakovskaja Moskva,cit., p. 216. La chiesa è stata ricostruita negli anni 1994-2000 e restituita al culto. 36 Cfr. ivi, p. 198.

186

RITA GIULIANI

Bulgakov rifugge dai panorami piatti, piuttosto tipici di Mosca, ama la verticalità e la inserisce nello skyline del romanzo; momenti significativi dell'azione sono collocati in alto: sui Monti dei Passeri, sul terrazzo della neoclassica Casa Paskov, al settimo piano della Casa del Dramlit, devastato da Margherita diventata ormai strega, al di sopra della città nell'episodio del volo di Margherita, che permette una vista a volo d'uccello su Mosca e sulla campagna circostante. Nel piano gerosolimitano, il palazzo di Erode domina la città, la cima del monte Calvario è il luogo dove si consuma l'esecuzione di Yeshua. Nella quinta dimensione, il giudizio su Pilato e sui due amanti viene pronunciato sulla cima di una montagna. In Bulgakov c'è quindi un'insistita verticalità, un'attenzione per la dimensione dell'altezza, spesso ignorata da altri scrittori37• In conclusione, si può affermare che nel Maestro e Margherita Bulgakov fissi per sempre, come in un'istantanea, il centro storico di Mosca, a lui tanto caro, che in quegli anni era minacciato da grandi stravolgimenti urbanistici. Nel romanzo, precisione toponomastica e cartografica e rispetto per la geografia si coniugano, in una bizzarra e originale mistura, con il loro uso fantastico, in una prospettiva metafisica ed escatologica. Al suo «romanzo delle conclusioni» (roman itogov), scritto negli anni del Terrore staliniano, Bulgakov affida infatti la propria speranza in una giustizia superiore e lo fa, col gusto del paradosso che gli era proprio, mettendo in bocca a Woland-Satana l'affermazione: «tutto sarà ispirato a giustizia, su questo è costruito il mondo» (848), mentre riserva allo stesso Yeshua il giudizio sul Maestro. Applicando il dettato dell'Apocalisse «e i morti furono giudicati secondo le loro opere .... », l'esito del giudizio sul Maestro sarà la pace e l'eterna dimora. Come dire, dalla topografia ai novissimi.

37

Cfr. L. Janovskaja, Gorlzantalt i vertikali ErJalaima, cit.

Riscritture dello spazio urbano: l'appartamento in coabitazione (kommunal'naja kvartira) Laura Piccolo

« Una

stanza e mezzo»

Il bolscevismo ha eliminato la vita privata. L'attività amministrativa, quella politica e la stampa ufficiale hanno preso a tal punto il sopravvento da non lasciar tempo per coltivare interessi a esse estranei. Né ci sarebbe lo spazio fisico per farlo. Abitazioni, che una volta accoglievano con le loro cinque, otto stanze un'unica famiglia, ora ne ospitano spesso sino a otto. Passata la porta di ingresso, si entra in una piccola città. Più spesso ancora in una piazza d'armi 1 •

Nella sua descrizione della Mosca degli anni Venti, Walter Benjamin fotografa così l'asfissiante realtà quotidiana di un affollato appartamento in coabitazione (in russo kommunal'naja kvartira o, familiarmente, kommunalka2 ), prodotto di una riscrittura dello spazio abitativo e delle sue unità di misura. Ricordando gli anni vissuti in una kommunalka, il poeta Iosif Brodskij determina tale unità nella «stanza e mezzo», domandandosi quale significato tale definizione possa assumere «in una lingua diversa dal russo»3. Forme di «condensazione» (uplotnenie) dello spazio abitativo esistono, per rispondere a Brodskij, anche in "altre lingue" e realtà storico-sociali: nella Russia zarista famiglie indigenti erano costret1 W. Bcnjamin, Mosca, in Id., Immagini di città, Einaudi, Torino 2007, pp. 1760: 32 (cd. or. Moskau, «Dic Krcatur-, 1927, n. 2, fase. 1, pp. 71-101, in volume, parzialmente in Stadtebilder, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1963). 1 Il lemma è attestato sui dizionari solo a partire dal 1968, vedi R. A. Rothstcin, While Reading Soviet Dictio1,aries of Neologism, «Slavic and East Europcan Journal», 1985, voi. 29, n. 4, pp. 461-470: 462. J I. Brodskij, U,ra stanza e mezzo, in Id., Fuga da Btsa,izto, Adclphi, Milano 1996 (cd. or. Less Than 01,e. Selected E.ssays, Farrar Straus & Giroux, New York 1986), pp. 187-243: 187.

188

LAURA PICCOLO

te ad affittare un "angolo" della propria casa4; in tutto il mondo gli studenti si trovano oggi a condividere uno stesso appartamento; in paesi come Giappone o Cina l'alta densità demografica impone la realizzazione di alloggi sempre più ridotti. Si tratta, tuttavia, di esperienze differenti: in Unione Sovietica le case dei grandi centri urbani appartenevano allo Stato (al pari delle case popolari in Italia, dove però la coabitazione non è mai imposta), ed era, salvo negli anni della NEP, pressoché impossibile scegliere i propri coinquilini. Inoltre, la kommunalka ha rappresentato per più di settant'anni la soluzione abitativa più diffusa nel Paese: un cronotopo fondamentale del uyt (vita quotidiana) - con dolorose ripercussioni anche sull'attuale organizzazione domestica di molte famiglie russe - e altamente produttivo in campo letterario. Con una risoluzione del 1917 (ratificata dal decreto del VCIK del 20 agosto 1918)5 il potere bolscevico aboliva la proprietà privata, confiscando ai legittimi proprietari i metri quadrati in eccesso rispetto alla superficie abitativa (zilaja ploscad' o zilploscad') assegnata per legge a ciascun cittadino 6• Come ricorda Brodskij, ormai emigrato negli Stati Uniti e separato per sempre dai genitori, confinati ancora nella loro «stanza e mezzo», in Unione Sovietica ogni persona aveva diritto a un minimo di 9 m2, misura che si è gradualmente ridotta, raggiungendo nel 1958 i 4, 97 m2 7. «Se c'è nello spazio un aspetto infinito», osserva il poeta, «esso non sta nell'estensione, bensì nella riduzione, se non altro perché [... ] è meglio organizzata e assume più nomi: una cella, un cesso, una tomba» 8• La progressiva contrazione della superficie abitativa, criterio limitativo del Lebensraum e della quantità di ◄ Vedi A. Dc Magistris, La città di transizjotze. Politiche urbane e ricerche tipologiche 1,el/'URSS degli atmi Venti, Il Quadrante, Torino 1988, pp. 13-14. s «Ob otmcnc castnoj sobstvcnnosti na ncdvizimosti v gorodach», in Zilisbzoe zakonodatel'stvo, 17.d. N.K.Ch., Moskva 1924, pp. 3-5. ' Era considerato "ricco" ogni appartamento, secondo lo stesso Lenin, il cui numero di vani era uguale o superiore al numero dei membri della famiglia (V. I. Lenin, Polnoe sobraniesoànenij, Izd. Politi, Moskva 1965, t. 54, p. 380). 7 T. Sosnovy, The Soviet Housi11g Situation Today, «Soviet Studies», 1959, voi. 11, n. 1, pp. 1-21. Per ulteriori approfondimenti si rimanda a E. Ju. Gcrasimova, Sovetskaja kommu,ral'naja kvartira, «Sociologiccskij zumai•, 1998, n. 1-2, pp. 224243: 226 sgg. s I. Brodskij, U,ra stanza e mezzo, cit., pp. 192.

RISCRrrTURE DELLO SPAZIO URBANO

aria respirata, si rivela ancora più stridente rispetto all'estensione geografica dell'Urss9. A ridosso della rivoluzione, l'innalzamento di tramezzi e muri negli appartamenti nobiliari e borghesi consente di stipare accanto agli ex proprietari famiglie di lavoratori, in prevalenza operai. Alle facciate dei grandi palazzi signorili di fine Ottocento corrispondeva così all'interno un'infilata di stanze "reinventate" e angusti spazi comuni: ingresso, corridoio, cucina e bagno. L'abitazione degli scrittori simbolisti Zinaida Gippius e Dmitrij Merezkovskij nel palazzo Muruzi - lo stesso dove anni dopo avrebbe vissuto Brodskij -, allora uno dei centri principali della vita letteraria e filosofica di Pietroburgo, si trasforma in kommunalka. La suddivisione dell'appartamento sembra riflettere la disgregazione di quel mondo pietroburghese culturalmente vivace che ora, dopo gli avvenimenti di Ottobre, era ormai percepito come una civiltà al tramonto. La stessa Gippius alla vigilia dell'emigrazione ricorda l'espropriazione delle camere "in esubero", in particolare dello studio, nell'alloggio di un suo vicino 1°. Diari e memorie dell'epoca registrano l'inquietudine e lo smarrimento di fronte all'invasione del proprio spazio creativo, sofferti anche da Remizov: «Sono venuti a vedere l'appartamento dalla commissione degli alloggi per la condensazione» n. L'eco letteraria di questa drammatica situazione si propaga nelle opere di Michail Bulgakov: al professor Preobrazenskij, protagonista di Cuore di cane (1925), il Comitato del Caseggiato chiede di rinunciare, per «disciplina del lavoro», a due stanze del suo appartamento, poiché «in tutta Mosca nessuno oggi possiede la sala da pranzo [... ] nemmeno Isadora Duncan» e inoltre il suo studio può fungere anche da «sala delle visite» 12• Una scena ana' Sul mito della vastità della Russia in epoca sovietica vedi P. Vail', A. Gcnis, 60-e. Mir sovetskogo éeloveka, Novoe literatumoe obozrenie, Moskva 2001, pp. 80 sgg. 10 «Cosa? Lo studio? Quale studio? Quale studioso? [... ] Scrive libri? E scrive sulla "Pravda"? Probabilmente se la intende coi borghesi» (Z. Gippius, Peterburgskie dtievniki 1914-1919, in Id., Zivye lica, Merani, Tbilisi 1991, t. 1, 159-396: 2.02.-2.03). 11 A. Remiwv, Dnermik 1917-192.1, pod. tcksta A. M. Graccvoj i E. D. Rcznikova, in Mitlllvsee: istorileskij alma,zach, 1994, vyp. 16, pp. 407-549: 489. "M. Bulgakov, Cuore di Cane, in Id., Racconti fantastici, Bur, Milano 1991, pp. 189-309: 215 {cd. or. Sobaé'e serdce, «Grani» [Frankfurt], 1968, n. 69, pp. 3-85; «Student» (London), nn. 9-10, in volume YMCA-Prcss, Paris 1969. La prima tradu-

LAURA PICCOLO

Ioga si svolge nell'Appartamento di Zoja (1925), nel quale il funzionario addetto all'Occupazione Alloggi cerca invano di assegnare a Zoja Denisovna Pel'c una folta schiera di inquilini13. Luogo dell' «intimità protetta», «rifugio», «culla»14: queste qualità, attribuite in maniera diversa all'immagine di casa, sono invece estranee alla kommunalka. Nella sua analisi delle "case" nel Maestro e Margherita, Jurij Lotman definisce l'appartamento in coabitazione una delle «anticase» del romanzo, al pari del manicomio 1 s.

L'utopia ridimensionata La comparsa degli appartamenti condivisi è l'esito di un più ampio disegno rivoluzionario, volto a riscrivere l'intera mappa geografica della Russia: mutano i confini dell'ex impero zarista, si avvicendano le capitali, cambia la toponomastica di città, vie, piazze: «il determinismo geografico [... ] diventa determinismo semiotico, terrore di segni» 16• Se, come afferma Ugo Volli, «abitare è una modalità del pensare» 1 7, le coordinate esistenziali del cittadino sovietico sono così totalmente "ripensate" e inserite in un progetto di radicale rinnovamento che dagli utopici piani di ricostruzione della città si spinge sino alla ri-creazione della casa zione italiana di Maria Olsoufieva è del 1967: Id., Cuore di ca,ze: ovvero etulocrir,ologia della NEP, De Donato, Bari 1967; in Unione Sovietica il racconto apparve soltanto nel 1987 su «Znamja» ). 13 M. Bulgakov, L'appartamento di Zoja, in Id., Tutto il teatro, Newton Compton Editori, Roma 1973, pp. 85-145: 88 (ed. or. Zojki,za Kvartira, «Novyj zumai» [New York], 1969-1970, nn. 97-98, in volume Id., Trl p'esy, YMCA-Press, Paris 1971). 14 G. Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1975, pp. 31 sgg. (cd. or. La poétique de l'espace, Presse Universitaire de France, Paris 1957). 1s Ju. M. Lotman, La casa ,zel «Maestro e Margherita», «eSamizdat», 2005, nn. 2-3, pp. 31-36 (ed. or. Dom v "Mastere i Margariten, in Id., V,rutrimisljaslich mirov: lelovek - tekst - se,mosfera - kult'ura, Jaziki russkoj kul'tury, Moskva 1996, pp. 264275 ). 1 ' S. Medvedev, A Getieral Theory of Russian Space: A Gay Science a,uJ a Rigorous Science, in J. Smith (cd.), Beyo,uJ the Limits. The Co,u:ept of Space i,z Russian History and Culture, SHS, Helsinki 1999, pp. 15-43: 26. 17 U. Volli, Per u11a semiotica della città, in Id., Laboratorio di semiotica, Laterza, Bari 2005, pp. 5-19: 13.

RISCRITTURE DELLO SPAZIO URBANO

e della sfera privata dell'homo sovieticus e, conseguentemente, della sua coscienza. Parola chiave della nuova realtà, il verbo "costruire" si rivela febbrile moltiplicatore di immagini e metafore: dal ziznestroenie (costruzione della vita) dei costruttivisti agli scrittori "ingegneri di anime" degli anni Trenta, fino agli slogan sulla "costruzione del comunismo". Stalin stesso è chiamato zodlij (e non architekt), epiteto nel quale «si uniscono il "costruire" e il "creare" in senso cosmogonico e religioso» 18 • Eppure la kommunalka non è stata oggetto di propaganda, né sogno degli utopici piani abitativi bolscevichi, simboleggiato invece dal dom-kommuna (casa-comune o collettiva), l'ingegnosa trovata del «socialismo in un solo edificio» 1 9. Astrattamente concepita all'interno di ideali città "verdi" o città-giardino, la casacomune prevedeva spazi condivisi (cucina, sala di lettura, teatro) a corredo di camere e appartamenti privati. L'idea fourieriana, esposta già nel romanzo di Nikolaj Cemysevskij Che fare? (1863) e in esperimenti abitativi di pensatori e artisti nella seconda metà del XIX secolo, nella Russia postrivoluzionaria ispira il progetto "Falanster" (1918) dell'architetto Venderov, rimasto tuttavia irrealizzato 20• Case collettive erano state invece ricavate da edifici preesistenti, come il Dom iskusstv (Casa delle arti), residenza di artisti e scrittori sulla prospettiva Nevskij a Pietrogrado e il Dom Soveta (Casa del Soviet), il quartier generale dei bolscevichi, al cui interno vivevano e lavoravano circa 500 persone, usufruendo di biblioteca, mensa e scuola musicale. Anche alberghi il Nacional' di Mosca o I'Astorija a Pietrogrado - erano stati adibiti a case collettive almeno sino al 1923, quando riacquistano la 18 J. Van Baak, The House in Russia11 Literature. A Mythopoetic Exp/oratio11, Rodopi, Amsterdam-New York 2009, p. 378. Sul mito della costruzione del comunismo, vedi P. Vail', A. Gcnis, 60-e. Mir sovetskogo ée/oveka, cit., pp. 12-18. La metafora della costruzione del nuovo mondo è produttiva sino al declino dcll'Urss, basti pensare alla perestrojka (lctt. ricostruzione). 19 R. Stitcs, Revolutiotzary Dreams. Utopia11 Visio11 a,uJ Experimmtal Life ili the Russia11 Revo/utio11, Oxford Univcrsity Prcss, Oxford 1989, p. 200. Sui dom kommuny vedi anche A. Dc Magistris, La dttà di transizjo11e, cit., pp. 18 sgg. 10 Su Falanster vedi R. Stitcs, Revoluttonary Dreams, cit., pp. 200 sgg. Su alcuni esperimenti prcrivoluzionari di case collettive vedi N. Lcbina, Kommunal'tryj, kommunal'try/, kommutzal't,yj mir... , «Rodina .. , 1997, n. 1, pp. 16-20: 18.

LAURA PICCOLO

loro funzione originaria. I successivi progetti di case-comune, alcuni presentati al Concorso d'architettura nel 1926, salvo rare eccezioni restano sulla carta. La convinzione della necessità di distruggere la città capitalista per erigerne una nuova dove forgiare il byt dell'homo sovieticus21 doveva fare i conti con la realtà contingente e con la difficoltà per il regime di smantellare l'edificio della famiglia 22• I dom-kommuny non travalicano i confini dell'utopia o «(u)topografia»23, laddove già all'inizio degli anni Venti si diffondono gli appartamenti condivisi. Molti ex proprietari, in virtù del "misterioso"24 diritto all'autocondensazione (samoutoplenie) erano riusciti a far assegnare i metri in esubero a familiari o amici e, negli anni delle NEP, a percepire anche un piccolo canone 2 s. Dal 1929, quando le proprietà immobiliari sono definitivamente dichiarate statali, gli ex proprietari nella maggior parte dei casi vengono allontanati al grido di «liberiamo le stanze dai padroni» e le superfici abitative riassegnate: la kommunalka diventa la tipologia abitativa più diffusa, sebbene fosse soggetta a costante svalutazione. L'ascesa sociale si concretizzava nella "conquista" di un alloggio indipendente: gli ex membri del partito, la nomenclatura e gli stacanovisti, gli sportivi o, come nel Maestro e Margherita, i letterati ufficiali, avevano diritto ad alloggi anche di tre stanze. Il beffardo scrittore Vladimir Vojnovic ironizza sulla necessità della nomenclatura di vedersi assegnata «una superficie abita11 Vedi ad esempio la "casa transitoria", il Dom Narkomfina ( 192.8-1930) che si «proponeva di prefigurare e accompagnare gli abitanti verso un nuovo modello di vita (byt) collettivistico, prospettando uno standard di massa percorribile e dunque una soluzione alla sempre più drammatica coabitazione». A. De Magistris, Gli orizzonti del realismo nell'architettura sovietica. 1930-1960, in M. Bown, M. Lanfranconi (cur.), Realismi socialisti. Grande pittura sovietica 1920-1970 (Roma, Palazzo delle Esposizioni 11 ottobre 2.01 1-8 gennaio 2.012.), Skira, Ginevra-Milano 2.011, pp. 173-181: 173. 11 Sul mito della famiglia negli anni Trenta dr. K. Clark, The Soviet Nove/. History as ritual, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 2.000, pp. 114 sgg. 1 3 S. Boym, Commo11 Places. Mytho/ogies of Everyday Life in Russia, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1994, p. 126. '-' N. Lebina, Kommunal',ryj, kommu,zal'tryj, kommuna/'nyf mir..., cit., p. 16. Sull'evoluzione legislativa relativa alla superficie abitativa e all'autocondensazione dr. E. Ju. Gerasimova, Sovetskafa kommu,za/'nafa kvarttra,cit., p. 2.31. 1 s Ivi, pp.2.31-2.32..

RISCRITTURE Dl!LLO SPAZIO URBANO

1 93

tiva maggiore del semplice uomo sovietico», poiché «era indecente che [... ] vivesse in case indecenti, per non dire in coabitazione» 26 , non tanto per l'incapacità della nomenclatura di «convivere in uno spazio limitato», quanto per il fatto che «l'uomo sovietico comune sarebbe venuto a conoscere nei dettagli il loro modo di vivere, cosa che non doveva assolutamente succedere» 27• A partire dagli anni Cinquanta, il sogno di un alloggio privato si estenderà a diversi strati della popolazione grazie al piano abitativo lanciato da Chruscev e incarnato dalla chruscevka (palazzina prefabbricata di cinque piani con appartamenti perfettamente uguali ma indipendenti) che, tuttavia, si trasformerà presto, al pari della kommunalka, in un fenomeno del folclore urbano: assumerà, infatti, l'eloquente appellativo di chrusceba, ironica unione del nome del suo inventore con il termine truscoba (tugurio, catapecchia) 28 • L'indipendenza degli alloggi, ancora più spersonalizzati dallo «sgraziato mobilio delle dotazioni statali» 2 9, non cancellava il senso di appiattimento e di sottrazione della superficie vitale. Dagli anni Sessanta, oltre alle nuove costruzioni, da appartamenti centrali di grande taglio vengono ricavati alloggi autonomi, descritti così da Bitov: L'appartamento di zio Dickens era proprio come un libricino proibito. Era divertente in ogni dettaglio. Ricavato da un grande appartamento e indipendente da questo (cioè "diviso"), era così piccolo e così poco gli era rimasto della superficie comune (non rientrava nemmeno nelle misure di legge) [... ]. Le cose avevano trovato grande difficoltà a sistemarsi e sembrava che si fossero tutte "spostate", soppiantandosi l'una con l'altra: dal bagno era stata ricavata una cucinetta, al posto del cesso [... ], c'era la doccia e per la tazza che era sopravvissuta non si era trovato altro posto che nell'ingresso, sotto l'attaccapanni3°. 16 VI. Vojnovic, Propaga11da mo1,ume11tale, Garzanti, Milano 2004, p. 35 (ed. or. Monumental'naja propaganda, lzographus, Moskva 2000). 1 1 Ibid. 18 Sulla chrusceba vedi B. Samov, Nas sovetskij 11ovojaz. Malen'kajaènciklopedija real'nogo socializma, Materik, Moskva 2002, pp. 507-510. Il nome ha anche un'eco letteraria, richiamando alla memoria il romanzo di Vs. Krcstovskij, Peterburgskie truscoby (I bassifondi di Pietroburgo, 1864) Gcnkel', Sankt-Peterburg 1865. 1 9 VI. Vojnovic, Propaga11da Mo11ume11tale, cit., p. 37. 3° A. Bitov, La casa di Pusk/11, Serra e Riva Editori, Milano 1988, p. 40 (ed. or. Puskinskij dom, Ardis, Ann Arbor 1978).

194

LAURA PICCOLO

Tornando all'epoca staliniana, la kommunalka, nata quale modalità abitativa transitoria, si è invece rivelata una delle strutture dello stato più funzionali per il controllo «di ogni singolo individuo in qualsiasi aspetto della vita» 31. Come in altri luoghi antiutopici della nuova mappa sovietica, il lager o la prigione, qui si percepisce il predominio del collettivo sull'individuale: l'esistenza del cittadino è rigidamente scandita anche nelle sue manifestazioni biologiche (giorno e orario del bagno e del bucato, turni di corvée). Al controllo sul rispetto della suddivisione della superficie abitativa e dei regolamenti, si associa la sorveglianza subdola e abbietta del portiere, dei vicini o dei coinquilini, incontrati in cucina o in fila al bagno: «I caseggiati comunali», scrive Bulgakov, «sono senza pareti,[ ... ] ed hanno mille occhi»3 2 • La kommunalka rappresenta una variante di quei «laboratori» sociali, che nei regimi totalitari mirano alla «trasformazione della natura umana» 33 • Era consuetudine che l'NKvD individuasse nell'appartamento un proprio informatore, spesso noto anche agli altri abitanti34 • La delazione, del resto, era perversamente allettante, perché la denuncia garantiva agevolazioni e qualche metro in più. Di fatto, ognuno era al corrente delle frequentazioni e delle conversazioni telefoniche dell'altro - l'apparecchio era posizionato solitamente all'ingresso o nel corridoio. Se nella storia russa il rapporto tra pubblico e privato ha sempre avuto equilibri differenti rispetto all'Occidente, la creazione della kommunalka segna il prepotente ingresso del pubblico nel privato, l'istituzione di un'ossimorica «privacy pubblica» 35, o più esattamente, l'abolizione stessa del privato, peraltro ideologicamente contestato. Era impossibile evitare i vicini, dei quali «si 3' H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2.004, p. 451 (cd. or. The Origins ofTotalitarianism, Schocken Books, New York 1951). 31 M. Bulgakov, L'appartamento di Zoja, cit., pp. 87-88. n H. Arcndt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 62.8.

H Tale soggetto era temuto ma anche escluso da quella rete di solidarietà che non di rado caratteriz1.ava la vita degli abitanti della kommunalka. Vedi V. Semenova, Ravenstvo v niscete: simvolileskoe znalettie • kommunalok ", in V. Scmcnova, E. Fotccva (rcd.), Sud'by ljudej: Rossija xx vek. Biografija seme; kak ob"ekt socialtsticeskogo iss/edovanija, lnstitut Sociologii RAN, Moskva 1996, pp. 373-388: 385. 3S K. Gerasimova, Public Privacy in the Soviet Communal Apartme,1t, in D. Crowley, S. E. Reid (eds.), Socta/ist Spaces. Sites of Everyday Ltfe itt the Eastern Bloc, Berg, Oxford-New York 2.002., pp. 2.07-2.30.

RISCRITTURE DELLO SPAZIO URBANO

1 95

conoscevano a memoria le mutande stese nei corridoi»3'\ e ai componenti di una famiglia, costretti indistintamente nella stessa stanza, era negato il lusso della solitudine o del pudore, tanto più che all'interno delle stanze era vietato innalzare tramezzi fino al soffitto. Il confine tra lo spazio dell'io e l'esterno diveniva così illusorio: fluivano i suoni e soprattutto gli odori. Della geografia della kommunalka diffusa è proprio la descrizione del paesaggio olfattivo o smellskape37. «Il regime sovietico non ammette l'esistenza delle camere da letto», scrive ancora Bulgakov3 8• L'unica frontiera dell'intimità era delimitata dal talamo nuziale: così per i genitori di Brodskij, così per la coppia del racconto di Jurij Trifonov, Lo scambio (1969 ), barricata nel letto cecoslovacco, mentre dietro il paravento dorme la figlia: Entrambi rimasero in ascolto. No, tutto era silenzioso. La figlia dormiva nell'angolo, dietro il paravento, dove c'era la piccola scrivania sulla quale faceva i compiti la sera. Dmitriev aveva fabbricato lui stesso e appeso sopra il tavolino una mensola per i libri, aveva prolungato fin là la conduttura elettrica per la lampada da tavolino, le aveva fatto insomma dietro il paravento una cameretta separata, una "cella", come la chiamavano in famiglia39.

Quando la madre di Dmitriev si ammala, la nuora si attiva immediatamente per riuscire ad accaparrarsi un alloggio più ampio attraverso uno o più scambi dei metri della malata. Il baratto della propria superficie abitativa è un aspetto cruciale delle dinamiche della kommunalka: «a parte la pura aritmetica», osserva Brodskij, «soltanto gli impiegati [... ] sono arbitri dell'equivalenza e possono dare o togliere qualche metro quadrato qua e là. E come sono importanti quei pochi metri qua e là»4°.

Brodskij, U,za statlZ'll e mezzo, cit., p. 194. D. Portcous, Il paesaggio olfattivo, F. Lando (cur.), Fatto e fi,zZione. Geografia e letteratura, Etas Libri, Milano 1993, pp. 115-142. 38 M. Bulgakov, L'appartame11lo di Zo;a, cit., p. 87. 39 Ju. Trifonov, Lo scambio, in Id., Lungo Addio, Einaudi, Torino 1977, pp. 566: 9 (ed. or. Obmen, «Novyj mir», 1969, n. 12, pp. 29-65). ◄ 0 I. Brodskij, U,za statlZ'll e mezzo, cit., p. 193. 36 1.

37 J.

LAURA PICCOLO

Topografia e metafora «Alloggio sulla scala di servizio, e alla tempia / mi colpisce il suono del campanello strappato via con la carne»4 1 , canta Mandel'stam l'angoscia lacerante di un eventuale arrivo della polizia. La suddivisione interna dell'appartamento in coabitazione è annunciata all'esterno dai campanelli affastellati alla rinfusa sullo stipite della porta. Questa landa, al contempo di tutti e di nessuno, viene spesso descritta attraverso metafore geografiche legate all'idea di un gremito microcosmo con un proprio «microclima»42: Utechin ne traccia una «mappa»43; Benjamin la rapporta a una «piccola città» e a una «piazza d'armi»; il poeta concettualista Lev Rubinstejn fonde le due metafore di Benjamin nell'immagine della kommunalka «città medievale» dai luoghi angusti e dalla rigida scansione del quotidiano. La cucina funge sia da piazza del mercato, «dove avviene lo scambio di merci e di informazioni», sia da piazza del duomo, dove risuona ininterrottamente la radio, mezzo di contatto tra «i cittadini e la verità assoluta» 44 . Nella prosa bulgakoviana la presenza della radio o del grammofono caratterizza spesso le «anticase», in particolare la kommunalka, laddove «il suono di un pianoforte è invece indizio di una casa»45. Il corridoio, associato da Rubinstejn alla «strada maestra» del borgo, può tramutarsi paradossalmente in zilploscad': l'eroe del racconto di Daniil Charms, La vittoria di Mysin (1940) trascorre le sue giornate sdraiato in corridoio scatenando le ire dei suoi coinquilini che arrivano a cospargerlo di petrolio pur di indurlo ◄• O. Mandcl'stam, Son tonzato nella mia città che conosco fi110 alle lacrime, in Id., Ottanta poesie, a cura di R. Faccani, Einaudi, Torino 2009, p. 105 (cd. or. Leni11grad, «Litcraturnaja ga1..cta», 1932, n. 53, p. 2). ◄ 1 V. Scmcnova, Rave,,stvo v niscete•.. , cit. p. 383. ◄3 I. Utechin, Oierki kommunal'nogo byta, OGI, Moskva 2004, p. 26. ◄◄ L. Rubinstcjn, Kommu,zal'noe clivo, in Id., Domas11ee muZicirovanie, Novoc litcratumoeobozrcnic, Moskva 2000, pp. 135-142: 135-136. Per I. Kabakov la cucina è sia pia1.za medievale sia teatro cfr. Na Kommu,zal'noj Kuch11e, Galcric Dina Vcmy, Paris 1993, pp. 12 sgg., cit. in G. P. Pireno, Il radioso avvet1ire. Mitologie culturali sovietiche, Einaudi, Torino 2001, p. 291. ◄S Ju. M. Lotman, La casa 1,el «Maestro e Margherita», cit., p. 34.

RISCRITTURE DELLO SPAZIO URBANO

197

ad alzarsi sebbene, come spiega uno di loro, non abbia «altra superficie abitabile [... ): Mysin abita qui, in corridoio» 46• Rispetto agli ambiziosi progetti delle fabbriche-cucina, il semplice cittadino sovietico si è invece ritrovato a condividere un ambiente piuttosto ridotto per la preparazione dei pasti. Nella sua analisi del Maestro e Margherita, Lotman sottolinea che «i concetti di "casa" e di "cucina comune"» sono per Bulgakov «inconciliabili e la loro contiguità crea l'immagine di un mondo fantasmagorico» 47 : l'anticasa presenta il doppio fondo dei luoghi del romanzo e apre la porta agli eventi inspiegabili già prima dell'arrivo di Woland4 8 • Dalla fine degli anni Sessanta, saranno proprio le cucine degli appartamenti indipendenti a divenire uno dei laboratori letterari e artistici della cultura sovietica non ufficiale49. La coda caratterizzava poi il bagno, che poteva divenire un'appendice dello spazio geografico dell'appartamento condiviso quando era posto all'esterno del caseggiato. La decostruzione postsovietica della kommunalka si concentra sovente proprio su questo ambiente, dalle installazioni di Il'ja Kabakov (Bagno, 1992)5° ai versi epici e dissacranti di Timur Kibirov (Latrine, 1991) 51, fino alla proposta di Vojnovic di innalzare una statua non «a Stalin, a Lenin, o a chissà chi altri, ma all'Ignoto Uomo Sovietico, seduto come un'aquila in cima all'alta montagna (il picco del Comunismo), da lui stesso deposta» 52• 4' D. Channs, La vittoria di Mysin, in Id., Casi, Adclphi, Milano 1990, pp. 154157: 156 (cd. or. Pobeda Mysina, in Id., Po/et v nebesa, Sovctskij pisatcl', Leningrad 1988). 47 Ju. M. Lotrnan, La casa nel «Maestro e Margherita», cit., p. 31. 4B «Ed ecco che, circa due anni fa, nell'appartamento erano cominciati avvenimenti inspiegabili: gli inquilini cominciarono a sparire senza lasciare traccia» (M. Bulgakov, Il Maestro e Margherita, Einaudi, Torino 1996, p. 72; cd. or. Master i Margarita, Poscv,Frankfurt am Main 1967. Una versione ampiamente censurata del romanzo fu pubblicata l'anno precedente sulla rivista «Moskva» ). 49 Vedi Dz.-P. Pirctto, Grjaznoe i vo11Juéee kuchonnoe prostranstvo v Peterburge i Leningrade, «Europa Oricntalis», 16 (1997), n. 2, pp. 399-427; Id., Il radiosoavve11ire, cit., pp. 289-307. s0 Vedi S. Boym, 1/ya Kabakov's Toilet, in Id., The Future of Nostalgia, Basic Books, NewYorlc 2001, pp. 309-326. s• T. Kibirov, Latrine, Le Lettere, Firenze 2008 (cd. or. Sortiry. Poèma, «Novoc Literatumoc Obozrcnie», 1991, n. n, pp. 107-n2). s• VI. Vojnovic, Propaga11da monumentale, cit., p. 36.

LAURA PICCOLO

Questa panoramica sul territorio della kommunalka lascia facilmente intuire quanto la coabitazione forzata fosse caratterizzata da un alto indice di conflittualità. All'immagine della città si associa una connotazione negativa, come accade nel Vitello d'oro (1931) di Il'f e Petrov, dove si narrano le vicende del «sobborgo delle cornacchie», un appartamento in coabitazione che gli inquilini agguerriti uno contro l'altro, stipulata un'assicurazione, arrivano a incendiare: «Tutto era chiaro ormai, la sorte dell'edificio era segnata. Non poteva essere che non andasse a fuoco. Ed effettivamente, alle ore dodici della notte, esso era già in preda alle fiamme, incendiato contemporaneamente da sei punti diversi»53. L'ostilità era dettata soprattutto dalla geografia umana della kommunalka: le controversie tra gli ex proprietari e i lavoratori di estrazione differente finivano spesso in tribunale, dove era stato istituito un settore specifico, la ziliscnaja kamera, laddove la legislazione prescriveva regolamenti sempre più particolareggiati (osservanza del silenzio tra mezzanotte e le otto; lavaggio dei pavimenti, ecc.)54. La coabitazione forzata causa vere e proprie paranoie e psicosi d'alloggio come accade alla grottesca gente "nervosa" protagonista di alcuni racconti di Michail Zoscenko che si azzuffa «per ogni piccola sciocchezza»ss. La maggiore preoccupazione degli scrittori che narrano la vita nelle kommunalki è quella di essere creduti. Dovlatov racconta che uno studioso americano ha scritto: «Zoscenko è il Kafka russo, autore di fantascienza e antiutopico. Ha genialmente inventato gli alloggi in coabitazione, dove vivono molte famiglie»56. Questo spazio deformato potrebbe essere considerato una BI. ll'f, E. Petrov, Il vitello d'oro, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992 (ed. or. Zolotoj telenok, «30 dnej», 1931, nn. 1-7; 9-13, in volume, Federacija, Moskva 1933), pp. 264-265. s• Sulla geografia sociale della città sovietica vedi V. Semenova, Rave,istvo v nislete... , cit., pp. 373-388; sui tribunali vedi E. Ju. Gerasimova, Sovetskaja kommunal'naja kvartira, cit., p. 2 3 8. ss M. Zoscenko, Nenmye ljudi, in Id., Izbrannoe, t. 1. Rassk.azy i fel'etony. Povesti, Chudozestvennaja Literatura, l..eningrad 1978, pp. 109-111: 109. Vedi anche P. Messana, Kommu,mlka. Une histoire de l'U11io11 Sovietique à travers /es appartements communautaires, Lattes, Paris 1995, pp. 173-174. S. Dovlatov, Perevodnye kartitlki, in Id., Sobranie soànenij, Azbuka-klassika, Sankt-Peterburg 2003, t. 4, pp. 328-348: 340.

s'

RISCRITTURE DELLO SPAZIO URBANO

1 99

ingegnosa creazione letteraria e non realtà di generazioni di sovietici. L'incredulità era temuta anche da Bulgakov che, parlando della sua città, avverte: «ho raccontato tutto questo perché [... ] il lettore, si convincesse che io la Mosca degli anni Venti la conoscevo fino in fondo [... ]. Sono disposto a descriverla. Ma se la descrivo, desidero che mi credano», e aggiunge che non solo i russi hanno imparato a vivere senza una casa, ma «hanno persino perduto il concetto di "appartamento" e usano questa parola in modo ingenuo, come capita»57.

Geografia, storia, memoria Il piano abitativo del 1957 lanciato da Chruscev era volto alla liquidazione della kommunalka, soluzione abitativa mai contemplata dal potere sovietico che rappresentava ormai un problema sociale. Tuttavia, ancora oggi, le kommunalki continuano ad esistere, sebbene in misura inferiore: secondo un sondaggio nel 1989 quasi il 24 % delle famiglie di Leningrado viveva in una kommunal'naja kvartira. Con la privatizzazione degli anni Novanta i cittadini hanno acquistato anche singole camere e oggi più di un cittadino su cento condivide ancora l'abitazione5 8 • I vecchi tramezzi delle kommunalki rimangono sovente a vestigia del doloroso passato, a riprova della convinzione di Ricoeur che «la narratività impregni [... ] l'atto architettonico»59: questo claustrofobico reale sovietico è entrato a far parte della storia. La memoria dell'abitare, che è sempre condivisa (aspetto quanto mai vero per la kommunalka), è divenuta collettiva e ha dettato l'esigenza di segnare anche nello spazio quello che ormai appartiene S7 M. A. Bulgakov, Trattato sulle abitazioni, in Id., Appunti sui polsini, Editori Riuniti, Roma 1993, pp. 109-117: 112 (cd. or. Traktat o zilisle, Zcmlja i Fabrika, Moskva-Leningrad 1926, apparso su «Nakanune», il 27 maggio e il 12 giugno 1924, nel più ampio saggio Moskva 20-ch godov. Con il titolo Trattato sull'abitazione, la novella fu tradotta da Roberto Suster già nel 1928, dr. C. G. Dc Michclis, E il diavolo volò a Mosca negli anni terribili di Stali11, «Repubblica», 5 marzo 2002, p. 51 ). sa Sugli odierni appartamenti in coabitazione vedi il film documentario di F. Huguicr, Kommunalka (Francia, 2008), premio Anna Politkovskaja 2009. S9 P. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, p. 211 (ed. or. La mémoire, l'histoire, l'oubli, Editions du Seuil, Paris 2000).

200

LAURA PICCOLO

al tempo: sono nati luoghi della memoria60 in cui l'antico byt viene congelato tra le mura di un appartamento in coabitazione trasformato in museo, punto di intersezione della geografia e della storia della città (e nella sterminata geografia del web, con la galleria virtuale "Kommunalka ", dove sono ricostruiti in maniera interattiva due appartamenti in coabitazione) 61 • Nel 2012 a San Pietroburgo sarà inaugurato il Museo losif Brodskij, in quella stessa kommunalka sul Litejnij Prospekt dove il poeta è vissuto dal 19 5 5 al 1972. Per la sua realizzazione si sono incontrati gli stessi inconvenienti della kommunalka, dalle difficoltà per ottenere i "metri quadrati" all'ostilità dei coinquilini nel cederli. Attualmente, per un contingente paradosso, Brodskij "coabita" spiritualmente con Anna Achmatova nel museo a lei dedicato nella Casa sulla Fontanka a San Pietroburgo, costruito da Rastrelli per i principi Seremetev. Qui, nel 2003, grazie al mobilio e agli oggetti della casa americana donati dalla moglie, è stato ricreato lo "studio americano" del poeta, quello in cui Brodskij si è forse sentito, per la prima volta a "casa", un luogo, dove «nessuno ti fa domande inutili, dove non c'è nessun altro, ci sono solo io» 62..

'° lvi, p. 208. '' Kommunal'naja kvartira. Virtual'nyj muzcj sovctskogo byta, http://kommunalka.colgatc.edu/ [ultima consult. 14 gennaio 2012). ' 1 Real'11ost' absoljub10 neko11troliruema, «Dcn" za dncm», 8.9.1995, cit. in I. Brodskij, Bol'saja kniga interv';u, Zacharov", Moskva 2000, p. 671.

Volga: folclore e letteratura Lena Szilard

Il destino della Volga è la miglior lezione di destinologia V. Chlebnikov La Volga fa incontrare - riva a riva - l'Oriente con l'Occidente A. Tvardovskij

L'immagine letteraria della Volga (l'idronimo, in russo, è femminile) è un insieme di paradossi in cui si riflettono contraddizioni e complessità della storia di quella parte d'Europa che gradualmente si trasforma in Asia. Il fiume è confine ampio e maestoso ma meno marcato rispetto alla monumentalità della catena degli Urali. Nel corso dei secoli il fiume è stato l'unica arteria di collegamento dell'intero territorio che si estende lungo le sue rive, pur non rappresentando per le popolazioni, ivi stanziate, una stabile fonte di sostentamento a causa delle difficili condizioni climatiche e dei suoi mutamenti di regime: a periodi di abbondanti raccolti si alternavano, infatti, anni di carestia tanto gravi da motivare episodi di cannibalismo, come, ad esempio, nel 1921. Ciò ha contribuito a legarne l'immagine al trionfo delle forze della natura, che esigono dall'uomo una straordinaria capacità di adattamento. Da qui nasce il profondo rispetto per la Volga, le cui imprevedibili variazioni rappresentano uno dei temi principali nelle tradizioni folcloriche delle differenti popolazioni limitrofe. La riva destra, quella occidentale, presenta un profilo montuoso, con dirupi a strapiombo sul fiume, mentre la riva sinistra, quella orientale, è costituita da territori pianeggianti. L'attraversamento del fiume, prima della navigazione a vapore, dipendeva interamente dalle stagioni (d'inverno il fiume era gelato) e dai capric-

LENA SZILARD

202

ci della natura (alluvioni), sicché le popolazioni delle due rive, per lo più isolate una dall'altra, sviluppano due diverse varianti linguistiche ed etnomentali: una occidentale e una orientale. Nel folclore di queste genti - completamente immerse in un mondo di boschi, steppe, rocce, sabbie e paludi che circondano il fiume nel suo procedere da nord a sud con un'estensione dal 57° al 46° parallelo - la Volga è percepita quale asse orizzontale dell'universo indicante i quattro punti cardinali e specchio terrestre che riflette l'immagine della Via Lattea 1 • Il raccordo dei due piani è considerato un axis mundi che, per i popoli dei boschi, assume la forma di albero dell'universo mentre per i popoli della steppa si presenta come un bastone d'oro - conficcato in terra dalla divinità Tengrì - che s'innalza fino alla Stella Polare. Fra le popolazioni che abitano il bacino della Volga si incontrano quindi profonde differenze etniche, linguistiche e, di conseguenza, mitologiche, folcloriche e culturali. Accanto alla maggioranza russa, sono presenti almeno dodici etnie di origine ugro-finnica e turca, nelle cui lingue il fiume ancora oggi ha il nome di Idei, Itil, Jul o Atei. Sette di queste etnie, nel corso del xx secolo, hanno ricevuto lo status di repubbliche autonome, mantenendolo sino ad oggi: Cuvasija, Tatarstan, Repubblica dei Mari, Baskortstan, Udmurtija, Mordovija (o Repubblica dei Mordvini), e Kalmykija. Nel corso della formazione di tali stati, tuttavia, la scarsa conoscenza del loro esatto assetto etnico-linguistico ha portato a imprecisioni ed errori sulla suddivisione territoriale, così che questo mondo complesso resta ancora oggi una terra incognita sia per gli europei, sia per i russi2.

' Tale rappresentazione è simile a quella del Nilo presso gli antichi egizi. Questo dato di fatto è particolarmente evidente nel caso della Mordovia: il nome della repubblica è un csoctnonimo e, in quanto tale, è offensivo per la popolazione locale composta da due diverse etnie ugoriche, moksha e erzja, che parlano due diverse lingue ugro-finniche. Le loro differenze vennero già registrate da Roger Bacon in Opus majus (1267) e da Wilhelm Rubruk (1263). Cfr. Gy. Gyorffy, Napkelet felfedta,ise: Julianus, Pla110 Carpini és Rubruk ùtijelentései, Gondolat Kiadò, Budapest 1

1965.

Repubbliche lungo la Volga.

204

LENA SZILARD

Secondo fonti attendibili le prime popolazioni a stanziarsi lungo la Volga sarebbero state quelle ugro-finniche. Scrive Nikolaj Karamzin nella Storia dello Stato Russo (1818): Dal mare Baltico sino a quello Glaciale, dalle profondità del Nord europeo verso l'Oriente, fino alla Siberia, agli Urali e alla Volga, si diffusero numerose tribù finniche3. Non sappiamo quando si siano insediate in Russia, né se altre popolazioni si siano stanziate in precedenza in quelle terre dal clima nordico e orientale. L'assenza di notizie storiche precise su queste tribù finniche, antiche e numerose, che tuttora occupano un vasto territorio dell'Europa e dcli' Asia, è dovuta soprattutto al loro carattere non aggressivo: non si registrano né vittorie, né conquiste di terre altrui; sembra piuttosto che abbiano, invece, sempre ceduto i propri territori nella Svezia e nella Norvegia odierne ai Goti e, presumibilmente, quelli della Russia odierna agli Slavi. La loro vita è segnata da una costante miseria e da frequenti spostamenti dettati dalla ricerca di territori più sicuri4.

Le popolazioni di lingue turche hanno occupato la zona in due ondate principali: la prima risale ai secoli II e IV, cioè a due invasioni successive degli Unni; la seconda si verifica nel VII secolo, quando - dopo la disgregazione della Grande Bulgaria del khan Kubrat - arrivarono dal Sud i bulgari, guidati da Kotrad, figlio di Kubrat, mentre l'altro ramo della dinastia, capeggiato da Asparuch, anch'egli figlio di Kubrat, fondò il regno di Bulgaria nei pressi delle foci del Danubio. Tra la fine del IX e l'inizio del x secolo i Bulgari della Volga, più o meno contemporaneamente ai loro confratelli del Danubio, crearono uno stato lungo il fiume, la cui capitale, Bulgar, divenne un importante centro lungo la via commerciale della Volga che collegava la Scandinavia con le terre Arabes. Nel 1361 la città 3 Cosl Karamazin chiama le tribù ugro-finniche. Alcuni cronisti e storici le hanno denominate "Ugri" (ugry). ◄ N. Karamazin, Predanija vekov. Skazant/a, /ege,uJy, rasskazy iZ ·rstorii gosudarstva rosst/skogo", Pravda, Moskva 1989, p. 43. s Dcscri1Joni della città, dei suoi abitanti e dei loro costumi sono fomite da numerosi geografi arabi, in particolare da Abu Zayd al-Balkhi (8 50-934), autore di Ashkal al-Bi/ad, Ibn-Haukal, Ad Abdellatif. Quest'ultimo è una delle fonti cui rimanda il migliore storico del regno di Kazan', Karl Fuchs (1776-1846). Allievo di Fren, Fuchs nacque a Herborn, in Germania, nella famiglia di un pastore protestante; studiò a Gottinga e a Marburgo e fu invitato a coprire l'incarico prima di professore e poi di rettore dell'Università di Kazan' (1806-1833). A lui dobbiamo lo studio di numerosi

VOLGA: FOLCLORI! I! LE'ITHRATURA

205

subì gravi danni in seguito all'invasione di Bulat-Timur, principe dell'Orda d'oro, per poi essere distrutta definitivamente nel 1431 dall'esercito di Fedor Pestryj - voevoda di Paleck (l'odierna Palech) - inviato in queste terre dal principe di Moscovia. Ancor prima, durante il periodo dell'invasione dei Mongoli a capo di altri popoli della Grande steppa (che si estende a nord della Cina e della Mongolia) -, giunsero in questo territorio i Cinghisidi, che si fusero con i Bulgari della Volga con il sottoetnonimo di Tmjany 6• Idronimi della Volga

Tra il II e il IV secolo le lingue irano-sarmatiche, fino allora dominanti nella parte settentrionale della Volga, furono sostituite da lingue turche. In questo periodo il fiume, chiamato dai Sarmati Ra (Rha in iranico equivale a "generosa"), assumerà i nomi di Atei, Idei, Itil e JuJ7, mentre la popolazione Erzja conserva ancora la denominazione di Rae8• Gli Slavi, invece, pare siano arrivati nella parte centrale della Volga più tardi, all'incirca nell'vm secolo. Essi chiamarono il corso verso il sud il "cammino verso i Volgari", confondendo, secondo K. Fuchs, i suoni "b" e "v", come risulta anche nella Cronaca di Nikon dove i Polovcy sono definiti i "custodi della Volgarstija" (storoi,eve Volgarstit) 9 • Si noti testi nelle varie lingue locali da lui conosciute e la registra1Jone dei racconti degli abitanti locali di cui si occupava sia professionalmente come medico, sia come filantropo. Nella sua Breve storia della dttà di Kaza,i' del 1817 (una ristampa anastatica è uscita nel 1991) riporta che durante il regno di Caterina II si verificarono massicce migrazioni for1.ate di varie popolazioni e che già nel 1780 il regno di Ka1.an' venne suddiviso in sette provincie (mentre la Bas1cirija era stata già separata nel 1734): www.allka1.an.ru/library/history-ka1.an/book-3o/ (18 marzo 2012). ' In russo temtiik significa il capo di una t'ma, vale a dire una comunità di 10.000 persone. 7 Cfr. I. Zonn, A. Kostianoy, A. Kosarev, M. Glantz, The Casptan Sea Encyclopedia, Springer, Berlin-Heidelberg 2010. 8 L'idronimo Rha fu usato tra il II e il IV secolo da storici romani, tra i quali Claudio Tolomeo e Ammiano Marcellino. 9 K. Fuchs, Kratkaja istorija Kazani, Ka7.an' 1817, nota 23. Cfr. anche M. Zakiev, Proischoidenie tjurkov i tatar, Insan, Moskva 2002, pp. 7-8, 199-200. Le informazioni sui bulgari della Volga e sugli idronimi del fiume mi è stata fornita da S. Mingazov, che ringrazio vivamente.

206

LENA SZILARD

che "Volgarstija" presenta al suo interno (a differenza della forma letteraria volzanin) 10 la denominazione volgar•, ormai radicatasi nella lingua russa. I replicatoriu Scopo di questo articolo è fornire un succinto quadro delle immagini folcloriche e letterarie della Volga, ancora attuali presso alcune popolazioni delle regioni limitrofe. La rappresentazione di questo fiume è determinante per l'identità di tali popoli che nel corso dei secoli hanno considerato il fiume un' «immagine-guida». Tra le numerose rappresentazioni della Volga mi soffermerò su tre gruppi tematici più significativi, che nel corso dei secoli hanno assunto la funzione di "replicatori": operano cioè da schemi regolatori, atti a stimolare modelli di comportamento grazie alla loro capacità di inserirsi in nuovi cicli in qualità di informazioni auto-generate. È interessante iniziare questa panoramica con l'immagine della Volga nella tradizione popolare dell'attuale Ungheria dove, con il nome di Etei', questo fiume, benché molto distante, occupa un posto altrettanto importante del Danubio. Il folclore ungherese, infatti, affidandosi al celebre diario di viaggio del monaco domenicano ungherese Julianus (1236, 1237) e ai taccuini dei francesca10 Si ipotizza l'origine slava dell'idronimo Volga che risalirebbe alla forma dello slavo antico 'Vl'ga' e a quella del protoslavo 'V'lga' (con il significato comune di 'v/ag' [umidità]) e avrebbe una parentela con i nomi di altri due fiumi occidentali: Viga nella Repubblica Ceca e Vil'ga in Polonia, benché tale supposizione sia discordante con le leggi di trasformazione dei gruppi fonici «V',. e «V'',., ricostruite dalla filologia slava. 11 Mutuo il termine dalla sinergetica di Pojzner (B. N. Pojmer, Replikazija - /ate,1ttryj tTansdisciplinamyj koncept?, in Novye idei v aksiologii i analiu cemwst11ogo soznanija, vyp. 4, URO RAN, Ekaterinburg 2007, pp. 220-258). Poimer riprende il concetto di «meme,. lanciato da Richard Dawkins, Il gme egoista, Zanichelli, Bologna 1980 (cd. or. The Selfish Ge,1e, Oxford University Prcss, Oxford 1976). Analogamente a ciò che il gene per la trasmissione delle informazioni biologiche, il meme è un'unità di evoluzione culturale che si autoreplica, trasmettendo informazioni culturali. In questo senso il «meme,. è un «replicatore,. culturale, un «elemento capace di determinare i comportamenti degli individui di una collettività, fondato sull'imitazione di modelli e consuetudini impostisi nella specie di appartenenza,. (A. Gabrielli, Il grande Italiano - Voc:abo/ario della lingua italiana 2008, Hoepli, Milano 2007, p. 1513 ).

VOLGA: FOLCLORI! I! Ll!'ITl!RATURA

207

ni Giovanni di Plano Carpini (1247) e Wilhelm von Rubruk [Willielmus de Rubruquis] (1263) 12, ricorda l'antica patria, situata nel bacino tra la Volga e il Don (da loro chiamato Etelkoz), e i magiari lì rimasti, entrati poi nella grande comunità multietnica dei Tatari di Kazan', con il nome di misar(Jar) (in tataro) o mescerjaki (in russo). Si offre così una visione che include anche i magiari-misarimesierjaki, che non fecero parte delle sette tribù dei «passionari» 1 3, fondatori della patria magiara presso il Danubio. Il percorso verso Occidente è interpretato come abbandono del bosco sotto la guida della figura totemica del cervo e, successivamente, come attraversamento della steppa appena più a nord del Mar Nero 14, sulle orme della figura totemica del favoloso uccello-guida Turulmadar (il "falco" Turul), tuttora presente nelle leggende e in diverse opere letterarie di poeti ungheresi classici (Arany Janos, Ady Endre e altri). Ancor oggi, purtroppo, nei periodi di crisi economiche e politiche il richiamo alla figura di Turul acquista la valenza di un aggressivo nazionalismo che cela al contempo la paura dell'estinzione di questo piccolo stato, il quale, consciamente o inconsciamente, si affida all'aiuto del totem, già nel passato «consigliere» di una giusta via d'uscita. Per quel che riguarda i Misari, rimasti nelle regioni attraversate dal fiume, sembra che, dopo essersi fusi con i Bulgari della Volga, con i Tmjan, arrivati da Oriente, e con altre popolazioni turche e ugrofinniche locali, confluirono nell'attuale Repubblica multietnica del Tatarstan, che si autoconsidera la «finestra sul)'Asia», pendant di San Pietroburgo «finestra sull'Europa» secondo la definizione di Algarotti. Tuttora nel Tatarstan ogni etnia conserva le proprie tradizioni linguistiche e culturali in una clima di tolleranza religiosa che assicura la coesistenza pacifica tra fedi •~ Cfr. Gy. Gyorffy, Napke/et fe/fedezése: Julianus, P/a110 Onpini és Rubruk ùtife/entései, Gondolat Kiadò, Budapest 1965. '3 Dcfini1Jone coniata dallo storico, etnologo e antropologo L. N. Gumilev - figlio dei poeti Nikolaj Gumilev e Anna Achmatova - le cui idee non allineate sulla nascita e sulla morte di gruppi etnici hanno dato vita al movimento politico e adturale denominato "nco-curasiatismo". Cfr. L. N. Gumilev, Ethnoge,,esis a,uJ the biosphere, Progrcss, Mosoow 1990 (cd. or. Et11oge,,ez i biosfera zemli, M~I', Moskva, 1979). 1 ◄ Prolungamento della Grande steppa che ancora veniva chiamata «Campo dei barbari ...

208

LENA SZILARD

diverse, tra «varianti» del cristianesimo, fedi ebraiche, musulmane. È presente anche l'animismo, praticato in diversi villaggi e basato su rituali connessi ai calendari agricoli, collegati al culto delle forze della natura e, quindi, dedicati anche alla Volga-Idei. Nei villaggi tali rituali conservano ancora l'impronta religiosa arcaica, mentre nella città hanno assunto una dimensione carnevalesca e teatrale. Nelle diverse varianti si conserva il mito del drago Zilant - che figura nello stemma di Kazan' -, simbolo di mediazione tra mondo superiore e inferiore, mondo del cielo e mondo dell'acqua. Zilant rappresenta quindi l'annullamento dell'opposizione binaria, incarnata, invece, nella leggenda di San Giorgio Vittorioso che sconfigge il drago. L'idea di mediazione si è trasmessa dal folclore alla cultura post-moderna, come testimonia, ad esempio, la recente rock-opera Altyn Kazan (Il Paiolo d'Oro), su libretto del poeta contemporaneo tataro Renat Charis, la quale ricostruisce la leggenda sull'origine della città di Kazan'. Nel suo adattamento il poeta ha conservato le caratteristiche fondamentali del mito: l'azione comune di acqua, terra e cielo e la leggenda del Drago. Questa creatura favolosa, abitante del fiume dove era caduto il paiolo magico, annunciò che l'avrebbe riconsegnato solo a chi non aveva mai dovuto versare sangue e, dopo averlo offerto a una fanciulla, volò in cielo per trasformarsi in una costellazione, mentre la gente si radunava sulla riva intorno al leggendario oggetto per fondare la città di Kazan', il cui nome in tataro significa appunto «paiolo» 1 5. Una delle figure più popolari nella cultura russa, soprattutto nelle sue forme folcloriche e pseudofolcloriche, e che tuttora funge da modello comportamentale, è quella di Sten'ka Razin (Stepan Timofeevic Razin, 1630-1671), appartenente alla comunità dei cosacchi del Don e capo della rivolta contadina e dei vecchiocredenti (1670-1671) contro lo zar Alessio 1. La figura di Razin-volgar', abitante della Volga e quindi personificazione della libertà assoluta, la cosiddetta vol'naja vo/juska, ha un ruolo preminente nella coscienza collettiva russa. Il suo stretto legame con la Volga è attestato da molteplici leggende, fiabe e canti, di cui la •s M. Fasmcr, P.timologileskij slovar' russkogo jazyka, Progrcss, Moskva 1986, v. Il, p. 159.

VOLGA: FOLCLORI! E LE'ITHRATURA

209

più nota è Iz-za ostrova na strezen·... 1 ' \ una delle canzoni popolari finora più diffuse. Considerata frutto del folclore, in realtà essa è opera del semi-sconosciuto poeta Dmitrij Sadovnikov (1847-1883) e pubblicata soltanto negli anni Sessanta del XIX secolo. In questa canzone, tuttavia, l'autore è riuscito a esprimere fedelmente lo spirito del popolo in relazione sia al fiume, sia al protagonista, occupando così molto rapidamente un posto di primo piano nell'immaginario popolare, superiore persino ai versi di Aleksandr Puskin, che riteneva Razin l' «unico volto poetico della storia russa» 1 7. Quali corde nell'animo popolare ha toccato la canzone di Sadovnikov per divenire immediatamente "nazionale"? Evidentemente, bisogna considerare centrali nella canzone le parole di Sten'ka Razin rivolte al fiume: Volga Volga, cara madre, Volga, fiume russo, Ancora non hai visto il dono Del cosacco del Don.

Questa strofa condensa le idee centrali della canzone: l'immagine della Volga come fiume specificamente russo e madre cara, ma esigente e severa, degna del sacrificio del figlio. Il concetto di severità collegato alla madre è caratteristico della mentalità russa e, a volte, è applicato alla patria, come, per esempio nella poesia di A. Blok Amore d'autunno 18 : Davanti al volto della patria severa Io penderò sulla croce.

Nei versi del poeta simbolista ritorna anche la nozione di sacrificio, presente nella canzone su Sten'ka Razin: Tutto darò via, senza lesinare, darò la mia testa furiosa. Cfr. (red Iv. N. Rozanov), Russkie pest1i, Goslitizdat, Moskva 1952. A. S. Puskin, Polnoe sobranie solineni; v 16 tomach, Akademija nauk SSSR, Moskva-Leningrad 1937-1949, t. 13, p. 120 (Lettera al fratello del 1824). 18 In A. Blok, I dodici, (trad. di E. Ba1.1.arelli), Ri1.zoli, Milano 1998, p. 265. 1'

11

LENA SZILARD

210

Nella canzone, tuttavia, Razin non offrirà alla Madre-Volga «la sua testa furiosa» ma, come in Puskin, una principessa persiana. L'immagine di Sten'ka Razin è complessa e poliedrica. Ripellino ne parla come di un «pirata fluviale del Volga» 19, mentre la storiografia mette di solito in luce il suo ruolo di capo della rivolta contadina e la sua condanna nel 1671, per la quale fu sottoposto a Mosca, prima della morte, a tremende torture. Per la tradizione folclorica Razin ha sempre rappresentato la personificazione dello spirito di libertà, già del resto contenuto nella parola di origine turca «cosacco», cioè «uomo libero» 20, termine entrato nelle lingue russa e ucraina insieme con il più gergale «volgar'», a significare anche un uomo audace e ribelle. Il gesto «audace e libero» di Sten'ka Razin, che getta nell'acqua la principessa persiana quale dono sacrificale alla Madre-Volga, risale verosimilmente al rituale arcaico delle popolazioni agricole, che sacrificavano una fanciulla per assicurarsi il favore del fiume. La memoria archetipica di questo rituale ha plausibilmente facilitato la diffusione e la rievocazione nell'immaginario popolare russo del gesto di Razin, come testimoniano opere letterarie, pittoriche, musicali e cinematografiche del xx secolo. Nel campo letterario, tuttavia, fino alla fine dell'Ottocento, l'immagine della Volga compare raramente e ciò è da attribuire alla egemonia dei testi pietroburghesi e moscoviti durante tutto il XIX secolo. Non a caso il futurista Chlebnikov, in un articolo del 1913, sottolineava proprio l'esigenza di un «ampliamento dei confini delle lettere russe» 21 • A quel tempo, infatti, la Volga come rappresentazione dell'autentica vita russa era attestata quasi esclusivamente nelle opere di scrittori originari del suo bacino. Emblematico, a questo proposito, è il romanzo Il burrone (1869) di Ivan Goncarov (l'autore di Oblomov), che, mettendo in contrasto il mondo della Volga con quello moscovita e pietroburghese, sottolinea come l'ambiente delle capitali considePoesie di Chleb11ikov, Einaudi, Torino 1968, p. XXXIII. M. Fasmer, Etimo/ogileskij slovar' russkogo jazyka, Progress, Moskva 1986, v. Il, p. 158. u V. Chlcbnikov, O rassire11it predelov russkoj s/ovesnosti, in Id., Tvoretlifa, Sovctskij pisatcl', Moskva 1987, p. 593. 1

9 A. M. Ripellino,

10

VOLGA: FOLCLORE E Ll!lTERATURA

2.11

rava i luoghi vicini al bacino del fiume «buchi della Russia» 22• Prima ancora di Goncarov, anche il drammaturgo Aleksandr Ostrovskij aveva descritto in più occasioni la vita nei pressi di quel fiume; nel finale del dramma La tempesta (1859) alludeva proprio al gesto di Razin e al sacrificio della fanciulla persiana. Con le parole espresse da Caterina prima di gettarsi nel fiume «Se venissi gettata nella Volga, sarei felice» 2 3 -, l'autore, infatti, sembra voler sottolineare l'identificazione della protagonista con la principessa persiana e l'associazione del suo gesto con quello del ribelle (impetuoso) cosacco: Caterina risulta così contemporaneamente vittima e carnefice. Il critico radical-rivoluzionario Dobroljubov definisce Caterina «uno spiraglio di luce nel regno dell'oscurità» 2.4, facendo della protagonista ribelle quasi una "nichilista" ante litteram che preferisce il suicidio alla vita in un mondo gretto e provinciale. Questa interpretazione "ideologica" sembra aver spinto Goncarov a scrivere Il burrone proprio in polemica con Dobroljubov. Nel trasformare i suoi personaggi in "archetipi" (come nel caso di Oblomov), Goncarov ribalta la vicenda e fa del nichilista Mark Volochov una parodia del cosacco ribelle. Quale portatore di idee «nuove» che al contempo esige sacrifici, Volochov si presenta a Vera come un novello Razin e con il suo impeto eversivo la spinge metaforicamente nel burrone. In realtà, l'attesa "caduta" di Vera nella Volga (variazione anche del suicidio della Caterina di Ostrovskij) non si verifica. Al nichilista Volochov lo scrittore, creando un romanzo nel romanzo, oppone l'artista e scrittore Raev, che nelle sue riflessioni ironizza sul tragico cliché della morte nella Volga:

Avrei potuto scrivere un dramma su Vera, ma non sarei stato capace di abbellire con burroni la sua caduta[ ... ] e poi le varie signorinelle russe avrebbero percepito la mia incapacità come un esempio da seguire, e come 11 I. A. Gonairov, Sobranie soànenij v 8 tomacha, Chudot.cstvennaja literatura, Moskva 1954, v. 6, p. 218. 1 1 A. Ostrovskij, Groza, in id., Po/noe sobranie socvinenij, v. n, GICHL, Moskva 1950, p. 400. 14 A. Dobroljubov, Lulsvetav temnom carstve, «Sovrcmcnnik», 1860, n. 10, lii, pp. 2.33-2.92..

212

LENA SZILARD

capre sarebbero andate tutte a saltare nei burroni! ... E di burroni cc ne sono molti nella terra russa!2·5

È indicativo che l'artista Raev trovi rifugio lontano dai «buchi russi» e non a Pietroburgo o a Mosca, ma a Roma, perché lì «l'arte non è un lusso o uno svago, ma un lavoro, delizia della stessa vita!» 26• A Roma Raev porta con sé la memoria della Volga, dove avrebbe voluto trasferire l'atmosfera storico-culturale della città eterna. Dall'inizio del xx secolo, e in particolare con le avanguardie, gli orizzonti geografici della letteratura russa si ampliano. Uno dei primi a operare in questa direzione è proprio il "futuriano" Velimir Chlebnikov. Nato sulla Volga, costruì anche la propria vita - per usare le sue stesse parole - come un continuo «andare contro corrente» 2 7, metafora che in questo caso conserva anche l'accezione letterale: Chlebnikov non solo rompe completamente con la poesia delle generazioni precedenti, ma si sposta fisicamente da sud a nord, contro la corrente del fiume. Vagabondo per natura (Pietroburgo, Mosca, Iran), questo «viaggiatore incantato della poesia russa» 28 è riuscito a far coincidere la propria nascita con la foce della Volga, ad Astrachan' e la propria morte con la sua sorgente, il villaggio Santalovo. La Volga appare in più di venti opere chlebnikoviane, nelle cui immagini spesso criptiche il tratto più significativo è specificamente storico. A differenza di altri scrittori e poeti, Chlebnikov ha abbracciato infatti tutti i «periodi» della storia del fiume usando, anche in una stessa poesia, i differenti idronimi succedutisi nelle diverse epoche, affinché «i tempi splendano attraverso i tempi» 2 9. Così nel poema Chadzi-Tarchan (1913), dedicato ad Astrachan', il cui titolo riprende l'antico nome della città 30, Chlebnikov chiama il fiume con il suo nome attuale e con quello 1

s I. A. Gonfurov, Sobra11te solt,umif v 8 tomacb, cit., v. 6, p.

1, Ivi, p.

421.

42.4.

V. Chlebnikov, Dve troicy. Raztn naprotiv, in Id., Tvorenifa, cit., pp. 567-569. K. Zclinskij, Na rubete dvuch èpoch,Sovetskij pisatel', Moskva 1962., p. 2.12.. 1 9 V. Chlebnikov, Pust' na mogil'nof p/ite?, in Id., Tvorenifa,cit., p. 577. 3o Città che deve il nome al suo leggendario fondatore in un periodo di intensi rapporti con il mondo arabo. 17

11

VOLGA: FOLCLORE E Ll!lTERATURA

2.13

antico di Ra. Come esempio della «continuità culturale del bacino della Volga» Lev Gumilev propone, sarcasticamente, la storia del Cremlino di Astrachan, da lui definito un vero disastro archeologico. È stato costruito con mattoni tatari, fatti nel periodo Batu e presi dalle rovine di Saraj, la capitale dell'Orda d'Oro. Ma ancora più interessante è che per la costruzione di Saraj furono usati mattoni provenienti dalle rovine di Itil', la capitale di Chazarija. Questa è la continuità culturale del bacino della Volga3'.

Altrettanto frequente nell'opera di Chlebnikov è la figura di Razin, anche e proprio per il suo legame con la Volga e con la città di Astrachan', dal cosacco occupata durante la rivolta; nei versi e nelle poesie palindromi il ribelle a volte appare come il doppio del poeta, a volte come il suo opposto. Se infatti Chlebnikov esalta la figura di Razin sposando la rivolta e la missione di liberazione di questo eroe rivoluzionario32, in alcuni versi, come nel poemetto Tiranno senz.a la T3 3, cioè Iran, contrappone dichiaratamente al cosacco-distruttore la sua figura di poeta-creatore per annullare il gesto omicida del violento distruttore: Io sono Razin al contrario Io sono Razin a rovescio[...] Lui depredava e bruciava, io sono un piccolo dio della parola [...] Razin annegò una fanciulla nell'acqua Cosa farò io? Il contrario? La salverò!

Controcorrente Chlebnikov si rivela anche nei confronti della tradizione folclorica relativa alla Volga, i cui confini vengono da lui superati con un movimento ascensionale in un percorso di universalizzazione di questa immagine sempre più ampia. Così la Volga diventa a poco a poco l'immagine globale del movimento, la personificazione del moto ondulatorio quale manifestazione L. Gumilev, Ot Rusi k Rossii, Mysl', Moskva 1992., p. 2.06. Durante la rivoluzione la figura di Razin acquistò una particolare fama tra gli scrittori: «In quegli anni, Sten'ka Razin divenne il più popolare eroe storico. Chlebnikov, Kamensky, e gli scrittori del Proletku'lt, tutti iniziarono a cantarlo», scrive K. Zelinskij, Na ve/ikom rubeie, «Znamja» 1957, n. 12., pp. 147-148. 33V. Chlebnikov, Tirati bezT, in Id., Tvoretùfa, cit., p. 350. 31 31

LENA SZILARD

214

dell'intelletto cosmico. Onde della luce, del suono, dell'energia e del «succedersi delle generazioni»: Io credo che l'intelletto dell'universo sia molto più ampio del cervello terrestre E tramite la rete dell'uomo e delle pietre Scorre come un unico fiume, Come unico cammino la Volga34.

A detta del filosofo Lipavskij, Chlebnikov «per primo» intuì quella che poi sarà definita «la struttura ondulatoria dell'universo»35, affermando che «cavalcando le onde» è possibile governare il mondo, idea base della sua concezione della vibroturgia. In Chlebnikov la Volga è anche alla guida di un girotondo cosmico cui partecipano tutti i fiumi terrestri3 6• Questa immagine chlebnikoviana è, probabilmente, all'origine della scelta da parte del contemporaneo Viktor Erofeev del titolo I cinque fiumi della vita (I 999 ), opera il cui sottotitolo recita: «Romanzo-fiume. Libro di viaggi fiabeschi». Nel volume lo scrittore riproduce in maniera parodistica e ironica stereotipi della coscienza russa e, in particolare, quelli relativi alla Volga. Il tema è presente fin dalla prima frase del testo: «Mi ha sempre disturbato pensare che la Volga sfoci nel Mar Caspio»37. La frase subordinata ( «la Volga sfocia nel Mar Caspio»), ricalca un modo di dire russo, commento-cliché alla presentazione pomposa di una banalità. In tal modo Erofeev inizia il suo discorso sulla Volga con una discussione sulle «verità» diventate «ovvietà» (come è avvenuto per tutta la congerie di discorsi sulla MadreVolga, «il fiume più grande d'Europa» ecc.), presentando in modo ironico argomenti ancora essenziali per i suoi compatrioti e offrendo conclusioni "esemplari" al «preoccupante» sfociare del fiume nel Mar Caspio: «Così tutta l'energia ortodossa si scarica nel vascone musulmano»3 8 • V. Chlcbnikov, Si11ie okovy, in Id., Tvormi;a, cit., p. 378. L. Lipavskij, Razgovory, «Logos», 1993, n. 4, p. 13. 3, V. Chlcbnikov, Si11ie okovy, cit., pp. 367-368. 37 Vik. Erofccv, Pjat' rek ziZnl, Podkova, Moskva 1999, p. 5. 31 Ivi, p. 6. 34

3S

VOLGA: FOLCLORE E Ll!lTERATURA

2.15

Nel romanzo-fiume Viktor Erofeev fa eco anche al gesto di Razin: l'autore-narratore, nel cercare una compagna di viaggio (che sarà una femminista berlinese, con il complesso tedesco per la Seconda guerra mondiale) dichiara di non volerla gettare nella Volga per non seguire l'esempio «dello zar dei contadini» che, a suo dire, compie questo atto «per caso, o perché non ha nulla da fare»39. Ugualmente ironica appare la conclusione della parte introduttiva del romanzo: «La Volga è il cemento del mito russo. Non un fiume, ma un'autostrada di lacrime» 40• A conclusione di questo percorso sulle onde del celebre e celebrato fiume, vorrei contrapporre alle parole di Viktor Erofeev, scrittore postmoderno, un frammento dell'epistolario del simbolista Andrej Belyj, riflesso dell'esperienza diretta di un suo viaggio sul fiume nel 1927: La Volga ci scopre un quadro: la Russia come immagine di campi, rive, terre, villaggi, città. E questa «pura contemplazione» (per usare le parole di Schopenhauer) ci presenta a suo modo l'"Idea" della Russia [..•]. Dio mio! Perché Blok non ha navigato sulla Volga! Avrebbe potuto aggiungere molto a ciò che ha detto sulla Russia[ ... ]. Mi dispiace che non si vada nel Caucaso attraverso la Volga e che non si ritorni dal Caucaso lungo la Volga[ ...]. È dalla Volga che si devono vedere le rive della Russia che scorrono [...]. Così si vede l'immagine della Russia nella sua integrità [... ]. Si capisce che la Volga è un albero fluente della vita russa (guarda una carta della Volga e i fiumi e le acque che vi sfociano, e vedrai che il suo bacino è un albero la cui cima si estende in tutta la Russia europea). Dalla Volga si apre il fiume della vita russa, che ha contribuito a far nascere presso la sua foce lo spirito di libertà e, nelle sue sorgenti, lo spirito dei Vecchi credenti [...]. Così la Volga è madre della terra russa [...] non nella terra, ma nell'acqua, forza fluida della natura4 1 •

(traduzione di Giuseppe Mussi)

J9



Ivi, p. 12.. Ivi, p. 8.

4' A11drej Befyj i Ivanov-Razummk. Perepiska, Fcniks-Athcncum, Sankt-Pctcrburg 1998, pp. 537-538.

I paesi di confine nella coscienza letteraria russa Marija Virolajncn

Il concetto di "confine" rappresenta un elemento comune alla letteratura e alla geografia, ampiamente utilizzato nella critica letteraria e negli studi folclorici. Jurij M. Lotman definisce l'intreccio di un testo come «trasferimento del personaggio oltre i confini del campo semantico» 1 • In sostanza, questa definizione traduce nella lingua letteraria il meccanismo sul quale si costruisce l'intreccio delle fiabe di magia, che può essere considerato come il modello ideale di qualsiasi narrazione epica. Perché l'intreccio fiabesco possa svilupparsi, l'eroe deve attraversare il confine tra il proprio mondo e quello "altro". L'attraversamento di questo confine rappresenta la condizione imprescindibile per le successive prove e per l'acquisizione di attributi superiori, considerati un obiettivo da raggiungere. Qui la favola rimanda ai riti di passaggio che, come già ha mostrato Arnold van Gennep, implicano l'attraversamento del confine e uno scambio tra i mondi confinanti2 • Il confine geografico sembrerebbe aver poco in comune con il confine letterario. Tuttavia, essi si incontrano nella geopolitica, che si riflette nella coscienza letteraria di ogni epoca. Cercherò di analizzare questo aspetto soffermandomi su due poemi composti nella prima metà degli anni Venti del XIX secolo: Il prigioniero del Ozucaso (Kavkazskijplennik) di Aleksandr S. Puskin e Eda (Èda) di Evgenij A. Baratynskij. Queste opere, strettamente legate l'una all'altra, possono essere esaminate alla luce di una proJu. M. Lotman, La struttura del testo poetico, a cura di E. Bazzarclli, Mursia, Milano 1972, p. 276 (cd. or. Struktura chudoiestvennogo teksta, Iskusstvo, Moskva 1970). 1 A. van Gcnncp, J riti di passaggio, Bollati Boringhicri, Torino 198 5 (cd. or. Les rites de passage, funilc Nourry, Paris 1909). 1

218

MARIJA VIROLAJNEN

spettiva storica che abbraccia diverse tappe della formazione della letteratura russa. Nel 1820 Baratynskij e Puskin vengono ambedue allontanati da Pietroburgo: il primo è inviato al Nord, nella Finlandia da poco conquistata; l'altro al Sud, in Bessarabia, annessa alla Russia nel 1812 in seguito alle guerre russo-turche. Ufficialmente nessuno dei due poeti era considerato in esilio. Per un errore di gioventù Baratynskij era stato espulso dal Corpo dei paggi ed escluso da qualsiasi impiego statale, ad eccezione del servizio militare come soldato semplice. Arruolatosi un anno dopo nel Reggimento della guardia Egerskij, nel gennaio del 1820 il poeta viene assegnato a quello di fanteria Nejslotskij di stanza in Finlandia. Qui, e in particolare tra le città di Fredrikshamn, Villmanstrand, Rochensalm, Helsingfors (Helsinki), le rive del Lago Saimaa, la cascata di Imatra, il poeta trascorre quasi cinque anni, privo di obblighi di servizio gravosi, godendo di una certa libertà e recandosi più volte a Pietroburgo. Ciononostante, il suo soggiorno finlandese viene percepito sia da Baratynskij sia dai suoi amici come un esilio. Causa del confino di Puskin sono invece i suoi versi sulla libertà, che circolavano in copie manoscritte. Il poeta viene inviato come addetto alla cancelleria presso l'amministratore dei coloni della Russia meridionale, il generale di brigata I. N. Inzov. Il viaggio di Puskin si rivela ben più lungo di quello di Baratynskij. Giunto nella città di Ekaterinoslav, il poeta, con l'autorizzazione di Inzov, visita il Caucaso e la Crimea insieme alla famiglia del generale Raevskij. Concluso il viaggio, Puskin trascorrerà circa due anni a Kisinev per poi trasferirsi ad Odessa, dove nell'agosto del 1824 riceverà l'ordine di ritirarsi nella sua proprietà di famiglia a Michajlovskoe, nel Governatorato di Pskov. Il destino di Puskin e Baratynskij è segnato da una sorprendente simmetria. I due poeti sono quasi coetanei (Puskin nasce nel maggio del 1799, Baratynskij nel febbraio del 1800) e destinati a una breve esistenza: Puskin muore a 37 anni, Baratynskij a 44 (peraltro a Napoli). Il primo periodo pietroburghese della loro attività letteraria inizia quasi contemporaneamente: per Puskin nell'estate del 1817, per Baratynskij, nell'autunno del 1818. Poco tempo dopo il suo arrivo a Pietroburgo, Anton A. Del'vig, il più caro compagno di Puskin, diventa uno dei migliori amici di Bara-

I PAESI DI CONFINE Nl!.LLA COSCIENZA LETTERARIA RUSSA

219

tynskij. Riconosciuto e accolto nell'"Unione dei poeti" del liceo di Carskoe Selo - alla quale, oltre a Del'vig e Puskin, aderisce anche Kjuchel'beker -, Baratynskij si fa subito apprezzare anche nella più ampia cerchia letteraria alla quale già apparteneva Puskin. Per entrambi la vita pietroburghese si interrompe nel 1820. Le peregrinazioni di Baratynskij si concludono nel 1825. Dopo aver ottenuto, finalmente, il grado di ufficiale, il 31 gennaio 1826 si congeda e per qualche anno si stabilisce a Mosca, dove, in quello stesso anno, torna dall'esilio Puskin. I poeti si trovano così nuovamente insieme nell'ambiente aristocratico e letterario moscovita. Le loro prime raccolte poetiche (compendio della produzione giovanile) vengono pubblicate a distanza di un anno: Versi di Aleksandr Puskin (Stichotvorenija Aleksandra Puskina, SPb. 1826) e Versi di Evgenij Baratynskij (Stichotvorenija Evgenija Baratynskogo, M. 1827). Le simmetrie e le coincidenze disseminate dal destino sul loro cammino riguardano anche l'incontro dei due poeti con una donna fatale, nell'ultimo anno del loro esilio: Elizaveta Ksar'evna Voroncova, moglie del governatore generale della Nuova Russia, e Agrafena Fedorovna Zakrevskaja, moglie del governatore generale di Finlandia. Puskin coglie immediatamente il ritmo che scandisce il loro destino e ravvisa un parallelismo tra il suo esilio al Sud e quello di Baratynskij al Nord, inscrivendo l'uno e l'altro nel mito letterario del poeta-esiliato. Di fatto Puskin, supponendo erroneamente che il suo esilio trascorra negli stessi luoghi nei quali fu confinato Publio Ovidio Nasone, usa più volte nei propri versi l'analogia delle loro vicissitudini, "cucendo" su di sé il destino del poeta romano. Anche Baratynskij, come Ovidio, viene esiliato a Nord. Nella lettera A Boratynskij (Dalla Bessarabia, 1822) Puskin inserisce il suo nordico destinatario nel "mito ovidiano" che accomuna i poeti-esiliati: «Ancor oggi l'ombra di Nasone cerca le sponde del Danubio; essa vola al dolce appello degli alunni delle Muse e di Apollo e con essa io spesso al chiaro della luna vo vagando lungo la ripida riva; ma, o amico, mi sarebbe più caro abbracciare in te Ovidio vivo»3. J A. S. Puskin, A Boratynskij (Dalla Bessarabia), in Id., Tutte le opere, voi. n: Tutte le opere poetiche, Mursia, Milano 1964, p. 66. Sul mito ovidiano del poeta-csi-

liato si veda la lirica A Ovidio: «Ovidio, io vivo presso le placide rive, alle quali tu

220

MARIJA VIROLAJNEN

Per il mio discorso risultano, tuttavia, più importanti i due poemi già ricordati, che sono strettamente legati alla geografia dell'esilio dei due poeti: il poema meridionale di Puskin, Il prigioniero del Caucaso, e il poema Eda - dal sottotitolo "racconto finlandese" - scritto da Baratynskij in risposta a Puskin. L'intreccio di queste opere è determinato dal luogo d'esilio, il Caucaso e la Finlandia, le regioni di confine meridionale e settentrionale dell'Impero da poco conquistate e ancora recepite dalla coscienza poetica come paesi esotici, benché ormai integrati nel territorio russo. Il prigioniero del Caucaso, il cui nucleo narrativo si sviluppa intorno all'amore di una circassa per un prigioniero russo, apre il ciclo dei poemi meridionali di Puskin il cui prototipo, com'è noto, è rintracciabile nei poemi orientali di Byron. L'osservanza di tale modello si associa però a una serie di sostanziali "spostamenti" che Puskin opera con l'inserimento nella cornice compositiva dei poemi meridionali di un eroe erede di Child Harold, ma anche del1'Adolphe di Benjamin Constant. Così, al posto di una personalità demonicamente forte, che vive e agisce secondo le proprie passioni, si profila un eroe "disilluso", "indifferente", "freddo", incapace di provare sentimenti autentici. L'incontro con tali eroi diventa fatale per l'ardente circassa, e non solo per la diversità dei loro temperamenti. Ancora più essenziale per l'intreccio del Prigioniero del Caucaso è lo scontro tra due culture di confine. Dopo aver letto l'opera di Puskin, Baratynskij scrive l' Eda che, come si è detto, reca il sottotitolo di Racconto finlandese e manifesta apertamente il suo legame con il Prigioniero del Caucaso. Non sorprende quindi che il «racconto finlandese» dell'esule del Nord sia stato letto e apprezzato dai contemporanei sullo sfondo del "racconto caucasiano", creato dall'esule del Sud. Lo stesso intreccio del poema di Baratynskij, l'amore della fanciulla finnica per l'ussaro russo, sembra suggerire tale confronto: l'amore per l'uomo russo, in entrambi i casi, si rivela fatale per le donne dei paesi esotici da poco conquistati dalla Russia. una volta portasti i tuoi dèi esiliati e lasciasti la tua cenere. li tuo pianto sconsolato ha reso famosi questi luoghi, e la tenera voce della lira ancora non è ammutolita; questo paese è ancora pieno della tua fama» (ivi, p. 64).

I PAESI DI CONFINE NELLA COSCIENZA LETTERARIA RUSSA

2.2.1

L'intreccio e la poetica del poema caucasiano di Puskin si riflettono effettivamente nel racconto finlandese di Baratynskij, ma si tratta, appunto, di un riflesso, con l'effetto caratteristico del ribaltamento proprio dello specchio. Tale effetto nasceva non solo dal fatto che all'esotismo meridionale di Puskin corrisponde l'esotismo settentrionale di Baratynskij, ma anche perché i due personaggi centrali - maschile e femminile - occupano nell'Eda posizioni diametralmente opposte rispetto a quelle che occupavano nel Prigioniero del Caucaso. In Puskin ad avviare la relazione amorosa è la circassa, in Baratynskij l'ufficiale russo; in Puskin il ruolo centrale è affidato alla stessa circassa, come in Baratynskij allo stesso ufficiale russo. L'intreccio coincide solo in un punto, fondamentale per lo sviluppo della narrazione: alle protagoniste femminili è assegnato il ruolo di vittima sacrificale. La simmetria dell'intreccio dei due poemi è determinata in questo caso non solo dal fatto che Baratynskij abbia seguito intenzionalmente Puskin, ma anche dal fatto che entrambe le opere, lette come un originale dittico, si rivelano (al di là della volontà dei due poeti) inscritte in un'ampia tradizione letteraria, che risale all'origine stessa della civiltà letteraria russa. A partire dall'XI secolo, la mitologia della storia russa si sviluppa, infatti, seguendo due orientamenti: settentrionale e meridionale. La grande arteria commerciale russa si chiamava la Via dai Variaghi ai Greci e questo celebre toponimo non indicava semplicemente una realtà geografica; la via d'acqua collegava i due mondi confinanti con la Rus', quello settentrionale e quello meridionale, dai quali proveniva la sua forza sacra. La storia dello stato russo, com'è noto, inizia con la chiamata dei Variaghi dai quali riceve il nome Rus'. Questa circostanza (che ha recentemente "agitato" alcuni storici, i quali hanno tentato di dimostrare che il nostro nome non è stato del tutto preso in prestito), viene valutata positivamente dall'autore della prima cronaca russa, il Racconto degli anni passati. Secondo la cronaca, l'origine del potere russo, come quella del nome del paese, si situa all'esterno della terra russa, elemento valutato positivamente. Così come è esterno anche il suo maggiore bene spirituale, il cristianesimo, attinto dai Greci. Sia il potere statale sia la religione arrivano alla Rus' da un mondo "altro", al confine del suo stesso terri-

222

MARIJA VIROLAJNEN

torio: il primo dal Nord, il secondo dal Sud. Nel Racconto degli anni passati tali elementi sono narrati seguendo il canone della fiaba di magia, attraverso il quale il cronista opera la "correzione" da lui ritenuta necessaria del reale corso degli eventi. Per ottenere ricchezza e potere, l'eroe della fiaba, come è risaputo, deve sposare la figlia del re, che si trova in un regno lontano, situato al di là di un confine nettamente marcato rispetto al mondo al quale appartiene l'eroe. Un'impresa simile è portata a termine due volte anche dal cristianizzatore della Rus', Vladimir: per divenire principe kieviano e, successivamente, per convertirsi al cristianesimo. I racconti dei due matrimoni di Vladimir sono completamente isomorfi: egli deve compiere una prima dimostrazione della sua forza - conquistare una città straniera - e sposare la figlia dello zar, per ottenere, infine, il trono4• Di fatto, secondo la cronaca, è proprio quello che fa: dapprima espugna la città di Polock, dove regna il variago Rogvolod e costringe al matrimonio sua figlia Rogneda, diventando così principe di Kiev; passa poi a conquistare la città di Chersones (Korsùn-Cherson) e obbliga i Greci a dargli in moglie Anna, la figlia dell'imperatore. In questo caso Vladimir si converte: il battesimo di Vladimir nella cronaca si rivela un equivalente dell'ascesa al trono. La scelta delle mogli, come si può intuire, non è casuale: la prima è variaga, la seconda greca; ambedue provengono quindi da un regno straniero, da un mondo "altro" che confina con la Rus'. Nel Paterik (Vite dei Padri) del Monastero delle grotte di Kiev la stessa simmetria e lo stesso isomorfismo si trovano nel racconto di come gli oriundi delle terre variaga e greca si dimostrano meritevoli di fondare la chiesa russa. Nella letteratura russa antica del periodo kieviano, il passaggio del confine di un territorio straniero e l'interazione con esso si rivelano positivi. La situazione invece muta radicalmente nel periodo della Rus' moscovita, quando i modelli kieviani sono riprodotti solo esteriormente: la mitologia della storia esaurisce ◄ Come ha mostrato Marija Pljuchanova, la storia del battesimo di Vladimir e del suo matrimonio con Anna è costruita secondo il modello folclorico dei tre clementi: presa della città, nozze, incoronazione. Vedi M. B. Pljuchanova, Sfuuty t stmvoly Moskovskogo carstva, Akropol', Sankt-Petcrburg 1995, pp. 190-192.

I PAESI DI CONFINE NELLA COSCIENZA LETTERARIA RUSSA

223

gradualmente la rappresentazione positiva del passaggio del confine e inizia a interpretarlo come foriero di disgrazia. Si forma così l'immagine di un regno ortodosso chiuso, solo e unico sul pianeta. Nelle cronache, le terre un tempo conquistate sono considerate come appartenute da sempre- "dai tempi dei tempi" alla Moscovia. Ed è significativa la convinzione che lo zar russo non debba oltrepassare il confine del suo regno, né venire a contatto con il mondo "impuro" delle terre straniere. Al periodo pietroburghese della storia russa si lega una successiva svolta. Pietro 1, che con entusiasmo visita i paesi stranieri importando in Russia la cultura europea, ritorna nuovamente a una visione positiva dell'interazione con i paesi di confine. La nuova capitale è ora spostata completamente verso il confine settentrionale del paese, in una zona di frontiera. Lo spostamento rappresenta il segno tangibile del nuovo orientamento del sovrano: il confine è paradossalmente dichiarato il nuovo centro della nuova Russia. Vale la pena di ricordare che quando Caterina II tenta di eguagliare la potenza statale di Pietro progetta di trasferire la capitale nei territori di confine da poco conquistati a sud dell'Impero, contrapponendo così alla nordica Pietroburgo una nuova capitale nel Meridione. A differenza del progetto pietrino, le intenzioni di Caterina non trovano piena realizzazione, anche se i confini meridionali e settentrionali della Russia risultano così marcati e pieni di significato sia nel pensiero politico, sia nella poesia del XVIII secolo che, come ha dimostrato Andrej Zorin, seguono la mitologia dello stato e la rafforzanos. L'inizio del XIX secolo è segnato da nuove conquiste territoriali della Russia a nord e a sud. La Finlandia e il Caucaso - teatro s Si veda A. Zorin, Kormja dvuglavogo orla. Uteratura i gosudarstve,maja ideo/ogija v Rossii v poslednej treti XVII - pervoj treti XIX veka, Novoc Literatumoc Obozrenie, Moskva 2001, pp. 31-34. Si veda anche O. M. Goncarova, •creleskij tekst" v russkoj ku/'ture konca xvm veka, «Kul'tura i tckst», 1997, n. 1, pp. 94-100; Id., Grecija/ViZtmtija kak •tekst" i "kontekst" russkoj ku/'tury XVIII veka, in O. M. Goncarova (rcd.), Uteraturovedenie XXI veka: teksty i konteksty russkoj literatury. Materialy tret'ej meidu1,arodnoj konferetu:ii molodych ulenych-filologov, Mjunchen 20-24 aprelja 1999 g., Izd-vo RCHGI, Sankt-Petcrburg 2001, pp. 8-30; Id., Vlast' tradicii i "novaja Rossija" v literatumom soznanii vtoroj polovitry XVIII veka, Izd-vo RCHGI, SanktPeterburg

2004,

pp.

78-81.

224

MARIJA VIROLAJNEN

dell'azione dei poemi di Baratynskij e di Puskin - diventano terre russe. Nell'epilogo di entrambi i poemi sono esaltate le vittorie dell'esercito imperiale, ma l'intreccio è lontano dall'essere univoco. In entrambi i poemi si sottolinea la reciproca estraneità dei due protagonisti del conflitto amoroso, che rimangono stranieri l'uno per l'altra: l'integrazione dei paesi di confine nell'Impero russo non ha cancellato la loro diversità, né il loro esotismo. Se la Rus' moscovita poteva ritenere le terre appena occupate come territori da sempre russi, per i poeti pietroburghesi degli anni Venti del XIX secolo le conquiste dell'Impero non annullano i confini che separano le terre soggiogate dalla Russia: queste terre continuano ad essere percepite come un mondo "altro". È curioso che nei poemi orientali di Byron, ai quali si è ispirato Puskin, i conflitti amorosi si verifichino sia tra i rappresentanti di culture differenti, come in The Giaour, dove l'eroe appartiene al mondo cristiano e l'eroina a quello musulmano, sia all'interno di uno stesso mondo, ad esempio, quello musulmano, come in The Bride of Abydos. La cultura orientale ha imposto nel poema byroniano il suo elemento esotico, ma il conflitto tra culture differenti non si rivela una componente imprescindibile dell'intreccio. Nei poemi meridionali di Puskin, invece, si verifica sempre uno scontro tra personaggi di diversi mondi culturali: la circassa e il prigioniero russo nel Prigioniero del Caucaso, la cristiana e il khan tataro nella Fontana di Bachcisaraj, il rappresentante della civiltà europea e la zingara negli Zingari. I conflitti amorosi si concludono sempre negativamente, non si stabilisce alcun dialogo tra le culture; l'impossibilità di tale dialogo è, al contrario, intenzionalmente ostentata, il passaggio del confine è fatale. Qualcosa di analogo avviene nell' Evgenij Onegin dove ha luogo uno scontro tra il mondo della provincia e quello della capitale. Soltanto nel Boris Godunov lo zar impostore (samozvanec) riesce, peraltro con difficoltà, a concretizzare un'unione amorosa con Marina Mniszek e a integrarsi parzialmente nel mondo culturale polacco. Questo avvicinamento sarà, tuttavia, la causa che lo condurrà alla morte: Mosca non può accettare un tale zar. In modo altrettanto sfortunato si conclude l'Eda di Baratynskij: la ragazza finnica perisce dopo aver amato l'ussaro russo. E nel poema La zingara, posteriore di qualche anno, l'unione

I PAESI DI CONFINE NELLA COSCIENZA LETTERARIA RUSSA

2.2.5

amorosa con un nobile russo condurrà la protagonista alle stesse fatali conseguenze. Quel che è stato detto sinora ci obbliga a rivedere in parte l'idea formulata da Dostoevskij su Puskin quale poeta della «rispondenza universale», capace «di saper pienamente reincarnare il genio delle altre nazioni» 6• È curioso che Dostoevskij consideri questo dono di Puskin una caratteristica propriamente russa e la colleghi al periodo pietroburghese della storia. Scrive Dostoevskij che il popolo russo «racchiude precisamente nel suo animo questa tendenza alla rispondenza universale e alla conciliazione universale, e l'ha già manifestata più di una volta nei duecento anni trascorsi dalla riforma di Pietro» 7• La tesi di Dostoevskij trova conferma se guardiamo nel complesso alla geografia dei soggetti puskiniani: il Caucaso, la Crimea, il mondo musulmano, il mondo slavo, la Germania, la Francia, la Spagna, l'Italia, la Polonia, l'Inghilterra, la Scozia ... Né hanno diapason geografico minore le influenze spirituali ed estetiche che si rivelano nell'opera di Puskin. Inoltre, una spiccata caratteristica della sua poetica è la capacità di stare sul confine, sulla soglia, di resistere allo scontro di mondi diversi, per trame nuovi significati. Lo stesso discorso poetico è concepito da Puskin come risultato dell'attraversamento del confine. Non si può, tuttavia, non tenere conto dell'esito tragico dell'intreccio, che si verifica dall'interazione di rappresentanti di culture confinanti. In questo caso, agli occhi sia di Puskin sia di Baratynskij l'attraversamento del confine si rivela fatale, almeno per i due protagonisti. La perdita d'identità, causata dal passaggio del confine, porta comunque a conseguenze negative, talora fatali sia negli intrecci fiabeschi, sia (spesso) nella geopolitica. In una lettera della primavera del 1825, Puskin scrive a Vjazemskij di non amare i poemi orientali di Thomas Moore, «perché è troppo orientale. Egli imita in maniera puerile e spaventosa il comportamento puerile e spaventoso di Saadi, Hafiz e Maometto. Anche nel coinvolgimento suscitato dal fasto orientale, l'europeo 'F. M. Dostoevskij, Ut1a parola di spiega,:iot1e al mio "Discorso su Puskin'", in Id., Diario di uno scrittore, Sansoni, Fircn1.e 1981, pp. 12.51-12.62.: 12.53. 1 Jvi, p. 12.54.

2.26

MARIJA VIROLAJNl!N

deve conservare il gusto e lo sguardo di europeo» 8• Il nobile deve rimanere nobile, il russo russo, l'europeo europeo. Si spiega così perché negli intrecci di Puskin e di Baratynskij, che riflettono il nuovo allargamento dell'Impero russo, il territorio conquistato rimanga un paese esotico e straniero e l'unione amorosa si riveli impossibile una volta oltrepassato il confine. Le concezioni poetiche di Puskin e di Baratynskij si sono rivelate profetiche: sia a sud, sia a nord, la Russia ha perso parte dei territori conquistati, nuovamente tornati a far parte di quei paesi che, al pari della Russia, non volevano perdere la propria identità.

(fraduzione di Laura Piccolo)

s A. S. Puskin, Pis'mo Vjazemskomu..., in Id., Po/11oe sobra,ue soéinenij, AN sssR, Moskva-Leningrad 1937-1959, t. 13, p. 160.