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Italian Pages 105 [88] Year 2018
ANTONIO NAPOLITANO
SAGGI DI STORIA E CRITICA DEL CINEMA VOLUME PRIMO
INGMAR BERGMAN ROBERT BRESSON ANDREJ ARSEN'EVIČ TARKOVSKIJ
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Copyright – 2015 Marina Napolitano Doriomedoff Tutti i diritti riservati Edizione a cura di Marina Napolitano Doriomedoff
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DELLO STESSO AUTORE Totò, uno e centomila Tempo Lungo, Napoli 2001
G. Leopardi. Un taccuino napoletano Istituto Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2007
Il memoriale di Seneca. Un galateo del ben vivere e del ben morire Istituto Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2008
Shakespeare: specchio del mondo. Lo stile come messaggio Istituto Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2010
Cinema d’autore off Hollywood, Istituto Culturale del Mezzogiorno, Napoli 2012
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IN MEMORIAM BIOGRAFIA INTRODUZIONE AD INGMAR BERGMAN DAL SETTIMO SIGILLO ALLE SOGLIE DELLA VITA Esistenzialismo positivo L’arte e la vita Una sincera “religiosità” INTRODUZIONE A ROBERT BRESSON ROBERT BRESSON: UN CINEMA SENZA ORNAMENTI ANDREJ ARSEN'EVIČ TARKOVSKIJ: TRA POESIA E RIGORE UN’ANIMA ALLO SPECCHIO NOTE SULLE ICONE 1.Icone 2.Le icone attraverso i secoli 3.Le icone di luce
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IN MEMORIAM “... forte come la morte è l'Amore, Le grandi acque non possono spegnere l'Amore né i fiumi travolgerlo.” Cantico dei Cantici 8, 6-7
“…- Ascolta la quiete, - diceva Margherita al Maestro, e la sabbia frusciava sotto i suoi piedi nudi, - ascolta e godi ciò che non ti hanno mai concesso in vita: il silenzio. Guarda, ecco là davanti la tua casa eterna, che ti è stata data per ricompensa. Già vedo la trifora e la vite che s'attorce e s'alza fino al tetto. Ecco la tua casa, la tua casa eterna. So che alla sera ti verranno a trovare coloro che tu ami,che ti interessano e che non ti inquieteranno. Suoneranno per te, canteranno per te, vedrai che luce ci sarà nella camera quando saranno accese le candele. Ti addormenterai, col tuo berretto consunto ed eterno,ti addormenterai col sorriso sulle labbra. Il sonno ti rinvigorirà e saggi saranno i tuoi pensieri. E mandarmi via ormai non potrai. Il tuo sonno lo proteggerò io.” S.Bulgakov – “Il Maestro e Margherita”
…”Farei torto al lettore se non ricordassi che Antonio Napolitano è un raffinato critico cinematografico: “Film significato e realtà” uscì con una prefazione di Gillo Dorfles,nel settore ha un nome e una ricca bibliografia, il saggio “Cinema e narrativa” è considerato un classico del genere perché la sua analisi filmica con strumenti semiotici è contemporanea alle prime indagini di Emilio Garroni e Umberto Eco”. Cesare De Seta
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“Un nuovo lutto segna la nostra cultura. Ci ha lasciati infatti Antonio Napolitano, uno degli intellettuali italiani più raffinati e poliedrici. Antonio era un grande esperto di cinema e per anni le sue “cronache” hanno segnato in qualche misura la storia della cinematografia, cosa che gli valse anche in anni ormai lontani il premio Pasinetti cinema. E per lungo tempo è stato responsabile della rubrica sulla nostra rivista. Ma Napolitano era uno scrittore a tutto tondo i cui interessi andavano ben al di là dello specifico filmico. Era un grande esperto di cultura inglese ed ha tale proposito non si può non ricordare almeno il suo fondamentale lavoro sull’opera di William Shakespeare (cit. “Lo stile come linguaggio”). Ma conosceva anche -e bene- la letteratura italiana ed in particolare Giacomo Leopardi a cui aveva dedicato l’originale e immaginario “Taccuino napoletano”. Aveva un garbo non comune sorretto sempre, oltre che da un atteggiamento discreto, da una vena di ironia che gli proveniva dalla consuetudine con il “wit” inglese e sono memorabili del resto i suoi aforismi, un genere di cui si dilettava con passione e successo e per il quale non aveva mai perso il gusto, anche negli ultimi giorni di vita. Proprio in virtù di questa sua predisposizione gli avevamo chiesto di pubblicarli di volta in volta su “Arte&Carte”, un invito al quale Antonio aveva aderito generosamente. E proprio ora che non c’è più ci piace immaginarlo alle prese con l’aforisma più impegnativo, quello dedicato appunto alla sua esistenza. In un paese che troppo spesso ignora i suoi figli migliori e non sa sempre valorizzare il talento, non sarebbe sbagliato riflettere ora più 7
attentamente sul percorso intellettuale e l’opera di questo illustre scrittore.” Antonio Filippetti “Arte & Carte” 03-31-2014
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BIOGRAFIA Antonio Napolitano (1928-2014), nato a Napoli, Campania, è un critico e storico italiano di cinema. Tra 1947 e il 1959, Antonio Napolitano è socio poi dirigente del “Circolo Napoletano del Cinema” e di altri cineclub. Nel 1959, già insegnante abilitato in inglese, va a diplomarsi in Inghilterra in “General linguistics”. Dal 1956 inizia a collaborare a riviste letterarie e di cinema, tra quali “L’Italia letteraria”(FI), “Il Letterato”(CS), “L’altro cinema”(MI), “Cinema Sud”(AV) etc. Nel 1961 vince la cattedra di Lingua e Letteratura inglese negli Istituti Superiori statali. [1] Nel 1960, ha ottenuto il “Premio Pasinetti-Cinema Nuovo” a Venezia, per la saggistica filmica e collabora a “Cinema Nuovo”(MI), “Civiltà dell’immagine”(FI), “Le Artinews”(RO) e, in seguito a “Filmcritica” e altre pubblicazioni specializzate. Per conto di tali riviste, è stato, fin dal 1959, più volte inviato alle Mostre di Venezia, Locarno, Karlowj Varj, Salerno etc. Per lunghi anni ha collaborato a quotidiani con articoli di cinema e di linguistica (da “Il Mattino” di Napoli a “Il lavoro” di Genova, “La Voce della Campania” e altri. Vari suoi saggi sono tradotti in danese, svedese, inglese, e russo. Nel 1969 ha consegnato la libera docenza universitaria in “Storia e Critica del cinema” e ha tenuto corsi e seminari presso Università statali e private. Dal 1963, per oltre un decennio, è stato nel Direttivo degli “Incontri internazionali del Cinema” di Sorrento e in quello del “Centro di filmologia”. E’ stato chiamato numerose volte a tener conferenze e presentazioni di film in istituti di cultura in Italia e all’estero. Il suo è stato un lavoro di decenni teso ad una seria valutazione e degli autori partendo da valide basi di Estetica, al di là delle mode, dello “up to date” e della “novità” ad ogni costo. E’ deceduto il 31 marzo 2014 dopo una lunga malattia. Il suo ultimo saggio scritto in 2013, su Roberto Rossellini è stato pubblicato da recente dalla rivista “Arte e carte”.
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INTRODUZIONE AD INGMAR BERGMAN
“Da Bergman ho tratto la lezione della purezza, della costante tensione alla miracolosa autenticità dell'infanzia, l'età della vera innocenza e del contatto misterioso con ciò che ci sovrasta e ci rende davvero vivi [...] La più profonda dimensione del suo cinema è aver intessuto costantemente un intenso rapporto con Dio. Ha rappresentato a pieno la vera ricerca di Dio.” Ermanno Olmi
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1 Come è per molte delle espressioni dell’arte a noi contemporanea, anche le opere del regista svedese Ingmar Bergman riescono a sottrarsi ad una di quelle ampie e comode definizioni capaci di esaurirne i significati. Varie sono, infatti, le “figure”che si intrecciano nel suo “tappeto”, per la tessitura insieme complessa e ambigua di temi e problemi. Siamo forse, a parte l’entità del paragone, alla stregua dell’opera di un Eliot o di un Picasso: a quella restituzione, cioè, in forme esasperate (e perciò talvolta al limite dell’equivoco) di una buona parte del nostro confuso panorama spirituale, restituzione operata attraverso un acuto esperimento dell’intelligenza non disgiunto però dalla sensibile consapevolezza della dispersione dei valori umani. A questo fine, può forse risultare utile, come criterio di sicurezza, tener presente la distinzione fra Bergman autore e Bergman regista: solo nel primo caso, infatti, egli è responsabile integralmente della ideologia che sottosta all’opera ed è allora che si hanno “Il Settimo Sigillo”, “Il posto delle fragole” e “Alle soglie della vita” che portano in sé, senza miscelazioni o compromessi di sorta, la matrice piena della sua personalità culturale. Né possono venir dimenticati il clima, la storia, il rapporto umano in cui nasce il fenomeno Bergman: la Svezia, paese in cui ricorre da secoli quella strana bipolarità nella visione del mondo e che è ancora oggi diviso fra uno slancio pagano verso il culto della vita e della natura e un rigido puritanesimo luterano ed è, in più, come nazione afflitta da una eccessiva risoluzione dei problemi sociali per cui il cittadino è così protetto, così sicuro del necessario da poter aver paura del superfluo; paese dove il troppo tempo libero può risolversi dividuali o in abusi della libertà morale.
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Tra naturismo e misticismo, tra l’affermazione gioiosa e la negazione spesso in disordinate escatologie invita e la morte (o il pensiero della morte) Bergman tenta una sua sottile dolorosa del mondo terreno, tra la legatura dialettica, tramite il controllo di una cultura che va da Swedenborg, attraverso Kierkegaard, a Proust, a James, a Lawrence. E la sua mediazione personale risulta suggestiva: il pensiero della morte diventa “una opzione per la vita”. In tal maniera egli sembra attenersi più che alla solitudine ontologica, a ciò che è stato definito il “realismo dell’autenticità”e che si risolve, in ultima analisi, in un confluire dell’esistenzialismo positivo nello storicismo (Jeanson).
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Bergman fa sue, infatti, e intensifica, certe soluzioni positive: la morte ha un fascino proprio in quanto può divenire un essere per la vita. Il flusso di coscienza del professor Borg rassomiglia a quello di Ivan Ilic e come esso diventa un vero e proprio processo di coscienza. Non annega così nel gran mare della “tranquilla indifferenza” heidegerriana. La morte, strumentata eticamente, assume, anzi, il posto di banco di prova sul quale possono venir misurati e trattenuti i valori dell’uomo. In questo senso il sogno è una sopradeterminazione, un impulso che deriva da una immagine e suggerisce atti autentici. E per ciò i simboli non si orientano verso la stasi, verso la passività ma piuttosto verso la fattiva comprensio di sé e degli altri.
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Per questo l’erotismo, pur dissimulando, in Bergman, la sua vera natura in giuoco, in vaudeville, presta il grande avversario di Thanatos, l’istinto verificatore della sopravvivenza.
E paradigmatico può considerarsi “Alle soglie della vita”: le due prime frustrazioni della maternità servono a dar rilievo all’unica nascita cui si assiste nel film, il quale si rivela quasi la chiave perfetta alla comprensione di quella simpatia che, per questa profonda, viva ragione il regista nutre per il sesso femminile.
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DAL SETTIMO SIGILLO ALLE SOGLIE DELLA VITA In Bergman il coraggio dell’angoscia di fronte alla morte diventa una ricerca di significati e di possibilità reali di vita. Più che essere morbosamente affascinato dalla morte, egli la sceglie, almeno nelle sue opere migliori, quale termine di un’operante dialettica ideologica. Napoli, maggio-giugno 1960
Come è per molte delle espressioni dell’arte a noi contemporanea, anche le opere del regista svedese Ingmar Bergman riescono a sottrarsi a una di quelle ampie e comode definizioni capaci di esaurirne i significati. Non riesce facile, infatti, a chi si trovi in mala fede, reperire nel loro contesto quella “figura nel tappeto"che, secondo il James, costituirebbe la prerogativa dell’autentica critica. Al contrario, nella complessa tessitura di temi e di problemi, c’è come un intrecciarsi di “figure”, per così dire, policentriche. Siamo forse, a parte l’entità del paragone, alla stregua dell’opera di un Eliot o di un Picasso: a quella restituzione, in forme esasperate, di una buona parte del nostro confuso panorama spirituale attraverso un acuto sperimentalismo intellettuale non disgiunto però dalla consapevolezza della dispersione o della degradazione dei valori umani. Rintracciare la fisionomia completa di almeno una di queste figure o, per 16
uscir di metafora, di una di queste linee di elaborazione ideologica, potrà servire forse ad aprirsi un più chiaro sentiero nella comprensione di un fenomeno artistico che, seppure in modo parziale, viene a rispecchiare certe nostre inquietudini, certe non sopite interrogazioni interiori.
A questo fine abbiamo tenuto presente la distinzione fra Bergman autore e Bergman regista: nel primo caso il regista è insieme l’autore del soggetto e della sceneggiatura, responsabile integralmente della ideologia che sottostà all’opera ed è per questo che ci riferiremo, per le esemplificazioni, a quei film che, come “Il settimo sigillo”, “Il posto delle fragole” o “Alle soglie della vita”, portano in sé, senza compromessi o miscellazioni, la matrice della sua personalità culturale. È chiaro, d’altra parte, che il linguaggio cinematografico è servito a dare maggior peso e misura a queste opere nate [2]
in altra veste . Da un confronto, sia pure intuitivo, risulta che le immagini usate da Bergman acquistano una maggiore capacità di reazione alla realtà anche quando, per la prevalenza del dialogo, tenderebbero ad assumere, rispetto a esso, una funzione minore o subalterna. Esse, data l’intensità dei loro riferimenti, sono dotate di una rilevante forza simbolica e non si esauriscono pertanto nella mera comunicazione di concetti ma fanno sì che le stesse azioni dei personaggi, seguite nel loro situarsi sullo sfondo e nell’àmbito della vicenda, assumano una ricchezza di allusioni e di significati, sfuggano cioè a quella esagerata dichiaratività che resta il maggior rischio della macchina da presa la quale troppo spesso dice solo quello che vede. E per quanto la natura dell’opera sia, appunto, questa sorta di ambiguità, tesa, peraltro, a rispecchiare l’ambiguità stessa della vita, 17
e il senso della globalità derivi dallo scetticismo creativo peculiare a molti artisti (cioè dalla convinzione più sentita che ragionata che il significato della vita sia multiplo) ciò nonostante, al fondo di essa, può ritrovarsi una certa sedimentazione di responsabilità etiche in cui confluiscono le varie associate ispirazioni e il vario modo di configurare i contenuti ideologici nella specifica forma artistica. C’è un’eco di quanto diceva Pavese in una delle sue aperte, calde lettere agli amici: “Per l’artista tutti i sistemi intellettuali comunque vivi nel suo [3]
tempo, sono validi, sono vita” .La temperatura morale che vive del contatto con la vita degli uomini, coi loro disagi, coi loro sviamenti è senz’altro presente in queste opere; il tendere all’essenziale, al metastorico non è quindi, in Bergman, indifferenza per la condizione umana o sterile conversazione allo specchio. Né, con l’attenzione che egli dedica alla forma, si vengono a eludere i problemi di sostanza, ché, anzi, il suo è un subordinare il modo al fatto, all’idea, uno studiare una parte di realtà al suo limite di tensione e perciò il suo narrare procede secondo una specie di religiosa ma laica meditazione in immagini. Non a caso, Bergman nasce in Svezia, paese nella cui storia ricorre quella strana bipolarità della visione del mondo e che resta ancor oggi diviso fra uno slancio verso il culto pagano della natura e il rigido puritanesimo luterano ed è, in più, come afflitto da una eccessiva risoluzione dei problemi sociali, per cui il cittadino è cosi protetto, così sicuro del necessario da poter aver paura del superfluo e da poter dedicare troppo tempo libero a pratiche introversive che si risolvono spesso in disordinate escatologie o in abusi della libertà morale.
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Fra questi due poli scorre il senso del metafisico, radicato nelle tradizioni e nei costumi, determinato forse dal clima stesso, poiché nel grigiore dell’estremo Nord, nel venirsi perdendo delle dimensioni del giorno e della notte, s’insinua più facilmente il mistero e insieme con esso il pensiero dei limiti della natura umana e del massimo fra essi che è la morte. Tutto sommato, anche Bergman si muove tra i due termini antichi della letteratura e della filosofia scandinava, anche se per suo conto, tramite il controllo della più complessa cultura occidentale (e si vedano, in proposito, le sue [4]
esperienze di regista teatrale, che vanno da Pirandello, a Kafka, a Camus ) egli ne tenta una sottile legatura dialettica: tra naturismo e misticismo, tra l’affermazione gioiosa e la negazione dolorosa del mondo terreno, tra la vita e la morte, tra questi due pensieri-radici dell’anima collettiva del suo paese, egli perviene, attraverso la forza d’analisi del suo discorso, a una sua personale mediazione, a un suo suggestivo compromesso: il pensiero della morte diventa in lui quella che è stata definita “una opzione per la vita”
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Un coefficiente di facilitazione egli lo ritrova nel particolare atteggiarsi del luteranesimo scandinavo in forme che di esso riesprimono solo alcune esigenze essenziali e originarie, quella riduzione, operata dal pietismo, della religiosità a esperienza intima, di natura quasi strettamente psicologica e quella svalutazione progressiva della “giustificazione”e della “grazia”che già viene, in buona parte, a circoscrivere la concezione pessimistica e negativa dell’”intramondano”. Il filo sottile ma tenace della ideologia o almeno della convinzione morale e intellettuale del regista svedese sembra 19
essere questo sforzo di comprensione e di assorbimento di quel postulato metafisico che, ai nostri giorni, può mantenere ancora in parte intatta la sua ragion d’essere e che è l’idea e il significato della morte. Ma mentre la morte è cessazione di ogni operare individuale e di ogni vitale interrogazione, la coscienza della morte può farsi sprone a quel dialogo con gli altri che è la più vera probabilità di sganciarsi da un egoismo che nella sua chiusura, nel suo non accrescimento è già premonizione di morte.
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Esistenzialismo positivo D’altra parte, sarebbe possedere solo una parziale coscienza storica non ammettere che metafisico è il discorso di Bergman unicamente nelle sue estreme implicazioni, poiché come giudizio sul probabile destino dell’uomo e come sottolineatura dei rischi che la nostra specie corre nel presente termonucleare, di fronte al settimo sigillo della bomba H il suo discorso rivela stringenti rapporti con i nostri più realistici dubbi, con i nostri meno infondati timori. E Hiroshima e Nagasaki non sono forse i luoghi sui quali l’Agnello ha aperto già, come per un avviso, il settimo sigillo? Non potrebbe parafrasarsi, senza forzature, l’Apocalisse per ottenere una mera cronaca del flagello che si abbatté sulle due città: “un gran monte ardente cadde dal cielo, una grande stella ardente e il terzo dei viventi morì...”? Non è forse lo stesso atomo disintegrato che brucia anche nella civile coscienza di registi ideologicamente lontani da Bergman, come un Ciukraj, un Bondarciuk, i quali interrogandosi sulla morte, sul doloroso destino dell’uomo, tentano anch’essi, seppure per altra via, di riportare un pieno significato alla vita?
Più che essere morbosamente affascinato dalla morte, come sostiene [6]
qualche critico , Bergman la sceglie, almeno nelle sue opere migliori, quale termine di una viva dialettica ideologica. Per questo egli sembra attenersi a ciò che è stato definito “il realismo dell’autenticità”e che si [7]
risolve in un confluire dell’esistenzialismo positivo nello storicismo . Bergman sembra infatti intensificare certe soluzioni positive 21
dell’esistenzialismo: la vita per lui non è solo un essere-per-la fine, un essere-per-la morte, ma la morte stessa può diventare un essere-per-la vita. Nello “intramondano”c’è qualcosa di assolutamente utilizzabile ed è il “con-esserci”degli altri. Il tempo non muore continuamente, come accade nel paradigma heideggeriano, ma sopravvive con una sua calda realtà nel ricordo e come ricordo può bastare da solo a sollecitare una ripresa totale: è il caso, appunto, de “Il posto delle fragole” in cui un’esistenza sbagliata, umanamente frigida, ha la possibilità, grazie al pensiero della morte, di rigenerarsi nella comprensione e nell’affetto verso gli altri e quindi di riacquistare un suo intero significato. Ciò che appare essere il fulcro etico del film, anche se spostato ai poli del racconto al fine di drammatizzare la situazione e conferirle un più accentuato dinamismo, è il flusso di coscienza del professor Borg che diventa, in virtù del pensiero della morte, un vero e proprio processo di coscienza. Non si può quindi affermare che in esso i dati affondano nel gran mare della “tranquilla indifferenza”heideggeriana ma anzi la morte, strumentata moralmente, assume un valido significato umano, quasi banco di prova sul quale possono venir misurati e controllati i valori dell’uomo.
In questo senso il sogno è una “sopradeterminazione”, un impulso che deriva da un’immagine e suggerisce all’uomo atti autentici. Viene a cancellarsi l’istinto di morte: i simboli non si orientano verso la stasi, verso la passività ma piuttosto verso la fattiva realizzazione e comprensione di sé e degli altri. La morte diventa così “la considerazione del poter morire”che, come osserva Abbagnano, “ognuno di noi riferisce non solo a sé ma anche 22
agli altri ed è il fondamento, talora nascosto, di attività, pensieri, affetti, [8]
cure, sollecitudini d’ogni genere” . Ci troviamo allora nell’ambito di quella “fedeltà alla morte”per cui “l’assumerla come prospettiva dominante della nostra esistenza significa rovesciare la illusione volgare, [9]
non già sottrarvisi” . Perché, come si esprime lo stesso Abbagnano “la fedeltà alla morte dimostra l’autenticità propria dell’esistenza che si è realizzata nella struttura, costituendo l’uomo nella sua unità propria, cioè nel suo rapporto necessario con l’essere universale e con la comunità [10]
coesistente” . Ed è per questo che in Bergman anche l’erotismo, pur dissimulando la sua vera natura in giuoco, in “vaudeville”, ha una sua serietà fondamentale: è Eros, l’istinto di vita, il grande antagonista di Thanatos, l’istinto di morte. Il sesso, come mezzo verificatore della sopravvivenza umana, assume quindi una sua indiscutibile positività.
D’altra parte, non può non ravvisarsi un senso religioso nell’angoscia del professor Borg, del cavaliere Antonius Block, in quanto essi, come dice Kierkegaard “imparano che sentire l’angoscia è un’avventura attraverso la [11]
quale deve passare ogni uomo affinché non vada in perdizione” . La morte, come è per Kierkegaard, serve a mettere in iscacco quella malattia mortale che è la disperazione. Ne “Il settimo sigillo” e “Il posto delle fragole” più che in altre opere, il coraggio dell’angoscia di fronte alla morte diventa una ricerca di significati e di possibilità di vita reale. L’uomo non è “consegnato alla sua impossibilità insuperabile”ma è stimolato, come da un rischio esterno a tentare le giuste vie che ha prima rifiutate. In tal maniera, Bergman, 23
ci sembra, viene ad accettare più il cosiddetto “realismo ontologico”che il concetto di solitudine ontologica e si pone sulle tracce di quella filosofia verace che è oggi appannaggio di molti scienziati (un Einstein, un Rostand) e che tende a dimostrare che nell’esercizio della libertà può trovarsi l’attuazione della autentica trascendenza dell’uomo: trascendenza che scorre su due vie, in quanto il volere rappresenta e riguarda il divenire mentre il conoscere riguarda l’essere. Risulta addirittura sorprendente notare come nel nucleo della vicenda de “Il posto delle fragole” sia racchiuso, in un esempio di vera scelta morale, il paradigma kierkegaardiano dei Papirer, sulla differenza tra la domestica e un genio o “professore”: mentre la prima, dice Kierkegaard, senza tanti arzigogoli, fa la scelta del bene e diventa spirito, il genio o professore trionfi di sé e della propria scienza raramente ci arrivano.
Parecchie altre affinità affiorano fra l’opera di Bergman e quelli che sono stati definiti “i presentimenti di quell’unità sintetica che si avvertono in Kierkegaard, quando, a esempio, ritrae la vita cristiana come vita che si afferma per mezzo della morte o quando concepisce l’eternità come [12]
concentrata nell’attimo” . Ma nel complesso, mentre il pensatore danese, come sostiene il più recente critico del pensiero irrazionale dell’occidente, ha molto più spesso una concezione pessimistica e, in definitiva, nichilista della vita umana per cui “lo stadio etico viene a perdere ogni senso e [13]
rilevanza” , alla sfera dei valori morali storicizzati non sembra sottrarsi l’ideologia bergmaniana che individua nell’indifferenza, nell’egoismo e non solo nella “solitudine”i chiodi mortali dell’uomo. E, come abbiamo visto, 24
nel regista svedese il giudizio morale, cioè il processo di valutazione di certe situazioni psicologiche, non è del tutto irrelato rispetto al nostro presente. C’è piuttosto in lui la ricerca di certi valori essenziali che possono venir esaltati nell’uomo proprio dall’idea della morte, i parametri di quell’”esistenzialismo essenziale”di cui parla Lavelle e per il quale “l’esistenza ci è data come possibilità e capacità di acquistare un’essenza”e per cui “conoscersi è come svegliare in sé una vita [14]
nascosta” . La presa di coscienza morale del professor Isak Borg è proprio un simile tipo di “risveglio”. Dice inoltre il Lavelle: “L’io non è una realtà data ma [15]
una realtà che si cerca” , e quasi tutti i film di Bergman appaiono caratterizzati da un motivo conduttore di ricerca, di viaggio, di chi si pone comune in cammino verso una meta: cosi il cavalier Antonius Block de “Il settimo sigillo”come il professor Borg, come il dottor Vogler de “Il volto” e il padrone del circo de “Una vampata d'amore”. Come non ammettere allora che tutti questi personaggi, posti di fronte alla possibilità della morte, o addirittura dell’apocalisse, si arricchiscono di simpatia, di calore umano e infine di vita? L’angoscia si fa in essi inquietudine e insieme fiducia, una sorta d'esasperata tensione della speranza.
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L’arte e la vita “Prima di ogni vera scelta”, dice il Lavelle, “c’è l’ideale umano, e in ultima analisi storico, delle essenze-valori”; pur restando quindi nell’àmbito di un quadro esistenziale, i personaggi di Bergman sono esemplari positivi di sforzo, di dignità, di tentativo di conquista di “essenzevalori”. Ed è così che l’amore si fa “riconoscenza e accettazione della realtà”, e la procreazione, ne “Alle soglie della vita”, acquista il vigore simbolico di un atto che oltrepassa il tempo nel suo potenziale carattere di perpetuazione della vita, ed è la vera morte. Così, l’arte e il più alto sforzo morale insito nella vita dell’uomo. Il girovago padrone del circo, quando riprende con coraggio il cammino, ha questa rivelazione in quel sogno in cui egli ha
visto come dall’utero materno noi progrediamo verso la luce e la maturità e poi regrediamo verso quell’utero pure materno che è la morte, ma ciò che vale è appunto questa ampia parentesi vitale che riempie di sé lo spazio del nulla e preme e vince su di esso quanto più saldi sono i nostri sentimenti e la nostra accettazione della vita. Così, nel finale de “Il settimo sigillo”c'è chi si salva ed è chi ha fede nella vita, chi gode senza interrogarla con un ossessionante disprezzo che in sé sembra nascondere la ricerca della morte. E questa, personificata da Bergman in un lugubre monaco nero, è, nelle sue stesse parole un nulla, né ha nulla da rivelare; esiste allora solo nella paura egoista degli uomini che non sanno evocare Dio o la vita senza insieme 26
evocare la morte. E la religione ha irrigidito la fede in schemi di morte: brucia, flagella, ha solo invettive piene di ferali presagi, testimonia insomma più della morte che della vita. Perciò l’angoscia di Block è soprattutto di natura morale. “Il mio cuore è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare... Vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili, vi scorgo immagini di incubo...”.
E appena un istante dopo egli si chiederà: “Perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi? Questo Dio indefinito, lontano da ogni culto o a esso nemico, non sarà la vita?”. La lunga partita a scacchi è quindi il lungo respiro vitale che è concesso a Block per un’azione (la vita stessa) che valga qualcosa. E l’autenticità delle proprie azioni gli viene proprio dal poter dialogare virilmente con la morte. Gli intervalli della partita, come è in tutta la tradizione simbolica del Nord, sono le grandi ore dell’esistenza che l’uomo ha a sua disposizione per verificare la propria essenza morale.
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Nelle conversazioni con i giocolieri-attori, di fronte a quella vita colta così intera, così pacificata col ritmo della natura, altri simboli emergono, fra cui quello, ricorrente nelle opere scandinave, delle fragole. Ci sembra, infatti, che nel grigio, freddo splendore di quei paesi del Nord queste rosse germinazioni della natura stanno ben a rappresentare il calore della vita, i valori umani incorrotti dai timori metafisici.
“Lo ricorderò questo momento”, dirà il cavalier Antonius Block: “Il silenzio del crepuscolo, il profumo delle fragole, la ciotola del latte e i vostri volti su cui scende la sera, e Mikael che dorme sul carro e Jof che suona la lira. Cercherò di ricordarmi tutto quello che abbiamo detto e porterò questo ricordo con me, delicatamente, come se fosse una coppa di latte appena munto e che non si vuol versare. E sarà per me un conforto, 28
qualcosa in cui credere”. E così per l’amore, dirà lo scudiero: “Se tutto è imperfetto in questo imperfetto mondo, l’amore è allora perfetto della sua assoluta e squisita imperfezione”. Infine, di fronte all’apparire invisibile della morte, lo stesso scudiero che è il coro del film: “Forse avrei potuto liberarvi da quest’angoscia dell’eternità che vi tormenta.
Ma ormai è troppo tardi per insegnarvi la gioia smisurata di una mano che si muove o di un cuore che pulsa”.
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Una sincera “religiosità” Non siamo qui di fronte a un mero panteismo, ma ci sembra che Bergman avverta e trasmetta quel disagio della civiltà moderna, quel senso di equilibrio instabile e precario che, come spiegava Freud, era dovuto soprattutto alla forte menomazione della vita istintiva e degli stessi impulsi erotici che sono spesso transvalutati in impulsi di morte. E da questo punto di vista, i dialoghi dei film di Bergman più indicativi e più “suoi”, assumono un vero e proprio carattere di “dibattiti drammatici”. Quando nel professor Borg de “Il posto delle fragole” si metterà in moto il processo di autocoscienza mediante il quale egli troverà un ponte verso gli altri, gli torneranno in mente i versi di un’antica poesia: “Ovunque una forza si svela, - un fiore profuma, una spiga si piega. - In ogni sospiro che tiro, nell’aria - io trovo il suo amore.” Ed è per questo che egli sarà dalla parte della nuora, cui il figlio del professore ha rimproverato: “Tu hai uno stramaledetto bisogno di essere viva, di vivere, di essere nella vita, di creare la vita”. L’aver accettato l’accusa di “insensibilità, egoismo, assenza di scrupoli”, sarà per Isak l’unica autentica possibilità di rigenerazione. La sua vera laurea honoris causa sarà appunto la lode che gli faranno i giovani autostoppisti: “che egli sa tutto della vita e ha imparato ad usarla”.
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Nel flusso dei fatti attraverso i quali Borg rivaluta la sua esistenza sarà sempre viva la luce estiva: solo nella sequenza del conferimento del dottorato a Lund appare evidente dai toni di un nero funebre che tutti quegli austeri professori sono
soltanto e già un rigido e banale corteo di morti. Al contrario, proprio da quando ha saputo di “essere morto sebbene viva”, Isak Borg si è salvato e ha recuperato la coscienza delle “essenze-valori”. In modo analogo, in “Alle soglie della vita”, viene chiaramente dimostrato come attraverso la maternità si riesca a vincere la morte, con questa possibilità di raddoppiare la presenza umana, di moltiplicarla, di mettere cioè in dubbio almeno la “corsa alla morte”della specie. 31
“Alle soglie della vita” è, a questo proposito, paradigmatico: sia perché i due
primi fallimenti, le maternità frustrate servono a dar rilievo drammatico e simbolico all’unica nascita cui si assiste nel film e sia perché il film si rivela quasi la chiave alla comprensione di quella simpatia di narratore che Bergman ha, per questa profonda, radicale ragione, verso il sesso femminile. Sembra quindi di poter dare atto al regista svedese degli sforzi fatti quale uomo di cultura, di risalire proprio con mezzi esistenziali quell’abisso postromantico in cui la coscienza dell’isolamento si può degradare nell’uomo fino al sentimento di completa vanità della vita. La morte diventa anche per lui “condizione per l’esplicarsi dell’eterna forza rigenerante [16]
della cultura” . Ed è comprensibile che, in questa direzione, egli non possa non confortarsi con istanze di sincera religiosità; ma di una religiosità laica, quale, a esempio, si viene a delineare nella concezione einsteiniana della vita morale: “Qual è il significato della vita umana, o di quella, in genere, di ogni altra creatura? Conoscere una risposta a questa domanda significa essere religiosi. Vi domandate: vale dunque la pena di porla? Io rispondo: chiunque consideri la propria e l’altrui vita come priva di [17]
significato è non soltanto infelice ma appena degno di vivere” . Ci si è poi domandati se Bergman non concluda le sue opere con un problema aperto: ma non si trova forse questa conclusione nel credo laico di un uomo abituato a indagare nella cellula certe segrete tensioni del divenire della vita? “Chi ha veramente sentito, vissuto il tormento delle domande interiori non può nemmeno concepire da dove potrebbe venirgli la pace. E 32
quand’anche arrivasse a credere a quei misteriosi aldilà che le religioni promettono gli sembrerebbe che fin nel fuoco dell’inferno o tra le delizie del paradiso non potrebbe fare altro che continuare a porsi dei problemi”
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Napoli 1961
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INTRODUZIONE A ROBERT BRESSON
"Per me, Robert Bresson – è il miglior regista al mondo." Andreij Arsen’evic Tarkovski
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1 “Il processo di Giovanna d’Arco” presentato l’anno scorso a Cannes e che
apparirà tra breve in Italia, ha riproposto il nome di Robert Bresson, nome non certo frequente nelle cronache del cinema.
Con questo suo ultimo lavoro, il regista francese non ha inteso misurarsi con quel classico che è «La passion de Jeanne d’Arc» di C. T. Dreyer, ma ha voluto offrire una sua documentata versione di uno dei fatti più rilevanti della storia di Francia. Questo film viene dopo il discusso successo di “Pickpocket” (1959) e dopo la grande e meritata affermazione di “Un condannato a morte è fuggito”(1956). E' doveroso e significativo ricordare che Bresson ha girato in quasi venti anni appena sei film e ciò lo apparenta per altro verso al rigorismo morale ed intellettuale di Dreyer. Forse per la sua esperienza di pittore (non domenicale) egli è uno dei pochi che credono alla essenzialità delle immagini e che si induce ad evitare ogni compiacimento e ogni inutile ornamento. La sua attività ha inìzio nel ’43 con “Les anges du péché”, accolto senza riserve dalla critica. Nel ’45 presenta un’opera più impegnativa:”Les dames du bois de Boulogne”, ispirato a «Jacques le fataliste» di Diderot. Gli unici scogli da superare sembrano un certo gelo intellettuale e quella volontà, pur cristallina, di astrarre i personaggi da ogni riferimento a tempi e a luoghi. Finalmente, quattro anni dopo, l’incontro con un testo di segreto calore umano quale “Journal d’un curé de campagne”, di Bernanos porta Bresson ad un completo equilibrio tra strutture narrative ed intensità introspetttive.
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In quasi tutte le sequenze egli riesce ad utilizzare i particolari più minuti delle cose vive e delle cose morte; ma soprattutto arriva a creare un ritmo interno che rinsalda quello che il preziosismo delle immagini potrebbe svuotare. Ciò che guida Bresson nella scelta degli interpreti è la loro somiglianza morale (e non fisica) coi suoi personaggi e ciò vale sia per Giovanna, che per il curato che per il tenente Fontaine di «Un condannato a morte».
In questa opera, vengono costretti in unità ritmo-figurativa i motivi esterni ed interni del prigioniero che si costruisce la sua speranza di fuga, che è speranza di dignità e di vera vita. Le mani che fabbricano i rudimentali mezzi per l'evasione diventano simboli plastici di un pensiero dominante, pensiero di libertà che viene trasmesso per immagini disadorne ma nette e lucide nella 36
loro sobrietà. «Il vento soffia dove vuole » sono le parole di Cristo a Nicodemo che Bresson
ha imposto al film come sottotitolo. E una ispirata semplicità è l’anima del racconto che se, a prima vista o da lontano, può apparire monocorde, rivela da vicino una insospettata ricchezza d’intarsii. Il regista svolge il tempo della vicenda, lo contrae o lo dilata secondando il battito del cuore del protagonista; attraverso rigorosi primi piani, configura il dialogo di quello sguardo coi poveri oggetti della cella o con gli sguardi disperati ma virili degli altri internati nel carcere nazista: in questi momenti d’incontro, s’accende il bianco della solidarietà ritrovata e zampilla come una sorgente, il leitmotiv mozartiano con tutti i suoi limpidi presagi di libertà.
Siamo di fronte ad un realismo che è ben lontano dalla passiva registrazione della realtà; esso assume densità proprio dal rifiuto di superflue digressioni in chiave d’avventura. Come in tutte le sue opere, dove si, sarebbe potuto avere una scena straziante o clamorosa, Bresson ha preferito una pacata allusione: è il suo senso classico della tragedia. Lo spettatore si trova così di fronte ad uno schermo divenuto specchio profondo dell’uomo, perchè il coraggio interiore è riuscito a farsi stile. Un monito, questo, severo per i nostri tempi difficili sì, ma nei quali troppo spesso si invocano giustificazioni per compromessi che sono ad un tempo estetici e morali. Napoli 1963
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ROBERT BRESSON: UN CINEMA SENZA ORNAMENTI “Il senso di un film è quello che parole e gesti presi insieme provocano, è quel qualcosa che passa dietro ad un volto, quel qualcosa di indefinibile, di misterioso e di magnifico...”
Così si esprimeva nel ’63, in una delle sue rare interviste, Robert Bresson, il regista francese ricordato con una esauriente retrospettiva a “France Cinéma”, piccolo grande festival tenuto a Firenze ai primi di novembre ’89. La rassegna curata con spirito di chiarezza e di dedizione da Aldo Tassone ha dato modo a molti di rivedere l’opera completa di un maestro della settima arte, incluso il mediometraggio comico che si riteneva perduto. R. Bresson, nato nel 1907 a Bromont - Lamothe, nel Puy-de-Dôme, ancora vivente e operoso, è uno dei più schivi artisti, estraneo a qualunque forma di autopubblicità e di narcisismo, alieno dal “festivalismo” imperante. Conferma con le sue scelte di vita il suo “giansenismo” e la sua ardua e accanita ricerca di “grazia” (etica oltre che estetica). Un’eccezione al suo serio “engagement” è appunto costituito da “Les affaires publiques” del 1934 di cui anche saggisti informatissimi lamentavano l’irreparabile smarrimento. Con soddisfatta sorpresa sono invece scorse sullo schermo dell’“Alfieri Atelier” del capoluogo toscano, le sapide sequenze di quest’operina giovanile, frutto dell’entusiasmo per lo slapstick o forse per il Méliès più “cocasse”. Si sono visti scherzi pantomimici di una surriscaldata fantasia, intarsiati a non pochi omaggi all’età d’oro della commedia hollywoodiana muta. Una controprova della indipendenza dalla verve più sofisticata di Clair, di cui Bresson non è stato mai né alunno né aiuto. Dopo un tale exploit, quasi sorta di rito liberatorio giovanile da possibili dipendenze, il regista affronterà con rigorosa coerenza solo temi drammatici, in conseguenza anche delle traumatiche esperienze del “drôle de guerre” concluso nel 1945. In questo periodo egli si terrà fedele ad una geometrica equidistanza tra i collaborazionisti culturali di Vichy e gli intellettuali dei Comitati di Liberazione. E’ il suo superamento pascaliano delle contingenze storiche che lo induce a realizzare il progetto filmico de “Les anges du péché” cui apportano contributi non irrilevanti il padre Bruckberger e lo stesso Giraudoux.
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La vicenda si snoda, in gran parte, nel convento di Béthanie e dimostra un inconsueto dominio del bianco e nero, e della scansione narrativa. Il difficile tragitto dalla violenza alla Grazia risulta armonico e senza sfasature: il giovane metteur en scène sa già captare da quei volti femminili più di quanto essi evidenzino in superficie. Scrive su quei suoi taccuini che verranno solo più tardi pubblicati col titolo di “Note sul cinematografo”: “non è importante quel che mi fanno vedere ma quel che mi nascondono e soprattutto quel che non sospettano vi sia in loro”. Fin da allora preferisce attori non professionisti con i quali è più facile avere “scambi telepatici, divinazioni”, e che meglio gli
permettono di evitare toni teatrali e sentimenti affettati. L’autore filmico, per Bresson, deve essere “uno strumento di precisione” che tagli via “ogni ridondanza, ogni superfluità, ogni ornamento”.
I conflitti vanno resi con chiaroscuri, ombre, figurazioni molteplici in 39
grigio o infragrigio, anche perché, a ben guardare, c’è “un doppio e anche triplo fondo delle cose e dei luoghi”. Nel ’44-’45, ancora al tempo dell’occupazione nazista, gira il suo terzo film, tratto da un racconto di Diderot (un episodio di “Jacques le fataliste”). Il suo titolo sarà “Les dames du bois de Boulogne” e a tale opera darà il suo contributo di sceneggiatore Cocteau, che poi ammetterà che Bresson lo ha “allineato ai suoi principi”.
Anche qui dominano bianchi e neri lucidi e sapienti e manovre luministiche che scoprono perfidie d’alto rango, intrecciate a legami pericolosi. La macchina da presa si muove con sagacia, fruga spazi e volti, specilla ogni minuscolo oggetto come per una definizione morale dell’ambiente. Le battute secche e perentorie, vera prosa cinematografica, intensificano il campo semantico delle immagini, interagendo col taglio netto e impietoso dei fotogrammi. I primi piani della Casarès risultano incisivi, perforanti tenuti come sono in cornici calibrate al millimetro. Sotto la griglia cartesiana si intuiscono i moti delle passioni, come sotto i veli di cipria pulsano le vene e i capillari.
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Vibra un’eco raciniana, quella cifra tragica che Barthes ravvisava nel fatto “che non ci sono caratteri, ci sono situazioni... ogni elemento trae la sua essenza dal posto che occupa nella costellazione generale delle forze e delle debolezze”. Nel 1950, si ha l’incontro, del resto ineluttabile, con l’altro grande pascaliano di Francia, Georges Bernanos, il cui “Diario di un curato di campagna” Bresson trascrive con fedeltà e personale partecipazione.
La scelta di un volto lontano dagli stereotipi divistici è già la soluzione di un problema fondamentale; il regista sa che la fisionomia del protagonista (C. Laydu) è il punto di partenza dello svolgimento diegetico, e insieme il mezzo più energico per coinvolgere lo spettatore. Il primo piano è la scintilla che può far ardere il fuoco di ogni sequenza, perché l’anima dell’uomo può venir rintracciata sull’insieme dei piccoli segni del volto, nella più piccola 41
increspatura delle labbra, o nel minimo aggrottarsi della fronte o dei sopraccigli. L’altro binario su cui imposta le ruote della sua cinepresa è quello di una povertà di ambientazione quasi francescana (E annota sui taccuini: “Non si crea aggiungendo ma levando. Sviluppare è cosa ben diversa dal diluire”). Non saranno molti i critici a recepire la finezza di un tale impianto espositivo, ma il sensibile Bazin coglierà subito il fulcro stilistico in “quella dialettica tra astrazione e realtà, grazie alla quale si rende palpabile la verità delle anime”. (“Les Cahiers” del giugno ’51).
L’indigente e bistrattato parroco di Torcy risulta dal serrato periodare filmico un apostolo travolto da prove e tempeste, sostenuto soltanto dalla sete di giustizia e dall’amore per gli umili. I nobilotti del villaggio sono i moderni farisei che gli rigettano in faccia i suoi messaggi, murati come sono in atavica e opaca alterigia. Lo scontro tra il curato e la contessa è ritmato sul metronomo raciniano, e sulle facce in tensione traspaiono tutti i segnali del destino, le premonizioni di due percorsi analoghi anche se divaricati. Sono due solitudini che si contrappongono nella polarizzazione di diverse concezioni dell’esistenza.
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Il regista porta a livelli di incandescenza il veemente dialogo, accorciando i tempi, accelerando le entrate, sorprendendo riverberi di fuoco nelle pupille dei due personaggi. E sempre più rapida si fa l’esposizione visiva del diario: la penna che traccia le parole non riesce a tener il “passo” con l’incalzare della diegesi fotodinamica: la morte della contessa, l’aggravarsi della malattia del
giovane curato, il suo spegnersi su uno squallido golgota, una stanzetta di un amico spretato (è da sottolineare che Bresson, come i tragici greci, non mostra alcuna salma “in scena”). Nella memoria pre-agonica del protagonista brillano le ricordanze di lontane albe incontaminate ma la vicenda verrà chiusa, giansenisticamente, da un breve, tacitiano “rapporto” sul suo decesso (e quale catarsi si innescherà, invece, nell’animo dello spettatore forse andato per riempire una vuota mattina nella raccolta saletta 43
di piazza Ognissanti). Dopo questo magnifico exploit, una tappa importante lungo il percorso romanzo-cinema (che è un fatto di sostanza e non di “accidente”, un fenomeno che va studiato comunque, come le trascrizioni musicali, come le illustrazioni di Botticelli per Dante); Bresson resta coerente col suo metodo di vita e passa alcuni anni in austero silenzio; alieno com’è da compromessi industriali o affaristici. E lo stesso aspro itinerario di un Dreyer o di uno Stroheim, artisti che i produttori temono come rischi per il box-office. “L’uomo più integro del cinema francese” come lo definirà J.L.Godard, riprende a lavorare solo nel 1956, quando la Gaumont accetta il piano di lavorazione per “Un condannato a morte è fuggito”. Si tratta di un episodio reale della Resistenza francese e il regista intende, ancora una volta, “narrarlo così com’è, senza ornamenti”.
La testimonianza del tenente evaso dalla prigione nazista viene sottoposta, infatti, ad un “labor limae” di produttiva meticolosità. Quasi ogni scena è incentrata sul carcerato e ogni suo gesto viene colto come un movimento verso la libertà. I nudi muri della cella, i dettagli della porta, perfino della serratura sono transvalutati in significanti da concatenare in una prosodia visiva limpida. Ad essa si avvolge come un’onda emozionale appena trattenuta la Messa in do minore di Mozart che fa da melodioso controcanto. Le mani dell’ufficiale diventano simboli parlanti, come quelli di certe pantomime orientali, e ogni segmento figurativo rinvia per simmetria o similitudine ad altri segmenti di discorso. L’understatement è sovrano, la litote prevale sull’iperbole e la sineddoche è il tropo più usato, dato il senso di misura classica che Bresson raggiunge 44
quasi in ogni punto del film. Qui, la libertà è un eteronimo della Grazia e può esser vista da più angoli filosofici, come l’evangelico “vento che soffia dove vuole” o l’empito romantico per cui “esser liberi è niente, divenir liberi è paradiso”.
La rassegna fiorentina è poi proseguita con “Pickpocket” (1959): anche in questo film le dita diventano i fulcri primari delle immagini; questi arti prensili e danzanti racchiudono tutta l’intelligenza e il destino stesso del giovane ladro. I suoi piccoli delitti avranno un grande castigo: egli verrà recluso e separato, pertanto, dalla donna che lo ama al di là di ogni pregiudizio umano. Sembra, stavolta, che l’autore giansenista subisca il fascino dell’adiacente calvinismo con il suo accettare anche una predestinazione negativa.
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Del 1962 è “Il processo di Giovanna d’Arco”, opera che pare rischiare parecchio nel confronto col capolavoro dreyeriano, anche per certe fisime scenografiche e costumistiche. La stessa interprete appare più impacciata che ieratica e avrà lei stessa tremato a veder anche soltanto le foto della Falconetti. “Au hasard, Balthazar” è del 1966 e sembra quasi ridondante parlarne dato che è una delle opere più “passate” per cineclub e video pubblici e privati. Ma non sarà banale ribadire quali finezze sottintenda questo apologo sulla bestialità degli uomini verso gli animali. Dice benissimo Ferrero, nel“Castoro”dedicato a Bresson:“L’ottica unilaterale e semplificatrice dell’asino spoglia gesti e parole, movimenti e fatti da qualsiasi sovrapposizione consolatoria, restituendone inflessibilmente, la gratuità e la tristezza”.
Lo sguardo di Balthazar è lo sguardo sbarrato di chi ancora può stupirsi della polimorfa malvagità dell’uomo, ma insieme riesce a sospendere la condanna dato che sente metafisici interrogativi insorgere dentro di sé. E il fenomeno del “dolore innocente” è anche al centro di “Mouchette” (1967). Il volto disarmato della remissiva ragazzina si confronta invano con quelli induriti degli adulti (la maestra punitrice, i ragazzotti violenti, l’abbrutito genitore) che sono anch’essi impigliati in un meccanismo alienante più grande di loro. Da contrappunto a tanta oscenità del vivere c’è solo il suono extraterrestre del “Magnificat” di Monteverdi.
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L’angoscia è la filigrana che pervade tutto il film, ma l’angoscia è, per Bresson come per Kierkegaard “l’avventura attraverso la quale deve passare l’uomo per non andare in perdizione”. Il regista ha scelto di nuovo, dal punto di vista fisionomico, un “modello vergine” perché “non è la psicologia che precede l’immagine ad interessarlo ma quella che da essa vien fuori indirettamente” (ed è una dichiarazione rilasciata a Tassone nella poliedrica
intervista, inserita nel bel catalogo della rassegna). Si capiscono così a posteriori gli equivoci interpretativi di studiosi come Kracauer e Agel e Kyrou che non si ritenevano persuasi dal linguaggio filmico bressoniano; oggi avrebbero decifrato meglio le sue “intenzioni d’arte” con l’ausilio della semiotica gestuale e della microcinesica. E si capisce quanta giusta importanza dia il cineasta francese al lavoro di montaggio, inteso come procedura essenziale di contestualizzazione semantica dei fotogrammi girati. E, infatti, riafferma nell’intervista summenzionata: “il montaggio è un elemento culminante molto stimolante e creativo. Non sono le inquadrature che devono essere drammatiche ma è l’insieme”.
Le sue opere rispondono, in fondo, a quell’obiezione di molti recensori che non ritengono il cinema competitivo con il romanzo per quanto attiene alla resa dello “spirituale”. Ad essi occorrerebbe riflettere sul fatto che fin da Platone, sguardi e parole sono le uniche evidenze umane in tal senso e che il cinema di Bresson, come quello di Dreyer o di Bergman (ma ancor prima di Griffith e altri ancora) ha reso tali testimonianze ancor più visibili e analizzabili. Altrimenti, non resta che un fideismo di natura teologizzante od occultistico.
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Un’opera minore viene fuori nel ’69, pur venendo tratta da Dostoevskij “Une femme douce” (da Krotcaja). È la storia di un coniugio senza simbiosi, di una moglie mite che ha dentro di sé un “amor fati” adamantino. Perciò il gesto di autodistruzione, apparentemente gratuito, è in chiave con tutte le sue scelte precedenti. Stavolta, è stata inserita nel cast un’attrice bene accetta alla produzione, D. Sanda. L’autore pare affascinato, calamitato da questo volto lunare fino al punto da sfiorare appena gli altri percorsi della narrazione. Ancora da Dostoevskij (“il più grande” per definizione dello stesso regista) è tolto il film del 71 “Quattro notti di un sognatore”. C’è, probabilmente, una sorta di sfida inconscia con l’opera di Visconti “Le notti bianche” (e l’argomento è lo stesso). Bresson sposta la vicenda ancor più vicino ai nostri giorni, così che il “sognatore” registra su un magnetofono le sue visioni oniriche anche ad occhi aperti. Il paesaggio è una Parigi surreale, tra il limbo del post ’68 e l’ultramoderno, così che anche i bateaux- mouches sembrano pronti a salpare per Atlantide. (Jean Vigo è uno dei pochi “amori” confessati da R.Bresson).
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Poi nel 74, Bresson riesce a realizzare il suo vecchio sogno di girare un “Lancelot du Lac”. La decisione a lungo covata è quella di immergere la leggenda in un clima di totale estraniamento. Per esso abolisce ogni ricostruzione storica e figurativa. Ciò che appare chiaro è che questo cavaliere di Artù gli interessa solo in quanto è un “deviante” della stessa specie del curato di campagna, di Giovanna o del pick-pocket. Gli altri personaggi non hanno un gran costrutto e così la stessa Ginevra si riduce ad un mero contraltare sanguigno ad una impossibilità terrestre. L’ordito tradisce non pochi nodi irrisolti e in esso si inscrive spesso un disegno tetro e monocorde. (quella che S.Sontag ha chiamato “una sorta di non autocoscienza”). Nell’opera successiva, girata nel 77, “Le diable probablement” vibrano invece profonde e sentite note di disperazione.
La storia del giovane Charles, trovato suicida al “père Lachaise” è una splendida seppur cupa trenodia su una generazione perduta in utopie deliranti. Il colore è usato da maestro espressionista, in tutti i toni più lividi, negli accordi più stridenti; la luce è un laser che fruga negli interstizi di un terremoto epocale. Il punto di arrivo mortale di Charles è quello di uno Stavroghin, deciso nello scetticismo e sublime in un nichilismo che potrebbe confinare con la trascendenza. L’entropia incrina le cose, le divora, gli oggetti si disfano nelle loro tinte sfuggenti, gli sfaldamenti cromatici sono paralleli e insieme intrinseci al testo che il regista compone. Ne “L’argent” del 1983 (ultimo film presentato nella rassegna), viene proposta una prospettiva meno apocalittica. Il plot stesso che ruota intorno 49
ad una banconota da 500 franchi sembra accennare ad una sola laterale responsabilità degli uomini rispetto alla onnipervasiva potenza di Mammona. Bresson stesso dichiarerà a tutte lettere: “non è un’opera disperata ma piena di tenerezza verso il protagonista... la colpa della catena di delitti non è della società ma del Dio-denaro”.
Anche qui si rappresentano in una forma spoglia ed essenziale i conflitti che sommuovono gli strati profondi, gli impulsi collettivi. Bresson muove anime pesanti e anime leggere sullo schermo di tela, trovando per esso il ritmo più appropriato. Colloca al posto giusto gli oggetti più banali in modo che possano assumere una densa significanza. C’è la sua misura, il suo gusto anche se raramente i suoi colpi di genio. Come nelle tre o quattro sue opere che si ritengono eccellenti, egli continua a sfrondare via gli inutili merletti, le trine e qualsiasi materiale che possa apparire gonfio o retorico. Come al solito non vuole costruire immagini belle o adescatrici ma elementi iconici che risultino imprescindibili nell’articolazione di un serrato discorso. Tutto ciò porta a comprendere assai bene il suo distacco da tante critiche pigre, ritardatarie o superficiali che il tempo galantuomo va dimostrando che si possono ritorcere solo contro i loro incauti formulatori. Napoli 1991
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ANDREJ ARSEN'EVIČ TARKOVSKIJ: TRA POESIA E RIGORE
Il film, quando non è un documentario, è un sogno. È per questo che Tarkovskij è il più grande di tutti. Ingmar Bergman
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1 “Aspirare alla semplicità significa aspirare alla profondità nella rappresentazione della vita. Ma questo, appunto, è quanto di più tormentoso vi sia nella creazione — trovare il cammino più breve tra ciò che si vuole dire o esprimere e la rappresentazione definitiva nell’immagine compiuta”. È un’annotazione fissata in una pagina di “Scolpire il tempo”, il libro in cui
A. Tarkovskij ha raccolto suoi pensieri e riflessioni sui problemi del cinema. Il rigore, l’aspirazione all’essenzialità di discorso sono state indubbiamente le cifre che più hanno marcato l’opera di questo regista russo morto nel 1986, ad appena 53 anni (nato a Zavroz’e nel 1932). Fin da “Oggi, niente libera uscita” del ’59, cortometraggio per la TV, e fin da “Lo schiacciasassi e il violino” (’61), saggio di diploma presso l’Istituto di Cinematografia di Mosca, riesce facile reperire questa sua tendenza a narrare con la massima economia di mezzi linguistici, attraverso lo sfoltimento dei nodi dell’intreccio e dei numero dei personaggi. E una lezione appresa da un classico quale Puskin, filtrata poi attraverso la sensibilità di autori del ’900 quali Chlebnikov e Pasternak, i cui testi il regista confessa di aver avuto sempre vicini. Nel volume citato, Tarkovskij trascrive alcuni versi di Puskin quasi ponendoli come motto da lui scelto per l’agognata fusione tra vocazione e destino:“Tu sei re. Vivi solo./Scegli liberamente la strada/e vai dove ti conduce il tuo libero ingegno/perfezionando i frutti dei tuoi diletti pensieri/ senza chiedere premi per la nobile impresa./Essi sono dentro di te...” E' la premonizione anche di ciò che gli costerà la sua opera in un’epoca tormentata ancora dai residui di quella furiosa “vertigine” passata come una sanguinosa tempesta sui paesi dell’Est. È anche la giustificazione alla fuga nell’interiorità e quindi nella poesia che, nella sua più autentica natura, è aliena da preoccupazioni di successo e di audience. La spia al rigore è data poi dalla sintomatica preferenza che il regista accorda agli “haiku” giapponesi —“quello che mi affascina — egli scrive — è la purezza, la finezza e la compattezza nell’osservazione della vita...”
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Nel ’62, con “L’infanzia di Ivan” (Leone d’oro a Venezia), Tarkovskij dà finalmente la piena misura della sua creatività. Il film solo apparentemente si riallaccia a quel filone enfatico ed elefantiaco presente nella produzione sovietica; la tematica patriottica viene infatti tutta trasfigurata in un flaskback lirico, in contrasti tra luci rarefatte e bagliori incandescenti. La vicenda del dodicenne Ivan che finirà vittima dei nazisti è tessuta in filigrane d’argento brunito che ordiscono le maglie della sua piccola anima. Questo impianto stilistico nuovo sembrerà, purtroppo, ai censori la riproposizione di un formalismo decadente. Anche in Italia, un esperto come G. Buttafava trova nell’opera “una calligrafia a tratti compiaciuta e barocca... un vagolare preziosistico della macchina da presa...” anche se poi ne rileva “...una specie altissima di agiografia laica ed umanistica”.
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Ne “L’infanzia di Ivan” c’è già tutta una morfologia particolare del discorso iconico: la prospettiva imbricata delle immagini, l’accumulo di metafore divergenti, l’uso di metonimie scelte con occhio fresco e felice. È la resa visiva di certi splendidi poemi della lirica sperimentale russa, messa a servizio di un’idea-valore. Ma anche i burocrati sono al lavoro e se non ad impedire certamente riescono a decelerare l’attività di Tarkovskij. Sono gli effetti di un disgelo che prosegue a fasi alterne, da un lato cercando di dimenticare lo zdanovismo, dall’altro ponendo cento barriere a chi si mostri eterodosso e cerchi nuovi e difficili sentieri. Passano perciò ben quattro anni prima che il regista possa realizzare il suo secondo lungometraggio: “Andrej Rublëv”(1966) che verrà, comunque a segnare un punto fermo nell’arte filmica del secondo dopoguerra. Anche quest’opera viene avversata sia apertamente che surrettiziamente: la prima proiezione avviene alla vecchia “Domkino” sotto la protezione di poliziotti a cavallo; subito dopo, un ukase destina la pellicola, ad un lungo riposo in scaffali d’archivio ben sigillati.
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Il “Rublëv” verra visionato all’estero solo nel 1969 (al Festival di Cannes) e dopo altri due anni di quarantena ne sarà permessa in patria una “discreta” circolazione. L'ambientazione è evidentemente storica ma la visione del mondo nel “Rublëv” è al di là delle mere contingenze cronologiche. Il monaco pittore e il suo maestro e antagonista Teofane rappresentano due forme diverse di accettazione del mistero esistenziale. Il primo sa che il tempo è un’idea, non è un oggetto; il più vecchio prende invece distanza da ciò che dipinge e lo congela nelle tradizionali forme bizantine.
Contro la consuetudine si schiera Andreij, teso com’è ad affermare i valori dell’arte come attività libera in cui concretizzare i principi umani di speranza e di fede. La preoccupazione di Tarkovskij non è quella della puntualità scenografica, ma quella di rendere la temperie psicologica di quel confronto che riappare ogni volta tra un maestro che conclude un’epoca e un suo allievo che la innova. L’obiettivo del regista esplora in profondità i luoghi in cui si muovono i personaggi: l’occhio di cristallo è attratto dai colori oscuri, dai grigi solchi, dai segni lasciati sulle cose dal lavoro umano. Quando inquadra il monacopittore, lo situa tra oggetti che fanno risaltare la sua capacità di concentrazione interiore: si veda la sequenza in cui Rublëv ammira “Il miracolo del trionfante S.Giorgio”. Gli abiti logori e frusti, i tronchi vetusti, i consunti blocchi di marmo spingono a focalizzare l’attenzione di chi guarda sul rigoroso gioco della fisionomia.
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Tarkovskij riesce anche a rendere, con la macchina da presa, quella “prospettiva inversa”, tipica di quegli artisti medioevali, che, come ha ben chiarito P. Florensky, “esprime l’esigenza di una peculiare messa in luce dei particolari problemi spirituali...” (non certo un limite tecnico, come ipotizzato da alcuni). La ieraticità che ne deriva, con la scansione meditata delle immagini, dei dettagli, dei primissimi piani rende bene la convergenza tra esperienza mistica e vicissitudine realmente sofferta. E l’autore annoterà nel libro citato: “Nel film il cielo figura solo come spazio cui tende tutto quello che cresce in terra...i suoi riverberi sul suolo, sul fiume, sulle pozzanghere”.
Questa complessità nella tessitura umanistico-religiosa non è troppo gradita, se devono passare ben sei anni prima che il regista possa realizzare “Solaris”(1972), opera di modernissima impostazione ed intelaiatura. Alcuni hanno voluta definirla la risposta russa a “Odissea nello spazio”, ma essa si colloca lungo un’altra direttrice estetica attenta a seguire ben diversi percorsi di poesia. Fin dalle prime inquadrature, risulta lampante che, per Tarkovskij, il cosmo non è un impero illimitato da conquistare o con cui fronteggiarsi, bensì un territorio neutro dove l’uomo può ancor meglio mettere alla prova la sua sostanza psicofisica.
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Ha centrato bene il problema C. Cosulich quando ha parlato di “un film di fantacoscienza” e, infatti, se si nota bene, al di là dell’itinerario esteriore, l’avventura spaziale attraversa ricordi, inquietudini, storie drammatiche di un uomo in bilico. I tagli trasversali alla linea del tempo non accennano a dimensioni scientifiche ma a indagini mentali e percettive.
La stessa monocromia viene usata non per raffigurare luoghi iperuranii ma per rendere certe acute ossessioni tra sogno e rammarico, tra pentimento e rabbia. La cosmonave in cui gravita il personaggio non è tanto un mezzo per approdare a remote galassie quanto uno strumento per riappropriarsi del tormentoso vissuto.
Nel ’74, il regista porta a compimento “Lo Specchio”, in cui i versi di certe poesie del padre Arsenij, intersecano le immagini in un controcanto di riflessioni miti o lancinanti. Ciò solleva qualche riserva in non pochi recensori e ad essi il regista pensa quando rivendica la funzione primaria dell’immagine “chiamata ad esprimere la vita stessa, ad incarnarla esprimendone 57
l’unicità”. Così, si può capire la pregnanza estrema del volto di Leonardo che
ritorna con ritmo quasi matematico tra una sequenza e l’altra; è il simbolo più alto del rigore stilistico e, insieme, della catarsi e della sublimazione che una vita d’artista abbia offerto agli uomini.
Il montaggio stesso assume qui un suo andamento musicale, come unione organica di singole scene e variante ideale del collegamento già contenuto a priori nel materiale impresso sulla pellicola. Qualcuno ha voluto definire, ironicamente “artistocratico”, “Lo Specchio”, ma il film è scevro di qualunque snobismo; la finezza della tessitura sentimentale è la controprova di un impegno umano, come di un sofferto
diario che tende a dare conto di tutte le intermittenze del cuore. Aleksej, il protagonista, è diviso tra orgoglio e rammarico, tra indipendenza e nostalgia, ma non si pente di aver seguito la via della libertà; anche di quella creativa che passa per le strette porte dell’arte non cortigiana (Un’eco puskiniana, 58
ancora una volta).
Le parti più suggestive sono quelle dell’infanzia, quando il bambino si avventura fuori della dacia e scopre la concertazione audiovisiva della natura. Sovraimpressioni, viraggi, striature come di flash del subconscio dominano le sequenze più problematiche, della irrisolta maturità (la madre, poi la moglie, figure femminili che quasi si confondono), mentre un alito di vento sfoglia le pagine di un codice atlantico. Le allusioni al clima tormentoso dello stalinismo sono molteplici; la più impregnata di ritmo e pathos è quella della madre che
ritorna correndo nella tipografia in cui lavora per eliminare un semplice refuso che potrebbe costarle il lager. L’ermetismo è il prezzo che il regista-poeta paga in nome di uno stile inedito, di inquadrature fascinose, di evocazioni iconiche di pura vita mentale e di stati d’animo. Il discorso è pensiero impresso sulla celluloide, è 59
colore intriso di idee e di emozioni, sfuggenti come i tropismi e i fosfemi di tanti flussi di coscienza che un uomo tenta di fissare sulla pagina o sullo schermo. Nel 1979, Tarkovskij porta a buon fine un altro arduo lavoro, secondo le sue ipotesi sempre meno conformistiche, sempre meno asservite agli schemi commerciali:
“Stalker”. Il termine indica il ruolo del “cacciatore che si pone in agguato”,
ma un’interpretazione più lata potrebbe essere “chi va alla ricerca di una preda incognita, in una terra sconosciuta”. Giustamente Grazzini vede il film come un’ulteriore “lode al cinema di poesia”; purtroppo molti altri recensori sono quasi sbalorditi di fronte a questi slanci verso vette così lontane dalle cupole e, dai soffitti artificiali di marca hollywoodiana. Il regista cammina imperterrito lungo il suo sentiero e ribadisce nel suo volume il credo secondo il quale: “l’artista non ha il diritto morale di abbassarsi ad un certo livello medio, in nome di una malintesa maggiore accessibilità e comprensibilità”. Citando Pasternak, egli ricorda che “il vero poeta si sente ostaggio dell’eternità, prigioniero del tempo e deve, perciò, dire cose dure, difficili, non casuali o di passaggio”. “Stalker” è tutto ossessivamente concentrato sul tema dell’umana dignità e
della sofferenza infernale che insorge quand’essa venga lesa per una ragione o per l’altra.
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Il viaggio che lo Scrittore e lo Scienziato intraprendono all’interno della “Zona” è una sorta di cammino dantesco in una selva selvaggia del mondo contemporaneo. Essi hanno saputo che esiste una misteriosa “Stanza” in cui vengono esauditi i desideri più profondi e più nobili degli uomini; è una tale ricerca che li spinge a superare acquitrini, luridi canaloni, discariche orrende (allegorie di un certo panorama morale che i quotidiani incasellano in poche colonne e sotto titoli eufemistici). Essi dibattono tra loro e con lo Stalker su tali situazioni e problemi e sul loro volto si disegna in solchi sempre più grigi e oscuri lo sdegno per un’epoca in cui, come afferma lo Scrittore, “anche il caso è il risultato di qualche legge sbagliata, benché ancora celata all’umana comprensione”. La macchina da presa segue i tre con lunghe panoramiche dai colori torbidi e bituminosi, usando metonimie e sineddoche degli oggetti che il suo mirino sfiora di continuo (carcasse d’auto, residui bellici, siringhe macchiate di sangue, rami marciti e calpestati). C’è qualche surplus di dialogo, qualche scatto di cerebralismo nel racconto anche troppo insistito (ma la sofferenza indotta nello spettatore può anche essere un rimedio revulsivo al male che gli cresce intorno di giorno in giorno); qualche paradosso risulta sfuggente, qualche illazione non facilmente decifrabile ma non si deve dimenticare che non pochi grandi autori hanno proposto tali “esercizi spirituali” di laico vigore (da Dreyer e Bergman, da Antonioni a Zanussi). Quando i tre “esploratori” rinunceranno ad arrivare alla mèta e torneranno sui loro mesti passi, sarà proprio lo Stalker a trovare 61
nell’abbraccio della figlioletta quella vergine energia e quella gioia spontanea che sono forse i segni più veraci del soprannaturale.
Nel 1980, Andrej Tarkovskij, oppresso da problemi politici e familiari, abbandona l’URSS e viene a lavorare in Italia e poi in Svezia. Tre anni dopo porta a termine “Nostalghia”, il racconto, il parte autobiografico delle vicende di un poeta, Gorcakov, andato in Italia a raccogliere materiale su un compositore russo. Anche stavolta il film appare un poema pieno di un’armonia densa e difficile, soffuso di una struggente e coerente malinconia che non dà tregua a chi è seduto in poltrona nel buio raccolto e semideserto della sala cinematografica.
Il mentore pittorico, stavolta, è Piero della Francesca con quella castità di linee aeree e con quella morbidezza estrema dei rarefatti colori che ne fanno un nome singolare dell’arte pittorica. Nel film c’è una prosodia lenta, 62
insistita ma onnipervasiva; ai critici frettolosi il regista risponde con intransigenza e fuori dai denti come chi persegue un suo itinerario decisivo: “Non mi interessa il movimento esteriore, né l’intrigo o il complesso degli avvenimenti: di queste cose, di film in film ho sempre meno bisogno”.
E’ pacifico, infatti, che uno stile di questo genere possa attrarre solo quegli “Happy few” che sappiano sottrarsi ai sortilegi facili del demone televisivo, a quel suo accavallare immagini al trotto e al galoppo. (Un thrilling sta a Tarkovskij come le battute monosillabiche di un fumetto stanno a Eliot o alla Cvetaeva).
L’autore è di fronte a scommesse estreme, preda di quella angoscia autentica che è l’unico modo perché non si rischi la perdizione totale (e banale), egli è ormai — come direbbe Dostojevskj — “un’anima che non conosce più misura” e così ancora una volta i suoi fotogrammi danno conto di crateri serafici, di bagliori tenui e di letti dalle lenzuola pietrificate. Egli sta lottando con l’angelo nero, come tanti eremiti e monaci delle sante icone della sua Russia. Da alcuni mesi ha saputo di esser gravemente malato e si induce a questo colloquio supremo con i valori escatologici, col senso ultimo della vita e dell’operare dell’uomo che è per lui il “poiein” filmico. Ha lavorato in modo durissimo, accettando solo il contributo alla sceneggiatura di un altro poeta legato alla natura di quei luoghi italiani cui “Nostalghia” è stato girato, Tonino Guerra. Ha atteso, in modo insonne, che su di un paesaggio colorato calasse un’ora diversa, dalla luce zodiacale, per cogliere il cambiamento di clima spirituale ch’essa comporta; e in sequenze d’alto spessore ha dipinto certe metamorfosi della natura e dei sentimenti umani.
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Questo sforzo, questa capacità di sincretismo gli ha concesso di mettere insieme inquadrature di dolci colline italiane e di villaggi russi e perfino di collocare un’isba all'interno di una cattedrale romanica. Il premio ottenuto è l’approdo all’organicità di quelle cose che solo certe ovvie convenzioni tendono a distinguere e separare e che i poeti ricompongono in quell’unità che è stata detta sinestesia. Anche il protagonista della vicenda filmica muore esperendo questa sensazione gloriosa della piena globalità di ciò che i sensi umani possono cogliere. L’ultimissimo impegno artistico per Tarkovskij sarà, nel 1986, (anno della morte), “Sacrificio” (“Offret”). La narrazione per immagini è qui contrappuntata dalla “Passione secondo Matteo” di J.S. Bach.
Di nuovo, l’ottimo attore bergmaniano, Erland Josephson, darà vita e movimento interiore al protagonista, lungo una parabola antica e sempre attuale. Alexander è un uomo che è stato attore ma è ora in fase di grande e irreversibile distacco dalla vita. Ogni cosa, lo spinge a rompere col passato, a bruciare ogni ponte dietro di sé e perciò si viene serrando di ora in ora in un mistico silenzio. 64
I simboli prescelti sono numerosi e talvolta anche un po’ grevi (l’albero da innaffiare è la Fede), ma il regista sa come instaurare un crescendo drammatico che rende credibili anche le inquadrature più eccentriche, perché c’è un’osmosi tra il suo dolore e quello del personaggio, come in un testamento scritto auscultando l’affievolirsi del polso, e l’intiepidirsi progressivo del sangue nelle arterie.
Nelle pagine scritte di “Scolpire il tempo”, alle ultime righe, egli versa l’inchiostro della sua indignazione per il deterioramento morale dell’epoca: “soffochiamo per l’eccesso di informazione e i messaggi più importanti, quelli in grado di trasformare la nostra vita, non raggiungono la nostra coscienza”.
C’è un parallelismo sorprendente tra le sequenze del film quando attingono certe asprezze e certi soprassalti d’indignazione e le frasi scritte come commento e retaggio a chi vorrà meditarle, e c’è la aggressiva sincerità di chi deve concludere non solo un discorso ma la sua stessa vita.
L’obiettivo è ormai quello specchio scuro che ritrae i crittogrammi dell’esistenza; allegoriche e anagogiche sono anche le figure marginali del racconto fotodinamico e policromatico: lo stesso incendio finale della casa è 65
in chiave misterica; quel fuoco terribile non è altro che luce (“il sacrificio della vita”).
Perciò l’albero si rianimerà e si ricoprirà di foglie e di rami e di frutti: un miracolo o la rigorosa e storica realtà della grande poesia? Napoli 1991
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UN'ANIMA ALLO SPECCHIO I “Diari” dì A.Tarkovskij
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"L'angoscia è l’avventura attraverso la quale si dà che l’uomo non vada in perdizione.” Questo paradigma kierkegaardiano sembra il filo rosso che corre per le settecento pagine dei “Diari-Martirologio” di Andrej Tarkovskij pubblicati dalle Edizioni della Meridiana ( Firenze 2002). Sono così, tradotti in italiano (da N.Mozzato) e corredati da numerose foto, gli appunti tenuti dal regista russo dall'aprile 1970 al dicembre 1986. Essi rappresentano, come scrive il figlio nell'introduzione, "l'unica testimonianza della vita quotidiana del padre, in tutta la sua asprezza ed onestà". Ciò che appare evidente fin dalle prime pagine dei sette quaderni raccolti nel volume è che, anche al di fuori dei gulag, uno spirito libero e creativo vive mille tormenti nel regime sovietico. Eppure, quando Tarkovskij avvia il suo "giornale - martirologio” non è uno sconosciuto: ha trentotto anni e ha al suo attivo varii riconoscimenti internazionali, quali il “Leone d'oro” a Venezia, per “L'infanzia di Ivan” un importante premio a Cannes per il ”Rublëv”e altri ancora. Non si è placata, però, l'ostilità della nomenklatura contro l'ultimo film, già tenuto “in frigo” per diversi anni e oggetto di accuse pretestuose (“film violento"). A mò di consolazione, il regista trascrive alcune lettere di ammiratori e, quasi per intero, lo stenogramma dell'intervento (in un dibattito a Mosca) di un matematico che ha parlato di “artisti che ci fanno sentire la vera misura delle cose ... al di là della crescente inflazione emotiva.” Il 1° settembre 1970 annota: "Vorrei tanto far vedere l'"Andrej Rublëv”a Solzenitsyn. Parlarne con Šostakovic?” Sono due personalità che egli sente vicine, oppresse - come sono- anch'esse dall'odio fazioso dei servi del potere sovietico.
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Fin dall'inizio, perciò, "Martirologio”si delinea come il discorso di un'anima allo specchio, che fissa con coraggio i punti più acerbi della sua sofferenza d'uomo e d'artista. Ne viene fuori il profilo di un essere autentico che dischiude il suo cuore, con la coscienza - tra lo stoico e il cristiano- di dover accettare il suo destino. Un uomo sostenuto, comunque, dalla profonda convinzione che esistono valori perenni e indistruttibili nella storia! “... la religione, la filosofia, l'arte ... tre pilastri sui quali poggia il mondo... per materializzare simbolicamente l'idea dell'infinito".
Non poche volte egli ha l'impressione di ripercorrere le vicende del padre, avversato anche lui, a suo tempo, dall'insolente burocrazia zdanoviana. Ad Arsenij Tarkovskij - come ricorda G. Chiaramonte nella prefazione, biechi censori rifiutarono la pubblicazione delle prime opere, accusandolo di esser “membro di quel Pantheon Nero della poesia russa cui appartengono anche Achmatova, Gumilev, Mandelstam..." Invece, proprio la poesia paterna servirà spesso al regista quale stella polare per orientarsi nel cammino da lui intrapreso. Ne ha parlato anche in “Scolpire il tempo” (1986), sua testimonianza sul lavoro cinematografico e sulle idee che lo hanno ispirato. Il giorno 7 agosto 1970 segna, finalmente, un evento gioioso: è nato Andrjuska, figlio suo e di Larissa. Ne annota sesso, peso, statura, numeretto della maternità. In più, trascrive sul quaderno il conciso telegramma di Zavattini: “Evviva il nuovo Tarkovskij!". Intanto, nonostante l'altalena ipocrita tra permessi e divieti il lavoro va avanti: con lo scrittore F.Gorenstein stende la sceneggiatura di quello che sarà “Solaris” (dal romanzo di S. Lem). Non sempre, invece, riesce a dominare certi tropismi della mente: pensa, infatti, che i genitori non gli perdonino la separazione dalla prima moglie Ira. In un soprassalto negativo annota: “Non mi sento adulto quando sto con loro... è molto difficile comunicare quando non si può dire né sì né no, né bianco né nero...“ E' indubbio che la franchezza dei giudizi è un forte leitmotiv dei “Diari”: essa è esercitata verso i funzionarii ma anche verso parenti, amici, collaboratori. Talvolta, perfino contro i libri che va leggendo: “Noi” - di Zamjatyn gli pare - “debole e pretenzioso, una prosa a brandelli che vorrebbe essere dinamica. Fastidiosa."
Al contrario, resta estasiato alla scoperta de “II gioco delle perle di vetro”di Hermann Hesse e ne trascrive varie frasi aforistiche: “La virtù 69
deve esser vissuta e non insegnata ex cathedra.” e ancora: “Ciò che tu chiami passione non è una forza dell'anima ma l'attrito tra l'anima e il mondo esterno." Gli autori da cui non si distacca mai sono Dostojevskij e Tolstoj. Cita di frequente anche Seneca e Montaigne, maestri dello stoicismo antico e di quello moderno. Appunta tra i tanti progetti la realizzazione filmica de "L'idiota" e de “La morte di Ivan Ilic”. Sente questi temi a lui congeniali dato che in essi la morte vale come ricerca di possibilità e di significati esistenziali. In un essere umano il pensiero della fine può indurre a benefiche metànoie, rendendo “etica" una vita “meramente estetica”, e attuando “quel volo della coscienza assoluta che la libera dalle miserie dell' "esserci", come afferma K.Jaspers. In “Martirologio” non si tratta di esercizi di vuota filosofia perchè non c'è mese che egli non debba affrontare seri malanni e quell'astenia che non lo abbandona mai. Ci sono momenti neri di depressione in cui scrive: “ho fatto poco; terribilmente poco e così male. Tre miserabili film!”(sic) Ma non demorde dall'impegno del lavoro e porta a termine “Solaris"; contro di esso si solleva di nuovo la canèa burocratica che sotto forma di "suggerimenti” esige tagli di intere sequenze.
II regista resiste con lucida intransigenza: per lui “eseguire le correzioni”è impossibile, equivarrebbe a “distruggere il film.”. E piovono le solite accuse di“elitismo", “formalismo” etc. Ma Andrej sa bene che “vi sono cose più importanti della felicità e che la ricerca della verità è quasi sempre un percorso doloroso": è il suo modo di essere dissidente, fermo e incorruttibile. Bene ha fatto l'adorato Andrjuska a sottolinearlo nella solidale introduzione ai “Diari". Essi sono, in fondo, anche la cronaca drammatica della lotta del regista 70
col Leviatano politico che vuole invadere ogni recesso dell'anima e del pensiero. Ci sono parentesi positive: nel dicembre 1972 c'è il primo viaggio in Italia. I luoghi pittoreschi e turistici lo lasciano freddo ma Roma lo sbalordisce: “città straordinaria ... su di essa come sul tronco degli alberi si contano gli anelli dei decenni e, forse, di intere epoche." Intanto, “Solaris” ha avuto ottime accoglienze anche se, soprattutto
all'estero, i distributori lo hanno tagliato con l'accetta, Un critico acuto, C.Cosulich, lo ha giustamente definito un film di “fantacoscienza". In esso il protagonista, Kelvin, va infatti alla ricerca dei limiti morali della conoscenza. Simbolica è la scena in cui al dogmatico e iperrazionale professor Sartorius cade una lente degli occhiali proprio mentre ostenta la sua sicumera epistemologica.
Al ritorno in Russia, Tarkovskij ottiene l'agognato permesso di dar inizio alle riprese de “Lo specchio": in esso si avvererà il suo sogno di “scolpire il tempo", nella splendida fusione tra ricordi e realtà presente. Nel fluire dei cromatismi emergono i simboli, tra i quali domina il volto di Leonardo, tranquillo nella acquietata disperazione. Le citazioni dei versi del padre Arsenij controcantano sovente le pregnanti inquadrature. Non si avvertono sfasature, perfino la polemica (antistaliniana) è inserita con souplesse e senza levate di vessilli rancorosi.
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A Mosca, nonostante l'ottima accoglienza fatta dal pubblico al DomKino, i piccoli despoti della cultura ufficiale riprendono le loro tattiche di sabotaggio e ostruzionismo. Provocano il regista fine ad incitare il regista a fare un film su Lenin. Il quaderno del ‘76 si apre, invece, su una nota di ottimismo: l'incontro, a Mosca, con Tonino Guerra, poeta e sceneggiatore italiano, e l'inizio di una delle più salde amicizie di Tarkovskij. Insieme, vanno già configurando il soggetto di quello che poi sarà “Nostalghia", anche se restano progetti ancora non realizzati, tra i quali, “Hoffmaniana", “La fuga” sull'ultimo anno di vita di Tolstoj e “Le tentazioni di S.Antonio”( da Flaubert). A teatro, si prolungano le prove per l’”Amleto” che sarà portato a termine nonostante dilazioni e intralci creati a bella posta dai burocrati. Andrej si sente oppresso da una tristezza profonda: “come se tutti i pori della mia anima si stessero aprendo, lasciandola indifesa.” Ma si riprende subito ed è come se il suo pessimismo si transvalutasse continuamente in una virile invocazione di fede. Finalmente, a gennaio del‘77 gira i “provini”per gli attori di "Stalker". La vicenda è ricavata da un racconto dei fratelli Strugatskij. Essa si svolge lungo un “percorso dantesco”che porta ad una “zona”dove si trova la “Stanza” in cui -si dice- si realizzino tutti i desideri. Il Virgilio dello scrittore e dello scienziato è, appunto, un “battitore “di piste sconosciute (lo stalker).
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L'allegoria è chiara pur senza essere esibita né declamata. Il gusto figurativo garantisce l'organicità del racconto per immagini in cui sono incastonati preziosi versi del padre Arsenij. L'allusione è ai rischi che l'uomo contemporaneo corre nella brama di voler acquisire una conoscenza che “può esser funesta... entropia, fuga dalla realtà". La preoccupazione per lo spirituale viene fuori proprio dalla consapevolezza che il progresso scientifico ha prodotto “apprendisti stregoni”come in una nemesi che riafferma la dimensione metafisica. Passano i mesi, tal volta ci sono spazi di vuoto tra un appunto e l'altro. Il 5 ottobre "79” Tarkovskij annota la morte di Marija Ivanovna, la sua cara madre e scrive: ”... adesso mi sento indifeso...”. La saluta, pero, con un arrivederci e aggiunge: “Ma che ne sappiamo noi della morte, che non sappiamo niente neanche della vita?"
Nell'80, il regista intraprende un altro e più lungo viaggio in Italia, su invito di Tonino Guerra. È l'occasione per girare uno"special”( “Tempo di viaggio” sorta di preludio a “Nostalghìa” trasmesso poi dalla RAI-TV quasi tre anni dopo). A maggio, a Cannes, “Stalker” riceve applausi e ed elogi “strepitosi”: “Sono perfino imbarazzato - si legge nel “Diario “– a ripetere quel che dice G.L. Rondi". Ma, di fatto, avendo l'URSS presentato, in precedenza, la pellicola al festival di Rotterdam, gli è precluso di concorrere alla “Palma d'oro". Un altro abile sgambetto a chi, d'altra parte, nel settore "interno" era stato conferito il titolo di “artista emerito dell'Unione Sovietica". Nel febbraio 1982, Tarkovskij accetta volentieri la proposta del Maestro Claudio Abbado di curare la regia del “Boris Godunov”. I1 progetto viene 73
realizzato in pochi mesi e l'opera va in scena al Covent Garden di Londra.
Il 7 marzo ‘83 il regista è di nuovo a Roma dove è spesso a cena con Antonioni e altri amici tra cui Donatella Baglivo e Norman Mozzato, rispettivamente documentarista e interprete-traduttore. Viaggia per la penisola con l'operatore P. Lanci per sopralluoghi in previsione di “Nostalghia": a Portonovo, (Ancona) si ferma devotamente di fronte ad un'icona della Madonna di Vladimir, arrivata lì non si sa come. Sul “Diario” l'agnostico Andrej annota: “Come ho pregato oggi, come ho pregato!"
Nel suo giornale intimo si preoccupa di chiarire, anche a se stesso il significato di “nostalghia":..è la malattia mortale di non potersi staccare dalle proprie radici". C'è, inoltre, come la premonizione che sarà un'opera “testamentaria", il presentimento che sia l'ultimo periodo del “martirologio". Eppure, nel film ci sono prospettive di una “bellezza salvifica"; i paesaggi inquadrati, la stessa aurea chioma di Domiziana appaiono come correlativi oggettivi della “filocalia” che Tarkovskij cita, avendo di recente letto l'opera di S. Giovanni Climaco ed altri anacoreti. Si dimostra, così, che anche la settima arte può essere trasfiguratrice delle emozioni se “rivissute in tranquillità” e si è sulla scia dei Bresson, dei Dreyer, dei Dovzenko. Sul piano pratico è validissimo l'aiuto dell'amico Tonino che lo informa altresì della avvenuta assegnazione del “David di Donatello". Ha ricevuto anche altri premi ma su di essi glissa volentieri, mentre sempre più spazio dedica al problema della fede religiosa.
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Legge molto a questo riguardo, si interroga in profondità e trascrive sul “Martirologio” frasi di Newton, Einstein e Max Born esprimenti la convinzione che “la scienza non ha il diritto di dar giudizi in questo campo". Non gli manca qualche battuta umoristica come quella del 29 aprile 1982: “oggi ho sognato Breznev che parlava molto benevolmente con me. Mio Dio!“
L'esclamazione finale è in italiano per dare ad essa la sua effettiva valenza semantica. Gli amici di Roma lo trascinano spesso a cinema, ma raramente ne viene gratificato: ad esempio “Possession” di Zulawsky gli appare “ rivoltante ... satanico... mostruoso ... soldi, soldi, soldi."
Il 22/5 è a Napoli dove conosce Roberto De Simone “un uomo straordinario che vive in uno strano appartamento-museo, pieno di pastori, marionette, oggetti di artigianato popolare”. La città invece “dopo l'ultimo terremoto non si è rimessa in sesto", ne ricava "una sensazione di anarchia, cioè di libertà al limite dell'anarchia."
E' stanco, ma nemmeno al rientro a Roma riesce a riposare dato che “l'Italia ha vinto la Coppa del Mondo (di calcio) e i tifosi fanno festa per giorni con “bandiere, sirene, battole, tamburi, grida, balli, crisi isteriche, abbracci, urla."
Non è un'atmosfera che gli conviene dato che sente crescere in sé la preoccupazione per Larissa e Andrjuska che sono lontani, in Russia; troppo lontani. A fine agosto è chiamato a Venezia, dalla Mostra d'arte cinematografica in qualità di giurato, insieme a Zurlini, Pontecorvo, S.Ray, Berlanga, Monicelli. Quel visionare anche sei film al giorno non lo diverte molto, è quasi una sorta di indigestione oculare. Una bella sorpresa è, al contrario, l'arrivo di Lara da Mosca anche se il figlio adorato è dovuto rimanere in URSS quasi in ostaggio. Per riaverlo con loro, Tarkovskij pensa di chiedere l'intermediazione di 75
Papa Wojtyla; scrive anche a Pertini e a Mitterand. Infatti, il tempo passa ma la situazione non muta affatto, anche se si sono avvicendati nuovi capi di stato nell'Unione Sovietica. Sul "Diario” il regista segna: “ci ritroviamo cacciati oltre le frontiere della Russia. Sono diventato come una mosca bianca, incompreso e inutile. Scomodo.”
Si conforta leggendo “Ikonostas”di P.Florenskij, martire dello stalinismo: “Si deve accettare ciò che e stato disposto per noi più in alto... da Colui che può con una parola sola cacciare tutti i demoni dalla terra.”
Ma passano mesi e mesi senza risultati a riguardo della questione del figlio; a maggio dell'85, Andrej parte per la Svezia dove a Gotland ( nomina omina) dà avvio a quella che sarà l'ultima sua opera,“Sacrificio". Lavorano con lui l'operatore di Bergman, Nykvist e l'attore Erland Josephson, nella parte principale. Il film è un apologo di altissima tragicità con molte sequenze contrappuntate dalla “Matthäus Passion”di J.S.Bach. II protagonista, Alessandro, è un uomo arrivato al totale distacco dal mondo, dai suoi falsi valori, pronto a scommesse estreme, quasi un “innocente”("jurodivij"). Di fronte all'annuncio della TV di un imminente catastrofe nucleare, gli affiorano sulle labbra le parole del “Paternoster” e si reca ad ascoltare le voci degli uccelli e lo sgocciolio dell'acqua. Nelle inquadrature del film la luce livida si trasfigura in magici crepuscoli o in gloriosi arcobaleni, anche nel momento in cui Alexander dà fuoco alla casa, in un rito di purificazione. Nel finale, però dietro al rogo appare in prospettiva un laghetto cristallino presso il quale svetta un albero: il bambino Ometto da esso trae l'acqua per innaffiarlo, tale è la sua fede di fanciullo che esso possa rinascere e rifiorire.
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A Tarkovskij, al rientro dalla Svezia - nel settembre 1985 - Larissa comunica una buona notizia: il comune di Firenze ha messo a loro disposizione uno spazioso alloggio. Invece, nemmeno l'avvento di Gorbacev ha risolto ancora la questione del ricongiungimento del figlio. Questo malessere si addiziona ai dolori che il regista sempre più avverte e viene diagnosticato un tumore. Il 29 settembre dello stesso anno scrive, in piena depressione: “Ho perso la voglia di vivere” poi progetta un esposto al presidente Reagan da trasmettere tramite l'amico Rostropovič.
Poco dopo, viene ricoverato in ospedale a Parigi, affettuosamente assistito, oltre che dalla moglie, da Marina Vlady e suo marito che sovraintende, da medico, alle diverse terapie.
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Finalmente,
il 19 gennaio
1986,
Tarkovskij può
annotare
sul
“Martirologio": “Sono arrivati Andrjuska e Anna Semionovna!...lui è cresciuto molto, il dolce, buon ragazzo dai grandi denti... tutto questo ha del miracoloso!"
Nonostante le attente cure, il male si aggrava. Vengono a visitarlo in molti, amici, colleghi, tra i quali Zanussi; Kurosawa, di passaggio a Parigi, gli ha inviato dei fiori e un breve scritto gentile. Il 12 maggio annota che un amico gli ha telefonato da Cannes per riferigli che “durante la proiezione di "Sacrificio” molti piangevano.” All'opera sono stati assegnati ben tre premi: il premio della Giuria ecumenica, il FIPRESCI, oltre a quello “per il contributo artistico” dato a Nykvist. Le annotazioni sul diario si rarefanno ma a luglio é scritto: nonostante il termine “sacrificio” (sacrificale) comporti un significato quasi negativo, in effetti, l'essenza di questo atto è sempre amore, cioè un fatto positivo, creativo, divino."
Il 26 ottobre si trova ancora un appunto sul progetto di un film su “II Golgota”e la glossa che così suona: “creare la poesia degli avvenimenti. Il mito. Con una misteriosa profondità. Con una domanda."
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Tarkovskij si spegne nella notte tra il 28 e il 29 dicembre 1986, a cinquantaquattro anni. Il 3 gennaio ‘87, viene celebrata una cerimonia nella cattedrale Alexander Nevskij, in rue Daru, a Parigi. Sul sagrate Rostropovič suona per lui una suite per violoncello di Bach. Riposa, oggi, nel cimitero ortodosso di Sainte Geneviève des Bois, tra le betulle, simbolo dell'amata patria in compagnia di tanti altri esuli russi. Napoli 2003
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NOTE SULLE ICONE 1.Icone Non molto tempo fa l'annerimento dei colori era considerato il segno più valide per la datazione di una icona russa. Ora, però, sappiamo che questa idea è fondamentalmente sbagliata. Essa derivava dal fatto che la maggior parte dei icone antiche ci arrivava coperta da annoso strati di polvere e nero fumo. Al momento, attraversa gli sforzi dei moderni restauratori le icone vengono "rivelate", cioè gli strati "oscuri" sono rimossi ed esse si mostrano nella piena e gloria e bellezza dei loro colori originali.
L'uomo moderna resta meravigliato da questo trasformarsi dalle "tavole nere" in magnifici luminosi quadri al punto che è disposto a ritenere questa metamorfosi la principale caratteristica della favolosa, poetica qualità delle icone. Nell'appassionato di arte moderna, anche nel più erudito, l'ammirazione tende a mescolarsi con un certo atteggiamento di condiscendenza verso le tinte delle icone: gli autori sembrano averle adoperate con fanciullesca prodigalità da cuori semplici che nessun artista avveduto avrebbe osato usare, ad eccezione, forse, di Marc Chagall o un Joan Mirò. Nella sua esuberanza cromatica, la pittura iconografica russa ricorda in qualche modo, 80
le maschere rituali africane o amerindie così vivacemente dipinte e ornate con penne di uccelli esotici. E' vero che dopo aver visto le opere dei pittori del XIX secolo, anche di quelli che più coraggiosamente si sono opposti al "color scuro", allorché si visita una mostra di antiche pitture russe, ogni velo cade dagli occhi e si esperisce una gioia irreprimibile come se ci si trovasse su di un prato ricolmo di fiori. E sebbene la gamma tematica delle icone sia piuttosto limitata, si sente che la propria vista si spalanca sul mondo, ma non su quello che ci circonda ogni giorno, ma sull'immenso molteplice universo dei colori creati dall'immaginazione.
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2.Le icone attraverso i secoli L’origine delle icone non si può datare con precisione; è un fatto, però, che nelle catacombe cristiane si osservano già immagini sacre e medaglioni che rappresentano i volti del Cristo, della Vergine e dei primi martiri. Essi sono dipinti con tratti ben marcati e con notevole cura del colore. In S.Priscilla come in S.Callisto come in altri luoghi sotterranei di culto, a Roma e altrove, queste pitture parietali rivelano il graduale prevalere della iconografia sul simbolismo: non tanto affreschi del ”Buon Pastore" o dello "Ichthus Ouranios" quanto figurazioni sia pur stilizzate di volti santi. Col venir meno delle persecuzioni imperiali e della clandestinità, le componenti fisionomiche assumono le modulazioni "realistiche" di quella che è stata chiamata "pictura compendiaria". Sono, infatti, opere espressive, dai colori luminosi e dai contrasti netti, che hanno qui caratteri che si tramanderanno nei canoni dell'arte musiva e poi delle icone greco-bizantine. Lo sviluppo di questa linea estetica è parallelo alla crescente istituzionalizzazione del Cristianesimo e si diffonde, naturalmente, in tutto il territorio della "koiné dialektos" che va da Roma a Ravenna, da Costantinopoli a Edessa e fino in Egitto.
I profili grafici dei mosaici riprendono quelli degli affreschi catacombali ma a dominare in essi è lo splendore delle tessere auree. Il motivo fondamentale che li ispira è l'illustrazione ciclica e didascalica del Vecchio e Nuovo Testamento. Non senza ragione, Gregorio Magno chiamerà questi 82
mosaici narrativi "Biblia pauperum" poichè permettono la lettura del Libro divino a tutti i fedeli, non escludendo quelli analfabeti. Così, a S.Prassede come in S.Giovanni in Laterano o in altre basiliche erette tra il V e l’VIII sec., conche, mura, absidi si popolano di decine di personaggi dall'atteggiamento semplice e severo, dai corpi modellati vigorosamente e col senso della tridimensionalità (anticipazione della prospettiva policentrica delle vere e proprie icone). Anche i codici miniati, in scala ridotta, seguiranno queste precise norme grafiche e cromatiche (da quelli di Rabula in Siria del VI sec. fino a quelli di Kiev del XIV sec.) La creazione di tali immagini procederà dappertutto nonostante le ondate di iconoclastia. In Italia, la scuola romanica distorcerà il termine in "ancona” ma il riferimento resta a quel tipo di ritratto sacro e ai canoni consacrati nei secoli: S.Marco, a Venezia, è il monumento più glorioso in cui si possono ammirare le figurazioni che resteranno immutate nella iconografia orientale (la ”Trinità” che sarà ripresa, ad esempio, da Rubliov e da altri artisti delle varie scuole russe). Intanto, a Monreale, presso Palermo, viene portata a perfezione la "Biblia pauperum”: in quel trionfo di luce dorata, si può esperire la ”filocalia" l'amore del bello in quanto essenza umana e soprannaturale. Niente di accessorio è sovrapposto allo splendore di quei mosaici. Nello stesso periodo, a Napoli arrivano o sono dipinte, in loco, autentiche icone: la "Vergine del Carmine” (“S.Maria la Bruna”) o quella di Montevergine (”Mamma schiavona”, cioè Slavona); altre se ne incontrano nel sud d'Italia, come la “Madonna Acheropita" di Rossano o quella del Duomo di Crotone. E non pochi artisti restano legati alla linea delle "ancone”; basti ricordare Pietro Cavallini, operoso anche a Napoli o Duccio o lo stesso Cimabue. Lo confermano le loro tavole dal disegno preciso, ben scontornato, quasi scultoreo. Poi verrà Giotto, con l'attenzione dedicata all'ambiente e all'architettura che circonda i personaggi e poi il pieno Rinascimento che sostituirà la sinuosità grafica alla ieraticità rigorosa dei gesti e delle fisionomie delle "icone" (o "ancone) In Oriente, l'ortodossia si rifiuterà di seguire questa evoluzione che, per essa, è in contrasto con la perennità del messaggio evangelico. In Russia come in Grecia o in Bulgaria, il pittore d'immagini sacre, confermerà, in ogni sua opera, il netto distacco dalla teologia scolastica come dall'umanesimo. Sia Rublëv che Teofane il Greco accetteranno pienamente i canoni dell'arte 83
bizantina e, nonostante l'ineluttabile apporto personale, il loro impegno sarà verso la perfezione dei segni, della tempera e nell'uso dell'oro zecchino, sarà la ricerca del senso della celestiale trasfigurazione non del dramma umano, come in Masaccio o in Bellini, in Caravaggio o in Luca Giordano. Il ritratto sacro su tavola, pertanto, subirà solo lievi ritocchi e scarse modificazioni: ciò che conta non è l'originalità ma quel che non è transeunte. Gli iconografi resisteranno, per secoli, anche nei tempi più recenti alle più crudeli persecuzioni e intimidazioni, anche nei Gulag e nelle celle di isolamento. Le icone conservate nei luoghi più segreti e più cari, riappaiono oggi anche a testimonianza della libertà ritrovata.
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3.Le icone di luce Icona è una parola greca antica per indicare un’immagine. Nella tradizione dei mosaici e degli affreschi bizantini e poi russi essa è la visione materializzata del Cristo, della Vergine, dei Santi. Come annota Pavel Florenskij ne "Le porte regali"(Adelfi,1990) "le icone non sono ritratti ma presenze di una superiore realtà spirituale" e ricorda come,nella Bibbia, si fa distinzione tra "immagine di Dio"e “somiglianza a Dio". L'esclusione della corrispondenza fisionomica è quindi un canone sacro per il pittore ortodosso d'icone. Egli rende ascetico l'aspetto dei volti, pacato e quasi disseccato, per farvi affiorare l'anima; con l'assenza di ombre e di chiaroscuri vuole un'affermazione totale della vita, di tutto l'esistente. Stilizza i contorni per dare un forte rilievo alle figure sul legno.
I simboli cromatici sono rigorosamente rispettati nel loro contesto teologico: l'oro zecchino non è la terrena ricchezza ma è la luce intramontabile nella sua purezza e perennità. E il blu è il colore del cielo, il rosso-porpora la regalità, l'ocra la carne della creatura umana, la sua fronte, il suo naso, la bocca. La stessa regola della "prospettiva rovesciata" è il criterio fondamentale per configurare l'immagine in modo da non farla apparire deformata qualunque sia il punto di vista dell'osservatore. In pratica, sono gli occhi del 85
volto dipìnto che guardano lo spettatore e non viceversa. La stessa struttura lignea, la consistenza delle tinte, la maniera di stenderle sulla tavola e poi di verniciarle sono subordinate ad un "principio architettonico" inteso ad attingere nella sua conchiusa armonia una gioia che è superamento di ogni pena e meschinità terrestri. Così, anche nella più piccola icona si ritrova la ieraticità dei grandi mosaici di Kiev o di Monreale o degli affreschi di maestri dell'arte quale Andrej Rublëv: dalla tranquilla maestosità di quei Cristi Pantocratori, di quelle Vergini e Santi in gloria promana un affetto cosmico per chi vaga angosciato nei grigi labirinti del mondo. Una fede ed una tecnica appassionate permettono anche all'iconografo di oggi di farsi intermediario tra il visibile e l'invisibile; nei più minuti lavori si impegna a recuperare una fedeltà che non sia automatico ricalco ma devozione ispirata. Assai spesso rifiuta, pertanto, ogni sorta di rifinitura metallica e di pietre semipreziose perchè le considera decorazioni accessorie che nulla possono aggiungere all'intriseco pregio e al significato profondo dell'opera. Un'icona è qualcosa che dura nel tempo, che invita credenti e noncredenti a sottrarsi all'effimero, all'evanescenza delle mille immagini che occhieggiano banalmente dai pletorici massmedia. Essa sollecita il benefico intervento della riflessione su valori che resistono da secoli pur attraverso le tempeste della storia e il fluttuar delle mode. Napoli 1991- 1995
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[1]
“Il Premio Pasinetti venne istituito nel 1949 all’indomani della morte di Francesco Pasinetti, lo studioso che contribuì autorevolmente alla formazione in Italia di una coscienza cinematografica. Attraverso il premio si sono rivelati alcuni dei nomi dell’attuale critica cinematografica: esso venne assegnato, tra gli altri, a Vittorio Caldiron, Guido Gerosa, Guido Oldrini, Antonio Napolitano, Ernesto Ferrerò, Giuseppe Feruzzi. In generale, anche questa IV edizione ha confermato la sua duplice funzione: segnalare nel campo della critica cinematografica nuove forze e fresche energie, e mantenere vivo il colloquio e la collaborazione che « Cinema Nuovo » intende avere con i suoi lettori.”(“Cinema Nuovo N.151”- maggio-giugno 1961) [2]
Cfr. Pittura su legno, ne Il Dramma, Torino, n. 283, dell’aprile 1960.
[3]
Cfr. lettera di Cesare Pavese a Rino dal Sasso, in data 20 marzo 1950, riportata in L’Europa Letteraria, Roma, n.3 del giugno [4]
Cfr. Il Nuovo Spettatore Cinematografico, Torino, n. 8 del febbraio 1960. [5]
Ernesto de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino, Einaudi. [6]
David Robinson, in Sight and Sound, Londra, vol. XXVII, n. 5 dell’estate 1958. [7] [8] [9]
Francis Jeanson, Le problème moral et la pensée de Sartre, Parigi, 1958 Nicola Abbagnano, Possibilità e libertà, Torino,Taylor, 1956. Nicola Abbagnano, Introduzione all'esistenzialismo, Torino, 1957.
[10] [11] [12]
Ibid., p. 151. Soeren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, Firenze, Bocca. G. de Ruggiero, L’esistenzialismo, Bari, Laterza, 1951. 87
[13] [14] [15] [16]
[17] [18]
György Lukács, La distruzione della ragione, Torino, Einaudi, 1959. Louis Lavelle, De l’acte, Parigi, Aubier, 1937. 14 Ibid. Ibid., Ernesto de Martino, op.cit. Albert Einstein, Idee e opinioni, Milano, Schwartz, 1958. Jean Rostand, Ce que je crois, Parigi, 1956.
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