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Italian Pages 284 Year 1991
Filosofia Strumenti
Razionalità fenomenologica e destino della filosofia a cura di Aldo Masullo e Ciro Senofonte
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UNIVERSITÀ
DEGLI STUDI «FEDERICO» NAPOLI Dipartimento di Filosofia
UNIVERSITÀ
DEGLI
STUDI DELLA BASILICATA POTENZA Dipartimento di Antropologia e Scienze umane
Atti del. convegno internazionale per il cinquantenario della morte di Edmund Husserl
Potenza
Aula Magna dell’Università 28-30 novembre
1988
G. Cacciatore B.M. D’Ippolito F. Fellmann K. Held A. Masullo V. Melchiorre E.W. Orth O. Poggeler G. Semerari C. Senofonte A. Ales Bello G. Ferraro C. Gily Reda C. Jamme D. Jervolino G.M. Pizzuti E. Riverso
Razionalità fenomenologica e destino della filosofia a cura di Aldo Masullo e Ciro Senofonte
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Questo volume viene pubblicato con un contributo del Dipartimento di Filosofia «A. Aliotta» dell’Università degli Studi di Napoli I Edizione
1991
© 1991 - Casa Editrice Marietti S.p.A. Via Palestro 10/8 - tel. 010/89.12.54 16122
ISBN
Genova
88-211-9573-2
Indice
Nota dei curatori
IX
I. Fenomenologia e razionalità Aldo Masullo, L’indicibile tempo e il pensiero radicale
Virgilio Melchiorre, Prospettive teologiche nella fenomenologia di Husserl
2A
1. L’orizzonte conoscitivo. 2. Un fondamento non fondato. 3. Trascendentalità e trascendenza.
Otto Pòggeler, La crisi del concetto fenomenologico di filosofia (1929)
41
1. Il cammino della fenomenologia friburghese. 2. Le Meditazioni cartesiane di Husserl. 3. Il problema delle modalità come controversia.
Ciro Senofonte, Fenomenologia husserliana e crisi della razionalità
61
1. Concetto di razionalità. 2. Il punto di partenza della comprensione e l’istanza fenomenologica. 3. Il ripiegamento fenomenologico sull’origine. 4. Il recupero husserliano dell'esperienza. 5. Evidenza e giudizio. 6. Logica e scienze. 7. La crisi della razionalità nel sapere scientifico. 8. Conclusioni e prospettive.
II. Umanità
e orizzonte
storico
Bianca Maria d’Ippolito, Mondo moderno e storia nel pensiero di Husserl JAN 27 1994
85
VI
INDICE
Klaus Held, La tesi dell’europeizzazione dell’umanità in 101 Husserl Giuseppe Semerari, Auto-responsabilità. L'idea dell’uomo in Husserl
125
III. Mondo della vita e intersoggettività Giuseppe Cacciatore, Il fondamento dell’intersoggettività tra 143 Dilthey e Husserl Ferdinand Fellmann, «Mondi della vita» si danno solo al 17,5)
plurale
Ernst Wolfeang Orth, Fenomenologia della ragione fra scien187 tismo, mondo della vita e intersoggettività IV. Contributi
Angela Ales Bello, Per una fenomenologia come archeologia delle culture 207 1. L’archeologia
fenomenologica.
2. Fenomenologia
schauung. 3. Percezione e appercezione. scrizione?
e Weltan-
4. Interpretazione o de-
Giuseppe Ferraro, Lo stupore di esistere al di fuori dell’essere 219 Clementina Gily Reda, Paci: il mito
229
Christoph Jamme, Iper-razionalismo contro irrazionalismo. La concezione husserliana del mondo
della vita mitico
251
Domenico Jervolino, Ricoeur alla scuola della fenomenologia 241
INDICE
VII
Giuseppe Mario Pizzuti, «Il sogno è finito». È finito davvero. A cinquant'anni dalla morte di Husserl 249
Emanuele Riverso, Le scienze a cinquant'anni dalla Krisis 261
Nota dei curatori
Dal 28 al 30 novembre del 1988, a Potenza, nell’aula magna del-
l’Università degli studi della Basilicata, numerosi studiosi italiani e stranieri del pensiero husserliani si riunirono a convegno per discutere il tema «I/ sogno è finito»: il destino della filosofia a cinquant'anni dalla morte di Husserl. L’incontro fu promosso dall’allora Istituto (ora Dipartimento) di Storia e Scienze umane dell’Università ospitante, su iniziativa della cattedra di Storia della filosofia, in esso incardinata, e dal Dipartimento di Filosofia dell’Università degli studi di Napoli, su iniziativa della II cattedra di Filosofia morale, ad esso afferente.
I lavori furono aperti da un discorso del prof. Cosimo Damiano Fonseca, Rettore dell’Università della Basilicata, e da un intervento
del prof. Fulvio Tessitore, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli, del cui Rettore, prof. Carlo Ciliberto, egli portò il saluto. Le discussioni si svolsero sulla base di nove relazioni, presentate da altrettanti insigni competenti di varie Università italiane e tedesche. I testi delle relazioni sono raccolti nelle sezioni I, II e III del presente volume, la cui sezione IV comprende invece le comunicazioni di alcuni partecipanti invitati.
Ricordando con gioia i tre giorni d’intensa comunità intellettuale, nell’accogliente cordialità della sede universitaria di Potenza e del paesaggio lucano, dobbiamo qui esprimere la nostra profonda riconoscenza al prof. Cosimo Damiano Fonseca, perché egli, non soltanto con la sua autorevolezza di Rettore, ma anche con la sua intelligente apertura culturale ed il suo fattivo entusiasmo, dette alla relazione della iniziativa il sostegno fondamentale. Meritano gratitudine Autorità ed Enti pubblici e privati che, in vario modo, concorsero alla buona riuscita del convegno. Né possiamo dimenticare la collaborazione preziosa dei funzionari amministrativi e del personale tutto dell’Università della Basilicata, nonché di alcuni funzionari amministrativi del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Napoli.
DE
NOTA
DEI CURATORI
Per la decisiva importanza dell’apporto di competenze, da loro offerto nella preparazione scientifica dell’incontro, vanno cordialmente ringraziati i colleghi ed amici professori Giuseppe Cantillo, Bianca Maria d’Ippolito e Andrea Milano. Mentre l’Università della Basilicata sopportò per la massima parte gli oneri finanziari e organizzativi del convegno, il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Napoli ha sostenuto la spesa per la stampa di questo volume che, registrandone gli atti, contribuisce certamente all’intelligenza critica del pensiero husserliano. Va perciò testimoniata la riconoscenza dovuta agli organi di governo delle due Istituzioni. Un ringraziamento meritano anche, per la loro volenterosa e produttiva collaborazione nelle operazioni preparatorie del convegno e, ultimamente,
nella correzione delle bozze di stampa del volume, i
dottori Giuseppe Ferraro e Felice Ciro Papparo, dell’Università di Napoli, e Paolo Augusto Masullo, dell’Università della Basilicata.
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L’indicibile tempo e il pensiero radicale Aldo Masullo
Edmund Husserl nel 1906, dunque poco meno che cinquantenne, scriveva: «la mia personalità non può purtroppo più divenire una cosa piena ed intera; l’unità della ‘‘visione del mondo”, l’unità di una cul-
tura che si sviluppa liberamente, d’una bella cultura organica naturale, essa non può più acquistarla [...] Per difficile che sia sacrificare la gioia d’una unità armonica e la libertà di una cultura che sia naturalmente bella, tuttavia bisogna che io lo faccia [...] Io debbo comunque vivere il mio dovere e cercare nel suo adempimento il mio valore e la mia interiore assicurazione».
E testimoniata qui una scelta intellettuale di fondo come scelta di vita, in cui domina il senso del lavoro filosofico serio come esercizio,
o ascesi, della pura autocritica della ragione, con la rinuncia ad una gioiosamente varia e liberamente creativa umanità culturale. Soprattutto però, al di là delle motivazioni individuali, vi si avverte la tensione di una situazione epocale. Nella storia di una civiltà altamente dinamica, come l’occidentale, si danno momenti in cui, per un concorso di circostanze diverse, le produzioni culturali, siano esse letterarie, ideologiche, scientifiche o morali, si fanno così numerose e
prepotenti nel gioco della coscienza collettiva, che si determina come un ingorgo paralizzante, o come un gran chiasso, in cui tutti gridano e nessuno viene inteso. Allora alla filosofia, come impegno nel controllo critico e orientamento razionale dell’umano, non resta che ri-
tirarsi provvisoriamente dal gioco mondano della cultura, disimpegnarsi da ogni coinvolgimento con tradizioni, mode o saperi comunque costituiti, e ritrovarsi sola con se stessa, in completa povertà, per ricominciare a interrogarsi senza riserve e senza riguardi. Proprio come
un ascoltatore illustre ricorda Husserl che, nelle lezioni, «parlava come per sé, senza enfasi, senza pretese letterarie, indipendentemente da qualsiasi riguardo, indipendentemente da ogni attualità» !. I decenni che precedettero la prima guerra mondiale furono appun-
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MASULLO
to uno dei momenti in cui la cultura, nella straordinaria accelerazione
della sua produzione e nella enorme varietà dei suoi prodotti suscita una impressione così paralizzante di opulenza da rovesciarsi spesso nell’impressione di una totale rovina. In una situazione del genere, la scelta della filosofia come scelta radicale di vita non può non essere la scelta di una filosofia radicale. In un’epoca in cui all’impressione di frastornante opulenza culturale concorrono saperi istituzionalizzati, i quali esibendo metodi e risultati sicuri nella pratica si presentano superbamente come «scienze», la filosofia è chiamata a cercare la sua «scientificità», il suo potere di verità, nella radicalità.
Il motivo della radicalità accompagna in Husserl l’intero sviluppo della elaborazione fenomenologica, com’è innanzitutto testimoniato dai pochi ma fondamentali scritti da lui dati alle stampe negli anni tra il 1911 eil 1936.
Nel celebre saggio, che rimane come una specie di manifesto programmatico della fenomenologia, pubblicato appunto nel 1911 con il titolo assai provocante di Filosofia come scienza rigorosa, Husserl perentoriamente ammonisce: «L’impulso alla ricerca non deve provenire dalla filosofia ma dalle ‘‘cose’’ e dai problemi. Ma la filosofia nella sua essenza è scienza dei varî principî delle prime origini, delle radici di tutte le cose [secondo l’espressione empedoclea: rbizomata panton]. La scienza di ciò che è radicale, deve essere radicale anche nel suo
metodo, e sotto ogni punto di vista» 2. Il che, Husserl stesso spiega, vuol dire che «non si deve in alcun modo venire meno al principio della ‘‘radicale assenza di pregiudizi”’, né d’altra parte identificare le ‘‘cose’’ con i ‘fatti empirici”, rendendoci così ciechi verso le idee che in così larga misura sono date all’intuizione immediata in modo assoluto» 3. Qui sono in breve insieme rivendicati il cartesiano cominciamento
assolutamente spregiudicato e perciò critico del filosofare e la competenza propria della filosofia nel campo dell’empiria autentica, dei vissuti originari di esperienza, il cui darsi è già il loro essere nella visione del pensiero e, in questo senso, nella «intuizione». La quale «empiria» è tutt'altra cosa dall’artefatta empiria dell’empirismo, sicché a questo proposito della fenomenologia husserliana si potrebbe dire che quel York di Wartenburg aveva detto di Dilthey, che la sua è «la vera protesta dell’empiria contro l’empirismo» 4. Nel testo, la cui redazione risale al 1929, pubblicato poi con il titolo Meditazioni cartesiane, quasi a sottolineare vistosamente il radicalismo della sua impostazione, Husserl identifica ancora più chiaramen-
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E IL PENSIERO
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te il radicalismo non solo con il principio metodologico distruttivo e liberatorio ma anche con il principio euristico costruttivo di una scienza nuova, che è l’unica possibile scienza del soggetto di tutte le scienze, la sola che giunga a conoscere l’originario delle cose, il soggetto, e come soltanto può questo essere conosciuto, per riflessione su di sé, dunque per visione diretta, e perciò in modo del tutto apriorico. «Come filosofi radicalmente meditanti noi non abbiamo in questo momento né una scienza per noi valida, né un mondo per noi esistente» 5. Peraltro, «l’epoché è il metodo radicale e universale, per il quale io colgo me stesso come io puro e con la mia propria vita di coscienza
pura [...]» $. Husserl non cessa d’insistere sul suo «restare fedele al r4dicalismo dell’autoriflessione [Se/bstbesinnung] e dunque al principio della pura intuizione o evidenza» ?. Ancora nella Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, stampata solo in parte in vita di Husserl, nel 1936, la decisi-
va parte finale, pubblicata postuma, si richiama con forza all’epoché come «esigenza metodica fondamentale di una filosofia realmente radicale» 8 e al «radicalismo fenomenologico-trascendentale» 9. Soprattutto viene esplicitamente enunciata la funzione del radicali-
smo filosofico come potere euristico dell’unica possibile scienza del soggetto. «La considerazione radicale del mondo è considerazione sistematica e pura considerazione interna della soggettività che si ‘“‘esteriorizza’’ nell’esterno. È come per l’unità dell’organismo vivente, che naturalmente si può osservare e articolare dall'esterno, ma può
essere compreso soltanto se si risale alle sue radici nascoste, se si persegue sistematicamente e in tutte le sue operazioni la vita che si agita
in lui, che tende in avanti, che lo plasma» 10. Radicale per Husserl non è soltanto una illuministica distruzione dei pregiudizi, delle sedimentazioni storiche della cultura, nate nel tempo e attraverso il tempo stratificatesi, ma è soprattutto la costruzione della scienza del soggetto. Si tratta del soggetto inteso, non kantianamente come un semplice soggetto logico, come il sistema delle condizioni formali del conoscere giudicativo, ma come vita della coscienza o coscienza vivente, o an-
che, con il termine pur adottato da Husserl, come «spirito». Perciò, come Kant parla di un’«analitica della ragione», Husserl pensa ad una «analitica dello spirito» !!. La ragione è l’autocomprensione dello spirito. «La ratio che noi interroghiamo non è altro che l’auto-comprensione [Se/bstverstindingung] realmente universale e radicale dello spirito, che assume la forma di una scienza universalmente responsabile, e in cui si attua un modo
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completamente nuovo di scientificità, in cui trovano il loro posto tutti i possibili problemi concernenti l’essere, la norma, la cosiddetta esistenza» 12.
Diventa a questo punto evidente che, se il soggetto non è il puro logico, ma la vita della coscienza, anche l'aspetto metodologico del radicalismo rivela un volto nuovo, cambia sostanzialmente di significato. Il logico è semplice identità, e può perciò essere identificato dalle operazioni puramente logiche che gli appartengono, insomma dall’«interno», nel senso proprio del trascendentalismo kantiano. La vita della coscienza invece, in quanto vita, è strutturalmente differenza, nonidentità, cambiamento.
La vita della coscienza, come coscienza della vita, è non solo cambiamento, ma senso del cambiamento o, in breve, tempo e intrinseca
dialettica del tempo: temporalità. Adesso, la radicalità del pensiero non può più consistere nell’appello alla istanza ultima, senza appello, della ragione, cioè al puro ragionare, non storicamente circostanziato (che peraltro è esso medesimo una circostanza nella storia dell'umano), ma deve significare lo sgomberare e il mantenere sgombra la via della ricerca da tutte le sedimentazioni storiche, e dunque da tutte le circostanze temporali che impediscono al soggetto di apparire nella purezza della sua struttura temporale. La coscienza stessa, come vita, «è integralmente ‘‘coscienza’’, sot-
gente [Que/le] di ogni ragione e non-ragione, diritto e torto, realtà e finzione, valore e non-valore, fatto e non-fatto», si legge nella grande
opera del 1913, il libro primo delle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica 13. Ma la coscienza è vita perché essa, pur essendo la configurazione specifica dell’intenzionalità, della struttura relazionale pensiero-oggetto, noesi-noema, nella forma del cogito, tuttavia partecipa di un movimento intenzionale più ampio e complesso. Precisa Husserl: «Non intendemmo per intenzionalità la proprietà degli Erlebnisse di essere ‘‘coscienza di qualche cosa”. Questa mirabile proprietà [...] ci venne incontro dapprima nell’esplicito cogito [...] Ora, la riflessione fenomenologica c’insegnò che non in ogni Erlebnis può essere riscontrato questo dirigersi rappresentante, pen-
sante, valutante dell’io [...], mentre ogni Er/ebnis 14 può tuttavia racchiudere in sé l’intenzionalità». Ossia, sullo sfondo della coscienza c’è
sempre un «campo di percezione potenziale» e di «stimoli», che «si muovono ed affiorano, senza essere compiuti». «Pertanto non identificammo l’essenza dell’intenzionalità con la specificità del cogito
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[...]; piuttosto considerammo questo elemento cogitativo come una particolare modalità di quella generalità che diciamo intenzionalità» 19.
L’intenzionalità non è l’astrattamente identica relazione logica coscienza-oggetto, ma è la vita della coscienza, la quale in tanto può continuamente cambiare ed essere vita, in quanto sempre una e sem-
pre diversa continuamente sorge da un oscuro fermentare di potenzialità di senso, ed in esso affonda e ancor ne risorge. L’intenzionalità, come vita e dunque movimento e differenza, non può coincidere con un unico Erlebnis, ma è una «corrente di vissuto», un Erlebnisstrom. D'altra parte, nessun singolo Er/ebris potrebbe par-
tecipare della vita, essere per così dire fuso con la «corrente di vissuto», se esso medesimo fosse in sé un’astratta identità e non invece un
«flusso del divenire» [ein FluB des Werdens] 16. Un pezzo per quanto piccolo di un continuo non può non essere ancor esso un continuo. Così, ogni Er/ebnis, in quanto continuità del senso del mutamento, è
«qualcosa che dura; e con questa durata si inserisce in un infinito continuo di durate, un continuo pieno. Il che significa che esso rientra in una infinita «corrente di Er/ebnisse» !?. Il carattere propriamente fenomenologico della fluenza dell’ Erlebnis è che essa è una «assolutamente originaria fase, il momento dell’adesso [Jetzt] vivente» 18.
Ora, com’è possibile che l’Er/ebris, se nella sua assoluta originarietà appare sempre e soltanto come l’adesso dell’adesso, che adesso (mentre lo dico) lo è, sia esperienza della sua durata, assurga insomma a tempo fenomenologico, a senso della sua propria fluenza? Si potrebbe pensare ad una riflessione dell’Er/ebnis su di sé. Ma se l’Erlebnis è l'assoluto adesso, il suo riflettere su di sé non è il nuovo e
unico 4desso, mentre il primo è scomparso? Come può l’Er/ebnis riflessivo, che adesso c’è, unificare con sé, e così «apprendere», l’altro che
adesso non c’è? «Ci si dovrebbe allora chiedere in quale coscienza è cosciente questo atto di apprensione, e la regressione all’infinito sarebbe inevitabile» 19. A questo problema di fondo Husserl risponde con le celebri analisi delle Lezioni sulla fenomenologia dell’interna coscienza di tempo, del 1904/5, pubblicate per la prima volta solo nel 1928, a cura di Heidegger. La chiave risolutiva è il concetto di riterzione. Scrive Husserl: «La ritenzione non è una modificazione, in cui i dati impressionali restino contenuti realmente, cambiando solo forma: al contrario, è un’inten-
zionalità di tipo specifico. Con il.sorgere di una fase nuova, la prece-
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dente non è perduta, ma ‘‘conservata in testa”, e grazie a questa ritenzione è possibile uno sguardo indietro su ciò che è fluito [...] È poiché questo l’ho “in testa”, io posso dirigere il mio sguardo su di esso in un atto nuovo, che chiamiamo riflessione (percezione immanente) o rimemorazione [Wiedererinnerung], per cui il vissuto fluito continua ancora a prodursi in dati originari nuovi [...] La ritenzione non è un atto (cioè un’unità di durata immanente, costituita in una serie di fasi ritenzionali), ma una coscienza istantanea [Momentanbe-
wuftsein] della fase fluita e al tempo stesso una base per la coscienza ritenzionale della fase seguente» 20. In sostanza, «la coscienza [Bewusstsein] è necessariamente un esser-cosciente [bewusst-sein] in ciascuna
delle sue fasi. Come la fase ritenzionale ha coscienza della precedente, senza farne un oggetto, così il dato originario è già cosciente — sotto la forma propria dell’‘‘adesso’’ — senza essere oggettivo» 21. Dunque, si può adesso volgere lo sguardo a ciò che un momento fa era l’adesso e ora non lo è più, in quanto ciò che è fluito viene in qualche modo trattenuto nel campo intenzionale. La ritenzione non è un atto che debba unificare con l’adesso ciò che non è più, ma è la coscienza immediata del non più come un non più. D'altra parte, ciò che è fluito, in quanto è immediatamente nella coscienza nel modo del non più, e non risulta da un atto di unificazione, non è un oggetto. Si è così al riparo dalla minaccia dell’infinito regresso. Non il tempo è fatto di coscienze-vissute, ma la coscienza-vissuta è fatta di tempo. Di questa intrinseca temporalità dell’Er/ebris la ritenzione appunto è il fenomeno nucleare. Opportunamente Ricoeur ha insistito sull'importanza decisiva del concetto di ritenzione. Grazie alla ritenzione, si può comprendere l’autoapparizione del flusso, la sua autocostituzione, e di conseguenza non v’è difficoltà nell’intendere la durata dell’Erlebris. «Su questa costituzione si chiude l'impresa di una fenomenologia pura» 22. La ritenzione rende conto del fenomeno della riflessione o percezione interna, senza di cui la fenomenologia stessa non nascerebbe in quanto essa è propriamente scienza degli oggetti immanenti, ovvero dei modi stessi funzionali della coscienza. Ora, se la ritenzione è la
condizione necessaria della fenomenologia, non potrebbe anche esserne la condizione sufficiente? E questa la tesi di Sartre: «la concezione fenomenologica della coscienza rende il ruolo unificante e individualizzante dell'io totalmente inutile. Al contrario la coscienza rende possibile l’unità e la personalità del mio io. L’io trascendentale non ha dunque ragion d’essere» 23. Husserl certamente nelle Lezioni del 1904/5 non fa entrare nella costituzione del tempo alcuna attività del-
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l’io trascendentale. In questo senso egli accenna ancora alla ritenzione di uno dei testi raccolti più tardi, nel 1938, subito dopo la morte di Husserl, ad opera di Landgrebe, sotto il titolo Esperienza e giudizio. Vi si legge che «la ritenzione è una modificazione intenzionale nel quadro della pura passività; essa avviene secondo una assolutamente rigida regolarità senza alcuna partecipazione dell’attività irraggiante dall’io-centro» 24. Aron Gurwitsch, richiamandosi anche a questo passo isolato, oltre che alle Lezioni del 1904/5, condivide la tesi sartriana e contesta la concezione egologica della coscienza quale si trova a pattire dal primo libro delle Idee 25. In Idee I Husserl riprende il tema del tempo fenomenologico nei termini delle Lezioni del 1904/5, ma legandolo fortemente al tema dell’io puro o trascendentale. Infatti, vi è perentoriamente enunciato: «Tra le proprietà generali del territorio trascendentalmente purificato degli Erlebnisse il primo posto spetta alla relazione di ogni Erlebnis all’io puro. Ogni cogîto, ogni atto in senso eminente è caratterizzato come atto dell’io: esso ‘‘esce dall’io”’, ‘‘vive attualmente nell’io”’» 26. Ciò comporta che «nessuna neutralizzazione può eliminare la forma del cogito e cancellare il ‘‘puro’’ soggetto dell’atto» 27. Subito dopo si afferma che «il tempo fenomenologico è caratteristica generale di tutti gli Erlebrisse» 28. Anzi, «tralasciando gli enigmi della coscienza del tempo» 29, affrontati nelle Lezioni del 1904/5, come Husserl stesso avverte, si giunge alla fondamentale rilevazione: «Ogni Erlebnis, come essere temporale, è Er/ebnis del suo io puro. Di qui la possibilità (ma non una vuota possibilità logica) che l’io diriga il suo sguardo su questo Er/ebris e lo colga come effettivamente esistente e come perdurante nel tempo fenomenologico» 3°. Ormai tema non è più la coscienza vissuta del tempo, ma la scienza del soggetto inteso come vita di quella coscienza, la cui vita è originariamente tempo. Una scienza della vita della coscienza non può considerare che le modalità del darsi della coscienza; ma, poiché la vita della coscienza è originariamente tempo, la scienza esige «la possibilità che l’io diriga lo sguardo anche alla modalità temporale della datità» 3!. Se «ogni adesso di Erlebnis ha un orizzonte di Erlebnisse che hanno anch'essi la forma originaria dell’adesso, e come tali costituiscono l'orizzonte originario dell’io puro, il suo complessivo originario adesso di coscienza» 32, «secondo le tre dimensioni del prima, del dopo e del simultaneo» 33, allora bisogna ammettere che «un io puro ed una corrente di Er/ebnisse riempita secondo tutte e tre le dimensioni [...] sono correlati necessari» 34. La correlazione necessaria tra l’io puro e la corrente temporale non
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è un qualsiasi passaggio teorico, fondato o arbitrario che sia, comunque rilevante, ma racchiude nel suo concetto l’enorme portata culturale dell’elaborazione husserliana della fenomenologia. Essa significa insieme che 1) il soggetto trascendentale non è più la forma del logico, secondo il modello kantiano, ma la vita della coscienza vivente; 2) la «durée» di Bergson viene depurata della sua ingenua naturalizzazione dello spirito, e restituita al suo circoscritto ma importante senso di non-istantaneità e non-puntualità del presente temporale; 3) lo «specious stream of consciousness» di William James da nozione psicologica empirica trapassa in strumento concettuale di comprensione trascendentale della soggettività. La forza della correlazione tra l’io e il tempo si spinge, nel discorso di Husserl, fino all’aperto parallelismo della equivocità e, sul piano trascendentale, dell’uso semplicemente metaforico dei due termini. Per quanto riguarda il primo dei due termini, l’io, Husserl si trova dinanzi a un paradosso, già denunciato da Heidegger nelle lezioni del 1927. «Com'è possibile — si chiedeva allora Heidegger — che [...] la pura coscienza, la quale deve per un assoluto abisso essere separata da ogni trascendenza, sia al tempo stesso congiunta con la realtà di un uomo reale, il quale come oggetto reale si presenta nel mondo?» 55. Husserl, nelle pagine di Crisi, elabora la soluzione del paradosso,
riferendosi alla più intrinseca portata del pensiero radicale. «L’epoché crea una singolare solitudine filosofica, che è l’esigenza metodica fondamentale di una filosofia realmente radicale [...] L’io che attingo nell’epoché [....], è denominato ‘“io’’ soltanto per un equivoco, anche
se si tratta di un equivoco essenziale, perché quando cerco di definirlo riflessivamente non posso dire se non: questo io sono io che attuo l’epoché [...]» 36. In effetti, qui si tratta dell’«io originario, che non può mai rinunciare alla sua peculiarità e indeclinabilità personale [...], l’io che rimane sempre unico, nella vita originale e costitutiva che scorre in lui [...], l'io della presenza attuale [...], l’io attuale che, fluendo, è costantemente presente» 37. Dire «io», a proposito dell’io trascendentale, è dunque solo un inevitabile uso metaforico per dire qualcosa che non è dicibile. Non diversamente, nelle Lezioni del 1904/5, Husserl rileva che i fenomeni costitutivi del tempo, e innanzitutto il flusso, non sono essi
medesimi temporali, e tuttavia per designarli vengono usati i termini propri dei fenomeni costituiti nel tempo. «Il flusso costitutivo del tempo non è una successione, non ha un ‘‘adesso’’, un momento at-
tuale ed una continuità di momenti passati» 38. «Questo flusso è qualcosa che noi chiamiamo così secondo il costituito, ma non è per nulla
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temporalmente “oggettivo”. È piuttosto la soggettività assoluta e ha le proprietà assolute di un che, designabile solo metaforicamente come ‘‘flusso’’, oppure sgorgante “adesso” in un punto-di-attualità, in un punto-di-originarietà, etc. Nel vissuto di attualità noi abbiamo il puntodi-originarietà ed una continuità di momenti-eco. Per tutto ciò ci mancano i nomi» 39, Sul piano fenomenologico, dire «tempo», «flusso», «adesso», è anco-
ra, come nel caso dell’«io», un inevitabile uso metaforico per dire qualcosa che non è dicibile. Dire metaforicamente l’indicibile io e dire metaforicamente l’indicibile tempo sono l’uno e l’altro possibili, solo perché ognuno dei due indicibili non è che un’interna relazione dell’altro, e lungo le relazioni il discorso può muoversi. L’io trascendentale non è l’io del parlare comune, l’autoriconoscimento emotivo, pratico, descrittivo, della persona che sta parlando, ma è la coscienza come eterno tempo della presenza. Il tempo fenomenologico, a sua volta, non è il tempo dell’azione, del sentimento o della commisurazione del proprio mutare con il mutare d’altre cose, ma è l’assoluto identificarsi della soggettività attraverso la relatività del suo continuo farsi differente. Perciò, al culmine della purificazione fenomenologica, la riflessione dell’io nella sua trascendentalità su se stesso gli fa scoprire di essere, come intenzionalità fungente, il presente vivente-fluente, cioè il principio della temporalità propria della coscienza, e dunque, come origine del tempo, lo stesso «tempo originario». In un manoscritto del 1931, riferito da Gerd Brand, leggiamo: «Il presente è l’‘‘assoluta realtà’ [absolute Wirklichkeit], è la realtà più propria in quanto originarialmente-temporalizzante [urzeitigende]. Come tale essa ontifica se stessa nel modo del tempo, e, originariamente-temporalizzando, ha come risultato ontico l'essere temporale, l’essere che-è-nel-tempo, come se originariamentetemporalizzando contemporaneamente fosse sempre già temporalizzata» 40.
Il preannuncio di questo estremo approdo trascendentalmente ontologico, in cui il soggetto, come correlazione necessaria di io e tempo, coscienza e vita, vita della coscienza e coscienza della vita, tenta di pen-
sarsi nella sua assoluta identità, metalogica e metafenomenologica, di eterna scaturigine di ogni io temporale e di ogni tempo dell’io, si trova nel $ 81 di Idee I: «L’“‘assoluto’’ trascendentale, che abbiamo raggiunto per mezzo delle riduzioni, in verità non è l’ultimo, ma è qualcosa che a sua volta si costituisce, in un certo senso profondo e del tutto caratteristico, avendo la sua sorgente originaria in un ultimo e vero assoluto».
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Quest’«ultimo e vero assoluto», se pur si voglia per il necessario equivoco chiamarlo io o tempo originario, non possiamo concepirlo come attivamente costituito (si cadrebbe infatti in un regresso all’infinito di atti di autocostituzione), ma come una costituzione passiva,
un puro accadere, un semplice evento. In un manoscritto del 1931, Husserl annota: «il flusso accade [der Strom geschiebt]» 41. Ancor più suggestivamente, nel II libro di Idee, egli ammonisce: «L’io non ha la sua origine nella esperienza, ma nella vita [Das Ich ist urspringlich nicht aus Erfabrung ..., sondern aus Leben]» 4, ossia non viene costituito ad opera delle strutture funzionali della coscienza, ma erompe dalla vita, accade: «esso è ciò che è, non per l’io, ma semplicemente è l’io» #3.
A Sartre, il quale considera l’io trascendentale del tutto inutile in una concezione fenomenologica della coscienza, sembra sfuggir che un tale io, nell’assolutezza della sua indicibilità, coessenziale con l’in-
dicibilità del tempo della coscienza, è indispensabile a Husserl per fondare nella loro possibilità: 1) una scienza del soggetto che è la vita della coscienza e insieme la coscienza della vita;
2) la continuità storica, e non meramente psicologica, della corrente di vissuto, ossia del tempo umano. Sul primo punto, Husserl affronta esemplarmente la questione nel $ 52 di Crisi, indicando come uno dei paradossi della fenomenologia «il modo in cui nell’epoché il ‘fiume eracliteo”’ della vita costitutiva può essere trattato descrittivamente nella sua fattualità [Faktiz:td#] individuale» 44. Il tempo è innanzitutto l’irrompere delle irriducibili differenze, il campo delle irriducibili individualità. Dinanzi a questo tempo, una scienza rigorosa, trascendentale, è impotente. «Una scien-
za dell’essere e della vita trascendentale analoga alla scienza empirica dei fatti, una scienza induttiva basata sulla mera esperienza, che in-
tenda stabilire correlazioni trascendentali individuali [...] non può esistere. Nemmeno il singolo filosofo all’interno dell’epoché può fissare qualcosa di questa vita inafferrabile e fluente [...] Ma la piena e concreta fattualità della soggettività trascendentale universale è tuttavia afferrabile scientificamente in un altro senso, purché venga posto il grande compito di indagare attraverso un metodo realmente eidetico la forma essenziale [Wesenform] delle operazioni trascendentali in tutto l’arco-di-tipicità delle operazioni singolari e intersoggettive, cioè la forma essenziale complessiva della soggettività trascendentalmente operante, in tutte le sue configurazioni sociali. Il fatto qui è determinabile soltanto in quanto fatto della sua essenza e soltanto mediante la
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sua essenza» 4. Una scienza trascendentale della soggettività temporale potrebbe, dunque, secondo Husserl, costituirsi, a condizione di
estromettere il carattere più proprio della tempotalità, ossia l’individualità. A tanto, Husserl si è preparato i presupposti, innanzitutto rivendicando «la possibilità che l’io diriga lo sguardo anche alla modalità temporale della datità» 4 e attribuendo così alla datità temporale «modi [Weisel» strutturalmente propri dell’«essenza [Wesex]» della temporalità, sicché anche questa sia costituita da essenze e quindi presenti delle «visibilità» (o eide) di essenze; in secondo luogo, elabo-
rando un concetto di scienza «rigorosa [strengel», ma non «esatta [exaktel», fatta non di concetti geneticamente astratti, privi di qualsiasi riferimento all’esperienza («ideali» nel senso kantiano), come so-
no quelli matematici,
bensì di concetti «descrittivi» di «morfolo-
gie» 47.
Una scienza del soggetto come vita della coscienza non può né essere «esatta», né essere descrittiva di eide individuali. «La fenomeno-
logia lascia cadere l’individuazione» ‘8. Ora descrivere gli eide essenziali della temporalità, ossia dell’incessante differenziazione e individualizzazione, è possibile soltanto se l’origine della differenziazione e dell’individuazione non si differenzia e individualizza essa medesima, se insomma il flusso non fluisce, il
tempo non è nel tempo. «Il flusso è [...] L’autoapparizione del flusso non richiede un secondo flusso, ma come fenomeno si costituisce in se stesso» 49. Ve.
Così, mentre «il fenomenologo che comincia è involontariamente legato dal suo prendere le mosse da sé come esempio» 59, «la struttura genetica dell’io preso nella sua universalità [...] va oltre la formazione temporale» 51. Se il flusso del tempo, nel suo essere fuori del tempo, è il principio unificatore degli Erlebrisse in quanto intrinsecamente temporali, cosa garantisce che, universalmente e necessariamente, una tale unificazione funzioni? Il flusso del tempo non è un principio della logica, ma della vita: non reca dunque in sé la necessità dell’universale valenza delie possibilità sue proprie. Nel suo caso, non può procedersi come fa Kant per il principio della autocoscienza, quando assume «problematicamente la proposizione: io penso [...] rispetto alla sua semplice possibilità, affinché si veda quali possibili proprietà in base ad una proposizione così semplice, possano derivare al soggetto di essa (esista poi, oppure no, un siffatto soggetto)» 72. Potrebbe intendersi il flusso del tempo come un semplice accadi-
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mento empirico regionale, nel cui ambito si presentano relative regolarità, di cui è costruibile una scienza descrittiva empirica. Ma da chi, come Husserl, persegue il compito di fondare una scienza rigorosa, descrittiva e trascendentale, secondo l’esigenza più propria di una filosofia radicale, l’accadimento del tempo. o, il che è lo stesso, dell’io, insomma la mobile unità della vita come radice di tutti
i sensi dell’essere, non possono venir pensati se non come «l’ultimo e vero assoluto». Il problema del punto 2, sopra proposto, ossia la fondazione della continuità storica, e non semplicemente psicologica, della corrente di vissuto, è strettamente intrecciato con l’or ora accennata questione
della fondazione di una scienza trascendentale del soggetto. Nelle Lezioni del 1904/5, la continuità psicologica del flusso risulta fortemente argomentata. yDel fenomeno di scorrimento [Ablaufsphénomen] noi sappiamo che una continuità di mutamenti incessanti forma una unità indivisibile [...] I frammenti, che noi ricaviamo per astrazione, non possono esistere che nell’insieme dello scorrimento [...] Noi possiamo dire in modo evidente di questa continuità che, in un certo modo, essa è immutabile nella sua forma» 53. La continuità è
la struttura della durata. La condizione di possibilità della durata e quindi della continuità è la ritenzione. «La discontinuità stessa [ossia: ‘la rottura dell’identità qualitativa’’] suppone la continuità sia sotto la forma della durata senza cambiamento, sia sotto quella del cambiamento continuo» 54,
Tutto ciò vale dal punto di vista della coscienza attuale. A partire dal suo centro possono allargarsi non solo retrospettivamente o prospetticamente ma in tutte le direzioni onde di rinvii, ciascuna suscitata dalla precedente, senza soluzione di continuità. Gli estremi dell’esaurirsi della potenza di allontanamento dal centro delineano l’«orizzonte» temporale della coscienza. Husserl spiega: «ogni Erlebris sta in una connessione di Er/ebris, essenzialmente chiusa in sé, non soltanto
dal punto di vista della successione temporale ma anche da quello della simultaneità. Ciò significa che ogni adesso di Erlebnis ha un orizzonte di Erlebnisse, che hanno anch’essi la forma originaria dell’‘‘adesso”, e come tali costituiscono l’unico orizzonte di originarietà dell’io puro, il suo complessivo originario adesso di coscienza» 55. Ora, se ogni coscienza attuale è «essenzialmente chiusa in sé», nel-
l’invalicabilità del proprio orizzonte, come si può fondare, al di là dell’orizzonte di questa coscienza attuale una qualche continuità e di conseguenza l’unità infra-personale ancor prima che interpersonale? Come può Husserl sostenere la tesi che «l’ego si costituisce per se
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stesso per così dire, nell’unità di una storia [în der Einheit einer Geschichte]» 56? Come
questa presente coscienza,
di questo momento
in cui sto
pensando, vivente gioco di ritenzioni, protenzioni, rinvii, in una continuità di echeggiamenti, tutti interni al suo orizzonte monadico, può sapere che il suo tempo è in qualche modo realmente continuo ossia vincolato con i tempi delle altre ormai inattuali coscienze della stessa persona; e, in qualche altro modo, continuo ossia vincolato con ogni popolazione di tempi che ogni altra persona è; e così ancora, in altri svariati modi, continuo e vincolato con tutti i tempi dell’universo? Bene aveva colto l’enorme rilevanza teorica e morale della questione Enzo Paci quando nel 1963 aveva scritto: «L’Ur-ich è onnitemporale. E il tutto, ma è anche la parte. E la parte ma è anche il tutto. La parte che io sono, mortale e irreversibile, è l’onnitemporalità che
vivendo una sola volta, e proprio perché vive una sola volta, vive per sempre» 27.
Questa è, sostanzialmente, l’idea guida dell’ontologia e dell’etica
husserliana, ed è la medesima idea, prima ricordata, che il tempo-iovita sia «l’ultimo e vero assoluto». Ma come può questa idea venir criticamente sostenuta? Oppure es-
sa è soltanto un postulato, senza di cui la fenomenologia della coscienza perderebbe qualsiasi contatto con l’esperienza dell’uomo nello spessore storico della sua quotidianità? L’impossibilità di sostenere ragionatamente la tesi della continuità ultra-attuale, e dunque non semplicemente psicologica, del tempo può trovare nel pensiero di Kant un’argomentazione che, isolata opportunamente dal contesto di origine, ben le si addice. «L’asserzione, secondo cui tutto scorre, e nel mondo non vi è nulla di permanente» (ossia, per usare i nostri termini non v'è durata e perciò non v'è con-
tinuità temporale), «tale asserzione non è confutata dall’unità dell’autocoscienza», poiché, «partendo dalla nostra coscienza», noi «senza
dubbio dobbiamo giudicare di essere i medesimi [solo] per tutto il tempo di cui siamo coscienti» 58. È Del resto, il sentimento della discontinuità dell’io e del suo tempo, al di là di ciò stesso che alla coscienza appare, è una nota dominante della cultura europea, nelle sue voci più sensibili, a partire appunto dall’età di Husserl. Esemplare è una osservazione di Musil, scritta nel 1911. «Dappertutto c’era quella sensazione di essere trattenuti dalla propria eco in uno spazio ristretto che afferra ogni parola e la prolunga fino alla successiva, perché non si senta ciò che sarebbe insopportabile: l'intervallo, l'abisso fra gli urti di due azioni, nel quale ci si al-
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lontana dal senso della propria identità, e si precipita nel silenzio fra due parole, che potrebbe essere il silenzio fra due parole di qualcun altro» 59. Qui siamo avvertiti che neppure «per tutto il tempo di cui siamo coscienti» possiamo «giudicare di essere i medesimi». Perfino l’interno della coscienza attuale, l'orizzonte del presente, è attraversato da una furtiva e inquietante coscienza della discontinuità del tempo stesso della coscienza attuale, e questa a sua volta copre l’insopportabilità della rivelazione con superfici di fittizia continuità. Husserl certamente aborre dall’idea che il tempo della coscienza sia tutt'altro che continuo. Se il tempo non è continuo sul piano psicologico, nell’ambito della singola coscienza attuale, e tanto meno quindi sul piano storico della persona e dell'umanità, non possono pensarsi modalità essenziali di esperienze, per la loro durevolezza «visibili» e identificabili attraverso la connessione di tutti i tempi di Er/ebnis. Al-
lora una scienza descrittiva rigorosa, cioè trascendentale, del soggetto come io-tempo-vita risulta definitivamente preclusa. Non resta, in tal caso, che dire: il sogno è finito. Quale senso, a questo punto, conserva una filosofia radicale? Martin Heidegger, nel corso del seminario di Zahringen, nel 1973,
richiama le due proposizioni formulate da Marx nei Contributi alla critica della filosofia del diritto hegeliana: 1) «Essere radicale è afferrare le cose alla radice. Ma per l’uomo la radice è l’uomo stesso»; 2) «la critica della religione si conclude con la teoria che per l’uomo l’essenza suprema è l’uomo». Heidegger osserva che tra i due pensieri manca
un medio, il quale consenta il passaggio dal primo al secondo. Questo medio sarebbe «il pensiero, che l’uomo sia la cosa, della quale ne va» 60. Ciò vuol dire che l’essenza dell’uomo non consiste in una sua metafisica e metastorica sicurezza, ma è di volta in volta in gioco nell’esistenza dell’uomo. L'esistenza reca dentro di sé la radice dell’essenza dell’uomo. Per Heidegger, «l’uomo di Marx, ogni uomo che è a se stesso la propria radice, è l’uomo della produzione e del correlativo consumo, ossia è l’uomo del nostro tempo» 61. A quest'uomo, e all’enunciato di Marx, egli contrappone «l’uomo inteso come Da-seir, come ek-statica insistenza della radura [dove piove la luce] dell’essere» 62. Nel protocollo del seminario si legge ancora: «Si può di conseguenza dire che per Heidegger il Da-seiz sarebbe la radice dell’uomo? No. Il concetto di ‘‘radice’”’ rende impossibile portare al linguaggio il rapporto dell’uomo con l’essere». L’ontologia, egemone nel secondo Heidegger, respinge il primato marxiano dell’esistenza. Con ciò esso rifiuta la metafora della «radi-
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ce», poiché questa vuol dire che l’essenza stessa dell’uomo è interamente racchiusa nella circostanzialità dell’esistere. L’antiradicalismo di Heidegger nasconde forse la stessa idea di continuità del tempo, che il radicalismo di Husserl esibisce. Già nella Lettera sull’umanismo, del 1946, Heidegger, adottando
il barbaro termine «ek-sistenza [Ek-sistenz]», vuole con la particella «ek» intendere uno «star-fuori nella verità dell’essere» 63. L’interprete
francese,
Roger
Munier,
commenta:
«L'uomo
non è l’ente
che è “là”, ossia gettato nella contingenza di una esistenza data. Egli è piuttosto il ‘là’ dell’essere, colui che permette all’essere di essere là, di manifestarsi hic et nunc» A.
L’«ek» insomma per l’anziano Heidegger vuol dire che l’uomo sta fuori di sé, per essere esposto alla luce della verità, nella radura dell’essere. Il tempo proprio dell’uomo in quanto ek-sistente è dunque il tempo stesso dell’essere, il tempo integrato della storia dell'essere, un totale tempo continuo. Ora, perché non sottrarsi al fascino della continuità temporale e ascoltare la cosa stessa del tempo che in noi tacitamente si dice, e dice noi a noi? Il tempo, in sé, è l’esperienza della discontinuità, di un incessan-
te franare del suolo dove siamo appena passati, sì che ogni volta il presente nasce da una rottura. Il corpo della .mia vita appena vissuta precipita in un abisso, e da esso, dopo, si levano solo fantasmi irriconoscibili. A me, di me non resta, ad ogni istante, che un’irrevocabile perdita, un’assenza senza ritorno. Il tempo è l’esperienza del mio uscire dal mio me che ero, e questo mi è subito estraneo. Il passato è come un macigno, non passa mai, ed è a partire dalla sua terribile opacità che percepisco la precarietà del presente. Il passato non passa mai, proprio perché non può essere altro che passato, irrevocabile. Husserl stesso, anche se con tutt'altro spirito, ammette che «il temporale passato resta ciò che è» e «nel flusso del tempo, nella continua discesa nel passato, si costituisce un tempo che non scorre, assolutamente fisso» 55. L’«ek» dell’ek-sistenza allude non al beatificante esser posti fuori, esposti alla luce della verità dell’essere, ma allo stare in un continuo uscir fuori da sé che si era, per mai più rientrarvi: un sempre ancora uscire dal fuori in cui si era usciti, non altro essere avendo che il proprio uscir fuori. Si tratta di un paradossale starenell’uscir-fuori. Dal sé, da cui si esce, si resta irrimediabilmente se-
parati per un’invincibile «opacità» che, come diceva il giovane Hei-
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degger, mai cessa di pesare sull'uomo come oscuro «potere» e «destino» 66,
Per prendere l’uomo alla radice, in quella ek-sistenza in cui si gioca la sua essenza, bisogna esser capaci di spregiudicatamente intendere l’«ek» come il segno della discontinuità del tempo. Se l’uomo è la radice di se medesimo, poiché nel suo circostanziato ek-sistere ogni volta me va della sua essenza, ossia della sua assoluta o «trascendentale»
consistenza ontologica, il pensiero radicale, corri-
spondendo all’assegnazione espressa dal nome stesso di «filosofia», «cerca di vedere chiaramente» nelle viscere della circostanza temporale l'embrione dell’essenza che all’ek-sistere ogni volta come «eterna» | destinalmente tocca.
Note
1 W. Szicasi, Arhang a: E. Hussert, Philosophie als strenge Wissenschaft, Frankfurt a.M. 1965 [d’ora in poi: PbWI], 104.
2 E. HusserL, PhW, 71 [trad. it. di F. Costa, 2° ed., Pisa 1980, 112]. Ivi.
Si vedaJ.DiLtHEY, Ges. Schr., Leipzig-Stuttgart-Gòttingen, 1922-66, V, 77. Cartesianische Meditationem, Strasser, Haag 1950 [d'ora in poi: CM], $ 8. Ivi. \ Ivi, $ 10. ùu Ja aw 0 Die Krisis der europaischen Wissenschaften und die transzendentale Phinomenologie, Biemel, Haag 1954 [d'ora in poi: Kr], $ 54 b.
9 Ivi, $ 53. LORI: N29) 11 Ivi, Abbandlung IMI, 346 [trad. it. di E. Filippini, Milano 1961, 356].
teIori 13 Ideen zu einer reinen Phanomenologie Haag 1950 [d'ora in poi: Id I], $ 86.
und phinomenologischen
Philosophie, I, Biemel,
14 Ivi, $ 84. Spi. 16 Ivi, $ 78.
17 Ivi, $ 81. 18 Ivi, $ 78.
Vorlesungen zur Phinomenologie des inneren Zeitbewusstseins, Heidegger, Halle 1928 [d'ora in poi: Zb], Beilage IX, al $ 39.
20 pi. 21 4lp; P. RicoEuR, Le temps raconté, Paris 1985, 65 [trad. it. Milano 1988, 66]. J. P. SARTRE, La trascendance de l’ego, (1936), a cura di Le Bon, Paris 1965, 23.
24 Erfahrung und Urteil, Landgrebe, $ 23 b. A. GurwrrscH, Théorie du champ de la conscience, Bruges 1957, 277-9. 26 IdI, $ 80.
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9
Ivi. Ivi. Ivi. Ivi.
Ivi, $ 81. Ivi, $ 82. Ivi. Ivi.
M. Hemeccer, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, Frankfurt a.M. 1979, XX, 139.
1925, (Gesamtausgabe, 20) ;
36 37
38 39 40
235]. 41
G. Brann, Welt, Ich und Zeit, Haag 1955, 139 [trad. it. di E. Filippini, Milano 1960, IdI, $ 81.
G. BRAND, op. cit., 72 [trad. it., 141]. Ideen..., II, Biemel, Haag 1952 [d'ora in poi: Id II], $ 58. 44 Ivi. 45 Kr, $ 52. 42
4w
4 (chi
47
I. KANT, Kr. d. ». Vern., A 346-7, B 404-5. Zb, $ 10. Ivi,
SA1.
IdI, $ 82. CMASDI: E. Paci, Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Milano 19637148. I. KanT, Kr. d. r. Vern., A 364. R. Must, Tre donne, tr. it. di A. Rho, Torino 1973, 159-160. M. Hemeccer, Vier Serzinar, Frankfurt a. M. 1977, 131 s. Ivi, 126-7.
Ivi.
M. HemeccER, Brief viber den Humanismus, Frankfurt a. M. 1947, 14 e 16. R. MunIER, in M. HemeGGER, Lettre sur l’humanisme, Paris 1964, 176. ZIONI M. Hrmeccer, Phanom. Interpr. zu Arist., 1921-22, (Gesamtausgabe, 61) Frankfurt a. M.
1985,
LXI, 84.
Prospettive teologiche nella filosofia di Husserl Virgilio Melchiorre
Chi ripercorra i frammenti dell’ultima stagione husserliana deve imbattersi in un’espressione a prima vista singolare, quella che dice di Dio come dell’entelecheia sottesa ad ogni movimento intenzionale !. Si tratta di un asserto di grande rilievo sul piano trascendentale, ma anche sul piano di una vera e propria ricerca metafisica. E in tal senso risulterà sorprendente per chi sia abituato a configurare la maturità di Husserl nella filosofia della Lebenswelt o soprattutto per chi sia fermo alla drastica riduzione delle Ideez, estesa — com'è noto — a tutti
i territori dell’ontologia e della stessa metafisica. Una lettura più attenta ed un confronto dei testi dovrà invece portarci ad intendere una coerenza di sviluppo, che dall’analisi trascendentale deve appunto sboccare nella più alta prospettiva metafisica. In questa direzione possono del resto accompagnarci alcune chiare parole dello stesso Husserl. Per esempio queste: «Una filosofia autonoma, come lo era la filosofia aristotelica e così com’essa resta un’eterna richiesta, giunge ne-
cessariamente ad una teleologia e ad una teologia filosofica [...] quale via non confessionale a Dio [inkonfessioneller Weg zu Goti]» 2. O ancora: «La filosofia come idea, come correlato dell’idea di Dio, come
scienza di una idea pura del divino e come scienza dell’essere esistente in assoluto» }. In un altro testo, redatto nel novembre del 1931, Husserl parla di
una teleologia propria della soggettività trascendentale e ne parla nei termini di una «volontà metafisica», fungente nella profondità di ogni coscienza 4. Se risaliamo alle lezioni su L'idea di fenomenologia, tenute nel 1907, ci troviamo di fronte ad una posizione del tutto analoga, forse ancota più esplicita. Nella prima lezione, Husserl delinea già l’idea di una riduzione metodologica e precisamente nel senso di una «critica della conoscenza naturale, in tutte le scienze di tipo naturale». Queste scienze, non sono infatti dotate di «un valore finale» e pertanto non sono adeguate a porre il problema dell’essere nella sua ultimità
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VIRGILIO
MELCHIORRE
[hinsichtlich des Seienden]. Occorre in tal senso «una scienza, in senso ,
assoluto, di ciò che è»: una scienza che Husserl chiama appunto metafisica e che, in quanto tale, scaturisce solo da una «critica generale della conoscenza». Siamo così avvertiti sul significato della stessa riduzione trascendentale: la sospensione di ogni giudizio ontologico per volgersi all’analisi delle strutture primarie della coscienza non costituisce un rifiuto dell’itinerario metafisico, ma solo il modo per assicurare le condizioni fondamentali di ogni conoscenza e quindi anche della scienza metafisica. Husserl nota anzi che la domanda metafisica sorge proprio dalla critica gererale della conoscenza e che, appunto per questo, dev'essere considerata come un ultimo passo. Prima, e dunque prescindendo dalle stesse finalità metafisiche della critica, occorre chiarire l'essenza del conoscere: si tratta così di costituire «la parte prima e fondamentale della fenomenologia» 5. Insomma, ci troviamo qui di fronte ad un nesso e ad una cautela metodologica che deve precedere la stessa domanda sull’essere. Nesso e cautela troveranno una indicazione ancor più esplicita nel $ 58 delle Ideex I, ove Husserl torna a ribadire la necessità di una so-
spensione della tematica metafisica. Ma, a ben vedere, ciò che qui Husserl rimuove e in qualche modo già mostra di discutere è non tanto l’asserto teologico, bensì la sua determinazione nei termini di una trascendenza e, più precisamente, nei termini di una trascendenza intesa secondo i canoni della causalità naturale. Torneremo su questo punto, che è già un’anticipazione della critica heideggeriana all’ontoteologia. Va, però, notato sin d’ora che la questione teologica non è indifferente alla stessa costituzione dell’analisi fenomenologica: la realtà o la «fatticità» dell’universo coscienziale porrà il problema. E anche in questo caso Husserl torna a parlare d’un ultimo passo della ricognizione trascendentale: «il passaggio alla coscienza pura, effettuato con il metodo della riduzione trascendentale, conduce inevita-
bilmente alla questione circa il fondamento della fatticità, ora rivelatasi, nella corrispondente coscienza costitutiva. Non il fatto in generale, ma il fatto come sorgente di valori possibili e reali, crescenti all'infinito, impone la questione del suo ‘fondamento’ - che non ha naturalmente il senso di una causa fisica» £. I testi che abbiamo confrontato portano, dunque, ad una conclusione preliminare. Per un verso si deve dire che la fondazione rigorosa della filosofia esige in prima istanza l’analisi delle condizioni fondamentali del conoscere e quindi —- fino a quando quelle condizioni non siano chiarite - una sospensione di tutti i giudizi sui contenuti oggettivi della coscienza. Per altro verso si deve avvertire che proprio
PROSPETTIVE
TEOLOGICHE
DI
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l’analisi delle strutture essenziali della coscienza pone sin dall’inizio la questione di una ultimità o di una origine fondante. E, appunto in forza di questa duplicità di prospettive interagenti, Husserl arriverà a distinguere fra due figure dell’origine o del cominciamento: l'esigenza metodologica di assicurare una base veritativa rinvia, in senso cartesiano, all'evidenza primitiva di un «ego cogito», ma la realtà dell’«ego» può a ben vedere considerarsi primitiva solo per un equivoco, anche se si tratta di un «equivoco essenziale» e in certo modo necessario; in realtà, l’«ego cogito» non è che «una prima sfera oggettuale, la sfera oggettuale ‘‘primordiale’’», che in se stessa è però solo un polo emergente, obiettivazione d’una trascendentalità assoluta e ovunque fungente 7. Si costituisce così un circolo teoretico, che nella sua profondità o nella sua tensione teleologica è già determinato metafisicamente. Cerchiamo ora di chiarirne il movimento dialettico.
1. L'orizzonte conoscitivo
Il paragrafo, appena citato dalla Kyisîs, ha un suo precedente decisivo nel $ 81 di Idee I. Il primo movimento della riduzione fenomenologica va — come s’è ricordato — nella direzione già indicata da Descartes agli inizi della modernità: si tratta, in definitiva, di sospendere ogni giudizio sui contenuti di coscienza per risalire alle strutture stesse della vita coscienziale, per cogliere cioè le condizioni prime di ogni processo conoscitivo. Di qui la enucleazione di una «datità assoluta», qual è appunto la vita coscienziale intesa nelle sue diverse modalità neoetiche, nelle sue diverse modulazioni intenzionali e nei suoi
più propri Erlebnisse. E tuttavia Husserl avverte di dover interrompere questa analisi con una notazione ancor più radicale: «L’‘‘assoluto’”’ trascendentale, che abbiamo raggiunto per mezzo delle riduzioni non è l’ultimo, ma è qualcosa che a sua volta si costituisce in un certo senso profondo e del tutto caratteristico, avendo la sorgente originaria in un ultimo e vero assoluto» 8. Si deve cogliere in questo /etzen und wabrbaft Absoluten già un rinvio di carattere metafisico? Il lessico lo fa pensare e lo fa pensare anche il seguito dell'analisi, ove il richiamo dell’assoluto verrà coniugato nel senso di un’‘‘idea”’ kantiana?. Ma non possiamo forzare il testo di Husserl, che invece è qui esplicitamente volto al tema della temporalità, quale ultima struttura trascendentale della coscienza 19. In che senso, dunque, si può da questo lato
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VIRGILIO
MELCHIORRE
parlare di «un ultimo e vero assoluto»? Rinviamo per ora la risposta e cerchiamo piuttosto di accompagnarci al percorso dell’analisi trascendentale. Si vedrà, alla fine, che l’impressione del rinvio metafisico non era del tutto ingiustificata: al culmine dell’analisi trascendentale dovremo infatti ritrovare proprio quell’indicazione teologica da cui eravamo partiti.
Come si è già ricordato, la riduzione fenomenologica corrisponde al movimento cartesiano verso l’«ego cogito», quale riferimento apodittico dell’intero processo conoscitivo. Per dirla con le parole di Husserl, si tratta di «afferrare il senso dell’assoluta datità, dell’assoluta chiàrezza dell’esser-dato, che esclude ogni dubbio che abbia senso, ovvero,
in una parola, il senso dell’evidenza che guarda assolutamente e afferra direttamente». Si tratta appunto del movimento cartesiano, ma - come vedremo - con una conseguenzialità ben più radicale. «Nella scoperta di questa evidenza — dice subito dopo Husserl —- consiste in certa misura il significato storico del dubbio cartesiano. Ma scoprire e lasciar cadere fu in Descartes tutt'uno. Noi non facciamo nulla più che intendere e condurre conseguentemente avanti quanto era già contenu-
to in quell’antica intuizione» !!. Com'è noto, Husserl tornerà più volte a stabilire questo contatto e questa distanza con l’inizio cartesiano: si tratta in ogni caso — ed è quanto conviene qui rilevare — di una distanza che nasce appunto da una lettura più adeguata di quell’inizio. Si potrebbe, insomma dire: l’«ego cogito» si offre come l’assoluta datità, che lo stesso dubbio metodico deve comunque supporre, e tuttavia una corretta fenomenologia del «cogito» finisce con lo spostare l’attenzione dal piano gnoseologico a quello ontologico, dal «cogito» al «sum cogitans». «Il punto di partenza non sta - come ricorda Brand — in una res cogitans priva di mondo, bensì nel sum cogitans, ove il termine cogitare sta ad esprimere la complessiva correlazione intenzionale e il comportamento della vita-che-esperisce-il-mondo» 12, In che senso, e più precisamente, l’analisi della coscienza, quale Urforz des Welterfabrenden Leben, ci porta sul piano della riflessione ontologica ed infine ad un approdo più propriamente metafisico? Si diceva del «cogito» come della datità primaria ed assoluta, ma il rilievo della sua struttura intenzionale, porta ora a coglierlo come una relazione e quindi come una datità che non sta in sé: l’analisi dei modi più elementari della coscienza e quella successiva del loro configurarsi in senso temporale conduce appunto a questa prima conclusione. Converrà ripercorrere i due gradi di questa analisi. Nel suo modo più elementare la coscienza si dà come flusso percettivo. Husserl — si sa — parla della percezione nel senso di un adombra-
PROSPETTIVE
TEOLOGICHE
DI
HUSSERL
Zò
mento prospettico [Abschattung]: la cosa, dunque, vista sempre e solo, da un lato o per un suo aspetto, mentre la sua totalità resta sullo sfondo; l’adombramento,
dunque, come
presenza,
ma anche come
una presenza che emerge dall’inattuale e che perciò contiene in se stesso un rinvio. Questa duplicità dell’ A&schattuzg implica che la cosa sia sempre data come un tutto in se stessa, ma ad un tempo come un tutto mai adeguato: «diciamo che l’obiectum [Objeki] intenzionale è costantemente consaputo nel processo continuativo o sintetico della coscienza, ma che le ‘‘si dà sempre diversamente”; che esso è sì sempre il ‘‘medesimo’’, ma è dato in predicati diversi e con diverso contenuto di determinazione, e si mostra da diversi lati, dove i predicati
rimasti indeterminati sarebbero da determinare più esattamente» 13. Ciò che si era posto come «un’assoluta datità», l’essere della coscienza, va dunque inteso come assoluto solo in senso metodologico: in se stesso si precisa invece nella continua tensione all’inadeguato e, dunque, nel senso di un proprio costitutivo non essere. Questo non essere non è, però, puro: l’adombramento costituisce una attualità dell’inattuale; una proiezione dell’assente nella presenza e, in questa, ri-
chiama ad uno sfondo che ancora può tradursi in nuova presenza. L’analisi dell’Er/ebnis di percezione si apre così, sin dall’inizio, sulla
struttura trascendentale del tempo: «la percezione - annota Husserl — è quello che è, nel costante fluire della coscienza; anzi, è se stessa un
flusso costante: il presente percettivo si muta continuamente nella annessa coscienza di un passato prossimo, mentre spunta un nuovo pre-
sente» 14. Il passato prossimo è qui inteso immediatamente come quel presente che, nella più o meno sottesa consapevolezza del proprio limite, spinge ad una nuova presenza, ad un ulteriore passo di adeguazione. «L'attuale adesso — scrive Husserl — necessariamente è e permane qualcosa di puntuale, una persistente forma per sempre nuove materie. Egualmente accade con la continuità del dianzi; esso è una continuità di forme per sempre nuovi contenuti» !5. In generale, si deve dunque dire che nessun stato della coscienza si dà in se stesso, come assolutamente primitivo: ogni evento di Er/ebnis porta con sé un proprio sfondo e quindi si edifica su un proprio passato. Lo stesso movimento dell’autopercezione, e dunque lo stesso movimento che permette un riferimento assoluto al di là di ogni dubbio, contiene per il suo carattere riflessivo un rinvio. Sulla scorta dei manoscritti husserliani, Brand ha potuto notare a questo riguardo che l’ultimità dell’«ego cogito», «proprio in quanto è qui per me, in quanto diventa oggetto per me, non è l’ultimo» e vive sullo sfondo di un proprio passato !5.
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MELCHIORRE
Nella dialettica dell’adombramento Husserl legge, però, anche un rinvio ulteriore che non si direbbe colto con un puro rilievo fenomenologico e che in qualche modo fa pensare ad una dialessi di tipo platonico. Poco dopo il passo appena citato, il $ 82 di Ideer I inizia non a caso con un’avversativa che, a ben vedere, costituisce una nuova di-
rezione di senso: «Ma noi rileviamo altro. Ogni adesso di Erlebnis, sia esso pure la fase iniziale di un nuovo Erlebris sopravveniente, ha necessariamente il suo orizzonte del prima. Che però non può essere un vuoto prima, una vuota forma senza contenuto, un non-senso. Tale orizzonte ha necessariamente il significato di un adesso trascorso e in questa forma abbraccia qualcosa di trascorso, un Erlebnis già trascorso» 17. Ciò che, fra l’altro, viene ora portato a tema è «la fase iniziale di un nuovo Erlebnis»: anche in questo caso si prospetta il rinvio ad un adombramento preconoscitivo, ma il rinvio ha qui un significato che appunto travalica l'osservazione fenomenologica. In termini platonici, potremmo precisare questo rinvio dicendo che non è possibile passare da un puro non sapere ad un qualche sapere. Come, dunque, può costituirsi l’inizio di un nuovo Erlebnis? Husserl risponde appunto con un modulo di tipo dialettico: ciò che precede il nuovo Er/ebnis «non può essere un vuoto prima, una vuota forma senza contenuto, un non-senso». Ma, se parliamo di un nuovo Er/ebris, non si può poi dire che sia proprio questo Er/ebnis a costituire il proprio passato. La riflessione husserliana è così sollecitata da due lati, dalla necessità di
superare il non-senso di un nulla originario e dall’impossibilità di collocare l’origine all’interno del nuovo processo conoscitivo. Dai due lati Husserl è così spinto a postulare un «orizzonte originario», un «ori-
ginario adesso» cui ogni Erlebnis deve rinviare non soltanto nel senso della «successione», ma anche in quello della «simultaneità». Siamo ad «una nuova dimensione» e Husserl già ne indica le «grandi conseguenze metafisiche» 18, Procediamo tuttavia per gradi e cerchiamo di seguire lo sviluppo della riflessione trascendentale. Perché siamo portati dalla prospettiva della successione a quella di una originaria simultaneità? Con il rilievo della struttura temporale, Husserl ha raggiunto la dimensione più propria della vita coscienziale, ma con questo ha anche dovuto porre il problema di ogni inizio. Viene così a darsi il tema dell’ultimo rinvio: l'orizzonte originario della coscienza non può trovarsi in nessun inizio, deve infatti costituire la condizione d'essere di tutti i possibili inizi e per questo deve trapassare «tutto insieme nei modi del passato». Non si tratta, dunque, di risalire semplicemente da un Er/ebris all’altro; non si tratta di guardare soltanto ad un ordine di successio-
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ne, ma di risalire ad una simultaneità di ciò che «è contemporaneamente stato» 19. E così, proprio mentre si va cercando il senso dell’ultimo rinvio trascendentale, l’asse della ricerca deve spostarsi dalla
prospettiva della durata a quella di un passato intemporale. Il seguito della riflessione, come ora vedremo, porterà Husserl ad insistere sempre di più in questa direzione, ma già in una nota del 1909 si avverte che il molteplice intreccio e lo stesso dispiegamento della vita coscienziale rimandano necessariamente ad un flusso temporale ultimo: in questo flusso «sta l’assoluto al quale ogni analisi fenomenologica riconduce» 20, E qui sembra inserirsi anche un rapporto di trascendenza o, quanto meno, una vera e propria differenza ontologica. In un testo precedente leggiamo: «La forma temporale non è una forma fansiologica in senso ultimo, non è una forma dell’essere assoluto, ma solo una forma delle ‘‘apparizioni’’, il che però significa: solo una forma di oggetti individuali. Dobbiamo dire che essa non è una forma assoluta, ma solo categoriale» 21. Siamo così riportati ad una distinzione di tenore kantiano, ma con un nesso che sembra piuttosto hegeliano: l'ordine fenomenico della temporalità non è che il determinarsi di un assoluto intemporale e la stessa realtà dell’«ego cogito», attinta come residuo nella fondazione cartesiana, non è che un polo emergente da una razionalità anonima e ovunque fungente. Possiamo, a questo riguardo, riprendere con maggior distensione un importante passaggio della Krisis, ove — come si ricorderà — si diceva che ogni uomo «reca con sé un io trascendentale». Il seguito di questa conclusione è molto esplicito: «ciò non va inteso nel senso che l’io trascendentale sia una parte reale o uno
strato dell’anima
(il che sarebbe un controsenso)
bensì nel senso che l’uomo, attraverso la considerazione fenomenologica di sé, diventa un’obiettivazione dell’io trascendentale». E, così, «ogni uomo che abbia attuato l’epoché può riconoscere il suo io ulti-
mo, l’io che funge in tutte le sue azioni umane» 22. Insomma, la riflessione trascendentale deve in definitiva giungere ad una duplicità: da un lato il soggetto finito e la molteplicità di tutti i possibili soggetti finiti, con la propria puntualità temporale e con i propri rinvii; dall’altro l’io originario come il passato assoluto o come condizione di possibilità per ogni inizio e per ogni temporalizzazione, come universale fungenza temporalizzante 22. Ma quando parliamo di passato assoluto e della sua universale fungenza, in realtà - come leggiamo in un testo del 1932 - parliamo di una simultaneità originaria che è temporalizzante ma non temporalizzata, che è, in definitiva, fuori del tempo o della durata: «struttura dell’unità universale della coincidenza di tutti gli Erlebrisse della coscienza, con l’io che funge
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in essi, originalmente in quanto presentificato (in quelli che hanno esplicitato riflessivamente l’io, come in quelli che non l’hanno esplicitato ma che lo portano in sé implicitamente, anonimo), con l’io che è immobile e originariamente originale-fungente» 24. In altri testi Husserl parla anche dell’originario come di una fungenza che, in quanto temporalizzante, è in se stessa pre-temporalizzazione [Vorzeitigung] e che, in quanto condizione di ogni dato coscienziale, è sempre un «pre»-dato [«Vor»-gegeben] 2. In una pagina del 1930 leggiamo, ancora nello stesso senso: «non risulta chiaro che in questo temporalizzarsi [Verzeitlichung], l’io immobile e permanente, durante l’atto, non è un io che dura attraverso l’atto come durata temporale riempita, nello stesso senso in cui dura un che di temporale [Zeizliches] [un essere-nel-tempo], bensì che durante la durata concreta [sachlich] esso rimane privo di estensione [ausdebnunglos] e identico, immobile e permanente nell’evoluzione delle sue attuazioni? — Ma l'identità dell’io non è la mera identità dell’io-che-dura, bensì l’identità dell’io-che-attua» 26. I problemi che a questo punto si pongono sono diversi, ma intanto una prima conclusione si impone con evidenza: la riflessione trascendentale ha dovuto raggiungere un approdo che non è più semplicemente «gnoseologico». Il significato moderno della trascendentalità sembra ormai ricongiungersi con quello dell’ontologia premoderna: la divaricazione fra coscienza fenomenica e fungenza tra-
scendentale costituisce ‘infine una differenza metafisica e, per ora almeno nel tono, può essere avvertita in termini teologici. Possiamo, del resto, farlo citando un testo dello stesso Husserl che è cer-
to sorprendente, se si pensa alla sua datazione: 20 dicembre 1901! Converrà rileggerlo distesamente, anche perché la differenza appena rilevata fra temporalità fenomenica e atemporalità dell’origine vi compare già chiaramente e —- ciò che più conta — sulla base delle costituzioni
fenomenologiche
elementari.
Scrive, dunque,
Husserl:
«percezione è il termine generale rispetto a percezione di ‘ora’, di “prima”, e di ‘‘futuro”’. Le percezioni di ‘ora’, di livello diverso non sono conciliabili in una percezione collettiva di ‘‘ora”’, ma allora, in relazione ad ogni gruppo di ‘ora’, c'è un’unità di gruppi di ricordo e di aspettazione nei quali ad ogni gruppo corrisponde un diverso livello di “ora”. O piuttosto lo è. Giacché l’‘‘ora’”’ è qualcosa di relativo. Si riferisce a dei livelli. La coscienza infinita di Dio abbraccia tutto il tempo ‘in una volta”. Questa coscienza infinita è atemporale [...]. Per lui, per Dio, non c’è alcun passato, presente, futuro [...]. La coscienza divina è il correlato ideale del
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DI
HUSSERL
29
tempo obiettivo, del mondo obiettivo e del suo obiettivo divenire» 27,
2. Un fondamento non fondato
Quale peso speculativo può avere questo approdo teologico, così vicino a quello da cui siamo partiti? Husserl parla qui della coscienza divina come di un «correlato ideale» del mondo obiettivamente percepibile. Nel testo che abbiamo citato all’inizio, redatto molto dopo, fra
il 1932 e il 1935 28, si legge analogamente di Dio come del telos che attraversa ogni movimento intenzionale e anche in questo caso si tor-
na a stabilire, forse con un senso più radicale, una differenza decisiva: siamo ormai giunti all’asserto di un assoluto che non può essere confuso con l’assoluta datità della coscienza e neppure con l’unità sistemica di tutte le coscienze, che bensì si offre appunto come l’entelecheia o come la regola immanente all’intero universo coscienziale 29. Siamo così ancora vicini alle linee programmatiche del $ 83 delle Ideen I, ove si diceva che la corrente unitaria degli Erlebnisse viene afferrata non «come un Er/ebnis singolare, ma nel modo di una idea nel senso kantiano». Si deve dunque pensare, per diversi rinvii, proprio a Kant ed alla sua tesi di una funzione puramente regolatrice della prospettiva teologica? Converrà rileggere il seguito della citazione, che in un senso ci richiama di nuovo a Kant, ma in altro senso sembra indi-
carci una consistenza non puramente ideale dell’asserto teologico. «Nen si tratta - dice Husserl — di qualcosa posto e affermato a caso, ma di un dato assolutamente indubitabile, in un senso corrispondentemente ampio del termine datità. Questa indubitabilità, per quanto fondata anch’essa nell’intuizione, ha tutt'altra sorgente di quella che sussiste per l’essere degli Er/ebrisse che giungono a pure datità nella percezione immanente. Caratteristica dell’ideazione che intuisce una ‘‘idea’’ kantiana (caratteristica che per altro non ne diminuisce l’in-
tuitività), è appunto che l’adeguata determinazione del suo contenuto, in questo caso della corrente di Er/ebrisse, sia irraggiungibile» 30. Il testo, pur nella sua brevità, è denso di implicazioni e ci sollecita comunque ad una duplice prospettiva di ricerca, in senso gnoseologico e in senso ontologico. Husserl dice infatti di un dato indubitabile, non afferrabile nei modi della singolarità determinata ma non per questo sottratto ad una qualche evidenza intuitiva. Di quale evidenza dobbiamo allora parlare? In che senso il suo rilievo scaturisce da «tutt’al-
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tra sorgente» di quella percettiva? Possiamo ancora parlare, in questo caso, di un modulo di tipo dialettico, ma in che modo e più precisamente? Inoltre, qual è il valore di realtà di quest’orizzonte che Husserl evoca alla maniera dell’idea kantiana e tuttavia pur sempre nell’ordine di una incontrovertibile dazità? Husserl poi dice che il contenuto di questa assoluta datità resta comunque inadeguabile. Si può allora pensare almeno alla possibilità di una adeguazione parziale e sempre relativa o ci si deve piegare nella prospettiva del silenzio? In termini kantiani, torniamo così a riproporre l’alternativa fra teismo e deismo: da questo lato saremo forse portati ad una soluzione di tipo ermeneutico. Ma procediamo per gradi. Poniamo in prima istanza la questione gnoseologica: in che senso l’asserto dell’originario e della sua fungenza trascendentale nasce da una sorgente intuitiva che non è quella della percezione? Si è già visto come Husserl ponendo, nelle Ideer, la questione del divenire coscienziale e rinviando all’orizzonte della sua scaturigine, dica che questo «non può essere un vuoto prima, una vuota forma senza contenu-
to, un non-senso». Si è anche siderazione, Husserl sia poi temporale. Ancora una volta gio non fenomenologico, ma
visto come, proprio in forza di tale congiunto alla posizione di un assoluto inconverrà notare che qui si dà un passagargomentativo: la formula che coniuga il
«non può essere» con il «non-senso» è, in definitiva, quella che rico-
nosce l’impossibilità di un nulla originario. Si tratta, dunque, di un passaggio dialettico che opera in forza del principio di non contraddizione. Allo stesso modo, quando molto tempo dopo elaborerà l’idea di mondo quale orizzonte di ogni possibile esperienza, Husserl ne parlerà nei termini di una trascendenza non riducibile «nella mera unilateralità, nell’incompiutezza della rappresentazione prospettica, e della dimensione aperta degli orizzonti in generale...». Questa trascendenza verrà asserita a partire dalla necessità logica «di esperire sistematicamente e di mantenere identico un senso d’essere attraverso le vie dell'esperienza, di escludere le contraddizioni e di adottare invece il giusto» 31. Altrove leggiamo analogamente del «concetto» di mondo come di una «legge del mondo»: non concetto di una cosa qualsiasi e neppure di una generalità, ma concetto che, «in quanto regola universale», regola l'essere di tutte le cose nella loro concepibilità, e quindi nella loro forma particolare» 32. Dovremo riflettere su questo modo di connotare in termini simili l’idea di mondo e quella di Dio: si dovrà infine precisare in che senso Husserl sia portato a parlare di una trascendenza dell’orizzonte metafisico. Intanto fermiamoci ad una prima considerazione: l’inferenza di
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5a
Husserl sull’assoluto è mossa dalla necessità di stabilire un’ultimità trascendentale, un ultimo senso che stia in se stesso e non implichi alcun rinvio. Si tratta, come s’è visto, d’una ultimità di senso che ad
un tempo assicura «l’essere di tutte le cose» e la loro «concepibilità»: regola trascendentale, ma anche principio di realtà. In una pagina databile fra il 1931 e il 1932, Husserl si chiede se in tal modo non si debba parlare proprio di Dio e risponde che comunque si deve pensare ad un Essere senza fondamento, ad un fondamento infondato; che ha in se stesso il suo fondamento e che proprio in questo ha la sua assoluta necessità. Il testo tedesco dice: «hat in sich selbst seinen Grund und in seinem grundlosen Sein seine absolute Notwendigkeit» 33. Il valore di realtà di questo rinvio può, dunque, essere ancora declinato nei modi dell’idea kantiana, ma non in un senso puramente formale. Come ha ben osservato S. Strasser, non si può parlare a questo riguardo di una funzione soltanto regolativa e comunque non certo di una