Ontologia fenomenologica e teologia protestante 8849500742


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Ontologia fenomenologica e teologia protestante
 8849500742

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KARL LOWITH

ONTOLOGIA FENOMENOLOGICA . E TEOLOGIA PROTESTANTE a cura di UGO UGAZIO

Edizioni Scientifiche Italiane

Biblioteca di YllosoFia e Teologia TESTI

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Nella stessa collana: SEZIONE SAGGI: 1. NYNFA Bosco, L,Europa e il suo oriente. La spiritualità del cristianesimo orientale, 1993 2. MAURIZIO PAGANO, Hegel: la religione e />ermeneutica del concetto, 1992 3. GIUSEPPE ZARONE, Pensiero e verità. Saggi metafisico-teologici per la metaetica, 1993 4. NYNFA Bosco, D. Bonhoeffer. Un ,etica cristiana della responsabilità per laici e credenti, 1995 5. Labirinti del male, a cura di G. Zarone, 1997 SEZIONE TESTI: 1. ALFRED NORTH WHITEHEAD, Dio e il mondo, />immortalità, a cura di Nynfa Bosco, 1993 2. jAKOB BoHME, Questioni teofisiche. Ovvero esame della divina rivelazione in 177 domande, a cura di Flavio Cuniberto, 1996 3. Ebraismo, cristianesimo, e antisemitismo in Russia, a cura di N ynfa Bosco, 1998 4. KARL BARTH, Parola di Dio e parola umana, a cura di Francesco Saverio Festa, 1999

KARL LOWITH

ONTOLOGIA FENOMENOLOGICA E TEOLOGIA PROTESTANTE DUE STUDI a cura di

Ugo Ugazio

Edizioni Scientifiche Italiane

Titoli originali:

Grundzuge der Entwicklung der Phdnomenologie zur Philosophie und ihr Verhdltnis zur protestantischen Theologie, in «Theologische Rundschau», II, 1930, pp. 26-64 e pp. 333-361.

Phdnomenologische Ontologie und protestantische Theologie, in «Zeitschrift fiir Theologie und Kirche», XI, 1930, pp. 365-399.

LoWITH, Karl

Ontologia fenomenologica e teologia protestante Biblioteca di Filosofia e Teologia Testi, 5 Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2001 pp. 156; 21 cm ISBN 88-495-0074-2 © 2001 by Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a. 80121 Napoli, via Chiatamone 7 00185 Roma, via dei Taurini 27

Internet: www.esispa.com E-mail: [email protected] I diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi

Nota introduttiva

I due articoli qui raccolti sono stati pubblicati per la prima volta nel 1930 su riviste teologiche 1• Quando li scrive, Karl Lowith insegna filosofia presso l'Università di Marburgo, dove ha conseguito la libera docenza nel 1928, relatore Martin Heidegger, con una dissertazione di carattere fenomenologico sulla fondazione dei problemi etici. Questa dissertazione, pubblicata in quello stesso anno con il titolo L'individuo nel ruolo del prossimo. Un contributo alla fondazione antropologica dei problemi etia",2 è destinato a rimanere l'unico lavoro teorico di Lowith; il resto della sua produzione, infatti, è costituito, in modo più consono alla sua visione scettica, da una considerazione storiografica che tende a mostrare come la storia della filosofia, dopo l'avvento del cristianesimo, abbia interpretato il mondo a partire dall'uomo e da Dio, anziché interpretare l'uomo e la sua naturalità a partire dal mondo. Il compito della filosofia, secondo il Lowith maturo, non deve consistere semplicemente nella determinazione dell'ente che ha come carattere sostanziale la comprensione dell'essere; la sua funzione consiste invece nell'esercizio della scepsi, nel 1 Il primo, Grundzuge der Entwickelung der Phanomenologie zur Philosophie und ihr Verhaltnis zur protestantischen Theologie, è apparso in due pani su «Theologische Rundschau», II, 1930, pp. 26-64 e pp. 333-361, e il secondo, Phanomenologische Ontologie und protestantische Theologie, in «Zeitschrift filr Theologie und Kirche», nuova serie, anno 1930, pp. 365-399; entrambi sono ora compresi nel voi. III delle Samtliche Schriften, Metzler, Stoccarda, 1981-88, rispettivamente pp. 33-96 e pp. 1-32. 2 Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen. Ein Beitrag zur anthropologischen Grundlegung der ethischen Probleme, Monaco, 1928; ora nel voi. I delle Samtliche Schriften, cit., p. 1 ss.

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mantenere cioè l'uomo all'interno del «sapere» della physis conquistato con il lavoro positivo delle scienze. Si potrebbe dire, cercando di raccogliere in una formula la posizione matura di Lowith, che l'uomo moderno che conquista passo dopo passo il sapere della physis in cui egli stesso si trova rinunci nel contempo, grazie appunto ali' esercizio della scepsi filosofica, a qualunque determinazione di «senso» che provenga solo dal «comprendere». Se, quindi, il giovane Lowith poteva ancora proporre la sua «fondazione antropologica dei problemi etici» nei termini di un' ermeneutica fenomenologica, il Lowith maturo non potrà che diffidare di tutto ciò che, pur non provenendo dal sapere della physis, pretende tuttavia di svolgere il ruolo del fondamento per il solo fatto di essere determinato come comprensione. Negli anni in cui insegna come libero docente a Marburgo, negli anni cioè della vicinanza accademica a Heidegger, la posizione di Lowith non si è ancora precisata in questo naturalismo ami-storicistico: qui Lowith tenta ancora di sottrarre il metodo fenomenologico all'involuzione idealistica, verso cui gli sembra che proceda anche Essere e tempo nella misura in cui pone l'essere-nel-mondo come comprensione del tratto più proprio dell'esistenza. Così, a determinare il sapere che l'uomo ha di sé non sono né la coscienza pura donatrice di senso (Husserl), né l'autocomprensione in cui consisterebbe l'esistenza (Heidegger), bensì la svariata molteplicità delle situazioni di reciprocità in cui consiste di fatto la vita umana. Queste situazioni si collocano tutte in una zona intermedia che, in rapporto ali' analitica heideggeriana, non appartiene né al se-stesso né al «si» anonimo e che non riduce gli «altri» a semplici determinazioni dell'essere-sempre-proprio dell'esserci che «ci» è con gli altri nel mondo: la determinazione del mondo non può essere ontologica se prima non è etica, non può cioè essere il fondamento di un riconoscimento degli altri da parte dell'io, senza essere nel contempo anche il rico-

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noscimento che all'io proviene dagli altri. Il mondo non è la determinazione ontologica dell'esserci in quanto è «nel» mondo, ma è l'intreccio di relazioni che scaturiscono dalla dialettica io-tu. Se l'impostazione ontologica dell'analitica esistenziale di Heidegger è incentrata sulla comprensione di ciò che è più proprio, con la conseguenza che tutto ciò che proviene dal «si» è respinto come «inautentico», l' antropologia filosofica di Lowith tende a riconoscere nella reciprocità dei rapporti personali il costituirsi del tratto etico come tratto specificamente umano, isolato all'interno di connessioni puramente naturali, anche se universalmente valido. Nessuna determinazione è ontologicamente propria se non è caratterizzata come «umana», se non trae cioè la sua ragione d'essere dall'appartenenza al mondo assiologicamente fondato dell'uomo. Il mondo umano è tale, diverso cioè da quello semplicemente naturale, perché è il mondo dell'apparire in cui l'individuo è persona (maschera) nella misura in cui mostra qualcosa agli altri e gli altri riconoscono qualcosa in lui: all'essere dell'analitica heideggeriana qui è contrapposto un apparire, mentre all'esserproprio come determinazione originaria dell'essere-nelmondo subentra la dialettica io-tu 3 • Si può allora dire che se per Heidegger gli altri sono compresenti nel mondo, per Lowith è la reciprocità delle relazioni interpersonali a costituire il mondo stesso in quanto originariamente umano, al punto che la stessa oggettività delle cose sensibili trae il suo fondamento dal riconoscimento della reciprocità intersoggettiva. È attraverso questa ripresa di temi del pensiero di Feuerbach e di Dilthey che Lowith ha potuto mantenere l'universalità dell'imperativo morale di Kant senza rinunciare al progetto originario di una fondazione antro3 Gadamer riconoscerà ancora in Verità e metodo l'importanza di quest'opera di Lowith per l'ermeneutica (H.-G. GADAMER, Gesammelte Werke, Mohr, Tubinga, 1986, voi. I, p. 365; trad. it. di G. VATIIMO, Verità e metodo, Fabbri, Milano, 1972, p. 416), opera che, come ricorda egli stesso, aveva già recensito su «Logos» nel 1929 (ora in Gesammelte Werke, cit., 1989, voi. IV, p. 234 ss.).

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po logica dell'etica. Portare il punto di vista filosofico all'interno dell'uomo storico, socialmente ed economicamente determinato, significa cogliere davvero l'esistenza nel suo staccarsi da quel che non le appartiene. Quel che a Hegel era ancora apparso come un'unità, ossia quel che lo spirito raccoglie sotto di sé come storia della sua propria evoluzione, alla generazione venuta dopo di lui, da Feuerbach a Marx e Kierkegaard, appariva ormai solo come un' arbitraria giustapposizione di frammenti sorretta solo dall'artificio del «sistema». Ma questa rottura rivoluzionaria della classicità tedesca, per il Lowith di questo periodo, non indica solo che la struttura assiologica della «vita» umana esige come proprio fondamento l'intersoggettività, ma è anche il modo in cui la modernità impara a governare la propria negatività. La critica che la sinistra hegeliana rivolgeva contro Hegel diventa per Lowith una critica contro la tradizione filosofica in generale: la lettura dei manoscritti giovanili di Marx, allora appena pubblicati, porta Lowith a includere nella problematica dell'individuo anche aspetti sociali ed economici e a legare la dissoluzione dell'hegelismo alla crisi della borghesia e del cristianesimo mondanizzato. Nel giovane Marx, Lowith ha visto soprattutto lo sforzo di trasformare la filosofia in critica dello stato di cose esistente, e questo sforzo gli è sembrato prossimo non solo all'impegno di Kierkegaard, ma anche a quell'attacco contro i fondamenti della metafisica incominciato con Dilthey e proseguito con Heidegger4 • L'inevitabile tendenza che si manifesta nel mondo moderno ad una identificazione della vita umana con l'aspetto sociale ed economico dell'esistenza terrena diventa, secondo Lowith che accosta la filosofia sociale di Marx a quella di Max Weber5, il punto di partenza 4 Lowith si è occupato una prima volta della sinistra hegeliana nel colloquio per la libera docenza, pubblicato nel 1928 in Logos, n. 3, con il titolo L. Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Phi/osophie (ora nell voi. V delle Samtliche Schriften, cit., p. 1 ss.). s Cfr. l'articolo del 1932 su Max Weber und Karl Marx (ora nel voi. V delle

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per qualunque determinazione antropologica. Il fatto che il processo di razionalizzazione renda il mondo «disincantato» e tenda a spegnere quella fiamma che un tempo ha tenuto unite le grandi comunità intorno a valori alti e sublimi, per confinare il rapporto con questi valori (per loro natura estranei ad ogni commisurazione dei mezzi rispetto allo scopo) ad un ambito mistico o alla ristrettezza di piccole comunità o addirittura delle relazioni interpersonali, diventa il tratto specifico dell'autonomia dell'individuo, autonomia che è stabilita unicamente nel conflitto con altre individualità in relazione alla commisurazione dei mezzi rispetto allo scopo. Anche il processo di secolarizzazione affidato alle filosofie della storia e alla fiducia nel progresso tecnologico lascia non chiariti i presupposti teologici dai quali esso stesso scaturisce, presupposti che sono quelli della temporalità escatologica della visione cristiana. All'uomo moderno bisognerà allora, secondo il Lowith maturo, mostrare che il «sapere» di cui è in cerca riguarda una physis che non è retta da un «senso» rispetto al quale l,uomo possa attribuire a se stesso una posizione speciale. La scepsi filosofica si contrappone in questo modo a qualunque determinazione di senso che scaturisca unicamente dalla comprensione. Così, mentre il giovane Lowith, negli anni dell'insegnamento marburghese come libero docente, muove la sua critica alla filosofia tradizionale ancora a partire da un'esigenza ermeneutica, quella cioè di mostrare che è sempre l'uomo, nella sua determinatezza fisiologica e sociale, a comprendere il proprio esserci e non l'esserci stesso, il cui carattere ontologico sarebbe già la comprensione, il Lowith maturo assegnerà alla filosofia proprio il compito di prendere le distanze da qualunque centralità dell'uomo. Che l'area dell'interesse filosofico si restringa al senso che Samtliche Schriften, cit., p. 324 ss.; trad. it. di A. L. Ki.inkler Giavotto in Critica dell'esistenza ston"ca, Morano, Napoli, 1967, p. 11 ss.).

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può essere «compreso», comunque avvenga questa comprensione, diventa per Lowith sempre più marcatamente un'obiezione contro ogni filosofia che non sia esercizio radicale della scepsi. Anche se il giovane Lowith ha cercato di ritrovare nel rapporto con la filosofia tedesca non classica il punto d'avvio per una determinazione del «senso» dell'uomo che fosse puramente antropologica e superasse qualunque sfondo teologico, questo atteggiamento, nella misura in cui è retto da un'intenzione scettica più che ermeneutica, rivela già una provenienza naturalistica. Sebbene il passaggio da una filosofia teologica, come quella hegeliana, alle filosofie antropologiche di Feuerbach e Nietzsche non fosse ancora inteso dal giovane Lowith come il venire meno del «senso» a favore della physis, tuttavia proprio il fatto che la determinazione del senso sia antropologica, fondata quindi su quell' «apparire» che lascia sullo sfondo la natura e si volge alla fondazione dei problemi etici, contiene già la premessa per l'ulteriore critica che investe tutto il mondo del senso e della comprensione. È particolarmente significativo, a questo proposito, il fatto che Lowith abbia dato due diverse valutazioni del sensualismo di Feuerbach: se all'inizio gli era apparso come un elemento di disturbo nella determinazione del mondo umano, che per essere tale ha solo bisogno del riconoscimento intersoggettivo, alla fine gli sembra invece che l'accesso che esso consente al mondo naturale sia il migliore punto d' appoggio per la critica filosofica. Nonostante questa sospensione dell'interesse naturalistico, quindi, anche negli anni giovanili, la considerazione ermeneutica del «senso» resta legata, sia pure negativamente, alla particolare naturalità dell'uomo e può valere contro ogni identificazione idealistica di essere e pensiero proprio perché è conservata la connessione con il tratto naturale6. L'osservazione filosofica, del 6 Così, ad esempio, l'essere-per-la-morte è possibile nella sua determinatezza ontologica non perché è «compreso» dall'esserci, come vorrebbe Heidegger, che

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resto, non ha mai sostituito completamente l'originario interesse di Lowith per l'osservazione scientifica del manifestarsi della vita: tanto a Monaco, sua città d'origine dove incomincia gli studi universitari nel 1918, quanto a Friburgo, dove si reca su indicazione di Moritz Geiger (con il quale si laurea a Monaco nel 1923 con una tesi su Nietzsche) per seguire le lezioni di Husserl e dove incontra Heidegger, Lowith studia contemporaneamente filosofia e biologia7• Nella prospettiva dischiusa da questo iniziale interesse ermeneutico, i due articoli qui presentati propongono la vexata quaestio del rapporto tra teologia e filosofia alla luce di questa determinazione puramente antropologica del «senso», alla luce cioè di quello che Lowith, con Nietzsche, chiama «ateismo scientifico». In questi anni, nei quali prevale lo « studio non marxista di Marx »8, il rapporto tra teologia e filosofia entra nell'interesse di Lowith solo perché a Marburgo Rudolph Bultmann9, in strettissimo rap-

ha separato il fenomeno esistenziale del morire (Sterben) dal cessare di viver del corpo (Ab-sterben), ma perché l'uomo sa del fatto «naturale» della propria morte (cfr. qui sotto, p. 68 ss. e p. 123). 7 È lo stesso Lowith a ricordare di avere affiancato, sin dall'inizio dei suoi studi universitari filosofia e biologia e di avere avuto già al liceo un grande interesse per lo studio del manifestarsi della vita negli organismi più elementari. Una traccia dello studio della biologia si trova nel primo articolo qui presentato, dove compare un'ampia citazione del botanico Kurt Goebel, del quale Lowith aveva seguito i corsi a Monaco (cfr. qui sotto, p. 46 s.). A questo proposito, si veda il curriculum vitae scritto da Lowith nel 1959, pubblicato insieme all'autobiografia, Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933, Metzler, Stoccarda, 1986, p. 132; tr. it. di E. GRILLO, La mia vita in Germania pn·ma e dopo il 1933, Il Saggiatore, Milano, 1988, p. 192. Ancora nel breve scritto del 1969, in cui in occasione dell'ottantesimo compleanno di Heidegger si rivolge direttamente a lui in forma epistolare, Lowith ricorda i suoi studi di biologia, nei quali dice di avere colto qualcosa (l'organizzarsi della vita, la «natura») che non riusciva a trovare nella problematica esistenziale (Zu Heideggers Seinsfrage: Die Natur des Menschen und die Welt der Natur, ora nel voi. VIII delle Sà"mtliche Schriften, cit., pp. 276-89 tr. it. di N. CuRCIO, La questione heideggeriana dell'essere: la natura dell'uomo e il mondo della natura, in Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, a cura di F. Volpi, Donzelli, Roma, 1998, pp. 75-88). 8 Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933, cit., p. 133; tr. it. cit., p. 194. 9 Bisogna ricordare che, prima dell'incontro con Heidegger, Bultmann ha

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porto con Heidegger stesso, sviluppava il progetto di utilizzare l'analitica esistenziale come strumento neutrale dal punto di vista teologico per la comprensione dell'esistenza che si dispone ad accogliere il kerygma cristiano. Tutti i problemi esistenziali che la teologia presenta dal punto di vista della fede, come problemi di un glaubiges Dasein, un esserci improntato alla fede, sono pre-compresi, con eguale rilevanza, nella descrizione fenomenologica dell'esistenza. Per cogliere la portata di questa operazione, basta forse pensare al problema del peccato originale 1°: l'ontologia fenomenologica non «sa» propriamente nulla del peccato e tuttavia descrive l'esserci nei termini di un originario esser-colpevole, ossia nei termini di una decisione che deve essere presa relativamente alla propria esistenza, la quale quindi non è mai qualcosa che possa essere colto dal pensiero oggettivante della scienza o dalla visione magica del mito, perché entrambi, la scienza e il mito, trascurano inevitabilmente l'esistenza come decisione su di sé. La stessa Rivelazione resta muta se non è intesa come possibilità che ogni uomo ha di comprendere di nuovo se stesso. È vero, quindi che l'uomo non può comprendere Dio, che, come ha mostrato la teologia dialettica contro le aperture umanistiche della teologia liberale, resta totalmente trascendente; altrettanto vero è però che l'uomo può intendere la propria esistenza non come un dato di fatto o come qualcosa su cui possono agire forze magiche, bensì in modo autentico come un appello che è da comprendere e che esige una decisione. Lowith non intende, ovviamente, entrare nel merito del problema teologico: si limita invece a rilevare la difficoltà di un'apprensione sufficientemente ampia e neutrale della vita umana. Per le ragioni stesse della Exiaderito al programma della teologia dialettica insieme a K. Barth, E. Brunner, F. Gogarten e ha collaborato alla rivista «Zwischen den Zeiten». 10 Per la discussione della nota del § 62 di Essere e tempo, nella quale è posto il problema del nesso dell'esser-colpevole considerato nell'ontologia con lo status corruptionis considerato nella teologia, cfr. qui sotto p. 76 e p. 136.

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stenzphilosophie, non gli sembra possibile un accesso preliminare alla vita nel quale non siano inclusi anche quei pregiudizi di cui la vita è fatta e che non sono mai nettamente distinti dal polo razionale intorno a cui si accumulano. L'incongruenza di un uso della neutralità della filosofia da parte della teologia sta, secondo Lowith, nel fatto che alla filosofia non può riuscire di essere neutrale di fronte al suo oggetto, perché la filosofia raggiunge una comprensione della vita umana solo mediante i pregiudizi della vita stessa, fino al punto di considerare anche la vita solo come un pregiudizio. Se ciò cui la filosofia accede non è senz' altro l' «essere», ma solo una determinazione i cui termini sono posti dall'uomo stesso, sia pure entro il margine di un'invalicabile necessità naturale, allora all'ontologia non può essere assegnato il compito di una descrizione puramente formale e neutrale delle strutture di quell'ente il cui modo di essere è il comprendere stesso: è un'illusione ottica di Heidegger, secondo Lowith, credere che la comprensione di sé sia in quanto tale una determinazione ontologica. La comprensione del proprio essere non costituisce di per sé una determinazione ontologica capace di caratterizzare l'essere di un ente; non è il fatto che l'esser-ci possa essere compreso e sia effettivamente compreso a costituire l'essere, ma è l'esser-uomo, la cui costituzione è legata ad una reciprocità del riconoscimento prima che al1' autocomprensione, a poter comprendere la vita. La filosofia della «vita», che Lowith con Misch 11 fa valere contro la pretesa ontologica della filosofia dell' «esistenza», in-

11 Tutta la parte conclusiva del primo articolo qui presentato si appoggia sul lavoro che G. Misch aveva appena pubblicato tra il 1929 e il 1930 con il titolo Lebensphilosophie und Phanomenologie sulla rivista «Philosophischer Anzeiger» e che uscirà come volume nel 1930 presso l'editore Cohen di Bonn; cfr. qui sotto p. 96 ss.; nelle lezioni del semestre estivo del 1929, Der Deutsche Idealismus (Fichte, Hegel, Schelling) und die philosophische Problemlage der Gegenwart, anche Heidegger ha discusso la posizione di Misch (voi. XXVIII della Gesamtausgabe, Klostermann, Francoforte s. M., 1975 ss., p. 135 ss.).

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dica che la vita può essere «compresa» solo per mezzo della vita. Ma il tentativo compiuto dalla teologia di accedere con l'aiuto dell'ontologia fenomenologica al tratto puramente formale e neutro dell'esistenza, evidenzia secondo il giovane Lowith non tanto l'intrinseca problematicità del rapporto tra teologia e filosofia, quanto piuttosto le difficoltà che sorgono nel metodo fenomenologico quando voglia passare dall'ideale scientifico della descrizione al problema filosofico tradizionale dell'essere. Il compito di una descrizione fenomenologica dell' «essere» dell'esserci finisce per portare la filosofia in un ambito in cui la vita umana è colta al di fuori degli interessi che le sono propri e fissata solo in determinazioni negative (angoscia, morte, colpa), alla fine di una tradizione che intende la vita umana solo nella prospettiva della Werkwelt, il mondo dell'operare, senza alcuna considerazione per il naturale nell'uomo e per la comprensione di esso 12 • L'analitica ontologica di Heidegger non sarebbe in grado di cogliere la vita proprio perché pretenderebbe di formalizzare rapporti vitali particolari considerandoli caratteri ontologici: con la nozione heideggeriana di struttura, sarebbe colta non la totalità della vita, bensì solo la prospettiva particolare aperta da singole possibilità, che verrebbe fatta valere come universalmente valida anche per la concreta realtà della vita appunto attraverso il lavoro della formalizzazione. Il proposito, manifestato da Heidegger 13, di proseguire l'opera incominciata da Dilthey nella comprensione della vita nella totalità del suo accadere storico sarebbe difficilmente conciliabile con

12 La nozione psicoanalitica di rimozione, che non è certamente la «spiegazione» di un fenomeno naturale, è probabilmente un esempio di comprensione del naturale in questo senso (cfr. qui sotto, p. 44); la psicoanalisi era uno dei temi trattati da Lowith nelle sue lezioni marburghesi (Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933, cit., p. 66; tr. it., p. 78). 13 Nel § 72 di Sein und Zeit; Lowith riprende qui la critica di Misch a Heidegger (cfr. qui sotto, p. 99).

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l'assunzione di una «struttura» ontologica costituita da possibilità, se non nel senso di una teoria che si fondi su se stessa e riproduca nell'alternativa di autentico ed inautentico il dualismo etico della visione cristiana. Ciò cui la teologia accederebbe grazie all'analitica ontologica non sarebbe quindi la vita stessa colta nella neutralità della sua struttura ontologica, bensì solo la formalizzazione concettuale di possibilità particolari, come quella della morte, presentate come struttura. In questo modo, quel che l'ontologia fenomenologica può esibire come l'essere dell'esserci non proviene, secondo quel che del resto indica lo stesso Heidegger, dalla realtà dell'uomo, bensì da quel che l'uomo può e sa fare di sé e del mondo in cui si trova ad essere. Agli occhi di Lowith, questo significa che il pensiero di Heidegger, come già quello di Kierkegaard, mantiene il tratto cristiano di un «sé» che si costituisce nel Sinnen (il pensare non come attività razionale, ma come riflessione che si muove solo nell'ambito del Sinn, il senso) e nel farsi carico di sé (Selbstbekummerung), significa cioè che l' essere dell'esserci si costituisce solo nell'isolamento del riferimento a se stesso, nell'angoscia in cui è abbandonata ogni alterità. Proprio contro questa «teoria» che si fonderebbe da sé era orientata la fondazione fenomenologica dell'etica proposta da Lowith nella sua tesi di libera docenza 14 • Così, l'esigenza di risolvere la filosofia in un'etica fondata sulla reciprocità di rapporti interpersonali che presuppongono una naturalità non più fondata filosoficamente implica necessariamente che la filosofia abbandoni qualunque fondamento trascendente e miri unicamente a determinare il senso di ciò che è umano mantenendolo appunto entro i limiti dell'umano stesso. Ben diversa era l'intenzione della fenomenologia e di quel che Heidegger dall'insegnamento fe14 Per la Selbstbesinnung e Selbstbekiimmerung come tratto cristiano cfr. qui sotto p. 68; per il riferimento a Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen, cfr. p. 65.

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nomenologico stava ricavando: non è necessario delimitare antropologicamente il senso e mostrare che qualunque determinazione di senso è solo umana, come se vi fosse essere anche là dove il senso non arriva, giacché essere e senso sono legati l'uno all'altro al punto che non è possibile porre il problema dell'essere se non come problema del senso (dell'essere). Se per Lowith il mondo umano del senso trova la sua universalità solo all'interno di una naturalità, per così dire senza senso, per Heidegger, invece, anche la naturalità, compresa la sua eventuale mancanza di senso, è incontrata solo nel mondo del senso, che quindi non è un mondo umano contrapposto al mondo naturale. Del resto, già nella lettera del 19 agosto 1921, Heidegger chiedeva a Lowith di considerarlo non un filosofo ma solo un «teo-logo cristiano» 15 • Le due prospettive sono inconciliabili e lontanissime: Heidegger fa coincidere l'essere con un essere-possibile proprio per determinare l'esserci quanto al «senso», senza appiattirlo su qualcosa di naturale che dovrebbe essere presupposto dal senso, mentre Lowith fa valere, almeno in questa prima fase del suo pensiero, una prospettiva ermeneutica e al tempo stesso scettica in cui il «senso» proviene interamente dal tratto antropologico. Il senso, secondo Lowith, non fonda se stesso per il fatto di costituirsi come essere dell'esserci. Heidegger respinge la posizione che l'allievo gli assegna all'interno di una filosofia antropologica e tendenzialmente atea proprio perché intende l'ateismo della filosofia in modo completamente diverso: l'ateismo di principio della filosofia 16 e l'impossibi1 ~ La lettera è pubblicata, insieme ad altre due del 1927 e 1937, in Drei Briefe Martin Heideggers an Karl Lowith, in D. PAPEFuss e O. PoGGELER (a cura di), Zur philosophischen Aktualitat Heideggers, voi. II, lm Gesprach der Zeit, Klo-

stermann, Francofone s. M., 1990, pp. 27-39. 16 Per esempio, in uno dei fogli sparsi pubblicati in appendice al voi. LXIdella Gesamtausgabe, cit., p. 195 (tr. it. di M. De Carolis, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, Guida, Napoli, 1990, p. 224) e nel cosiddetto Natorp-Bericht, in «Dilthey-Jahrbuch», n. 6, 1989, nella nota 1 di p. 247 (tr. it. di G. CAMMAROTA e V. VITIELLO, Interpretazioni fenomenologiche di An'stotele.

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lità di una filosofia cristiana 17 non sono tratti distintivi di una visione del mondo puramente filosofica, determinata in modo solo antropologico. Tale visione del mondo, infatti, prenderebbe il posto di una visione ancora teologica, e quindi non scientifica perché assegnerebbe all'uomo una centralità che, potendosi fondare solo sul «senso», non può che provenire dall'uomo stesso. L'ateismo della filosofia sostenuto da Heidegger non è l'indicazione di una posizione storica che sia stata raggiunta; si potrebbe quasi sostenere, prendendo alla lettera la richiesta di Heidegger a Lowith di volere essere considerato teologo cristiano piuttosto che filosofo, che Heidegger nel dichiarare atea la filosofia parli dal punto di vista della teologia e che alluda a quell' esigenza che trova espressione nella collaborazione con Bultmann, ossia all'esigenza di una neutralità della descrizione dell' «esistenza» tale da fissare sul piano ontologico ciò che è proprio (autentico) e ciò che non lo è (inautentico) senza che con ciò sia positivamente dato qualcosa. L'ontologia, a differenza delle altre scienze, compresa la teologia, non ha alcun positum ed è riferita direttamente all'essere; la contrapposizione di una filosofia antropologica alla teologia presuppone che filosofia e teologia siano solo due diverse visioni del mondo, mentre la distinzione di filosofia e teologia è la distinzione tra due scienze 18 • Nello schema con cui Lowith interpreta la storia della filosofia tedesca postclassica, quello di un passaggio da una filosofia teologica ad una filosofia antropologica, Heidegger non può trovare posto perché l'ontologia in quanto fenomenologia richiede non l'assunzione di un punto di vista determinato, per esempio del punto di vista dell'uomo «naturale» contrapProspetto della situazione ermeneutica, in «Filosofia e teologia», n. 4, 1990, p. 507). 17 Nella conferenza del 1927, Phanomenologie und Theo/ogie, ora in Wegmarken, voi. IX della Gesamtausgabe, cit., p. 66 (tr. it. di F. Volpi, Segnavi.a, Adelphi, Milano, p. 22) e in Einfuhrung in die Metaphysik, Niemeyer, Tubinga, 1987~, p. 6 (tr. it. di G. Masi, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano, 1968, p. 19). 18 Cfr. l'avvio della conferenza Phanomenologie und Theologie, cit.

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posto a quello del credente, bensì solo che si lasci che l' essere si mostri da sé. L'ontologia si distingue dalle scienze «positive», come Heidegger spiega nella conferenza Fenomenologia e teologia, perché, mentre queste ultime tengono di fronte alla regione dell'ente di cui si occupano un atteggiamento che in qualche modo le precede come scienze, l'ontologia non determina il suo atteggiamento se non come «scienza»: questo significa che il problema dell'essere determina esso stesso l'essere dell'ente che se lo pone, senza che questa presupposizione debba essere esclusa dall'ambito del «senso» richiesto dal problema posto. Lo sguardo dell'ontologia è invertito rispetto a quello delle scienze positive: proviene dall'ente e guarda verso il punto dal quale lo sguardo proviene 19 • Il lasciare che l'essere si mostri da sé non presuppone alcuna determinazione antropologica; nella prospettiva ontologica, la determinazione di senso non esige, come invece vorrebbe Lowith, l'uomo e la sua naturalità, giacché è l'uomo ad incontrare se stesso nella propria naturalità solo entro l'orizzonte del senso. Questo rifiuto della determinazione antropologica, nel quale teologia dialettica e analitica esistenziale sono accomunate, discende, secondo Lowith, dall'autodeterminazione del senso e dal carattere «occasionale» della decisione che la contrassegna. L'accusa di occasionalismo che Cari Schmitt aveva mosso contro il movimento romantico, per il quale il mondo è sempre solo occasio di un «eterno colloquio» che nessuna decisione ha potuto aprire e nessuna decisione saprebbe concludere, alla fine ricadrebbe, secondo Lowith, sullo stesso decisionismo schmittiano e sull'aspetto decisionista della filosofia e della teologia, da Heidegger a Bultmann e Gogarten. Tanto la categoria schmittiana del politico, quanto la neutralità ontologica dell'esistenza sarebbero solo determinazioni polemiche provocate dall'incapacità 19 lvi, p. 48; tr. it., p. 6; cfr. anche il § 3 di Essere e tempo, dedicato al primato ontologico del problema dcli' essere.

Nota introduttiva

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della modernità, depoliticizzata perché retta solo dall'economia e dalla tecnica, di ricomporre nella rappresentazione l'ordine del mondo. La sovranità del decisionismo antiromantico non solo fallirebbe nel compito di riproporre quell'unità del mondo che è stata di volta in volta teologica, metafisica ed etica, prima di dissolversi nell'estetica e nel1' economia, ma finirebbe anch'essa per asservire la decisione a forze che le si oppongono, come è successo a Schmitt, Heidegger e Gogarten dopo l'avvento al potere del nazionalsocialismo. È il carattere stesso della «decisione sovrana», secondo Lowith, a determinare questo pericolo: la decisione, infatti, è sovrana solo nella misura in cui avviene «nel nulla» ed è richiesta da uno stato d'eccezione, senza che le sia possibile fondarsi su qualcosa che non sia la sua stessa sovranità. Ciò che a Lowith sembra preoccupante è la generalizzazione della nozione di «stato d'eccezione», sia nell'ambito della teoria politica sia, soprattutto, al di fuori di tale ambito, nella filosofia e nella teologia. Anche l'uso che Schmitt ha fatto dell'antiromanticismo di Kierkegaard è sembrato a Lowith improprio, giacché per Kierkegaard l'eccezione serve per spiegare il generale ed è anzi il generale ad essere polemico nei confronti dell'eccezione, non il contrario20 • È vero però che la teologia dialettica e la filosofia dell'esistenza hanno trovato la fonte comune del loro decisionismo proprio nell'intensa riflessione di Kierkegaard sul Cristianesimo21 : la posizione anti-romantica di Kierke-

°

2 K. LowITH, Der okkasionelle Dezisionismus von Cari Schmit, nel voi. VIII delle Samtliche Schriften, cit., p. 38; tr. it. di. L. Ki.JNKLER G1Avorro, // decisionismo occasionale di Cari Schmit, in Critica dell'esistenza storica, cit., p. 120. 21 A proposito di Hcidegger e Bultmann, Lowith scrive nel suo curriculum: « Il momento unificante era dato dallo stimolo che entrambi avevano ricevuto dalla tesi di Kierkegaard secondo la quale la verità si fa vera solo quando viene fatta propria soggettivamente da un esistente. Il pathos della "decisione praticoesistenziale" che aveva ispirato la rivolta di Kierkegaard e di Marx contro la Cristianità e la società esistenti, ebbe negli anni venti una nuova fiammata di attualità, che finì per condurre - e sedurre - verso un decisionismo teologico, filosofico e politico» (Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933, cit., p. 133; tr. it. cit., p. 196).

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gaard è consistita nel fare valere il cristianesimo come l' ambito entro il quale ci si decide su di sé, in contrapposizione al tratto generale, dove non vi sono propriamente decisioni che debbano essere prese. Dell'insegnamento di Kierkegaard, la teologia e la filosofia degli anni Venti avrebbero recepito soprattutto questo tratto decisionista. Così, tanto l'esigenza heideggeriana di un'anticipazione della morte, esigenza neutrale nel suo apparente riferimento ad un evento naturale, quanto la connessione stabilita da Bultmann tra fede e decisione prospettano kierkegaardianamente il riferimento ad un'istanza che rimane impenetrabile finché non ci si decide per essa, giacché decidersi per essa significa anche comprenderla. A questo decisionismo generalizzato corrisponderebbe, secondo Lowith, una graduale contrazione della naturalità dell'uomo, cosicché anche eventi «naturali» della vita umana, come il morire, sembrerebbero esigere una decisione che li sottragga alla loro naturale casualità e li trasferisca nella sfera di ciò che è senza norma (la situazione-limite). Nei due articoli qui presentati, questa critica al decisionismo filosofico compare soprattutto nel confronto con la comprensione heideggeriana della morte: la morte non è, secondo Lowith, qualcosa per il quale ci si debba decidere, perché la morte propriamente non è da comprendere se non come evento naturale. A questo proposito, Lowith si associa al teologo Overbeck, che nella morte vedeva soprattutto il simbolo da rispettare di quel destino di silenzio che noi tutti abbiamo in comune22. Teologia e filosofia non possono quindi, secondo Lowith,incontrarsi solo come si incontrano due scienze. Se infatti la filosofia si presenta come ontologia, nascondendo la sua provenienza troppo umana, e la teologia dal canto suo, nello sforzo di presentarsi come scienza, si allontana dalla predicazione, il loro incontro finisce per avvenire solo 22

Qui sotto, p. 125.

Nota introduttiva

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sul piano di una reciproca tolleranza che lascia indeterminato qualunque rapporto con la vita umana per concentrarsi solo sull'astrazione di un esserci tanto ampio e neutro da non essere ancora né cristiano né non cristiano. Sennonché, teologia e filosofia sono le sole discipline «scientifiche» alle quali non basta la garanzia della «scientificità» perché possano adempiere il loro compito: ciò che in entrambe è in questione è l'esserci umano colto nel vincolo che lo rende umano, das menschliche Dasein in seiner menschlichen Verbindlichkeit, come si esprime Lowith alla fine del secondo articolo qui presentato 23 • Anche nella prospettiva teologica, almeno in quella della teologia protestante, il tratto umano è fissato in termini esclusivamente umani, al punto che Lowith può dire che la teologia può essere essa stessa una scienza profana, capace di accettare i risultati della filosofia profana senza avvertire questa accettazione come un ostacolo alla fede. In questo modo, secondo Lowith, alla filosofia è garantito il suo diritto di porre in questione tutto attraverso l'esercizio di una scepsi tanto radicale da coinvolgere anche la stessa scienza teologica, mentre la teologia può fare uso della comprensione filosofica che l'uomo ha di sé senza bisogno di giustificare quest'uso esibendo l'ampiezza e la neutralità del fondamento ontologico di quella comprensione, la quale proprio perché è umana si fonda sulla sua stessa provenienza esistentiva. La teologia protestante può servirsi positivamente di qualunque comprensione profana proprio perché ritiene che la fede in Cristo non comporti alcuna trasformazione della natura dell'uomo: il cristiano comprende se stesso nello stesso modo in cui si comprende l'uomo profano. La teologia dialettica non fa che accentuare questo tratto quando diffida di qualunque determinazione empirica della fede e può affidarsi, nell'analisi dell'uomo, alla filosofia antropo-

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Qui sotto, p. 151.

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logica di Feuerbach e di Nietzsche senza tuttavia accettarne il presupposto ateistico. In altri termini, se il rapporto tra teologia e filosofia non si risolve, come vorrebbe Heidegger, nella connessione tra due scienze, se deve quindi sussistere un'area comune che la scepsi filosofica impone di determinare in modo esclusivamente antropologico, allora, entro questa prospettiva, alla teologia non rimane che l'accettazione di fatto di una condizione profana dell'uomo: la tesi dell'ateismo «scientifico» sostenuta da Lowith non intende trarre positivisticamente dallo sviluppo delle scienze la conclusione che la teologia non ha fondamento scientifico, ma solo mostrare che la filosofia, a partire dal secolo XIX, ha il compito critico di mantenere il sapere scientifico, compreso quindi quello della teologia, entro il limite antropologico e di sottrarlo all'ambito teologico. Del resto, l'alternativa tra fede e sapere è posta solo con il Cristianesimo e con la modernità che ne è scaturita: per i Greci, infatti, la episteme non fa che chiarificare ciò che è già dato nella doxa, senza che questa chiarificazione comporti l'esclusione del sapere a favore del credere o viceversa. Per i Greci, la teologia stava al culmine del sapere filosofico e non rappresentava l'ambito di ciò che era accessibile solo attraverso il sapere tramandato della religione pubblica. Solo con il Cristianesimo nasce l'esigenza di conciliare gli ambiti contrapposti del sapere e del credere. Solo la filosofia nata dopo l'avvento del Cristianesimo deve scontrarsi o conciliarsi con l'esigenza dogmatica di una fede nella Rivelazione 24 • È dunque un compito specificamente moderno quello di dovere conciliare fede e sapere, teologia e filosofia, un compito che può essere assolto solo quando sia stato chiarito il presupposto del sapere umano. Come tendono a mostrare i due articoli che seguono, questo chiarimento non può venire dall'ontologia fenomeno1~ Cfr. K. LowITH, Atheismus als philosophisches Problem, nel voi. III delle Samtliche Schriften, cit., p. 331 ss.

Nota introduttiva

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logica, che solo marginalmente si inserisce nell'intento antropologico della filosofia più recente: è necessario rimettere la filosofia sui piedi, anche se non nel modo, precisa Lowith, con cui Marx voleva capovolgere Hegel2 5• Non si tratterebbe di negare qualunque determinazione trascendente, ma anzi di fissare il presupposto ultimo di ogni comprensione che l'uomo possa avere della propria vita. Nessuna scienza, neanche l'ontologia, può fondarsi da sé. È un residuo idealistico, secondo Lowith, lo sforzo, ancora riconoscibile in Heidegger, di fondare il pensiero senza uscire dal pensiero. A determinare la finitezza del punto di vista non idealistico, il suo stare di qua rispetto alla vita, non è tanto la naturalità dell'uomo assunta come tale, quanto piuttosto il fatto che qualunque considerazione del pensiero resta legata ad una determinazione che non appartiene al pensiero stesso. In questo senso, il terreno sul quale dovrebbe muoversi una filosofia che tenga conto delle proposte critiche di Feuerbach, Nietzsche e Dilthey è quello della filosofia antropologica che eserciti la scepsi di fronte a ciò che pretende di trovare il proprio senso al di fuori di una derivazione rigorosamente umana. La filosofia antropologica non si ripromette tanto di ricordare all'uomo contemporaneo che l'uomo appartiene alla «natura» prima che a qualunque altro ambito, quanto piuttosto di mostrare come questa prima appartenenza definisca anche l'appartenenza ad altri ambiti, come quindi la naturalità di un' esistenza umana non sia una determinazione di contenuto che possa essere posta accanto ad altre. L'esserci è «umano» e «naturale» solo in quanto è esserci uberhaupt: questo semplice esserci è il tema della filosofia nella misura in cui non è definito dalla sua appartenenza alla natura, bensì dall'apertura che lo costituisce. Lowith sembra voler mostrare che all'osservazione filosofica non è mai offerto un esserci

zs

Cfr. qui sotto, il secondo articolo, p. 132.

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puramente naturale ed umano, sul quale poi potrebbe essere edificato un esserci non più esclusivamente naturale. L'osservazione filosofica, secondo Lowith, procede all'inverso: attraverso l'esercizio della scepsi tende a riportare l'esserci, edificato nella cultura e nella religione, alla sua radice «naturale», naturale grazie al lavoro critico della filosofia. La proposizione che apre il secondo articolo qui presentato dev'essere letta nel senso suddetto: che un glaubiges Dasein (un esserci improntato alla fede, un'esistenza di fede) sia «umano e naturale», anche se confrontato con la «natura» può sembrare addirittura innaturale, e sia anche un esserci uberhaupt, è la condizione necessaria perché l'oggetto tematico della teologia possa essere analizzato «scientificamente» dalla filosofia. La filosofia deve, per così dire, istituzionalmente considerare solo la parte di qua della fede: l'ateismo scientifico nega la fede solo nella misura in cui la fede pretenda di contrapporsi alla naturalità dell'uomo. Così, ciò che Lowith rimprovera alla teologia è di cercare nell'analisi filosofica dell'esserci il tratto neutrale che dovrebbe scaturire da una descrizione pienamente oggettiva. Con l'esercizio della scepsi, una filosofia che sia davvero antropologica riesce a mantenere aperti quei problemi decisivi che la vita stessa lascia aperti, rimettendo interamente «all'uomo la libertà vincolata storicamente di vivere e di morire in modi fondamentalmente diversi» 26 • Questa filosofia mira soprattutto ad evitare quell'oscurità che inevitabilmente rimane nei sistemi filosofici chiusi, ad evitare cioè la tentazione sistematica che tende a sovrapporre la conclusione filosofica alla problematicità della vita. Poiché è refrattaria a qualunque tentativo troppo diretto di accesso e se ne avverte la presenza solo nelle trasformazioni, come quando il non credente diventa cristiano o il credente diventa filosofo, questa dimensione originaria-

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Qui sotto, il secondo articolo, p. 129.

Nota introduttiva

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mente problematica della «vita» non può avere il carattere della «struttura» ontologica, né essere una determinazione neutrale o semplicemente formale. In altri termini, come suggerisce la conclusione del secondo articolo qui presentato, la realtà di teologia e filosofia poggia originariamente sulla realtà di teologi e filosofi, la quale, a sua volta, più originariamente poggia sulla realtà dell'uomo: il problema della distinzione di teologia e filosofia dev'essere ricondotto all'incontrarsi e al separarsi, nella vita stessa di ogni uomo, di due diversi modi di condurre e di interpretare la propria esistenza, quello «trascendente» e quello «trascendentale». La coscienza della separazione di questi due modi dipende interamente dallo svolgimento della singola vita umana, per così dire, dalla storia personale di ognuno. Una discussione «scientifica» del rapporto tra le due discipline che non riesca a tenere conto di questo sfondo antropologico o che ne tenga conto solo riproducendone in modo formalizzato le motivazioni, che non riesca cioè a cogliere il particolare nesso che qui lega l'aspetto scientifico alla vita umana stessa, una discussione che quindi pretenda di svolgersi interamente sul piano della neutralità scientifica e di formalizzare anche il tratto antropologico, riducendolo a struttura ontologica, è destinata a non cogliere mai il suo oggetto tematico o, tutt'al più, a «decidersi» tra teologia e filosofia solo nel senso della libertà accordata allo studente di teologia o di filosofia relativamente ai suoi oggetti di studio. Proprio perché teologia e filosofia non sono mai interamente soltanto scienza, la «reale decisione» per l'una o per l'altra risale alla vita stessa: chiunque entri nella scienza ha già preso una decisione che la coscienza scientifica può solo contribuire a chiarificare. La libertà in base alla quale ci si decide per la teologia o per la filosofia non è mai solo «accademica»: ha probabilmente un qualche significato il fatto che nella lettera a Lowith citata poco sopra Heidegger insista sull'esigenza di limitare il rapporto con l'allievo all'ambito puramente accademico e sostenga di non avere

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mai cercato di influenzarlo quanto al «tratto cristiano» 27 • Evidentemente, sin dall'inizio Heidegger si è accorto che l'allievo cercava nel suo insegnamento qualcosa che in quell'insegnamento non poteva essere trovato: la radice ontica dell'ontologia non indica un'origine antropologica, bensì solo il factum di una preliminare comprensione del senso dell' essere 28 • La comprensione ontologica, così com'è presentata in Essere e tempo, non riguarda l'esistenza stessa, che ogni volta è già «decisa» per il fatto che essere o non essere se stessi è un problema che tocca solo l'esistere stesso, bensì la «struttura» da cui l'esistenza è costituita. L'insieme di questa struttura che non è mai implicata nelle vicende dell'esistenza (il tratto esistentivo) può essere esibito solo attraverso il metodo fenomenologico. Ed è però proprio questo tratto strutturale che non ricade mai nell' esistentivo (non è mai, nei termini di una Lebensphilosophie, vita vissuta) a far sì che il rapporto tra filosofia e teologia non si decida solo sul piano esistentivo, sul piano della visione del mondo, come vorrebbe Lowith, al di fuori cioè di qualunque «sapere»; tale rapporto esige invece un ambito che sia preliminare rispetto al sapere positivo, un ambito nel quale il «saputo» (nei termini di Essere e tempo bisognerebbe dire «il fenomeno in senso caratteristico») non ha 27

Cfr. Drei Briefe Martin Heideggers an Karl Lowith, cit., p. 31. Nella lettera del 20 agosto 1927, Heidegger scriveva a Lowith: «La natura dell'uomo non è qualcosa per sé che poi aderisce allo spirito. Ci si chiede se vi sia una possibilità di ottenere a partire dalla natura un fondamento e un filo conduttore per l'interpretazione concettuale dell'essere dell'esserci, o a partire dallo spirito, o da nessuno dei due, ma a partire invece originariamente dalla totalità della stnmura d'essere in cui, dal punto di vista del concetto, il tratto esistenziale ha per la possibilità dell'ontologia senz'altro un primato. L'interpretazione antropologica, infatti, può essere sviluppata come interpretazione ontologica solo quando sia stata chiarita una problematica ontologica. [...] Anch'io sono convinto che l'ontologia possa essere fondata solo onticamente, e credo che prima di me nessuno l'abbia visto e detto esplicitamente. Fondare onticamente non significa, però, riferirsi e retrocedere arbitrariamente a qualcosa di ontico; per l'ontologia, infatti, il fondamento è trovato solo quando si sappia che cosa sia l'ontologia stessa e si lasci che essa si diriga in quanto tale verso il fondamento» (ivi, p. 34.). 28

Nota introduttiva

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ancora alcuna positività. Nell'insieme del progetto di Essere e tempo, la posizione ontica assegnata da Heidegger alla filosofia non è quindi il punto di partenza per il raggiungimento di un'autonomia dell'ontologia, la cui intenzione, un'intenzione sostanzialmente idealistica secondo Lowith, sarebbe ancora una fondazione nel pensiero. Nell'ontologia fenomenologica, l'ontico non è abbandonato in vista di una sorta di «logica dell'ontico », logica nella quale la realtà sarebbe ritrovata come comprensibilità concettuale29, ma anzi solo lì è trovato compiutamente proprio perché se ne è appreso l'essere (non il concetto). In conclusione30 , il rapporto tra teologia e filosofia diventa per Lowith, nei due articoli qui raccolti, un modo per mostrare che nell'ontologia fenomenologica di Heidegger il rapporto con l'essere è fatto derivare dall'assunzione di possibilità particolari della vita umana, formalizzate e neutralizzate in modo da apparire come le strutture che danno all'essere uberhaupt il suo «senso». L'assunzione di tali possibilità, tuttavia, non è arbitraria, ma risale all'interpretazione cristiana dell'esistenza umana, da Agostino e Lutero fino a Pascal e Kierkegaard. Ora, Lowith non si chiede tanto se sia legittimo considerare come neutrale il tratto esistenziale che emerge dall'analisi heideggeriana, se non sia cioè troppo facile utilizzare teologicamente come neutrali strutture che derivano già esse stesse dall'interpretazione che il Cristianesimo ha di fatto dato della vita umana; si chiede invece se la teologia dialettica e l' ontologia esistenziale, che traggono entrambe la loro ispirazione più profonda da Kierkegaard, non finiscano per alterare proprio il significato che Kierkegaard ha assegnato al con29

Cfr. qui sotto, p. 37. Il lettore italiano può trovare ulteriori indicazioni sul pensiero di Lowith in: A. CARACCIOLO, Karl Lowith, Morcelliana, Brescia, 1998 (la ed. 1974); M. C. PIEVATOLO, Senza saenza né fede: la scepsi scon·ografica di Karl Lowith, ESI, Napoli, 1994; O. FRANCESCHELLI, Karl Lowith. Le sfide della modernità tra Dio e nulla, Donzelli, Bari, 1998. 30

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cetto di esistenza, quando si servono di questo concetto come di una determinazione puramente neutra e formale, mentre Kierkegaard, con la sua lotta contemporaneamente a favore del Cristianesimo e contro di esso, proponeva un' «arte dell'esistere» con la quale fosse evitato tutto ciò che non richiede il reale «esistere» e per il quale basta essere lì. Quest' «arte dell'esistere» è certamente più vicina a quella problematicità della vita che Lowith ritrova nel tratto propriamente antropologico di quanto possa essere vicina all'esistenza intesa come «sostanza» dell'uomo, intesa cioè come qualcosa cui si può aderire «accademicamente», senza coinvolgere il proprio essere-uomo31 •

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Cfr. qui sotto, la conclusione del primo articolo, p. 110.

I

Linee fondamentali del passaggio della fenomenologia alla filosofia e loro rapporto con la teologia protestante Edmund H usserl è il fondatore di ciò che oggi chiamiamo fenomenologia. La tendenza della fenomenologia raggiunse un primo risultato nelle Ricerche logiche di Husserl (1900); ricerche «logiche», che nel primo volume contengono i «prolegomeni alla logica pura», nel secondo le «ricerche sulla fenomenologia e la teoria della conoscenza», e nel terzo gli «elementi di una spiegazione fenomenologica della conoscenza». Nella diversità dei titoli delle Ricerche logiche si precisa la graduale formazione di un indirizzo della ricerca filosofica - inizialmente non ancora stabilito - che mira ad una fenomenologia «pura» che sia già in se stessa «filosofia». Dai Prolegomeni alla logica pura si sviluppa una «fenomenologia» della conoscenza, che inizialmente procede ancora in accordo con la «teoria» della conoscenza, ma che alla fine raggiunge una spiegazione della conoscenza completa e definitiva, di tipo puramente fenomenologico. Ma nell'opera principale di Husserl la filosofia non si risolve, come emerge apertamente fin dal titolo, nella fenomenologia; piuttosto ciò che è presentato ora (1913) nell'ambito di un annuario di «filosofia» e di «ricerca fenomenologica» di nuova fondazione sono idee «idee» sviluppate in modo molto concreto - per una «fenomenologia pura» e una «filosofia fenomenologica». Fino a che punto, tuttavia, sia stato ormai raggiunto un legame con la grande tradizione della filosofia classica, scaturito dalla trattazione fenomenologica di problemi oggettivi, fino a che punto la filosofia insieme alla sua storia sia ora essa stessa inclusa nella fenomenologia, quanto poco dunque filosofia «e» fenomenologia procedano più o meno separa-

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tamente l'una rispetto all'altra, lo si vede soprattutto nel1' elaborazione dei problemi fenomenologici fondamentali (orientata completamente in base alla storia della filosofia) che Heidegger svolge in Essere e tempo e, con particolare chiarezza, in Kant e il problema della metafisica: un'interpretazione fenomenologica di Kant che dichiaratamente non vuole essere altro che una «ripresa», non vuole cioè essere altro che una trasformazione che, riprendendo il problema «accaduto» in un punto della storia, lo conservi. Mentre inizialmente sembrava che la fenomenologia volesse secondo la sua tendenza incominciare totalmente da capo, per filosofare in piena libertà rispetto alla storiografia filosofica e al suo «danno per la vita» e puramente sulla base delle cosiddette cose o dei fenomeni, ora al contrario sembra che l'autentica fenomenologia inizi con Aristotele e cessi già con la Fenomenologia dello spirito di Hegel e che la storia della filosofia non classica del XIX secolo sia filosoficamente, e di conseguenza anche fenomenologicamente, irrilevante. Questo passaggio non è casuale: non fa che rispecchiare sul piano del filosofare quel che è avvenuto in tutti i campi, ossia l'avviarsi di un «espressionismo» senza radici sui binari conservatori di una «nuova oggettività», binari che preservano e rinnovano la tradizione (come quel che, per esempio, trova espressione nell'«architettura dell'avvenire» di Le Corbusier). Così, il tentativo di procedere «in modo puramente oggettivo» non è più legato alla fantasia. Inizialmente il pathos specifico della fenomenologia è stato quel pathos del tutto non patetico della mera descrizione e analisi dei fenomeni intuibili immediatamente e dati nella prossimità. È all'immediata identificabilità dei concetti inerenti ai fenomeni dati, alla trasparenza dei concetti fenomenologici per un intelletto teoreticamente ingenuo, ossia rudimentale, capace di vedere senza alcuna elaborazione del pensiero, che in primo luogo la fenomenologia deve anche quell'interesse che ha suscitato in tutti quelli che

Rapporto con la teologia protestante

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erano stanchi delle speculazioni e delle costruzioni teoretiche, e che nonostante tutto non si sono accontentati della maniera di pensare della scienza positiva. Allo stesso carattere «naturale» e «primitivo» del suo metodo la fenomenologia deve anche il rimprovero di non «spiegare» alcunché, ma di limitarsi a descrivere e sviluppare sottilmente solo ciò che si spiega da sé. Quel che di speciale ed efficace era contenuto nelle Ricerche logiche era proprio il fatto che Husserl indagasse i concetti fondamentali della logica e della teoria della conoscenza - messi a disposizione dalla tradizione - in modo realmente nuovo e non prevenuto. Husserl cercava i fondamenti naturali e originari dei termini logici e li trovò in fenomeni logici, ossia nelle manifestazioni reali del «logos», quindi soprattutto nel «discorso», nell'espressione e nel significato, secondo i termini che formano il titolo di una di queste ricerche logiche 1• Husserl prese dunque le mosse dal più che legittimo pregiudizio specificamente fenomenologico secondo cui anche le astrazioni della logica devono essere fondate in concrete e reali manifestazioni della «coscienza logica», e che le astrazioni della logica possono essere comprese solo a partire da tali manifestazioni 2 • Husserl pensava che queste manifestazioni poste come fondamenti e realmente visibili o, per meglio dire, tali da poter essere accolte nell' «esperienza» e «vissute», si dessero nelle strutture intenzionali 3 della «co1 Cfr. E. HusSERL, Fonnale und transzendentale Logik, in Husserliana, voi. XVII, a cura di P. Janssen, Martinus Nijhoff, L'Aia, 1974; tr. it. di G. D. NERI,

Logica fonnale e trascendentale, Laterza, Bari, 1966. 2 Questo era già anche il principio di Schelling, quando dice: «Lo stesso concetto astratto con cui la nostra conoscenza gioca dipende da una esperienza che si muove a partire dalla vita e dall'essere». 3 Gli atti della coscienza sono «intenzionali» non tanto per il fatto di «riferirsi» ad oggetti e neppure per il fatto che gli oggetti, in quanto sono ciò che di volta in volta è inteso, «risiedano» negli atti dell'intendere; l'intenzionalità della coscienza, invece, non significa originariamente nient'altro che il carattere essenziale proprio della conoscenza, quello di essere cioè una coscienza di qualcosa, non però mera coscienza in riferimento ad oggetti semplicemente presenti al di là della coscienza. Questa intenzionalità della coscienza ha la sua concreta inter-

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Ontologia, fenomenologica e teologia, protestante

scienza». Così, per esempio, il giudizio rimanda ad «esperienze vissute dalla coscienza» o «atti» del giudicare effettivo, l'identità di conoscenza ed oggetto e la «verità» del conoscere oggettivo contenuta in tale identità o identificazione rimandano ad atti intenzionali dell'identificare, il significato delle espressioni logiche e delle espressioni in generale rimanda ad atti intenzionali del ritenere, dello spiegare, del far notare e del significare. Tutti gli oggetti logici, in questo modo, sono visti nella loro intima correlazione con gli atti della coscienza che assegnano senso o, come dice una volta Husserl in modo molto paradossale: ricondotti o «ridotti» ad «esperienze vissute di carattere logico». La generale tendenza di fondo della fenomenologia in quanto tale è dunque un regresso che riduce tutto ai fenomeni originari. Senza che con ciò sia già determinato in qualche modo in maniera più precisa il metodo per togliere quel che copre i fenomeni, tuttavia la massima che unifica e regola tutta la fenomenologia è e rimane la seguente: via dalle costruzioni immaginarie e verso i fenomeni che possono essere esibiti. E questo lasciar-vedere, non prevenuto e quindi «naturale», il cui oggetto e la cui modalità si mostrano insieme ad esso dovrebbe essere garantito ad un primo livello dalla funzione metodica della descrizione, in opposizione a quella prevenzione che è naturale innanzitutto nella conoscenza visiva, sia che si tratti dei fenomeni della «percezione» (W. Schapp ), oppure delle «illusioni» sensoriali (Leyendecker), del «volere» e dell' «intenzione» (Pfander), dei fenomeni «estetici» (M. Geiger), dei fenomeni matematici (O. Becker), o della struttura fenomenica dell'amore e dell'odio, i cosiddetti «sentimenti della simpatia» (Scheler), oppure anche della struttura ontologico-

pretazione in Heidegger come un modo originario di essere dell'esserci, in quanto essere già sempre presso qualcosa e questo «essere-presso» è a sua volta interpretato a partire dalla trascendenza dell'esserci come un originario andare oltre se stesso.

Rapporto con la teologia protestante

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formale delle determinazioni dell' «esserci», quali la «curiosità», la «paura» e l' «angoscia», per citare solo alcuni dei modi caratteristici in cui si presenta la fenomenologia. La descrizione più o meno analitica ha in tutti questi casi il senso negativo di una non-costruzione. Considerare un «oggetto della conoscenza» come un fenomeno non significa allora in primo luogo altro che questo: non costruirlo alla maniera della teoria della conoscenza, ma vederlo, coglierlo, descriverlo e spiegarlo, così come esso appare realmente senza prevenzioni 4 • Qualcosa che sia visto, come «fenomeno», ad esempio l' «acqua», non è dato come una «sostanza» chimica fissata scientificamente dalla formula H 20; è dato piuttosto come qualcosa che si mostra nella realtà, ad esempio come acqua di un fiume o pioggia o anche acqua potabile, e dunque come qualcosa che si trova sempre all'interno di contesti determinati della vita umana. Oppure, un «tavolo» non è dato originariamente come una cosa corporea materiale di peso, estensione, grandezza, forma e colore determinati, ma si presenta in modo naturale e originario sempre come oggetto d'uso e questo oggetto come parte di un arredamento e in quanto parte di un arredamento umano rimanda a determinate abitudini della vita dell'uomo e deve di conseguenza essere interpretato a partire da esse 5 • Un «tavolo» perde il suo senso, ossia non è assolutamente più un «tavolo», se spariscono quelli che sanno usare qualcosa che ha le fattezze del tavolo come «tavolo», quelli che sanno vederlo e coglierlo e «trovarsi d'accordo» su di esso come tale, quelli dunque

4 Il concetto originario, anche se primitivo, di fenomeno inizialmente ha dunque ancora una stretta affinità con il «fenomeno» in senso goethiano; se ne allontana però nuovamente con il passaggio della fenomenologia dalla mera descrizione all'interpretazione filosofica, avvicinandosi su questa strada al concetto della Fenomenologia dello spin'to di Hegel. ~ Heidegger per primo ha fondato sulla fenomenologia questo modo originario di condurre l'analisi, mentre Husserl partiva ancora dalla cosa «isolata» della percezione teoretica e dall' «alone» che circonda la cosa.

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che sanno, ad esempio, come sedersi al tavolo; un gatto salta su un «tavolo» solo in senso antropomorfico, e per un selvaggio, forse, un tavolo europeo è davvero solo un oggetto di legno insolito e privo di senso, proprio come pretendono le teorie costruttive non fenomenologiche della conoscenza. Oppure la «volontà», intesa in modo originario, non è affatto secondo quel che è definito, per esempio, nella psicologia di H. Ebbinghaus, ossia non è mai «impulso divenuto previdente»; chi potrebbe trovare infatti in questa spiegazione genetica una descrizione e definizione preliminari del fenomeno della volontà? E altrettanto poco la volontà ci è data secondo quel che stabilisce la definizione di Miinsterberg, secondo quanto egli dice «sulla base dell'introspezione preliminare», ossia come «la rappresentazione di un risultato da raggiungersi con la propria attività nel futuro, rappresentazione congiunta al sentimento che questa attività si svolge o per lo meno si prepara da sé», dunque la sintesi di una rappresentazione e di un sentimento in relazione con un'attività. Il reale fenomeno del volere umano richiede una determinazione molto più fondamentale e dunque anche più generale, giacché la volontà determina il rapporto dell'uomo, almeno dell'uomo europeo, con il mondo, con gli altri e con se stesso in modo così radicale che il nostro intero concetto ordinario di realtà (Realitatsbegriff), come hanno mostrato Dilthey e Scheler, scaturisce dalle esperienze di resistenza delle intenzioni della volontà, e Nietzsche ha potuto compiere tutta la sua interpretazione della vita umana fino al suo «riconoscimento» come interpretazione della volontà di potenza, forte o debole, con cui si agisce su di sé e sugli altri. La guida, resa sufficientemente esplicita, di una fenomenologia dell'esistenza umana e dell'insieme del suo mondo, dunque, è sempre necessaria perché sia possibile interpretare originariamente secondo la cosa e il senso, ossia appunto fenomenologicamente, particolarità come l' «acqua», il «tavolo» e la «volontà».

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Ora, però, il «regresso» di cui tale fenomenologia ha bisogno richiede, secondo il senso che gli è proprio, un trattamento «distruttivo» nel senso più ampio di ciò che è preliminarmente dato, giacché i fenomeni «originari» e «puri» non sono «dati» senz'altro. Il metodo della riduzione e dello scoprimento fenomenologici porta, ed è la prima volta che accade, tali fenomeni ad essere dati in modo vero e proprio e fa sì che le cose note diventino conoscenza. Nelle Idee di Husserl l'operazione di togliere quel che copre è svolta dal metodo delle cosiddette riduzioni ai diversi livelli, e ciò rispetto a cui avviene la riduzione è la cosiddetta «coscienza pura», nella quale prima che altrove i fenomeni si mostrano e si costituiscono nella loro purezza. Se allora la tendenza di fondo complessiva della fenomenologia è semplice e trasparente, la sua esecuzione concreta, volta al raggiungimento di una fenomenologia «pura», è invece complicata e nient'affatto scontata (pura sia riguardo ai fenomeni, sia in considerazione del logos che li illumina). Infatti ai fenomeni si volgono anche altre scienze, da tempo conosciute. Così si vuole indicare la psicologia come scienza dei «fenomeni» psichici. la scienza naturale come scienza di quelli fisici; non diversamente si parla di fenomeni storici o culturali riguardanti rispettivamente la storia o la scienza della cultura; e lo stesso si dica per tutte le scienze che abbiano un oggetto reale. Per quanto diversi possano essere qui i significati del termine «fenomeno» e per quanti altri ne possa acquistare, è certo che la fenomenologia comprende tutti questi «fenomeni» e secondo tutti i significati, ma in un atteggiamento così profondamente diverso, che ogni significato si modifica rispetto alle scienze ormai familiari. Solo in questa modificazione il fenomeno entra nella sfera fenomenologica. Comprendere questa modificazione, [... ] realizzare l'atteggiamento fenomenologico, acquistando coscienza scientifica delle sue caratteristiche e di quelle dell'atteggiamento naturale, questo è il primo compito, per nulla facile, che noi dobbiamo assolvere, se vogliamo guadagnare il terreno della fenomenologia e impadronirci scientificamente della sua particolare essenza6 • 6

E. HussERL, Ideen zu einer reinen Phanomenologie und phanomenologi-

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E solo questi fenomeni della fenomenologia pura della coscienza pura, «resi puri sotto il rispetto trascendentale» mediante determinate riduzioni, sono chiamati a formare, subito all'inizio delle I dee, il tema originario di quella fenomenologia, che pretende di essere «scienza che fonda la filosofia»; e, nello stesso tempo, a questa fenomenologia fondamentale è attribuito il carattere di modalità di ricerca che è lontana dal pensiero «naturale», da quel pensiero cioè che opera positivisticamente, nel senso più ampio, con tesi positivamente scientifiche, ed è quindi prevenuto, anche se e proprio perché è vicina al pensiero «originario» e non prevenuto. Neutralizzare il complesso delle abitudini mentali dominanti finora, con barriere che limitano l'orizzonte del nostro pensiero, afferrare in piena libertà e porre in maniera radicalmente nuova i problemi filosofici, accessibili solo grazie ad un allargamento di orizzonte - tutto ciò costituisce un arduo proposito, che non può essere comunque alleggerito. Infatti la difficoltà di comprendere l'essenza della fenomenologia, la sua problematica e i suoi rapporti con le altre scienze (in particolare con la psicologia)7, si deve alla necessità di assumere un atteggiamento completamente diverso da quelli che ci sono naturali nell'esperienza e nel pensiero. Muoversi liberamente in esso, senza ricadere nei vecchi atteggiamenti, imparare a vedere, a distinguere ed a descrivere ciò che sta dinanzi agli occhi esige studi speciali e faticosi8.

Dunque ciò che Husserl respinge come non fenomenologico non è certo il prendere le mosse dall'esperienza naturale e dalla sua prospettiva, bensì il permanere in questo orientamento dell'esperienza, orientamento che, privo

sche Philosophie, Libro primo, in Husserliana, voi. III, p. 3; tr. it., di E. F1uPPINI, / dee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Einaudi,

Torino 1965, p. 7. 7 Oggi ed in base all'analitica fenomenologico-ontologica dell'esserci di Heidegger si dovrebbe dire: «con l'antropologia». 8 HussERL, Ideen I, cit., p. 5; tr. it., p. 8.

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di riflessione e quindi inconsapevole della propria peculiarità, non riesce a considerare come presupposizione quel che esso pone. Come punto di partenza è però conservato il «punto di vista naturale» dell'uomo sul mondo, benché sin dall'inizio la prospettiva naturale dello sguardo rivolto ai cosiddetti «fatti» e alle relazioni di fatto sia stata rigorosamente distinta dallo sguardo filosofico-fenomenologico orientato alle cosidddette «essenze» e alle connessioni di essenze; e di conseguenza le Idee, subito nel primo capitolo, si occupano della differenza e della connessione tra «fatti ed essenze». Del senso di ogni singolo fatto, che in quanto tale è «casuale» e «individuale», fa dunque parte un'essenza «necessaria» e «universale», ossia di avere senz'altro rapporti a priori come condizione della possibilità del singolo fatto; ma la conoscenza dell'essenza pura di nudi o semplici fatti sarebbe dal canto suo indipendente da ogni conoscenza empirica di fatti. Questa differenza fra essenza e fatto, differenza decisiva per l'idea husserliana di fenomenologia, si ripresenta poi, anche se sostanzialmente modificata, nell'orizzonte di un problema completamente differente, nella distinzione di principio fra rapporto ontico e rapporto ontologico con l'essere e nei corrispondenti modi di comprensione. Mentre però in Husserl la metessi platonica di fatto ed essenza rimane un problema irrisolto, come già notava Natorp nella sua recensione critica delle I dee, in Heidegger la connessione fra realtà ontiche, quali ad esempio quelle umane-troppo umane (antropologiche), e le loro «condizioni di possibilità» puramente ontologiche è problematizzata esplicitamente, benché la tradizione specificamente classica della filosofia perduri, anche in Heidegger, nella misura in cui l'iniziale posizione ontica assegnata alla filosofia è qui considerata come un semplice punto di partenza e spinta a progredire verso una ontologia indipendente retta da un intento concettuale, verso una logica dell'ontico intesa nel senso di una razionalità del reale, cioè di una sua comprensibilità concettuale. È un

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progresso problematico che avanza di pari passo con il passaggio della fenomenologia dalla mera descrizione dei rapporti di fatto alla mera intepretazione o esplicazione di quegli stessi rapporti, e che può essere caratterizzato con Nietzsche in modo pregnante come differenza problematica fra ciò che una cosa «è» e ciò che essa «significa»; infatti solo nella misura in cui l'essere di una cosa si manifesta o addirittura si concentra nel suo significato, allora si manifestano anche l'ontico (il reale) nell'ontologico e la «sostanza» dell'uomo nella sua «esistenza», intesa come significato ed interpretazione determinati della sua natura sostanziale. Si può ora sostenere, come tesi provvisoria, che da una parte la fenomenologia sia ricaduta nella dimensione della filosofia propriamente detta nella misura in cui è passata dal metodo che, secondo la sua tendenza, le era inizialmente peculiare, quello di una «descrizione» non prevenuta dei fenomeni dati, all'analisi descrittiva della loro origine ed «interpretazione»; dall'altra, si può però affermare che nella stessa misura in cui il metodo della fenomenologia si fa indipendente e costruttivo, la fenomenologia corre il rischio di perdere quanto vi è di specificamente «fenomenologico» nelle sue interpretazioni. Poiché tuttavia l' analisi compiuta dalla descrizione non prevenuta indicherà essa stessa che anche questo procedimento metodico è già per parte sua eseguito e condizionato a partire da «pregiudizi» e «preconcetti» che inevitabilmente guidano la comprensione e che dunque forniscono già una implicita «interpretazione», e poiché l'interpretazione esplicita, che diventa consapevole dell'intenzione che guida la comprensione, in questo modo non fa altro che rendere manifeste le tendenze nascoste della comprensione stessa, allora tutto dipende dallo stabilire di quale specie siano i pregiudizi che guidano la comprensione e in quale misura, proprio perché non è possibile evitare la loro guida, abbia senso tendere ad un'interpretazione specificamente «priva di pregiudizi», «obiettiva» e «naturale» della vita umana. Poiché

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però il pregiudizio che guida la comprensione nell'interpretazione di ciò «che è l'uomo» è delineato preliminarmente da un ideale di esistenza proposto come modello, emerge allora come la domanda estrema e propriamente la prima e la più radicale, anche se per lo più tacitamente trascurata dalla coscienza «scientifica», quella concernente la giustezza e la verità umane dell'ideale che dà la misura ali' esistenza. Ma la misura critica di questo ideale può di nuovo essere solo la vita umana stessa, cosicché viene a cessare l'incertezza del ruolo svolto dall'ideale della propria esistenza per quanto riguarda la sua responsabilità di fronte a chi vive e pensa diversamente. Queste tesi devono essere confermate come filo conduttore di ciò che segue, sviluppate ora nel loro insieme e in questa misura «fondate». La fenomenologia, sottolineando il significato metodico della descrizione come via per trovare l'assenza di pregiudizi dall'analisi, si avvicina soprattutto agli intenti fenomenologici di Dilthey. Come nessun altro fra i contemporanei di Husserl, Dilthey ha infatti inaugurato la lotta contro la «spiegazione» teoretica, costruttiva dei fenomeni e cercato di fondare e sviluppare, inizialmente in controtendenza rispetto alla psicologia come scienza esplicativa, i suoi tre trattati sistematici sul terreno di una psicologia «fondamentale» nel senso di una psicologia «descrittiva e analitica» della vita umana. Dilthey definisce scienza esplicativa ogni conoscenza scientifica che proceda costruendo, mediante una connesione costruttiva, in particolare mediante una connessione causale, un ambito di fenomeni, come per esempio quello della vita dell'anima umana, partendo da un numero limitato di elementi determinati in modo univoco, al fine di rendere comprensibili in senso letterale i fenomeni. Il modello implicito di tutta la scienza che rende comprensibili i fenomeni in modo costruttivo e del concetto corrispondente di scientificità rigorosa è dato dalla moderna scienza costruttiva della natura. Il rigore spe-

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cifico della scienza della natura consiste proprio nello spiegare in modo primariamente costruttivo sulla ·base di elementi presupposti i fenomeni intuitivamente dati. Il presupposto consisteva in una determinata posizione [...] nei confronti della realtà. Sotto il segno del rapporto meccanicistico con la vita [... ], la teoria della conoscenza si formava in base al problema della realtà. La teoria si è formata sulla base del fattore di realtà muovendo dalla volontà. Tutti i predicati di verità sono stati ricondotti a questa circostanza. Il fare in quanto produrre effetti è stato la garanzia dell'essere in quanto esserfatto9.

In altri termini, alla base di questo modo di conoscere e di questa intenzione del conoscere sta una ben determinata visione del mondo che si è formata storicamente nel Rinascimento; una posizione ben determinata dell'uomo di fronte alla realtà, una posizione stabilita anzi con l'arbitrio, e una corrispondente teoria della conoscenza, con la quale sia possibile «costruire» il mondo, che può essere formulata in breve come segue: conoscere significa sapere come qualcosa sia stato fatto, prodotto, come sia stato realizzato in base alle «condizioni della sua possibilità» e, conseguentemente, sapere come debba essere compreso; il «fare»dunque anche il far comprendere - è il garante di ciò che è fatto e della comprensibilità prodotta. Questa tendenza teoretica del far comprendere poggia a livello antropologico su una tendenza generale, ed in particolare moderna, dell'uomo ad impadronirsi del mondo e di se stesso, su una volontà di conoscenza come forma della «volontà di potenza», il cui fondamento sociologico è l'«homo faber», ossia il primato del lavoro e dell'elaborazione umana all'interno della società borghese e proletaria - un legame 9 Briefwechsel zwischen Dilthey und York von Wartenburg [1877-1897], a cura di S. von der Schulenburg, Halle, 1923, rise. anast. Hildesheim, 1974, p. 178; tr. it. di F. Donadio, W. Dilthey/York v. Wartenburg, Carteggio 1877-1897, Guida, Napoli 1983, p. 284 s.

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che soprattutto Scheler ha messo in risalto riguardo a Nietzsche nel suo saggio Conoscenza e lavoro 10 • La «spiegazione» vale quindi come la vera via della conoscenza, in quanto chiarisce come qualcosa di dato fenomenicamente sia stato elaborato e costruito internamente, e non solo come sia strutturato secondo la sua apparenza fenomenica. Essa non vuole nemmeno comprendere i fenomeni dati, così come appaiono innanzi tutto e immediatamente, attraverso l'identificazione di descrizione ed analisi, bensì renderli comprensibili a partire da un'idea determinata, evitando o perlomeno abbreviando la via dell'osservazione non prevenuta; e per essa la comprensibilità di qualcosa non significa altro che la spiegabilità, e qualcosa è spiegabile solo qualora si possa mostrare come si debba intendere il suo apparire o il suo sembrare uguale a come appare, in particolare ali' osservazione «primitiva», «popolare» o «volgare» e alla sua opinione. Il fenomeno, così come si dà alla intuizione, vale come un semplice indizio, una prima e semplice apparizione, ossia come l'apparire dietro cui solo vi è il «mondo vero» dell'essere autentico come condizione essenziale della sua possibilità (logica o reale?), un vero retromondo della metafisica ontica o anche ontologica verso il quale deve fare ritorno la conoscenza che si voglia fondamentale e fondante. Il mondo «dato» fenomenicamente non si rende realmente comprensibile attraverso una spiegazione costruttiva; infatti una spiegazione «comprende» un fenomeno naturale (per esempio, la luna) come appare immediatamente (cioè, come un disco o una falce di una lucentezza singolare e velata che solcando il cielo notturno diffonde nella natura e nell'uomo un determinato stato d'animo), solo nel modo in cui essa mostra proprio ciò che allo sguardo ingenuo dell'osservatore naturale non appare direttamente, ma che può trovarsi per costruzione ad esem10

1926.

In M.

ScHELER,

Wissensformen und Gesellschaft, Der neue Geist, Lipsia,

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pio nelle leggi e nelle forze della fisica, ed è accessibile pertanto esclusivamente ad un esame scientifico, e che, per esempio, «fa» sì che la luna sembri così e non altrimenti. L'interpretazione esplicativa di carattere costruttivo non si sofferma perciò a lungo sulla descrizione analitica dei fenomeni più vicini, come è stato necessario all'inizio della spiegazione e ciò che in generale essa descrive inizialmente nei fenomeni concerne solo ciò che è ritenuto bisognoso di spiegazione e, in generale, degno di essere conosciuto e importante dal punto di vista scientifico o anche filosofico. Essa non descrive senza pregiudizi, ma solo con lo sguardo rivolto a ciò che può essere spiegato, che costituisce il fondamento e permette che qualcosa possa essere descritto; non descrive dunque ciò che appare e nel modo in cui appare, prescindendo completamente dal fatto che possa o meno essere spiegato e reso comprensibile in un modo o nell'altro. Ora, per Dilthey, sorge la questione critica della legittimità della trasposizione da parte della psicologia esplicativa del procedimento delle scienze naturali esplicative nella vita spirituale dell'uomo. Contro di essa Dilthey fa valere sin da principio l'obiezione decisiva, e specificamente fenomenologica, che ogni scienza, se vuole essere adeguata al proprio oggetto (e quindi oggettiva e scientifica) deve fondare il suo metodo sulla peculiarità del proprio ambito oggettuale. Infatti siamo autentici discepoli dei grandi pensatori della scienza naturale, non trasferendo i metodi da loro scoperti nel nostro ambito, bensì conformando la nostra conoscenza alla natura dell'oggetto da conoscere e richiamandoci all'oggetto della psicologia (come fa la scienza della natura con il proprio oggetto)

cioè in modo ad esso adeguato e quindi diverso dalle scienze della natura 11 • In tal modo Dilthey affidò la «natura» alla 11 Questo punto di vista fenomenologico di Dilthey vale, però, altrettanto bene e più che mai in riferimento alla questione, che tratteremo più avanti, della

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spiegazione costruttiva delle scienze naturali esistenti per riservare a sé, in modo complementare rispetto all'idea che la natura possa solo essere spiegata 12 , la comprensione analitica della vita dello spirito umano, pur continuando a seguire il filo conduttore delle scienze esistenti. Noi possiamo, ad esempio, attraverso la correlazione di causa ed effetto chiarire e spiegare il fatto che un sasso lanciato in aria ricada al suolo e giaccia successivamente immobile su se stesso; infatti il suo sottostare a delle leggi non è comprensibile in modo immediato, se non a rischio di venire frainteso antropomorficamente. Al contrario, pur senza il bisogno di presupporre una base costruttiva (sarebbe impossibile, infatti, qualunque spiegazione puramente scientifica) ci è chiaro il motivo per cui un uomo che sia caduto a terra può risollevarsi, sebbene proprio in questo esempio si veda l'insostenibilità di una astratta separazione fra natura spiegabile e vita umana comprensibile, dal momento che già la semplice circostanza che un uomo che sia caduto abbia eo ipso (in modo automatico) e non se ipsum (spontaneamente) la tendenza a risollevarsi, non è cosa che si possa interamente «comprendere». L'uomo non rimane semplicemente a terra come un sasso semplicemente presente, ma non si solleva neppure per motivazioni spontanee, personali e comprensibili. Certamente è il suo corpo a risollevarsi da sé, ma non per causa meccanica come accade a un pupazzo che torna sempre in piedi e neanche per causa biologica come avviene nei movimenti di radpossibilità che la teologia adotti l' «analitica» ontologica «dell'esserci» al fine di un'interpretazione teologica dell'esserci umano; infani, l'accesso metodico alle determinazioni concettuali dell' «esistenza creaturale» non può essere lo stesso dell'accesso all'esistenza «gettata» - anche qualora i due accessi si distinguessero solo come si distinguono la teologia protestante e la filosofia cripto-teologica. 12 Al contrario ci si dovrebbe chiedere se anche la natura, così come appare prima di ogni elaborazione scientifica, non sia tanto comprensibile quanto l'uomo, se anzi in certa maniera non sia più comprensibile dell'uomo; persino nelle interrelazioni fra gli uomini il comprendere naturale può ancora subentrare al posto di quello interpretativo, in particolare proprio quando non ci si comprende più mediante il logos umano, mediante il pensiero e il discorso.

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drizzamento delle piante una volta piegate. O, ancora, il fatto che un sasso lanciato in acqua «rimuova» necessariamente una certa quantità d'acqua pur non potendo essere compreso come qualcosa di umano, è tuttavia spiegabile scientificamente. Per contro le reazioni di un uomo che si trovi nella ressa sono comprensibili in maniera specifica. Dal punto di vista del puro volume l'uomo ha persino nella ressa un posto, cioè occupa uno spazio, eppure egli si sente oppresso sia a livello fisico sia a livello spirituale e a causa di tale situazione emotiva egli può reagire in un modo o nell'altro, però mai in una sola maniera, poiché le reazioni umane non sono puri effetti chimici conseguenti a determinate cause, ma conseguenze comprensibili nelle loro motivazioni. Davanti alla stessa circostanza ci si può comportare in modi differenti: si può cercare di evitare la ressa, sopportarla pazientemente, farsi largo alzando la voce e così via. Nella misura in cui, però, anche l'uomo e la sua vita spirituale (in virtù del carattere dell'intero «vivente») sono un pezzo di natura e un meccanismo naturale, molti fenomeni appartenenti alla vita umana non possono essere «compresi» semplicemente sulla base di motivazioni, ma solo spiegati causalmente 13 • Così, se lo spostamento di una determinata quantità d'acqua causato da una pietra può solo essere oggetto di una spiegazione (anche se i filosofi romantici della natura contesterebbero certamente persino questo fatto), altrettanto poco però può essere compreso l'atteggiamento umano di rimuovere le impressioni sgradevoli. Il concetto psicoanalitico fondamentale della «rimozione» è perciò non a caso un concetto ibrido, dal momento che in esso vengono unificati non senza ambiguità entrambi i modi di concepire la conoscenza: «rimozione»

13 Nel caso di un improvviso attacco di epilessia si può discutere molto se essa sia causata solo a livello anatomico-cerebrale oppure se essa abbia delle origini neurotiche a livello infantile, e quindi per via genetica sia giunta nella regione dei motivi specificamente comprensibili del comportamento umano.

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non significa dunque né un procedimento puramente meccanico che si svolge inconsciamente, né un comportamento pienamente cosciente e intenzionale; la rimozione è piuttosto qualcosa di ambiguo provocato dal fenomeno delle «intenzioni inconsce». Vi sono, dunque, svariate «motivazioni» di fenomeni che a seconda delle circostanze prevalgono l'una sull'altra e che di conseguenza giustificano interpretazioni diverse. Non può qui essere discusso in modo più preciso quale sia il concetto del comprendere che Dilthey considera determinante e analogamente quale sia il fondamento dei fenomeni della vita umana come obiettivo del regresso comprendente. È necessario chiedersi, piuttosto, sin dall'inizio se il «comprendere» (Verstehen) diltheyano, che in una «ermeneutica della vita» si connette all'ampiezza storica della vita umana, possa essere pensato fino in fondo per mezzo del comprendere che nella «analitica dell'esserci» heideggeriana si congiunge ad un esistere dell'esserci come sempre proprio, accentuato in modo esistentivo 14 • La domanda è ora la seguente: che cosa ha a che fare il comprendere che assegna alla fenomenologia il carattere di interpretazione filosofica con il descrivere meramente analitico che coglie il «tratto fenomenologico» di queste interpretazioni? Il puro descrivere non è certo ancora un vero comprendere. E tuttavia è proprio Dilthey che, contrapponendo alla spiegazione costruttiva una descrizione analitica, introduce la distinzione fra psicologia esplicativa e psicologia comprendente. Pertanto, per essere in generale capace di competere con la spiegazione (che in apparenza è più esigente), la semplice descrizione deve già contenere una qualche comprensione e quei pregiudizi che la anticipano o producono, o per lo meno deve poter condurre alla comprensione in modo immediato. La descrizione deve per prima cosa servire a liberarsi dai pregiudizi della spie14 A questo proposito si veda il confronto di G. Misch con Heidegger in «Philosophischer Anzeiger» (cfr. qui sotto, p. 98, nota 80).

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gazione. Essa è nel suo senso più proprio una descrizione priva di pregiudizi - espressione che compresa in modo corretto è semplicemente pleonastica. Anche la fenomenologia, in una tale accezione negativa, esige al posto delle costruzioni teoretiche la mera descrizione di ciò che è stato semplicemente osservato. Persino al livello filosofico che la fenomenologia ha raggiunto con Essere e tempo di Heidegger, dove certamente non si ha più a che fare con una semplice e ingenua descrizione analitica, il senso della descrizione rimane quello negativo, quantunque il suo autentico significato metodico non sia la descrizione in quanto tale, ma l'accezione ermeneutica del termine: in altre parole, alla descrizione viene attribuito il significato molto particolare di «descrizione cosciente dei propri pregiudizi». Heidegger quindi giunge a spiegare fenomenologicamente l'intima connessione di descrizione e comprensione. Questa comprensione, immanente in ogni «semplice» vedere e in ogni semplice descrizione di ciò che è visto, sarà chiarita con tre diversi esempi: la descrizione di una pianta, di un'opera d'arte e di un uomo. Prendo il primo esempio dagli Schizzi di fitobiologia di K. Goebel. Il proposito di queste Descrizioni è quello di osservare e descrivere minuziosamente ed in modo immediato le piante, in contrapposizione allo studio di esse mediato tecnicamente attraverso il microscopio. Prendiamo ora uno dei primi esempi delle Descrizioni mettendo in risalto come in questa descrizione sia già contenuta una comprensione: Il genere sargassum è interessante in quanto esteriormente presenta una conformazione corrispondente pienamente a quella delle piante superiori. In questa alga marina abbiamo fusti «fogliacei» e sul dorso delle foglie delle vescicole sferiche e peduncolate (che un tempo si era ritenuto fossero delle «bacche», cioè frutti) e delle esili gemme ramificate che ospitano gli organi della riproduzione. Tutti questi organi, foglie, vesciche (che per il fatto di essere piene d'aria servono a conservare le piante nell'acqua) e gemme, sono derivati evidentemente dalla trasformazione di

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parti originariamente uguali; la loro diversità attuale non dipende però solo dalla forma, ma presumibilmente anche dal modo in cui si sono sviluppati.

Questa descrizione implica una quantità di espressioni concettuali che in nessun modo sono puramente descrittive e che tuttavia rendono la descrizione utilizzabile in modo scientifico. Già nella prima proposizione, a guidare la descrizione sono termini connessi a concetti della comprensione: genere, interesse, articolazione, esteriore, superiore. Quando l'osservatore «ingenuo», relativamente privo di pregiudizi in quanto ancora impreparato dal punto di vista botanico, si trova davanti una di queste alghe marine, all'inizio non sa nulla di un «genere» sargassum. Ma solo perché questa pianta è caratterizzata come un genere, la descrizione (come fa Goebel e per il suo schizzo è essenziale che lo faccia) può procedere al modo di una distinzione comparativa, una distinzione comparativa all'interno di questo unico genere e nei confronti di generi più evoluti di piante. L'osservatore non ancora istruito non sa nulla neppure di generi, di piante superiori e inferiori, per cui molte piante possono essere da lui ritenute, sulla base del loro aspetto «esteriore», come una forma evolutiva di tipo superiore, sebbene dal punto di vista della storia dell'evoluzione ne rappresentino una di tipo molto inferiore. Inoltre per il botanico Goebel, che «comprende» già qualcosa di botanica, è «di interesse» in primo luogo la struttura morfologica, mentre per chi è impreparato in botanica forse lo sarebbe principalmente l'odore penetrante di queste alghe e la viscosità delle loro foglie incrostate. Ed il profano non metterebbe la parola foglie fra virgolette come fa invece Goebel, che capisce che sono foglie solo per modo di dire, perché invece le prenderebbe per ciò che a lui appare, cioè proprio come un «normalissimo» tipo di foglie. Goebel vede invece che sono foglie solo in riferimento alla loro forma esteriore, conosce cioè innanzitutto la differenza che

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passa tra le foglie che sono realmente tali e quelle che sono tali solo in apparenza; e conosce questa differenza non a partire da ciò che è descrivibile grazie ad un mero sguardo, bensì a partire dalla comprensione della funzione organica, dell'intima organizzazione e dello sviluppo di questa forma. Analogamente definisce le piccole sfere che si trovano su queste finte foglie non come le chiamavano i botanici del passato e come ancora oggi le chiamano i profani, ovvero «bacche», bensì vesciche; e le chiama diversamente poiché gli si è rivelato che esse non sono frutti, anche se tali appaiono, ma piccole bolle d'aria; e, ancora, non descrive questi contenitori d'aria sferici semplicemente in base alla loro forma bensì anche in base alla loro funzione. Descrive inoltre come bisogna intendere la forma dei germogli dei frutti, ossia come trasformazione di parti della pianta originariamente affini. Ovunque, in rapporto all'organizzazione interna, la forma esterna delle piante viene già vista ed analizzata nella descrizione come qualcosa di esteriore; e perciò, pur senza una ricerca anatomica esplicita ma semplicemente sulla scorta dei fenomeni visibili, vengono scoperte molte cose invisibili all'occhio non istruito, e per questo prevenuto, del profano in botanica. Anche per questo motivo, Goebel dà ai suoi schizzi il nome di schizzi di fito-«biologia» e spiega nell'Introduzione che la biologia considera le «parti del corpo vegetale non come dei pezzi nel senso della morfologia ma come organi». Nell' «in quanto qualcosa» dell'osservazione, però, non giunge ad espressione nient'altro che l'orientamento del comprendere, al cui interno procede la descrizione. Anche la descrizione, incolta e «sbagliata» dal punto di vista botanico, dell' osservatore relativamente ingenuo è già fondata, sia pure implicitamente, su un orientamento e un modo del comprendere siffatti. Per esempio, quando quest'osservatore vede le vescicole d'aria «in quanto» bacche, le vede in quanto bacche solo perché il suo vedere è guidato da una determinata preparazione pseudo-botanica. Traspone involontaria-

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mente un «concetto» corrente di bacca su di un oggetto che appare del tutto simile ad una bacca; anch'egli, quindi, considera sin dall'inizio questa conformazione nel senso di un determinato significato, la considera cioè a partire dalla comprensione, la interpreta direttamente e così facendo la fraintende. Il fatto di guardare e, parallelamente, di descrivere qualcosa che vediamo quindi, contiene già comunque un tratto esplicativo e lo contiene tanto immediatamente quanto già l'atto del vedere indica; in seguito questo tratto originario può poi essere esposto ed interpretato in modo mediato e portato ad una comprensione concettuale espressa in significati verbali. La correttezza e l'assenza di pregiudizi della descrizione sono quindi pienamente identiche alla correttezza e all'assenza di pregiudizi dell'interpretazione, della comprensione esplicativa fornita nella visione. Queste prospettive che guidano la descrizione (che possono comprendere erroneamente o correttamente ma in ogni caso comprendono) emergono in modo ancora più evidente che nella descrizione delle piante quando si tratta della osservazione e della descrizione di opere d'arte. Qui si mostra, fin da subito in genere, che e per quale motivo un osservatore, in ragione degli intenti che lo guidano nella comprensione, vede lo stesso oggetto in modo diverso rispetto ad un altro osservatore, e non che lo vede allo stesso modo, solo giudicandolo e valutandolo diversamente. Prendiamo come esempio due descrizioni molto note della stessa opera d'arte che lasciano emergere con particolare evidenza il riferimento alla comprensione, poiché lasciano emergere che qui «lo stesso oggetto» è visto sin dall'inizio in modo completamente diverso, perché è compreso in modo completamente diverso: si tratta della descrizione del Giudizio universale di Michelangelo fatta rispettivamente da J. Burckhardt (nel Cicerone) e da York von Wartenburg (nel Diario italiano). Burckhardt scorge fin dall'inizio un «difetto principale» nella rappresentazione del Giudizio universale; il suo anteporre all'esposizione questo

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punto di vista non gioca contro l'obiettività della descrizione, bensì a favore di essa, in quanto rende nota fin dall'inizio e tematizza come tale la precomprensione che guida la sua contemplazione, e non la nasconde dietro una descrizione all'apparenza totalmente priva di pregiudizi (una descrizione che non può affatto darsi, perché altrimenti sarebbe allo stesso tempo una descrizione priva di giudizio). Non accade infatti che sulle prime si contempli semplicemente il dipinto e poi, in un secondo momento, ci si formi un giudizio sul suo valore; anzi quanto più lo sguardo è addestrato, tanto più immediatamente esso «vede» già anche le debolezze di un'opera d'arte, e tanto più immediatamente la semplice osservazione si forma già da se stessa un'opinione ed è capace di giudicare. Secondo Burckhardt: il difetto principale scaturisce dal profondo della natura di Michelangelo. Infatti egli aveva rotto già da molto tempo con tutto ciò che significa tema religioso [... ]: egli di regola raffigura sempre l'uomo [... ] come dotato di una grande forza fisica alla cui espressione appartiene essenzialmente la nudità; in tal modo risulta impossibile ogni distinzione fra Santi, Beati e Dannati. Le composizioni dei gruppi superiori non sono più «ideali», i loro movimenti non sono più nobili di quelli delle composizioni inferiori. Invano si ricerca la placida gloria degli Angeli, degli Apostoli e dei Santi, che in altri dipinti dello stesso soggetto già attraverso la loro semplice ripartizione simmetrica pongono così tanto in risalto [... ] la figura principale, il Giudice. Delle figure nude [... ] non possono in alcun modo servire a rappresentare una tale situazione; per far questo richiedono gestualità, movimento e una alternanza di temi completamente diversa. Su tali temi, però, il maestro fu in realtà scrio. Nell'opera vi sono davvero molti grandi pensieri poetici [... ]. Ma benché il contenuto poetico si riveli tanto significativo, sono piuttosto i pensieri pittorici nella loro totalità ad essere decisivi. Michelangelo si bea della felicità prometeica di poter realizzare tutte le possibilità di movimento [... ] della pura figura umana. Il Giudizio Universale era a tal proposito l'unica scena che potesse concedere una assoluta libertà in virtù dell'estrema sospensione. Dal punto di vi-

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sta pittorico la sua opera è perciò ammirevole per l'eternità [... ]. Sebbene il Giudice del mondo sia una figura come le altre, e precisamente una delle più confuse, il tutto rimane sempre qualcosa di unico sulla terra.

Emerge chiaramente il punto di vista determinante. Burckhardt stesso lo indica come il punto di vista «pittorico» e lo fonda nella sua legittimità oggettiva anche sulla base del fatto che Michelangelo si trovava distante dal tema religioso, ed inoltre anche per il suo modo di rappresentare questo tema il pensiero puramente pittorico aveva motivo di essere la cosa determinante. In tutt'altra maniera vede il Giudizio universale York, un protestante convinto che, anche se capace di comprendere l'arte godendone, è in primo luogo interessato alla storia dell'arte in quanto storia dello spirito e a quest'ultima in quanto storia della religione. Egli dice: Quanto al pensiero che guida la distribuzione del materiale figurativo, colpisce immediatamente una duplicità radicale: Dio Padre-Cristo, un polo positivo cd un polo negativo [... ] Ma al di sopra di Cristo non sta Dio. Cristo è il Giudice indipendente del mondo, il momento critico. Il luogo dell'opera di Dio è un altro e un'altra la sua opera. Tra le figure rappresentate sulla volta, Dio svolge la sua opera, creando. Creare e giudicare stanno tanto lontano l'uno dall'altro quanto la natura e la morale. Manca il ponte della sensibilità. Un grande poema etico sta davanti a noi, non un poema religioso.

E il modo di vedere di York giunge ad espressione in maniera ancora più chiara in una lettera a Dilthey: Michelangelo predicò nella Cappella Sistina con grande forza un'unica cosa: la rinascita della morale. Le mute, semplici croci intagliate dai Cristiani nelle pietre del Carcere Mamertino trovarono la parola grazie a Lutero. Se qualcosa è più potente del Giudizio Universale di Michelangelo, della più grande confessione etico-critica, questo qualcosa sono proprio quelle croci.

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Per York, dunque, la rappresentazione contenuta sulla volta della Cappella Sistina non ha in primo luogo un carattere pittorico bensì etico, ed entrambi gli osservatori mostrano chiaramente quale sia il modo in cui vedono; York definisce il proprio sguardo come «storico» in contrapposizione a quello «estetico», convinto che lo sguardo «autentico» sia proprio quello storico. Di nuovo, ciò che qui è diverso e che emerge chiaramente già nel modo scelto per la descrizione del contenuto, quindi, non è un giudizio di valore su qualcosa visto allo stesso modo, un giudizio sospeso in aria e sopravvenuto in un secondo momento; ma è lo sguardo stesso a valutare diversamente a seconda delle tendenze del comprendere che sono in esso. Per stabilire chi dei due in questo caso veda correttamente e si collochi dunque nel giusto punto di vista, bisognerebbe sapere se Michelangelo nel Giudizio Universale abbia voluto fare una confessione morale oppure - detto brutalmente - solo rappresentare dei «corpi nudi». E, come ultimo esempio, proponiamo una descrizione che Tolstoj in una lettera fa dei suoi figli, una descrizione tratta dalla sfera antropologica, letterariamente ancora informe, assai immediata, estremamente schietta, degna quasi di una constatazione della scienza naturale: Il più vecchio è biondo, non brutto, nella sua espressione vi è qualcosa di delicato, di paziente e di molto dolce. La sua risata non è contagiosa. Ma quando piange, mi contengo solo a fatica per non piangere con lui. Si dice che assomigli moltissimo al mio fratello più vecchio [... ] S. è intelligente, uno spirito matematico, dotato di un fine gusto per l'arte, apprende ottimamente, è un agile saltatore e ginnasta, ma malgrado tutto maldestro e distratto. Ha poco di originale; è dipendente dal suo fisico: quando è in forma e quando non lo è, è come si trattasse di due ragazzi differenti. J., il terzo, non è mai stato malato; ha le spalle larghe; è bianco, rosso, splendido. Studia malamente. Riflette sempre su cose alle quali non gli è stato chiesto di pensare [...] Egli è preciso e parsimonioso; la parola «mio» è qualcosa di molto importante per lui. È focoso [...], ma anche dcli-

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cato e molto sensibile. È anche sensibile ai piaceri materiali: egli ama un buon boccone e trascorre volentieri il suo tempo tranquillamente coricato [... ] Di tanto in tanto è originale. Piange e contemporaneamente si arrabbia e può diventare realmente fastidioso; se però ride, allora pretende che tutti debbano ridere con lui [... ]. Quando sarà più grande, dopo la mia morte, ovunque si troverà, diventerà un'ottima persona, quasi sicuramente sarà il migliore allievo di ogni istituto. J. andrà in rovina se non avrà una guida severa che egli possa amare [... ] M., di due anni [... ], un bimbo debole e malato. Come il latte; un corpo bianco, capelli chiari cd increspati; grandi e strani occhi blu [.. .]. È molto giudizioso, non bello. Diventerà un mistero, soffrirà, cercherà e non troverà nulla, ma egli cercherà sempre l'irraggiungibile [... ]. P., un gigante. Un enorme bambino incantevole [... ], piega i gomiti all'esterno, aspira a qualche cosa [... ] Io so che in lui esiste una riserva fisica notevole. Ma io non so ciò per cui questa riserva fisica sia a portata di mano 15 •

Apparentemente queste descrizioni non contengono alcuna «interpretazione», ma lo sguardo che sta a fondamento di questo modo di descrivere sobriamente constativo è in realtà uno sguardo molto determinato e estremamente ricco di comprensione, ricco di comprensione appunto perché qui nulla viene interpretato implicitamente o esplicitamente, ma semplicemente visto, esaminato e constatato. Il senso ermeneutico di tale descrizione constativa è quello di una comprensione che non interpreta nel senso usuale solo perché comprende il suo oggetto nella fatalità univoca della sua essenza. E questa univocità dell'interpretazione apoditticamente constativa desta l'illusione di un'assenza di interpretazione. In verità un tale sguardo comprendente non si trova al di qua ma al di là del modo usuale di vedere e di giudicare gli uomini. A questa descrizione non manca affatto il giudizio capace di com-

15 Lettera del 26 ottobre 1872 alla contessa A. A. Tolscoja, in Le lettere di L. N. Tolstoj, Longanesi, Milano 1978, a cura di L. Radoyce, voi. I ( 1845-1875 ), p. 394 ss.

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prensione, ma è talmente sicuro e determinato che osa proporsi quale constatazione in perentori bozzetti di carattere, dietro i quali sta un'esperienza priva di illusioni, ed anche le future possibilità di sviluppo che lo sguardo coglie in questi bambini sono constatate allo stesso modo come delle fatalità che sovrastano con la loro imminenza. Solo perché qui la comprensione coinvolta ha un grado di sicurezza tanto elevato da ritenersi al di là delle diverse possibilità d'interpretazione, lo schizzo citato sembra indicare che si sia trattato di semplici constatazioni raggiunte nella descrizione, mentre in realtà si pronunciano dei giudizi perentori in analogia con il senso della constatazione quotidiana, dove la convinzione ingenua ritiene che non vi sia assolutamente nient'altro da «comprendere» e da «interpretare», perché il significato che ha constatato le sta davanti come l'unico vero ed illuminante. Questo modo di constatare che agisce nella vita quotidiana vuole eliminare essenzialmente possibilità interpretative diverse e lo può fare solo perché offre già esso stesso un'interpretazione, offre cioè un'interpretazione apodittica. La descrizione antropologica puramente constativa non è dunque una descrizione pura, priva di un'interpretazione, ma è al contrario una descrizione che interpreta in modo apodittico, univoco, fondata su una comprensione pervenuta allo stato definitivo e divenuta stabile. Se ora, però, ogni descrizione - e perfino quella all'apparenza puramente constativa - contiene già un'interpretazione, e quindi è una comprensione, e se il senso metodico della descrizione fenomenologica è l'interpretazione, sarà forse superfluo attribuire per questo motivo alla descrizione un peculiare ed esplicito valore? Infatti non si capisce come mai non si possa incominciare subito con l'interpretazione, dato che l'interpretazione è comunque già contenuta nella descrizione intesa essa stessa come un atto interpretativo. Tuttavia dalla convinzione che ogni descrizione con-

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tenga già una comprensione non segue il contrario, ossia che anche ogni interpretazione comprendente di un fenomeno sia già una interpretazione descrittiva. Il punto d' origine è il passaggio dal tratto esplicativo già contenuto nello sguardo e nella descrizione immediati all'interpretazione espliata del fenomeno; e questo passaggio problematico dalla descrizione, che rendendo pienamente comprensibile caratterizza, all'interpretazione diretta ed esplicita è irrimediabilmente perso di vista se si fa a meno della descrizione e si comincia immediatamente con l'interpretazione, lasciandosi alle spalle la descrizione. Un'interpretazione filosofica che incominci immediatamente da se stessa non interpreta più in alcun modo il fenomeno dato intuitivamente; infatti il contenuto intuitivo del fenomeno che deve essere interpretato assume la sua validità solo se la descrizione lo rende esplicito come tale e lo pone al sicuro. La descrizione ha quindi il compito primario di preparare e di presentare il fenomeno, sia pure in vista dell'interpretazione esplicita, e dal fatto che la descrizione contenga già una precomprensione non si può poi concludere che essa sia un'attività parallela svolta in vista dell'autentica interpretazione filosofica. La fretta dettata dal voler conoscere in modo definitivo e l'universale impulso a venire a capo delle cose fanno sempre sì che il compito della descrizione, compito all'apparenza improduttivo e i cui progressi per la comprensione non sono visibili, venga o troppo presto e superficialmente sbrigato o assolutamente trascurato. E ciò viene fatto non da ultimo proprio dai veri «filosofi». Lo sviluppo della fenomenologia del «dato», in origine espressamente intesa come descrittiva, mostra la problematicità di un progresso troppo rapido dalla mera descrizione alla mera interpretazione. I filosofi dapprima si meravigliarono dell'ingenuità della descrizione fenomenologica, e ben presto accadde che anche all'interno della stessa fenomenologia ci si prendesse gioco di questa prima «fenomenologia ad immagini illustrate» e venissero- avanzate e poi anche

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soddisfatte delle pretese maggiori. Questo atteggiamento era giustificato nella misura in cui queste prime descrizioni, benché fossero molto sottili, non vedevano in quanto tale la comprensione piena di presupposti già contenuta nelle loro descrizioni, e di conseguenza non erano in grado di spiegarla ulteriormente e di condurla ad un'interpretazione filosofica dei fenomeni descritti fondata sulla descrizione capace di comprensione e trasparente quanto ai propri presupposti. Il rovescio di questo passaggio dalla descrizione all'interpretazione esplicita, come si è realizzato con le / dee di Husserl, con Scheler e soprattutto con Heidegger, non deve però oggi essere dimenticato. Già solo la posizione della domanda continuamente ricorrente nell'analitica ontologica di come qualcosa sia possibile, dunque la domanda sulle cosiddette condizioni trascendentali della possibilità di quel che realmente è, domanda con la quale per altro ci si interroga solo in riferimento alla comprensibilità ontologica e non alla possibilità reale dell'ente, tradisce il fatto che anche la comprensione ontologica è una specie di spiegazione costruttiva, anche se completamente differente da quella delle scienze della natura, quella spiegazione contro cui si muove Dilthey. I fenomeni allora non vengono più descritti e la descrizione non viene condotta in vista di una comprensione esplicita, ma attraverso la rimozione della comprensione immanente alla descrizione, i fenomeni dati sono fin dall'inizio «resi» comprensibili a priori e «spiegati» mediante la loro interpretazione. L'ontologia fenomenologica costruisce sapendo di costruire, sebbene in modo comprendente-esplicativo. Il fondamentale motivo antropologico di ogni rendere-comprensibile, che progetta nel senso di un piano costruttivo, è però una volontà-di-conoscenza alla cui base c'è una «volontà di potenza». Un tale atteggiamento della volontà a livello storico può essere notato facilmente nel Rinascimento a fondamento delle scienze della natura di carattere esplicativo, ma questa brama di possesso è all'origine di ogni interpretazione costruttiva

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della vita, con la quale viene spiegato in modo razionale e viene visto dietro ai fenomeni molto più di quanto l'uomo possa effettivamente vedere e comprendere. Le diverse tappe di questa tendenza che si rifà alla volontà di conoscenza come volontà di potenza e che mira alla costruzione anziché all'interpretazione descrittiva, possono ora essere sttIdiate in modo esemplare nei diversi contributi contenuti nel volume offerto a Husserl in occasione del suo settantesimo compleanno nel 1929 16 • Gli autori di questi contributi sono stati in origine quasi rutti allo stesso titolo dei «fenomenologi», ma essendosi allontanati di gran lunga e in modi assai diversi da questa base comune fino a giungere all'interpretazione filosofica, può essere illustrata una scala completa dei gradi di sviluppo dalla semplice descrizione fino alla semplice interpretazione. L'articolo di Conrad-Martius sui «colori» è ancora puramente descrittivofenomenologico in senso goethiano, ma il saggio di Heidegger sull'Essenza del fondamento 17, deducendo nella sua parte sistematica in modo puramente ontologico-concetruale prende su di sé «la fatica del concetto» (Hegel). Al fine di discutere di questo sviluppo della fenomenologia sulla base del progresso che va dalla descrizione all'interpretazione, in virtù del quale essa diventa filosofia, e per trattare concretamente del rapporto con l'interpretazione teologica reso possibile da quello sviluppo, bisognerà ora tentare di esporre in modo esemplare e nei tratti essenziali l'interpretazione fenomenologica al livello da essa raggiunto con Heidegger, ossia al livello della costruzione ontologica. La seguente esposizione della costruzione ontologico-interpretativa si limita perciò ad un determinato 16 AA.VV., Festschrift fur Edmund Husserl zum 70. Geburtstag: Erganzungen zum Jahrbuch fur Philosophie und phanomenologische Forschung, Max Niemeyer, Halle (Saale), 1929. 17 Vom Wesen des Grundes, ora in Wegmarken, voi. 9 della Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt a. M. 1979, p. 121 ss.; tr. it. di F. VOLPI, Dell'essenza del fondamento, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 79 ss.

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fenomeno (l'essere-nel-mondo dell'esserci come con-essere ed essere-se-stesso) dell' «analitica dell'esserci», che pur preparando solo il problema dell' «essere» nell'orizzonte del «tempo» è però certamente fondamentale. E anche questo avviene nuovamente solo da un punto di vista molto particolare, ossia in relazione all'ideale di esistenza che offre la regola per quest'analitica dell'esserci. Un tale ideale di esistenza è fondamentale per tutte le singole «determinazioni» dell'esserci in considerazione di ciò che costituisce la «destinazione» propria dell'uomo in quanto tale. Una tale idea dell'autentico compito o dell'autentica destinazione della vita dell'esserci umano, che fonda e sostiene tutte le altre singole determinazioni, è già presente nel concetto di «esistenza» e nella sua più precisa caratterizzazione mediante l'idea di una assoluta «autonomia» dell'esserci esistente. Una simile ripartizione dell'esposizione è però possibile e sensata perché proprio in Essere e tempo non si tratta di «descrizioni» qualsiasi di «datità» qualsiasi, ma di un'interpretazione sistematica di un tutto unitario. Ma il titolo «fenomenologia», nonostante la sistematica costruttiva di Essere e tempo, si risolve come sempre anche per questa «ontologia» fenomenologica in una massima: «verso le cose stesse» - e ciò in contrapposto alle costruzioni fluttuanti, ai trovamenti casuali, all'assunzione di concetti giustificati solo apparentemente, agli pseudoproblemi che sovente si trasmettono di generazione in generazione come «problemi» 18 •

Il tema oggettivo di questa trattazione fenomenologica è però un tema molto particolare (anche se filosoficamente fondamentale) ossia quello del senso dell'essere, del diverso senso che l' «è» assume a seconda dell'ente, soprattutto di quell'ente che noi stessi siamo, l'esserci. Il metodo di trat-

18 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, voi. 2 della Gesamtausgabe, p. 37 s.; tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, UTET, Torino 1969, p. 86.

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tazione di questo problema ontologico fondamentale è quello fenomenologico, ma in una accezione tale per cui ciò che è dato preliminarmente - vale a dire l'ente - viene già considerato e problematizzato secondo un aspetto molto particolare, in modo che in tale trattazione si mostri di esso ciò che sulle prime non si mostra fenomenicamente e che rimane nascosto. Questo aspetto nascosto, tuttavia, è alla base dell'ente come suo senso e può essere scoperto fenomenologicamente, vale a dire onto-logicamente. In sé e per sé l'ente si può mostrare «da se stesso» in diversi modi, ossia sempre a seconda del metodo usato per accedere ad esso; ma senza un determinato modo di considerare un fenomeno e di accostarsi ad esso non si può affatto mostrare come qualcosa sia e appaia «in se stesso». In tal modo, per esempio, il fenomeno «uomo», quando viene considerato e indagato a livello anatomico, si mostra come qualcosa di completamente differente in confronto all'interpretazione psicoanalitica, e questa particolare visione e interpretazione fa poi sì che l'uomo venga visto in un «senso» completamente differente e sia compreso in tutt'altra guisa rispetto ad una valutazione morale che si appella al criterio del bene e del male; e ancora a partire da questo punto di vista morale l'uomo appare completamente differente da come non appaia dal punto di vista non meno morale di un immoralismo consapevole situato al di là del bene e del male. Il problema filosofico non consiste nel modo in cui questi diversi «aspetti» e concezioni del plurisignificante fenomeno «uomo» si integrino, ma piuttosto nel ricercare quale sia il più originario e il più ampio tra i punti di vista le concezioni e i modi di concepire possibili. Il cosiddetto «fenomeno» e il rispettivo «logos» non si mostrano dunque affatto in modo chiaro, bensì in modo ambivalente, e né il fenomeno è qualcosa di «immediatamente» dato, né il logos qualcosa che dà immediatamente. Il fenomeno che è dato in modo manifesto può in linea di principio farsi passare ed apparire come qualcosa che esso in realtà non è e

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il «vero» logos che lo rivela può in linea di principio essere superficiale e perciò falso. Così, sulle prime può sembrare che l'uomo sia nel mondo come un prodotto della natura, mentre, ad un'analisi più esatta può poi rivelarsi che l'uomo «ci» è senza alcun confronto, ossia in quanto consegnato a se stesso e pertanto «esistente» - fermo restando che egli deve anche alla natura il fatto di essere così com'è. Ma d'altra parte nel significato di «parvenza» o di apparenza è incluso il significato positivo ed originario di «fenomeno», come ciò che è già compreso in ciò che si rivela e che fonda la parvenza e l'apparenza; allo stesso modo la possibile falsità o non verità o ancora la copertura del logos si fondano sul fatto che esso tuttavia è in se stesso soprattutto un «vero» fare vedere esibente ed uno scoprire. A prescindere da questa problematica fondamentale contenuta nel concetto di fenomeno e di logos e nel concetto della loro connessione, la «fenomenologia» significa (in considerazione del significato greco dei componenti della parola): un lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta così come si manifesta da se stesso. Questo è il senso formale dell'indagine che si autodefinisce fenomenologia. Ma in tal modo non si fa che esprimere la massima formulata più sopra: «verso le cose stesse!». Il titolo fenomenologia ha dunque un significato del tutto diverso da quello implicito in espressioni come teologia, e simili. [... ] Infatti né fenomenologia denota l'oggetto delle sue ricerche, né il titolo caratterizza l'attinenza di essa al tema. La parola si riferisce esclusivamente a come viene mostrato e trattato aò che questa scienza deve trattare. Scienza dei fenomeni significa: un afferramento dei propri oggetti tale che tutto ciò che intorno ad essi è in discussione, sia mostrato e dimostrato direttamente. Il medesimo significato ha in fondo l'espressione, m realtà tautologica, di fenomenologia descrittiva 19•

Qual è allora per -sua .essenza il tema necessario di una 19

Ivi, p. 46 s.; tr. it., p. 95. [I corsivi sono di Lowith]

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indicazione esplùita? «Si tratterà, evidentemente, di qualcosa che innanzitutto e per lo più non si manifesta, di qualcosa che resta nascosto rispetto a ciò che si manifesta innanzitutto e per lo più e nel contempo di qualcosa che appartiene in linea essenziale a ciò che si manifesta innanzitutto e per lo più in modo da esprimerne il senso e il fondamento»20. Coprimento è dunque il concetto contrario di «fenomeno». «Tanto il punto di partenza dell'analisi quanto l'accesso al fenomeno e il cammino attraverso i copri menti predominanti richiedono perciò una particolare assicurazione metodologica. L'idea di un'apprensione e di un'esplicazione dei fenomeni che siano «originarie» e «intuitive» è l'opposto dell'ingenuità di una «visione» casuale, immediata e irriflessiva» 21 . «Ma ciò che, in senso eminente, resta nascosto o ricade nel coprimento o si manifesta solo in modo contraffatto non è questo o quell'ente ma [ ... ] l'essere dell'ente» 22 . La fenomenologia è allora la via d'accesso ostensiva al tema dell'ontologia, la quale è dunque possibile in maniera fondata solo come fenomenologia. L'attuazione di quest'ontologia esige però che si retroceda nelle fondazioni fino ad un' «ontologia fondamentale», il cui oggetto è un ente caratterizzato tanto onticamente quanto ontologicamente, l'esserci, il quale solo può comprendere qualcosa come l' «essere» poiché comprendendo ed esistendo si trascende, ossia supera se stesso nel, comprendere il proprio esistere, ed è di fatto al di là di un esser-ci puramente essente. L'esserci umano non esiste né come una pietra semplicemente presente né come una macchina da scrivere solamente utilizzabile e non vive neppure meramente come un essere vivente naturale; piuttosto l'esserci si comprende esistendo nel suo proprio essere, è consegnato interamente a se stesso e può persino deci20 21 22

Ivi, p. 47; tr. it., p. 96. Ivi, p. 49; tr. it., p. 97 s. Ivi, p. 47; tr. it., p. 96.

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dere di non essere. La caratteristica ontica dell'esserci consiste nel fatto che egli esiste a livello preontologico già sempre onto-logicamente e perciò può anche elaborare un' ontologia esplicita. E poiché fra tutti gli enti solo l'esserci in base alla sua peculiare costituzione ontologica può comprendersi per mezzo di tutti gli altri enti che non sono conformi all' esserci, anche l'ontologia universale ha bisogno di una fondazione in un'analitica ontologico-esistenziale dell'esserci (sempre proprio) che da parte sua ha radici ontico-esistentive. Perciò la «validità» di una ontologia non è mai di tipo vago e «generico»: un'ontologia, invece, è valida nella misura in cui ha valore per un esserci, sempre proprio e storicamente condizionato e che tuttavia si comprende di volta in volta a partire dal proprio «essere». Questa «circostanza» non vanifica l'illusione di purezza dell'ontologia ma la consolida nella sua originarietà (in senso letterale). La filosofia è quindi «ontologia universale e fenomenologica, muovente dall'ermeneutica dell'esserci, la quale, in quanto analitica dell'esistenza, ha assicurato il termine del filo conduttore di ogni indagine filosofica nel punto dove l'indagine sorge e infine ritorna» 23 , vale a dire nell'origine dell'esistenza effettiva dell'uomo che interroga se stesso nella domanda su che cosa sia l'uomo. Per quanto il problema del senso dell'essere in generale sia in sé e per sé il problema più universale e indeterminato, in esso tuttavia si trova nel contempo la possibilità del suo isolamento o della sua individuazione più estremi sull'esserci di volta in volta proprio come punto di partenza e traguardo, principio e conclusione dell'ontologia (esplicita o anche implicita), per la quale si adopera con il suo domandare un esserci sempre determinato. L'esserci che filosofa scientificamente si occupa certamente della comprensione generale

n Ivi, p. 51; tr. it., p. 99 s.

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della problematica storica dell'ontologia seguendo il filo conduttore della temporalità [Temporalitat] e mentre lo fa, con lo stesso gesto, si occupa della trasparenza di se stesso di fronte alla morte, l'indice della sua finitezza temporale [z eitlich]. Il fatto che l'ontologia fenomenologica si curi di pervenire all'individuazione più radicale o all'isolata autonomia si mostrerà secondo la sua natura con particolare chiarezza nel modo in cui quest'ontologia affronta all'interno dell'analitica dell'esserci il problema dell'esserci del prossimo, quindi dell'esserci del con-essere, nel modo in cui affronta cioè la problematicità della comunicazione umana o dell'essere-in-rapporto, comunque sempre nella prospettiva dell'autonomia individuale. La prima determinazione ontologica dell'esserci, fondamentale per tutto il resto, fornita dall'analisi di Heidegger è «l'esser sempre mio» dell'esserci. L'essere di questo ente è sempre mio e come tale è consegnato al suo proprio averda-essere. Per l'esserci ne va sempre anche del proprio essere. Il rivolgere la parola all'esserci deve sempre far ricorso, conformemente al carattere dell'esser-sempre-mio di questo ente, al pronome personale: «io sono», «tu sei». Questo non esclude ma anzi implica una molteplicità e una diversità radicale nel modo in cui l'esserci è sempre proprio e si appartiene. L'esserci può «scegliere» espressamente se stesso - in autonomia - oppure anche - visto a partire dalla possibilità di una tale scelta - esistere «nella dispersione di se stesso». In quanto appartenente a se stesso, egli è nello stesso tempo un esserci che esiste «autenticamente»: «autentiatà e inautentiatà dell'essera [ .. } si fondano nell'essere l'essera determinato in linea generale dall'esser-sempre-mio»24. Anche nel modo della quotidianità media per l'esserci ne va segretamente di se stesso. Ma è possibile che

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lvi, p. 57; tr. it., p. 107. [i corsivi sono di Lowith]

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sia «genuino» o «non genuino» tanto nel modo dell'autenticità quanto in quello dell'inautenticità. Nella sua quotidianità l'esserci si risolve nel prendersicura del «mondo». A determinarlo in questo senso è, solo formaliter, l'essere-sempre-mio; in realtà il soggetto effettivo della quotidianità non è un autentico «io» ma un «si». Sebbene l'esserci si esprima ancora come «io», in lui non parla in realtà un «io-stesso» ma un «si-stesso». Innanzitutto e per lo più l'esserci non è se stesso, ma un riflesso, una ripetizione ed un rimando, di indeterminati altri, che esistono con lui e lo determinano nel senso di una totalità pubblica alla perdita di autonomia. Questa generalizzazione dell'individuo proviene dalla costituzione fondamentale del1' esserci, dal suo «essere-nel-mondo». Innanzitutto e per lo più l'esserci incontra tanto il con-esserci di un altro quanto il proprio esserci sulla base di un mondo-comune di cui si prende cura ambientalmente, ossia di quel mondo che condividiamo l'uno con l'altro. L'esserci, essendo assorbito dal mondo-comune di cui si prende cura, non è se-stesso ma sottostà sempre nel suo essere-assieme quotidiano al dominio di indeterminati altri. Il «chi» dell'esserci quotidiano e dell'essere-assieme non è questo o quello (un determinato altro), non è se stesso, non è qualcuno e non è la somma di tutti: esso è piuttosto il neutro privo di qualsiasi responsabilità, il «si» che può rispondere di tutto proprio in quanto non deve rispondere a nessuno. «Il si 'ci «è sempre stato' e tuttavia si può dire di esso che non sia mai stato «qualcuno». Nella quotidianità dell'esserci la maggior parte delle cose è fatta da ciò di cui si è costretti a dire che non sia stato qualcuno» 25 • Ognuno è l'altro, nessuno è se stesso. Il «si», che risponde alla domanda del chi del1' esserci e del con-essere quotidiano, è il nessuno cui ogni esserci è abbandonato innanzitutto e per lo più.

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Ivi, p. 170; tr. it., p. 216 s.

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Il si è quindi nell'analisi di Heidegger il proprio ed unico contro-fenomeno dell'io-stesso; esistendo come si-stesso, l'esserci esiste nell'instabilità e nell'inautenticità in contrapposizione all'esserci del se-stesso autentico che si possiede sempre in modo adeguato 26 • Questa direzione dell'analisi dell'essere-assieme e dell'essere-se-stesso è motivata in modo ricco di presupposti sulla precedente analisi dell' essere-nel-mondo, che a sua volta è orientata sul mondo-operativo dell'operatore, ossia dell'homo faber e questo orientamento non è solo esemplificativo, ma ha l'esemplarità di un fondamento. La maniera di essere della «natura», oppure della «vita», del mondo naturale e dell'esserci, dell'inessere e del con-essere adeguati non vengono presi in considerazione, poiché non ci «rapportiamo» alla natura come ad un Wo-zu [a-che]27 in maniera davvero essenziale, vale a dire in senso autentico ed originario. Ora, per quanto questo atteggiamento possa essere « giustificato» dall' «intento» che muove l'analisi del mondo circostante, esso tuttavia comporta una mancanza notevole che si ripercuote anche sul piano del metodo e come ogni mancanza di stati di fatto fenomenici costituisce il vero errore anche di un'analisi di per sé «conseguente». L' «intento» che guida una tale esposizione non può in alcun modo contraddire il fatto che quei fenomeni che si manifestano nel modo dell'essercoperti e dell'assenza si mostrino anche senza tale intento 26 Si veda a tale proposito la nostra analisi dell'essere-assieme, in Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen. Ein Beitrag zur ethischen Probleme (ora nel voi. 1 delle Samtliche Schriften, cit.), dove sottolineiamo che proprio le determinazioni che sono innanzitutto e per lo più dense di significato per l'esserci umano come l'essere figlio dei propri genitori, marito della propria moglie, padre dei propri bambini, insegnante dei propri alunni, amico dei propri amici, servitore del proprio padrone, e simili, si trovano precisamente tra i due estremi ontico-ontologici costituiti da io-stesso e si-stesso e rappresentano quindi una modalità fondamentalmente diversa dall'essere-assieme, dunque diversa anche dall'essere-se-stesso, rappresentano cioè un essere-«persona» dell'individuo, non però un mero essere-assieme di un essere-se-stesso. 27 Si veda M. HEIDEGGER, Vom Wesen des Grundes, cit., nota 54, p. 155; tr. it. cit., nota 55, p. 111.

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e persino contro di esso. La comprensione critica di un sistema filosofico da parte di un altro non sarebbe affatto possibile se ci si attenesse esclusivamente alle esplicite intenzioni dell'autore e se non si imparasse piuttosto a leggere fra le righe. Per quanto però nelle analisi heideggeriane dell'essere-assieme, gli «altri» si incontrino di rado in modo puramente umano ed in certo qual modo tematico nelle distinzioni esistenti ve dell' alienus, dell' alius e dell'alter rispetto a se stessi, essi tuttavia sono con-incontrati nel mondo strumentale di cui ci si prende cura. Nel modo di essere dello strumento (utilizzabile) vi è già un rimando essenziale al produttore e al fruitore possibile (per esempio, un libro in quanto merce posta in vendita rimanda al libraio e al tipografo, i quali fanno riferimento all'autore e al lettore); incontriamo gli altri innanzitutto in un mondo di lavoro come quelli che lavorano «con» noi, (come quelli che non «sono» lì né in quanto utilizzabibili né in quanto semplici presenze, ma esistono anch'essi con noi, esistono cioè come io stesso esisto e il loro essere-in-sé intramondano è il con-esserci). «Anche quando gli altri divengono, per così dire, tematici nel loro esserci, non sono mai incontrati come persone-cose semplicemente presenti; noi ci incontriamo con loro 'al lavoro', cioè in primo luogo nel loro essere-nel-mondo» 28 e ciò avviene anche se essi non lavorano ma semplicemente «non fanno nulla». E l'essercisempre-mio fa sì che come con-essere originario anche l' esserci degli altri sia incontrato nel suo mondo. Il «con-essere» dunque è e rimane una determinazione dell'essercisempre-mio. Il prendersi-cura del mondo si modifica conseguentemente in rapporto agli altri nell' «aver-cura» - nei due modi opposti dell'aver-cura, il «sostituirsi-dominando» e l' «anticipare-liberando», che rimette gli altri alla loro propria au-

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Sein und Zeit, cit., p. 163; tr. it., p. 21 O.

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tono mia. Dall'aspetto che il mondo ha in quanto un mondo dell'operare [Werkwelt], scaturisce quest'idea di un collegamento «oggettivo [sachlich ], e specificamente dunque libero perché oggettivo, libero nel tratto personale e vincolato per mezzo del tratto collettivo della cosa elaborata, e quest'idea sta a fondamento del fatto che come collegamento «autentico» sia concepito quello che consiste nell'impegnarsi l'uno con l'altro, a partire ognuno dall'esserci colto come proprio, per la medesima cosa. Così, parimenti, come sfondo ontologico-antropologico della massima f enomenologica generale ( «verso le cose stesse») si rivela già un determinato ideale di esistenza costituito dall'autonomia dell'esserci fondata «oggettivamente». «Solo questo legame autentico (in quanto giustificato sulla base del proprio esserci afferrato in modo sempre proprio) rende possibile la determinazione giusta della cosa in questione e rimette gli altri alla propria libertà» 29 • Mediante il prendersi cura delle cose si comprende dunque anche il prendersi cura «avente-cura». Innanzitutto e per lo più l'essere-assieme quotidiano è tuttavia costituito in modo tale che l' «io-stesso» sia sempre determinato proprio dagli altri in quanto si-stesso, cosicché esso finisce per eludere la sua autentica determinazione. lo sono dato a me «stesso» innanzitutto a partire dal si e come questo si. E se l'esserci giunge a schiudere a se stesso il suo essere autentico che è uno con il suo essere-nel-mondo, questo stato di autentico scoprimento del mondo e di apertura dell'esserci si realizza come «chiarificazione delle contraffazioni con cui l'esserci si rende prigioniero di se stesso» 30 • Questa prospettiva dell'analisi esistenziale dell'esserci, condotta seguendo il filo conduttore dell'autoriflessione N / bidem; si veda K. Low1rn, Das Individuum in der Rolle des M itmenschen, cit., § 21, p. 96 ss. 30 Sein und Zeit, cit., p. 171; tr. it., p. 218.

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[Selbstbesinnung] e del farsi carico di sé [Selbstbekummerung] di matrice cristiana in cui consiste il «singolo» (Kierkegaard ), prospettiva che appare chiaramente persino mediante una siffatta formalizzazione dei concetti, diviene pienamente evidente nel «progetto esistenziale di un esser-per-la-morte autentico» 31 • Secondo Heidegger, infatti, nulla all'infuori della morte è la possibilità più propria dell'esserci. Solo perché si decide anticipatamente per la morte, indeterminata quanto al tempo, assolutamente certa quanto al «che», ali' esserci è aperto, il suo «più proprio poter-essere, nel quale ne va semplicemente dell'essere dell'esserci» 32 • Questa situazione-limite assoluta mostra all'esserci la situazione emotiva fondamentale dell'angoscia che lo pone di fronte al nulla della sua esistenza possibile. Nell'angoscia si rivela ali' esserci che nella possibilità più caratteristica del suo sé egli è sottratto al si. Nella «libertà (ontologica) per la morte» (che non deve essere confusa con il discorso nietzschiano inequivocabilmente ontico sulla «libera morte») l'esserci comprende la sua effettiva «dispersione» nella quotidianità del si-stesso. Questa possibilità autentica, in cui nella totalità della sua portata estremamente ricca di presupposti si manifesta la prima e solo apparentemente innocua determinazione dell'esserci offerta nell'impostazione dell'analisi, cioè l' «esser-sempre-mio», è una possibilità incondizionata. La morte infatti non appartiene solo indifferentemente ali' esserci ma pretende l'esserci in quanto singolo e non in quanto si rapporta agli altri e a qualcosa d'altro e lo pone nel più estremo isolamento o individuazione - in modo analogo all'angoscia che essenzialmente deve essere angoscia della morte. Questo isolamento, in cui si rivela l'autentico significato dell'esser-sempre-mio, rende evidente che quando è in gioco questo più proprio poter-essere fallisce non solo ogni prendersi-cura, ma anche in ultima istanza }I

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/vi, p. 346; tr. it., p. 390. lvi, p. 349; tr. it., p. 394.

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ogni con-essere con gli altri. «L'esserci può essere autenticamente se stesso solo se si rende da se stesso possibile per ciò» 33 • L'anticipazione di questa possibilità incondizionata costringe l'esserci ad assumere da se stesso e a partire da se stesso il suo essere più proprio. Il rapporto con gli altri, qui ancora possibile, si riduce ad un lasciar-essere (gli altri) conformemente all' «insuperabilità» del proprio esserci. Il decidersi per se stessi che anticipa la morte svela dunque all'esserci che il suo sé è disperso nel si e, «sottraendolo fino in fondo al prendente cura avente cura» 34 , lo pone innanzi alla possibilità di essere «se stesso» in senso eminente, vale a dire in modo assolutamente autonomo. Ora, la domanda decisiva per una comprensione critica dell'interpretazione ontologico-esistenziale dell'esserci è la seguente: come si rapporta questa possibilità omo-logica di essere in modo autentico (la possibilità della morte) alla possibilità e alla identificabilità antiche ed effettive di questo stesso essere? «La possibilità ontologica [... ] non significa ancora nulla, finché non è stato rintracciato un poteressere ontico che gli corrisponda da parte dell' esserci» 35 • Ma una volta che tale domanda sia stata posta, si può rispondere in modo sensato mediante un' «attestazione» della possibilità ontologica, attestazione che da parte sua si svolga di nuovo sul pumo ontologico? Per poter chiarire in modo provvisorio36 la problematica di quest'ultima domanda intorno alla connessione e al primato del comprendere ontico e del comprendere ontologico, bisognerà sollevare brevemente il problema sul senso della «neutralità» sostenuta da Heidegger di tutte le asserzioni e di tutti i concetti fondamentali di carattere ontolo-

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3 '

/vi, p. 350; tr. it., p. 394. Ivi, p. 353; tr. it., p. 398. /vi, p. 353 S., tr. it., p. 398.

36 Una discussione esplicita di questa problematica verrà condotta solo a partire da p. 74 in relazione alla questione della possibilità o meno di una conciliazione delle interpretazioni dell'esserci teologiche e ontologiche.

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gico-formale. Tutte le proposizioni essenziali dell'analitica ontologica dell'esserci nell'uomo assumono, secondo la loro intenzione, questo ente nell'universalità della neutralità. Così, per esempio, il principio «l'esserci esiste in vista di se stesso» non deve contenere alcuna affermazione rilevante sul piano ontico e antropologico, e quindi nemmeno «etico», e non deve neppure mettere in luce e fondare l' «egoismo» dell'esserci umano. Tale principio, perciò, non può essere messo in questione richiamandosi al fatto che l'uomo potrebbe vedere il significato autentico dell'esistenza umana non nella cura per il proprio poter essere ma nello spirito di sacrificio per gli altri. Piuttosto, l' «egoismo», pensato ontologicamente e metafisicamente (l' «ipseità» ), dev'essere la «condizione (ontologica) di possibilità» sia del comportamento (antropologicamente) egoistico sia di quello altruistico. «L'ipseità è il presupposto della possibilità dell' egoità, che si apre sempre ad un tu. Ma l'ipseità non si rapporta mai al tu, ma è neutrale (nella misura in cui esso rende possibile per la prima volta tutto ciò) rispetto ali' esser-io e all'esser-tu, e più che mai rispetto alla sessualità dell'esserci, cioè al fatto che esso sia sempre di fatto o maschio o femmina» 37 • A prescindere dal problema di che cosa possa essere concretamente rappresentato con tale «ipseità» (un problema che un'ontologia che, secondo l'orientamento che la guida, abbia radici ontiche non potrà evitare tanto facilmente, come fa invece Hegel che a questo proposito dice semplicemente che qui non si tratterebbe di rappresentare qualcosa, ma solo di pensare il «concetto astratto»), bisognerebbe chiedersi se il discorso sul «se-stesso» possa in generale essere neutrale, visto che, d'altra parte, questa ipseità deve pur essere in grado di rendere comprensibili anche distinzioni antropologiche e di principio quali l' egoismo e l'amore del prossimo, senza superarle ontologi37

Vom Wesen des Grundes, cit., p. 158; tr. it., p. 114.

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camente nella loro differenza umana38 • L' «unico» di Stirner e il «singolo» di Kierkegaard si riferiscono manifestamente ad una possibilità dell'esserci umano che possa essere compresa antropologicamente, tale cioè da essere senz'altro «comprensibile» e identificabile in modo specifico, e non semplicemente ad una possibilità dell'esserci «nell'» uomo. Ma l' «unico» e il «singolo» hanno per tale motivo un significato di principio meno filosofico che il concetto essenziale ed ontologicamente neutro dell' «ipseità»? E l'esigenza cristiana dell'amore del prossimo, secondo il suo preteso significato, non si pone forse al di là di un egoismo e di un altruismo intesi in senso popolare, in modo analogo da un lato all'essere-se-stesso ontologico e dall'altro lato alla battaglia di Nietzsche contro l'ideale cristiano di esistenza per un «egoismo sano e santo», ossia ancora per un «egoismo» che si trova al di là sia dell' «egoismo» quotidiano sia dell' «altruismo», e che non proviene tuttavia da alcun retromondo metafisico, ma mostra una possibilità concreta e perciò realizzabile di essere uomo? Questo egoismo fondamentale ma al contempo antropologico, di impronta nietzschiana, deve essere «un mezzo sulla via dello spirito libero che non si lascia distrarre «altruisticamente» - dalle cose e dagli uomini», ma che rappresenta «la ricchezza di una persona» e il «dire sì a se stessi», un «più grande egoismo» che solo rende possibile anche l'offerta del vero amore. Infatti, «chi non sta

38 Ma se, seguendo Heidegger, si restringono le possibilità dell'antropologia filosofica ad «ontologia regionale dell'uomo» e di conseguenza si esige che la fondazione della sua idea discenda «dall'essenza della filosofia» intesa come un'ontologia precostituita ed universale, ci si preclude in tal modo anche la possibilità di ricavare dalle distinzioni antropologiche e di principio qualcosa che non consista nei suoi presupposti (antropologicamente indifferenziati) puramente ontologici del suo modo di comprendere. Se tuttavia una struttura ontologicamente formalizzata può superare realmente (in un concetto di ipseità) distinzioni antropologiche (come egoismo e amore del prossimo), ciò accade in verità sulla base della differenza che, benché formalizzata e per questo motivo inesprimibile, le è propria, non però sulla base della sua indifferenza apparentemente neutrale.

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fermo nella propria pelle non ha nulla da dare, e non ha mani da poter protendere» 39 • Per contro nell'egoismo abituale il non-io, l'essere profondamente medio, vuole il proprio mantenimento [ ... ] L'egoismo è ancora infinitamente debole. Con molta inesattezza si chiamano egoistici gli affetti che formano il gregge. Uno è avido e accumula un patrimonio (istinto della famiglia, della tribù); un altro commette eccessi in Venere; un altro è vanitoso (valuta se stesso secondo il metro del gregge); si parla dell'egoismo del conquistatore, dell'uomo di Stato, e così via - costoro pensano solo a sé, ma a «sé» nella misura in cui l'ego è sviluppato dall'affetto che forma il gregge (egoismo delle madri, dei maestri). [... ] Niente è più raro di una definizione dell'ego per noi stessi. Domina il pregiudizio che si conosca l'ego, che esso non manchi di farsi sentire continuamente; ma a