Non solo idealismo. Filosofi e filosofie in Italia tra Ottocento e Novecento 8871669800, 9788871669809

Il titolo di questo volume suggerisce che la cultura filosofica italiana tra la fine dell'Ottocento e lo scoppio de

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Non solo idealismo. Filosofi e filosofie in Italia tra Ottocento e Novecento
 8871669800, 9788871669809

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GIORNALE CRITICO DELLA FILOSOFIA ITALIANA QUADERNI 14

MASSIMO FERRARI

NON SOLO IDEALISMO Filosofi e filosofie in Italia tra Ottocento e Novecento

Le Lettere

Volume pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi dell’Aquila, Dipartimento di Storia e Metodologie Comparate, e dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, Dipartimento di Filosofia (PRIN 2004 – “Individualità: tradizione filosofica, pensiero storico e saperi della vita”, responsabile nazionale Giuseppe Cantillo).

Copyright © 2006 by Casa Editrice Le Lettere – Firenze ISBN 978 88 6087 748 2 www.lelettere.it

PREMESSA

I saggi raccolti in questo volume sono stati composti nell’arco di oltre due decenni e appartengono a un più ampio complesso di ricerche dedicate alla storia della filosofia italiana dal secondo Ottocento alle soglie del XXI secolo. L’iniziativa di ripubblicare ciò che già è apparso in altre sedi e in altri contesti è sempre rischiosa, specie se si è convinti della dubbia validità di operazioni editoriali fini a se stesse, autocelebrative o comunque dettate dal desiderio di confezionare un libro a qualunque costo (il faire le livre su cui ironizzava Antonio Labriola). Nel nostro caso, tuttavia, vi è qualche timida speranza che non si tratti di una pura e semplice operazione di ‘riciclaggio’, bensì di un contributo più organico e meditato di quanto non suggerisca l’espressione convenzionale «raccolta di saggi». Non per nulla, del resto, nonostante fosse stato progettato da tempo, questo libro vede la luce dopo lunghissime esitazioni e, soprattutto, grazie all’insistenza amichevole di Maurizio Torrini e Alessandro Savorelli, senza il cui incitamento le pagine che seguono sarebbero rimaste ancora per molto, o forse per sempre, in qualche cassetto, provviste soltanto del titolo suggeritomi ormai alcuni anni fa da mia moglie. Con la sola eccezione del capitolo 7 (qui pubblicato per la prima volta), tutti gli altri capitoli nascono da una rielaborazione spesso radicale della prima versione a stampa e da un’accurata revisione anche sotto il profilo dell’informazione bibliografica. Questo non solo perché, con il tempo, valutazioni e prospettive si modificano, come si modificano le convinzioni di carattere più generale che animano (checché se ne dica) il lavoro dello storico della filosofia, ma anche perché il tutto non nasce mai per mera sommatoria delle parti, e ricongiungere insieme studi nati in circostanze diverse richiede un impegnativo, talora ingrato lavoro:

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prima di tutto per assicurare una certa omogeneità tra i vari temi e i vari autori trattati; e in secondo luogo per indicare al lettore alcune linee di ricerca sulle quali si è appuntata l’attenzione, ma che potrebbero fornire la traccia per altri sondaggi o per esplorazioni su aspetti che qui sono rimasti, necessariamente, solo accennati. È forse inutile sottolineare che gli studi pubblicati in questo volume non hanno nessuna ambizione di completezza. Anzi, pur nella sostanziale unità di ispirazione, essi sono volutamente rimasti allo stato di saggi nel senso letterale del termine: tanto che (seppure cum grano salis) possono essere letti in un ordine diverso da quello proposto, oppure possono essere presi in considerazione indipendentemente gli uni dagli altri. Diverse sono anche le angolazioni da cui si è guardato alla filosofia italiana tra fine Ottocento e primo Novecento: si tratta in primo luogo di ‘filosofi’ (in carne ed ossa) e di ‘filosofie’ (come costruzioni concettuali); ma si tratta pure di interpretazioni, di polemiche storiografiche, di riviste e di iniziative editoriali, di dialoghi più o meno fecondi con il pensiero europeo, di vicende che si incrociano con la politica e le istituzioni accademiche, di linguaggi arcaici e di audaci innovazioni, di polemiche a volte furibonde e di reazioni più pacate; per non dire che spesso è il giudizio dei posteri a sovrapporsi a quello dei contemporanei, perché in fondo è proprio lo sguardo più distaccato dell’oggi che ci può aiutare a restituire al loro tempo con più equilibrio, e con atteggiamento maggiormente critico, uomini e idee, libri e visioni del mondo – a un tempo che è certo molto lontano, ma di cui alcuni echi arrivano sino a noi, alla discussione dei nostri giorni e alla sensibilità, filosofica e storiografica, dei nostri anni. Un discorso ben più complesso richiederebbe invece la scelta di fondo che connette tra loro gli studi qui pubblicati e che trova espressione nel titolo del presente volume. Parlare di «non solo idealismo» significa evidentemente assumere un impegno interpretativo preciso: significa sostenere, in sostanza, che l’idealismo non ha rappresentato l’unico aspetto filosoficamente rilevante e nemmeno l’unico momento ‘europeo’ della cultura filosofica italiana a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento. Enunciata in questi termini, la tesi non è certamente nuova e sarebbe del tutto infondato costruire su una simile base

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la prova di una supposta originalità delle nostre ricerche. In realtà, come è ben noto, il ridimensionamento (anche radicale) della funzione svolta dall’idealismo di Croce e di Gentile nelle ‘cronache di filosofia’ della prima metà del Novecento ha rappresentato uno dei grandi nodi con i quali si è confrontata la filosofia italiana del secondo dopoguerra, prima di tutto sul piano della discussione teorica e della polemica filosofica, ma successivamente (e in parte contestualmente) anche sul piano più strettamente storiografico. Del resto molti dibattiti anche più recenti sulla peculiarità, i limiti, le arretratezze o le connessioni con altre esperienze filosofiche che hanno caratterizzato la filosofia italiana del Novecento si sono spesso imbattuti in questo duplice problema: da un lato l’effettiva portata e l’effettiva incidenza del neoidealismo, dall’altro la consistenza teorica e la capacità delle filosofie non-idealistiche profilatesi nel primo Novecento di candidarsi al ruolo di alternative plausibili, più ‘moderne’ e più ‘attuali’. Tuttavia una risposta a interrogativi di questo genere – interrogativi che talora hanno assunto e ancora oggi assumono il volto ‘epocale’ di una scelta ultima pro o contro l’idealismo di Croce e Gentile – può venire solo da un’accurata ricostruzione storica, che sia in grado di superare la logica sempre presente, ma sempre fuorviante, dei ‘vinti’ e dei ‘vincitori’: per sondare invece ‘sul campo’ – al di là di formule generali utili per qualche polemica giornalistica, ma di dubbio valore sotto il profilo storiografico e filosofico – quali fossero le posizioni realmente presenti e come esse si configurassero allora (non solo nel panorama italiano). Forse è proprio a partire di qui che molti discorsi sul positivismo ‘in crisi’, sul neokantismo, sul pragmatismo, sulle filosofie legate all’indagine psicologica o alle scienze esatte, su alcuni programmi filosofici e su alcune iniziative volte ora a consolidare, ora a riformare o talvolta persino a rifondare la tradizione, potranno assumere maggiore consistenza; ed è pure a partire di qui che la stessa esperienza del neoidealismo potrà essere ricollocata nel suo contesto, per meglio comprendere ciò che essa ha significato nella storia della filosofia in Italia tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale. Su un punto, in questo senso, non si insisterà mai abbastanza. L’impegno dello storico della filosofia che si occupi delle nostre vicende filosofiche a cavallo dei due secoli deve rivolgersi, seppu-

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re non esclusivamente, nella direzione di rileggere testi e interventi, atti di congressi e fascicoli di riviste per proporre valutazioni meno scontate, o quanto meno non arbitrarie; e tutto questo non già al servizio di una tesi precostituita, o con l’obiettivo di individuare grandi linee di tendenza valide oltre le situazioni concrete, bensì per riaprire un dossier che presenta ancora aspetti se non inediti, certo non adeguatamente sondati, e dal cui esame la stessa parabola dell’idealismo crociano e gentiliano potrà ricevere nuova luce. Da questo punto di vista, speriamo di aver fatto in maniera accettabile il nostro mestiere: stanchi di rivalutazioni indiscriminate, di pretese ‘riscoperte’, di grandi schemi interpretativi, di analisi non sempre sorvegliate, abbiamo voluto soltanto presentare alcune tessere di un mosaico sicuramente più ampio, ma che in ogni caso non potrà essere ricomposto senza un paziente lavoro sui singoli pezzi che lo rendono possibile. Le pagine che seguono sono dedicate alla memoria di Eugenio Garin e Mario Dal Pra: su posizioni diverse ma non senza importanti convergenze, entrambi hanno contribuito in maniera decisiva al rinnovamento della storiografia filosofica italiana nel secondo dopoguerra e hanno dato un contributo insostituibile all’indagine sulle vicende della nostra filosofia nel secolo da poco concluso.

AVVERTENZA

Diamo qui di seguito l’indicazione della prima versione dei saggi raccolti in questo volume, con l’eccezione (come si è già detto) del cap. 7 che è inedito. Il cap. 1 riprende un contributo apparso in I filosofi e la genesi della coscienza culturale della “nuova Italia” (1799-1900). Stato delle ricerche e prospettive di interpretazione, a c. di L. Malusa, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici 1997, pp. 287-299; il cap. 2 rielabora il testo di una relazione raccolta in Pasquale Rossi e il problema della folla. Socialismo, Mezzogiorno, educazione, a c. di T. Cornacchioli e G. Spadafora, Roma, Armando 2000, pp. 39-60; il cap. 3 e il cap. 4 sono stati pubblicati sulla «Rivista di storia della filosofia», XLI, 1986, pp. 421-456 e sulla «Rivista critica di storia della filosofia», XXXVIII, 1983, pp. 50-80 e vengono qui riproposti in una versione ampiamente rimaneggiata; il cap. 5 è comparso per la prima volta, in forma più breve, nel volume I mondi di carta di Giovanni Vailati, a c. di M. De Zan, Milano, Franco Angeli 2000, pp. 1430, mentre il cap. 6 ripropone con varie modifiche uno studio apparso sulla «Rivista di storia della filosofia», XLIV, 1989, pp. 249-285; il cap. 8 è uscito originariamente sul «Giornale critico della filosofia italiana», LXXII, 1993, pp. 304-325 e il cap. 9 rielabora con moltissime integrazioni il contributo apparso nel volume Bernardino Varisco e la cultura filosofica italiana tra positivismo e idealismo, a c. di M. Ferrari, Chiari, Edizioni Fondazione Morcelli-Repossi 1985, pp. 215-232; infine il cap. 10 riprende un saggio uscito sulla «Rivista di filosofia», LXXXIV, 1993, pp. 427-466 (fasc. monografico dedicato a Piero Martinetti nel 50° della morte). Ringrazio gli editori e le riviste che hanno gentilmente concesso l’autorizzazione alla ristampa dei saggi compresi in questo volume.

1 IL N EOKAN TISMO ITALIANO TRA STORIOGRAFIA ED ETICA 1. Molti anni sono trascorsi da quando Giovanni Gentile tracciava sulle pagine della «Critica» di Croce i ritratti dei filosofi italiani (platonici ed hegeliani, positivisti e neokantiani) che dalla seconda metà dell’Ottocento avevano rappresentato le «origini» del pensiero filosofico contemporaneo nella nostra cultura. Quel quadro – a cui tutti, per la verità, hanno largamente attinto, anche quando si trattava di rovesciare le tesi gentiliane – ci appare oggi inesorabilmente datato e così intimamente connesso alla formazione dell’attualismo da dover diventare esso stesso oggetto d’indagine storica, se è vero che scrivendo quelle pagine Gentile non solo faceva i conti con la tradizione filosofica italiana più recente, ma soprattutto definiva gradualmente la sua propria posizione speculativa, che non a caso si sarebbe profilata sempre più nettamente via via che l’assimilazione, ma in larga misura anche la distruzione di quella stessa tradizione, giungevano a compimento1. Come ben noto, in quel contesto Gentile formulava anche un pesante giudizio sul neokantismo italiano e in particolare su Francesco Fiorentino e Felice Tocco, ai quali imputava la responsabilità di aver ridotto la filosofia a puro «atteggiamento spirituale», sempre più inoltrandosi nelle secche del positivismo e in una forma di «impotenza» teorica: una «pigra e scoraggiata voglia di riposo» – a giudizio di Gentile – che si coniugava con uno

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Sulla genesi dell’attualismo e, in particolare, sull’intreccio tra dimensione speculativa e attività storiografica cfr. le ricche indicazioni di E. GARIN, Introduzione a G. GENTILE, Opere filosofiche, a c. di E. Garin, Milano, Garzanti 1991, pp. 13-79.

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sterile filologismo storiografico e un timido, quasi patetico accenno ai diritti dello spirito nella sfera etica2. Come per tutte le valutazioni espresse nella ricostruzione delle Origini della filosofia contemporanea in Italia, anche in questo caso si dovrebbe procedere a un’attenta contestualizzazione dei giudizi gentiliani, che tenesse conto delle circostanze in cui – nel vivo delle polemiche e delle fratture che attraversavano la filosofia italiana dei primi anni del Novecento – venivano a cadere certe ‘scomuniche’, spesso motivate anche da ragioni più contingenti o addirittura da rivalità accademiche3. Del resto è ben noto che Gentile, in realtà, intratteneva un debito intellettuale non irrilevante proprio con studiosi come Fiorentino e soprattutto come Tocco; e se si studia più da vicino la genesi del pensiero di Gentile senza farsi attrarre dalle semplificazioni di chi ama vedere l’attualismo tutto già formato (o meglio, «preformato») nel libro su Rosmini e Gioberti, non è difficile ricostruire una trama di rapporti che, come spesso avviene nella storia della filosofia, rendono non perfettamente affidabili le ricostruzioni post festum dei protagonisti. Gentile stesso, d’altro canto, nel corso della polemica con Rodolfo Mondolfo a proposito dell’interpretazione di Bruno 2

Cfr. G. GENTILE, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, vol. III, I neokantiani e gli hegeliani, t. 1, nuova ed. riveduta a c. di V.A. Bellezza (= Opere di Giovanni Gentile, vol. XXXIII), Firenze, Sansoni 1957, pp. 3 sgg., 47 sgg., 74-75. I due saggi gentiliani su Fiorentino e Tocco erano usciti originariamente sulla «Critica», IX, 1911, pp. 108-140 e 174-194. 3 Utili accenni in questo senso in S. ROMANO, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, nuova ed. integrata, Milano, Bompiani 1990, pp. 90 sgg.; ma si veda soprattutto l’equilibrata esposizione di G. TURI, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze, Giunti 1995, pp. 113-121. Cfr. inoltre F. RIZZO, Gentile e le «Origini della filosofia contemporanea in Italia», in AA.VV., Giovanni Gentile. La filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo, a c. di P. Di Giovanni, Milano, Franco Angeli 2003, pp. 70-93. A proposito della polemica con il neokantismo non andrà dimenticato quanto Gentile aveva già sostenuto, nel febbraio 1903, nella prolusione napoletana al corso libero di Filosofia teoretica, dove in nome della «rinascita dell’idealismo» aveva attaccato (con trasparente allusione a Filippo Masci, al quale lo opponevano e ancora lo avrebbero opposto complesse vicende accademiche) il neokantismo «ammiratore ossequioso e devoto e passivo di tutte le scienze sperimentali» (G. GENTILE, La rinascita dell’idealismo, ora in Opere filosofiche, cit., p. 252). Su questi elementi di contesto ‘locale’ cfr. anche G. OLDRINI, La «rinascita dell’idealismo» e il suo retroterra napoletano, raccolto nel suo volume L’idealismo italiano tra Napoli e l’Europa, Milano, Guerini e Associati 1998, pp. 175-205.

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avanzata da Tocco, riconobbe apertamente – a non molti mesi di distanza dalla morte di Tocco e dalle impietose osservazioni sul suo ‘pigro’ neokantismo consegnate all’articolo steso per la «Critica» – quanto avesse inciso sui suoi studi all’Istituto di Studi Superiori di Firenze l’insegnamento dell’insigne studioso di Kant e di Bruno, le cui «bellissime lezioni, dove tutto era analisi, ordine e lucidezza» avevano lasciato un segno non più dimenticato4. Con tutto questo è un dato di fatto che proprio in quel torno di tempo, tra il 1911 e il 1912, Gentile lasciava cadere su Tocco e su tutto ciò che Tocco così come Fiorentino avevano rappresentato una pesante – per riprendere l’espressione di Eugenio Garin – «lastra tombale»5. Per molti decenni le valutazioni di Gentile hanno fatto scuola, e ben poche sono state le voci che tra le due guerre e nell’immediato secondo dopoguerra si sono levate per ‘riabilitare’ la vicenda del neokantismo italiano e per restituire una diversa collocazione a figure ormai dimenticate: anche se, bisogna riconoscere, la lezione storiografica di Fiorentino, ma soprattutto di Tocco, non è andata del tutto smarrita, e ha continuato ad alimentare quella storia anche ‘filologica’ della filosofia che Gentile tanto disprezzava, purtroppo immemore di quanto egli stesso l’avesse assimilata e in non piccola misura (almeno fino a un certo punto) anche praticata6. 4

Cfr. G. GENTILE, Le fasi della filosofia bruniana, poi in Il pensiero italiano del Rinascimento, (= Opere di Giovanni Gentile, vol. XIV), Firenze, Sansoni 1968, p. 314 (l’articolo era uscito originariamente sulla «Critica», X, 1912, pp. 281-291). Per un dettagliato esame del complesso rapporto GentileTocco mi permetto di rinviare al mio I dati dell’esperienza. Il neokantismo di Felice Tocco nella filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Firenze, Olschki 1990, pp. 422-433; ma si vedano pure S. BASSI, Il sogno di Ezechiele. Felice Tocco e Giovanni Gentile interpreti di Bruno, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 2004 e A. SAVORELLI, A lezione su Vico. Dal corso di Felice Tocco agli «Studi vichiani», «Giornale critico della filosofia italiana», LXXX, 2001, pp. 266-290 (con un’appendice di documenti e testi inediti alle pp. 295325). Il saggio di Savorelli, privo però dell’appendice, è ristampato anche nel suo volume L’aurea catena. Saggi sulla storiografia filosofica dell’idealismo italiano, Firenze, Le Lettere 2003, pp. 221-254. 5 E. GARIN, La cultura italiana tra ’800 e ’900, Bari, Laterza 19762, p. 70. 6 Su Tocco e Fiorentino come esponenti della «migliore storiografia filosofica italiana dell’Ottocento» cfr. PAOLO ROSSI, La storia della filosofia: il vecchio e il nuovo, in AA.VV., Filosofia italiana e filosofie straniere nel dopoguerra, a c. di Pietro Rossi e C.A. Viano, Bologna, Il Mulino 1991, p. 331. La più ampia illustrazione e riconsiderazione della storiografia d’impostazione

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Ma, al di là di Gentile e della storiografia variamente ispirata dalle sue valutazioni, che senso può avere oggi se non una ‘riabilitazione’, almeno una rivisitazione dell’esperienza neokantiana in Italia? Anzi, la domanda può suonare ancora più ultimativa: è esistito un vero e proprio movimento neokantiano in Italia? E anche ammessa una risposta positiva, gli spetta veramente un qualche posto nella più ampia e complicata storia del neocriticismo in Europa? E, infine, cosa è dato trovare nelle pagine non sempre irresistibilmente attraenti dei nostri neokantiani e quanto di esse può venir riletto sottraendosi al puro gusto della pietas antiquaria? Riconosciuta la grande dignità delle attente ricostruzioni di Tocco, sottolineata la più fragile ossatura teorica di quelle di Fiorentino, messo in rilievo – come è doveroso, nonostante gli anatemi gentiliani – il merito che spetta a Carlo Cantoni per aver scritto tra il 1879 e il 1884 una ponderosa monografia su Kant in tre volumi: fatto tutto questo, cosa resta ancora? Vale davvero la pena di rispolverare i volumi farraginosi di Filippo Masci, la produzione elegante ma sfuggente di Alessandro Chiappelli, gli articoli di Giacomo Barzellotti? O non conviene forse saltare direttamente alla metà degli anni Venti, ai Principi di una teoria della ragione di Antonio Banfi che costituiscono se non altro un’eccellente introduzione ad alcuni dei grandi nodi del neocriticismo maturo (soprattutto del neocriticismo tedesco) e ripercorrere la precedente vicenda italiana leggendo ancora, sia pure cum grano salis, le pagine delle Origini di Gentile dedicate ai neokantiani, bisognose sì di molti aggiustamenti ma non smentite, nella sostanza, da ricerche più recenti?7 neokantiana si deve a L. MALUSA, La storiografia filosofica italiana nella seconda metà dell’Ottocento, vol. I, Tra positivismo e neokantismo, Milano, Marzorati 1977, al quale si rimanda una volta per tutte (e si veda ora, di Malusa, anche il quadro tracciato in AA.VV., Storia delle storie generali della filosofia, vol. V, Il secondo Ottocento, a c. di G. Piaia, Roma-Padova, Antenore 2004, pp. 596-618). 7 Alcune di tali ricerche sono peraltro contrassegnate da discutibili tentativi di rivalutazione di pensatori ai quali è francamente difficile attribuire una patente di «originalità speculativa» purtroppo misconosciuta: secondo quanto avviene, ad esempio, in una parte dei contributi dedicati all’opera di Masci raccolti nel volume Filippo Masci e la cultura del suo tempo a centocinquanta anni dalla nascita 1844-1994, a c. di C. Tatasciore, Napoli, La Città del Sole 1998. Per una trattazione criticamente avvertita di figure apparte-

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Eppure, per quanto sia forte (e di fatto lo sia stata per lungo tempo) la tentazione di chiudere con questi interrogativi retorici l’intera questione, varrà la pena di ribadire che il mestiere dello storico della filosofia consiste non solo nel dare nuove risposte a vecchie domande, ma anche nel tentativo di formulare domande nuove (o di mostrare che quelle abituali sono mal poste). Alcuni protagonisti della scena filosofica italiana contemporanea non si stancano di ammonirci sulla sterilità del lavoro dello storico, che per sua disgrazia non pratica le lande solitarie del pensiero – collocate per lo più tra la Grecia e la Foresta Nera – e che ha l’imperdonabile vizio di guardare al ‘particulare’. Sfortunatamente, però, molto spesso gli apostoli del pensiero si accontentano di una visione della storia della filosofia (o se si vuole della tradizione della filosofia) talmente sommaria da non lasciar spazio ad alcuna replica, e magari arrivano a lamentare che tutta la filosofia contemporanea – dagli ermeneuti ai filosofi della scienza – sia solo una grande koiné di epigoni del kantismo, i quali altro non sarebbero che la «cifra» della fine dell’autentico filosofare8. Tuttavia chi abbia la pazienza di seguire il lavoro degli ‘storici’, e prenda tra mano quanto essi hanno prodotto in tempi più recenti anche su questo tema, non dovrebbe far fatica a rendersi conto di come la questione sia tutt’altro che liquidabile con qualche formula più o meno brillante9. nenti all’ambiente genericamente neokantiano del tardo Ottocento italiano cfr. invece M. TORRINI, Giacomo Barzellotti tra storia della cultura e storia della filosofia, in AA.VV., Filosofia e storia della cultura. Studi in onore di Fulvio Tessitore, vol. II, L’età contemporanea, a c. di G. Cacciatore, M. Martirano, E. Massimilla, Napoli, Morano 1997, pp. 721-734. 8 Cfr. C. SINI, Etica della scrittura, Milano, Il Saggiatore 1992, p. 192: «[...] oggi assistiamo a questo grande ritorno epigonale del “kantismo”: vera koiné della filosofia contemporanea dal neopositivismo all’epistemologia e all’ermeneutica. Segno eloquente della resa totale del pensiero al mondo dell’ideologia e della tecnica. Cifra della sua fine». Lo stesso Sini, più sopra, ricorda che «i filosofi non hanno certamente filosofato allo scopo di rendere possibile la storiografia filosofica» (p. 120) e sconsolato sottolinea come la storiografia filosofica sia «la fine della filosofia» (p. 178). 9 Su Kant e la tradizione kantiana in Italia cfr. particolarmente (oltre al lavoro di chi scrive dianzi citato) A. GUERRA, Introduzione a Kant, RomaBari, Laterza 1983, pp. 283-300; AA.VV., La tradizione kantiana in Italia, 2 voll., Messina, G.B.M. 1986; V. VERRA, Kant in Italia, posto ad appendice di O. HÖFFE, Immanuel Kant, trad. it. di S. Carboncini, Bologna, Il Mulino

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Innanzi tutto, il quadro di riferimento non è e non può essere solo quello della nostra ‘provincia’ filosofica alla fine dell’Ottocento. Per tracciare le linee della pur fragile esperienza neocriticista in Italia – «quell’esperienza che tanta importanza ha avuto invece nel clima filosofico tedesco» e che nelle discussioni filosofiche del secondo dopoguerra è talvolta apparsa come uno degli anelli malauguratamente mancanti della nostra cultura10 – occorre infatti ricostruire come sia venuto disegnandosi, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, il percorso del neokantismo soprattutto (anche se non esclusivamente) nelle vicende filosofiche della Germania, ossia entro il contesto al quale più massicciamente erano rivolte le attenzioni di quanti – dagli allievi di Spaventa come Fiorentino, Tocco, Masci sino a studiosi come Cantoni formatisi anche a contatto con filosofi del calibro di Adolf Trendelenburg e Hermann Lotze – maturarono un avvicinamento al criticismo kantiano intorno alla fine degli anni Sessanta11. D’altro canto il neokantismo tedesco è stato oggetto di una cospicua ripresa di studi nel corso degli ultimi due decenni: studi grazie ai quali siamo in grado oggi di leggere e ricostruire il ‘ritorno a Kant’ di Zeller e di Liebmann, di Lange e di Helmholtz, le vicende della scuola di Marburgo dal primo Cohen sino a Cassirer, il neocriticismo del Baden e la ‘filosofia dei valori’, le acquisizioni spesso fondamentali della cosiddetta Kant-Philologie, le interpretazioni neokantiane della scienza moderna, e poi ancora la filosofia della cultura del primo Novecento, una parte rilevante dello storicismo, gli esordi dell’empirismo logico, la fenomenologia di Husserl e persino l’«ontologia fondamentale» di Martin Heidegger in una luce nuova, a volte anche molto nuova: sempre, comunque, in termini diversi da quelli consegnati, in una comune e forse non casuale volontà di semplificazione, tanto ai manuali

1986, pp. 287-291; V. D’ANNA, Kant in Italia. Letture della “Critica della ragion pura” 1860-1940, Bologna, Clueb 1990; P. DI GIOVANNI, Kant ed Hegel in Italia, Roma-Bari, Laterza 1996, pp. 63-133. 10 Cfr. quanto scriveva Pietro Rossi sulla «Rivista di filosofia», L, 1959, p. 107 recensendo la traduzione italiana gli ultimi due volumi della Storia della filosofia moderna di Ernst Cassirer. 11 Per un’esposizione di questi molteplici percorsi rinvio ancora a I dati dell’esperienza, cit., pp. 187-217.

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scolastici quanto alle opere di non pochi maîtres à penser dei nostri giorni12. Certamente, in questo contesto i nostri neokantiani di fine Ottocento continuano a rivestire un ruolo del tutto marginale. Ma nessuno, in realtà, si propone di riabilitarli se con questo si intende una loro riscoperta teorica, o la pretesa di rimetterli in circolazione nella discussione odierna: in una parola, di renderli ‘attuali’. Essi tuttavia – ed è questo l’elemento che maggiormente rende obsoleta la valutazione di Gentile – fecero parte, in un arco di tempo piuttosto ampio che va dagli anni Sessanta dell’Ottocento sino al primo decennio del Novecento, di una koiné (usiamo anche noi questo termine tanto in voga) che non è affatto riducibile allo schema così caro a Gentile della «reazione della

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Un quadro stimolante delle ricerche sul neokantismo tedesco è offerto dal volume Neukantianismus. Perspektiven und Probleme, a c. di E.W. Orth e H. Holzhey, Würzburg, Königshausen & Neumann 1994. Cfr. inoltre (a titolo puramente indicativo) l’antologia di testi Il neocriticismo tedesco, a c. di G. Gigliotti, Torino, Loescher 1983; K.CH. KÖHNKE, Entstehung und Aufstieg des Neukantianismus. Die deutsche Universitätsphilosophie zwischen Idealismus und Positivismus, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1986; H. HOLZHEY, Cohen und Natorp, 2 voll., Basel-Stuttgart, Schwabe 1986; AA.VV., Materialien zur Neukantianismus-Diskussion, a c. di H.-L. Ollig, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1987; M. FERRARI, Il giovane Cassirer e la scuola di Marburgo, Milano, Franco Angeli 1988; G. GIGLIOTTI, Avventure e disavventure del trascendentale. Saggio su Cohen e Nartorp, Napoli, Guida 1989; AA.VV., Rickert tra storicismo e ontologia, a c. di M. Signore, Milano, Franco Angeli 1989; R. BONITO OLIVA, Il compito della filosofia. Saggio su Windelband, Napoli, Morano 1990; U. SIEG, Aufstieg und Niedergang des Marburger Neukantianismus. Die Geschichte einer philosophischen Schulgemeinschaft, Würzburg, Königshausen & Neumann 1994; L. HERRSCHAFT, Theoretische Geltung. Zur Geschichte eines philosophischen Paradigmas, Würzburg, Königshausen & Neumann 1995; S. BESOLI, La coscienza delle regole. Tre saggi sul normativismo di Windelband, Firenze, Vallecchi 1996; M. FERRARI, Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, Firenze, Olschki 1996; AA.VV., Conoscenza, valori e cultura. Orizzonti e problemi del neocriticismo, a c. di S. Besoli e L. Guidetti, Firenze, Vallecchi 1997; M. FERRARI, Introduzione a Il neocriticismo, Roma-Bari, Laterza 1997; M. PASCHER, Einführung in den Neukantianismus, München, Fink 1997; AA.VV., Sinn Geltung Wert. Neukantianische Motive in der modernen Kulturphilosophie, a c. di Ch. Krijnen e E.W. Orth, Würzburg, Königshausen & Neumann 1998; Der Neukantianismus und das Erbe des deutschen Idealismus: die philosophische Methode, a c. di D. Pätzold e Ch. Krijnen, Würzburg, Königshausen & Neumann 2002.

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scienza naturalistica contro la filosofia»13. Quando si abbandoni un’ottica angustamente ‘nazionale’ e si segua lo sviluppo anche in Italia di un indirizzo neokantiano che viene svolgendosi almeno sino ai primi anni Ottanta in sintonia con quanto avveniva soprattutto in Germania, e quando una simile rilettura prenda le mosse dal livello della discussione d’oltralpe alla quale espressamente i vari Fiorentino, Tocco, Cantoni, Barzellotti non solo volevano adeguarsi, ma che addirittura assumevano come un salutare correttivo dei limiti di una tradizione ‘italica’ identificabile con il giobertismo e la «filosofia delle scuole italiane» di Mamiani – quando dunque si compia questo mutamento dello ‘sguardo’ storiografico è possibile gettare una luce un po’ diversa su un capitolo della storia della filosofia italiana non privo d’interesse; e al tempo stesso è possibile reimpostare, almeno entro certe coordinate temporali e con riferimento a un aspetto specifico, la tanto vexata quaestio della nostra tradizione filosofica, di cui si è parlato spesso e volentieri, in tempi anche recenti, più a colpi di schemi generali che in termini di circoscritta indagine su momenti ben precisi della storia della filosofia in Italia14.

2. Da questo punto di vista occorre tener presente che i primi accenni a un ‘ritorno a Kant’ nella nostra cultura filosofica 13

Va aggiunto che Gentile tenne fede a una simile valutazione anche quando ebbe a confrontarsi (in verità raramente) con il panorama europeo del neocriticismo: si vedano in particolare le considerazioni conclusive di un articolo del 1908 dedicato a Renouvier, in cui è denunciato «il metodo bastardo» consistente nell’affrontare «la filosofia con le armi corte della scienza empirica» (La fine del neocriticismo, «La Cultura», XXVII, 1908, pp. 626639, ora in Frammenti di storia della filosofia, a c. di H.A. Cavallera [= Opere di Giovanni Gentile, vol. LIV-LV], Firenze, Le Lettere 1999, pp. 125-137 [qui p. 137]). Eppure l’influenza dell’interpretazione gentiliana non è del tutto assente nemmeno in lavori più recenti, in cui si parla troppo sbrigativamente del confluire del neokantismo italiano del tardo Ottocento nell’«alveo» del positivismo e della sua inesorabile crisi maturata insieme a quella del positivismo stesso (cfr. V. D’ANNA, Kant in Italia, cit., pp. 82-83, 95). 14 Si vedano ad esempio le considerazioni sul neokantismo italiano come pura ‘deformazione’ di Kant (e di cui Gentile non avrebbe avuto eccessiva difficoltà a sbarazzarsi) svolte da G. MICHELI, Scienza e filosofia da Vico a oggi, in AA.VV., Storia d’Italia. Annali 3: Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento a oggi, a c. di G. Micheli, Torino, Einaudi 1980, pp. 589-592.

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non solo sono singolarmente tempestivi, dal momento che maturano nel corso degli anni Sessanta sulle orme di quanto in Germania Kuno Fischer e Eduard Zeller venivano scrivendo intorno alla rinnovata attualità di Kant, ma al tempo stesso costituiscono un significativo momento di crisi dell’hegelismo della scuola di Spaventa15. Questa crisi, certamente alimentata dall’avvio del dibattito sul positivismo, dalla influenza assai marcata di Trendelenburg e dell’herbartismo, e più in generale dalla difficoltà di tener fede al programma spaventiano in un’epoca sempre più positiva e sempre meno speculativa, si consuma tuttavia in una direzione che non a caso viene a incontrarsi appunto con due exhegeliani come Fischer e Zeller16. Tanto Fiorentino quanto soprattutto il giovanissimo Tocco, che contrariamente a quanto si ritiene abitualmente svolge un ruolo trainante rispetto a Fiorenti-

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Ciò vale tanto per Tocco quanto per Fiorentino. Tocco aveva discusso (seppure ancora nell’ottica di Spaventa) sia il celebre discorso di Zeller del 1862 Über Bedeutung und Aufgabe der Erkenntnistheorie, sia la seconda edizione di Logik und Metaphysik di Fischer (cfr. «Rivista Bolognese», I, 1867, vol. I, pp. 649-652); e gli effetti di questo dialogo con i due ex-hegeliani riavvicinatisi a Kant già si fanno sentire nei successivi Studii sul positivismo, «Rivista contemporanea nazionale italiana», XVII, 1869, vol. LVII, pp. 329-339 e vol. LXVIII, pp. 21-37, ove Tocco afferma che «il ritorno al criticismo parrà oltremodo necessario e salutare» (p. 338) e si impegna nella riproposizione (mediata da Fischer) della Wissenschaftslehre come riflessione sul ‘fatto della conoscenza’ (p. 37). Per parte sua, e in termini non dissimili, Fiorentino dichiara nel 1870 che lo statuto critico della filosofia ha da essere ancorato al «problema della conoscenza» (cfr. Scritti varii di letteratura, filosofia e critica, Napoli, Morano 1876, pp. 449-450); e del resto le dichiarazioni di ‘kantismo’ sono – pur con tutte le loro caratteristiche oscillazioni – relativamente frequenti nel Fiorentino dei tardi anni Sessanta. Scrive ad esempio a Donato Jaja, l’11 aprile 1870: «Kant è per me il solo che possa disporre lo spirito alla vera speculazione: gli altri filosofi girano attorno al problema speculativo» (M.A. DEGL’INNOCENTI VENTURINI, Donato Jaja nel carteggio con Marianna Florenzi Waddington, «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», LXXXIX, 1978, p. 389 n. 18). Ma già nel 1865, nella sua prolusione bolognese su Kant, a un certo punto aveva esclamato: «noi tutti popoli moderni siamo Kantiani a nostra insaputa» (Emmanuele Kant e il mondo moderno, «La Civiltà Italiana», I, 1865, n. 3, p. 37). 16 Su entrambi cfr. la presentazione d’insieme di T.E. WILLEY, Back to Kant. The Revival of Kantianism in German Social and Historical Thought 1860-1914, Detroit, Wayne State University Press 1978, pp. 58-82. Si veda inoltre la recente monografia di E.A. COLOMBO, Logica e metafisica in Kuno Fischer, Milano, Unicopli 2004.

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no17, si orientano verso lo zurück auf Kant sia perché (si pensi alla Wissenschaftslehre di Fischer) il recupero di Kant avviene in qualche misura ancora entro un’eredità hegeliana (o meglio hegeliano-fichtiana), sia perché – e su questo si deve insistere – è la profonda insoddisfazione nei confronti della storia della filosofia così come era praticata dall’hegelismo (ivi compreso Spaventa) a sollecitare l’abbandono di schemi categoriali troppo rigidi e a preparare quella svolta verso il ‘fattuale’ che si farà sempre più marcata18. Proprio perché impegnati, da seguaci di Spaventa, sul terreno della storia della filosofia e della sua circolazione, Tocco e poi Fiorentino iniziano ad operare una torsione metodologica dell’hegelismo che via via lo svuota di ogni fisionomia speculativa, onde al termine di questo percorso – dapprima in Tocco già alla fine degli anni Sessanta, e poi in Fiorentino nel decennio successivo – i modelli rispettivamente incarnati da Fischer e ancor più da Zeller assumono una funzione estremamente importante19. 17

È quanto si ricava in particolare da alcune lettere inedite di Tocco a Fiorentino scritte tra la fine del 1867 e gli inizi del 1868, sulle quali si è richiamato l’attenzione in I dati dell’esperienza, cit., p. 54. 18 Tocco lo avrebbe efficacemente ricordato in una lettera inedita a Gentile del 21 dicembre 1906, lettera che peraltro si riferiva alla ripubblicazione gentiliana degli Elementi di filosofia di Fiorentino e che diede origine al noto, duro intervento di Gentile sulla Hegellosigkeit italiana (su questo episodio cfr. F. RIZZO CELONA, Da un secolo all’altro. Figure e problemi della filosofia italiana tra Otto e Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino 1994, pp. 13-29). 19 È appena il caso di ricordare come la più completa teorizzazione del nuovo atteggiamento storiografico sia consegnato al saggio di Tocco Pensieri sulla storia della filosofia, «Giornale Napoletano di Filosofia e Lettere», III, 1877, vol. V, pp. 1-15. Sulle letture da parte di Tocco delle opere storiche di Zeller e di Fischer (da me già segnalate nella monografia più volte ricordata) cfr. anche A. OLIVIERI, Felice Tocco. Le carte e i manoscritti della Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze, Firenze, Olschki 1991, pp. 190-197, 286-292. Anche per quanto riguarda Fiorentino sono almeno da considerare, a lato della sua produzione storiografica maggiore (dal Pomponazzi al Telesio), appunto le letture di Zeller e Fischer (con i quali egli era pure in contatto personale; e Fischer aveva, per parte sua, un’alta stima del libro su Telesio): si vedano tra l’altro le recensioni di due volumi della Geschichte der neueren Philosophie di Fischer risalenti al 1878 e al 1879, poi ripubblicate in F. FIORENTINO, Ritratti storici e saggi critici, raccolti da G. Gentile, Firenze, Sansoni 1935, pp. 178-188, 189-209. Su questo punto cfr. pure Cinque lettere di Eduard Zeller a Francesco Fiorentino, a c. di F. Cacciapuoti, «Giornale critico della filosofia italiana», LXIV, 1985, pp. 248-263. Ma assai significativi rimangono, in generale, i ‘ritratti’ dei due storici tede-

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D’altra parte tutta la discussione influenzata dal neokantismo tedesco che si svolge in Italia nel corso degli anni Settanta e che culmina con gli studi sulla Critica della ragion pura di Tocco e la pubblicazione del primo volume della monografia di Cantoni non potrebbe essere messa a fuoco – ovviamente anche in tutti i suoi limiti – se non si facesse costante riferimento a quanto in quegli anni Lange, il primo Cohen, Riehl, il giovane Paulsen, Benno Erdmann, Stadler, Vaihinger venivano scrivendo dando un impulso decisivo al definitivo affermarsi del neokantismo in Germania20. Il rapporto tra Kant e le scienze, la legittimità o meno di un’interpretazione psicologica delle strutture a priori, l’esatta collocazione storica di Kant nella cultura del suo tempo, l’avvio di una ‘filologia kantiana’ che troppo spesso viene ancora oggi sottovalutata: questi i nodi fondamentali che dal dibattito tedesco si trasferiscono nella cultura filosofica italiana, lungo un processo di adattamento e di ‘traduzione’ che certo rende il ‘rischi stesi molti anni più tardi da Tocco: cfr. Edoardo Zeller, «Il Marzocco», XIII, n. 13, 20 marzo 1908; Edoardo Zeller, «Atene e Roma», XI, 1907, n. 112, coll. 127-131 e Kuno Fischer, «Il Marzocco», XII, n. 28, 14 luglio 1907. Sulla storiografia filosofica di Zeller e Fischer si vedano i puntuali profili stesi da Mario Longo per la Storia delle storie generali della filosofia, cit., pp. 174-215. 20 Emblematico resta, sotto questo profilo, quanto annotava Barzellotti nel suo articolo La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica in Germania, «Nuova Antologia», XV, s. II, vol. XIX, 15 febbraio 1880, pp. 591-630 (ma di Barzellotti cfr. pure La filosofia in Italia, «Nuova Antologia», XIV, s. II, vol. XIII, 15 febbraio 1879, pp. 605-647 e soprattutto La critica della conoscenza e la metafisica dopo il Kant, «La filosofia delle scuole italiane», IX, 1878, vol. XVII, pp. 299-329 e vol. XVIII, pp. 29-54; X, 1879, vol. XX, pp. 129-153). I saggi di Tocco cui si fa riferimento nel testo sono rispettivamente L’analitica trascendentale e i suoi recenti espositori, «La filosofia delle scuole italiane», XI, 1880, vol. XXI, pp. 136-154; L’analitica dei principii, «La filosofia delle scuole italiane», XI, 1880, vol. XXII, pp. 129-164; Fenomeni e noumeni, «La filosofia delle scuole italiane», XII, 1881, vol. XXIII, pp. 250-295 (tutti ristampati, «senza aggiungervi o togliervi sillaba», negli Studi kantiani, Palermo, Sandron 1909, pp. 49-172). Di Cantoni cfr. Emanuele Kant, vol. I, La filosofia teoretica, Milano, Brigola 1879, cui seguirono il vol. II, La filosofia pratica (morale, diritto, politica), Milano, Brigola 1883 e il vol. III, La filosofia religiosa, la Critica del Giudizio e le dottrine minori, Milano, Hoepli 1884. In maniera assolutamente incomprensibile Tocco, che è certo la figura più interessante in questo dibattito, non è mai trattato nel libro di Di Giovanni, il quale si limita a ricordarlo per il Trattato elementare di psicologia dei tardi anni Novanta (cfr. P. DI GIOVANNI, Kant e Hegel in Italia, cit., p. 128 n. 284).

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torno a Kant’ in Italia un fenomeno a margine di quello europeo, ma che pure va visto proprio in questo contesto. E tuttavia – anche in lavori recenti che si collocano ormai al di fuori della storiografia idealistica – questo aspetto viene trascurato, magari ricalcando l’immagine codificata da Gentile di un neokantismo d’oltralpe ridotto a variante del positivismo e a ingenuo tentativo di interpretare l’a priori con la fisiologia degli organi di senso. Occorre invece sottolineare chiaramente che quando si comprenda che questa immagine è solo un’immagine polemica, e quando si riconosca che il grande peso esercitato dagli sviluppi della psicologia scientifica sul dibattito a sfondo neokantiano non è solo un episodio di degenerazione speculativa, si possono aprire anche le pagine dei nostri filosofi con un atteggiamento diverso21. Nessuno vuole negare la fragilità delle sintesi ben informate ma farraginose di Giovanni Cesca22, o il carattere non altissimo di quanto Masci scrive ad esempio nel 1881 nel suo contributo in fondo meno indegno, e cioè Le forme dell’intuizione23; nessuno intende negare che l’impresa in tre volumi di Cantoni è compromessa da quell’impostazione ontologica che fa di lui un ‘dogmatico’ (come obiettava Tocco), al punto da fargli parlare di un «Reale assoluto» come materia e fonte delle «nostre cognizioni» e di cui le categorie sarebbero solo un ‘riflesso’24; e nessuno può tacere che lo stesso Tocco, certo il più esperto tra gli interpreti italiani di Kant, finisce per impigliarsi in una riduzione psicologica e genetica dell’estetica trascendentale (mediata da Wundt ma 21

In generale, per una rilettura dell’Ottocento filosofico tedesco alla luce dell’incidenza della psicologia come scienza, cfr. S. POGGI, I sistemi dell’esperienza. Psicologia, logica e teoria della scienza da Kant a Wundt, Bologna, Il Mulino 1977. 22 Si ricordino soprattutto G. CESCA, Storia e dottrina del criticismo, Verona-Padova, Drucker & Tedeschi 1884 e La dottrina kantiana dell’apriori, Verona-Padova, Drucker & Tedeschi 1885. 23 Cfr. F. MASCI, Le forme dell’intuizione, Chieti, Del Vecchio 1881 (e la recensione di Tocco nella «Rassegna critica di opere filosofiche, scientifiche e letterarie», I, 1881, pp. 197-203). 24 Cfr. C. CANTONI, Emanuele Kant, vol. III, cit., p. 387 e vol. I, cit., p. 336. Si vedano le riserve di Tocco contro il kantismo riletto come «iniziatore di una nuova metafisica» nella lettera a Cantoni del 20 luglio 1884 pubblicata in Lettere di Felice Tocco a Carlo Cantoni (1870-1900), a c. di M. Ferrari, «Atti e memorie dell’Accademia Toscana di scienze e lettere “La Colombaria”», vol. XLVIII, 1983, p. 180.

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anche da Spencer) sulla base di una valutazione critica dell’impostazione trascendentale kantiana che segna il progressivo divorzio dagli sviluppi maturi del neokantismo in Germania (segnatamente delle scuole di Marburgo e del Baden)25. Eppure, nonostante questo, nella tradizione filosofica italiana dell’ultimo Ottocento e del primo decennio del Novecento, quando si assiste a una ripresa del neokantismo nel clima segnato dalla crisi del positivismo e dalla pretesa ‘bancarotta della scienza’, il gruppo né folto né compatto dei nostri neocriticisti – quale lo si può incontrare sui fascicoli della «Rivista Filosofica» di Cantoni – non costituisce un fenomeno marginale da relegare in una nota a pie’ di pagina26. E ciò vale, in primo luogo, proprio sul piano dell’impegno storiografico: si pensi a quanto l’ultimo Fiorentino e soprattutto il Tocco maturo vengono pubblicando in un intreccio spesso rilevante con gli sviluppi della storia della filosofia quale si era delineata in Germania (non solo con Zeller, ma anche con Dilthey e con Natorp, per far solo due nomi di rilievo); ma si pensi pure, per quanto riguarda più in particolare la filosofia di Kant, ai due saggi che Tocco scrive sui Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft e sull’Opus postumum, saggi oggi inesorabilmente invecchiati ma allora, al contrario, di notevole rilievo e addirittura, per quanto riguarda l’Opus postumum, di valore pioneristico27. A ben guardare, anzi, si è trattato qui dell’inizio di una storiografia su Kant che altrove avrebbe conosciu25

Significativi in proposito gli ‘slittamenti’ dai primi saggi già ricordati sulla Critica della ragion pura degli anni 1880-1881 ai contributi che appaiono per la prima volta negli Studi kantiani, cit., pp. 23-48 (in cui Tocco rifonde parte dei suoi corsi universitari degli anni Novanta e dei primi del Novecento). Molto importante in questo senso rimane però il corso inedito del 1886-1887 su Kant e Spencer, per la cui illustrazione rimandiamo a I dati dell’esperienza, cit., pp. 274-283. 26 Per la rivista di Cantoni si veda il lavoro di P. GUARNIERI, La “Rivista Filosofica” (1899-1908). Conoscenza e valori nel neokantismo italiano, Firenze, La Nuova Italia 1981. Cfr. inoltre V. D’ANNA, Temi del neokantismo tedesco nelle riviste italiane di filosofia alla fine dell’Ottocento, «Giornale critico della filosofia italiana», LXV, 1986, pp. 249-263 27 Cfr. F. TOCCO , Del passaggio dalla metafisica della natura alla fisica, «Kantstudien», II, 1898, pp. 66-89 (anche in «Rivista Filosofica», I, 1899, vol. II, pp. 33-77) e I principi metafisici della scienza della natura, «Rivista Filosofica», I, 1899, vol. I., pp. 20-49: entrambi ripubblicati negli Studi kantiani, cit., rispettivamente pp. 213-271 e 173-212.

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to sviluppi persino imponenti, ma che in Italia è rimasta invece a lungo bloccata da altre e più influenti immagini del pensiero kantiano: sia nel senso dell’univoca insistenza dell’idealismo sulla sintesi a priori come atto spirituale, sia più tardi nel senso di interpretazioni ontologiche o ontologico-spiritualistiche che hanno reciso, piuttosto che rafforzato, quella linea di ricerca su ‘Kant e la scienza’ abbozzata da Tocco già alla fine degli anni Settanta. Anche in questo caso, insomma, se si considerano le cose da una prospettiva diversa e possibilmente più prossima ad alcuni esiti della Kant-Forschung contemporanea (ma in realtà già presenti nel dibattito di fine Ottocento), non tutto sembra destinato alla condanna senza appello emessa a suo tempo da una storiografia nutrita di presupposti ‘speculativi’ di cui oggi nessuno può rimpiangere l’esaurimento.

3. Non si insisterà mai abbastanza, del resto, su un’altra circostanza che caratterizza in maniera significativa la discussione italiana a sfondo neokantiano. Al di là del peso rilevante che ebbe il Kant della teoria della conoscenza nella prospettiva di una sua contaminazione psicologica28, occorre sottolineare – ed è un aspetto sul quale Gentile e molta storiografia successiva hanno sostanzialmente taciuto – il ruolo tutt’altro che marginale del Kant pratico, del Kant della morale e dell’orientamento dell’uomo. È noto in verità che su questo punto ruota, con tutta la sua discutibilissima inversione del rapporto tra religione e morale e la contestuale rivalutazione del ruolo centrale del «sentimento», il secondo volume dell’Emanuele Kant di Cantoni, che forse incise sulla formazione della cosiddetta scuola pavese di Cantoni (da Credaro a Vidari a Juvalta) più ancora dell’analisi dedicata alla Critica della ragion pura29. Ma assai meno noto è invece che anche 28

Cfr. tra l’altro A. CHIAPPELLI, Nuove osservazioni sulle attinenze fra il criticismo kantiano e la psicologia inglese e tedesca, «La filosofia delle scuole italiane», XVI, 1885, vol. XXXI, pp. 169-201 (ristampato in Dalla critica al nuovo idealismo, Milano-Torino-Roma, Bocca 1910, pp. 248-271). 29 Del resto proprio Cantoni aveva auspicato che il «grandissimo progresso» compiuto da Kant nella morale potesse «rendere più vivace e più gagliardo presso di noi il culto delle scienze morali» (Emanuele Kant, vol. II, cit., pp. VII-VIII). Sulla scuola pavese cfr. L. CREDARO, La Scuola di Pavia di

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Tocco, soprattutto nei suoi scritti rimasti inediti e nelle molte lezioni universitarie che tenne su Kant in trent’anni di insegnamento all’Istituto di Studi Superiori di Firenze, lungamente discusse e interpretò la morale kantiana. Anzi, il primo organico scritto che Tocco abbia dedicato a Kant risale al 1869 (rimase poi inedito per ragioni non del tutto chiare), ed è un tentativo – essenzialmente sulla scorta delle posizioni di Trendelenburg – di operare una integrazione aristotelica del formalismo kantiano, così come di mettere a fuoco (seguendo qui un altro autore importante per la prima ondata del ‘ritorno a Kant’, e cioè Schopenhauer) le difficoltà che si annidano nella dottrina del carattere intelligibile. Un tema sul quale Tocco, pur mutando prospettiva, tornerà ancora nel primo decennio del Novecento prendendo peraltro posizione nei confronti di Simmel, ma sempre tenendo fermo al valore della morale del dovere, a quell’idea regolativa che anima anche la sua storiografia religiosa30. A questo filone della discussione italiana su Kant si è prestata, solitamente, una scarsa attenzione. Eppure è qui che si possono rinvenire le radici di ricerche morali come quelle di Juvalta (che di Cantoni fu allievo) o di Limentani, che a Firenze rappresentò anche sotto questo profilo un degno proseguimento dell’eredità di Tocco nonostante il suo orientamento positivistico. Ma andrebbe fatto almeno anche il nome di Rodolfo Mondolfo, di cui tutti hanno a mente la formazione fiorentina con Tocco, ma del quale non sempre si ricordano i motivi kantiani che ispirano la sua interpretazione del materialismo storico, in sintonia con il dibattito tedesco sul ‘socialismo neokantiano’. In realtà il Mondolfo del primo decennio del secolo era vicino a una certa immaCarlo Cantoni e Giovanni Vidari, «Rivista Pedagogica», XXVII, 1934, pp. 653-673. 30 Per una descrizione dell’inedito di Tocco su I Principii dell’Etica Kantiana, conservato nella Cartella grande n. 16 del Fondo Tocco presso la Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze, si rinvia a I dati dell’esperienza, cit., pp. 117-133 (e v. pure A. OLIVIERI, Felice Tocco, cit., pp. 171-172). Per quanto si dice nel testo cfr. inoltre Studi kantiani, cit., pp. XVI-XVIII nonché, ad esempio, gli Studi francescani, Napoli, Perrella 1909, pp. 161-162 (e per le lezioni sul Kant pratico del primo Novecento alcune notizie ancora in I dati dell’esperienza, cit., pp. 406-408). La dimensione etica del kantismo di Tocco è invece del tutto trascurata da V. D’ANNA, Kant in Italia, cit., p. 94.

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gine della morale kantiana e dell’idea dell’humanitas che gli veniva dalle lezioni su Kant del suo maestro Tocco; ed egli ne faceva liberamente uso nel libro su Engels del 1912, specie in quelle pagine tutte da rileggere in cui il materialismo storico si salda al diritto di natura da Croce tanto bistrattato e, soprattutto, si congiunge al compito proprio della morale di valutare «eticamente» la situazione storica della classe lavoratrice in nome dell’«ideale»: «come ogni ideale che abbia a rimaner sempre degno di questo nome» esso costituisce per Mondolfo un «punto-limite», la mèta infinita e «perennemente progressiv[a]» che sorge dall’«opposizione dialettica alla realtà, come superamento di essa»31. D’altra parte è interessante osservare come a partire da una «riflessione attenta prevalentemente al problema etico della realizzazione dell’ideale dell’umanità»32 Mondolfo si incontrasse con uno studioso come Karl Vorländer, il cui libro del 1911 (ripubblicato ampliato nel 1926) su Kant und Marx non solo costituisce ancora oggi una fonte indispensabile per ripercorrere la discussione su Kant e il socialismo (da Lange a Cohen, da Natorp a Staudinger, da Bernstein a Max Adler), ma offre anche una serie di rimandi ai filosofi italiani che di quella discussione furono, e sia pure sullo sfondo, parte in causa33. 31

R. MONDOLFO, Il materialismo storico in Federico Engels, Firenze, La Nuova Italia 1973, pp. 356-364. Per un significativo riferimento a Lange (svolto però nel 1962) cfr. anche La concezione dell’uomo in Marx, poi in R. MONDOLFO, Umanismo di Marx. Studi filosofici 1908-1966, introduzione di N. Bobbio, Torino, Einaudi 1968, p. 313. Ma in questo contesto vale la pena di rileggere anche quanto Mondolfo scriveva nel saggio Dalla Dichiarazione dei diritti al Manifesto dei comunisti, uscito nel 1906 sulla «Critica sociale», e più tardi, nel 1924, nell’articolo L’idealismo di Jaurès e la funzione storica delle ideologie (anch’esso pubblicato sulla «Critica sociale»): entrambi i testi sono raccolti nel volume Tra teoria sociale e filosofia politica. Rodolfo Mondolfo interprete della coscienza moderna. Scritti 1903-1931, a c. di R. Medici, Bologna, Clueb 1991, pp. 29-53, 143-147. Per un esame più accurato di alcuni dei temi qui accennati si rimanda a W. TEGA, Locke, Rousseau, Marx: tra il diritto di natura e il comunismo, in AA.VV., Filosofia e marxismo nell’opera di Rodolfo Mondolfo, Firenze, La Nuova Italia 1979, pp. 105-134. 32 M. VIROLI, Filosofia e politica nel ‘Federico Engels’ di Mondolfo, in AA.VV., Pensiero antico e pensiero moderno in Rodolfo Mondolfo, a c. di A. Santucci, Bologna, Cappelli 1979, p. 187. 33 Cfr. K. VORLÄNDER, Kant und Marx. Ein Beitrag zur Philosophie des Sozialismus, 2ª ed. rielaborata, Tübingen, Mohr 1926, pp. 225-227, 272273. Di Vorländer è ora da segnalare la traduzione italiana della sua disserta-

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Da Mondolfo il discorso dovrebbe a questo punto allargarsi ai contributi, sebbene di differente valore, di Alessandro Chiappelli (è del 1897 il libro su Il socialismo e il pensiero moderno) e di Giovanni Vidari, per arrivare soprattutto ad Alfredo Poggi (senza dimenticare, nell’infuocato periodo del primo dopoguerra, la figura di Adelchi Baratono)34. Il caso di Poggi, a ben vedere, è forse il più emblematico, e il suo itinerario iniziato con le lezioni pavesi di Vidari sull’«austera dottrina morale kantiana» per poi giungere ad accogliere l’invito di Antonio Labriola ad occuparsi «di quei neokantiani (tedeschi) i quali pretendono di conciliare Kant e Marx» (come gli scriveva il 30 dicembre 1902), meriterebbe di essere accuratamente ripercorso35. Popolato di figure di primo piano, da Vorländer (con cui fu a lungo in contatto epistolare) allo stesso Mondolfo, il tragitto di Poggi si incrocia sin dall’opuscolo del 1904 su Kant e il socialismo tratto dalla sua tesi di laurea con la questione sociale «come questione morale», e più in generale con il problema della praxis e della funzione degli ideali in una concezione ‘smaterializzata’ dei fenomeni sociali («[occorre] animare il socialismo di spirito kantiano, appunto per zione del 1893 sul formalismo dell’etica kantiana, in cui è felicemente condensata l’interpretazione originariamente proposta da Cohen e accolta poi da tutta la scuola di Marburgo (cfr. K. VORLÄNDER, Il formalismo dell’etica kantiana nella sua necessità e fecondità, a c. di G. Mancuso, Milano, Unicopli 2003). 34 A proposito del libro (in verità abbastanza mediocre) di G. VIDARI, L’individualismo nelle dottrine morali del secolo XIX, Milano, Hoepli 1909 (che fu premiato dall’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli con una motivazione che esplicitamente rimandava al socialismo neokantiano) è da vedersi la recensione scritta proprio da Mondolfo per la «Cultura Filosofica», III, 1909, pp. 468-472. Su questo complesso di questioni ha richiamato l’attenzione W. TEGA, Etica e politica nella cultura italiana del Novecento: un caso da riaprire, in AA.VV., Etica e politica, a c. di W. Tega, Parma, Pratiche Editrice 1984, pp. 121-149; cfr. inoltre P. DI GIOVANNI, Kant e Hegel in Italia, cit., pp. 153-169. 35 Cfr. A. POGGI, I rapporti tra il marxismo e la morale kantiana, «Critica Sociale», LIII, 1961, pp. 147-152. Si veda pure M. TORRINI, Poggi Alfredo, in F. ANDREUCCI-T. DETTI, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, Roma, Editori Riuniti 1978, vol. IV, pp. 195-199 (e per una rassegna di testi labroliani che prendono duramente le distanze dal neokantismo cfr. A. GIUGLIANO, Appunti su Labriola e il neokantismo, in AA.VV., Antonio Labriola filosofo e politico, a c. di L. Punzo, Milano, Guerini e Associati 1996, pp. 145-176).

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smaterializzarlo»)36. Ma ancora nel 1925, sotto gli auspici editoriali di Piero Gobetti, Poggi sarebbe intervenuto sul nesso tra socialismo e cultura alla vigilia della lunga notte del fascismo, non senza insistere nuovamente sui meriti essenziali di Mondolfo per aver liberato il materialismo storico dalle «incrostazioni deterministiche», facendone invece «una vera filosofia dell’azione»: di qui era nata l’interpretazione del socialismo come «movimento di natura morale», e di qui era partito quel ‘ritorno al dovere kantiano’ che consentiva di accostare al «politico rivoluzionario» il «filosofo riflessivo» in nome del «valore universale dell’individuo»37. Erano, certo, i nodi cruciali di un dibattito che aveva avuto il suo epicentro altrove e che era stato di grande rilievo soprattutto nel contesto tedesco; eppure, ancora una volta, una parte della nostra cultura filosofica non risulta estranea a un capitolo significativo della filosofia (e della cultura politica) europea tra Otto e Novecento: motivo più che sufficiente per ripercorrerla e valutarla con diverso metro di misura, soprattutto in concomitanza con una significativa ripresa di interesse nei confronti del «socialismo etico»38. Di questi intrecci e di questi legami sotterranei si dovrebbe certamente discutere più a lungo. Resta comunque il fatto che se ci si avvicina all’esperienza del neokantismo in Italia sulla base di 36

Cfr. A. POGGI, Kant e il socialismo, Palermo, Reber 1904, p. 9. Cfr. A. POGGI, Socialismo e cultura, Torino, Edizioni di Piero Gobetti 1925, pp. 14, 45, 201-210, 227, 243. 38 Cfr. in particolare i contributi raccolti nel volume Ethischer Sozialismus. Zur politischen Philosophie des Neukantianismus, a c. di H. Holzhey, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1994. Sulla tradizione del socialismo etico cfr. A. ZANARDO, Marxismo e neokantismo in Germania fra Ottocento e Novecento, in ID., Filosofia e socialismo, Roma, Editori Riuniti 1974, pp. 73-164; H. LÜBBE, Politische Philosophie in Deutschland, München, Deutscher Taschenbuch Verlag 19742, pp. 83-123; T.R. KECK, Kant and Socialism: The Marburg School in Wilhelmian Germany, Ann Arbor (Michigan), University Microfilms International 1975; H. VAN DER LINDEN, Kantian Ethics and Socialism, Indianapolis-Cambridge, Hackett Publishing Company 1988, pp. 197-240; CH. MÖCKEL, Sozial-Apriori: der Schlüssel zum Rätsel der Gesellschaft. Leben, Werk und Wirkung Max Adlers, Frankfurt am MainBern-New York, Peter Lang 1993; M. FERRARI, Introduzione a Il neocriticismo, cit., pp. 140-151; M. PASCHER, Einführung in den Neukantianismus, cit., pp. 107-136. Sempre utile è l’antologia Marxismus und Ethik, a c. di H.J. Sandkühler e R. de la Vega, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1970; Marxismo ed etica, ed. italiana a c. di E. Agazzi, Milano, Feltrinelli 1975. 37

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un’impostazione storiografica più ampia e puntuale, non solo sembra vanificarsi la ricostruzione polemica di Gentile, ma si delinea contestualmente un quadro della cultura filosofica italiana tra i due secoli più inquieto e più aperto, nonostante nessuno possa negare i limiti dell’elaborazione teorica che ha caratterizzato il lavoro della generazione di pensatori entrati sulla scena nel periodo successivo al compimento dell’unità nazionale. In ogni caso, a dispetto di chi ritiene che si possa parlare di una supposta ‘essenza’ della filosofia italiana che permarrebbe invariata lungo i decenni e magari attraverso i secoli, anche nel caso del neokantismo tra Otto e Novecento l’indagine storiografica non potrà rinunciare a fare i conti con l’orizzonte della filosofia europea: la marginalità dei neokantiani italiani apparirà allora come marginalità nei confronti di un ‘centro’ che consente di presentarci in una prospettiva meno scontata gli stessi quartieri periferici.

2 IL POSITIVISMO NELLA FILOSOFIA ITALIANA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO: ESITI STORIOGRAFICI E PROSPETTIVE DI RICERCA 1. Nel 1980 Eugenio Garin sottolineava la necessità di affrontare la parabola del positivismo italiano – ascendente prima, discendente e sempre più frammentata poi – tenendo conto di come le sue origini e la sua successiva crisi sul finire dell’Ottocento andassero rilette alla luce della concezione del mondo che il positivismo aveva rappresentato: da ideologia «dei gruppi culturalmente egemoni dopo il ’60», capace di promuovere una «strutturazione più moderna del paese», a visione della realtà che a dispetto delle originarie istanze metodiche via via si era fatta «metafisica» e «teologia», sino a mostrare le sue contraddizioni e la sua inadeguatezza a cavallo dei due secoli, quando «i tormentati e torbidi movimenti del primo Novecento» verranno imponendosi proprio come «conseguenze estreme del processo di degenerazione dell’equivoco positivistico»1. Non per nulla Garin aveva pubblicato poco prima di questo saggio alcune ‘schede’ dedicate alla grande crisi della filosofia in Europa alla svolta del secolo, nel punto di intersezione e di scontro tra le vecchie metafisiche, o le vecchie certezze, e le nuove esigenze che affioravano con Dilthey e Bergson, con Simmel e James, con Croce e Husserl, con le ‘rivolte’ e le ‘rinascite’ che popoleranno i primi anni del secolo nuovo2. I due nodi del problema – la crisi del positivismo nel 1 E. GARIN, Il positivismo italiano alla fine del XIX secolo fra metodo e concezione del mondo, «Giornale critico della filosofia italiana», LIX, 1980, pp. 1-27, ripubblicato con il titolo Il positivismo come metodo e come concezione del mondo in E. GARIN, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, Bari, De Donato 1983, pp. 65-89 (qui pp. 79, 88). 2 E. GARIN, Luoghi comuni storiografici nel pensiero del Novecento: ‘rinascita dell’idealismo’, ‘distruzione della ragione’, ‘bancarotta della scienza’, in

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quadro della ‘rinascita idealistica’ in Italia e l’orizzonte estremamente complesso del pensiero in Europa – costituivano dunque un unico terreno di ricerca, che concepiva la «vicenda italiana» come la «versione, magari “dialettale”, di un processo comune all’intera cultura europea»3: donde il monito a non riprendere acriticamente in sede di ricostruzione storiografica le autorappresentazioni che i protagonisti diedero di un’epoca vissuta come una ‘rivoluzione’ culturale, come un rivolgimento radicale: quando proprio quell’idea (o quel mito) era già, prima ancora di una realtà storica, un’«ideologia di alcuni gruppi di intellettuali che la presentarono come consapevolezza di un processo reale»4. Il merito principale del saggio di Garin consisteva nel fissare un criterio metodologico e nell’indicare al contempo un problema storiografico; e per quanto le ricerche che hanno contribuito a rimettere in ordine «molti pezzi del nostro positivismo»5 non siano sempre riuscite a saldare davvero, come auspicava Garin, la storia locale o addirittura periferica delle nostre ‘cronache di filosofia’ al contesto filosofico internazionale, bisogna riconoscere che negli anni trascorsi da quelle pagine molto è stato fatto nella direzione di un’analisi approfondita del positivismo in Italia, della sua diffusione, della sua effettiva incidenza, della sua crisi, del suo esaurirsi nell’età degli idealismi, contribuendo così a impostare su nuove basi i termini stessi dell’indagine sulla cultura filosofica italiana a cavallo dei due secoli6. Si è trattato, in verità, di un ripensamento storiografico che ha investito la filosofia e la cultura del positivismo europeo nel suo complesso, e che proprio agli inizi degli anni Ottanta ha prodotto importanti ricerche (frutto anche della collaborazione internazionale tra gli studiosi)7. Tra due secoli, cit., pp. 323-367 (che rifonde le ‘schede’ uscite nel 1978 sulla «Rivista critica di storia della filosofia»). 3 Ivi, p. 324 4 Ivi, p. 337. Ma su tutti questi temi Garin ritornava anche in Filosofia e scienze nel Novecento, Roma-Bari, Laterza 1978. 5 A. SANTUCCI, Eredi del positivismo. Ricerche sulla filosofia italiana tra ’800 e ’900, Bologna, Il Mulino 1996, p. 71. 6 Un esempio significativo è in quest’ultimo senso il volume di AA.VV., Studi sulla cultura filosofica italiana fra Ottocento e Novecento, a c. di W. Tega, Bologna, Clueb 1982. 7 Cfr. in particolare il volume Scienza e filosofia nella cultura positivistica, a c. di A. Santucci, Milano, Feltrinelli 1982 e i saggi raccolti in Scienza e filosofia nell’età del Positivismo, a c. di S. Poggi, fasc. monografico della «Rivista di filosofia», LXXIII, 1982, pp. 1-296. Per una visione d’insieme del

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Ne è emersa un’immagine sempre più differenziata e problematica – al di là di semplificazioni e di schemi duri a morire – tanto della cultura positivistica nel suo insieme quanto delle filosofie del positivismo: una prospettiva che è il prodotto non solo del lavoro degli storici della filosofia, ma che si nutre anche delle ricerche degli storici della scienza e delle idee, mirando a una sorta di cooperazione tra competenze disciplinari diverse. «L’immagine del positivismo come orientamento ideologico univoco e come filosofia unitaria – ha scritto a questo proposito Paolo Rossi – sopravvive solo nelle pagine dei manuali meno aggiornati e nelle discussioni […] degli epistemologi che leggono pochi libri e sono digiuni di storia […] Dietro quella che molti hanno qualificato come una “acritica fiducia” nella scienza erano presenti posizioni diverse e operava una immagine della scienza che non è certo descrivibile sulla base di formule del tipo “il romanticismo della scienza” o “l’ottimismo della borghesia nella sua fase ascendente”»8. Elevando a dignità di oggetto di indagine storica autori e problemi in precedenza trascurati, ponendo in questione le contrapposizioni tra metodo e concezione del mondo nella consapevolezza che anche i metodi sono talvolta espressioni di ‘metafisiche influenti’, mettendo a fuoco non solo le filosofie dei filosofi ma pure quelle (a volte più interessanti) degli scienziati, e più in generale studiando le vicende (anche istituzionali) di singoli comparti del sapere entro contesti e tradizioni ben determinati, si è così realizzato un mutamento di ‘sguardo storiografico’ che ha positivismo europeo una sintesi efficace rimane quella di S. POGGI, Introduzione a Il positivismo, Roma-Bari, Laterza 1987 (e su un piano più divulgativo cfr. F. VIDONI, Il Positivismo, Napoli, Morano 1993). Tra le pubblicazioni più recenti si segnala il volume di B. PLÉ, Die “Welt” aus den Wissenschaften. Der Positivismus in Frankreich, England und Italien von 1848 bis ins zweite Jahrzehnt des 20. Jahrhunderts. Eine wissenssoziologische Studie, Stuttgart, Klett-Cotta 1996 (su cui, relativamente alla trattazione del positivismo italiano, cfr. le riserve di W. BÜTTEMEYER, Der italienische Positivismus in neuer Sicht?, «Archiv für Geschichte der Philosophie», LXXIX, 1997, pp. 212218). Un esauriente quadro delle principali tendenze della storiografia italiana sul positivismo si deve a G. LANARO, Il positivismo nella storiografia filosofica italiana del dopoguerra, in AA.VV., Cinquant’anni di storiografia filosofica in Italia. Omaggio a Carlo Augusto Viano, a c. di E. Donaggio ed E. Pasini, Bologna, Il Mulino 2000, pp. 267-277. Ma dello stesso Lanaro occorre ricordare il bel volume su L’evoluzione, il progresso e la società industriale. Un profilo di Herbert Spencer, Firenze, La Nuova Italia 1997. 8 P. ROSSI, Introduzione al volume L’età del positivismo, a c. di P. Rossi, Bologna, Il Mulino 1986, pp. 12-16.

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dato frutti significativi anche per quanto riguarda il positivismo italiano. La novità forse più rilevante è costituita dalla disponibilità ad entrare nei laboratori e nei gabinetti scientifici, per sottrarre all’oblìo una pubblicistica ‘minore’ e condurre «una paziente ricognizione dei testi e delle vicende personali» di scienziati e medici come Bartolomeo Panizza e Maurizio Bufalini, per ricostruire l’incontro tra la riflessione metodologica maturata negli ambienti scientifici nella prima metà dell’Ottocento e la saldatura con la diffusione del positivismo «intorno al 1860»9. Se è vero che «uno “spirito” positivo costituisce in molti casi il carattere dominante del paesaggio filosofico» del XIX secolo10, occorre essere consapevoli di come tale «spirito» non sia solo consegnato ai testi dei filosofi di professione, ma vada rintracciato anche altrove: di qui il tentativo di delineare una «geografia della cultura scientifica italiana», che si snoda – come ha mostrato Giovanni Landucci – nelle discussioni del secondo Ottocento suscitate dall’impatto con la ‘rivoluzione’ darwiniana, e che coinvolgono ora uomini nutriti al tempo stesso di scienza e di fede (da Angelo Stoppani a Felice Parlatore), ora apostoli della nuova «filosofia naturale» come Paolo Mantegazza11. Fisiologia, psicologia, antropologia, scienze dell’uomo e scienze della natura, figure emblematiche come quelle di Pasquale Villari, Alessandro Herzen o Ugo Schiff sono state così restituite a un tessuto connettivo (positivo e positivistico) che la storiografia idealistica aveva ignorato o polemicamente ridotto sotto l’etichetta della «rivolta degli schiavi» contro la filosofia12. Al tempo stesso è entrata in gioco la competenza dello storico della scienza, che si interessa della diffusione dell’opera di Darwin in Italia a partire dalla conferenza di Filippo De Filippi su L’uomo e le scimmie (1864) e ripercorre tra molte vicende po9

G. LANDUCCI, Medicina e filosofia nel positivismo italiano, in Scienza e filosofia nella cultura positivistica, cit., pp. 258-279. 10 Così S. POGGI, Introduzione a Il positivismo, cit., p. 4. 11 Cfr. G. LANDUCCI, L’occhio e la mente. Scienza e filosofia nell’Italia del secondo Ottocento, Firenze, Olschki 1987. Ma di Landucci è molto importante il precedente libro Darwinismo a Firenze. Tra scienza e ideologia, Firenze, Olschki 1977 (al quale ci riferiamo nel seguito del testo). 12 Su questo punto, con riferimento particolare all’ambiente fiorentino, cfr. anche l’elegante quadro tracciato da E. GARIN, Note sulla cultura a Firenze alla fine dell’Ottocento (Ricordando Ugo Schiff), «Giornale critico della filosofia italiana», LXIV, 1985, pp. 1-15.

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co note l’opera di Giovanni Canestrini, primo traduttore dell’Origine della specie peraltro non insensibile alle valenze lamarckiane della teoria darwiniana13. Ma l’attenzione per le scienze e per la riflessione sulle implicazioni filosofiche delle scienze nell’età del positivismo non si è fermata qui: ad essere coinvolta è stata quella vasta e non sempre adeguatamente esplorata area nella quale confluiscono la criminologia e l’antropologia (con le loro incursioni nel campo del diritto penale) e naturalmente la sociologia e le scienze sociali, a loro volta connesse (come nel caso di Pasquale Rossi) con le ricerche di psicologia collettiva e con l’impostazione di un Tarde o di un Le Bon14. Su un versante strettamente affine sono state numerose le ricerche (sarà impossibile elencarle tutte) che hanno scandagliato ambienti, riviste e figure del positivismo e dell’evoluzionismo tardo ottocenteschi in Italia. Si sono riaperti i fascicoli della «Rivista di filosofia scientifica», con un lavoro utilissimo anche per chi voglia dissentire da singole valutazioni (o rivalutazioni)15; si sono ripercorse le strade di un Giuseppe Sergi o di un Enrico Morselli, esponenti di quel «materialismo inquieto» che a qualcuno, con una certa dose di ottimismo, è parso persino come il momento più ‘europeo’ della cultura italiana di fine secolo, accostabile sic et simpliciter al marxismo di Antonio Labriola16; si è affrontata la vasta produzione 13

Cfr. G. PANCALDI, Darwin in Italia. Impresa scientifica e frontiere culturali, Bologna, Il Mulino 1983, pp. 149-208. Si veda pure il volume Il darwinismo in Italia, a c. di G. Giacobini e G.L. Panattoni, Torino, Utet 1983 (ove compare anche il testo di De Filippi). 14 Cfr. ad esempio molti dei contributi raccolti in Il positivismo e la cultura italiana, a c. di E.R. Papa, Milano, Franco Angeli 1985 (in particolare F. BARBANO, Sociologia e positivismo in Italia: 1850-1910. Un capitolo di sociologia storica, pp. 163-225). Per l’accenno svolto nel testo all’ambiente francese si rimanda allo studio di L. M ANGONI, Una crisi fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Torino, Einaudi 1985. Sulla figura di Pasquale Rossi si veda il volume Pasquale Rossi e il problema della folla. Socialismo Mezzogiorno Educazione, a c. di T. Cornacchioli e G. Spadafora, Roma, Armando 2000 (che raccoglie gli atti del convegno di Cosenza dell’ottobre 1997). 15 Cfr. M.T. MONTI, Filosofia e scienza nella “Rivista di filosofia scientifica”, «Rivista critica di storia della filosofia», XXXVIII, 1983, pp. 409-440; P. AMATO, Gli sviluppi del dibattito intorno alla teoria dell’evoluzione nella «Rivista di filosofia scientifica» (1881-1891), in Studi sulla cultura filosofica italiana fra Ottocento e Novecento, cit., pp. 213-223; P. GUARNIERI, “La volpe e l’uva”. Cultura scientifica e filosofia nel positivismo italiano, «Physis», XXXV, 1986, pp. 601-635. 16 Cfr. G. DE LIGUORI, Materialismo inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del positivismo 1868-1911, Roma-Bari, Laterza 1988.

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psicologica e fisio-psicologica al di là dell’immagine caricaturale fissata dalla polemica idealistica, dando corso a una storia della psicologia italiana che ha saputo riaprire il dossier relativo alla stagione del positivismo evoluzionistico per restituire il giusto peso, oltre a Sergi, a Morselli o a Roberto Ardigò, a figure come Tito Vignoli o Gabriele Buccola17; e si sono pure recuperati alla memoria storiografica personaggi come Francesco De Sarlo e Giulio Cesare Ferrari, che certamente già fuoriescono dalla psicologia dell’età del positivismo e tuttavia non possono essere compresi senza quel retroterra18. Se si dovesse indicare un risultato emblematico di questi nuovi orientamenti storiografici la scelta non potrebbe che cadere sull’ampia monografia di Delia Frigessi dedicata a Cesare Lombroso19. Non si tratta propriamente di una biografia intellettuale, bensì di un affresco dell’‘età del positivismo’ condotto dall’angolo visuale di un uomo di scienza che – con le sue ambiguità vistose, con le sue audaci e fragili categorie antropologiche, ma anche con la sua «vocazione riformistica» a lungo occultata sotto un’immagine stereotipata – sembra riassumere in sé «le diverse anime dell’ideologia positivistica»20. Dalle pagine della Frigessi emergono così gran parte delle vicende del positivismo degli scienziati (in primo luogo dei medici), la crescita di una disciplina come la psichiatria sotto l’ombra sempre più protettiva della cultura positivistica, la ricezione nel secondo Ottocento italiano del darwini17

Cfr. da ultimo AA.VV., La psicologia in Italia. I protagonisti e i problemi scientifici, filosofici e istituzionali (1870-1945), a c. di G. Cimino e N. Dazzi, Milano, LED 1998 (specie pp. 109-157, 159-175, 177-204 per i contributi di Vincenzo Bongiorno su Sergi, di Riccardo Luccio su Buccola e di Girolamo de Liguori su Vignoli). Questo volume corona una serie di ricerche e di iniziative editoriali che hanno presso avvio dalla metà degli anni Settanta soprattutto per merito della «Domus Galileana» di Pisa e dell’infaticabile attività di Giuseppe Mucciarelli, al quale si deve pure la raccolta La psicologia italiana: fonti e documenti, vol. I, Le origini (1860-1918); vol. II, La crisi (1918-1945), Bologna, Pitagora Editrice 1982-1984. 18 Si vedano, in particolare, il volume di AV.VV., Giulio Cesare Ferrari nella storia della psicologia italiana, a c. di G. Mucciarelli, Pitagora Editrice, Bologna 1984 e gli studi raccolti in Francesco De Sarlo e il laboratorio fiorentino di psicologia, a c. di L. Albertazzi, G. Cimino e S. Gori-Savellini, Bari, Giuseppe Laterza 1998. 19 Cfr. D. FRIGESSI, Cesare Lombroso, Torino, Einaudi 2003. Ma si veda, in precedenza, l’antologia di scritti lombrosiani Delitto, genio, follia, a c. di D. Frigessi, F. Giancanelli e L. Mangoni, Torino, Bollati Boringhieri 1995. 20 Cfr. D. FRIGESSI, Cesare Lombroso, cit., pp. 390-391.

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smo (anche nei suoi intrecci con il lamarckismo) e poi naturalmente la figura di Lombroso, colto lungo il percorso che lo conduce alla fondazione dell’antropologia criminale, all’elaborazione della teoria dell’«atavismo», alle indagini sulla natura del delinquente e del genio, per poi approdare alla sua influenza (e ai dissensi suscitati dalla sua opera) nell’Italia fin de siècle, tra entusiasmi positivistico-socialisteggianti e contese disciplinari (come con la sociologia criminale patrocinata da Enrico Ferri). Ma si tratta anche di correggere il profilo di Lombroso, di registrarne le aperture alla dimensione sociale che fa da sfondo al crimine, di capirne i limiti senza omettere di individuare aspetti spesso dimenticati. In una pagina particolarmente efficace, la Frigessi sottolinea a questo proposito che «il modello di natura umana [accreditato da Lombroso] permette al mondo di restare così com’è»; e tuttavia ciò non esclude che Lombroso abbia saputo suggerire «prevenzioni e riforme», proporre «istituzioni e misure sociali per cambiare e per trasformare, per far progredire il paese sulla via della modernità»21. Una chiave di lettura, dunque, che ripropone la questione della funzione della cultura positivistica nell’Italia post-unitaria (del suo intreccio, si potrebbe dire, tra le aspirazioni a una visione ‘moderna’ del mondo e l’arretratezza degli strumenti concettuali con cui promuoverla), ma che al tempo stesso scava in molteplici direzioni senza preoccuparsi di formule precostituite, e spogliando riviste e bollettini, atti di congressi ed epistolari, entrando nei manicomi e nei gabinetti scientifici, guardando al contempo all’Europa da Darwin sino a Freud, riesce a penetrare nel vivo di una cultura diffusa soprattutto a livello degli uomini di scienza, per misurarne lo spessore o le contraddizioni con accorto sguardo critico. Per molti versi si tratta dunque di un ‘paradigma’ di ricerca che sarebbe auspicabile potesse dare altri frutti in direzioni analoghe, e specificamente nella direzione della messa a fuoco di figure rappresentative di quel ‘positivismo degli scienziati’ che ebbe insieme connotati tipicamente ‘locali’ (l’ambiente torinese del tardo Ottocento ne è un esempio eminente) e caratteristiche più ampie, che si incontrano in una parte rilevante del tessuto culturale dell’Italia unita22. 21 22

Ivi, pp. 228-229. Per un giudizio più articolato sul lavoro dedicato a Lombroso cfr. ora

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2. Il panorama tuttavia non si esaurisce certo qui. Proprio la rivisitazione di segmenti ‘locali’ della storia culturale italiana nell’epoca del positivismo ascendente e trionfante si è mostrata come una via interessante da seguire, tanto più che il progetto di una «geografia della filosofia italiana» ha dato risultati significativi sia sul piano più generale, sia specificamente su quello del sondaggio relativo alla cultura positivistica non solo nelle sue roccaforti storiche (come l’Università di Padova), ma in sedi più marginali (come la Genova di fine Ottocento, dove operarono Morselli e poi Alfonso Asturaro)23. In questa prospettiva è opportuno ricordare anche il caso di Bologna, dove tra gli anni Sessanta dell’Ottocento e gli albori del nuovo secolo via via si susseguono le discussioni su Villari e il positivismo degli ex-spaventiani come Francesco Fiorentino e Felice Tocco (di cui danno testimonianza i fascicoli della «Rivista bolognese»), le invenzioni non esaltanti di Pietro Siciliani sulla «italianissima filosofia positiva», e poi la cultura scientifica (dai fisici come Augusto Righi ai medici come Augusto Murri e Paolo Pini per giungere ai matematici come Federigo Enriques), mentre sullo sfondo si disegna a più riprese la presenza di quell’intreccio tra socialismo umanitario, positivismo progressista e fiducia nella funzione civile delle le osservazioni di A. SAVORELLI, Una «spuria mistura». Lombroso e il positivismo nel volume di Delia Frigessi, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXXIII, 2004, pp. 311-328 (che giustamente respinge le obiezioni spericolate di taluni recensori del volume in questione). Per quanto si dice nel testo cfr. anche C. POGLIANO, L’età del Positivismo, in AA.VV., Storia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, a c. di I. Lana, Firenze, Olschki 2000, pp. 101-130. Da mettere meglio a fuoco sarebbe l’opera di uno scienziato come Angelo Mosso, di cui è stata recentemente ripubblicata la commemorazione di Moleschott (cfr. A. MOSSO, Jacopo Moleschott, estr. dall’«Annuario della R. Università di Torino», Torino, Paravia 1893, ora in «L’Ateneo», XVIII, marzo-aprile 2001, pp. 54-64). Sull’«utopia igienista» di Mosso, «figura di forte peso nella cultura scientifica piemontese e italiana» e fisiologo illustre ben noto per le sue ricerche condotte in alta quota sul Monte Rosa, cfr. A. PASTORE, Alpinismo e storia d’Italia. Dall’Unità alla Resistenza, Bologna, Il Mulino 2003, pp. 25-31 (ma su Mosso, e sulla sua meditata presa di posizione nella discussione sulla «bancarotta della scienza», cfr. anche L. MANGONI, Una crisi di fine secolo, cit., pp. 67-70). 23 Cfr. il volume di AA.VV., Le città filosofiche. Per una geografia della cultura filosofica italiana del Novecento, a c. di Pietro Rossi e C.A. Viano, Bologna, Il Mulino 2004, con riferimento in specie a E. BERTI, La filosofia a Padova (pp. 139-191: qui pp. 139-140) e M. PASINI-D. ROLANDO, La filosofia a Genova (pp. 161-191: qui pp. 161-162). Da segnalare inoltre M. QUARANTA, Il positivismo veneto, Rovigo, Minelliana 2003.

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scienze che costituì una sorta di cultura diffusa nell’«età del positivismo»24. D’altronde va ancora osservato, a quest’ultimo riguardo, che pur tenendo conto delle sue declinazioni locali (da Torino a Reggio Emilia, da Bologna a Firenze) il nesso positivismo-socialismo rappresenta in generale un nodo importante, in cui vengono a incontrarsi la curvatura fondamentalmente etica dell’ideologia socialistica di fine secolo e una certa visione ‘positiva’ dell’uomo e della storia. Come ha scritto Maurizio Viroli, si tratta «di un processo di circolazione di idee e suggestioni che dalla cultura positivistica si radicarono nella coscienza collettiva e divennero patrimonio comune», proprio perché «le pagine di Ardigò e di Spencer incoraggiavano la persuasione che gli ideali di dignità personale e di giustizia si sarebbero realizzati necessariamente per effetto di leggi oggettive che la filosofia positiva indicava»25. A queste linee di ricerca che si sono dedicate soprattutto all’epoca del «successo» del positivismo di impronta evoluzionistica nella cultura italiana successiva al 188026 e che hanno variamente privilegiato gli uomini di scienza, con le loro proiezioni filosofiche e le loro (non di rado generose) illusioni metafisiche, si sono assommate le indagini rivolte ai rappresentanti più influenti del positivismo italiano: da Salvatore Tommasi a Pasquale Villari, da Andrea Angiulli a Roberto Ardigò e Aristide Gabelli27. 24

Ci riferiamo agli studi compresi nel volume Filosofia e scienza a Bologna tra il 1860 e il 1900, a c. di G. Oldrini e W. Tega, Bologna, Cappelli 1990. 25 M. VIROLI, L’etica socialista e la morale dei positivisti, in L’età del positivismo, cit., pp. 168, 174. 26 Per questa periodizzazione, fondata sulla constatazione dell’assenza nella filosofia italiana di questo periodo di valide alternative teoriche al ‘trionfo’ di Spencer, cfr. lo studio di F. RESTAINO, Note sul positivismo in Italia (1865-1908), «Giornale critico della filosofia italiana», LXIV, 1985, pp. 65-96, 364-397, 461-506. 27 Un caso a parte, per le ragioni tante volte discusse, è quello di Carlo Cattaneo, del cui ‘positivismo’ – secondo quanto sosteneva già Alessandro Levi – si dovrebbe parlare non tanto nel senso di un «meditato indirizzo filosofico», quanto come di una disposizione mentale o di un’«indole dell’ingegno» (A. LEVI, Il positivismo politico di Carlo Cattaneo, Bari, Laterza 1928, pp. 13-15). Non per nulla ricerche condotte su temi ben delimitati e con attenzione alle fonti hanno offerto i risultati più interessanti, ad esempio per quanto riguarda la filosofia naturale, il linguaggio, la psicologia delle menti associate o il rapporto con il darwinismo (cfr. M. FUGAZZA, Carlo Cattaneo. Scienza e società 1850-1868, Milano, Franco Angeli 1989, soprattutto pp. 127181). Di grande utilità è pure la raccolta dei contributi di Cattaneo alla prima serie del «Politecnico», in cui è dato rinvenire «l’autentica filosofia di Catta-

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Il quadro appare certamente diseguale e non tutte le esigenze di ricostruzione storiografica sono state soddisfatte come era lecito attendersi, nonostante si siano fatti innegabili passi innanzi per rimediare alle lacune ancora vistosamente presenti un ventennio fa. Su Gabelli, ad esempio, manca ancora un lavoro d’insieme che lo collochi nel suo tempo e nei molteplici intrecci con i diversi ‘fronti’ della sua azione culturale, pedagogica e politica; tuttavia si è iniziato a sondare proprio il tema dell’educazione, dell’etica dell’incivilimento e della peculiarità dell’esperienza umana irriducibile al piano della natura, rintracciandone i debiti con una tradizione che risale a Romagnosi e a Cattaneo28. Contestualmente la ristampa del libro più importante di Gabelli, L’uomo e le scienze morali (uscito nel 1869 e in seconda edizione nel 1871) ha consentito di rileggere – come osserva Mauro Moretti nella Presentazione – «uno fra i contributi più rilevanti della filosofia morale italiana», maturato non a caso tra la collaborazione a una rivista come «Il Politecnico» e lo scambio intellettuale con Villari, ma che pure rende ragione della stessa posizione assunta poi da Gabelli nel saggio uscito nel 1891 sulla «Nuova Antologia», dedicato al bilancio dell’avventura positivistica in Italia in polemica con la degenerazione metafisica di un certo scientismo evoluzionista e in nome di una convinta rivendicazione metodica contro la «tirannia del sistema»29. neo» (F. FOCHER, La filosofia del «Politecnico», «Rivista di storia della filosofia», XLV, 1990, p. 578) anche là dove di filosofia in senso tecnico non si tratta (cfr. C. CATTANEO, «Il Politecnico» 1839-1844, 2 voll., a c. di L. Ambrosoli, Torino, Bollati Boringhieri 1989). Tra i testi di Cattaneo recentemente ripubblicati si segnala la Psicologia delle menti associate, a c. di G. de Liguori, Roma, Editori Riuniti 2000, che raccoglie pure le lezioni di psicologia al Liceo di Lugano. Anche nel caso di Cattaneo emerge comunque il valore insostituibile di indagini settoriali: un buon esempio, per quel che riguarda l’incidenza e la ricezione del suo pensiero, è il lavoro di N. URBINATI, Carlo Cattaneo, un contemporaneo di John Stuart Mill, «Rivista di filosofia», LXXXI, 1990, pp. 211-236. 28 Cfr. G. ACOCELLA, Le tavole della legge. Educazione, società, Stato nell’etica civile di Aristide Gabelli, Napoli, Liguori 2000 (specie pp. 47-92). Su Gabelli si sofferma N. URBINATI, Le civili libertà. Positivismo e liberalismo nell’Italia unita, Venezia, Marsilio 1990, pp. 209-213, dove viene discusso il suo rapporto con l’utilitarismo milliano. Su Gabelli cfr. anche AA.VV., Aristide Gabelli e il metodo critico in educazione, a c. di G. Bonetta, L’Aquila, Japadre 1994. 29 Cfr. A. GABELLI, L’uomo e le scienze morali, Firenze, Le Monnier 2002 (alle pp. V-XLIV l’esauriente Presentazione di Moretti) e, sempre di Gabelli,

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L’intento di rimettere in circolazione alcuni dei testi più emblematici del positivismo italiano è senza dubbio encomiabile: lo si è fatto ad esempio per Villari30; ma lo si è fatto anche per Tommasi, con riguardo ai suoi scritti dedicati al rinnovamento della medicina strettamente intrecciati, almeno dalla metà degli anni Sessanta, con il nuovo clima positivistico della cultura italiana che proprio Tommasi congiuntamente a Villari contribuì a inaugurare31. Rileggere le prolusioni napoletane del novembre 1865 e del novembre 1866 in cui Tommasi vede nella scienza «l’avvenire del mondo» e in cui egli inneggia al «circolo della vita» che può sgomentare il metafisico, ma non già il naturalista; oppure ripercorrere le pagine dedicate alla condizione della medicina in Italia, le analisi delle psicopatie o la celebre commemorazione di Darwin del 1882 («Signori, tutto, nel mondo fisico, nel mondo morale, nel mondo sociale, accade per evoluzione; e potrei con un po’ di ardire formulare questo pensiero: o evoluzione o miracolo»)32 significa non solo avvicinare una figura eminente della cultura scientifica dell’Ottocento, ma cogliere al tempo stesso la dimensione civile di una parte cospicua del positivismo italiano. Dagli scritti di Tommasi emerge in effetti – come ha scritto Raffaele Colapietra – quell’«atmosfera formativa ed educativa tutta patriotticamente desanctisiana» e quello spirito di «profondo e radicale rinnovamento dello spirito pubblico» che non solo animano in profondità il «positivismo del tutto particolare» di Tommasi, ma che rappresentano la nota comune di un intero gruppo di intellettuali meridionali cresciuti nell’ambiente di De Sanctis e degli Spaventa e poi passati attraverso l’esperienza dell’esilio per ritrovarsi, dopo il 1860, di fronte all’enorme com-

Il positivismo naturalistico in filosofia, «Nuova Antologia», s. III, vol. XXXI, 16 febbraio 1891, pp. 621-652. 30 Cfr. P. VILLARI, La storia è una scienza?, a c. di M. Martirano, Presentazione di F. Tessitore, Soveria Mannelli, Rubbettino 1999 e ID., Teoria e filosofia della storia, a c. di G. Cacciatore, Roma, Editori Riuniti 1999 (ove sono riprodotti alcuni dei testi più importanti di Villari, dallo scritto su Bacone e Galileo del 1864 al ‘manifesto’ del positivismo pubblicato nel gennaio 1866 sul «Politecnico» di Cattaneo, per arrivare agli interventi su Buckle, su Vico e sui problemi del metodo storico nel dibattito tra Otto e Novecento). 31 Cfr. S. TOMMASI, Il rinnovamento della medicina in Italia, a c. di M. Segala, L’Aquila, Facoltà di Medicina e Chirurgia 2003. 32 Ivi, pp. 193, 213, 313.

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pito di mettere mano alla costruzione di una società moderna che potesse stare alla pari con le grandi nazione europee33. D’altronde anche nel caso di Villari e di Angiulli si è trattato di far luce sul nodo così importante del passaggio dall’hegelismo al positivismo, con tutto quello che esso ebbe a comportare nell’itinerario non lineare di una generazione vissuta a cavallo del compimento dell’unità nazionale, nel momento in cui la capacità di penetrazione del positivismo come atteggiamento mentale fu particolarmente incisiva (mentre il suo profilo teorico rimase invece più sfumato)34. Per quanto riguarda Villari – ormai definitivamente abbandonate le tendenziose valutazioni della storiografia idealistica – si è trattato di un lavoro a vasto raggio, che ne ha saggiato momenti e aspetti diversi e ha gettato le basi per un’auspicabile biografia intellettuale (rimasta sino a ora un desideratum della critica), che necessariamente dovrà intrecciare tra loro i ‘diversi’ Villari: lo studioso di Savonarola e Machiavelli come il politico, l’appassionato autore delle Lettere meridionali come il propugnatore della nuova filosofia positiva35. Il positivismo di Villari non solo è stato riletto come una sorta di storicismo positivo, la cui dignità va ben al di là del riconoscimento della sua altissima 33 Cfr. R. COLAPIETRA, Per la biografia di Salvatore Tommasi, L’Aquila, Edizioni Libreria Colacchi 2004, pp. 42-43, 73. In appendice al suo volumetto Colapietra ha pubblicato ampi stralci della corrispondenza di Tommasi con Antonio Ranieri, che documenta bene l’orientamento di Tommasi nell’esilio torinese e il suo impegno dopo l’Unità per liberare Napoli e il Meridione da mali secolari. Particolarmente importante (e quasi attuale, purtroppo) ciò che Tommasi scrive a Ranieri nel maggio 1865: «Credimi, caro, siamo ancora piccini, piccini, piccini innanzi all’Europa e seguiteremo ad esserlo se il fondamento e l’anima della società moderna non si fa risorgere: che è l’educazione pubblica e l’istruzione» (p. 127). 34 Su questo punto cfr. F. RESTAINO, Note sul positivismo in Italia, cit., pp. 72-73, che ricorda come il positivismo italiano alla metà degli anni Sessanta si presentasse senza quei caratteri di diversità interna che invece affioravano con nettezza sulla scena europea a seguito delle divergenze tra Comte, Mill e Littré. 35 Si vedano in specie i lavori di Mauro Moretti, tra i quali si segnalano Preliminari a uno studio su Pasquale Villari, «Giornale critico della filosofia italiana», LIX, 1980, pp. 190-232; La storiografia italiana e la cultura del secondo Ottocento. Preliminari a uno studio su Pasquale Villari, «Giornale critico della filosofia italiana», LX, 1981, pp. 300-372; Alla scuola di Francesco De Sanctis: la formazione napoletana di Pasquale Villari, «Giornale critico della filosofia italiana», LXIII, 1984, pp. 27-64. Importante il convegno su Villari tenutosi a Firenze nel marzo 1997, i cui atti sono pubblicati con il titolo Pasquale Villari. Nella cultura, nella politica e negli studi storici, «Rassegna storica toscana», XLIV, 1998, pp. 5-241.

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attività di storico e del suo impianto metodologico, ma è stato ripercorso come un’autentica «filosofia civile»36. E qui, giustamente, è apparso decisivo il rapporto con Mill (attestato, come noto, anche dall’epistolario), ossia con la tradizione del liberalismo ottocentesco la cui diffusione in Italia costituì un episodio decisamente ramificato: più che il Villari ‘filosofo’ del positivismo è emerso così il suo progetto post-risorgimentale, nutrito di un paternalismo che lo distingueva da Mill ma che pure trovò sbocco nella «battaglia per un’etica laica, condotta in un’età in cui la cultura italiana era prevalentemente orientata verso l’ortodossia cattolica»37. Fu certo un «progetto incompiuto» e – si può aggiungere – benché fondato su «una concezione radicalmente storica della natura umana» non così scaltrito filosoficamente da poter assumere un ruolo di prima grandezza; ma certo la matrice milliana ne fa un momento largamente eccentrico rispetto al positivismo sistematico del tardo Ottocento, ben più preoccupato del fondamento oggettivo dell’etica piuttosto che del problema della «responsabilità morale»38. Anzi, in questa prospettiva si dovrà insistere sul fatto che la statura intellettuale di Villari emerge in tutto il suo spessore proprio se la si confronta con la coeva cultura positivistica italiana fin de siècle; e chi rilegga alcuni suoi scritti recentemente ristampati, in primo luogo il celebre saggio su La storia è una scienza? (uscito nel 1891 sulla «Nuova Antologia», a breve distanza dall’intervento di Gabelli prima ricordato), non avrà difficoltà a riconoscere come le domande di Villari sullo statuto scientifico dell’indagine storica, la sua diagnosi di una crisi culturale in atto, la sua consapevolezza che il metodo storico non può bastare ad affrontare le questioni del rapporto tra scienza e vita, dell’arte, della fede e del sentimento, così come infine il (seppur generico) richiamo a Kant, circoscrivono un nodo cru36

N. URBINATI, Le civili libertà, cit., p. 150. Cfr. inoltre G. CACCIATORE, Il positivismo e la storia, in AA.VV., I filosofi e la genesi della coscienza culturale della «nuova Italia» (1799-1900), a c. di L. Malusa, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici 1997, pp. 275-286. Ma sul metodo storico nel contesto della cultura positivistica si veda pure G. CACCIATORE, La lancia di Odino. Teorie e metodi della scienza storica tra Ottocento e Novecento, Milano, Guerini e Associati 1994, pp. 87-155. 37 Cfr. N. URBINATI, Le civili libertà, cit., pp. 3, 28, 153. 38 Ivi, pp. 163, 183, 219. Della Urbinati cfr. anche La filosofia civile di Pasquale Villari, «Giornale critico della filosofia italiana», LXVIII, 1989, pp. 369-402.

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ciale della cultura europea e ci riportano a un momento ‘alto’ di una discussione che in Italia verrà proseguita da Croce, ma che nella vicina Germania – attingendo a Wilhelm von Humboldt e poi a Dilthey – arriverà sino alla filosofia dei valori39. Per parte sua, anche un personaggio sotto ogni profilo ‘minore’ come Angiulli attendeva da tempo una sorta di «risarcimento» storiografico, capace di ricollocarlo «entro il contesto della filosofia europea della seconda metà dell’Ottocento»40: compito non facile né grato, assolto in maniera eccellente da una monografia di Alessandro Savorelli a cui è seguita un’edizione di testi inediti di Angiulli41. Dall’attenta ricostruzione delle diverse fasi del pensiero di Angiulli – dalla formazione napoletana nella cerchia di Bertrando Spaventa sino all’elaborazione matura consegnata al volume su La filosofia e la scuola (1888) e alla prospettiva etico-pedagogica del «migliorismo» – emergono le mediazioni che Angiulli opera per dare corpo sin dalla fine degli anni Sessanta alla sua «metafisica positiva» alimentata da Littré e da Taine (aspetto questo che ne fa un’eccezione nel panorama del primo positivismo italiano)42. Il costante riferimento ai testi e ai dibattiti del positivismo europeo a cui Angiulli si ispira largamente (oltre a Littré e Taine, anche Comte, Mill, e poi Spencer e Lewes) consente d’altra parte di mettere a fuoco tanto la fragilità della sua impostazione teorica, quanto la posizione più defilata rispetto allo scientismo evoluzionista trionfante negli anni Ottanta. Si delinea così il carattere sostanzialmente programmatico del positivismo di Angiulli, ma anche la sua posizione «ibrida» a fronte degli 39 Cfr. P. VILLARI, La storia è una scienza?, cit., pp. 43-44, 86-87, 98-102, 114 (e si veda pure La storia, la scienza e la coscienza, in Teoria e filosofia della storia, cit., pp. 272-274). Un punto sul quale occorrerà fare maggiore chiarezza riguarda però le mediazioni effettive attraverso le quali lo «storicismo problematico» di Villari (come lo chiama Cacciatore [ivi, p. 21]) si inserisce nell’orizzonte della discussione europea (e non solo tedesca), secondo quanto ha suggerito Maria Luisa Cicalese ricordando la pubblicazione in francese di La storia è una scienza? sulla «Revue de Synthèse Historique» fondata nel 1900 da Henri Berr (cfr. M.L. CICALESE, Villari fra positivismo e idealismo, in Pasquale Villari, cit., specie pp. 91-98). 40 G. OLDRINI, L’idealismo italiano tra Napoli e l’Europa, cit., pp. 145, 151. 41 Cfr. A. SAVORELLI, Positivismo a Napoli. La metafisica critica di Andrea Angiulli, Napoli, Morano 1990 e A. ANGIULLI, Gli hegeliani e i positivisti in Italia e altri scritti inediti, a c. di A. Savorelli, Firenze, Olschki 1992. 42 A. SAVORELLI, Positivismo a Napoli, cit., p. 56.

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interlocutori italiani più scopertamente compromessi con il dogma dell’evoluzionismo: donde l’oscillazione ricorrente tra «critica» e «sistema», tra la rivendicazione dell’autonomia dell’etica e il suo riassorbimento in un quadro ‘cosmico’ che rischia di mortificare quella stessa autonomia. Angiulli diventa allora «un indicatore di tendenza», capace di gettare una luce nuova su un percorso che rimane esemplare non già per una supposta originalità speculativa degna di qualche tardiva riscoperta, ma per la maniera nella quale si realizza una faticosa opera di mediazione teorica che nella sua instabilità diventa specchio delle difficoltà intrinseche della cultura positivistica di fine Ottocento43. Del resto la stessa opera di Ardigò, sul quale esiste da tempo una bibliografia cospicua44, è stata ulteriormente scandagliata, mentre la pubblicazione delle quasi mille lettere da lui inviate nel corso di una lunga esistenza ha arricchito il quadro della sua biografia intellettuale: anche se – va detto – questi nuovi materiali non solo non portano novità di rilievo dal punto di vista strettamente filosofico, bensì documentano, almeno per il periodo che va dai tardi anni Novanta dell’Ottocento sino alla morte nel 1920, il destino di un pensatore orgogliosamente solitario, al cui declino inesorabile non poté porre rimedio nemmeno il supporto di una scuola di entusiasti seguaci (in verità non sempre fedelissimi)45. In fondo, nonostante un numero non irrilevante di contributi e una conoscenza ormai particolareggiata della sua forma43

Ivi, pp. 10, 178. Quanto ai lavori inediti pubblicati da Savorelli, occorre tener presente soprattutto Gli egheliani e i positivisti in Italia (databile con ogni probabilità al 1875-1876), in cui il confronto critico con Villari e Fiorentino, con Marselli e Ardigò, con Trezza e Gabelli non è privo di interesse (cfr. A. ANGIULLI, Gli hegeliani e i positivisti in Italia e altri scritti inediti, cit., pp. 75-136). Gli altri testi, dedicati ai rapporti tra positivismo e socialismo, all’etica e al problema dell’educazione sembrano confermare l’interpretazione proposta da Savorelli di un Angiulli più attento a registrare difficoltà, problemi o spunti innovativi presenti nel positivismo italiano (ed europeo) piuttosto che capace di fornire un’elaborazione solidamente organizzata. 44 Cfr. l’informata panoramica di W. B ÜTTEMEYER, Il positivismo di Roberto Ardigò e l’Italia. Rassegna bibliografica, in I filosofi e la genesi della coscienza culturale della «nuova Italia» (1799-1900), cit., pp. 301-325. 45 Cfr. R. ARDIGÒ, Lettere edite ed inedite, a c. di W. Büttemeyer, Frankfurt am Main-New York-Paris, Peter Lang 1990-2000 (il vol. I copre il periodo 1850-1894 e il vol. II il periodo 1895-1920). Sul carteggio di Ardigò, in specie sulla seconda parte, si vedano le osservazioni del tutto condivisibili di A. SAVORELLI, La ‘filosofia scientifica’ di Ardigò tra successo e declino, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXIX, 2000, pp. 488-495.

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zione46, gli interrogativi critici sull’opera di Ardigò sono rimasti bloccati su alternative ormai note, forse a conferma di un esaurimento delle possibilità interpretative intorno a un filosofo che appare sempre diviso tra la vocazione gnoseologico-epistemologica e una robusta componente naturalistica47. Due volti di Ardigò, insomma: da un lato un positivismo filosofico «gremito di arcaismi e neologismi», ingombrante nella sua pretesa ormai «ontologica» che attribuisce all’indistinto «un significato cosmico» e nutrito di una «competenza scientifica» che si colloca completamente al di qua delle frontiere più avanzate della scienza di fine Ottocento48; dall’altro lato, invece, un’indagine psicologica aggiornata e innovativa, all’altezza della «seconda rivoluzione scientifica» e persino sostanzialmente affine, nei suoi risvolti epistemologici, all’impostazione di Ernst Mach49. Una prospettiva, quest’ultima, che sembra però da ridimensionare, se non altro perché nelle «macchinose e tracotanti certezze» delle pagine di Ardigò si profila un’immagine dell’unità del sapere ormai messa in crisi dalle stesse scienze del suo tempo, e che per essere corretta o addirittura congedata richiedeva ben altre letture e ben altre 46

Cfr. soprattutto Roberto Ardigò nella cultura italiana e europea tra Otto e Novecento, a c. di F. Focher, fasc. monografico della «Rivista di storia della filosofia», XLVI, 1991, pp. 3-205 e gli atti del convegno di Padova dell’ottobre 1999 Roberto Ardigò. «Una vita interamente dedicata alla scienza, alla scuola», «Quaderni per la storia dell’Università di Padova», XXXIV, 2001, pp. 3-228 (dove è da segnalare in specie il contributo di G. LANDUCCI, La formazione di Roberto Ardigò, pp. 5-44, che compendia gran parte dei risultati delle preziose indagini da lui condotte nell’arco di molti anni). 47 Si veda a questo proposito L. RIZZO, Il naturalismo rinascimentale nel pensiero del primo Ardigò, «Rivista di storia della filosofia», XLII, 1987, pp. 649-668 e, su un aspetto particolare, L. LANZONI, Roberto Ardigò e l’inconscio fisiologico, «Rivista di filosofia», LXXXV, 1994, pp. 355-382. Sulla «fede naturalistica» di Ardigò insiste anche G. LISSA, Percorsi e sviluppi del positivismo italiano, in AA.VV., I progressi della filosofia nell’Italia del Novecento, Napoli, Morano 1992, pp. 147-160. 48 Alcune di queste valutazioni sono espresse da A. SANTUCCI, Positivismo dei filosofi e positivismo degli scienziati: Roberto Ardigò, in Roberto Ardigò nella cultura italiana e europea tra Otto e Novecento, cit., pp. 15-64, ristampato ora nel suo volume Ricerche sul pensiero italiano tra Ottocento e Novecento, Bologna, Clueb 2004, pp. 63-108 (in particolare pp. 72-73, 93-94). 49 Cfr. W. BÜTTEMEYER, Ardigò e Mach, in Roberto Ardigò nella cultura italiana e europea tra Otto e Novecento, cit., pp. 109-126. Di Büttemeyer si vedano pure l’illustrazione della psicologia ardighiana contenuta in La psicologia in Italia, cit., vol. I, pp. 85-108 e I manoscritti psicologici di Roberto Ardigò, in Roberto Ardigò. «Una vita interamente dedicata alla scienza, alla scuola», cit., pp. 83-98.

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competenze da quelle a cui si affidava (in maniera discontinua e spesso attingendo a fonti di carattere divulgativo) il patriarca del positivismo50. In queste differenti interpretazioni si riflette, al di là del caso di Ardigò e della storia della sua effettiva incidenza ancora «tutta da scrivere»51, un problema più generale che caratterizza la discussione sul positivismo italiano e sull’«età del positivismo»: la tensione, cioè, tra le esigenze della ricostruzione storica (di cui si è cercato di fornire un’essenziale rassegna nelle pagine precedenti) e gli intenti più propriamente di rivalutazione di un intero capitolo della nostra cultura filosofica, a volte in funzione di schemi che si sovrappongono come metri di giudizio non sempre conducendo, però, a esiti felici. Mettere un po’ d’ordine nel materiale accumulato, tracciare un bilancio critico, valorizzare adeguatamente i risultati più stabilmente acquisiti, prendere le distanze da conclusioni troppo affrettate e individuare prospettive di ricerca innovative diventa così un’esigenza difficilmente eludibile: solo muovendo di qui il problema storiografico (e non solo storiografico) rappresentato dalla lunga parabola del positivismo italiano potrà trovare una soluzione soddisfacente, o quanto meno commisurata alla sua effettiva complessità storica52. Indubbiamente oggi «possiamo dipingere [...] un ritratto tanto meno mitico, quanto meno appagante e persuasivo» dei diversi positivismi che hanno occupato un’intera epoca della storia culturale italiana e non solo italiana53; e tuttavia il proliferare delle indagini che si sono ricordate in precedenza sollecita sia nuovi quesiti e nuovi orientamenti di ricerca, sia un ridimensionamento delle ambizioni un po’ troppo generose con cui alcune tendenze della storio50 Cfr. G. LANDUCCI, Roberto Ardigò e la «seconda rivoluzione scientifica», in Roberto Ardigò nella cultura italiana e europea tra Otto e Novecento, cit., pp. 65-107 (qui pp. 88, 95) e l’indagine per più aspetti illuminante condotta da U. BALDINI, Note sui contenuti scientifici della filosofia di Ardigò, in Roberto Ardigò. «Una vita interamente dedicata alla scienza, alla scuola», cit., pp. 99-129. 51 A. SAVORELLI, Ardigò nel giudizio dei contemporanei dagli anni Settanta al primo quindicennio del Novecento, ivi, pp. 61-81. 52 Per questa ed altre valutazioni analoghe rinviamo (anche per quanto segue) al bilancio critico di A. SAVORELLI, Figure del naturalismo e del determinismo, in I filosofi e la genesi della coscienza culturale della «nuova Italia», cit., pp. 327-342. 53 Cfr. C. POGLIANO, Nuovi temi e interpretazioni del positivismo, in Il positivismo e la cultura italiana, cit., p. 466.

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grafia più recente hanno motivato il ritorno di interesse nei confronti della vicenda del positivismo nella nostra cultura, non di rado precludendosi «la possibilità – come scriveva molti anni fa Garin – di comprendere le ragioni di una crisi culturale, ma anche di afferrare una precisa situazione storica»54.

3. Il positivismo: «ma quale positivismo?», si chiedeva nel 1990 Norberto Bobbio55. Lo stesso Bobbio, in un saggio del 1969 giustamente celebre, aveva già richiamato l’attenzione sul fatto che gli eredi migliori dello spirito positivo (da Gaetano Salvemini a Luigi Einaudi) probabilmente non si erano mai nutriti delle pagine di Spencer e di Ardigò: il positivismo sarebbe stato insomma più vivo là dove non si presentava come una filosofia, quanto piuttosto come una forma mentis influenzata dall’eredità illuministica e, soprattutto, da quell’«anello di congiunzione» particolarissimo che fu la «filosofia militante» di Carlo Cattaneo56. Sono interrogativi che suggeriscono la necessità di moltiplicare i punti di osservazione e di non cadere in facili semplificazioni (come quella richiamata dallo stesso Bobbio tra positivismo e liberalismo da un lato e antipositivismo e illiberalismo dall’altro). In realtà sarebbe decisamente più corretto parlare di positivismi; e il plurale, che in fondo vale sempre per tutti gli ismi (il pragmatismo, l’idealismo, il marxismo, lo stesso positivismo europeo), sembra tanto più adeguato se si considera quanta e quale sia la differenza non solo tra Villari e Sergi, tra Gabelli e Morselli, o persino tra Ardigò e alcuni dei suoi ultimi allievi, ma anche tra fasi e momenti diversi dell’avventura positivistica in Italia, iniziata a ridosso del processo di unificazione nazionale e conclusa mezzo secolo dopo, in un contesto profondamente mutato per la cultura filosofica italiana e internazionale. Da questo punto di vista anche impiegare termini generalissimi come ‘positivismo’ e ‘crisi del positivismo’ può risultare fuorviante, proprio perché si 54

E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Torino, Einaudi 1966, vol. III, p. 1274. 55 N. BOBBIO, Prefazione a N. URBINATI, Le civili libertà, cit., p. IX. 56 Cfr. N. BOBBIO, Profilo ideologico del Novecento, Milano, Garzanti 1995 3, p. 105 e ID., Una filosofia militante. Studi su Carlo Cattaneo, Torino, Einaudi 1971, pp. 128, 137, 198.

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rischia di sovrapporre all’esigenza per tanti aspetti validissima di procedere a indagini circoscritte e settoriali uno schema generale che prima o poi si riaffaccia con la pretesa, o l’implicito presupposto, di ‘giocare’ il positivismo contro qualche altro ismo ritenuto degno di essere combattuto in nome di un ‘valore’ (la modernità, il liberalismo, lo spirito scientifico e via discorrendo). Va sottolineato del resto che la stagione più esuberante degli studi sul positivismo italiano appare oggi in netto declino: probabilmente per un eccesso di crescita (e un terreno non straordinariamente fertile si esaurisce da sé con il tempo), ma soprattutto per il logoramento di alcune ipotesi di lavoro che con una certa frequenza hanno condotto, tra rivalutazioni indiscriminate e audaci riscoperte, ad ‘avventure storiografiche’ non sempre esaltanti, tanto più se incapaci di commisurare adeguatamente il particolare al quadro generale57. In effetti non è stato sempre un pregio di molte delle ricerche a cui ci siamo riferiti il fatto di orientarsi su una scala ridotta, per mettere a fuoco singoli aspetti, singole figure, fasi circoscritte e ambienti ben determinati, o più in generale storie ‘esterne’ scisse da quelle ‘interne’. La rivisitazione degli autori ‘minori’ o degli aspetti trascurati, che pure è indispensabile per dare autentico «significato» agli stessi interlocutori più «grandi»58, si è saldata in più di un caso all’ambizione di costruire una sorta di storia alternativa, tutta giocata sul rovesciamento di fronte dall’ottica dei ‘vincitori’ a quella dei ‘vinti’, per avvalorare una postuma attualità o una postuma superiorità del positivismo (al singolare). La sacrosanta polemica contro le semplificazioni della «storiografia canonica» si è così caricata di valenze globali: è diventata aspirazione a una «storia della cultura 57

È il caso di una serie nutrita di studi su Pietro Siciliani, figura per certi versi emblematica, ma in ogni caso ben lungi dal ruolo chiave che le è stata attribuita da taluni nel prospettare una supposta ‘via’ al positivismo ancora oggi attuale. Si vedano in proposito le esatte puntualizzazioni di A. SAVORELLI, A proposito di ‘recuperi’ storiografici: Pietro Siciliani, «Giornale critico della filosofia italiana», LXVII, 1988, pp. 431-435 e Pietro Siciliani o del virtuoso darwinismo, «Giornale critico della filosofia italiana», LXVIII, 1989, pp. 235-247. Su Siciliani cfr. anche il ritratto complessivamente equilibrato offerto da N. URBINATI, Una «filosofia mediana» nell’età del trasformismo: il positivismo di Pietro Siciliani, in Filosofia e scienza a Bologna tra il 1860 e il 1900, cit., pp. 91-121. 58 Così Eugenio Garin nella introduzione a Il primo hegelismo italiano, a c. di G. Oldrini, Firenze, Vallecchi 1969, p. 13.

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perdente dell’Italia unita», indipendentemente dal valore di personaggi molto diversi tra loro come Adolfo Faggi e Piero Martinetti, come Ernesto Buoniauti e Giuseppe Rensi, sino a configurare una ‘minoranza’ che in realtà non sarebbe più tale, ma altrettanto degna quanto la ‘maggioranza’ più nota ed esaltata59. In questo quadro il positivismo è stato inteso, prima ancora che come un complesso di filosofie, come una cultura capace di esprimere, metabolizzare e drammaticamente vivere le contraddizioni e le angosce di un secolo che moriva insieme alle sue certezze, ai suoi miti, alle sue illusioni. Non accidentalmente l’emblema di questa stagione è stato individuato in Arturo Graf, a sua volta collocato nell’ambiente torinese che coniuga i trionfi del metodo positivo con la presenza di Nietzsche: un ambiente che appare così saturo di tutto ciò che esploderà nel Novecento, anche con filosofi accademici come Martinetti, da assumere quasi il ruolo di un laboratorio di portata europea60. Ma le intenzioni sembrano andare qui oltre la realtà, e il meritorio intento di sottrarsi alla formula del ‘provincialismo italiano’ si rovescia nella concessione ad altre formule, che per essere diverse non cessano di essere tali e sulla cui fecondità storiografica è lecito dubitare: dalla ‘critica della modernità’ alla ‘via europea al nichilismo’ che passerebbe per una stazione decisiva nell’opera di Rensi61. I vizi di una simile impostazione si ritrovano ora, se possibile in maniera ancora più amplificata, nel libro di Piero Di Giovanni 59

Cfr. G. DE LIGUORI, Il sentiero dei perplessi. Scetticismo, nichilismo e critica della religione in Italia da Nietzsche a Pirandello, Napoli, La città del sole 1995, pp. 15-23. 60 Cfr. G. DE LIGUORI, I baratri della ragione. Arturo Graf e la cultura del secondo Ottocento, Manduria-Bari-Roma, Lacaita 1986 e ID., La cultura filosofica nella Torino di fine Ottocento, in AA.VV., Piero Martinetti nel cinquantenario della morte, a c. di Pietro Rossi, fasc. monografico della «Rivista di filosofia», LXXXIV, 1993, pp. 375-393. 61 Cfr. G. DE LIGUORI, Il sentiero dei perplessi, cit., pp. 182, 236-237. Per quanto non sia qui il caso di discutere in dettaglio la recente ‘riscoperta’ di Rensi, certo è che il suo caso rimane indicativo di una tendenza diffusa della storiografia dell’ultimo quindicennio, spesso incline – è stato detto giustamente – a scambiare una qualche «curiosità per le filosofie straniere» mossa soprattutto «dalla ricerca di consonanze» con una patente di attualità tardivamente riconosciuta (cfr. A. STRUMIA, La riscoperta di Giuseppe Rensi, «Rivista di filosofia», LXXXIII, 1992, p. 489). Su Rensi cfr. il volume L’inquieto esistere. Atti del Convegno su Giuseppe Rensi nel cinquantenario della morte (1941-1991), a c. di R. Chiarenza, N. Emery, M. Novaro e S. Verdino, Genova, Emme Edizioni 1993.

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che ripercorre i rapporti tra filosofia e psicologia nel positivismo italiano, più attraverso una serie di ‘medaglioni’ dedicati alla famiglia molto ‘allargata’ dei nostri positivisti (da Romagnosi a Cattaneo, da Villari ad Ardigò, da Marchesini a Guastella, da Simone Corleo a Eugenio Rignano) che non sulla base di un’indagine organica, peraltro escludendo personaggi come Sergi, Morselli, Lombroso, Buccola, ecc.62. La stessa nozione di ‘psicologia’ si rivela decisamente vaga, avulsa dal contesto della psicologia scientifica in Europa, spogliata di un autentico significato epistemologico e oscillante indifferentemente tra Vico, la psicologia delle menti associate, Darwin e Spencer; ma ciò nonostante quel «periodo magico» appare all’autore ricco di suggestioni non ancora del tutto esplorate e figure di modesta levatura come Corleo («un caposcuola nel campo della filosofia italiana contemporanea») o Emerico Ameri («pietra miliare nel processo evolutivo della cultura italiana») diventano gli eroi da mettere in campo nella battaglia contro una non meglio specificata «storiografia ufficiale» affetta dai «luoghi comuni del nostro tempo»63. Per Di Giovanni non appartiene evidentemente ai «luoghi comuni» inventarsi invece genealogie un po’ temerarie, per «riscoprire» nel positivismo italiano attraversato dalle sollecitazioni inedite della psicologia un vero e proprio «tessuto culturale» dai caratteri addirittura «inimmaginabili»: di qui, caso mai il lettore non fosse ancora convinto, l’invito rivolto a tutta la cultura italiana a non patire più complessi di inferiorità nei confronti dell’Europa filosofica, nell’errata convinzione di non poter reggere il confronto con «Comte, Spencer, Wittgenstein, Łukasiewicz»: un quadriumvirato davvero ‘controcorrente’ e che effettivamente non teme confronti64. Siamo in presenza, si potrebbe dire, degli effetti degenerativi di uno schema interpretativo che con eccessiva baldanza ha insistito sull’«europeismo» dei nostri filosofi a lungo dimenticati, innescando un’incontrollata rincorsa alla ‘riscoperta’ del minore 65. 62

Cfr. P. DI GIOVANNI, Filosofia e psicologia nel positivismo italiano, Roma-Bari, Laterza 2003. 63 Ivi, pp. 83, 103, 145-146. 64 Ivi, p. VIII. 65 Pensiamo ad esempio alla pubblicazione degli appunti autobiografici di Corleo, che dalla curatrice viene presentato come «uno degli artefici del passaggio da una certa epoca storica ad un’altra»: non solo in ambito regionale, ma per l’«intera cultura nazionale» tra Otto e Novecento (cfr. S. COR-

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In realtà, pur valorizzando percorsi anche poco noti, l’indagine storiografica dovrebbe avere sempre il compito di riportare il particolare al quadro generale (possibilmente senza smarrire il senso delle proporzioni); e quand’anche si volessero privilegiare le filosofie cosiddette minoritarie del Novecento italiano, proprio l’influenza che esercitò il positivismo nell’orientare vicende poco conosciute andrebbe sondata con maggior consapevolezza metodologica, tenendo presente che la cultura positivistica fu presente più di quanto non si pensi là dove non si trattava di filosofia in senso stretto, ma di una mentalità positiva coltivata in altre discipline o nelle istituzioni mediche, giuridiche e scientifiche66. Da questo punto di vista anche il nodo cruciale della ‘crisi del positivismo’ agli inizi del Novecento e la ricostruzione degli itinerari di figure che appartengono alla generazione dei ‘positivisti in crisi’ o dei ribelli costituiscono – o dovrebbero costituire – un terreno di primaria importanza per mettere a fuoco le vicende della filosofia italiana, tanto più che in questa direzione si sono già mossi studi che hanno variamente lumeggiato almeno due aspetti importanti di questa complessa vicenda. In primo luogo, occorre non ridurre in blocco quella ‘crisi’ a una sorta di tracollo del positivismo, come volle a suo tempo la storiografia idealistica contribuendo così a mettere in ombra la presenza certamente non marginale mantenuta da quella stessa cultura, almeno sino al primo dopoguerra, nel variegato tessuto della vita intellettuale italiana (dal mondo accademico agli orientamenti pedagogici, dall’intreccio con le ideologie politiche alle scelte editoriali)67. In secondo luo-

LEO, Autobiografia, a c. di C. Genna, Palermo, Edizioni Anteprima 2002, pp. XXVIII-XXIX). 66 Cfr. G. LANARO, Il positivismo nella storiografia filosofica italiana del dopoguerra, cit., p. 276. 67 Ne è un esempio illuminante la storia della casa editrice di Angelo Fortunato Formiggini, che così bene espresse travagli, fragilità e spunti innovativi della filosofia del positivismo nell’età della sua ‘crisi’. In proposito è da vedersi il ritratto offerto da G. TURI, A.F. Formiggini: un editore tra socialismo e fascismo posto ad introduzione di A.F. FORMIGGINI, Trent’anni dopo. Storia della mia casa editrice, Modena, Riccardo Franco Levi Editore 1977, pp. V-XLIV (poi in G. TURI, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna, Il Mulino 1980, pp. 151-192); ma cfr. soprattutto AA.VV., A.F. Formiggini, un editore del Novecento, a c. di L. Balsamo e R. Cremante, Bologna Il Mulino 1981, con particolare riguardo al saggio di A. SANTUCCI, La cultura filosofica nelle edizioni Formiggini, pp. 323-362 (ripubblicato anche in

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go, se è stato più volte sottolineato come dalla crisi del positivismo uscirono sconfitti il naturalismo metafisico e il più ingenuo evoluzionismo di stampo spenceriano, va pure riconosciuto che non equiparabile a questo esito fu invece la sorte del positivismo ‘umanistico’: il quale, saldandosi con impostazioni neokantiane o con suggestioni pragmatistiche, seppe proporre analisi della vita morale, della prassi umana, del ruolo del metodo positivo nelle scienze della società e della storia che sono ben lungi dal meritare le condanne indiscriminate così frequenti nelle prime annate della «Critica» di Croce e di Gentile68. Anche in questo caso, ovviamente, è bene evitare generalizzazioni affrettate e conviene partire da un esame di quegli autori, come Tarozzi, Guastella o Marchesini, variamente impegnati a cavallo dei due secoli nella querelle sui rapporti tra determinismo e libertà (ma le cui radici affondano nella cultura francese di fine Ottocento)69. Non tutte le pagine dei «positivisti in crisi» che Garin, nelle sue Cronache, passava in rassegna con scarsa simpatia appaiono oggi irresistibili, tanto più che da quelle ‘crisi’ si sarebbero originate – come nel caso di Bernardino Varisco – esperienze sempre più lontane dal positivismo70; né tantomeno sembra possibile rivalutare in blocco il «positivismo idealistico» di Marchesini e il suo «finzionalismo», che fuoriuscivano dal naturalismo ardighiano in nome di un «come se» dai contorni non propriamente rigorosi e difficoltosamente amalgamato con il debito Eredi del positivismo, cit., pp. 311-348). Si veda inoltre E. GARIN, Tra due secoli, cit., pp. 255-268. 68 Per uno sguardo d’insieme su questo tema cfr. P. GUARNIERI, Naturalismo e formalismo etico nel positivismo italiano, in Studi sulla cultura filosofica italiana fra Ottocento e Novecento, cit., pp. 95-107. Ma sulla necessità di non ridurre l’analisi gentiliana del positivismo italiano a un «irriverente sberleffo» e sulle sue complesse stratificazioni richiama con finezza l’attenzione A. SAVORELLI, “Il gatto e il sorcio”. Gentile e il positivismo nelle «Origini», «Giornale critico della filosofia italiana», LXXVIII, 1999, pp. 181-211. 69 Cfr. N. URBINATI, Determinismo e libertà. Aspetti della crisi del positivismo italiano negli anni di fine secolo, «Atti e Memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere ‘La Colombaria’», vol. LII, N.S. XXXVIII, 1987, pp. 227-278. 70 Cfr. E. GARIN, Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza 19752, pp. 81112. Su Varisco rinviamo al volume Lettere a Bernardino Varisco (1867-1931). Materiali per lo studio della cultura filosofica italiana tra Ottocento e Novecento, a c. di M. Ferrari, Firenze, La Nuova Italia 1982 e agli studi raccolti in AA.VV., Bernardino Varisco e la cultura filosofica italiana tra positivismo e idealismo, a c. di M. Ferrari, Chiari, Fondazione Morcelli-Repossi 1985.

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sempre rivendicato nei confronti di Ardigò71. È però vero che «il senso operoso dell’ideale», sul quale lo stesso Marchesini insisteva in una sua incompiuta Storia del positivismo in Italia iniziata nel 192272, rappresentò per tutti gli eredi di Ardigò un punto di non ritorno per ripensare il significato del positivismo a fronte delle esigenze che si affacciavano con il secolo nuovo: un «lungo cammino», certo, che tuttavia non si chiude necessariamente sul mancato riscatto dal naturalismo di matrice ardighiana73. Esemplare, in questo senso, è il caso di Rodolfo Mondolfo, anche se la sua più tarda lettura di Ardigò nei termini di un fenomenismo machiano potrà lasciare più di un dubbio; e tuttavia non è circostanza marginale il fatto che la sua riflessione ‘umanistica’ sul marxismo avviata nel primo decennio del Novecento fosse in sintonia non solo con una componente etica derivata in misura significativa dal neokantismo socialista tedesco, ma pure con il perdurante interesse per il positivismo: anche per il positivismo di Ardigò (in particolare per la psicologia), dal quale lo separava se mai in termini sempre più accentuati la vigile coscienza storiografica74. Non per nulla l’opera di Mondolfo si intreccia strettamente con quella di alcuni esponenti dell’ultima generazione positivistica certamente degni di essere riletti. Basterà pensare al «modo diverso di essere positivisti» incarnato da Alessan-

71

Per l’opera di Marchesini e la sua collocazione nella filosofia italiana del primo Novecento cfr. AA.VV., Sul pensiero di Giovanni Marchesini (18681931), fasc. monografico della «Rivista critica di storia della filosofia», XXXVI, 1982, pp. 363-500. Ma sul percorso di Marchesini cfr. anche F. RESTAINO, Note sul positivismo in Italia, cit., pp. 479-480. 72 Cfr. G. MARCHESINI, Dalla “Storia del positivismo in Italia”, a c. di M. Quaranta, in Sul pensiero di Giovanni Marchesini, cit., pp. 445-446. 73 Di questo avviso è invece G. LISSA, Percorsi e sviluppi del positivismo italiano, cit., pp. 160-184. 74 Per quest’ultimo aspetto cfr. G. FRIGO, Ardigò storico della filosofia, in Roberto Ardigò nella cultura italiana e europea tra Otto e Novecento, cit., specie p. 170 n. 30. Il dialogo di Mondolfo con il positivismo è attestato anche dalle lezioni sulla Storia del positivismo tenute all’Università di Torino nel 1910-1911 e nel 1911-1912: cfr. Archivio Rodolfo Mondolfo. Inventari, a c. di S. Vitali e P. Giordanetti, Roma, Pubblicazioni degli Archivi di Stato 1996, p. 454. Su Mondolfo e il positivismo non ci pare si sia scritto nulla di rilevante dopo i due importanti contributi di E. GARIN, Mondolfo e la cultura italiana, in Filosofia e marxismo nell’opera di Rodolfo Mondolfo, cit., pp. 135 (poi in Tra due secoli, cit., pp. 204-234) e A. SANTUCCI, Mondolfo, Ardigò e il positivismo, in Filosofia e marxismo nell’opera di Rodolfo Mondolfo, cit., pp. 135-168 (poi in Eredi del positivismo, cit., pp. 229-269).

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dro Levi e sopratutto da Ludovico Limentani75, le cui indagini giovanili sulla funzione e i limiti della previsione sociale si avvalevano degli spunti di Vailati e di precise conoscenze di Dilthey, di Simmel o di Durkheim, per poi cedere il passo alla fine analisi della vita morale e del formalismo etico svolta nei Presupposti formali della indagine etica del 1913: una fenomenologia della vita morale legata ad Ardigò da un omaggio poco più che rituale, tanta è la distanza ormai delle considerazioni di Limentani sulla condotta umana dall’incedere progressivo dalla «formazione naturale» della società teorizzato dal maestro padovano76.

4. In realtà la ‘crisi del positivismo’ apriva nuove strade per chi interpretava quella crisi come un necessario momento di crescita, non come il congedo definitivo da un «indirizzo metodico» capace di «impronta[re] di sè […] l’intero mondo della cultura»77. Ma se questo è vero, con le dovute limitazioni, per l’ambito delle ‘scienze morali’ e per il dibattito sullo statuto ‘scientifico’ dell’etica che coinvolse autori come Limentani, assai più resistente a rivisitazioni simpatetiche si mostra invece il terreno della discussione epistemologica, sul quale il positivismo italiano – nell’epoca di Duhem, Mach, Poincaré, Rey, Stallo e altre figure eminenti della riflessione sulla scienza o sulla ‘crisi del meccanicismo’ – non seppe innestare alcuna significativa innovazione, arroccandosi a difesa di una concezione della conoscenza e dei suoi fondamenti psicologici che solo sporadicamente e in maniera del tutto «ininfluente» cercò di tener conto di quanto avveniva sulla scena europea78. Del resto basterà procedere a una lettura accurata delle annate della «Rivista di filosofia» avviata nel 1909 per riscontrare la sfasatura tra il positivismo italiano che ancora si affi75 76

cap. 4.

F. RESTAINO, Note sul positivismo in Italia, cit., p. 497. Su Limentani e sui suoi rapporti con Mondolfo e Levi si veda infra,

77 L. LIMENTANI, Il positivismo italiano (1870-1920), «Logos», VII, 1924, pp. 1-40 (qui p. 1). Il testo di Limentani si legge anche nel volume collettaneo La filosofia contemporanea in Italia dal 1870 al 1920, Napoli, Perrella 1928, pp. 1-38. 78 Cfr. R. MAIOCCHI, Fisica e filosofia nella cultura italiana dei primi due decenni del Novecento, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXII, 1993, specie p. 493.

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dava alle granitiche certezze dell’ottuagenario Ardigò e il contesto internazionale in cui ben altri e ben diversamente orientati apparivano gli strumenti concettuali di cui occorreva disporre per leggere la nuova immagine fisica del mondo o il complesso delle ricerche logico-matematiche79. Vi furono certo le eccezioni, e sono quelle che ormai tutti conoscono: Vailati ed Enriques, in primo luogo. Ma c’è da chiedersi se tutto ciò che si legge nelle loro pagine appartenga davvero a una tradizione che avrebbe potuto essere ‘vincente’ e che disgraziatamente, invece, non seppe esserlo. Mettiamo pure da parte il caso di Vailati, il cui rapporto con il positivismo è largamente eccentrico rispetto alla cultura filosofica italiana di fine Ottocento ed è filtrato da motivi (Peano, Mach, Brentano, Peirce, tanto per fare nomi sin troppo noti) che spingeranno Vailati a porsi su una posizione di aperto contrasto con la più parte dei positivisti nostrani80. Ma se si guarda ad Enriques, la cui opera è stata al centro di una rinnovata e meritata attenzione, è difficile sfuggire all’impressione che anche nel suo caso si debba adottare una certa cautela nell’attribuirgli il ruolo dello ‘sconfitto’ dall’idealismo che in altre condizioni avrebbe invece potuto ‘trionfare’. Non si tratta di mettere in dubbio la statura di Enriques, la rilevanza del suo progetto culturale o il significato dell’urto con Croce e Gentile alla svolta del primo decennio del secolo; ma l’ossatura teorica del «nuovo positivismo» quale è consegnato, in primo luogo, ai Problemi della scienza del 1906 autorizza davvero a scorgere in Enriques «un preludio alla modernità epistemologica» che ha fornito la linfa all’«albero genealogico del positivismo logico»?81. Non sarà che anche in questo caso una visione essenzialmente locale ha indotto una distorsione prospettica, impedendo di cogliere la figura di Enriques nel contesto della discussione europea degli inizi del Novecento sulla base dell’autentica ‘tenuta’ delle sue posizioni episte-

79 Sulla «Rivista di filosofia», sulle esigenze di cui si faceva interprete e sui limiti della cultura positivistica che ancora ne affollava le prime annate, cfr. infra, cap. 8. 80 Su questi rapporti si sofferma in maniera puntuale G. LANARO, Vailati e il positivismo, in Il positivismo e la cultura italiana, cit., pp. 243-257. 81 R. SIMILI, L’attitudine nuova di Federigo Enriques, in Filosofia e scienza a Bologna tra il 1860 e il 1900, cit., p. 280.

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mologiche e privilegiando invece, in un’ottica tutta italiana, la sua funzione nelle battaglie culturali di quegli anni?82. Queste considerazioni, e l’attenzione rivolta al nesso con ciò che è avvenuto fuori d’Italia in anni cruciali per le nostre ‘cronache di filosofia’, ci riconducono così alle annotazioni che Garin svolgeva a suo tempo a proposito del rapporto tra le vicende filosofiche italiane «tra due secoli» e il quadro della filosofia europea. Lo studio dei rapporti tra filosofia italiana e filosofie straniere, che ha dato frutti importanti per la seconda metà del secolo83, in verità non è mancato nemmeno in relazione al primo Novecento, come è ben mostrato tra l’altro dalle ricerche sulla fortuna italiana di Peirce e sulla circolazione di Brentano84. Ma si tratta ancora di indagini settoriali, che illuminano singoli aspetti o episodi anche rilevanti colti però in maniera circoscritta; si tratterebbe invece di dissodare un terreno più vasto, in cui si radica tanta parte delle vicende filosofiche italiane ed europee – specie quando ci si avvicina alla ‘crisi del positivismo’ e alla cosiddetta ‘rinascita idealistica’, che in realtà costituiscono due momenti di un solo, intricato processo di disgregazione e riaggregazione della filosofia in Europa. E se, in effetti, di ‘spiritualità’, di ‘idealità’ rinascenti e di riscosse religiose contro la tirannia dell’intelletto scientifico così come contro una concezione del mondo ritenuta incapace di lasciare spazio autentico all’iniziativa umana fu largamente popolata la cultura italiana di inizio secolo85, è anche vero che un’indagine indirizzata al di là delle Alpi potrebbe offrire – limitandosi ad esempio all’area tedesca – documenti altrettanto significativi, solcati dalle medesime inquietudini tipiche della ‘rivolta antipositivistica’: dalla invocazione di un nuovo «Messia» al richiamo insistente al valore della vita (magari alimentato da una visione di matrice ancora biologico-evoluzio-

82

Su questo punto si veda più oltre, in questo volume, il cap. 7. Ci riferiamo in particolare al già ricordato volume Filosofia italiana e filosofie straniere nel dopoguerra (cfr. sopra, p. 15 n. 6). 84 Cfr. i volumi Peirce in Italia, a c. di M.A. Bonfantini e A. Martone, Napoli, Liguori 1993 e Brentano in Italia, a c. di L. Albertazzi e R. Poli, Milano, Guerini e Associati 1993. 85 Si veda a questo proposito il quadro tracciato da M. TORRINI, Religione e religiosità nei primi anni del ’900, in A.F. Formiggini, un editore del Novecento, cit., pp. 363-389. 83

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nistica della vita stessa) sino alla contrapposizione quasi canonica tra idealismo e positivismo86. Con questo non si vuole proporre l’abbandono di ogni prospettiva ‘locale’ – certamente proficua per le ragioni che già si sono richiamate – o l’indiscriminata diluizione del particolare nel generale. Eppure la crisi del positivismo e la ‘rinascita idealistica’ vanno sempre viste in un contesto molto più ampio, che travalica i confini della cultura italiana tra i due secoli per saldarsi, come già aveva compreso Antonio Labriola in una lettera a Croce giustamente celebre, a un’intera congiuntura della filosofia tra fine Ottocento e secolo nuovo87. Ed è proprio qui, su questa scala molto più ampia, che dovrà collocarsi il baricentro della riflessione storiografica, anche di quella sul positivismo italiano. Anziché produrre – come talvolta si è fatto, fornendo in realtà solo un surrogato di una ricerca storica articolata – modelli che denunciano la dipendenza dalle filosofie straniere, il provincialismo, il disprezzo ‘umanistico’ per le scienze, o magari le ‘colpe’ (di Vico, di Spaventa, di Rosmini, e poi di Croce, di Gentile, dei cattolici, dei tomisti e via discorrendo) sarebbe insomma più proficuo tentare delle letture in parallelo, mettere a confronto non solo le ‘ideologie’ o le ‘visioni del mondo’, ma pure gli apparati concettuali, i problemi, le strutture teoriche più ‘fini’ e l’incidenza effettiva di tutto quanto, nel ventennio o poco più in cui si affacciano sulla scena Husserl, Bergson, Russell, James, Dewey, Cassirer e tanti altri ancora, viene elaborato da parte della riflessione filosofica in Europa e nel mondo. Una simile prospettiva di ricerca, più attenta a «una storia della filosofia che sia storia delle concezioni (e delle questioni) filosofiche»88, potrebbe portare a un quadro 86

Per citare un testo forse poco noto, ma in questo senso veramente esemplare, si veda il volume di R. KRONER, N. VON BUBNOFF, G. MEHLIS, S. HESSEN e F. STEPPUHN, Vom Messias. Kulturphilosophische Essays, Leipzig, Engelmann 1909. Per una messa a fuoco di alcuni di questi temi nella cultura tedesca d’inizio secolo cfr. anche gli studi raccolti in Kultur und Kulturwissenschaften um 1900. II. Idealismus und Positivismus, a c. di G. Hübinger, R. vom Bruch e F.W. Graf, Stuttgart, Steiner Verlag 1997. 87 Cfr. A. LABRIOLA, Lettere a Benedetto Croce 1885-1904, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici 1975, pp. 366-367 (= Epistolario, a c. di V. Gerratana e A.A. Santucci, vol. III: 1896-1904, Roma, Editori Riuniti 1983, p. 989). Su Labriola di fronte al positivismo si sofferma G. LISSA, Labriola e il positivismo, in Antonio Labriola filosofo e politico, cit., pp. 75-123. 88 S. POGGI, Introduzione a Il positivismo, cit., p. 5.

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meglio differenziato, capace di rispondere efficacemente all’esigenza di rileggere con ottica diversa la vicenda fin de siècle, per restituirle contorni più mobili e più problematici di quanto la polemica idealistica abbia lasciato intravvedere. Il contesto internazionale, in altri termini, può farci comprendere più in profondità la vicenda intellettuale compresa tra gli ultimi decenni del XIX secolo e la belle époque (come ammoniva Villari agli inizi del Novecento rivolgendosi alla corporazione degli storici riuniti a Roma, «tutto ci conduce continuamente, necessariamente fuori d’Italia»)89, e al tempo stesso può suggerire il recupero di un metro di misura diverso, capace di restituire ai singoli protagonisti o alle correnti di pensiero la statura che effettivamente ebbero: al di fuori di impossibili ‘rivincite’ dei ‘minori’ sui ‘grandi’ o di fantasiose genealogie che ricadono nella perenne tentazione di rinvenire ‘precorrimenti’ un po’ ovunque, magari in base alla convinzione che i conti intorno ad alcuni grandi nodi del pensiero filosofico del tardo Ottocento e del primo Novecento siano stati regolati in Italia, prefigurando prospettive affermatesi in seguito in tutta Europa. Alla fine anche il bilancio intorno all’effettiva importanza e all’effettiva incidenza della cultura positivistica potrà trarne qualche vantaggio, chiamando in causa una prospettiva di giudizio che non si limiti a ribaltare gli schemi della storiografia idealistica, ma sappia suggerire un nuovo ‘programma di ricerca’ non prigioniero degli schemi troppo spesso invalsi dei ‘perseguitati’ e dei ‘persecutori’ (o delle ‘minoranze’ e delle ‘maggioranze’). È legittimo dubitare, infatti, che su questo terreno possa fiorire una duratura impostazione storiografica, finalmente capace di offrire quella storia del positivismo italiano che tuttora manca e che dovrebbe quanto meno affiancare, ma meglio ancora superare, il frantumarsi delle ricerche in un eccessivo specialismo settoriale90.

89

Cfr. P. VILLARI, Il Congresso storico internazionale in Roma, ora in Teoria e filosofia della storia, cit., p. 283. 90 Su alcuni dei punti qui toccati cfr. anche le puntuali osservazioni di A. SAVORELLI, “Il gatto e il sorcio”, cit., pp. 208-211.

3 ERMINIO JUVALTA E LA CULTURA FILOSOFICA ITALIANA DEL PRIMO NOVECENTO 1. Quando, nel 1901, Erminio Juvalta pubblicò i Prolegomeni a una morale distinta dalla metafisica, il giudizio di Giovanni Vailati fu particolarmente lusinghiero: «Una delle più notevoli contribuzioni – scriveva sulla «Rivista italiana di sociologia» – che abbiano vista la luce […] in questi ultimi anni sulle questioni fondamentali dell’etica»1. Con un’enfasi inconsueta, ma soprattutto con la sicurezza di giudizio che lo caratterizzava, Vailati aveva colto nel segno. Dati alle stampe dopo lunga meditazione, i Prolegomeni rappresentavano un testo singolare nel panorama del primo Novecento italiano: per il rigore dell’analisi, per il gusto dell’argomentazione logica, per l’intento di non concedere nulla alla genericità concettuale sembravano usciti dalla penna di uno studioso che non conosceva né le seduzioni delle mode, né la superficialità di tanta produzione accademica. Chi aveva letto le recensioni e le rassegne bibliografiche composte da Juvalta per la «Rivista Filosofica» di Cantoni – della quale era Segretario di Redazione – vi riconosceva certo lo stile asciutto e la lucidità esposi1

La recensione di Vailati è negli Scritti, Firenze, Seeber & Barth 1911, pp. 368-373 (qui p. 368). Una valutazione molto favorevole del libro di Juvalta, che gli era «eccezionalmente piaciuto», si legge anche in una lettera di Vailati a Giuseppe Amato Pojero del 30 marzo 1901 pubblicata in G. VAILATI-G. AMATO POJERO, Epistolario (1898-1908), a c. di A. Brancaforte, Milano, Franco Angeli 1993, p. 73. I Prolegomeni sono raccolti in I limiti del razionalismo etico, a c. di L. Geymonat, Torino, Einaudi 1945, nuova ed. con una premessa di S. Veca, Torino, Einaudi 1991, pp. 1-51 (che sarà d’ora innanzi citato con la sigla LRE seguita immediatamente dal numero della pagina). Il secondo capitolo dei Prolegomeni, con il titolo Sul giudizio morale. Nota critica, era già apparso sulla «Rivista Filosofica», II, 1900, pp. 67-88.

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tiva; ma difficilmente poteva sospettare la riflessione condotta da più di un decennio sulle «questioni fondamentali» dell’etica e le indagini sul dovere, la volontà, il rapporto tra felicità e virtù ispirate in parte a quello Spencer che pure metteva in luce «gravi difficoltà» e «lacune»2. In effetti Juvalta scrisse i Prolegomeni in età ormai matura, dopo un’assidua frequentazione non solo delle pagine di Spencer, ma soprattutto degli scritti e delle lezioni pavesi di Carlo Cantoni, il suo maestro sempre affettuosamente ricordato (circostanza, questa, troppo spesso trascurata dalla storiografia)3. Con 2

Cfr. la lettera a Cantoni del 1° maggio 1891 pubblicata in Lettere di Erminio Juvalta a Carlo Cantoni (1885-1891), a c. di P. Guarnieri, «Annali dell’Istituto di Filosofia dell’Università di Firenze», III, 1981, p. 205. Dal 1892 Juvalta era libero docente di Filosofia morale all’Università di Pavia, titolo che aveva conseguito presentando un lavoro su Elementi originari della moralità nell’individuo giudicato dalla commissione esaminatrice (di cui facevano parte tra gli altri Cantoni e De Dominicis) un tentativo di accordo «tra le dottrine positivistiche e le kantiane» (ivi, pp. 186-187). 3 Su Juvalta è sempre esauriente l’ampio saggio di A. GUZZO, Vita e scritti di Erminio Juvalta, «Giornale critico della filosofia italiana», XVII, 1936, pp. 79-95, 139-162, 281-291. Oltre alle indicazioni che si daranno nel seguito cfr. anche C. MAZZANTINI, Erminio Juvalta moralista e filosofo della morale, «Rivista di filosofia», XXXV, 1934, pp. 339-357 e M.F. SCIACCA, Il secolo XX, Milano, Bocca 1942, vol. I, pp. 212-217. Nel secondo dopoguerra, sull’onda della publicazione degli scritti raccolti nei Limiti del razionalismo etico curati meritoriamente da Geymonat, si è ridestato un certo interesse per l’opera di Juvalta, soprattutto per la sua vicinanza alle tematiche della filosofia morale europea del Novecento (cfr. G. SOLINAS, L’autassia dei valori e le analisi etiche di Erminio Juvalta, «Filosofia», V, 1954, pp. 543-561; di tutt’altro tono è invece il fragile contributo di G. CATALFAMO, Il problema di un’etica indipendente in Erminio Juvalta, «Teoresi», II, 1947, pp. 79-85, 200-208). Solo in anni più recenti, tuttavia, Juvalta sembra aver guadagnato un suo posto nella storiografia sulla cultura filosofica italiana del primo Novecento: cfr. F. PICARDI, Morale e filosofia della morale in Erminio Juvalta, Milano, Marzorati 1978; H.A. CAVALLERA, La ricerca del primato della morale nel pensiero di Erminio Juvalta, «Filosofia», XXXII, 1981, pp. 443-458; P. GUARNIERI, Ragione e morale in Erminio Juvalta, «Dimensioni», VI, 1981, n. 18, pp. 1-6; M. VIROLI, Erminio Juvalta e la teoria della giustizia, «Rivista di filosofia», LXXV, 1984, pp. 397-430; ID., Il problema dell’etica razionale in Erminio Juvalta, in AA.VV., Studi sulla cultura filosofica italiana fra Ottocento e Novecento, cit., pp. 61-93. Per i contributi recenti di maggiore rilievo su Juvalta cfr. soprattutto AA.VV., Sul pensiero di Erminio Juvalta (1862-1934), fasc. monografico della «Rivista di storia della filosofia», XLI, 1986, pp. 419664 e M. VIROLI, L’etica laica di Erminio Juvalta, Milano, Franco Angeli 1987. Non aggiunge nulla di sostanzialmente nuovo, invece, il libro di P.

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Cantoni Juvalta si era laureato a Pavia nel 1886, discutendo una tesi su Spinoza (autore che ebbe poi variamente presente, sino al tardo saggio del 1929 sulla «Rivista di filosofia»). In quell’ultimo scorcio dell’Ottocento la ‘scuola pavese’ di Cantoni costituiva un vivace centro intellettuale, animato dall’interpretazione di Kant promossa da Cantoni ma aperto al tempo stesso alla discussione d’oltralpe, soprattutto tedesca (dall’herbartismo ai temi del ‘ritorno a Kant’ per giungere sino alle nuove frontiere dell’indagine psicologica). Tra il 1879 e il 1884 Cantoni aveva pubblicato la sua celebre monografia kantiana, opera che esercitò un largo influsso negli ambienti filosofici italiani presentando, per la prima volta, un’esposizione complessiva del pensiero di Kant tutta condotta sui testi originali, ingiustamente bollata dal duro giudizio di Gentile che insisteva sull’arcaico ‘platonismo’ del professore pavese4. Cantoni era per di più uno spirito liberale: incitava i suoi allievi a misurarsi con il criticismo, ma tollerava indirizzi anche diversi (non esclusa l’eredità del positivismo); ed era se mai intransigente nel promuovere la partecipazione alla vita pubblica, in particolare al dibattito sulla scuola e sulla pedagogia che metteva in luce i mali e le storture dello Stato post-unitario. Sotto la guida illuminata di Cantoni all’Università di Pavia si formeranno figure di un certo rilievo: da Luigi Credaro, anche lui valtellinese come Juvalta, studioso di Herbart e dello scetticismo antico, poi Ministro della Pubblica Istruzione e fondatore, nel 1908, della «Rivista Pedagogica», a Giovanni Vidari, che si dedicò tanto alle indagini etiche quanto alla pedagogia, senza trascurare di tradurre Kant; da Guido Villa, sempre presente nei primi anni del Novecento con i suoi libri sulla psicologia contemporanea e sul moderno idealismo, a non pochi altri legati a Cantoni dalla decennale attività della «Rivista Filosofica», il cui primo fascicolo uscì nel 18995. SURIANO, Erminio Juvalta (1863-1934). Il percorso di un moralista, Poggibonsi, Lalli Editore 1992. 4 Si veda il capitolo dedicato a Carlo Cantoni e la metafisica del sentimento, in G. GENTILE, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, vol. I, I platonici, nuova ed. riveduta a c. di V.A. Bellezza (= Opere di Giovanni Gentile, vol. XXXI), Firenze, Sansoni 1957, pp. 295-339. 5 Scriverà Juvalta nel 1906, in morte di Cantoni: «il tenace attaccamento alle dottrine e alle opinioni che gli studi e la meditazione erano venuti formando, non gli tolse mai la più larga e spregiudicata tolleranza delle opinioni altrui; la sincerità che egli aveva cara lo portava a stimare sopra ogni cosa la

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Tante pagine di Juvalta e molte delle sue riflessioni non si comprenderebbero senza riferirsi all’insegnamento di Cantoni e alla sua lettura di Kant: in specie del Kant della filosofia pratica, incentrata sulla necessità di incrinare il frigido razionalismo etico sulla base del valore del sentimento, superando così il dualismo di senso e intelletto e radicando il dovere morale nella vita affettiva e psicologica del soggetto – un soggetto che non è l’Io in generale, ma l’uomo concreto, con i suoi bisogni e le sue inclinazioni. Tutti temi che si colgono con chiarezza negli studi di Juvalta, e che ricorrono insistentemente sia nella discussione critica di Kant, sia nell’esame della sfera emotiva sottratta al controllo della ragione in vista della costituzione dei valori morali6. Tuttavia nelle primissime pubblicazioni non meno rilevante è l’influsso di Spencer, e nelle recensioni per la «Rivista Italiana di Filosofia» di Luigi Ferri (alla quale Juvalta collaborò a partire dal 1889 grazie all’interessamento di Cantoni) il nome del filosofo inglese compare con una certa frequenza7. Del 1891 è addirittura una lettera stessa dote negli altri; la libertà di pensiero che egli rivendicava illimitata per sé, rispettava e difendeva per tutti. E a questa fede nella libertà si ispiravano tutte le sue opinioni, sugli studi, sull’amministrazione, sulla politica» («Rivista Filosofica», VIII, 1906, pp. I-IV). Sulla scuola pavese si rinvia alle indicazioni già fornite più sopra, cap. 1, alle note 26 e 29. Alcune notizie sulla presenza del gruppo pavese nel dibattito pedagogico del primo Novecento, con particolare riferimento a Vidari, si possono trarre da G. C HIOSSO, L’educazione nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, Brescia, La Scuola 1983, pp. 78 sgg. Ma si veda pure G. CHIOSSO, Educazione e valori nell’epistolario di Giovanni Vidari, Brescia, La Scuola 1984. Per la discussione sui rapporti tra filosofia e psicologia cfr. infine Lettere di Guido Villa a Carlo Cantoni (1894-1908), a c. di C. Genna, «Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici», XVI, 1999, pp. 427-480. 6 Cfr. C. CANTONI, Emanuele Kant, vol. II, cit., in particolare pp. 243246. È utile rilevare che certe affermazioni di Cantoni ritornano quasi alla lettera in Juvalta: cfr. quanto si legge nell’Emanuele Kant, vol. III, cit., p. 433: «Non vi è evidenza logica di nessuna maniera, la quale ci possa persuadere a scegliere la via della verità, della giustizia, del sacrificio, anziché quella della menzogna, della violenza e dell’egoismo»; e si veda LRE, 142: «La ragione per sé non comanda nulla; né l’egoismo, né l’altruismo, né la giustizia […] L’egoismo non è per sé più ‘razionale’ dell’altruismo, né il regresso più razionale del progresso […]». Anche per questo sembra più appropriato, per valutare la posizione di Juvalta nei confronti di Kant, il riferimento a Cantoni piuttosto che a Max Scheler (cfr. invece G. SOLINAS, L’autassia dei valori e le analisi etiche di Erminio Juvalta, cit., pp. 544-545). 7 Cfr. in particolare la recensione a L. MARINO, La morale e la giustizia

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a Ferri nella quale, intervenendo su un articolo pubblicato dalla rivista, Juvalta propone di spiegare un passo dell’Amleto shakesperiano rifacendosi alla legge dell’adattamento di Spencer (e Juvalta invitava già allora a non discutere i problemi prima di aver fissato rigorosamente «la connotazione dei termini»)8. Ma il testo più rilevante del giovane Juvalta è un’ampia diagnosi delle cause «della avversione presente per la filosofia in Italia» apparsa nel 1892 sempre sulla «Rivista Italiana di Filosofia». Tra le possibili origini di una diffusa ostilità nei confronti della filosofia Juvalta indicava il progressivo specialismo, la frantumazione della cultura e delle discipline scientifiche, lo spettacolo di sterile lotta offerto dai grandi sistemi speculativi della prima metà dell’Ottocento (e polemizzava, per questo, con gli hegeliani napoletani, «missionari venuti da fuori» per parlare un linguaggio astruso), nonché, infine, il declino dei grandi ideali e la tendenza propria dei filosofi a trascurare lo studio dell’uomo e delle scienze umane come la psicologia e la sociologia. Per restituire alla filosofia il suo valore teoretico, di riflessione «più generale e necessariamente più ipotetica», Juvalta auspicava una nuova fase di sviluppo della ricerca filosofica: «la quale – sottolineava – avrà nelle discipline naturali e psicologiche il suo fondamento scientifico, e nella critica esplicazione dei sistemi passati la sua giustificazione storica»9. Con queste affermazioni Juvalta aveva a mente, se non specificamente Spencer, la lezione del positivismo; e tuttavia le sue nel diritto delle genti (Napoli, Tip. dell’Accademia Reale delle Scienze 1888), «Rivista Italiana di Filosofia», IV, 1889, vol. II, pp. 204-208, ove Juvalta suggerisce di utilizzare anche nello studio del diritto una sorta di «diritto razionale», che trovi riscontro in ciò che ha fatto «nel campo della morale tanto felicemente lo Spencer» (p. 207). 8 Lettera al Prof. Luigi Ferri, «Rivista Italiana di Filosofia», VI, 1891, vol. I, pp. 399-401. Significativa è pure la conclusione della recensione di R. SCHELLWIEN, Max Stirner und Friedrich Nietzsche (Leipzig, Pfeffer 1892), «Rivista Italiana di Filosofia», VIII, 1893, vol. I, pp. 251-259, in cui si dice, a proposito delle tesi dell’autore: «La sua teoria è, come tante altre, un volo metafisico; più o meno felice e originale, ma che sfugge alla discussione perché oltrepassa la dimostrazione» (p. 259). In queste pagine, peraltro, Juvalta prendeva nettamente posizione contro Nietzsche. 9 Di alcune cause della avversione presente per la Filosofia in Italia, «Rivista Italiana di Filosofia», VII, 1892, vol. I, pp. 3-28 (in particolare pp. 9, 21-22). Su questo testo cfr. anche P. SURIANO, Erminio Juvalta, cit., pp. 1527, che ne esagera però l’importanza.

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simpatie – ben comprensibili nel clima dell’ultimo decennio dell’Ottocento – non andavano tanto alle costruzioni a sfondo metafisico e naturalistico, quanto al fondamento in senso «scientifico» della filosofia, in contrasto con ogni generalizzazione incontrollata e in nome di una sostanziale rivendicazione metodica. Del resto, quando alcuni anni dopo Cantoni diede avvio alla «Rivista Filosofica», che nasceva come continuazione della «Rivista Italiana di Filosofia» entrata in una fase di incertezza e difficoltà dopo la morte, nel 1895, di Ferri, il bilancio della filosofia post-risorgimentale tracciato da Juvalta venne in qualche modo confermato nelle sue linee generali. Richiamandosi alla «gloriosa tradizione» risalente a Ferri e a Terenzio Mamiani, Cantoni affermava infatti che la rivista non avrebbe ammesso un «falso positivismo» intento a «provare scientificamente» come certi principi morali o religiosi accettati dalla coscienza comune siano falsi o illusori; ma se nell’ambito della filosofia pratica rivendicava il «fine assoluto» e il «principio del dovere», egli lasciava però intendere come la condanna del positivismo «falso» non pregiudicasse la legittimità di un filosofare su basi concrete e ‘positive’. Per questo Cantoni polemizzava con l’«idealismo dogmatico», tutto intento a svolgere i propri presupposti «senza far la critica dei concetti e dei principi e senza tener conto dei risultati delle scienze particolari», e sottolineava al contempo l’attenzione nei confronti delle discipline scientifiche come garanzia di rigore per la filosofia, contro le insidie del «naturalismo puro» e del dogmatismo. Era una prospettiva con la quale Juvalta non poteva non trovarsi d’accordo; eppure, riequilibrando diversamente criticismo e positivismo, conoscenza del reale e mondo dei valori, ne sarebbe uscita una visione sensibilmente diversa dell’etica, ancorata all’esigenza di una sua ‘scientificità’ e resa indipendente da quei postulati trascendenti, di ispirazione religiosa, ai quali Cantoni non sapeva e non voleva rinunciare10. 10

Cfr. C. CANTONI, Ai Lettori della rivista, «Rivista Filosofica», I, 1899, pp. 3-6. A proposito della filosofia pratica Cantoni scriveva: «noi non crediamo che essa possa fondarsi senza ammettere un fine assoluto ed il principio del dovere; ma non ci sgomenteremo, se alcune dottrine parranno condurre a risultati opposti: sappiamo che le dottrine profondamente pensate e inspirate da un sincero amore del vero riescono a confermare nello spirito umano quell’idealità, che sembrano voler distruggere». Sulla dottrina morale

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2. La «Rivista Filosofica» non era esclusivamente l’organo di una scuola. La collaborazione di figure diversamente orientate, dagli allievi di Cantoni a Bonatelli, da De Sarlo a Tocco a Vailati, attestava la presenza di una parte della cultura filosofica italiana che si riconosceva sia nell’eredità migliore del secolo appena concluso, sia nelle nuove ‘frontiere’ degli albori del Novecento, in una posizione di chiara distinzione tanto dalla scuola di Ardigò quanto, di lì a poco, dalle prime avvisaglie della ‘rinascita idealistica’ di Croce e Gentile. All’interno di questo composito gruppo di collaboratori Juvalta non tardò a guadagnarsi una posizione di spicco: non solo per i suoi incarichi redazionali, ma pure per la fitta attività che egli svolse per recensire e segnalare libri e riviste (per non dire ovviamente della pubblicazione degli impegnati studi che venne via via componendo a partire dal 1900). Restando ai primi anni di vita del periodico pavese, e senza addentrarsi in un’analisi minuta che pure meriterebbe di essere condotta, basterà ricordare che Juvalta discute, con vario rilievo, Sorel e Le Dantec, Wundt e Bergson (Le rire gli sembra opera di «singolare acume e signorile maestria»), Ribot e Adickes; tra gli italiani, non solo gli amici e colleghi Vidari e Credaro (del primo, il libro su Rosmini e Spencer; del secondo l’«importantissima opera» sulla pedagogia di Herbart), ma anche lo Zoccoli (e qui ritornano i nomi di Stirner e Nietzsche, accanto a un significativo interrogativo: il delinquente anarchico non ha forse parentele con la delinquenza «geniale» del superuomo?), nonché il mediocre Paolo Orano e l’ispirato Ragnisco. Non solo la filosofia morale, dunque; anche la sociologia, la psicologia, la pubblicistica filosofica di diversa natura e orientamento fanno parte delle letture e delle andi Cantoni è da vedersi G. VIDARI, La morale di C. Cantoni, «Rivista Filosofica», VII, 1906, pp. 607-620; ma sulle concezioni di Cantoni e Vidari dai quali Juvalta prendeva le distanze, cfr. il giudizio di L. CREDARO, La Scuola di Pavia, cit., p. 663, ove si accenna al pietismo filtrato da Kant e a una sorta di «kantismo cattolico» mediato da Rosmini (su quest’ultimo punto si veda A. DEL NOCE, La figura e il pensiero di Giovanni Vidari, «Filosofia», XXII, 1971, pp. 443-454, specie p. 451). Di Vidari occorre almeno ricordare Rosmini e Spencer, Milano, Hoepli 1899, che fu recensito da Juvalta – come si dirà subito – sulla «Rivista Filosofica». Per alcune riserve sulla metafisica di Cantoni da parte di Credaro cfr. la lettera del 3 luglio 1885 pubblicata in Lettere di Luigi Credaro a Carlo Cantoni (1883-1900), a c. di P. Guarnieri, «Giornale critico della filosofia italiana», LIX, 1980, p. 154.

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notazioni di Juvalta. Al tempo stesso, certe osservazioni sparse appaiono di notevole interesse: l’utopia, dice ad esempio discutendo l’articolo di Sorel su L’éthique du socialisme, se non ha valore scientifico e oggettivo, «soggettivamente ha valore di fine morale in quanto vale a fornire il tipo ideale della condotta». La morale, fa invece notare a Vidari, non ha bisogno di determinare l’Assoluto se vuole essere normativa e quindi praticamente efficace. Lo studioso, afferma già nel primo fascicolo del 1899, deve sì scindere la scienza dalla passione politica, ma è immorale rimanere «segregati dal mondo» e starsene, «eterne crisalidi», nel «bozzolo scientifico». E non andrà nemmeno dimenticato il necrologio, nel 1903, di Spencer: «con lui si è spenta la luce intellettuale forse più viva e più diffusa del nostro tempo», tanto che «non c’è campo del sapere dove non si trovi l’impronta del suo intelletto sovrano»11. A questi contributi si affianca, tra il 1900 e il 1901, l’elaborazione del volumetto sui Prolegomeni a una morale distinta dalla metafisica. Nelle pagine che segnano l’avvio della riflessione morale di Juvalta viene innanzi tutto operata la distinzione – fondamentale per l’elaborazione successiva – tra l’ambito delle motivazioni che inducono a seguire una determinata norma morale, che è compito dell’indagine psicologica, sociologica o storica stabilire, e l’ambito della giustificazione di quei fini che sono ritenuti giusti, e quindi da anteporsi ad altri ordini di fini: in breve, la distinzione tra «esigenza esecutiva» ed «esigenza giustificativa». La ricerca e l’analisi psicologica dei fattori da cui dipende l’osservazione della norma morale, come la dottrina pedagogica dell’educazione morale sono una cosa diversa e distinta dalla costruzione normativa morale; come la spiegazione psicologica dei motivi da cui può dipendere, poniamo, l’osservanza delle pratiche di un culto è cosa affatto diversa dalla giustificazione e dalla derivazione logica di quelle (LRE, 8).

Il punto su cui insisterà sempre Juvalta è proprio questo: la

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Il breve intervento su Spencer appare sulla «Rivista Filosofica», V, 1903, pp. 739-740. Per quanto si dice nel testo cfr. inoltre «Rivista Filosofica», I, 1899, vol. I, pp. 373-376, 386-387; II, 1900, pp. 264-266, 272-273, 720-721, 724-725; III, 1901, pp. 265-269, 400-401; IV, 1902, pp. 702-703.

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mancata distinzione tra la giustificazione di una norma e le condizioni della sua efficacia pratica genera intricati problemi, ai quali è possibile porre fine solo se si procede a una rigorosa chiarificazione, sciogliendo ogni ambiguità sia sul piano dei concetti, sia su quello delle formulazioni più o meno oscure che prendono corpo con una terminologia troppo vaga. In questo esercizio schiettamente analitico il filosofo non ha il compito di scrivere sermoni edificanti, né di insegnare ‘cosa si debba fare’ appellandosi alle sue intuizioni privilegiate; egli deve piuttosto curarsi di provare, con le armi della logica, quanto siano coerenti (e pertanto giustificati) i sistemi normativi, evitando accuratamente di confondere ciò che è giusto con ciò che è obbligatorio. Quest’ultima distinzione è assai delicata e richiede una serrata argomentazione per mostrare l’impossibilità di una derivazione del giusto dall’obbligatorio, e di questo da quello, sia soggettivamente sia oggettivamente: «ciò che fa essere o riconoscere una norma giusta rimane, malgrado ogni sforzo, qualcosa di diverso da ciò che fa essere o riconoscere una norma obbligatoria» (LRE, 19). D’altra parte questa distinzione è alla base di un secondo motivo non meno importante: la giustificazione di un sistema di norme non può essere ricondotta, per Juvalta, a un supposto fondamento di natura storico-sociale (ed è questo l’errore del positivismo, incapace di riconoscere l’autonomia della morale come costruzione normativa), e nemmeno può trovare garanzia in una struttura metafisica che risulta per sua natura non dimostrabile (LRE, 29-31). Per queste ragioni Juvalta sottolinea come il criterio della condotta non possa essere cercato in determinate condizioni storiche, e quindi nemmeno nelle condizioni della società presente: giacché le esigenze della «difesa sociale», per un lato, e i postulati del liberalismo, per un altro, assegnano valore per sé alla società quale essa è di fatto, rimanendo inavvertiti delle sue ingiustizie e dei suoi squilibri incompatibili con il fine di un’universale giustizia (LRE, 33-36). Juvalta affronta così il tema cruciale della costruzione di una società giusta volta a predisporre le condizioni ideali entro le quali ciascun individuo trovi le condizioni primarie per la realizzazione della propria felicità nel rispetto della libertà di ciascuno: si tratta dell’esigenza, in altri termini, di una «società ideale di uomini giusti, per i quali il fine prossimamente supremo, il fine desiderabile prima e a preferenza di

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ogni altro, sia il mantenimento delle condizioni di esistenza individuale e collettiva attuate in tale società» (LRE, 40). Molti e complessi, come si vede, sono i temi al centro dei Prolegomeni; ma per penetrarli adeguatamente, anche là dove non si sia del tutto persuasi del ferreo concatenarsi delle argomentazioni, si dovrà fare subito riferimento al successivo saggio su Spencer, pubblicato nel 1904 sulla rivista di Cantoni con il titolo La dottrina delle due etiche di H. Spencer e la morale come scienza. Le nozioni di società ideale, di etica pura, di modello razionale di giustizia rimandano del resto proprio a uno dei pochi auctores di Juvalta: di qui l’importanza dell’ipotesi dell’homo justus che agisce in una società giusta a cui l’uomo storico deve approssimarsi, così come della distinzione tra etica pura ed etica applicata delineata da Spencer. Tuttavia anche la dottrina spenceriana sconta per Juvalta il limite di essere modellata «sulle esigenze di una certa struttura sociale», mentre il suo ideale di società riproduce di fatto la società industriale dell’Inghilterra del XIX secolo, in cui Spencer vedeva culminare l’evoluzione della specie umana (LRE, 124, 110). Da questa ferma riserva nei confronti del filosofo inglese Juvalta trae pertanto l’impegno a chiarire meglio il significato della ‘società giusta’ nel quadro della costruzione scientifica dell’etica; e da questo punto di vista le pagine del lungo saggio del 1904 individuano già con chiarezza alcuni nodi che ritorneranno negli studi successivi, seppure la strumentazione concettuale della costruzione ipotetico-normativa apparirà marcatamente segnata, in seguito, più che da un’istanza spenceriana, dal riconoscimento della massima kantiana che invita a trattare la persona umana sempre come fine e mai come puro mezzo. Ma non vi è dubbio che agli inizi del Novecento quel problema si fosse presentato a Juvalta innanzi tutto con il volto, sia pure contraddittorio ed emendabile, della teoria etica spenceriana12. 12

Cfr. in particolare LRE, 127-128, 119-120. In generale, sul problema della giustizia e della società giusta (con riferimento alla teoria della giustizia di John Rawls), si vedano S. VECA, Osservazioni in margine all’idea di società giusta in Erminio Juvalta, in Sul pensiero di Erminio Juvalta, cit., pp. 629-637 e M. VIROLI, L’etica laica di Erminio Juvalta, cit., pp. 116-140 (specie pp. 130131). Il saggio su Spencer era apparso originariamente sulla «Rivista Filosofica», VI, 1904, pp. 56-76, 229-250, 373-405. L’interesse di Juvalta per Spencer è documentato anche dalla voce da lui dedicata al filosofo inglese nel Di-

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3. Il richiamo a Spencer in anni in cui la sua fortuna, in Italia e fuori di Italia, era ormai tramontata, accompagnata dal disprezzo non solo di Benedetto Croce, ma anche di chi proprio in polemica con Croce difendeva in qualche modo il positivismo, poteva sembrare un manifesto tentativo di andare controcorrente13. Juvalta non era tuttavia pensatore che badasse più di tanto alle etichette o alle mode, anche se le simpatie spenceriane e, più ancora, il progetto di una «morale come scienza» testimoniavano un debito non irrilevante con l’eredità del positivismo14. Eppure proprio tra i positivisti, per quanto ‘in crisi’ e vacillanti, le pagine di Juvalta non destarono un’impressione favorevole. Recensendo i Prolegomeni Giovanni Marchesini si chiedeva ad esempio come fosse possibile postulare un’etica razionale scissa dalle condizioni storiche e psicologiche in cui agisce l’uomo concreto. Anticipando l’obiezione che un decennio più tardi Ludovico Limentani, in forma più estesa e scaltrita, muoverà a Juvalta, Marchesini sottolineava come «astraendo affatto dalla realtà psicologica e dagli attriti delle esigenze individuali e sociali, si astrae anche dall’uomo, dall’uomo vivo e vero, fonte e termine dello stesso ideale della giustizia; la quale è ridotta in tal guisa a dato puramente nominale, a un flatus vocis». Di qui, aggiungeva Marchesini, un’inevitabile ricaduta nella metafisica: pur combattendola, Juvalta non poteva sottrarsi, nella costruzione dell’ideale di giustizia, al rischio caratteristico di ogni pensiero metafisico, che si solleva sino alle «supreme altezze speculative» senza riuscire a recuperare il terzionario illustrato di pedagogia, diretto da A. Martinazzoli e L. Credaro, vol. II, Milano, Vallardi s.d. [ma 1903], pp. 546-553, che fu composta intorno al 1900 e poi brevemente integrata dopo la morte di Spencer (ringrazio Mario Quaranta per avermela segnalata). Sulle simpatie di Juvalta per Spencer insisterà Credaro nelle pagine a lui dedicate per il Grundriss der Geschichte der Philosophie dello Ueberweg (vol. V, a c. di T.K. Österreich, Basel, Schwabe & Co. 1953, p. 217). 13 Cfr. B. CROCE, A proposito del positivismo italiano. Ricordi personali (1905), poi in Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, Bari, Laterza 19553, pp. 41-42. Con Croce consentiva anche B. VARISCO, La fine del positivismo, «Rivista Filosofica», VII, 1905, p. 325. Sulla fortuna italiana di Spencer è ancora utile C. RANZOLI, La fortuna di Herbert Spencer in Italia, «Rivista di filosofia e scienze affini», VI, 1904, vol. I, pp. 97-106, 219-236, 440-467. 14 «Neokantiano dalle tendenze neopositivistiche» lo definisce, con una formula che richiederebbe qualche precisazione in più, P. SURIANO, Erminio Juvalta, cit., p. 136.

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reno dell’esperienza, e rimane, nei confronti di quest’ultima, «in assoluta, sostanziale antitesi»15. Per la verità, se Marchesini non aveva tutti i torti a rimproverare l’astrazione dall’uomo concreto, sbagliava clamorosamente quando credeva di scorgere in Juvalta un metafisico suo malgrado: in questo modo gli sfuggivano i temi più innovativi dei Prolegomeni, mentre la sua appena velata freddezza tradiva una sostanziale incomprensione. Ben diversa, come si è detto, fu invece la reazione di Vailati: il quale colse subito l’importanza della distinzione tra esigenza esecutiva ed esigenza giustificativa, essenziale per non confondere i problemi propri dell’indagine psicologica con quelli – per quanto ad essa legati – della sfera assiologica. Con tutto questo Vailati, con la sua fine sensibilità morale, non risparmiava a Juvalta il benevolo rimprovero di essere «forse troppo ottimista» intorno alla possibilità di una giustificazione razionale dei ‘fini supremi’ dell’agire morale, lasciando così affiorare una precisa riserva nei confronti dell’ideale ancora positivistico della «scienza etica». Ma questo non intaccava la validità della critica alla giustificazione delle norme morali sulla base delle esigenze della «difesa sociale», che appariva a Vailati uno degli esiti più rilevanti dell’indagine juvaltiana: se non si vuole cadere […] nella conclusione assurda di assumere come criterio di ciò che è giusto, e di ciò che è morale, le esigenze della conservazione d’una organizzazione sociale eventualmente non giusta o non morale, è necessario ammettere che le esigenze sociali, a cui si fa appello per ‘giustificare’ determinate norme di condotta, non si riferiscono a una società qualunque, e forse neppure ad alcuna società attualmente esistente, ma a qualche tipo di società astratta alla cui scelta o costruzione ideale non possono a meno di aver cooperato precisamente quegli stessi criteri morali che si pretende poi dedurre dalla costruzione stessa16.

Come si vede, Vailati individuava con acutezza anche le implicazioni ‘etico-politiche’ dello studio di Juvalta, mentre dalla sua valutazione estremamente positiva traspariva una certa affini15

La recensione di Marchesini uscì sulla «Rivista di filosofia, pedagogia e scienze affini», II, 1901, vol. IV, pp. 422-424. Un’ampia presentazione dei Prolegomeni, ma di carattere molto espositivo, apparve pure, ad opera di Luigi Friso, sulla «Rivista Filosofica», III, 1901, pp. 677-686. 16 G. VAILATI, Scritti, cit., p. 373.

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tà mentale con il riservato redattore della «Rivista Filosofica»17. Ma a conferma di una trama di rapporti piuttosto fitta, è opportuno rileggere la recensione con cui, nel 1902, Juvalta segnalava a sua volta sulla rivista di Cantoni I postulati della scienza positiva e il diritto penale del giovanissimo Mario Calderoni: un libro «che [usciva] dalle solite variazioni o ripetizioni» e che «porta[va] la nota fresca e viva di una elaborazione personale e libera da ogni preconcetto». Addentrandosi nella sottile analisi di Calderoni, Juvalta esprimeva il suo consenso sia con le originali tesi intorno alla questione del libero arbitrio e della volontarietà delle azioni, sia con l’impostazione stessa dell’indagine, sempre attenta alle vailatiane «questioni di parole». Una riserva, se mai, andava svolta a proposito del problema della responsabilità morale, che Calderoni aveva risolto senza tener conto del fatto che esistono «specie diverse di responsabilità» non riducibili in un «blocco» unico; e mentre la responsabilità «promorale» rinvia ai motivi che derivano dalla minaccia delle sanzioni esterne, la responsabilità morale vera e propria presuppone il sentimento morale interiore: la responsabilità è quindi diversamente graduata a seconda dei motivi che inibiscono le azioni, e la comune denominazione è solo un’ulteriore prova dell’«indeterminatezza del concetto comune»18. Nonostante queste precisazioni, Juvalta era pienamente convinto del valore delle ricerche di Calderoni e giudicò I postulati, alla fine della sua recensione, come «un buon libro e una bella promessa». Era un giudizio che pochi anni più tardi avrebbe trovato conferma in occasione della pubblicazione delle Disarmonie economiche e disarmonie morali, contributo che sembrò a Juvalta «originale e suggestivo», ben più fecondo «di qualche grosso volume inconcludente». Anche in questo caso non si trattava di un elogio di maniera, bensì di una convergenza più sostanziale intorno al rapporto, dibattuto con vivacità nella cultura filosofica italiana del primo Novecento, tra economia ed etica (basti ricor17

Per parte sua Juvalta ebbe grande simpatia per Vailati, e ne pianse l’immatura scomparsa con parole commosse (cfr. la lettera a Varisco del 18 maggio 1909, in Lettere a Bernardino Varisco, cit., p. 174). 18 La recensione a Calderoni apparve nella «Rivista Filosofica», IV, 1902, pp. 256-263. Vi si sofferma brevemente anche M. TORALDO DI FRANCIA, Pragmatismo e disarmonie sociali. Il pensiero di Mario Calderoni, Milano, Franco Angeli 1983, p. 184 n. 4.

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dare che la Filosofia della pratica crociana è del 1908, sebbene Croce avesse presenti questi problemi sin dalla discussione sul marxismo); e non è casuale che l’apprezzamento juvaltiano nei confronti di Calderoni si legga in una nota dello studio del 1907 su Il metodo dell’economia pura nell’etica, uno degli scritti più significativi dell’intera produzione filosofica di Juvalta (LRE, 185). Aprendo il suo saggio con l’eloquente motto «hypotheses fingo» e il rimando ai Principi di economia pura di Maffeo Pantaleoni, Juvalta insisteva qui sull’opportunità di applicare anche alle indagini etiche il metodo ipotetico-deduttivo e avalutativo dell’economia marginalistica, al fine di costituire una scienza della razionalità delle scelte umane, in quanto queste siano riportabili non a un criterio di fondazione logica o metafisica, bensì all’adeguazione dei mezzi ai fini prescelti. In questo senso Juvalta sottolineava la fecondità di un modello astratto in cui, come nell’economia, venissero ipotizzate le condizioni ideali volte a promuovere non la realizzazione di questo o quel fine, ma le circostanze ottimali per il conseguimento, in generale, delle finalità morali dell’uomo. Una simile ipotesi trova riscontro nella società ideale retta dalla giustizia, ovvero nella società giusta in cui opera l’homo ethicus e in cui tutti i membri della società trovano «la medesima o equivalente possibilità esteriore di rivolgere la loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei fini, dei quali la convivenza sociale è condizione»19. In tal modo, partendo da esigenze affini a quelle di Calderoni per quanto riguarda la possibilità di pensare unitariamente etica ed economia, Juvalta giungeva però a una soluzione se non antitetica, almeno diversa20. A Juvalta sembrava infatti che l’esigenza della giustizia soddisfacesse in forma rinnovata quell’universalità della massima kantiana che Calderoni trovava inaccettabile. La massima universale della giustizia, precisava invece Juvalta, è il 19

LRE, 181. Quanto a Calderoni cfr. Disarmonie economiche e disarmonie morali. Saggio di un’estensione della teoria ricardiana della rendita, poi in M. CALDERONI, Scritti, a c. di O. Campa, Firenze, La Voce 1924, vol. I, in particolare pp. 295-299, 312-313 (su cui è da vedersi la recensione di Vailati nella «Rivista italiana di sociologia» del marzo-aprile 1906, poi in Scritti, cit., pp. 695-698). 20 Su questo punto cfr. A. SANTUCCI, Il pragmatismo in Italia, Bologna, Il Mulino 1963, pp. 245-248, dove si sottolinea il carattere più spiccatamente descrittivo delle indagini di Calderoni rispetto a quelle di Juvalta (e cfr. pure M. CALDERONI, Scritti, cit., vol. I, p. 292).

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motivo dell’uniformità universale della condotta esterna; e da questo punto di vista il celebre esempio di Calderoni della barca – che suscitò una severa risposta di Croce – mostrava solo come la pretesa kantiana della validità universale del motivo che informa l’azione avesse valore unicamente nel caso di una medesima azione nelle medesime condizioni; ma se si suppone avverata questa circostanza «si troverà che l’unico motivo, il quale comporti uniformità universale di condotta, è il motivo della giustizia»21.

4. Sullo sfondo del dialogo che si sviluppò tra Juvalta, Vailati e Calderoni non è difficile cogliere alcuni temi che accomunavano le loro ricerche. Vi era in primo luogo una chiara consapevolezza del compito analitico e critico del filosofo, il quale deve impegnarsi sia sul piano della chiarificazione linguistica dei problemi, allo scopo di sgomberare il terreno dalle frequenti «illusioni verbali» (come disse Vailati), sia sul piano della ‘scomposizione’ dei concetti, per evitare di rimanere prigionieri dei luoghi comuni e delle impostazioni non adeguatamente vagliate22. D’altra parte tanto Vailati e Calderoni quanto Juvalta si incontravano nel professare il ‘divisionismo’ morale volto a mostrare come i valori e i principî che regolano la condotta dell’uomo non siano deducibili dalla conoscenza scientifica o dalle superiori certezze della meta21

LRE, 185 n. 1. La critica di Calderoni a Kant, condensata nello sbrigativo esempio della barca che affonderebbe se tutti, conformemente all’imperativo kantiano, si sedessero dalla stessa parte, è nelle Disarmonie (poi in Scritti, cit., vol. I, p. 318). Sulla «strabiliante» interpretazione di Calderoni scrisse un duro commento Benedetto Croce sulla «Critica», IV, 1906, pp. 132134 (= Materialismo storico ed economia marxistica, 7a ed. riveduta e con un’appendice, Bari, Laterza 1944, pp. 263-266), a cui Calderoni rispose sul «Leonardo», IV, aprile-giugno 1906, pp. 144-149 (= Scritti, cit., vol. I, pp. 345353), dando occasione a un’ulteriore precisazione di Croce (cfr. B. CROCE, Conversazioni critiche. Serie prima, Bari, Laterza 19504, pp. 267-269). La posizione di Juvalta, che tuttavia non si espresse sul merito di questa polemica, sembra incline a riconoscere la validità dell’idea di Calderoni del «mercato morale», senza però rinunciare a un’esigenza universalistica di ascendenza kantiana come condizione della stessa pluralità dell’agire morale. 22 Sulle convergenze tra Juvalta e Vailati cfr. anche V. MILANESI, Prassi e psiche. Etica e scienze dell’uomo nella cultura filosofica italiana del primo Novecento, presentazione di E. Garin, Trento, Pubblicazioni di «Verifiche» 1983, pp. 201-212.

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fisica, ma costituiscano un ambito autonomo, irriducibile alla dimensione teoretica e non suscettibile di essere condotto all’alternativa – come sintetizzerà brillantemente Calderoni – tra «verità» e «falsità». Per parte sua Juvalta avrebbe messo in rilievo che la ragione «non comanda nulla», limitandosi invece a cercare, «se le riesce, i mezzi che servono a conservare la vita a chi la vuol conservare, a distruggerla a chi la vuol distruggere». Non si può insomma attribuire all’egoismo una patente di razionalità maggiore o minore dell’altruismo, così come non è più razionale l’utilità individuale rispetto a quella collettiva, o il progresso rispetto al regresso: «razionali – sostiene Juvalta – non sono i fini, ma le relazioni dei mezzi ai fini»23. Ora si consenta o meno con formulazioni di questo genere non vi è motivo di non riconoscere – come osservava Garin nelle sue Cronache – che i problemi hanno qui «un senso preciso» e comportano indagini che non si arrestano certo alla superficie: quando si leggono le pagine di Calderoni, Vailati, Juvalta o altri ancora (si pensi a Limentani) non si può insomma sfuggire alla sensazione di trovarsi di fronte ad alcuni dei grandi nodi della riflessione filosofica del Novecento nel campo della morale, segnata dalla consapevolezza dell’irrinunciabile pluralità dei valori e dalla necessità di indagarli a contatto con altre discipline, ma pure dalla ricerca del rigore di un’analisi di tipo ‘metaetico’, capace di congedare la giustificazione metafisica o la garanzia di uno stabile corso della storia24. 23

LRE, 142 (la citazione è tratta da Per una scienza normativa morale, su cui si tornerà più avanti). Il passo piacque molto a Calderoni, che lo citò in due diverse occasioni con pieno consenso (cfr. Scritti, vol. I, pp. 289-290; vol. II, pp. 198-199). A sua volta Juvalta ritornò spesso sul ‘divisionismo’: si veda ad esempio LRE, 146, 197, 219, 246. Quanto a Vailati, per il quale si rimanda ai significativi testi in cui sono discussi Brentano, Moore e la distinzione tra conoscere e volere (Scritti, cit., pp. 336-340, 626-629, 659-666) si veda anche V. MILANESI, Un intellettuale non «organico». Vailati e la filosofia della prassi, Padova, Liviana 1979, specie pp. 39-64, nonché M. DAL PRA, Studi sul pragmatismo italiano, Napoli, Bibliopolis 1984, pp. 29-37 (con riferimento anche a Juvalta). Di Calderoni si ha qui presente la conferenza su Il filosofo di fronte alla vita morale, poi in Scritti, cit., vol. II, pp. 341-345; ma in questo ambito rientrano anche le considerazioni di L. LIMENTANI, Il Vero nella Morale, «Rivista di filosofia», VI, 1914, pp. 183-199. 24 Cfr. P. PIOVANI, Etica, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana 1977, vol. II, pp. 824-836. Si veda inoltre E. GARIN, Cronache di filosofia italiana, cit., pp. 168-169.

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D’altro canto la posizione di Juvalta, nonostante alcune convergenze, manteneva una precisa autonomia nei confronti del ‘pragmatismo logico’. E questo non solo per la più accentuata tonalità normativa, di derivazione kantiana, delle sue ricerche rispetto al descrittivismo del Calderoni delle Disarmonie, ma anche per la diversa articolazione dell’idea stessa della ‘scientificità’, che in Juvalta sembra talvolta debitrice a un fattualismo assai meno scaltrito della coeva analisi epistemologica condotta da Vailati e, sulla sua scia, da Calderoni. Non per nulla, per quanto attento al dibattito sul pragmatismo in Italia e fuori d’Italia, Juvalta prese posizione contro di esso, e in particolare contro quella forma di pragmatismo che gli pareva «un ritorno alla metafisica in nome delle esigenze pratiche» (LRE, 94). Ma Juvalta ribadì pure, con un eloquente richiamo al Varisco positivista, come la ragione, pur avvalendosi di ipotesi e di costruzioni provvisorie, debba sempre fare i conti con «le cose che sono e come sono», giacché i fatti restano fatti indipendentemente dai nostri desideri e dalle nostre aspettative. In tal modo l’accento di Juvalta sulla scientificità dell’etica e il richiamo al fatto in quanto tale attestavano una perdurante aderenza all’ideale conoscitivo del positivismo ottocentesco, confinando entro limiti precisi il contributo alla discussione che, su altre basi, era stata promossa da Vailati e Calderoni25. Nonostante a partire dallo studio sul Metodo dell’economia pura nell’etica l’accento cada piuttosto sulle procedure ipoteticodeduttive, anche il saggio del 1905 Per una scienza normativa mo25

LRE, 95 n. 1 ove si citano, di Varisco, l’Introduzione alla filosofia naturale (che è del 1903) e gli Studi di filosofia naturale (pubblicati nello stesso anno). Va ricordato che Juvalta, in una lettera del 25 febbraio 1902 a Varisco, esprimeva ammirazione per il suo volume su Scienza e opinioni, manifestandogli al contempo solidarietà a proposito della polemica che si era sviluppata con Vailati proprio al riguardo di Scienza e opinioni (cfr. Lettere a Bernardino Varisco, cit., p. 167). L’attenzione di Juvalta per il dibattito internazionale sul pragmatismo si può ricavare dalla segnalazione di alcuni articoli apparsi su riviste straniere che furono brevemente riassunti sulla «Rivista Filosofica», IX, 1907, pp. 694-698 e X, 1908, pp. 136-140, ove in particolare sono presenti James e, forse con una velata punta polemica, la famosa battuta di Lovejoy sui tredici tipi di pragmatismo (p. 136 n. 1). Sull’intera questione cfr. M. VIROLI, L’etica laica di Erminio Juvalta, cit., pp. 42-50 e A. SANTUCCI, Erminio Juvalta e il pragmatismo, in Sul pensiero di Erminio Juvalta, cit., pp. 468-476 (ristampato ora in A. SANTUCCI, Ricerche sul pensiero italiano tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 142-149).

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rale si apre d’altronde con un’esplicita dichiarazione di appartenenza alla schiera dei «filosofi dell’oramai» (l’espressione era di Varisco), ossia di coloro che si ostinano a credere nella possibilità «di una scienza della morale»26. Scienza normativa, la morale condivide con le altre scienze precettive il carattere di «sistema di relazioni e di leggi» aventi la funzione di norme da seguire nel caso che «sia assunto come fine quell’effetto o quell’ordine di effetti, del quale esse leggi esprimono le condizioni e i fattori». Ma la scienza morale si diversifica da ogni altra scienza precettiva perché riconosce al fine che la dirige «un valore di universale preferibilità e precedenza sopra ogni altro fine». Di qui Juvalta traeva la conclusione che ogni sistema morale obbedisce a un postulato fondamentale, rispetto al quale la ragione stabilisce la coerenza dei mezzi in rapporto ai fini; e mostrava come fosse il postulato della giustizia a soddisfare l’esigenza morale più di ogni altro, sebbene non si potessero escludere altri postulati: poiché le valutazioni sono «dati di fatto» posti al di fuori di ogni ragionamento, che la costruzione normativa trova e accetta ma non pone da se stessa (LRE, 140-142). Ribadendo le proprie posizioni, Juvalta intendeva anche rispondere alle obiezioni che gli erano state mosse, sottraendo la sua ricerca al dignitoso isolamento in cui era stata intenzionalmente tenuta sino ad allora. Del resto vi erano anche altri motivi a sollecitarlo ad assumere un ruolo meno appartato. Nel 1906, con la morte di Cantoni, la «Rivista Filosofica» passò di fatto sotto la sua direzione (che proseguì sino alla fine del 1908); nello stesso anno Juvalta assumeva la presidenza del Consiglio della Federazione Nazionale degli Insegnanti di Scuola Media, e in tale veste svolgerà la relazione inaugurale al Congresso di Bologna (nel settembre 1906), trovandosi a stretto contatto con Gaetano Salvemini27. Di lì a poco, nel 1907, Juvalta parteciperà al secondo 26

LRE, 139 (il testo apparve originariamente sulla «Rivista Filosofica», VII, 1905, pp. 445-466). Unitamente allo studio su Spencer e a quello sul metodo dell’economia pura, Per una scienza normativa morale fu poi raccolto da Juvalta in un volumetto pubblicato da Bocca nel 1907 con il titolo Le possibilità e i limiti della morale come scienza. 27 Cfr. L. AMBROSOLI, La Federazione Nazionale Insegnanti Scuola Media dalle origini al 1925, Firenze, La Nuova Italia 1967, pp. 149 sgg. Si inserisce in questo contesto anche il breve scambio epistolare con Salvemini del

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Congresso della Società Filosofica Italiana presieduta da Federigo Enriques, leggendovi il testo già richiamato sull’economia pura nei suoi rapporti metodici con l’etica; e la sua presenza in un’assise che vedeva insieme Troilo e Tarozzi, Vailati e Alessandro Levi, Villa e Pastore, Varisco e lo stesso Enriques, appare non priva di significato, in un momento in cui andava profilandosi ormai l’urto con l’idealismo rinascente, mentre figure anche diverse convergevano intorno alla Società Filosofica Italiana quasi a costituire un ‘fronte’ da contrapporsi alla crescente influenza di Croce e di Gentile. Proprio Enriques aveva inaugurato il congresso, nella prosa generosamente enfatica che gli era propria, celebrando i fasti della rinascita filosofica nel seno stesso della scienza contemporanea: quella filosofia che era parsa negletta e degna solo di scarsa attenzione nei decenni passati tornava ora a risplendere «come fiamma viva», ed era inevitabile che ben presto tornasse in auge una visione non più unilaterale della scienza. In questo «rinascimento» un compito preciso spettava anche alla Società Filosofica Italiana: sorta inizialmente sul terreno pedagogico, si volgeva ora «ad assumere un significato ed un ufficio proprio nella vita spirituale del nostro tempo» ed esplicava per questo «un programma di alte discussioni scientifico-filosofiche»28. Erano parole che rispecchiavano, al di là delle concessioni retoriche, una situazione precisa e che incontravano il pieno consenso dei convenuti al congresso parmense. In un clima di positivismo tramontante, tra la riscoperta dell’ideale e la rinascita delle fedi, nel vivo di una discussione che vedeva affiancati pensatori originali e più stanchi rappresentanti di un filosofare tradizionale, nascevano e si intrecciavano ‘alleanze’ più o meno durature, cementate dal proposito di resistere alle aspre polemiche condotte da Croce e da Gentile e febbraio 1906, pubblicato in G. SALVEMINI, Carteggi, vol. I, (1895-1911), a c. di E. Gencarelli, Milano, Feltrinelli 1968, pp. 338-339. 28 F. ENRIQUES, Il rinascimento filosofico nella scienza contemporanea, in AA.VV., Questioni filosofiche, a c. della Società Filosofica Italiana, BolognaModena, Formiggini 1908, pp. 1-6 (il volume raccoglie gli atti del II Congresso della S.F.I., tenutosi a Parma nel settembre 1907). Il testo di Juvalta compare alle pp. 197-218; ma era già stato pubblicato sulla «Rivista Filosofica», IX, 1907, pp. 577-601. Il discorso di Enriques è ora ristampato in F. ENRIQUES, Per la scienza. Scritti editi e inediti, a c. di R. Simili, Napoli, Bibliopolis 2000, pp. 85-89.

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dalla volontà di contrapporre alla ‘politica culturale’ dell’idealismo una simmetrica iniziativa: sul piano delle riviste, del confronto pubblico, delle ‘istituzioni’ in senso largo. Né è puramente accidentale che nel 1909 la «Rivista Filosofica» guidata da Juvalta e la «Rivista di filosofia e scienze affini» di Marchesini decidessero di unirsi per dare vita alla «Rivista di filosofia», subito eletta a organo della Società Filosofica Italiana: una scelta che appare dettata non solo dalle difficoltà economiche in cui versavano i due periodici, ma dall’intento – come si legge nella presentazione del primo fascicolo – di raccogliere le forze delle «scuole gloriose» alimentate sia dal «naturalismo» e dall’«umanismo», sia dall’insegnamento di Cantoni e di Ardigò, e che confluivano ora (sotto gli auspici dell’immancabile editore Angelo Fortunato Formiggini, l’intraprendente artigiano del libro che ospitò molte voci della cultura positivistica) per offrire un luogo di dibattito alla cultura filosofica italiana non allineata con l’idealismo29. 29

Sulle origini e il primo percorso della «Rivista di filosofia» cfr. infra, cap. 8. Juvalta ebbe parte importante nella nascita del nuovo periodico di filosofia e si adoperò perché dalla fusione con il gruppo padovano non uscisse sacrificata l’eredità della scuola di Cantoni (cfr. in tal senso la lettera a Varisco del 28 gennaio 1909 pubblicata in Lettere a Bernardino Varisco, cit., p. 173); entrò poi a fra parte della redazione della rivista unitamente ad Adolfo Faggi, Alessandro Levi, Luigi Valli, Marchesini, Vailati e lo stesso Varisco. Per ciò che concerne l’atteggiamento di Juvalta nei confronti del neoidealismo, occorre ricordare che nei suoi scritti non vi è traccia delle opere di Croce e di Gentile. Tuttavia qualche indicazione si può ricavare dalla corrispondenza con Varisco: significativa è, in tal senso, l’allusione polemica a Gentile, nel 1902, nel corso dell’aspra polemica che impegnò lo stesso Varisco e Gentile e che ebbe origine dall’edizione gentiliana degli scritti di Spaventa (ivi, p. 168, e pp. 195-197 per una breve ricostruzione della discussione). Ma va pure notato l’interesse di Juvalta per la recensione varischiana della Filosofia della pratica di Croce nel novembre 1910 (ivi, p. 175); la recensione in questione apparve sulla «Cultura Filosofica», IV, 1910, pp. 428433 ed è da tener presente per la rivendicazione che vi veniva avanzata dei diritti del sentimento contro la svalutazione crociana (si veda anche infra, cap. 9, pp. 299-300). Per parte loro né Croce né Gentile discussero, a quanto ci risulta, le indagini di Juvalta; l’unico documento in proposito è la lettura (o rilettura) da parte di Croce di Per una scienza normativa morale nel 1906 (cfr. la lettera a Gentile del 12 settembre 1906 pubblicata in B. CROCE, Lettere a Giovanni Gentile [1896-1924], a c. di A. Croce, Milano, Mondadori 1981, p. 201). Su Juvalta e Croce si veda pure M. VIROLI, L’etica laica di Erminio Juvalta, cit., pp. 53-57, 85, 146-147, 156-160, il quale tra l’altro mette in rilievo il contrasto (mitigato solo dalle pagine crociane di Etica e politica) a

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Per parte sua Juvalta esordiva sulla nuova rivista nel 1910, ritornando sull’indipendenza della morale dalla metafisica e sottolineando come i «postulati» della prima non implicassero necessariamente quelli della seconda30. A ben vedere si trattava qui di un’implicita risposta a Varisco, con il quale non era forse opportuno polemizzare apertamente visto il comune lavoro nella redazione della «Rivista di filosofia». Ora già nel 1908, sulla «Cultura», Varisco aveva discusso le tesi di Juvalta, muovendogli l’obiezione di essersi fatto un’idea troppo angusta della ragione: poiché se è vero che la ragione teoretica non è in grado di porre i valori morali, non per questo essi sono scissi dalla razionalità umana in generale, più comprensiva ed estesa del mero intelletto scientifico31. La riserva non era priva di una sua validità, ma comportava una divergenza più sostanziale che si sarebbe chiarita, di lì a poco, in alcune pagine dei Massimi problemi, in cui Varisco avrebbe osservato che i valori morali sono tali in virtù della loro «permanenza»: ciò che rinvia all’«impossibilità di separare la morale dalla metafisica», dal momento che solo quest’ultima offre una visione della realtà in cui l’agire dell’uomo può uniformarsi a determinate norme di condotta32. Sulla «Rivista di filosofia» Juvalta non tardò a replicare, pur non citando espressamente Varisco. In primo luogo la permaproposito della politica subordinata alla morale della giustizia e della politica concepita invece come potenza. 30 Cfr. Postulati etici e postulati metafisici, «Rivista di filosofia», I, 1910, pp. 459-467 (= LRE, 195-206). 31 La recensione di Varisco si riferiva a Le possibilità e i limiti della morale come scienza e apparve in «La Cultura», XXVII, 15 gennaio 1908, pp. 33-38. 32 Cfr. B. VARISCO, I massimi problemi, Milano, Libreria Editrice Milanese 1910, pp. 141 sgg., 288 sgg. Il 17 ottobre 1909 Juvalta scriveva a Varisco di aver letto il capitolo sui valori e le note sulla morale e la metafisica (il libro, benché pubblicato nel 1910, circolava già sul finire dei 1909); ma aggiungeva di non essere rimasto «persuaso del tutto» (Lettere a Bernardino Varisco, cit., pp. 174-175). Su questi temi la discussione tra i due filosofi si riaccese molti anni più tardi, quando Varisco lavorava a Dall’uomo a Dio (pubblicato postumo a c. di E. Castelli e G. Alliney, Padova, CEDAM 1939), ove tornò sull’opera di Juvalta («la cui dottrina e l’acume sono meritevoli della massima lode») muovendogli obiezioni analoghe a quelle già formulate in precedenza (pp. 125-126 n. 1); di qui una garbata polemica epistolare tra la fine dei 1926 e gli inizi del 1927, nel corso della quale Juvalta precisò nuovamente le sue posizioni (cfr. Lettere a Bernardino Varisco, cit., pp. 183-185, a cui si rimanda per ulteriori notizie).

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nenza dei valori dipende dal riconoscimento del loro carattere morale, e non viceversa: il valore è tale «in quanto è dato, sentito, vissuto dalla coscienza, e in quanto dato non può essere illusorio» (LRE, 199). Di qui un’ulteriore distinzione: i postulati etici possono – e anzi devono – essere separati dai postulati metafisici dell’etica: giacché la metafisica integra e sviluppa i valori morali determinandone una particolare tonalità religiosa o un’accentuata efficacia pratica, ma non per questo li fonda e li costituisce. I valori morali sono posti dall’uomo, nella sua esperienza concreta e terrena, e i postulati di valutazione morale sono irriducibili a unità, per quanto la loro pluralità trovi un limite nella realtà storica e psicologica (LRE, 202). Non per questo, precisava tuttavia Juvalta, si può assegnare alla scienza della morale un compito che vada al di là della «costruzione deduttiva» che si ricava da determinati postulati morali; né, d’altra parte, occorre assumere un atteggiamento di ripulsa nei confronti dei postulati metafisici: essi vanno piuttosto restituiti alla loro funzione, che è quella di sollevare la coscienza morale verso i «problemi rimossi ma non risoluti», là dove risuona la voce profonda del sentimento. A Varisco, dunque, Juvalta non opponeva la negazione della metafisica in quanto tale, bensì la sua separazione dalla costruzione logica della morale; la quale si alimenta comunque – riconosceva Juvalta – delle intuizioni e delle sistemazioni metafisico-religiose, ove «vibrano, palesi od occulte, le speranze e le angosce della coscienza morale» (LRE, 206).

5. Nel 1911 si svolse a Bologna il IV Congresso Internazionale di Filosofia. Fu un evento rilevante, che dopo i congressi di Parigi, Ginevra e Heidelberg vide riuniti per l’ultima volta prima del conflitto mondiale filosofi provenienti da ogni parte d’Europa, ponendo a confronto Bergson e Croce, Poincaré ed Enriques, cultori delle scienze e delle religioni, dell’estetica e della psicologia33. In quell’assise non mancò, tra le tante, anche la voce di Ju33

Si veda il discorso inaugurale di F. ENRIQUES, Il problema della realtà, in Atti del IV Congresso Internazionale di Filosofia (Bologna, 5-11 aprile 1911), Genova, Formiggini s.d., vol. I, pp. 5-20, dove veniva esaltata la «fratellanza fra le genti civili» e la disinteressata «ricerca della verità».

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valta, il quale si soffermò brevemente sui suoi temi prediletti: la distinzione tra obbligo e valutazione, il significato del postulato della giustizia, l’impossibilità di risolvere al di fuori della morale la questione del suo fondamento e, non da ultimo, il problema kantiano dell’imperatività del dovere, che lascia però impregiudicato il suo contenuto. Nella discussione che seguì Juvalta ebbe modo di chiarire a Tarozzi in che senso la scienza non possa soccorrere la morale se non per il criterio dell’adeguazione dei mezzi ai fini; e, per parte sua, intervenne sul discorso di Vidari, facendogli rilevare come la nozione di legge, da lui preferita a quella di fine e di norma per caratterizzare l’universale e assoluta validità della morale, debba necessariamente assumere un determinato contenuto empirico, il che equivale a dire «valore di fine, o di condizione a certi fini»34. Erano ancora una volta discussioni puntuali, che ritornavano sulle consuete prospettive non senza aprire nuovi scorci o moderando accenti prima più marcati. In quegli anni Juvalta preparava del resto il suo libro più maturo – Il vecchio e il nuovo problema della morale, che uscirà nel 1914 alla vigilia della guerra – e proseguiva al tempo stesso un minuto lavoro di analisi: come avveniva nel 1912, quando discuteva la pluralità dei postulati di valutazione morale sottolineando come i valori si concatenino tra loro in un rapporto di subordinazione e derivazione di natura logica, senza tuttavia che il postulato fondamentale possa essere ascritto a null’altro se non a se stesso, ossia alla propria natura assiologica irriducibile35. Sono pagine per molti versi esemplari; ma nel clima inquieto del momento, tra l’impresa di Libia e le ombre del conflitto mondiale che andava preparandosi minaccioso, le sottili riflessioni di Juvalta rimanevano ai margini della cultura filosofica italiana e venivano ingiustamente accomunate alla produzione accademica di routine. In realtà, gran parte della discussione che 34

La comunicazione di Juvalta su Postutati etici e imperativo categorico è negli Atti, cit., vol. III, pp. 476-482; e cfr. p. 483 per la discussione con Tarozzi (il testo si legge ora in LRE, 207-216). Nello stesso volume degli Atti, pp. 106-117, è inserito il discorso di Vidari su I concetti di fine e norma in etica (cui fa seguito, pp. 117-118, l’intervento di Juvalta). 35 Cfr. Su la pluralità dei postulati di valutazione morale, ora in LRE, 217229 (si tratta di una comunicazione al Congresso di Genova della Società Filosofica Italiana).

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allora contò ed ebbe peso si collocava sul terreno dell’idealismo (fortemente segnato peraltro dalla polemica pubblica che divise Croce e Gentile nel 1913), mentre l’intreccio di politica, cultura militante e «senso religioso della comune missione» (come dirà Gentile salendo alla cattedra pisana) nel quadro di un’acuta percezione dei compiti dell’intellettuale in una società in trasformazione relegava in una zona d’ombra il lavoro severo ma circoscritto di studiosi come Juvalta36. Non per nulla chi voglia trovare un esame attento delle idee dell’autore dei Prolegomeni dovrà rivolgersi all’ampio volume che nel 1913 Ludovico Limentani, discepolo di Ardigò e Marchesini ma anche interlocutore di Vailati, pubblicò per la «Biblioteca di filosofia» del Formiggini37. Limentani riconosceva a Juvalta un’indubbia maestria di analisi, e tuttavia gli muoveva alcune critiche che ne rovesciavano l’impostazione proprio in riferimento alla distinzione tra esigenza esecutiva ed esigenza giustificativa, con la connessa impossibilità di ridurre il giusto all’obbligatorio o questo a quello: ciò che gli sembrava implausibile trattandosi invece «di due aspetti inseparabili, o di due diversi modi di considerare un medesimo stato della coscienza». Nonostante le distinzioni più accurate, la coscienza dell’individuo agente opera nel giusto quando avverte l’obbligo, e si sente intimamente obbligata solo se riconosce il giusto: non potrebbe essere concepibile altra soluzione se si prestasse davvero attenzione al lavorìo e al tormento della nostra psiche38. Di qui Limentani traeva una seconda conclusione, egualmente rivolta contro i procedimenti astratti di Juvalta. La nozione di etica pura, in quanto distinta dall’etica applicata, così come quella di società ideale in cui opera l’homo justus al quale deve approssimarsi l’uomo storico, gli pareva una mera 36

Di Gentile si ha qui presente la prolusione del 1915 L’esperienza pura e la realtà storica, poi in La riforma della dialettica hegeliana, Firenze, Sansoni 1975 4, p. 262. Per un utile orientamento sul clima dell’inquieta vigilia del conflitto mondiale cfr., tra gli altri, S. ZEPPI, Il pensiero politico dell’idealismo italiano e il nazionalfascismo, Firenze, La Nuova Italia 1973; a cui vanno almeno aggiunte le considerazioni di L. MANGONI, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari, Laterza 1974, pp. 3 sgg. 37 Cfr. L. LIMENTANI, I presupposti formali della indagine etica, Genova, Formiggini 1913. Su quest’opera e sulla figura di Limentani cfr. infra, cap. 4. 38 Ivi, pp. 24, 54-57. Su questo punto cfr. anche F. PICARDI, Morale e filosofia della morale in Erminio Juvalta, cit., pp. 64-65.

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costruzione dell’intelletto, legittima in quanto tale ma inefficace dal punto di vista pratico, e pertanto priva di quell’ufficio propulsore della moralità che Juvalta sembrava assegnarle. Sicché nella «società di uomini giusti» sarebbero in realtà scomparse, a giudizio di Limentani, proprio quelle tensioni individuali e sociali che sono il terreno su cui sorge la vita morale; e in definitiva occorreva riconoscere che alle costruzioni etiche razionali non spetta «maggior valore pratico di quel che si possa attribuire alle geometrie a più dimensioni in ordine al fine di dirigere e determinare le nostre attività motorie»39. Con questo Limentani rivendicava la priorità di una sorta di fenomenologia dell’esperienza morale, volta a sondare e mettere in luce i dissidi della coscienza, le sue inquietudini e le sue tensioni, così come i suoi complessi rapporti con la vita sociale, con gli individui agenti in una società sempre più differenziata e per questo esposti a conflitti morali non facilmente componibili. Così, mentre delineava uno psicologismo e un pluralismo morali in cui il formalismo kantiano si coloriva dei variopinti moti del sentimento, sino a sconfinare in una forma talora sconcertante di individualismo etico (onde il bene è il dovere quale è avvertito dalla nostra coscienza), Limentani era spinto a ‘fare i propri conti’ con le soluzioni tentate da Juvalta, per opporre alle fredde intelaiature di una disquisizione razionale la fluente ricchezza della vita40. Per parte sua Juvalta non si mostrò particolarmente sensibile alle riserve di Limentani, né si impegnò in una confutazione delle 39

L. LIMENTANI, I presupposti formali della indagine etica, cit., pp. 339 sgg. (e cfr. p. 370: «La determinazione razionale di un codice di giustizia assoluta appare dunque arbitraria o inutile»). 40 In questo senso le obiezioni mosse a Juvalta da parte di Limentani sembrano anticipare quelle svolte molto più tardi, in nome della Lebenswelt husserliana, da E. PACI, La filosofia contemporanea, Milano, Garzanti 19742, p. 42. Sulle critiche di Limentani a Juvalta ha osservazioni penetranti M. VIROLI, L’etica laica di Erminio Juvalta, cit., pp. 89-113, specie pp. 102-105. Viroli mette bene in luce i motivi di netto dissenso tra Limentani e Juvalta, ma anche alcune convergenze: sia per la disponibilità di Juvalta a non identificare dovere morale e obbligo, sia soprattutto per la condivisione del pluralismo etico e la difesa della libertà morale (p. 111). Per Viroli non si tratta tanto di due maniere contrastanti di descrivere l’esperienza morale, quanto di due ‘programmi di ricerca’ dotati di finalità diverse (l’una eminentemente fenomenologica, l’altra logico-analitica), sicché il terreno di confine sarebbe più ampio di quanto non si evinca dalle critiche di Limentani (p. 105 n. 44).

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critiche formulate nei Presupposti formali della indagine etica. Eppure quando pubblicò la sua opera più riuscita e importante Juvalta sembrò in qualche modo consapevole dell’opportunità di infondere anche nella trattazione più rigorosa il calore del ‘moralista’, mentre la sua antica fede nei valori supremi della libertà e della giustizia, e quindi della persona umana, assunse un tono particolarmente accorato, sino a celebrare con parole vibranti quella «dignità dell’uomo» che lo stesso Limentani, pochi anni più tardi, avrebbe sottolineato41. Ma Il vecchio e il nuovo problema della morale, uscito un anno dopo il ponderoso volume di Limentani, non si segnala solo per questa accentuata sensibilità, quanto per la discussione condotta nella prima parte, là dove Juvalta esamina il ‘vecchio’ problema e critica acutamente la pretesa di un fondamento della morale tratto da un ambito che non sia la morale stessa, incontrandosi per certi versi con il rifiuto proprio anche di Limentani delle soluzioni di carattere sociologistico, naturalistico e metafisico. «La fondazione extra-morale della morale – afferma Juvalta – è illusoria» (LRE, 241); e questo perché ogni fondamento è già investito di un valore, di una valutazione che lo rende moralmente significativo: comunque si imposti la questione, cercando una fondazione valida ora nella realtà, ora in un ordine di fini, ora nell’autorità, è impossibile sfuggire a questo circolo vizioso42. Di qui la conclusione (anch’essa non estranea all’orizzonte di Limentani) che sorgente dei valori e fondamento della morale è solo la coscienza morale stessa, nella quale si radicano le valutazioni «come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide per sé» (LRE, 247). I postulati etici, insiste Juvalta, sono frutto di una «autoassiomaticità», e tale «autassia» irriducibile ad altre forme di esperienza diverse dall’esperienza morale costituisce il limite invalicabile di fronte al quale deve arrestarsi la filosofia (LRE, 279, 282). Nel complesso si trattava di argomentazioni ormai consuete nella riflessione di Juvalta; e tuttavia si avverte qui, quasi si trat41

Cfr. le pagine conclusive de Il vecchio e il nuovo problema della morale, Bologna, Zanichelli 1914 (= LRE, 328-329). Di Limentani si hanno qui presenti gli Studi sopra la valutazione della condotta. Moralità e normalità, Ferrara, Tip. Taddei 1920, in particolare pp. 103-104. 42 Per il problema del valore in Juvalta si veda anche C. ROSSO, Figure e dottrine della filosofia dei valori, Napoli, Guida 1973, pp. 155-161.

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tasse di un’implicita concessione a Limentani, l’intento di accordare un rilievo più spiccato alla voce intima della coscienza, che risuona come voce individua e pienamente umana (LRE, 329). A tutto questo si aggiungeva, nel volume del 1914, una precisa discussione di Kant, al quale Juvalta riservava un capitolo intero per stabilire i limiti da porre alle pretese del razionalismo etico di costituire i valori morali (LRE, 292), ma pure per precisare come il criterio formale kantiano fosse inadeguato: sia perché la forma deve sempre presupporre un contenuto, sia perché in Kant la legge morale è riferita a un’astratta coscienza univocamente determinata. In realtà il criterio formale non esprime che l’esigenza della razionalità: una legge non è legge se non è valida sempre nei medesimi casi […] Ma è un’illusione credere che possa bastare la razionalità per sé a distinguere i valori dai non valori […], a farci riconoscere – senza appello diretto o indiretto a qualche dato o postulato non razionale – il valore di un oggetto qualsiasi (di un contenuto), ideale o reale (LRE, 298).

Partendo dalla critica a Kant, Juvalta ritornava così sul tema – centrale anche per Limentani – del pluralismo dei postulati etici che si alimentano della volontà e delle tendenze della coscienza individuale (LRE, 300), al punto da configurare una pluralità di sistemi morali intersecantisi tra loro come cerchi di vario raggio: immagine di ascendenza simmeliana che Juvalta faceva sua senza tuttavia citare né Simmel né Limentani43. A differenza di Limentani, però, Juvalta non esasperava il pluralismo morale in una sorta di anarchia etica, e sottolineava come la diversità dei valori non escludesse (e, anzi, implicasse) una «condizionalità universalmente necessaria, permanente e insurrogabile» di alcuni valori che sono condizioni di tutti gli altri. I valori della libertà e della giustizia rappresentano dunque le condizioni soggettive e oggettive della libera esplicazione della personalità umana, la quale come valore «per sé, intrinseco e assoluto della persona» è il postulato di ogni valutazione morale (LRE, 307-312). 43

LRE, 301 (e cfr. L. LIMENTANI, I presupposti formali della indagine etica, cit., pp. 109 sgg.). Va aggiunto che appena più oltre Juvalta si riferiva invece a Moore, e in particolare al tema dell’intrinsic value affrontato da Moore in un capitolo di Ethics (LRE, 302).

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In questo modo Il vecchio e il nuovo problema della morale saldava il piano analitico della prima parte con la vigorosa presa di posizione a favore di determinati valori delineata nella seconda parte, generando una duplicità di livelli sulla quale varrebbe la pena di soffermarsi distesamente, anche in vista di una più precisa determinazione del pluralismo morale juvaltiano in contrapposizione a ogni sorta di ‘deriva’ relativistica44. Certo è comunque che il breve volume di Juvalta, uscito in un anno cruciale per la storia europea, attrasse l’attenzione anche di studiosi lontani dall’ambiente filosofico italiano. Segnalato da alcune recensioni apparse in Francia e in Inghilterra, esso conobbe soprattutto un significativo riconoscimento (che comprensibilmente inorgoglì Juvalta) da parte di Thomas Whittaker, il quale scrisse di aver finalmente trovato «la dottrina che andava cercando» e dedicò alle pagine di Juvalta – già segnalate da una recensione uscita su una rivista prestigiosa come «Mind» – un nutrito capitolo di un suo libro del 191645. Nel contesto italiano, invece, fu Gioele Solari a commentare l’indagine juvaltiana, riconoscendone «l’acume critico» e il «rigore» che non facevano velo, nonostante la forma arida e schematica dell’argomentazione, a un profondo «entusiasmo etico». Solari rilevava però un grave limite nell’aver ricondotto la moralità alla sorgente «indimostrabile e incontrollata» della coscienza morale, riabilitando «l’innatismo etico con i suoi pregi, ma anche con le sue innegabili deficienze», tanto più innegabili se si considerano gli enormi progressi compiuti dall’analisi psi44

Qualche attenzione merita in questo senso la recensione di Paolo Eustachio Lamanna («La Cultura Filosofica», IX, 1915, pp. 100-105, specie p. 103), ove si sottolinea l’ambivalenza delle nozioni di libertà e giustizia, ora considerati come valori strumentali volti a costituire le condizioni del pluralismo morale, ora come valori assoluti per se stessi. Cfr. in proposito anche A. GUZZO, Vita e scritti di Erminio Juvalta, cit., pp. 160-161. Ma qualcuno ha visto in Juvalta addirittura il conflitto lacerante tra il rigore dell’analista e il senso spiccato dell’interiorità morale che lo accosterebbe a Pascal e Kierkegaard (cfr. H.A. CAVALLERA, La ricerca del primato della morale nel pensiero di Erminio Juvalta, cit., pp. 445-446). 45 Cfr. T. WHITTAKER, The Theory of Abstract Ethics, Cambridge, Cambridge University Press 1916, pp. 66-89. Si vedano inoltre le recensioni di A.W. Benn sul «Mind», XXIV, 1915, pp. 112-114 e quella di R. Meunier sulla «Revue philosophique de la France et de l’Étranger», XL, 1915, vol. LXXIX, pp. 200-202 (il quale muoveva varie obiezioni e concludeva: «j’aurais desiré en ce livre d’éthique un peu plus de psychologie»).

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cologica contemporanea. Per Solari la coscienza etica «non esiste per sé, ma come il riflesso soggettivo empirico di una coscienza morale più larga che si impone agli individui nella forma del costume, quale a sua volta si giustifica sul fondamento di un ordine metafisico». Da questo punto di vista la posizione di Juvalta gli sembrava in realtà una forma di «atomismo etico» e la stessa critica al formalismo di Kant – un nodo certo cruciale, ma da affrontare se mai sulla scorta dell’interpretazione di Martinetti – andava estesa per Solari al fondamentale individualismo kantiano: in altre parole, il problema morale è sempre nel «rapporto tra l’ordine etico oggettivo» e la moralità individuale46. Se si tengono presenti l’orientamento di Solari, la sua formazione positivistica prima e la sua apertura alla tradizione dell’oggettivismo hegeliano poi, queste critiche non possono stupire. Ma si comprende altresì la perplessità di Juvalta, manifestata anche in una lettera a Varisco del settembre 1914: in realtà per Juvalta la questione era già stata chiarita una volta per tutte quando aveva precisato che i valori sociali sono tali perché riconosciuti dalla coscienza individuale, sorgente insostituibile della stessa coscienza sociale e di quel socialismo (letto qui attraverso il filtro dell’etica) «che ha per oggetto e per centro l’individuo, la unità personale umana». E in questo senso è la morale a fornire ai valori sociali la dignità loro propria, non viceversa: «i valori sociali non sono morali se non perché e in quanto sono sentiti e valutati come tali dalla coscienza personale; dal punto di vista etico non è la società che dà valore ai miei criteri morali, ma sono i miei criteri morali che danno valore alla società»47. 46 Per la recensione di Solari cfr. «Rivista di filosofia», VI, 1914, pp. 483488. L’adesione all’interpretazione martinettiana di Kant fu poi ribadita da Solari nello studio su Scienza e metafisica del diritto in Kant (1926), ora in La filosofia politica, vol. II, Da Kant a Comte, a c. di L. Firpo, Bari, Laterza 1974, p. 8; sul rapporto Solari-Martinetti un breve accenno è in A. GUZZO, Incontri con Gioele Solari, in AA.VV., Gioele Solari (1872-1952). Testimonianze e bibliografia nel centenario della nascita, «Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino», Serie IV, n. 26, 1972, p. 5. Va aggiunto che Solari espresse alcuni interessanti giudizi sul kantismo di Cantoni e della scuola pavese nel redigere la Biografta di Vidari pubblicata in AA.VV., Giovanni Vidari (1871-1934). In memoriam, Torino, Tip. Baravalle & Falco s.d. [ma 1935], pp. 7-51. 47 LRE, 274-275. Cfr. inoltre Lettere a Bernardino Varisco, cit., p. 180.

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6. Con la pubblicazione de Il vecchio e il nuovo problema della morale Juvalta ottenne, nel 1915, la cattedra di Filosofia morale all’Università di Torino, ove rilevò il posto di Vidari. Dopo lunga e non meritata attesa, in età ormai matura e con un pensiero solidamente definito, Juvalta entrava così a far parte dell’ambiente dell’università subalpina tra gli inizi del Novecento e i bui anni del fascismo, quando all’eredità ancora viva del positivismo e del «socialismo dei professori» verranno sovrapponendosi l’opera e l’insegnamento di maestri di cultura e di rigore civile, da Solari a Einaudi a Ruffini. Lontano dall’idealismo di Croce e Gentile che tanta importanza avrebbe avuto per gli audaci spiriti innovatori di Gramsci e Gobetti, Juvalta rimase tuttavia una figura più appartata, chiuso in una socratica meditazione che certo non sollecitò le passioni sorgenti con il dramma storico, ma che pure lasciò una traccia non irrilevante di austerità e di studio severo. Se il suo magistero non ebbe influenza su chi, come Gramsci, celebrava nella rivoluzione sovietica la realizzazione dell’uomo etico di Kant («è l’avvento di un ordine nuovo, che coincide con tutto ciò che i nostri maestri ci avevano insegnato»), nondimeno Juvalta fu – come tanti altri della sua generazione – profondamente scosso dall’immane conflitto e dalle sue incontrollabili conseguenze, al punto da redigere tra il 1920 e il 1921 uno studio rimasto inedito sino al 1946 dedicato al problema della pace: ove auspicava la formazione di un’opinione pubblica volta ad affermare la superiorità dell’«etica della giustizia sull’etica della potenza» nei rapporti tra gli stati48. Per la posizione di Solari cfr. N. BOBBIO, L’opera di Gioele Solari, in ID., Italia civile. Ritratti e testimonianze, Manduria-Bari-Perugia, Lacaita 1964, pp. 159-192; ma di Solari va ricordata, a questo proposito, la presentazione ad A. PASSERIN D’ENTRÈVES, Il fondamento della filosofia giuridica di G.G.F. Hegel, Torino, Piero Gobetti Editore 1924, pp. 5-7, ove è chiaramente espressa l’integrazione del concetto kantiano di libertà «intesa come espressione della personalità morale dell’uomo» con la libertà in senso oggettivo di Hegel (Passerin, per parte sua, mostrava dì conoscere alcuni degli scritti di Juvalta, e li citava in riferimento alla critica hegeliana del formalismo etico kantiano: cfr. pp. 12-13 e 123 n. 3). 48 Cfr. Il problema della pace, a c. di L. Geymonat, «Rivista di filosofia», XXXVII, 1946, pp. 6-17 (compreso ora nella nuova ed. di LRE, 443-457). Sull’ambiente dell’Università torinese cfr. P. SPRIANO, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Torino, Einaudi 1972, pp. 240 sgg. e N. BOBBIO, Trent’anni di storia della cultura a Torino (1920-1950), Torino,

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Nel 1919 Juvalta era intanto ritornato sulle sue problematiche abituali, riprendendo in esame il rapporto tra ragione e morale, la pluralità dei criteri di valutazione, la linea di confine tra giudizio teoretico e giudizio di valore con i loro intrecci da chiarire49. Ma nei Limiti del razionalismo etico affiorava anche la discussione con i contemporanei. In un autore tradizionalmente avaro di citazioni come Juvalta colpisce ad esempio il riferimento positivo a un articolo di Mondolfo, che veniva a suffragare la necessità di non confondere i valori con cui si giudica del corso storico con un loro supposto fondamento nella ragione o nella realtà: giacché anche i principi dell’89 e il valore assoluto della personalità umana sono postulati valutativi rispetto ai quali la ragione costruisce poi le sue regole di condotta e di azione, ma che non è compito della ragione, della storia e nemmeno dello storico incaricarsi di fondare50. Non meno interessante è il riferimento a Martinetti, Einaudi 2002, specie p. 44, ove si accenna all’estraneità di Juvalta (e con lui di Faggi e Vidari) alla filosofia idealistica (ma v. pure C.A. VIANO, La filosofia a Torino, in Le città filosofiche, cit., p. 20). Il passo di Gramsci richiamato nel testo è tratto dalle Note sulla rivoluzione russa, apparse su «Il Grido del Popolo» il 29 aprile 1917, poi in A. G RAMSCI, Scritti giovanili 1914-1918, Torino, Einaudi 1958, p. 107. Si può aggiungere che anche Gobetti, nel 1920, si impegnò nella lettura di Kant; il suo fu, tuttavia, un Kant singolarmente martinettiano, tutto incentrato sul rigore e l’imperio assoluto della legge morale: cfr. in proposito quanto si legge in U. MORRA DI LAVRIANO, Vita di Piero Gobetti. Con un saggio di N. Bobbio e una testimonianza di A. Passerin d’Entrèves, Torino, UTET 1984, pp. 94-95, 135). Tra i colleghi di Juvalta all’Università di Torino merita di essere richiamata la figura di Zino Zini, studioso di cose morali (La morale al bivio uscì nel 1914) non lontano dalle suggestioni dell’etica kantiana. Di lui si può anche ricordare il ‘profilo’ di un autore caro a Juvalta, ossia lo Spencer, Milano, Edizioni «Athena» 1932 (nella collana che vide un Ardigò di Troilo, un Blondel di Buonaiuti e il Croce di Francesco Flora): ove tra l’altro ritorna la critica, che già Juvalta aveva avanzato nel saggio del 1904 ricordato dallo stesso Zini, ai limiti del «liberalismo classico» del filosofo inglese (p. 147; ma cfr. il capitolo sulla morale spenceriana, pp. 133-150). 49 Cfr. In cerca di chiarezza. Questioni di morale, I. I Limiti del razionalismo etico, Cirié, Tip. Cappella 1919 (= LRE, 331-380). 50 LRE, 367-368 e n. 1. Il testo di Mondolfo cui Juvalta liberamente si rifaceva è Spirito rivoluzionario e senso storico, che era uscito in italiano, dopo un’edizione tedesca del 1915, sulla «Nuova Rivista Storica» nel 1917 (ora in R. MONDOLFO, Umanismo di Marx, cit., pp. 128-141). Al di là di questi riferimenti immediati, va detto che sembra evidente la vicinanza di Juvalta a un certo filone di socialismo etico (si veda ad esempio LRE, 320, con un richiamo a Fichte oltre che, naturalmente, a Kant): un aspetto sul quale ha giusta-

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alla cui interpretazione della morale kantiana già Solari aveva accennato nella sua recensione sollecitando Juvalta a una presa di posizione esplicita. Ora Juvalta ammetteva che il formalismo morale di Kant rinvia a un contenuto, ossia a un mondo sovrasensibile che costituisce il vero e proprio fondamento della legge morale, per quanto di questo regno trascendente nulla si possa sapere da un punto di vista teoretico. Sotto un altro riguardo, tuttavia, Juvalta faceva notare a Martinetti come proprio questo presupposto incrinasse inesorabilmente il razionalismo etico kantiano, poiché il mondo sovrasensibile è riconosciuto portatore di un valore, e il riconoscimento di tale valore è opera della ragione: «ma appunto per ciò non è un dato della ragione, ma della certezza morale». Il che significava, in altri termini, ammettere una sorgente della moralità affatto distinta dalla ragione, e radicata invece in «forme disinteressate e universali di sentimento», nei confronti delle quali non ha alcuna presa la critica di Kant all’eudemonismo e alla contaminazione «patologica» della sfera affettiva dell’uomo. In breve, proprio le riserve formulate sulla questione del sentimento segnavano una netta linea di divisione tra Juvalta e Martinetti: una linea tanto più significativa se si pensa che anche qui si avvertiva l’insegnamento di Cantoni, con il quale invece Martinetti aveva apertamente polemizzato51. Una eco precisa di questo complesso di questioni si trova anche nell’ampia recensione di un pensatore molto diverso da Jumente posto l’accento M. VIROLI, L’etica laica di Erminio Juvalta, cit., pp. 169189, con importanti accenni anche a Gobetti e al Socialismo liberale di Carlo Rosselli. 51 LRE, 376-380. Juvalta aveva presente il testo di P. MARTINETTI, Sul formalismo della morale kantiana, raccolto poi in Saggi e discorsi, TorinoMilano, Paravia & C. 1926, pp. 97-126, ove la posizione di Cantoni è giudicata come «esplicita rinunzia al principio kantiano che esclude rigorosamente ogni fondazione empirica della morale» (p. 111). Quanto a Cantoni occorre ricordare – anche per chiarire la posizione di Juvalta – la sua insistente difesa di una fondazione materiale della legge morale, nella convinzione che i principi materiali non necessariamente siano empirici e puramente derivati da appetiti sensibili (cfr. Emanuele Kant, cit., vol. II, p. 219). Sul «sentimento disinteressato» in Cantoni cfr. pure G. VIDARI, La morale di C. Cantoni, cit., p. 619. Lo sfondo di queste, e di altre più influenti interpretazioni dell’etica kantiana maturate nell’ambiente tedesco ben presenti a Juvalta (da Trendelenburg a Cohen), non è considerato da V. MILANESI, Juvalta e Kant, in Sul pensiero di Erminio Juvalta, cit., pp. 571-596.

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valta come Pantaleo Carabellese, il quale esaminò I limiti del razionalismo etico nella prima annata del «Giornale critico della filosofia italiana» fondato da Gentile. Carabellese andava subito al problema di fondo, memore senz’altro di analoghe obiezioni mosse dal suo maestro Varisco alle posizioni di Juvalta: il ‘divisionismo’, la separazione tra ragione e volontà, tra scienza e moralità gli parevano un errore sostanziale, che finiva per negare la possibilità stessa dell’etica come «sapere filosofico». Per rimediare a questa deviazione Carabellese sosteneva che l’etica dovesse fondarsi sull’«universale visione dell’essere e del pensiero», sicché «la determinazione dell’essere morale» poteva costituirsi solo in quanto metafisica. Inutile, insisteva Carabellese, cercare di ancorare l’etica a se stessa nella convinzione che le sue difficoltà derivino dall’andarsene «in casa d’altri»: «solo mediante una metafisica la morale può trovare nella moralità il suo fondamento», e in fondo lo stesso Juvalta «potrà trarre quella autonomia della moralità, che egli invano ora cerca di costruire positivamente», unicamente muovendo da una «concezione complessiva ed unica della realtà e dell’essere». Dunque è sterile ogni sforzo di sottrarsi alla metafisica, perché i problemi etici la implicano necessariamente. Nell’agire morale e nella riflessione sulla morale, annotava ancora Carabellese, si esplica una sola e medesima attività spirituale, e la moralità è sempre una pur nella varietà degli atti: è una stessa forma di essere che si manifesta diversamente, «è il concreto presentarsi dell’essere in ciascuna delle sue forme». Eppure, concedeva Carabellese, nessun dubbio poteva sussistere sulla statura di un pensatore come Juvalta, lontano da un diffuso e vano «cianciare»; anche se è del tutto evidente che tra l’autore della Critica del concreto (la cui prima edizione uscirà di lì a poco) e il filosofo dei limiti del razionalismo etico non vi era nulla in comune52.

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Per la recensione di Carabellese cfr. «Giornale critico della filosofia italiana», I, 1920, pp. 214-221. Le riserve espresse nei confronti di Juvalta si chiariscono meglio se si tiene presente un precedente scritto di Carabellese, La coscienza morale, Spezia, Tipografia Moderna 1915, a cui va naturalmente aggiunta la Critica del concreto (1921), che ritorna sul problema del nesso teoria-pratica e poi sulla coscienza morale e l’oggettività del bene con un breve riferimento polemico al pluralismo morale di Juvalta in quanto frain-

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Quella di Carabellese fu l’ultima discussione del pensiero di Juvalta prima della sua scomparsa. Nei lunghi anni di insegnamento all’Università di Torino, così come nei sempre più radi interventi apparsi sulla «Rivista di filosofia», Juvalta continuò a rimanere fedele alle sue posizioni, esercitando la sua acuta analisi sui temi centrali di un pensiero che potrebbe apparire statico e concluso, ma che in realtà fu mobile e aperto a nuove prospettive. Tuttavia Juvalta restò isolato, poco letto e poco conosciuto; ed egli stesso amò affidarsi più alla viva voce delle sue lezioni, al contatto diretto con gli allievi, piuttosto che al ‘peso’ dei volumi o degli articoli che si susseguono uno all’altro. Così il suo studio sui conflitti morali si fermò a un’elaborazione incompleta, nella forma di un breve saggio apparso nel 1927 come capitolo di un’opera mai terminata; ed è con un certo rammarico che si leggono le pagine su Spinoza del 1929, unico suo contributo dedicato all’esame di un ‘classico’ della storia del pensiero, esito tardivo di un genere di indagine che forse gli era particolarmente congeniale53. Indubbiamente, mentre declinavano le energie fisiche, Juvalta avvertiva anche la tristezza dei tempi: ben diverso era il clima dei tardi anni Venti, quando ormai parlare di Spinoza significava celebrare la libertas philosophandi in un’epoca tormentata, a confronto degli anni all’alba del secolo così aperti a una

tendimento di tale oggettività (cfr. Critica del concreto, 2a ed. riveduta, Roma, Signorelli Editore 1940, p. 40). 53 Cfr. Per uno studio dei conflitti morali, «Rivista di filosofia», XVIII, 1927, pp. 137-157 (ove è illustrata la distinzione tra due morali, la morale del bene e quella della legge) e Osservazioni sulle dottrine morali di Spinoza, «Rivista di filosofia», XX, 1929, pp. 297-328 (= LRE, 381-404, 405-441). Su Juvalta lettore di Spinoza cfr. F. MINAZZI, Juvalta interprete delle dottrine morali di Spinoza, in Sul pensiero di Erminio Juvalta, cit., pp. 619-627 e P. SURIANO, Erminio Juvalta, cit., pp. 209-221. Nel 1930 Juvalta pubblicherà ancora un’ampia recensione del libro di E. RIGNANO, Il fine dell’uomo, Bologna, Zanichelli 1928, che apparve sulla «Rivista di filosofia», XXI, 1930, pp. 75-81, significativa sia per alcune obiezioni, sia per le convergenze con una discussione, rimasta inedita, che dello stesso libro fece Limentani (si veda in proposito E. GARIN, Tra due secoli, cit., pp. 250 sgg.). Va infine ricordata, di Juvalta, la prefazione a C. MAZZANTINI, La speranza nell’immortalità, Torino, Paravia 1923, pp. V-VIII (con un accenno polemico nei confronti dell’attualismo): si veda a tal proposito A. DEL NOCE, Juvalta e Mazzantini, in ID., Filosofi dell’esistenza e della libertà, a c. di F. Mercadante e B. Casadei, Milano, Giuffrè 1992, pp. 547-574.

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discussione viva e impegnata, a contatto con figure come Vailati e Calderoni sulle quali era invece sceso, da tempo, un impenetrabile silenzio. Non rimaneva dunque che affidarsi ad un lavoro «meno appariscente ma solido», senza clamori e celebrità, e tuttavia destinato a incidere anche oltre la parentesi di «vicende drammatiche» grazie a un «modo sobrio di scrivere di filosofia»54. Juvalta morirà nell’ottobre del 1934. La sua scomparsa sollecitò le riflessioni di Carlo Mazzantini e quelle, assai più documentate, di Augusto Guzzo; poi, per più di un decennio, l’opera di Juvalta rimase nella memoria di pochi, soprattutto di quanti ne avevano seguito le lezioni e avevano intrattenuto con lui un rapporto più stretto negli anni torinesi55. Solo a guerra finita le pagine dell’antico discepolo di Cantoni conobbero una postuma fortuna e ricevettero una collocazione editoriale adeguata. Come noto, fu Ludovico Geymonat a inaugurare la prestigiosa «Biblioteca di cultura filosofica» della casa editrice Einaudi raccogliendo in volume gli scritti di Juvalta, che uscirono emblematicamente nell’agosto del 1945; ed è altrettanto noto quanto lo stesso Geymonat ebbe a dire nel presentarli, quando richiamò le analogie tra Juvalta e i neoempiristi del Wiener Kreis per la comune preoccupazione di condurre «analisi logiche estremamente precise e sottili, che ripudiano qualsiasi ricorso ad argomenti di carattere intuitivo o comunque non controllabili e scarsamente rigorosi»56. Si trattava di un riconoscimento dettato dall’intento di rinvenire nella filosofia italiana una ‘tradizione’ più sotterranea ma non per questo segregata dagli sviluppi della filosofia europea: un’opera54

Cfr. E. GARIN, Storia della filosofia italiana, cit., vol. III, pp. 13081309 e C.A. VIANO, Filosofia e storia della filosofia, in Storia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, cit., pp. 464-466. Si vedano anche A. D’ORSI, La cultura a Torino tra le due guerre, Torino, Einaudi 2000, p. 277 e le testimonianze di E. RHO, Ricordo di Erminio Juvalta, «La Nuova Italia», V, 1934, p. 376 e C. VIGLINO, Erminio Juvalta (Necrologio), «Rivista Rosminiana», XXVIII, 1934, p. 298. 55 Cfr. Erminio Juvalta filosofo e maestro nel ricordo e nella testimonianza di Ludovico Geymonat, a c. di F. Minazzi, in Sul pensiero di Erminio Juvalta, cit., pp. 640-642. 56 Cfr. l’Avvertenza di Geymonat in LRE, VIII. Un accenno all’influsso di Juvalta sul pensiero di Geymonat è in G. MORRA, Il problema morale nel neopositivismo, Manduria-Bari-Perugia, Lacaita 1962, p. 180; ma cfr. anche L. GEYMONAT, Paradossi e rivoluzioni. Intervista su scienza e politica a c. di G. Giorello e M. Mondadori, Milano, Il Saggiatore 1979, p. 28.

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zione comprensibile nel clima di quegli anni, a cui oggi si può però guardare con più distacco e persino con il sospetto che si trattasse di una forzatura. In quella ‘genealogia’ costruita un po’ ad hoc venivano in realtà emarginati gli elementi di differenza anche vistosa che impediscono di fare di Juvalta un filosofo analitico ante litteram: primo tra tutti quell’«impasto di positivismo e neokantismo» che cementa le sue indagini etiche, collocandole in un orizzonte diverso dalla meta-etica di tipo linguistico e non cognitivista fiorita nella filosofia di lingua inglese sulla base di un’impostazione indubbiamente distante dall’«oggettivismo universalistico» juvaltiano57. In ogni caso fu in questa luce che nella stagione del neoilluminismo postbellico la figura di Juvalta tornò ad attrarre l’interesse degli studiosi; e tuttavia, se si eccettua questa breve parentesi, anche nel secondo dopoguerra la sua incidenza rimase molto limitata e le sue pagine non conobbero lettori particolarmente attenti, tanto che proprio Geymonat avrebbe ammesso più tardi che «il suo impatto fu nullo»58. Oggi, a un secolo di distanza, vi è forse maggiore consapevolezza del valore e dell’originalità degli scritti di Juvalta: una volta collocati nel loro contesto e riportati al clima filosofico in cui furono concepiti, essi hanno non solo il merito di fissare l’attenzione su temi ancora ben presenti nelle agende dell’etica contemporanea59, ma anche di assolvere una funzione immunizzatrice in tempi in cui – per riprendere l’espressione di Hume – «non è la ragione che ha la meglio sull’eloquenza».

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Cfr. le persuasive considerazioni di E. LECALDANO, Fatti, valori e «scienza normativa morale» secondo Juvalta, in Sul pensiero di Erminio Juvalta, cit., pp. 487-512. Si veda per contro A. PASQUINELLI, La filosofia analitica, in AA.VV., La filosofia contemporanea in Italia Società e filosofia di oggi in Italia, Asti-Roma, Arethusa 1958, pp. 214-215; ma in questo senso anche G. SOLINAS, L’autassia dei valori, cit., pp. 559-560, ove Juvalta è considerato un «anticipatore» delle ricerche di Moore, Hare e Stevenson. 58 Erminio Juvalta filosofo e maestro, cit., p. 652. 59 Lo ricorda, per quanto riguarda le ‘questioni di giustizia’, Salvatore Veca presentando la nuova edizione di LRE, XI-XX.

4 LE INDAGINI ETICHE DI LUDOVICO LIMENTANI 1. Ludovico Limentani costituisce un punto di osservazione di notevole interesse per chi voglia ricostruire – al di là di schemi ormai logorati dal tempo, seppure non privi anche oggi di qualche incidenza – le ‘cronache di filosofia italiana’ agli albori del Novecento, quando positivismo declinante e idealismo nascente si contendono il campo in una situazione ancora aperta. Studiando il percorso intellettuale di Limentani il fitto intreccio della discussione filosofica primonovecentesca e i suoi rapporti con l’orizzonte europeo emergono infatti in maniera inedita, configurando un quadro più ricco, variegato e inquieto di quanto si creda abitualmente; ed è la stessa querelle intorno al positivismo – il positivismo di cui Limentani si proclamava erede, ma di cui era al tempo stesso una sorta di «eretico» – ad acquistare in questa prospettiva un volto imprevisto, complicandosi nei suoi esiti e stagliandosi con un profilo in parte diverso sullo sfondo della polemica idealistica e delle controversie filosofiche che dal declinare dell’Ottocento si prolungano sino alla vigilia dell’avvento del fascismo1. 1

Su Limentani cfr. innanzi tutto E. G ARIN, La “morale anarchica” di Ludovico Limentani, in AA.VV., Filosofia e politica. Scritti dedicati a Cesare Luporini, Firenze, La Nuova Italia 1981, pp. 19-41 (ristampato in Tra due secoli, cit., pp. 235-254) e la recente monografia di R. SEGA, Studi su Limentani, Ferrara, Gabriele Corbo Editore 2002. Si vedano inoltre F. PICARDI, L’etica di Ludovico Limentani, Genova, Emme 1986; C. CANTILLO, Ludovico Limentani e la previsione come tipo ideale, «Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche», C, 1989, pp. 71-93, ripreso poi in Previsione e idealità nella filosofia positiva di Ludovico Limentani, Napoli, Loffredo 1996, pp. 951 (con antologia di testi); D. PESCE, Forma e contenuto della vita morale nell’indagine di Limentani, «Rivista di storia della filosofia», XLV, 1990,

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Positivista, e fedele al positivismo, Limentani lo fu certamente; ma il suo positivismo non si esaurisce in un’adesione di scuola – sia pure la scuola gloriosa di Ardigò – e potrebbe essere definito se mai un positivismo ‘anomalo’, lontano dal naturalismo ardighiano o dalle stanche ripetizioni degli epigoni, e ancor più lontano tanto dall’ingenuo scientismo facile bersaglio delle invettive di Croce e Gentile, quanto dall’approssimativo rapporto con la tradizione storica della filosofia che spesso e volentieri contraddistinse i positivisti italiani. Nel 1924, in un articolo spesso citato, Limentani sottolineava che «i positivisti non si definiscono come tali per la concorde adesione a una rigida dottrina, o per la collaborazione consapevole alla costruzione di un sistema ben determinato: si tratta piuttosto di un indirizzo metodico, di una forma mentale che impronta di sé non solamente la ricerca filosofica propriamente detta, ma l’intiero mondo della cultura»2. Per quanto Limentani, in quella stessa pagina, insistesse in maniera persino eccessiva sull’esperienza come «ultimo criterio della certezza», sulla «natura come universale meccanismo» e sul mondo dei valori «come prodotto della evoluzione psicologica», non c’è dubbio che proprio il richiamo al metodo e alla forma mentale costituisca la cifra più autentica del positivismo di Limentani. Del resto non era una scelta di comodo – in un momento cruciale della storia culturale italiana – parlare del positivismo dichiarandosene eredi convinti. Non per nulla, di lì a poco, Limentani ritornava con forza (sulle pagine della «Critica sociale») non solo pp. 583-594; G. ROSSANO, La filosofia morale di Ludovico Limentani tra naturalismo e storicismo, in AA.VV., Lo storicismo e la sua storia. Temi, problemi, prospettive, a c. di G. Cacciatore, G. Cantillo e G. Lissa, Milano, Guerini e Associati 1997, pp. 387-395. Molto importante, anche per i materiali inediti che raccoglie, è il volume Un positivista eretico. Materiali per un profilo intellettuale di Ludovico Limentani, a c. di R. Sega, Quaderni del Liceo Classico “L. Ariosto”, vol. 15, Ferrara, TLA Editrice 1999. Oltre alle indicazioni che si daranno nel seguito, sono inoltre da tener presenti E. GARIN, Ludovico Limentani, Firenze, Tip. Ariani 1941 (con una bibliografia pressoché completa degli scritti, stesa in collaborazione con Alessandro Levi); ID., Il pensiero di Ludovico Limentani, «Rivista di filosofia», XXXVIII, 1947, pp. 191206; M.F. SCIACCA, Il secolo XX, cit., vol. I, pp. 138-140; M. QUARANTA, La filosofia italiana fino alla seconda guerra mondiale, in L. GEYMONAT, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Milano, Garzanti 1972, vol. VI, pp. 377379. 2 L. LIMENTANI, Il positivismo italiano (1870-1920), cit., p. 1.

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sul valore del positivismo in quanto corrente filosofica, ma soprattutto sulle «manifeste simpatie o affinità elettive» tra socialismo e positivismo. Si chiariva meglio, in tal modo, quali fossero le implicazioni anche pratiche della «forma mentale» del positivismo: era lo spirito di «antidommatismo e di laicità»; era il voler schierarsi con una «filosofia della liberazione»; era l’abbracciare «un umanismo integrale»; ed era infine l’impegno per l’ideale morale, per congiungere essere e dover essere, per riconoscere il posto che spetta all’iniziativa umana in ciò che Limentani chiamava il «modesto quotidiano lavoro». Tutto questo (e, si badi, siamo nel 1926) autorizzava i socialisti «che non si sono lasciati sedurre dal figurino filosofico di moda» a tener sempre fede «ai principi del positivismo», a quegli ideali e a quel «sogno – aveva scritto Limentani pochi anni prima – che ha fatto bella la nostra giovinezza»3. Il Limentani di questi anni, che collaborava anche a riviste come «Conscientia» e alla «Rivoluzione liberale» di Gobetti4, non aveva dunque nessun motivo per recidere i legami con la «forma mentale» del positivismo, anche a costo di andare controcorrente. Tra quanti condividevano un simile atteggiamento (e non erano una fitta schiera, in verità) si potrebbe fare almeno il nome di Alessandro Levi, che di Limentani fu amico sin dai primi anni del Novecento e che è certamente una figura emblematica per intendere cosa fu – nei suoi aspetti migliori – l’eredità del positivismo in un’età ormai lontana dai suoi fasti ottocenteschi. Positivismo ‘metodico’, storicismo, umanismo, socialismo riformista: questo l’humus che alimentò, non diversamente da Limentani, l’esperienza intellettuale di Levi, il quale amava definirsi «un figlio dell’Ottocento» e trovava in Cattaneo il nume tutelare di uno «storicismo umanistico» che intende la storia come esperienza, in op3

L. LIMENTANI, Socialismo e positivismo, «Critica Sociale», XXXVI, 1926, n. 14-15, pp. 214-216. Questo articolo di Limentani è stato ripubblicato in «Sociologia del diritto», XVII, 1990, n. 3, pp. 67-73 (preceduto da uno scritto di M. GORETTI, Ludovico Limentani, un illuminista del nostro tempo, pp. 53-65) e successivamente anche nel volume Un positivista eretico, cit., pp. 222-226 (da cui citiamo). Cfr. inoltre L. LIMENTANI, L’educazione pratica della volontà, «Rivista pedagogica», XIV, 1921, p. 385. 4 Cfr. L. LIMENTANI, Polemica scolastica, «Rivoluzione liberale», II, 1923, n. 9, pp. 37-38 e Insegnamento religioso, «Conscientia», 29 settembre 1923.

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posizione all’arcolaio dello spirito intento a tessere il suo filo lontano dalla concretezza della vita umana5. Con Levi Limentani condivise la convinzione che il socialismo non nasce nelle serre a temperature artificiali, ma cresce «come una libera pianta che attinge la sua linfa dal terreno democratico»6; e Levi, nell’ambiente fiorentino degli anni Venti, significava anche l’esperienza del «Circolo di cultura» devastato dai fascisti, l’arresto per la collaborazione al «Non mollare», i rapporti con i fratelli Rosselli e con Piero Calamandrei: i rappresentanti più eminenti dell’ultima generazione positivistica, ancora convinti del valore delle ‘idealità sociali’ teorizzate da Ardigò, si incontravano così con gli uomini e le idee della storia di domani7. Per questo motivo non deve stupire che proprio nel momento in cui si imponeva con più urgenza il bilancio dell’esperienza positivistica Limentani avvertisse il bisogno di sottolineare la «fecondità» di un movimento filosofico sin dall’inizio variamente osteggiato, e tuttavia capace di rinnovarsi affinando «il senso dell’esigenza storica e critica»8. Per Limentani, come del resto per Levi, al positivismo si poteva insomma continuare a guardare ignorando il livore della polemica idealistica: Sembra oggi prevalere il costume – scriveva Limentani nel 1920, in occasione della morte di Ardigò – di considerare con dileggio o compatimento i positivisti, come esemplari superstiti di una specie che scompare o come rappresentanti di una concezione, tra ingenua e grossolana, del cosmo e della vita: il rinnovatore della filosofia positiva in Italia non

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Cfr. A. LEVI, Il positivismo politico di Carlo Cattaneo, cit., p. 28 (il libro di Levi fu recensito da Limentani sulla «Rivista pedagogica», XXI, 1928, pp. 707-708). Di Levi si ha qui presente anche l’Elogio della ragione, Firenze, Barbèra 1951, p. 6 (è il discorso di inaugurazione dell’anno accademico, pronunciato a Firenze il 18 novembre 1950). 6 Ci riferiamo al volumetto su Filippo Turati, Genova, Formiggini 1924, raccolto poi in A. LEVI, Scritti minori storici e politici, Padova, CEDAM 1957, pp. 133-150 (qui p. 148). 7 Cfr. A. LEVI, Ricordi dei fratelli Rosselli, Firenze, la Nuova Italia 1947, rist. an. con introduzione di S. Levis Sullam e postfazione di L. Campos, Firenze, Centro Editoriale Toscano 2002, specie pp. 69-82 (e p. 134 per l’omaggio all’eredità di Ardigò). Su alcune di queste vicende e sulla posizione di Limentani si veda inoltre E. GARIN, La cultura italiana tra ’800 e ’900, cit., pp. 101-103. 8 L. LIMENTANI, Il positivismo italiano (1870-1920), cit., p. 38.

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è stato risparmiato dalle censure virulente e volgari di taluni che spacciano dal tripode oracoli ermetici e mirano a instaurare, per via d’intimidazioni e di violenze, la più intollerante e intollerabile dittatura […] Non durerà perpetuo il mal vezzo delle diatribe incivili, come non durerà perpetua la supremazia di quella filosofia idealistica, i cui propugnatori hanno introdotto fra noi9.

Il tono insolitamente aggressivo di una simile presa di posizione documenta bene ciò che Limentani intendeva ribadire negli anni infuocati del primo dopoguerra, coniugando una Weltanschauung laica e progressista con la rivendicazione di un robusto umanismo che non accidentalmente – a dispetto delle genealogie invocate da Ardigò – anche Limentani faceva risalire a Cattaneo10. In questo senso Limentani rimaneva fedele al tragitto che lo aveva portato a rinnovare l’eredità di Ardigò con studi originali sulla previsione sociale e sul formalismo etico, sempre sorretti da una larga cultura filosofica, da un’acuta percezione dei problemi dell’uomo nella società contemporanea, e dalla convinzione che solo l’analisi accurata dei dati dell’esperienza consente di sondare la vita umana, del singolo come della collettività, per evidenziarne i conflitti, le scissioni e le ricomposizioni sul terreno forse più accidentato che un filosofo possa praticare: il terreno della moralità, delle forme e dei valori in cui essa si fissa e da cui si libera per cercare nuovi equilibri, sebbene equilibri sempre precari per l’«inquieta coscienza moderna» (come Limentani scriveva in una lettera al ‘suo’ editore, Angelo Fortunato Formiggini)11. Su un punto, comunque, Limentani non aveva nutrito alcun dubbio sin dagli anni dell’esordio filosofico: il positivismo, e in specie il positivismo della scuola ardighiana, poteva affermare la «propria vi9

L. L IMENTANI, Roberto Ardigò (28 gennaio 1828-15 settembre 1920), «Rivista italiana di sociologia», XXIV, 1920, p. 411. Scriverà per parte sua Levi, nel già ricordato ritratto di Turati: «Il positivismo italiano non è quel fantoccio, che certi novissimi idealisti si foggiano, per buttarlo giù con le loro palle di stracci, come usa nei baracconi da fiera. È un metodo severo, che insegna a considerare la coscienza non come passività e recettività, anzi come energia viva che crea la storia, se pure non a colpi di miracolo, ma reagendo diuturnamente su le condizioni fra le quali essa medesima si è conformata» (Scritti minori storici e politici, cit., p. 136). 10 Cfr. Roberto Ardigò (28 gennaio 1828-15 settembre 1920), cit. p. 409. 11 La lettera, del 1° agosto 1912 e riferita alla pubblicazione dei Presupposti formali della indagine etica, si legge in Un positivista eretico, cit., p. 268.

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talità» solo a patto di esercitare «un’assidua revisione», aprendo nuovi fronti di indagine soprattutto sul terreno delle ‘scienze morali’ e del mondo umano12.

2. Per comprendere il percorso intellettuale di Limentani conviene fare un passo indietro nel tempo e riportarsi ai primi anni del secolo, agli scambi di idee, alle letture e ai primi lavori maturati tra il Liceo Ludovico Ariosto di Ferrara e l’Università di Padova. Nato a Ferrara nel 1884, Limentani entrò ben presto in contatto con Alessandro Groppali (che fu suo insegnante al liceo ferrarese) e Alessandro Levi, con Rodolfo Mondolfo e Giovanni Vailati, e inoltre con uno dei più fedeli discepoli di Ardigò, Giovanni Marchesini (anch’egli conosciuto negli anni del ginnasio): tutte figure la cui presenza agì in profondità e che insieme sembrano dar vita a un mosaico di ‘destini incrociati’ non riducibile all’orizzonte più ristretto delle peregrinazioni tra la città estense e l’ateneo padovano. Un clima di franche discussioni e una precocissima attitudine agli studi – testimoniata dal primo lavoro dedicato a Helvétius e composto a soli diciassette anni13 – portarono Limentani a spogliarsi ben presto del giovanile entusiasmo per un positivismo strettamente ortodosso, in cui la retorica esaltazione di Ardigò si saldava a una generica rivendicazione dei «diritti dello spirito»14. Del resto, in una temperie culturale che vedeva il 12

L. LIMENTANI, Roberto Ardigò, «Logos», IV, 1921, p. 155 (è il testo di una conferenza tenuta alla Biblioteca Filosofica di Palermo il 19 marzo 1921). 13 Cfr. L. LIMENTANI, Le teorie psicologiche di Claudio Adriano Helvétius (Saggio espositivo-critico), Verona-Padova, Fratelli Drucker 1902. Il volumetto era introdotto da Groppali, che brevemente presentava la ricerca del suo giovanissimo allievo del Liceo di Ferrara soffermandosi criticamente sulle teorie contrattualistiche. Che si trattasse, comunque, di poco più di un’esercitazione scolastica lo riconobbe lo stesso Limentani qualche anno dopo, in una lettera a Vailati del dicembre 1904 in cui definì il suo studio «una colpa giovanile, un ricordo degli anni di liceo, quando vagheggiavo per la laurea una di quelle esumazioni, per le quali, a quanto Ella mi scrive, ambedue professiamo un sacro orrore» (G. VAILATI, Epistolario 18911909, a c. di G. Lanaro, introduzione di M. Dal Pra, Torino, Einaudi 1971, p. 668). 14 Cfr. La larghezza dello spirito come idealità sociale, nel volume In memoria di Oddone Ravenna, Padova, Fratelli Gallina 1904, pp. 174-195. Que-

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rapido consumarsi dell’eredità dell’Ottocento, non sfuggiva al giovane Limentani l’esigenza di prendere le distanze, pur nella fedeltà a un indirizzo di pensiero che egli sempre giudicò vitale, dai tratti più marcatamente legati al passato: anche per lui, come per gli ultimi discepoli di Ardigò, occuparsi delle scienze morali – dalla sociologia all’etica – significava imbattersi prima o poi nelle «difficoltà» del maestro15. Sin dagli anni di liceo Groppali lo aveva avvicinato a un’interpretazione della sociologia ardighiana in cui si faceva pressante il confronto con il materialismo storico e con quelle correnti della sociologia contemporanea che Ardigò, con un certo compiacimento, nemmeno prendeva in considerazione intento com’era allo studio della «formazione naturale della giustizia»16. Groppali, invece, si poneva il problema di come le scienze, ivi compresa la sociologia, fossero riportabili a una «funzione generale dell’organismo sociale» e prendeva le distanze dalla sociologia positivistica di orientamento biologistico, tributando un positivo riconoscimento al materialismo storico (letto sulla scorta dei contributi di Labriola e Croce) e polemizzando tanto con la concezione «lineare e meccanica» di Spencer, quanto con le tesi di Achille Loria intorno allo strumento tecnico come determinante i rapporti economici. Tanto bastava per allontanarsi da Ardigò, il quale infatti si sentiva in dovere di difendere in una lettera la propria visione del corpo sociale fondato sulle idealità della giustizia, aste pagine del ventenne Limentani provocarono la reazione di Giovanni Papini, il quale dalle colonne del «Leonardo», (II, novembre 1904, p. 48) lo annoverò tra «i positivisti feticisti, dogmatici e confusionisti». Un documento significativo di certi connubi tra positivismo, carduccianesimo e ideali socialisteggianti è un altro scritto giovanile di Limentani, Il valore sociale de l’opera poetica di Giosuè Carducci, «Rivista di filosofia e scienze affini», IV, 1902, pp. 428-462, 543-588. Ma chi voglia farsi un’idea di cosa fu la retorica di scuola e la sacrale riverenza nei confronti di Ardigò non ha che da sfogliare il volume Nel 70° anniversario di Roberto Ardigò. Scritti raccolti da A. Groppali e G. Marchesini, Torino, Bocca 1898. 15 Su questo punto cfr. A. SANTUCCI, Ricerche sul pensiero italiano tra Ottocento e Novecento, cit., p. 107. 16 Si veda la lettera di Ardigò a Napoleone Colajanni del 10 marzo 1889, in R. ARDIGÒ, Lettere edite ed inedite, cit., vol. I, p. 309, ove Ardigò dichiara di non aver attinto le idee della sua Sociologia «da nessun libro, [ma] solo dalla sua riflessione solitaria» (e aggiunge senza mezzi termini: «Di libri di Sociologia io non ne ho mai letto nessuno»).

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prendo così una querelle in famiglia che non andrà sottovalutata nelle sue implicazioni17. In quegli stessi anni, del resto, anche il giovane Alessandro Levi stava compiendo una parabola analoga a quella di Limentani e di Groppali, passando dalla fiduciosa attesa nel «trionfo della filosofia positiva» e da un’incondizionata adesione al positivismo ardighiano («bussola conduttrice della scienza del secolo nuovo») alla delimitazione di un campo di ricerche circoscritte, da approntare con metodo più smaliziato e diffidente delle sintesi sbrigative troppo inclini a trascurare il dato e l’analisi rigorosa18. Levi aveva mostrato subito una spiccata propensione per la filo17

Cfr. A. GROPPALI, La genesi sociale del fenomeno scientifico, Torino, Bocca 1899, pp. 86-94 e ID., Saggi di sociologia, Milano, Battistelli 1899, pp. 99-114 (e pp. 101-103 per la lettera di Ardigò, riprodotta pure nelle Lettere edite ed inedite, cit. vol. II, pp. 121-124); si veda inoltre A. GROPPALI, Le teorie sociologiche di Roberto Ardigò, in Nel 70° anniversario di Roberto Ardigò, cit., pp. 105-168. Un rozzo giudizio di Ardigò sul materialismo storico, considerato come una sorta di teoria del nutrimento, si legge in un’altra lettera non datata a Groppali (ma risalente a prima del 1901) compresa ora nelle Lettere edite ed inedite, cit. vol. II, pp. 458-459. La stretta collaborazione tra Limentani e Groppali è documentata sia dal volume dello stesso Groppali Lezioni di sociologia, raccolte e compilate da L. Limentani, Torino, Bocca 1902, sia dall’attività di Limentani presso l’Università popolare di Ferrara, istituzione che vedeva attivissimo Groppali e che è caratteristica di una certa ‘andata al popolo’ di intellettuali di formazione positivistica simpatizzanti per il socialismo (cfr. G.M. ROSADA, Le Università popolari in Italia 1900-1918, Roma, Editori Riuniti 1975, p. 57). Della fede socialista di Groppali è documento anche il volumetto di L. BISSOLATI, Scritti giovanili, raccolti e ordinati da A. Ghisleri e A. Groppali, Milano, Treves 1921. Su Groppali cfr. il profilo di R. TREVES, Alessandro Groppali, «Rivista internazionale di filosofia del diritto», XXXVI, 1959, pp. 734-744. 18 Cfr. A. LEVI, Determinismo economico e psicologia sociale, «Rivista di filosofia e scienze affini», IV, 1902, pp. 201-224, 336-358 (ove è discusso il materialismo storico, che in polemica con Groppali Levi definisce appunto come «determinismo economico») e Il diritto naturale nella filosofia del diritto di Roberto Ardigò, nel volume In memoria di Oddone Ravenna, cit., pp. 151-173. Per un profilo di Levi cfr. N. BOBBIO, Alessandro Levi, in Italia civile, cit., pp. 197-221; si vedano pure G. FASSÒ, Il pensiero e l’opera di Alessandro Levi, «Studi parmensi», IV, 1954, pp. 1-20 e R. TREVES, La rinascita del diritto naturale e l’insegnamento di Alessandro Levi, «Rivista di filosofia», LII, 1961, pp. 97-108. Di Limentani «diletto amico» sin dagli anni della giovinezza Levi parlerà nel 1943, poco dopo la scomparsa (avvenuta in quello stesso anno) del suo fraterno interlocutore (cfr. A. LEVI, Riflessioni sul problema della giustizia, Lodi, Biancardi 1943, pp. V-VI).

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sofia del diritto, alla quale dedicò il suo primo studio impegnativo che suscitò persino – nonostante la «non filosofia» di Ardigò a cui era ispirato – l’ammirazione di Croce19. Era la prima tappa di un lungo percorso che avrebbe portato Levi, non diversamente da Limentani, a prendere le distanze dalle formulazioni più arcaiche del positivismo ardighiano, senza per questo rinnegare l’appartenenza a una tradizione di pensiero certo emendabile, ma non esaurita. Non a caso entrambi – Limentani nel campo della morale, Levi in quello della filosofia del diritto – dovevano incentrare le loro ricerche sugli aspetti formali; e mentre Levi, nel 1928, avrebbe richiamato l’assenza, nella filosofia del diritto di Ardigò, dell’attenzione per la «logica del diritto», Limentani si sarebbe impegnato a rileggere la Morale dei positivisti per sottolineare i problemi lasciati insoluti e addirittura il «turbamento» che certe «espressioni rudi e crude» potevano suscitare nel lettore preoccupato di salvaguardare «la moralità come faticata conquista dello spirito sopra la materia»20. Su un altro versante Rodolfo Mondolfo, anche lui professore al Liceo di Ferrara dal 1902, dove strinse amicizia con Limentani e lo stesso Levi, si dedicava a indagini storiografiche molto puntuali (da Hobbes a Condillac e Helvétius) che si incrociavano con i primi interessi del giovanissimo Limentani proprio sul terreno di quelle «alcinesche seduzioni» del secolo XVIII tanto spregiate da Croce; né avrebbero tardato le prime pagine su Feuerbach e Marx, che uscirono nel 1909, un anno dopo la conferenza dedicata ad Ardigò in occasione dell’ottantesimo compleanno21. Ar-

19

Cfr. A. LEVI, Per un programma di filosofia del diritto, Torino, Bocca 1905. La recensione crociana è raccolta nelle Conversazioni critiche, Serie prima, cit., p. 233. 20 Cfr. A. LEVI, Diritto e società nel pensiero di Roberto Ardigò e L. LIMENTANI, Rileggendo la “Morale dei positivisti”, «Rivista di filosofia», XIX, 1928, rispettivamente pp. 153-184, 185-197. Il testo di Limentani è ripubblicato in Un positivista eretico, cit., pp. 205-211 (qui p. 207). 21 Cfr. R. MONDOLFO, Saggi per la storia della morale utilitaria, vol. I, La morale di T. Hobbes; vol. II, Le teorie morali e politiche di C.A. Helvétius, Padova, Fratelli Drucker 1903-1904 (e in precedenza il lavoro su Un psicologo associazionista: E.B. de Condillac, Palermo, Sandron 1902). Il lungo saggio su Feuerbach e Marx, pubblicato sulla «Cultura Filosofica» di De Sarlo, è raccolto in R. MONDOLFO, Umanismo di Marx, cit., pp. 8-78. Si veda inoltre Il pensiero di Roberto Ardigò, Mantova, Tipografia Mondovì 1908 e soprat-

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digò sarebbe rimasto sempre presente a Mondolfo, ben al di là dell’omaggio rituale e anche al di là delle vicende accademiche, che lo vedranno conseguire a Padova (nel 1903) la libera docenza per poi tenervi come supplente, su proposta di Ardigò, la cattedra di Storia della filosofia dell’ateneo veneto (donde passerà a Torino nel 1910)22. Per Mondolfo Ardigò non era solo una bandiera: sul carattere umanistico e fenomenistico del suo positivismo, più vicino a Mill o ad Avenarius che all’evoluzionismo spenceriano e addirittura conciliabile, in qualche misura, con la ‘filosofia della praxis’, Mondolfo avrebbe sempre insistito anche a distanza di decenni, confermando una valutazione certo discutibile e tuttavia assai vicina a quella degli amici Levi e Limentani nel giudicare la «filosofia positiva» di Ardigò «tuttora capace di dirci una parola viva e feconda»23. Ma a distinguere nettamente Mondolfo dalla scuola ardighiana è la lucida consapevolezza che accompagna sin dagli esordi il ‘mestiere di storico’ a cui era stato addestrato a Firenze da Felice Tocco: proprio da Tocco, e non già da Ardigò, Mondolfo ereditò un’impostazione storiografica in cui l’esame rigoroso delle fonti si salda all’interpretazione delle idee nel quadro della storia della cultura e della vita civile, ma anche nel quadro della storia della storiografia come base imprescindibile per ogni serio lavoro storico. Sin dal 1905 il volumetto

tutto il volume Tra il diritto di natura e il comunismo, Mantova, Tipografia degli operai 1909. 22 Cfr. G. FRIGO, Atti relativi alla libera docenza di Rodolfo Mondolfo presso l’Università di Padova, in AA.VV., Ethos e cultura. Studi in onore di Ezio Riondato, Padova, Antenore 1991, vol. I, pp. 513-526 (della commissione per la libera docenza, che concluse i suoi lavori il 14 dicembre 1903, facevano parte, oltre ad Ardigò, Francesco Bonatelli e Marchesini; la lezione orale di Mondolfo si concentrò su Locke e Condillac). Si veda pure R. ARDIGÒ, Lettere edite ed inedite, cit., vol. II, pp. 287-288. 23 Cfr. R. MONDOLFO, Il pensiero di Roberto Ardigò, cit., specie pp. 16, 23-26; Roberto Ardigò, «Critica Sociale», XXX, 1920, n. 8, pp. 286-288; Nel primo centenario di Roberto Ardigò, «Rivista internazionale di filosofia del diritto», VII, 1928, pp. 380-386; Il realismo di Roberto Ardigò, «Rivista di filosofia», XIX, 1928, pp. 198-210 (ripubblicato in R. MONDOLFO, Tra teoria sociale e filosofia politica, cit., pp. 159-171) e infine il tardo saggio del 1943 Roberto Ardigò e il positivismo italiano, raccolto in R. MONDOLFO, Da Ardigò a Gramsci, Milano, Nuova Accademia 1962, pp. 1-42 (ove peraltro l’indistinto ardighiano viene presentato come un’«idea-limite» in senso kantiano [p. 30]).

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su Il dubbio metodico e la storia della filosofia attesta la maturità di Mondolfo anche in questo campo di indagini e lo mostra capace di spaziare sui principali indirizzi della storiografia filosofica europea a partire da Hegel, per mettere in chiaro – in pieno accordo con Tocco – quanto sia erroneo «considerare e giudicare i sistemi passati in base a un’idea preconcetta»24. Dal robusto umanismo di Mondolfo Limentani imparò dunque a coltivare anche l’integrazione dello «spirito filosofico» con lo «spirito storico»25, che non tarderà a dare i suoi frutti nelle indagini più propriamente storiografiche (dai moralisti inglesi alla filosofia di Bruno). Tuttavia per Limentani non meno importante fu l’incontro con Marchesini, l’allievo prediletto di Ardigò che veniva ormai attestandosi su una personale posizione di revisione critica del positivismo ardighiano, all’insegna di quel «finzionalismo» che tentava di rispondere alla crisi del positivismo con una sorta di «pragmatismo razionale». Sin dal 1898 Marchesini aveva affrontato, in un libro promettente nel titolo ma deludente nel contenuto, appunto la Crisi del positivismo e il problema filosofico, manifestando l’opportunità di dare largo spazio al fenomenismo contro il riduzionismo naturalistico, giacché tutta la realtà, fisica e psichica, è costituita da un serie di fatti («sono oggetti mentali, non meno reali, il fatto fisico e il fatto psichico, il movimento e il pensiero»)26. Per combattere la degenerazione materialistica del positivismo, occorreva dunque per Marchesini tener fermo all’aspetto più innovativo dell’insegnamento di Ardigò, staccandosi implicitamente (e con infinite cautele) dal suo impianto naturalistico in nome del «positivismo radicale» che Ardigò stesso aveva formulato27. A partire di qui Marchesini approdò, nel 1905, all’elaborazione di una filosofia del ‘come se’ ormai lontana, almeno negli esiti, dalla dottrina ardighiana. «Artificio inte24

R. MONDOLFO, Il dubbio metodico e la storia della filosofia, PadovaVerona, Fratelli Drucker 1905, pp. 123-126. Per maggiori particolari sul rapporto Mondolfo-Tocco mi permetto di rinviare al mio I dati dell’esperienza, cit., pp. 418-421. 25 R. MONDOLFO, Il dubbio metodico e la storia della filosofia, cit., p. 54. 26 Cfr. G. MARCHESINI, La crisi del positivismo e il problema filosofico, Torino, Bocca 1898, p. 73. 27 Cfr. G. MARCHESINI, La Vita e il Pensiero di Roberto Ardigò, Milano, Hoepli 1907, p. 367.

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riore per cui si dà forma obiettiva di verità a credenze che sono dovute a un singolare disporsi dell’anima», le finzioni assumono per Marchesini un valore logico facendo del generale, della legge, dell’astratto mere «costruzioni mentali» che vengono proiettate sulla realtà per adattarla «alla mentalità nostra»28. Era qui presente una matrice pragmatistica, che Marchesini tuttavia correggeva per prendere le distanze dalle implicazioni relativistiche del Will to believe di James; ma in realtà, propugnando una «razionale idealizzazione del fatto» e dedicando largo spazio alle finzioni etiche, Marchesini badava soprattutto a mostrare la praticabilità di un ‘positivismo idealistico’: ciò che apparve problematico a molti suoi contemporanei, positivisti compresi, e che destò le prevedibili ire di Gentile29. Nel suo tentativo di revisione Marchesini non sembrava avvedersi di quanto fossero in tensione tra loro l’aspetto gnoseologico della dottrina di Ardigò e il suo sfondo naturalistico che sopravviveva come «un’ideologia ottocentesca ormai al tramonto»30. Per parte sua Limentani volle però scorgere, nell’opera di Marchesini, il positivo apporto di un «indirizzo umanistico» che sposta il centro dell’interesse «dal non-Io all’Io», correggendo ciò che Ardigò aveva abbozzato nel campo dell’indagine sul mondo umano «con mano vigorosa, ma talora anche un poco rude»31. La formula del ‘positivismo idealistico’, entrata in voga agli inizi del secolo per merito di Marchesini, assolveva insomma il compito di indirizzare l’attenzione verso «l’Io», staccandolo con molta più nettezza di quanto non avesse fatto Ardigò dalla natura; e lo stesso dominio delle finzioni, per quanto incerto fosse il loro statuto epistemologico, poteva se non altro aprire un fronte di indagine 28

G. MARCHESINI, Le finzioni dell’anima, Bari, Laterza 1905, pp. 7, 54. Ivi, pp. 85-129, 187. Sulla filosofia del ‘come se’ di Marchesini cfr. il sin troppo benevolo saggio A. NYMAN, Giovanni Marchesini. Ein Vorläufer der Als-Ob-Philosophie, «Annalen der Naturphilosophie», III, 1923, pp. 258282. Per le reazioni al libro di Marchesini si rimanda a G. LANARO, La critica alle “Finzioni dell’anima” nella cultura italiana del primo Novecento, in Sul pensiero di Giovanni Marchesini (1868-1931), cit., pp. 430-442. 30 A. SAVORELLI, Ardigò nel giudizio dei contemporanei dagli anni Settanta al primo quindicennio del Novecento, cit., pp. 74-75. 31 L. LIMENTANI, Giovanni Marchesini, «Rivista pedagogica», XXV, 1932, pp. 1-20, ora anche in Un positivista eretico, cit., pp. 212-222 (qui pp. 214215). 29

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che il positivismo tardo ottocentesco non aveva solcato con particolare solerzia. Ma se di questo si trattava, e se Marchesini aveva coinvolto il giovane Limentani nella direzione del «pragmatismo razionale», non poteva mancare l’attenzione per chi – come Vailati – procedeva a una messa a punto innovativa degli strumenti concettuali con cui anche nel campo delle scienze umane si può rendere conto, se non delle finzioni nel senso di Marchesini, almeno delle credenze e delle aspettative che informano la condotta individuale e collettiva. Senza dubbio il dialogo con Vailati rappresentò l’anello conclusivo della formazione di Limentani, accostandolo non solo a un pragmatismo lontano dalle seduzioni magiche di Papini, ma pure a un modo di intendere la ricerca filosofica che rappresentava una valida alternativa alle declinanti ‘scuole’ positivistiche (di cui Vailati, come si sa, aveva scarsissima stima). Dalle lettere scambiate con Vailati emerge bene lo spettro degli interessi del giovane Limentani, così come l’orizzonte inconsueto delle sue letture (dal Dilthey dell’Einleitung in die Geisteswissenschaften al Simmel dei Probleme der Geschichtsphilosophie) e il progressivo incentrarsi sul tema della previsione nell’ambito delle scienze sociali: un tema che lo avvicinava fortemente a Vailati e alla discussione sul pragmatismo, pur con tutte le cautele di Limentani nei confronti dei «fiorentini spiriti bizzarri» raccolti intorno al «Leonardo»32. Comunque non si trattava solo di una questione, per quanto importante, di ‘stile’ intellettuale: proprio sul nodo decisivo dello statuto delle leggi storiche Vailati aveva scritto, nel 1903, pagine di grande acutezza, in cui aveva mostrato come la pretesa contrapposizione tra l’applicabilità del nesso causaeffetto nelle scienze naturali e la sua inapplicabilità nel campo delle scienze del mondo storico derivi dal «malinteso» di scorge32

Cfr. G. VAILATI, Epistolario, cit., pp. 661-685. Limentani peraltro aveva letto con attenzione uno scritto del Papini pre-leonardiano (cfr. La teoria psicologica della previsione, «Archivio per l’antropologia e l’etnologia», vol. XXXII, 1902, pp. 351-375), che in una lettera a Vailati del dicembre 1904 giudicava «una delle pochissime cose buone scritte sopra un argomento oltremodo difficile e irto di difficoltà». Sulle discussioni sulla previsione che precedono l’avvio della fase più nota dell’esperienza pragmatistica cfr. P. CASINI, Alle origini del Novecento. «Leonardo», 1903-1907, Bologna, Il Mulino 2002, pp. 29-36.

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re nelle leggi fisiche una ferrea necessità, laddove si tratta invece, come in qualsiasi caso in cui si cercano delle regolarità, di fatti che si verificano o meno quando si danno, o potrebbero darsi, determinate condizioni33. Le nostre previsioni sono sempre, pertanto, previsioni condizionali, ovvero ci dicono ciò che accadrà o che potrebbe accadere dato che si diano, o possano darsi, certe condizioni (o certe cause a cui imputare certi effetti): per Vailati era un punto fermo34, e Limentani non avrebbe tardato ad accorgersi che su questo terreno si poteva costruire una teorica delle previsioni sociologiche svincolata dai ‘dogmi’ del positivismo meno smaliziato.

3. Tenendo presenti tali e tante sollecitazioni, non stupisce dunque che a soli ventitré anni Limentani già desse alle stampe un corposo volume dedicato alla Previsione dei fatti sociali (era in realtà, rimaneggiata, la tesi di laurea discussa l’anno precedente con Marchesini a Padova), frutto nemmeno troppo acerbo dei suoi intensi scambi filosofici e della sua precoce formazione intellettuale35. Il libro si apriva con una dichiarazione di schietta fede positivistica e con un caloroso omaggio ad Ardigò36; ma a ben vedere il distacco dal maestro, e in particolare dalla sua concezione della società come «formazione naturale»37, era già ben marcato, mentre affiorava al tempo stesso un’indagine in cui il pragmatismo e la ‘volontà di credere’ giocavano un ruolo di primo piano. Era un pragmatismo che poggiava tanto su Vailati 33

Cfr. G. VAILATI, Sull’applicabilità dei concetti di causa e di effetto nelle scienze storiche, poi in Scritti, cit., pp. 459-464. 34 Si veda quanto Vailati scriverà nel saggio (composto insieme a Calderoni) Le origini e l’idea fondamentale del pragmatismo, poi in Scritti, cit., p. 925. 35 Cfr. L. LIMENTANI, La previsione dei fatti sociali, Torino, Bocca 1907 (con il titolo Per una teorica della previsione sociologica alcune parti erano già state anticipate sulla «Rivista di filosofia e scienze affini», VIII, 1906, n. 1-2, pp. 74-93 e n. 3-4, pp. 213-232). Del «bravissimo giovane» autore di un «libro di Sociologia» parla Ardigò in una lettera ad Achille Loria del 5 marzo 1906, con la quale presentava Limentani al collega dell’università torinese (cfr. R. ARDIGÒ, Lettere edite ed inedite, cit., vol. II, p. 266; probabilmente Loria aiutò Limentani a pubblicare il suo lavoro presso l’editore Bocca). 36 Cfr. L. LIMENTANI, La previsione dei fatti sociali, cit., pp. 21-22. 37 R. ARDIGÒ, Sociologia, in Opere filosofiche, vol. IV, Padova, Draghi 1886, p. 19.

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quanto su Marchesini: dal primo Limentani traeva il suggerimento di un’analisi «condizionale» delle previsioni sociali, fondata sul loro statuto probabilistico e mai rigorosamente certo, nonché sul carattere attenuato della causalità sociale38; dal secondo veniva invece l’«agire come se», ossia il comportamento individuale e collettivo riferito alla finzione che una data previsione – la cui realizzazione è auspicabile – sia certa in modo assoluto39. Si saldavano così l’agire sociale e la responsabilità morale, quasi a gettare un ponte tra la sociologia e l’etica in forza della certezza nel futuro che l’impegno morale può garantire all’indagine sociologica costretta, per sua natura, a parlare in termini solo ipotetici di cosa avverrà domani40. Infine, e non andrà sottovalutato, il tema della previsione si incontrava con quello della scientificità della politica, la cui capacità di dirigere la società in modo razionale, senza cadute utopiche o declamazioni demagogiche, non poteva che dipendere da una più accurata selezione degli strumenti preditivi41. Quest’ultima tesi, alla quale Limentani annetteva grande importanza, fu all’origine di una sbrigativa stroncatura stilata da Croce sulle pagine della «Critica», nelle quali con disarmante semplicismo il concetto stesso del prevedere veniva bollato come una chimera42. Ben diversa fu invece la reazione di Vailati, il quale con altra sensibilità da quella crociana recensì accuratamente il libro di Limentani, rilevando i pregi della «posizione intermedia» assunta da Limentani e il valore di un programma di rinnovamento delle scienze sociali che andava direttamente ad incrociare le prospettive del ‘pragmatismo logico’43. D’altra parte, 38

Cfr. L. LIMENTANI, La previsione dei fatti sociali, cit., pp. 25-83. Ivi, p. 404. 40 Ivi, pp. 413-414. 41 Ivi, pp. 338, 402. 42 La recensione crociana, apparsa sulla «Critica» nel maggio 1907, è riprodotta nelle Conversazioni critiche. Serie prima, cit., pp. 150-152. Caustica fu a sua volta la risposta di Papini al disprezzo di Croce per la previsione (cfr. G. PAPINI, Croce e la previsione, «Leonardo», V, aprile-giugno 1907, pp. 226-227); ma su questo punto si esprimerà criticamente anche Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, a c. di V. Gerratana, Torino, Einaudi 1975, p. 1157. 43 La recensione di Vailati, apparsa sulla «Rivista di scienza» del giugno 1907, è raccolta negli Scritti, cit., pp. 794-798. 39

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chi rilegga oggi il libro di Limentani non farà fatica a comprendere quale dei due recensori – Vailati o Croce – cogliesse nel segno; anzi, quel conflitto teorico sulla previsione sociologica sembra anticipare certe polemiche di quasi mezzo secolo dopo, quando la battaglia per assicurare alla sociologia e alle scienze sociali la loro dignità epistemologica e il loro diritto di cittadinanza nella cultura italiana sarà rivolta, nuovamente, contro i pregiudizi idealistici nei confronti della «scienza dei manichini»44. In realtà il giovane Limentani non era così sprovveduto da meritare una condanna sommaria; e se si va al di là del rituale omaggio ad Ardigò si troveranno nelle sue pagine un’attenta disamina di Comte e soprattutto di Mill, così come la frequentazione significativa di Dilthey e di Simmel, autori che indicavano il desiderio di emanciparsi dagli angusti limiti della ‘provincia’ positivistica per allargare lo sguardo al dibattito europeo. Il positivismo diveniva così il quadro di riferimento entro il quale si muovevano – magari non sempre con il dovuto rigore – questioni che erano al centro di discussioni quanto mai attuali: dal Will to believe di James alle dispute sullo statuto delle Geisteswissenschaften, dalle nuove frontiere della sociologia all’eredità del materialismo storico. Sullo sfondo rimaneva il suggerimento ardighiano di richiamarsi ai fatti e di rispettare la ‘relatività della conoscenza’; ma a ben vedere era già in atto una revisione profonda e ben presto ne sarebbero giunte altre prove su un terreno in certo modo di confine come quello dell’etica. Se infatti la previsione sociologica coniugava, per Limentani, la limitatezza degli strumenti preditivi con l’impegno morale, 44 Ci riferiamo al polemico intervento di Carlo Antoni, intitolato appunto La scienza dei manichini, apparso su «Il Mondo» nel novembre 1951 come risposta alla pubblicazioni dei «Quaderni di sociologia» diretti da Nicola Abbagnano e Franco Ferrarotti; Abbagnano replicò a questo intervento di Antoni dalle pagine dei «Quaderni di sociologia» dell’inverno 1952, con un breve articolo intitolato Risposta a Carlo Antoni. Entrambi i testi sono ora ripubblicati in N. ABBAGNANO, Scritti neoilluministici (1948-1965), a c. di B. Maiorca, introduzione di P. Rossi e C.A. Viano, Torino, UTET 2001, pp. 230-238. Detto per inciso, proprio il tema della previsione sociologica e del suo carattere ‘condizionale’ ritorna più volte negli scritti di Abbagnano, in termini in fondo non lontanissimi da quelli delineati da Limentani nel 1907: cfr. ad esempio l’articolo del 1954 Filosofia e sociologia (ivi, pp. 244254: specie p. 248).

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onde nell’agire ‘come se’ l’orizzonte della responsabilità individuale si dilatava sino a risolvere il governo razionale della società in un impegno collettivo di carattere etico, il passo per giungere a un riesame dello statuto stesso dell’etica non poteva che essere breve. Anche qui Limentani avvertiva del resto i limiti dell’opera di Ardigò, divisa tra il giusto richiamo a un metodo imperniato sullo studio del comportamento dell’uomo e una prospettiva più globale, in cui la moralità era appiattita con un «residuo di eteronomia» sul piano sociale, lasciando ampio spazio per una revisione che permettesse alla morale positivistica di «procedere oltre»45. Già nel 1909 Limentani si sentiva in dovere, a questo proposito, di mettere in chiaro due aspetti intimamente connessi: da una parte occorreva rimediare alla confusione tra psicologia ed etica, ovvero alla tendenza a risolvere quest’ultima sul piano della giustificazione delle condizioni esterne dell’atto morale; e dall’altro lato si trattava di denunciare il rischio di smarrire la specificità della morale allineandola agli altri atti umani. «Si suole fare troppo psicologia e troppo poca etica», ammoniva Limentani: con il risultato paradossale che la morale positivistica condivide con l’etica formale un apparato dottrinale inaccessibile al senso comune, non addestrato all’«esercizio delle distinzioni sottili» e difficilmente in grado di cogliere le condizioni preliminari che rendono possibile il giudizio morale46. D’altronde, insisteva Limentani, tanta cura nel tramutare la morale in una sorta di science des moeurs non è solo dannosa alla filosofia: la crisi dei valori storici della società liberale richiede infatti che al collasso dell’etica metafisica e tradizionalistica si dia risposta con una disincantata verifica degli strumenti di valutazione morale, in un’epoca in cui l’avvento delle masse sulla scena della storia rischia di indebolire la «fibra morale» degli individui attraverso una progressiva uniformazione dei comportamenti collettivi47. Il tema dell’individualità morale si poneva così al centro degli interessi di Limentani, che avrebbe dedicato gran parte delle sue fatiche tanto al problema della delimitazione dell’ambito proprio 45

L. LIMENTANI, Rileggendo la “Morale dei positivisti”, cit., p. 210. L. LIMENTANI, La supremazia del criterio morale nella valutazione degli atti, «Rivista di filosofia», I, 1909, n. 3, pp. 54-83, n. 4, pp. 57-87 (qui n. 3, p. 73). 47 Ivi, p. 67. 46

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dell’etica, quanto alla chiarificazione dei presupposti che circoscrivono l’atto morale del singolo agente operante entro la vita sociale. Già nel 1911, al IV Congresso Internazionale di Filosofia di Bologna, Limentani delineava con chiarezza il punto che più gli stava a cuore, sostenendo che «non atti si danno nella realtà, ma personalità che agiscono e imprimono, in ogni loro manifestazione, il proprio suggello profondo»48. Ora se possono essere considerati passibili di valutazione solo gli atti compiuti coscientemente49, tale valutazione deve poi ricostruire il retroscena psicologico che ha condotto a questo o a quell’atto; ma la psicologia di per sé non esaurisce il criterio di valutazione morale, che è di ordine esclusivamente formale sebbene esso rimandi, a sua volta, a un contenuto psicologico. In tal modo l’autonomia irrinunciabile dell’etica non doveva comportare, nelle intenzioni di Limentani, alcuna cesura tra il principio morale e l’operare effettivo dell’uomo: il programma di lavoro di una ricostruzione dell’etica del positivismo passava necessariamente di qui, anche al prezzo di impigliarsi inesorabilmente nella difficoltà di tenere insieme una prospettiva di tipo ‘formale’ con un impianto ancora profondamente segnato dalla giustificazione in termini psicologici degli imperativi morali.

4. Nel 1913, appena ventinovenne, Limentani affidò a un grosso volume pubblicato da Formiggini e intitolato I presupposti formali della indagine etica i risultati delle sue ricerche. Già nel titolo di quel libro, di non agevole lettura e in parte gravato dall’intento di confezionare un lavoro tipicamente accademico, si annunciava l’impianto di fondo del Limentani ‘moralista’: mentre il termine «indagine» stava a indicare il nesso problematico che l’etica instaura con le altre discipline (dalla psicologia alla sociologia sino alla stessa filosofia), il richiamo al «presupposto formale» delimitava la condizione preliminare di validità di un’analisi della vita morale.

48

L. LIMENTANI, La valutazione etica e i suoi limiti, in Atti del IV Congresso Internazionale di Filosofia, cit., vol. III, p. 124. 49 Ivi, p. 121.

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Intendo per presupposti formali della indagine etica quelle costituzioni di rapporti – tra fatti e stati di coscienza in un medesimo individuo, fra personalità diverse in un’aggregazione sociale – delle quali è necessario ammettere la realtà, perché sia dato alla indagine stessa un distinto oggetto su cui si eserciti. Presupposti, perché ove non sieno assunti, rimane contestabile la separazione dell’etica dagli altri ordini di ricerche ai quali la vita umana fornisce l’oggetto: formali, perché si prescinde qui, non assolutamente, ma quanto più rigorosamente è possibile, da quei dati mutevoli che vengono a formare a volta a volta i termini dei rapporti stessi50.

Si tratta, per Limentani, di delimitare una classe di fatti che siano qualificabili come fatti morali; e a tal fine occorre ritagliare, nell’ambito di una descrizione psicologica della morale, un sentimento specifico che renda l’uomo agente morale, senza classificare aprioristicamente determinati comportamenti come leciti o illeciti. La moralità o l’immoralità dell’uomo non dipendono da una maniera di agire piuttosto che da un’altra, ma solo dal «particolare colorito» che accompagna le azioni, vale a dire da «quei sentimenti specifici di approvazione o di disapprovazione che son designati nella loro totalità con l’espressione di coscienza dell’obbligo o coscienza morale» (PFIE, 11). Il sentimento del dovere è appunto destinato a delimitare «una zona riservata all’indagine etica» e a identificare «una specifica “esperienza morale” entro la totalità dell’esperienza» (PFIE, 10), senza ridurla sul piano della naturalità da un lato e della precettistica dall’altro, ma soprattutto senza volerla utilizzare per «puntellare […] edifizi metafisici pericolanti» (PFIE, 532). La categoria formale del dovere che è al centro dell’etica kantiana è pertanto suscettibile di essere riempita di una vasta gamma di contenuti psicologici, e diventa essa stessa un «fatto di coscienza», una categoria psicologica che «esprime anzitutto un atteggiamento del soggetto di fronte a taluni momenti della sua vita operativa» (PFIE, 18). Siamo dunque in presenza di una classica versione sentimentalistica e psicologistica della morale: il sentimento morale è il legislatore dei giudizi etici, i quali sono da considerarsi giudizi di 50

L. LIMENTANI, I presupposti formali della indagine etica, cit., p. 3 (abbreviato nel seguito come PFIE, seguito immediatamente dall’indicazione della pagina).

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approvazione o disapprovazione fondati sul sentimento presente nella coscienza dell’agente (PFIE, 11-12). In questa prospettiva Limentani non accettava le critiche espresse da Henry Sidgwick (di cui discuteva a più riprese The Methods of Ethics) in merito all’insufficienza dell’assenso ‘emotivo’ per qualificare un giudizio come morale; e proprio per questo Limentani sembrava esporsi alle classiche obiezioni all’etica naturalistica codificate da George Moore: se non si accettano la natura conoscitiva dell’etica e la nozione indefinibile di «bene in sé», si cade nell’impossibilità di confrontare le opinioni morali al di là della constatazione che esse possono essere differenti (ma non per questo reciprocamente escludentisi), come nel caso di quando qualcuno dice «io oggi sono venuto da Cambridge» e un altro afferma «io oggi non sono venuto da Cambridge»51. Limentani non conosceva direttamente l’opera di Moore, anche se con ogni probabilità era al corrente di quanto Vailati ne aveva scritto presentando i Principia Ethica sulle pagine del «Leonardo» nel 190552; tuttavia è legittimo ritenere che si sentisse al riparo da simili obiezioni e che da questo punto di vista gli bastasse aver preso le distanze da Sidgwick. D’altra parte proprio l’obiettivo contro cui aveva mosso le sue armi Moore costituiva per Limentani la più feconda corrente di pensiero a cui rivolgersi: erano infatti i moralisti inglesi, e soprattutto David Hume e Adam Smith, a fornirgli l’impalcatura di una morale sentimentalistica in cui convivessero il moral sense e la categoria del dovere. Ad essere in questione era insomma la convergenza – della cui problematicità Limentani non sembrava avvedersi del tutto – tra la morale della simpatia e l’imperativo categorico kantiano, al quale spettava l’impegnativo ruolo di cor51

Cfr. G.E. MOORE, Principia Ethica, nuova ed. a c. di Th. Baldwin, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 61, 71 (come noto, il libro di Moore è del 1903). Si veda inoltre G.E. MOORE, The Nature of Moral Philosophy (1921), poi in Philosophical Studies, London, Routledge 1970, pp. 310-229; La natura della filosofia morale, in Studi filosofici, a c. di G. Preti, Bari, Laterza 1971, pp. 119-148 (qui p. 142). Su Moore come «consapevole epigono di Sidgwick» richiama l’attenzione S. CREMASCHI, L’etica del Novecento. Dopo Nietzsche, Roma, Carocci 2005, p. 37. 52 Cfr. G. VAILATI, La ricerca dell’impossibile, in Scritti, cit., pp. 659-666. Sulla maniera in cui Vailati si collocava nei confronti di Moore si veda C. ZANONI, Some Reflections on Vailati’s Ethical Philosophy, «Rivista critica di storia della filosofia», XVIII, 1963, pp. 416-428.

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reggere la restrizione operata da Smith della valutazione morale a descrizione psicologica priva di tensione deontologica53. Su questa duplicità di piani si giocava la scommessa teorica dell’etica di Limentani. Per quanto riguarda Kant, si trattava di recuperare quello che a Limentani sembrava «un glorioso retaggio della filosofia kantiana», ovvero il concetto del dovere una volta sottrattolo a «ogni nesso con il teologismo e il razionalismo» e rinnovato «al contatto con la esperienza morale» illuminata dalla psicologia54. L’imperativo morale, la dignità «incomparabile» della volontà buona, la «sublimità» del dovere: per Limentani erano tutti nobilissimi concetti, che non potevano però aspirare ad alcuna validità «all’infuori di quella realtà psicologica dalla quale il Kant voleva totalmente prescindere» (PFIE, 424). Per quanto la categoria formale del dovere avesse la funzione di delimitare l’ambito proprio dell’esperienza morale, il ‘kantismo’ di Limentani era dunque decisamente sui generis; eppure l’integrazione psicologica della morale kantiana, la sua possibile combinazione con l’inclinazione e il sentimento, il superamento del ‘frigido’ razionalismo dell’imperativo categorico vantavano una storia talmente lunga e avevano conosciuto una così larga fortuna anche nella cultura filosofica italiana di fine Ottocento da rendere la posizione di Limentani tutt’altro che isolata55. Se mai converrebbe sottolineare come anche in questo caso Limentani andasse ben oltre Ardigò, che aveva condannato duramente la «tendenza cristiano-ascetica» di Kant e gli aveva contrapposto la concezione aristotelica dell’uomo, cercando di saldare brutalmente l’imperativo categorico alla «natura produttrice» che è attribuita alle leggi fisiche «dipendenti dalla stessa natura»56. Né si può tra53

Cfr. L. LIMENTANI, La morale della simpatia. Saggio sopra l’etica di Adamo Smith nella storia del pensiero inglese, Genova, Formiggini 1914, pp. 90-92. 54 Così nella recensione al libro di Marchesini su La dottrina positiva delle idealità, apparsa sulla «Rivista pedagogica», VI, 1913, vol. I, pp. 303-305. 55 Per una rapida collocazione del «personalismo etico e pluralistico» di Limentani nel contesto della discussione italiana cfr. A. GUERRA, Introduzione a Kant, cit., p. 287 n. 96, che insiste anche sul Kant «interpretato attraverso Schiller» che emerge dal libro di Limentani. Per quanto si dice nel testo cfr. pure supra, cap. 1, pp. 26-27. 56 Cfr. la lettera di Ardigò a Chiappelli del 29 agosto 1884, in R. ARDIGÒ, Lettere edite ed inedite, cit., vol. I, pp. 262-263. Si veda inoltre R.

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scurare che il ‘kantismo’ di Limentani, se prendeva le distanze dalle approssimative formulazioni ardighiane, si nutriva invece ampiamente di Simmel, l’autore con il quale – come vedremo ancora – nei Presupposti formali il dialogo è particolarmente fitto e fecondo: soprattutto là dove si tratta di rivendicare il carattere «individuale» della moralità, il suo configurarsi come una «formazione» che non cade, come diceva Simmel, nel realismo concettuale e non si illude che l’individuo possa esaurirsi in una forma universale57. Con tutto questo, però, il debito di Limentani con i moralisti inglesi assume un significato particolare, come ben si vede dal pregevole volume del 1914 sulla Morale della simpatia che costituisce l’ideale completamento dei Presupposti formali. «Quello che reca onore, quel che è bello, conveniente, nobile, generoso – aveva scritto Hume nell’Enquiry on the Principles of Moral – si impadronisce del cuore e ci sollecita ad abbracciarlo ed a conservarlo. Ciò che è intelligibile, evidente, probabile o vero determina soltanto il freddo assenso dell’intelletto, dà soddisfazione alla curiosità speculativa e pone termine alle nostre ricerche»58. Che il giudizio morale non fosse frutto di un «freddo assenso» razionale, ma ricevesse il suo calore dalla «fiamma del sentimento» più che dalla «fulgida luce d’intelletto» era ben chiaro a Limentani59; e altrettanto importante gli appariva la rottura operata dai filosofi del moral sense nei confronti dell’etica razionalistica, contro la quale avevano rivendicato la «complessità della nostra vita affetARDIGÒ, La morale dei positivisti, a c. di G. Giannini, Milano, Marzorati 1973, p. 291 n. 126, ove si dice che Kant avrebbe sì colto «perfettamente» la natura della «disposizione etica», ma «senza avvedersi che era una formazione naturale biologica sociale»: come dire, senza avvedersi di non aver affatto colto «perfettamente» la natura dell’etica. 57 Cfr. G. SIMMEL, Einleitung in die Moralwissenschaft. Eine Kritik der ethischen Grundbegriffe (prima ed. 1892-1893; ma Limentani si riferiva alla seconda ed. del 1904), ora in G. SIMMEL, Gesamtausgabe, vol. III e IV, a c. di K.Ch. Köhnke, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1991 (qui vol. IV, pp. 4748). Su Simmel come correttivo del naturalismo etico ardighiano cfr. anche F. PICARDI, L’etica di Ludovico Limentani, cit., pp. 21-24 e G. ROSSANO, La filosofia morale di Ludovico Limentani tra naturalismo e storicismo, cit., pp. 390-392. 58 D. HUME, Ricerca sui principi della morale, trad. it. di M. Dal Pra, in Opere, Bari, Laterza 1971, vol. II, p. 182. 59 Cfr. L. LIMENTANI, Il Vero nella Morale, cit., p. 199.

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tiva». In particolare Smith, prendendo le mosse dal «sano riflessivo empirismo» inaugurato da Bacone, aveva coronato degnamente «l’indirizzo che si orienta verso il naturalismo e l’umanesimo», in accordo con una visione ottimistica che «ci ammonisce a riconoscere in ciascun uomo il nostro fratello, e a ricavare da questo riconoscimento così la legge della condotta come la misura del valore morale altrui e nostro»60. Era insomma il passaggio dalla filosofia morale alla filosofia della morale a fornire a Limentani l’impianto del suo formalismo etico, in cui convivevano la preoccupazione di garantire alla morale una fondazione autonoma e l’esigenza di raccordarla all’analisi psicologica61. Si incrociavano così due ordini di riflessioni: da un lato la complessità dell’esperienza morale offriva le basi per una fenomenologia etica capace di illuminare la pluralità dei motivi che informano la condotta; dall’altro lato l’indirizzo descrittivo trovava il suo principio direttivo nell’assunto secondo il quale la coscienza del dovere è il tratto dirimente l’esperienza morale, ciò che qualifica un’azione come giusta e obbligatoria. Ma se l’identificazione del bene con il dovere è il punto cruciale dell’indagine etica, si comprende altresì per quale motivo Limentani si sentisse obbligato a un confronto serrato con le tesi «antitetiche» di Juvalta, con il quale egli dichiarava tutto il suo debito sin dalle prime battute dei Presupposti (PFIE, VI), chiamandolo poi lungamente in causa per mostrare come l’«esigenza giustificativa» e l’«esigenza esecutiva» di cui aveva parlato Juvalta dovessero in realtà rimanere saldamente legate l’una all’altra, e anzi a rigore non fossero distinguibili. Il riconoscimento della superiorità di un certo fine non può infatti non condizionare la condotta dell’agente, che fa di quel riconoscimento qualcosa di più di un argomento razionale e lo converte piuttosto in un dettato del sentimento del dovere (PFIE, 33-35); per contro, un obbligo ingiusto sarebbe solo imposto, ma certo non scaturirebbe dai «fondi

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La morale della simpatia, cit., pp. 11, 19, 213. Cfr. G. PRETI, Alle origini dell’etica contemporanea. Adamo Smith, Bari, Laterza 1957, rist. an. Firenze, La Nuova Italia 1977, pp. 9, 18: «Non si tratta più di armonizzare il mondo delle esperienze morali, del costume, dei sentimenti e dei valori secondo la prospettiva di un ideale, ma di scoprire le strutture e le leggi di svolgimento dell’esperienza morale stessa». 61

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reconditi della nostra coscienza», sicché «sentirsi obbligati e trovar giusto l’obbligo che si sente, è tutt’uno» (PFIE, 57-58). Il minuzioso confronto che Limentani conduce con Juvalta è davvero illuminante62. La diffidenza di Limentani nei confronti dei procedimenti logicizzanti di Juvalta rappresenta un robusto richiamo alla fenomenologia della vita morale, in nome dell’adesione ai movimenti intimi della psiche e alla sua capacità di offrire «il necessario materiale» alla coscienza dell’obbligo (PFIE, 169); la posizione di Juvalta, invece, sembra tutta giocata sulla consapevolezza che l’indagine sulla morale non può fare a meno di ricorrere a quella separazione tra forma e contenuto, tra «stampo» logico e vita vissuta, tra teoria e immediatezza del sentimento senza di cui ogni riflessione degna di questo nome non potrebbe essere svolta63. Dunque due punti di vista fondamentalmente diversi, ma non inconciliabili là dove a essere in gioco erano le opzioni di fondo, come il riconoscimento del valore della giustizia, il rifiuto di un fondamento metafisico, l’apertura alla pluralità dei postulati morali, l’accettazione dei «limiti» a cui deve soggiacere ogni pretesa della ragione di fronte alla sfera assiologica. Eppure le divergenze rimanevano gravide di conseguenze non solo sul nodo delicatissimo della coscienza dell’obbligo, ma anche per quanto riguarda il valore da assegnare alla costruzione di etiche ‘pure’, che in linea di principio Juvalta difendeva sulla scorta di Spencer e di Renouvier. Per parte sua Limentani metteva invece in guardia dal trattare l’homo ethicus alla stregua dell’homo oeconomicus, nell’illusoria convinzione che si possa davvero pervenire a costruire un modello astratto. Se si trattava di considerare le tesi di Calderoni relativamente all’esistenza di un ‘mercato morale’, onde bene e male non sono valori in sé, ma conoscono una gradazione in forza della «frequenza delle azioni riconosciute da noi come obbligatorie, o della loro omissione», Limentani si dichiarava d’accordo e sottolineava come effettivamente le azioni più rare siano stimate maggiormente (PFIE, 490). Tuttavia la pretesa di considerare l’homo ethicus come se fosse un 62

Su questo punto, e in specie sulle tesi juvaltiane, si veda anche quanto si è già detto in precedenza, cap. 3, pp. 86-90. 63 Cfr. ad esempio quanto Juvalta osserva nello studio del 1907 sul Metodo dell’economia pura nell’etica, poi in I limiti del razionalismo etico, cit., pp. 189-190.

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tipo astratto al pari dell’homo oeconomicus pareva a Limentani infondata, perché mentre quest’ultimo può essere ‘economico’ anche senza volerlo, il primo non può certo essere ‘etico’ senza volizione; ed essendo storicamente e psicologicamente determinata, la volizione non può essere sacrificata a un inesistente uomo astratto, privo di determinatezza morale (PFIE, 300). Per lo stesso motivo le argomentazioni di Juvalta a favore di un ordine di condizioni ideali o di un fine ultimo – la società giusta – che consentirebbero la realizzazione di tutti gli altri fini scontava per Limentani il limite di tutti i modelli ideal-tipici, i quali necessariamente richiedono di «prescindere da fattori e da elementi che, lungi dall’essere estranei alla moralità […], costituiscono precisamente ciò che dà maggior interesse alla vita morale» (PFIE, 366). Di fronte alla possibilità rivendicata da Juvalta di sondare la struttura di un sistema normativo morale, di analizzarne le condizioni e la coerenza interna, Limentani insomma non cedeva di un passo dal suo programma, rivolto a mostrare «come sia venuta in essere e in che cosa consista quella moralità, che la esperienza ci manifesta come riconosciuta» (PFIE, 520-521).

5. Alla luce di questo proposito descrittivo si giustifica, innanzi tutto, la critica di Limentani delle morali edonistiche ed eudomonistiche, fondate sull’erroneo presupposto che sia possibile ridurre la pluralità dei fini a un’unica gerarchia. Una simile assunzione contraddice non solo l’effettiva ricchezza dell’agire morale, visto che si può agire moralmente conseguendo fini ben diversi dal piacere e dalla felicità , ma la stessa dinamica psicologica, assai più intricata di quanto si sia soliti ritenere: pur riconoscendo che la ricerca del piacere e della felicità ha il merito di incrinare l’etica razionalistica, per Limentani non si deve trascurare in qual misura il piacere nasca in opposizione al dolore, o la felicità come risposta a una situazione di segno contrario, onde simili «antinomie» rappresentano l’autentico motore della vita morale (PFIE, 139, 144-146). In secondo luogo, dunque, il contenuto psicologico dell’atto morale deriva da una complessa interazione di energie psichiche; la coscienza del dovere si forma ogni volta in un contesto specifico, superando resistenze, assecondando tendenze spontanee, inibendo determinati impulsi e selezio-

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nando molteplici sollecitazioni. L’Erlebnis morale non è la conseguenza di leggi naturalistiche o di una supposta ‘natura umana’ immutabile; e se la moralità è coerenza interiore, non bisogna dimenticare che l’equilibrio si consegue in modo differenziato, a seconda delle caratteristiche della personalità: in questo senso non può essere negato nemmeno al malato di mente un’intima coerenza con i propri principi liberamente assunti64. Ed è anche per questo motivo che Limentani sottolinea come la stessa teorica delle «finzioni dell’anima» elaborata dal suo maestro Marchesini non sia affatto esente dal pericolo di travestire e imprigionare lo slancio nativo della personalità, opponendole l’artificio intellettualistico della finzione morale, della regola formulata ‘come se’ (PFIE, 206-208). Strettamente connessa al «pluralismo psicologico» che innerva tante pagine dei Presupposti formali è la riflessione che Limentani dedica ai rapporti tra individuo e società, delineando anche in questo caso una prospettiva pluralistica capace di fare giustizia, come nell’ambito psicologico, delle versioni oggettivistiche dell’etica care al positivismo ottocentesco, intento a ridurre il fondamento autonomo dell’agire morale a epifenomeno di un’indifferenziata struttura sociale (PFIE, 392-397). Decisiva appare qui l’influenza di Simmel, di cui Limentani cita ripetutamente sia l’Einleitung in die Moralwissenschaft, sia la Soziologie del 1908, insistendo su quella «differenziazione sociale» che nella prospettiva simmeliana scardina la sociologia positivistica e apre un nuovo terreno per la ‘scienza morale’. In particolare il problema dell’individualizzazione e della differenziazione delle regole morali si salda con quello dell’articolazione della società in «cerchie sociali», che della società rappresentano solo un aspetto parziale e fanno sì che le scelte morali dell’individuo siano la conseguenza dell’urto e della sovrapposizione con altre «cerchie sociali» (PFIE, 202). La natura via via più intricata dei rapporti sociali che è caratteristica della società contemporanea offre all’individuo una disseminazione quanto mai vasta di atteggiamenti, costumi, valori, abitudini di vita: di qui il relativismo delle norme morali, la 64

PFIE, 105-155, 211-238. Significativo, in queste pagine, il richiamo di Limentani al libro di TH. R IBOT, Les maladies de la personnalité, Paris, Alcan 1885, un testo ben noto nel dibattito psicologico di fine Ottocento.

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caduta dei codici assoluti, i frequenti «conflitti dei doveri» che rispecchiano la pluralità dei criteri di valutazione operanti all’interno di un medesimo organismo sociale (PFIE, 199-200). «Il numero dei fini proposti all’attività umana – scrive Limentani – è andato costantemente crescendo: ciò equivale a dire che si son venuti creando valori sempre nuovi» (PFIE, 113) e che il ‘mercato morale’ di cui parlava Calderoni ha generato – per usare il linguaggio di Simmel – quei «conflitti» e quelle «disarmonie» che hanno individualizzato l’etica proprio nell’età della crescente moltiplicazione dei vincoli sociali65. Pluralismo morale, insiste dunque Limentani: in virtù delle molteplici motivazioni psicologiche e sociali che lo sottendono, qualsiasi atto è moralmente lecito quando sia in accordo con la coscienza del dovere, indipendentemente dal contenuto dell’atto stesso. E tuttavia questo battere sulla forma, sviluppando nel senso di un «individualismo morale» il problema della liceità delle azioni, conduce Limentani non solo a una sorta di celebrazione dell’Io, con il conseguente pericolo di dare spazio al «titanismo» e al «narcisismo»66, ma a frantumare ogni pretesa di universalità delle norme etiche nella serie virtualmente infinita dei singoli doveri in accordo con il proprio insindacabile sentimento. L’esigenza di un’accurata descrizione dell’esperienza morale nelle sue varie conformazioni accorda insomma, sul piano più propriamente prescrittivo, un valore ultimo alla coscienza dell’obbligo quale che essa sia, con il risultato sconcertante di legittimare persino l’uccisione della propria prole da parte di una madre convinta che sia meglio sacrificare la vita piuttosto che tradire la coscienza del dovere (PFIE, 36). Il problema kantiano dell’universalizzazione della legge morale, che pure condurrà Simmel a parlare, proprio nel 1913, di «legge individuale» e a intessere intorno a questo motivo una trama concettuale tesa a imprimere al Sollen la dinamicità della «vita»67, rimane così chiuso nella sfera del dove65

Cfr. G. SIMMEL, Einleitung in die Moralwissenschaft, cit., vol. IV, pp. 358, 378-381 (ma tutto il capitolo finale del libro di Simmel alimenta largamente le considerazioni di Limentani). 66 E. GARIN, Il pensiero di Ludovico Limentani, cit., p. 203. 67 Cfr. G. SIMMEL, Das individuelle Gesetz, «Logos», IV, 1913, pp. 117160, poi in G. SIMMEL, Das individuelle Gesetz. Philosophische Exkurse, a c. di M. Landmann, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1987, pp. 175-230.

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re avvertito come obbligo della coscienza, impedendo a Limentani di correggere il rischio di quell’«anarchismo morale» che sembrava dissolvere – come rileveranno i suoi critici – ogni vincolo di solidarietà tra gli uomini in nome di un’estrema, ma ambigua tolleranza68. Ciò nonostante Limentani dava voce, nelle pagine della sua ampia ricerca, a una sensibilità morale che in quegli anni trovava espressione anche in indagini collocate al di fuori dell’orizzonte dei suoi interlocutori più diretti. A discutere di una vita morale condotta da ogni uomo secondo la ragione che «parla in lui» e che gli impone come agire indipendentemente dal costume, dal consenso e dagli «organismi etici esistenti» era per esempio, nel 1912, Giuseppe Rensi (il quale aveva peraltro dimestichezza proprio con Simmel)69. Ma nello stesso torno di tempo, nell’ambiente ‘vociano’, Giovanni Amendola a sua volta invocava l’identità della volontà e del bene, risalendo alle radici della morale nella vita individua e scorgendo nella norma etica l’espressione più autentica della personalità singola, al punto che l’etica non può non essere ‘biografia’70. La concezione ‘anarchica’ di Limentani si inseriva dunque in un clima diffuso e aveva il merito di presentarsi come un esito eccentrico rispetto all’etica del positivismo: nonostante i suoi aspetti paradossali era insomma capace di affrontare con acume e in un serrato confronto con il pensiero contemporaneo una problematica tanto attuale quanto irta di difficoltà. In questo contesto fu soprattutto Mondolfo ad approfondire i limiti del pluralismo etico di Limentani con una discussione puntuale che, in quel 1914 presago della tragedia che avrebbe di lì a poco travolto la civiltà europea, sembrava rivolta non esclusiva68

Cfr. A LORIA, Un anarchico della morale, «Marzocco», XIX, n. 1, 25 gennaio 1914, pp. 3-4. Ma si vedano soprattutto A. LEVI, Le problème de la morale, «Scientia», vol. XIII, 1913, n. XXVIII, pp. 248-254 e A. ALIOTTA, Lo psicologismo nell’etica, «La Cultura Filosofica», VI, 1912, pp. 471-482. Sulle reazioni al volume di Limentani cfr. anche R. SEGA, Studi su Limentani, cit., pp. 49-88. 69 Cfr. G. RENSI, L’Universale Etico, «Rivista di filosofia», IV, 1912, pp. 75-106. 70 Cfr. G. AMENDOLA, La volontà e il bene e Etica e biografia, entrambi raccolti in Etica e biografia, Milano-Napoli, Ricciardi 1953, pp. 3-38, 41-50. Da tenere presenti al proposito le osservazioni di U. CARPI, «La Voce». Letteratura e primato degli intellettuali, Bari, De Donato 1975, pp. 31-59.

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mente alle questioni strettamente filosofiche71. Il pluralismo morale, osservava Mondolfo, se è un’inequivocabile filosofia della tolleranza, rischia tuttavia di ribaltare i nobili ideali di elevamento morale che lo contraddistinguono nella negazione della giustizia e della legge umana, poiché una società di individui concepiti come monadi altro non è se non la società atomistica e disgregata della quale Limentani certo non intendeva tessere le lodi. Il singolo agente morale, per sé preso, è un’astrazione vaga quanto la società «indifferenziata» criticata da Limentani: vero fondamento della morale, dell’universalità morale, non può che essere il rapporto tra ego e alter, tra uomo e uomo cooperanti nell’affermazione dell’humanitas. Se la norma rimane irrelata, se rimane avulsa dal suo significato in rapporto alla Menschlichkeit – annotava ancora Mondolfo – viene a cadere sia la possibilità di confrontare i giudizi etici, sia la possibilità di sentirsi realmente obbligati nei confronti di un fine a cui si riconosca priorità assoluta: si converte, in altre parole, la legge morale, che è tale in quanto vale universalmente, in semplice individualità morale, che è quanto dire la negazione dell’etica72.

6. A queste critiche Limentani si mostrò sensibile, e forse non è escluso che le stesse posizioni espresse da Juvalta nel Vecchio e il nuovo problema della morale a proposito della «condizionalità universalmente necessaria» di certi valori lo rendessero più attento ai rischi dell’individualismo etico73. Certo non si trattava di sconfessare la morale dell’imperativo con il suo implicito rimando a un vago «regno dei fini»74; ma restava il problema di 71

Cfr. R. MONDOLFO, Il pluralismo nell’etica, «Rivista d’Italia», XVII, vol. I, febbraio 1914, pp. 161-191. 72 Ivi, pp. 170, 176, 182, 185-186. La critica di Mondolfo riprende qui il motivo conclusivo del libro su Engels del 1912 (cfr. Il materialismo storico in Federico Engels, cit., p. 386, ove si parla dell’«universalità del diritto e della giustizia o, in una parola, l’humanitas»). 73 Su questo si veda in precedenza cap. 3, p. 89. 74 Di «un vago finalismo umanitario fondato sugli imperativi categorici kantiani» parlerà, in una pagina scritta al confino di Ventotene, il nipote Eugenio Curiel, discutendo di «positivismo smaliziato» e «positivismo grossolano» in termini chiaramente tratti dall’opera di Limentani (cfr. E. CURIEL, Scritti 1935-1945, a c. di F. Frassati, Roma, Editori Riuniti 1973, vol. I,

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non pagare un prezzo troppo elevato per difendere il pluralismo psicologico e sociologico su cui era costruito il volume del 1913. A tale scopo Limentani si impegnò in uno studio sui rapporti tra «moralità» e «normalità» apparso nel 1920, in cui (come annunciava nella pagina di presentazione) si proponeva di recuperare, di fronte agli «esangui universali» e alla freddezza delle «astrazioni programmatiche», il contatto con la vita e «la freschezza della realtà»: un progetto in cui non è difficile scorgere il tentativo di investigare l’esperienza morale puntando ora più sul versante del contenuto che su quello della forma. E d’altronde Limentani scrive senza ombra di equivoci che se la morale ha trovato non di rado nel «contenuto» un inciampo che l’ha fatta slittare nella metafisica, resta però valida l’esigenza di affrontare i contenuti della morale, i valori che essa pone in discussione, così come le basi del giudizio che si riferisce alla condotta e lo statuto ‘fattuale’ di quest’ultima75. Ribadita la necessità di valutare moralmente solo gli atti che rispondono alla coscienza del dovere (e che per questo sono morali)76, Limentani considera condizione preliminare della valutazione morale la conoscenza della personalità di chi viene giudicato, essendo solo in tal modo esaustivo il giudizio. Ma questa esigenza, che è di carattere conoscitivo, si scontra nella maggior parte dei casi con l’impossibilità di essere soddisfatta in tempo breve, di essere rapida nella sua formulazione e immediata nella sua efficacia. Deve dunque intervenire, per ovviare allo scarto tra la quantità degli elementi richiesti dal giudizio e la necessità di enunciare il medesimo in tempi ristretti, una sorta di parametro che offra il tipo «normale» della condotta quale criterio valutativo: «in tutta una sfera di giudizi dell’altrui condotta è, consapevolmente o no, implicita la identificazione della condotta che deve essere seguita con la condotta che viene più frequentemente seguita, la coincidenza della moralità con la normalità»77. Per condotta normale non si intende qualcosa di assoluto e astorico, p. 308). Per l’importanza di Limentani nella formazione culturale di Curiel cfr. N. BRIAMONTE, La vita e il pensiero di Eugenio Curiel, Milano, Feltrinelli 1979, pp. 15-16. 75 Cfr. L. LIMENTANI, Studi sopra la valutazione della condotta, cit., p. 13. 76 Ivi, p. 10. 77 Ivi, p. 18.

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ma un prodotto dell’esperienza e dell’abitudine, una classe di comportamenti determinabili psicologicamente e sociologicamente: la condotta normale «è quella della quale non ci si sente indotti a chiedere ragione all’agente. Normale è quella che volgarmente e impropriamente trovasi esser “naturale”». In situazioni di questo genere il giudicante si attende da parte del giudicato un comportamento che rientra nella condotta «umana», suscettibile ovviamente di modificazioni e non determinabile a priori, e tuttavia tale da non tradire le aspettative che vengono riposte nell’uomo come soggetto morale. Normalità, insomma, intesa non come inerte complesso di atteggiamenti codificati dalla tradizione, bensì come presenza dinamica della personalità umana, dalla quale ci si aspetta, o di cui si prevede mediamente, una risposta che non tradisca le credenze e i valori solidamente connessi al comportamento dell’uomo civile78. Il giudizio che si appella al tipo umano normale vale dunque come supporto della valutazione morale, poiché se è vero che non la esaurisce completamente, fornisce però alla valutazione alcuni elementi essenziali, sui quali è possibile costruire il giudizio vero e proprio, fondato pur sempre sull’intensità della coscienza del dovere. Tali elementi, osserva Limentani, costituiscono una classe di giudizi particolari, definibili come «paramorali», atti cioè a consentire il giudizio morale pur non identificandosi con esso79. Riferendosi infatti al tipo normale, i giudizi paramorali mettono in luce una costellazione di valori caratteristici di quella «generalizzazione approssimativa» che è l’uomo normale: questi, anche quando agisce senza una spiccata coscienza del proprio dovere, si attiene a uno stile di vita fedele alle proprie convinzioni, costante nei sentimenti, sincero nel pensare e conseguente nell’agire80. Questo tipo ideale è incarnato, a giudizio di 78

Ivi, pp. 20-21. Tutto il tema dell’aspettazione e della previsione viene a Limentani dal pragmatismo (ivi, pp. 7-8, 92 sgg.); e se in filigrana Vailati è spesso presente in queste pagine, non è da sottovalutare la presenza (sia pure di seconda mano) anche di Dewey, che Limentani discute sulla scorta del profilo fattone da Antonio Aliotta nel suo libro su La reazione idealistica contro la scienza, Palermo, Optima 1912, nuova ed. a c. di C. Carbonara, Napoli, Libreria Scientifica Editrice 1970, pp. 243 sgg. 79 Moralità e normalità, cit., p. 21. 80 Ivi, pp. 53-66.

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Limentani, dall’«uomo d’onore», che costituisce l’humanitas realizzata nei suoi tratti più alti, nella dignità e nel solidarismo, nella libertà e nello spirito di fratellanza, sullo sfondo di una serena e controllata disciplina delle proprie passioni81. È su questa base che si eleva la coscienza morale vera e propria, non più chiusa nell’affermazione della sua esclusiva e insindacabile coerenza, svuotata in un esasperato formalismo, bensì intesa come momento regolativo di una vita morale solidamente ancorata al «codice d’onore»: «La legge morale ha, rispetto al codice d’onore, ufficio e valore non costitutivo, ma regolativo: non gl’infonde cioè un contenuto, ma delimita la sfera e determina le condizioni della sua validità»82. La tensione tra il piano regolativo della legge morale e quello costitutivo dei codici di comportamento, solidificatisi in un complesso di atteggiamenti che delimitano la condotta ritenuta normale e desiderabile, permette dunque a Limentani di recuperare quella dimensione intersoggettiva (il rapporto tra ego e alter di cui aveva parlato Mondolfo) che era rimasto oscurato nei Presupposti formali della indagine etica. Nello stesso tempo, pur rimanendo centrale il tema dell’autonomia dell’esperienza morale, si profila una connessione più stretta tra «forma» e «contenuto», tra obbligo e materia dell’obbligo. In tal modo anche il giudizio morale può essere ascritto, come avrebbe detto Dewey, al «modo di pensare sperimentale»83, intendendo con questa espressione la validità di un metodo che si prefigge di valutare e classificare le azioni dell’uomo in termini di conseguenze pratiche, di rapporti tra mezzi e fini, di operazioni compiute (o richieste) per realizzare determinati scopi. La familiarità di Limentani con il pragmatismo vailatiano sembra del resto giustificare un simile accostamento, rinvenibile anche in una pagina espressamente dedicata al riconoscimento dei meriti del pragmatismo per aver reagito, in

81

Ivi, pp. 81-90. L. LIMENTANI, L’onore e la vita morale, «Rivista pedagogica», XVI, 1923, pp. 128-149, 313-344, 421-456 (qui p. 449). 83 Cfr. J. DEWEY, The Quest for Certainty. A Study of the Relation of Knowledge to Action, New York, Minton-Balch & Co. 1929; La ricerca della certezza. Studio sul rapporto fra conoscenza e azione, trad. it. di E. Becchi e A. Rizzardi, Firenze, La Nuova Italia 1966, p. 288. 82

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nome di una prospettiva relativistica, alla rigida contrapposizione tra essere e dover essere84. Epilogo (ma non conclusione definitiva) di una ricerca morale fattasi via via più accorta e meditata, Moralità e normalità è un testo abbastanza inconsueto nel panorama filosofico dei primi anni Venti, e potrebbe essere accostato – ferma restando la diversità di fondo sotto il profilo dell’impostazione teorica – a quanto Piero Martinetti avrebbe scritto, di lì a poco, nel suo aureo Breviario spirituale85. Né andrà scordato che la ricerca di Limentani sarebbe proseguita non solo con i contributi sul tema dell’onore e più tardi della giustizia, ma anche nelle lezioni universitarie del periodo fiorentino (dal 1921 sino alla promulgazione delle leggi razziali, nel 1938), che ritorneranno sui cardini di una «fenomenologia della coscienza morale» affrontando, contestualmente alla lettura di alcuni grandi ‘classici’ dell’etica, temi come il rimorso o il sentimento di responsabilità e – sino all’ultimo – la questione cruciale della valutazione morale86. Ma alla persistente attenzione per le tematiche etiche Limentani affiancherà – e non sembra una scelta casuale – approfondite indagini storiografiche, quasi a testimonianza di un impegno ‘positivo’ prima ancora che ‘positivistico’ più vicino alla tradizione di Villari, di Tocco, di Mondolfo o di Levi che non alla lezione di Ardigò. Era a suo modo una scelta anch’essa ‘pluralistica’, coerente con l’impostazione etica trattata nelle opere maggiori: una scelta per il confronto con le molteplici voci della tradizione filosofica, dai testi fondamentali della morale agli Illuministi inglesi,

84

Cfr. Moralità e normalità, cit., pp. 103-104. Si veda P. MARTINETTI, Breviario spirituale, Milano, Isis 1922, pp. 5470, ove sono trattati alcuni aspetti cari al Limentani ‘moralista’ (la conoscenza degli uomini, la prudentia, la virtù interiore ecc.) 86 Per le lezioni sul rimorso cfr. le notizie redatte da D. PESCE, Forma e contenuto della vita morale nell’indagine di Limentani, cit., pp. 592-594. Del corso del 1935-1936 su Idea e sentimento di responsabilità si sono conservati gli appunti diligentemente presi da Franco Rossi S.J., pubblicati ora in Un positivista eretico, cit., pp. 135-167 (nello stesso volume, alle pp. 87-90, si trova l’elenco completo dei corsi e delle esercitazioni tenuti da Limentani a Firenze). Ancora nel 1940, l’anno della morte, Limentani attendeva a una conferenza sul problema della giustizia, di cui l’amico Levi pubblicò in seguito i lavori preparatori (cfr. A. LEVI, Riflessioni sul problema della giustizia, cit., pp. 107-127). 85

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per risalire poi ai pensatori del Rinascimento e, in specie, a Giordano Bruno, su cui Limentani avrebbe scritto pagine importanti muovendosi con sicurezza al confine tra filosofia e filologia, per abbattere barriere che impediscono un «lavoro comune»87. Non per nulla, salendo sulla cattedra di Filosofia morale a Firenze, e dunque entrando in quella straordinaria «officina di lavoro» che era stato per decenni l’Istituto di Studi Superiori88, Limentani si sentì in dovere (sono le parole della prolusione del 18 novembre 1921) di rendere omaggio all’insegnamento di Felice Tocco, ossia di «colui che seppe rendersi, sopra ogni altro, benemerito degli studi bruniani in Italia». Anche se in quella medesima occasione non esitava a dichiararsi con un certo orgoglio «figlio spirituale» di Ardigò e Marchesini e inneggiava all’«alma virtù del metodo positivo nella filosofia e nelle scienze morali», e anche se la sua interpretazione di Bruno avrebbe poi implicato la presa di distanza dallo stesso Tocco (in specie dalla tesi ben nota delle ‘tre fasi’ della filosofia bruniana), Limentani di fatto si collocava ormai nel solco di una tradizione ben più aperta alla dimensione storica di quanto non lo fosse stata la dottrina dei maestri padovani89. Con l’inizio dell’insegnamento a Firenze, che nel 1921 Limentani annunciava sarebbe stato in larga parte dedicato all’«esposizione della storia moderna dell’etica», si apriva insomma un orizzonte nuovo, fortemente segnato dall’incontro con lo ‘storicismo’ peculiare della tradizione fiorentina di cui si era alimentato anche Mondolfo (e con il quale Limentani avrebbe sempre più condiviso l’interesse per il lavoro storiografico)90. Rimaneva 87

L. LIMENTANI, Luci nuove nella storia della filosofia e della cultura classica, «Archivio di storia della filosofia italiana», V, 1936, pp. 335-350, ora in Un positivista eretico, cit., pp. 229-238 (qui p. 229). 88 Cfr. P. VILLARI, L’insegnamento della storia, ora in Teoria e filosofia della storia, cit., p. 181. 89 Cfr. L. LIMENTANI, La morale di Giordano Bruno, «Conferenze e prolusioni». XV, 1922, pp. 131-141 (ora in Un positivista eretico, cit., pp. 191205: qui p. 191). Su Limentani interprete di Bruno cfr. S. BASSI, Bruno secondo Bruno: le ricerche di Ludovico Limentani, «Rivista di storia della filosofia», L, 1995, pp. 617-644. 90 Sulla tradizione fiorentina da Villari a Tocco cfr. E. GARIN, La cultura italiana tra ’800 e ’900, cit., pp. 29-69, 81-106. Si vedano inoltre A. OLIVIERI, L’insegnamento della filosofia nell’Istituto di Studi Superiori di Firenze, «Annali dell’Istituto di Filosofia dell’Università di Firenze», IV, 1982, pp. 111151 e più recentemente M. CILIBERTO, La filosofia tra Pisa e Firenze, in

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senza dubbio «il legame inscindibile fra una filosofia immersa nei “conflitti” della vita individuale e sociale, e la ricchezza del divenire storico»91; ma proprio il terreno storiografico sembrava destinato a rivelarsi particolarmente fecondo, se è vero che dal Limentani ‘fiorentino’ sarebbe nato – anche sulla scorta delle sue preziose indagini sui moralisti inglesi – un indirizzo di ricerca che doveva trovare in Garin il suo più autorevole rappresentante e che avrebbe portato lo stesso Limentani, nel corso degli anni Trenta, a entrare in contatto con il Warburg Institute londinese e con le ricerche di Francis Yates92. Non era evidentemente un tragitto scontato per chi aveva mosso i primi passi della propria avventura filosofica seguendo le orme di Ardigò, nella Padova roccaforte di un positivismo già avviato al tramonto eppure non ancora sepolto dalle ‘rinascite’ del nuovo secolo, quando idealismi e pragmatismi magici, irrazionalismi e torbidi vitalismi «n’étaient d’accord – ricorderà Limentani insieme a Mondolfo nel 1936 – que dans leur hostilité contre le positivisme»93.

7. Dalle giovanili pagine su Helvétius alle mature indagini etiche molte posizioni erano mutate nel pensiero di Limentani. All’alba del Novecento le «idealità sociali», alle quali negli anni del positivismo trionfante Ardigò aveva affidato il compito di spianare il cammino alla «formazione naturale» della società, potevano ancora sedurre la gioventù di formazione positivistica vicina al socialismo; ed anzi era nello stesso movimento operaio che andaAA.VV., Le città filosofiche, cit., pp. 233-240. Sul periodo fiorentino di Limentani si sofferma R. SEGA, Studi su Limentani, cit., pp. 89-120. 91 E. GARIN, Sessanta anni dopo, in ID., La filosofia come sapere storico. Con un saggio autobiografico, Roma-Bari, Laterza 1990, p. 128. 92 Per i contatti con l’ambiente del Warburg cfr. S. BASSI, Bruno secondo Bruno, cit., pp. 630-647 (ove sono pubblicate le interessanti lettere scambiate tra Limentani e la Yates tra il 1938 e il 1939). Si veda pure S. BASSI, Intellettuali italiani al Warburg Institute 1937-1939, «Rivista di storia della filosofia», LIV, 1999, pp. 121-123 e R. SEGA, Studi su Limentani, cit., pp. 159-184. Per un apprezzamento del valore delle ricerche di Limentani sul Settecento inglese cfr. E. LECALDANO, I «moralisti inglesi» del Settecento nella recente storiografia italiana, «Rivista di filosofia», LXXVII, 1986, p. 311. 93 L. LIMENTANI-R. MONDOLFO, Formes et tendences actuelles du mouvement philosophique en Italie, «Revue de Synthèse», XII, 1936, pp. 141-161 (qui p. 141).

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va attenuandosi un certo determinismo fatalistico, spodestato da una più chiara consapevolezza della forza degli ideali e dei valori morali nel promuovere l’emancipazione dei lavoratori e il miglioramento della società94. Ma le querelles d’inizio secolo avevano rapidamente spiazzato gli eredi della ragione ottocentesca e gli apostoli ferventi dell’etica solidaristica; si erano incrinate le vecchie fedi in un sapere scientifico ridotto a celebrazione del fatto e si era consumata la possibilità di comprendere le trasformazioni impetuose della società contemporanea attraverso le lenti di un generico evoluzionismo. Il pragmatismo di Vailati, lo storicismo di Mondolfo, le revisioni del positivismo e l’esigenza di avviare nuove ricerche nel campo delle scienze dell’uomo avevano fatto il resto, e ne era uscita una maniera diversa di essere positivisti, che certo non fu ‘vincente’ eppure seppe dare prova di una certa vitalità95. Ma sullo sfondo vi era anche l’orizzonte europeo. La revisione critica della morale evoluzionistica risaliva agli ultimi due decenni dell’Ottocento, e soprattutto dalla vicina Francia erano giunti segnali ben chiari anche ai nostri positivisti. Basti pensare ad Alfred Fouillée, il teorico delle ‘idee-forza’ che aveva ammonito ad abbandonare l’attenzione prevalente per «les moeurs» e a riappropriarsi della «moralité», delineando una prospettiva alla quale si era già mostrato sensibile, ben prima di Limentani, un pensatore come Angiulli nell’ultima fase della sua attività96. Per parte sua Limentani era attratto anche dall’idea di recuperare, per rendere veramente fecondo il formalismo kantiano, «l’armonia dell’azione e del sentimento con il pensiero» su cui aveva insistito Fouillée97; ma più ancora di Fouillée era il suo allievo Jean-Marie Guyau a rappresentare un punto di riferimento importante nel clima inquieto d’inizio secolo, già segnato dall’incidenza della filosofia della vita e dell’opera di Nietzsche. A Guyau Limentani inneggiava sin dalle prime pagine del giovanile libro su Helvétius, e poi 94

Su questo punto si veda G. TURI, Aspetti dell’ideologia del P.S.I. (1890-1910), «Studi storici», XXI, 1980, pp. 61-94 (qui pp. 66-67). Cfr. inoltre R. ARDIGÒ, La morale dei positivisti, cit., pp. 127, 223 e passim. 95 Cfr. F. RESTAINO, Note sul positivismo in Italia, cit., p. 497. 96 Cfr. A. SAVORELLI, Positivismo a Napoli, cit., p. 234. 97 Cfr. A. FOUILLÉE, Critique des systèmes de morale contemporains, Paris, Baillère 1883, p. 239.

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lo chiamava in causa ripetutamente nei Presupposti formali della indagine etica, a conferma di quanto fosse sensibile nei confronti di una rifondazione della morale «scientifica» basata sul ruolo cruciale del sentimento, sulla vita che infinitamente si accresce potenziando lo slancio verso l’alter, ma pure rafforzando l’individualismo morale, sicché – a differenza di Kant – «la vera “autonomia” deve produrre l’originalità individuale e non l’uniformità universale»98. E sempre dall’ambiente francese attraversato dalla crisi del positivismo e dai primi successi dell’élan bergsoniano erano verosimilmente venute (secondo quanto ha suggerito Garin) le suggestioni di Frédéric Rauh, con la sua esortazione a liberare la vita morale dai vincoli dell’evoluzionismo in nome di una difesa del pluralismo e dell’autonomia dell’etica che sembra convergere per più di un aspetto con le preoccupazioni di Limentani99. Al di là di queste connessioni con la filosofia francese fin de siècle, l’autore più importante a cui Limentani si richiama è però Simmel, presente – come già si è avuto modo di sottolineare – in maniera massiccia nel volume del 1913 (e avvicinato sin dalla fase di preparazione della Previsione dei fatti sociali). Si tratta certamente di un Simmel diverso da quello che verrà introdotto in Italia da Antonio Banfi un decennio più tardi: non tanto il Simmel filosofo della vita e della Lebensanschauung, quanto il ‘primo’ Simmel che si muove all’incrocio tra positivismo e neokantismo, mostrando come il necessario svuotamento del Sollen kantiano di ogni contenuto universalistico lo renda aperto alla dimensione individuale, alla vita del soggetto psicologicamente determinato, imponendo all’attrezzatura dell’etica di Kant un riassestamento che le consente di saldare l’uomo intero, la sua vita e la sua individualità, a una forma che non è un ricettacolo vuoto, bensì un formare, un configurare attivo. Limentani, è vero, non seguiva 98

M. GUYAU, Esquisse d’une morale sans obligation ni sanction, Paris, Alcan 19036, p. 166. Su Limentani e Guyau cfr. anche E. GARIN, Tra due secoli, cit., p. 216 n. 21. 99 Cfr. F. RAUH, L’expérience morale, Paris, Alcan 1903; L’esperienza morale, trad. it. di D. Cuomo e B.M. D’Ippolito, Napoli, Guida 1977 (e si veda E. GARIN, Il pensiero di Ludovico Limentani, cit., p. 205). Sull’opera di Rauh si sofferma D. PARODI, La philosophie contemporaine en France. Essai de classification des doctrines, Paris, Alcan 1919, pp. 362-370 (che significativamente lamenta l’aspetto «anarchico» dell’esperienza morale teorizzata da Rauh in polemica con il positivismo sociologico).

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Simmel sino a questi esiti ormai prossimi alla ‘svolta’ vitalistica, e nemmeno coglieva tutte le implicazioni connesse al tema della «legge individuale»; ma certamente recepiva la pars destruens della riflessione simmeliana e la utilizzava per dare maggiore spessore al suo programma di ricostruzione dell’etica del positivismo100. Tuttavia, ritornando al dibattito filosofico italiano, andrà soprattutto rilevato il rapporto di discorde concordia di Limentani con altri ‘moralisti’, che consente di collocarlo accanto a Calderoni e Juvalta e che arricchisce ulteriormente il contributo offerto da questo insieme di ricerche sicuramente non omogenee, eppure solidali nell’abbozzare una trattazione innovativa della problematica morale. Al centro di tali ricerche vi è la delimitazione della filosofia morale a un ambito descrittivo e analitico, non prescrittivo: Il moralista – afferma Limentani – non può e non deve fornirci il criterio discriminativo della buona dalla cattiva condotta, ma costituire appunto il fatto di questa discriminazione a oggetto del proprio studio: non può e non deve fissare le regole del ben vivere, ma chieder alla esperienza, storica e quotidiana, quali regole – e attraverso quali processi – sieno o sieno state riconosciute come valide: la moralità non è un edificio 100

Cfr. G. SIMMEL, Einleitung in die Moralwissenschaft, cit., vol. III, pp. 63-64; ma da tener presenti sono pure le lezioni berlinesi su Kant tenute nei primi anni del Novecento: cfr. G. SIMMEL, Kant. Sechszehn Vorlesungen gehalten an der Universität Berlin, 4a ed. ampliata, München-Leipzig, Duncker & Humblot 1918; Kant. Sedici lezioni berlinesi, a c. di A. Marini e A. Vigorelli, Milano, Unicopli 1986 (e si veda M. MEZZANZANICA, Etica dell’individualità e filosofia della vita in Georg Simmel, in AA.VV., Etica e persona. Tra sentimento e ragione, a c. di I.A. Bianchi, Milano, Franco Angeli 2004, pp. 87-104). Per la prima fase del pensiero di Simmel si rimanda a V. D’ANNA, Georg Simmel. Dalla filosofia del denaro alla filosofia della vita, Bari, De Donato 1982 e soprattutto alla fondamentale monografia di K.CH. KÖHNKE, Der junge Simmel in Theoriebeziehungen und soziale Bewegungen, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1996. Sulla diffusione di Simmel in Italia cfr. E. GARIN, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti 1974, nuova ed. 1987, pp. 227-228, n. 20. In particolare su Banfi e Simmel cfr. L. PERUCCHI, Banfi e Simmel, in AA.VV., Banfi tra le due guerre: modernità e crisi, Firenze, Alinea 1998 («Annali dell’Istituto Banfi», vol. 4), pp. 85-108. Può anche essere utile ricordare che tra il 1907 e il 1910 Croce era interessato a far tradurre per le edizioni Laterza Die Probleme der Geschichtsphilosophie e lo Schopenhauer und Nietzsche; ma il progetto si arenò (cfr. B. CROCE-G. LATERZA, Carteggio 1901-1910, a c. di A. Pompilio, Roma-Bari, Laterza 2004, pp. 319, 763).

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ch’egli debba fondare o costruire, ma un territorio ch’egli deve riconoscere; la verità ch’egli cerca è verità di fatto, e i fatti che danno materia alla sua indagine debbono essere ricercati nella vita della coscienza e della convivenza umana, con l’intento non già di rendere gli uomini più buoni, ma di fornir loro una più profonda conoscenza di se medesimi101.

Non diversamente scrive Calderoni: La vita morale preesiste alla filosofia morale. Gli uomini hanno vissuto, sofferto, goduto, giudicato gli altri e se stessi, assai prima di riflettere alla natura intima di quei processi. Dal conflitto dei loro sentimenti e delle loro aspirazioni è nata la morale, che il filosofo trova in certo modo già fatta e ch’egli è costretto, entro certi limiti, a rispettare […]. Se egli influisce sulla morale, lo fa in quanto contrappone i propri sentimenti, le proprie aspirazioni a quelle altrui. Così facendo egli esprime delle valutazioni, o giudizi di valore, suoi propri. Ma le valutazioni non sono, come le credenze o i giudizi veri e propri, capaci di verità o falsità: la loro forza non dipende da nessuna teoria, filosofica o non filosofica. Nonostante l’opinione di Socrate, che la virtù sia conoscenza e il vizio errore, occorre riconoscere che esistono dei conflitti di tendenza, d’aspirazione, di ideale che non la conoscenza, ma solo l’educazione, la suggestione, l’abitudine possono sanare. Ed è da tali conflitti che nascono essenzialmente le questioni morali102.

Il posto della ragione nell’etica, il compito di delucidare non il valore ultimo dei fini, ma il complesso di relazioni che deriva dall’assunzione di determinati fini, ritorna con analoga lucidità anche in Juvalta: La ragione di per sé non comanda nulla – scrive nel 1905 nello studio Per una scienza normativa morale –; né l’egoismo, né l’altruismo, né la giustizia. La ragione cerca e mostra, se le riesce, i mezzi che servono a conservar la vita a chi la vuol conservare, a distruggerla a chi la vuol distruggere; addita ai pietosi le vie della pietà, ai giusti le vie della giustizia,

101

Il Vero nella Morale, cit., p. 187. Cfr. anche PFIE, 520-521. M. CALDERONI, Il filosofo di fronte alla vita morale, in Scritti, cit., vol. II, pp. 341-342 (è il testo di una conferenza tenuta alla Biblioteca filosofica di Firenze nel febbraio 1911). Sull’impianto descrittivo della filosofia morale di Calderoni cfr. M. MORI, La filosofia morale e l’etica marginalistica di Calderoni, in AA.VV., Il pensiero di Mario Calderoni (1879-1914), fasc. monografico della «Rivista critica di storia della filosofia», XXXIV, 1979, pp. 367-386. 102

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e le vie del proprio tornaconto agli uomini senza scrupoli. Ma l’egoismo non è per sé più “razionale” dell’altruismo, né il regresso più razionale del progresso, né la conservazione dell’individuo più razionale di quella della specie, né l’utile proprio più razionale che l’utile della collettività. Razionali non sono i fini, ma le relazioni dei mezzi ai fini […]. Qui è questione non di fare, ma di sapere quel che convenga fare, chi si proponga e ammesso che si proponga un certo fine103.

Partendo da questi presupposti comuni Limentani, Calderoni e Juvalta irradiavano le loro ricerche mettendo capo a soluzioni diverse, che tuttavia si annodavano intorno a problemi sempre ricorrenti: dalla natura dei rapporti tra agire economico ed agire morale alle relazioni tra la condotta individuale e il contesto sociale, sino al tentativo – da ciascuno perseguito autonomamente – di assicurare alla filosofia morale la comunicazione con altre discipline, fossero queste la psicologia, la sociologia o l’economia. Né andrà taciuto il rapporto dei nostri ‘moralisti’ con il ‘divisionismo’ di ascendenza humeana che aveva trovato in Vailati – così attento alla delimitazione dell’ambito propriamente assiologico – un interprete particolarmente acuto (anche se varrebbe la pena di chiedersi quale sarebbe stato il giudizio vailatiano sull’etica di Limentani). Del resto lo stesso Vailati aveva insistito sulla necessità di svincolare i postulati logico-matematici dall’«autoritarismo» dei principi immutabili: proprio la sua analisi pragmatista del linguaggio scientifico legittimava insomma un’analoga tolleranza metodica anche nelle scienze morali, alle quali è indispensabile il pluralismo dei valori così come è indispensabile per il matematico la possibilità di usare geometrie diverse da quella euclidea104. Non mancavano dunque, nelle indagini di studiosi come Limentani (o come Calderoni e Juvalta), gli strumenti affinati e i nessi con un dibattito che travalicava i confini della problematica morale105: se ne potranno anche rilevare i limiti e le incertezze non risolte, le oscillazioni e le ingenuità, ma questo non può legittimare la pretesa di conferire all’idealismo crociano e gentiliano la patente di una supposta superiorità ‘speculativa’. Del resto, chi 103

E. JUVALTA, I limiti del razionalismo etico, cit., pp. 142-146. Cfr. G. VAILATI, Scritti, cit., pp. 626-629, 659-666, 689-694. 105 Cfr. A. SANTUCCI, Il pragmatismo in Italia, cit., p. 299. 104

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metta mano alla Filosofia della pratica di Croce troverà soluzioni che francamente non appaiono irresistibili, specie quando la moralità dell’uomo viene dissolta in una provvidenzialistica «coscienza di lavorare per il Tutto»106; e di qui potrebbe nascere il legittimo sospetto che anche al di fuori delle impalcature della Filosofia dello Spirito vi fosse spazio, nel primo Novecento italiano, per un solido lavoro di analisi. A dire il vero lo stesso Croce seppe trovare, altrove, ben altra ispirazione; e quando consegnò ai Frammenti di etica il messaggio assai più persuasivo della sua religione laica non immemore della lezione di Montaigne, o quando esortò a non cercare nelle consolazioni ultraterrene il senso della vita terrena che sola veramente «si brama», accolse certamente un’immagine della vita e dei conflitti umani che sembra conciliabile con i «valori spirituali del positivismo»107. Tuttavia queste convergenze non devono offuscare l’interesse che ricerche come quelle di Limentani possono suscitare e che si inseriscono in una zona della nostra cultura filosofica certamente marginale, ma non così marginale da meritare di essere espunta dalla memoria storica. Provenienti dal positivismo, dal pragmatismo o da un kantismo riformato Limentani e Calderoni, Juvalta e in parte Vailati avevano avanzato proposte di lavoro spesso più valide di altre, rifuggendo l’impianto sistematico e avvicinando ‘sul campo’ questioni particolari: forse mancò loro, più che la solidità dell’analisi, il raccordo ai valori etico-politici che un’epoca inquieta perentoriamente esigeva e impietosamente vagliava. Questo può spiegare perché le loro ricerche siano rimaste confinate in un ambito sem106 B. CROCE, Filosofia della pratica. Economia ed etica, Bari, Laterza 197311, p. 305. 107 Cfr. B. C ROCE, Frammenti di etica, poi in Etica e politica, Bari, Laterza 1973 2, p. 22. Sui «valori spirituali del positivismo» si ha qui presente G. PRETI, Idealismo e positivismo, Milano, Bompiani 1943, pp. 235-259 («La nostra vita di uomini è vita di lavoro e sofferenza, non di gloria – soli Deo gloria; lavoro e sofferenza significa che non si crea con la certezza che ciò che si fa abbia un valore eterno, ma si costruisce faticosamente ciò che si sa che sarà distrutto: costruiamo una casetta per noi, non un monumentum aere perennius»). Sui rapporti tra idealismo e positivismo cfr. inoltre A. LEVI, Riflessioni sul problema della giustizia, cit., p. 100; sulla vicinanza di Limentani ai Frammenti di etica crociani insiste anche D. PESCE, Forma e contenuto della vita morale nell’indagine di Limentani, cit., p. 584.

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pre più appartato, eredi di quella «civiltà collaborativa» preconizzata dal progetto vailatiano con un’anticipazione che fu lucida e coraggiosa, ma destinata a scontare un’irrimediabile sfasatura storica108. Di questa vicenda, tuttavia, non si tratta di fornire una ricostruzione in chiave polemica, ipotizzando magari i possibili sbocchi di una storia riscritta con i ‘se’, quanto di ripercorrerla tenendo presente gli spunti interessanti, e a volte ingiustamente dimenticati, che l’hanno alimentata in anni ormai molto lontani.

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Sulla «civiltà collaborativa» di Vailati cfr. F. ROSSI LANDI, Nota introduttiva a G. VAILATI, Il metodo della filosofia. Saggi di critica del linguaggio, Bari, Laterza 1967, p. 21. Cfr. inoltre G. LANARO, Introduzione a G. VAILATI, Scritti filosofici, Firenze, La Nuova Italia 1980, specie pp. 29-30.

5 GIOVANNI VAILATI E L’EPISTEMOLOGIA EUROPEA DEL PRIMO NOVECENTO* 1. È difficile affrontare un qualsiasi aspetto dell’opera di Giovanni Vailati senza tener conto – osservava nel 1963 Eugenio Garin, commemorando il filosofo di Crema nel primo centenario della nascita – dello «strano caso che egli rappresenta nella vicenda italiana»1. «Strano caso», innanzi tutto, perché difficilmente riducibile a classificazioni troppo rigide, anche per quanto riguarda il suo pragmatismo; «strano caso», inoltre, perché la sua opera, così sobria e lucida, e al tempo stesso lontana dai pressapochismi e dalla retorica di tanta filosofia accademica a cavallo tra Ottocento e Novecento, si distingue inconfondibilmente nella cultura italiana del tempo; e «strano caso», infine, perché nella produzione di Vailati si incontrano temi, autori, prospettive e aperture che appartengono ai momenti ‘alti’ della cultura filosofica e scientifica europea. Non si dice del resto nulla di nuovo quando si sottolinea che proprio quest’ultimo aspetto ha fatto e continua a fare di Vailati una figura di grande interesse, per molte ragioni eccentrica rispetto all’ambiente italiano e più vicina se mai a esperienze già affermatesi, o che si sarebbero affermate nei decenni successivi, nel panorama della ‘filosofia scientifica’ internazionale2. Certamente sarebbe fuori luogo, oltre che discutibile * In questo capitolo e in quello seguente ci riferiremo all’edizione del 1911 degli Scritti di Giovanni Vailati indicandoli semplicemente come Scritti, seguiti dal rimando alle pagine citate. 1 E. GARIN, Giovanni Vailati nella cultura italiana del suo tempo, «Rivista critica di storia della filosofia», XVII, 1963, pp. 275-293, poi in Intellettuali italiani del XX secolo, cit., pp. 69-95 (qui p. 70). 2 Si vedano ad esempio i (seppur brevi) riferimenti a Vailati svolti da R.

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sotto il profilo storico, voler fare a tutti i costi di Vailati un precursore, così come sembrano esaurite le motivazioni di carattere più generale (e comprensibili nel quadro della discussione filosofica italiana successiva all’uscita di scena dell’idealismo dopo il 1945) volte a scorgere in Vailati lo sconfitto, l’emarginato da una vera e propria ‘dittatura’ filosofica, l’eroe e il portavoce di un’alternativa culturale tanto valida quanto purtroppo minoritaria. In realtà, al di là delle discussioni sulla fortuna e sulla sfortuna della sua opera3, Vailati va letto, apprezzato e collocato in un quadro storico ben definito, guardando ai suoi meriti – e là dove sia necessario ai suoi limiti – sulla base di un riscontro preciso dei testi e di un’individuazione puntuale dei momenti in cui si articola la sua opera: momenti che sono diversi, anche cronologicamente, e che non è detto debbano per forza essere ridotti a un denominatore unico. Lo «strano caso» di Vailati è, in fondo, anche questo; e forse è a partire da questo carattere, più stratificato e complesso di quanto non si creda abitualmente, che si potrà dare ragione dei motivi che hanno «bloccato» la sua incidenza e che ne hanno influenzato la ricezione4. Per avvicinarsi all’opera di Vailati vi sono accessi diversi: la si può considerare in connessione con le ricerche di logica di Giuseppe Peano e della sua scuola; la si può studiare alla luce HALLER, Neopositivismus. Eine historische Einführung in die Philosophie des Wiener Kreises, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1993, pp. 4647, 152. Come noto il nome di Vailati, accanto a quello di Peano, Enriques e Pieri, compare anche nel celebre manifesto del Circolo di Vienna: cfr. R. CARNAP, H. HAHN, O. NEURATH, Wissenschaftliche Weltauffassung, Wien, Artur Wolf Verlag 1929, p. 13; La concezione scientifica del mondo, in Il Circolo di Vienna, a c. di M. Ferrari, Firenze, La Nuova Italia 2000, p. 23. Per un primo approccio alla storia della ‘filosofia scientifica’ si vedano i contributi raccolti nel volume Scientific Philosophy: Origins and Developments, a c. di F. Stadler, Dordrecht-Boston-London, Kluwer 1993, pp. 1-228. 3 Cfr. M.T. CANDALESE, Sulla “non” fortuna di Vailati e il suo significato storico-politico, «Rivista di filosofia», LXX, 1979, pp. 281-297. Per un bilancio degli studi su Vailati si vedano i contributi raccolti in Giovanni Vailati nella cultura del ’900, a c. di M. Quaranta, Bologna, Forni 1989; ma è pure da tener presente G. LANARO, Per una rilettura del rapporto tra Vailati e la filosofia italiana, in AA.VV., I mondi di carta di Giovanni Vailati, a c. di M. De Zan, Milano, Franco Angeli 2000, pp. 32-36. 4 Cfr. E. GARIN, Giovanni Vailati nella cultura italiana del suo tempo, cit., p. 70. Si veda anche M. DE ZAN, Vailati letto dai contemporanei, in I mondi di carta di Giovanni Vailati, cit., pp. 37-49.

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dell’avventura pragmatistica nella cultura italiana del primo Novecento e dei rapporti con gli enfants terribles Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini; la si può cogliere nella rete degli scambi intellettuali consegnati a quella testimonianza eccezionale che è l’epistolario; la si può guardare, infine, collocandosi in una prospettiva che ne accentui le implicazioni pratico-morali e l’attenzione per le scienze del mondo umano, non senza tener presente la divaricazione tra piano conoscitivo e piano valutativo che Vailati ebbe sempre a sottolineare. Ma all’interno di questa pluralità di prospettive ve ne è una che sembra particolarmente interessante al fine di delineare un profilo meno scontato di Vailati. Per usare un’espressione che Vailati impiegò nel 1906 recensendo i Problemi della scienza di Federigo Enriques, si tratta di mettere a fuoco l’«attitudine tutta nuova» che consiste nell’affrontare la «portata filosofica» dell’impresa scientifica non considerandola più come il frutto di una sorta di «automatismo» intellettuale, ignaro dei suoi metodi e degli strumenti di cui si serve nel compiere il proprio lavoro. A questa «attitudine nuova» Vailati assegnava un ruolo decisivo nel panorama della cultura filosoficoscientifica internazionale, citando una serie di nomi il cui elenco costituisce da solo un’indicazione più che eloquente: da Henri Poincaré a Ernst Mach, da Pierre Duhem a William S. Jevons, da Karl Pearson a William Clifford, da Gaston Milhaud allo stesso Enriques5. Non si trattava, del resto, di un richiamo generico: forse nessuno meglio di Vailati aveva allora dimestichezza, in Italia, con le pagine di quegli autori, e certamente nessuno meglio di Vailati poteva vantare a questo proposito – come ricordava nel 1911 Giovanni Amendola – di essere stato sovente «il primo a parlare di cose che si discutevano altrove, senza tuttavia darsi l’aria di far rivelazioni»6. Né si deve scordare che di alcune figure 5

La recensione al volume di Enriques, apparsa sul «Leonardo» nell’agosto 1906, è ripubblicata negli Scritti, 721-725. Sulla grande «famiglia» dei «fisico-matematici che si preoccupano di questioni filosofiche» cfr. anche la lettera di Vailati ad Amato Pojero del 12 ottobre 1904 pubblicata in G. VAILATI-G. AMATO POJERO, Epistolario, cit., p. 149. 6 G. AMENDOLA, Gli scritti di Giovanni Vailati, «Nuova Antologia», XLVII, n. 941, marzo-aprile 1911, p. 77 (ora anche in G. AMENDOLA-L. EINAUDI-N. BOBBIO, Scritti su Giovanni Vailati, a c. di M. De Zan, Crema, Leva Artigrafiche 1999, p. 11).

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prestigiose della filosofia scientifica europea a cavallo dei due secoli – di questa straordinaria stagione intellettuale che ancora attende un’auspicabile ricostruzione d’insieme – Vailati fu interlocutore diretto e apprezzato, grazie anche ai contatti internazionali della scuola di Peano che gli consentirono di inserirsi in una fitta trama di scambi intellettuali, in primo luogo per quanto riguarda le ricerche logico-matematiche: tanto che, per fare un solo esempio, Bertrand Russell conosceva bene (secondo quanto riferiva Mario Calderoni a Vailati nel gennaio 1903) «tutti» i suoi lavori e lo «ammira[va] moltissimo»7. In quel «moto di avvicinamento tra Scienza e Filosofia» che aveva l’ambizione di sollevare la scienza «a una concezione sempre più elevata e filosofica» Vailati era insomma un protagonista, non un semplice spettatore; e per questo era in grado di dialogare autorevolmente con gli esponenti più in vista di una «tendenza» ormai affermatasi nel panorama internazionale, persino nella Germania precedentemente «teatro delle più selvagge orgie della speculazione astratta» (Scritti, 419).

2. Alle origini della connessione con l’«attitudine nuova» nei confronti dell’impresa scientifica spicca soprattutto il nome di Mach, il quale ebbe indubbiamente un ruolo centrale nell’impostazione del programma di lavoro che Vailati venne elaborando negli ultimi anni dell’Ottocento nei corsi di storia della meccanica tenuti all’Università di Torino. Del resto era lo stesso Vailati a riconoscere il debito con la «storia della meccanica» del «prof. Ernesto Mach»8, e nel novembre 1896 egli inviava all’autore della «pregevole opera» una lettera scritta in francese, in cui dichiarava di volersi «placer au point de vue général qui est représenté dans votre magistrale ouvrage sur ce sujet», auspican7

Cfr. G. VAILATI, Epistolario, cit., p. 648. Due cartoline postali di Vailati a Russell, rispettivamente del 28 giugno 1901 e del 10 giugno 1903, sono pubblicate ora da M. DE Z AN, I carteggi europei di Vailati, «Annuario del Centro Studi Giovanni Vailati», II, 2004, pp. 44-45. Sui rapporti con Russell, in specie sul terreno della logica delle relazioni, cfr. L. PIERSANTI, Vailati e Russell, in I mondi di carta di Giovanni Vailati, cit., pp. 112-130. 8 Cfr. la prolusione torinese del 4 dicembre 1896 Sull’importanza delle ricerche relative alla storia delle scienze, poi in Scritti, 70.

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do peraltro che essa venisse rapidamente pubblicata in lingua italiana9. Non è questa la sede per analizzare in qual misura l’opera di Mach abbia inciso sull’impostazione dell’analisi storica che Vailati conduce sul «mondo di carta» delle idee scientifiche e della dinamica che ne governa lo sviluppo, via via mettendo a fuoco non solo l’importanza della storia della scienza in generale, ma anche illuminandone con contributi esemplari singoli momenti (da Aristotele a Benedetti, da Leibniz a Saccheri)10. Si deve però sottolineare che l’incontro con Mach avviene anche in forza di un’attenzione particolare per quella che lo stesso Vailati chiama – recensendo sempre nel 1896 le Populär-wissenschaftliche Vorlesungen – la «psicologia dei metodi scientifici» e, più in generale, per il tema cruciale di come la struttura del ragionamento scientifico possa compendiarsi in simboli e processi dimostrativi formalizzati, capaci di «sgravare […] la memoria e l’intelligenza umana da ogni peso e lavoro inutile, rendendo possibile la loro sempre crescente utilizzazione per le funzioni più importanti ed essenziali»11. Se nella fase iniziale del pensiero di Vailati hanno un’influenza decisiva la logica di Peano da un lato e la presa di 9

Epistolario, cit., p. 113. Sul contributo di Vailati alla storia della scienza cfr. F. RESTAINO, Di alcune tesi storico-metodologiche vailatiane nelle due prolusioni del 1896 e 1897, «Rivista critica di storia della filosofia», XVIII, 1963, pp. 363-373; E. DI STEFANO-M. FRASCA SPADA-P. FREGUGLIA, Vailati e la storia della scienza: questioni metodologiche, in AA.VV., Giovanni Vailati nella cultura del ’900, cit., pp. 23-36 e M.P. NEGRI, La storia delle scienze nelle ricerche di Giovanni Vailati, in I mondi di carta di Giovanni Vailati, cit., pp. 192-222. Manca tuttavia una ricostruzione organica dell’opera di Vailati in questo campo e una sua collocazione nel panorama europeo tra Ottocento e Novecento. 11 Scritti, 42 (la recensione era uscita originariamente sulla «Rivista sperimentale di frenatria»); una seconda recensione della medesima opera apparve alla fine del 1896 sulla «Rivista di studi psichici» (Scritti, 60-63). È significativo del resto che, nel 1897, nella lettura introduttiva al corso di storia della meccanica a Torino, Vailati presentasse i vantaggi del Metodo deduttivo come strumento di ricerca (tema di per sé lontano da Mach) sottolineando «la capacità che ha la deduzione di semplificare e facilitare la descrizione e la caratterizzazione dell’andamento dei fenomeni al cui studio si applica, permettendoci di rappresentare nella nostra mente le leggi, che li regolano, mediante un minimo numero di proposizioni generali, abbraccianti ciascuna un insieme il più possibilmente esteso di fatti particolari e di casi speciali, apparentemente eterogenei» (Scritti, 143). 10

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distanza dagli esiti materialistico-deterministici del positivismo in forza di un atteggiamento affine a quello di John Stuart Mill dall’altro, non vi è dubbio tuttavia che su questo tronco si innesti anche – all’epoca delle prolusioni torinesi – la prospettiva machiana di una considerazione dei concetti scientifici come strumenti artificiali atti a facilitare la comprensione dei fenomeni naturali, nonostante il netto rilievo attribuito da Vailati alla funzione e al valore del metodo ipotetico-deduttivo non consenta di ridurre Vailati alla prospettiva pura e semplice di Mach12. Ma Vailati non sposa solo, attraverso il filtro decisivo di Peano, il ‘principio di economia’ di Mach (e la sua impostazione antimetafisica)13. Nelle recensioni delle opere machiane che egli scrive tra la fine del secolo e gli inizi del Novecento emergono, infatti, almeno altri tre aspetti di rilievo. In primo luogo Vailati mostra interesse per il complesso delle indagini psico-fisiologiche di Mach, soprattutto così come esse sono presentate nel volume sull’Analyse der Empfindungen, di cui Vailati recensisce la seconda edizione agli inizi del 1901 insistendo, più che sulla «trattazione di questioni psicologiche speciali», sulle implicazioni «d’indole generale e filosofica» connesse al superamento dell’opposizione tra fisico e psichico e all’analisi del «meccanismo delle facoltà intellettuali»14. In secondo luogo Vailati mostra simpatia, benché in forma molto cursoria, per l’attacco di Mach agli 12

Sull’importanza di Mach per l’atteggiamento critico di Vailati nei confronti del positivismo cfr. G. LANARO, Vailati e il positivismo, in AA.VV., Il positivismo e la cultura italiana, cit., specie pp. 248-249. Sul rapporto con Peano si veda inoltre F. BARONE, Un’apertura filosofica della logica simbolica peaniana, nel volume collettaneo In memoria di Giuseppe Peano, Cuneo, Presso il Liceo Scientifico Statale 1955, pp. 46-50. 13 Si veda in tal senso la conclusione della prima prolusione torinese sulla storia della scienza, dove Vailati osserva che i progressi nella storia della meccanica sono riportabili alla crescente capacità di organizzazione del materiale empirico in «ricettacoli» che sappiano rinunciare sempre più all’«impiego di concetti e di appelli diretti all’esperienza o all’intuizione», ovvero realizzando la «massima possibile economia di quel preziosissimo tra i materiali del mondo che è il pensiero dell’uomo» (Scritti, 78). 14 La recensione uscì sulla «Rivista di biologia generale» ed è raccolta negli Scritti, 346-350 (cfr. E. MACH, Die Analyse der Empfindungen und das Verhältnis des Physischen zum Psychischen, Jena, Fischer 1900; L’analisi delle sensazioni e il rapporto tra fisico e psichico, a c. di L. Sosio, Milano, Feltrinelli 1975).

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Scheinprobleme, agli pseudo-problemi tradizionali della filosofia – come quello appunto del dualismo tra anima e corpo, tra fisico e psichico – e che sono assimilabili all’ingenua domanda di un bambino sul luogo in cui risiede «il vento quando non soffia»15. In questo contesto la posizione di Mach pare a Vailati confermata dai «progressi della psicologia moderna» fino a James, progressi che hanno d’altra parte le loro radici nelle «classiche analisi di Hume»; ma è anche vero che – sollecitato da Franz Brentano, per parte sua del tutto insoddisfatto del fenomenismo machiano e delle sue strette parentele con quello di Kant – Vailati confessava di non essere pienamente convinto della posizione di Mach. «Sulla questione della distinzione tra fenomeni fisici e psichici – scriveva a Brentano – neppure io approvo interamente le vedute del prof. Mach, e credo che egli semplifichi troppo la questione, la quale è assai più complessa (anche dal lato psicologico e genetico) di quanto egli mostra di credere»: tant’è vero che era meglio rivolgersi al problema della credenza nell’esistenza dei corpi e del mondo esterno, mettendo se mai a frutto le analisi del filosofo ungherese Gyula Pikler16. In terzo luogo Vailati fa sua la critica di Mach alla «mitologia meccanica» e su questa base delinea un’immagine della scienza non ancorata a teorie o ipotesi alle quali si debba rimanere debitori una volta per tutte: esse piuttosto vanno «abbandonate senza pietà e senza rimorso non appena vengono riconosciute inadeguate all’ufficio pel quale sono state foggiate» (Scritti, 63). Le ipotesi – sottolinea ancora Vailati – 15

Così nella seconda recensione alle Populär-wissenschaftliche Vorlesungen ricordata più sopra (Scritti, 61, a cui ci riferiamo anche nel seguito). 16 Epistolario, cit., p. 288 (lettera a Brentano del 24 maggio 1901). Si vedano inoltre le lettere di Brentano a Vailati del 18 e 26 aprile 1901, scritte dopo la lettura della recensione vailatiana dell’Analyse der Empfindungen e pubblicate in The Brentano-Vailati Correspondence, a c. di R.M. Chisholm e M. Corrado, «Topoi», I, 1982, pp. 3-30 (qui pp. 27-28). Il libro di Pikler, in più occasioni citato da Vailati con ammirazione, è The Psychology of the Belief in objective Existence, London, Williams and Norgate 1890, che per Vailati rappresentava addirittura «il più importante passo fatto, dopo Berkeley, verso quella che il James chiama la concezione pragmatista dell’universo» (Scritti, 792). Una ricostruzione dei rapporti tra Pikler e Vailati, anche sulla base del carteggio inedito conservato nel Fondo Vailati, resta per ora un desideratum (per la descrizione del carteggio cfr. L’archivio Giovanni Vailati, a c. di L. Ronchetti, Milano, Cisalpino-Istituto Editoriale Italiano 1998, p. 86).

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hanno una «validità puramente relativa e, per dir così, solo locale» (Scritti, 348); ma questo non significa che per Vailati la scienza fisica possa ridursi alla descrizione dei fenomeni e debba rinunciare alla loro spiegazione causale, se con questo termine non si intende altro che la condizione «invariabile» data la quale un determinato fenomeno si verifica. Su questo punto, dunque, dietro l’ideale puramente ‘descrittivo’ di Gustav Kirchoff e dello stesso Mach si cela a giudizio di Vailati un equivoco, che imputa ai «meccanici» l’impossibilità di spiegare anche quando essi effettivamente spiegano causalmente i fenomeni fisici17. È bene però precisare che il rapporto di Vailati con Mach è essenzialmente affidato alle sparse osservazioni contenute nelle recensioni delle sue opere o negli accenni svolti nelle lettere. Un tentativo di ricostruzione più organico dell’epistemologia machiana – come del resto di altre posizioni epistemologiche influenti – è invece assente negli scritti di Vailati, così come è assente un’analisi più circostanziata degli aspetti dell’opera di Mach che hanno potentemente contribuito alla sua incidenza nelle vicende della filosofia scientifica tra Ottocento e Novecento sino alle origini dell’empirismo logico viennese (basti pensare, ovviamente, alla celebre critica dello spazio e del tempo assoluti newtoniani o, per un altro verso, alle polemiche sull’atomismo)18. Piuttosto Vailati sembra interessato a valorizzare l’opera di Mach alla luce della sua consonanza con le «teorie pragmatistiche»; ma bisogna anche aggiungere che questo avviene più tardi rispetto ai testi a cui ci siamo riferiti, e precisamente nel 1905 – l’anno in cui 17

Cfr. in proposito la lettera di Vailati a Pojero del 26 luglio 1898 pubblicata in G. VAILATI-G. AMATO POJERO, Epistolario, cit., specie p. 36. 18 Si tratta tuttavia di un limite che non è imputabile solo a Vailati, ma che sembra condiviso anche da altri esponenti della cultura filosofica italiana: cfr. in particolare F. DE SARLO, La conoscenza scientifica secondo Mach, «La Cultura Filosofica», I, 1907, pp. 2-9. Tra i più recenti contributi sull’opera di Mach si vedano i volumi Ernst Mach. Werk und Wirkung, a c. di R. Haller e F. Stadler, Wien, Hölder-Pichler-Tempsky 1988 ed Ernst Mach - A Deeper Look. Documents and New Perspectives, a c. J. Blackmore, Dordrecht-Boston-London, Kluwer 1992. Su Mach e il Circolo di Vienna cfr. pure F. STADLER, Studien zum Wiener Kreis. Ursprung, Entwicklung und Wirkung des Logischen Empirismus im Kontext, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1997, pp. 132-167, nonché i materiali raccolti in Ernst Mach’s Vienna 1895-1930 or Phenomenalism as Philosophy of Science, a c. di J. Blackmore, R. Itagaki e S. Tanaka, Dordrech-Boston-London, Kluwer 2001.

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Mach pubblica Erkenntnis und Irrtum19. Già nell’agosto del 1905, commentando il nuovo libro dello scienziato-filosofo austriaco, Vailati scriveva a Papini: «Mi pare sia lo scritto più filosofico di tutti quelli di Mach. È interessantissimo anche perché prende decisamente una posizione pragmatistica; in certi punti sarebbe curioso contrapporre ciò che dice alle corrispondenti frasi del James; sembrerebbero l’una la traduzione dell’altra»20. Di lì a poco, recensendo il volume di Mach, Vailati insisteva nuovamente su questo punto e sottolineava un aspetto della riflessione machiana che gli sembrava singolarmente affine alle preoccupazioni del ‘pragmatismo logico’. A giudizio di Vailati, infatti, rispetto ad altri testi veniva qui ridimensionato il tema di matrice evoluzionistica della ricerca scientifica come un processo di «adattamento» tra le rappresentazioni mentali e tra le rappresentazioni e i fatti; ora invece la legge naturale veniva intesa come una «limitazione» delle nostre aspettative e delle nostre previsioni, spostando così l’accento su ciò che potrebbe o non potrebbe avvenire una volta che si verificassero certe circostanze21. In tal 19

Cfr. E. MACH, Erkenntnis und Irrtum. Skizzen zur Psychologie der Forschung, Leipzig, Barth 1905; Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca, a c. di A.G. Gargani, Torino, Einaudi 1982. Vailati recensì il libro di Mach sul fascicolo del «Leonardo» dell’ottobre-dicembre 1905 (Scritti, 667-670). Va detto inoltre che Vailati si adoperò per una traduzione dell’opera di Mach, ma l’iniziativa – dopo varie vicissitudini – non ebbe successo, nonostante ancora nel 1914 l’editore Sandron di Palermo ne annunciasse la prossima pubblicazione (cfr. E. GARIN, Giovanni Vailati nella cultura italiana del suo tempo, cit., pp. 74-75 n. 12). 20 Epistolario, cit., p. 429; sull’«evoluzione del Mach in senso pragmatistico» cfr. anche la lettera di Vailati a Pojero del 7 agosto 1905 in G. VAILATI-G. A MATO POJERO, Epistolario, cit., p. 163. Per un altro parallelo tra James e Mach a proposito della comune visione dei concetti «come dei semplici strumenti per afferrare la realtà» si veda la recensione di alcuni articoli di James apparsa nel 1905 sulla «Rivista di psicologia applicata» (Scritti, 578). Ma in verità il giudizio di Mach sul pragmatismo di James, del quale apprezzava invece moltissimo The Principles of Psychology, era decisamente critico: cfr. la lettera ad Anton Thomsen del gennaio 1911 pubblicata in Ernst Mach als Aussenseiter. Machs Briefwechsel über Philosophie und Relativitätstheorie mit Persönlichkeiten seiner Zeit, a c. di J. Blackmore e K. Hentschel, Wien, Braumüller 1985, p. 86. 21 Scritti, 669-670. Su questo punto Vailati aveva richiamato l’attenzione pochi mesi prima, e con esplicito riferimento a Mach, anche nell’articolo Sull’arte di interrogare (Scritti, 572-576). Bisogna però notare che in Erkenntnis und Irrtum (come ben si vede dai primi capitoli) la componente biologico-

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modo, affermava Vailati cogliendo con acutezza un aspetto non sempre adeguatamente riconosciuto, la posizione epistemologica di Mach non si lasciava inquadrare nella positivistica aderenza ai «fatti osservati»: la mente opera piuttosto con costruzioni ideali, elabora ipotesi che sembrano discordare dalla realtà, si avvale sistematicamente della deduzione e ricorre anche all’uso dell’«immaginazione», contravvenendo così a una visione dell’attività intellettuale come «semplice apparato registratore o tutt’al più classificatore, discriminatore, digerente, dei dati che l’esperienza ci offre»22. Sarà questo, del resto, un motivo ricorrente degli ultimi interventi di Vailati su Mach, ivi compresa la presentazione del 1909 alla traduzione italiana dei Principi della meccanica, nella quale verrà formulata un’interpretazione dichiaratamente strumentalista della concezione ‘economica’ di Mach: onde per Mach il valore delle teorie è pari a quello di ogni altro strumento, la cui efficacia si misura «dal servizio» reso, dalla fatica risparmiata, «dalla sicurezza e dall’estensione dei risultati a cui esse ci portano»23. Ma questi risultati sono a loro volta il frutto di un ‘lavoro mentale’ che assume, per Vailati, una valenza fortemente critica nei confronti di un mero fattualismo o di un puro e semplice induttivismo; e non a caso il richiamo agli «esperimenti mentali» messi in rilievo da Mach ritorna con insistenza forse maggiore proprio nel Vailati della stagione pragmatista, per sottolineare come il processo della ricerca scientifica che muove dalle «ipotesi idealizzatrici e semplificatrici» non debba necessariamente aver riscontro nella «realtà delle cose». Al contrario, esso «arriva appunto evoluzionistica era ancora chiaramente presente; ma anche qui Vailati operava una lettura molto selettiva, dettata dall’esigenza di trovare in Mach un proprio alleato. 22 Scritti, 668. Sul ruolo della «fantasia» cfr. E. MACH, Erkenntnis und Irrtum, cit., pp. 318-319; trad. it. cit., p. 312. Si veda inoltre il saggio di R. HALLER, Poetische Phantasie und Sparsamkeit - Ernst Mach als Wissenschaftstheoretiker, in Ernst Mach. Werk und Wirkung, cit., pp. 342-355. 23 L’introduzione ai Principii della meccanica esposti criticamente e storicamente nel loro sviluppo, Roma-Milano, Albrighi Segati 1909 è ristampata negli Scritti, 912-914. Sul fatto che i concetti della meccanica abbiano «il carattere di strumenti il cui valore dipende unicamente dal servizio che ci rendono» Vailati aveva già richiamato l’attenzione nella prima prolusione torinese (Scritti, 75).

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per mezzo di deduzioni, e per mezzo di quelli che sono stati recentemente chiamati (da Mach) esperimenti di pensiero (Gedankenexperimente), ad analizzare, a comprendere, a dominare [la realtà delle cose], e a scoprire in essa e al disotto di essa, indipendentemente dal ricorso all’esperienza, regolarità, leggi, norme, che l’osservazione diretta e passiva sarebbe stata per sempre incapace a rivelare»24.

3. Il tentativo di leggere gli esiti più recenti della discussione epistemologica internazionale alla luce del punto di vista pragmatista segna vistosamente anche i confronti che in quegli anni – sostanzialmente tra il 1905 e il 1906 – Vailati avvia con l’opera di Duhem, di Poincaré o dello stesso Enriques, inserendosi tempestivamente nella ricezione europea del pragmatismo all’interno della filosofia scientifica25. Si tratta, anche in questo caso, di brevi recensioni, tutte apparse significativamente sul «Leonardo» con un intento «spiccatamente divulgativo»26 e per giunta non così ampie da consentire una vera e propria discussione critica; esse restano tuttavia il documento più importante del rapporto intrattenuto da Vailati con l’epistemologia europea del primo Novecento e richiedono pertanto di essere brevemente analizzate. Prendiamo innanzi tutto il caso di Duhem, di cui Vailati apprezzava in primo luogo il contributo nel campo della storia della scienza, come è attestato dalle opere di Duhem in suo possesso e soprattutto dalla recensione (non priva di riserve precise sul ‘con-

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Cfr. il saggio apparso nel 1906 sulla «Rivista Filosofica» La teoria del definire e del classificare in Platone e i rapporti di essa colla teoria delle idee (Scritti, 677). Si noti che il medesimo passo compare nell’articolo dello stesso anno, uscito sull’assai meno accademico «Leonardo», Per un’analisi pragmatista della nomenclatura filosofica (Scritti, 708). Sul ruolo dell’«esperimento mentale», comunque, Vailati si diffondeva già in una lettera a Mach del 20 novembre 1897 ricca di riferimenti a Galileo (cfr. Epistolario, cit., pp. 118119). 25 Per un quadro d’insieme, con riferimento anche a Mach, a Duhem e a Vailati, cfr. A. SANTUCCI, Storia del pragmatismo, Roma-Bari, Laterza 1992, specie pp. 106-127. 26 G. LANARO, Giovanni Vailati e la rivista «Leonardo», in AA.VV., Le avanguardie della filosofia italiana nel XX secolo, a c. di P. Di Giovanni, Milano, Franco Angeli 2002, p. 146.

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tinuismo’ duehmiano) agli studi su Les origines de la statique27. Ma nel 1905, sulle colonne del «Leonardo», Vailati discute anche gli articoli di natura più strettamente epistemologica di Duhem, dedicati alla teoria fisica e apparsi sulla «Revue de Philosophie» prima di essere raccolti in volume l’anno successivo28. Con grande prontezza Vailati comprende «l’importanza eccezionale» del contributo di Duhem e ne espone brevemente alcune tesi, in particolare per quanto riguarda il carattere olistico delle teorie scientifiche e la loro natura di costruzioni teoriche che godono di un elevato grado di autonomia rispetto all’esperienza. «Le operazioni del fisico – scrive acutamente Vailati – hanno bisogno di crediti a più lunga scadenza che non quelle del matematico»; e questo significa che non vi è bisogno di esigere per ogni particolare affermazione o ipotesi di una teoria che essa sia immediatamente suffragata dall’esperienza: «il fisico ha assai maggior diritto e necessità che non il matematico di fare delle ipotesi che si trovino, sia pure apparentemente o provvisoriamente, in contrasto coi fatti ai quali esse si riferiscono». Da questo punto di vista una teoria o un insieme di ipotesi può avere «significato» scientifico nella sua globalità e non nelle sue singole parti, «allo stesso modo come una frase può avere un senso determinato senza che ciò avvenga per tutte le parole di cui essa è composta». Ma Vailati accenna anche, sia pure molto cursoriamente, alle ragioni messe in 27

La recensione vailatiana al primo volume del lavoro di Duhem apparve nel «Bolletino di bibliografia e storia delle scienze matematiche» nel 1905 (Scritti, 684-688). Vailati lamentava la «preoccupazione» di Duhem di «attribuire il massimo rilievo possibile alla tradizione peripatetica»: è un’obiezione che ritorna nello studio del 1907 La scoperta della condizione d’equilibrio d’un grave scorrevole lungo un piano inclinato (Scritti, 834-841), ove peraltro Vailati ha presente anche il secondo volume del libro di Duhem. Può essere utile ricordare che nella biblioteca di Vailati è conservato pure, sempre di Duhem, il primo volume delle Études sur Leonard de Vinci: ceux qu’il a lus et ceux qui l’ont lu, Paris, Hermann 1906 (cfr. L’archivio Giovanni Vailati, cit., p. 401). Due lettere di Vailati a Duhem concernenti gli studi di storia della scienza di Duhem, rispettivamente del 26 ottobre 1906 e del 2 gennaio 1907, sono ora pubblicate da M. DE ZAN, I carteggi europei di Vailati, cit., pp. 4951. 28 Scritti, 593-595. Cfr. P. DUHEM, La théorie physique. Son object et sa structure, Paris, Rivière 1906, 2a ed. riveduta 1914, rist. anast. Paris, Vrin 1981; La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura, trad. it. di D. Ripa di Meana, Bologna, Il Mulino 1978.

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campo da Duhem per confutare il convenzionalismo di Poincaré (sul piano fisico, non su quello geometrico che Duhem non considera): se il confronto tra i principi delle teorie scientifiche e l’esperienza non avviene sempre «direttamente», bensì comporta – secondo Duhem – l’interpretazione teorica del linguaggio simbolico di cui una teoria si avvale, questo non implica che laddove i principi non siano in contraddizione con i fatti empirici essi debbano essere considerati «superiori e inaccessibili»29. Né va taciuto che Vailati sembra essere perfettamente d’accordo con Duhem quando nel 1907, nel saggio De quelques caractères du mouvement philosophique contemporain en Italie, tiene a mettere in rilievo che i «fatti concreti» a cui si riferisce una teoria fisica – ad esempio la meccanica – non possono essere spiegati o analizzati «senza ricorrere contemporaneamente all’insieme dei principi di questa scienza»30. Nel complesso a Vailati spetta dunque il merito di un tempestivo riconoscimento del contributo di Duhem all’esame della struttura delle teorie scientifiche, tanto più rilevante se si tiene presente che Vailati (in sintonia, va detto, con il suo sodale Calderoni) è certamente tra i primi a cogliere la novità – sia sul piano epistemologico, sia sul piano semantico – dell’olismo duhemiano, la storia della cui fortuna inizia poco più tardi (basti ricordare Otto Neurath e il cosiddetto «primo Circolo di Vienna») per prolungarsi poi, dopo un lungo intervallo, sino alle discussioni di Willard Van Ornam Quine sui «dogmi» dell’empirismo31. Tutta29

Scritti, 594-595 Cfr. in proposito P. DUHEM, La théorie physique, cit., pp. 225-228, 285, 316-329; trad. it. cit., pp. 167-170, 211, 235-243. 30 Uscito sulla «Revue du Mois» nel febbraio 1907, il saggio di Vailati è riprodotto negli Scritti, 753-769 (qui 759). Aggiunge Vailati: «È dunque questo insieme, e non i principi di cui si compone, che è in grado di avere conseguenze verificabili e solo in riferimento a questo insieme si può parlare del senso o della verità di una o dell’altra delle proposizioni che lo costituiscono». 31 Nella vasta letteratura recente su questo argomento si possono vedere particolarmente R. HALLER, Neopositivismus, cit., pp. 52-58 e N. CARTWRIGHT-J. CAT-L. FLECK-TH. UEBEL, Otto Neurath: Philosphy between Science and Politics, Cambridge, Cambridge University Press 1996, pp. 89166. Su Vailati, Calderoni e l’olismo di Duhem richiama con forza l’attenzione, seppure con qualche sfumatura diversa dalla valutazione qui proposta nel seguito, P. PARRINI, Filosofia e scienza nell’Italia del Novecento. Figure, correnti, battaglie, Milano, Guerini e Associati 2004, pp. 38-48. Sull’olismo linguistico che avvicina Vailati alla cosiddetta «tesi Duhem-Quine» cfr. an-

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via anche nei confronti di Duhem Vailati opera la sua riduzione nel quadro del pragmatismo, e più precisamente – come egli dice all’inizio della recensione – nel quadro dell’«indirizzo filosofico che il “Leonardo” rappresenta in Italia» (Scritti, 593). Ora il pragmatismo che Vailati crede di poter rinvenire in Duhem consiste sostanzialmente di due elementi. Da un lato si tratta della possibilità di riferirsi alle conseguenze di una determinata affermazione senza arrestarsi alle conseguenze particolari, ma coinvolgendo altre affermazioni alle quali si connette l’affermazione in esame. Dall’altro lato si tratta invece – ed è questo, pare di capire, l’aspetto più importante per Vailati – di mettere in rilievo il carattere arbitrario e convenzionale della scelta con cui noi non solo adottiamo determinate ipotesi, ma pure sacrifichiamo una parte o più parti di una teoria allorché si verifichi un disaccordo tra le previsioni formulate dalla teoria e una particolare risultanza sperimentale: poiché le teorie scientifiche non sono «animali impagliati nelle vetrine», bensì «organismi che vivono», il momento della scelta o dell’arbitrio interviene costitutivamente nel processo plastico di formazione, di aggiustamento e di revisione delle teorie stesse (Scritti, 595, 691). Questo elemento di arbitrarietà sembra a Vailati convergente con l’arbitrarietà nella scelta delle teorie a cui si appella il pragmatismo; ma questo presuppone il silenzio totale su alcuni aspetti centrali dell’epistemologia duhemiana: dal ruolo del «buon senso» nella scelta delle ipotesi alla dichiarata convinzione che la teoria fisica, perfezionandosi progressivamente, debba assumere i caratteri di una «classificazione naturale», al punto da essere il «riflesso di un ordine ontologico»32. In altri termini, il giudizio vailatiano sull’epistemologia di Duhem sembra fondarsi su un parziale fraintendimento del significato della sua opera, che voleva essere piuttosto una difesa del carattere teorico della conoscenza scientifica contro una sua interpretazione (e svalutazione) ‘strumentalista’, come del resto eche F. AQUECI, Il fondamento linguistico della scienza in Vailati, in I mondi di carta di Giovanni Vailati, cit., pp. 135-138. Un accenno alla ripresa di questi motivi da parte di Calderoni è in G. LANARO, Pragmatismo e positivismo nel pensiero di Calderoni, in AA.VV., Il pensiero di Mario Calderoni, cit., p. 283. 32 P. DUHEM, La théorie physique, cit., pp. 35, 41; trad. it. cit., pp. 31, 37.

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merge proprio dalla presa di posizione di Duhem nei confronti di Poincaré e dal suo timore che la riduzione delle teorie scientifiche a convenzionali codificazioni linguistiche di fatti concreti occulti il laborioso processo di interpretazione concettuale che ogni complesso di simboli astratti richiede33. Ma va aggiunto che nel giudizio di Vailati su Duhem forse trapela anche il ‘filtro’ di Mach e, in parte, di James (nel quale si potrebbe individuare una ‘via all’olismo’ e al fallibilismo che fa da ponte tra Duhem e Quine)34. Leggere Duhem in chiave di economia del pensiero, emarginando la componente metafisica35 e in qualche modo ridimensionando vistosamente la polemica anti-induttivista di Duhem, è ciò che contraddistingue infatti la strategia adottata di lì a poco da Mach, che pure si farà patrocinatore insieme al suo seguace Friedrich Adler della traduzione in tedesco (nel 1908) della Théorie physique36. Diverso invece è il caso del giudizio su Poincaré, che Vailati formulava quasi contemporaneamente alla recensione dedicata a Duhem in due note piuttosto polemiche apparse sul «Leonardo» tra il 1905 e il 1906 (Scritti, 630-633, 710-711). In verità già alla 33

Ivi, p. 227; trad. it. cit., p. 169. Cfr. inoltre R. MAIOCCHI, Chimica e filosofia. Scienza, epistemologia, storia e religione nell’opera di Pierre Duhem, Firenze, La Nuova Italia 1985, specie pp. 135-238. 34 Per questo aspetto, che meriterebbe di essere discusso più approfonditamente, cfr. I. NEVO, James, Quine, and Analytic Pragmatism, in AA.VV., Pragmatism. From Progressivism to Postmodernism, a c. di R. Hollinger e D. Depew, Westport (Connecticut)-London, Prager 1995, pp. 153-161. 35 Un accenno (l’unico, se non erriamo) ai «preconcetti d’indole teologica» che «handicappano» Duhem si trova in una lettera di Vailati a Vacca del 19 febbraio 1903 (Epistolario, cit., p. 221). 36 Si vedano le prefazioni di Mach e di Adler a P. DUHEM, Ziel und Struktur der physikalischen Theorien, Leipzig, Barth, 1908, 2ª ed. a c. di L. Schäfer, Hamburg, Meiner 1978, pp. III-VII. Importante è anche la lettera di Mach ad Adler del 22 aprile 1908 publicata in Ernst Mach als Aussenseiter, cit., p. 50 (dove Mach allude al «diavolo nascosto» della scolastica e del cattolicesimo, e invita Adler a non essere troppo «imbarazzato» dalla «metafisica» di Duhem). Per varie notizie su Mach, Adler e la traduzione tedesca del libro di Duhem cfr. D. HOWARD, Einstein and Duhem, «Synthese», LXXXIII, 1990, pp. 363-384. I rapporti tra Mach e Duhem, anche per quanto riguarda le diverse concezioni della storia della scienza, sono studiati da K. HENTSCHEL, Die Korrespondenz Duhem-Mach: Zur “Modellbeladenheit” von Wissenschaftsgeschichte, «Annals of Science», XLV, 1988, pp. 73-91. Ma per un confronto tra Mach e Duhem cfr. pure R. MAIOCCHI, Chimica e filosofia, cit., pp. 293-311.

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fine del 1903, scrivendo a Prezzolini, Vailati aveva accennato al fatto che sulle «idee filosofiche» di Poincaré c’era molto da dire «ed anche in modo divertente»37; e più di un anno prima, rispondendo alle osservazioni di Giovanni Vacca su quel libro «bellissimo» ma «orribilmente arretrato» che era La science et l’hypothèse, egli aveva preso di mira le considerazioni di Poincaré sul ruolo delle definizioni in John Stuart Mill, rimproverandogli di essere caduto nello stesso errore del «prof. Peano» in merito alla supposta implicazione, nell’esame della definizione da parte di Mill, dell’esistenza o della possibilità della cosa definita38. Ma è soprattutto recensendo nel 1905 La valeur de la science e l’articolo su Les Mathématiques et la Logique uscito sulla «Revue de Métaphysique et de Morale» che Vailati affilava le sue armi critiche. In primo luogo, infatti, si trattava di ripudiare la rivalutazione dell’intuizione che Poincaré aveva sostenuto nei suoi scritti sulla logistica e sulla fondazione della matematica, e che a Vailati pareva fuorviante perché attribuiva all’intuizione una feconda capacità inventiva, scorgendo invece nei procedimenti puramente logici l’impossibilità di attingere nuove verità. Questa contrapposizione veniva smontata mettendo in questione il principio di induzione completa sul quale Poincaré – invocando la sintesi a priori di Kant – fondava la possibilità del ragionamento matematico; al contrario, sposando la tesi logicista dell’analiticità, Vailati sosteneva che la dimostrazione matematica, anche quando non si basa sull’induzione completa, giunge comunque a ritrovare nella conclusione un caso particolare già presente nelle premesse39. Il punto sul quale Vailati consentiva invece con Poincaré era costituto dalle critiche rivolte al convenzionalismo radicale di Eduard Le Roy. In questo caso si trattava di mostrare una volta per tutte che il dichiarare arbitrari o convenzionali i significati 37

Epistolario, cit., p. 493. Alla superiorità filosofica di Duhem su Poincaré Vailati fa del resto riferimento nella già ricordata lettera a Vacca del 19 febbraio 1903 (ivi, p. 221). 38 Ivi, p. 217 (lettera di Vailati a Vacca del 9 novembre 1902). 39 Scritti, 631-632. Cfr. H. POINCARÉ, La Valeur de la Science Paris, Flammarion 1905, 2ª ed. 1932, pp. 21-25; Il valore della scienza, a c. di G. Polizzi, Firenze, La Nuova Italia 1994, pp. 17-20. Si veda inoltre Science et Méthode, Paris, Flammarion 1908, 2ª ed. 1934, p. 198; Scienza e metodo, a c. di C. Bartocci, Torino, Einaudi 1997, pp. 159-160.

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delle parole da cui dipende la verità (o la falsità) di una frase nulla toglie al fatto che «una volta fissate tali convenzioni […] la questione della sua verità o falsità è, nel caso più ordinario, affatto indipendente dal nostro arbitrio e dalle nostre preferenze» (Scritti, 632-633). La precisazione era importante, ma Vailati a partire di qui non metteva in discussione il convenzionalismo geometrico di Poincaré, specie per quanto riguarda le alternative che si pongono tra i vari sistemi geometrici e la loro applicazione all’esperienza fisica: un complesso di problemi che era al centro della discussione epistemologica europea e che conobbe più tardi una grande fortuna soprattutto con la querelle sulla teoria generale della relatività, ma che già negli anni in cui Vailati scriveva le sue recensioni per il «Leonardo» rappresentava un nodo cruciale40. Tutt’al più, al filosofo cremasco la celebre affermazione di Poincaré secondo la quale «una geometria non può essere più vera di un’altra; può solamente essere più comoda», sembrava addirittura «banale», e confermava ciò che già da tempo si sapeva (verosimilmente Vailati pensava ai contributi di Peano e di Mario Pieri): ossia che «la preferenza per una data ipotesi matematica» non dipende dalla sua «maggiore o minore conformità ai fatti “reali”», ovvero che è sempre possibile partire da altri assiomi per costruire un «edificio teorico altrettanto coerente ed armonico in tutte le sue parti quanto quello costruito sugli antichi fondamenti»41. Tuttavia occorre rilevare che alcuni anni più tardi, nel saggio scritto in collaborazione con Calderoni su L’«arbitrario» nella vita psichica e pubblicato nel 1910 dopo la morte di Vailati, alcune considerazioni dedicate alla struttura dei sistemi deduttivi e alla natura delle cognizioni matematiche arricchiscono sensibil40

Per una presentazione d’insieme del convenzionalismo geometrico di Poincaré e del dibattito sulle geometrie non-euclidee in cui esso si inserisce cfr. R. TORRETTI, Philosophy of Geometry from Riemann to Poincaré, Dordrecht-Boston-Lancaster, Reidel 1978, pp. 320-358. 41 Cfr. l’articolo apparso sul «Leonardo» nel giugno 1904 La più recente definizione della matematica, in Scritti, 529. Per l’affermazione di Poincaré cfr. La Science et l’Hypothèse, Paris, Flammarion, 1902, 3a ed. 1968, p. 76; La scienza e l’ipotesi, a c. di C. Sinigaglia, Milano, Bompiani 2003, p. 87. Sulla definizione della matematica proposta da Poincaré «come l’arte di dare lo stesso nome a cose differenti» Vailati si soffermerà anche nello scritto su La grammatica dell’algebra (Scritti, 881).

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mente questa valutazione un po’ troppo rapida. Riproponendo quasi alla lettera il passo relativo all’affermazione «banale» di Poincaré appena ricordato, Vailati e Calderoni aggiungono infatti una lunga nota in cui vengono sottolineati con estrema acutezza due aspetti di singolare importanza. Per un verso si tratta di dare il dovuto rilievo alla circostanza che tra la scelta di un sistema di misura e la scelta di un postulato corre un’importante differenza, giacché mentre nel primo caso si posso rappresentare in maniera diversa i medesimi fatti, nel secondo si ha a che fare con «una proposizione vera e propria», la quale suppone o afferma fatti differenti da quelli ammessi da altri postulati: pertanto chiedersi se una geometria sia più vera di un’altra non è affatto «una domanda priva di senso», o meglio essa può essere considerata tale dai «geometri puri», ma non lo è quando vengono chiamati causa le proprietà reali dello spazio e il confronto «con i dati dell’esperienza». Per un altro verso, però, il problema del controllo sperimentale implica una ripresa dell’olismo duhemiano, se è vero che per sfuggire al sospetto di un circolo vizioso, onde alcune ipotesi fondamentali della geometria concorrono a determinare quei medesimi criteri di verifica da cui dipende la validità o meno dei sistemi geometrici in questione (come avviene con il principio del corpo rigido), non resta che chiarire ancora una volta come «a giustificare la scelta o l’abbandono di una data ipotesi non è affatto necessario (e anzi neppur sufficiente) che tra i fatti ai quali essa direttamente si riferisce se ne possano trovare di quelli che la confermino o la confutino, bastando invece che tale conferma o confutazione risulti dal confrontare, coi fatti, le conseguenze anche più remote ed indirette che dall’ipotesi stessa derivano»42. Seppure tardivamente rispetto alle prese di posizione che si sono ricordate, e per giunta in una nota a pie’ di pagina, Vailati e Calderoni (ma è pressoché impossibile appurare se la paternità di queste tesi sia comune o appartenga all’uno piuttosto che all’altro) coglievano così alcuni nodi di indiscutibile importanza, che avrebbero accompagnato la discussione sul convenzionalismo di Poincaré a partire da Hans Reichenbach e dal nascente empirismo logico negli anni Venti del Novecento: la distinzione tra una

42

M. CALDERONI, Scritti, cit., vol. II, pp. 251-252 n. 1.

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convenzione linguistica e una postulazione teorica, e la natura estremamente complessa e non banalmente ‘riduzionista’ del controllo empirico, erano insomma ben presenti ai due fautori del ‘pragmatismo logico’, che anche sotto questo profilo ci appaiono oggi singolarmente lungimiranti43. Con tutto ciò rimane il fatto che nel confronto con Poincaré Vailati sembrava soprattutto attento alle implicazioni più generalmente filosofiche e, in particolare, alle polemiche tra Louis Couturat e Poincaré (e tra Russell e Poincaré) a proposito della logistica e della fondazione logica della matematica. In questo contesto si profilava come prioritaria l’esigenza di fare giustizia di quegli aspetti kantiani, o meglio ancora neokantiani, che rendevano quanto mai sospetta l’opera di Poincaré e la ponevano al centro di una controversia filosofica molto accesa negli anni in cui Vailati stilava le note per il «Leonardo»44. Vailati non era esplicito su questa questione, e del resto molto vi sarebbe da dire non solo sui rapporti tra Poincaré e gli ambienti del neocriticismo francese (con particolare riguardo alla figura di Émile Boutroux), ma sullo stesso ‘kantismo’ che fa da sfondo al suo convenzionalismo45. Tuttavia è chiaro che la contemporaneità di certi 43

Per questa valutazione cfr. P. PARRINI, Filosofia e scienza nell’Italia del Novecento, cit., pp. 39-42. Chi scrive desidera ricordare che, nella versione originaria di questo capitolo, era stato trascurato il punto qui messo in evidenza (e lo stesso testo di Calderoni e Vailati in cui esso è formulato): la correzione apportata è stata suggerita dalle pagine di Parrini appena citate, nonostante rispetto a Parrini rimangano alcune divergenze sulla maniera di valutare nel suo insieme il rapporto di Vailati con Duhem e Poincaré. 44 Cfr. U. SANZO, Significato epistemologico della polemica Poincaré-Couturat, «Scientia», LXIX, 1975, pp. 369-395 e, sempre di Sanzo, il volume L’artificio della lingua. Louis Couturat 1868-1914, Milano, Franco Angeli 1991, pp. 58-87. Si veda inoltre W. GOLDFARB, Poincaré against the Logicists, in AA.VV., History and Philosophy of Modern Mathematics, a c. di W. Aspray e Ph. Kitcher, Minneapolis, University of Minnesota Press 1988, pp. 61-81. 45 Cfr. M.J. NYE, The Boutroux Circle and Poincare’s Conventionalism, «Journal of the History of Ideas», XL, 1979, pp. 107-129 e, per un quadro più generale, F. CAPEILLÈRES, Généaologie d’un néokantisme français: à propos d’Émile Boutroux, «Revue de Métaphysique et de Morale», CII, 1998, pp. 405-442. Su Poincaré, Kant e il costruttivismo matematico kantiano cfr. soprattutto M. FRIEDMAN, Reconsidering Logical Positivism, Cambridge, Cambridge University Press 1999, pp. 71-86; E.G. ZAHR, Mathematik, Ontologie und die Grundlagen der empirischen Wissenschaften, Rostock, Ingo

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interventi è già di per sé eloquente: non per nulla l’apprezzamento per l’assalto recato da Couturat al «Campidoglio della filosofia kantiana e neokantiana» nel celebre articolo su La philosophie des mathématiques de Kant46 va di pari passo con la denuncia delle «acrobazie» di Poincaré e della sua «inquietante attività filosofica» (Scritti, 711). Anzi si può dire che, pur nella frammentarietà delle osservazioni di Vailati, emerga qui una precisa opposizione nei confronti del composito schieramento neocriticistico presente nel dibattito logico-epistemologico del primo Novecento e che, irradiandosi dalla vicina Germania, trovava proprio nell’ambiente francese una notevole risonanza47. Ma, pur conoscendo bene quell’ambiente, Vailati non aveva dubbi sul fatto che il kantismo rappresentasse una crisi «patologica» nel normale sviluppo del pensiero filosofico e scientifico, tanto più che proprio intorno all’«analisi critica dei principî della geometria» era emerso il suo aspetto «radicalmente erroneo» almeno a partire dalle prese di posizione di un matematico come Gauss48. Del resto questi temi emergono, quasi contemporaneamente, anche sul fronte della discussione tra Vailati ed Enriques. Il confronto si era inaugurato già agli inizi del secolo con la contrapposizione tra la «lue kantiana» di cui Vailati lamentava la perdurante capacità corrosiva sulla filosofia delle scienze e la rivendicazione, da parte di Enriques, di «quell’elemento di struttura, che l’empirismo ha troppo lasciato da parte» e che invece la teoria della conoscenza di Kant, pur con tutti i suoi errori, era in grado Koch Verlag 2002, pp. 57-64; K.-N. IHMIG, Kant, Poincaré und das Problem der Synthetizität der Mathematik, in AA.VV., Eredità kantiane (1804-2004). Questioni emergenti e problemi irrisolti, a c. di C. Ferrini, Napoli, Bibliopolis 2004, pp. 215-245. 46 Scritti, 709. Cfr. L. COUTURAT, La philosophie des mathématiques de Kant, «Revue de Métaphysique et de Morale», XII, 1904, pp. 321-383, poi in L. COUTURAT, Les Principes des mathématiques, Paris, Alcan 1905, rist. an. Hildesheim, Olms 1965, pp. 235-308; La filosofia della matematica di Kant, in E. CASSIRER-L. C OUTURAT, Kant e la matematica, a c. di C. Savi, Milano, Guerini e Associati 1991, pp. 21-92. 47 Per una sintetica presentazione di questo dibattito mi permetto di rinviare alla mia Introduzione a Il neocriticismo, cit., pp. 181-194. 48 Scritti, 455, 890. Si veda inoltre la lettera di Vailati a Papini del 6 ottobre 1902, notevole per alcune convergenze con Brentano (Epistolario, cit., p. 327) e quella ad Amato Pojero del 29 novembre 1899, in G. VAILATI-G. AMATO POJERO, Epistolario, cit., pp. 61-62.

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di giustificare una volta che la si interpretasse «in senso largo»49. Ma una simile prospettiva non poteva certo piacere a Vailati. Al contrario, nella recensione di Erkenntnis und Irrtum di Mach, egli tesseva gli elogi della posizione machiana anche perché le sue pagine manifestavano un’«aperta ostilità» nei confronti dell’«indirizzo filosofico che domina ancora ufficialmente nella maggior parte delle università tedesche sotto il nome di neocriticismo, neokantismo ecc.» (Scritti, 667). In questo modo il giudizio sui Problemi della scienza di Enriques, a prescindere da altre riserve sul carattere ‘manualistico’ della sezione dedicata alla logica (Scritti, 724), non poteva non risentire di questo sospetto anti-kantiano, al quale faceva da contraltare – con una mossa che ormai ci è nota – il tentativo di Vailati di ‘tradurre’ l’impostazione di Enriques nel linguaggio del pragmatismo. L’«attitudine nuova» di Enriques doveva insomma essere trasferita su un terreno di confronto parzialmente diverso, che riportasse il centro dell’attenzione sul problema delle previsioni, ovvero delle aspettative che deriverebbero se si accettassero per vere certe affermazioni, e sul ruolo che esse giocano nella costituzione delle teorie, secondo una prospettiva pragmatista che non poteva essere accettata da Enriques. «I pragmatisti tuttavia potrebbero alla loro volta ribattere che questa diversa potenza stimolatrice e suggestiva delle teorie – aggiungeva Vailati riprendendo il problema posto da Poincaré dell’equivalenza tra teorie diverse che si riferiscono al medesimo complesso di fatti – non può a meno che connettersi, anch’essa, a qualche diversità nelle previsioni che l’una o l’altra tra esse tende a suggerire con maggiore o minor forza, sia pure solo come probabili, come possibili, come immaginabili» (Scritti, 723). Anche nel confronto con Enriques, dunque, Vailati tendeva a trasferire la discussione strettamente epistemologica sul piano di quel pragmatismo improntato alla ‘regola di Peirce’ (ma in realtà connesso fortemente anche con James) che sarà l’oggetto degli ultimi saggi stesi in collaborazione con Calderoni. Per parte sua Enriques riteneva però che attenendosi alla posizione di Peirce in realtà non si andasse oltre al patrimonio della filosofia positiva e 49

Epistolario, cit., p. 564 (lettera di Enriques a Vailati del 16 aprile 1901). Sul confronto tra Vailati ed Enriques si tornerà anche più oltre, cap. 7.

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giudicava il pragmatismo, per dirla con James, come «un nome nuovo per vecchie maniere di pensare». Ma nel passaggio alle posizioni di James e, in Italia, dei ‘leonardiani’ avveniva per Enriques una trasformazione gravida di conseguenze negative. Riducendo alla pura convenienza ciò che in realtà è il nesso logico tra le conseguenze istituito dalla teoria, non si sfuggiva al relativismo protagoreo; e si imponeva pertanto una risposta che restaurasse «il valore della ragione», per liberarsi della «fondamentale contraddizione» per cui il pragmatismo professa pur sempre una «dottrina della verità» e poi concepisce la verità come valida solo per chi la propone, alla stregua dell’utile personale50. L’obiezione di Enriques ricalcava una visione diffusa del pragmatismo nella cultura europea del primo Novecento; ma certamente si lasciava sfuggire l’elemento più originale del ‘pragmatismo logico’ vailatiano e, a ben vedere, non rendeva giustizia nemmeno a James. L’implicito riferimento di Enriques al libro di James sul pragmatismo uscito nel 1907 (e subito recensito da Vailati) non coglieva ciò che invece Vailati ritrovava anche in James: l’assimilazione di alcuni temi dell’epistemologia contemporanea, i cui «maestri» (Mach, Duhem, Poincaré) avevano insegnato una volta per tutte che «nessuna ipotesi è più vera di un’altra, se con ciò si intende che è una copia più fedele della realtà. Esse non sono altro che nostre descrizioni, che devono essere confrontate tra di loro solo in relazione al loro uso»51. Giustamente Vailati riteneva che questo fosse un problema cruciale e del resto sin dal 1900, recensendo i saggi di James sul Will to Believe, non aveva mancato di insistere proprio su questo aspetto, ravvisando in James una consonanza significativa con la «logica 50

Così nell’articolo Il Pragmatismo, apparso su «Scientia» nel 1910 e raccolto poi in F. ENRIQUES, Natura, ragione e storia, a c. di L. Lombardo Radice, Torino, Boringhieri 1958, pp. 198-218 (qui pp. 207, 217-218). Il saggio è ripreso da Enriques, con lievi modifiche, in Scienza e razionalismo, Bologna, Zanichelli 1912, rist. anast. (con introd. di O. Pompeo Faracovi) 1990, pp. 5-24. Su Enriques, Vailati e il pragmatismo si veda anche più oltre, cap. 7, pp. 225-226. 51 W. JAMES, Pragmatism. A New Name for Some Old Ways of Thinking, London, Longmans, Green & Co. 1907, rist. Cambridge (Mass.), Harvard University Press 1975, p. 93; Pragmatismo. Un nome nuovo per vecchi modi di pensare, trad. it. di S. Franzese, Milano, Il Saggiatore 1994, p. 107. La recensione di Vailati è negli Scritti, 791-793.

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della scienza» contemporanea, tesa «a riabilitare in certo modo le attività costruttive e anticipatrici dell’intelletto umano di fronte alle attività puramente recettive e, per così dire, registratrici e classificatorie, alle quali si tendeva prima ad attribuire una parte troppo importante, e soprattutto troppo esclusiva, nei processi mentali diretti alla scoperta e all’accertamento delle verità scientifiche e filosofiche » (Scritti, 283). In questo senso – al di là della discussione con Enriques – sembra legittimo ritenere che l’intreccio tra i motivi tratti dall’epistemologia contemporanea e una sua interpretazione selettiva condotta sulla scorta di temi quali la previsione, il ruolo della deduzione e dell’ipotesi, la funzione delle definizioni, l’interrogarsi sulle conseguenze che deriverebbero da certe condizioni se esse si verificassero, rappresenti un terreno sul quale Vailati si colloca – di volta in volta – con spunti critici, raffronti, giudizi acuti e valutazioni (magari anche unilaterali) che testimoniano bene il suo punto di vista, peraltro difficilmente inquadrabile nella «rigida dicotomia» tra i due pragmatismi (Peirce e James) su cui troppo spesso si è costruita l’immagine canonica di Vailati52. Tuttavia nel confronto con l’epistemologia europea del primo Novecento Vailati non solo lasciava in ombra la riflessione più direttamente incentrata sulle scienze fisiche, passando sotto silenzio – come si è visto – temi che invece erano centrali per autori come Mach53, ma perveniva al tempo stesso a un’interpretazione strumentalista che correva un duplice rischio. Da un lato, come nel caso di Duhem e di Poincaré, Vailati non rendeva del tutto giustizia ai propri interlocutori e ne forniva un’immagine di parte all’insegna di una sorta di primato del pragmatismo; dall’altro, egli sembrava in qualche modo assecondare quella visione anch’essa strumentalista del sapere scientifico che sarà uno dei cavalli di battaglia dell’idealismo, in particolare della teorica degli «pseudoconcetti» alla quale – come noto – Benedetto Cro52

Cfr. P. CASINI, Alle origini del Novecento. «Leonardo», 1903-1907, cit., p. 119. Si può aggiungere che James vedeva in Vailati qualcuno che finalmente ‘lo aveva capito’ (cfr. The Correspondence of William James, vol. 11, April 1905-March 1908, a c. di I.K. Skrupskelis e E.M. Berkeley, Charlottesville and London, University of Virginia Press 2003, p. 568). 53 Su questo punto cfr. R. MAIOCCHI, Fisica e filosofia nella cultura italiana dei primi due decenni del Novecento, cit., p. 493.

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ce cercava di dare sostegno proprio con il rinvio ad autori come Mach e Poincaré, meritori ai suoi occhi di aver promosso una visione del sapere scientifico come puro «schematismo economico» e di aver mostrato «il carattere pratico delle matematiche, che prima erano generalmente ritenute fondamento e modello di verità e di certezza»54. Naturalmente questo non significa che Croce e Vailati fossero dalla stessa parte e nemmeno che la loro opposizione possa essere oggi appiattita in un’indistinta affinità55. Resta però il fatto che i contributi di Vailati dedicati a quella «critica delle scienze» che a Croce pareva foriera di un positivo «incremento alla Logica e alla filosofia in genere»56 potevano confortare Croce nel procedere alla svalutazione del valore conoscitivo della scienza e delle pretese dei filosofi-scienziati come Poincaré, del quale Vailati diceva addirittura che abusasse «un po’ troppo, come filosofo, del prestigio di cui gode come scienziato» (Scritti, 711). Ma, al di là di questo, resta anche da chiedersi se Vailati – che certo non condivideva le preoccupazioni speculative di Croce – non avesse in qualche modo semplificato e forse impoverito la ricchezza dell’elaborazione epistemologica con la quale egli aveva pur condotto un confronto serrato. Chi oggi legga le pagine di Vailati dedicate ad autori come Mach o Duhem si deve insomma chiedere se la lucidità di certi giudizi lungimiranti, la tempestività di certe letture e la prontezza con cui venivano varcati i limiti provinciali di tanta filosofia accademica, pur rimanendo una testimonianza inequivocabile della sua statura di studioso, non celino anche un limite non risolto e non concorrano, anche da questo punto di vista, a fare di lui uno «strano caso» sul quale è opportuno continuare a discutere, oltre le apologie che hanno fatto il loro tempo.

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B. CROCE, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza 197111, pp. 324, 327. Sulla rappresentazione «schematica e convenzionale» che le ipotesi scientifiche forniscono dei fatti cfr. quanto Vailati osservava sul «Leonardo» nel 1904 (Scritti, 529). 55 Sul rapporto tra Vailati e Croce, seppure con un’eccessiva attenuazione delle diversità, cfr. G. GEMBILLO, Vailati-Croce: quasi un confronto, in Giovanni Vailati nella cultura del ’900, cit., pp. 119-138. 56 B. CROCE, Logica come scienza del concetto puro, cit., p. 323.

6 VAILATI, LEIBNIZ E LA ‘RINASCITA LEIBNIZIANA’ 1. Non c’è dubbio che per Giuseppe Peano e i suoi collaboratori – non ultimo lo stesso Vailati – il nome di Leibniz rappresentasse l’emblema dell’ambizioso progetto del Formulario. Già nel 1891, nel primo numero della «Rivista di matematica», Peano ricordava le analogie individuate da Leibniz «fra le operazioni dell’algebra e quelle della logica», facendo del filosofo tedesco l’iniziatore di una linea che – passando per Boole e Schröder – giungeva allo stesso Peano: «uno dei risulati più notevoli cui si è giunti è che, con un numero limitatissimo di segni, si possono esprimere tutte le relazioni logiche immaginabili; sicché aggiungendovi dei segni per rappresentare enti dell’algebra, o della geometria, si possono esprimere tutte le proposizioni di queste scienze»1. Via via che il Formulario prendeva corpo, il sogno di Leibniz pareva a Peano ormai prossimo alla sua realizzazione. Nelle Notationes de logique mathématique, pubblicate nel 1894 come introduzione al Formulario, egli ricordava, citando la Dissertatio de arte combinatoria, che il progetto leibniziano di creare una lingua universale «dans la quelle toutes les idées composées fussent exprimées au moyen de signes conventionelles des idées simples, selon des règles fixes» aveva finalmente trovato soluzione due secoli dopo grazie alla «nouvelle et importante science qu’on appelle Logique mathématique» e in virtù delle ricerche promosse da Boole e De Morgan, Frege e Peirce, Venn e McColl, Schröder e Jevons2. L’orgoglio e la certezza di aver tro1

G. PEANO, Principii di logica matematica, «Rivista di matematica», I, 1891, p. 1. 2 G. PEANO, Opere scelte, a c. dell’Unione Matematica Italiana, Roma,

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vato non già una soluzione, ma la soluzione definitiva avrebbero poi ispirato a Peano, in occasione della presentazione del secondo tomo del Formulario, alcune pagine enfaticamente rivolte a esaltare la continuità rispetto alla grandiosa idea di Leibniz di una speciosa generale, che consentisse di trattare tutte le verità di ragione per mezzo di un semplice calcolo: sì che il celebre calculemus era ormai divenuto realtà e i risultati del Formulario apparivano talmente «meravigliosi» da essere degni «degli elogi di Leibniz alla scienza che egli aveva profetizzato»3. In effetti il nesso tra Leibniz e il Formulario, tra la chiave «enciclopedica» e quella strettamente logica, è centrale per Peano, la cui opera può essere letta come «un capitolo della storia delle enciclopedie» nel segno di un leibnizianesimo persino ingenuo nel suo ottimismo4. Ma la «riscoperta delle ricerche logiche leibniziane» e la rivalutazione della straordinaria profezia di Leibniz che segneranno profondamente la discussione logico-filosofica tra Otto e Novecento non si delineavano solo all’ombra del Formulario di Peano, anche se non poche strade conducevano effettivamente al matematico torinese5. Non a caso Gottlob Frege, in uno scritto del 1896 in cui prendeva in esame l’opera di Peano, chiariva la propria posizione ricorrendo a una terminologia Edizioni Cremonese 1957-1959, vol. II, pp. 123-124 (il passo si legge anche in AA.VV., L’immagine della scienza, a c. di G. Giorello, Milano, Il Saggiatore 1977, p. 5). 3 Opere scelte, cit., vol. II, p. 198 (= L’immagine della scienza, cit., p. 16). Appena più sopra Peano precisava: «Nous avons donc la solution du problème proposé par Leibniz. Je dis “la solution” et non “une solution”, car elle est unique. La logique mathématique, la nouvelle science composée de ces recherches, a pour object les proprietés des opérations et des relations de logique. Son object est donc un ensemble de vérités, et non de conventions». 4 Cfr. G. LOLLI, «Quasi alphabetum»: logica ed enciclopedia in G. Peano, in Le ragioni fisiche e le dimostrazioni matematiche, Bologna, Il Mulino 1985, pp. 60-62, 81. Qualche altra indicazione, seppure non molto approfondita, si trova in H.C. KENNEDY, Peano. Life and Works of Giuseppe Peano, Dordrecht, Reidel 1980; Peano. Storia di un matematico, trad. it. di P. Pagli, Torino, Boringhieri 1983, pp. 62, 74, 98 e passim. 5 Cfr. M. MUGNAI, Leibniz e la logica simbolica, Firenze, Sansoni 1973, p. 3. Sulla fortuna e sulla riscoperta della logica leibniziana nel corso dell’Ottocento si veda soprattutto la ricca monografia di V. PECKHAUS, Logik, Mathesis universalis und allgemeine Wissenschaft. Leibniz und die Wiederentdeckung der formalen Logik im 19. Jahrhundert, Berlin, Akademie Verlag 1997.

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leibniziana: «in termini leibniziani – osservava – si può dire: la logica di Boole è un calculus ratiocinator, ma non una lingua characterica; la logica matematica di Peano è essenzialmente una lingua characterica e inoltre anche un calculus ratiocinator, mentre la mia ideografia (Begriffsschrift) deve essere con pari rilievo entrambe le cose»6. Tuttavia Frege non citava Leibniz per una semplice concessione a Peano: basta pensare, oltre alla prefazione alla Begriffsschrift del 1879, all’esame dell’opera di Boole svolto in un testo di poco successivo, in cui i riferimenti a Leibniz erano tali da far intendere una conoscenza relativamente approfondita e mettevano in luce il proposito di riallacciarsi alla nozione leibniziana di linguaggio ideale e al calculus ratiocinator come primo avvio della moderna logica simbolica7. Naturalmente al nome di Frege si potrebbe qui accostare anche quello di Edmund Husserl, il quale, nel 1900, nel § 60 dei Prolegomena zur reinen Logik, scriveva di sentirsi «relativamente molto vicin[o]» a Leibniz: nel vivo della sua battaglia antipsicologistica Husserl, in particolare, riconosceva a Leibniz il merito di aver fatto avanzare la logica nella direzione «di una disciplina che abbia rigore e forma matematica»8. Nell’abbozzare questo 6

G. FREGE, Über die Begriffsschrift des Herrn Peano und meine eigene, poi in Kleinere Schriften, a c. di I. Angelelli, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1976, pp. 220-233 (qui p. 227). Sull’uso improprio, da parte di Frege, dell’espressione «lingua characterica», cfr. G. PATZIG, Frege und die sogennante «lingua characteristica universalis», «Studia Leibnitiana» Supplementa, vol. III, Wiesbaden, Steiner Verlag 1969, pp. 103-112. 7 Cfr. G. FREGE, Begriffsschrift, eine der arithmetischen nachgebildeten Formelsprache des reinen Denkens, Halle, Nebert 1879, rist. an. Hildesheim, Olms 1971, pp. XI-XII e Booles rechnende Logik und die Begriffsschrift (1880/1881), in Nachgelassene Schriften, a c. di H. Hermes, F. Kambartel e F. Kaulbach, Hamburg, Meiner 1969, pp. 9-11, 13. Su Frege e Leibniz cfr. E.H.W. KLUGE, The Metaphysics of Gottlob Frege. An Essay in Ontological Reconstruction, The Hague, Martinus Nijhoff 1980, pp. 231-262 e C. PENCO, Vie della scrittura. Frege e la svolta linguistica, Milano, Franco Angeli 1994, pp. 37-44. 8 E. HUSSERL, Logische Untersuchungen. Erster Band: Prolegomena zur reinen Logik, in Husserliana, vol. XVII, a c. di E. Holenstein, Den Haag, Martinus Nijhoff 1975, p. 222; Ricerche logiche, trad. it. di G. Piana, Milano, Il Saggiatore 1968, vol. I, p. 226. Molte notizie utili su Husserl e Leibniz si trovano in H.L. VAN BREDA, Leibniz’ Einfluss auf das Denken Husserls, «Studia Leibnitiana» Supplementa, vol. V, Wiesbaden, Steiner Verlag 1971, pp. 124-145.

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elogio Husserl aveva probabilmente a mente il suo maestro Brentano, che lo aveva avviato allo studio di Leibniz (e Vailati, in quello stesso 1900, avrebbe definito Brentano «forse il più geniale professore di filosofia che vanti ora la Germania»)9; né andrà scordata un’altra figura che influenzò Husserl, ossia Bernard Bolzano, il quale occupa un posto di rilievo non solo nel percorso che conduce alla ‘logica pura’ husserliana come al logicismo di Frege, ma anche nella storia della fortuna di Leibniz nella cultura asburgica nella prima metà dell’Ottocento, variamente attraversata da un’incidenza della filosofia leibniziana sconosciuta invece altrove10. Tra Otto e Novecento il ‘ritorno a Leibniz’ era dunque ben presente sulla scena della filosofia europea, soprattutto nell’ambito delle ricerche logiche e, più specificamente, della logica simbolica e della logica matematica (con le loro implicazioni filosofiche). D’altra parte è noto che agli inizi del secolo nuovo Bertrand Russell in Inghilterra, Louis Couturat in Francia ed Ernst Cassirer in Germania daranno un contributo decisivo alla LeibnizRenaissance: anche se – e questo è meno noto – il Leibniz di Russell non ha molto in comune con quello di Couturat e, anzi, pur condividendo l’interesse per la logica come fondazione della problematica metafisica, di fatto si colloca su un terreno molto distante dalla posizione di Couturat; mentre Cassirer, a sua volta, attraverso Leibniz tende piuttosto a un ripensamento del criticismo kantiano con la mediazione del neokantismo della scuola di Marburgo, ponendosi in conflitto tanto con Russell quanto con Couturat11. Proprio per questo il vero artefice della riscoperta del 9 Epistolario, cit., p. 176 (lettera di Vailati a Giovanni Vacca del 28 febbraio 1900). 10 Cfr. W.M. JOHNSTON, The Austrian Mind. An Intellectual and Social History 1848-1938, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press 1983, pp. 274-278. Si veda inoltre M. MUGNAI, Leibniz and Bolzano on the «Realm of Truths», in AA.VV., Bolzano’s Wissenschaftslehre, Firenze, Olschki 1992, pp. 207-220. Su Bolzano come anello intermedio tra Leibniz e Frege insiste E.H.W. KLUGE , The Metaphysics of Gottlob Frege, cit., pp. 263-279. 11 Sulla monografia leibniziana di Russell è illuminante il contributo di W.H. O’BRIAN, Russell and Leibniz, «Studia Leibnitiana», XI, 1979, pp. 159-222. Del confronto tra Russell, Couturat e Cassirer su Leibniz si ha un quadro esauriente leggendo la recensione di Russell a Couturat e Cassirer

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Leibniz logico, del Leibniz del calculus ratiocinator precursore della logica moderna, rimane in realtà Couturat: il quale – non accidentalmente – fu l’unico a essere discusso dalla scuola di Peano e in particolare da Vailati, così come fu l’unico a connettere le proprie ricerche leibniziane ad alcuni dei motivi caratteristici del cenacolo torinese. I legami di Couturat con Peano risalgono agli ultimi anni dell’Ottocento e sono ben documentati dal carteggio (che inizia nell’ottobre 1896)12. Interessato alla logica matematica di Peano e intenzionato a pubblicare una recensione del primo volume del Formulario, Couturat sembrò inizialmente incerto nel cogliere l’autentico carattere del contributo del matematico torinese, tanto da chiedergli se si trattasse di una «stenografia» o di un’«algebra»13. Di qui l’esitazione a pubblicare la promessa recensione, che in effetti uscirà solo nel 1899 e che tuttavia continuerà a recare tracce di un dissidio non del tutto risolto, imputabile a quello che Couturat riconosceva, in una lettera a Peano del 4 giugno dello stesso anno, essere un punto di vista «un po’ ingiusto»: ossia il punto di vista della logica formale, mentre l’opera di Peano era «destinata soprattutto all’analisi e alla verificazione delle dimostrazioni matematiche»14. Per Couturat i limiti della logica di Peano sono individuabili nel mancato privilegiamento del calcolo delle classi rispetto al calcolo delle proposizioni (lo studioso francese parla di necessaria «subordinazione» di quest’ultimo al primo), sia nell’eccessivo numero di assiomi primitivi, che finiscono (Recent Work on the Philosophy of Leibniz, «Mind», XII, 1903, pp. 177-201), quella di Couturat a Cassirer (Le système de Leibniz d’après M. Cassirer, «Revue de Métaphysique et de Morale», XI, 1903, pp. 83-99) e infine la discussione di Cassirer delle opere di Russell e Couturat (cfr. Leibniz’ System in seinen wissenschaftlichen Grundlagen, Marburg, Elwert 1902, rist. an. Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1962, pp. 532-548; Cartesio e Leibniz, trad. it. di G.A. De Toni, Roma-Bari, Laterza 1986, pp. 389-408). Per una presentazione di questo dibattito sia concesso rinviare al nostro Il giovane Cassirer e la scuola di Marburgo, Milano, Franco Angeli 1988, pp. 257-267. 12 Cfr. G. PEANO-L. COUTURAT, Carteggio (1896-1914), a c. di E. Luciano e C.S. Roero, Firenze, Olschki 2005. Si veda anche U. SANZO, Peano e Couturat fra logistica e lingua artificiale, in AA.VV., La filosofia della scienza in Italia nel ’900, a c. di E. Agazzi, Milano, Franco Angeli 1986, p. 136. 13 G. PEANO-L. COUTURAT, Carteggio, cit., p. 6. 14 Ivi, p. 23.

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per «distruggere» l’eleganza e la semplicità del calcolo logico quale è stato elaborato da Schröder, in particolare per ciò che concerne la reciprocità tra somma e prodotto logico così come la si ricava appunto dal calcolo delle classi15. In questo modo Couturat commisurava in realtà il Formulario al punto di vista dell’algebra della logica, suscitando le puntualizzazioni di Peano sullo scopo essenzialmente ‘applicativo’ del suo lavoro; e del resto lo stesso Couturat doveva via via sfumare la propria posizione, sino a dichiarare – in una recensione complessiva dei tre volumi del Formulario – che lo scopo del simbolismo peaniano era di consentire «la ricostruzione logica del sistema delle verità matematiche», fornendo al tempo stesso «uno strumento d’analisi logica, di deduzione e di verificazione»16. Di qui il mutamento di atteggiamento da parte di Couturat nei confronti del Formulario, resosi più evidente a partire dal 1904 quando egli abbraccerà il logicismo di Russell rivedendo al tempo stesso il proprio giudizio sulla logica di Peano17. Di tutto questo è bene tener conto per comprendere il rapporto della scuola di Peano – e in larga parte dello stesso Vailati – con l’autore della Logique de Leibniz. Sin dall’articolo del 1899 è evidente il pieno consenso di Couturat con lo spirito ‘leibniziano’ dell’impresa promossa dal gruppo torinese: un aspetto che Couturat sottolinea a chiare lettere18 e che si ritrova a breve 15

Cfr. L. COUTURAT, La logique mathématique de M. Peano, «Revue de Métaphysique et de Morale», VII, 1899, pp. 616-646, specie pp. 623-624, 627-628, 636, 643-646 (ma si veda pure la lettera di Couturat a Peano del 12 maggio 1899 pubblicata nel Carteggio, cit., pp. 10-15). 16 La recensione di Couturat è nel «Bullettin des sciences mathématiques», deuxième série, XXV, 1901, pp. 141-159 (qui pp. 158-159). Ma un giudizio più equilibrato si legge anche a conclusione dell’articolo del 1899, dove forse Couturat registrava tardivamente le osservazioni espressegli da Peano in una lettera del 1° giugno 1899 (cfr. L. COUTURAT, La logique mathématique de M. Peano, cit., p. 646 e G. PEANO-L. COUTURAT, Carteggio, cit., pp. 18-21). Sul fatto che il Formulario rappresenti un superamento o addirittura un «rovesciamento» dell’algebra della logica cfr. M. BORGA, La logica, il metodo assiomatico e la problematica metateorica, in AA.VV., I contributi fondazionali della scuola di Peano, Milano, Franco Angeli 1985, p. 17. 17 Cfr. in particolare L. C OUTURAT, Les Principes des mathématiques, cit., p. 7 n. 1 e la lettera a Peano del 5 gennaio 1905 pubblicata in G. PEANO-L. COUTURAT, Carteggio, cit., p. 85. 18 Cfr. La Logique mathématique de M. Peano, cit., p. 616: «M. Peano et

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distanza di tempo anche nell’analisi dell’opera di Whitehead19. D’altronde mentre discuteva Peano Couturat era già immerso nello studio della logica di Leibniz, un autore con il quale aveva dimestichezza sin dal libro sull’infinito matematico20, ma che si delineava ora per la prima volta in tutta la sua modernità se posto a confronto con gli sviluppi della logica simbolica nella seconda metà dell’Ottocento. E questa immagine di un Leibniz risollevato al rango di ‘contemporaneo’, oltre a costituire un momento decisivo per la configurazione della prospettiva matura di Couturat e del suo distacco dalle posizioni neocriticiste ancora influenti su di lui prima della composizione della Logique de Leibniz, si sarebbe alimentata tanto del leibnizianesimo di Peano quanto, in modo più concreto, delle indicazioni provenienti dalle ricerche di Giovanni Vacca sui manoscritti inediti conservati ad Hannover e rese pubbliche nel 189921. La ricchezza e l’importanza del materiale inedito erano già note grazie al catalogo di Eduard Bodemann22; ma Vacca fu il primo – dopo essersi recato ad Hannover nell’estate del 1899 per rintracciare nuovo materiale storico utile al Formulario di Peases collaborateurs ont en partie réalisé, dans le domaine des mathématiques, le projet grandiose de Leibnitz, qui rêvait de constituer une Encyclopédie, un résumé systématique de toutes les sciences humaines, au moyen d’une notation idéographique qu’il appellait la Charatecteristique universelle». Analoghe espressioni ricorrono al termine della recensione del Formulario per il «Bullettin des sciences mathématiques», cit., p. 159. 19 Cfr. L. COUTURAT, L’algèbre universelle de M. Whitehead, «Revue de Métaphysique et de Morale», VII, 1900, pp. 323-362 (qui p. 362). Sull’importanza della Logique de Leibniz per le conoscenze leibniziane dello stesso Whitehead cfr. A. WHITEHEAD, Scienza e filosofia, trad. it. di I. Bona, Milano, Il Saggiatore 1966, p. 18. 20 Cfr. L. COUTURAT, De l’infini mathématique, Paris, Alcan 1896, specie pp. 266, 467-469, 488-489. 21 Sul percorso intellettuale di Couturat rimane utile il lavoro di A. LALANDE, L’oeuvre de Louis Couturat, «Revue de Métaphysique et de Morale», XXII, 1914, pp. 644-688. Si veda inoltre U. SANZO, L’artificio della lingua. Louis Couturat 1868-1914, Milano, Franco Angeli 1991 (e dello stesso Sanzo cfr. anche il saggio Philosophie et science dans la pensée de Louis Couturat, in AA.VV., L’oeuvre de Louis Couturat, Paris, Presses de l’École Normale Supérieure 1983, pp. 69-80). 22 Cfr. E. BODEMANN, Die Leibniz-Handschriften der Königlichen öffentlichen Bibliothek zu Hannover, Hannover, Hahn 1895, rist. an. Hildesheim, Olms 1966.

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no – a indicare con chiarezza che «molte cose stanno nascoste nei manoscritti inediti, che possono interessare specialmente i cultori della logica matematica»23. Vacca sottolineava come Leibniz avesse avuto conoscenza delle principali proprietà del segno di negazione, dell’identità del segno di deduzione usato per classi e proposizioni, di alcune relazioni tra simboli della logica e proposizioni sulla divisibilità dei numeri interi, e infine della possibilità di rappresentare graficamente forme di inferenza logica la cui scoperta era sino allora attribuita a Eulero. Tutto questo era sufficiente per dare un’idea della straordinaria attualità della logica di Leibniz e per rendere auspicabile un’edizione dei manoscritti di Hannover, iniziativa per la quale Vacca era pronto a spendere ogni energia e che in effetti ebbe subito riscontro nel Formulario peaniano24. Ma fu proprio Couturat a ottemperare in larga parte (e con sorprendente rapidità) a quel voto. Come affermava presentando La logique de Leibniz, la conoscenza del «tesoro» conservato ad Hannover lo aveva costretto a riscrivere non poche pagine della sua monografia, rafforzando la tesi centrale relativa alla posizione privilegiata che occupa la logica nell’insieme della filosofia leibniziana («le coeur et l’âme de son système»; «le centre et le lien de ses spéculations métaphysiques et des inventions mathématiques»): per arrivare a un risultato così rilevante – riconosceva Couturat – le ricerche di Vacca avevano avuto il merito di indicare per prime il cammino da compiere25. Di lì a poco, nel 1903,

23

G. VACCA, Sui manoscritti inediti di Leibniz, «Bollettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche», II, 1899, pp. 113-116. 24 Ivi, pp. 115-116. Sull’utilizzazione dei manoscritti inediti di Leibniz nel Formulario cfr. anche H.C. K ENNEDY, Peano, trad. it. cit., p. 122. Va aggiunto che Vacca scriverà una notevole recensione degli Opuscules editi da Couturat (cfr. La logica di Leibniz, «Revista de Mathematica», VIII, 19021906, pp. 64-74). Su Vacca e sui suoi rapporti strettissimi con la scuola di Peano cfr. U. CASSINA, Giovanni Vacca. La vita e le opere, «Rendiconti dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere». LXXXVI, 1953, pp. 185-200 ed E. CARUCCIO, Giovanni Vacca matematico, storico e filosofo della scienza, «Bollettino della Unione matematica Italiana», s. III, VIII, 1953, pp. 448456. 25 Cfr. L. COUTURAT, La logique de Leibniz d’après des documents inédits, Paris, Alcan 1901, rist. an. Hildesheim-Zürich-New York, Olms 1985, pp. IX, XII.

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Couturat pubblicava con il titolo Opuscules et fragments inédits una fondamentale raccolta di inediti leibniziani: nella prefazione egli ribadiva ancora una volta il debito con Vacca (e ricordava il loro primo incontro al Congresso Internazionale di Filosofia di Parigi nell’agosto 1900), osservando che proprio dalla scuola di Peano gli era venuto il primo impulso allo studio della logica algoritmica e, di conseguenza, della logica di Leibniz26. Il cerchio, almeno momentaneamente, sembrava chiudersi: da Peano, sia pure con le riserve che si sono viste, a Leibniz, e da Leibniz a Peano, tra il «labirinto» dei manoscritti inediti e la scelta di studiare Leibniz come «précurseur de la Logique algorithmique moderne», per poi risalire alla logica in quanto sorgente e base della metafisica («la métaphysique de Leibniz repose uniquement sur les principes de sa Logique, et en procède tout entière»)27. Ma era un cerchio con cui si intersecava lo stesso Vailati, e che avrebbe consentito al filosofo cremasco di mettere alla prova anche nel caso di Leibniz il suo peculiare modo di leggere i pensatori del passato sulla base di un orientamento «analiticostrutturale» attestato, in altre occasioni, dal confronto da lui condotto con alcuni ‘classici’ della storia del pensiero (da Platone ad Aristotele, da Bacone a Locke a Mill)28. Si tratta di un momento importante per l’attitudine ‘socratica’ di Vailati che tanto irritava Gentile29; ma soprattutto è un passaggio rilevante per mettere a fuoco anche alcuni limiti del lavoro vailatiano e per saggiarne la consistenza su un punto straordinariamente importante quale fu,

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Cfr. Opuscules et fragments inédits de Leibniz, Paris, Alcan 1903, p. I n. 2: «Nous profitons de cette occasion pour dire ce que nous devons à M. Peano et à ses collaborateurs: ce sont leurs travaux qui ont attiré notre attention sur la logique algorithmique, et qui nous ont par suite amené à étudier la logique de Leibniz. Nous tenons d’autant plus à le reconnaître, que ces travaux tendent à réaliser, dans les mathématiques, la Caractéristique universelle rêvée par Leibniz». 27 L. COUTURAT, La logique de Leibniz, cit., p. X. 28 Cfr. M. DAL PRA, Studi sul pragmatismo italiano, cit., pp. 47-48. Si veda pure S. MARCUCCI, Alcuni giudizi di Vailati sui «classici» della filosofia, «Rivista critica di storia della filosofia», XVIII, 1963, pp. 354-362. 29 Ci riferiamo alla recensione di Gentile al volumetto vailatiano Gli strumenti della conoscenza (con prefazione di M. Calderoni, Lanciano, Carabba editore 1916) uscita su «La Critica», XV, 1917, pp. 56-60, ora in Frammenti di storia della filosofia, cit., pp. 819-824.

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agli inizi del Novecento, la riscoperta del Leibniz logico a cui diede un contributo decisivo il celebre libro di Couturat30.

2. Sino all’incontro con la Logique de Leibniz di Couturat il leibnizianesimo di Vailati non si discosta sostanzialmente da quello di Peano, benché il filosofo di Crema appaia meno trionfalistico del suo maestro. I riferimenti più significativi a Leibniz si leggono nell’articolo uscito nel gennaio 1899 sulla «Revue de Métaphysique et de Morale» dedicato appunto a La logique mathématique et sa nouvelle phase de développement dans les écrits de M.J. Peano: Leibniz – scrive Vailati – a été peut-être le premier à remarquer les nombreuses analogies qui existent entre les proprietés des opérations élémentaires de l’algèbre et celles des opérations mentales qui entrent en jeu lorsqu’on raisonne et on déduit. C’est lui qui a entrevu pour la première fois la possibilité d’établir, pour ces opérations, des règles de calcul permettant de substituer les raisonnements par des séries de transformations de formules analogues à celles dont l’algèbre se sert pour la résolution des équations. Dans les nombreux essais qu’il consacra à ces recherches – aggiunge Vailati – […] il exprime souvent l’espoir que, par l’introduction et les perfectionnements successifs de cette nouvelle logique, les hommes pourront être mis en état d’aborder avec une plus grande chance de succès les problèmes philosophiques qui n’ont jamais cessé d’ être l’objet de controverses et de disputes, les quelles, à son avis, ont leur seule origine et raison d’être dans les imperfections et l’insuffisance du langage vulgaire (Scritti, 229-230).

Dopo aver richiamato il calculemus tanto caro a Peano, Vailati si soffermava succintamente sui principali risultati delle ricerche leibniziane: la definizione di uguaglianza tra due classi, le due operazioni logiche fondamentali (somma logica e prodotto logico) e infine le proprietà delle operazioni che ne derivano (commutatività, associatività, univocità). Inoltre Vailati dedicava qualche considerazione agli sviluppi della logica leibniziana, alle indagini 30

Al confronto con il Leibniz di Couturat attribuisce un valore periodizzante per la riflessione vailatiana G. LOLLI, Le forme della logica: G. Vailati, in Le ragioni fisiche e le dimostrazioni matematiche, cit., p. 125.

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di Lambert e Segner e ai risultati cui era pervenuto Boole ricalcando inconsapevolmente la maggior parte degli esiti di Leibniz e di Lambert (Scritti, 230-232). Se si prescinde dal quadro in cui Vailati colloca queste considerazioni, e che ha per termine di riferimento l’attenzione nei confronti dei metodi deduttivi a cui era già dedicata la prolusione torinese del 1897 su Il metodo deduttivo come strumento di ricerca (Scritti, 118-148), e se si lascia momentaneamente in ombra quell’accenno alla possibile risoluzione delle controversie filosofiche che invece in Peano non si trova31, si può dire che Vailati non si discosta dall’immagine di Leibniz ormai consolidata all’interno della scuola torinese. Del resto Vailati aveva collaborato alla stesura del primo tomo del Formulario (uscito nel 1895) e segnatamente alla prima sezione, nella quale compaiono, nelle note storiche, numerosi riferimenti a Leibniz e ai risultati delle sue ricerche logiche: dalle «propositiones per se verae» («a est a; ab est a») alla legge variamente denominata da Boole, Jevons e Schröder come legge di dualità, di semplicità o di tautologia (a = aa: «si idem secum ipso sumatur, nihil constituitur novum seu A + A = A»). Tutti risultati, questi, che venivano tradotti della notazione del Formulario, nella convinzione di una sostanziale corrispondenza tra la logica di Peano e quella di Leibniz32. Gli iniziali interessi leibniziani di Vailati si sarebbero tuttavia intensificati in sintonia con le prime indagini di Vacca sui mano31

Peano, in effetti, parla delle proposizioni e delle teorie «relative ai principi sempre controversi della matematica» (Opere scelte, cit., vol. II, p. 198 = L’immagine della scienza, cit., p. 17). 32 Cfr. Formulaire de mathématique, t. I, Torino, Bocca-Clausen 1895, pp. 127-129. I testi di Leibniz cui fa riferimento il Formulario (e che con ogni probabilità Vailati medesimo conosceva per diretta lettura) sono i frammenti sulla caratteristica e il calcolo logico pubblicati da Gerhardt: in particolare lo Specimen Calculi universalis (e gli Ad Specimen calculi universalis addenda) unitamente al Non inelegans specimen demonstrandi in abstractis (cfr. G.W. LEIBNIZ, Philosophische Schriften, a c. di C.I. Gerahrdt, vol. VII, Berlin, Weidmann 1890, pp. 218-221, 221-227, 228-235). Dei primi due testi si ha una traduzione italiana negli Scritti di logica, a c. di F. Barone, Roma-Bari, Laterza 1992, vol. II, pp. 258-270. Va ricordato però che nel Formulario le citazioni di Leibniz sono tratte talvolta anche dall’edizione Erdmann (che è del 1840 ed ebbe un ruolo chiave nella ricezione ottocentesca di Leibniz, anche del Leibniz logico: cfr. V. PECKHAUS, Logik, Mathesis universalis und allgemeine Wissenschaft, cit., pp. 164-166).

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scritti inediti di Hannover, a cavallo tra la fine del 1899 e gli inizi del 1900. È in questo momento che la logica di Leibniz diventa un nodo di eccezionale rilievo, riaccendendo in termini nuovi un entusiasmo già condiviso in precedenza; ed è lo stesso Vailati, in una lettera a Vacca del febbraio 1900, a paragonare Leibniz «a quelle stelle tanto lontane da noi, che la luce loro, non vista dai contemporanei di essa, è vista da quelli che vivono quando esse, per quanto noi sappiamo, potrebbero aver cessato di emetterla»33. Di lì a poco la monografia di Couturat darà a quella «stella» una luce ancora più intensa; ma occorre subito notare che il leibnizianesimo di Vailati rimane ancora incentrato (e in fondo, come vedremo, lo sarà sempre) sull’esclusiva componente logica, mentre sostanzialmente marginale appare la conoscenza della filosofia e della metafisica di Leibniz. Prova ne sia la confessione di Vailati in una lettera a Giuseppe Amato Pojero del luglio 1899 di non aver mai letto la Monadologia e di non sapere nulla dell’«ipotesi monadologica»34; e ancora nel febbraio del 1902 Vailati chiedeva informazioni allo stesso Pojero circa un’edizione recente dei Nouveaux Essais, che evidentemente non solo non possedeva, ma neppure conosceva di prima mano35. A queste circostanze va aggiunto un ulteriore elemento. Se si esaminano gli scritti di Vailati antecedenti all’incontro con il Leibniz di Couturat si percepisce con nettezza come l’orien33

Epistolario, cit., p. 175. Si ricordi anche la lettera a Vacca del 16 dicembre 1899 (ivi, p. 169), in cui Vailati lo sollecita a inviargli l’articolo sui manoscritti inediti di Leibniz, dicendosi al contempo impegnato nella lettura del tomo II del Formulario (1899), del quale apprezza in particolare le notizie storiche. 34 G. VAILATI-G. AMATO POJERO, Epistolario, cit., p. 49. 35 Ivi, pp. 88-89. Dal Fondo Vailati presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università Statale di Milano, ove è conservata la biblioteca di Vailati, si ricava qualche ulteriore indicazione. Vailati possedeva, di Leibniz, le Oeuvres philosophiques in due volumi curate da Paul Janet (nella seconda edizione rivista e accresciuta [Paris, Alcan 1900]): il primo volume, che contiene i Nouveaux Essais, è stato interamente letto da Vailati; il secondo, che raccoglie la Teodicea e il carteggio con Des Bosses, è invece intonso. Della Teodicea Vailati possedeva anche un’edizione tedesca (Die Theodicee, a c. di R. Habs, Leipzig, Reclam s.d. [ma 1883]), che reca segni di una lettura parziale. Annotati e studiati per intero sono invece gli Opuscules editi da Couturat (sembra acquistati a Bologna nell’aprile 1903); curiosamente manca invece La logique de Leibniz.

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tamento complessivo della riflessione vailatiana sia segnato da un’intonazione positivistica, seppure filtrata e affinata sul piano metodico dalle appassionate letture di Mill e di Mach. Tale indirizzo si salda con la componente logico-simbolica di derivazione peaniana, generando un intreccio che comporta, da un lato, l’attenzione per il rigore deduttivo della logica matematica e per il suo ruolo semplificatore rispetto alla congerie dei «processi mentali» che intervengono nelle ricerche scientifiche; e dall’altro il rilievo accordato positivamente a quella che Vailati chiama appunto – in una recensione a Mach del 1896 – l’«analisi psicologica dei processi mentali», a sua volta inserita in un più ampio disegno di storia delle scienze e dei metodi scientifici36. In altri termini il «deduttivismo» di Peano si interseca con la lezione di Mill e con l’economia del pensiero di Mach37: ne risulta tanto un argine contro il fattualismo del positivismo più ingenuo, quanto un’apertura filosofica innovativa nei confronti di Peano, nella direzione di una «fenomenologia delle strutture deduttive della scienza»38. Da questo punto di vista va dunque sottolineato che alla vigilia dei rinnovati interessi leibniziani Vailati trova il suo modello di integrazione filosofica delle ricerche di Peano – come, più in generale, delle diverse scienze che vengono ormai spartendosi il globo intellettuale – nel «sano metodo di filosofare» incarnato da John Stuart Mill39. «I am a fervent admirer – scrive Vailati a Lady Victoria Welby nel giugno 1898 – of the English classi36

Scritti, 43-45. Accenni analoghi si trovano anche nella prima delle tre prolusioni torinesi (Scritti, 69); e del resto, come già si è visto, nell’articolo del 1899 su Peano Vailati parla delle «opérations mentales qui entrent en jeu lorsqu’on raisonne et on déduit». 37 Significativo in questo senso un passo della prolusione sul metodo deduttivo, ove Vailati richiama «la capacità che ha la deduzione di semplificare e facilitare la descrizione e la caratterizzazione dell’andamento dei fenomeni al cui studio si applica, permettendoci di rappresentare nella nostra mente le leggi, che li regolano, mediante un minimo numero di proposizioni generali, abbraccianti ciascuna un insieme il più possibilmente esteso di fatti particolari e di casi speciali, apparentemente eterogenei» (Scritti, 143). 38 F. BARONE, Un’apertura filosofica della logica simbolica peaniana, cit., p. 47. 39 Così si esprime Vailati in una lettera a Cosmo Guastella del 15 luglio 1898 (cfr. Lettere di Giovanni Vailati a Cosmo Guastella e G. Amato Pojero, a c. di A. Brancaforte, «Rivista critica di storia della filosofia», XXXIV, 1979, p. 51).

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cal philosophical school, in particular of J.S. Mill, whom I believe to be far the most exact and profound writer of the century on philosophical subjects»40: è una dichiarazione che troverà conferma anche nel confronto con Leibniz, non solo per il rilievo accordato all’impostazione milliana del problema delle definizioni e di cui Vailati si servirà per esaminare criticamente la dottrina leibniziana, ma più in generale per un’istanza antimetafisica di ascendenza positivistica che può spiegare la diffidenza vailatiana nei confronti del Leibniz metafisico.

3. Vailati ricevette la Logique de Leibniz di Couturat agli inizi dell’agosto 1901, dopo un’impaziente attesa di diversi mesi41. La lettura fu immediata e appassionata, tanto da suscitare in Vailati il proposito – manifestato appena due giorni dopo – di dedicare un lavoro alla logica di Leibniz da pubblicarsi sulla rivista di Peano42; e già ai primi di ottobre egli comunicava a Pojero di aver ultimato «un lungo resoconto sull’opera del Couturat» e di averne in preparazione un altro, terminato poi una decina di giorni più tardi (ma sembra addirittura che una terza recensione fosse in cantiere, benché non se ne sia conservata traccia)43. In effetti Vailati scrisse due recensioni del libro di Couturat (non è una 40

Epistolario, cit., p. 136. Cfr. G. VAILATI-G. AMATO POJERO, Epistolario, cit., p. 77. Vailati chiedeva informazioni sul libro di Couturat già in una lettera a Vacca del 7 febbraio 1901 (cfr. Epistolario, cit., p. 181). Con ogni probabilità Vailati conobbe personalmente Couturat nell’agosto 1900, al Congresso Internazionale di Filosofia di Parigi che vide l’attiva partecipazione del gruppo di Peano; in seguito si incontrarono anche a Como e a Milano, durante un soggiorno di Couturat in Italia nell’ottobre 1902 (cfr. G. PEANO-L. COUTURAT, Carteggio, cit., p. 49). Inoltre Vailati e Couturat furono sicuramente in contatto epistolare (cfr. Epistolario, cit., p. 210 e infra, n. 51); purtroppo però la loro corrispondenza non è stata sino ad ora reperita. Vailati accennava ai rapporti e alla stima reciproca tra Peano e Couturat già in una lettera a Xavier Léon del 9 luglio 1898 (cfr. Il carteggio Xavier Léon: corrispondenti italiani. Con un’appendice di lettere di Georges Sorel, a c. di L. Quilici e R. Ragghianti, «Giornale critico della filosofia italiana», LXVIII, 1989, p. 337). 42 Cfr. G. VAILATI-G. AMATO POJERO, Epistolario, cit., p. 78. 43 Ivi, p. 79. A una terza recensione fa riferimento Couturat in una lettera a Vacca del 16 gennaio 1902 pubblicata in Lettere a Giovanni Vacca, a c. di P. Nastasi e A. Scimone, «Quaderni di Pristem», n. 5, settembre 1995, p. 53. 41

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circostanza infrequente, questa, nella produzione del filosofo di Crema): l’una apparve sulla «Revue de Mathématique» di Peano, l’altra sul «Bollettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche» diretto da Gino Loria; ma solo la seconda fu inserita nel volume degli Scritti, mentre la prima cadde inspiegabilmente nell’oblìo, oscurando in maniera significativa l’esatta valutazione del Leibniz vailatiano (e in qualche misura lo stesso rapporto con il gruppo di Peano)44. La recensione per la rivista di Peano ha un interessante preambolo in una lettera di Vailati allo stesso Peano del 26 settembre 1901, dalla quale risulta con chiarezza la duplice intenzione di Vailati: si tratta, per un lato, di sviluppare un confronto serrato con «i particolari concreti […] direttamente connessi» al Formulario, lasciando da parte le considerazioni più «generiche»; per un altro lato occorre verificare invece quanto siano consistenti «le critiche del Couturat relative alla corrispondenza tra le proposizioni del Formulario e quelle espresse nelle frasi di Leibniz che vi sono riportate»45. In verità non è chiarissimo quali siano specificamente le «critiche» di Couturat a cui allude Vailati, nonostante – come vedremo – la prima recensione dia alcune indicazioni su questo punto, e nonostante vi siano alcuni luoghi dei testi di Couturat in cui effettivamente viene sottolineata una difformità tra la logica di Peano e quella leibniziana (per esempio per quanto riguarda la capacità del principio di sostituzione salva veritate di ridurre il numero eccessivo di assiomi posti da Peano oppure

44

Scritti, 382-388 (originariamente sul « Bollettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche», IV, 1901, pp. 103-110). La prima recensione (datata Bari, 12 ottobre 1901) apparve invece sulla «Revue de Mathématique», VII, 1900-1901, pp. 148-159. Essa non è mai stata presa in considerazione dagli studiosi Vailati (ad esempio non è neppure menzionata nel saggio di U. SANZO, Quando Vailati legge Couturat, in AA.VV., Giovanni Vailati nella cultura del ’900, cit., pp. 139-148); va però segnalata la sua ripubblicazione in G. VAILATI, Scritti, a c. di M. Quaranta, Sala Bolognese, Forni 1987, vol. II, Scritti di scienza, pp. 193-204, per quanto rimanga incomprensibile la separazione di questa recensione dall’altra, collocata invece nel vol. I, Scritti di filosofia, pp. 260-267. Nel seguito ci riferiremo alla recensione in questione citandola direttamente dalla «Revue de Mathématique». 45 La lettera a Peano si legge in M. QUARANTA, Il contrasto Peano-Vailati, in AA.VV., Scienza e filosofia. Saggi in onore di Ludovico Geymonat, a c. di C. Mangione, Milano, Garzanti 1985, pp. 774-776.

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in merito al segno di negazione)46. In ogni caso si tratta di una circostanza rivelatrice dell’atteggiamento critico di Couturat nei confronti del Formulario di cui già si è detto; e del resto è proprio la necessità di far fronte a tali riserve a segnare in profondità la prima recensione vailatiana, che in larga parte è condotta sul filo di un parallelo tra il Leibniz edito e inedito studiato da Couturat e il Formulario di Peano: un documento, in altri termini, del confronto allora in atto tra due ‘leibnizianesimi’ certamente affini, ma non già identificabili uno con l’altro. Nella sua prima recensione Vailati si sofferma analiticamente soprattutto sulle parti del volume di Couturat che hanno un interesse strettamente logico, in particolare sulle pagine dedicate al primo progetto di combinatoria e poi su quelle che affrontano lo sviluppo del calcolo logico47. Nell’insieme Vailati riassume fedelmente Couturat: sottolinea l’importanza della giovanile Dissertatio de arte combinatoria, rileva le difficoltà derivanti dalla scomposizione delle nozioni sulla base dell’analogia con la scomposizione aritmetica in fattori primi, individua l’ostacolo costituito dall’introduzione in questo quadro aritmetico del segno di negazione per indicare la negazione dei termini (ciò che comporta una trattazione algebrica non coerente dal punto di vista logico)48. Sempre seguendo Couturat, Vailati ripercorre le tappe più importanti della riflessione logica del Leibniz maturo: dal primo tentativo (databile al 1679) di sistemazione del calcolo logico allo Specimen calculi universalis con i relativi Addenda sino ai fondamentali risultati delle Generales inquisitiones de analysi notionum et veritatum del 1686, che Couturat pubblicherà poi per la prima volta negli Opuscules49. L’abbandono, da parte di Leibniz, delle iniziali suggestioni artimetico-combinatorie e il dischiudersi della 46

Cfr. L. COUTURAT, La logique mathématique de M. Peano, cit., p. 641; La logique de Leibniz, cit., pp. 329-330; G. PEANO-L. COUTURAT, Carteggio, cit., p. 18. 47 Cfr. L. COUTURAT, La logique de Leibniz, cit., pp. 33-50, 323-387. 48 «Revue de Mathématique», cit., pp. 149-152. 49 Ivi, pp. 152-156. Cfr. inoltre Opuscules et fragments inédits, cit., pp. 356-399; Scritti di logica, cit., vol. II, pp. 270-325. Delle Generales inquisitiones si ha qui presente anche l’eccellente edizione tedesca con testo latino a fronte e ampio commento del curatore: cfr. G.W. LEIBNIZ, Allgemeine Untersuchungen über die Analyse der Begriffe und Wahrheiten, a c. di F. Schupp, Hamburg, Meiner 1982.

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prospettiva ‘moderna’ del calcolo logico, basata sull’individuazione delle proprietà fondamentali delle operazioni della logica e sull’uso dell’identità per esprimere le relazioni di inclusione, vengono sottolineati da Vailati con una certa enfasi; al tempo stesso, però, i singoli risultati cui era pervenuto Leibniz vengono ‘tradotti’ nel simbolismo di Peano attraverso un fitto gioco di corrispondenze e di rinvii che tradisce non solo un certo spirito di ‘scuola’, ma anche una chiara volontà di leggere Leibniz come una sorta di precursore diretto e di geniale anticipatore50. Tuttavia proprio qui emergono – seppure con una certa allusività – gli spunti critici nei confronti di Couturat. Vailati infatti non solo corregge osservazioni specifiche contenute nella Logique de Leibniz (ad esempio a proposito della possibilità di esprimere la relazione di non-intercommunicatio tra due classi di condizioni)51, ma soprattutto prende le distanze dal rigido estensionalismo al quale Couturat si appoggiava – fedele alla propria adesione all’algebra della logica – per criticare la logica leibniziana nei suoi limiti intrinseci. Non a caso Vailati sottolinea ripetutamente come in Leibniz – specie nel Non inelegans specimen demostrandi in abstractis – il segno di somma logica assuma due significati diversi a seconda che esprima la relazione d’inclusione di una classe (soggetto) in un’altra (predicato), oppure l’inclusione di un insieme di condizioni che definiscono una classe (predicato) tra le condizioni che definiscono un’altra classe (soggetto). In altri termini Vailati mette in rilievo come in Leibniz la somma logica valga tanto per le classi quanto per le condizioni che le definiscono; in questo secondo caso la somma logica corrisponde però al prodotto logico delle classi così definite. Ne deriva che il trattamento in estensione e in intensione sono, pur con questo accorgimento, equivalenti, e da questo punto di vista Vailati rileva la legittimità delle citazioni di Leibniz inserite nel Formulario, là dove il cal50

«Revue de Mathématique», cit., specie p. 153. Ivi, pp. 153-154. Cfr. per contro La logique de Leibniz, cit., p. 341 n. 4 e inoltre la lettera di Vailati a Vacca del 21 ottobre 1901: «Ebbi oggi lettera dal Couturat e ho piacere di essere riuscito a convincerlo che alcune delle sue critiche a delle proposizioni di Leibniz erano basate su una falsa interpretazione del senso che Leibniz attribuisce alle frasi: “le nozioni a e b si escludono” e “le nozioni a e b non sono intercomunicanti”, che egli aveva creduto di poter tradurre scrivendo: ab = 0» (Epistolario, cit., p. 193). 51

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colo logico leibniziano viene citato a supporto del paragrafo dedicato alla somma logica tra classi: ecco perché Vailati non si stanca di ricordare che le proprietà individuate da Leibniz circa la somma logica «possono tanto riguardarsi come riferentesi a quella che attualmente si chiama moltiplicazione logica quanto a quella che ora si chiama l’addizione, purché solo si avverta che, in questo secondo caso, le classi di cui parla Leibniz, e che egli indica un a e b, sono “classi di condizioni”»52. Indubbiamente Vailati riconosce che le oscillazioni di Leibniz tra estensione e comprensione, tra inclusione e uguaglianza di classi e coincidenza, parziale o totale, di condizioni che definiscono le classi, sono alla base del mancato riconoscimento in termini univoci delle due operazioni distinte della somma e del prodotto logici, giacché prese ciascuna per sé le operazioni studiate da Leibniz sono enunciate in termini sostanzialmente corretti, mentre invece l’analisi della reciproca distributività della somma e del prodotto logico e la definibilità di entrambe le operazioni una tramite l’altra in virtù del segno di negazione sono del tutto trascurate; e su questo punto Leibniz «sembra aver lasciato quasi tutto da fare ai suoi successori»53. Ma se questo giudizio coincide con la valutazione di Couturat, per il quale il calcolo logico di Leibniz rimane un grandioso tentativo incompiuto54, ben diversamente stanno le cose nei riguardi della tesi centrale di Couturat, per il quale il limite irrisolto del calcolo leibniziano consiste nel perdurante intensionalismo di ascendenza scolastico-aristotelica responsabile del vero e proprio «fallimento» del tentativo di Leibniz. Al contrario, la «logica algoritmica», di cui Leibniz «ha intravisto i veri principi», può costituirsi solo «dal punto di vista dell’estensione», ossia in 52

«Revue de Mathématique», cit., specie p. 157 (e in precedenza pp. 152-153). Cfr. inoltre Formulaire de Mathématique, t. III, Torino, BoccaClaussen 1901, pp. 19-20. Vale la pena di ricordare che su questo nodo di problemi l’opinione di Couturat è invece apertamente critica: cfr. La logique de Leibniz, cit., pp. 30-32, 343-344, 373-376, 386-387, 432. In generale ciò che Couturat contesta è la traducibilità algoritmica dell’equivalenza tra comprensione (o intensione) ed estensione che lo stesso Leibniz, nonostante la sua preferenza per la comprensione, ha ripetutamente sottolineato (cfr. Opuscules et fragments inédits, cit., pp. 235, 271, 322). 53 «Revue de Mathématique», cit., pp. 158-159. 54 Cfr. La logique de Leibniz, cit., pp. 386-387, 431-432 (e cfr. anche G. VACCA, La logica di Leibniz, cit., p. 69).

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contrasto con la trattazione in comprensione che non è suscettibile di rigorizzazione matematica e, in specie, di raffigurazione geometrica55. Ora ciò che colpisce è la grande cautela con cui Vailati, nella sua recensione, si atteggia nei confronti di queste celebri affermazioni di Couturat, lasciando solo intravvedere un dissidio che avrebbe meritato ben altra discussione. Indubbiamente si deve riconoscere che Vailati ha precocemente colto i limiti dell’interpretazione di Couturat, condizionata dal quadro di riferimento dell’algebra della logica e quindi storicamente circoscritta a una fase della storia della logica moderna che di lì a poco, a partire dallo stesso Russell ‘seguace’ di Peano, avrebbe ceduto il passo al progetto del logicismo (o della «logistica», nel lessico del Couturat di pochi anni dopo ‘convertito’ alla logica di Russell). Né va dimenticato quanto largamente la storiografia leibniziana abbia poi messo in discussione le tesi di Couturat e la sua ostinata battaglia estensionalista, a qualcuno apparsa addirittura come una battaglia «contro i mulini a vento»56: al punto che, più recentemente, è stata sostenuta la plausibilità di un radicale ribaltamento delle tesi avanzate nella Logique de Leibniz, onde non solo l’atto di nascita dell’algebra della logica sarebbe databile alle Generales inquisitiones, ma addirittura Leibniz avrebbe mostrato perfettamente – con buona pace di Couturat – la sostanziale equivalenza e traducibilità reciproca della trattazione estensionale e intensionale57. Da questo punto di vista si potrebbe dunque dire che Vailati aveva ragione; eppure il limite di Vailati consiste nel mancato approfondimento di ciò che egli pur riusciva lucidamente a vedere: la sua, insomma, sembra essenzialmente una messa a punto strettamente ‘tecnica’ tesa a rivendicare la convergenza tra 55

Cfr. La logique de Leibniz, cit., pp. 30, 361, 387. N. RESCHER, Leibniz’s Interpretation of his Logical Calculi, «The Journal of Symbolic Logic», XIX, 1954, p. 1. Un contributo importante alla revisione delle tesi di Couturat rimane il lavoro di R. KAUPPI, Über die Leibnizische Logik mit besonderer Berücksichtigung des Problems der Intension und der Extension, «Acta Philosophica Fennica», fasc. XII, Helsinki 1960, specie pp. 10-11, 209-210, 231-232, 251-253. 57 Cfr. W. LENZEN, Calculus universalis. Studien zur Logik von G.W. Leibniz, Paderborn, Mentis Verlag 2004, pp. 15-64. Si veda anche, sempre di Lenzen, Das System der Leibniz’schen Logik, Berlin-New York, de Gruyter 1990, specie pp. 31-33. 56

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Leibniz e il Formulario di Peano, mentre le ragioni del dissidio con Couturat non emergono con chiarezza, quasi a suggerire una sorta di neutralità di Vailati nei confronti di opzioni fondamentali che investono la natura della logica nella sua valenza anche filosofica. Senza scendere esplicitamente in campo, Vailati sembra piuttosto delineare una filosofia della logica incentrata sulla dimensione eminentemente pragmatica della funzionalità operativa del calcolo logico, ma senza impegnarsi in una discussione che – proprio per i suoi presupposti – avrebbe comportato un confronto serrato su questioni cruciali che mettono in gioco, se si considerano le complesse matrici filosofiche e metafisiche della preferenza leibniziana per l’intensione, l’intero quadro del pensiero di Leibniz58. Era una sfida forse eccessiva per un pensatore come Vailati, il quale mai come in questa occasione appare molto vicino a Peano, non solo per la difesa del Formulario di fronte a Couturat, ma soprattutto per la prudente volontà di non gravare il formalismo logico di implicazioni filosofiche che sicuramente gli parevano sovrabbondanti: «dal punto di vista più generale del Formulario – aveva scritto del resto Vailati a Peano, anticipando il contenuto della sua discussione del libro di Couturat – qualunque distinzione tra il caso che a, b, c siano classi di individui, o classi di condizioni, diventa superflua»59.

4. Un andamento diverso e un’impostazione differente caratterizzano la seconda recensione vailatiana alla Logique de Leibniz. 58

Sulla preferenza leibniziana per il trattamento intensionale e sulle sue implicazioni cfr. ad esempio R. KAUPPI, Über die Leibnizische Logik, cit., p. 134; V. SAINATI, Sulla logica leibniziana, «Filosofia», XXI, 1970, pp. 221258; M. MUGNAI, Astrazione e realtà. Saggio su Leibniz, Milano, Feltrinelli 1976, pp. 87-90; AA.VV., Die intensionale Logik bei Leibniz und in der Gegenwart, «Studia Leibnitiana», Sonderheft 8, Wiesbaden, Steiner Verlag 1979. 59 M. QUARANTA, Il contrasto Peano-Vailati, cit., p. 775. È interessante osservare che in una precedente lettera a Peano non datata, ma risalente al 1898 (ivi, pp. 773-774), Vailati argomentava la possibilità di «considerare l’intero sistema del calcolo logico dal punto di vista d’una teoria generale delle operazioni prescindendo dalla speciale interpretazione (o meglio interpretazioni) di cui esso è suscettibile». Di un’impostazione «utilitaristica» della logica peaniana parlava del resto lo stesso Couturat in La logique mathématique de M. Peano, cit., p. 646.

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Pur riprendendo spunti già contenuti nella discussione apparsa sulla rivista di Peano, Vailati lascia qui in ombra ogni tecnicismo logico e si sofferma piuttosto sul contributo che Leibniz ha portato alla sviluppo dei metodi deduttivi, nel tentativo di «costruire, per le operazioni della logica deduttiva, un algoritmo paragonabile per coerenza ed efficacia a quello dell’algebra» (Scritti, 382). Il quadro di riferimento di questa seconda recensione non è tanto, dunque, il raffronto esplicito con il Formulario, quanto l’esame della riflessione leibniziana – ingiustamente negletta e salomonicamente spartita tra matematici digiuni di filosofia e filosofi con scarse conoscenze matematiche – in ordine alla problematica del «metodo deduttivo come strumento di ricerca» cara a Vailati sin dalla prolusione torinese del 189760. Operando una marcata selezione della ricca indagine di Couturat, Vailati si sofferma pertanto su due aspetti ben delimitati: la scomposizione delle nozioni in elementi ultimi e il problema delle definizioni. Leibniz – osserva Vailati – ha concepito il procedimento deduttivo come una trasformazione di proposizioni per mezzo della sostituzione dei loro termini con le rispettive definizioni. Un sistema di deduzioni è rigorosamente compiuto solo quando esso si appoggia non su proposizioni indimostrabili (assiomi e postulati), bensì su semplici definizioni, ossia su proposizioni analitiche (propositiones identicae). È questa un’opinione, annota subito Vailati, alla quale Leibniz è stato «forzato» dal timore che, in caso contrario, le proposizioni non definite ma soltanto ammesse avrebbero posto in dubbio il carattere necessario e rigoroso della deduzione stessa; e tale osservazione ha un significato preciso: per Vailati, infatti, Leibniz ha certamente compreso che la necessità logica si risolve nella coerenza tra assiomi e conseguenze dedotte, ma invece di fermarsi qui (il che sarebbe stato sufficiente) egli ha voluto sottrarsi al rischio della «perfetta arbitrarietà che si sarebbe in tal modo venuti ad attribuire alle premesse fondamentali d’un dato sistema di deduzioni». In altre parole, per sfuggire ai pericoli di un convenzionalismo di stampo hobbesiano Leibniz si vide sospinto a conciliare i caratteri di un 60

Sulla «spartizione» dell’eredità leibniziana cfr. anche «Revue de Mathématique», cit., p. 148 (si tratta di una ripresa letterale di quanto si legge nella Préface alla Logique de Leibniz, cit., p. VII).

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coerente sistema deduttivo con l’altra sua concezione della riducibilità delle proposizioni a definizioni; e giunse pertanto a «negare che le definizioni fossero, tutte o sempre, proposizioni puramente arbitrarie» (Scritti, 383). Appoggiandosi in parte all’esempio della geometria euclidea, Leibniz doveva così pervenire all’idea di accertare l’assenza di contraddizioni esplicite o implicite nelle definizioni ricorrendo alla scomposizione delle nozioni in termini semplici; ma appunto questa pretesa ricalcata sull’esempio aritmetico della scomposizione in fattori primi e la connessa convinzione che esista in sé e per sé una distinzione tra nozioni semplici e nozioni composte appaiono a Vailati – sarà questo un punto fermo nella valutazione vailatiana di Leibniz – in contrasto con la moderna «logica matematica, secondo la quale designare una nozione come “semplice”, o “primitiva” senza aggiungere rispetto a qual’altra nozione, o sistema di nozioni, s’intenda sussistere tale sua primitività, non può avere più senso che il parlare di moto o di quiete senza indicare a qual punto o sistema di punti s’intenda riferirlo per determinare, o definire, la sua posizione e il suo cambiamento di posizione»61. Vailati rileva dunque in Leibniz una componente ‘assolutistica’ che gli appare inaccettabile, e che significativamente egli mette in contrasto con la logica di Peano62. D’altra parte questa istanza critica investe anche la distinzione leibniziana tra definizioni nominali e definizioni reali. Ripercorrendo rapidamente il senso di tale distinzione, e in particolare la funzione della defini61

Scritti, 385. Vailati rinvia, a questo proposito (lo aveva fatto anche nella prima recensione), al Formulaire de mathématique, cit., t. III, p. 7, ove appunto si spiega come un’«idea primitiva» sia tale solo «relativamente» a un certo «ordine». Né va dimenticato che nel 1900, al Congresso Internazionale di Filosofia di Parigi, Peano aveva insistito sull’impossibilità di «juger de la valeur d’une définition isolée» (Les définitions mathématiques, poi in Opere scelte, cit., p. 363). 62 Probabilmente Vailati lesse poi con soddisfazione, nei testi inediti pubblicati da Couturat, certi passi leibniziani in cui i termini «primitivi» sono intesi non in senso assoluto, bensì «per noi» (cfr. Opuscules et fragments inédits, cit., p. 176: «il y a des certaines Termes primitifs si non absolument, au moins à nostre egard»; si veda pure pp. 220-221: «De Alphabeto cogitationum Humanorum, seu de Notionibus secundum nos primis […]»). Ciò non toglie che Vailati più volte richiami criticamente il «valore assai superiore a quello che merita» della ricerca di «verità assolutamente primordiali» da parte di Leibniz (Scritti, 570).

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zione reale in quanto rivolta ad accertare la possibilità o la realtà dell’ente definito attraverso la non contraddittorietà dei termini semplici che lo definiscono, Vailati accenna innanzi tutto a una sorta di contrapposizione tra il procedimento costruttivo della geometria euclidea – che si basa sulla postulazione della costruibilità di certe figure elementari – e la pretesa di Leibniz di ricavare immediatamente dalla definizione reale la possibilità o l’esistenza tramite la compatibilità dei termini semplici63. Detto altrimenti, Vailati riscontra ancora una volta una tendenza ‘assolutistica’, di cui occorre invece liberarsi e di cui, «a sua parziale giustificazione», lo stesso Leibniz si è liberato quando si è visto costretto a riconoscere che la scomposizione in termini elementari riesce solo in casi «eccezionalmente semplici», in specie in ambito aritmetico. Con ciò Vailati intende richiamare la problematica leibniziana delle verità contingenti, per le quali Leibniz prevede, nell’impossibilità di un’analisi «infinita» dei predicati contenuti nel soggetto e in assenza di una conoscenza immediata attingibile solo dalla mente divina, il ricorso all’esperienza; o meglio, osserva Vailati, a una sorta di esperienza possibile – che sarebbe attestata da un passo dei Nouveaux Essais – in forza della quale «per accertarsi che un dato sistema di asserzioni, che si vuole porre a base di un sistema deduttivo, non contenga alcuna contraddizione diretta o indiretta, basta trovare, o determinare, degli esempi per i quali esse contemporaneamente si verifichino»64. 63

Scritti, 385, Sulla costruibilità fondata su postulati e l’impossibilità di asserire per definizione l’esistenza Vailati insisteva già nella terza prolusione torinese (Scritti, 212-213). Queste e le precedenti considerazioni vailatiane sono riprese e accolte da F. ENRIQUES, Per la storia della logica, Bologna, Zanichelli 1922, rist. an. 1987, pp. 89-91. 64 Scritti, 386. Il passo dei Nouveaux Essais (IV, 17, § 4) dice testualmente: «Ordinairement on se sert des exemples pour justifier les consequences, mais cela n’est pas toujours assés seur; quoyqu’il y ait une art de choisir des exemples qui ne se trouveroient point vrays si la consequence n’estoit bonne» (G.W. LEIBNIZ, Sämtliche Schriften und Briefe, a c. della Deutsche Akademie der Wissenschaften zu Berlin, Philosophische Schriften, vol. VI, Berlin, Akademie Verlag 1962, p. 481; Nuovi saggi sull’intelletto umano, a c. di M. Mugnai, Roma, Editori Riuniti 1982, p. 474). Vailati riferisce tuttavia solo la seconda parte del passo (traendolo da Couturat) e, ci sembra, sopravvalutandone la portata: ciò che forse si chiarisce se si pensa alle discussioni interne alla scuola di Peano sull’assiomatica e, in particolare a un intervento di Pieri (nel 1898), in cui la compatibilità e non contraddittorietà delle pre-

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In questa annotazione di Vailati colpisce una certa facilità nel contaminare il piano delle verità di ragione con quello delle verità di fatto, in vista di una concezione ‘liberalizzata’ e moderna dei sistemi deduttivi; ed è pure singolare che qui Vailati non accenni nemmeno alla tesi sviluppata da Couturat proprio in riferimento alla nozione di verità, vale a dire per ciò che concerne il carattere analitico di tutte le verità (di ragione e di fatto)65. In realtà Vailati inseguiva anche qui un suo problema (e vedremo con quali sviluppi connessi a Leibniz): si trattava cioè, in primo luogo, di valorizzare il più possibile la portata positiva delle ricerche leibniziane in quanto rivolte a contestare una supposta ‘autoevidenza’ o ‘intuibilità’ delle proposizioni primitive di un sistema deduttivo: da questo punto di vista la celebre esortazione di Leibniz, in polemica con Descartes e Pascal, a «dimostrare gli assiomi» svolge una funzione positiva, giacché richiama l’urgenza e l’utilità «delle indagini critiche sui fondamenti delle scienze deduttive». Ma al tempo stesso la dottrina di Leibniz deve essere emendata sia per quel che riguarda l’idea di ridurre «tutti gli assiomi a semplici definizioni o proposizioni identicamente vere», sia per ciò che concerne la funzione delle definizioni reali, che dovrebbero assolvere il compito di determinare la possibilità o l’esistenza della cosa designata. Gravare la definizione di una constatazione o ipotesi relativa all’esistenza è tuttavia – dice Vailati – «una illusione»: paragonabile in certo modo «a quella del contadino che tragittando in barca, credeva di diminuire questa del peso del suo bagaglio, caricandoselo sulle ginocchia» (Scritti,

messe di un sistema deduttivo sono considerate provate là dove si abbia «un esempio, dal quale siano tutte verificate» (cfr. M. BORGA, La logica, il metodo assiomatico e la problematica metateorica, cit., p. 67). Per dovere di precisione va pure ricordato che le citazioni vailatiane di Leibniz (salvo quelle tratte, dopo il 1903, dagli Opuscules) sono quasi sempre tolte dalla Logique di Couturat, spesso con tagli più o meno arbitrari e qualche imprecisione. 65 Couturat dà pieno risalto a questo tema precisamente in una pagina che precede una citazione tratta da De libertate utilizzata anche da Vailati (Scritti, 386; cfr. La logique de Leibniz, cit., p. 211 n. 2). Scrive appena più sopra Couturat: «Leibniz mantient la distinction des vérités de raison et des vérités de fait, des vérités nécessaires et des vérités contingentes; néanmoins, il les considère toutes comme également analytiques» (p. 210). E in nota aggiunge: «on le voit, ce sont toutes les thèses fondamentales de la Monadologie que Leibniz déduit dès 1686 des principes de sa Logique».

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387). Vi sono dunque nelle ricerche di Leibniz dei punti deboli («un errore, se pure fu tale»; «idee non del tutto esatte»); ma nonostante l’«illusione» relativa alle definizioni reali e la discutibile persuasione dell’esistenza di nozioni «assolutamente elementari», Leibniz ha aperto un complesso di indagini fecondissime «relative alla costituzione di un linguaggio scientifico perfetto atto a servire di strumento per le comunicazioni internazionali» e, per un altro verso, ha inaugurato i «due nuovi rami di scienza» costituiti dal calcolo geometrico e dalla logica matematica. Bisogna quindi concludere – osserva Vailati – che l’«errore» di Leibniz ha comunque consentito di portare alla luce tesori insospettati; e a Couturat, che ha contribuito in maniera tanto rilevante a mostrare la fecondità del terreno dissodato da Leibniz, non può che andare il riconoscimento di un lavoro particolarmente prezioso66.

5. Chi leggesse le recensioni di Vailati per cercarvi una discussione puntuale della Logique de Leibniz di Couturat rimarrebbe sicuramente deluso. Le tesi cruciali di Couturat – la dipendenza della metafisica leibniziana dalla logica, la riduzione delle verità di fatto a verità analitiche e, in qualche misura, lo stesso estensionalismo – appaiono complessivamente emarginate, a favore di un esame del calcolo logico e della sua traducibilità nel Formulario di Peano, e poi delle indagini sugli strumenti dei ‘metodi deduttivi’, con particolare riguardo alle definizioni. Se si eccettua qualche vago accenno (per esempio nella prima recensione si parla delle «idee filosofiche più originali» di Leibniz come derivazione delle sue ricerche logiche) il dialogo di Vailati con Leibniz si svolge secondo una direttrice ben precisa, all’ombra di Peano e al tempo stesso mirando alla riflessione sui mezzi operativi della logica. In questo senso proprio il tema delle definizioni, che nella seconda recensione a Couturat emerge con tutta chiarezza, costituisce l’asse privilegiato, come d’altronde è testimoniato da una lettera di Vailati a Generoso Gallucci del66

Scritti, 387-388. Si tratta del resto di una valutazione largamente condivisa all’interno della scuola di Peano: cfr. la lettera di Vacca a Couturat (presumibilmente del 1902), pubblicata in Lettere a Giovanni Vacca, cit., p. 55: «Après voir vu votre livre j’ ai tout de suite pensé: quels remerciements vous auriez de Leibniz s’ il pouvait encore vivre pour vous connaître».

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l’ottobre 1903 in cui egli insiste sulle «molteplici connessioni tra matematica e filosofia» che vengono alla luce da un esame approfondito dell’argomento67. Del resto non è un caso che tra il 1901 e il 1905 Vailati si soffermi a più riprese sul problema delle definizioni, e sempre tenendo presente criticamente Leibniz. Ma in questo contesto un momento importante è pure costituito dalla discussione con Brentano, soprattutto così come essa si delinea nella comunicazione svolta da Vailati nel 1900 al Congresso Internazionale di Filosofia di Parigi. Come è noto, Vailati mette in evidenza, in questa circostanza, il valore logico della «classificazione dei fatti mentali» avanzata da Brentano, soprattutto per quel che riguarda la categoria delle rappresentazioni – che corrispondono alle proposizioni che chiariscono e analizzano il senso di una parola o di una frase – e la categoria delle aspettazioni, che invece hanno a che fare con le asserzioni relative a questioni di fatto. Tradire questa distinzione è, per Vailati, un grave errore, fonte di infinite confusioni: pretendere, in particolare, di passare dalla prima categoria (che corrisponde alle definizioni nominali) alla seconda (che corrisponde alla determinazione o postulazione dell’esistenza) credendo di rimanere comunque sul piano delle definizioni è un’illusione vera e propria, di cui sono vittima ad esempio i matematici che credono poter ridurre la geometria a un puro tessuto di definizioni (Scritti, 483). Ed è proprio questa distinzione a essere al centro della riflessione vailatiana dei primi anni del Novecento, sulla scorta di una suggestione che trae le sue origini da Peano: mentre infatti le definizioni di cui si serve la matematica sono definizioni nominali, tutto ciò che invece si riferisce all’esistenza, alla possibilità o alla costruibilità degli enti definiti non rientra nell’ambito delle definizioni, ma si fonda piuttosto su dei postulati specifici o, per esprimersi con Brentano, su delle aspettazioni irriducibili alle rappresentazioni68. 67

Cfr. Epistolario, cit., p. 483. Il problema delle definizioni attraversa tutta l’opera di Peano, con particolare attenzione proprio alle definizioni nominali: cfr. il già ricordato Les définitions mathématiques (in Opere scelte, cit., vol. II, pp. 362-368) e l’intervento del 1921 su Le definizioni in matematica (ivi, pp. 423-435, specie pp. 425-426). Ma cfr. Formulaire de mathématique, t. III, cit., p. 7: «Une définition est vraie par convention. Sa raison d’être est un fait historique, ou 68

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In questo orizzonte problematico si muovono le considerazioni che Vailati svolge nel 1903 nelle Aggiunte alle note storiche del «Formulario», ove – avvalendosi degli Opuscules di Leibniz editi nel frattempo da Couturat – egli ripercorre brevemente la distinzione tra definizioni nominali e definizioni reali utilizzando anche i testi di Aristotele (Scritti, 449-453). Ma in questa occasione si può notare un significativo spostamento di accento: se da un lato infatti Vailati sostiene, come già aveva fatto implicitamente due anni prima, che le definizioni reali non sono a ben vedere definizioni, bensì (come sosteneva Mill) asserzioni di altra natura concernenti la realtà o l’esistenza, onde le uniche vere definizioni sono appunto quelle nominali, si profila dall’altro lato una rivalutazione della nozione di compatibilità, che Vailati trae ora dalle Generales Inquisitiones: il problema racchiuso nella definizione reale leibniziana mantiene così la sua valenza ‘moderna’ e converge con le geniali visioni della Logica demonstrativa di Saccheri ‘scoperta’ proprio nella prima metà del 190369. Nell’itinerario di Vailati si tratta indubbiamente di un momento di singolare importanza. Di lì a poco, nello studio su Un’opera dimenticata del P. Gerolamo Saccheri, questo nodo ritorna infatti in primo piano: partendo dalla distinzione di Saccheri tra definitiones quid nominis e definitiones quid rei, ossia tra definizioni propriamente dette e proposizioni relative all’esila volontè de l’Auteur. On ne peut pas en donner une démonstration mathématique». Va aggiunto che Vacca, recensendo gli Opuscules, presenterà una svalutazione delle definizioni reali di Leibniz, le quali «escono dal campo della logica matematica e si riferiscono alle discussioni filosofiche, assai vive altra volta, tra nominalisti e realisti» (La logica di Leibniz, cit., p. 69: corsivo nostro). 69 Scritti, 452-453. Al Mill del System of Logic Vailati ascrive precisamente il merito di aver mostrato che «quelle che il Leibniz chiama “definitiones reales”» non sono definizioni affatto, ma proposizioni nelle quali «si trovano riunite due asserzioni diverse, l’una delle quali soltanto è una definizione mentre l’altra è un’asserzione relativa all’esistenza di ciò che prima la definisce». Il richiamo a Mill (e a Pascal) è presente d’altronde anche in Peano (cfr. Le definizioni in matematica, cit., pp. 425-426). Per le Generales Inquisitiones si vedano in specie i §§ 61 e 66 (cfr. Allgemeine Untersuchungen, cit., pp. 52, 58); resta però da vedere quanto Vailati si mantenga aderente al testo leibniziano, di cui sembrano sfuggirgli alcune complesse implicazioni (basti pensare al carattere modale di questo nucleo centrale della logica di Leibniz: cfr. su ciò l’utile Kommentar di Schupp, ivi, pp. 219-237).

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stenza (o alla costruibilità), Vailati sottolinea nuovamente come la confusione tra questi due piani costituisca un grave errore, che conduce ad «argomentazioni illusorie» nelle quali è tacitamente introdotto un postulato di esistenza. Come aveva affermato Saccheri, le definizioni reali sono piuttosto «filiae plurium demonstrationum», ovvero risultati ma non proposizioni primitive di una scienza deduttiva: la loro dimostrazione comporta l’introduzione di postulati primitivi e lo svolgimento di un rigoroso procedimento deduttivo che consenta di accertarsi della compatibilità o incompatibilità tra i caratteri degli enti in tal modo determinati. Ma proprio qui – osserva Vailati – si registra una spiccata convergenza tra Saccheri e Leibniz, se è vero che quest’ultimo, in un frammento edito da Couturat, mette in guardia dal fidarsi di dimostrazioni che discendano da definizioni relative a idee di cui non è stata accertata la possibilità: perché, in questo caso, la contraddizione eventualmente non rilevata può portare ad affermare la verità di due asserzioni contraddittorie tra loro, rendendo inutile la dimostrazione70. Leibniz, aggiunge Vailati, pensava così di aver trovato un «arcano» contro il convenzionalismo di Hobbes; e allo stesso modo anche Saccheri aveva efficacemente mostrato – ancor più rigorosamente di Leibniz – «la necessità di premunirsi contro l’eventuale sussistere di incompatibilità tra le varie proposizioni fondamentali o postulati posti alla base d’una scienza dimostrativa»71. Come si vede, l’analisi di Vailati si arricchisce notevolmente nei primi anni del Novecento: passando attraverso Leibniz e Saccheri, ma anche – vale la pena di ribadirlo – con la costante mediazione di Mill72. Alle origini dei sondaggi di Vailati si coglie con 70

Scritti, 481-482. Il testo di Leibniz in questione è il De organo sive arte magna cogitandi, in Opuscules et fragments inédits, cit., pp. 429-432; Scritti di logica, cit., vol. I, pp. 134-139. 71 Scritti, 483. Sul rigore di Saccheri, che non ricorre come Leibniz a «considerazioni aritmetiche», cfr. anche A proposito d’un passo del Teeteto e di una dimostrazione di Euclide, in Scritti, 516-527 (qui 523 n. 1). 72 Esemplare, in questo senso, lo studio sempre del 1903 su La teoria aristotelica della definizione, in Scritti, 485-496. Una difesa di Mill, in polemica con un’affermazione contraria di Poincaré, si legge anche nella lettera a Vacca dell’8 novembre 1902 (cfr. Epistolario, cit., p. 215). Che Mill serva a Vailati per ‘schiacciare’ Leibniz e Saccheri su un’unica prospettiva ‘modernizzata’ è quanto sostiene a ragione G. LOLLI, Saccheri e le definizioni «filiae plurium

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chiarezza l’incidenza, che andava maturando entro la stessa scuola di Peano, dei problemi connessi alla struttura dei sistemi ipotetico-deduttivi, alle ricerche sull’assiomatica, alla funzione delle definizioni nominali e di altra natura nell'edificio della matematica (definizioni implicite, definizioni per astrazione). Più che il nome di Peano, occorre ricordare forse quello di Padoa (o di Pieri), e in generale richiamarsi a una discussione che si allarga nella direzione di Peirce, di Russell, di Hilbert, della teoria delle relazioni e degli impetuosi sviluppi della logica agli albori del secolo. Attento al dibattito internazionale, Vailati affinava in quegli anni gli strumenti della propria riflessione metodologica, battendo con insistenza sulla necessità di svincolarsi dall’«autoritarismo» dei postulati e da una concezione assolutistica della verità: «Nessuna scienza deduttiva – scrive Vailati a Papini nel maggio 1903 – ha bisogno di conoscere la verità (o la falsità) delle sue premesse fondamentali; ciò che esso ha di mira, è solo di ricercare o determinare che cosa avverrebbe se esse fossero vere; quali sono, cioè, le conseguenze che derivano dal supporle vere»73. In questo quadro Leibniz rimane, almeno sino al 1905, una figura sempre presente nella biblioteca ideale di Vailati, anche se sembra esaurirsi progressivamente lo stimolo alimentato dalla lettura della Logique de Leibniz di Couturat. Per convincersene basta leggere le pagine uscite sulla «Rivista Filosofica» nella primavera del 1905 dedicate a L’influenza della matematica sulla teoria della conoscenza nella filosofia moderna. Si ritrovano qui le considerazioni critiche su Leibniz che già attraversavano le recensioni a Couturat e gli interventi successivi: tanto le riserve nei confronti delle pretese ‘assolutistiche’ della definizione reale e della scomposizione jusqu’au bout delle nozioni, quanto l’apprezzamento, demonstrationum», in Le ragioni fisiche e le dimostrazioni matematiche, cit., pp. 91, 105. 73 Epistolario, cit., p. 356. Sulle definizioni implicite e per astrazione cfr. in particolare De quelques caractères du mouvement philosophique contemporain en Italie, in Scritti, 759-764. Utili indicazioni sugli sviluppi dell’assiomatica nella scuola di Peano si trovano in P. FREGUGLIA, Il calcolo geometrico ed i fondamenti della geometria, in AA.VV., I contributi fondazionali della scuola di Peano, cit., pp. 206 sgg. Importante è pure la lettera di Vailati a Frege del 17 marzo 1904, in cui è discusso Hilbert (cfr. G. FREGE, Alle origini della nuova logica, ed. italiana a c. di C. Mangione, Torino, Boringhieri 1983, pp. 228-229).

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rafforzato dalla convergenza con Saccheri, per quello che resta invece il grande merito di Leibniz: «avere per il primo cercato di formulare le condizioni necessarie e sufficienti per l’applicazione della trattazione deduttiva a un dato ordine di ricerca» (Scritti, 611-618). Il Leibniz di Vailati sembra ormai esaurirsi in questa direzione o, per usare le parole di Vacca, nel riconoscimento del posto che egli occupa «nella storia della logica»74; rimaneva invece aperta la questione di una sua più precisa collocazione nell’evoluzione del pensiero moderno: ultima tappa, questa, del percorso che Vailati conduce insieme a Leibniz.

6. Non sorprende dunque che nel 1905, sulla «Rivista di filosofia e scienze affini», Vailati concludesse la parabola dei suoi interventi leibniziani con un articolo dedicato all’illustrazione del contributo di Leibniz allo sviluppo della logica formale75. Ancora una volta il termine di riferimento è costituito dalla Logique de Leibniz e dall’edizione degli Opuscules, che hanno consentito di cogliere «gli intimi nessi che collegano le varie parti della filosofia di Leibniz ai suoi tentativi e alle sue speranze di perfezionare la teoria aristotelica dei processi dimostrativi» (Scritti, 619). In questa direzione Vailati sottolinea innanzi tutto il sogno leibniziano del calculemus quanto il progetto della caratteristica universale, così come esso è delineato nell’importante lettera a Tschirnhaus del 168476. Quest’ultimo aspetto consente a Vailati di porre in rilievo, con intonazione originale rispetto a Peano e seguendo piuttosto le indicazioni di Couturat, la funzione che riveste la caratteristica universale come dottrina non solo delle relazioni algebrico-quantitative, bensì delle relazioni sulle quali si fonda lo stesso calcolo geometrico. È questo il frutto, aggiunge Vailati, di un’intuizione «geniale», destinata ad essere confermata dallo sviluppo successivo delle scienze matematiche – in particolare dall’Ausdehnungslehre di Hermann Grassmann – e dalla trasformazione della scienza della quantità pura e del numero in una 74

G. VACCA, La logica di Leibniz, cit., p. 66. Cfr. Sul carattere del contributo apportato da Leibniz allo sviluppo della logica formale, in Scritti, 619-624. 76 Cfr. G.W. LEIBNIZ, Scritti di logica, cit., vol. II, pp. 442-446. 75

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più complessa scienza degli ordini e delle relazioni qualititative. La speciosa generale di Leibniz («non omnes formulae significant quantitatem, et infiniti modi calculandi excogitari possunt») dischiude in tal modo la prospettiva di una matematica universale, di un’arte combinatoria che opera su qualità e relazioni77. Con queste osservazioni iniziali Vailati si colloca in una direzione nuova rispetto al leibnizianesimo di Peano. L’insistenza sulla «scienza delle relazioni» mostra infatti la vicinanza di Vailati alla discussione che, da Peirce a Russell allo stesso Couturat, si stava svolgendo nella cultura filosofica e scientifica internazionale sull’onde della ‘nuova logica’, ma che non trova in realtà una risonanza di rilievo all’interno della scuola di Peano; ed è in fondo lo stesso Vailati a sottolinearlo, quando osserva che il Formulario è gravato dal «difetto» di «dare più importanza alle proposizioni che alle relazioni»78. Questa preoccupazione teorica spiega d’altro canto l’interesse con cui Vailati – sempre sulla scorta di Couturat – guarda al rapporto Leibniz-Jungius e alla posizione di quest’ultimo relativamente alle «conseguenze asillogistiche», ossia a quelle inferenze del tipo «se A è maggiore di B, B è minore di A», che costituirono per Leibniz un potente impulso a «risalire, dall’analisi aristotelica dei processi di definizione, a un’altra analisi più generale e più profonda, atta a portare alla determinazione di schemi più comprensivi e più conformi agli atteggiamenti effettivi del raziocinio umano» (Scritti, 622). Questo tema avrebbe potuto suggerire a Vailati non solo un’analisi più circostanziata (è curioso, ad esempio, che di Jungius egli ricordi la

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Scritti, 620, 623. Il riferimento a Grassmann e al rapporto con l’analysis situs di Leibniz è un tema in qualche misura obbligato per un collaboratore di Peano: cfr. G. PEANO, Calcolo geometrico secondo l’Ausdehnungslehre di H. Grassmann preceduto dalle operazioni della logica deduttiva, Torino, Bocca 1888, p. V, nonché la recensione di Peano alle opere di Grassmann sulla «Rivista di matematica», IV, 1894, pp. 167-169 (= Opere scelte, cit., vol. III, pp. 340-342). Al calcolo geometrico e al precorrimento leibniziano di Grassmann dedicava ampio spazio anche Couturat (cfr. La Logique de Leibniz, cit., pp. 388-430, 529-538). Sull’intera questione si veda l’esauriente studio di J. ECHEVERRÌA, L’Analyse Géométrique de Grassmann et ses rapports avec la Caractéristique Géométrique de Leibniz, «Studia Leibnitiana», XI, 1979, pp. 223-273 (che tuttavia non accenna nemmeno a Peano). 78 Così in une lettera a Vacca del 18 dicembre 1901 (Epistolario, cit., p. 195).

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Geometria empirica, ma non la Logica Hamburgensis), bensì un esame delle tesi che, intorno a Leibniz e alla presenza o meno di una logica relazionale, erano state sostenute pochi anni prima da Bertrand Russell79. In realtà Vailati non andava al di là di rapide incursioni, di spunti anche felici – basti pensare al nesso istituito tra la funzione simbolica dei caratteri leibniziani e la teoria della conoscenza di Heinrich Hertz (Scritti, 622) –, senza tuttavia organizzare le sue considerazioni su Leibniz in un quadro compiuto, capace di inserirsi autorevolmente nel dibattito europeo del primo Novecento intorno alla filosofia leibniziana80. Più interessante risulta invece l’analisi che Vailati conduce delle ragioni che hanno impedito alle ricerche di Leibniz di agire in profondità tra i suoi contemporanei determinandone così il prolungato oblìo. A Wolff è rivolta l’accusa di aver aderito alla filosofia leibniziana senza possedere «quella profonda conoscenza dello spirito dei metodi matematici» che la sorregge, onde il leibnizianesimo wolfiano è in realtà senza nerbo; non diversamente, un matematico della levatura di Eulero si rifà a Leibniz sulla scorta di una «cultura filosofica e psicologica» piuttosto 79

Cfr. B. RUSSELL, A Critical Exposition of the Philosophy of Leibniz, London, Allen & Unwin 1900, 8ª ed. 1970, pp. 11-16; Esposizione critica della filosofia di Leibniz, trad. it. di E. Bona Cucco, Milano, Longanesi 1971, pp. 40-46. 80 Si noti che in quegli stessi anni (per la precisione nel 1907) un pensatore molto distante da Vailati come Ernst Cassirer insisteva in maniera non dissimile sul parallelo Leibniz-Hertz (cfr. E. CASSIRER, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, vol. II, Berlin, Bruno Cassirer 19102, rist. an. Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1995, p. 168 n. 1; Storia della filosofia moderna, trad. it. di A. Pasquinelli, Milano, Il Saggiatore 1968, vol. II, p. 198 n. 1). Per la verità non è escluso che sia stata proprio l’osservazione di Vailati a suggerire a Cassirer il confronto tra Leibniz e Hertz: come si ricava da una lettera di Vailati a Pojero del 14 maggio 1907, Vailati era infatti in contatto anche epistolare con Cassirer e aveva ricevuto dal filosofo tedesco una copia dell’Erkenntnisproblem, che avrebbe giudicato «interessante solo per le citazioni… di altri autori» (cfr. G. VAILATI-G. AMATO POJERO, Epistolario, cit., pp. 194, 206; il volume non è però conservato nel Fondo Vailati). Considerato che il saggio di Vailati è del 1905, e che egli come ben noto amava instaurare contatti a largo raggio anche a livello internazionale, non è implausibile supporre che Cassirer lo avesse ricevuto e che ne fosse a conoscenza (purtroppo, sino ad ora non risultano reperibili né le lettere di Cassirer a Vailati, né quelle di Vailati a Cassirer: per quest’ultima informazione ringrazio John Michael Krois).

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scarsa81. L’unico genuino rappresentante di uno spirito leibniziano coerente e profondo è invece l’«incomparabile Lambert» (come lo chiamava Kant): a Lambert – afferma Vailati – si deve la ripresa e l’approfondimento delle concezioni di Leibniz sul simbolismo logico, e dalla sua cerchia (Holland e Ploucquet) ha preso impulso una serie di ricerche che anticipano le elaborazioni di George Boole e dello stesso Peano (Scritti, 623). Nel suo insieme quella di Vailati non è una precisa ricostruzione storica (né in fondo intendeva esserlo). Si tratta piuttosto dell’indicazione di una possibile linea di ricerca e, al tempo stesso, di un intervento polemico, volto a sottolineare un approccio alla storia del pensiero imperniato sulla centralità della logica e dell’impresa scientifica. In questo contesto la figura di Leibniz gioca un ruolo esemplare, anche perché la sua modernità ben si accorda con la visione vailatiana della storia della scienza, che procede per rotture e avanzamenti non lineari e spesso deve rifarsi a un passato dimenticato per ritrovare il senso del presente (Scritti, 64-78). La ‘sfortuna’ di Leibniz e di quanti – come Lambert – si rifecero alla parte più positiva della sua dottrina appare in questo senso un fatto singolare ma «non isolato nella storia della scienza», nella quale le scoperte devono talvolta essere fatte una seconda volta per potersi affermare definitivamente: da questo punto di vista si può dire che senza Boole e De Morgan non si parlerebbe di un’effettiva modernità della logica leibniziana e dei suoi tratti straordinariamente anticipatori (Scritti, 623). In ogni caso – conclude Vailati – occorre prendere atto, seguendo un’indicazione della Symbol Logic di Venn, di quanto sia stata dannosa nel lungo intermezzo tra Leibniz e Boole l’influenza negativa di Kant, di quell’«Herr Professor der Philosophie zu Königsberg» che, pur agendo positivamente sullo sviluppo del pensiero filosofico, «ebbe un effetto disastroso sulla speculazione logica»82. 81

Scritti, 622-623. Su queste valutazioni di Vailati sono da vedersi le riserve di F. BARONE, Logica formale e logica trascendentale. I. Da Leibniz a Kant, Torino, Edizioni di «Filosofia» 1957, nuova ed. Milano, Unicopli 1999, pp. 41-42 n. 8, il quale considera la progressiva uscita di scena dell’opera logico-matematica di Leibniz come una conseguenza della crisi della «trama filosofica e metafisica» che la sorregge. 82 Scritti, 623-624. Anche per questo Vailati tratteneva a stento la sua irritazione nel vedere Erminio Troilo annoverare Lambert tra i «precursori» di

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7. «È come si facesse giorno – scriveva nel 1931 Heinrich Scholz – quando viene citato il grande nome di Leibniz»; e aggiungeva che sarebbe stato meglio, per il progresso della logica, dar «retta un po’ più a Leibniz e un po’ di meno a Kant»83. Nulla sembra più consono a Vailati di un’affermazione come questa, peraltro già formulata in termini analoghi da Couturat nel suo libro e ribadita efficacemente in una lettera a Vacca del 16 gennaio 1902, in cui la modernità di Leibniz rispetto a Kant è vista sia nella «conception formaliste de la Mathématique comme d’une logique générale des sciences», sia nella «théorie de la verité analytique» in contrapposizione ai giudizi sintetici a priori kantiani84. Ora l’alternativa Leibniz-Kant è in effetti un nodo importante e consente di mettere meglio a fuoco il retroterra del ben noto antikantismo di Vailati, che non si nutriva di un semplice pregiudizio e affondava le sue radici «in tutto un complesso di ricerche logiche e matematiche del massimo rilievo»85. Né va dimenticato che la polemica di Vailati contro la filosofia kantiana e la connessa ‘riscoperta’ di Leibniz si inserivano in una discussione ben viva nel primo Novecento europeo, quando la riflessione più avanzata sulla matematica e sulla logica (o sulla ‘logistica’, per impiegare il termine coniato da Couturat) si sviluppava impiegando largamente una terminologia leibniziana e kantiana, quasi rinnovando – se si guarda almeno alla posizione di Poincaré – il «vecchio conflitto» tra seguaci di Leibniz e seguaci di Kant86. Di qui, nonostante sia difficile sfuggire alla sensazione di una certa Kant (cfr. la recensione del 1904 al volume di Troilo dedicato a I moderni precursori di Kant, in Scritti, 680-682). 83 H. SCHOLZ, Abriß der Geschichte der Logik, 2ª ed. immutata, Freiburg-München, Alber 1959, pp. 48, 55; Storia della logica, a c. di C. Celllucci, Roma-Bari, Laterza 1983, pp. 65, 72. 84 Cfr. Lettere a Giovanni Vacca, cit., p. 53. Si veda inoltre La logique de Leibniz, cit., p. 440 n. 4, nonché La philosophie des mathématiques de Kant, in appendice a Les principes des Mathématiques, cit., p. 303; trad. it. cit., p. 87. 85 E. GARIN, Giovanni Vailati nella cultura italiana del suo tempo, cit., p. 79. Sull’avversione preconcetta di Vailati nei confronti di Kant ha invece insistito S. MARCUCCI, Il pensiero di Giovanni Vailati, Torino, Edizioni di «Filosofia» 1958, pp. 11-15. 86 Cfr. E.G. ZAHR, Mathematik, Ontologie und die Grundlagen der empirischen Wissenschaften, cit., p. 96 e L. BRUNSCHVICG, Les étapes de la philosophie mathématique, Paris, Alcan 19222, p. 397.

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frammentarietà, si possono comprendere certe prese di posizione di Vailati, tese a sottolineare la contrapposizione tra Kant e Bernard Bolzano o, per converso, la continuità tra Leibniz e l’opera di Hermann Grassmann, nella quale non vi è traccia alcune dell’«influenza kantiana»87. Ma in questo contesto fortemente segnato dalla polemica con la tradizione del kantismo occorre soprattutto riferirsi all’attacco piuttosto aspro nei confronti delle «acrobazie» filosofiche di Poincaré, a cui fanno da contraltare le convergenze con Couturat per la sua «requisitoria» contro Kant condotta solitariamente in mezzo a un coro di voci «inneggianti ed esaltanti i vari meriti della filosofia kantiana»88. Eppure non va dimenticato che anche le ‘alleanze’ con Couturat trovavano un limite nella battaglia per la logistica intrapresa dall’autore della Logique de Leibniz, nella direzione di una filosofia della logica che si divarica vistosamente dall’elaborazione matura di Vailati. Tanto più che proprio Couturat, nel 1906, prendeva posizione contro il pragmatismo, quasi contemporaneamente all’articolo vailatiano sul «Leonardo» dedicato a Pragmatismo e logica matematica che si conclude notoriamente con un attacco alla «degenerazione adiposa delle teorie» in nome del loro «carattere strumentale»89. D’altra parte, come già si è accennato, il contributo di Vailati alla ‘rinascita leibniziana’ europea va circoscritto nei suoi limiti. 87

Scritti, 455. Su Bolzano, pensatore «troppo dimenticato», Vailati ritorna anche in un paio di altre occasioni, per mettere in rilievo un passo della Wissenschaftslehre in cui Bolzano critica il carattere necessario della proposizione ‘ogni effetto ha una causa’, rivendicandone invece il carattere fattuale e, per Vailati, «utile» alla conoscenza (Scritti, 557, 936). Un accenno a Bolzano, indicativo dell’interesse di Vailati, è anche in una lettera a Pojero del 13 novembre 1902 (G. VAILATI-G. AMATO POJERO, Epistolario, cit., p. 119). 88 Su questo punto si rimanda a quanto se ne è detto nel cap. 5, pp. 159160; cfr. inoltre la lettera a Papini del 21 giugno 1904, in Epistolario, cit., p. 402. 89 Scritti, 689-694 (su cui cfr. S. BOZZI, Vailati e la logica, in AA.VV., I mondi di carta di Giovanni Vailati, cit., p. 110, secondo il quale queste pagine smentiscono la «leggenda di un Vailati attento studioso delle basi filosofiche della Logica Matematica»). Di Couturat si ha qui presente la Leçon inaugurale au Collège de France, in L’oeuvre de Louis Couturat, cit., pp. 17-33 (il testo, letto l’8 dicembre 1905, uscì sulla «Revue de Métaphysique et de Morale» nel 1906 con il titolo La logique et la philosophie contemporaine: per la critica al pragmatismo cfr. pp. 28-31).

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Del libro di Russell su Leibniz Vailati sembra sì informato, ma sollecitato da Pojero si limita a un giudizio abbastanza generico e per giunta negativo («Ho visto il libro del Russell su Leibniz – scrive nell’agosto 1902 –; non mi è molto piaciuto»)90. Non diversamente, e anche qui grazie a Pojero, Vailati è a conoscenza della monografia su Leibniz del giovane Cassirer; ma in questo caso si tratta di una conoscenza indiretta, mediata essenzialmente dalla recensione che ne aveva fatto Couturat, alla quale non sappiamo se fece davvero seguito l’intenzione di Vailati di fare acquisto «alla prossima occasione» del volume sul Leibniz’ System (che in effetti non si trova tra i libri della biblioteca vailatiana)91. Certamente Vailati era informato della querelle sull’interpretazione di Leibniz sviluppatasi tra Russell, Couturat e Cassirer a cui già si è fatto riferimento (e in particolare ben sapeva, via Couturat, che il Leibniz cassireriano appariva sostanziosamente ‘kantianizzato’); ma non sembra che abbia seguito con particolare interesse questa discussione e nemmeno che si sia impegnato a prendere in esame alcuni dei nodi cruciali delle letture ‘panlogistiche’ di Leibniz con cui si apriva il nuovo secolo92. Persino del 90

G. VAILATI-G. AMATO POJERO, Epistolario, cit., p. 111. Si veda inoltre la lettera di Pojero a Vailati del 12 giugno 1902, ivi, p. 109. Se non andiamo errati, Vailati si riferisce al libro di Russell su Leibniz solo nella lettera appena citata; e del resto pare di capire che del Russell antecedente ai Principles of Mathematics Vailati abbia in sospetto il giovanile ‘kantismo’, della cui presenza nel libro del 1897 sui fondamenti della geometria il filosofo di Crema si lamentava in una lettera a Gallucci (cfr. Epistolario, cit., p. 479). Non per nulla, dopo aver ricevuto da Russell i Principles of Mathematics, nel giugno 1903 Vailati scriverà invece al filosofo inglese di accordarsi ora perfettamente con lui «in the energical reiection of all the characteristical tenets of the Kantian doctrine» (M. DE ZAN, I carteggi europei di Vailati, cit., p. 45). Sono inoltre da menzionare due lettere di Vailati, l’una allo stesso Gallucci del settembre 1903 e l’altra a Papini del maggio 1904, in cui è richiamata la convergenza del Russell dei Principles con il Leibniz logico studiato da Couturat (cfr. Epistolario, cit., pp. 481, 400). 91 Cfr. la lettera di Vailati a Pojero del 30 maggio 1902 (cfr. G. VAILATIG. AMATO POJERO, Epistolario, cit., p. 106) e la precedente lettera di Pojero a Vailati del 27 maggio, in cui Pojero raccomandava la lettura del libro di Cassirer (ivi, p. 105). 92 Su questa discussione, oltre alle indicazioni fornite più sopra alla n. 11, si veda l’accurata esposizione di D. MAHNKE, Leibnizens Synthese von Universalmathematik und Individualmetaphysik, Halle, Niemeyer 1925, rist. an. Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann 1964, pp. 324-369.

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libro di Couturat, come si è visto, Vailati conduce un esame decisamente selettivo, teso tra il Formulario di Peano e il problema delle definizioni; ma non prende in considerazione l’interpretazione complessiva di Couturat, come del resto è documentato dalla scarsa attenzione che Vailati dedica a un rilevante intervento di Couturat apparso nel 1902 sulla «Revue de Métaphysique et de Morale», ove lo studioso francese pubblicava, a sostegno delle sue tesi, un inedito leibniziano (intitolato Primae veritates) e lo accompagnava con un commento che è una sorta di compendio della Logique93. Di fatto il Leibniz di Vailati non va oltre un gruppo di temi ben circoscritti; ma né la metafisica della sostanza individuale (che pure, come aveva mostrato Couturat, era legata alla logica da un vincolo di stretta dipendenza), né – e ciò forse può sorprendere – molta parte della problematica scientifica del pensiero leibniziano (dal calcolo infinitesimale alla dinamica) trovano in Vailati una considerazione adeguata94. Oltre ai testi di logica – da quelli utilizzati sulle orme di Peano agli Opuscules editi da Couturat – il filosofo di Crema apprezza ampiamente solo i Nouveaux Essais; e il motivo è chiaro: attraverso i Nouveaux Essais Vailati giunge a Leibniz passando per Locke, quel Locke di cui, scrivendo a Papini nel 1904, egli tesse un elogio tutto da rileggere95. Né va dimenticato, a questo proposito, il richiamo a Locke che Vailati svolge nell’articolo del 1905 su Leibniz, là dove sottolinea come la caratteristica universale abbia qualche analogia con la «dottrina dei segni» che chiude l’Essay lockeano; in tal modo, posto che Vailati avesse a mente una ‘geneaologia’, l’indirizzo vitale della filosofia moderna va da Locke a Leibniz, non certo da Leibniz a Kant (Scritti, 620). 93

Cfr. L. COUTURAT, Sur la métaphysique de Leibniz (avec un opuscule inédit), «Revue de Métaphysique et de Morale», X, 1902, pp. 1-25. Un breve riferimento a questo testo è in una lettera a Vacca del 31 gennaio 1902 (cfr. Epistolario, cit., p. 199). In ogni caso sembra eccessivo affermare, come fece a suo tempo Lalande, che Vailati approvò «sans restriction» le tesi di Couturat (cfr. A. LALANDE, L’oeuvre de Louis Couturat, cit., p. 655). 94 Una certa diffidenza per il Leibniz matematico, in quanto legato a una nozione non rigorosa come quella di infinitesimo e oscillante tra infinito attuale e infinito potenziale, era del resto diffusa nella scuola di Peano: cfr. G. VIVANTI, Il concetto d’infinitesimo e la sua applicazione alla matematica. Saggio storico, Mantova, Stab. Tip. Lit. G. Mondovì 1894, specie pp. 15-16. 95 Cfr. Epistolario, cit., pp. 406-407.

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Ma il ponte gettato tra Locke e Leibniz documenta anche (si tengano presenti le date: il 1904, il 1905) un momento cruciale della riflessione vailatiana. Avviato, sotto il segno del pragmatismo, «l’incontro della logica coi “fatti particolari”»96, Vailati si accingeva a precisare certe gerarchie tra gli autori, tra i classici da leggere o far circolare sulle pagine del «Leonardo» come tra le righe delle sue lucide recensioni. Occorreva ormai andare oltre l’innesto di Leibniz e di Saccheri (mediati magari da Mill e da Brentano) sulla logica peaniana; e così lo stesso Leibniz, pur rimanendo una figura di primo piano nella galleria ideale di Vailati, lasciava il posto ad altri protagonisti, vicini o lontani97. Nonostante ciò Leibniz era ancora ben presente – e sia pure attraverso Locke – in un’altra direzione, che si diversificava ormai dalla prospettiva di Peano: nel senso, cioè, di una critica del linguaggio e delle sue svariate forme più che della configurazione di una ‘lingua universale’ che realizzasse tramite l’ideografia il sogno di una comunicazione sovranazionale. Al contrario Leibniz (a cui, da un certo momento in poi, viene sempre accoppiato il nome di Locke) indicava per Vailati la strada, che sarà poi imboccata dal pragmatismo, di una critica di ogni uso ipostatizzato del linguaggio e in particolare dei concetti astratti, i quali devono piuttosto essere tradotti nei loro corrispondenti termini concreti: giacché – come aveva appunto detto Leibniz – «carere potest abstractis in lingua philosophica»98. 96

A. SANTUCCI, Il pragmatismo in Italia, cit., p. 213. I riferimenti a Leibniz, dopo il 1905, si fanno decisamente più radi e sono sostanzialmente riducibili ai temi delle recensioni a Couturat o degli interventi compresi tra il 1901 e il 1905. Cfr. ad esempio La grammatica dell’algebra e Le origini e l’idea fondamentale del pragmatismo, in cui Vailati – ribadendo una convergenza già individuata in altre occasioni – allinea Leibniz a Brentano e a Boole per aver concepito le proposizioni generali come neganti e quelle particolari come affermanti l’esistenza di determinate specie di oggetti (Scritti, 888, 926). 98 Scritti, 757, 941 (si tratta rispettivamente dei due saggi De quelques caractères du mouvement philosophique en Italie e Il pragmatismo e i vari modi di non dir niente). Su Locke e sulla possibilità di evitare le insidie del linguaggio «mediante l’appello al concreto, all’individuale, al particolare, di cui l’astratto, il generale non devono essere riguardati che dei recipienti», cfr. Epistolario, cit., p. 407 (lettera a Papini del 29 luglio 1904). Della cautela di Vailati nei confronti dei progetti di lingua universale o artificiale è testimonianza la prudente recensione del 1904 al volume di Couturat e Leau sul97

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Eppure, per quanto stimolanti e inconsuete per l’ambiente filosofico italiano, queste riflessioni vailatiane non sembravano in grado di arricchire in maniera significativa l’immagine di Leibniz delineata negli anni immediatamente a ridosso della stagione pragmatistica. Sparsa nelle pagine che si sono analizzate o consegnata a rapidi cenni affidati alle lettere private, quell’immagine rispecchia sì, fedelmente, la peculiarità del lavoro sobrio e misurato di Vailati, ma difficilmente può essere considerata come l’inizio di una vera e propria ‘tradizione’ interpretativa. Benché la lettura vailatiana di Leibniz possa oggi apparire più vicina all’esito che ha avuto la Leibniz-Forschung internazionale di quanto non lo siano – è ormai un luogo comune osservarlo – certi giudizi di Croce e dell’idealismo, è doveroso riconoscere che i brevi contributi di Vailati non hanno minimamente inciso sulla storiografia italiana dedicata a Leibniz tra le due guerre: non solo per l’ostracismo idealistico e spiritualistico nei confronti del Leibniz logico, ma anche perché la proposta di lettura avanzata da Vailati non seppe ricostruire un profilo più esaustivo di una filosofia che forse lo stesso Vailati identificava ancora con il ‘romanzo metafisico’ della Monadologia99. Vailati fu certo il primo, in Italia, a far conoscere Couturat e un ‘altro’ Leibniz; ed ebbe pure un ruolo importante nel dare al leibnizianesimo di Peano uno spessore

l’Histoire de la langue universelle (Scritti, 541-545). Da questo punto di vista non c’è nulla di nuovo nemmeno nel testo (sempre nel 1904) Sulla lingua internazionale edito negli Scritti curati da Quaranta (vol. I, pp. 413-414). 99 Di Croce si veda la recensione dell’articolo di Couturat Pour la logistique («La Critica», IV, 1906, pp. 397-381, poi in Conversazioni critiche. Serie prima, cit., pp. 139-141), ove si sottolinea il carattere non filosofico delle «due aride idee» di Leibniz: il calcolo logico e la caratteristica universale. Affermazioni non dissimili si leggono anche nella Logica come scienza del concetto puro, cit., per es. p. 347, nonché in una lettera a Gentile del 25 aprile 1905, in cui Croce ironizza su Couturat come «nuovo tipo di filosofo […] a base di logica matematica e di lingua universale, e di un leibnizianesimo che raccoglie tutto ciò che è di falso in Leibniz trascurando tutto ciò che vi è di filosofico» (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 180). Su questa linea si colloca anche Guido De Ruggiero nella sua Introduzione alla Monadologia, Bari, Laterza 1971, p. 8 (la prima ed. è del 1937). Per quanto riguarda l’interpretazione gentiliana di Leibniz cfr. l’informato studio di G. TOGNON, Il Leibniz di Giovanni Gentile. Un capitolo sulla storia e sulla fortuna di Leibniz in Italia, in AA.VV., Scritti in onore di Eugenio Garin, Pisa, Scuola Normale Superiore 1987, pp. 455-474.

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maggiore e un’accortezza critica più affinata. Tuttavia il ritorno a un certo Leibniz sottratto a ipoteche spiritualistiche o a letture monocordi è, nella filosofia italiana del Novecento, una conquista faticosa, che potrebbe riconoscere in Vailati un precursore più per ragioni di postuma riconoscenza nei confronti dell’acuto interlocutore di Couturat che per l’effettiva continuità di un indirizzo di ricerca profilatosi con il filosofo di Crema agli albori del secolo100.

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Tra gli interpreti italiani di Leibniz tra anteguerra e anni Cinquanta si hanno qui presenti E. COLORNI, Scritti, a c. di N. Bobbio, Firenze, La Nuova Italia 1975, pp. 41-162 (ma di Colorni va ricordata anche l’ottima edizione della Monadologia. Preceduta da una esposizione antologica del sistema leibniziano, Firenze, Sansoni 1935 [ristampata nel 1986]) e G. PRETI, Il cristianesimo universale di G.G. Leibniz, Milano-Roma, Bocca 1953; merita pure di essere menzionato R. MONDOLFO, Leibniz nella storia della filosofia, raccolto nel suo volume Filosofi tedeschi. Saggi critici, Bologna, Cappelli 1958, pp. 9-63. Il discorso su Leibniz nel Novecento italiano meriterebbe comunque di essere ripreso con maggior ampiezza: cfr. intanto V.A. BELLEZZA, Gli studi leibniziani in Italia dal 1900 a oggi, «Archivio di filosofia», XVI, 1947, vol. I, pp. 27-35; A. BAUSOLA, Gli studi leibniziani in Italia nell’ultimo quarantennio, «Rivista di filosofia neoscolastica», LIV, 1962, pp. 69-98; V. SAINATI, Sulla logica leibniziana, cit., pp. 223-225. A margine di quanto si è detto nelle pagine precedenti vale la pena di ricordare che la Logique de Leibniz di Couturat fu subito recensita anche da Bernardino Varisco sulla «Rivista Filosofica», IV, 1902, pp. 549-555: ma è un documento abbastanza curioso di una lettura superficiale, intessuta di preoccupazioni sostanzialmente lontane da quelle di Couturat e dello stesso Vailati.

7 ANCORA SUL ‘CASO’ ENRIQUES. LA DISCUSSIONE ITALIANA ED EUROPEA SUI «PROBLEMI DELLA SCIENZA» 1. Di Federigo Enriques molto si è scritto in tempi recenti, via via correggendo pregiudizi e luoghi comuni che ne hanno accompagnato la fortuna (o meglio la sfortuna) sin dalle memorabili polemiche con Croce e Gentile agli inizi del Novecento1. La sua attività «poliedrica» di «filosofo e scienziato» è emersa con un’innegabile ricchezza di aspetti e ha stimolato rivisitazioni importanti, anche per chi non condivida gli eccessi di certe riattualizzazioni tese a fare di Enriques un modello di epistemologia storica degno di figurare nelle prime pagine delle agende filosofiche odierne. Come ha scritto Umberto Bottazzini, in realtà «Enriques è una complessa figura di intellettuale, che si impone nel panorama della cultura nazionale e internazionale della prima 1

Per una rassegna degli studi su Enriques si tengano presenti L. GALLO, La figura di Federigo Enriques fra rivalutazione e deformazione, «Rivista di filosofia», LXXXVI, 1995, pp. 145-166 e, con un’ottica in parte diversa, O. POMPEO FARACOVI, Enriques ieri e oggi, «Rivista di storia della filosofia», LII, 1997, pp. 305-319 (e della stessa Faracovi il contributo Recenti studi su Enriques, in AA.VV., Federigo Enriques. Matematiche e filosofia. Lettere inedite, bibliografia degli scritti, a c. di O. Pompeo Faracovi e L.M. Scarantino, Livorno, Belforte & C. Editori 2001, pp. 23-43). Tra gli studi su Enriques, oltre alle indicazioni che si daranno nel seguito, si vedano soprattutto AA.VV., Federigo Enriques. Approssimazione e verità, a c. di O. Pompeo Faracovi, Livorno, Belforte Editore Librario 1982; O. POMPEO FARACOVI, Il caso Enriques. Tradizione nazionale e cultura scientifica, Livorno, Belforte Editore Libraio 1984; AA.VV., Federigo Enriques filosofo e scienziato, a c. di R. Simili e A. Pasquinelli, Bologna, Cappelli 1989; AA.VV., Federigo Enriques. Filosofia e storia del pensiero scientifico, a c. di O. Pompeo Faracovi e F. Speranza, Livorno, Belforte Editore Libraio 1998 (con bibliografia degli scritti più rilevanti su Enriques dal 1946 al 1997).

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metà del Novecento» vivendo «da protagonista gli entusiasmi e le delusioni che attraversano la cultura italiana dei primi decenni del secolo: la grande stagione della matematica e il suo progressivo declino negli anni tra le due guerre, il contemporaneo trionfo dell’idealismo, la sconfitta dei progetti di riforma della scuola e dell’università improntati ad una cultura scientifica»2. Da questa complessità della figura di Enriques, impegnato contemporaneamente su fronti diversi e sempre presente nel vivo del dibattito culturale italiano in anni cruciali, deriva la difficoltà di mettere a fuoco il suo percorso tra scienza e filosofia, senza cadere (come spesso è avvenuto) in semplificazioni eccessive e senza cedere alla tentazione ricorrente di erigerlo a simbolo di una ‘sconfitta’ che avrebbe aperto le porte alla trionfale marcia dell’idealismo. In questo senso anche il ‘caso Enriques’ non sfugge al sano principio di contestualizzazione storica che dovrebbe accompagnare la rilettura delle sue pagine e, soprattutto, delle opere che più consapevolmente miravano a incidere sulla filosofia e sulla cultura scientifica in Italia nei primi anni del Novecento: dai Problemi della scienza del 1906 a Scienza e razionalismo del 1912, ossia nel breve ma intenso arco di tempo in cui Enriques – ed è questo il punto su cui occorre insistere – non fu solo discusso da Croce e da Gentile, né tantomeno trovò soltanto in loro degli ‘avversari’. A ben vedere, infatti, proprio i Problemi della scienza – senza dubbio il libro di Enriques più importante e più noto anche fuori d’Italia – confermano la tesi sostenuta da Ornella Pompeo Faracovi, secondo la quale nel primo quindicennio del secolo, a differenza di quanto poi avvenne negli anni Venti e Trenta, «i filosofi italiani non si erano affatto disinteressati» delle idee di Enriques e, anzi, ne avevano in qualche modo riconosciuta la «presenza» all’interno della cultura filosofica contemporanea3. Appunto per questo chiarire in qual modo venne accolta la prospettiva del ‘filosofo e scienziato’ e, al tempo stesso, collocare la sua ricezione 2

U. BOTTAZZINI, Appunti per una biografia scientifica di Federigo Enriques, nel volume di AA.VV., Le città di mare e lo spirito scientifico. Per Federigo Enriques, La Spezia, Agorà Edizioni 2001, p. 7. 3 O. POMPEO FARACOVI, Recenti studi su Enriques, cit., p. 26. Sullo «stereotipo» dell’«isolamento» di Enriques si veda anche quanto scrivono la stessa Pompeo Faracovi e Francesco Speranza nell’Introduzione a Federigo Enriques. Filosofia e storia del pensiero scientifico, cit., p. 11.

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non solo nel panorama italiano, bensì allargando lo sguardo alla comunità filosofica internazionale negli anni della belle époque, può dirci qualcosa di utile sull’immagine di Enriques nel suo tempo e può forse aiutarci a capire in quale contesto si sia svolta la sua battaglia ideale, con i suoi pregi e tuttavia anche con i suoi limiti innegabili che già numerosi bilanci hanno cercato di mettere a fuoco4. Ma che genere di libro è la summa con cui Enriques si presenta, nel 1906, sulla scena della filosofia italiana, ben presto incassando le reazioni molto diverse di personaggi come Vailati, Ardigò, Gentile, De Sarlo, Varisco, Faggi (e, all’estero, di Moritz Schlick, Friedrich Kuntze, André Lalande, Pierre Boutroux, Josiah Royce e altri ancora)? Per rispondere a questa domanda in maniera soddisfacente è forse opportuno partire dal nucleo originario da cui è nato il libro di Enriques, frutto di una «riflessione» – come ricorderà lo stesso Enriques – sviluppatasi nell’ultimo decennio dell’Ottocento e giunta a risultati stabili agli albori del nuovo secolo5. In particolare il punto dal quale prende avvio il percorso filosofico-epistemologico del giovane e già illustre ma4

Ci riferiamo in particolare ai contributi di Paolo Rossi su Enriques e la storia della scienza, in cui gli elementi di debolezza (come il «continuismo» e l’«internismo», talvolta accompagnati da tonalità spiritualistiche) vengono accostati a quelli più innovativi, come l’intento di non ridurre le teorie scientifiche alla loro pura armatura logica (cfr. P. ROSSI, Federigo Enriques, storico della scienza, in Federigo Enriques: approssimazione e verità, cit., pp. 55-70 (ristampato in P. ROSSI, I ragni e le formiche: un’apologia della storia della scienza, Bologna, Il Mulino 1986, pp. 211-228) e Federigo Enriques e la sua immagine della scienza, in Federigo Enriques filosofo e scienziato, cit., pp. 159-176. Fortemente orientata a rilevare le mancanze della visione psicologica e storica della scienza in Enriques, nonché la sua incapacità di inserirsi nella tradizione scientifica italiana rimanendo prigioniero di una concezione addirittura «speculativa», è la valutazione di G. MICHELI, Scienza e filosofia da Vico a oggi, cit., pp. 619-641. Per una più equilibrata discussione sia degli aspetti ‘moderni’ di Enriques, sia delle sue carenze epistemologiche si veda soprattutto P. PARRINI, Filosofia e scienza nell’Italia del Novecento, cit., pp. 57-87. 5 F. ENRIQUES, Problemi della scienza, Bologna, Zanichelli 1906, 2a ed. 1909, rist. an. 1985, p. V (d’ora in avanti citeremo il libro di Enriques con la sigla PS immediatamente seguita dall’indicazione della pagina). Sulla continuità delle «meditazioni filosofiche» di Enriques iniziate sin dagli anni dell’università insiste G. CASTELNUOVO, Commemorazione di Federigo Enriques, «Periodico di matematiche», s. IV, XXV, 1947, p. 88.

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tematico, figura emergente e sempre più autorevole della geometria algebrica italiana, è costituito dal «problema filosofico dello spazio», secondo quanto egli stesso racconta in una lettera a Guido Castelnuovo del 4 maggio 1896. Libri di psicologia e di logica, di fisiologia e di psicologia comparata, di critica della conoscenza ecc. passano sul mio tavolino dove li assaporo con voluttà tentando di estrarne il succo per ciò che concerne il mio problema […] La questione che io tratto non è metafisica ma criticopositiva, ed alcuni aspetti di essa potranno avere da te almeno una neutralità benevola […] Vi è prima il lato critico in ordine alla teoria della conoscenza, e la questione della genesi del concetto di spazio nell’evoluzione: quindi questione delle idee innate e riattaccamento al controverso problema biologico dell’eredità. Come vedi c’è da divertirsi! Per parte mia porto nella ricerca un entusiasmo, che tu stimerai degno di miglior causa, ma che è certo maggiore di quanto ne abbia mai provato per qualsiasi altra questione6.

L’entusiasmo e persino il ‘divertimento’ di Enriques si univano a precise letture e a un orizzonte filosofico-scientifico che non è difficile circoscrivere: è l’orizzonte di un «positivismo critico» o se si vuole di un «criticismo positivistico», in cui un ruolo centrale è affidato all’indagine psicologica e che si inscrive in una sorta di «storia naturale della conoscenza», vero e proprio trait d’union di tanta parte della cultura scientifica e filosofica dell’ultimo Ottocento7. Non per nulla due autori che Enriques cita con grande favore sono Helmholtz e Wundt, quest’ultimo considerato «il più meraviglioso ingegno filosofico» malauguratamente «poco conosciuto in Italia dove solo la filosofia di Spencer è popolare»8. Nei confronti di Spencer il giudizio di Enriques sarà del resto assai severo anche in seguito; ma chi scriverà la biografia intellettuale del matematico livornese non dovrà dimenticare che 6

Riposte armonie. Lettere di Federigo Enriques a Guido Castelnuovo, a c. di U. Bottazzini, A. Conte e P. Gario, Torino, Bollati Boringhieri 1996, pp. 260-261. 7 Questi aspetti sono adeguatamente messi in luce da S. POGGI, Storia naturale della conoscenza ed economia del pensiero: la psicologia contemporanea e i «Problemi della scienza» di F. Enriques, in Federigo Enriques filosofo e scienziato, cit., pp. 143-157. 8 Riposte armonie, cit., p. 261. Si veda anche la successiva lettera di Enriques a Castelnuovo dell’8 maggio 1896, ivi, p. 264.

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più chiara espressione nel saggio del 1901 dedicato alla spiegazione psicologica dei postulati della geometria, con il quale Enriques, sollecitato da Cantoni, entra per la prima volta sulla scena della filosofia italiana presentando il nucleo centrale del suo programma di ricerca e della proposta epistemologica formulata poi compiutamente nel 1906 con i Problemi della scienza12. Le pagine di Enriques, come noto, sono guidate dall’esigenza di approfondire la «spiegazione genetica» della rappresentazione spaziale combinandola e correggendola con il «sentimento di necessità insito alla intuizione matematica dello spazio», componente questʼultima che egli stesso attribuisce alla «critica neokantiana». Di qui la possibilità, per Enriques, di fondare i postulati della geometria come «scienza empirica», senza chiudersi in un «modo di vedere puramente empirico» e coniugandolo invece con la concezione «critica»: l’indagine fisiologica non può insomma emarginare la ricerca propriamente psicologica, la quale mira a scoprire «le condizioni necessarie, dipendenti dalla struttura psichica», che presiedono alla formazione della rappresentazione spaziale13. Ora se dai tre gruppi di sensazioni (tattili, muscolari e visive) si può risalire a tre gruppi di rappresentazioni spaziali a loro volta posti a fondamento della teoria del continuo (analysis situs), della geometria metrica e infine della geometria proiettiva, ciò è possibile solo perché interviene contestualmente quella Enriques. Tradizione nazionale e cultura scientifica, cit., pp. 15-58, che mette in luce come si tratti di «un neokantismo largamente eterodosso, e non solo in rapporto ad alcune linee del dibattito italiano fra Ottocento e Novecento» (p. 19). Queste «linee» andrebbero però meglio specificate, tenendo conto non solo di Fiorentino, ma pure di Cantoni, Tocco, Masci e di tutto il filone ‘psicologico’ che anima il neokantismo italiano. Più articolato, in questo senso, appare invece quanto la stessa Faracovi ha scritto nel suo contributo più recente Sul ‘neokantismo’ di Enriques, in Federigo Enriques. Filosofia e storia del pensiero scientifico, cit., pp. 45-72. 12 Cfr. F. ENRIQUES, Sulla spiegazione psicologica dei postulati della geometria, «Rivista Filosofica», II, 1901, pp. 171-195 (poi in Natura, ragione e storia, cit., pp. 71-94, da cui si cita). Alle sollecitazioni di Cantoni accenna Enriques in una lettera a Castelnuovo del 18 dicembre 1900 pubblicata in Riposte armonie, cit., pp. 468-469. In verità l’articolo di Enriques riprende le tesi presentate già l’anno precedente nelle Questioni riguardanti le geometrie elementari, raccolte e coordinate da F. Enriques, Bologna, Zanichelli 1900. 13 Sulla spiegazione psicologica dei postulati della geometria, cit., pp. 7274, 94.

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più chiara espressione nel saggio dl 1901 dedicato alla spiegazione psicologica dei postulati della geometria, con il quale Enriques, sollecitato da Cantoni, entra per la prima volta sulla scena della filosofia italiana presentando il nucleo centrale del suo programma di ricerca e della proposta epistemologica formulata poi compiutamente nel 1906 con i Problemi della scienza12. Le pagine di Enriques, come noto, sono guidate dall’esigenza di approfondire la «spiegazione genetica» della rappresentazione spaziale combinandola e correggendola con il «sentimento di necessità insito alla intuizione matematica dello spazio», componente quest’ultima che egli stesso attribuisce alla «critica neokantiana». Di qui la possibilità, per Enriques, di fondare i postulati della geometria come «scienza empirica», senza chiudersi in un «modo di vedere puramente empirico» e coniugandolo invece con la concezione «critica»: l’indagine fisiologica non può insomma emarginare la ricerca propriamente psicologica, la quale mira a scoprire «le condizioni necessarie, dipendenti dalla struttura psichica», che presiedono alla formazione della rappresentazione spaziale13. Ora se dai tre gruppi di sensazioni (tattili, muscolari e visive) si può risalire a tre gruppi di rappresentazioni spaziali a loro volta posti a fondamento della teoria del continuo (analysis situs), della geometria metrica e infine della geometria proiettiva, ciò è possibile solo perché interviene contestualmente quella Enriques. Tradizione nazionale e cultura scientifica, cit., pp. 15-58, che mette in luce come si tratti di «un neokantismo largamente eterodosso, e non solo in rapporto ad alcune linee del dibattito italiano fra Ottocento e Novecento» (p. 19). Queste «linee» andrebbero però meglio specificate, tenendo conto non solo di Fiorentino, ma pure di Cantoni, Tocco, Masci e di tutto il filone ‘psicologico’ che anima il neokantismo italiano. Più articolato, in questo senso, appare invece quanto la stessa Faracovi ha scritto nel suo contributo più recente Sul ‘neokantismo’ di Enriques, in Federigo Enriques. Filosofia e storia del pensiero scientifico, cit., pp. 45-72. 12 Cfr. F. ENRIQUES, Sulla spiegazione psicologica dei postulati della geometria, «Rivista Filosofica», II, 1901, pp. 171-195 (poi in Natura, ragione e storia, cit., pp. 71-94, da cui si cita). Alle sollecitazioni di Cantoni accenna Enriques in una lettera a Castelnuovo del 18 dicembre 1900 pubblicata in Riposte armonie, cit., pp. 468-469. In verità l’articolo di Enriques riprende le tesi presentate già l’anno precedente nelle Questioni riguardanti le geometrie elementari, raccolte e coordinate da F. Enriques, Bologna, Zanichelli 1900. 13 Sulla spiegazione psicologica dei postulati della geometria, cit., pp. 7274, 94.

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componente psichica ‘strutturale’ che Enriques non si stanca di sottolineare: «il sentimento di necessità subiettiva» – ed è proprio il sentimento di necessità, si noti, un tema ben presente nel neokantismo ‘riformato’ di Cantoni – si forma infatti applicando le leggi logiche ai concetti «associativamente generati» dall’esperienza, sicché i postulati della geometria sono «condizioni necessarie che sottostanno alla genesi dei concetti geometrici»14. Non possono sussistere molti dubbi sul fatto che l’articolo del 1901 prefigura alcuni nodi centrali dei Problemi della scienza e al contempo ne circoscrive i confini. Come è stato giustamente osservato, Enriques si fa alfiere di un programma che se da un lato risente fortemente della influenza di Felix Klein, dall’altro appare proprio per questo spiazzato nei confronti della grande novità apportata dalle Grundlagen der Geometrie (1899) di David Hilbert; e del resto Hilbert, come per un altro aspetto Poincaré, non compaiono mai nelle pagine del 1901, quasi a sancire una chiusura che sarà poi confermata dalle prese di posizione e dalle critiche successive nei confronti di entrambi15. D’altra parte, se di qui si passa al quarto capitolo dei Problemi della scienza, in cui Enriques riprende le tesi formulate cinque anni prima, non è difficile rendersi conto che proprio a partire da questo nodo si definisce la ‘filosofia scientifica’ di Enriques. In primo luogo perché viene riproposta un’indagine genetico-psicologica che dia fondamento ai postulati della geometria in quanto scienza esatta o «espressione simbolica di rapporti fisici», ma pur sempre ipotetica («un’ipotesi, in ogni momento del progresso scientifico verificata fino ad un certo punto, dalle esperienze fatte»), radicata al contempo nella «struttura del soggetto» che interviene a elaborare i 14

Ivi, p. 94. Ma cfr. anche p. 81, ove Enriques afferma di non voler decidere se tali «elementi psichici strutturali» siano il prodotto dell’evoluzione tramandati per eredità, o siano piuttosto espressione di «leggi biomeccaniche» per quanto ancora ignote; e aggiunge significativamente: «Non nasconderemo tuttavia la nostra preferenza per quest’ultimo modo di vedere conforme alle idee dei neokantiani». L’identità di questi «neokantiani» non è chiarita da Enriques, e forse il riferimento era volutamente generico; ma la discussione che vi era sottesa non riguardava solo Helmholtz, Wundt, Lotze o Herbart, bensì si incrociava con un nodo di questioni ben presenti anche nel contesto italiano dell’ultimo Ottocento. 15 Cfr. U. BOTTAZZINI, I principi della geometria e la filosofia ‘scientifica’ di Enriques, in Federigo Enriques filosofo e scienziato, cit., pp. 57-89.

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dati sensibili (PS, 158, 160, 174). È una prospettiva che ora Enriques estende anche al campo della meccanica, nella convinzione che pure i concetti fondamentali della meccanica siano un «acquisto psicologico» e costituiscano le «condizioni per l’associazione dei dati empirici mediante rappresentazioni astratte», sicché spiegare un concetto fisico significa «indicarne il contenuto sensibile» (PS, 219, 221, 256). D’altra parte è proprio ribadendo «il significato reale della geometria» che Enriques puntualizza la sua posizione nei confronti di Kant, confermandola ulteriormente attraverso la presa di distanza dal convenzionalismo di Poincaré (assente invece, come si è visto, nel 1901). L’errore di Kant, che «lavorava a dimostrare» il significato psicologico dell’intuizione spaziale pur disconoscendone la funzione concettuale, è di avere «distrutto» il significato fisico dello spazio (PS, 161, 167), arroccandosi così su una posizione «nominalistica» che nega alla geometria lo statuto di scienza fisica e riduce lo spazio a mera forma soggettiva della sensibilità, laddove invece lo spazio è il rapporto che si instaura tra la posizione dei corpi reali (PS, 152153). Ma rivendicando, contro Kant, la geometria come parte della fisica Enriques si schierava anche contro il nuovo «nominalismo» di Poincaré, che egli leggeva in fondo come un seguace di Kant intento a sostituire l’a priori con l’elemento convenzionale o arbitrario (PS, 144)16. In particolare Enriques riteneva che non fosse «accettabile» concepire le proposizioni geometriche come un sistema di convenzioni arbitrarie, perché in questo modo veniva recisa la «rispondenza», seppure sempre «approssimativa», che il linguaggio simbolico della geometria deve trovare negli oggetti da esso rappresentati e, più in generale, veniva oscurata la natura dei principi scientifici come «supposizioni determinatesi progressivamente», ovvero come espressioni di «esperienze fatte» (PS, 155, 144). Alla fine, insomma, era più la posizione di Helmholtz o di Riemann a essere condivisa da Enriques (come egli stesso sottolineerà più tardi)17, mentre il «nominalismo» di Poincaré ancora imparentato con Kant non passava l’esame per essere ammesso a una visione della scienza come «conoscenza bene ap16

Si veda in proposito anche quanto Enriques scriverà in Per la storia della logica, cit., pp. 276-279. 17 Ivi, p. 279.

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prossimata» (PS, 335). Il che era forse il prezzo di una lettura troppo affrettata di Poincaré, non esente dalle forzature strumentaliste e dalle riduzioni del convenzionalismo a ‘economia del pensiero’ (PS, 121) che circolavano anche nelle pagine di un ‘avversario’ di Enriques come Croce, autorizzando oggi valutazioni più caute sulla capacità di Enriques di penetrare a fondo nelle «questioni epistemologiche»18. Anche alla luce di queste considerazioni, i Problemi della scienza non possono essere letti come il documento del pacifico passaggio dal «positivismo critico» al nuovo orizzonte concettuale invocato da Enriques (PS, V). Di fatto, Enriques non rompe definitivamente con i ‘paradigmi’ di quello stesso positivismo di cui lamenta i limiti e della cui crisi egli non sembra cogliere tutte le conseguenze sul piano epistemologico, così come non sembra in grado di utilizzare appieno le potenzialità di un neokantismo non esclusivamente schiacciato sul piano delle strutture psichiche della mente umana19. Un indizio molto significativo è in questo senso quanto Enriques sostiene nel capitolo sulla logica, contro il quale si rivolgeranno molte critiche dei suoi recensori in Italia e all’estero. Porsi il problema di «spiegare psicologicamente il processo logico» considerando la logica come «una parte» della psicologia e voler individuare le «intuizioni fondamentali» che stanno alla base dei principi logici (identità, contraddizione, terzo 18

P. PARRINI, Filosofia e scienza nell’Italia del Novecento, cit., p. 75 (e cfr. pure G. GIORELLO, Introduzuone a AA.VV., L’immagine della scienza, cit., p. XIX). Su Enriques e Poincaré si veda inoltre B. CENTI, In difesa della filosofia: Enriques e Poincaré, «Giornale critico della filosofia italiana», LXIII, 1984, pp. 420-443 e G. ISRAEL, Il ‘positivismo critico’ di Federigo Enriques nella filosofia scientifica del Novecento, in Federigo Enriques. Filosofia e storia del pensiero scientifico, cit., pp. 27-30. Tuttavia non vanno dimenticati alcuni elementi di convergenza di Enriques con Poincaré: dall’ostilità nei confronti del logicismo russelliano alla difesa del carattere intuitivo e sintetico della conoscenza matematica (cfr., a quest’ultimo proposito, Per la storia della logica, cit., p. 208). 19 Non del tutto a torto un allievo di Ardigò come Alessandro Levi avrebbe scritto in seguito che Enriques può essere «ascritto alla corrente d’un positivismo ammodernato o, se si vuole così chiamarlo, di un neopositivismo» (A. LEVI, Ricordo di Federigo Enriques, «Rivista di filosofia», XXXVIII, 1947, p. 209). Su un «certo positivismo di fondo» mai abbandonato da Enriques insiste anche S. BELARDINELLI, Federigo Enriques tra scienza e filosofia, «Verifiche», VII, 1978, p. 168.

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escluso) (PS, 94, 105, 112) significava infatti, in quei primi anni del Novecento, chiudere le porte a quanto di nuovo, o se si vuole persino di ‘rivoluzionario’, si era delineato non solo in ambito strettamente logico, ma anche sul fronte dei rapporti tra logica e psicologia o più generalmente tra logica e teoria della conoscenza: un dibattito vastissimo, al quale Enriques finiva invece per contrapporre una «fisiologia della logica» nelle vesti di un’indagine sulla «struttura fisiologica degli organi del pensiero» (PS, 146). Il distacco dai ‘paradigmi’ della cultura positivistica non avveniva certo qui. Se mai era più agguerrito il tentativo di sbarazzarsi di altri residui ingombranti, alla cui rimozione già altri (per esempio Ardigò, come vedremo) avevano dato un contributo. Tali erano la pretesa che vi fossero problemi insolubili o l’agnosticismo dietro al quale si trinceravano molti positivisti; e qui Enriques ribatteva che i problemi insolubili sono solo mal posti o sono problemi affrontati con mezzi inadeguati: come cercare la quadratura del cerchio con costruzioni euclidee, o l’illudersi di poter definire un numero come ultimo termine di una serie indefinita, contravvenendo al precetto di parlare di infinito solo come infinito potenziale (PS, 7, 14). Simili processi «trascendenti» vanno eliminati dal ragionamento, insisteva Enriques; così come va eliminata la nozione di assoluto, «un simbolo privo di senso» (PS, 27) a cui si può riconoscere al più una funzione psicologica, una sorta di «idea direttiva» (PS, 17) che può orientare l’attività dello spirito, ma che come costruzione razionale cessa di essere assoluta e diventa solo relativa: a conferma di quanto sia illusoria la convinzione che «basti designare con una parola l’ultimo termine di una serie indefinita, perché a questa parola corrisponda un oggetto» (PS, 13). Non pochi recensori dei Problemi della scienza si dichiareranno insoddisfatti di queste argomentazioni; ma è pur vero che la «gnoseologia positiva» di Enriques cercava di far breccia nel vecchio positivismo troppo ossequiente «all’osservazione e all’esperienza»20 anche su altro fronte, ossia appellandosi a un Kant interpretato «largamente»: «alla stretta veduta del positivismo – affermava Enriques – crediamo […] che la filosofia di Kant possa ancora aggiungere qualche cosa di scientifico, quando ci si 20

Scienza e razionalismo, cit., p. 42.

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accordi a ritenerne soltanto lo spirito in ciò che ha di migliore, e si muova nuovamente da altre basi ad una costruzione nuova» (PS, 19). Tra le ‘aggiunte’ vi erano il superamento di una rigida delimitazione tra l’elemento soggettivo e quello oggettivo della conoscenza (PS, 21), la visione della scienza come sviluppo progressivo e non come formazione conclusa (PS, 32, 72), l’introduzione di un criterio della realtà come «credenza» nell’invarianza di determinate conseguenze date certe condizioni da noi «volontariamente disposte» (PS, 49, 51, 58), e infine la convinzione che le teorie scientifiche siano essenzialmente formazioni psicologiche, di cui si può dare conto risalendo sì alle ragioni storiche che le hanno condizionate, ma al contempo istituendo «una critica dei processi mentali che valga propriamente a dilucidare la formazione e la variazione dei concetti» (PS, 87). I Problemi della scienza, con gli ampi capitoli sulla logica, la geometria, la meccanica e le considerazioni finali sulla biologia, volevano essere l’esecuzione di questo ambizioso programma. Troppo ambizioso, forse, se è vero che i lettori del libro di Enriques lamenteranno a volte l’eccessiva vena ‘enciclopedica’ e la pretesa di racchiudere il sapere scientifico in una sintesi un po’ farraginosa; ma era un progetto anche squilibrato rispetto alle sue premesse epistemologiche, che davano l’impressione di rimanere troppo sullo sfondo o di comparire – come avviene nella parte sulla meccanica – quasi come corollari di un’illustrazione ‘manualistica’. Molto probabilmente è anche per questo che non pochi, in Italia e altrove, si fermeranno al commento dei primi due capitoli di carattere più filosofico, per discutere limiti e pregi del tentativo di Enriques di uscire dal positivismo ottocentesco e di guardare a un Kant molto ‘riformato’, o magari di ‘civettare’ con i temi allora emergenti dalla discussione sul pragmatismo. Il grande matematico e lo scienziato insigne che parlava in tante pagine dei Problemi della scienza rimaneva così in ombra: con vivo e comprensibile rammarico dello stesso Enriques, il quale, presentando la seconda edizione del 1909, avrebbe lamentato l’atteggiamento della «maggior parte dei critici più superficiali», troppo disattenti a quanto nel libro era stato elaborato in favore della «soluzione dei problemi della critica Kantiana» al di là dei due capitoli iniziali (PS, IX). In una certa misura, occorre riconoscere, Enriques aveva ragione; ma le reazioni suscitate dai Pro-

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blemi della scienza – ben al di là della dura polemica con Croce e Gentile – ci fanno anche pensare che non tutte le colpe fossero da imputare a recensori troppo frettolosi.

2. Il libro di Enriques è stato notoriamente al centro della controversia con Croce e Gentile che ha infiammato la filosofia italiana agli inizi del Novecento, al punto da rappresentare un episodio gravido di conseguenze anche nei decenni successivi. Come è stato detto giustamente, fu «un dialogo tra sordi», destinato a «pesare lungamente» sulla vita culturale italiana ben oltre il breve periodo compreso tra il 1907 e il 1911, in cui Croce e Gentile, giocando anche sul carattere «eclettico» della summa offerta nei Problemi della scienza, tentarono in ogni modo di screditare Enriques e di «distruggerlo come non filosofo»21. Di quella polemica molto si è discusso anche in tempi recenti, e tuttavia è proprio di qui che occorre partire se si vuole sondare in maniera adeguata l’effettiva risonanza dell’opera di Enriques guardando in primo luogo, più che agli aspetti di politica culturale e di scontro tra ‘egemonie’ (o aspirazioni egemoniche), alle questioni propriamente filosofiche, epistemologiche e scientifiche che erano all’ordine del giorno e che – come vedremo – non furono dibattute in maniera polemica solo dal neoidealismo22. Prima di tutto è bene sottolineare che dal punto di vista strettamente filosofico l’interlocutore di Enriques non fu Croce, bensì 21

Cfr. P. CASINI, Federigo Enriques e i filosofi neoidealisti, in AA.VV., Dossier Enriques, a c. di S. di Sieno, «Lettera Pristem», 19-20, marzo-giugno 1996, pp. XXXV, XXXIX. 22 Sulla diatriba tra Enriques e il neoidealismo cfr. O. POMPEO FARACOVI, Il caso Enriques, cit., pp. 81-116 e soprattutto M. CILIBERTO, Scienza, filosofia e politica: Federigo Enriques e il neoidealismo italiano, in Federigo Enriques. Approssimazione e verità, cit., pp. 131-166. Ciliberto privilegia il conflitto tra Enriques e Croce e vede proprio in Croce, più che in Gentile, la figura chiave di tutta la vicenda, sia per le implicazioni filosofiche, sia e ancor più per quelle di politica culturale in senso lato (come nel caso della concezione del partito politico e del suo ruolo, che rende Enriques più «moderno» di Croce [p. 154]). Sull’opportunità di «disancorare l’analisi delle prospettive teoriche da quella delle loro implicazioni politico-culturali» richiama invece l’attenzione, invocandolo come principio di interpretazione storiografica estensibile a tutto il ‘caso’ Enriques, O. POMPEO FARACOVI, I «Problemi della scienza» di Federigo Enriques, «Intersezioni», VI, 1986, p. 368.

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Gentile. Nella ‘divisione del lavoro’ che caratterizzava l’attività della «Critica» spettò infatti a Gentile, come in tanti altri casi analoghi, di occuparsi dei Problemi della scienza, mentre Croce si mantenne defilato, pur manifestando simpatia per la figura di Enriques una volta dichiarata senza mezzi termini la sua incompetenza filosofica («credo che di filosofia non conosca nulla»)23. Per parte sua Gentile si mosse inizialmente con qualche cautela e compose la recensione dei Problemi della scienza in tempi abbastanza lunghi, tanto da concluderla solo nell’estate del 1908 dopo aver esitato sul modo di scriverla, «per non dirne troppo male con la paura di non aver capito, per colpa mia, quello che ci può essere di buono: poiché mi pare che non ci sia proprio nulla, né di bene né di male»24. D’altronde ancora nel novembre 1910, prima del Congresso Internazionale di Filosofia di Bologna che darà adito a Croce di scendere in campo per attaccare il matematico «che da alcuni anni in qua, con zelo ma senza preparazione, si diletta di filosofia», Gentile manifestava «molta stima e simpatia pel prof. Enriquez [sic]» e gli riconosceva «il merito di aver suscitato un certo interesse filosofico nei matematici italiani»25. Ma la dura polemica tra Croce ed Enriques nel corso del 19111912, e le prese di posizione non sorvegliatissime con cui Enriques volle fare i propri conti con Hegel, incisero senza dubbio sull’atteggiamento di Gentile, che via via si fece più aspro e sempre più allineato a quello di Croce nel denunciare l’incapacità di Enriques di «formarsi un concetto chiaro dello stato presente della filosofia»26.

23

B. CROCE, Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 230 (lettera a Gentile del 14 gennaio 1907). 24 Così nella lettera a Croce del 26 luglio 1908, pubblicata in G. GENTILE, Lettere a Benedetto Croce, vol. III, a c. di S. Giannantoni, Firenze, Sansoni 1976, p. 253 (ma si veda pure la successiva lettera del 6 agosto 1908, ivi, p. 257). 25 G. GENTILE, Lettere a Benedetto Croce, vol. IV, a c. di S. Giannantoni, Firenze, Sansoni 1980, p. 10. Per gli interventi di Croce contro Enriques cfr. B. C ROCE, Pagine sparse, vol. I, Letteratura e cultura, 2a ed. interamente riveduta dall’autore, Bari, Laterza 1960, pp. 258-267, 342-349 (qui p. 259). 26 Cfr. G. GENTILE, Scherzi innocenti intorno alla metafisica hegeliana, «La Critica», VIII, 1910, pp. 142-145, ora in Frammenti di storia della filosofia, cit., pp. 592-597 (qui p. 596). Si veda pure Lettere a Benedetto Croce, vol. III, cit., p. 13.

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In questo contesto la recensione gentiliana dei Problemi della scienza merita di essere riletta proprio perché – a differenza degli interventi di Croce – non è fondata solo su motivazioni di ‘politica culturale’, ma affronta, dal punto di vista saldamente orientato del nascente attualismo, la filosofia di Enriques e ne propone una valutazione d’insieme di cui occorre cogliere le diverse componenti. Sul piano generale, Gentile si preoccupava di mettere in dubbio la plausibilità del progetto filosofico-scientifico di Enriques, il cui documento più emblematico era rappresentato dalla neonata «Rivista di scienza». Agli occhi di Gentile si trattava di un’iniziativa meritevole, volta a soddisfare «un certo bisogno di filosofia» presente nella scienza contemporanea; ma il limite insuperabile era tutto nell’idea stessa di un periodico che pretendeva di fornire le basi di una nuova filosofia assemblando competenze scientifiche diversissime e surrogando la mancanza di una filosofia in quanto tale con l’organizzazione di un gruppo di studiosi: con il risultato di incoraggiare – affermava Gentile – «il dilettantismo scientifico, di cui non so quanto sia per giovarsi la scienza»27. Ma di qui derivava al tempo stesso il giudizio d’insieme sui Problemi della scienza, che di una simile «indole» erano l’espressione più ambiziosa e per questo condannata a oscillare «tra la filosofia non mai raggiunta e la scienza particolare faticosamente filosofeggiata». Colpe, per Gentile, non attribuibili al libro di Enriques in quanto tale, bensì a tutta una «situazione spirituale» presente nel panorama della cultura contemporanea e caratterizzata dalla volontà di «risuscitare» ciò che per Gentile era una sorta di ossimoro: la «filosofia scientifica»28. All’equivoco di fondo di una ‘filosofia scientifica’ andava imputata, per Gentile, l’incapacità di far fronte alle questioni autenticamente filosofiche: come nel caso (su cui insisteranno, come si vedrà, non pochi recensori dei Problemi della scienza) della concezione dell’assoluto, risolta da Enriques formulando una «dottrina» semplicemente «balorda». L’assoluto come simbolo privo di senso di una serie infinita di atti della mente umana, di passag27

G. GENTILE, La filosofia di un matematico (F. Enriques), «La Critica», VI, 1908, pp. 430-446, ora in Frammenti di storia della filosofia, cit., pp. 639661 (qui pp. 639, 642). 28 Ivi, p. 644.

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gi inesauribili dal relativo al relativo? Ma i filosofi – obiettava Gentile – non sono così ingenui e lavorano sui concetti, non su parole ridotte a meri «simboli di cose»: a partire da Aristotele l’assoluto non è concepito come un processo all’infinito, bensì come attualità in cui il relativo stesso si risolve come concreto rispetto all’astratto, sicché il relativo «scrutato nel suo fondo, si palesa proprio assoluto»29. Basterebbe un’affermazione come questa per documentare tutta la distanza incolmabile tra Enriques e Gentile; ed era lo stesso Gentile a incaricarsi di sottolinearlo in relazione ad altri nodi non meno importanti per mettere al muro il positivismo appena edulcorato di Enriques. Non solo occorreva rendersi conto che la nozione di noumeno si dissolve quando si capisca veramente in cosa consista «l’attività creatrice dello spirito»; e non solo si doveva prendere atto dell’incapacità di Enriques di afferrare il significato della sintesi a priori, che è «unità del diverso» ad opera dello spirito, anzi è l’essenza dello spirito non essendoci altro spirito che non sia sintesi a priori. Il punto era che Enriques aveva commesso «un errore gnoseologico» di principio quando, tramite la distinzione sempre mobile tra soggettivo e oggettivo, aveva preteso di inserire nella «teoria formale del conoscere» un elemento storico: la dimensione storica è infatti del tutto estranea alla gnoseologia, la quale – asseriva perentoriamente Gentile – «appunto come filosofia, è visione dell’eterno, e non del temporaneo, [che] considera ogni obbiettivo sub specie aeterni»30. Di tutte le obiezioni di Gentile questa era certamente la più arcaica e la più difforme dalla «teoria del conoscere» quale si era delineata nel grande dibattito europeo tra Otto e Novecento: un dibattito nel quale anche le posizioni più radicalmente antipsicologistiche e più lontane dal punto di vista di Enriques non avevano mai liquidato il carattere aperto e processuale delle forme conoscitive a fronte del ‘fatto’ della scienza, del suo evolversi 29

Ivi, pp. 647-648. Su questa linea si colloca anche la riserva di Gentile a proposito della concezione enriquesiana della metafisica come «modello» (un punto sul quale, da tutt’altro punto di vista, insisterà anche Ardigò): la metafisica non può essere modello, perché è essa stessa «la realtà assoluta pervenuta all’assoluta coscienza di sé: e non ha quindi nulla fuori di sé, su cui modellarsi e a cui servire» (p. 653). 30 Ivi, pp. 650-652.

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in forme storicamente determinate. Il tema della «ragione che si sviluppa progressivamente nella storia del pensiero scientifico» su cui Enriques insisterà in seguito31 non era insomma l’ennesima riprova di incompetenza speculativa o di incapacità di uscire dall’«empirismo volgare» nonostante i richiami a Kant e ai tentativi di ripensare la funzione della sensazione per la conoscenza, bensì indicava un complesso di questioni reali, da Enriques dibattute in forma certo emendabile e tuttavia al centro delle agende filosofiche a dispetto dell’elogio gentiliano dell’eterno32. Certamente si potrebbe anche riconoscere che con la sua concezione psicologica della logica Enriques aveva fornito a Gentile un argomento in più per farsi attaccare33; ma non per questo appare giustificata la stroncatura finale di Enriques come tipico non-filosofo dotato dell’«alto ingegno» e della «vasta cultura dello scienziato»: non si trattava solo di una valutazione negativa del pensiero di Enriques, quanto di una radicale messa in questione – che oggi ci appare irrimediabilmente datata – della ‘filosofia scientifica’ e dell’opera dei suoi «vagheggiatori», i quali «volendosi orientare nella scienza, cercano il centro, per dirla con Bruno, discorrendo per la circonferenza»34. Sotto il profilo strettamente filosofico il caso Enriques per Gentile era dunque archiviato e la polemica poteva proseguire se mai sul fronte della politica culturale (fronte sul quale, come si è detto, si schierò soprattutto Croce). Tuttavia chi volesse arrestare l’indagine sulle reazioni suscitate dai Problemi della scienza alla dura polemica condotta dal neoidealismo non solo non rende-

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Cfr. F. ENRIQUES, La teoria della conoscenza scientifica da Kant ai giorni nostri, a c. di O. Pompeo Faracovi, Bologna, Zanichelli 1983, p. 83 (si tratta della versione italiana del volumetto La théorie de la connaissance scientifique de Kant à nos jours, Paris, Hermann 1938). 32 In questo contesto è pure da ricordare la lettera di Enriques a Gentile dell’agosto 1909, pubblicata in Gentile e i matematici italiani, cit., p. 147: «Lessi a suo tempo la sua critica dei miei problemi della Scienza. È naturale che non possa trovarmi d’accordo con Lei, ma la divergenza di vedute accresce in me il desiderio di chiarire colla conoscenza personale le origini del dissenso». 33 Cfr. G. GENTILE, La filosofia di un matematico, cit., p. 659: «una teoria, che proclami l’empiricità della logica, lavora a scalzare le stesse fondamenta su cui anch’essa si eleva». 34 Ivi, p. 660.

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rebbe giustizia al libro di Enriques, ma nemmeno coglierebbe il clima filosofico in cui quella polemica si svolse al di là del ‘regolamento di conti’ tra il filosofo-scienziato e chi lo accusava di essere, come scienziato, inadatto a formulare una qualsivoglia tesi filosofica. In realtà, a scendere in campo per discutere il libro di Enriques e spesso per prenderne le distanze, furono in molti: ovviamente con argomenti diversi e diversamente plausibili, ma in ogni caso smentendo in maniera inequivocabile l’immagine, destinata in seguito a tanta fortuna, di un Enriques isolato e ignorato dalla comunità filosofica italiana (una situazione, questa, che se mai si delinea più tardi, nel periodo compreso tra le due guerre mondiali)35. D’altra parte va riconosciuto che proprio il carattere composito del libro di Enriques fece sì che gli interventi dei vari recensori spaziassero dalla discussione puramente filosofica (ignorando le parti dedicate specificamente alle teorie scientifiche) all’esame circostanziato di singoli aspetti (come nel caso della filosofia della geometria): donde una varietà di reazioni e di registri argomentativi difficilmente riducibili a un denominatore comune, nonostante fosse da più parti condiviso il sospetto che Enriques peccasse, come filosofo, di «superficialità» e di «dilettantismo»36. A riconoscere il carattere innovativo e l’attualità della proposta epistemologica di Enriques fu soprattutto Vailati, che in lui vedeva un rappresentante emblematico dell’«attitudine nuova» sorta dalla più recente riflessione filosofica sull’impresa scientifica37. Il fitto dialogo tra Vailati ed Enriques era iniziato in realtà già alcuni anni prima, ed è importante tenerne conto perché verteva essenzialmente sulle risposte con cui Enriques aveva reagito 35

Cfr. O. POMPEO FARACOVI, Une pensée longtemps restée inactuelle: la philosophie scientifique de Federigo Enriques, in AA.VV., Science et philosophie en France et en Italie entre les deux guerres, a c. di J. Petitot e L.M. Scarantino, Napoli, Vivarium 2001, p. 79. 36 R. MAIOCCHI, Physique et philosophie en Italie entre les deux guerres, in AA.VV., Science et philosophie en France et en Italie entre les deux guerres, cit., p. 158. 37 Su questo punto si veda quanto si è già detto in precedenza nel cap. 5, p. 143. Commentando la pubblicazione dei Problemi della scienza in una lettera ad Amato Pojero del 29 maggio 1906 Vailati del resto constatava: «Abbiamo ormai anche in Italia il nostro Poincaré (absit injuria verbo)» (G. VAILATI-G. AMATO POJERO, Epistolario, cit., p. 184).

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alle battute di Vailati sulla «lue kantiana» che corrompeva molta parte della filosofia della scienza contemporanea38. Enriques non ne era persuaso e insisteva invece su «ciò che dipende dalla struttura del soggetto» nel processo conoscitivo, senza per questo voler emarginare «l’elemento dato delle sensazioni»: questa componente ‘strutturale’ della conoscenza non poteva essere messa tra parentesi, e da questo punto di vista i «difetti» del kantismo sembravano assai meno «temibili» di quelli dell’«empirismo ristretto» e del «positivismo dogmatico»39. Dalle successive lettere di Enriques a Vailati si ha l’impressione che il filosofo cremasco rimanesse piuttosto freddo dei confronti di simili affermazioni; e per questo Enriques tornava alla carica, sottolineando il «passo enorme» compiuto da Kant rispetto al razionalismo «assoluto» di Cartesio e Leibniz, sebbene fosse chiaro quanto lo stesso Kant, pur decretando la «morte» della metafisica, ne avesse ancora subito l’influenza sottovalutando «gli elementi empirici della conoscenza»40. Ma in realtà, a parte l’autorità di Kant, per Enriques si trattava anche di far valere una prospettiva più specificamente legata al lavoro sulla fondazione della geometria, di cui Vailati presumibilmente non apprezzava l’impianto empirico-psicologico, né tantomeno il rimando al «sentimento di necessità che accompagna l’intuizione geometrica»: Enriques riconosceva che Vailati non sembrava disposto ad ammetterne l’«esistenza», eppure lo invitava a prendere atto che non era «nulla di misterioso» trattandosi piuttosto di qualcosa connesso agli «elementi strutturali della psiche»41. 38

G. VAILATI, Epistolario, cit., p. 564 (lettera di Enriques del 16 aprile 1901). Sul confronto tra Vailati ed Enriques su questo punto cfr. l’equilibrato studio di O. POMPEO FARACOVI, Una discussione fra scienziati-filosofi amici, «Dimensioni», XIII, 1988, n. 46, pp. 37-56. 39 G. VAILATI, Epistolario, cit., pp. 564-565. 40 Ivi, p. 566 (lettera di Enriques del 23 aprile 1901). 41 Così in una lettera non datata, ma risalente all’epoca delle altre precedentemente citate, pubblicata in Per la scienza, cit., p. 264. È opportuno ricordare che più tardi, in una recensione degli Elementi di geometria di Enriques e Ugo Amaldi (Bologna, Zanichelli 1903), Vailati avrebbe messo in rilievo come «l’intera trattazione, pure essendo costantemente accompagnata da richiami all’intuizione e all’esperienza dei sensi, [fosse] tuttavia svolta in modo da presentare, indipendentemente da queste, il modello d’una concatenazione logica» (G. VAILATI, Scritti, cit., p. 509). Da seguace di Peano, Vailati sembrava insomma attribuire un valore del tutto prioritario alla «con-

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Di tutto questo occorre tener conto quando, con un breve balzo in avanti nel tempo, si arriva al fascicolo del «Leonardo» dell’agosto 1906 in cui Vailati recensiva i Problemi della scienza42. Al kantismo di Enriques e alle questioni relative alla filosofia della geometria, in effetti, Vailati nemmeno accennava: come se quel duplice nodo fosse da considerarsi archiviato, o comunque non degno di essere affrontato direttamente. Se mai importava valorizzare adeguatamente lo sforzo compiuto da Enriques nell’«esame della portata filosofica delle più recenti teorie e ipotesi scientifiche»: ciò che ormai rappresentava una tendenza di primo piano della cultura europea, in cui il «positivismo critico» di Enriques si inseriva con l’autorevolezza di «un’attitudine nuova di fronte ai problemi così detti “metafisici”, un’attitudine – aggiungeva Vailati – che con nessun’altra si trova tanto in contrasto quanto con quella di disinteressamento agnostico assunta dalla maggior parte dei positivisti»43. Senza esprimere una valutazione di merito, Vailati ricordava a questo proposito le pagine in cui il «carattere antiagnostico» del lavoro di Enriques aveva dato buone prove di sé affrontando i problemi insolubili e «trascendenti» nella geometria e nella meccanica, e mostrando come insolubile fosse pure il problema dell’assoluto (ad esempio per ciò che concerne il moto ‘assoluto’): una «tattica» molto diversa da quella dei filosofi positivisti e agnostici, i quali non sanno mettere a fuoco la potenza degli strumenti concettuali o la natura delle procedure che autorizzano a dichiarare ‘insolubili’ certi problemi relativi alla teoria della conoscenza44. Più esplicito si faceva invece il giudizio di Vailati intorno al capitolo dedicato alla logica, anche se il dissenso rimaneva meno marcato di quanto forse ci si potrebbe attendere e si condensava essenzialmente nel rimprovero mosso ad Enriques di non avere avuto presenti le «trattazioni originali dei migliori autori antichi e moderni», con il risultato di onorare «immeritatamente» con un commento o un’interpretacatenazione logica» e considerare l’appello all’intuizione, ai sensi o, più in generale, alla «struttura della psiche» di fatto superflua rispetto allo statuto assiomatico-deduttivo della geometria. 42 Della recensione, raccolta negli Scritti, cit., pp. 721-725, si è già detto in termini generali più sopra, cap. 5, pp. 160-163. 43 Ivi, p. 721. 44 Ivi, pp. 721-722.

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zione «i luoghi comuni dominanti nei manuali scolastici o nelle opere di seconda mano». Un’annotazione piuttosto tagliente, a cui non faceva velo il riconoscimento delle pagine dedicate alla natura delle definizioni discusse dalla scuola di Peano o al valore pratico della distinzione tra un ragionamento formalmente corretto e la verità delle sue premesse come delle sue conclusioni45. Tuttavia, il punto che più premeva a Vailati era la possibilità di trovare in Enriques se non un compagno di strada, almeno un benevolo osservatore dell’avventura pragmatista. In questo spirito Vailati si concentrava soprattutto sulle pagine dei Problemi della scienza dedicate a Fatti e teorie (PS, 47-87), dove entrava prepotentemente in campo il tema della previsione, della credenza e della volontà in ordine alla definizione di ciò che Enriques chiamava «il criterio della realtà»46. A giudizio di Vailati qui occorreva prima di tutto precisare che le nostre credenze o aspettative non necessariamente si riferiscono a qualcosa di reale, bensì possono contemplare anche la «non realtà» di un dato oggetto pur rimanendo dotate di significato e non decadendo a mere formulazioni verbali. L’obiezione mirava a mettere in luce la tesi pragmatista, ma che Enriques forse non avrebbe condiviso, secondo la quale «il significato di qualsiasi affermazione consiste e può consistere soltanto nelle aspettative che avremmo (o in quelle che cesseremmo di avere) se l’accettassimo per vera». In questo senso se due teorie diverse – giusta l’opinione di Poincaré – possono riferirsi a complessi di fatti non differenti ed essere pertanto definite come teorie equivalenti, non soltanto esse sono da considerarsi dotate di valore euristico diverso (come vorrebbe Enriques), ma in effetti sono certamente diverse perché implicano «qualche diversità nelle previsioni che l’una o l’altra tra esse tende a suggerire», magari solo probabilmente o in termini di pu45

Ivi, pp. 723-724. Della logica come «un riflesso della struttura del pensiero» Enriques parlava già in una lettera a Vailati del 16 maggio 1901 (cfr. Epistolario, cit., p. 569). 46 Si veda in specie PS, 49: «la nostra credenza a qualcosa di reale suppone un insieme di sensazioni che invariabilmente susseguono a certe condizioni volontariamente disposte». Poco oltre Enriques si riferiva anche a Vailati e nella seconda edizione aggiungeva una nota per citare il libro di Pikler segnalatogli, probabilmente, proprio da Vailati (PS, 50 e n. 1; su Pikler vedi sopra p. 147, n. 16).

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ra immaginazione. Per il pragmatista l’unico criterio da chiamare in causa è insomma la possibilità di addurre qualche fatto di cui una delle due teorie implica o non implica l’attesa47. Vailati non si fermava qui. Bisognava almeno aggiungere che le aspettative riguardano non ciò che succederà, ma ciò che succederebbe se qualcosa si verificasse o meno, o se noi agissimo in un modo o nell’altro. Questo carattere condizionale fa sì che la formulazione delle stesse leggi scientifiche sia simile alla costruzione di una gabbia, dalla quale non usciamo per essere più liberi ma per entrare in un altro sistema di vincoli, come un lazo che ritorna intorno al collo del cow boy che lo ha lanciato lontano. E questo, per Vailati, implica una concezione della verità che sembra discostarsi da quella enriquesiana dell’approssimazione successiva: La relazione quindi tra il desiderio di conoscere e quello di potere si potrebbe descrivere dicendo che l’uomo desideroso di aumentare la propria potenza deve nello stesso tempo desiderare di conoscere il massimo numero di “verità” e desiderare che di “verità” ve ne sia il minimo numero possibile: in quanto qualunque “verità” (conosciuta o no) […] rappresenta un ostacolo opposto al raggiungimento di qualche possibile desiderio o classe di desideri48.

Tralasciando deliberatamente le molte pagine dedicate da Enriques alle «singole scienze», che gli sembravano «troppo strettamente legate a questioni più propriamente tecniche e speciali»49, l’attenzione di Vailati cadeva così in maniera unilaterale sulla centralità del pragmatismo. Ma imponendo un simile terreno di discussione, in realtà I problemi della scienza passavano in secondo piano, come passavano in secondo piano quelle «questioni più propriamente tecniche e speciali» a cui Enriques non annetteva certo minore importanza rispetto ai temi più generalmente filosofici. D’altronde la reazione di Enriques non avrebbe tardato a manifestarsi: la presa di posizione sul pragmatismo nell’articolo del 1910 poi rifuso in Scienza e razionalismo si presenta infatti come una sostanziale sconfessione di quella «filosofia di 47 48 49

Cfr. Scritti, cit., p. 723. Ivi, p. 724. Ivi, p. 725.

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passaggio» che sarebbe il pragmatismo, un «ponte» sul quale non può fermarsi chiunque sia convinto che solo al di là di esso si salga sul «“dilettoso monte” della ragione»50. Ma la polemica con Vailati era già sorta poco dopo la pubblicazione della recensione ai Problemi della scienza, in occasione del saggio di Vailati sulla filosofia italiana contemporanea uscito nel febbraio del 1907 sulla «Revue du Mois»51. Vailati aveva insistito sulla novità rappresentata nel panorama italiano dagli indirizzi non legati alla filosofia accademica, annoverando tra questi prima di tutto il gruppo del «Leonardo», ma facendo anche riferimento al «prestigio» ormai internazionale di figure come Peano ed Enriques; e proprio dei Problemi della scienza Vailati offriva un rapido sunto per mostrare come l’opera fosse stata concepita nello spirito del recente movimento pragmatistico, teso a sconfiggere l’agnosticismo dei positivisti per esaminare invece con «tattica ben più aggressiva» le questioni ritenute insolubili, ovvero riconducendole a questioni dotate di senso solo nella misura in cui si possono esibire fatti e conseguenze che ne derivano e sulle quali si può discutere52. Ma l’assimilazione dei Problemi della scienza alla recente stagione del pragmatismo italiano non poteva soddisfare Enriques, che interveniva infatti sul fascicolo successivo della rivista francese per sottolineare come il pragmatismo nel senso di Peirce fosse una forma di filosofia positiva, mentre James (per non dire dei poligrafi del «Leonardo») apparteneva piuttosto a un orientamento antiscientifico. E come se non bastasse Enriques aggiungeva un’annotazione ben lontana dalla visione di Vailati quando gli obiettava, riprendendo un’affermazione già presente nei Problemi della scienza (PS, 18) che il primo a confutare l’inconoscibile di Spencer era stato Ardigò, «le chef des positivistes italiens»53. 50

F. ENRIQUES, Natura, ragione e storia, cit., p. 218 (e si veda sopra, cap. 5, p. 162 e n. 50). 51 Cfr. G. VAILATI, De quelques caractères du mouvement philosophique contemporain en Italie, poi in Scritti, cit., pp. 753-769. Scriveva Enriques a Vailati il 17 febbraio 1907: «se nascerà tra noi una polemica, mi auguro solo questo: di avere da combattere le idee di Vailati […], ma non quelle dei pragmatisti» (Epistolario, cit., p. 587). 52 Cfr. Scritti, cit., p. 757. 53 Il testo della replica di Enriques (A propos du mouvement philosophique en Italie, «Revue du Mois», II, 1907, pp. 370-371) è riportata anche da

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Ma a questo punto, mentre si svolgeva la discussione con Vailati, da tutt’altro versante da quello del pragmatismo proprio Ardigò manifestava un atteggiamento critico nei confronti dei Problemi della scienza con un articolo pubblicato sulla «Rivista di filosofia e scienze affini» agli inizi del 190754. A essere in questione era qui il § 23 dei Problemi della scienza già richiamato da Vailati, in cui Enriques aveva discusso i rapporti tra positivismo e metafisica invitando i positivisti a conoscere meglio l’imputato prima di proferire la condanna (PS, 27-29). Declinata la possibilità di definire troppo generosamente la metafisica come ‘scienza dell’assoluto’, giacché «l’assoluto è un simbolo privo di senso», Enriques metteva in guardia dal non ridurre la metafisica a una semplice insensatezza e a distinguere, al suo interno, tra i grandi sistemi ontologici costruiti con la «pretesa di porgere una scienza definitiva e completa», e la funzione assolta dalla metafisica come rappresentazione soggettiva della realtà, che combina arbitrariamente determinati elementi e dà vita a un certo «sistema di immagini», a un «modello» capace di intervenire nell’orientare, integrare oppure ordinare in modo nuovo le conoscenze scientifiche. Contestando la «critica implacabile di Comte», che potrebbe essere accettata solo in quanto colpisce la pretesa oggettività di simili rappresentazioni mentali, Enriques pertanto non esitava a valorizzare la funzione delle teorie metafisiche in quanto «rappresentazioni psicologiche» entro il «processo genetico della scienza» (PS, 29). Seppure argomentata in maniera piuttosto sbrigativa, questa tesi non solo segnalava un punto importante della critica Lanaro nella presentazione del carteggio tra Vailati ed Enriques (cfr. Epistolario, cit., pp. 560-561). A margine di queste schermaglie andrà ricordato l’articolo con cui Enriques commemorava l’opera di Vailati sulle pagine di «Scientia» del 1911: dove, accanto all’osservazione relativa alla negazione da parte di Vailati del ruolo dell’intuizione nella conoscenza scientifica, colpisce soprattutto la classificazione del filosofo di Crema come «empirista critico» nel solco di Hume e di Mill, quasi per screditarne l’immagine di ‘pragmatista logico’; e del resto Enriques insisteva sul fatto che la vera filosofia di Vailati andava piuttosto cercata nei suoi lavori più circoscritti, nelle pagine dedicate alla logica e alla metodologia delle scienze o nelle ricerche sulla storia della scienza (cfr. La philosophie de Giovanni Vailati, «Scientia», X, 1911, pp. 171174, ora in Per la scienza, cit., pp. 325-328). 54 Cfr. R. ARDIGÒ, Tesi metafisica, ipotesi scientifica e fatto accertato, «Rivista di filosofia e scienze affini», IX, 1907, pp. 1-18, poi in Opere filosofiche, vol. X, Padova, Draghi 1910, pp. 179-201 (da cui si cita).

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di Enriques al positivismo, ma sembrava quasi anticipare la sua successiva diffidenza nei confronti del criterio di significanza empirica dell’empirismo logico viennese e, contestualmente, documentava la capacità di Enriques di cogliere ciò che nella filosofia della scienza post-neopositivistica sarebbe tornata in auge come la ‘metafisica influente’, di cui i programmi di ricerca scientifici sono comunque impregnati. Ardigò, tuttavia, la pensava molto diversamente da «una persona di tanta intelligenza» come Enriques. A suo avviso tra le tesi del metafisico e le ipotesi formulate dal «naturalista» la differenza era nettissima ed Enriques stesso lo sapeva bene: ma allora perché mescolare le carte e cadere nell’argomento fallace per cui se la balena guizza come un pesce, anche la balena è un pesce?55 A giudizio di Ardigò non vi erano alternative: l’atomo di cui parla il metafisico e l’atomo di cui parlano le scienze positive sono diversissimi e non si può imputare alle ipotesi scientifiche ciò che invece è proprio delle formulazioni metafisiche, se è vero che le prime sono sempre «suggerite induttivamente» e hanno sempre un valore provvisorio, mentre le seconde pretendono di essere «verità indiscutibilmente definitive»56. Ma non basta: se Enriques aveva attribuito al positivismo una concezione statica della scienza in quanto «scienza formata» (PS, 26), Ardigò ribatteva che un carattere inconfondibile della scienza positiva in contrasto con la metafisica è proprio di essere «non fatta», di essere coinvolta in un continuo movimento di allargamento e integrazione delle ipotesi (laddove le teorie metafisiche si sostituiscono l’una all’altra «con continua vicenda vana»)57. Per Ardigò questa era un punto cruciale, perché chiamava in causa la nozione stessa di ‘fatto’, la sua analisi sotto il profilo psicologico (un ambito in cui Enriques gli pareva meno ferrato) e il processo lungo il quale, partendo dalla sensazione e dalla duplicità del «me» e del «Non me», si attinge infine la «positività del fatto» rendendolo «irrecusabilmente, ossia positivamente affermabile», anche se sempre «ulteriormente precisabile fino ad un massimo di probabilità»58. In55 56 57 58

Ivi, p. 186. Ivi, p. 189. Ivi, pp. 190-191. Ivi, pp. 196-201.

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somma, Ardigò non aveva molti dubbi nel ribadire la sua ‘fede’ nell’autorità del fatto e nel positivismo inteso alla sua maniera, e peraltro lo faceva ignorando molti altri aspetti del libro di Enriques che pur meritavano attenzione (ivi compreso l’affresco delle scienze contemporanee, di cui il positivista Ardigò invece non diceva nulla). Ma è dubbio che Enriques, nonostante l’accordo «col nostro Ardigò» per quanto riguardava la critica dell’inconoscibile di Spencer (PS, 18), potesse essere convinto della validità delle sue obiezioni e che fosse disposto, in particolare, a sottoscrivere una veduta della conoscenza molto diversa da quella che egli avrebbe continuato a sostenere, fondata sulla funzione costruttiva dell’«attività razionale coordinatrice»59. Tra i due estremi rappresentati da un custode della vecchia guardia positivistica come Ardigò e un ‘novatore’ come Vailati si collocano diverse prese di posizione che documentano bene l’atteggiamento della filosofia italiana di fronte a Enriques: il quale apparve a più d’uno meritoriamente impegnato a operare il «riavvicinamento della filosofia alla scienza» – come annotava Francesco De Sarlo – pur non sfuggendo al rischio tipico degli scienziati di «essere valentissimi in matematica e non ragionare bene in argomenti abbastanza facili ed elementari di gnoseologia»60. Questa obiezione di De Sarlo, del tutto simile a quella dei suoi ‘avversari’ Gentile e Croce, era nella sostanza condivisa anche da Bernardino Varisco, benché nella prosa un po’ oscura del filosofo dei ‘massimi problemi’ si trattasse soprattutto di mettere a fuoco in che cosa la sua filosofia differisse dai Problemi della scienza61. Tra Enriques e Varisco non erano in precedenza man59 Scienza e razionalismo, cit., p. 20. Nel tardo articolo su Rignano, nel 1930, Enriques ricorderà significativamente come negli anni degli studi pisani gli fosse rimasto «ignoto il nome del pontefice del positivismo nostrano: Roberto Ardigò». E aggiungerà: «Quando, in appresso, ebbimo ad incontrarlo sul nostro cammino, non sapemmo apprezzarlo: ci sembrava (e non so se avessimo proprio torto) che la sua maniera di pensare e di parlare fosse piuttosto da teologo che da uomo di scienza, sebbene col suo concetto dogmatico ei volesse fare della scienza stessa una nuova Bibbia, da sostituire all’antica» (Per la scienza, cit., p. 352). 60 Cfr. F. DE SARLO, Vecchio e nuovo positivismo, «La Cultura Filosofica», I, 1907, n. 3, pp. 57-63 (qui pp. 57, 59). 61 B. VARISCO, Scienza e filosofia. A proposito d’una recente pubblicazione, «La Cultura», XXVI, n. 7, 1° aprile 1907, pp. 102-109.

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cati i contatti; e nonostante Varisco lamentasse di essere ignorato dall’autore dei Problemi della scienza62, in realtà Enriques conosceva alcuni degli scritti con cui Varisco era tardivamente entrato sulla scena della filosofia italiana d’inizio secolo: in particolare, Enriques aveva stigmatizzato, in una lettera a Vailati, il «meccanismo psichico» teorizzato da Varisco dichiarando di non saper attribuire «a tali spiegazioni nessun senso»63. Tuttavia vi era una certa affinità tra la concezione empiristica della geometria (e del ragionamento matematico in genere) avanzata da Varisco nelle pagine di Scienza e opinioni e le tesi svolte da Enriques nell’articolo del 1901 per la «Rivista Filosofica»; tant’è vero che ancora nel 1907, proprio nell’anno della recensione varischiana dei Problemi della scienza, era lo stesso Enriques a esprimere consenso con quanto Varisco, in occasione del congresso di Parma della Società Filosofica Italiana, aveva sostenuto in una prospettiva sostanzialmente psicologistica a proposito delle «conseguenze gnoseologiche della logica matematica»64. Con tutto questo, Varisco nella sua recensione sorvolava ampiamente sulle problematiche scientifiche che erano al centro del libro di Enriques e preferiva concentrarsi su alcuni punti che interessavano soprattutto la propria transizione ormai in atto dal positivismo di Scienza e opinioni all’idealismo coscienzialistico cui egli sarebbe approdato nel 1910 con I massimi problemi65. Di qui le riserve sulla maniera di intendere la filosofia, che non può essere un semplice ritorno alla fede comune degli uomini liberati dal senso del mistero; e di qui anche le critiche a quanto Enriques aveva scritto a proposito dell’assoluto, la cui «stringenza» pareva a Varisco «problematica» sia perché senza assoluto perde ogni senso anche il riferimento al relativo, sia perché la conoscenza che ciascuno di noi ha dei fenomeni che cadono nella sua sfera di esperienza è assoluta, immediata e non sarebbe raggiun62

Ivi, p. 107 n. 1. G. VAILATI, Epistolario, cit., p. 577 (lettera del 20 aprile 1902). Per maggiori particolari sui rapporti tra Varisco ed Enriques anche in relazione alle vicende della Società Filosofica Italiana e della «Rivista di filosofia» cfr. Lettere a Bernardino Varisco, cit., pp. 285-289. 64 Per l’intervento di Enriques cfr. AA.VV., Questioni filosofiche, cit., p. 343 (e si veda più avanti, cap. 9, p. 296, n. 37). 65 Su questo punto si rimanda più oltre al cap. 9, pp. 290-296. 63

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gibile per gradi66. Già alle prese con il fantasma del solipsismo che lo tormenterà a lungo, Varisco teneva d’altra parte a sottolineare che per sfuggire a questa minaccia la scienza della natura nulla poteva fare: l’onere cadeva tutto sulle spalle del filosofo, che sa distinguere tra il pensare e il pensiero, e che – come giustamente aveva visto Enriques – deve rendere conto della «necessità razionale» che deriva dall’invariabilità dei concetti. Ma questo non significa che si debba derogare al carattere sempre provvisorio e approssimativo del nostro sapere: anche qui Enriques aveva visto giusto e Varisco ne approfittava per fare qualche precisazione sui meriti della filosofia «fondata sulla scienza» nel mettere argine alle pretese di Kant, nonché di «quel positivismo franco-inglese» che si era illuso intorno alla capacità della scienza di formulare «leggi assolutamente indeclinabili». Per Varisco, che parlava molto pro domo sua, occorreva prendere atto di questa conclusione e ammettere ciò che la scienza ci insegna in forma negativa e indiretta: «esser vana la speranza di ridurre il dato empirico sotto leggi assolute, razionalmente apodittiche»67. Per parte sua De Sarlo entrava maggiormente nel merito della teoria della conoscenza di Enriques, muovendo obiezioni che in parte anticipano quelle della recensione di Gentile: così l’insistenza sul carattere relativo della distinzione tra soggettivo e oggettivo a scapito dell’irriducibilità della loro differenza pareva a De Sarlo destinata a intaccare la nozione di obbiettività e addirittura di verità; e non diversamente il carattere relativo e approssimato della conoscenza di cui parlava Enriques si prestava facilmente alla domanda sul ‘rispetto a cosa’ essa potesse dirsi relativa68. Ma soprattutto De Sarlo batteva sulla mancata chiarificazione, da parte di Enriques, della natura dei problemi epistemologici su cui si incentrava la discussione contemporanea, con la conseguenza di operare una commistione tra il vecchio positivismo di Comte e i nuovi orizzonti aperti da un Mach o da un Poincaré. Di qui anche l’incapacità di Enriques di mettere a fuoco un problema cruciale come quello dell’a priori senza impigliarsi nei rischi sin troppo noti dello psicologismo e della riduzione empiri66 67 68

Cfr. B. VARISCO, Scienza e filosofia, cit., pp. 102-104. Ivi, p. 107. Cfr. F. DE SARLO, Vecchio e nuovo positivismo, cit., pp. 58-59.

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stica di ciò che invece è connotato da uno statuto fondamentalmente ‘relazionale’: L’a priori vero ed indispensabile ad ogni cognizione scientifica non è né la tendenza innata, e nemmeno una forma subbiettiva che venga non si sa come né perché applicata ad una materia “estranea”: l’a priori vero è dato da quelle relazioni che la mente umana coglie tra i termini od oggetti, appenaché questi sono dati, rispetto alle quali relazioni l’esperienza non è chiamata ad esercitare alcuna efficacia. L’a priori così concepito non ci rivela alcun fatto che accada nel tempo, né è chiamato a darci notizie di ciò che esiste, ma ci offre bene il modo di cogliere quei rapporti che, emergendo dalla natura propria degli obbietti, non hanno bisogno della conferma sperimentale e rimangono veri anche quando venga a mancare il dato empirico corrispondente69.

In questo modo De Sarlo contrapponeva a Enriques una concezione dell’a priori che si potrebbe definire logico-fenomenologica (una sorta di ‘a priori materiale’); ed è proprio per questo motivo che egli riteneva «assurda» l’idea di una ‘fisiologia’ della logica, che comportava la confusione della logica con l’abitudine e un rapporto causale tra realtà e pensiero: o meglio un rapporto ambiguo, che postula la determinazione delle proprietà oggettive tramite il pensiero e al tempo stesso assegna a tali proprietà la funzione di «cause generatrici del pensiero». Pur non essendo affatto un adepto di Croce o di Gentile, De Sarlo ne traeva una sconsolata conclusione che anche i padri del neoidealismo avrebbero potuto benissimo sottoscrivere: «Mi perdoni l’insigne Matematico, ma a questo punto sono costretto a tenermi la testa stretta tra le mani!»70. Come si vede, puntando tutto su una discussione strettamente interna ad alcune problematiche filosofiche su cui Enriques aveva non sempre limpidamente insistito, Varisco e De Sarlo (che pure sollevava una questione di grande importanza) non dedicavano alcuna attenzione alle numerose pagine dei Problemi della scienza dedicate ai grandi rami del sapere scientifico (dalla geometria alla meccanica alla biologia) da cui era fiorita per Enriques una visio69

Ivi, p. 62. Ivi, p. 63. Per inquadrare la recensione di De Sarlo nel contesto della sua evoluzione filosofica nel primo Novecento si veda più oltre, cap. 9, pp. 283-290. 70

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ne unitaria della scienza e della filosofia. Come subito vedremo, a scendere su questo terreno in realtà non furono i filosofi, bensì gli scienziati, quasi a confermare che il divorzio tra scienza e filosofia esisteva davvero, o quantomeno che esisteva una spartizione delle competenze a cui non sembrava facile porre rimedio. Ma in realtà, per restare ancora alla comunità filosofica dell’Italia del primo Novecento, l’unico filosofo di professione che si sforzò di entrare nel dettaglio dell’epistemologia di Enriques fu Adolfo Faggi, meglio esperto di altri negli studi su Kant e sul neokantismo e che sapeva redigere testi di un certo equilibrio. Già nel 1901, sulla rivista di Cantoni, Faggi aveva discusso le Questioni riguardanti la geometria elementare pubblicate da Enriques l’anno precedente, prendendo posizione nei confronti dello psicologismo e dell’empirismo geometrico che avvicinava Enriques al fenomenismo di Guastella71. In questa occasione Faggi aveva tenuto a precisare in qual modo un kantismo non interpretato alla lettera potesse convivere con la metageometria, una volta chiarito che mentre lo spazio di cui parla quest’ultima è uno spazio concettuale, lo spazio di Kant è uno spazio intuitivo fondato sulla «struttura dei [nostri] organi di senso»: altri esseri diversi da noi potrebbero dunque intuire diversamente e la rappresentazione intuitiva dello spazio geometrico nel senso di Kant non è pertanto l’unica possibile72. Con la pubblicazione dei Problemi della scienza, queste osservazioni di Faggi erano destinate a precisarsi: non solo perché Enriques continuava a considerare l’oggettività dello spazio come un carattere inerente agli oggetti fisici, ignorando il suo statuto di condizione universale e necessaria nell’accezione kantiana, ma anche perché si allargava la cerchia dei riferimenti al dibattito contemporaneo, in primo luogo a seguito dell’entrata in scena del convenzionalismo (o meglio del 71

Cfr. A. FAGGI, Attraverso la geometria, «Rivista Filosofica», III, 1901, pp. 3-28. L’articolo di Faggi, detto per inciso, usciva poco prima di quello già ricordato di Enriques sui postulati della geometria, che apparve nel fascicolo successivo. 72 Ivi, pp. 23-25. Si può notare che nel riferimento alla «struttura dei [nostri] organi di senso» si coglie l’influenza del ‘kantismo fisiologico’ di Lange, a cui Faggi aveva dedicato uno dei suoi primi lavori che risente peraltro dell’insegnamento fiorentino di Tocco (cfr. A. FAGGI, F.A. Lange e il materialismo, Firenze, Tipografia Bonducciana 1896).

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«nominalismo») di Henri Poincaré73. Ora Faggi teneva a sottolineare come qualsiasi accostamento tra Kant e Poincaré fosse infondato («sono veramente agli antipodi»), visto che per Poincaré lo spazio non è un’intuizione della sensibilità, bensì «una costruzione logica della mente»74. Una volta chiarito questo punto, si poteva constatare come Enriques, nonostante tutto, fosse più vicino a Kant che non a Poincaré nel mettere a fuoco il problema della rappresentabilità dello spazio geometrico senza confinarlo nella pura possibilità logica; ma anche qui occorreva almeno una precisazione assente in Enriques: se oggi Kant dovesse affrontare la questione dello statuto epistemologico delle geometrie noneuclidee, sosterrebbe a buon diritto che si tratta di esaminarne non tanto la loro possibilità astratta (in base al principio di non contraddizione), quanto la loro possibilità concreta, ovvero l’accordo con le condizioni formali della nostra esperienza75. La conclusione di Faggi era in fondo rivolta a valorizzare il fatto che Enriques non fosse del tutto «ostile» alla filosofia di Kant; ma soprattutto, a partire di qui, Faggi poneva un problema di grande rilievo, nei confronti del quale lo stesso Enriques si sarebbe mostrato in seguito più sensibile di quanto non lo fosse stato nei Problemi della scienza: «Si può oggi discutere sullo spirito della dottrina kantiana, non certamente sulla lettera, a meno che non si voglia fare della pura e semplice storia. Il problema teorico del rinnovato criticismo non dev’essere questo: “Come si può cacciare a forza la realtà scientifica nei quadri kantiani?” ma quest’altro: “Come avrebbe il Kant, se vivesse oggi, modificato i suoi quadri per farvi entrare la realtà scientifica d’oggi?”»76. L’intervento di Faggi a favore di un «rinnovato criticismo» era anche un ponte gettato dai filosofi di professione verso il sapere scientifico. Del resto, dall’altra sponda di quello che continua73

Cfr. A. FAGGI, Nominalismo e realismo geometrico, «Rivista Filosofica», IX, 1907, pp. 281-299. 74 Ivi, p. 284. 75 Ivi, pp. 288-290. 76 Ivi, p. 299. Verrebbe da dire che la domanda posta da Faggi sia rimasta ben presente a Enriques, il quale la formulerà in maniera analoga trent’anni più tardi nel contesto ormai di un kantismo depurato dalla pesante ipoteca psicologica presente nei Problemi della scienza (cfr. La teoria della conoscenza scientifica da Kant ai giorni nostri, cit., pp. 47-48, 83).

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va ad essere se non un baratro almeno un fossato, alcuni uomini di scienza reagivano a loro volta cercando di percorrere quel ponte in direzione inversa, accogliendo l’invito di Enriques a colmare, o a cercare di colmare, «il funesto dissidio che ancora divide i filosofi dagli scienziati» (PS, 3). Antonio Garbasso, ad esempio, presentava con molte lodi i temi principali dei Problemi della scienza, privilegiando l’illustrazione dei diversi rami del sapere scientifico e sottolineando tra l’altro «l’originale bellezza» delle considerazioni sullo spazio sensibile e lo spazio geometrico; ma soprattutto richiamava l’attenzione sulla maniera in cui Enriques («uno spirito profondo e di una cultura formidabile») aveva infranto antiche barriere imposte dal «regime di specializzazione ad oltranza che vige nelle università italiane»77. Garbasso non aveva dubbi su come la filosofia debba atteggiarsi nei confronti delle scienze, dal momento che un’«opera filosofica utile» sorge solo là dove venga coltivata la conoscenza di «come il sapere si formi e come progredisca»; e appunto per questo l’opera di Enriques andava incontro a un’esigenza profonda, disattesa dagli stessi «filosofi ufficiali» ma non per questo destinata a non essere soddisfatta dai rappresentanti più autorevoli della cultura scientifica (tanto più, annotava Garbasso con enfasi, che «l’energia e l’elasticità del genio latino allentano a poco a poco le maglie burocratiche» delle istituzioni accademiche). «La sana e viva filosofia – concludeva Garbasso – ritorna per diritto naturale agli uomini di scienza, e non può non dolere a questi se dall’altra parte, con ogni cura pietosa, ancora i morti seppelliscono i morti»78. Nel panorama culturale italiano del primo Novecento i detentori di un simile «diritto naturale» non erano numerosissimi, ma nemmeno erano del tutto assenti. Su una lunghezza d’onda non dissimile da quella di Garbasso, Francesco Severi e Tullio LeviCivita intervenivano a loro volta sui Problemi della scienza, dividendosi equamente il lavoro tra la filosofia della geometria (a cui prestava particolare attenzione Severi) e le questioni relative ai principî della meccanica (che a Levi Civita parevano meritorie di 77

A. GARBASSO, Problemi della scienza (a proposito di un libro di Federigo Enriques), «Bollettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche», X, 1907, pp. 33-37 (qui p. 33). 78 Ivi, p. 34.

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essere discusse perché mettevano in luce «alcune idee originali sulla gerarchia dei postulati e sopra le eventuali estensioni della dinamica classica»)79. Severi in verità non lesinava i consensi nemmeno sulle parti più propriamente filosofiche del lavoro di Enriques e in particolare, oltre alla distinzione tra «subiettivo» e «obiettivo», apprezzava le pagine dedicate alla definizione di cosa fosse da intendersi per ‘realtà’80. Ma, cogliendo bene il nucleo centrale che aveva ispirato i Problemi della scienza, Severi si concentrava soprattutto sulla maniera in cui Enriques aveva impostato il problema delle ipotesi scientifiche prendendo le distanze dalla «critica neo-kantiana del Poincaré». Insistendo sulla verifica sperimentale delle ipotesi e relativizzando contestualmente l’a priori kantiano, Enriques si era attestato, secondo Severi, su una posizione particolarmente vantaggiosa, dalla quale poteva precisare adeguatamente la sua critica al «nominalismo» di Poincaré sul terreno più specifico della filosofia della geometria. Una volta ammesso, infatti, che «i concetti ed i rapporti geometrici sono il prodotto dell’astrazione operata sopra una moltitudine di dati fisici», la scelta di una geometria piuttosto di un’altra non è tanto una questione di comodità (secondo la celebre tesi di Poincaré), bensì chiama in causa il maggior grado di avvicinamento alla realtà che essa garantisce: seppure entro certi limiti, è la realtà che «c’impone la scelta delle ipotesi». Pertanto, anziché condividere lo statuto di convenzioni, i concetti geometrici sono se mai «schemi» che nascono nella mente umana «dalla coordinazione di proprietà comuni a corpi diversi»81. L’adesione di Severi alla posizione di Enriques era dunque completa e forse potrebbe essere considerata una testimonianza significativa del rapporto che la comunità degli scienziati italiani instaurò, grazie anche alla mediazione di Enriques, con il convenzionalismo di Poincaré (anche se va detto che non sempre Poincaré venne recepito in questa prospettiva)82. 79

I due interventi di Severi e Levi-Civita compaiono sulla «Rivista di filosofia e scienze affini», VIII, 1906, pp. 527-541 e IX, 1907, pp. 337-346: entrambi sono ristampati in Per la scienza, cit., pp. 377-390 e 395-403 (da cui si cita). 80 Ivi, p. 379. 81 Ivi, pp. 387-388. 82 Ne fa fede, ci pare, la commemorazione pronunciata da Vito Volterra

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Per parte sua Levi-Civita parlava il linguaggio della scienza fisica e, completando la recensione di Severi, metteva in rilievo come Enriques si fosse accinto a modificare l’«assetto metodologico abituale» delle leggi della meccanica non facendo intervenire un sistema di riferimento assoluto, bensì «rispetto ad un sistema di riferimento generico». Al «grave inconveniente» di un sistema privilegiato (seppure non di natura metafisica) come quello delle stelle fisse, Enriques rimediava con il tentativo di formulare «un principio dinamico generale, valido per qualsiasi sistema di riferimento». Ora Levi-Civita si dichiarava «perfettamente d’accordo» sulla possibilità di rinunciare al postulato newtoniano, ma teneva a precisare che si sarebbe comunque trattato di correzioni significative solo per «velocità grandissime» rispetto a quelle terrestri o planetarie (ed Enriques rimaneva debitore di una risposta sul problema della forza centrifuga composta)83. Naturalmente è appena il caso di ricordare il ruolo di Levi-Civita nella formulazione matematica della teoria generale della relatività, grazie al calcolo tensoriale da lui precedentemente messo a punto insieme a Gregorio Ricci-Curbastro; e inoltre è quasi inevitabile vedere in questa discussione con Enriques, nonché in tutto quanto Enriques scrive nei Problemi della scienza (con integrazioni nell’edizione ampliata del 1909) a proposito del principio di relatività e della dinamica non newtoniana (PS, 303-305, 311-315), l’avvio di un percorso che avrebbe portato la comunità dei matematici italiani a incontrarsi con la fisica einsteiniana: nonostante rimanga aperta la questione controversa di come Enriques e lo stesso Levi-Civita si siano atteggiati nei confronti della ‘rivoluzione’ relativistica (se di rivoluzione si può parlare)84. In ogni caso le annotanel 1912, tutta incentrata sull’opera fisica e matematica di Poincaré senza riferimento alcuno al convenzionalismo (cfr. V. VOLTERRA, Saggi scientifici, con un’introduzione di R. Simili, Bologna, Zanichelli 1990, pp. 118-157). 83 Cfr. Per la scienza, cit., pp. 400-401. Malauguratamente non vi è menzione alcuna della recensione ai Problemi della scienza nelle lettere di Enriques a Levi-Civita recentemente pubblicate in Federigo Enriques. Matematiche e filosofia, cit., pp. 87-117. 84 Si ricordi a questo proposito quanto Enriques scriverà, nel 1925, nella prefazione alla ristampa della seconda edizione dei Problemi della scienza, richiamando il rapporto tra le parti del libro discusse anche da Levi-Civita e «la grandiosa sintesi scientifica» di Einstein: «termine naturale – aggiungeva Enriques – d’una crisi che si matura lentamente in due secoli di storia» (PS,

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zioni di Levi-Civita rimanevano rivolte agli addetti ai lavori, mentre i filosofi italiani (nessuno escluso) non sembravano prestare alcuna attenzione a simili questioni al di là di pochi cenni generici: certamente non rendendo un buon servizio all’autore dei Problemi della scienza e nemmeno – si potrebbe dire un po’ enfaticamente – alla causa della filosofia. Su un punto, comunque, uomini di scienza come Garbasso, Severi e appena più velatamente Levi-Civita concordavano senza esitazione: per citare le parole di Severi, il libro di Enriques poneva all’ordine del giorno, non diversamente da quanto già era emerso con l’opera di Riemann, Helmholtz, Clifford, Mach o Poincaré, «l’ideale dell’unità della scienza attraverso ai processi conoscitivi». Era un «ideale» sul quale Enriques aveva insistito sin dalla prefazione ai Problemi della scienza, dove addirittura parlava di «fede» nella «filosofia scientifica», ma soprattutto di una visione «sintetica del procedimento conoscitivo» che guardava alla mèta agognata dell’«unità della scienza» (PS, VI-VII). Nelle pagine finali di Scienza e razionalismo Enriques avrebbe ripreso in maniera ancora più esplicita questo programma, volto ad abbattere i rigidi confini tra le forme del sapere e a distruggere la «classificazione delle scienze che è l’attuale espressione del particolarismo»: era ormai un elemento costitutivo del razionalismo e dello storicismo di Enriques, declinati in una prospettiva che fuoriusciva irrimediabilmente dagli orientamenti sempre più dominanti nella cultura italiana del secondo decennio del Novecento85. Non per nulla è proprio su questo terreno che nascerà il dialogo di Enriques con il movimento per l’unità della scienza negli anni Trenta e la collaborazione con Otto Neurath al progetto dell’Enciclopedia della scienza unificata, nel quadro di un controverso rapporto con l’empirismo logico viennese86. Si tratta certa-

XII). Sull’atteggiamento ‘conservatore’ di Enriques e di Levi-Civita nei confronti della teoria della relatività di Einstein cfr. R. MAIOCCHI, Einstein in Italia. La scienza e la filosofia italiane di fronte alla teoria della relatività, Milano, Franco Angeli 1985, pp. 27, 37-45, 77-82, 214-216. Una valutazione decisamente in contrasto con quella di Maiocchi, specie per quanto riguarda Levi-Civita, è formulata da P. NASTASI, I matematici italiani e la relatività, «Rivista di filosofia», LXXXVII, 1996, pp. 177-191. 85 Cfr. Scienza e razionalismo, cit., p. 268. 86 Su questa vicenda si veda l’equilibrata e documentata ricostruzione di

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mente di un’altra storia; e tuttavia ben difficilmente la si potrebbe comprendere se non si partisse proprio dai Problemi della scienza, le cui pagine furono lette, commentate e criticate non solo entro i confini della ‘provincia’ italiana, ma pure in altri ambienti filosofici meno sensibili alle polemiche sull’idealismo o sul positivismo morente, eppure capaci di cogliere con prontezza, oltre ai meriti, anche i limiti della «gnoseologia positiva» di Enriques

3. Nonostante la sua fama di matematico non avesse atteso il 1906 per essere accreditata al di fuori del contesto italiano, furono soprattutto i Problemi della scienza ad assicurare a Enriques un posto di rilievo nella cultura scientifica internazionale e a fare di lui una figura eminente della ‘filosofia scientifica’ del primo Novecento. Né va scordato che l’opera e l’attività di Enriques si segnalarono sul piano europeo – a partire dal 1907 – anche grazie alla «Rivista di Scienza» (divenuta poi «Scientia»), da lui fondata in piena aderenza al programma elaborato nei Problemi della scienza e con l’intento di offrire al progetto della «sintesi scientifica» una tribuna internazionale aperta alla collaborazione di studiosi illustri (da Ostwald a Mach, da Duhem a Poincaré, da Rutherford a Russell, oltre agli italiani Vailati, Peano, Volterra, Righi e altri ancora). In effetti, almeno per quanto riguarda la prima serie durata sino al 1915 (quando avvenne la rottura con Eugenio Rignano), la rivista documenta lo sforzo ‘eroico’ di Enriques di raccogliere intorno alla sua proposta filosofico-scientifica il meglio della cultura internazionale, erigendosi a interlocutore privilegiato di quanti – come ricorderà egli stesso – avevano speso gli anni migliori per combattere la «lotta violenta contro lo spirito positivo» e il risollevarsi delle bandiere dell’«idealismo metafisico»87. Nonostante i sospetti di Croce e di Gentile, e nonostante le M. STÖLZNER, Federigo Enriques e l’Enciclopedia neurathiana, «Rivista di storia della filosofia», LIV, 1998, pp. 463-494. 87 F. ENRIQUES, Philosophie scientifique, ora in Per la scienza, cit., p. 219 (è il testo dell’intervento al Congrès International de Philosophie Scientifique di Parigi del 1935; una traduzione italiana è pubblicata in AA.VV., Filosofia scientifica ed empirismo logico [Parigi, 1935], a c. di G. Polizzi, Milano, Unicopli 1993, pp. 55-58: qui p. 56). Sulle vicende della «Rivista di scienza»

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reazioni non sempre entusiastiche suscitate in patria, Enriques sarebbe divenuto insomma, nella breve e felice stagione compresa tra la pubblicazione dei Problemi della scienza, la fondazione della ‘sua’ rivista e l’organizzazione del IV Congresso Internazionale di Filosofia di Bologna nel 1911, un punto di riferimento importante e un’autorità riconosciuta nella variopinta comunità della ‘filosofia scientifica’ europea88. Non stupisce da questo punto di vista che il libro di Enriques abbia conosciuto una considerevole fortuna anche al di là delle Alpi, come è attestato in primo luogo dalle traduzioni in francese (1909-1913), in tedesco (1910) e in inglese (1914)89. Un rapido sguardo a queste traduzioni rivela già qualcosa di interessante: prima di tutto perché le opere di pensatori italiani del primo Novecento che abbiano conosciuto l’onore di una traduzione in una lingua straniera non sono certo molte; e poi perché la stessa vicenda editoriale che accompagna l’avventura dei Problemi della scienza oltre i confini italiani non è priva di qualche interesse, almeno per chi è convinto che la ‘storia esterna’ possa dirci qualcosa di non marginale. Il caso della traduzione tedesca è sotto questo profilo particolarmente illuminante. Non solo il libro di Enriques uscì nella collana prestigiosa «Wissenschaft und Hypothecfr. l’esauriente ricostruzione di R. SIMILI, L’età degli eroi, posto a introduzione di Per la scienza, cit., pp. 51-63; ma cfr. pure O. POMPEO FARACOVI, Enriques e «Scientia», «Dimensioni», VI, 1981, n. 20, pp. 71-81. 88 Sulla «straordinaria operazione culturale» che Enriques realizzò grazie anche alla peculiarità dell’ambiente bolognese (segnato dalla compresenza della tradizione universitaria e di una solida cultura scientifica) cfr. G. FERRANDI, La filosofia a Bologna, in AA.VV., Le città filosofiche, cit., pp. 195196. Che in questi anni Enriques abbia dato il meglio di sé è quanto sostiene pure S. TAGLIAVINI, Federigo Enriques: per una gnoseologia positiva, in AA.VV., Studi sulla cultura filosofica italiana fra Ottocento e Novecento, cit., pp. 115-116. 89 Cfr. Les problèmes de la science et de la logique, traduit par J. Dubois, Paris, Alcan 1909 (traduzione dei primi tre capitoli) e Les concepts fondamentaux de la science. Leur signification réelle et leur acquisition psychologique, traduit par L. Rougier, Paris, Flammarion 1913 (traduzione degli altri capitoli); Probleme der Wissenschaft, I. Teil, Wirklichkeit und Logik; II. Teil, Die Grundbegriffe der Wissenschaft, übersetzt von K. Grelling, 2 voll., Leipzig und Berlin, Teubner 1910; Problems of Science, translated by K. Royce, with an introductory note by J. Royce, London-Chicago, Open Court 1914. Nel 1911, per cura di A. Batschinski, era inoltre uscita a Mosca la traduzione russa.

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se» dell’editore Teubner (che nel primo Novecento tedesco pubblicò Poincaré e Planck, Hilbert e Natorp, per fare solo qualche nome)90, ma a tradurlo fu Kurt Grelling, il quale aveva studiato a Gottinga matematica con Ernst Zermelo e filosofia con Leonard Nelson – il promotore della scuola ‘neofrieseana’ – e avrebbe poi preso attivamente parte all’attività della “Società per la filosofia scientifica” di Berlino animata da Hans Reichenbach91. Non sappiamo in realtà se e quali contatti siano intercorsi tra Enriques e Grelling; ma va almeno ricordato che all’epoca della traduzione tedesca dei Problemi della scienza Grelling apparteneva ancora alla cerchia dei ‘neofriseani’ (se ne staccherà, sotto l’influenza di Reichenbach, agli inizi degli anni Venti); e Fries è un autore a cui anche Enriques farà riferimento, riconoscendogli il merito di aver mostrato che «l’analisi dell’attività del pensiero […] ha sempre, in definitiva, un significato psicologico»92. Il caso di Grelling documenta bene la trama di rapporti che fanno da sfondo all’inserimento di Enriques nel panorama internazionale. Ma a questo proposito non meno istruttivo è il complesso legame che Enriques intrattiene con gli ambienti filosofici francesi, in particolare con la cerchia della «Revue de Métaphysique et de Morale». Erano ambienti in cui Enriques godeva di una certa notorietà grazie anche alla traduzione dei Problemi della scienza e con i quali si confrontava la sua posizione epistemologica, istituendo così un ‘ponte’ tra Italia e Francia che – in un clima di tramonto del positivismo e di riprese kantiane – collegava il matematico livornese al lavoro di Poincaré, Le Roy, Meyerson, o 90

Come volume XXVI della stessa collana uscirà nel 1927 anche l’edizione tedesca di Per la storia della logica (cfr. F. ENRIQUES, Zur Geschichte der Logik, deutsch von I. Bieberbach, Leipzig und Berlin, Teubner 1927). 91 Su Grelling si veda l’esauriente profilo di V. PECKHAUS, Von Nelson zu Reichenbach: Kurt Grelling in Göttingen und Berlin, in AA.VV., Hans Reichenbach und die Berliner Gruppe, a c. di L. Danneberg, A. Kamlah, L. Schäfer, Braunschweig/Wiesbaden, Vieweg & Sohn 1994, pp. 53-86 (con bibliografia). Grelling morì ad Auschwitz nel 1942; ma ancora il 22 settembre 1945 Neurath scriveva a Enriques in forma dubitativa: «Grelling è stato probabilmente ucciso dai nazisti» (la lettera è pubblicata in Per la scienza, cit., p. 314). 92 F. ENRIQUES, Per la storia della logica, cit., p. 122. Vale la pena di aggiungere che Enriques aveva una grande stima di Nelson e lo conosceva personalmente, come risulta da una lettera di Enriques a Léon del 15 luglio 1914 (cfr. Il carteggio Xavier Léon: corrispondenti italiani, cit., p. 316).

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domani di Brunschvicg e Bachelard93. A dire il vero, però, le reazioni al volume di Enriques erano venute precedentemente alla sua traduzione. Tra i primi a intervenire era stato Pierre Boutroux, che sulle pagine della «Rivista di scienza», facendosi portavoce dell’epistemologia francese contemporanea, forniva un resoconto dettagliato del libro di Enriques (forse il più accurato tra i molti usciti in quegli anni) e metteva in luce come il titolo modesto celasse in realtà un’intenzione sistematica ben precisa, rivolta a battere in breccia il positivismo tradizionale, il criticismo kantiano e il nuovo convenzionalismo (o «nominalismo») affacciatosi proprio sulla scena francese94. Boutroux non entrava dettagliatamente nel merito del «système nouveau» di Enriques, ma dichiarava che Enriques faceva rivivere l’empirismo dopo il colpo infertogli da Kant: una rinascita dovuta al concorso dell’analisi psicologica e della «conoscenza esatta della logica o delle leggi del pensiero», di fronte alla quale il lettore era «forse tentato» di concedere il proprio assenso95. Non era proprio una sottoscrizione senza riserve del programma di Enriques, ma certo aveva tutte le caratteristiche di un’apertura di credito. Nello stesso anno dell’intervento di Boutroux, André Lalande dava conto del libro di Enriques, seppure con intenzioni critiche a cui non faceva velo l’accurata esposizione del suo contenuto: in fondo, annotava Lalande, proprio dal tentativo di un Novus orbis scientiarum risultavano gli «inconvenienti» della sintesi enriquesiana, ora strabordante e diseguale, ora agilmente divulgativa, a volte penetrante, a volte evasiva su questioni di grande rilievo. Con un giudizio un po’ tagliente ma non privo di fondamento, Lalande osservava che si trattava a ben vedere di «un excellent manuel à l’usage des classes»; e soprattutto, formulando una critica che ormai ci è già nota, metteva in guardia i lettori dall’eccessivo sfoggio di competenze di Enriques, se è vero che certi passaggi dell’opera sembravano esprimere «in modo ora audace, 93

Cfr. in proposito G. POLIZZI, Enriques e l’epistemologia francese fra Ottocento e Novecento, in Federigo Enriques. Approssimazione e verità, cit., pp. 107-122. Si veda inoltre Il carteggio Xavier Léon: corrispondenti italiani, cit., pp. 308-328. 94 La recensione, apparsa sulla «Rivista di scienza», I, 1907, pp. 338-341, è ripubblicata in Per la scienza, cit., pp. 391-394 (qui p. 391). 95 Ivi, p. 394.

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ora soprattutto non sufficientemente critico, le teorie personali dell’autore, che sembra molto meglio informato sulla matematica che non sulla psicologia e la teoria della conoscenza»96. Nonostante questo la visione d’insieme proposta da Eniriques sembrava colpire l’attenzione dei recensori d’oltralpe, così come piaceva il ruolo che i Problemi della scienza potevano giocare nell’arginare l’influenza delle filosofie «anti-intellettualiste»97. Ma alcuni elementi di dissenso rimanevano ben netti e, come subito vedremo, erano condivisi anche da altre prese di posizione al di fuori della Francia: in particolare sembravano del tutto «inaccettabili» le conclusioni che a partire dal suo «empirismo» Enriques traeva a proposito dello statuto della logica, cadendo in una riduzione della logica a psicologia destinata a condurlo in una strada senza uscita98. La concezione della logica delineata nei Problemi della scienza era in effetti un punto delicato e già Vailati – come si è visto – lo aveva sottolineato. Del resto non molti anni dopo, seppure senza riferirsi al libro di Enriques bensì al suo saggio sulla logica uscito nel 1912 nella Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften curata da Arnold Ruge e pubblicato l’anno successivo in traduzione inglese, era addirittura Bertrand Russell a prendere le distanze dalla tendenza «più o meno positivistica» che era alla base della concezione della logica di Enriques: il quale, commentava Russell, sembrava ora rigettare, ora semplicemente ignorare le acquisizioni dei «moderni formalisti» e, per timore della metafisica, finiva per presentare le cose in una maniera più semplice e facile di quanto non lo fossero in realtà99. Il giudizio di Russell,

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Siglata A. L. [André Lalande] la recensione compare sulla «Revue philosophique de la France et de l’Étranger», XXXII, 1907, vol. LXIV, pp. 435-440 (qui, p. 440). 97 Si veda la recensione anonima apparsa nel Supplément della «Revue de Métaphyque et Morale», XVII, 1909, pp. 15-17. 98 Ci riferiamo alla recensione di M. Barge O.P., apparsa sulla «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», III, 1909, pp. 346-347. 99 La recensione di Russell della Encyclopedia of the Philosophical Sciences, uscita il 31 gennaio 1914 su «The Nation» con il titolo Competitive Logic, è raccolta ora in The Collected Papers of Bertrand Russell, vol. 8, The Philosophy of Logical Atomism and Other Essays 1914-19, a c. di J.G. Slater, London-Boston-Sydney, Allen & Unwin 1986, pp. 94-96 ed è ristampata

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breve ma inequivocabile, sollevava una questione cruciale per la ricezione dell’opera di Enriques nella filosofia scientifica internazionale. Enriques, d’altronde, non avrebbe mai nascosto la sua diffidenza nei confronti di un ‘paradigma’ dominante come quello del logicismo, anche nelle sue diramazioni che da Russell conducono al Circolo di Vienna influenzandone profondamente la fisionomia teorica. Negli anni Trenta, come noto, nel corso di un confronto ripetuto con le tesi (e le figure di maggior spicco) dell’empirismo logico viennese caratterizzato dall’esplicita ricerca delle divergenze a dispetto dei punti di contatto100, Enriques non si stancherà di sottolineare la sterilità dello strumento logico messo a punto da Russell e ripreso da Rudolf Carnap e Hans Hahn (Enriques, detto per inciso, non sembra avere alcuna conoscenza di Wittgenstein). La critica di Enriques, in verità assai poco argomentata, si incentra sulle affinità della moderna «critica logica» con le «scuole medievali», sulla sterilità della riduzione della matematica a logica nella forma di un complesso di tautologie e infine sulla necessità per la teoria della conoscenza di non fare della logica un primum: «la ragione che costruisce la scienza, e che si rivela nell’evoluzione storica del pensiero – dirà Enriques nel 1935 al congresso parigino di filosofia scientifica –, non si potrebbe spiegare con un’analisi puramente logica»101. Evidentemente si tratta di riserve non di poco conto, che segnalano la cospicua difformità di Enriques da uno degli indirizzi più influenti della filosofia scientifica europea nei primi decenni del Novecento: una difformità che non è mitigata dal richiamo all’opera di Enriques nel celebre ‘manifesto’ del Circolo di Vienna, in cui egli viene ricordato insieme a Riemann, Helmholtz, Mach, Poincaré, anche in Per la scienza, cit., pp. 409-412 (e cfr. pp. 173-194 per la traduzione inglese del saggio di Enriques su The Problems of Logic). 100 Cfr. la recensione di Enriques a PH. FRANK, Théorie de la connaissance et physique moderne (Paris, Hermann 1934), in «Scientia», XXIX, 1935, vol. LVII, pp. 227-229 (ristampato in Per la scienza, cit., pp. 358-360: qui p. 358). 101 Per la scienza, cit., p. 222 (= Filosofia scientifica ed empirismo logico, cit., p. 58). Nel testo ci siamo inoltre riferiti alle recensioni di R. CARNAP, L’ancienne et la nouvelle logique (Paris, Hermann 1933) e H. HAHN, Logique, mathématique et connaissance de la réalité (Paris, Hermann 1935), entrambe in «Scientia», XXIX, 1935, vol. LVII, pp. 69-70 e XXX, 1936, vol. LX, pp. 175-176 (ora in Per la scienza, cit., pp. 363-364, 365-367).

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Duhem, Boltzmann e Einstein per il suo contributo alla discussione sui fondamenti e i metodi della scienza empirica102. Ora quella citazione di Enriques sarebbe impensabile senza la presenza nella cultura di lingua tedesca dei Problemi della scienza nella traduzione di Grelling; e si tratta di una presenza che risale a ben prima dell’avvio dell’esperienza del Circolo viennese, come è documentato dall’attenzione che al libro di Enriques dedicarono Hans Hahn e Moritz Schlick. Tuttavia, mentre Hahn aveva dato notizia dell’uscita in tedesco del libro di Enriques limitandosi a una stringata esposizione che non lasciava trapelare alcuna valutazione critica103, Schlick si assunse l’onere di una discussione più approfondita, consegnata alle pagine della «Vierteljahrsschrift für Philosophie und Soziologie» (la rivista fondata nel 1877 da Avenarius e portavoce di un’area filosofica posta all’incrocio tra positivismo e neokantismo ‘scientifico’)104. Nonostante qualche dubbio sullo stile poco rigoroso di Enriques e sulla sua tendenza a trattare i problemi in maniera eccessivamente succinta, Schlick apprezzava lo spirito che animava i Problemi della scienza e, in particolare, le sezioni dedicate alla logica e all’esposizione critica della scienza contemporanea; per un altro verso 102

Cfr. R. CARNAP. H. HAHN, O. NEURATH, Wissenschaftliche Weltauffassung, cit., pp. 204-205; La concezione scientifica del mondo, trad. it. cit., p. 23. 103 La recensione di Hahn è pubblicata nei «Monatshefte für Mathematik und Physik», XXVII, 1916, pp. 22-24 (la sezione delle recensioni ha numerazione separata delle pagine). Per il contesto di questa e altre recensioni di Hahn cfr. TH. UEBEL, On the Austrian Roots of Logical Empiricism. The Case of the First Vienna Circle, in AA.VV., Logical Empiricism. Historical and Contemporary Perspectives, a c. di P. Parrini, W. Salmon e M.H. Salmon, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press 2003, pp. 67-93 e TH. UEBEL, Vernunftkritik und Wissenschaft: Otto Neurath und der erste Wiener Kreis, Wien-New York, Springer 2000, p. 182. 104 Per la recensione di Schlick cfr. «Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie und Soziologie», XXXV, 1911, pp. 266-269. Sulla rivista e sul suo orientamento cfr. K.CH. KÖHNKE, Entstehung und Aufstieg des Neukantianismus, cit., pp. 388-404. Sulla discussione critica di Enriques da parte di Schlick chi scrive ha già richiamato l’attenzione nel saggio An Unknown Side of Moritz Schlick’s Intellectual Biography: the Reviews for the “Vierteljahrsschrift für wissenschaftliche Philosophie und Soziologie” (1911-1916), in AA.VV., The Vienna Circle and Logical Empiricism. Re-evaluation and Future Perspectives, a c. di F. Stadler, Dordrecht/ Boston/London, Kluwer Academic Publishers 2003, p. 65.

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egli riteneva però meno rilevanti della trattazione d’insieme «gli aspetti di principio della […] teoria della conoscenza» di Enriques («stimato e anche in Germania ben noto matematico») e addirittura giudicava insostenibile la fondazione di un «punto fondamentale» come il relativismo. Il fatto che esista il numero 2 senza che la serie 1 + 1/2 + 1/4 + 1/8 … lo possa raggiungere in un processo finito non è un argomento valido, perché un procedimento «trascendente» può sì implicare che una definizione sia inadeguata, ma non che non esista l’oggetto definito: in breve, per Schlick non si poteva concedere alcuna plausibilità alla tesi di Enriques e anzi essa appariva tanto fragile da collocarlo al di fuori dello «spirito della filosofia critica»105. Tuttavia Schlick era pieno di apprezzamenti per alcune parti meno filosofiche dei Problemi della scienza, in primo luogo per quanto riguardava le «acute considerazioni» svolte nel capitolo sulla logica, sicuramente «il meglio riuscito del libro» a dispetto delle osservazioni sulla fondazione fisiologica del pensiero logico (un giudizio, questo, che lo Schlick maturo avrebbe certamente revocato); e non meno puntuale pareva a Schlick la tesi di Enriques a proposito dell’ipotesi meccanicistica in biologia, la quale non è contraddetta dai fenomeni della vita e ciò nonostante – come aveva detto Enriques in un passo citato anche da Schlick – risulta «indifferente per lo studio di questi» (PS, 334). In parte su questa linea si collocavano anche i rilievi di Enriques a proposito del «nominalismo» di Poincaré (espressione che Schlick trovava del tutto corretta); ma Schlick a questo punto non poteva fare a meno di osservare che considerare la geometria «una parte della fisica» significava offrire una conferma di quanto nel libro di Enriques la «tendenza positivistica supera[sse] largamente quella criticista»: un punto sul quale il giovane Schlick sembrava nutrire ancora diverse cautele. Era insomma non tanto l’Enriques teorico della conoscenza, quanto l’Enriques studioso delle scienze o, come diceva Schlick, della Naturphilosophie (nel senso in cui il termine era tornato in auge con Ostwald) a guadagnarsi il consenso di 105

Se si guarda a quanto Enriques scriverà di lì a poco in Scienza e razionalismo, cit., p. 113, si direbbe però che la critica di Schlick non lo abbia minimamente toccato («Processi di definizione [trascendenti] che implichino essenzialmente infinite operazioni, sono viziosi e conducono a qualsiasi contraddizione»).

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uno dei futuri padri del Circolo di Vienna: sebbene si trattasse di un consenso con precisi distinguo e non di una cambiale in bianco. Le recensioni di Hahn e Schlick non possono certo essere considerate come presunte anticipazioni dei futuri rapporti di Enriques con l’empirismo logico, che magari qualcuno si illude siano stati pacifici e scontati; e in effetti non sembra un caso che il nome di Enriques fosse destinato a scomparire dalle grandi opere di Schlick o di Carnap (ma anche di Reichenbach), rimanendo invece presente a Neurath nella veste di possibile alleato – come già si è detto – nella costruzione della scienza unificata106. In realtà i Problemi della scienza appartenevano a un orizzonte in buona misura diverso da quello che si sarebbe di lì a poco definito con l’inizio delle avventure viennesi e rimanevano se mai organicamente legati al dibattito dell’ultimo ventennio dell’Ottocento, fortemente impregnato dalla «fondamentale tensione di tipo psicologico» che l’analisi logica della scienza del ‘nuovo’ empirismo avrebbe superato, rendendo molto problematica la possibilità di tradurre il linguaggio di Enriques «nel dizionario dell’empirismo logico»107. Del resto proprio sulla questione del kantismo sarebbe stato Enriques, molti anni dopo, a schierarsi su un fronte opposto a quello dell’empirismo viennese, per sottolineare come non si potesse pretendere di risolvere il problema dell’a priori con una «semplice negazione», essendo ancora imprescindibile – nonostante tutti i limiti di Kant – il riconoscimento del ruolo 106

Il nome di Enriques non compare né nell’Allgemeine Erkenntnislehre di Schlick (prima ed. 1918, seconda ed. rivista 1925), né nell’Aufbau di Carnap (1928) e nemmeno nella Philosophie der Raum-Zeit-Lehre di Reichenbach (1928). Enriques è invece spesso citato negli scritti di Neurath, ma sempre in un elenco di autori che viene genericamente invocato a conferma di quanto sia radicato nella cultura scientifica internazionale l’aspirazione all’unità della scienza: cfr. per esempio O. NEURATH, Gesammelte philosophische und methodologische Schriften, a c. di R. Haller e H. Rutte, Wien, Hölder-Pichler-Tempsky 1981, vol. II, p. 906. 107 P. ROSSI, Federigo Enriques e la sua immagine della scienza, cit., p. 167 (e per quanto precede cfr. S. POGGI, Storia naturale della conoscenza ed economia del pensiero: la psicologia contemporanea e i «Problemi della scienza» di F. Enriques, cit., pp. 148-149). Sui limiti e le lacune del dialogo di Enriques con il Circolo di Vienna, pur senza scordare il merito di Enriques nell’osteggiare un’immagine puramente statica della scienza, richiama l’attenzione anche P. PARRINI, Filosofia e scienza nell’Italia del Novecento, cit., pp. 81-82.

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che spetta «all’attività dello spirito che costruisce la sintesi scientifica»108. Certamente quando Enriques formulava queste obiezioni molta acqua era passata dai tempi in cui aveva dato alle stampe i Problemi della scienza e la stessa natura del suo kantismo si era modificata in un senso più funzionale che psicologico, in una prospettiva non del tutto dissimile per certi versi dal neokantismo di Ernst Cassirer (o di Léon Brunschvicg)109. Ma a testimonianza di quanto possano essere intricate le strade delle idee filosofiche non andrà scordato che nel 1911 non era solo il giovane Schlick a nutrire dubbi sull’effettiva componente kantiana presente nei Problemi dellla scienza, se è vero che proprio Cassirer non poteva fare a meno di annoverare Enriques nella schiera dei «più radicali critici empiristi» in fatto di filosofia della geometria110. In questo senso se i Problemi della scienza non sembravano in grado di incidere sul futuro destino dell’empirismo logico, per un altro verso non venivano però recepiti in maniera positiva nemmeno negli ambienti neokantiani tedeschi, a conferma di quanto l’impianto della teoria della conoscenza di Enriques si esponesse ad essere emendato anche sul versante del pur professato rinnovamento del kantismo. Il caso spesso citato della recensione di Friedrich Kuntze uscita sulle «Kant-Studien» è sotto questo profilo emblematico, proprio perché su una rivista così autorevole veniva formulato un giudizio poco lusinghiero sulla competenza filosofica di Enriques, autore di un libro indubbiamente importante ma anche troppo disattento a cosa fosse la filosofia da un punto di vista ‘professionale’111. Le pagine che Enriques aveva dedicato a Kant per illustrare la distinzione tra feno108

F. ENRIQUES, Philosophie scientifique, in Per la scienza, cit., p. 221 (= Filosofia scientifica ed empirismo logico, cit., p. 57) 109 Cfr. La teoria della conoscenza scientifica da Kant ai giorni nostri, cit., pp. 82-86. Su questo punto si veda pure O. POMPEO FARACOVI, Enriques ieri e oggi, cit., p. 318; I «Problemi della scienza» di Federigo Enriques, cit., p. 371 e Sul ‘neokantismo’ di Enriques, cit., pp. 56, 62-64. 110 Cfr. E. CASSIRER, Substanzbegriff und Funktionsbegriff. Berlin, Bruno Cassirer 1910, rist. an. Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1994, p. 146; Sostanza e funzione, trad. it. di E. Arnaud, Firenze, La Nuova Italia 1999, p. 152. 111 La recensione di Kuntze si legge sulle «Kant-Studien», XVI, 1911, pp. 298-300.

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meno e noumeno (dove quest’ultimo sarebbe un’essenza concepita da una mente confusa), per tracciare la mobile linea di confine tra aspetto soggettivo e oggettivo della conoscenza (ma il primo aspetto Enriques lo aveva definito bizzarramente come «personale») e infine per individuare nella geometria e nella meccanica «una certa oggettivazione delle leggi strutturali della psiche» (PS, 18-20) suscitavano l’aspra reazione di Kuntze, che invitava il lettore dell’illustre rivista tedesca ad essere cauto nell’affrontare la «parte filosofico-costruttiva» del libro e concludeva senza mezzi termini: «con questo basta: l’aspetto storico e in particolare la critica di Kant non è certamente il lato forte di Enriques»112. La recensione di Kuntze diede occasione a Croce per confermare il suo giudizio del tutto negativo su Enriques, il quale – e non era più un «segreto» nemmeno al di là delle Alpi – semplicemente non sapeva «nulla di filosofia»113. Ma non senza ragione Enriques replicò a Croce che le riserve espresse da Kuntze non giustificavano una simile liquidazione, tanto più che la difformità di vedute su Kant non poteva oscurare il fatto che egli aveva «lungamente» meditato la Critica della ragion pura «fino da 20 anni or sono», avanzando intorno alla nozione di noumeno un’obiezione che «non differisce sostanzialmente da quella dei critici più immediati di Kant e segnatamente di S. Maimone»114. La polemica tornava così tra le mura domestiche e offriva nuovi spunti allo scontro tra Enriques e il neoidealismo; eppure, per quanto possa essere importante tutto ciò al fine di collocare Enriques nella cultura filosofica italiana e tedesca del primissimo Novecento, non è solo nel segno della controversie sul kantismo o sul positivismo critico che i Problemi della scienza entrarono nel circuito della discussione filosofica internazionale, se è vero che tra Gran Bretagna e Stati Uniti furono se mai altri grandi ‘paradigmi’ filosofici ad essere chiamati in causa. Chi prenda in mano la traduzione inglese del libro di Enriques (uscita, come si è detto, nel 1914) si imbatte subito nel nome di Josiah Royce, il quale non solo vi premetteva alcune pagine 112

Ivi, p. 299. B. CROCE, Pagine sparse, cit., p. 264. 114 F. ENRIQUES, Risposta a Benedetto Croce, cit, p. 296. 113

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di presentazione, ma era stato il patrocinatore della traduzione stessa sin dal 1908, quando aveva conosciuto Enriques al III Congresso Internazionale di Filosofia di Heidelberg in cui era divampata la discussione europea sul pragmatismo americano115. Royce si era rapidamente convinto che i Problemi della scienza costituissero un contributo di grande importanza, sia perché offrivano una «visione sintetica della metodologia scientifica», sia perché – come Royce scriveva in una lettera dell’ottobre 1908 a James McKeen Cattell – andavano ben più a fondo di Poincaré «nei problemi della logica moderna» richiamando il «pubblico filosofico» su questioni di grande attualità116. In questo non diversamente da Vailati, Royce riportava dunque Enriques nel solco del pragmatismo e ne coglieva il merito principale nell’aver anticipato i più recenti sviluppi del movimento pragmatistico, in specie per quanto riguardava l’«ostilità» nei confronti del trascendentale e dell’assoluto, due obiettivi polemici che vedevano schierati sullo stesso fronte di Enriques i filosofi della «scuola di Chicago»117. Tuttavia Royce riconosceva che Enriques non poteva essere considerato uno ‘strumentalista’ e presentava piuttosto la sua «visione sintetica» come una rottura rispetto al vecchio positivismo di Comte, ma anche come una ricerca progressiva della verità in una prospettiva ben diversa dalla celebrazione del relativo e del mutevole cara ai pragmatisti: tanto bastava per fare di Enriques un interlocutore privilegiato anche per il pubblico anglofono, ancora sprovvisto di una simile trattazione unitaria dei problemi della metodologia scientifica118. 115

Cfr. J. ROYCE, Introductory Note to Problems of Science, in F. ENRIProblems of Science, cit., pp. IX-XIII (ripubblicata in Per la scienza, cit., pp. 404-408, da cui si cita: qui pp. 404-405). Al congresso di Heidelberg Enriques partecipò con una relazione intitolata Sul principio di ragion sufficiente; dagli atti congressuali non risulta però che egli abbia preso la parola nella discussione pubblica sul pragmatismo (cfr. Bericht über den III. Internationalen Kongress für Philosophie zu Heidelberg, a c. di T. Elsenhans, Heidelberg, Winter 1909: alle pp. 763-766 la relazione di Enriques). 116 Cfr. The Letters of Josiah Royce, a c. di J. Clendenning, Chicago & London, The University of Chicago Press 1970, p. 527. 117 Introductory Note to Problems of Science, cit., pp. 406-407. 118 Ivi, pp. 407-408. Sulla valutazione, da parte di Royce, dei Problemi della scienza come «antidoto equilibrato» agli «eccessi dei pragmatisti» cfr. L. CAMPEDELLI, Federigo Enriques nella storia, la didattica e la filosofia delle matematiche, «Periodico di matematiche», s. IV, XXV, 1947, p. 113. QUES,

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Era in questo spirito, ma in forma ancora più sobria e argomentata, che Charles D. Broad dava ampia notizia sulle pagine di una rivista prestigiosa come «Mind» della pubblicazione in inglese del libro di Enriques119. Broad non risparmiava gli apprezzamenti per la profondità del lavoro di Enriques, trovava di grande interesse le considerazioni sul convenzionalismo geometrico anche se dubitava che si potesse provare sperimentalmente che la geometria del mondo reale è archimedea o non-archimedea e infine sottolineava cautamente come Enriques suggerisse una «visione troppo soggettiva della logica», pur riconoscendogli il merito di aver affrontato la questione di come le leggi della logica siano applicabili alla realtà. Tuttavia il punto che stava veramente a cuore a Broad era la «dottrina della relatività», che a suo avviso Enriques aveva avuto il torto di illustrare sulla base di una serie di esempi senza attingere un livello teorico adeguato. Così mettere al bando la giustizia assoluta perché è sufficiente stabilire di volta in volta quale sia il dovere più alto significa ignorare che la giustizia ha un suo proprio contenuto indipendente dalle circostanze; e similmente combattere l’infinito attuale perché non si può definire l’ultimo membro di una serie infinita non significa che si possa negare la realtà di numeri infiniti o che la parola ‘infinito’ non possa applicarsi a numeri o quantità date. Da ultimo, anche la relativizzazione del confine tra soggettivo e oggettivo pareva a Broad argomentata in modo troppo generico: se il soggettivo è relativo perché può divenire oggetto di conoscenza scientifica, bisogna chiedersi se questo non comporti che i due piani (il mentale e il fatto accertato) rimangano comunque distinti. Generalizzando questo esempio dovremmo allora dire con Enriques che non vi è alcuna distinzione assoluta tra le cose: il che o è ovvio (nel senso che nessuna cosa differisce da un’altra totalmente), oppure è assurdo (nel senso che non vi sarebbero differenze stabili nel mondo)120. Con le analitiche annotazioni di Broad certamente estranee allo stile di Enriques (e di non pochi dei suoi interlocutori) si esaurisce lo spettro molto composito delle reazioni che in Italia e 119

La recensione, apparsa su «Mind», XXIV, 1915, pp. 94-98, è ripubblicata in Per la scienza, cit., pp. 413-418 (da cui si cita). 120 Ivi, pp. 414-415.

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fuori d’Italia avevano accompagnato la pubblicazione dei Problemi della scienza, decretandone la sorte di libro controverso, di volta in volta stroncato o considerato un ‘classico’, apprezzato come utile ‘manuale’ o elogiato per l’«attitudine nuova» di cui si faceva portavoce. In realtà, letto per molto tempo nella luce esclusiva della polemica con il neoidealismo, e dunque svincolandolo da un più ampio contesto che peraltro non è solo popolato di voci italiane, il libro di Enriques merita di essere analizzato proprio ponendosi nella prospettiva dei contemporanei, anche per individuare meglio i limiti di un lavoro che alla fine non seppe costituire – come ha scritto Paolo Rossi – un argine nei confronti della «grande alluvione neoromantica e neoidealistica che dette vita, in tutta Europa, ad un’immagine fortemente negativa del sapere scientifico»121. Ma, al di là di questo aspetto, è la collocazione dei Problemi della scienza nel panorama della ‘filosofia scientifica’ e della discussione filosofica del primo Novecento a fornirci una chiave di lettura certamente preziosa: oltre il mito della ‘sconfitta’ di Enriques per mano di Croce e Gentile, vi è anche una storia più complicata, in cui Vailati e De Sarlo, Ardigò e Levi-Civita, Schlick e Cassirer, Royce e Boutroux scendono in campo con argomenti, obiezioni, silenzi e critiche, apprezzamenti e giudizi unilaterali che ci dicono molto sul valore delle pagine di Enriques, sui limiti della sua sintesi e sulla solidità delle sue tesi. Certo non è tutto: ma non sarà anche a partire di qui che si potrà ridimensionare una certa tendenza a fare di Enriques il profeta ingiustamente emarginato, per restituirgli invece la sua statura autentica di scienziato e di filosofo?

121

P. ROSSI, Federigo Enriques e la sua immagine della scienza, cit., p. 174.

8 LA «RIVISTA DI FILOSOFIA»: DALLA FONDAZIONE AGLI ANNI VENTI 1. Nel quadro delle riviste filosofiche del primo Novecento italiano, in complesso assai meno sondato di quello relativo ai periodici di cultura e variamente ‘militanti’, la vicenda della «Rivista di filosofia» è forse la più conosciuta1. Le ragioni di questa notorietà sono facilmente comprensibili quando si tenga conto della posizione di prestigio che la rivista ha acquisito nella cultura filosofica italiana contemporanea, anche in virtù di una longevità «eccezionale» (come l’ha definita a suo tempo Norberto Bobbio)2; e in effetti nelle molte decine di volumi che ne raccolgono i fascicoli è dato ritrovare parte consistente della filosofia italiana del secolo da poco concluso, lungo un tragitto che va dal primo decennio del Novecento al conflitto mondiale, dall’inquieto dopoguerra all’avvento del fascismo, e poi dai bui anni Trenta al dopo Liberazione, su su sino ai giorni nostri. Tante tappe, insomma, cui non sarebbe difficile associare di volta in volta un’etichetta (positivismo e crisi del positivismo, idealismo e anti-idealismo, esistenzialismo e neoilluminismo, e così via), rinvenendo nelle pagine di un periodico sempre presente, anche nei momenti 1

Un esame, per diversi aspetti ancora incompleto, delle riviste di filosofia nei primi tre decenni del secolo si può trovare nel volume La filosofia italiana attraverso le riviste 1900-1925. Atti del Convegno della Società Filosofica Italiana (Lecce, 10-12 dicembre 1981), a c. di A. Verri, Lecce, Milella 1983. Ormai superato è invece il vecchio contributo di S. CARAMELLA, Le riviste filosofiche italiane nell’ultimo quarto di secolo, «La Cultura», III, 19231924, pp. 508-516, 550-556. Sempre utile come repertorio la Bibliografia ragionata delle riviste filosofiche italiane dal 1900 al 1955, a c. di E. Zampetti, in Bibliografia filosofica italiana dal 1900 al 1950, Roma, Edizioni Delfino 1956, pp. 361-489. 2 Cfr. N. BOBBIO, Premessa, «Rivista di filosofia», LXXV, 1984, p. 3.

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di maggiore sconvolgimento morale e materiale, gran parte dei nomi e delle idee che punteggiano le nostre ‘cronache di filosofia’3. Tuttavia è buona norma dello storico non proiettare sul passato le immagini consolidatesi con l’andare del tempo, per evitare di deformare con l’ottica del presente, o comunque del ‘dopo’, il senso di ciò che precede. Anche nel caso della «Rivista di filosofia» occorre dunque non lasciarsi sedurre dalla tentazione di attribuirle un ruolo sempre uguale a se stesso, magari partendo da un punto di osservazione dislocato in un preciso contesto e riconducibile a ben determinati protagonisti della sua storia (come nel caso di Martinetti, e in genere dei collaboratori che vennero raccogliendosi, nell’età del fascismo, intorno a Martinetti medesimo, da Colorni a Bobbio a Geymonat). Al contrario, se risaliamo alla storia iniziale della rivista, nel ventennio all’incirca che va dalla sua fondazione al 1927, quando cessa di essere l’organo della Società Filosofica Italiana per ragioni politiche ben note, dobbiamo adottare un’ottica diversa, che la collochi nel panorama della filosofia italiana ed europea tra la belle époque e i tumultuosi anni Venti: solo così il suo ‘orizzonte’ risulta veramente perspicuo e, possiamo anticipare, anche ben definito nei suoi limiti. Per iniziare dai dati anagrafici, scontati ma indispensabili, converrà prima di tutto ricordare che la «Rivista di filosofia» nacque nel 1909 dalla fusione della «Rivista Filosofica» di Carlo Cantoni con la «Rivista di filosofia, pedagogia e scienze affini» diretta dal più intimo allievo di Ardigò, Giovanni Marchesini. Entrambe le riviste – quella pavese di Cantoni e quella padovana di Marchesini – erano sorte un decennio prima, l’una raccogliendo intorno a sé le sparse forze di una certa tradizione neocriticista italiana che si era costituita nel corso degli anni Ottanta dell’Ottocento, l’altra per ridare vita alla presenza della cultura positivistica, soprattutto di matrice ardighiana, proprio nel momento in cui il positivismo, in Italia e in Europa, registrava una tormentata, profonda crisi. La «Rivista Filosofica» di Cantoni non era 3

Per un primo profilo della «Rivista di filosofia» si rimanda ad A. SANLa «Rivista di filosofia», «Filosofia», XXIV, 1973, pp. 53-66. Si veda inoltre la Premessa (non firmata) al volume pubblicato in occasione del 90° anno di vita della rivista (Indici 1909/1999, Bologna, Il Mulino 1999, pp. 35). TUCCI,

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propriamente l’organo del neokantismo italiano – corrente del resto molto composita e scarsamente omogenea – e partì, infatti, con un dignitoso programma rivolto piuttosto all’affermazione della funzione critica della filosofia; ma certo non era neppure una rivista positivistica nel senso stretto del termine, nemmeno quando si consideri la grande attenzione che il periodico pavese dedicò alla psicologia e alla fondazione psicologica delle strutture conoscitive. D’altra parte i nomi di alcuni dei suoi collaboratori, da Tocco a Chiappelli, da Faggi a Juvalta, da Credaro a Villa, per non dire di Varisco, Bonatelli, Vailati, De Sarlo, oltre ovviamente a quel neokantiano molto atipico che fu Carlo Cantoni, sono già di per sé eloquenti di un certo eclettismo, se con questo termine si intende la disponibilità a far convergere posizioni anche distanti una volta riconosciuta la differenziazione pregiudiziale tanto dal positivismo naturalistico quanto dall’«idealismo dogmatico»4. 4

Il programma della «Rivista Filosofica» è ben sintetizzato dalle parole di Cantoni, il quale si preoccupava di non imprimere un indirizzo troppo personale al periodico e chiamava a raccolta quanti avevano a cuore, se non il kantismo, la funzione critica della filosofia (cfr. C. CANTONI, Ai lettori della rivista, «Rivista Filosofica», I, 1899, vol. I, pp. 4-5). La filosofia – diceva Cantoni – è «un elemento necessario della coltura e della vita nazionale»: deve dunque abbracciare l’intero ambito della vita spirituale senza confinarsi né entro i limiti di un mero scientismo, né tra le ristrettezze di un’indagine erudita che non sappia soccorrere l’elaborazione delle dottrine filosofiche. Alla rivista – proseguiva Cantoni – potranno pertanto collaborare tutti coloro «che sono persuasi non potersi risolvere i problemi della scienza e della vita col naturalismo puro, e che d’altra parte respingono quell’idealismo dogmatico che si fonda sul pensiero astratto e pretende di svolgere le sue dottrine senza far la critica dei concetti e dei principii e senza tener conto dei risultati delle scienze particolari». In questo senso occorreva affrontare anche la filosofia pratica, difendendo sì la necessità di «un fine assoluto» e del «principio del dovere», ma tollerando quelle posizioni magari opposte che tuttavia non arrivano a «distruggere» le più alte idealità dello spirito umano. L’unica preclusione – concludeva Cantoni – deve valere nei confronti di quanti «sotto la veste di un falso positivismo, pretendono, con dogmatica presunzione, di provare scientificamente che sono falsi ed illusorii quei principii che nella coscienza comune degli uomini e anche in quella della più parte dei filosofi stanno a fondamento della morale e della religione». Sulla rivista del Cantoni, ma pure sulla sua filiazione dalla precedente «Rivista Italiana di Filosofia» di Luigi Ferri (a sua volta prosecuzione della «Filosofia delle scuole italiane» di Terenzio Mamiani) cfr. P. GUARNIERI, La «Rivista Filosofica», cit., pp. 9-53. Per il dibattito che si svolse sul periodico e per i rapporti con il neokantismo italiano a cavallo dei due secoli sia consentito anche rinviare al nostro I dati dell’esperienza, cit., pp. 367-379.

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Sull’altro versante, chi scorra le annate della rivista padovana di Marchesini s’imbatte invece in una più accentuata linea positivistica, testimoniata del resto dai nomi e dai contributi di alcuni dei collaboratori di maggiore spicco, come lo stesso Marchesini, Ardigò, Dandolo, Morselli (che redige la rubrica Rassegna di filosofia scientifica): dalle loro pagine non sembra emergere alcun segnale di crisi o di lacerante travaglio della cultura del positivismo, nonostante le revisioni ormai in atto e la presenza in non pochi degli allievi di Ardigò – a partire proprio da Marchesini, che in quegli anni combina la teorica delle «finzioni dell’anima» con l’attività di biografo del maestro padovano – di esigenze che tendono ad esorbitare, anche vistosamente, dai quadri del naturalismo ardighiano5. La diversità rispetto alla «Rivista Filosofica» di Cantoni non è però tale da escludere, in nome di un non dissimile appello all’esame razionale e al rifiuto di irrigidimenti dogmatici, la presenza assidua e ripetuta di collaboratori che si dividono equamente tra le due riviste (si pensi a Faggi, a Varisco, a Cesca, a Vailati, per far solo qualche nome): di fatto il terreno dell’analisi psicologica per un lato e dell’impegno per una disamina ‘positiva’ del mondo dell’uomo per l’altro facilitano convergenze non occasionali. Ma questo non significa che la rivista padovana (la «sputacchiera di Ardigò», la chiamerà con la consueta irriverenza Papini)6 e il periodico pavese rappresentino soltanto due diverse versioni di una comune matrice psicologistica e positivistica: non solo per l’impianto complessivamente più robusto, aggiornato e meditato della «Rivista Filosofica» rispetto ai

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Sui limiti della «Rivista di filosofia, pedagogia e scienze affini» insiste giustamente F. RESTAINO, Note sul positivismo in Italia (1865-1908), III, Il declino (1892-1908), cit., pp. 490-498. Va detto, però, che al di là di Marchesini (o di Tarozzi), sulla rivista padovana la scuola di Ardigò si presenta anche con tentativi non privi di interesse di arricchire la tematica positivistica in direzioni nuove: basti citare, oltre a Groppali, studiosi di levatura notevole come Alessandro Levi e Limentani, che sembrano coltivare in maniera fortemente autonoma «campi di indagine» comuni a tutta l’area del positivismo ardighiano, dall’etica alla sociologia (cfr. L. LIMENTANI, Il positivismo italiano, cit., pp. 1-2). 6 Cfr. G. PAPINI, Franche spiegazioni, «Leonardo», V, aprile-giugno 1907, pp. 129-143 (poi in La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste. «Leonardo», «Hermes», «Il Regno», a c. di D. Castelnuovo Frigessi, Torino, Einaudi 1972, pp. 351-360: qui p. 353).

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coevi e non sempre accattivanti fascicoli della «Rivista di filosofia, pedagogia e scienze affini», ma soprattutto per le differenze anche rilevanti che emergono dalle rispettive pagine proprio in merito alla funzione dell’indagine psicologica7. La fusione tra le due riviste può dunque essere giustificata da alcune convergenze, ma non costituisce certo un esito scontato. In realtà, oltre alle contingenze più evidenti (la morte, nel 1906, di Cantoni; le difficoltà finanziarie di entrambi i periodici; una fitta rete di rapporti accademici e personali), a favorire l’unione fu essenzialmente la volontà di dare a buona parte del mondo accademico italiano – organizzatosi di recente, nel 1906, nella Società Filosofica Italiana – l’organo, o meglio ancora il veicolo di diffusione, di una produzione filosofica universitaria che si alimentava del proprio dibattito interno, condotto sulla falsariga del positivismo e delle sue revisioni per un lato e della tradizione neokantiana per un altro. Nel momento in cui le comuni matrici ottocentesche di entrambi gli indirizzi venivano severamente collaudate dal nuovo clima della filosofia europea e italiana degli albori del Novecento, sembrava insomma manifestarsi l’esigenza di garantire alla filosofia egemone negli ambienti universitari la compattezza di una presenza anche ‘istituzionale’, dando largo spazio a precise preoccupazioni pratiche: il progetto di incidere sulla formazione e gli orientamenti del ceto degli insegnanti (non per nulla sono anni, come tutti sanno, di grande importanza per quanto concerne il dibattito pedagogico e l’organizzazione della scuola); l’esigenza, sempre più avvertita, di opporsi all’idealismo

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Su questo punto andrebbero rettificate le valutazioni espresse da V. MILANESI, Filosofia, psicologia e “metafisica critica”: linee tematiche e dibattito teorico sulle riviste del positivismo italiano (1881-1914), in AA.VV., La filosofia italiana attraverso le riviste (1900-1925), cit., pp. 39-91 (ristampato anche in V. MILANESI, Prassi e psiche. Etica e scienze dell’uomo nella cultura filosofica italiana del primo Novecento, cit., pp. 67-115). Non per nulla (e per fare un solo esempio) nel 1900 Marchesini ribadisce con forza il «programma del positivismo» e attacca duramente un fine cultore di studi psicologici come De Sarlo, al quale rimprovera l’‘assurdità’ dell’a priori identificandolo tout court con elementi «metafisici e trascendenti» introdotti surretiziamente nell’esperienza scientifica (G. M ARCHESINI, Fra i libri, «Rivista di filosofia, pedagogia e scienze affini», II, 1900, vol. III, pp. 415-416): un’obiezione ‘riduzionista’ che poteva evidentemente essere rivolta anche a molti dei collaboratori della «Rivista Filosofica» di Cantoni.

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come alle risorgenti correnti irrazionalistiche anche sul piano della ‘politica culturale’; l’ambizione, infine, di rappresentare, sia sul piano dei valori etico-pedagogici sia su quello delle ideologie, la più autorevole incarnazione della tradizione culturale italiana, in concorrenza con il pensiero cattolico (nel 1909 nasceva anche la «Rivista di filosofia neoscolastica») e con il neoidealismo, che di quella tradizione espungeva invece la componente ‘sperimentale’ tanto elogiata, spesso e volentieri in forme retoriche, dai collaboratori della «Rivista di filosofia»8. Se si tiene conto di questi elementi, ciascuno dei quali meriterebbe in verità di essere analizzato più dettagliatamente, il matrimonio tra le «due scuole gloriose di Carlo Cantoni e Roberto Ardigò» (come si legge nella presentazione del primo fascicolo della «Rivista di filosofia») appare forse meno sorprendente di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Ma al contempo non stupisce che il programma del nuovo periodico tradisca un’evidente genericità, sia quando l’accento cade sull’intenzione di offrire «ai cultori della filosofia una Rivista, nella quale tutti gli indirizzi del pensiero filosofico trovino libera espressione, senza altri limiti che quelli segnati dalla serietà e dalla sincerità delle indagini e degli intenti»; sia quando l’attenzione viene rivolta alla filiazione dal «genio italiano» dei «due atteggiamenti fondamentali della speculazione europea», vale a dire il naturalismo e l’umanismo (rispettivamente simboleggiati dai nomi di Galileo e di Vico). «Sembra conveniente al progresso della coscienza speculativa italiana – si legge ancora nella dichiarazione programma8

Sull’importanza delle ‘tradizioni’ e delle ascendenze (o dei ‘primati’) nella filosofia italiana cfr. C.A. VIANO, Il carattere della filosofia italiana contemporanea, in AA.VV., La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980 nelle sue relazioni con altri campi del sapere, Napoli, Guida 1982, pp. 9 sgg., nonché il materiale offerto da L. MALUSA, L’idea di tradizione nazionale nella storiografia filosofica italiana dell’Ottocento, Genova, Tilgher 1989, specie pp. 1964. Per quanto si dice nel testo sono da tenere presenti le annotazioni di E. T. [Erminio Troilo] nella rubrica Questioni varie della prima annata della «Rivista di filosofia», I, 1909, n. 1, p. 111: «L’ultimo decennio è stato per il movimento intellettuale italiano più intenso e fattivo di quanto non sembri in sulle prime: e la Rivista di filosofia e scienze affini e la Rivista filosofica sono state efficaci e nobili organi di elaborazione, d’impulso e di fortificazione spirituale, in mezzo alle incertezze, al confusionismo ed alle leggerezze di una quantità di tendenze, di correnti e di scuole, pullulate in questi ultimi tempi con fecondità straordinaria».

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tica stesa a nome del Consiglio direttivo della Società Filosofica Italiana – che, accanto ad altri periodici, l’Italia possegga una Rivista autorevole aperta ugualmente a tutte le opinioni e perciò adatta a chiarire le profonde ragioni ideali, da cui le scuole filosofiche traggono origine»; e a questo fine la rivista avrebbe ospitato, «nei loro molteplici aspetti», i problemi «della Filosofia naturale e della Metafisica, della Storia della Filosofia, della Logica, della Gnoseologia e della critica delle scienze, non meno che i problemi etici, religiosi, sociali, psicologici e pedagogici». A dispetto del richiamo a ‘scuole’ o a ‘tradizioni’ sembrava insomma prevalere un intento ecumenico, capace di riportare sotto la bandiera della «coscienza speculativa italiana» tutti coloro che si riconoscevano nel programma minimo di opporsi al neoidealismo e di proseguire un lavoro già iniziato altrove9.

2. A guidare la «Rivista di filosofia» nella sua prima navigazione sono del resto studiosi che non sempre hanno grandi affinità: nella redazione compaiono positivisti, ma già di per sé distinti e distinguibili, come Giovanni Marchesini, Alessandro Levi ed Erminio Troilo; figure di scarso rilievo come Luigi Valli; positivisti apertamente in crisi e anzi già riconvertiti come Bernardino Varisco (il quale fece un po’ da trait d’union al momento della fusione ed ebbe un ruolo centrale nei primi anni di vita della «Rivista di filosofia»); poi Juvalta, ex-segretario di redazione della «Rivista Filosofica», e Adolfo Faggi, formatosi alla scuola fiorentina con Tocco; infine Vailati, certamente la mente filosofica di maggior rilievo, ma purtroppo destinato a una morte prematura nel maggio 1909, quando la rivista faceva i suoi primi passi (sarà

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Cfr. «Rivista di filosofia», I, 1909, n. 1, pp. 1-3 (e anche la lettera agli abbonati, pp. 4-5). D’ora innanzi tutti i riferimenti alla «Rivista di filosofia» saranno indicati semplicemente con l’annata, il numero delle pagine ed eventualmente del fascicolo per le annate in cui la numerazione delle pagine non è progressiva. È appena il caso di aggiungere che la «Rivista di filosofia» era pubblicata da Formiggini, l’editore che si propose, agli inizi del Novecento, come una sorta di punto di raccoglimento della cultura di matrice positivistica e presso il quale usciranno tra l’altro gli atti dei congressi della Società Filosofica Italiana, nonché quelli del IV Congresso Internazionale di Filosofia di Bologna dell’aprile 1911 (si veda anche sopra, cap. 2, p. 54 n. 67).

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sostituito da Calderoni, che però sul periodico non scrisse una sola riga, e dal già citato Troilo)10. Ma più ancora dei nomi, sono i grossi volumi che ne raccolgono le annate iniziali a circoscrivere l’orizzonte della «Rivista di filosofia» almeno sino alla vigilia del conflitto mondiale. Intanto colpisce subito il rilievo accordato agli articoli di Ardigò, monotonamente intenti a ribadire i caposaldi della sua vetusta riflessione filosofica. «Si sente il positivista di vivere sicuro in queste sue deduzioni – sentenziava ad esempio Ardigò nel 1909 –, onde i pusilli si sgomentano: e ride quando i sapientoni lo dicono semplicista»11; e a conferma di questa orgogliosa convinzione Ardigò non mancava di ribadire – l’anno seguente – che il ritmo della coscienza è un distinto rispetto all’«energia comune, ragione unica di ogni realtà»12. Puntigliosamente, Ardigò teneva a sottolineare, in calce a Infinito e Indefinito, l’articolo di apertura della «Rivista di filosofia», che esso era stato compiuto nel gennaio 1909, nell’ottantunesimo anno di età dell’autore: ma a dire il vero più avanti ancora negli anni sembravano le sue lunghe, faticose pagine, le sue certezze sull’«induzione indubitabile della solidarietà del tutto», o il suo stile fattosi ancor più assertorio e dogmatico13. 10

Sul ruolo di Varisco sono da tener presenti alcune lettere inviategli da Marchesini agli inizi del 1909 (cfr. Lettere a Bernardino Varisco, cit., pp. 149 sgg.). «Tu siedi arbitro – scriveva in particolare Marchesini il 16 marzo – tra l’una e l’altra Rivista, fra me e il Juvalta e compagni» (p. 153). Per parte sua Juvalta, il 28 gennaio, sollecitava Varisco ad accettare di stabilire la direzione presso la sua dimora romana, «perché anche visibilmente appaia che la fusione è davvero una fusione e non un assorbimento della rivista nostra [la «Rivista Filosofica»] nella Padovana» (p. 173). Altre notizie si ricavano pure da due lettere di Enriques a Varisco (rispettivamente del 15 ottobre 1908 e del 6 febbraio 1909): in qualità di Presidente della Società Filosofica Italiana Enriques si preoccupava che la nuova rivista fosse «organo aperto a tutti gl’indirizzi» (p. 287), capace di rendere «bene contemperati i varii indirizzi filosofici» (p. 288). 11 R. ARDIGÒ, Fisico e psichico contrapposti, I, 1909, n. 4, p. 14. 12 R. ARDIGÒ, Repetita juvant, II, 1910, p. 148. 13 Cfr. R. ARDIGÒ, Infinito e Indefinito, I, 1909, n. 1, p. 14. Un documento eloquente è pure l’incipit di un altro articolo ardighiano: «Il Conoscere non è altro che il fatto naturale del lavorio intimo, per effetto delle stimolazioni dell’ambiente e delle disposizioni organiche, che vige, parallelamente al fisiologico, nell’individuo che si dice animato; che vige, in esso, come in ogni altra sussistenza singola, analogamente, se pure in forma diversa, in ragione della specialità sua e per effetto parimenti delle influenze di fuori e dei con-

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Senza dubbio la «Rivista di filosofia» gli tributava un omaggio dovuto soprattutto alla pietà filiale di molti suoi allievi; e tuttavia il posto concesso alle elucubrazioni di Ardigò non era accidentale e documentava la tenacia con cui il positivismo, anche se non di stretta osservanza ardighiana e anche se variamente in ‘crisi’, continuava a proporsi come interlocutore privilegiato della filosofia italiana contemporanea. Non a caso il gruppo originariamente legato alla rivista di Cantoni appare decisamente defilato: il più attivo è Alessandro Chiappelli, studioso di livello non altissimo, ma che comunque parla un linguaggio più moderno di quello di Ardigò e segue le «correnti vive della filosofia contemporanea» – dal pragmatismo alla filosofia dei valori all’idealismo angloamericano – sulla base di un’informazione di prima mano14. La fine intelligenza di Juvalta compare subito, nel 1910, con meditati interrogativi sulla distinzione tra postulati etici e postulati metafisici; ma poi si chiude – com’era del resto nel suo stile – in una ricerca più appartata15. Assenti, come si è detto, le menti originali di Vailati e Calderoni; trascurate per lo più le analisi storiografiche; saltuari, ancorché di notevole rilievo, gli interventi di un Mondolfo che sta transitando dall’eredità positivistica alla filosofia della prassi marxiana: insomma, la «Rivista di filosofia» è in larga parte occupata da un positivismo tramontante che oscilla tra l’omaggio ad Ardigò, le revisioni interne del positivismo stesso e le autocritiche di chi – come Varisco – approda nel 1910 ad un libro a suo modo emblematico come I massimi problemi16. gegni di dentro, si verifica» (Il positivismo nelle scienze esatte e nelle sperimentali, II, 1910, p. 429). 14 Cfr. A. CHIAPPELLI, Condizioni nuove e correnti vive della Filosofia, II, 1910, pp. 16-42. Di Chiappelli cfr. pure La critica filosofica e il concetto del “Dio vivente”, I, 1909, n. 4, pp. 17-30 e Il pluralismo moderno e il monismo, III, 1911, pp. 223-236. Ma per uno sguardo d’insieme sulla produzione di Chiappelli, ivi compresi i primi due testi citati, si veda il volume Dalla critica al nuovo idealismo, Milano-Torino-Roma, Bocca 1910. 15 Cfr. E. JUVALTA, Postulati etici e postulati metafisici, II, 1910, pp. 459467 (poi in I limiti del razionalismo etico, cit., pp. 195-206). 16 Di Mondolfo cfr. Studi sui tipi rappresentativi. Ricerche sull’importanza dei movimenti nell’immaginazione, nelle funzioni del linguaggio, nelle pseudoallucinazioni e nella localizzazione delle immagini, I, 1909, n. 2, pp. 38-92 e il successivo Il concetto di necessità nel materialismo storico, IV, 1912, pp. 5574 (che anticipa il decimo capitolo de Il materialismo storico in Federico Engels, uscito appunto nel 1912). Alla problematica di Mondolfo si può ricon-

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Per dare adeguatamente conto di quanto vengono elaborando in questi anni i «positivisti in crisi» di cui parlava Garin nelle Cronache di filosofia italiana occorrerebbero molte pagine: se non altro perché l’abbondanza dei loro interventi, uniti ai volumi di grossa mole che ne variano i motivi, impone un esame sicuramente tedioso ma non del tutto superfluo. Marchesini è ormai approdato al suo finzionalismo (più distante però di quanto non si pensi da Vaihinger, come Marchesini medesimo chiarisce nel 1911 discutendo Die philosophie des Als-Ob)17; Tarozzi si intrattiene sulle ragioni di un empirismo integrato dall’attività del soggetto e sul rapporto tra l’indeterminismo e la libertà morale, riallacciandosi ai suoi studi quasi ventennali volti a «stabilire i fondamenti teoretici che avvalorano la fiducia che non sia illusoria la comune coscienza della spontaneità del fatto volontario»18; Troilo combina un residuo positivismo con qualche vaga suggestione kantiana, onde filosofia e scienza stanno tra loro come la forma al contenuto, ma rivendicando al contempo la funzione «unica e inscindibile» della filosofia19; e su tutti spicca – interlocutore onnipresente, minuzioso, spesso acuto ma anche preoccudurre anche l’interessante saggio di A. POGGI, Socialismo e religione, III, 1911, pp. 517-551. Quanto alle indagini storiografiche le prime annate della «Rivista di filosofia» non offrono, come si è detto, contributi di rilievo: più occasionali che inseriti in un preciso orientamento del periodico, e del resto provenienti da ben altro ‘schieramento’, sono ad esempio gli articoli di G. DE R UGGIERO, Il nuovo spiritualismo francese, II, 1910, pp. 343-352 e di F. WEISS, Il pensiero di Giambattista Vico, IV, 1912, pp. 180-192 (che discute il libro su Vico di Croce). 17 Cfr. G. MARCHESINI, La filosofia del “come se”, III, 1911, pp. 465-471 (e v. specie p. 470: «Non sapremmo negare infine […] la continuità dinamica esistente per legge naturale tra il pensiero e l’essere, onde questo si traduce in quello nella forma unica che è possibile secondo le leggi naturali»). Si vedano pure le Lettere di Giovanni Marchesini ad Hans Vaihinger, a c. di W. Büttemeyer, in AA.VV., Sul pensiero di Giovanni Marchesini, cit., pp. 454464. 18 Cfr. G. TAROZZI, Il contenuto morale della libertà nel nostro tempo, III, 1911, pp. 237-281 (qui p. 280) e Empirismo filosofico, IV, 1912, pp. 305334. 19 Cfr. E. TROILO, La formula kantiana della conoscenza nelle relazioni tra la filosofia e la scienza, I, 1909, n. 3, pp. 9-36. Nella stessa annata Troilo aveva del resto sottolineato che la filosofia, pur rifuggendo dalle «vuote aeree architettazioni», non può rinunciare a essere «la più alta speculazione della realtà, di tutta la realtà, materiale e spirituale, umana e sociale» (Questioni varie, cit., p. 112).

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pato di suffragare le sue lunghe meditazioni con l’autorità del senso comune e un’inesauribile serie di esempi tratti dalla vita quotidiana – Bernardino Varisco, che tra il 1910 e il 1912 abiura il suo precedente positivismo dando alle stampe I massimi problemi (sempre nel ’10 Ardigò, non a caso, si scaglia contro i «supposti massimi problemi») e il Conosci te stesso, ove ormai la soluzione teistica emerge con forza crescente20. Indubbiamente non si dovrebbe scordare che i robusti fascicoli della «Rivista di filosofia» vedevano la luce in un contesto, italiano e non solo italiano, fortemente segnato dal «bisogno sempre più visibile e più diffuso di spiritualità», mentre «da tutte le parti – ammoniva Giovanni Calò, collaboratore della «Cultura Filosofica» di De Sarlo e con lui impegnato sul terreno di un «nuovo spiritualismo» – si sente oggi parlare di spirito, di regno dello spirito, di diritti dello spirito»21. Il positivismo, in altre parole, era davvero tramontante; ma ad accompagnarlo nell’ultimo viaggio erano talora gli stessi positivisti di qualche anno prima: tant’è vero che proprio Varisco si incaricava di recensire Idee e ideali del positivismo di Troilo, per concludere drasticamente che il positivismo, non volendo affrontare i problemi della metafisica, «ci lascia nelle peste» perché li lascia irrisolti, onde occorre riconoscere (e non era davvero poco) che «il positivismo non è una 20

Tra i molti articoli (per non dire delle recensioni e delle note) che Varisco venne pubblicando sulla «Rivista di filosofia», e che fanno da contorno alle due opere maggiori in cui è documentata la ‘conversione’ dal precedente positivismo, si possono ricordare Tra Kant e Rosmini, I, 1909, n. 1, pp. 7483; Cognizioni e convenzioni, II, 1910, pp. 366-374; Conosci te stesso, ivi, pp. 558-577; Sul concetto di verità, III, 1911, pp. 161-170; Cultura e scetticismo, V, 1913, pp. 1-12; L’individuo e l’uomo, ivi, pp. 351-367. La presa di posizione di Ardigò alla quale si è accennato si legge in I presupposti Massimi Problemi, II, 1910, pp. 293-305 (cui Varisco rispose con Cristianesimo e cristiani, «La cultura contemporanea», III, 1911, vol. II, pp. 25-34). Ardigò negò, contro ogni evidenza, di aver voluto polemizzare con Varisco e dichiarò di non aver «mai letto» il libro di Varisco: cosa più che plausibile, ma ciò non toglie che intorno ai «massimi problemi» riportati in onore da Varisco fosse in corso una discussione relativamente vivace e che certo non era sfuggita ad Ardigò (cfr. la lettera di Ardigò a Varisco del 14 settembre 1911, in Lettere a Bernardino Varisco, cit., p. 121, ora anche in R. ARDIGÒ, Lettere edite ed inedite, cit., vol. II, p. 351, dove inoltre è riportata in nota la risposta di Varisco del 18 settembre). 21 G. CALÒ, Le ragioni dello spiritualismo, II, 1910, pp. 468-486 (qui pp. 469-472)

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filosofia»22. Pur con profondo rispetto, dovuto anche alla convinzione che Varisco fosse un grande conoscitore delle scienze solo perché nelle sue pagine inseriva compiaciuto qualche simbolo algebrico, Troilo, Marchesini, o più tardi Tarozzi avrebbero preso le distanze dall’illustre filosofo dei Massimi problemi23. Ma la discussione sortiva l’effetto di trasformare la «Rivista di filosofia» in una tribuna sulla quale – muovendo da presupposti diversi – sfilavano i «positivisti in crisi», gli ex-positivisti o i positivisti avviati a rinnegare il positivismo; e non stupisce allora ritrovare in tante sue pagine un diffuso grigiore accademico e una ripetività talora irritante, a scapito quasi sempre di una discussione più vicina ai temi del dibattito europeo di quegli anni, ben altrimenti orientato e del resto non certo privo, in Italia, di echi significativi (assai più pronta a recepire le discussioni primo novecentesche d’oltralpe, specie tedesche, appare ad esempio la «Cultura Filosofica» di De Sarlo)24. Tuttavia vi sono anche eccezioni significative e in qualche caso è proprio da esponenti dell’ultima generazione positivistica come Limentani che viene la proposta di un’indagine effettivamente innovatrice, specie sul terreno dell’etica; e non per nulla Limentani sa avvalersi soprattutto di Simmel per avviare, sin dal 1909, una serie di ricerche morali proseguite negli anni successivi in discorde concordia con le tesi di Juvalta25. 22

Per la recensione di Varisco cfr. I, 1909, n. 5, pp. 69-73. Si veda in questo senso la recensione che Troilo scrive del Conosci te stesso varischiano (IV, 1912, pp. 522-525). Significativa è pure la discussione tra Varisco e Marchesini, a seguito di una recensione di Varisco de La dottrina positiva delle idealità (V, 1913, pp. 303-305), cui replica l’anno appresso Marchesini con Le basi incoscienti del dovere, VI, 1914, pp. 137-150. Per il giudizio di Tarozzi su Varisco cfr. il successivo saggio La filosofia critica di Bernardino Varisco, XVII, 1926, pp. 1-22. 24 Per quest’ultimo punto si rimanda a quanto se ne è detto in I dati dell’esperienza, cit., pp. 386-387. Non sarebbe certo un esercizio ozioso mettere a confronto le prime annate della «Rivista di filosofia» con un elenco, ancorché puramente indicativo, di alcuni testi fondamentali della filosofia europea e americana tra il 1909 e il 1914: da Dilthey a James, da Cassirer a Husserl, da Dewey a Russell (oltre agli stessi Croce e Gentile in Italia). Si può dire – ed è una circostanza già di per sé eloquente – che nessuno di questi autori riceva, salvo qualche riferimento puramente occasionale, una benché minima attenzione sulle pagine dell’«Organo della Società Filosofica Italiana». 25 Di Limentani sono da tener presenti in specie lo studio del 1909 La supremazia del criterio morale nella valutazione degli atti e il successivo arti23

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Comunque, considerato nel suo complesso, l’apporto della «Rivista di filosofia» alla discussione italiana tra il 1909 e gli anni della guerra sembra sostanzialmente esaurirsi nel confronto interno della filosofia accademica, nel contesto di un positivismo declinante se non proprio morente. È singolare, da questo punto di vista, che nemmeno la querelle con l’idealismo, ben altrimenti vivace su altre riviste o in altri ambienti, attinga qui un livello significativo. Certamente se si trattava di denunciare le irose stroncature di Gentile potevano anche bastare le messe a punto di Marchesini26; ma la partita non si giocava solo sul piano del costume del recensore, e investiva ben altre problematiche: nei confronti delle quali, invece, le firme più illustri della «Rivista di filosofia», pur tenendo un chiaro atteggiamento di opposizione, non procedevano poi a un esame approfondito27. L’unico, in effetti, che sulla rivista ingaggiò un confronto aperto fu Enriques, agli occhi degli idealisti un ottimo matematico con il pallino degli spropositi filosofici, cui conveniva dunque mettere in soffitta la filosofia per attendere a più proficui studi. A ragione Enriques non seguiva questo aut aut; ma va detto che non tutte le sue pagine appaiono ben meditate e che la stessa liquidazione sommaria di un Hegel ‘romantico e mistico’ sulla «Rivista di filosofia» (siamo nel 1910) pecca di semplicismo, talvolta traducendo l’analisi dei concetti in uno sfogo emotivo28. Indubbiamente erano consicolo del 1914 Il Vero nella Morale (cfr. supra, pp. 115, 120). Sempre in ambito etico merita pure di essere ricordato il saggio di G. RENSI, L’Universale Etico, IV, 1912, pp. 75-106, per certi versi affine all’individualismo morale di Limentani. Sul percorso di Rensi, che incontreremo ancora, cfr. A. SANTUCCI, Un “irregolare”: Giuseppe Rensi, in AA.VV., Tendenze della filosofia italiana nell’età del fascismo, a c. di O. Pompeo Faracovi, Livorno, Belforte Editore Libraio 1985, pp. 201-239 (poi in Eredi del positivismo, cit., pp. 119155). 26 Cfr. G. MARCHESINI, I metodi critici di G. Gentile, II, 1910, pp. 609611. 27 Da segnalare è la recensione della Logica come scienza del concetto puro a firma di Mario Losacco, il quale si dichiarava «turbato» dalla negazione crociana del «carattere conoscitivo degli pseudoconcetti» (III, 1911, pp. 723726). 28 Cfr. F. ENRIQUES, La metafisica di Hegel considerata da un punto di vista scientifico, II, 1910, pp. 56-75, in specie la conclusione: «la parte più apparente del sistema hegeliano, ciò che ne costituisce la concatenazione logica, si risolve in una pazzia» (p. 75). Ma di tenore non diverso è anche l’apprez-

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derazioni scritte a caldo, mentre si profilava l’aspro scontro con il neoidealismo (e con Croce in particolare) in un momento cruciale per la filosofia italiana del primo Novecento; ed è un episodio del resto ben noto, sul quale è inutile tornare qui. Enriques aveva d’altronde un merito che molti scrittori della «Rivista di filosofia» non potevano vantare: era uno dei pochi, nonostante il suo progetto filosofico evidenziasse i limiti di un’ambiziosa sintesi, a parlare a ragion veduta delle scienze, laddove i nostri filosofi positivi o positivisti preferivano occuparsi quasi sempre dell’etica, dei valori, della pedagogia e della psiche, e non sempre tenendosi aggiornati nemmeno in questo ambito più ristretto. Tant’è vero che la «Rivista di filosofia», nonostante il richiamo di cui s’è detto a Galileo, riservò poi un posto modestissimo alle impetuose trasformazioni del sapere scientifico contemporaneo, quasi che non esistessero la ‘crisi dei fondamenti’, l’eclissi del meccanicismo ottocentesco, le dispute nella fisica dei primi del secolo. È significativo ad esempio che per leggere qualche pagina di valore sull’epistemologia contemporanea o sulla storia della scienza ci si debba rivolgere alle schede di Aldo Mieli (il quale, nel 1913, recensì Les atomes di Jean Perrin e scrisse un efficace profilo di Henri Poincaré in occasione della sua morte)29; oppure occorre rifarsi – quasi per consolazione – a un saggio di Corradino Mineo sulla logica matematica e alle osservazioni di Gino Fano sui fondamenti della geometria (e siamo già nel 1915)30.

zamento che Enriques tenta del pensiero hegeliano in quanto «legittima affermazione del senso dell’investigazione storica» (p. 73): ora, commenta Enriques, «quando si è deriso i non-sensi, e denunziata la vanità del sapere speculativo opposto alla Scienza, quando si è spezzata la poesia hegeliana dei suoi elementi positivi, rimane veramente magnifico il sentimento poetico, la gran fede eccitatrice nel valore delle idee che accompagna la volontà di progresso» (p. 75). 29 Per la recensione di Perrin e il necrologio di Poincaré cfr. rispettivamente V, 1913, pp. 468-473 e pp. 132-136. Ma è da vedersi anche l’articolo ‘programmatico’ Scienza e filosofia, II, 1910, pp. 599-608. Sull’opera di Mieli cfr. il profilo di C. POGLIANO, Aldo Mieli, storico della scienza (1879-1950), «Belfagor», XXXVIII, 1983, pp. 537-557, nonché P. DESSÌ, Alle origini della storia della scienza: discussioni italiane del primo Novecento, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXXII, 2003, specie pp. 263-267. 30 Cfr. C. MINEO, Logica e matematica, III, 1911, pp. 49-70 e G. FANO, Sui fondamenti della geometria, VII, 1915, pp. 391-408.

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Qualche considerazione meritano i contributi di Annibale Pastore (sua, nel 1914, una recensione non sempre benevola de La reazione idealistica contro la scienza di Antonio Aliotta)31; e poiché si è fatto il nome di Aliotta possiamo fare un salto al 1921, quando la rivista, nell’ambito di quella discussione ‘strumentale’ su Einstein ben lumeggiata dalle ricerche di Roberto Maiocchi, ospita un suo intervento, in polemica con Ugo Spirito, in difesa dell’interpretazione idealistica della teoria della relatività – tema sul quale tornerà nel 1926 il giovane Cesare Musatti32. Come si vede non è molto, soprattutto se si considera l’enfasi con cui la filosofia italiana di orientamento positivistico si era sempre riferita alla scienza. Enriques poteva anche aver ragione a rimproverare a Croce la sua «intolleranza filosofica» e il suo «odio per la scienza»33, ma la Società Filosofica Italiana da lui presieduta non sembrava uscire dai consueti limiti che avevano contrassegnato tanta parte della cultura del positivismo: sicché proprio su questo terreno – il ‘valore’ della scienza, la sua portata conoscitiva e la sua rilevanza filosofica, nonché la sua storia intesa all’infuori di diffusissimi schemi retorici – la battaglia sembrava se non persa, quantomeno gravemente compromessa già in partenza e indipendentemente dalla cosiddetta ‘egemonia idealistica’34. Indubbiamente il caso di Enriques appare invece diverso, 31

Cfr. A. PASTORE, Sopra la critica filosofica delle scienze, VI, 1914, pp. 226-238 (cui rispose lo stesso Aliotta con Dalla teoria dei Modelli al Panlogismo, ivi, pp. 310-324). 32 Cfr. A. ALIOTTA, Le interpretazioni idealistiche delle teorie di Einstein, XIII, 1921, pp. 274-281; cfr. inoltre C. MUSATTI, La teoria di Einstein e la filosofia, XVI, 1926, pp. 213-223. Nel 1921 la «Rivista di filosofia» pubblicava anche le parole di saluto rivolte da Enriques a Einstein in occasione delle conferenze da lui tenute all’Università di Bologna il 22, 24 e 26 ottobre: parole – detto per inciso – assai significative della riduzione ‘continuista’ operata da Enriques nei confronti della teoria della relatività (cfr. Le conferenze di Alberto Einstein a Bologna, XIII, 1921, pp. 271-274). Per la discussione dei filosofi italiani sulla relatività einsteiniana cfr. R. MAIOCCHI, Einstein in Italia, cit., pp. 148-209. 33 F. ENRIQUES, Mettiamo le cose a posto, III, 1911, p. 582. Cfr. anche ciò che Enriques scrive in Il salto della teoria della conoscenza all’idealismo scientifico, V, 1913, pp. 95-97. 34 Per una messa a punto di questo aspetto cfr. M. TORRINI, Osservazioni sulla storia della scienza in Italia, in AA.VV., Le storie e la storia della cultura, Napoli, Morano 1988, specie pp. 61 sgg. Certamente va riconosciuto che il caso della Società Filosofica Italiana non esaurisce un panorama assai più

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anche quando si voglia sottoporre a critica il suo ‘continuismo’, la sua visione ancora legata a schemi ottocenteschi del progresso della scienza o – per un altro verso – il quadro più strettamente filosofico in cui egli collocava le sue indagini storiche ed epistemologiche. Soprattutto non andrà mai sminuito il merito di Enriques per aver tenacemente lavorato per riavvicinare scienza e filosofia oltre il loro divorzio, e di averlo fatto con iniziative concrete, attraverso una rivista come «Scientia», promuovendo congressi e dando vita a precise istituzioni. Fu proprio in questo ruolo di promotore di cultura, del resto, che Enriques ebbe ad organizzare nel 1911 il IV Congresso Internazionale di Filosofia di Bologna: per la filosofia italiana prebellica un evento di indiscutibile rilievo, a cui fece da adeguata cassa di risonanza proprio la «Rivista di filosofia» nello sforzo di assicurare al composito fronte antiidealistico raccolto nella Società Filosofica Italiana la testimonianza più eloquente del proprio peso anche a livello internazionale35. Eppure, nonostante sia innegabile che i volumi editi da Formiggini in cui sono raccolti gli Atti del Congresso sembrino destinati a rimanere un documento importante, anche in questo caso non sarebbe inopportuno chiedersi se risultassero davvero giustificati i toni enfatici con cui Enriques, a Congresso terminato, esaltava sulla «Rivista di filosofia» il contributo dei filosofi italiani, e se veramente essi avessero così indistintamente intricato: basti pensare alla meritoria Società Italiana per il Progresso delle Scienze (presieduta da Vito Volterra e sorta nel 1907), che operò in più di un’occasione come luogo di incontro tra scienziati e filosofi (da Tocco a De Sarlo a Troilo), e diede qualche impulso significativo allo studio della storia della scienza (cfr. in proposito V. VOLTERRA, Saggi scientifici, cit., pp. 81117). Ma si dovrebbe sempre fare attenzione a non confondere questo piano – l’insieme di talune iniziative di rinnovamento che registravano, anche con acutezza, l’esigenza di una ‘filosofia scientifica’ allineata con la discussione europea – con l’altro piano, quello dei risultati concreti, che non consentono certo di porre i testi dei nostri filosofi (o filosofi-scienziati) del primo Novecento sullo stesso piano delle opere di un Duhem, di un Mach, di un Poincaré o di un Cassirer. 35 Materiali di un qualche interesse sul Congresso bolognese si leggono in L. GIORGI, Carteggi inediti in preparazione del Congresso Internazionale di Filosofia del 1911: la sezione di filosofia della religione, in AA.VV., Federigo Enriques. Approssimazione e verità, cit., pp. 201-222. Cfr. inoltre G. VIDARI, Dal primo al sesto Congresso Filosofico Internazionale, XVIII, 1927, pp. 111112.

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imparato – giuste le parole di Enriques – ad «allargare […] il senso stesso della Filosofia»36.

3. Nel 1914 divenne Segretario di redazione della «Rivista di filosofia» Giovanni Vidari (che era pure presidente della Società Filosofica Italiana). Assumendo il nuovo incarico Vidari volle confermare l’impegno della rivista a costituire un «libero campo» di discussione e promise, giustamente preoccupato del rischio di una chiusura sul solo dibattito italiano, maggior cura nel render conto del «moto filosofico mondiale»37. Entrambi i propositi furono in qualche misura mantenuti: ad esempio sia ospitando un paio di volte persino la penna di Agostino Gemelli, sia affidando a Michele Losacco, in quello stesso 1914, l’incarico di analizzare le teorie di Meinong38. Ma di lì a poco la rivista avrebbe dovuto collocarsi su un nuovo, imprevisto fronte. La guerra, quella guerra terribile che spazzò via – per usare l’espressione di Stefan Zweig – il «mondo di ieri», il «mondo della sicurezza», e che fece svanire, come scriverà nel 1919 Adolfo Ravà commemorando Windelband, i «tempi d’oro della internazionale scientifica»39, allungava ora la sua ombra minacciosa anche sulla «Rivista di filosofia». A partire dalla seconda metà del 1914 se ne colgono le prime tracce evidenti, soprattutto quando si legga l’ultimo fascicolo dell’annata dedicato a Fichte nel primo centenario della morte e preceduto da una significativa nota redazionale, in cui si parla dell’«immane conflagrazione bellica, onde le terre d’Europa sono da ormai cinque mesi devastate e le nostre coscienze sconvolte». Ma non è questo, si aggiungeva subito, un motivo sufficiente per non occuparsi di un filosofo tedesco, tanto più che sono se mai i tedeschi ad essere «immemori del pensiero altamente

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F. ENRIQUES, La filosofia italiana al Congresso di Bologna, III, 1911, pp. 361-366. 37 G. VIDARI, Esordio, VI, 1914, pp. 1-3. 38 Cfr. M. LOSACCO, Le assunzioni. A proposito di un libro del Meinong, VI, 1914, pp. 56-74. Tra gli articoli usciti negli anni seguenti merita attenzione il contributo di Adolfo Levi su Il psicologismo e le funzioni della logica, XI, 1919, pp. 271-301 (con un esame critico di Windelband e Rickert). 39 A. RAVÀ, Guglielmo Windelband, XI, 1919, p. 257.

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universale e umano» racchiuso nella dottrina di Fichte40. Tuttavia i toni erano destinati a farsi più accesi l’anno successivo. Il primo fascicolo del 1915 è interamente dedicato a Fatti e figure del Belgio filosofico, come omaggio al martirio di «un popolo che piange la sua patria invasa»41; mentre qualche mese più tardi, con l’Italia ormai entrata in guerra, Vidari prende posizione proprio contro Fichte, il Fichte dei Discorsi alla nazione tedesca che si è reso colpevole, accettando l’immanenza del divino, di cadere nelle «angustie» di quel pangermanesimo nel quale invece Kant non si sarebbe mai lasciato invischiare42. Nel periodo bellico la «Rivista di filosofia» oscillò tra i toni più distaccati di quanti proseguirono onestamente il proprio mestiere e gli umori assai meno composti dei difensori degli interessi della patria o addirittura della stirpe latina. Ad emblema del primo atteggiamento si potrebbero citare i severi lavori di storia della filosofia antica di Giuseppe Zuccante43 e le meditazioni di Pantaleo Carabellese sulla coscienza morale44, oppure il lungo saggio di Martinetti sulla dottrina della conoscenza di Spinoza, che peraltro si apre ricordando come condizione necessaria affinché l’individuo possa raggiungere «il supremo fine» sia la «convivenza pacifica»45. Ma in altre pagine emerge invece la vecchia 40

VI, 1914, pp. 509-510. Al fascicolo contribuirono Adolfo Ravà, Emilio Morselli e Michele Losacco. Di Ravà si veda pure Introduzione allo studio della filosofia di Fichte, I, 1909, n. 3, pp. 1-8. 41 Così nella nota di apertura della redazione (VII, 1915, p. 1). Al fascicolo collaborarono Varisco, Mondolfo, Ambrosi, Pastore, Zini e Negri. 42 Cfr. la recensione firmata Gi. Vi. alla traduzione italiana (curata da E. Burich, Palermo, Sandron [s.d.]) dei Discorsi alla nazione tedesca (VII, 1915, p. 589). 43 G. ZUCCANTE, Antistene, VIII, 1916, pp. 157-171. Sulle ricerche di Zuccante cfr. L. MALUSA, La storiografia filosofica italiana nella seconda metà dell’Ottocento, cit., pp. 652-659. 44 P. CARABELLESE, La coscienza morale come teoria della volontà, IX, 1917, pp. 40-66. 45 P. MARTINETTI, La dottrina della conoscenza e del metodo nella filosofia di Spinoza, VIII, 1916, pp. 289-324. Questo studio, in versione rielaborata, costituirà poi il primo capitolo dell’incompiuta monografia su Spinoza a cui Martinetti avrebbe ancora dedicato le sue ultime fatiche all’inizio degli anni Quaranta (cfr. P. MARTINETTI, Spinoza, a c. di F. Alessio, Napoli, Bibliopolis 1987, pp. 139-168). Il testo originale dell’articolo è stato invece ristampato in P. MARTINETTI, La religione di Spinoza. Quattro saggi, a c. di A. Vigorelli, Milano, Edizioni Ghibli 2002, pp. 57-102.

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pretesa dei filosofi di ‘mettere le brache al mondo’. Annibale Pastore, ad esempio, sostiene nel 1916 la necessità di «organizzare filosoficamente l’umanità» come compito imposto dalla guerra in atto, e neppure tralascia di ricordare che l’influenza germanica potrebbe alterare «le virtù etniche della nostra patria»46; di lì a poco Luigi Ventura si intrattiene sulla guerra come «catarsi spirituale» e sugli eventi bellici in genere come «fatali fatti spirituali» che contrappongono un loro ordine all’ordine della pace47. Si potrebbe continuare: così, a guerra ormai finita, Francesco Orestano, con un velleitarismo che si commenta da sé, muove dall’«inanità [del] pacifismo filosofico» per avviarsi alla conquista di quelle «verità assolute» di cui si avverte l’esigenza per poter governare le «umane sorti»48; per parte sua Luigi Valli, l’anno appresso, parla esplicitamente della superiorità speculativa della razza ariana in un articolo programmaticamente intitolato Lo Spirito filosofico delle grandi stirpi umane49. Sono senza dubbio casi estremi; ma la guerra fu effettivamente un’esperienza troppo traumatica per non incidere anche sulla ‘corporazione’ dei filosofi italiani. In qualche modo la filosofia era chiamata a nuove responsabilità, o comunque a definire il suo ruolo e la sua funzione nel momento in cui – scrisse dal fronte Pantaleo Carabellese – «bufere infernali squassano orribilmente tutta l’umanità»50. Ma Carabellese era avverso a qualsivoglia ‘interventismo della cultura’ e nel 1921 teneva a precisare, nel suo articolo Che cos’è la Filosofia?, che la filosofia non ha proprio niente da fare «per sanare questa irrequieta società», e che da

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A. PASTORE, Il compito della Filosofia nel rinnovamento degli ideali della patria, VIII, 1916, pp. 51-66. 47 Cfr. L. VENTURA, La guerra come catarsi spirituale, IX, 1917, pp. 305325. 48 F. ORESTANO, Verso Nuovi Princìpi, XII, 1920, pp. 116-124. 49 Cfr. L. VALLI, Lo Spirito filosofico delle grandi stirpi umane, XIII, 1921, pp. 105-120. 50 Cfr. la lettera a Varisco del 29 aprile 1917: «Certo è una bella pretesa quella di voler fare della serena filosofia quando bufere infernali squassano orribilmente tutta l’umanità, ma pure io credo che per noi filosofi in quanto tali non ci sia che o da far quella, avendone la forza, o di tacere. Mai come in questo periodo di guerra ho sentita l’inutilità della filosofia nel campo della vita concreta e il dolore che costa la rinunzia ad essere immediatamente utili altrui» (Lettere a Bernardino Varisco, cit., p. 256).

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questo punto di vista la sua utilità è semplicemente «nulla»51. Di diverso avviso era invece Troilo, divenuto agli inizi del 1918 Segretario di redazione della «Rivista di filosofia» e subito preoccupato di ricordare, sin dal primo fascicolo della nuova annata, la necessità da parte della filosofia di irrobustire «la coscienza e la vita nostra», facendoci «più degni di essere gli uomini del nuovo tempo, che si matura a traverso la grande conflagrazione»52. E qui Troilo cedeva subito la parola a Varisco, nominato nel frattempo Presidente della Società Filosofica Italiana: si trattava infatti di tracciare un Programma di lavoro – così suonava il titolo dell’articolo di Varisco – che proponesse alla filosofia nuovi, più alti impegni a fronte della frammentazione del sapere e delle attività umane tipica della società contemporanea; onde la restituzione di una solida base allo Stato e l’attenzione rivolta a una scuola che sapesse formare «un brav’uomo» costituivano un obiettivo non più dilazionabile. Ma non basta, ammoniva Varisco cercando di applicare alla realtà presente le categorie della sua filosofia: l’unificazione dell’esperienza non si esaurisce in una sintesi finale, sia questa la sintesi delle scienze o l’unità metafisica, ma rinvia a una più profonda «unità spirituale» che non può mai dirsi veramente realizzata: «il suo esserci consiste nel suo perpetuo realizzarsi»53. Stabilire quanti fossero, oltre a un Troilo o a un Tarozzi, i collaboratori della «Rivista di filosofia» che guardavano con favore al ‘programma di lavoro’ varischiano non è facile dire54: certa51

P. CARABELLESE, Che cos’è la Filosofia?, XIII, 1921, pp. 193-227 (qui p. 222 n. 1). In questo articolo Carabellese muoveva peraltro una serie di obiezioni allo storicismo crociano, giudicandolo una filosofia tesa ad occultare, appunto in nome della storia, il problema «fondamentale» della filosofia. Questi rilievi, unitamente all’asserita «inconcludenza sublime» del filosofare e alla sua alterità radicale rispetto alla sfera mondana, provocarono la replica di Croce, uscita sulla «Critica» in quello stesso anno e poi ripubblicata, con il titolo La filosofia come “inconcludenza sublime”, in B. CROCE, Ultimi saggi, Bari, Laterza 19633, pp. 362-368. 52 Così nel retro di copertina della «Rivista di filosofia», X, 1918, fasc. 1-2. 53 B. VARISCO, Programma di lavoro, X, 1918, pp. 1-15. 54 Troilo ad esempio lo giudicava semplicemente «mirabile» (cfr. la lettera a Varisco del 22 febbraio 1919, in Lettere a Bernardino Varisco, cit., p. 306). Più cauto, e implicitamente dissenziente per le ragioni che si sono richiamate, sarà invece Carabellese (ivi, pp. 259-260, 263-264 [lettere a Varisco del 1° giugno 1918 e del 6 giugno 1919]).

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mente non tutti, se è vero che nel 1920 Mondolfo pubblica un saggio su Il problema sociale contemporaneo ben difficilmente riconducibile all’ottica palesemente antidemocratica e antisocialista del nazionalista Varisco. Di fronte all’«immenso fuoco» della crisi sociale postbellica Mondolfo invitava infatti a prendere atto della complessità della situazione storica, a cui né il determinismo fatalistico né il volontarismo astratto potevano dare adeguata risposta: occorreva invece dotare l’azione rivoluzionaria del solido strumento della «concezione critico-pratica della storia», ossia di quella visione storicistica e di quella tensione etica che sole avrebbero garantito l’ascesa dell’umanità all’autonomia, liberando «tutta la collettività dalla tirannia della merce». L’aspirazione all’idea-limite della libertà e il «progressivo inveramento» delle esigenze etiche non potevano insomma rimanere escluse – concludeva Mondolfo – da quell’«arma spirituale» del proletariato che è la filosofia55. Un plauso abbastanza esplicito alle tesi di Varisco venne invece da Gentile in un articolo del 22 maggio 1918 poi raccolto in Guerra e fede. Proprio Gentile e Varisco, protagonisti nel primo decennio del Novecento di un’animosa querelle filosofica dai toni a tratti violentissimi, si trovavano ora d’accordo su un punto essenziale: ossia sul fatto che «il problema della nostra restaurazione interna – di cui la guerra tanto ci ha fatto sentire il bisogno – è [un] problema filosofico»; senonché, aggiungeva Gentile nella convinzione che pure Varisco avrebbe consentito, tale problema è, «alle sue radici», un «problema religioso», giacché il «germe interiore alla cultura del paese e allo spirito umano in generale» è costituito da quella «concezione religiosa della vita» che la filosofia deve elaborare autonomamente, ma non già distruggere o negare56. 55

R. MONDOLFO, Il problema sociale contemporaneo, XII, 1920, pp. 303-324 (poi in Umanismo di Marx, cit., pp. 186-203). Si aggiunga che sempre sulla «Rivista di filosofia» Mondolfo interviene nuovamente per discutere del rinnovamento sociale nelle dottrine di Mazzini e di Marx (cfr. Educazione e rinnovamento sociale in Mazzini e in Marx, XIV, 1923, pp. 115). 56 Cfr. G. G ENTILE, Guerra e fede, 3a ed. rivista e ampliata a c. di H.A. Cavallera (= Opere di Giovanni Gentile, vol. XLIII), Firenze, Le Lettere 1989, pp. 286-288. Sul contrastato e burrascoso rapporto tra Varisco e Gentile cfr. G. CALABRÒ, Varisco e Gentile, in AA.VV., Bernardino Varisco e la

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Sono convergenze forse inaspettate eppure ben comprensibili nel clima politico del primo dopoguerra, quando l’urgere del confronto ideologico e la crisi degli istituti liberali facilitavano l’incontro tra coloro che si erano posti, innanzitutto come filosofi, il problema dell’«educazione nazionale»: Varisco poteva allora diventare – giusta l’espressione coniata da Gentile nel 1925 per un volume in suo onore – l’«artefice silenzioso della nuova Italia»57. Ma non per questo (è bene sottolinearlo, a scanso di sbrigative equazioni tra politica e filosofia) l’attualismo aveva fatto breccia sulle pagine della «Rivista di filosofia». Anzi, proprio Varisco si era subito incaricato di precisare, nel 1920, quali e quante ragioni lo tenessero lontano dalla Teoria generale dello spirito come atto puro, di cui non sapeva accettare la riduzione del soggetto singolo al «Soggetto Universale» e nei cui confronti difendeva l’esigenza di una trascendenza relativa – tra soggetto e soggetto, tra uomo e Dio – che arginasse la divorante sete di immanentismo assoluto dell’Atto: argomento sul quale Varisco sarebbe tornato con ossessiva insistenza anche negli anni successivi, per combattere lo spettro del solipsismo che a suo avviso circolava inesorabilmente nelle pagine gentiliane58. In realtà sulla «Rivista di filosofia» la polemica con l’attualismo e con l’idealismo crociano (ma soprattutto con l’attualismo) doveva progressivamente infittirsi, per quanto il livello della discussione raramente raggiungesse un livello significativo. Troilo, sempre nel 1920, saluta con soddisfazione la nascita di nuove riviste filosofiche (tra cui il «Giornale critico della filosofia italiana»), ma subito ammonisce a non concedere nulla al tono «incultura filosofica italiana tra positivismo e idealismo, cit., pp. 235-252, nonché quanto se ne è detto in Lettere a Bernardino Varisco, cit., pp. 195-200. 57 Cfr. AA.VV., Scritti filosofici pubblicati per le onoranze nazionali a Bernardino Varisco nel suo LXXV anno di età, Firenze, Vallecchi 1925 (e si veda la lettera di Gentile a Varisco del 2 maggio 1926 pubblicata in Lettere a Bernardino Varisco, cit., p. 224). Sull’«educazione nazionale», tema molto caro anche Varisco, cfr. ancora G. GENTILE, Guerra e fede, cit., p. 71 (e v. pure S. ZEPPI, Il pensiero politico dell’idealismo italiano e il nazionalfascismo, cit., p. 176). 58 Cfr. B. VARISCO, Unità e molteplicità, XII, 1920, pp. 1-13. Ma per tutti questi temi si rimanda soprattutto a B. VARISCO, Sommario di filosofia, Roma, Signorelli 1928 (su cui è da vedersi la recensione di Gentile nel «Giornale critico della filosofia italiana», IX, 1928, pp. 159-160).

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tollerante e intollerabile», al gretto «spirito di scuola»59. Per parte sua Eugenio Di Carlo si dice convinto che il neoidealismo sia ormai avviato a un «fatale tramonto» e condivide le ferme riserve di Aliotta contro Croce60; Giuseppe Rensi ricorda invece con sdegno il «metodo dell’ingiuria» introdotto da Croce e Gentile nelle discussioni filosofiche, mentre con maggior sottigliezza argomentativa il giovane Antonio Banfi sottolinea «il carattere dogmatico» dell’attualismo61; infine Mario Manlio Rossi, recensendo gli scritti di Calderoni, non può fare a meno di constatare che l’idealismo avrà sì una sua «politica, ma gli sarà molto duro conquistare una sua morale»62. Se mai un riconoscimento a Gentile viene da Annibale Pastore, che giudica con singolare favore la logica del pensato nel gentiliano Sistema di logica, conferma inattesa (e per questo più gradita) dell’impossibilità di arrestarsi all’«angusta tradizione della logica filosofica», ossia della logica che disprezza l’astratta analiticità in nome della sintesi concreta dello spirito63. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi64. Ma certo è che, nei primi anni Venti, la polemica con l’idealismo da un lato e una se59

E. T. [Erminio Troilo], Programmi di riviste, XII, 1920, pp. 281-288. Sull’avvio della rivista di Gentile cfr. M. TORRINI, Gentile e il «Giornale critico della filosofia italiana», in AA.VV., Giovanni Gentile. La filosofia italiana tra idealismo e anti-idealismo, cit., pp. 306-314. 60 Cfr. E. DI CARLO, La crisi dell’idealismo assoluto, XIII, 1921, pp. 169172 (con riferimento al volume di A. ALIOTTA, L’estetica del Croce e la crisi dell’idealismo assoluto, Napoli, Perrella 1920). 61 Cfr. G. RENSI, Discussioni di scetticismo etico, XII, 1920, pp. 348-356. Ma di Rensi occorre anche ricordare Platonismo e idealismo, XIV, 1923, pp. 16-39 e L’autocapovolgimento dell’Idealismo, pp. 193-207 (con la conclusione: «Lo scherzo dell’io che crea il mondo […] ha durato troppo perché l’insistervi sia di buon gusto. È ora di pensare ad altro di più serio»). Di Banfi, oltre al testo richiamato più oltre alla n. 67, cfr. pure Immanenza e trascendenza, XVI, 1925, pp. 114-124 (si tratta di una comunicazione al V Congresso Nazionale di Filosofia di Firenze: vedilo anche in A. BANFI, Opere, vol. I, La filosofia e la vita spirituale e altri scritti di filosofia e religione [19101929], a c. di L. Eletti e L. Sichirollo, Reggio Emilia, Istituto Antonio Banfi 1986, pp. 180-192). 62 Per la recensione di Rossi cfr. XIV, 1923, p. 314. 63 A. PASTORE, Rassegna di logica, XIV, 1923, pp. 361-374 (specie pp. 361-370). 64 Cfr. tra gli altri V. CENTO, Appunti di critica gentiliana, XIV, 1923, pp. 134-155 (che conduce la critica antiattualistica in termini simili a Varisco). Da ricordare è pure la messa a punto di Tarozzi, il quale vede nell’idea-

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rie di più o meno cospicue revisioni tra alcuni dei filosofi della vecchia guardia positivistica dall’altro attestano un generale mutamento di clima. Nel 1923 Tarozzi, nel prendere la direzione della rivista dopo una pausa durata per l’intera annata precedente, richiama non per caso l’attenzione sull’opportunità di un «profondo lavoro di revisione critica e di indagine integrativa nel campo della filosofia italiana di questi ultimi decenni», di cui esalta peraltro l’«alto valore nazionale»65. In realtà, per comprendere in cosa consista questo «profondo lavoro di revisione critica» occorrerebbe rileggere non poche delle relazioni e comunicazioni presentate nei Congressi Nazionali di Filosofia tra il 1920 e il 1924, e di cui la «Rivista di filosofia» si fece puntualmente portavoce; ma qui sarà sufficiente prendere in esame il fascicolo del 1924, ove sono raccolte le relazioni tenute al V Congresso tenutosi a Firenze. Tra i nomi di maggior spicco compaiono Tarozzi, Varisco, De Sarlo e l’ormai ispiratissimo Chiappelli («La crisi spirituale del nostro tempo – afferma – è tutta nella nostra scarsa capacità di vedere, misticamente, nell’invisibile»): nel complesso ne esce un quadro abbastanza sconfortante, che conferma il giudizio formulato a suo tempo da Garin nelle Cronache di filosofia italiana, quando denunciava con qualche asprezza la sterilità di certe discussioni ‘professorali’66. Merita tuttavia di essere ricordato che un bilancio del Congresso fu tentato, sempre sulla «Rivista di filosofia», da Banfi, al quale sembrava che il giustificato movimento di reazione all’idealismo assoluto dovesse guardarsi dall’irrigidire in determinazioni metafisiche e dogmatiche (la trascendenza, l’essere, l’immanenza) ciò che per contro costituisce un insieme di «momenti di pensabilità del reale»: a queste condilismo italiano e soprattutto in Croce la sistemazione coerente dell’immanentismo positivistico (XV, 1924, pp. 50-52, in risposta ad un articolo di M.M. ROSSI, Positivismo ed attualismo, pp. 46-50). Per aver presente cosa fu, sul versante attualistico, tutta una parte della discussione filosofica di quegli anni conviene rifarsi ai saggi e agli interventi che Ugo Spirito raccolse poi in L’idealismo italiano e i suoi critici, Firenze, Sansoni 1930. 65 G. TAROZZI, Intendimenti, XIV, 1923, pp. II-III. 66 Cfr. E. GARIN, Cronache di filosofia italiana, cit., p. 360. Il testo di Chiappelli cui ci si è riferiti è Modernità, valore speculativo e rinnovamento dell’idea teistica, che compare insieme agli interventi congressuali di De Sarlo, Varisco, Tarozzi, Buonaiuti, Masnovo e Miceli nel secondo fascicolo del 1924 della «Rivista di filosofia» (XV, 1924, pp. 94-196: qui p. 158).

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zioni non si trattava allora di negare soltanto l’idealismo, bensì di promuovere un idealismo diverso, antinomico e problematico, volto a un’articolata sistematica razionale del pensiero speculativo. Con il che Banfi coglieva, in un linguaggio inusuale per la «Rivista di filosofia», le difficoltà in cui si dibattevano un Varisco o un Tarozzi (e ne fa fede la risposta tutt’altro che disinvolta dello stesso Tarozzi): per uscire da una discussione per lo più bloccata su contrapposizioni di concetti usati come entità autosussistenti, conveniva insomma riaprire il discorso dalle fondamenta e chiedersi se la strumentazione filosofica impiegata non fosse per sua natura inadeguata67.

4. In verità, per leggere le pagine migliori della «Rivista di filosofia» almeno per quanto riguarda gli anni Venti (e a prescindere dal caso di Banfi, di cui subito diremo) occorre rivolgersi altrove. Alessandro Levi, ad esempio, vicino a Mondolfo e a Limentani, delinea il ‘mestiere di filosofo’ in dignitosa fedeltà all’insegnamento di un positivismo critico e metodico in cui sono ormai superati tanto il naturalismo di Ardigò, quanto gli incerti tentativi di revisione di molti dei suoi allievi. Alla degenerazione «lirica» della filosofia Levi non per nulla contrappone un «positivismo critico», che nella distanza incolmabile dal «mitico atto puro» si qualifica piuttosto come apertura alla praxis e al mondo storico sulla base di un robusto umanismo: ove trapela chiaramente, tra l’altro, la polemica di Cattaneo contro le filosofie ‘braminiche’ (quel Cattaneo cui Levi medesimo, nel 1928, dedicherà un bellissimo libro incentrato sulla sua «visione umanistica» della storia)68. Alla fine della parabola del positivismo, insomma, la difesa della ragione e di uno storicismo non ‘teologale’ doveva rifarsi a Cattaneo, e magari a Villari e per loro tramite a Mill; così come la stessa eredità di Ardigò si stemperava ormai in un’attenta considerazione storica, volta a sottolinearne gli aspetti umanistici 67

Cfr. A. BANFI, La revisione critica della struttura del pensiero filosofico nelle discussioni del V Congresso filosofico italiano, XV, 1924, pp. 52-61 (e pp. 61-62 per la replica di Tarozzi). Il testo banfiano è anche in Opere, vol. I, cit., pp. 344-354 (e pp. 471-472 per l’intervento di Tarozzi). 68 A. LEVI, Concezione lirica e concezione critica della filosofia, XIV, 1923, pp. 320-337. Cfr. inoltre Il positivismo politico di Carlo Cattaneo, cit., p. 50.

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e, più ancora, i suoi limiti evidenti proprio nella trattazione del mondo dell’uomo, dal diritto alla morale69. Ma se queste voci si rivolgevano ancora alla continuità di una tradizione, diversamente orientato appariva invece il lavoro di Antonio Banfi, tutto proiettato sull’orizzonte del dibattito europeo e in particolare tedesco, in cui egli scorgeva l’emergere della feconda tensione tra la «sempre più profonda analisi trascendentale dei problemi e dei concetti» e la «complessità dei fenomeni culturali» non riducibile forzatamente a «una semplificazione normativa»70. Banfi, è noto, introduceva problematiche sino ad allora pressoché ignorate dal nostro establishment filosofico; ed è inevitabile a questo punto ricordare i suoi saggi su Husserl e la tendenza logistica della filosofia tedesca contemporanea pubblicati sulla «Rivista di filosofia», documenti importanti per intendere lo svolgimento di Banfi dalla Filosofia e la vita spirituale (uscita nel 1922) ai Principi di una teoria della ragione del 1926, lungo un fitto dialogo che si dipana tra la fenomenologia husserliana e il neocriticismo di Marburgo coinvolgendo in profondità Simmel71. Certamente non è questa la sede per analizzare le dense pagine banfiane; eppure, anche per coglierne la diversità nei confronti di tanta filosofia accademica coeva, occorre almeno ricordare le recensioni e gli interventi minori che le accompagnano, quasi a disegnare, proprio sui fascicoli della «Rivista di filosofia», un percorso davvero esemplare. A suo modo Banfi perse69

Ci riferiamo ai saggi di A. LEVI, Diritto e società nel pensiero di Roberto Ardigò, di L. LIMENTANI, Rileggendo la “Morale dei positivisti” e di R. MONDOLFO, Il realismo di Roberto Ardigò, comparsi nel fascicolo dedicato nel 1928 ad Ardigò (XIX, 1928, pp. 109-210 [rispettivamente pp. 153-184, 185-197, 198-210]). Levi e Limentani cureranno anche una Bibliografia Ardighiana (XIX, 1928, pp. 400-429; XX, 1929, pp. 176-196, 395-420, aggiornata poi da un’Appendice alla Bibliografia Ardighiana, XXXI, 1940, pp. 56-65). 70 Così nella recensione a Das Problem der Geltung e ad altri testi di Arthur Liebert (XIV, 1923, pp. 384-387: ora in Opere, vol. I, cit., pp. 416-420). 71 Cfr. La tendenza logistica nella filosofia tedesca contemporanea e le “Ricerche logiche” di Edmund Husserl, XIV, 1923, pp. 115-133 e La fenomenologia di E. Husserl e l’autonomia ideale della sfera teoretica, pp. 208-224 (entrambi i saggi sono raccolti in A. BANFI, Filosofi contemporanei, a c. di R. Cantoni, Firenze, Parenti 1961, pp. 67-87, 88-106). Ma sono pure da ricordare i Lineamenti d’una sistematica degli studi religiosi, XVI, 1925, pp. 345369 (ripubblicato in A. BANFI, La ricerca della realtà, Firenze, Sansoni 1959, vol. II, pp. 661-688).

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guiva una ‘politica culturale’: presentava all’attenzione di un pubblico filosofico per lo più concentrato sulle diatribe interne alla filosofia italiana riviste come «Logos» o lo «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», per non dire delle più note «Kant-Studien»; e discuteva, oltre a Husserl e ai suoi allievi (basti ricordare il lavoro su Leibniz di Mahnke), gli esiti ultimi cui era approdato il neocriticismo con Arthur Liebert. Diversi, dunque, i punti di riferimento, ma unico il nodo teorico che li univa: difendere l’autonomia della ragione come sistematica aperta e razionale, nello spirito più profondo del kantismo e della ‘rinascita kantiana’ («spirito antidogmatico – diceva Banfi – di autocoscienza critica del pensiero in tutti i suoi campi e di interpretazione sistematica della vita della cultura»)72. Nel 1924 la «Rivista di filosofia» volle d’altronde celebrare con apprezzabile sobrietà proprio il secondo centenario della nascita di Kant: una ricorrenza che spinse Vidari a scrivere un discreto saggio sulla Critica della ragion pratica, e che più in generale stimolò un certo risveglio di interesse per Kant, sulla scia anche di una tradizione di studi kantiani maturata in Italia tra Otto e Novecento, da Cantoni a Tocco73. Per parte sua Banfi segnalava sulla rivista l’Antologia kantiana di Martinetti, che aveva il merito di presentare il pensiero kantiano «nella integrità viva del suo organismo teoretico e della sua visione spirituale»: un riconoscimento che non solo ci riporta al nesso Banfi-Martinetti, tema già di per sé di rilievo, ma più in generale a una sorta di ripresa di Kant, e della sua funzione non soltanto in sede teoretica ma anche (o addirittura soprattutto, come sottolineava Vidari) in sede 72 La citazione è tratta dalla presentazione delle «Kant-Studien» del 1923 (XV, 1924, pp. 270-272 = Opere, vol. I, cit., pp. 355-358). Si vedano inoltre le recensioni del volume XI di «Logos» e dei volumi V e VI dello «Jahrbuch» edito da Husserl (XIV, 1923, pp. 281-283, XVI, 1925, pp. 73-81, XVII, 1926, pp. 175-179 [= Opere, vol. I, cit., pp. 339-343, 359-368, 425430]). Letture e problemi che alimentano questa fase del pensiero di Banfi sono documentati da L. BERTOLINI, Purezza e autonomia del teoretico: riferimenti al neokantismo di Marburgo nei “Principi di una teoria della ragione”, in AA.VV., Banfi tra le due guerre: modernità e crisi, cit., pp. 137-152. Cfr. anche P. VALORE, Trascendentale e idea di ragione. Studio sulla fenomenologia banfiana, Firenze, La Nuova Italia 1999. 73 Per l’omaggio a Kant nel secondo centenario della nascita cfr. XV, 1924, pp. 199-239, con scritti di Lamanna, Vidari e Tarozzi.

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pratica74. Ora proprio un certo Kant – il Kant filtrato dalla personale interpretazione di Martinetti – avrebbe assolto di lì a poco una funzione di singolare rilievo nelle vicende della «Rivista di filosofia» dei tardi anni Venti, almeno a partire dal Congresso Nazionale di Filosofia di Milano del 1926 che porterà alla rottura con la Società Filosofica Italiana, inducendo la rivista a gravitare se mai, dal punto di vista etico-politico, nella direzione della «Critica» crociana: per compiere «opera di resistenza» – come ebbe a scrivere Bobbio – e senza lasciare «stormire i propri fragili ramoscelli al vento talora impetuoso che veniva da Roma»75. La cronaca convulsa del congresso milanese con il suo scioglimento d’ufficio da parte delle autorità, la dignitosa fermezza di Martinetti nel difendere la partecipazione dello scomunicato Ernesto Buonaiuti (inviso ai clericali quanto agli attualisti), l’iroso attacco di Gentile contro Martinetti, «cui il presente movimento politico italiano ha rotto l’alto sonno nella testa», il pesante clima di ‘fascistizzazione’ delle istituzioni culturali che fece da sfondo a tutto l’episodio sono circostanze ben note, e che sortirono l’effetto – come ricorda ancora Bobbio – di un «benefico» distacco della rivista dalla «filosofia ufficiale», tanto da farne, tra il 1927 e il 1945, un singolare eppure salutare caso di isolamento dal contesto della vita culturale italiana nell’età del fascismo76. Ben presto, a cavallo tra gli anni Venti e gli anni Trenta, si affacceranno le firme di nuovi studiosi (basti citare Abbagnano, che esordisce sulla rivista nel 1926)77, mentre nella redazione entre74

La recensione di Banfi all’antologia martinettiana (XVII, 1926, pp. 184-185) si legge anche in Opere, vol. I, cit., p. 438. Cfr. inoltre G. VIDARI, Sguardo introduttivo alla “Critica della Ragion pratica”, XV, 1924, pp. 223-231 (in particolare p. 231). 75 N. BOBBIO, Piero Martinetti, in Italia civile, cit., p. 107. Cfr. inoltre A. D’ORSI, La cultura a Torino tra le due guerre, cit., p. 305. 76 N. BOBBIO, Premessa, cit., p. 5. Cfr. inoltre G. GENTILE, Il Congresso filosofico di Milano, ora in Politica e cultura, a c. di H.A. Cavallera (= Opere di Giovanni Gentile, vol. XLV), Firenze, Le Lettere 1990, vol. I, p. 294. Sugli echi del congresso si vedano i materiali raccolti da B. RIVA, La stampa ed il Congresso del 1926, «Rivista di storia della filosofia», LI, 1996, pp. 357-380, nonché G. CHIOSSO, Libertà e religione nel Congresso di Filosofia di Milano (1926), «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», III, 1996, pp. 237-264. 77 N. ABBAGNANO, Lineamenti di una teoria della verità come simbolo, XVII, 1926, pp. 37-51.

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ranno Gioele Solari, Alessandro Levi, due allievi di Martinetti come Grasselli e Goretti, e più tardi Bobbio e Geymonat (rispettivamente nel 1935 e nel 1937). A scorrere le annate della «Rivista di filosofia» successive al 1926 si ha la sensazione di un lavoro che ormai procede in forma più rigorosa e che sceglie del resto interlocutori significativi: da Spinoza, celebrato in un fascicolo monografico del 1927, allo stesso Kant, sul quale ripetutamente ritorna Martinetti con la sua appassionata fede razionale e la sua lucida interpretazione78. Certamente la tradizione mantiene ancora un suo ruolo preciso, come sta a dimostrare il fascicolo speciale dedicato ad Ardigò nel 1928 e al quale già si è accennato; ma è pur vero che proprio nel 1928 Giulio Grasselli presenta per la prima volta in Italia Sein und Zeit di Heidegger studiandone i rapporti e le cesure con la fenomenologia husserliana79. A partire dalla fine degli anni Venti, in sostanza, la «Rivista di filosofia» inizierà ad assolvere quella funzione di apertura europea che precedentemente non era stata in grado, se non sporadi78 Per gli studi su Benedetto Spinoza nel CCL anno della morte cfr. il fascicolo di luglio-settembre del 1927 (XVIII, 1927, pp. 205-375), con contributi di Baratono, Fossati, Goretti, Martinetti, Mondolfo, Pastore, Ravà, Solari, Tarozzi ed Emilio Villa (il saggio di Martinetti su Modi primitivi e derivati, finiti e infiniti, si legge anche in P. MARTINETTI, La religione di Spinoza, cit., pp. 115-134). Su Spinoza avrebbe insistito di lì a poco anche Juvalta (Osservazioni sulla dottrina morale di Spinoza, XX, 1929, pp. 297-328), del quale occorre pure ricordare uno dei suoi ultimi lavori di filosofia della morale (Per uno studio dei conflitti morali, XVIII, 1927, pp. 137-157): entrambi i testi sono ripubblicati in I limiti del razionalismo etico, cit., pp. 381-404 e 405441. Di Martinetti si vedano ad esempio Il problema della libertà in E. Kant, XVIII, 1927, pp. 11-24 e La religione secondo Kant, XIX, 1928, pp. 1-19 (poi in Ragione e fede, Torino, Einaudi 19442, pp. 73-95). Ma degli orizzonti in cui si muoveva Martinetti è anche testimonianza il saggio su Il numero, XVIII, 1927, pp. 158-178 (con l’esame di autori come Frege, Husserl e Natorp). 79 G. GRASSELLI, La Fenomenologia di Husserl e l’Ontologia di Martin Heidegger, XIX, 1928, pp. 330-347 (a cui fa seguito E. GRASSI, Sviluppo e significato della svolta fenomenologica nella filosofia tedesca contemporanea, XX, 1929, pp. 129-151). Per queste prime voci bibliografiche cfr. M. VESPA, Martin Heidegger: bibliografia italiana 1928-1988, in AA.VV., La recezione italiana di Heidegger, «Archivio di filosofia», LVII, 1989, p. 557. Si veda inoltre S. ZECCHI, La fenomenologia in Italia: diffusione e interpretazioni, in AA.VV., Filosofia italiana e filosofie straniere nel dopoguerra, cit., pp. 16-22 e M. MOCCHI, Le prime interpretazioni della filosofia di Husserl in Italia: il dibattito sulla fenomenologia 1923-1940, Firenze, La Nuova Italia 1990.

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camente, di assicurare: proprio nel momento in cui più chiusa e opprimente si faceva l’atmosfera della filosofia italiana, presa nelle dispute tra cattolici, spiritualisti, neotomisti, attualisti e via enumerando, l’ormai matura rivista sorta dalla fusione delle «scuole gloriose» di Cantoni e di Ardigò si immetteva decisamente in un circuito di idee più ampio, creando le basi di un lavoro che dura ancora oggi80. E non per nulla, giova ribadirlo, questo avveniva sotto l’accorta guida di Martinetti, che si sentiva «cittadino – giuste le parole pronunciate in apertura del Congresso filosofico di Milano nel 1926 – di un mondo nel quale non vi sono né persecuzioni né scomuniche», e che d’altronde aveva dichiarato, sin dall’Introduzione alla metafisica del 1904, essere la chiarezza «l’onestà del filosofo»81. Dei molti programmi sin a quel momento succedutisi sulle pagine della «Rivista di filosofia» quello di Martinetti era sicuramente il meno enfatico e il meno reboante: ma proprio per questo era il programma migliore, nel cui segno la rivista avrebbe proseguito il suo cammino nel solco di «una tradizione di laicità che è stata, in primo luogo, rifiuto di qualsiasi dogmatismo»82. 80

Sono da vedersi in proposito le considerazioni di A. SANTUCCI, La «Rivista di filosofia», cit., pp. 59-64. Ma cfr. anche A. V IGORELLI, Piero Martinetti. La metafisica civile di un filosofo dimenticato, Milano, Bruno Mondadori 1998, pp. 299-318. 81 P. MARTINETTI, Introduzione alla metafisica, vol. I, Teoria della conoscenza, Torino, Clausen 1904, nuova ed. Casale Monferrato, Marietti 1987, p. 5. Cfr. inoltre I Congresi Filosofici e la funzione sociale e religiosa della filosofia, XXXV, 1944, pp. 101-109 (poi in P. MARTINETTI, Saggi filosofici e religiosi, a c. di L. Pareyson, Torino, Bottega d’Erasmo 1972, pp. 37-44: qui p. 38). 82 Così nella Premessa a Indici 1909/1999, cit., p. 5. Da tener presente, per comprendere le vicende della rivista a cui abbiamo fatto riferimento, quanto Martinetti scriverà a Bobbio il 22 febbraio 1935, in occasione dell’ingresso di quest’ultimo nel consiglio direttivo: «Siamo noi, gli anziani, che dobbiamo intimamente rallegrarci di vedere sorgere dopo di noi forze nuove e promettenti che continueranno, forse meglio di noi, l’opera nostra. Noi abbiamo creduto di fare cosa utile tenendo in vita la Rivista, come espressione del pensiero disinteressato e indipendente. Ciò è in sé poco o nulla; ma, dati i tempi, è stata una gran cosa. Io spero che il gruppo di giovani, che già ora coopera con noi, potrà fra non molto assumere completamente per sé questa fatica, che qualunque ne sia il risultato esteriore, ha valore per sé e può essere, in certe circostanze, un alto dovere» (N. BOBBIO, Autobiografia, a c. di A. Papuzzi, Roma-Bari, Laterza 1997, p. 25).

9 VARISCO, DE SARLO E LA «CULTURA FILOSOFICA» 1. Il primo numero della «Cultura Filosofica», la rivista diretta da Francesco De Sarlo, uscì a Firenze nel gennaio 1907. Nel clima caratterizzato dalla reazione contro il positivismo e dalle prime fortune dell’idealismo crociano e gentiliano, nonché dall’entrata in scena (non da ultimo proprio nell’ambiente fiorentino) di riviste ‘militanti’ dalla vita breve ma che pure incisero in profondità, la «Cultura Filosofica» intendeva sviluppare una posizione autonoma nell’inquieto panorama del primo Novecento italiano. «È nostra ferma opinione – si legge nell’enunciazione programmatica che apre il primo numero della rivista – che la filosofia non può oggi costruirsi sul vuoto, ma ha bisogno d’un substrato e d’un contenuto concreto»; e in questa prospettiva l’indagine filosofica deve chiarire i rapporti che la legano alle altre scienze, per «mostrare quanto ciascuna di queste contiene di filosofico, quanto e come, insomma, ciascun ordine di conoscenze scientifiche, nessuno escluso – né quello delle scienze naturali né quello delle scienze spirituali – dalle matematiche alla biologia, alla psicologia, al diritto ecc., contribuisca e possa contribuire a una conoscenza sistematica del mondo e ad una concezione filosofica di tutta la realtà»1. 1

Cfr. «La Cultura Filosofica», I, 1907, p. 1. Sul programma della rivista è anche da vedersi la successiva nota redazionale Dopo un anno di vita (pp. 317-319) e l’articolo, sempre pubblicato a nome della redazione, Che cosa facciamo e che cosa vogliamo (II, 1908, pp. 517-526). Sul periodico di De Sarlo non esistono studi recenti, nonostante esso costituisca una tessera importante del mosaico che la ricerca storiografica ha ricomposto in polemica con la visione unilaterale del neoidealismo. A quest’ultimo si ispira invece il vecchio saggio di S. CARAMELLA, Le riviste filosofiche italiane nell’ultimo

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«La Cultura Filosofica», alla quale collaborarono studiosi come Aliotta, Calò, Lamanna, Varisco, Bonatelli, Mondolfo, fu in larga misura lo specchio fedele del pensiero e dell’attività di De Sarlo, della cui lunga ricerca la rivista costituisce un documento estremamente eloquente anche per i rapporti e le convergenze intellettuali che si intrecciarono sulle sue pagine. Le caratteristiche della rivista, i suoi limiti certamente vistosi ma anche le sue istanze più valide, coincidono in fondo con i pregi e le difficoltà dello stesso De Sarlo, con il suo oscillare tra un lavoro ‘positivo’ che valorizzava l’analisi scientifica e un modo più tradizionale d’intendere la filosofia: tanto che si è potuto sostenere con qualche ragione che De Sarlo si fece difensore di motivi spiritualistici e teistici quando il positivismo sembrava minacciare l’autonomia della filosofia e i valori etico-religiosi, e tenace assertore del fecondo rapporto tra filosofia e scienza quando il neoidealismo negava la rilevanza teoretica di quel rapporto, con il conseguente distacco dal mondo dell’esperienza2. E si può aggiungere che talmente viva fu quest’ultima esigenza da indurre De Sarlo a rivendicare per se stesso – secondo una testimonianza di Limentani – il ruolo ormai screditato di ‘ultimo positivista’, quasi a sottolineare come non solo fosse un titolo di merito difendere in clima di imperante idealismo il rigore scientifico, ma pure andasse valutata negativamente l’evoluzione del positivismo italiano verso esiti che delle originarie matrici conservavano a stento il nome3. quarto di secolo, cit., pp. 513-515, che lamenta l’eclettismo e le malfondate pretese di scientificità della «Cultura Filosofica» («avevamo un Archiv di più per gli scrittori di filosofia»). Da non scordare il giudizio ‘a caldo’ del solito scanzonato Papini: «Anche fra le riviste strettamente filosofiche c’è stato un po’ di rinnovamento – scriveva sul «Leonardo» nel 1907 –: mentre la «Rivista filosofica» continua modestamente le tradizioni dell’onesto kantiano Cantoni e la «Rivista di filosofia e scienze affini» seguita a servir da sputacchiera del vecchio Ardigò e dei suoi poveri discepoli, sono comparse due nuove riviste, una delle quali, la «Critica» (1903) rappresenta l’hegelianismo rinnovato e ripensato dall’ingegno alacre di B. Croce, l’altra, la «Cultura Filosofica» (1907) cerca a tentoni una sua strada, combattendo a destra gli hegeliani e a sinistra i positivisti» (Franche spiegazioni, in La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste. «Leonardo», «Hermes», «Il Regno», cit., p. 353). 2 Cfr. M.F. SCIACCA, Il secolo XX, cit., vol. I, pp. 60-61. 3 Cfr. L. LIMENTANI, Francesco De Sarlo (15 febbraio 1864 – 14 gennaio 1937), «Rivista Pedagogica», XXX, 1937, pp. 111-114 (ma di Limentani si veda pure Francesco De Sarlo, «Archivio di storia della filosofia italiana»,

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Al di là di queste tarde confessioni, resta comunque il fatto che seguire l’itinerario del direttore della «Cultura Filosofica» significa avventurarsi lungo un percorso tortuoso. Studioso di medicina che aveva ascoltato, in gioventù, le lezioni napoletane di Bertrando Spaventa e di Augusto Vera, per poi occuparsi di darwinismo e dello studio dei sogni, intraprendendo dopo l’apprendistato da psichiatra alla scuola di Augusto Tamburini l’attività professionale nel manicomio di Reggio Emilia, De Sarlo era approdato alla carriera filosofica nel clima fin de siècle in cui si consumavano rapidamente le più fortunate ‘fedi’ dell’Ottocento4. Proprio in uno dei due testi con cui avrebbe vinto, nel giugno 1900, il premio dell’Accademia dei Lincei che fu diviso con Scienza e opinioni di Bernardino Varisco, De Sarlo aveva chiarito (siamo nel 1898) la sua posizione nei confronti del positivismo, al quale erano pur andate le sue simpatie giovanili. In nome di esigenze di ordine etico e religioso nutrite di letture che spaziavano da Bradley a Paulsen a Lotze, egli rimproverava ai seguaci italiani delle dottrine positivistiche «la persistente confusione del fatto fisico col fatto psichico, della natura collo spirito, delle esigenze e delle leggi che regolano lo svolgimento delle scienze naturali con le esigenze e le leggi inerenti allo spirito e alla cultura umana tutta quanta»5. «Pur troppo – aggiungeva De Sarlo – il positivismo VII, 1938, pp. 91-93). Su De Sarlo, oltre al volume Francesco De Sarlo e il laboratorio fiorentino di psicologia già ricordato in precedenza (cap. 2, p. 38 n. 18) e al quale si farà riferimento ancora nel seguito, sono da vedersi innanzi tutto E.P. LAMANNA, Il realismo psicologistico nella nuova filosofia italiana, «Logos», VII, 1924, pp. 121-153 (con varie notizie sulla ‘scuola’ di De Sarlo); il fascicolo a lui dedicato di «Logos», XVI, 1933, pp. 245-311; E. GARIN, Lo spiritualismo di Francesco De Sarlo, «Archivio di storia della filosofia italiana», VII, 1938, pp. 298-316; G. PONZANO, L’opera filosofica di F. De Sarlo, Napoli, Rondinella 1940 (con bibliografia). 4 Cfr. F. D E SARLO, Esame di coscienza. Quarant’anni dopo la laurea 1887-1927, Firenze, Tip. Bandettini 1928, pp. 5-13. Si vedano inoltre V.E. RUSSO, Filosofia e psicologia nell’attività psichiatrica di Francesco De Sarlo, in AA.VV., L’età del positivismo, cit., pp. 365-377 e F. MONDELLA, Francesco De Sarlo: dalla psicologia senz’anima allo spiritualismo (1887-1893), in AA.VV., Giulio Cesare Ferrari nella storia della psicologia italiana, cit., pp. 109-139. 5 F. DE SARLO, Metafisica scienza e moralità. Studi di filosofia morale, Roma, Tip. Balbi 1898, p. XVIII. Il volume venne premiato insieme ai Saggi di filosofia (2 voll., Torino, Clausen 1896-1897) nel concorso indetto dall’Accademia dei Lincei che vide vincitore ex-aequo con De Sarlo l’ormai cinquan-

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italiano, fondato com’è sul dogmatismo, anticritico per eccellenza com’è, si presenta piuttosto come una setta che come una scuola filosofica. I difetti principali ad esso inerenti sono la mancanza di uno studio accurato di quella parte della logica che si chiama Metodologia, dal che provengono il facile e il falso generalizzare, la frequenza dei sofismi della falsa causa e la tendenza a considerare il proprio punto di vista come l’unico vero, e quindi come effetto ultimo l’intolleranza»6. Come si vede era una requisitoria in piena regola, e del resto De Sarlo non mancava di opporre, al dominio del meccanismo cieco della natura che si scandisce secondo ritmi estranei al dinamismo della coscienza, il mondo della morale, tentando di riconciliare il «cuore» con l’«intelletto» alla luce di una concezione teistica («il solo indirizzo in cui è fatta la debita ragione ai fenomeni essenziali della vita morale»), in cui Dio è soggetto concreto esprimentesi nella vita del cosmo7. In qualche misura le preoccupazioni di De Sarlo convergevano con quelle del positivista Varisco, che chiudeva il suo voluminoso scritto presentato al concorso dei Lincei con l’aperto riconoscimento di come il ferreo determinismo della scienza non potesse esaurire l’infinita varietà delle «opinioni» che l’uomo si forma intorno alla realtà: tutto quanto «consta» all’intelletto scientifico non elimina insomma ciò che – specie per quanto riguarda il «sentimento del soprannaturale» – è «vero» seppure non dimostrabile8. Ma De Sarlo, a differenza di Varisco, non si poneva simili quesiti dall’interno della visione positivistica della scienza, tanto che in quello stesso 1901 l’esame critico del positi-

tenne Varisco. Della commissione giudicatrice facevano parte, oltre a Cantoni e Tocco, Barzellotti, Carle e Chiappelli; la relazione finale venne pubblicata sulla «Rivista Filosofica», II, 1900, pp. 427-431. Si vedano anche le lettere di Bonatelli e di Cantoni a Varisco rispettivamente del 13 e del 9 giugno 1900 in Lettere a Bernardino Varisco, cit., pp. 68-69, 94. 6 Metafisica scienza e moralità, cit., pp. XVIII-XIX. 7 Ivi, pp. 123-143. Degli orientamenti di De Sarlo è significativo anche il saggio che compare in appendice al volume, con numerazione separata delle pagine, Il socialismo come concezione filosofica (già apparso nel 1897 sulla «Rivista Italiana di Filosofia»), in cui la vicinanza alle tesi espresse in merito da Chiappelli si aggiunge un interrogativo caratteristico: «Che cos’è mai la cognizione di tutte le leggi naturali dinanzi ad un’opera buona?» (p. 31). 8 Cfr. B. VARISCO, Scienza e opinioni, Roma, Società Dante Alighieri 1901, p. 626.

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vismo italiano sarebbe proseguito e avrebbe impegnato una parte notevole degli Studi sulla filosofia contemporanea, in cui erano discussi Du Bois-Reymond, Helmholtz e Darwin al fine di mostrare le vie lungo le quali la scienza si era incontrata con i tradizionali problemi della filosofia senza tuttavia riuscire a risolverli. Anche in questa sede il giudizio sugli esponenti del nostro positivismo (a partire dal ‘sommo pontefice’ Ardigò) rimaneva molto netto e De Sarlo non aveva timori nel formulare le sue accuse: «il positivismo italiano è la filosofia dei semplicisti, la filosofia di quelli che fanno man bassa su tutta la tradizione filosofica», professando una «forma larvata di materialismo» colpevolmente affetta da ogni sorta di «tenerezza» per tutto ciò che sa di naturalismo9. Il naturalismo e il dogmatismo, non si stancava di sottolineare De Sarlo, non potevano essere né accettati, né in qualche modo corretti; eppure la sua veemente polemica antipositivistica d’inizio secolo non significava affatto una svalutazione delle scienze, e in particolare di quella scienza – la psicologia – a cui De Sarlo rivolgeva le sue attenzioni in rotta con il ‘semplicismo’ dei positivisti. Anzi, come De Sarlo ripeterà poi più volte negli anni della battaglia contro il neoidealismo, se la filosofia recide ogni legame con il sapere scientifico, inevitabilmente perde vigore teorico e la sua speculazione vacilla nel vuoto: «il privilegio di chi avrà filosofato partendo dall’esperienza sarà pur sempre quello di aver cercata la spiegazione non prescindendo da ciò che dev’essere spiegato»10. Proprio per questo De Sarlo si sentiva se mai vicino a un programma di lavoro che guardasse all’orizzonte del neocriticismo, ossia alla «compenetrazione del pensiero scientifico col metodo e con le concezioni fondamentali della Filosofia critica»11: un programma che, in alternativa al «dilettantismo positivistico» e domani al «dilettantismo idealistico»12, pareva avvertito della necessità di discutere il problema delle condizioni di possibilità della conoscenza umana a partire dalle scienze stesse, raccogliendo la 9

Cfr. F. DE SARLO, Studi sulla filosofia contemporanea, vol. I, Prolegomeni. La «Filosofia scientifica», Roma, Loescher 1901, specie pp. 237-238. 10 Così nell’articolo redazionale della «Cultura Filosofica» Che cosa facciamo e che cosa vogliamo, cit., pp. 524-525. 11 Studi sulla filosofia contemporanea, cit., p. 62. 12 Dopo un anno di vita, cit., p. 317.

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sfida che era venuta sin dai tempi del ‘ritorno a Kant’13. Sarà questo «orientamento metodologico» – anche negli anni dell’avventura legata alla «Cultura Filosofica» – a rappresentare per De Sarlo un punto di riferimento importante per differenziarsi dal naturalismo per un lato e dallo spiritualismo tradizionale per un altro: non già perché il neocriticismo nelle forme storiche in cui si era affermato rappresentasse ancora un’esperienza filosofica praticabile, quanto per il «riavvicinamento della filosofia alla scienza» e per il «riconoscimento dell’indipendenza dei valori assoluti ed ultimi da quelli contingenti e transitori» che esso aveva reso possibili in un’età dominata dal positivismo naturalistico14. D’altra parte il rapporto ambivalente di De Sarlo con il kantismo, pur segnato da aggiustamenti e ripensamenti, sembra contraddistinto sia dal pieno riconoscimento dell’attività dell’Io nell’organizzazione della vita psichica già al livello della percezione, sia dal contestuale rifiuto di una ‘coscienza in generale’ che sacrificherebbe l’Io concreto e aprirebbe la strada, in definitiva, alle soluzioni idealistiche. Di qui l’esigenza, sulla quale De Sarlo non cesserà di insistere nei primi anni del Novecento, di un nuovo spiritualismo, che in nome delle funzioni spirituali non trascurasse «l’essere reale» dell’anima senza per questo renderla indipendente «dall’insieme dei fatti psichici»15. Presentando questo «biglietto da visita», già in buona parte consegnato ai suoi «volumi ottocenteschi»16, al volgere del nuovo secolo De Sarlo iniziò il suo magistero presso l’Istituto di Studi Superiori di Firenze, ove tra l’altro fondò – grazie al «patrocinio autorevole» di Villari e all’«azione cordialmente fiancheggiatrice» 13

Metafisica scienza e moralità, cit., pp. 77-78. Cfr. F. DE SARLO, Il significato del neocriticismo, «La Cultura Filosofica», V, 1911, pp. 498-507 (qui p. 507). Non sarà inopportuno ricordare che questo articolo di De Sarlo compariva nel fascicolo della rivista dedicato a Felice Tocco in occasione della sua morte (con contributi, tra gli altri, di Mondolfo, Masci, Zuccante e Calò). 15 F. DE SARLO, Di alcuni caratteri dello spiritualismo odierno, «La Cultura Filosofica», II, 1908, pp. 67-81 (qui p. 79). Cfr. inoltre F. DE SARLO, I dati della esperienza psichica, Firenze, Tipografia Galletti e Cocci 1903, pp. 111, 118, 324 e Esame di coscienza, cit., p. 28. Sul peculiare ‘kantismo’ di De Sarlo cfr. V. D’ANNA, Kant in Italia, cit., pp. 140-154. 16 E. GARIN, Francesco De Sarlo: psicologia e filosofia, in Francesco De Sarlo e il laboratorio fiorentino di psicologia, cit., p. 44. 14

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di Tocco17 – il laboratorio di psicologia sperimentale a cui legò le fortune della sua ‘scuola’ a partire dal 1903, tre anni dopo la nomina alla cattedra fiorentina di filosofia teoretica che era stata in precedenza di Augusto Conti. A Firenze il filosofo venuto dalla medicina e dalla psichiatria che si dedicava alla psicologia sperimentale e alle sue relazioni con la filosofia non avrebbe incontrato simpatie unanimi: Papini, ad esempio, lo bollò subito (siamo nel marzo 1900) come «uno spiritualista un po’ modernizzato», preparando la strada al giudizio più noto (e più distruttivo) di Gentile18. Ma il lavoro che De Sarlo svolse nei primi anni del Laboratorio fu importante, come lo fu quello dei suoi collaboratori, da Antonio Aliotta a Enzo Bonaventura; e basta aprire il grosso volume del 1903 su I dati dell’esperienza psichica per rendersene conto, anche quando non appaia chiaramente risolta – come è stato più volte sottolineato – la relazione che intercorre, o dovrebbe intercorrere, tra la psicologia come scienza empirica, come scienza di ‘fatti’, e la psicologia come scienza filosofica ovvero come «scienza delle funzioni dello spirito»19. Certo era una psicologia ‘con anima’, sempre più incline, dopo i primi anni del laboratorio fiorentino, a farsi filosofica lasciandosi alle spalle la dimensione sperimentale; eppure bastava questo a legittimare il drastico invito di Croce ad abbandonare agli «empirici» l’indagine psicologica, puramente naturalistica e classificatoria, per consentire ai filosofi di «attendere ad altro»?20 La storia, del resto, è ampiamente nota (anche nelle sue conse17

Cfr. L. LIMENTANI, Francesco De Sarlo, cit., p. 112. Cfr. P. CASINI, Alle origini del Novecento. «Leonardo», 1903-1907, cit., p. 96. Su De Sarlo come pessimo proseguimento («greve, opaca e lutulenta parola») del filosofare aggraziato di Conti cfr. G. GENTILE, Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo XIX, Firenze, Sansoni 19733, p. 412. 19 I dati dell’esperienza psichica, cit., p. 412. Sull’elaborazione psicologica di De Sarlo è ancora utile E. BONAVENTURA, La psicologia nel pensiero e nell’opera di Francesco De Sarlo, «Logos», XVI, 1933, pp. 298-311. Si vedano inoltre gli studi di G. CIMINO, Francesco De Sarlo nella storia della psicologia italiana e L. LANZONI, La psicologia filosofica di Francesco De Sarlo, in Francesco De Sarlo e il laboratorio fiorentino di psicologia, cit., pp. 5-31, 169-199, nonché il profilo di S. GORI-SAVELLINI, R. LUCCIO, Francesco De Sarlo, in AA.VV., La psicologia in Italia, cit., pp. 371-390. 20 Cfr. la recensione di Croce a I dati della esperienza psichica, apparsa sulla «Critica», II, 1904, pp. 140-143, poi in Conversazioni critiche. Serie seconda, Bari, Laterza 19504, pp. 37-42 (qui p. 41). 18

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guenze per i destini della psicologia nella cultura italiana), come ben nota è la dura battaglia condotta dagli idealisti nella fase di avvio della «Cultura Filosofica» per ridurre De Sarlo «al silenzio» e per impedire che la sua «influenza dannosissima», congiunta alla pretesa di candidarsi al «papato filosofico», acquistasse un qualche credito21. Non tutti, però, la pensavano così, e De Sarlo riuscì ugualmente a raccogliere intorno alla sua rivista fiorentina il consenso di una parte della filosofia accademica italiana collocata al di là del positivismo tramontante, ma non rassegnata alla crescente egemonia della nuova filosofia ‘hegeliana’ patrocinata da Croce e da Gentile.

2. È nei primi anni del Novecento che si consolidano anche i rapporti tra Varisco e De Sarlo, benché l’inizio dei loro destini incrociati sembri contrassegnato da una considerevole difformità di vedute. Nonostante il carattere anomalo del suo positivismo, già tutto preoccupato di salvare l’ambito delle «opinioni» che si sottraggono al ferreo determinismo della natura lasciando così spazio al sentimento e alla fede, Varisco era entrato sulla scena della filosofia italiana d’inizio secolo con un profilo inconfondibile. Le sue precedenti incursioni nel campo delle scienze esatte, e specie della matematica, lo avevano accreditato come studioso dotato di competenze scientifiche inconsuete (in realtà, si trattava di un autodidatta con ambizioni forse eccessive)22. Erano poi ve21

Cfr. la lettera di Croce a Giuseppe Lombardo Radice del 22 aprile 1907 pubblicata in Lettere inedite di Benedetto Croce a Giuseppe Lombardo Radice, a c. di R. Colapietra, «Il Ponte», XXIV, 1968, pp. 980-981. Gli interventi di Croce contro De Sarlo, con il titolo «una polemica aspra», sono raccolti in B. CROCE, Pagine sparse, cit., pp. 231-256. Sulla vicenda si vedano R. CORDESCHI-L. MECACCI, La psicologia come scienza «autonoma»: Croce, De Sarlo e gli «sperimentalisti», «Per un’analisi storico e critica della psicologia», II, 1978, pp. 3-32 e A. PARENTE, Croce per lumi sparsi. Problemi e ricordi, Firenze, La Nuova Italia 1975, pp. 274-285 (che documenta anche il riavvicinamento tra De Sarlo e Croce, dopo il 1925, per motivi politici). 22 Cfr. U. BOTTAZZINI, Gli scritti matematici di Varisco e i contatti con gli ambienti matematici del tempo, in AA.VV., Bernardino Varisco e la cultura filosofica italiana tra positivismo e idealismo, cit., pp. 41-48. Su Varisco, oltre alla raccolta di studi appena citata, sono ancora da tenere presenti le monografie di G. ALLINEY, Varisco, Milano, Bocca 1943 e G. CALOGERO, La filosofia di Bernardino Varisco, Messina-Firenze, D’Anna 1950.

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nuti i primi scritti filosofici, manifestazione tardiva di una vocazione a lungo rimasta sopita e che tuttavia (sotto gli auspici di Francesco Bonatelli e di Carlo Cantoni) diede frutti non irrilevanti nelle ‘memorie’ dedicate ai fondamenti del pensiero e del ragionamento in cui, nel corso degli anni Novanta, Varisco venne elaborando un’analisi fenomenologica dei processi cognitivi della coscienza. Se di positivismo si può parlare, si tratta più che altro di un atteggiamento metodico inteso a ritagliare, nel complesso dei ‘fatti’ di coscienza, le strutture portanti («stati» e «atti») che sia sul piano del meccanismo psichico involontario, sia su quello dell’attività psichica consapevole possono dare conto del pensiero umano, del suo tradursi in linguaggio e in formazioni concettuali, così come del suo obbedire a un’immanente «necessità logica»23. Ma di lì a poco, tentato e forse anche mal consigliato dall’ambizione accademica, Varisco si lanciò in un’impresa più temeraria, confezionando un corposo manoscritto che presentò nel 1897 al concorso bandito dall’Accademia dei Lincei e che tre anni dopo ottenne, come già si è detto, il primo premio ex-aequo con De Sarlo. Con il titolo Scienza e opinioni, la summa varischiana uscì nel 1901 segnalandosi subito come un lavoro po’ anomalo, che «presumeva un lettore informato e condivideva la sorte dei libri troppo ponderosi»24; e ponderoso lo era davvero, dal momento che Varisco impegnava oltre seicento pagine per illustrare la convinzione secondo cui solo il «vero scientifico» è definitivamente «vero», in quanto verificato «al modo con cui verifica i suoi risultati la scienza»: non significava proprio questo essere «positivi23 Gli scritti di Varisco a cui ci riferiamo sono Ricerche intorno ai fondamenti del pensiero, «Atti del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti», s. VII, t. III, 1891-1892, pp. 125-233; Ricerche intorno ai principii fondamentali del ragionamento, «Atti del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti», s. VII, t. IV, 1892-1893, pp. 109-204, 413-476; La necessità logica, «Atti della Reale Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», vol. XXVII, 18941895, pp. 1-167; Sul problema della conoscenza, Bergamo, Tip. Fagnani e Galeazzi 1893; Verità di fatto e verità di ragione, Padova, Tip. Sociale 1893. Sulla prima fase del pensiero varischiano cfr. G. CALOGERO, La filosofia di Bernardino Varisco, cit., pp. 5-73 e M. DAL PRA, Gli studi degli anni 18911893 sui fondamenti della coscienza e della conoscenza, in Bernardino Varisco e la cultura filosofica italiana tra positivismo e idealismo, cit., pp. 15-40. 24 A. SANTUCCI, Eredi del positivismo, cit., p. 85.

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sti», nonostante si potesse ammettere che la scienza non ci dice tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno e che le sfugge qualcosa di vero anche se non dimostrabile?25 Nelle tre sezioni del suo libro – filosofia naturale, psicologia, teoria della conoscenza – Varisco non sembrava essere positivista solo per caso, nè aveva molte esitazioni nell’accreditare una certa immagine del sapere scientifico probabilmente indebitata con una ‘meccanica’ del genere di quella del Padre Secchi. Le lunghe analisi dedicate ai fatti fisici in quanto determinati da ciò che accade tra gli atomi, e più ancora le considerazioni svolte intorno al ferreo determinismo del meccanismo fisico-psichico (dove i fatti psichici sono intesi come eventi che accadono negli ‘atomi’ di cui si compone la nostra vita psichica), davano corpo a una sorta di Naturphilosophie che si spingeva ben oltre l’attitudine metodica mostrata nei primi scritti filosofici. Ma il Varisco di Scienza e opinioni, per quanto non possa essere considerato fautore di un «positivismo spiritualistico»26, era convinto del suo modo di essere positivista nella stessa misura in cui non si rassegnava ad esserlo sino in fondo: ammetteva sì che «tutto quanto esiste o accade senza eccezioni» fosse «un meccanismo fisico-psichico, rigorosamente determinato e insieme causale», che escludeva il divino «sotto qualunque forma»; eppure aggiungeva lapidariamente che «a questo concetto non s’acquieta il sentimento di molti, né il mio»27. Era qui l’origine dei dilemmi e delle crisi che avrebbero caratterizzato il percorso di Varisco: un percorso fattosi più movimentato dopo il 1901 e punteggiato dalla collaborazione alle riviste di Cantoni e Marchesini, da una fitta produzione di articoli, note e interventi, dalla libera docenza a Pavia, dal prestigio crescente e dai rapporti intellettuali che via via diventarono più stretti e si estesero in molteplici direzioni (da Vailati ad Ardigò, da Juvalta a Enriques), per non dire infine della consacrazione accademica a lungo attesa e giunta – quando aveva ormai cinquantacinque anni – proprio grazie a quel volume in cui la «scienza» e le «opinioni», il «sentimento» e ciò che «consta» non erano riusciti a soddisfarlo inte25

Cfr. Scienza e opinioni, cit., p. 35. Di questo avviso è invece C. LIBRIZZI, Il pensiero di B. Varisco, Padova, CEDAM 19532, pp. 83-246. 27 Scienza e opinioni, cit., p. 556. 26

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ramente, costringendo Varisco – come annotò Gentile – alla fatica del «filosofare»28. Anche in questo passaggio importante della sua biografia intellettuale Varisco doveva incontrarsi con De Sarlo. Fu proprio De Sarlo, infatti, il relatore della commissione che nel 1905 conferì a Varisco il primo posto (con Martinetti al secondo e Guido Villa al terzo) nel concorso con il quale egli ottenne l’ambita cattedra di Filosofia teoretica nella «Regia Università» di Roma. Come si legge nella relazione, la «maturità di pensiero» di Varisco, seppure non suffragata da conoscenze estese nell’ambito della storia della filosofia, era inequivocabilmente attestata da Scienza e opinioni, che lo segnalava tra i pochissimi filosofi italiani in grado di discutere «con competenza delle questioni di Filosofia della natura, dandoci dei lavori che possono reggere al confronto di tentativi analoghi fatti negli altri paesi»29. Il giudizio era sin troppo benevolo: è vero che molti contemporanei (da Ardigò a Juvalta, da Mondolfo a Marchesini) si espressero in termini non dissimili sulle «competenze» scientifiche dell’autore di Scienza e opinioni, salutando in lui il pensatore originale che finalmente parlava di scienza a ragion veduta; ma è altrettanto vero che, anche a non chiamare in causa l’elaborazione propriamente filosofica di Varisco, le molte pagine spese per illustrare la «filosofia naturale» non sembravano affatto destinate a reggere il confronto – giuste le parole di De Sarlo – con «tentativi analoghi fatti negli altri paesi»: come ben vide un pensatore scaltrito dal punto di vista epistemologico come Vailati, il quale arrivò a lamentare la riabilitazione, da parte di Varisco, delle «concezioni grossolane della fisica aristotelica o prearistotelica»30. 28

La recensione gentiliana di Scienza e opinioni, apparsa sulla «Critica», I, 1903, pp. 32-49, è ripubblicata nei Frammenti di storia della filosofia, cit., pp. 443-466. Su questa fase del pensiero di Varisco cfr. A. SANTUCCI, Eredi del positivismo, cit., pp. 81-101. 29 La relazione della commissione (composta da Cantoni nelle funzioni di presidente, da Zuccante, Barzellotti, Dandolo e lo stesso De Sarlo) è stata ripubblicata in AA.VV., Piero Martinetti nel cinquantenario della morte, cit., pp. 351-358, unitamente ad altri documenti relativi al (contestato) espletamento del concorso. 30 La recensione vailatiana di Scienza e opinioni è negli Scritti, cit., pp. 389-397 (a cui Varisco rispose con l’opuscolo Appunti critici di filosofia naturale). Sulle reazioni a Scienza e opinioni rimandiamo qui, per ragioni di

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In quello stesso 1905 De Sarlo e Varisco ebbero del resto modo di verificare direttamente la distanza che, al di là di tutto (giudizi concorsuali compresi), continuava a separarli. Al Congresso Internazionale di Psicologia di Roma chi li ascoltò non ebbe probabilmente difficoltà a riconoscere che entrambi parlavano un linguaggio diverso e forse non s’intendevano nemmeno. De Sarlo intervenne due volte, per discutere dapprima il ‘suo’ problema – il rapporto che la psicologia intrattiene con la filosofia in forza del suo carattere bifronte, di scienza empirica e filosofica al tempo stesso –, e poi per interrogarsi sulla questione delle qualità formali e della loro ammissibilità accanto a quelle dei dati della sensibilità31. Per parte sua Varisco, ritornando su un punto che già lo aveva impegnato nelle pagine di Scienza e opinioni, prese la parola per discutere del Determinismo fisio-psichico e cercò di chiarire in qual senso si potesse sfuggire all’alternativa tra l’assoluto determinismo e l’assoluta spontaneità: per farlo occorreva elaborare un modello interpretativo dei fatti psichici che, sulla base dell’ipotesi di particelle eteree che si accordano al meccanismo fisico pur mantenendo la propria irriducibile specificità, facesse risalire all’«essere dell’uomo» come soggetto psichico e corporeo la determinazione del suo modo di operare. Per Varisco, solo il determinismo fisio-psichico sembrava in grado di spiegare la formazione del soggetto, e il soggetto appariva come «l’insieme» dei suoi ‘fatti’ psichici: soluzione che già aveva incontrato non poche resistenze ai tempi di Scienza e opinioni (ne fanno fede le reazioni di Vailati, Enriques o Cantoni) e che sicuramente anche a Roma scontentò molti filosofi preoccupati delle sorti della psicologia, compreso l’antideterminista De Sarlo già da tempo collocato in un orizzonte ben diverso32. brevità, a quanto se ne è detto presentando le Lettere a Bernardino Varisco, cit., pp. 17-18 (e pp. 127-139 per il carteggio di Vailati con Varisco). 31 Cfr. F. DE SARLO, La psicologia in rapporto colle scienze filosofiche e Oltre la qualità dei dati della sensibilità sono ammissibili qualità formali?, in Atti del V Congresso Internazionale di Psicologia (Roma, 26-30 aprile 1905), a c. di S. De Sanctis, Roma, Forzani & C. 1906, pp. 317-321, 386-391. 32 Ivi, pp. 350-354; cfr. inoltre Scienza e opinioni, cit., pp. 254-257, 323351. Si vedano in proposito G. LANDUCCI, La psicologia in Bernardino Varisco, in Bernardino Varisco e la cultura filosofica italiana tra positivismo e idealismo, cit., pp. 90-91 e P. GUARNIERI, Il morale e il normale: sull’antideterminismo di Francesco De Sarlo, «Rivista di filosofia», LXXV, 1984, pp. 251-271.

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Eppure il 1905 è anche l’anno in cui Varisco avvia la revisione del positivismo precedentemente professato, lungo un tragitto che egli stesso ebbe poi l’onestà di rendere pubblico nel libro su I massimi problemi, in cui la ‘conversione’ veniva ormai presentata come un fatto compiuto: in breve, la «concezione meccanica della realtà» sostenuta in Scienza e opinioni, per quanto non definitiva e non dotata di valore metafisico, aveva comportato il rischio di mettere «capo a uno schietto materialismo» e la strada battuta andava pertanto abbandonata33. Tuttavia già nell’articolo dedicato alla Fine del positivismo uscito sulla «Rivista Filosofica» di Cantoni nel 1905 Varisco aveva cercato di mettere in chiaro – reagendo a ciò che aveva sostenuto sulla «Critica» Benedetto Croce – in che senso il positivismo fosse ‘finito’: se con questo si intendeva ignorare il significato della scienza e far finta che essa non fosse «gran parte della vita, sicché la si assorbe quasi con l’aria che si respira», allora non solo Croce si era sbagliato, ma il positivismo non era affatto morto; se invece si voleva ancora sostenere che le scienze possono sostituire la filosofia e che a quest’ultima non spetta il compito cruciale di affrontare «le questioni relative alla nostra facoltà di conoscere», ebbene in questo caso come non concedere che il positivismo aveva fatto il suo tempo?34 Era l’inizio, appunto, di una lenta revisione, sofferta e solitaria, che avrebbe portato Varisco a mettere in questione quella stessa indagine prima invocata sulla «facoltà di conoscere», per aprirsi a una dimensione schiettamente coscienzialistica e monadistica memore di Bonatelli e di Lotze, sino a sconfessare in maniera molto netta la propria appartenenza al positivismo («l’essere il mio nome scritto sul registro dei positivisti, può far credere approvata da me una dottrina che mi sembra, e m’è sembrata sempre, assurda»). Centrale diveniva così la questione del soggetto individuale, minacciato dal larvato materialismo dei poPer le critiche al determinismo psicologico e al «meccanismo psichico» varischiano cfr. Lettere a Bernardino Varisco, cit., pp. 94, 138, nonché la lettera di Enriques a Vailati del 20 aprile 1902 compresa in G. VAILATI, Epistolario, cit., p. 577 (e vedi sopra, cap. 7, p. 230). 33 Cfr. B. VARISCO, I massimi problemi, cit., p. 247. 34 Cfr. B. VARISCO, La fine del positivismo, cit., pp. 327-328 (con riferimento alla nota crociana A proposito del positivismo italiano. Ricordi personali, poi in Cultura e vita morale, cit., pp. 41-46).

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sitivisti e dal solipsismo dei nuovi apostoli dell’idealismo postkantiano; ma al tempo stesso si trattava di rivedere la precedente professione di empirismo, rea anch’essa di un’assurdità: supporre cioè che l’irrazionalità dell’accadere si ordini da sé nella coscienza del soggetto, quasi che questo divenga razionale solo a posteriori e come per caso35. Per contro, i soggetti concreti ovvero i centri di spontaneità spirituale garantiscono una «logica» dell’accadere, pur senza azzerare un indispensabile margine di indeterminismo o la sfera irriducibile del sentimento; ed è a partire da questa visione policentrica che Varisco tornava a porsi la domanda di sempre, vale a dire se la nozione di Dio non fosse solo un’«opinione», ma un concetto filosoficamente fondato nella pluralità degli esseri spirituali come estrema loro unificazione: era questo il «massimo problema» per eccellenza, intorno al quale le soluzioni teistiche e quelle panteistiche ancora si contendevano il primato36.

3. A metà del suo cammino verso i Massimi problemi, Varisco si incontrò non accidentalmente con la rivista fiorentina di De Sarlo, alla quale collaborò più intensamente nei primi anni per poi allontanarsene, non senza tensioni e contrasti, intorno al 1912. Il pensatore transfuga dal positivismo di Scienza e opinioni pose per la prima volta la propria firma sulla «Cultura Filosofica» in calce a un ampio articolo dedicato ai rapporti tra matematica e teoria della conoscenza, che apparve in due puntate già nella prima annata37. Richiamandosi a Poincaré, a Russell e a Couturat, Varisco affrontava il problema della natura e del valore della matematica, sottolineando come il carattere astratto e la dipendenza da proposizioni che vengono poste convenzionalmente non im35

Cfr. I massimi problemi, cit., pp. 250, 256. Ivi, pp. 185-225. Sulla monadologia coscienzialista di Varisco cfr. P.C. DRAGO, La filosofia di Bernardino Varisco, Firenze, Sansoni 1944, pp. 23147. 37 Cfr. B. VARISCO, Matematica e teoria della conoscenza, «La Cultura Filosofica», I, 1907, pp. 150-157, 206-213. Su questi temi Varisco tornava anche nella relazione al congresso parmense della Società Filosofica Italiana (cfr. Conseguenze gnoseologiche della logica matematica, in AA.VV., Questioni filosofiche, cit., pp. 67-79). 36

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plicassero la svalutazione della sua portata conoscitiva (come sosteneva invece Croce). Tuttavia occorreva anche mettere in guardia dalla tentazione opposta, ossia dall’identificare la matematica con «la cognizione del mondo», giacché non solo sarebbe fuorviante attribuire a una sola disciplina la conoscenza della realtà (e qui a dire il vero non si capisce chi potesse essere oggetto di una simile critica), ma in generale non esiste una «scienza» definitiva della realtà. Sotto un altro riguardo, però, Varisco intendeva chiarire donde derivasse la «necessità logica» che regola il passaggio dalle premesse date alle conseguenze: non trattandosi esclusivamente di uno svolgimento analitico né di una semplice tautologia, occorreva mettere a fuoco la sintesi a priori operata dal pensiero senza per questo sposare la posizione di Kant. Anche se a priori, la matematica è infatti una cognizione propria del soggetto concreto e dunque della sua esperienza; la dimostrazione di un teorema non può pertanto andare disgiunta dalla specifica attività della mente che la compie: se i procedimenti della matematica hanno un carattere operativo che costituisce il senso della sintesi, si può dire che la ricerca matematica è comunque connessa all’esperienza del soggetto (alle sue «modificazioni») e la sua fecondità va appunto colta nel suo processo di «formazione»38. Ecco perché, avrebbe spiegato Varisco l’anno successivo sempre sulle pagine della «Cultura Filosofica», occorre non ridurre la matematica a un semplice tessuto di convenzioni o di inferenze formali giustificabili con oscure ‘capacità sintetiche’ dello spirito: la matematica è un edificio costruito su basi ben più solide, grazie a un costante rinvio all’esperienza con cui l’uomo crea le condizioni perché possano svilupparsi l’aritmetica e la geometria, che hanno ragione di essere solo in quanto sono in-

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Matematica e teoria della conoscenza, cit., p. 155. Cfr. pure p. 152: «La dimostrazione del teorema è un procedimento diretto a darmi la cognizione del teorema, e la certezza della sua verità; vale a dire, a produrre nel mio spirito una data modificazione. E che si compie per via di successive analoghe (minori) modificazioni del mio spirito: che si risolve (consiste) in questa serie di modificazioni. Chi dice procedimento, dice accadere. La dimostrazione si svolge in un tempo; presenta delle difficoltà che per essere superate richiedono attenzione e riflessione (esercitate ora su questa, ora su quella cosa); richiedono uno sforzo vario da uomo a uomo e in uno stesso uomo secondo le circostanze; uno sforzo, che stanca».

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terpretabili. «S’incontrano in matematica – concludeva Varisco – delle proposizioni, che di certo sono vere, che non sono convenzioni, e che la matematica non può dimostrare. Su che fondamento si ammettono? Sul fondamento di cognizioni anteriori alla matematica, e che la matematica si propone di sistemare, e successivamente di sviluppare»39. Per un filosofo che si era guadagnato una certa fama come cultore delle scienze e studioso di matematica si trattava in verità di riflessioni piuttosto modeste. Varisco aveva sì il merito di confrontarsi con il convenzionalismo di Poincaré o il logicismo di Russell, e per questo sembrava particolarmente adatto a erigere barriere che arginassero la ‘reazione idealistica contro la scienza’ a cui Aliotta, nel 1912, avrebbe dedicato un libro famoso; ma la consistenza delle sue tesi gnoseologiche e la sua maniera di affrontare aspetti cruciali della filosofia della matematica contemporanea lasciano spazio a più di un legittimo dubbio40. In realtà l’attenzione per la «cognizione», per l’esperienza del soggetto concreto, per le forme del pensiero che sono sempre saldate a una materia empirica e si ‘modificano’ in connessione con essa tradivano ben altri interessi e già preludevano alle minuziose indagini svolte di lì a poco nei Massimi problemi41. Ciò non toglie che, per quanto ormai avviato al suo «laborioso soliloquio» (come lo chiamerà Gentile), sulla «Cultura Filosofica» Varisco continuasse a impegnarsi nel confronto con alcune delle figure più eminenti del pensiero filosofico europeo. Egli fu tra i pochi, ad esempio, a discutere la Logik der reinen Erkenntnis di Hermann Cohen, al quale mosse l’obiezione di trascurare che il pensiero puro non può ricavare da se stesso il dato, poiché il dato – o, come diceva Varisco, l’«accadere» – non è derivabile dalla forma, ma è una materia senza la quale la purezza delle strutture tra39

B. VARISCO, L’induzione matematica, «La Cultura Filosofica», II, 1908, p. 298. 40 Va notato peraltro che Aliotta avrebbe citato i contributi di Varisco di cui si è detto, per suffragare la tesi secondo cui la ‘logistica’ contemporanea non è in grado di eliminare la sintesi e la dissimula piuttosto «nelle definizioni e nei principî iniziali» (La reazione idealistica contro la scienza, cit., pp. 491 e 492 n. 1). 41 Cfr. in particolare La sensazione, «La Cultura Filosofica», II, 1908, pp. 526-539, che anticipa l’omonimo capitolo dei Massimi problemi, cit., pp. 27-52.

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scendentali della ragione non potrebbe mai dare vita a una scienza «vera»42. Erano riserve consone alle posizioni di De Sarlo e dei suoi collaboratori, tanto che Aliotta – prendendo a sua volta in esame l’opera di Cohen alcuni anni dopo – si sarebbe rifatto alle pagine di Varisco e ne avrebbe citato con favore la tesi secondo la quale l’idea non è un ragno che tragga dal suo corpo la ragnatela delle determinazioni della realtà43. Ma Varisco rivolgeva la sua attenzione anche alla filosofia italiana e non è certo un caso che proprio sulla «Cultura Filosofica» egli recensisse la Filosofia della pratica di Croce44. Abbastanza prevedibilmente Varisco rimproverava qui a Croce di disconoscere il ruolo e l’importanza del sentimento nella vita pratica: che lo spirito sia uno, egli osservava, non pare dubbio e «sembra questione di lana caprina» stabilire se le sue forme siano due oppure tre; ma se è vero che la distinzione tra forma teoretica e forma pratica ha un senso, non si vede perché non sia legittimo riconoscere nello spirito pratico «un’attività, sorgente delle variazioni; e un sentimento che realizza per il soggetto il valore di queste variazioni, e senza di che le variazioni mancherebbero di ogni costrutto e d’ogni senso». Non solo, dunque, la forma pratica distinta dalla teoretica, ma anche il sentimento deve essere accolto come costitutivo della vita dello spirito; la svalutazione crociana muove invece dall’errato presupposto che il sentimento sia transitorio e non rientri pertanto nell’eterno immanente alle cose variabili. Ma, concludeva Varisco, l’eterno è essenziale alle cose perché queste lo sono all’eterno: «l’esserci dei particolari transitori è precisamente la condizione sine qua non, perché l’Eterno di cui parliamo si realizzi e valga». Nonostante il tono pacato con cui era condotto l’esame della Filosofia della pratica, Croce non era certo un filosofo congeniale a un pensatore come Varisco, tutto assorto nel «gran problema dell’essere» che lo stesso Croce avrebbe poi dichiarato di aver definitivamente sepolto insieme alla tradizionale figura del «Filo-

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Con il titolo L’Apriori e la Scienza l’articolo su Cohen compare nella «Cultura Filosofica», II, 1908, pp. 193-203. 43 Cfr. A. ALIOTTA, La reazione idealistica contro la scienza, cit., pp. 376386. 44 Si veda «La Cultura Filosofica», IV, 1910, pp. 428-433.

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sofo»45. D’altronde era stato proprio Croce a esortare Giovanni Amendola ad archiviare i massimi problemi «che non esistono» e a lasciare il «povero Varisco» in compagnia di quanti si arrovellavano inutilmente sul mondo di là. Al che Amendola, ben altrimenti disposto nei confronti di Varisco e della posizione che egli aveva assunto nella polemica sull’idealismo immanentistico ulteriormente alimentata dalla querelle sul modernismo, aveva risposto osservando che «sul mondo di qua […] oltre ai guerrieri, ai poeti, ai filosofi, agli scienziati, etc. ci sono anche gli uomini religiosi – ed il filosofo deve tener conto anche di questa realtà e spiegarla»46. Come se non bastasse, proprio Amendola aveva recensito sulle pagine della rivista dei modernisti tanto la Filosofia della pratica crociana quanto I massimi problemi di Varisco: alla presa di distanza da Croce aveva fatto così da contraltare una spiccata simpatia per il recente percorso varischiano, originato dalla «vertigine dell’errore» che sempre suscita l’intellettualismo e sfociato infine in una «fusione concreta» di «verità e vita», tesa alla ricerca dei «massimi problemi» partendo dall’analisi del «fatto conoscitivo secondo le vedute più essenziali alla filosofia dell’immanenza»47. Nel volgere di breve tempo, tra le pagine del «Rinnovamento» e quelle della «Cultura Filosofica», De Sarlo e Varisco, Croce e Amendola, ma in fondo anche Aliotta e Gentile si trovavano dunque coinvolti in una discussione serratissima, in 45

Cfr. B. CROCE, Ultimi saggi, cit., pp. 395-400. Già nel 1908, in una breve nota apparsa sulla «Critica» con il titolo Aegri somnia, Croce aveva dichiarato di non avere «né il tempo né la voglia» di discutere le idee di Varisco, per le quali rinviava a quanto ne avrebbe scritto il «mio collaboratore Gentile» (cfr. Pagine sparse, cit., pp. 267-268). 46 Cfr. la lettera di Croce ad Amendola del 4 settembre 1909 e la risposta di Amendola nella lettera del 28 settembre dello stesso anno pubblicate in Carteggio Croce-Amendola, a c. di R. Pertici, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici 1982, p. 49. 47 La recensione di Amendola apparve sul «Rinnovamento», III, 1909, pp. 91-100 (e pp. 325-341 per la recensione a Croce, intitolata significativamente Ethica metodo philosophico demonstrata). Alle convergenze con Varisco sul comune fronte antihegeliano Amendola accennava anche nel suo articolo su La philosophie italienne contemporaine, «Revue de Métaphysique et de Morale», XVI, 1908, p. 654. Ma sull’«ottimo e valente» Varisco si veda pure la lettera di Amendola a Papini del 23 luglio 1909 pubblicata in E. KÜHN AMENDOLA, Vita con Giovanni Amendola, Firenze, Parenti 19612, p. 189.

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cui la brusca polemica immediata si sovrapponeva a scelte di campo più impegnative sotto il profilo strettamente filosofico. In effetti, anche a prescindere dal recente urto tra De Sarlo e i neoidealisti che certo era presente alla mente di Varisco al momento di redigere la sua recensione del libro di Croce, non vi è dubbio che per i collaboratori della «Cultura Filosofica» il termine di riferimento non potesse essere l’eredità dell’hegelismo; e anzi proprio Varisco poteva vantare a questo riguardo non solo la dura polemica con Gentile, nel 1902, a proposito della pubblicazione degli scritti dell’hegeliano Spaventa48, ma pure l’appartenenza a una ‘tradizione’ di pensiero che aveva origine in Francesco Bonatelli e nelle sue sottili ricerche condotte sul terreno di confine tra psicologia e gnoseologia. Proprio per questo, in una lettera da Firenze del 20 marzo 1910, De Sarlo informava Varisco del proposito di rendere omaggio all’opera di Bonatelli in occasione dell’ottantesimo compleanno e chiedeva al filosofo di Chiari di contribuire a un’iniziativa che voleva attestare la riconoscenza nei confronti di un pensatore la cui voce risuonava ancora ben viva tra i collaboratori della «Cultura Filosofica» (alla quale del resto Bonatelli collaborò in più di un’occasione)49. Varisco, naturalmente, non ebbe esitazioni ad accettare la proposta di scrivere un breve saggio per il fascicolo della «Cultura Filosofica» dedicato a colui che era stato (anche in virtù dei vincoli di parentela) il suo primo ‘maestro’ in filosofia, sebbene un maestro che aveva guardato con sospetto e con una certa delusione al positivismo 48

Cfr. B. VARISCO, Razionalismo ed empirismo, «Rivista di filosofia, pedagogia e scienze affini», IV, 1902, vol. I, pp. 298-315, a cui erano seguite la replica di Gentile con l’articolo Filosofia ed empirismo e l’ulteriore risposta di Varisco intitolata Per la critica (ivi, vol. I, pp. 588-604 e vol. II, pp. 377-399). Si veda anche quanto se ne è detto in Lettere a Bernardino Varisco, cit., pp. 195-196. 49 Cfr. Lettere a Bernardino Varisco, cit., p. 240. La rivista dedicò a Bonatelli il secondo fascicolo del 1910 (cfr. «La Cultura Filosofica», IV, 1910, pp. 98-160, con contributi di Franceschini, Aliotta, Calò, Losacco, oltre che di Varisco e De Sarlo). In precedenza lo stesso De Sarlo aveva dedicato a Bonatelli un ampio saggio apparso nel 1900 sulla «Rassegna Nazionale», poi rifuso in F. DE SARLO, Filosofi del nostro tempo. Ombre e figure, Firenze, «La Cultura Filosofica» Editrice 1916, pp. 215-239. Sulla figura di Bonatelli cfr. G. LANDUCCI, La struttura del pensare in Francesco Bonatelli, in AA.VV., Figure del pensiero italiano contemporaneo, a c. di R. Crippa, Brescia, Tip. Geroldi 1982, pp. 85-130.

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elaborato dal nipote in Scienza e opinioni50. Ma ora, prendendo in esame il problema del rapporto soggetto-oggetto alla luce dell’elaborazione gnoseologica di Bonatelli, Varisco metteva in luce come tale rapporto fosse caratterizzato da un lato dalla permanenza del soggetto di fronte all’oggetto, e dall’altro dalla modificazione attraverso cui l’oggetto si manifesta al soggetto, alterandone la sua permanenza. Si tratta di una tensione che può risolversi solo collocando i due momenti su piani distinti, giacché «l’avvertire non è che un primo passo della cognizione», al quale succede poi uno stadio superiore. Il merito di Bonatelli era dunque tutto qui: nell’aver posto con chiarezza i termini del problema, aprendo la strada a una ricerca che lo stesso Varisco aveva intrapreso e che, con maggiore ampiezza, era documentata dai Massimi problemi51. Il richiamo a Bonatelli nell’anno in cui usciva il libro della ‘revisione’ varischiana non può certo stupire. Esaurita la fase positivistica, Varisco sembrava riavvicinarsi alle tematiche care a Bonatelli recuperando in particolare la centralità della coscienza, di cui occorreva indagare ‘fenomenologicamente’ i diversi momenti, per studiare il rapporto tra la realtà e il soggetto che fa sua la realtà inglobandola in se stesso, o meglio che riconosce in se stesso l’orizzonte dell’universo e si rende consapevole di sé per comprendere la realtà52. Così, mentre tornava in primo piano la lezione di Bonatelli, si ponevano anche le basi per una discussione più serrata con De Sarlo, il quale – in un momento in cui la querelle sul modernismo e la disputa con Croce e Gentile lo faceva sentire particolarmente vicino a Varisco – si rallegrò espressa50 Sui rapprti tra Varisco e Bonatelli rimandiamo a quanto se ne è detto in Lettere a Bernardino Varisco, cit., pp. 47-50 (e si veda p. 72 per la lettera del 12 ottobre 1901 in cui Bonatelli si dice «amareggiato» delle conclusioni filosofiche cui era pervenuto Varisco). 51 Cfr. B. VARISCO, Appunti di gnoseologia, «La Cultura Filosofica», IV, 1910, pp. 119-126 (qui p. 123). Di Varisco si veda pure la successiva commemorazione di Bonatelli, ove spicca un passo che fu senz’altro apprezzato da De Sarlo: «il presupposto kantiano […] che l’uomo non sia quale apparisce a se stesso, che tra il suo apparire a se stesso, e il suo esserci, corra un divario essenziale irriducibile; un tale presupposto fu, dalla critica bonatelliana, vittoriosamente confutato e dimostrato assurdo» (Francesco Bonatelli, Chiari, Tip. Rivetti 1912, p. 12). 52 Cfr. I massimi problemi, cit., p. 90.

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mente della ‘svolta’ dei Massimi problemi e ne individuò il pregio maggiore nella concezione «essenzialmente d’intonazione spiritualistica» della vita psichica53. Tuttavia a un esame più attento dovevano insorgere perplessità piuttosto marcate, che finirono per incrinare, anziché consolidare, i rapporti tra Varisco e la «Cultura Filosofica». Il primo a entrare nel merito del nuovo libro di Varisco fu Aliotta, il quale nonostante la simpatia e persino l’ammirazione per il suo percorso filosofico, non poté fare a meno di sottolineare due gravi limiti. In primo luogo, benché Varisco avesse superato la concezione deterministica sostenuta in precedenza, non era riuscito a evitare le difficoltà di una soluzione gnoseologica difficilmente sostenibile: fondare la realtà del mondo esterno sulla permanenza dei «sensibili» significava infatti attribuire a qualità necessariamente relative e variabili, che sono affidate alla costituzione specifica dell’individuo, un ruolo che spetta invece al pensiero. Una qualità come il colore non è un sensibile, ma un «pensabile»; e proprio per questo si può affermare che la realtà è in continuo mutamento e in spontanea attività: perché cangiante e mutevole è il mondo dell’esperienza sensibile, mentre stabile e oggettiva è la realtà elaborata dal pensiero. Rovesciando i termini del problema Varisco era invece caduto nella fantasiosa ipotesi di considerare la realtà come un complesso di fatti di coscienza, abbandonando il terreno gnoseologico per avventurarsi su quello propriamente metafisico. Ma non basta: nei Massimi problemi, incalzava Aliotta, emergeva un’esitazione ingiustificata nei confronti del teismo, vale a dire intorno a una questione che può benissimo essere im53 Cfr. la lettera di De Sarlo a Varisco del 7 ottobre 1909, piena di fervida simpatia per il filosofo di Chiari, pubblicata in Lettere a Bernardino Varisco, cit., p. 239. De Sarlo aveva manifestato la propria solidarietà a Varisco in occasione della contesa che quest’ultimo aveva condotto con Gentile sulla colonne del «Rinnovamento» modernista nell’autunno precedente: «Ho bisogno di dirle che sono perfettamente d’accordo con Lei e che il tono delle sue risposte mi pare indovinatissimo?», gli scriveva il 20 novembre 1908; e nell’aprile del 1909, in attesa dei Massimi problemi, De Sarlo scriveva a Varisco: «M’inganno, o Ella assurge ora ad una concezione metafisica molto lontana da quella abbozzata nel volume Scienza e opinioni?» (ivi, pp. 237, 239). L’attenzione con cui il gruppo di De Sarlo seguiva l’evoluzione del pensiero di Varisco è attestata anche dalla recensione dei Massimi problemi scritta da Giovanni Calò per «Il Marzocco», XV, n. 17, 24 aprile 1910, pp. 3-4.

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postata sulla base di argomenti plausibili, sebbene non rigorosi; e lo indicava senza ombra di dubbio la considerazione che l’Essere, ammesso non sia solo razionalità ma anche attività, «cade necessariamente fuori degli spiriti e degli enti finiti ed è perciò trascendente, come il contenuto interiore della mia vita soggettiva è trascendente rispetto all’unità di coscienza delle altre monadi»54. La replica di Varisco non si fece attendere e il fascicolo successivo della «Cultura Filosofica» esibiva ancora una volta la sua firma, accompagnata però da un breve corsivo di De Sarlo nel quale veniva espresso – si noti – un consenso sostanziale con le obiezioni di Aliotta. Per parte sua Varisco non aveva ragione di modificare i propri convincimenti e rimproverava ad Aliotta di aver semplificato eccessivamente la teorica dei «sensibili», i quali formano sempre un insieme connesso e autorizzano perciò a sostenere che la realtà è costituita dal «sistema» di ciò che è percepito. Quanto poi al problema dell’Essere e del teismo, bisognava intendersi: una volta riconosciuto che l’argomentazione filosofica è per sua natura razionalmente giustificabile, occorre ammettere francamente che non è chiaro se la spontaneità dell’Essere sia deducibile dalla spontaneità delle monadi; e finché sussiste un simile limite nella costruzione delle nostre prove razionali non si può fare a meno di riconoscere che manca un’argomentazione filosofica conclusiva a favore del teismo55. Tutta la discussione, nei suoi risvolti più sobri come nelle sue 54

La recensione di Aliotta si legge sulla «Cultura Filosofica», III, 1909, pp. 556-563 (qui p. 563). Ma Aliotta aveva criticato in maniera analoga i Massimi problemi, unitamente alle posizioni gnoseologiche di Martinetti, in una comunicazione al Congresso di Roma della Società Filosofica Italiana, pubblicata con il titolo Sensazione e realtà sulla «Rivista di psicologia applicata», IV, 1910, pp. 215-233. Quanto al teismo di Aliotta occorre vedere l’ampia trattazione svolta nelle sue Linee di una concezione spiritualistica del mondo, «La Cultura Filosofica», VII, 1913, pp. 93-113, 189-213, 360-375. 55 Cfr. B. VARISCO, Sul concetto di realtà, «La Cultura Filosofica», IV, 1910, pp. 60-75. Sulle difficoltà gnoseologiche di Varisco, e sulla sua incapacità di liberarsi dal positivismo iniziale, insisteva (con prospettiva ben diversa da quella di Aliotta) anche Gentile nella sua recensione ai Massimi problemi (apparsa sulla «Critica», VIII, 1910, pp. 222-230, ora in Frammenti di storia della filosofia, cit., pp. 689-701). Varisco rispose ad alcuni dei suoi critici in un’appendice del Conosci te stesso, Milano, Libreria Editrice Milanese 1914, pp. 287-353, ove però non era considerata la recensione di Aliotta e a De Sarlo veniva riservato solo un rapidissimo cenno (p. 342 n. 1).

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innegabili concessioni a un certo arcaismo filosofico, sembrava fatta apposta per appassionare i lettori della rivista di De Sarlo (ma è probabile che in altri ambienti venisse giudicata con distacco o addirittura con sarcasmo). Ciò non toglie che il dissidio segnalasse non solo la frattura tra Varisco e Aliotta, peraltro destinata ad aggravarsi a seguito della recensione varischiana del libro sulla Reazione idealistica contro la scienza, ma pure tra Varisco e il direttore della «Cultura Filosofica»56. Fu con la pubblicazione del Conosci te stesso, infatti, che il limite sottolineato da Aliotta quando aveva contestato a Varisco la commistione di analisi gnoseologica e di costruzione metafisica divenne nuovamente oggetto di discussione; e questa volta fu De Sarlo in persona a misurarsi con il nuovo libro varischiano, in una recensione che in realtà era un lungo articolo volto a mostrare come il tentativo intrapreso da Varisco di erigere sulla base della teoria della conoscenza una vera e propria metafisica fosse attaccabile su un duplice fronte, facendo contestualmente riferimento a un punto di vista latamente ‘neocritico’. Ora, notava De Sarlo, da un lato la teorica varischiana del soggetto che contiene in sé la realtà a livello subconscio e conscio trascura troppo sbrigativamente l’articolazione irriducibile di soggetto e oggetto che è il presupposto stesso della teoria della conoscenza. Pertanto non basta ipotizzare che l’oggetto debba essere in qualche misura già incluso nel soggetto per spiegare come quest’ultimo possa appropriarsi del primo: al contrario, intelligenza e realtà, pensiero e oggetto del pensiero, possibilità e attualità (o se si vuole atto e fatto) sono sempre dimensioni distinte, e proprio in quanto distinte sono la base del processo conoscitivo. D’altro canto, insisteva De Sarlo, la teoria della conoscenza deve assumere la conoscenza come un dato da giustificare nella sua possibilità, ma non può pretendere di assurgere a «spiegazione» della conoscenza in quanto tale; se si 56

Per la recensione di Varisco al libro di Aliotta cfr. «La Cultura», XXXI, n. 3, 1° febbraio 1912, pp. 65-72. Varisco dava qui prova della sua radicale conversione alla causa dell’antipositivismo, al punto da citare Rosmini e Croce per ricordare ad Aliotta che la scienza è fatta solo di «pseudoconcetti». Di qui la replica di Aliotta in una lettera del 9 marzo 1912, ove veniva fatta professione di autentico «razionalismo filosofico» (e non scientifico) contro l’accusa varischiana di perdurante fede positivistica (cfr. Lettere a Bernardino Varisco, cit., pp. 296-298).

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dimentica questo presupposto (di matrice kantiana) si cade inevitabilmente in teorizzazioni di carattere metafisico più o meno credibili sulla natura della realtà o dell’Essere in generale. «La realtà non può essere tratta dalla conoscenza, comunque ogni forma di realtà si riveli attraverso la conoscenza. Proporsi di spiegare la conoscenza è follia. La conoscenza è correlativa della realtà, ecco quello che è lecito asserire»; e se questo è indubbiamente un ‘massimo problema’ – concludeva De Sarlo in maniera inequivocabile – esso è tuttavia destinato a rimanere irrisolto57.

4. Letto con attenzione, l’articolo di De Sarlo non solo offre una sorta di campionario degli strumenti concettuali, di stampo realistico e gnoseologico, che facevano da supporto alla ‘psicologia filosofica’ del gruppo fiorentino, ma al tempo stesso costituisce una sostanziale sconfessione dell’evoluzione del pensiero di Varisco. Se rimaneva viva la simpatia per l’uomo e lo studioso, se le sue preoccupazioni speculative e religiose potevano trovare benevola comprensione, è indubbio però che le parole di De Sarlo rappresentavano l’inizio di una divergenza non più componibile. Non a caso proprio nel 1912 si interrompe la collaborazione di Varisco alla «Cultura Filosofica», nonostante De Sarlo si fosse affrettato a dichiarare di non aver avuto «affatto l’intenzione di fare una critica, ma solo di esprimere alcune idee che mi furono suggerite dall’attenta lettura [del Conosci te stesso]»58. 57

Cfr. F. DE SARLO, Cognizione e realtà, «La Cultura Filosofica», VI, 1912, pp. 277-295. Sulla distinzione posta da De Sarlo tra gnoseologia e metafisica cfr. anche Esame di coscienza, cit., p. 32, nonché G. PONZANO, L’opera filosofica di F. De Sarlo, cit., specie p. 78; ma si veda pure G. DEROSSI, La teoria della conoscenza di Francesco De Sarlo, in Francesco De Sarlo e il laboratorio fiorentino di psicologia, cit., pp. 137-156. Varisco non rispose alle obiezioni di De Sarlo, ma un accenno si può leggere nelle tarde pagine di Dall’uomo a Dio, cit., p. 145 n. 1, in cui Varisco parla dell’«equivoco» di De Sarlo a proposito della riduzione della cognizione a «cognizione astratta». Va aggiunto che già nei Massimi problemi, cit., pp. 16-17 Varisco aveva giudicato «impossibile far la critica del potere conoscitivo», dal momento che ciò non potrebbe che avvenire «per mezzo del potere conoscitivo», generando così un inevitabile circolo vizioso. 58 Lettere a Bernardino Varisco, cit., p. 241 (lettera dell’8 agosto 1912). Va ricordato peraltro che da questo momento in poi si esaurisce pressoché definitivamente lo scambio epistolare tra Varisco e De Sarlo.

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L’ultimo scritto di Varisco era apparso nel primo fascicolo di quell’anno; poi, dopo una recensione ad opera di Mondolfo, nel 1913, del discorso accademico Cultura e scetticismo, il filosofo di Chiari uscì definitivamente dalla scena della rivista fiorentina59. In un ambiente che pure lo aveva accolto con favore subentravano ora troppe ragioni di dissenso; e Varisco, uomo suscettibile anche se mai irruentemente polemico, preferì – come era nel suo stile – farsi tacitamente da parte. Il suo pensiero tradiva ormai un’esigenza sempre più ‘teologica’, sempre più chiusa nel problema che costituiva l’unico interesse fondamentale della sua vita filosofica: la ricerca di Dio e l’ostinato sforzo per offrire una giustificazione razionale – come aveva precisato ad Aliotta – del teismo. Per De Sarlo, invece, i «massimi problemi» si ritiravano sempre più sullo sfondo, mentre vivissima si delineava l’esigenza opposta, di una filosofia ‘positiva’, di un lavoro criticamente impostato e diffidente degli Assoluti che insidiano la concreta attività del pensiero. Ed è probabilmente pensando proprio a Varisco che molti anni più tardi De Sarlo sottolineerà come, pur non potendosi escludere «che nell’ambito della scienza filosofica entri anche la discussione di quelli che si è convenuto chiamare massimi problemi e che formano il contenuto della metafisica presa in senso stretto, come la formano della religione», nondimeno tale discussione vada posta in secondo piano: «non è nella discussione di tali questioni che s’assolve o si può assolvere il principale compito del filosofo»60. Via via che si allontanava nel tempo il sodalizio maturato nel primo decennio del Novecento, tra De Sarlo e Varisco si scavava una distanza sempre più vistosa e, soprattutto dopo il conflitto mondiale, lo spazio per un progetto filosofico congiunto si riduceva ai minimi termini: ben diversamente da quanto era avvenuto ancora nel 1910, quando De Sarlo dedicava a Varisco un articolo sul problema dell’immortalità61.

59

Cfr. B. VARISCO, La possibilità dei fenomeni, «La Cultura Filosofica», IV, 1912, pp. 51-67 (ove Varisco ritorna sul tema a lui caro della «necessità logica» e delle sue implicazioni metafisiche). Per la recensione di Mondolfo cui si è accennato cfr. «La Cultura Filosofica», VII, 1913, pp. 184-185. 60 Esame di coscienza, cit., p. 61. 61 Cfr. F. DE SARLO, Il problema dell’Immortalità, «La Cultura Filosofica», IV, 1910, pp. 161-183, dove, a partire dalla peculiare «sostanzialità» del-

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Naturalmente si potrebbe sostenere che De Sarlo e Varisco continuavano a condividere l’opposizione nei confronti del neoidealismo e, segnatamente, nei confronti dell’attualismo gentiliano: con il quale entrambi, negli anni Venti, condurranno un’insistita polemica filosofica (ma Varisco, a differenza di De Sarlo, non si misurò in maniera significativa con la filosofia crociana). Eppure anche in questo caso occorre non lasciarsi sfuggire differenze vistose, più ancora nelle premesse che negli esiti conclusivi. Se la polemica di Varisco con l’Atto puro di Gentile è tutta incentrata sulla difesa della trascendenza e del soggetto concreto, così come sul pericolo mortale del solipsismo, e se tale polemica in ogni caso non esclude un sostanziale riavvicinamento sul piano politico nel clima infuocato del primo dopoguerra62, l’opposizione di De Sarlo nelle sue Lettere filosofiche di un «superato» del 1925 appare diversamente motivata. Nel denunciare l’«aberrazione» e gli «arzigogoli» dell’attualismo gentiliano De Sarlo in realtà metteva in campo argomenti solidamente legati all’impianto della sua indagine psicologica orientata in senso spiritualistico, che attingeva a Brentano e in parte a Husserl per affrontare la questione a cui, paradossalmente, Gentile non aveva dato risposta («non s’è mai curato di dire per quale via egli è giunto a formarsi il concetto d’atto, di pensiero»)63. «Aver coscienza – notava significativamente De Sarlo – è aver coscienza di qualcosa; il qualcosa indica appunto l’oggetto in quanto termine dell’attività del soggetto […] L’oggetto indica soltanto il punto di mira necessario, perché possa esser dispiegata una certa funzione del soggetto (rapporto “intenzionale”)»64. Nonostante tutto, era un linguaggio diverso l’Io, che è solo un centro irriducibile e non localizzabile spazialmente, è tentata una sorta di ‘prova morale’ del teismo. 62 Su questo punto si rimanda a quanto se ne è già detto nel cap. 8, pp. 273-274. 63 F. DE SARLO, Gentile e Croce. Lettere filosofiche di un «superato», Firenze, Le Monnier 1925, pp. 25, 162, 198. Sul fatto che gli idealisti avessero una nozione «astratta» di soggetto e trascurassero totalmente «il soggetto delle determinazioni psichiche quali sono apprese per mezzo della percezione interna» De Sarlo insisteva anche nella Introduzione alla filosofia, MilanoGenova-Roma-Napoli, Società Editrice Dante Alighieri 1928, p. 202 (il libro, è bene sottolinearlo, era dedicato «alla memoria di Francesco Brentano»). 64 F. DE SARLO, Gentile e Croce, cit., p. 155. Sul libro di De Sarlo cfr. A. SANTUCCI, Francesco De Sarlo e le lettere filosofiche di un «superato», in

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da quello del ‘teismo’ di Varisco; e non sembra un caso, in effetti, che mentre l’ultima battaglia di De Sarlo contro il neoidealismo contribuì ad accrescerne l’isolamento, il percorso finale di Varisco finì invece per incrociarsi con certe preoccupazioni tipiche della ‘destra’ gentiliana e delle ‘revisioni attualistiche’ che già si collocavano in un clima ‘preesistenzialistico’65. Sin dal 1915, del resto, la guerra italiana e mondiale aveva imposto a ciascuno di assumersi le proprie responsabilità. Mentre Varisco aveva chiesto che l’Italia, partecipando al conflitto, divenisse finalmente maggiorenne, De Sarlo discutendo il concetto di nazione si era augurato per parte sua che il «cruento lavacro» fosse portatore di una nuova epoca della civiltà europea: nella differenza dei toni, e nella convinta fede nazionalistica di Varisco, sembrava già profilarsi un modo diverso di giudicare la storia in atto, destinato ad acuirsi irreparabilmente di fronte all’avvento del fascismo66. Nel 1917 «La Cultura Filosofica» chiudeva temporaneamente, promettendosi di riprendere non appena fossero cessate «le condizioni eccezionali del momento» e lasciando l’ultima parola a una recensione di Lamanna, in cui spiccavano con tinte fosche la condanna del sanguinario germanesimo anticristiano alimentato dal prussianesimo di Hegel e dal ribellismo malato di Schiller67. Tuttavia al termine della catastrofe bellica Francesco De Sarlo e il laboratorio fiorentino di psicologia, cit., pp. 107-135 (ora anche in Ricerche sul pensiero italiano tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 161-183). 65 Cfr. G. CALABRÒ, Varisco e Gentile, cit., pp. 249-250 e A. NEGRI, Giovanni Gentile. 2/Sviluppi e incidenza dell’attualismo, Firenze, La Nuova Italia 1975, p. 89. Sui meriti della «critica idealistica» (e dello stessso Gentile) Varisco insisterà espressamente nel Sommario di filosofia, cit., pp. 9, 51. 66 Cfr. B. VARISCO, Disciplina nazionale, poi in Discorsi politici, Roma, De Alberti 1926, pp. 125-137 (è il testo di una conferenza del 23 gennaio 1915) e F. DE S ARLO, Lo Spirito Nazionale, «La Cultura Filosofica», IX, 1915, pp. 193-212. Da ricordare sono anche le considerazioni che De Sarlo svolge nello stesso anno a proposito del carattere fondamentalmente ‘cosmopolita’ della filosofia, seppure spezzando una lancia a favore dell’autorevolezza della tradizione filosofica italiana e della sua capacità di «rispecchiare il genio nazionale» (cfr. Filosofi del nostro tempo, cit., pp. VIIXV). 67 Per la recensione di Lamanna al libro di G.H. Herron su La minaccia della pace germanica cfr. «La Cultura Filosofica», XI, 1917, pp. 362-364 (nello stesso fascicolo, in copertina, si legge l’annuncio della temporanea chiusura e l’intento di riprendere a guerra finita).

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non solo «La Cultura Filosofica» non avrebbe proseguito la sua strada, ma il «lavacro» di cui aveva parlato De Sarlo si sarebbe rivelato in tutte le sue drammatiche conseguenze. E in questo senso sembra davvero emblematico che l’ultima divergenza tra Varisco e De Sarlo venisse a cadere non più sul terreno propriamente filosofico, bensì su quello politico: nel corso del famoso Congresso Nazionale di Filosofia del 1926, in cui Varisco definì la libertà sinonimo di «perversione» e «sconclusionatezza», mentre contro di lui, per difendere la libertà calpestata e richiamandosi a Kant, ai principi dell’89 e al Mill di On Liberty, si levò la voce di De Sarlo: nella speranza che la parola «che può apparir vana in un certo momento» potesse fare come il seme «sepolto sotto la neve, […] che aspetta la primavera per poter germogliare»68. In realtà quella «primavera» era molto lontana, e nulla più lo lasciava presagire del duro commento di Gentile, ammirato della «salda struttura speculativa» del discorso «del venerando Varisco» e irritato invece dai «luoghi comuni più abusati» a cui aveva fatto ricorso De Sarlo, troppo pronto a inchinarsi di fronte alla «dea Libertà»69.

68

Cfr. B. VARISCO, Idea dello Stato, in Discorsi politici, cit., pp. 9-39 e F. DE SARLO, L’alta cultura e la libertà. Discorso tenuto al Congresso Nazionale di Filosofia di Milano nel 1926, Firenze, Le Monnier 1947, p. 45. Sugli echi suscitati dal discorso di De Sarlo cfr. G. CHIOSSO, Libertà e religione nel Congresso di Filosofia di Milano (1926), cit., pp. 253-263. 69 G. GENTILE, Il Congresso filosofico di Milano, cit., p. 295: «Discorso [quello di De Sarlo] che fu un tessuto di luoghi comuni dei più abusati, dei più logori, che pure si dice abbian fatto andare in visibilio gli ascoltatori, in lode della dea Scienza, della dea Libertà, degli immortali Principii, dei sacri Diritti dell’individuo, della Libertà del pensiero, e altre simili novità, che ormai non solo i fascisti, ma tutti (dico tutti) gli uomini colti ritengono scimunitaggini».

10 PIERO MARTINETTI INTERPRETE DI KANT E DI HEGEL 1. Tra le non molte recensioni che fecero seguito alla pubblicazione dell’Introduzione alla metafisica di Piero Martinetti, la più significativa è senza dubbio quella stesa da Giovanni Gentile per la «Critica» crociana1. Per quanto animato da sincera ammirazione per lo «spirito fraterno» di Martinetti, anche lui partecipe della grande verità dell’idealismo secondo cui «lo spirito è il reale», Gentile non lesinava le critiche all’opera del filosofo canavesano, individuandone il limite principale nell’adesione all’idealismo immanente di Wilhelm Schuppe che, secondo Gentile, rimaneva impigliato nella difficoltà di radicarsi da un lato nella coscienza sensibile e di elevarsi, dall’altro, alla coscienza assoluta senza risolvere la dualità tra soggetto e oggetto2. Ma al tempo stesso Gentile sottolineava negativamente la valutazione di Kant e di Hegel espressa da Martinetti, gli unici due autori che in qualche modo potevano costituire un terreno di discussione comune (e non certo Schopenhauer, Wundt, Paulsen o il dimenticato Africano Spir); e anche qui Gentile prendeva ampiamente le distanze, sia perché Martinetti aveva travisato il pensiero kantiano interpretandolo come realismo e non come idealismo trascendentale, sia perché il suo confronto con Hegel si era limitato a riprendere le critiche di Adolf Trendelenburg al metodo dialetti-

1

La recensione, uscita sulla «Critica», III, 1905, pp. 20-34, è ristampata nei Frammenti di storia della filosofia, cit., pp. 515-533 (da cui si cita). Cfr. inoltre la presentazione di Giovanni Vidari sulla «Rivista Filosofica», VII, 1905, pp. 114-120. 2 Cfr. G. GENTILE, Frammenti di storia della filosofia, cit., pp. 515, 529531, 533.

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co, magari rafforzandole sulla base dei modesti scritti «dell’ottimo prof. Allievo»3. Si può certo discutere in qual misura le obiezioni gentiliane cogliessero nel segno, ma è senz’altro vero che nella Introduzione alla metafisica gli autori con cui Martinetti dialoga in profondità sono, più di Hegel e dello stesso Kant, gli esponenti della cultura filosofica e scientifica fiorita in Germania dopo la crisi dell’idealismo ‘classico’ e in concomitanza con la fondazione della psicologia scientifica: per fare solo alcuni nomi, tutti puntualmente e ampiamente presenti nelle pagine di Martinetti, Hermann Lotze e Gustav Fechner, Wilhelm Wundt e Friedrich Paulsen, Ernst Mach e Richard Avenarius, oltre naturalmente a Schopenhauer, che Martinetti aveva letto sin da giovanissimo nei prati di Castellamonte4. Non solo: il modello letterario a cui si ispira la prima grande opera di Martinetti è quello, che tanta fortuna ebbe in Germania a cavallo tra Otto e Novecento, delle «introduzioni alla filosofia», tra cui spiccano in particolare le Einleitungen in die Philosophie di Paulsen e di Wundt che a buon diritto possono

3

Ivi, pp. 519-522, 528 n. 1. Per sua esplicita ammissione, Gentile si limitava a considerare la prima parte dell’opera di Martinetti e sembra quasi che la seconda l’avesse appena scorsa: di qui il tono delle sue riserve, che investono l’analisi della conoscenza sensibile ma non di quella razionale svolta da Martinetti nella sua opera, ove peraltro la posizione di Schuppe è tutt’altro che pedissequamente accolta: cfr. P. MARTINETTI, Introduzione alla metafisica, cit., pp. 174-184 (d’ora innanzi citata con la sigla IM seguita dall’indicazione della pagina). Su questo punto era lo stesso Martinetti a porre l’accento in una lettera a Gentile del 1° febbraio 1905, pubblicata in A. VIGORELLI, Piero Martinetti, cit., p. 390; ma si veda inoltre il tardo articolo La filosofia di G. Schuppe, «Rivista di filosofia», XXVII, 1936, pp. 285-319, poi in P. MARTINETTI, Saggi filosofici e religiosi, cit., pp. 209-238. Va ricordato che l’Introduzione alla metafisica venne discussa, nella filosofia italiana del primo Novecento, soprattutto in relazione al coscienzialismo monadistico di Martinetti; per una diversa prospettiva, volta a sottolineare gli elementi di sistematica razionale, cfr. invece le considerazioni svolte da Antonio Banfi nel 1926 nei Principi di una teoria della ragione, Roma, Editori Riuniti 1967, pp. 302-307 e successivamente nel saggio del 1943 Piero Martinetti e il razionalismo religioso, poi in Filosofi contemporanei, cit., pp. 51-66. 4 Per quest’ultimo aspetto cfr. A. DEL N OCE, Martinetti nella cultura europea, italiana e piemontese, in AA.VV., Giornata martinettiana, Torino, Edizioni di «Filosofia» 1964, p. 71. Sul rapporto con la cultura filosofica tedesca si veda S. POGGI, Martinetti e i suoi «autori» tedeschi, in AA.VV., Piero Martinetti nel cinquantenario della morte, cit., pp. 395-426.

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essere considerate come fonti primarie di Martinetti5. Non per nulla, tra Paulsen e Wundt (con il quale, come si sa, Martinetti aveva studiato a Lipsia nell’inverno 1894-1895)6 il progetto dell’Introduzione alla metafisica si configura essenzialmente come rivendicazione di una metafisica a sfondo volontaristico che tuttavia – secondo un’impostazione ancora positivistica ben viva nel primo Martinetti – prosegua il lavoro delle singole scienze: una sorta di progressione che dal dato positivo conduce alla «esplicazione del mondo» fornendo alla metafisica stessa, in quanto sistemazione ultima dell’esperienza, il suo metodo più sicuro7. In questo quadro è però assente, o comunque è presente solo come termine di riferimento negativo, l’intero arco di posizioni maturate nel neokantismo tedesco del tardo Ottocento. Gli scarsi riferimenti che si leggono nell’Introduzione alla metafisica alle opere dei neokantiani sono già rivelatori di una netta presa di distanza8, mentre colpisce – più in generale – il velo di silenzio che Martinetti stende sul ‘ritorno a Kant’ e sugli sviluppi che esso aveva conosciuto con la scuola di Marburgo per un lato e con il neokantismo sud-occidentale di Wilhelm Windelband e Heinrich Rickert per un altro. Ad essere chiamati direttamente in causa 5

Cfr. W. WUNDT, Einleitung in die Philosophie, Leipzig, Engelmann 19064 (la prima edizione, che è quella utilizzata da Martinetti, è del 1901) e F. PAULSEN, Einleitung in die Philosophie, Stuttgart und Berlin, Cotta 1920 (è questa, si noti, la 35a edizione; la prima era uscita nel 1892). Del libro di Paulsen esiste una (pessima) trad. it. di L. Gentilini con il titolo Introduzione alla filosofia, Torino, Bocca 1911; si tratta comunque di un testo ben noto ai nostri filosofi: cfr. F. TOCCO , La filosofia di Federico Paulsen, «Nuova Antologia», XXXI, s. IV, 1° dicembre 1896, pp. 429-456 e il coevo saggio di F. DE SARLO, Il volontarismo di F. Paulsen, poi in Filosofi del nostro tempo, cit., pp. 1-38 (ma cfr. anche P. ROTTA, Ancora della filosofia di Federico Paulsen, «Rivista di filosofia», III, 1911, pp. 672-697). Si ricordi che nel 1907 di Paulsen uscirà, sempre da Bocca e con il titolo Contro il Clericalismo, la versione italiana di Philosophia militans. Gegen Clericalismus und Materialismus, Berlin, Reuther & Reichard 1900. 6 Cfr. C. TERZI, Piero Martinetti. La vita e il pensiero originale, Bergamo, Editrice San Marco 1966, p. 14. Su Wundt si veda IM, 200-212. 7 IM, 14, 19, 23, 30, 34. Sul rapporto filosofia-scienze cfr. W. WUNDT, Einleitung in die Philosophie, cit., pp. 10-20, 38 e soprattutto F. PAULSEN, Einleitung in die Philosophie, cit., pp. 15-45; trad. it. cit., pp. 13-37. 8 Basti pensare ai giudizi decisamente negativi sulla Platos Ideenlehre di Paul Natorp o sulla monografia leibniziana del giovane Ernst Cassirer (IM, 225 n. 125, 241 n. 158)

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sono soltanto Alois Riehl e lo stesso Windelband: ma, si noti, solo per un motivo polemico, e cioè per la loro ostilità nei confronti della metafisica, onde entrambi assurgono, agli occhi di Martinetti, a esponenti tipici della filosofia antimetafisica che aveva largamente dominato la seconda metà del secolo XIX9. D’altra parte questa disattenzione nei confronti di uno degli aspetti più vitali della filosofia tedesca tra Ottocento e Novecento trova un’evidente ragione nella convinzione, ripetutamente sottolineata da Martinetti, secondo cui la teoria della conoscenza non solo non esaurisce i compiti della filosofia, ma acquista senso e significato soltanto quando la si riconosca come «parte della metafisica» (IM, 43). In altre parole la funzione della teoria della conoscenza è di svolgere un’«introduzione critica», una «preparazione negativa all’opera positiva della metafisica» (IM, 325); ma non appena si passi dalla determinazione oggettiva del dato alla domanda circa il «senso» del mondo che si costituisce innanzi a noi nella sintesi conoscitiva, la teoria della conoscenza non basta più e si pone invece l’esigenza di un’esplicazione del reale che è compito della metafisica vera e propria10. Su questa base si comprende attraverso quali mediazioni (o meglio, senza quali mediazioni) Martinetti si accostasse a Kant. Lontano dal neokantismo, e ancor più lontano da una possibile lettura hegeliana di Kant del tipo di quella promossa in Italia da Spaventa, l’interpretazione di Martinetti rimaneva legata alla prospettiva di autori che con Kant avevano intrattenuto un rapporto affatto peculiare: in primo luogo l’amato Schopenhauer, che rappresenta – almeno in questa fase – un punto di riferimento decisivo per Martinetti11. È infatti attraverso il filtro di Schopenhauer 9

IM, 12-14. Analogamente, come vedremo ancora, Martinetti è scarsamente interessato al neokantismo italiano, di cui sembra considerare con rispetto solo un neokantiano quanto meno ‘atipico’ come Cantoni. 10 IM, 381, 139-140. Sulla teoria della conoscenza come punto di avvio della costruzione metafisica Martinetti insiste anche all’inizio della Metafisica generale che, come noto, avrebbe dovuto rappresentare la seconda parte della Introduzione alla metafisica, ma che rimase sempre incompiuta (cfr. P. MARTINETTI, Scritti di metafisica e di filosofia della religione, a c. di E. Agazzi, Milano, Edizioni di Comunità 1976, vol. I, pp. 29-30). 11 L’importanza di Schopenheuer nella formazione filosofica di Martinetti è stata esaurientemente illustrata, anche sulla base di alcune note di letture inedite risalenti agli anni a cavallo dei due secoli, da A. VIGORELLI, Pie-

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che Martinetti discute l’estetica trascendentale, denunciando l’incapacità kantiana di sottrarsi all’«antico preconcetto realistico» annidato nella postulazione della cosa in sé e nel conseguente «profondo abisso» che si verrebbe a scavare tra il pensiero e l’essere (IM, 62). Non diversamente da Schopenhauer anche Martinetti sottolinea come la teorica della cosa in sé costituisca «il tallone d’Achille della filosofia kantiana», che conduce Kant «di fronte a difficoltà insuperabili» rovesciando il suo idealismo trascendentale in un realismo trascendentale12. E in questo quadro Martinetti prende anche posizione contro l’interpretazione della cosa in sé come «concetto-limite» (Grenzbegriff), interpretazione che ha una lunga storia alle sue spalle, ma che Martinetti giudica come «un’ambigua similitudine spaziale» tanto oscura quanto necessariamente legata al concetto di qualcosa che opera la limitazione, ovvero la cosa in sé in un’accezione realistica13. A questa difficoltà si può pertanto sfuggire solo se si torna all’«incrollabile fondamento» dell’idealismo gnoseologico che lo stesso Kant ha per primo conquistato: riconducendo cioè la dualità realistica di percepito ed esistente a una correlazione di elero Martinetti, cit., pp. 71-87. La centralità del rapporto Martinetti-Schopenhauer è confermata anche dal fatto che ancora nel 1941 Martinetti considera il pensatore di Danzica come «il più vivo, il più moderno dei filosofi» (Schopenhauer, Milano, Garzanti 1941, p. 67). Ma per la ‘linea’ KantSchopenhauer cfr. pure il tardo articolo La rinascita di Schopenhauer, «Rivista di filosofia», XXXI, 1940, pp. 78-91 (poi in Saggi filosofici e religiosi, cit., pp. 270-284). 12 IM, 65. Un testo che poteva confermare, agli occhi di Martinetti, l’interpretazione realistica di Kant (e che in effetti Martinetti più volte utilizza) è l’imponente ricerca di Riehl sul criticismo kantiano, ove però contro Schopenhauer il realismo dell’estetica trascendentale è favorevolmente accolto: cfr. A. RIEHL, Der philosophische Kritizismus, vol. I, Geschichte des philosophischen Kritizismus, 3a ed. riveduta Leipzig, Kröner 1924, specie pp. 465473 (la prima edizione è del 1876). Ovviamente in ambito italiano la più autorevole interpretazione realistica di Kant (nel senso di un realismo ontologico ancora legato alla tradizione del ‘platonismo’ di Terenzio Mamiani) è quella, anch’essa ben nota a Martinetti, di C. CANTONI, Emanuele Kant, vol. I, cit., pp. 224-243, 327-352. 13 IM, 64-65. Su questo punto si veda pure C. CANTONI, Emanuele Kant, vol. I, cit., pp. 240-241, che probabilmente Martinetti aveva presente in contrapposizione con la lettura neokantiana del Grenzbegriff codificata in Italia, sulla scia di Cohen e di Lange, da F. TOCCO, Fenomeni e noumeni, poi in Studi kantiani, cit., pp. 117-172.

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menti coscienti, onde il mondo è veramente la ‘mia rappresentazione’14. Caduta dunque, in parte grazie allo stesso Kant, l’errata prospettiva di una realtà che sia «straniera allo spirito» e svanita l’illusoria convinzione che esistano due realtà, l’una fenomenica e l’altra noumenica, Martinetti non solo sosteneva che la realtà ci si presenta sempre come «un complesso di processi psichici», ma recuperava un’accezione positiva del piano noumenico nell’esame della conoscenza razionale, cioè di quella conoscenza che si compie attraverso sintesi successive e sempre più comprensive dell’intelligenza, in una gradazione infinita di forme che dal molteplice si elevano verso un’Unità via via più alta e più ‘vera’ (IM, 49, 74, 137). La realtà, tuttavia, non è ‘creata’ quanto piuttosto ‘trasfigurata’ dall’attività della coscienza, che trascende il dato e lo traspone su un piano intelligibile, potenziando quell’obbiettività che non è propria solo della sfera razionale e dell’universalità logica, ma già dell’ambito sensibile. Se quindi la teoria kantiana della conoscenza dovesse significare una qualche ‘misteriosa’ animazione dell’oggetto da parte del soggetto trascendentale, Martinetti non avrebbe dubbi a rifiutarla; ma se la si intende invece come la messa a fuoco del processo lungo il quale la ragione, in forza del suo uso reale, mette capo alla realtà intelligibile, noumenica, allora è difficile non dirsi kantiani e Kant appare addirittura come «il padre della nuova metafisica idealistica» (IM, 199). A differenza della cosa in sé come fondamento della rappresentazione (ma Martinetti non richiama questa distinzione), la realtà noumenica non costituisce infatti «un in sé inaccessibile che al confine preciso trapassi, come il testo in una traduzione, nell’esperienza, ma è il termine ideale di una gradazione insensibile, di cui la realtà empirica costituisce il punto di partenza»15. 14

IM, 66, 109, 112-113; cfr. pure Scritti di metafisica e filosofia della religione, cit., vol. I, pp. 37-38, ove è da rilevare l’utilizzazione non solo di Schopenhauer, ma anche di Lange nella confutazione del realismo materialistico (e si veda pure pp. 43, 47, 64-6). 15 IM,198. Già qui Martinetti presenta pertanto il rapporto del fenomeno con il noumeno come un rapporto tra simbolo e simbolizzato, tra la realtà autentica e il suo ‘tralucere’ nell’esperienza (IM, 199): un punto sul quale ruoterà tutta la sua visione matura del «regno dello spirito» e della realtà trascendente. Un abbozzo di differenziazione tra la cosa in sé ed il significato

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Per svolgere questa interpretazione di Kant Martinetti doveva compiere ancora un passo importante, riallacciandosi peraltro a un motivo critico presente in molta parte della discussione tedesca su Kant (da Schopenhauer a uno studioso come Trendelenburg). In sostanza si trattava di comprendere «l’errore fondamentale» che Kant aveva commesso facendo coincidere il concetto di a priori con quello di soggettivo, con la conseguente scissione tra forma e materia fondata sulla distorta idea di un soggetto conoscente che, in virtù delle proprie forme conoscitive, fa suo e integra in sé un oggetto estraneo. Tra le righe di Martinetti tornavano così a circolare le obiezioni di Trendelenburg a Kant e la sua rivendicazione di una sorta di concrescenza tra materia sensibile e forme categoriali, per evitare un «salto» per congiungerle entrambe16, o le discussioni che Cantoni aveva dedicato al tentativo di superare l’inaccettabile dualismo presente nella Critica della ragion pura17. Non a caso anche Martinetti ritiene che la distinzione tra forma e materia della conoscenza sia «una pura finzione», mentre al contempo va semplicemente «eliminata», a suo avviso, l’attribuzione di un carattere soggettivo alla forma stessa (IM, 193, 195); al contrario, sostiene Martinetti prendendo chiaramente le distanze da Kant, la differenza tra forma e materia non solo è sempre relativa, ma rinvia alla loro unità: la forma è «connaturata» alla materia e scaturisce dalla materia attraverso una sorta di sviluppo graduale, che Martinetti dipinge in termini non dissimili da quelli presenti in certe letture psicologistiche ed evoluzionistiche di Kant che avevano avuto larga fortuna anche nella filosofia italiana di fine Ottocento18. In questo modo Marti-

positivo del noumeno si trova nel libro di Riehl che, come già si è detto, era ben noto a Martinetti (cfr. Der philosophische Kritizismus, vol. I, cit., p. 564). 16 Cfr. A. TRENDELENBURG, Geschichte der Kategorienlehre, Berlin, Bethge 1846, rist. an. Hildesheim, Olms, 1963, p. 294; La Dottrina delle categorie nella Storia della Filosofia, trad. it. di R. Pettoello, Milano, Polimetrica 2004, p. 115 e soprattutto Logische Untersuchungen, 3a ed. aumentata Leipzig, Hirzel 1870, vol. I, pp. 156-170 (specie pp. 164-165). 17 Cfr. C. CANTONI, Emanuele Kant, vol. I, cit., pp. 182-243. Ma di Cantoni si vedano anche i successivi Studi Kantiani, «Rivista Filosofica», III, 1901, pp. 589-610; IV, 1902, pp. 25-48, 351-83. 18 IM, 194. Significativi, in questo senso, oltre ai riferimenti a Spencer e ad Ardigò (IM, 333, 336), sono i rinvii ad autori come Filippo Masci o Gio-

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netti poteva rivendicare, in nome del carattere sintetico di ogni atto conoscitivo in quanto sola intuizione autenticamente a priori di un’unità che non è compresa nel molteplice, l’impossibilità di separare rigidamente le forme a priori che concrescono insieme alla materia nel processo della conoscenza: ciò che è materia è già anche forma, e le forme inferiori sono la materia delle sintesi superiori all’interno della coscienza, che via via brucia le sue sintesi parziali conseguendo unità obiettive sempre più ampie, verso quel mondo intelligibile che non è un limite fisso, ma una mobile mèta a cui la ragione aspira (IM, 195-196, 360-366).

2. A Gentile parve di scorgere, in questa teoria della processualità della coscienza e del passaggio dal sensibile al regno della ragione, un debito di Martinetti con Hegel. In realtà, nonostante l’accenno in questo senso che Martinetti effettivamente svolge a un certo punto, Hegel è presente nella Introduzione alla metafisica in termini polemici: persino per quanto riguarda la Fenomenologia dello spirito, che lungi dal riscuotere qualche parola di assenso da parte di Martinetti viene invece criticata per la sua «confusione dell’elemento gnoseologico con l’elemento storico»19. A ben vedere, tutto quanto Martinetti dice di Hegel è strettamente connesso all’immagine ottocentesca della filosofia hegeliana quale si era venuta formando attraverso le correnti di opposizione all’hegelismo, in particolare sulla base delle celebri critiche di Trendelenburg ben note anche in Italia (con Trendelenburg aveva peraltro studiato a Berlino uno dei maestri torinesi di Martinetti, l’hegeliano ultra-ortodosso e in seguito aperto alle suggestioni dell’evoluzionismo spenceriano Pasquale D’Ercole)20. vanni Cesca. Sulle interpretazioni evoluzionistiche di Kant in Italia alla fine dell’Ottocento cfr. il nostro I dati dell’esperienza, cit., pp. 294-304. 19 IM, 307, 342-342. Cfr. G. GENTILE, Frammenti di storia della filosofia, cit., p. 516. 20 Sull’immagine ottocentesca di Hegel cfr. V. VERRA, Introduzione a Hegel, Roma-Bari, Laterza 19902, pp. 4-5, 212-218 (e sul peso che ha esercitato su tale immagine l’edizione dei Werke uscita tra il 1832 e il 1845 cfr. F. NICOLIN, Die neue Hegel-Gesamtausgabe, «Hegel-Studien», I, 1961, pp. 298299). Su D’Ercole si rimanda a G. ROTA, Pasquale D’Ercole, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXVI, 1997, pp. 397-423. Martinetti ne aveva seguito ripetutamente, all’università di Torino, le lezioni di Filosofia teoreti-

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Quell’immagine, che è poi l’immagine (prevalentemente ricavata dall’Enciclopedia) dello Hegel ossessivamente sistematico, sprezzante delle scienze empiriche e tenacemente incentrato sul funzionamento della ‘macchina dialettica’, trova una puntuale conferma nelle pagine di Martinetti. Per di più va detto che l’Introduzione alla metafisica vide la luce poco prima dell’inizio della cosiddetta Hegel-Renaissance (anche se in Italia si parlava già da alcuni anni del neohegelismo inglese): basti ricordare che del 1905 è il lavoro di Wilhelm Dilthey sul giovane Hegel, mentre solo due anni dopo uscirà il Ciò che vivo e ciò che è morto di Croce. L’unico libro in qualche modo legato (se non altro per l’importante recensione che ne scrisse Dilthey) al moto europeo della riscoperta di Hegel e che Martinetti conosce e ripetutamente cita, è la monografia hegeliana di Kuno Fischer, alla quale peraltro Martinetti si riferisce per un significativo apprezzamento della concezione storica della filosofia messa in onore da Hegel21. Al di là di questo, per Martinetti la filosofia hegeliana rimane esemplare per la maniera di procedere aprioristica, che non tiene alcun conto dell’esperienza e finisce paradossalmente per spacciare per costruzione speculativa «l’universo quale era noto a posteriori seconde le idee scientifiche del tempo» (IM, 21-22): limica e di Filosofia morale (cfr. la documentazione offerta in Piero Martinetti nel cinquantenario della morte, cit., pp. 341-344): dall’insegnamento di D’Ercole Martinetti aveva probabilmente tratto, oltre a una certa visione dell’hegelismo per quanto sottoposto a un processo di revisione, anche le critiche al teismo tradizionale. 21 IM, 25. Cfr. inoltre W. DILTHEY, Das Hegel-Buch Kuno Fischers, in ID., Gesammelte Schriften, vol. XV, Zur Geistesgeschichte des 19. Jahrhunderts, a c. di U. Hermann, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 1970, pp. 343-355. Per la discussione italiana sul neohegelismo inglese cfr. ad esempio F. DE SARLO, Saggi di filosofia, cit., vol. II, pp. 177-259 e G. GENTILE, Origine e significato della logica di Hegel, «La Critica», II, 1904, pp. 29-45 (poi in La riforma della dialettica hegeliana, cit., pp. 69-96); né andrà scordata la preferenza accordata da Croce agli studi inglesi su Hegel piuttosto che a quelli tedeschi (cfr. Saggio sullo Hegel seguito da altri scritti di storia della filosofia, Bari, Laterza 19675 , p. 141). In generale sulla HegelRenaissance si rimanda a H. LEVY, Die Hegel-Renaissance in der deutschen Philosophie mit besonderer Berücksichtigung des Neukantianismus, Charlottenburg, Verlag Rolf Heise 1927, specie pp. 17-30 e al breve profilo di CH. HELFERICH, G.W.Fr. Hegel, Suttgart, Metzler 1979, pp. 150-159; assai utile è anche il quadro tracciato da C. LACORTE, Il primo Hegel, Firenze, Sansoni 1959, pp. 23-55.

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te, questo, caratteristico di tutti i sistemi panlogistici (compreso quello di Spinoza), i quali hanno la pretesa di offrire «una ricostruzione logica della realtà» ma sfociano irrimediabilmente in un edificio speculativo che di logico «ha solo l’apparenza» (IM, 316, 277-290). In particolare il metodo dialettico hegeliano non rappresenta, secondo Martinetti, un effettivo procedimento logico, ma solo un «artificioso connubio» in cui vengono a mancare tanto la deduzione analitica quanto la sintesi induttiva: il che comporta, oltre alla riduzione del reale entro un ingiustificato sistema di concetti, una conseguenza ancora più grave (e già sottolineata da Trendelenburg), ovvero di utilizzare acriticamente l’esperienza con la pretesa di dedurla sulla base di uno schematismo palesemente «artificiale». Ed è in definitiva per questo, scrive lapidariamente Martinetti, che Hegel «si è reso così estraneo al pensiero scientifico del secolo»22. Non stupisce quindi che nel seguito Martinetti passasse ad attaccare la triade idea-natura-spirito, appoggiandosi peraltro alle dimenticate pagine di Pietro Ceretti e alla sua convinzione che la natura dovrebbe configurarsi come «coscienza “in forma incoscientiae”», laddove Hegel aveva invece lasciato sussistere una dialettica ‘incosciente’ incompatibile con il principio dell’idealismo (IM, 318-319). Colpissero o meno la dialettica hegeliana, questi argomenti tradivano un innegabile sapore di arcaismo filosofico; eppure agli occhi di Martinetti erano sufficienti per sferrare, su questa base, l’ultimo attacco – questa volta di tenore vagamente schellinghiano, ma più probabilmente ripreso dall’altro suo maestro torinese Giuseppe Allievo – contro l’Assoluto di Hegel23. Intanto, obietta Martinetti, un processo logico che si 22

IM, 317-318. Cfr. A. TRENDELENBURG, Logische Untersuchungen, cit., vol. I, pp. 36-129 (di questo capitolo dell’opera di Trendelenburg si veda la trad. it. di M. Morselli con il titolo Il metodo dialettico, Bologna, Il Mulino 1990). Molti dei giudizi di Martinetti ricalcano, talvolta quasi alla lettera, anche le critiche a Hegel espresse da Wundt nella sua Einleitung in die Philosophie, cit., pp. 327-331. 23 Su Ceretti, alla cui conoscenza Martinetti era stato avviato da Pasquale D’Ercole, cfr. anche la commemorazione del 1923 ripubblicata in Saggi e discorsi, cit., pp. 167-180. Un esauriente ritratto di Ceretti si deve a G. GENTILE, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, vol. III, cit., pp. 1-22. Su Martinetti e Ceretti, ma con un’incomprensibile sopravvalutazione di quest’ultimo, cfr. pure A. DEL NOCE, Martinetti nella cultura europea, italia-

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svolge nello spazio e nel tempo non ha senso: spazio e tempo sono forme alogiche, che configurano un ordine sensibile ma non un ordine logico; e pertanto «la realtà non è logicamente costruibile perché non è un puro ordine logico» (IM, 321). In secondo luogo Hegel ha avuto il torto di credere che l’Assoluto costituisca un «circolo dialettico eterno, che è e diviene ciò che è nel tempo stesso» (IM, 322); ma questo significa ridurre l’Assoluto alla somma dei suoi momenti relativi, cancellando per un lato la distinzione tra essere e dover essere e degradando per un altro lato l’Unità alla partecipazione dell’imperfetto, ciò che significa annullarla come Unità. Non è pertanto lecito, ad avviso di Martinetti, considerare l’Assoluto alla maniera hegeliana, vale a dire come un processo, per giunta costituito da «una successione assoluta di momenti»: unità e molteplicità non possono coesistere al tempo stesso, ma devono piuttosto configurarsi come due piani correlati in una tensione mai risolvibile (IM, 323). In questo modo Martinetti delinea un punto fermo della propria concezione metafisica, in cui la realtà intelligibile si presenta non più come attualità, bensì come termine ideale e mèta infinita: è propriamente, in termini kantiani, «il dover essere della realtà sensibile» (IM, 370). Il nostro spirito, soggiunge Martinetti, è sempre «legato alla terra», ed è a partire di qui che esso intuisce il mondo spirituale che rappresenta «il termine ideale di tutte le nostre aspirazioni più alte» (IM, 371). In questa prospettiva la processualità dello spirito non solo è sciolta dalla pretesa di costituire di per se stessa un momento dell’Assoluto, ma viene piuttosto intesa come un’inesauribile «ascensione» che esplicitamente Martinetti ricava per analogia dall’«evoluzione biologica» (IM, 380). Alla fine della Introduzione alla metafisica la filosofia hegeliana appare dunque come una sorta di relitto, al cui posto deve

na e piemontese, pp. 67-68, 91. Di Allievo occorre aver presente L’hegelianismo, la scienza e la vita, Milano, Agnelli 1868 e l’Esame dell’Hegelianismo, Torino, Tip. Subalpina 1897: entrambi i testi sono puntualmente ricordati da Martinetti (IM, 318 n. 41; ma vedi pure IM, 5 per il debito con «i miei primi maestri, G. Allievo, R. Bobba e P. D’Ercole»). Su Allievo e l’ambiente torinese in cui si formò Martinetti cfr. G. DE LIGUORI, La cultura filosofica nella Torino di fine Ottocento, cit., specie pp. 382-389 e G. ROTA, L’ambiente torinese di fine Ottocento: Pasquale D’Ercole e Giuseppe Allievo, in AA.VV., I filosofi e la genesi culturale della «nuova Italia», cit., pp. 237-249.

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invece subentrare una visione ‘ascensionale’ dello spirito, che dal grembo della natura si protende verso l’Unità ultima in uno sforzo mai esausto: una trasposizione e un completamento (come afferma altrove lo stesso Martinetti)24 dell’evoluzionismo ottocentesco nel linguaggio di Schelling e di Schopenhauer o, più modestamente, di Antonio Fogazzaro, il quale non molti anni prima aveva offerto con le sue Ascensioni umane una compiuta trascrizione spiritualistico-religiosa dell’imbarazzante retaggio del secolo di Darwin25.

3. Il 26 novembre 1906, salendo alla cattedra di filosofia teoretica dell’Accademia Scientifico-Letteraria di Milano, Martinetti tratteggiò con grande chiarezza il suo idealismo religioso. La filosofia, affermava Martinetti, non trae motivo dalla «curiosità oziosa» di un conoscere fine a se stesso, bensì da un bisogno religioso, da un’ansia che sale dall’anima nella ricerca incessante dell’unione con il «Tutto»: la vita spirituale, nella molteplicità delle sue forme, altro non è se non «un processo graduale di espansione, di liberazione, di potenziamento dello spirito» verso forme sempre più alte, verso l’unità ultima26. L’uomo, proseguiva Martinetti citando Leopardi e Wundt, vive nel dolore, e solo nel dolore apprende ad elevarsi verso la moralità, a porsi la domanda circa il senso ultimo della vita: una domanda che può trovare risposta soltanto nell’esperienza religiosa, al di là della credenza tipica dell’età contemporanea che il progresso materiale o l’am-

24

Cfr. Scritti di metafisica e di filosofia della religione, cit., vol. I, pp. 289-

292. 25

Cfr. A. FOGAZZARO, Ascensioni umane, Milano, Baldini e Castoldi 1899, nuova ed. a cura di P. Rossi, Milano, Longanesi 1977. Per l’uso da parte di Martinetti del termine «ascensione» cfr. ad esempio Saggi e discorsi, cit., pp. 14, 35, 38. Martinetti risentiva palesemente, pur rifiutando il parallelismo psico-fisico, anche del volontarismo di Paulsen, attraverso il quale ritrovava i temi cari a un altro suo ‘autore’, e cioè Fechner (cfr. F. PAULSEN, Einleitung in die Philosophie, cit., 100-126, 200-213; trad. it. cit., pp. 82-101, 157-168). Illuminante resta in questo senso il testo del 1920 su La psiche degli animali, poi in Saggi e discorsi, cit., pp. 211-254 (ma cfr. pure Scritti di metafisica e di filosofia della religione, cit., vol. I, pp. 136-156). 26 Cfr. La funzione religiosa della filosofia, «Rivista Filosofica», IX, 1907, pp. 3-35, poi in Saggi e discorsi, cit., pp. 5-29 (qui pp. 12, 26).

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pliamento delle «forme positive di cultura» possano sostituire la ricerca del sovrasensibile27. Le parole di Martinetti non cadevano certo nel vuoto. Il clima spirituale dei primi anni del Novecento si mostrava sempre più segnato dalla ‘rinascita dell’idealismo’ nelle sue varie forme, mentre incalzava un po’ ovunque un’inquietudine religiosa, una diffusa anche se non sempre limpidissima esigenza di volgersi al ‘regno dello spirito’28. Non a caso proprio Martinetti sceglieva questo titolo per l’altra sua prolusione accademica del novembre 1908 e la pubblicava sulla rivista dei modernisti milanesi fondata l’anno precedente, facendosi così interprete di una visione religiosa della vita imperniata sull’«ascensione continua verso le forme più perfette dell’unità spirituale»29. Martinetti insisteva sul ritorno e il «rinascimento» delle grandi correnti idealistiche, che persino nel seno delle scienze naturali avevano spiazzato ormai il vecchio naturalismo positivistico, mentre per un altro verso l’accento cadeva invece sulla centralità della morale, sul «presentimento imperioso» che noi abbiamo della sfera religiosa – il «vertice» della vita umana – attraverso il sentimento del dovere («il sentimento del dovere è la forma sotto cui si rivela, nella coscienza dell’individuo, la presenza di questa realtà spirituale su27

Ivi, pp. 10-13. Persino Croce, nel 1908, affermava che «senza religione […] non si vive, o si vive con animo diviso e perplesso, infelicemente»; e aggiungeva: «Certo, meglio quella religione che coincide con la verità filosofica, che una religione mitologica; ma meglio una qualsiasi religione mitologica che nessuna religione» (Per la rinascita dell’idealismo, in Cultura e vita morale. Intermezzi polemici, cit., p. 35). 29 Cfr. Il regno dello spirito, «Rinnovamento», II, 1908, fasc. 5-6, pp. 209228, poi in Saggi e discorsi, cit., pp. 31-49 (da cui si cita); sulla prolusione di Martinetti è da vedersi quanto ne scrisse Gentile in Il modernismo e i rapporti fra religione e filosofia (= Opere complete di Giovanni Gentile, vol. XXXV), 3a ed. riveduta Firenze, Sansoni 1962, pp. 238-243. Per qualche considerazione sui rapporti tra Martinetti e il modernismo cfr. A. DEL N OCE, Martinetti nella cultura europea, italiana e piemontese, cit., pp. 80-81 e più recentemente G. SEMERARI, Novecento filosofico italiano, Napoli, Guida 1988, pp. 103-106; per parte sua A. VIGORELLI, Piero Martinetti, cit., p. 121 segnala giustamente una certa influenza esercitata da Martinetti «su alcuni personaggi in varia misura legati a quella esperienza». Va ricordato, tuttavia, il giudizio decisamente limitativo («una ben povera cosa») che nel 1934 Martinetti espresse sul modernismo in Gesù Cristo e il cristianesimo, introduzione di G. Zanga, Milano, Il Saggiatore 1972, vol. II, p. 249. 28

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periore»): quello che Martinetti chiamava «il rinnovato idealismo» si delineava insomma all’ombra del «pensiero immortale di Emanuele Kant»30. Non sarebbe difficile riportare le due prolusioni milanesi di Martinetti a un contesto preciso. Era il momento in cui Martinetti traduceva per l’editore Bocca il libro di Rudolf Eucken (Premio Nobel in quello stesso 1908) sulla Visione della vita nei grandi pensatori; ed era pure il momento in cui divampava la polemica sul modernismo, mentre già si manifestavano le prime reazioni all’idealismo ‘assoluto’ di Croce e Gentile, magari proprio in nome dell’idealismo ‘trascendente’ che trovava in Martinetti il suo più tenace assertore31. In realtà è soprattutto nella tormentata fase di redazione dell’incompiuta Metafisica generale progettata come seconda parte dell’Introduzione alla metafisica che occorre individuare la motivazione di una più accentuata ripresa di Kant, del Kant della dialettica trascendentale e del rapporto – per Martinetti di sostanziale unità più che di distinzione o addirittura opposizione – tra ragion teoretica e ragion pratica32. Il passaggio 30

Il regno dello spirito, cit., pp. 35-38, 39. Cfr. in questo senso la lettera di Giovanni Amendola a Giovanni Papini del 23 luglio 1909 pubblicata in E. KÜHN A MENDOLA, Vita con Giovanni Amendola, cit., p. 189. Die Lebensanschauung der grossen Denker di Eucken uscì nel 1909 presso Bocca, e merita di essere riletto sia tenendo presente le convergenze con il suo traduttore Martinetti, sia avendo sott’occhio l’articoletto di G. CALÒ, Il premio Nobel a un idealista, «Il Marzocco», XIII, n. 51, 20 dicembre 1908, p. 1 (cui rispose con una lettera di ringraziamento lo stesso Eucken, il quale si rallegrava che anche in Italia ci si opponesse ormai «a un rigido ultramontanismo e a un vuoto positivismo»: cfr. «Il Marzocco», XIV, n. 1, 3 gennaio 1909, pp. 5-6). Sulla fortuna italiana di Eucken (che peraltro comparve a più riprese proprio sul «Rinnovamento» modernista) un breve cenno in E. GARIN, Tra due secoli, cit., p. 345 n. 28. Significativamente sarà il Banfi più legato a Martinetti ad occuparsi ancora con certa ampiezza del filosofo tedesco intorno alla metà degli anni Venti: cfr. Rudolf Eucken e l’idealismo religioso, poi in Filosofi contemporanei, cit., pp. 35-50 e il necrologio steso per «Conscientia» nel 1926, ora in Opere, vol. I, cit., pp. 236-238. Sull’idealismo d i Eucken è ancora utile quanto ne scrisse H. HÖFFDING, Moderne Philosophen, Leipzig, Reisland 1905, pp. 176-187; ma si veda soprattutto l’eccellente ritratto che ne ha fornito F.W. GRAF, Die Positivität des Geistigen. Rudolf Euckens Programm neoidealistischer Universalintegration, in AA.VV., Kultur und Kulturwissenschaften um 1900, cit., pp. 53-85. 32 Cfr. Scritti di metafisica e di filosofia della religione, cit., vol. I, pp. 510, 538. Su questo punto si veda V. MEATTINI, Ragione teoretica e ragione pratica. Martinetti interprete di Kant, Pisa, Vigo Cursi 1988, p. 110. 31

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dalla teoria della conoscenza (con i suoi residui ancora positivistici) alla prospettiva metafisica vera e propria comporta un progressivo spostamento del baricentro della riflessione di Martinetti, che sempre più si concentra sul problema religioso, sull’Unità divina come termine ultimo e fondamento del mondo sensibile: un mondo che si configura come apparenza, dolore, molteplicità dispersa a fronte dell’Uno assurto ormai – con Platone e Plotino, ma anche con Spir – ad autentica realtà intelligibile. La mente, in un processo di liberazione spinoziano, sale dal visibile all’invisibile, all’Assoluto che sempre sfugge e si può presentare solo sotto forma di simboli; ma non per questo la ragione abdica al sentimento o a una mistica intuizione, giacché, scrive Martinetti, «l’esistenza del divino è, per usare il linguaggio kantiano, un’idea della ragione»33. Non sembra dunque accidentale che in questi anni Martinetti ritorni su Kant con una disposizione in parte nuova, come sta a dimostrare innanzi tutto la traduzione e la cura dei Prolegomeni kantiani (che escono nel 1913 presso Bocca)34. L’introduzione e l’ampio commento al testo documentano in effetti la padronanza 33

Scritti di metafisica e di filosofia della religione, cit., pp. 323-324. L’influsso di Spir è documentato anche da uno studio risalente al 1908-1912 pubblicato postumo: cfr. Il pensiero di Africano Spir, a c. di F. Alessio, Torino, Meynier 1990. Sulle ‘fonti’ di Martinetti il discorso è, in larga parte, ancora da svolgere, tenendo presente anche l’evoluzione e le cesure del suo pensiero. Sul rapporto con Spinoza, oltre a quanto ne dice F. ALESSIO, Introduzione a Spinoza, cit., pp. 9-66, cfr. F. MIGNINI, Lo Spinoza di Piero Martinetti, «Rivista di filosofia», LXXX, 1989, pp. 127-152; C. MELICA, A proposito di alcune recenti pubblicazioni: l’“Introduzione alla metafisica” e lo “Spinoza” di Piero Martinetti, «La Cultura», XXVII, 1989, pp. 127-139 e A. VIGORELLI, Spinoza mistico della ragione, in P. MARTINETTI, La religione di Spinoza, cit., pp. 9-54. Per l’individuazione (unilaterale) della fonte ‘greca’ della metafisica martinettiana cfr. G. BERSELLINI RIVOLI, Il fondamento eleatico della filosofia di Piero Martinetti, Milano, Il Saggiatore 1972. 34 Cfr. E. KANT, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che vorrà presentarsi come scienza, traduzione, introduzione e commento di P. Martinetti, Milano-Torino-Roma, Bocca 1913. Sul «ritorno a Kant» che caratterizza questa fase del pensiero di Martinetti insiste giustamente pure A. VIGORELLI, Piero Martinetti, cit., pp. 146-160. Va aggiunto che anche sotto il profilo dell’insegnamento accademico l’opera di Kant è ripetutamente al centro delle lezioni di Filosofia teoretica e di Filosofia morale che Martinetti tenne dal 1906 in poi all’Accademia Scientifico-Letteraria di Milano (cfr. l’elenco dei corsi milanesi in Piero Martinetti nel cinquantenario della morte, cit., pp. 365-369).

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ben più solida acquisita da Martinetti non solo per quanto riguarda il pensiero di Kant (si utilizzano sistematicamente, ad esempio, le Reflexionen e l’epistolario), ma anche in relazione alla letteratura critica: tutta la ricca produzione, soprattutto tedesca, fiorita negli ultimi due decenni dell’Ottocento con la KantPhilologie (da Benno Erdmann ad Hans Vaihinger) è largamente sfruttata, mentre sono messe a frutto, per un altro aspetto, le lezioni di Simmel su Kant o le pagine di Couturat tanto dibattute agli inizi del secolo35. Ma ciò che più merita di essere sottolineato è lo sforzo condotto da Martinetti per illuminare il testo di Kant, in qualche modo correggendo e approfondendo la sua stessa interpretazione precedente. Così, per fare un solo esempio, le annotazioni sulle forme a priori dell’intuizione mettono in chiaro come «il linguaggio trascurato di Kant» abbia favorito l’erroneo giudizio secondo cui esse non sarebbero virtualità o leggi dello spirito, bensì una sorta di «recipienti vuoti» (l’espressione viene in realtà da Herbart); per contro si deve rilevare, aggiunge Martinetti, come le forme dell’intuizione siano piuttosto «due attività, in virtù delle quali il caos originario delle impressioni sensibili è avvicinato alla realtà»36. D’altronde proprio nel 1913 Martinetti dava alle stampe lo studio dedicato al formalismo della morale kantiana che costituisce senz’altro una tappa decisiva per la sua lettura di Kant37. Frutto di un tormentato processo di assimilazione del principio etico formale di Kant, ancora discusso criticamente negli abbozzi della Metafisica generale38, il saggio di Martinetti offre anche un

35

Prolegomeni ad ogni futura metafisica che vorrà presentarsi come scienza, cit., pp. 1-16, 191-304. 36 Ivi, pp. 234-235. Altri spunti di rilievo si riferiscono al rapporto di Kant con Leibniz (p. 200), al carattere razionalistico del pensiero kantiano (p. 232), alla libertà trascendentale (p. 292). È appena il caso di ricordare che anche in questo commento emerge la particolare angolatura del Kant di Martinetti, tutto incentrato sulla funzione delle forme intellettive come «potenziamento» della realtà attraverso un’«unificazione progressiva» verso la realtà intelligibile (pp. 254, 211, 232). 37 Cfr. Sul formalismo della morale kantiana, poi in Saggi e discorsi, cit., pp. 97-126 (originariamente nella Miscellanea di studi pubblicata da Hoepli nel 1913 in occasione del 50° anniversario della fondazione dell’Accademia Scientifico-Letteraria di Milano). 38 Cfr. Scritti di metafisica e di filosofia della religione, cit., vol. I, p. 582.

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utile panorama delle interpretazioni e delle critiche che avevano accompagnato il pensiero morale kantiano sin dall’inizio; e in particolare Martinetti discute le posizioni di Cohen, di Cantoni, di Trendelenburg e di Zeller, i quali ultimi avevano cercato di correggere e integrare l’etica di Kant sulla base di Aristotele39. A tutti Martinetti obietta di avere corrotto il puro formalismo kantiano con un principio materiale inaccettabile: persino nel caso di Cohen, che tanto aveva insistito, prendendo le distanze da ogni antropologismo e dalle integrazioni aristoteliche, sul regno dei fini come tèlos della morale di Kant, si verifica la tacita introduzione di un elemento materiale che entra in collisione con il carattere rigorosamente formale della legge morale40. A giudizio di Martinetti ciò dipende dalla mancata comprensione della natura puramente simbolica che il regno dei fini kantiano riveste rispetto alla realtà archetipa intelligibile, di per sé inaccessibile alla conoscenza ma alla quale ci si può pur sempre approssimare attraverso la moralità: in altri termini la forma razionale del dovere costituisce il punto di «contatto pratico con l’intelligibile puro», inteso come un’autonoma «realtà metafisica» che autorizza la volontà morale a non identificarsi con un contenuto particolare41. La forma è il momento più alto dello spirito, è la ragione stessa nella sua purezza: negarla significa non solo negare la ragione, ma privare la legge morale del suo unico contenuto autentico, vale a dire la «forma della realtà intelligibile», la partecipazione a una Della morale kantiana Martinetti si era tuttavia già occupato negli anni del suo insegnamento liceale a Correggio e Ivrea (ivi, vol. II, pp. 559-574). 39 Cfr. rispettivamente H. COHEN, Kants Begründung der Ethik, 2a ed. ampliata Berlin, Bruno Cassirer 1910; La fondazione kantiana dell’etica, trad. it. di G. Gigliotti Lecce, Milella 1983; C. CANTONI, Emanuele Kant, vol. II, cit., specie pp. 207-272; A. TRENDELENBURG, Der Widerstreit zwischen Kant und Aristoteles in der Ethik, in ID., Historische Beiträge zur Philosophie, vol. III, Berlin, Bethge 1867, pp. 171-214 e E. ZELLER, Über das Kantische Moralprincip und den Gegensatz formaler und materialer Moralprincipien, in ID., Vorträge und Abhandlungen, 3a serie, Leipzig, Fue’s Verlag 1884, pp. 156-188. Su queste interpretazioni della morale kantiana rinviamo al nostro I dati dell’esperienza, cit., pp. 121-127. 40 Cfr. Sul formalismo della morale kantiana, cit., p. 110. Per il confronto di Martinetti con Cohen si veda il successivo studio La religione della ragione di Hermann Cohen, «Rivista di filosofia», XXIV, 1933, pp. 189-216 (poi in Saggi filosofici e religiosi, cit., pp. 153-176). 41 Cfr. Sul formalismo della morale kantiana, cit., pp. 102, 108, 122.

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«realtà superiore» simbolizzata dalla società di esseri razionali che universalizzano le massime sub specie aeternitatis42. A partire di qui Martinetti non poteva che richiamare con forza il fondamento trascendente della morale, in quanto la volontà morale si costituisce solo in funzione della realtà sovrasensibile; ma per un altro lato doveva riconoscere che questa interpretazione rinviava alla «sottostruttura metafisica della critica kantiana», ossia al «latente substrato metafisico», alla «metafisica secreta» che costituiscono il centro di gravità del pensiero di Kant43. Nel redigere la Metafisica generale, Martinetti aveva affermato che la concezione idealistica non è solo teoreticamente inoppugnabile, ma «l’unica moralmente accettabile»44; ora doveva aggiungere che quell’idealismo si identificava in larga parte con un Kant «metafisico religioso» collocato sulla linea di Leibniz e di Platone: «la vita sensibile non è che la parvenza della vita intelligibile, che è la vita vera e più alta, ma nella condizione umana, inaccessibile alla conoscenza: appartenere a questa vita soprasensibile già nel seno dell’esistenza sensibile, far convergere verso di essa le tendenze sensibili – ecco la vera moralità»45.

4. Dopo una lunga pausa durata un decennio, l’interpretazione metafisica di Kant troverà la sua espressione più compiuta nei tre corsi universitari tenuti da Martinetti a Milano tra il 1924 e il 1927, sulla cui base è ricavata la postuma monografia kantiana alla quale Martinetti lavorò nell’ultimo periodo della sua vita senza però condurla a termine46. Condotta sulla scorta di un 42

Ivi, pp. 112, 118. Ivi, pp. 101, 105, 108, 121. 44 Scritti di metafisica e di filosofia della religione, cit., vol. I, p. 208; ma cfr. anche vol. II, p. 500. 45 Sul formalismo della morale kantiana, cit., p. 125. 46 Varie notizie sulla rielaborazione delle dispense universitarie in vista di un libro d’insieme su Kant si possono trarre dalle lettere di Martinetti a Nina Ruffini (cfr. C. TERZI, Lettere inedite di Piero Martinetti, «Giornale di Metafisica», XXVII, 1972, pp. 443-479, specie pp. 454, 469, 471); si veda inoltre M. DAL PRA, Prefazione a P. MARTINETTI, Kant, Milano, Feltrinelli 19743, pp. XI-XII. Martinetti venne via via pubblicando alcune parti del suo corso universitario sotto forma di articoli e lo utilizzò anche per scrivere La libertà; ma è pure da ricordare la conferenza milanese del 1924 E. Kant nel secondo centenario della nascita, poi in Saggi e discorsi, cit., pp. 127-146. 43

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«metodo storico critico» che tuttavia non vuole rinunciare a un preciso «punto di vista», ovvero a un’assunzione unitaria ma senza pretese di definitiva sistemazione47, questa limpida esposizione d’insieme della filosofia di Kant – cui fa da indispensabile contraltare la bella Antologia kantiana pubblicata nel 192548 – trova il suo fondamentale motivo ispiratore in quel filone della letteratura tedesca su Kant che si colloca al di fuori del neokantismo (e, anzi, in polemica con esso) e che ha il suo principale rappresentante nel libro di Paulsen uscito nel 1898, ben noto a Martinetti sin dall’Introduzione alla metafisica49. Paulsen aveva particolarmente insistito sulla necessità di collocare la filosofia di Kant nel quadro di una fondamentale ispirazione metafisica di stampo platonico e leibniziano, nella convinzione che il suo razionalismo lo avesse irresistibilmente sospinto a riconoscere la realtà oggettiva dell’intelligibile, facendo leva sulla funzione che le categorie dell’intelletto assolverebbero nel garantire non solo la conoscibilità del reale, ma anche la sua pensabilità in termini metafisici50. Anche senza addentrarsi negli svolgimenti che Paulsen dava alle sue tesi per trarne una visione metafisica ispirata a Schopenhauer, o al mai dimenticato Fechner, è facile comprendere quale risonanza e quali polemiche dovesse suscitare la monografia del 1898, ben presto discussa e aspramente censurata – per fare solo alcuni nomi – da Cohen e da 47

Cfr. Kant, cit., pp. 1-3. Sulla concezione martinettiana della storia della filosofia si veda anche il saggio Sul valore obbiettivo della filosofia, «Rivista di filosofia», XXI, 1930, pp. 1-13 (poi in Saggi filosofici e religiosi, cit., pp. 113-123); cfr. inoltre E. AGAZZI, La storiografia filosofica nel pensiero di P. Martinetti, «Rivista critica di storia della filosofia», XXIV, 1969, pp. 267301 e P. ROSSI, Martinetti storico della filosofia, in Giornata martinettiana, cit., pp. 41-43. 48 Cfr. P. MARTINETTI, Antologia kantiana, Torino, Paravia 1925. 49 Cfr. F. PAULSEN, Immanuel Kant. Sein Leben und seine Lehre, Stuttgart, Frommann 19206; Kant, trad. it. di B. Sesta, Palermo, Sandron s.d. [ma 1904]. Paulsen aveva già delineato alcuni aspetti della sua interpretazione di Kant nell’Einleitung in die Philosophie cit., pp. 428-451; trad. it. cit., pp. 329-347. Sul rapporto Martinetti-Paulsen hanno richiamato l’attenzione M. DAL PRA, Prefazione a Kant, cit., p. XVII e E. PISCIONE, Kant nell’interpretazione metafisico-religiosa di Piero Martinetti, in AA.VV., La tradizione kantiana in Italia, cit., vol. II, pp. 572-573. 50 Cfr. F. PAULSEN, Immanuel Kant, cit., pp. 112-119, 150-152, 177-178; trad. it. cit., pp. 106-113, 145-146, 170-171.

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Vaihinger, mentre in Italia se ne occuparono altrettanto criticamente, seppure con intonazioni diverse, Cantoni e Tocco51. Né andrà dimenticato che negli anni Venti la prospettiva interpretativa di Paulsen avrebbe trovato in Germania, in un momento di crisi e di tramonto del neokantismo, una rinnovata fortuna, soprattutto grazie allo studio di Max Wundt su Kant als Metaphysiker, che non a caso si apre con un riconoscimento dell’importanza del lavoro svolto da Paulsen un quarto di secolo prima52. Non era dunque un tentativo isolato quello di Martinetti; e non lo era nemmeno quando si guardi alla filosofia italiana di quegli anni, in cui non era mancata, talora in polemica con l’idealismo crociano e gentiliano, la rivendicazione di un Kant ‘trascendente’ e metafisico53. Per parte sua Martinetti si rifaceva 51

Cfr. H. COHEN, Schriften zur Philosophie und Zeitgeschichte, a c. di A. Görland e E. Cassirer, Berlin, Akademie Verlag 1928, vol. II, pp. 478-500; H. VAIHINGER, Kant - Ein Metaphysiker?, «Kant-Studien», VII, 1902, pp. 110-117 (e l’intervento di Paulsen stesso, Kants Verhältnis zur Metaphysik, «Kant-Studien», IV, 1900, pp. 413-477); F. TOCCO , Studi kantiani, cit., pp. VIII-X e C. CANTONI, Studi Kantiani, cit., pp. 598-607. 52 Cfr. M. WUNDT, Kant als Metaphysiker. Ein Beitrag zur Geschichte der deutschen Philosophie im 18. Jahrhundert, Stuttgart, Enke 1924, pp. 4-7. Per un inquadramento generale delle interpretazioni metafisiche e ontologiche di Kant fiorite in Germania sin dalla prima metà degli anni Venti si veda G. FUNKE, Die Wendung zur Metaphysik im Neukantianismus des 20. Jahrhunderts, in ID., Von der Aktualität Kants, Bonn, Bouvier 1979, pp. 181-216. Su Wundt cfr. anche W. RITZEL, Studien zum Wandeln der Kantauffassung, Meisenheim am Glan, Hain 1952, pp. 82-110. 53 Si pensi in questo senso ai lavori di Eustachio Paolo Lamanna, in specie al Kant, vol. I, Il sapere e la natura; vol. II, Etica e teleologia, Milano, Athena 1925 (e cfr., per il passaggio dal trascendentale al trascendente, quanto Lamanna scrive nel volume collettaneo La mia prospettiva filosofica, Padova, Liviana 1950, pp. 119-121). Utile sarebbe un confronto tra il Kant martinettiano e alcuni degli studi su Kant usciti in Italia negli anni Venti: a puro titolo di esempio (e a prescindere ovviamente dal caso di Banfi) cfr. C. DENTICE DI ACCADIA, Il razionalismo religioso di E. Kant, Bari, Laterza 1920; A. GUZZO, I primi scritti di Kant, Milano, Isis 1921 (era la sua tesi di laurea, che piacque a Martinetti al punto da includerla nella collezione “Isis” largamente ispirata da Martinetti stesso, oltre che da Banfi: cfr. la testimonianza di Guzzo in Giornata martinettiana, cit., p. 37; di Guzzo cfr. inoltre Kant precritico, Torino, Bocca, 1924); G. VIDARI, Sguardo introduttivo alla “Critica della ragion pratica”, cit., p. 227 (ove Vidari sottolinea il suo consenso con il saggio di Martinetti Sul formalismo della morale kantiana); P. CARABELLESE, La filosofia di Kant, I, L’idea teologica, Firenze, Vallecchi 1927 (ma per il giudizio di Carabellese sul kantismo di Martinetti cfr. L’idealismo ita-

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apertamente a Paulsen sia per quanto riguarda l’aspetto più generale, ossia la piena aderenza di Kant alle linee dell’idealismo metafisico di Platone e di Leibniz al quale la filosofia critica fornirebbe un «nuovo metodo» di fondazione54, sia per ciò che concerne il delicato nodo della funzione non esclusivamente empirica delle categorie, onde per Martinetti – come per Paulsen – le categorie «sono in sé espressioni puramente formali dell’intelligibile», rivolte non solo verso l’esperienza ma anche verso la mèta dell’unificazione ultima, dell’unità puramente pensabile in termini simbolici55. Sotto quest’ultimo profilo Martinetti sottolineava con particolare energia come la dialettica trascendentale costituisse – in contrapposizione con le oscurità e le «artificiosità» dell’analitica – la parte più «chiara», più «interessante» e più «geniale» della Critica della ragion pura: il luogo privilegiato in cui è dato trovare la teoria kantiana della ragione come «facoltà dell’assoluto, la facoltà religiosa per eccellenza» che ci dischiude la sintesi definitiva di cui è alla ricerca l’ineliminabile bisogno metafisico dell’uomo, non pago di una razionalità che sia un mero «sillabare l’esperienza»56. Non stupisce, a questo punto, che le parole più ispirate delle lezioni milanesi di Martinetti si leggano proprio in riferimento a questo Kant: un Kant riletto, non diversamente da quanto aveva fatto molti decenni prima Cantoni, sulla base delle tre classiche domande «cosa posso sapere?», «cosa devo fare?», «cosa mi è lecito sperare?», e che trovano risposta innanzi tutto nella «fede personale» di Kant, nel suo orientarsi – come in una sorta di ‘metafisica privata’ – verso il ‘regno della grazia’ leibniziano, magari filtrato da una qualche affinità con Swedenborg57. Certamente liano. Saggio storico-critico, Roma, Edizioni Italiane, 2a ed. con aggiunte 1946, pp. 137-144). Tra Carabellese e qualche suggestione martinettiana si muove anche il modesto studio di P. C. DRAGO, La mistica kantiana, Messina, Principato, 1929. Per l’inquadramento di Martinetti nella discussione italiana su Kant cfr. V. D’ANNA, Kant in Italia, cit., pp. 189-214. 54 Kant, cit., p. 178; cfr. anche pp. 25-26, 31-32, 67, 81, 109, 175-176. 55 Ivi, pp. 69-70, 209. 56 Ivi, pp. 57, 71-75. Per quanto concerne l’analitica trascendentale cfr. pp. 57-70, dove Martinetti via via ‘demolisce’ (in maniera anche sbrigativa) la tavola kantiana delle categorie, la deduzione trascendentale e infine lo schematismo dei concetti puri dell’intelletto. 57 Ivi, pp. 176, 186, 196-197, 199, 200, 202, 212 e Antologia kantiana,

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Martinetti è ben lungi dal voler presentare un Kant mistico o visionario, per quanto non siano privi di significato i riferimenti sparsi alla contemplazione dell’assoluto o il paragone tra la concezione kantiana della realtà intelligibile e «il silenzio impenetrabile degli gnostici»58; tuttavia la preoccupazione centrale di Martinetti rimane rivolta alla «metafisica critica» costruita da Kant non già distruggendo, bensì rinnovando la metafisica platonica per trasformarla in una «metafisica trascendentale», ovvero in una metafisica che è opera della ragione nella sua fondamentale unità di ragione teoretica e ragione pratica, e che al tempo stesso mette capo a una fede razionale, al credere fermamente nella realtà intelligibile59. In questo modo si delinea nei suoi tratti più tipici l’interpretazione martinettiana di Kant, quasi sospesa tra trascendentale e trascendente, tra ciò che è immanente alla possibilità dell’esperienza e ciò che si pone fuori di essa costituendone però il fondamento autentico: dalla dialettica trascendentale il baricentro del criticismo kantiano si sposta così – come già era avvenuto nel saggio del 1913 – sul piano della morale, a sua volta intesa come «capitolo della metafisica» di Kant, o più esattamente come «la sua vera metafisica»60. Ma lo stesso Martinetti si rendeva conto di quanto fosse problematico conciliare tanta insistenza sull’anima metafisica della filosofica critica con la ‘lettera’ del testo kantiano; e per questo riconosceva di divergerne «sensibilmente», facendo implicitamente valere a questo proposito il noto (ma spesso arbitrariamente sfruttato) detto di Kant, secondo cui bisogna comprendere un autore meglio di quanto egli non abbia compreso se stesso61. Ora, come già si è visto, a Martinetti non sembra accettabile, in primo luogo, la distinzione o persino la scissione tra ragion teoretica e ragion pratica, dal momento che la ragione cit., p. 187. L’espressione «metafisica privata» viene da Paulsen, che la conia nel suo articolo Kants Verhältnis zur Metaphysik, cit., pp. 443-444. Si veda inoltre C. CANTONI, Emanuele Kant, vol. I cit., pp. 462-485. 58 Kant, cit., pp. 114-115; cfr. pure p. 268. Un accenno al Kant ‘mistico’ compare anche in Gesù Cristo e il cristianesimo, cit., vol. II, p. 269. Sulla «mistica della ragione» cfr. F. ALESSIO, L’idealismo religioso di Piero Martinetti, Brescia, Morcelliana 1950, pp. 147-149. 59 Cfr. Kant, cit., pp. 106, 109-110. 60 Ivi, pp. 34, 113, 117 (e cfr. anche IM, 193). 61 Kant, cit., p. 174-175.

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non solo è una, ma sta ad indicare in generale le funzioni che elevano l’uomo «verso una comunità spirituale ideale», verso l’unità che si presenta tanto alla ragion teoretica quanto alla ragion pratica in un’unica linea di svolgimento62. Ma, soprattutto, l’autonomia della coscienza morale non appare a Martinetti così necessariamente in contrasto con la morale teologica: se la legge morale è pura forma, partecipazione all’intelligibile, e se la pura unità intelligibile è l’unità trascendente divina, non ne verrà che la legge morale e la legge divina sono in fondo «una cosa sola»?63 Sotto questo profilo la coincidenza kantiana di morale e religione, che si compendia per Martinetti nel concepire la morale come una morale religiosa o, meglio ancora, come una «religione morale», mette pienamente in luce il sostrato platonico della filosofia critica, la sua segreta ma incoercibile vocazione che culmina nella visione della morale come «una metafisica oscuramente pensata»64. In realtà, proprio in forza di una così univoca accentuazione dell’elemento religioso-metafisico della morale, Martinetti finisce per leggere Kant in una direzione che, con la mediazione di Schopenhauer, sembra ricordare per certi versi Fichte; e da questo punto di vista non stupisce che una morale «assolutamente autonoma» sia semplicemente impossibile, come lo stesso Martinetti dirà a chiare lettere un decennio più tardi: impossibile perché la vita morale non è mai separabile da quella religiosa, rispetto alla quale rappresenta solo «un momento nel processo di elevazione dello spirito». Al di là, e al di sopra, dell’uomo morale vi è sempre ancora l’uomo religioso65. 62

Ivi, pp. 130, 135. Si comprende pertanto perché Martinetti giudicasse con qualche riserva la dottrina kantiana dei postulati della ragion pratica, frutto di una scissione tra teoretico e pratico che per Martinetti non ha invece ragione di sussistere (ivi, pp. 194-212). Sull’unità di conoscenza e volontà cfr. inoltre La libertà, Milano, Libreria Editrice Lombarda 1928, nuova ed. con prefazione di G. Zanga, Torino, Boringhieri 1965, pp. 330, 364-366. 63 Kant, cit., p. 138; cfr. pure E. Kant nel secondo centenario della nascita, cit., p. 137. 64 Kant, cit., pp. 174-176, 181. 65 Cfr. Morale, religione e filosofia, «Rivista di filosofia», XXIX, 1938, pp. 1-22 (poi in Ragione e fede, cit., pp. 359-383: qui pp. 359, 362, 373). Sulla ‘linea’ Schopenhauer-Fichte come continuatori di Kant cfr. le tarde pagine su Fichte scritte nel 1941, ora in Scritti filosofici e religiosi, cit., pp. 285-296 (specie pp. 295-296). Sull’intera questione si rinvia a A. VIGORELLI, Lo Schopenhauer ‘fichtiano’ di Piero Martinetti: idealismo critico e

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Le lezioni universitarie di Martinetti, pur spaziando (con la sola rilevante eccezione dell’Opus postumum) sull’intero corpus degli scritti kantiani, ivi compresi la Kritik der Urteilskraft e i testi di filosofia della storia, trovano così il loro vero nucleo ispiratore nell’opera di Kant che il Martinetti maturo ha avvertito come più intimamente ‘sua’, ossia la Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft66. Per Martinetti il punto di vista di Kant può ancora essere «perfettamente […] il nostro» e la sua modernità appare indiscutibile; e questo anche se Kant non sembra aver restituito alla religione «tutta la sua parte», giacché tutta la nostra attività, teoretica e pratica, e non solo la fede morale, ci rinvia all’unità trascendente, facendo sì che la religione travalichi l’ambito proprio della morale e costituisca la sfera più alta della vita spirituale67. Passando attraverso il mondo della storia e della cultura, che deve comunque culminare nella «città di Dio»68, e mantenendosi aderente alla convinzione kantiana secondo cui una reli-

idealismo etico, in AA.VV., Schopenhauer ieri e oggi, a c. di A. Marini, Genova, Il melangolo 1991, pp. 475-502, che dà conto ampiamente dell’inedito corso universitario su Fichte tenuto da Martinetti nel 1908-1909. Sembra inoltre che Martinetti avesse in progetto, nel 1907, una monografia (mai realizzata, però) su Fichte; anche per questo fu inizialmente proposta a Martinetti la traduzione per Laterza della Dottrina della scienza: cfr. Carteggio Martinetti-Croce (1907-1934), a c. di A. Vigorelli, «Rivista di storia della filosofia», XLVIII, 1993, pp. 783-784; si veda inoltre la lettera di Gentile a Martinetti del 16 agosto 1907 pubblicata in A. VIGORELLI, Piero Martinetti, cit., p. 392, nonché B. CROCE, Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 255. A seguito del rifiuto di Martinetti a intraprendere un lavoro così oneroso la traduzione fu però affidata ad Adriano Tilgher. 66 È significativo che di questa parte conclusiva del suo corso universitario Martinetti abbia subito pubblicato (unificandoli in un solo saggio) due dei tre capitoli che lo compongono: cfr. La religione secondo Kant, «Rivista di filosofia», XIX, 1928, pp. 1-19 (poi in Ragione e fede, cit., pp. 73-95; cfr. inoltre Kant, cit., pp. 263-279). Più o meno coincidenti con le corrispettive parti del corso kantiano sono pure i due brevi saggi Il problema della libertà in E. Kant, «Rivista di filosofia», XVIII, 1927, pp. 11-24 e L’intelletto e la conoscenza noumenica in E. Kant, originariamente nella Festschrift per Theodor Masaryk (Bonn, Cohen 1930, vol. I, pp. 109-116), poi in Saggi filosofici e religiosi, cit., pp. 125-135. 67 Cfr. Kant, cit., pp. 180, 267-269. Si veda pure, come ampliamento di questa interpretazione, La religione, «Rivista di filosofia», XXVI, 1935, pp. 193-212 (poi in Ragione e fede, cit., pp. 271-294). 68 Kant, cit., p. 249.

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gione che muova guerra alla ragione non saprà resisterle troppo a lungo69, il Kant di Martinetti si dispiega così nella sua fondamentale unità: come già nell’Introduzione alla metafisica, dalle attività unificatrici dello spirito quali si svolgono in connessione con la sensibilità, guadagnando il valore positivo del mondo noumenico come regno della libertà e della spontaneità assoluta, e di qui configurando infine l’intelligibile come limite simbolico del conoscibile e come regno della forma pura nella legge morale, la ragione si articola nel suo processo inesauribile verso quell’unica autentica realtà che è «il mistero» di tutte le cose, e che costituisce la mèta, ricordava Martinetti ai suoi studenti milanesi, verso cui deve volgersi la volontà degli uomini70.

5. Non diversamente dalla monografia kantiana anche il libro postumo su Hegel uscito da Bocca nel 1943 raccoglie un ciclo di lezioni universitarie del 1923-24 che, dopo aver conosciuto una modesta circolazione in veste litografica tra gli allievi di Martinetti, furono infine curate per la stampa nell’anno della morte da Cesare Goretti71. Anche per questo, in una frettolosa recensione dello Hegel di Martinetti uscita nell’agosto del 1945, Croce insinuò il dubbio che il libro avesse immeritatamente guadagnato l’onore della pubblicazione: tanto più – aggiungeva Croce – che in questa occasione il ben altrimenti «dotto conoscitore di filosofia», la cui opposizione al fascismo destava ancora legittima «venerazione», si era mostrato al di sotto delle sue qualità di studioso e si era avvicinato a Hegel in maniera distorta, non solo mostrandosi legato alle «linee della comune filosofia accademica ottocentesca», ma pure illudendosi di poter capire Hegel sulla base della concezione della verità come compito infinito, come inesau-

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Cfr. I. KANT, Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, in Kant’s gesammelte Schriften, vol. VI, Berlin, Reimer, 1914, p. 10; La religione entro i limiti della sola ragione, trad. it. di A. Poggi riv. da M.M. Olivetti, Roma-Bari, Laterza 1985, p. 11. 70 Cfr. Kant, cit., p. 297 (e pp. 67-70, 167 per quanto si dice del regno noumenico). 71 Si veda l’Avvertenza alla prima edizione in P. MARTINETTI, Hegel, a c. di G. Carchia, Milano, Celuc 1985, pp. 17-18.

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ribile approssimazione al vero: ciò che pareva a Croce un autentico «supplizio di Tantalo»72. Il giudizio di Croce era senza dubbio troppo severo. Intanto occorre notare che, rispetto alla presentazione di Hegel contenuta nella Introduzione alla metafisica, Martinetti ebbe se non altro il merito di fare in qualche misura i conti, intorno alla metà degli anni Venti, con quanto la recente Hegel-Renaissance tedesca era venuta producendo a partire dalla celebre monografia di Dilthey e dalla pubblicazione ad opera di Hermann Nohl degli scritti ‘teologici’ del giovane Hegel: un capitolo della fortuna novecentesca di Hegel che in quel momento, in Italia, era ancora sostanzialmente ignorato, e che avrebbe conosciuto una maggior attenzione solo a partire dalla fine degli anni Venti con gli studi di Enrico De Negri e Galvano Della Volpe73. D’altra parte è significa72

La recensione di Croce apparve nei «Quaderni della “Critica”», n. 2, agosto 1945, pp. 97-98 (poi in Nuove pagine sparse, 2a ed. ordinata dall’autore, Bari, Laterza 1966, vol. II, pp. 187-189). Un analogo giudizio si legge anche al termine del saggio crociano del 1948 Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel, poi in Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari, Laterza 19672, p. 28, ove Martinetti è definito «un egregio insegnante, formatosi nell’ambiente positivistico dell’Ottocento, quando pareva verità bene stabilita che Hegel fosse poco più di un ciarlatano dagli oscuri detti». A proposito dei rapporti tra Croce e Martinetti, oltre a quanto ne ha detto a suo tempo Norberto Bobbio nel saggio su Piero Martinetti, cit., pp. 116-118, merita di essere ricordato l’interesse di Croce per Gesù Cristo e il cristianesimo, che avrebbe dovuto originariamente uscire da Laterza (cfr. D. COLI, Croce, Laterza e la cultura europea, Bologna, Il Mulino 1983, p. 201). Su questo episodio si veda anche Carteggio Croce-Omodeo, a c. di M. Gigante, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Storici 1978, p. 70. 73 Cfr. E. DE NEGRI, La nascita della dialettica hegeliana, Firenze, Vallecchi 1930 e G. DELLA VOLPE, Le origini e la formazione della dialettica hegeliana, I, Hegel romantico e mistico (1793-1800), Firenze, Le Monnier 1929, poi in Opere, a c. di I. Ambrogio, vol. I, Roma, Editori Riuniti 1972, pp. 39-210 (da cui si cita). Si noti che Della Volpe ricordava in apertura il saggio di Martinetti del 1925 (qui citato alla nota seguente) come l’unico studio italiano che tenesse conto delle nuove ricerche hegeliane avviate da Dilthey (p. 41, ma cfr. pure p. 129). Di poco successivi ai contributi di Della Volpe e De Negri sono i tre importanti studi di Banfi Intorno al problema di una storia dell’idealismo, La filosofia della religione di Hegel e Rinascita hegeliana?, poi raccolti in Incontro con Hegel, Urbino, Argalìa 1965, pp. 65-193, 217-241 (uscirono tutti nel 1931: il secondo di essi apparve nel numero monografico della «Rivista di filosofia» dedicato a Hegel, che vide la collaborazione tra gli altri di Solari e Martinetti stesso [per i quali cfr. più oltre, note 79 e 84]). Delle ricerche di Dilthey e degli esiti della Hegel-Renaissance tede-

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tivo che Martinetti, oltre a utilizzare il libro di Dilthey (giudicato altrove «un biografo benevolo» di Hegel)74 o le edizioni hegeliane curate da Georg Lasson, non facesse il benché minimo riferimento alle interpretazioni di Croce e di Gentile, disdegnando persino di citare l’Enciclopedia dalla traduzione laterziana di Croce (o la Filosofia del diritto nella versione di Francesco Messineo); se mai, oltre alla monografia di Rudolf Haym e alla biografia canonica di Karl Rosenkranz, Martinetti preferiva appoggiarsi al libro su Hegel del neohegeliano Edward Caird, tradotto in italiano nel 1911 e imperniato su un’interpretazione religiosa dell’hegelismo che Martinetti non condivideva, ma che avvertiva come maggiormente degna di discussione di quanto non lo fossero la ‘riforma’ gentiliana o la separazione tra il ‘vivo’ e il ‘morto’ operata da Croce75. sca si mostrava però informato, già nel 1924, Alessandro Passerin D’Entrèves nel suo volumetto Il fondamento della filosofia giuridica di G.G.F. Hegel, cit., soprattutto pp. 37-41 (cui si può contrapporre, in negativo, il ‘profilo’ hegeliano dell’attualista Giuseppe Maggiore: cfr. Hegel, Milano, Athena 1924). Per un sintetico quadro di queste interpretazioni hegeliane cfr. L. SICHIROLLO, Hegel in Italia. Note in margine 1907-1977, in Filosofia storia istituzioni. Saggi e conferenze, Milano, Guerini e Associati 1990, pp. 315-334. Resta solo da aggiungere che Martinetti nutrì in generale un certo interesse per Dilthey, come stanno a dimostrare sia alcune sue recensioni – ancorché assai critiche nei confronti del ‘relativismo’ diltheyano – pubblicate sulla «Rivista di filosofia» nel 1936 (ora in Saggi filosofici e religiosi, cit., pp. 515-519), sia il fatto che nel 1929 Vittorio Enzo Alfieri preparò sotto la sua guida una tesi appunto su Dilthey, avendo generosamente in prestito da Martinetti i volumi delle Gesammelte Schriften (cfr. V. E. ALFIERI, Testimonianza su Martinetti, in Giornata martinettiana, cit., p. 35). 74 Così nel saggio del 1925 La filosofia religiosa dell’hegelianismo, poi in Saggi e discorsi, cit., pp. 146-166 (qui p. 165) 75 Cfr. E. CAIRD, Hegel, Edinburg and London, Blackwood 1882; Hegel, trad. it. di G. Vitali, Milano-Palermo-Napoli, Sandron s. d. [ma 1911]: se ne veda in specie la parte conclusiva, pp. 202-216. Il libro di Caird (in verità un testo abbastanza mediocre) aveva conosciuto una versione italiana su iniziativa di Gentile e di Croce; e Croce era pure in contatto col filosofo scozzese, il quale ne aveva apprezzato il saggio su Hegel (cfr. B. CROCE, Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 212). Probabilmente le ragioni di questo interesse sono da individuarsi nell’interpretazione hegeliana di Kant (per certi versi affine a quella di Spaventa) sostenuta da Caird nella monumentale opera The Critical Philosophy of Immanuel Kant uscita in due volumi nel 1889: cfr. per questo aspetto J. KOPPER, Einleitung a AA.VV., Materialien zur “Kritik der reinen Vernunft”, a c. di J. Kopper e R. Malter, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1980, pp. 52-55 e O. BELLINI, Una lettura idealistica dell’“Analitica trascendentale”. Saggio su Edward Caird, Milano, Giuffré 1990. Su Caird si veda

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Nel complesso, però, lo Hegel che emerge dalle lezioni universitarie di Martinetti non comporta una sostanziale revisione del giudizio espresso nella Introduzione alla metafisica, anche se il nuovo materiale e lo studio, in specie, di Dilthey contribuiscono a delineare un quadro più articolato76. In questa prospettiva Martinetti tenta di isolare il panlogismo hegeliano rispetto al decorso della filosofia tedesca da Kant in poi: Hegel, infatti, non rappresenta il compimento del classico cammino che conduce da Kant a Fichte e a Schelling (questo, dice Martinetti, è «radicalmente falso»), ma se mai un «antagonista» non solo di Kant, ma di Fichte e dello stesso Schelling. Il monismo di Hegel è piuttosto alimentato – secondo quanto ha mostrato Dilthey – dal «naturalismo storico» del secolo dei lumi e in parte dal naturalismo greco; il suo sviluppo conseguente è pertanto nella sinistra hegeliana e nel materialismo ottocentesco piuttosto che nell’idealismo platonicoleibniziano che da Kant arriva a Schopenhauer, a Lotze o a Spir77. Questo singolare criterio di valutazione porta Martinetti a riformulare le sue principali critiche nei confronti di Hegel (ancora una volta soprattutto lo Hegel dell’Enciclopedia), il cui «freddo razionalismo» mette capo agli arbitri e alle sofisticherie pure H. HALDAR, Neo-Hegelianism, London, Cranton 1927, rist. an. New York & London, Garland 1984, pp. 75-134. Per la fortuna di Caird in Italia andrà anche ricordata l’attenzione che gli dedicò la rivista dei modernisti milanesi: cfr. E. CAIRD, Per una definizione della religione, «Rinnovamento», I, 1907, fasc. 1, pp. 19-33. Infine una precisazione forse non irrilevante: come ebbe a ricordare Augusto Guzzo (cfr. Giornata martinettiana, cit., p. 100) fu Martinetti a incitare Cesare Goretti a occuparsi del neoidealismo inglese, traducendo i Prolegomena to Ethics di Thomas Green (usciti da Bocca nel 1925) e parzialmente Apparence and Reality di Francis Herbert Bradley (che vedrà la luce nel 1947 da Bompiani, con un’introduzione di Banfi): ad entrambi Goretti dedicò inoltre due saggi, pubblicati tra il 1933 e il 1936 sulla «Rivista di filosofia». 76 Ciò vale in primo luogo per la biografia e la personalità di Hegel, che tuttavia Martinetti valuta con scarsa simpatia: cfr. Hegel, cit., pp. 19-48 (particolarmente p. 45). Si veda inoltre La filosofia religiosa dell’hegelianismo, cit., pp. 163-166. 77 Cfr. Hegel, cit., pp. 49-65. L’interpretazione di Dilthey, cui Martinetti si richiama semplificandola in larga misura, è in realtà assai più sfumata: cfr. W. DILTHEY, Die Jugendgeschichte Hegels, in Gesammelte Schriften, vol. IV, Stuttgart-Göttigen, Teubner-Vandenhoeck & Ruprecht 19592 , p. 64; Storia della giovinezza di Hegel e frammenti postumi, trad. it. di G. Cavallo Guzzo, Napoli, Guida 1986, p. 101.

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del metodo dialettico, puro «giuoco di concetti» e di «astrazioni evanescenti» che lavora in costante «perdita» e che culmina nel mostruoso edificio della filosofia della natura78. Tra le righe le vecchie obiezioni di Trendelenburg erano ancora ben presenti, e in effetti si sarebbero fatte esplicite qualche anno più tardi, in un articolo per il centenario della morte di Hegel uscito sulla «Rivista di filosofia», in cui Martinetti, rifacendosi appunto alle Logische Untersuchungen di Trendelenburg, denunciava il passaggio hegeliano da un concetto astratto all’altro come il mero frutto «di un subreptizio appello all’intuizione»79. Né d’altronde l’applicazione della dialettica al mondo storico poteva sfuggire ad analoghe obiezioni e, a ben vedere, danneggiava irreparabilmente tanto la storia quanto la filosofia: da qualunque parte la si considerasse, la dialettica hegeliana appariva insomma a Martinetti come un «vano voler costruire un sapere obiettivo a priori»80. Ma se Martinetti tornava a ribadire la sua critica di fondo all’hegelismo rilevando la «contraddizione radicale» di concepire l’Assoluto come un processo costituito dai suoi stessi momenti81, non mancavano poi i riconoscimenti positivi e le pur caute aperture nei confronti di Hegel. Se poco di più di una curiosità è l’interesse di Martinetti per i paragrafi dell’Enciclopedia in cui, con «mirabile» comprensione per le «profondità misteriose della vita», è trattata la psicologia82, più rilevante è invece quanto Mar78

Cfr. Hegel, cit., pp. 47, 80, 115-126, 147-153. Si tenga pure presente il giudizio sulla logica hegeliana: «È veramente con un senso di pena che si vede un così alto ingegno sobbarcarsi ad una fatica che doveva necessariamente essere vana, ad un compito impossibile: la deduzione dialettica del sistema delle categorie» (p. 137). Altrettanto emblematico è quanto Martinetti dice della Fenomenologia, rifiutando peraltro la ‘scomunica’ hegeliana della teoria della conoscenza (pp. 101-104). 79 P. MARTINETTI, Il metodo dialettico, «Rivista di filosofia», XXII, 1931, pp. 281-98 (poi in Saggi filosofici e religiosi, cit., pp. 137-152: qui p. 148). Probabilmente Martinetti ebbe a constatare con soddisfazione come lo stesso Dilthey, nei manoscritti pubblicati da Nohl in appendice alla Jugendgeschichte Hegels, cit., pp. 229-230; trad. it. cit., p. 327, avesse espresso ancora piena adesione alla critica del metodo dialettico svolta da Trendelenburg. 80 Hegel, cit., p. 153, 233-234. Più sfumato, ma nella sostanza non diverso, è il giudizio sulla filosofia della storia hegeliana che si legge in Kant, cit., p. 227. 81 Cfr. Hegel, cit., pp. 97-98, 245. 82 Ivi, pp. 159-160. Su questo punto Martinetti ritornerà nel tardo arti-

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tinetti dice della filosofia politica hegeliana, di cui apprezza particolarmente – una volta liberato il campo dai soliti artifici dialettici – la visione «nuova e geniale» che conduce Hegel a criticare il liberalismo corrente in nome di una superiore concezione dello Stato, in quanto «volontà morale» che solleva al piano dell’universalità le volontà particolari83. Beninteso, Martinetti non ci ha lasciato pagine di particolare importanza sullo Hegel politico: così, ad esempio, la breve trattazione della società civile hegeliana (oggetto invece, per citare uno studioso vicino a Martinetti, dello splendido saggio del 1931 di Solari) è ancora una volta incentrata sull’accusa a Hegel di aver voluto inserire l’analisi del sistema dei bisogni entro «un barocco artificio dialettico» che ne fa il termine medio tra la famiglia e lo Stato, laddove la società civile si risolve già, secondo Martinetti, nello Stato84. Anche le valutazioni positive della filosofia politica hegeliana sono pur sempre temperate, per un verso, dal rimprovero che Martinetti muove a Hegel di aver del tutto frainteso il significato della morale kantiana, e per un altro dal fatto che Martinetti non si stanca di sottolineare come lo Stato, pur dovendo rappresentare un’unità organica, non debba costituire la realizzazione ultima del piano morale, bensì lo strumento al servizio dei valori della morale85. Tuttavia rimane di qualche interesse l’elogio che Martinetti rivolge a Hegel per aver colo Occultismo e divinazione, «Studi filosofici», II, 1941, pp. 225-238 (poi in Saggi filosofici e religiosi, cit., pp. 297-310: cfr. specie pp. 307-310). 83 Cfr. Hegel, cit., pp. 192, 203. Più oltre, con riferimento alla teoria hegeliana della monarchia costituzionale, Martinetti non esita a definire Hegel un pensatore «liberale» (p. 207); ciò tuttavia non gli impedisce di accreditare in altri luoghi la vecchia immagine dello Hegel ‘prussiano’ adulatore del militarismo (cfr. pp. 43, 229, e pp. 229-230 per la dura condanna della giustificazione hegeliana della guerra). 84 Ivi, pp. 188, 194-196. Il saggio di Solari cui si è fatto riferimento è Il concetto di società civile in Hegel, «Rivista di filosofia», XXII, 1931, pp. 299347 (poi in La filosofia politica, cit., vol. II, pp. 209-265, da cui si cita). Ripubblicando questo saggio nel ‘49 Solari aggiunse un rilievo critico su Martinetti (p. 240 n. 20), che sulle orme di Lasson aveva negato la legittimità del diritto astratto o privato separato da quello pubblico (cfr. Hegel, cit., p. 188). Su Solari interprete di Hegel cfr. N. BOBBIO, Lo studio di Hegel, in AA.VV., Gioele Solari (1872-1952), cit., pp. 37-47. 85 Cfr. Hegel, cit., p. 185. Cfr. pure Breviario spirituale, cit., pp. 145-165, 168-169; Antologia kantiana, cit., p. 291 e le osservazioni di G. SOLARI, Libertà e giustizia nel pensiero di Piero Martinetti, «Rivista di filosofia», XXXVI, 1945, p. 32.

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concepito lo Stato al di fuori dei quadri del liberalismo classico, e in particolare per aver compreso, «con veduta profonda», quanto sia «superficiale» la teoria della «libera Chiesa in libero Stato»86. È un punto sul quale Martinetti insiste ancora nel 1928 nel libro su La libertà, dove la religione viene considerata non come un fatto personale, bensì come un elemento fondamentale della vita collettiva: per questo motivo lo Stato, come già aveva sostenuto Hegel, deve aiutare materialmente le Chiese, vigilare sulla tolleranza religiosa e sul rispetto da parte delle Chiese dei diritti dello Stato, e infine farsi promotore della vita religiosa87. Sotto questo profilo Martinetti giungeva anche a rivalutare il tentativo compiuto da Hegel di concepire la religione come un aspetto centrale della vita storica e di intenderla essa stessa, con «finezza e profondità», come un fenomeno storico88. La sua simpatia andava pertanto allo Hegel più religiosamente ispirato delle pagine iniziali delle Vorlesungen über die Philosophie der Religion oppure al giovane Hegel che sotto l’influsso di Kant aveva composto i frammenti su Volksreligion und Christentum e il Leben Jesus89. Ma qui Martinetti subito si fermava: l’esito conclusivo della filosofia della religione hegeliana è infatti l’umanizzazione e la comprensione immanente della religione come un momento dell’Assoluto, cioè una forma di panteismo idealistico che appare irreligioso e incapace di afferrare il fondamento trascendente senza il quale la religione diviene «vana parola»90. E questa è in 86

Cfr. La filosofia religiosa dell’hegelianismo, cit., p. 158. Cfr. La libertà, cit., pp. 383-384; ma cfr. pure Scritti di metafisica e di filosofia della religione, cit., vol. II, pp. 658-666. A questo confronto con la filosofia politica hegeliana non accenna nemmeno C. SCARCELLA, Piero Martinetti: politica e filosofia. Con alcuni pensieri inediti, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane 1989. 88 Cfr. Hegel, cit., pp. 238-243 e La filosofia religiosa dell’hegelianismo, cit., p. 159. 89 Cfr. Hegel, cit., pp. 169-170; ma si veda pure Gesù Cristo e il cristianesimo, cit., vol. I, p. 239, ove Martinetti sembra riecheggiare l’analisi hegeliana della «positività» della religione cristiana. Sul kantismo del giovane Hegel Martinetti trovava conferma anche in W. DILTHEY, Die Jugendgeschichte Hegels, cit., pp. 18-28; trad. it. cit., pp. 39-51. 90 Hegel, cit., p. 244; cfr. pure La filosofia religiosa dell’hegelianismo, cit., pp. 150-151. Pure a proposito dell’insistenza sul panteismo hegeliano non è difficile scorgere un debito di Martinetti con le tesi di Dilthey (cfr. Die Jugendgeschichte Hegels, cit., pp. 43-68, 138-157; trad. it. cit., pp. 75-95, 20187

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fondo, per Martinetti, la grandezza e a un tempo la colpa del pensiero hegeliano: di aver compenetrato dell’Assoluto e dell’eterno ogni aspetto della realtà, senza tuttavia comprendere come lo svolgimento verso l’unità ideale sia sempre un processo inesauribile, che muovendo dall’insoddisfazione per il presente tende infinitamente verso ciò che trascende il reale e rinvia oltre di esso91. Ancora una volta Martinetti non poteva dunque che contrapporre alla ragione hegeliana e alla pretesa – tipica di ogni dogmatismo razionalistico – di ricostruire dialetticamente il reale la ragione kantiana come visione consapevole del limite, oltre il quale si apre l’ignoto di una «lontananza infinita»92.

6. Molto probabilmente Martinetti non avrebbe disdegnato l’appellativo di «kantiano sui generis» che gli è stato attribuito93. In effetti il rapporto con Kant, via via sempre più stretto anche se fortemente condizionato da un’istanza metafisico-religiosa più martinettiana che kantiana, non solo illumina una parte cospicua della produzione matura del filosofo canavesano, ma è alla base di quel suo rigorismo morale, di quella sua fermezza che, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, rappresentano qualcosa di più di un eccentrico fenomeno di ‘catarismo’ medievale trapiantato in epoca moderna. Tutti sanno dell’opposizione di Martinetti al fascismo e delle nobili parole con cui egli reagì al burrascoso andamento del famoso VI Congresso Nazionale di Filosofia svoltosi a Milano nel 1926; ma non è superfluo ricordare che in quella fiera resistenza morale alle prevaricazioni congiunte dello 226). Anche Wundt aveva del resto sottolineato come la filosofia di Hegel sfociasse in un mero «panteismo evoluzionistico» (Einleitung in die Philosophie, cit., p. 400). 91 Cfr. Hegel, cit., pp. 96-98 e La filosofia religiosa dell’hegelianismo, cit., p. 154. 92 Breviario spirituale, cit., p. 34. Cfr. Hegel, cit., pp. 110-111 e soprattutto la conclusione, p. 245: «La filosofia di Hegel può […], come il positivismo ed il materialismo, essere una filosofia adatta a certe particolari età […]; ma la via maestra del pensiero vitale dell’avvenire non ci conduce ad essa, anzi ce ne allontana». 93 Cfr. G. DE LIGUORI, Kant e la religiosità filosofica di Piero Martinetti, in AA.VV., A partire da Kant. L’eredità della “Critica della ragion pratica”, a c. di A. Fabris e L. Baccelli, Milano, Franco Angeli 1989, p. 181.

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Stato autoritario e dell’intolleranza neoscolastica Martinetti difendeva a un tempo la concezione della religione e dello Stato che aveva affidato ai suoi studi su Kant e sulla cui base aveva ripensato l’eredità hegeliana94. Di più: in tempi sempre più oscuri egli preferiva redigere una ponderosa opera sulla libertà piuttosto che concludere la sofferta redazione della sua metafisica, quasi a delineare una personale ma non meno degna ‘religione della libertà’ fermamente avversa alle forze che, distruggendo la libertà, conducono a morte la «stessa essenza divina dello spirito»95. Non a caso Martinetti aveva iniziato le sue lezioni kantiane ricordando come Kant costituisse il «fondamento d’ogni pensiero vivente», un punto di orientamento indispensabile anche se bisognoso di ulteriori svolgimenti96. In questo senso tutta l’opera del Martinetti più letto e più a ragione rispettato si intreccia veramente con il ‘suo’ Kant e ne costituisce in qualche modo il naturale prolungamento, dal libro su La libertà al grande affresco di Gesù Cristo e il cristianesimo sino alla maggior parte dei saggi raccolti in Ragione e fede. Tre opere, del resto, che scandiscono altrettanti grandi temi tra loro connessi: la libertà dell’uomo e il suo rapporto con la morale, la religione laica, e infine la ragione come comune fondamento, come unica «vera grazia»97. Così, nella Libertà a Kant è riconosciuto il ruolo «più eminente»: non tanto perché Martinetti condivida sino in fondo la dottrina kantiana della libertà, che anzi egli giudica compromessa con la libertà d’indifferenza, quanto perché Kant è stato il primo a risolvere il contrasto tra necessità e libertà mostrando come si tratti piuttosto di una distinzione tra due differenti punti di vista o gradi della realtà98. E se la libertà è, come vuole Kant, «attività 94

Cfr. supra, cap. 8, pp. 280, 282 e n. 76, 81. Sull’intera vicenda si rimanda all’esauriente ricostruzione di A. VIGORELLI, Piero Martinetti, cit., pp. 245-263. Per l’opposizione al fascismo cfr. in particolare Lettere di Piero Martinetti, a c. di I. Raboni, «Il Ponte», VII, 1951, pp. 341-345. 95 La libertà, cit., p. 446. Cfr. E. GARIN, Intellettuali italiani del XX secolo, cit., p. XIV. 96 Cfr. Kant, cit., pp. 9, 22. 97 Ragione e fede, «Rivista di filosofia», XXV, 1934, pp. 6-25 (poi, ampliato, in Ragione e fede, cit., pp. 9-72: qui p. 37). 98 Cfr. La libertà, cit., pp. 269, 278. Su questi temi si sofferma G. MODICA, Il problema kantiano della libertà secondo Martinetti, in La tradizione kantiana in Italia, cit., vol. II, pp. 561-570.

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conforme alla ragione», si dovrà allora parlare della libertà come di un processo di «graduale liberazione», come un graduale passaggio – in termini kantiani – dal carattere empirico al carattere intelligibile: perché la nostra vita empirica, sottolinea Martinetti con Spinoza, non è vita nella libertà ma vita verso la liberazione, verso l’ordine razionale divino, verso quel Dio che deve essere pensato come ragione99. Del resto è questa prospettiva che conduce Martinetti a vedere in Kant il punto di riferimento insostituibile per la stessa comprensione storica e filosofica del cristianesimo, giacché l’opera kantiana costituisce non solo «una vera riforma religiosa», ma il più consapevole tentativo di elaborare filosoficamente il tema della «chiesa invisibile» come autentica e unica chiesa «di tutti gli spiriti»100. Più ancora che nella Libertà, in Gesù Cristo e il cristianesimo Kant assume dunque il ruolo di filo conduttore che assicura all’indagine storica il carattere di «ricostruzione organica»101; ed è non solo il Kant della Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, ma il Kant della lettera a Lavater del 28 aprile 1775 che vede nel Vangelo non il fondamento bensì la «corroborazione» della fede: onde la degenerazione del Cristianesimo e la sua paganizzazione sono iniziate, commenta Martinetti, «già subito con Paolo», lungo un processo di corruzione e di mondanizzazione sempre più inarrestabile di quella fede che dovrebbe invece rimanere «un tesoro secreto dell’animo» e una conquista seppure provvisoria della ragione102. Il regno di Dio annunciato da Gesù e il mondo intelligibile di Kant, dirà poi

99

Cfr. La libertà, cit., pp. 368, 434-435, 440, 444 e Spinoza, cit., p. 261. Gesù Cristo e il cristianesimo, cit., vol. II, pp. 111, 273. 101 Ivi, vol. I, p. 170. 102 Ivi, vol. II, p. 338 e Ragione e fede, cit., p. 68. Il testo della lettera di Kant a Lavater è riprodotto nell’Antologia kantiana, cit., pp. 266-269 (cfr. Kant’s gesammelte Schriften, vol. X, Briefwechsel, t. 1, Berlin und Leipzig, De Gruyter 19222, pp. 175-179; se ne veda la trad. it. di O. Meo in I. KANT, Epistolario filosofico 1761-1800, Genova, Il Melangolo 1990, pp. 88-92). Su di essa cfr. Kant, cit., pp. 281-282, nonché il testo di una lettera di Martinetti a Varisco del 15 marzo 1926 pubblicata in Lettere a Bernardino Varisco, cit., p. 330. Da ricordare è pure l’interesse di Martinetti per una Reflexion kantiana ove si dice che Gesù ha abbattuto «la sapienza delle Scritture» per erigere nei cuori «il tempio di Dio»: cfr. su ciò Gesù Cristo e il cristianesimo, cit. vol. II, pp. 108-109 e Kant, cit., p. 280. 100

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Martinetti in uno dei saggi che compongono Ragione e fede, «sono fondamentalmente la stessa cosa»103; ed è questo veramente il punto di arrivo del Kant di Martinetti, il focus imaginarius verso il quale tende il suo personalissimo dialogo con la filosofia critica. Certamente diverso è il rapporto che Martinetti intrattiene invece con Hegel, con quello Hegel che avversava e, addirittura, ‘odiava’104. Tanto più che ai suoi occhi l’hegelismo era rinato nella cultura filosofica italiana in forme ancor più insidiose ad opera di Croce e di Gentile, nei confronti dei quali come ben noto Martinetti non nutriva alcuna simpatia (al punto da non possederne neppure le opere nella sua ricca biblioteca)105. In questa direzione il suo atteggiamento fu sempre polemico106, o addirittura – come documenta l’aspra replica alla recensione della Libertà ad opera di Ugo Spirito – di infuocata avversione per «quel nauseante argomento delle logomachie neo-hegeliane, che è il processo dialettico della filosofia»107. Eppure, se si va al di là di questo aspetto, il rapporto di Martinetti con Hegel appare assai meno scontato. Già Banfi aveva notato, a questo proposito, come il 103

Ragione e fede, cit., p. 371. Su questo punto cfr. E. GARIN, La “fortuna” nella filosofia italiana, in AA.VV., L’opera e l’eredità di Hegel, a c. di V. Verra, Bari, Laterza 1974, p. 138 e, sempre di Garin, La filosofia italiana di fronte al fascismo, in AA.VV., Tendenze della filosofia italiana nell’età del fascismo, cit., p. 38. Forse per questo il nome di Martinetti non ricorre una sola volta nel libro di A. NEGRI, Hegel nel Novecento, Roma-Bari, Laterza 1987. 105 Lo ha sottolineato N. BOBBIO, In ricordo di Emilio Agazzi, «Fenomenologia e società», XV, 1992, n. 1, p. 11. 106 Cfr. ad esempio Il compito della filosofia nell’ora presente (1920), poi in Saggi e discorsi, cit., p. 78, ove peraltro Martinetti accosta non molto felicemente l’«idealismo immanente» di Croce a quello di Cohen e Bergson (su questo saggio di Martinetti si veda la recensione decisamente negativa scritta da Gentile per «La Critica», XIX, 1921, pp. 176-179, ora in Frammenti di storia della filosofia, cit., pp. 932-937). Per alcuni giudizi inediti di Martinetti su Croce cfr. A. VIGORELLI, Rileggere Piero Martinetti, «Rivista di storia della filosofia», XLIV, 1989, p. 536 n. 19. 107 P. MARTINETTI, La libertà: a proposito di una recensione, «Rivista di filosofia», XX, 1929, pp. 263-264, poi in Saggi filosofici e religiosi, cit., pp. 579-580. Concludeva Martinetti: «non ho mai perduto, né perderò mai un’ora del mio tempo a leggere i testi di questa filosofia italiana contemporanea, nemmeno per recensirli». La recensione di Spirito era uscita sul «Giornale critico della filosofia italiana», X, 1929, pp. 149-152 (e pp. 513-514 per la successiva replica di Spirito a Martinetti). Per il giudizio di Spirito su Martinetti si veda pure L’idealismo italiano e i suoi critici, cit., pp. 5-7. 104

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razionalismo religioso di Martinetti condividesse con l’idealismo postkantiano in genere e con Hegel in particolare (ma anche con Spinoza) «il principio dell’assoluto razionalismo»108. In effetti Martinetti sottolinea che Hegel in fondo accoglie da Kant la concezione della realtà come formazione spirituale, come «creazione della ragione»109; e la razionalità – come egli scriverà altrove – «è per noi l’elemento essenziale del mondo»110, al punto che il momento stesso del negativo, del male, del dolore deve essere considerato come «un elemento razionale e necessario della realtà»111. Ma il rapporto in qualche modo sotterraneo con Hegel si manifesta pure in un’altra direzione. Lo svolgimento della vita spirituale coincide infatti per Martinetti, come si legge in quel minuscolo e singolare libretto che è il Breviario di metafisica, con la libertà: lo spirito è libertà112. La vita spirituale è una progressione di forme che via via ingloba le forme inferiori e le supera in una sintesi più vasta, secondo una graduale approssimazione all’Unità ultima113: se questo processo si era presentato a Martinetti dapprima sulla scorta della «spirito collettivo» così come lo intendeva Wundt, sembra difficile negare che più stretto si sia fatto in seguito il rapporto con lo spirito oggettivo hegeliano114. Non accidental108

A. BANFI, Piero Martinetti e il razionalismo religioso, cit., pp. 59-62. Hegel, cit., p. 50. 110 Il valore obbiettivo della morale, «Rivista di filosofia», XXXIV, 1943, pp. 81-119 e XXXV, 1944, pp. 1-46 (poi in Saggi filosofici e religiosi, cit., pp. 409-480: qui p. 414). Sulla ragione come fondamento della realtà cfr. pure La libertà, cit., pp. 241-242. 111 Scritti di metafisica e di filosofia della religione, cit., vol. I, p. 394. Non è inopportuno ricordare, a questo proposito, che Martinetti contesta invece a Spinoza la visione del male come «un semplice non ente» (Spinoza, cit., p. 236). 112 Cfr. Idealismo e trascendenza, «Rivista di filosofia», XXXIV, 1943, pp. 1-8 (poi in Saggi filosofici e religiosi, cit., pp. 53-58: qui p. 56). Questa raccolta di pensieri, in cui è condensata tutta la filosofia di Martinetti, era già uscita anonima in pochi esemplari a Milano nel 1926 (presso la tipografia Serra-Tirani) appunto col titolo Breviario di metafisica. 113 Cfr. ad esempio La libertà, cit., p. 325 e Del conflitto tra religione e filosofia, poi in Saggi e discorsi, cit., p. 51 (quest’ultimo testo era uscito nel 1914 su «Coenobium»: lo si legge anche in A. CAVAGLION, Coenobium 1906-1919. Un’antologia, Comano, Edizioni Alice 1992, pp. 81-85). 114 Su Wundt cfr. Scritti di metafisica e di filosofia della religione, cit. vol. I, p. 304. Per un riferimento esplicito alle convergenze tra Wundt e Hegel cfr. La libertà, cit., p. 245. 109

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mente, del resto, nelle sue ultime pagine Martinetti ebbe a ricordare che «se la vita dello spirito costituisce la realtà ultima, la vita morale ha essa stessa in questa obbiettività stessa dello spirito il suo fondamento più sicuro»115. Ed è un riconoscimento che porta Martinetti a rivedere il suo giudizio sulla critica di Hegel alla morale kantiana, riconoscendo ora che Hegel aveva avuto ragione a considerare la moralità «non come una semplice subordinazione alla legge del dovere», bensì come la ricerca di «un’unità più perfetta della vita dovuta alla connessione con altri uomini»: connessione che Martinetti, però, vede poi realizzata non tanto nelle forme concrete della vita associata quanto nell’amore, e quindi attraverso quel moralismo mediato da Schopenhauer che occupa tante pagine del Breviario spirituale116. Tuttavia Martinetti si distacca nettamente da Hegel su un punto cruciale: egli ritiene cioè che l’idealismo hegeliano e quello immanente in genere non siano in grado di dare veramente conto della vita spirituale perché ne rifiutano il fondamento trascendente. Nell’ascensione mai conclusa verso il puro intelligibile, l’Assoluto non può configurarsi come attuale, ma solo come un’idea regolativa kantiana; e proprio per questo occorre, nonostante tutto, «ritornare da Hegel a Kant»117, sciogliendo le forme della vita da ogni irrigidimento dialettico per disporle piuttosto sul piano di un infinito dover essere118. Ed è significativo che, in questo quadro, Martinetti abbia rifiutato quello sviluppo in senso hege115

Il valore obbiettivo della morale, cit., p. 455. Cfr. anche Sul fondamento trascendente della vita morale, «Rivista di filosofia», XXIX, 1938, pp. 193211 (poi in Ragione e fede, cit., pp. 385-407: qui p. 385). 116 Cfr. Il valore obbiettivo della morale, cit., p. 455; Breviario spirituale, cit., pp. 198-226. Sul tema dell’amore Martinetti avrebbe concluso, nel 1938, un libro rimasto a lungo inedito tra le sue carte e solo recentemente pubblicato (cfr. P. MARTINETTI, L’amore, a c. di A. Di Chiara, Genova, Il melangolo 1998): un testo che conferma, nel quadro di una sorta di ‘fenomenologia’ dell’amore a partire dalle forme elementari dell’erotismo per giungere all’istituzione matrimoniale, la visione ‘ascensionale’ della vita spirituale, che come una «catena» si eleva «verso una sublimazione sempre più perfetta della vita», avvicinando progressivamente lo spirito a Dio (ivi, pp. 81-82, 85). Del libro di Martinetti aveva già dato ampie notizie A. VIGORELLI, Piero Martinetti, cit., pp. 360-384, correggendo l’immagine un po’ stereotipata di un Martinetti «severamente ascetico». 117 Il valore obbiettivo della morale, cit., p. 480. 118 Cfr. Idealismo e trascendenza, cit., pp. 53-54.

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liano del kantismo che vedeva riproposto nella «cosiddetta filosofia della cultura», ossia in un tipo di filosofia a suo avviso destinata a smarrire, insieme al fondamento trascendente e religioso della realtà, la giustificazione di ogni distinzione di valore, di ogni sviluppo della vita spirituale119. È un tema che non solo ritorna in tutta la riflessione di Martinetti, ma che ne costituisce sempre più, specie negli ultimi anni della sua vita, l’unico, quasi monocorde motivo, il ‘vertice’ estremo dal quale egli giudicava il dibattito filosofico contemporaneo e il tumultuoso sviluppo della storia, negando pessimisticamente quelle stesse forme spirituali di cui aveva pur disegnato la graduale ascesa verso l’Unità120. L’assoluta trascendenza di Martinetti si risolveva così in una chiusura metafisica della ragione, mentre la pur valida esigenza di spezzare l’impianto più pesantemente speculativo della filosofia hegeliana in nome di una ripresa dell’autonomia della ragione in chiave trascendentale si arenava nella ricerca di una via metafisica che conducesse oltre il ‘limite’. Come avrebbe osservato Banfi ricollegandosi sia allo Hegel della Fenomenologia dello spirito così poco compreso da Martinetti, sia a una parte rilevante della filosofia tedesca degli anni Venti tra neokantisno e neohegelismo, al fondo di questo percorso vi è il rischio di smarrire la «fecondità teoretica» del razionalismo religioso martinettiano, con il conseguente irrigidimento dogmatico di quella struttura ideale e costantemente aperta che è la ragione in quanto riflessione sul mondo della cultura e delle diverse forme dell’esperienza121.

119

Cfr. le importanti osservazioni che si leggono in Scritti di metafisica e di filosofia della religione, cit., vol. II, pp. 348-349. 120 Di questo atteggiamento sono documento eloquente alcune lettere a Nina Ruffini: «siamo qui – scrive ad esempio Martinetti il 7 luglio 1937 – per imparare a staccarci dalla vita»; ma emblematica è soprattutto la professione di ‘catarismo’ sostenuta in un giorno fatidico, il 10 giugno 1940 (cfr. Lettere inedite di Piero Martinetti, cit., pp. 448, 464). 121 Cfr. A. BANFI, Piero Martinetti e il razionalismo religioso, cit., pp. 6365; Incontro con Hegel, cit., pp. 178-179, 281-299; Principi di una teoria della ragione, cit., p. 367. Sul rapporto Banfi-Martinetti sono da vedersi le esatte considerazioni di E. GARIN, Intellettuali italiani del XX secolo, cit., pp. 230233, 245-249. Ma cfr. anche A. VIGORELLI, Piero Martinetti, cit., specie pp. 188-199, nonché M. DAL P RA, Kantismo ed hegelismo in Banfi, in AA.VV., Antonio Banfi (1886-1957), Milano, Unicopli 1984, pp. 21-35.

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Si può quindi comprendere in qual senso Martinetti possa essere collocato – nonostante l’involucro di una personale meditazione metafisica fieramente chiusa nella propria «torre»122 – entro la tradizione filosofica del Novecento, in cui così ricorrente e dibattuta è stata la questione dell’alternativa, o del rapporto, tra Kant e Hegel, ovvero tra due percorsi differenti, ma non necessariamente escludentisi reciprocamente, di una possibile ‘teoria della ragione’. D’altronde proprio Martinetti, presentando nel 1904 l’Introduzione alla metafisica, non aveva esitato ad affermare che sin troppo nota gli era «la minima parte che ha avuto l’individuo nella costituzione della tradizione filosofica» per nutrire l’«illusione puerile» di poter risolvere i problemi filosofici affrontati nel suo libro (IM, 6). Martinetti era insomma perfettamente consapevole, a dispetto dello scarso senso storico che gli è stato spesso rimproverato, di quanto potesse risultare vano e privo di fondamento voler separare la filosofia dalla «tradizione filosofica», la quale costituisce – secondo quanto egli stesso ribadirà in più di un’occasione – «la prima ed essenziale condizione per la filosofia»123. E almeno in questo il ‘kantiano’ Martinetti era certamente più vicino ad Hegel di quanto non appaia a prima vista: per lui, come per Hegel, «la vera peculiarità di una filosofia è l’interessante individualità, in cui, con i materiali da costruzione di una determinata epoca, la ragione si è organizzata una figura»124.

122 È l’espressione che Martinetti impiega nella lettera a Michele Federico Sciacca pubblicata dallo stesso Sciacca nel suo Martinetti, Brescia, La Scuola Editrice 1943, p. 21. 123 Cfr. La libertà, cit., p. 21 e Scritti di metafisica e di filosofia della religione, cit., vol. I, p. 37 n. 17; vol. II, p. 465. Ma si veda pure Breviario spirituale, cit., p. 248. Sullo «storicismo martinettiano, per il quale la lezione della scuola storica ottocentesca non sembra davvero passata invano», cfr. A. VIGORELLI, Piero Martinetti, cit., p. 340. 124 G.W.F. HEGEL, Differenz des Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie, in Gesammelte Werke, vol. IV, a c. di H. Buchner e O. Pöggeler, Hamburg, Meiner 1968, p. 12; Differenza fra il sistema di Fichte e di Schelling, in Primi scritti critici, trad. it. di R. Bodei, Milano, Mursia 1971, pp. 12-13.

INDICE DEI NOMI

Abbagnano, N. 114n., 280 e n. Acocella, G. 42n. Adickes, E. 69 Adler, F. 155 e n. Adler, M. 28 Agazzi, Emilio 30n., 314n., 329n. Agazzi, Evandro 169n. Albertazzi, L. 38n., 59n. Alessio, F. 270n., 325n., 332n. Alfieri, V.E. 337n. Aliotta, A. 126n., 129n., 267 e n., 275 e n., 284, 289, 298 e n., 299 e n., 300, 301n., 303, 304 e n., 305 e n., 307 Allievo, G. 311, 320, 321n. Alliney, G. 83n., 290n. Amaldi, U. 222n. Amato, P. 37n. Amato Pojero, G. 63n., 143n., 148n., 149n., 160n., 176 e n., 178 e n., 196n., 199n., 200 e n., 221n. Ambrogio, I. 336n. Ambrosi, L. 270n. Ambrosoli, L. 42n., 80n. Amendola, G. 126 e n., 143 e n., 300 e n., 324n. Ameri, E. 53 Andreucci, F. 29n.

Angelelli, I. 167n. Angiulli, A. 41, 44, 46 e n., 47 e n., 134, Antoni, C. 114n. Aqueci, F. 154n. Ardigò, R. 38, 41, 47 e n., 48 e n., 49, 50, 53, 56, 57, 58, 69, 82, 86, 100, 102 e n., 103, 104, 105 e n., 106n., 107, 108 e n., 109, 110, 112 e n., 114, 115, 119 e n., 120n., 131, 132, 133, 134n., 207, 213n., 214, 219n., 226, 227 e n., 228, 229 e n., 252, 254, 256 e n., 258, 260 e n., 261, 263 e n., 277, 278n., 281, 282, 284n., 287, 292, 293, 317n. Aristotele 145, 173, 191, 219, 327 Arnaud, E. 248n. Aspray, W. 159n. Asturaro, A. 40 Avenarius, R. 108, 245, 312 Baccelli, L. 342n. Bachelard, G. 242 Bacone, F. 43n., 121, 173 Baldini, U. 49n. Baldwin, Th. 118n. Balsamo, L. 54n.

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Banfi, A. 135, 275 e n., 276, 277 e n., 278 e n., 279 e n., 280n., 312n., 330n., 336n., 338n., 345, 348 e n. Baratono, A. 29, 281n. Barbano, F. 37n. Barge, M. 243n. Barone, F. 146n., 175n., 177n., 197n. Bartocci, C. 156n. Barzellotti, G. 16, 20, 23n., 286n., 293n. Bassi, S. 15n., 132n., 133n. Batschinski, A. 240n. Bausola, A. 204n. Becchi, E. 130n. Belardinelli, S. 213n. Bellezza, V.A. 14n., 65n., 204n. Bellini, O. 337n. Benedetti, G.B. 145n. Benn, A.W. 90n. Bergson, H. 33, 60, 69, 84, 345n. Berkeley, E.M. 163n. Berkeley, G. 147n. Bernstein, E. 28 Berr, H. 46n. Bersellini Rivoli, G. 325n. Berti, E. 40n. Bertolini, L. 279n. Besoli, S. 19n. Bianchi, I.A. 136n. Bieberbach, I. 241n. Bissolati, L. 106n. Blackmore, J. 148n., 149n. Bobba, R. 321n. Bobbio, N. 28n., 50 e n., 92n., 93n., 106n., 143n., 204n., 253 e n., 254, 280 e n., 281, 336n., 340n., 345n. Bodei, R. 349n. Bodemann, E. 171 e n.

Boltzmann, L. 245 Bolzano, B. 168 e n., 199 e n. Bona, I. 171n. Bona Cucco, E. 196n. Bonatelli, F. 69, 108n., 255, 284, 291, 295, 301 e n., 302 e n. Bonaventura, E. 289 e n. Bonetta, G. 42n. Bonfantini, M.A. 59n. Bongiorno, V. 38n. Bonito Oliva, R. 19n. Boole, G. 165, 167, 197, 202n. Borga, M. 170n., 188n. Bottazzini, U. 205, 206n., 208n., 211n., 290n. Boutroux, É. 159 Boutroux, P. 207, 242, 252 Bozzi, S. Bradley, F.H. Brancaforte, A. 63n., 177n. Breda, H.L. van 167n. Brentano, F. 58, 59, 78n., 147 e n., 160n., 168, 190, 202 e n., 308 e n. Briamonte, N. 128n. Broad, Ch.D. 251 Bruch, R. vom 60n. Bruno, G. 15, 109, 132 e n. Brunschvicg, L. 198n., 242, 248 Bubnoff, N. von 60n. Buccola, G. 38 e n., 53 Buchner, H. 349n. Buckle, Th. 43n. Bufalini, M. 36 Buonaiuti, E. 52, 93n., 276n., 280 Burich, E. 270n. Büttemeyer, W. 35n., 47n., 48n., 262n. Cacciapuoti, F. 22n.

INDICE DEI NOMI

Cacciatore, G. 17n., 43n., 45n., 46n., 100n. Caird, E. 337 e n., 338n. Calabrò, G. 273n., 309n. Calamandrei, P. 102 Calderoni, M. 75 e n., 76 e n., 77 e n., 78 e n., 97, 112n., 122, 125, 136, 137 e n., 138, 139, 144, 153 e n., 154n., 157, 158 e n., 159n., 161, 173n., 260, 261, 275 Calò, G. 263 e n., 284, 288n., 301n., 303n., 324n. Calogero, G. 290n., 291n. Campa, O. 76n. Campedelli, L. 250n. Campos, L. 102n. Candalese, M.T. 142n. Canestrini, G. 37 Cantillo, C. 99n. Cantillo, G. 100n. Cantoni, C. 16, 18, 20, 23 e n., 24 e n., 25 e n., 26 e n., 27, 63, 64 e n., 65 e n., 66 e n., 68 e n., 69 e n., 72, 75, 80, 82 e n., 91n., 94 e n., 97, 210 e n., 211, 233, 254, 255 e n., 256, 257n., 258, 261, 279, 282, 284n., 286n., 291, 292, 294, 295, 314n., 315n., 317 e n., 327 e n., 330 e n., 331, 332n. Cantoni, R. 278n. Capeillères, F. 159n. Carabellese, P. 95 e n., 96, 270 e n., 271, 272n., 330n., 331n. Caramella, S. 253n., 283n. Carbonara, C. 129n. Carboncini, S. 17n. Carchia, G. 335n. Carle, G. 286n.

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Carnap, R. 142n., 244 e n., 245n., 247n. Carpi, U. 126n. Cartesio (v. Descartes, R.) Cartwright, N. 153n. Caruccio, E. 172n. Casadei, B. 96n. Casini, P. 111n., 163n., 216n., 289n. Cassina, U. 172n. Cassirer, E. 18 e n., 60, 160n., 168 e n., 169n., 196n., 200, 248 e n., 252, 264n., 268n., 313n., 330n. Castelli, E. 83n. Castelnuovo, G. 207n., 208 e n., 209, 210n. Cat, J. 153n. Catalfamo, G. 64n. Cattaneo, C. 41n., 42 e n., 43n., 50, 53, 101, 103, 277. Cavaglion, A. 346n. Cavallera, H.A. 20n., 64n., 90n., 273n., 280n. Cavallo Guzzo, G. 338n. Cellucci, C. 198n. Centi, B. 213n. Cento, V. 275n. Ceretti, P. 320 e n. Cesca, G. 24 e n., 256, 318n. Chiappelli, A. 16, 26n., 29, 119n., 255, 261 e n., 276 e n., 286n. Chiarenza, R. 52n. Chiosso, G. 66n., 280n., 310n. Chisholm, R.M. 174n. Cicalese, M.L. 46n. Ciliberto, M. 132n., 216n. Cimino, G. 38n., 289n. Clendennig, J. 250n. Clifford, W. 143, 238 Cohen, H. 18, 23, 28, 94n.,

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298, 299 e n., 315n., 327 e n., 329, 330n., 345n. Colajanni, N. 105n. Colapietra, R. 43, 44n., 290n. Coli, D. 336n. Colombo, E.A. 21n. Colorni, E. 204n., 254 Comte, A. 44n., 46, 53, 114, 227, 231, 250 Condillac, E.B. de 107, 108n. Conte, A. 208n. Conti, A. 289 e n. Cordeschi, R. 290n. Corleo, S. 53 e n. Cornacchioli, T. 11, 37n. Corrado, M. 147n. Couturat, L. 159, 160 e n., 168 e n., 169 e n., 170 e n., 171 e n., 172 e n., 173n., 176 e n., 178 e n., 179, 180 e n., 181 e n., 182 e n., 183, 184 e n., 185, 186n., 187n., 188 e n., 189 e n., 191, 192, 193, 194, 195n., 198, 199 e n., 200 e n., 201 e n., 202n., 203 e n., 204 e n., 296, 326 Credaro, L. 26 e n., 65, 69 e n., 73n., 255 Cremante, R. 54n. Cremaschi, S. 118n. Crippa, R. 301n. Croce, A. 82n. Croce, B. 9, 13, 28, 33, 46, 55, 58, 60, 69, 73 e n., 76, 77 e n., 81, 82n., 84, 86, 92, 100, 105, 107, 113 e n., 114, 136n., 139 e n., 163, 164 e n., 203 e n., 205, 206, 209, 213, 216 e n., 217 e n., 218, 220, 229, 232, 239, 249 e n., 252,

262n., 264n., 266, 267, 272n., 275, 276n., 284n., 289 e n., 290 e n., 295, 297, 299, 300 e n., 301, 302, 305n., 319 e n., 323n., 324, 334n., 335, 336 e n., 337 e n., 345 e n. Cuomo, D. 135n. Curiel, E. 127n., 128n. D’Anna, V. 18n., 20n., 25n., 27n., 136n., 288n., 331n. D’Ercole, P. 318 e n., 319n., 320n., 321n. D’Ippolito, B.M. 135n. D’Orsi, A. 97n., 280n. Dal Pra, M. 10, 10, 78n., 104n., 120n., 173n., 291n., 328n., 329n., 348n. Dandolo, G. 256, 293n. Danneberg, L. 241n. Darwin, Ch. 36, 39, 43, 53, 209, 287, 322 Dazzi, N. 38n. De Dominicis, S. 64n. De Filippi, F. 36, 37n. De la Vega, R. 30n. De Liguori, G. 37n., 38n., 42n., 52n., 321n., 342n. De Morgan, A. 165, 197 De Negri, E. 336 e n. De Ruggiero, G. 203n., 262n. De Sanctis, F. 43 De Sanctis, S. 294n. De Sarlo, F. 38, 69, 107n., 148n., 207, 229 e n., 231 e n., 232 e n., 252, 255, 257n., 263, 264, 268n., 276 e n., 283-310, 313n., 319n. De Toni, G.A. 169n. De Zan, M. 11, 142n., 143n., 144n., 152n., 200n.

INDICE DEI NOMI

Degli Innocenti Venturini, M.A. 21n. Del Noce, A. 69n., 96n., 312n., 320n., 323n. Della Volpe, G. 336 e n. Dentice d’Accadia, C. 330n. Depew, D. 155n. Derossi, G. 306n. Des Bosses, B. 176n. Descartes, R. 188, 222 Dessì, P. 266n. Detti, T. 29n. Dewey, J. 60, 129n., 130 e n., 264n. Di Carlo, E. 275 e n. Di Chiara, A. 347n. Di Giovanni, P. 14n., 18n., 23n., 29n., 52, 53 e n., 151n. Di Sieno, S. 216n. Di Stefano, E. 145n. Dilthey, W. 25, 33, 46, 57, 111, 114, 264n., 319 e n., 336 e n., 337 e n., 338 e n., 339n., 341n. Donaggio, E. 35n. Drago, P.C. 296n., 331n. Du Bois-Reymond, E. 287 Dubois, J. 240n. Duhem, P. 57, 143, 151 e n., 152 e n., 153 e n., 154 e n., 155 e n., 156n., 159n., 162, 163, 164, 239, 245, 268n. Durkheim, É. 57 Echeverrìa, J. 195n. Einaudi, L. 50, 92, 143n. Einstein, A. 237n., 238n., 245, 267 e n. Eletti, L. 275n. Elsenhans, T. 250n. Emery, N. 52n. Engels, F. 28, 127 n.

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Enriques, F. 40, 58, 81 e n., 84 e n., 142n., 143 e n., 151, 160, 161 e n., 162 e n., 163, 187n., 205-252, 260n., 265 e n., 266 e n., 267 e n., 268, 269 e n., 292, 294, 295n. Erdmann, B. 23, 326 Erdmann, J.E. 175n. Eucken, R. 324 e n. Eulero, L. 172, 196 Fabris, A. 342n. Faggi, A. 52, 82n., 93n., 207, 233 e n., 234 e n., 255, 256, 259 Fano, G. 266 e n. Fassò, G. 106n. Fechner, G. 312, 322n., 329 Ferrandi, G. 240n. Ferrari, G.C. 38 Ferrari, M. 11, 19n., 24n., 30n., 55n., 142n. Ferrarotti, F. 114n. Ferri, E. 39 Ferri, L. 66, 67, 68, 255n. Ferrini, C. 160n. Feuerbach, L. 107 Fichte, J.G. 93n., 269, 270, 333 e n., 334n., 338 Fiorentino, F. 13, 14 e n., 15 e n., 16, 18, 20, 21 e n., 22 e n., 40, 47n., 209 e n., 210n. Firpo, L. 91n. Fischer, K. 21 e n., 22 e n., 23n., 319 Fleck, L. 153n. Flora, F. 93n. Focher, F. 48n. Fogazzaro, A. 322 e n. Formiggini, A.F. 54n., 82, 86, 103, 116, 259n., 268 Fossati, L. 281n.

356

NON SOLO IDEALISMO

Fouillée, A. 134 e n. Franceschini, G. 301n. Frank, Ph. 244n. Franzese, S. 162n. Frasca Spada, M. 145n. Frassati, F. 127n. Frege, G. 165, 166, 167 e n., 168 e n., 193n., 281n. Freguglia, P. 145n., 193n. Freud, S. 39 Friedman, M. 159n. Fries, J.F. 241 Frigessi, D. 38 e n., 39, 256n. Frigo, G. 56n., 108n. Friso, L. 74n. Fugazza, M. 41n. Funke, G. 330n. Gabelli, A. 42 e n., 45, 47n., 50 Galilei, G. 43n., 151n., 258, 266 Gallo, L. 205n. Gallucci, G. 189, 200n. Garbasso, A. 235 e n., 238 Gargani, A.G. 149n. Garin, E. 10, 13n., 15 e n., 33 e n., 34 e n., 36n., 50 e n., 51n., 55 e n., 56n., 59, 77n., 78 e n., 96n., 97n., 99n., 100n., 102n., 125n., 132n., 133 e n., 135 e n., 136n., 141 e n., 142n., 149n., 198n., 262, 276 e n., 285n., 288n., 324n., 343n., 345n. Gario, P. 208n. Gauss, C.F. 160 Gembillo, G. 164n. Gemelli, A. 269 Gencarelli, E. 81n. Genna, C. 54n., 66n. Gentile, G. 9, 13 e n., 14 e n.,

15 e n., 16, 19, 20n., 22n., 24, 26, 30n., 55, 58, 60, 65 e n., 69, 81, 82n., 86 e n., 92, 95, 100, 110, 173 e n., 203n., 205, 206, 207, 209 e n., 216 e n., 217 e n., 218 e n., 219 e n., 220 e n., 229, 231, 232, 239, 252, 264n., 265, 273 e n., 274 e n., 275 e n., 280 e n., 289 e n., 290, 293, 298, 300 e n., 301 e n., 302, 303n., 304n., 308, 309n., 310 e n., 311 e n., 312n., 318 e n., 319n., 320n., 323n., 324, 334n., 337 e n., 345 e n. Gentilini, L. 313n. Gerhardt, C.I. 175n. Gerratana, V. 60n., 113n. Geymonat, L. 63n., 64n., 92n., 97 e n., 98, 100n., 254, 281 Ghisleri, A. 106n. Giacobini, G. 37n. Giancanelli, F. 38n. Giannantoni, S. 217n. Giannini, G. 120n. Gigante, M. 336n. Gigliotti, G. 19n., 327n. Giordanetti, P. 56n. Giorello, G. 97n., 166n., 213n. Giorgi, L. 268n. Giugliano, A. 29n. Gobetti, P. 30 e n., 92, 93n., 94n., 101 Goldfarb, W. 159n. Goretti, C. 281 e n., 335, 338n. Goretti, M. 101n. Gori-Savellini, S. 38n., 289n. Görland, A. Graf, A. 52 Graf, F.W. 60n., 324n.

INDICE DEI NOMI

Gramsci, A. 92, 93, 113n. Grasselli, G. 281 e n. Grassi, E. 281n. Grassmann, H. 194, 195n., 199 Green, Th. 338n. Grelling, K. 240n., 241 e n., 245 Groppali, A. 104 e n., 105 e n., 106 e n., 256n. Guarnieri, P. 25n., 37n., 55n., 64n., 69n., 255n., 294n. Guastella, C. 53, 55, 177n., 233 Guerra, A. 17n., 119n. Guerraggio, A. 209n. Guidetti, L. 19n. Guyau, J.M. 134n., 135n. Guzzo, A. 64n., 90n., 91n., 97, 330n., 338n. Habs, R. 176n. Hahn, H. 142n., 244 e n., 245 e n., 247 Haldar, H. 338n. Haller, R. 142n., 148n., 150n., 153n., 247n. Hare, R. 98n. Haym, R. 337 Hegel, G.W.F. 92n., 109, 217, 265, 309, 311, 312, 318, 319 e n., 320 e n., 335, 336 e n., 337, 338 e n., 339, 340 e n., 341 e n., 342n., 345, 346 e n., 347, 349 e n. Heidegger, M. 18, 281 Helferich, Ch. 319n. Helmholtz, H. von 18, 208, 211n., 212, 238, 244, 287 Helvétius, C.A. 104, 107, 133, 134 Hentschel, K. 149n., 155n. Herbart, J.F. 65, 211n., 326

357

Hermann, U. 319n. Hermes, H. 167n. Herron, G.H. 309n. Herrschaft, L. 19n. Hertz, H. 196 e n. Herzen, A. 36 Hessen, S. 60n. Hilbert, D. 193 e n., 211, 241 Hobbes, Th. 107, 192 Holenstein, E. 167n. Holland, G.J. 197 Hollinger, R. 155n. Holzhey, H. 19n., 30n. Howard, D. 155n. Höffding, H. 324n. Höffe, O. 17n. Humboldt, W. von 46 Hume, D. 98, 118, 120 e n., 147, 227n. Husserl, E. 18, 33, 60, 167 e n., 168, 264n., 278, 279 e n., 281n., 308 Hübinger, G. 60n. Ihmig, K.N. 160n. Israel, G. 213n. Itagaki, R. 148n. Jaja, D. 21n., 209 James, W. 33, 60, 110, 114, 147 e n., 149, 155, 161, 162 e n., 163 e n., 226, 264n. Janet, P. 176n. Jevons, W.S. 143, 165, 175 Johnston, W.M. 168n. Jungius, J. 195 Juvalta, E. 26, 27, 63-98, 121, 122 e n., 123, 127, 136, 137, 138 e n., 139, 255, 259, 260n., 261 e n., 264, 281n., 292, 293 Kambartel, F. 167n. Kamlah, A. 241n.

358

NON SOLO IDEALISMO

Kant, I. 15, 16, 17n., 18, 20 e n., 21 e n., 22, 23, 24, 25 e n., 26 e n., 27 e n., 28, 29, 45, 65, 66, 69n., 77n., 89, 91 e n., 92, 93n., 94, 119 e n., 120n., 135, 147, 156, 159n., 160, 197, 198n., 199, 201, 209 e n., 212, 214, 215, 220, 222, 231, 233, 234, 242, 247, 248, 249, 270, 279, 280, 281, 288, 297, 310, 311, 312, 314, 315 e n., 316, 317, 318n., 324, 325 e n., 326 e n., 328 e n., 329 e n., 330 e n., 331, 332 e n., 333 e n., 334, 335 e n., 337n., 338, 341, 342, 343, 344 e n., 345, 346, 347, 349. Kaulbach, F. 167n. Kauppi, R. 183n., 184n. Keck, T.R. 30n. Kennedy, H.C. 166n., 172n. Kierkegaard, S. 90n. Kirchoff, G. 148. Kitcher, Ph. 159n. Kopper, J. 337n. Köhnke, K.Ch. 19n., 120n., 136n., 245n. Klein, F. 211 Kluge, E.H.W. 167n., 168n. Krijnen, Ch. 19n. Krois, J.M. 196n. Kroner, R. 60n. Kuntze, F. 207, 248 e n., 249 Kühn Amendola, E. 300n., 324n. Labriola, A. 7, 29, 37, 60 e n., 105 Lacorte, C. 319n. Lalande, A. 171n., 207, 242, 243n.

Lamanna, P.E. 90n., 279n., 284, 285n., 309 e n., 330n. Lambert, J.H. 175, 197 e n. Lana, I. 40n. Lanaro, G. 35n., 54n., 58n., 104n., 110n., 140n., 142n., 146n., 151n., 154n. Landmann, M. 125n. Landucci, G. 36 e n., 48n., 49n., 294n., 301n. Lange, F.A. 18, 28 e n., 233n., 315n., 316n. Lanzoni, L. 48n., 289n. Lasson, G. 337, 340n. Laterza, G. 136n. Lavater, J.K. 344 e n. Le Bon, G. 37 Le Dantec, F. 69 Le Roy, É. 156, 241 Leau, L. 202n. Lecaldano, E. 98n., 133n. Leibniz, G.W. 145, 165-204, 222, 279, 326n., 328, 331 Lenzen, W. 183n. Léon, X. 178n., 241n. Leopardi, G. 322 Levi, Adolfo 269n. Levi, Alessandro 41n., 57 e n., 81, 82, 100n., 101, 102 e n., 103n., 104, 106 e n., 107 e n., 108, 126n., 131 e n., 139n., 213n., 256n., 259, 277 e n., 278n., 281 Levi-Civita, T. 235, 237 e n., 238 e n., 252 Levis Sullam, S. 102n. Levy, H. 319n. Lewes, G. H. 46 Librizzi, C. 292n. Liebert, A. 278n., 279 Liebmann, O. 18

INDICE DEI NOMI

Limentani, L. 27, 57 e n., 73, 78 e n., 86 e n., 87 e n., 88 e n., 89 e n., 99-140, 256n., 264 e n., 265n., 277, 278n., 284 e n., 289n. Linden, H. van der 30n. Lissa, G. 48n., 56n., 60n., 100n. Littré, É. 44n., 46 Locke, J. 108n., 173, 201, 202 e n. Lolli, G. 166n., 174n., 192n. Lombardo Radice, G. 290n. Lombardo Radice, L. 162n. Lombroso, C. 38, 39 e n., 53 Longo, M. 23n. Loria, A. 105, 112n., 126n. Loria, G. 179 Losacco, M. 265n., 269 e n., 270n., 301n. Lotze, H. 18, 211n., 285, 295, 312, 338 Lovejoy, A. 79n. Luccio, R. 38n., 289 Luciano, E. 169n. Łukasiewicz, J. 53 Lübbe, H. 30n. MacColl, H. 165 Mach, E. 48, 57, 58, 143, 144, 145 e n., 146 e n., 147, 148 e n., 149 e n., 150 e n., 155 e n., 161, 162, 163, 164, 177, 231, 238, 239, 244, 268n., 312 Machiavelli, N. 44 Maggiore, G. 337n. Mahnke, D. 200n., 279 Maimon, S. 249 Maiocchi, R. 57n., 155n., 163n., 221n., 238n., 267n. Maiorca, B. 114n. Malter, R. 337n.

359

Malusa, L. 11, 16n., 45n., 258n., 270n. Mamiani, T. 20, 68, 255n., 315n. Mancuso, G. 29n. Mangione, C. 179n., 193n. Mangoni, L. 37n., 38n., 40n., 86n. Mantegazza, P. 36 Marchesini, G. 53, 55, 56 e n., 73, 74 e n., 82 e n., 86, 104, 105n., 108n., 109 e n., 110 e n., 111, 112, 113, 119n., 124, 132, 254, 256 e n., 257n., 260n., 262 e n., 264 e n., 265 e n., 292, 293 Marcucci, S. 173n., 198n., Marini, A. 136n., 334n. Marino, L. 66n. Marselli, E. 47n. Martinetti, P. 11, 52, 91 e n., 93, 94 e n., 131 e n., 254, 270 e n., 279, 280, 281 e n., 282 e n., 293, 304n., 311-349 Martinazzoli, A. 73n. Martirano, M. 17n., 43n. Martone, A. 59n. Marx, K. 29, 107, 273n. Masaryk, Th. 334n. Masci, F. 14n., 16 e n., 18, 24 e n., 210n., 288n., 317n. Masnovo, A. 276n. Massimilla, E. 17n. Mazzantini, C. 64n., 96n., 97 Mazzini, G. 273n. McKeen Cattell, J. 250 Meattini, V. 324n. Mecacci, L. 290n. Medici, R. 28n. Mehlis, G. 60n.

360

NON SOLO IDEALISMO

Meinong, A. 269n. Melica, C. 325n. Meo, O. 344n. Mercadante, F. 96n. Messineo, F. Meunier, R. 90n. Meyerson, É. 241 Mezzanzanica, M. 136n. Miceli, V. 276n. Micheli, G. 20n., 207n. Mieli, A. 266 e n. Mignini, F. 325n. Milanesi, V. 77n., 78n., 94n., 257n. Milhaud, G. 143 Mill, J.S. 44n., 45, 46, 108, 114, 146, 156, 173, 177, 178, 191 e n., 192 e n., 202, 227n., 277, 310 Minazzi, F. 96n., 97n. Mineo, C. 266n. Mocchi, M. 281n. Modica, G. 343n. Mondadori, M. 97n. Mondella, F. 285n. Mondolfo, R. 14, 27, 28 e n., 29 e n., 30, 56 e n., 57n., 93 e n., 104, 107 e n., 108 e n., 109 e n., 126, 127 e n., 130, 131, 132, 133 e n., 134, 204n., 261 e n., 270n., 273 e n., 277, 278n., 281n., 284, 288n., 293, 307 e n. Montaigne, M. de 139 Monti, M.T. 37n. Moore, G.E. 78n., 89n., 98n., 118 e n. Moretti, M. 42 e n., 44n. Mori, M. 137n. Morra, G. 97n. Morra di Lavriano, U. 93n. Morselli, Emilio 270n.

Morselli, Enrico 37, 38, 40, 50, 53, 256 Morselli, M. 320n. Mosso, A. 40n. Möckel, Ch. 30n. Mucciarelli, G. 38n. Mugnai, M. 166n., 168n., 184n., 187n. Murri, A. 40 Musatti, C. 267 e n. Nastasi, P. 178n., 209n., 238n. Natorp, P. 25, 28, 241, 281n., 313n. Negri, L. 270n. Negri, A. 309n., 345n. Negri, M.P. 145n. Nelson, L. 241 e n. Neurath, O. 142n., 153, 238, 241n., 245n., 247n. Nevo, I. 155n. Nietzsche, F. 52, 67n., 69, 134 Nicolin, F. 318n. Nohl, H. 336 Novaro, M. 52n. Nye, M.J. 159n. Nyman, A. 110n. O’ Brian, W.H. 168n. Oldrini, G. 14n., 41n., 46n., 51n. Olivetti, M.M. 335n. Olivieri, A. 22n., 27n., 132n. Ollig, H.L. 19n. Orano, P. 69 Orestano, F. 271 e n. Orth, E.W. 19n. Ostwald, W. 239, 246 Österreich, T.K. 73n. Paci, E. 87n. Padoa, A. 193 Pagli, P. 166n. Panattoni, G.L. 37n. Pancaldi, G. 37n.

INDICE DEI NOMI

Panizza, B. 36 Pantaleoni, M. 76 Paolo di Tarso (s. Paolo) 344 Papa, E.R. 37n. Papini, G. 105n., 111 e n., 113n., 143, 149, 160n., 193, 199n., 200n., 201, 202n., 256 e n., 284n., 289, 300n., 324n. Papuzzi, A. 282n. Parente, A. 290n. Pareyson, L. 282n. Parlatore, F. 36 Parodi, D. 135n. Parrini, P. 153n., 159n., 207n., 213n., 245n., 247n. Pascal, B. 90n.,188, 191n. Pascher, M. 19n., 30n. Pasini, E. 35n. Pasini, M. 40n. Pasquinelli, A. 98n., 196n., 205n. Passerin d’Entrèves, A. 92n., 93n., 337n. Pastore, Alessandro 40n. Pastore, Annibale 81, 267 e n., 270n., 271 e n., 275 e n., 281n. Patzig, G. 167n. Paulsen, F. 23, 285, 311, 312, 313 e n., 322n., 329 e n., 330, 331, 332n. Pätzold, D. 19n. Peano, G. 58, 142 e n., 144, 145, 146 e n., 156, 157, 165 e n., 166 e n., 167, 169 e n., 170 e n., 171, 173 e n., 174, 175 e n., 177 e n., 178 e n., 179, 180 e n., 181, 183, 184 e n., 185, 186 e n., 187n., 189 e n., 190 e n., 191n., 193 e n.,

361

194, 195 e n., 197, 201 e n., 202, 222n., 224, 226, 239 Pearson, K. 143 Peckhaus, V. 166n., 175n., 241n. Peirce, Ch.S. 58, 59, 161, 163, 165, 193, 195, 226 Penco, C. 167n. Pertici, R. 300n. Perucchi, L. 136n. Perrin, J. 266 e n. Pesce, D. 99n., 139n. Petitot, J. 221n. Pettoello, R. 317n. Piaia, G. 16n. Piana, G. 167n. Picardi, F. 64n., 86n., 99n., 120n. Pieri, M. 142n., 157, 193 Piersanti, L. 144n. Pikler, G. 147 e n., 222n. Pini, P. 40 Piovani, P. 78n. Piscione, E. 329n. Planck, M. 241 Platone 173, 325, 328, 331 Plé, B. 35n. Plotino 325 Ploucquet, G. 197 Poggi, A. 29 e n., 30 e n., 262n., 335n. Poggi, S. 24n., 34n., 35n., 36n., 60n., 208n., 247n., 312n. Pogliano, C. 40n., 49n., 266n. Poincaré, H. 57, 84, 143, 151, 153, 155, 156 e n., 157 e n., 158, 159 e n., 160, 161, 162, 163, 164, 192n., 198, 199, 212, 213n., 224, 231, 234, 236, 238, 239, 241,

362

NON SOLO IDEALISMO

244, 246, 250, 266 e n., 268n., 296, 298 Poli, R. 59n. Polizzi, G. 156n., 239n., 242n. Pompeo Faracovi, O. 162n., 205n., 206 e n., 209n., 210n., 216n., 220n., 221n., 222n., 240n., 248n., 265n. Pompilio, A. 136n. Ponzano, G. 285n., 306n. Pöggeler, O. 349n. Preti, G. 118n., 121n., 139n., 204n. Prezzolini, G. 143, 156 Punzo, L. 29n. Quaranta, M. 40n., 56n., 100n., 142n., 179n., 184n., 203n. Quilici, L. 178n. Quine, W.V.O. 153 e n., 155 Raboni, I. 343n. Ragghianti, R. 178n. Ragnisco, P. 69 Ranieri, A. 44n. Ranzoli, C. 73n. Ravà, A. 269 e n., 270n., 281n. Rauh, F. 135 e n. Rawls, J. 72n. Reichenbach, H. 158, 241, 247 e n. Renouvier, Ch. 20n., 122 Rensi, G. 52 e n., 126 e n., 265n., 275 e n. Rescher, N. 183n. Restaino, F. 41n., 44n., 56n., 57n., 134n., 145n., 256n. Rey, A. 57 Rho, E. 97n. Ribot, Th. 69, 124n. Ricci-Curbastro, G. 237 Rickert, H. 269n., 313 Riehl, A. 23, 314, 315n., 317n.

Riemann, B. 212, 238, 244 Righi, A. 40, 239 Rignano, E. 53, 96n., 229n., 239 Ripa di Meana, D. 152n. Ritzel, W. 330n. Riva, B. 280n. Rizzardi, A. 130n. Rizzo, F. 14n., 22n. Rizzo, L. 48n. Roero, C.S. 169n. Rolando, D. 40n. Romagnosi, G.D. 42, 53 Romano, S. 14n. Ronchetti, L. 147n. Rosada, G.M. 106n. Rosenkranz, K. 337 Rosmini, A. 60, 69n., 305n. Rossano, G. 100n., 120n. Rosselli, C. 94n., 102 Rosselli, N. 102 Rossi, F. S.J. 131n. Rossi, M.M. 275 e n., 276n. Rossi, Paolo 15n., 35 e n., 207n., 247n., 252 e n., 322n., 329n. Rossi, Pasquale 37 e n. Rossi, Pietro 15n., 18n., 40n., 52n., 114n. Rossi Landi, F. 140n. Rosso, C. 88n. Rota, G. 318n., 321n. Rotta, P. 313n. Rougier, L. 240n. Royce, J. 207, 240n., 249, 250 e n., 252 Royce, K. 240n. Ruffini, F. 92 Ruffini, N. 328n., 348n. Ruge, A. 243 Russell, B. 60, 144 e n., 159, 168 e n., 169n., 170, 183,

INDICE DEI NOMI

193, 195, 196 e n., 199, 200 e n., 239, 243 e n., 244, 264n., 296, 298. Russo, V.E. 285n. Rutherford, E. 239 Rutte, H. 247n. Saccheri, G. 145, 191, 192 e n., 193, 202 Sainati, V. 184n., 204n. Salmon, M.H. 245n. Salmon, W. 245n. Salvemini, G. 50, 80 e n., 81n. Sandkühler, H.J. 30n. Santucci, A. 34n., 48n., 54n., 56n., 76n., 79n., 105n., 138n., 151n., 202n., 254n., 265n., 282n., 291n., 293n., 308n. Santucci, A.A. 60n. Sanzo, U. 159n., 171n., 179n. Savi, C. 160n. Savonarola, G. 144 Savorelli, A. 7, 15n., 40n., 46 e n., 47n., 49n., 51n., 55n., 61n., 110n., 134n. Scarantino, L.M. 205n., 221n. Scarcella, C. 341n. Schäfer, L. 155n., 241n. Scheler, M. 66n. Schelling, F.W.J. 322, 338 Schellwien, R. 67n. Schiff, U. 36 Schiller, F. 119n., 309 Schlick, M. 207, 245 e n., 246 e n., 247 e n., 248, 252 Scholz, H. 198 e n. Schopenhauer, A. 27, 311, 314 e n., 315 e n., 317, 322, 329, 333 e n., 338, 347 Schröder, E. 165, 170, 175 Schupp, F. 180n., 191n. Schuppe, W. 311, 312n.

363

Sciacca, M.F. 64n., 100n., 284n., 349n. Scimone, A. 178n. Secchi, A. 292 Sega, R. 99n., 100n., 126n., 133n. Segala, M. 43n. Segner, G.A. 175 Semerari, G. 323n. Sergi, G. 37, 38 e n., 50, 53 Sesta, B. 329n. Severi, F. 235, 236 e n., 237, 238 Sichirollo, L. 275n., 337n. Siciliani, P. 40, 51n. Sidgwick, H. 118 Sieg, U. 19n. Signore, M. 19n. Simili, R. 58n., 81n., 205n., 237n., 240n. Simmel, G. 27, 33, 57, 89, 111, 114, 120 e n., 124, 125 e n., 126, 135, 136 e n., 264, 278, 326 Sini, C. 17n. Sinigaglia, C. 157n. Skrupskelis, I.K. 163n. Slater, J.G. 243n. Smith, A. 118, 119, 121 Socrate 137 Solari, G. 90, 91 e n., 92 e n., 94, 281 e n., 336n., 340 e n. Solinas, G. 64n., 66n., 98n. Sorel, G. 69, 70 Sosio, L. 146n. Spadafora, G. 11, 37n. Spaventa, B. 21 e n., 22, 43, 46, 60, 82n., 285, 301, 314, 337n. Spaventa, S. 43 Spencer, H. 25 e n., 41, 46, 50,

364

NON SOLO IDEALISMO

53, 64, 67 e n., 70 e n., 72 e n., 73 e n., 80n., 105, 122, 208, 209, 226, 229, 317n. Speranza, F. 205n., 206n. Spinoza, B. 65, 96 e n., 270 e n., 281 e n., 320, 344, 346n. Spir, A. 312, 325 e n., 338 Spirito, U. 267, 276n., 345 e n. Spriano, P. 92n. Stadler, A. 23 Stadler, F. 142n., 148n., 245n. Stallo, J. 57 Staudinger, F. 28 Steppuhn, F. 60n. Stevenson, Ch.L. 98n. Stirner, M. 69 Stoppani, A. 36 Stölzner, M. 239n. Strumia, A. 52n. Suriano, P. 65n., 67n., 73n., 96n. Swedenborg, E. 331 Tagliavini, S. 240n. Taine, H. 46 Tamburini, A. 285 Tanaka, S. 148n. Tarde, G. 37 Tarozzi, G. 55, 81, 85 e n., 256n., 262 e n., 264 e n., 272, 275n., 276 e n., 277 e n., 279n., 281n. Tasciatore, C. 16n. Tega, W. 28n., 29n., 34n., 41n. Telesio, B. 22n. Terzi, C. 313n., 328n. Tessitore, F. 43n. Thomsen, A. 149n. Tilgher, A. 334n. Tocco, F. 13, 14 e n., 15 e n., 16, 18, 20, 21 e n., 22 e n., 23 e n., 24 e n., 25 e n., 26,

27 e n., 28, 40, 69, 108, 109, 131, 132 e n., 210n., 233n., 255, 259, 268n., 279, 286n., 288n., 289, 313n., 315n., 330 e n. Tognon, G. 203n. Tommasi, S. 41, 43 e n., 44n. Toraldo di Francia, M. 75n. Torretti, R. 157n. Torrini, M. 7, 17n., 29n., 59n., 267n., 275n. Trendelenburg, A. 18, 21, 27, 94n., 311, 317 e n., 318, 320 e n., 327 e n., 339 e n. Treves, R. 106n. Trezza, G. 47n. Troilo, E. 81, 93n., 197n., 258n., 259, 260, 262 e n., 263, 264 e n., 268n., 272 e n., 274, 275n. Tschirnhaus, W. von 194 Turati, F. 103n. Turi, G. 14n., 54n., 134n. Uebel, Th. 153n., 245n. Urbinati, N. 42n., 45n., 50n., 51n., 55n. Vacca, G. 155n., 156 e n., 168n., 171, 172 e n., 173, 175, 176 e n., 178n., 181n., 182n., 189n., 191n., 192n., 193 e n., 195n., 201n. Vaihinger, H. 23, 262, 326, 330 e n. Vailati, G. 57, 58, 63 e n., 69, 74 e n., 75n., 76n., 77, 78, 79 e n., 81, 82n., 86, 97, 104 e n., 111 e n., 112 e n., 113 e n., 114, 118 e n., 129n., 134, 138 e n., 139, 140n., 141-164, 165-204, 207, 221 e n., 222 e n., 223, 224 e n., 225, 226 e

INDICE DEI NOMI

n., 227 e n., 229, 230 e n., 239, 243, 250, 252, 255, 256, 259, 292, 293, 294 e n., 295n. Valli, L. 82n., 259, 271 e n. Valore, P. 279n. Varisco, B. 55 e n., 73n., 79 e n., 80, 81, 82n., 83 e n., 84, 91, 95, 204n., 207, 229 e n., 230 e n., 231 e n., 232, 255, 256, 259, 260n., 261, 263 e n., 264 e n., 270n., 271n., 272 e n., 273 e n., 274 e n., 275n., 276 e n., 283-310, 344n. Veca, S. 63n., 72n., 98n. Venn, J. 165 Ventura, L. 271 e n. Vera, A. 285 Verdino, S. 52n. Verra, V. 17n., 318n., 345n. Verri, A. 253n. Vespa, M. 281n. Viano, C.A. 15n., 40n., 93n., 97n., 114n., 258n. Vico, G.B. 43n., 53, 60, 262n. Vidari, G. 26, 29 e n., 65, 69 e n., 70, 85 e n., 91n., 92, 93n., 94n., 268n., 269 e n., 270, 279 e n., 280n., 311n., 330n. Vidoni, F. 35n. Viglino, C. 97n. Vigorelli, A. 136n., 270n., 282n., 312n., 314n., 323n., 325n., 333n., 334n., 343n., 345n., 347n., 348n., 349n. Vignoli, T. 38 e n. Villa, E. 281n. Villa, G. 65, 81, 255, 293

365

Villari, P. 36, 40, 41, 43 e n., 44 e n., 45, 46n., 47n., 50, 53, 61 e n., 131, 132n., 277, 288 Viroli, M. 28n., 41 e n., 64n., 72n., 79n., 82n., 87n., 94n. Vitali, G. 337n. Vitali, S. 56n. Vivanti, G. 201n. Volterra, V. 236n., 237n., 239, 268n. Vorländer, K. 28 e n., 29 e n. Weiss, F. 262n. Welby, V. 177 Whitehead, A.N. 171 e n. Whittaker, T. 90 e n. Willey, T.E. 21n. Windelband, W. 269 e n., 313, 314 Wittgenstein, L. 53, 244 Wolff, Ch. 196 Wundt, M. 330 e n. Wundt, W. 24, 69, 208, 211n., 311, 312, 313 e n., 320n., 322, 342n., 346 e n. Yates, F. 133 e n. Zahr, E.G. 159n., 198n. Zampetti, E. 253n. Zanardo, A. 30n. Zanga, G. 323n., 333n. Zanoni, C. 118n. Zecchi, S. 281n. Zeller, E. 18, 21 e n., 22 e n., 23n., 25, 327 e n. Zeppi, S. 86n., 274n. Zermelo, E. 241 Zini, Z. 93n., 270n. Zoccoli, E. 69 Zuccante, G. 270 e n., 288n., 293n. Zweig, S. 269

INDICE GENERALE

Premessa

p.

7

Avvertenza

» 11

1. Il neokantismo ital iano tra storiografia ed etica 2. Il positivismo nella filosofia italiana tra Ottocento e Novecento: esiti storiografici e prospettive di ricerca 3. Erminio Juvalta e la cultura filosofica italiana del primo Novecento 4. Le indagini etiche di Ludovico Limentani 5. Giovanni Vailati e l’epistemologia europea del primo Novecento 6. Vailati, Leibniz e la ‘rinascita leibniziana’ 7. Ancora sul ‘caso’ Enriques. La discussione italiana ed europea sui «Problemi della scienza» 8. La «Rivista di filosofia»: dalla fondazione agli anni Venti 9. Varisco, De Sarlo e la «Cultura Filosofica» 10. Piero Martinetti interprete di Kant e di Hegel

» 13

Indice dei nomi

» 351

» 33 » 63 » 99 » 141 » 165 » 205 » 253 » 283 » 311