Tra pressioni e veti. Il cambiamento politico in Italia 8842062014


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Tra pressioni e veti. Il cambiamento politico in Italia
 8842062014

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Libri del Tempo

Sergio Fabbrini

Tra pressioni e veti Il cambiamento politico in Italia

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Libri del Tempo Laterza SI DI

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2000, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2000

Sergio Fabbrini

Tra pressioni e veti Il cambiamento politico in Italia

Bedini Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nell'ottobre 2000 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-6201-1 ISBN 88-420-6201-4

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,

compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette

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Prefazione

Questo è un libro sul cambiamento politico che si è verificato in Italia negli anni novanta. Poiché il cambiamento si è manifestato attraverso l'alterazione del tradizionale rapporto tra partiti e istituzioni di governo, il libro si pone due domande. La prima: cozze è stato governato il cambiamento? La seconda: perché il cambiamento non ha cambiato le istituzioni di governo? Seppure le risposte si intrecciano, ho cercato di tenerle separate. La risposta alla prima domanda occupa i vari capitoli che ho dedicato ai governi della crisi e della transizione. La risposta alla seconda domanda occupa tutto il resto. Per formulare quest’ultima, ho dovuto affrontare le questioni legate al cambiamento politico all’interno delle democrazie, su cui è stato scritto poco o nulla. Per questo motivo, nell’Introduzione ho cercato di definire il mio approccio teorico al cambiamento e, nell’Epilogo ho provato a metterlo alla prova comparando le esperienze italiana e francese (quella del periodo 1958-65) di cambiamento politico. Entrambe le risposte si collocano tra l’analisi della democrazia consensuale italiana e l’analisi del processo di europeizzazione della politica italiana. Senza la conoscenza dell’una e dell’altro è impossibile comprendere perché la politica italiana continui ad essere schiacciata tra le pressioni (in misura crescente esterne, cioè europee) e i veti (esclusivamente interni, cioè provenienti da interessi partigiani e funzionali). Naturalmente, poiché non sono un italianista ma, anzi (per for-

mazione, per mestiere e per vocazione) un comparativista, ho indagato la vicenda italiana con un punto di vista più ampio, collocando l’Italia nel contesto delle altre democrazie consolidate, oltre che in

quello del processo di integrazione europea. Ho basato i miei argo-

menti su diversi dati empirici, molti dei quali ho raccolto nelle Appendici. Per me, quei dati sono necessari per dare credibilità all’analisi. Lo sono di meno per il lettore, se è disposto a prendermi in parola. Il cambiamento politico che si è verificato in Italia è stato così profondo che richiederà, per ancora molto tempo, un rigoroso lavoro di ricerca. Per quanto mi riguarda, l’aver collocato la crisi e la transizione italiane nel contesto della democrazia consensuale e del processo di europeizzazione mi ha consentito di formulare un’interpretazione più complessiva, rispetto a quelle correnti, del cambiamento politico italiano. Mi auguro, così, di aver contribuito a rendere più comprensibile un decennio di importanza storica per la nostra vicenda democratica. Naturalmente, allo studioso spetta la descrizione dei fatti, la loro analisi e, se ci riesce, la loro interpretazio-

ne. Non è suo il compito di prevedere il futuro. Sono stati gli inviti di alcune università straniere e italiane, a tenere lezioni o a partecipare a seminari sull’Italia, che mi hanno stimolato a mettere ordine nei miei pensieri sul cambiamento politico italiano. Le idee contenute in questo libro sono state presentate e discusse presso la Université Libre di Bruxelles (nel settembre 1995); presso la Carlton University di Ottawa (nel marzo del 1996); presso l’Università di Torino (nel maggio 1996); presso l’Università di Urbino (nel giugno 1996); presso la University of California di Berkeley (nell’estate del 1996); presso l’Università di Bologna-Forlì (nel giugno 1997); presso l’Università di Siena (nel febbraio 1998); presso la University of Bath (nel marzo e nell’ottobre del 1998); presso la University of Warwick (nel marzo del 1998); presso l’Istituto Cattaneo di Bologna (nel dicembre 1998); e presso la Johns Hopkins University, Bologna Center (nel gennaio 2000). In queste occasioni, ho ricevuto critiche e suggerimenti di valore inestimabile dai colleghi presenti. Ricordandole, voglio ringraziare collettivamente quei colleghi. La ricerca che ha condotto a questo libro è durata non poco. Anche perché, ogni volta che speravo di chiuderla, succedeva qualcosa, nella politica italiana, che mi obbligava a riaprirla. Diverse istituzioni mi hanno aiutato a svolgerla. Innanzitutto, il Ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica, che mi ha fornito un finanziamento all’interno di una ri-

cerca più ampia sul ruolo dei partiti nelle democrazie europee. Quindi, il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento. E, infine, l’Institute of Governmental Studies della University of California di Berkeley che mi ha ospitato più volte e dove ho potuto raccogliere buona parte della documentazione comparativa. Nel corso della ricerca ho contratto diversi debiti di riconoscenza nei confronti di coloro che mi

hanno aiutato ad acquisire i dati necessari per il mio lavoro. Vorrei ringraziare Oreste Bazzichi della Biblioteca centrale della Confindustria, Maria Costa dell’ Archivio storico della Camera del lavoro di Milano, Ivo Camerini dell'Archivio storico nazionale della Cisl, Enrico Giacinto del-

la Biblioteca federale della Cisl, Giovanni Rizzoni dell'Ufficio studi della Camera dei deputati e i funzionari dell’Ufficio statistiche giudiziarie dell’Istat. Tutti si sono dimostrati di una cortesia e di una competenza en-

comiabili. Voglio ringraziare Maurizio Cotta e Luca Verzichelli che mi hanno consentito di lavorare sul database del Centro interdipartimentale di ricerca sul cambiamento politico (Circap) dell’Università di Siena. Anna Maria Marra mi ha fornito la sua assistenza per la raccolta dei dati che ho utilizzato nel capitolo I. Marco Brunazzo mi ha fornito la sua instancabile collaborazione e competenza per la ricerca e l’elaborazione dei dati relativi agli altri capitoli del volume. Stefano Ceccanti, Mark Gilbert e Salvatore Vassallo hanno letto l’ultima versione del libro, mettendomi a disposizione, con la usuale generosità, le loro conoscenze specifiche, sot-

to forma di critiche, commenti e suggerimenti. Naturalmente, anche perché non sempre sono riuscito ad utilizzare questi ultimi, la responsabilità per ciò che qui è scritto è interamente mia. Infine, questo libro è dedicato 4 loro tre: Manuela, Federico e Seba-

stiano sanno perché.

Si Università degli Studi di Trento, maggio 2000

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Tra pressioni e veti Il cambiamento politico in Italia

Introduzione

Il cambiamento tra crisi e transizione

Il cambiamento È giunto il tempo di fare il punto sul cambiamento politico avvenuto in Italia negli anni novanta. Un decennio segnato, all’inizio, da un riuscito referendum elettorale nel 1991 per l’abolizione delle preferenze multiple proprie del sistema elettorale proporzionale postbellico. E quindi marcato, alla fine, dal fallito referendum elettorale nel

2000 per l’abolizione della quota proporzionale prevista dal pur riformato sistema elettorale introdotto nel 1993. In quel decennio, nel nostro paese, un intero sistema di partito è crollato. E, dato il ruo-

lo pervasivo esercitato dai partiti italiani nelle istituzioni pubbliche (oltre che nella società) postbelliche, quel crollo ha scosso l’intero sistema di governo. Non ci sono esperienze comparabili alla nostra nelle altre democrazie consolidate, con l'eccezione della Francia con-

sensuale della Quarta Repubblica, la cui esperienza istituzionale si è conclusa nel 1958-65, con la nascita della Francia competitiva della Quinta Repubblica. Perché, naturalmente, l’esperienza italiana degli anni novanta non può essere comparata con quella dei paesi che si sono avviati recentemente sulla strada della democratizzazione, sia nell’Europa orientale che in America latina (e, tantomeno, con quel-

la della Spagna e del Portogallo degli anni settanta del XX secolo). In questi ultimi casi, infatti, abbiamo assistito a crisi politiche che hanno condotto ad una trarsizione di regime, cioè al passaggio da un regime autoritario ad un regime democratico, mentre nel caso italiano (e francese) si è verificata una crisi politica che ha condotto ad una transizione nel regime, cioè a mutamenti interni allo stesso regime de-

mocratico. Se non si vuole incorrere nella trappola del «can-gatto» — nella quale cadono, come ha ricordato Sartori (1990), coloro che cercano di comparare oggetti non comparabili, con esiti analitici prevedibilmente insoddisfacenti —, allora è bene tenere presente che il «cambiamento politico» è un genere cui corrispondono specie diverse. Qui, trattando l’esperienza italiana del periodo tra il 1991 e il 1999, discuterò la specie relativa ai cambiamenti nelle democrazie. Va da sé che non c’è chi dubita che la democrazia italiana abbia registrato un cambiamento significativo a partire dal 1991. E sufficiente ricordare che tra le elezioni per il Parlamento nazionale del 1992 e quelle del 1996 un intero sistema di partito è scomparso ed uno nuovo ha iniziato a formarsi. Di già la caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989 aveva condotto, due anni dopo, alla scomparsa del Partito comunista italiano (o Pci), ovvero del più grande partito comunista dell'Europa occidentale per tutto il lungo secondo dopoguerra. O meglio, alla sua trasformazione in due partiti concorrenti: il Partito democratico della sinistra (o Pds) e il Partito della rifondazione comunista (o Prc). Con il primo elettoralmente più significativo del secondo. Ma sono state le elezioni del 1994 che hanno celebrato la conclusione del sistema di partito postbellico. Condotte sulla base della nuova legge elettorale approvata il 4 agosto del 1993 (nota come rzattarellum, dal nome del deputato, Sergio Mattarella, a cui si deve la sua stesura finale), quelle elezioni hanno regi-

strato la scomparsa definitiva dei due partiti (e delle loro rispettive leadership nazionali) che avevano governato l’Italia, ininterrottamente dal 1948 (nel caso della Democrazia cristiana o Dc) ovvero dagli anni sessanta (nel caso del Partito socialista italiano o Psi). Tuttavia, quelle elezioni né hanno attivato un nuovo sistema di partito e né hanno introdotto una dinamica coerentemente bipolare. Anzi, nel 1994, le elezioni hanno continuato ad avere un carattere (anco-

ra) multipolare: con i partiti di centro che si erano rifiutati di coalizzarsi, con l'aggregazione di sinistra o di destra, e con la Lega Nord collegata solamente ad un partito (Forza Italia) della coalizione di centro-destra, ma contemporaneamente fiera avversaria del princi-

pale partito alleato di quest’ultimo (Alleanza nazionale) (Bartolini, D’Alimonte 1996; Pasquino 1995). Quali sono state le conseguenze, sul piano del sistema di governo, della crisi, tra il 1992 e il 1996, dei suoi tradizionali attori politici? A questa domanda cercherò di rispondere nella Parte prima del volume.

Con le elezioni del 1996, un nuovo sistema di partito ha iniziato a prendere il posto del vecchio sistema di partito. Tale sistema, seppure ancora in formazione, è venuto ad essere connotato da una meccanica tendenzialmente bipolare, sconosciuta a quello precedente (Pappalardo 2000). Con esso, così, una nuova fase politica si è avviata. Una fase politica connotata dal conseguimento di un obiettivo di politica pubblica di importanza storica. Infatti, l’Italia è riuscita a ridurre il proprio deficit pubblico, che aveva raggiunto dimensioni drammatiche, potendo così rientrare, nel maggio del 1998, nei parametri previsti nell'accordo di Maastricht del 1991 per l’adozione di una comune moneta europea. Va ricordato, però, che il conseguimento di tale obiettivo fu preparato dalle innovazioni introdotte nelle politiche di bilancio dai governi precedenti, i cosiddetti governi tecnici del periodo della crisi. Tuttavia, nonostante questi risultati, l'esito della fase politica apertasi nel 1996 appare ancora altamente incerto. L’incertezza di quella fase è dovuta al fatto che al riordino di alcune politiche pubbliche non è seguita alcuna riforma delle istituzioni di governo. Cioè delle istituzioni che si erano rivelate congeniali sia al vecchio sistema di partito che alle politiche di irresponsabilità finanziaria da quest’ultimo favorite. Tant'è che, dopo il conseguimento dell’obiettivo del risanamento finanziario, si è ritornati all’esperienza dei tradizionali governi di partito, deboli ed instabili in quanto costituiti sulla base di alleanze parlamentari scolle-

gate dagli esiti elettorali. Basti pensare che, dopo il governo di derivazione semielettorale del periodo 1996-98, si sono avuti ben tre governi di derivazione postelettorale tra il 1998 e il 2000. Insomma, quali sono state le conseguenze della combinazione di un nuovo sistema di partito e di vecchie istituzioni di governo? A questa domanda cercherò di rispondere nella Parte seconda del volume. Il focus della mia analisi sarà 7/ sistema di governo, ovvero il sistema di relazioni istituzionali che collega il Parlamento, il governo, il

capo del governo e il capo dello Stato. Poiché i partiti politici hanno esercitato un ruolo predominante in quel sistema di governo, vale la pena di capire come la loro crisi e quindi la loro parziale riorganizzazione abbiano influenzato il funzionamento di quel sistema: come dire che il cambiamento verrà qui concettualizzato come un processo di modificazione del rapporto tra partiti e governo, e non già, come hanno fatto altri studi (Corbetta, Parisi 1997; Parisi, Scha-

dee 1995) del rapporto tra partiti ed elettori. Si tratta di due pro-

spettive diverse, che implicano, di conseguenza, due metodi d’analisi diversi.

Le interpretazioni della crisi Ho detto che occorre fare il punto di tale cambiamento, non già perché manchino le interpretazioni della crisi italiana. Anzi, nel corso degli anni novanta, si è avuto un dibattito di un certo interesse relativamente alle interpretazioni di quella crisi. Tuttavia, ciò che è mancato, e continua a mancare, è un’interpretazione complessiva del cambiamento politico italiano (comprensiva, cioè, sia della crisi che della transizione), oltre che teoricamente convincente della natura di

quest’ultimo. Alcune delle interpretazioni più sistematiche si sono rifatte, in modo più implicito che esplicito (e per questo motivo uso le virgolette), ad uno schema «neocomportamentista»: cioè hanno proposto una lettura della crisi basata sul comportamento di alcuni specifici attori (partiti, élites, movimenti), o sullo sviluppo di particolari fenomeni (cambiamenti dell'opinione pubblica), l’uno e l’altro collocati in un vuoto strutturale o istituzionale. Tali interpretazioni hanno fornito preziose informazioni sulla crisi italiana, ma non

altrettanto preziosi argomenti teorici sulle ragioni che hanno condotto a quest’ultima (e che, quindi, continuano a rendere difficile il

suo superamento). Mi limito a discutere alcune di tali interpretazioni, in quanto rappresentative di una famiglia più ampia di contributi, così da meglio evidenziare il contrasto con l'approccio istituzionalista che seguirò in questo volume. Naturalmente, gli altri (numerosi) contributi che si sono mossi in una prospettiva «compatibile» con la mia (come i due volumi collettanei che hanno iniziato ad indagare i nessi tra istituzioni e politiche, Cotta, Isernia 1996 e Di Palma, Fabbrini, Freddi 2000) verranno ripresi nel corso della trattazione. Gli approcci «neocomportamentisti» possono essere raggruppa-

ti in due famiglie: la famiglia degli approcci di lungo periodo e la famiglia degli approcci di breve periodo. Tra gli approcci di lungo periodo, due sono quelli più significativi. Il primo può essere definito come l’«approccio dell’insoddisfazione» (Morlino, Tarchi 1996; Morlino 1996). Sin dalla sua inaugurazione nel 1948, la Repubblica italiana ha sofferto di una insoddisfazione «passiva», da parte di una

sezione consistente di cittadini, buona parte dei quali moderati nel-

le loro opinioni politiche, per lo scarso rendimento delle sue istituzioni. I vincoli della guerra fredda interna (cioè del profondo contrasto tra comunisti e anticomunisti) hanno imposto una sorta di contenimento di tale insoddisfazione, sebbene quest’ultima venisse

regolarmente registrata dai sondaggi periodici (come quelli ad opera dell’Eurobarometro). La caduta del muro di Berlino nel 1989, con tutte le conseguenze che ne sono derivate, ha ridotto quei vincoli, of-

frendo inaspettate opportunità per l’«attiva» manifestazione di tale insoddisfazione. E indubbio che tale approccio fornisca importanti informazioni sull’evoluzione delle opinioni dei cittadini italiani. Tuttavia, esso non è convincente, perché dice troppo e dice poco nello stesso tempo. Dice troppo, perché se è vero che i cittadini italiani sono stati permanentemente insoddisfatti del loro Stato repubblicano, allora come è possibile spiegare il diffuso sostegno ricevuto, nello stesso periodo, dai principali attori che agivano all’interno di quello Stato, cioè i partiti politici di massa? Dice poco, perché l’insoddisfazione è esattamente la variabile (dipendente) che deve essere spiegata, e non già la variabile (indipendente) da assumere come esterna alla spiegazione. Una variabile, per di più, tutt'altro che omogenea, potendosi indirizzare (l’insoddisfazione) verso l’una o l’altra delle componenti del sistema politico. E allora, per usare la terminologia di Easton (1990), perché in Italia si è registrato, tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta, il paradosso di un alto sostegno specifico (per le «autorità politiche») e di un basso sostegno generico (per il «regime politico»), e quindi esattamente l’opposto dopo gli anni ottanta? Anche altre democrazie (in particolare gli Stati Uniti) hanno registrato, nel secondo dopoguerra, tale divaricazione nel sostegno dei cittadini: eppure non hanno conosciuto una crisi democratica come la nostra. Perché? E difficile rispondere basandosi solamente sui dati dei sondaggi d'opinione. Ovvero, mi sembra poco plausibile assumere le opinioni dei cittadini al di fuori dei contesti in cui esse si formano. I sondaggi informano, ma non sono sufficienti per dare forma ad un’analisi interpretativa. Il secondo approccio di lungo periodo può essere definito come l’4approccio dell’integrazione» (Barnes 1994). Connotata da uno Stato tradizionalmente debole e colonizzato, l’Italia ha risposto alle pressioni e alle domande della politica di massa attraverso l’attivazione di agenzie partigiane, quali (appunto) i partiti politici di mas-

sa. Di già il periodo fascista (1922-43) aveva consentito di sperimentare l’uso del partito politico di massa (il Partito nazionale fascista o Pnf) ai fini dell’integrazione della società nello Stato. La Repubblica, dal 1948 alla fine degli anni ottanta, ha seguito e sviluppato quell’esperimento, sebbene nella forma di un sistema multipartitico e non già nella forma di un partito monopolistico (come già aveva argomentato Cafagna 1993). Ma in entrambi i casi, cioè sia durante il fascismo che durante la Repubblica, il regime politico ha finito per identificare se stesso con agenzie e strutture partigiane, e

non già con agenzie e strutture statali. Naturalmente, quando i cittadini identificano se stessi con attori privati piuttosto che con attori pubblici, è improbabile che essi possano poi maturare un sentimento di comune identità nazionale, proprio per l’alto grado di inconciliabilità delle loro rispettive ideologie. La secolarizzazione postbellica della società italiana ha progressivamente corroso la legittimità dei partiti politici e, con essi, dello Stato da loro rappresentato. Poiché i partiti non si sono mostrati in grado di trasferire l’identificazione dei cittadini da se stessi alle istituzioni pubbliche, o hanno scelto di non farlo, la crisi dei partiti ha finito per trasformarsi nella crisi dello Stato. Anche questo approccio non è convincente. Certamente, esso ci fornisce un quadro analitico più sofisticato, rispetto al precedente,

per concettualizzare la crisi democratica italiana. Tuttavia, pure qui, alcune cose non tornano. E non tornano perché esso sembra riproporre un’idea di «eccezionalismo» italiano che non regge la verifica dell'analisi comparativa. Infatti, per quanto riguarda l'assetto statale, lo «Stato dei partiti» non è solamente una caratteristica dell’Italia postbellica, ma lo è anche di altre democrazie (si pensi alla Germania), che per di più avevano sperimentato (come noi) la strategia del partito unico (totalitario): come mai, allora, esse non hanno registrato alcuna crisi democratica comparabile alla nostra? Inoltre, per quanto riguarda ilprocesso politico, l'integrazione delle masse, ix uno Stato debole, attraverso i partiti non è stata solamente una caratteristica dell’Italia democratica. Si pensi agli Stati Uniti del secolo scorso. Anche qui si è registrato un processo di integrazione delle masse in uno Stato debole attraverso i partiti politici (Skowroneck 1982; Morone 1998), eppure quel paese non ha conosciuto alcuna crisi di legittimità (comparabile alla nostra) quando i partiti crollarono a cavallo tra il XIX e il XX secolo (per mancanza di fiducia dei cittadini 10

nei loro confronti e per alcune riforme introdotte che ne ostacolarono seriamente l’azione). Forse, all’origine della nostra crisi, non c'è

lo «Stato dei partiti» in quanto tale, ma «lo Stato creato da questi partiti». E questi partiti non sono solamente il prodotto di una «eccezionale» storia nazionale, ma sono anche l’esito del modello di de-

mocrazia consensuale che si è istituzionalizzato nell'Italia postbellica. Così, entrambi gli approcci di lungo periodo qui considerati, poiché non prendono in considerazione le caratteristiche istituzionali della democrazia italiana, finiscono per riproporre una sorta di «eccezionalismo italiano», sulla base (il primo) dell’insoddisfazione dei suoi cittadini e sulla base (il secondo) delle scelte dei suoi partiti. Tra gli approcci di breve periodo, due sono quelli più significativi (anche se essi sono, in qualche modo, complementari). Il primo può essere definito come l’approccio dell’«antipolitica dal basso» (Bardi 1996; Fedele 1994). Già negli anni sessanta, ma specialmente nei due decenni successivi, l’Italia ha conosciuto un diffuso senti-

mento antipolitico: alimentato, più propriamente, da una critica tenace dei principali partiti politici (della Dc e del Pci in particolare). Attraverso l’azione di un piccolo partito «referendario» (il Partito radicale o Pr), e una volta che la sfida terroristica è stata neutraliz-

zata, onde sempre più alte di mobilitazione non convenzionale si sono abbattute sull’arena politica, contribuendo a definire in una pro-

spettiva «antisistemica» i nuovi modelli di azione politica dei cittadini. Così, questi modelli di partecipazione diretta hanno finito per mettere in questione il ruolo centrale esercitato tradizionalmente dai partiti nel processo politico. Ovvero, attraverso la moltiplicazione dei referendum su questioni di politica pubblica, è stato messo in discussione il ruolo esercitato da quei partiti nello stesso processo di governo. Anche questa interpretazione dice troppo e dice poco. Dice troppo, perché appare implausibile definire come «antisistemici» i movimenti o le leghe di cittadini che hanno contribuito a promuovere i vari referendum che si sono tenuti a partire dagli anni settanta, ovvero i movimenti o le leghe regionaliste che si sono mobilitati a partire dagli anni ottanta. Se così fosse, sarebbe sufficiente che un’azione sociale si svolga al di fuori dei partiti consolidati, per essere quindi definita come «antisistemica». Con buona pace di qualsivoglia teoria pluralista della democrazia. Dice poco, perché appare altrettanto implausibile ricondurre la crisi italiana (esclusivamente) all’antipolitica, quando fenomeni analoghi di antipolitica in altri 11

paesi (Poguntke, Scarrow 1996) non hanno prodotto analoghe crisi democratiche. Un altro caso di «eccezionalismo» italiano? Il secondo approccio di breve periodo può essere definito come quello dell’«antipolitica dall’alto» (Mastropaolo 1999). Qui, la crisi democratica italiana viene ricondotta ai comportamenti antipolitici

della stessa classe politica (socialista, postcomunista, cattolica, oltre che radicale). Incerta sulle basi della propria legittimazione politica, incapace di elaborare un paradigma rinnovato di giustificazione dei partiti politici in una democrazia postpolitica, buona parte della classe politica, a partire dalla metà degli anni ottanta, ha preferito ricorrere alle visioni populiste per motivare il proprio ruolo nella società italiana. Di qui il richiamo alla «società buona» in opposizione a una «politica cattiva». Di qui gli appelli alla «gente», al «popolo», al «pubblico» (spettatore dei media): appelli basati, non già su programmi politici, ma sulle caratteristiche personali di singoli leader politici. Così, l'elogio dei partiti, che aveva accompagnato la vicenda della «Prima Repubblica», è stato sostituito dall’elogio della gente e dei suoi leader, che avrebbe dovuto accompagnare la vicenda della «Seconda Repubblica». Insomma, è stato l’autolesionismo della sua classe politica a mettere in crisi la democrazia italiana. Essa è crollata per autodissolvimento interno: anche se non è chiaro se tale autodissolvimento sia dovuto ad un errore nel calcolo degli effetti imprevisti della strategia populista ovvero ad una scelta più o meno consapevole di «autodafé politico». Tuttavia, anche in questo approccio, molte cose non tornano. Su quali basi empiriche viene motivato l'assunto che il paradigma populista era divenuto predominante, nella classe politica, con la seconda metà degli anni ottanta? Può essere vero o falso, ma di sicuro è un assunto non falsificabile.

E, soprattutto, è plausibile l'argomento (proprio della teoria del complotto, seppure alla rovescia) che fonda la sua capacità interpretativa (della crisi democratica) sull’unico fattore del comportamento autolesionista della classe politica? In democrazie istituzionalizzate, non vi sono (state) esperienze di classi politiche che hanno tagliato il ramo su cui sedevano. Ma forse, anche in questo approccio, siamo di fronte ad una narrazione che celebra, di nuovo,

l’«eccezionalismo italiano». Insomma, queste interpretazioni della crisi italiana appaiono uni-

causali e poco o punto sistemiche. In questo libro cercherò di mostrare che, se non si definiscono le caratteristiche istituzionali della

12

democrazia italiana postbellica, la sua crisi non potrà mai essere convincentemente spiegata. Solamente dopo aver definito istituzionalmente quella democrazia è possibile distinguere tra i fattori di lungo periodo e i fattori di breve periodo che hanno condotto alla sua crisi. I primi, infatti, sono la variabile indipendente dell’analisi, in

quanto rinviano alle caratteristiche istituzionali della democrazia consensuale italiana e alle loro conseguenze sul piano della formazione delle politiche pubbliche, nel contesto di una crescente integrazione europea. I secondi, invece, sono la variabile interveniente

dell’analisi, in quanto rinviano al particolare complesso di attori ed eventi che si è manifestato in Italia tra il 1991 e il 1993. Si può dire che la crisi italiana può essere considerata l’esito dell’attivazione di «cause» strutturali, radicate nelle caratteristiche istituzionali e di policy-making della democrazia italiana postbellica, da parte di causers (per dirla con Huntington 1995) o acceleratori (per dirla con Allum 1997) non convenzionali. Ovvero, come argomenterò in seguito, la crisi è stata l’esito del contrasto tra il cambiamento dell’ambiente e la resistenza delle istituzioni. Dove il cambiamento dell’ambiente si è alimentato della modernizzazione e secolarizzazione del paese, ma anche del radicale mutamento del contesto esterno, rappresentato, prima, dal declino dei vincoli imposti dalla guerra fredda e, poi, dalla crescita dei vincoli imposti dall’integrazione europea.

Crisi e transizione L’analisi sistematica della vicenda italiana degli anni novanta non può essere avviata senza una precisazione dei concetti con cui

quell’analisi è condotta. Seppure nel dibattito scientifico si è finora usato (per esigenze di semplificazione, come io stesso ho fatto, si veda Fabbrini 2000a) in modo interscambiabile i tre concetti di ca72biamento, crisi e transizione, in realtà essi non coincidono affatto. Il

cambiamento politico è un termine generico con il quale si indica il processo che conduce alla sostituzione di un equilibrio politico vecchio con uno nuovo. Ovvero, alla sostituzione dell’equilibrio rap-

presentato dal vecchio sistema di partito ed istituzionale con quello rappresentato dal nuovo sistema di partito ed istituzionale. Qui, dunque, assumo per equilibrio la formazione di una stabile relazione fra attori e istituzioni (e ambiente). 13

Anche la crisi e la transizione non coincidono. E non coincidono, perché la crisi sostanzia la fase di destrutturazione del vecchio sistema di partito e della messa in discussione delle condizioni istituzionali che lo avevano giustificato. Mentre la transizione rinvia, invece, alla fase di riorganizzazione di un nuovo sistema di partito e quindi di ridefinizione delle condizioni istituzionali che lo possono stabilizzare. Ovviamente, nella crisi non vi è solamente la distruzio-

ne dei vecchi attori politici, ma anche la nascita di nuovi attori politici, oltre che la ricerca di nuove regole e di nuovi comportamenti. Tuttavia, i nuovi attori non sono (ancora) in grado di sostituire i vecchi attori, sia per mancanza di risorse (o forza politica) e sia per mancanza di legittimità (o consenso popolare). Ed ciò che è avvenuto in Italia tra il 1992 e il 1996, quando il governo del paese è stato progressivamente affidato alla cura di presidenti del Consiglio e di ministri tecnici, in quanto non più espressione del tradizionale personale politico (parlamentare o di partito). E, ovviamente, nella transizione non vi è solamente l'apprendimento di nuovi comportamenti, ma anche il tentativo di riproposizione di vecchie abitudini. Eppure, questa fase è distinguibile da quella precedente perché i nuovi attori si sono ormai imposti sui vecchi, acquisendo quelle risorse

e quella legittimità che possono giustificare le loro pretese al governo. Ed è ciò che è avvenuto in Italia dopo il 1996, quando il governo del paese è ritornato, sia pure gradualmente, nelle mani di un personale politico di estrazione partitica. Insomma, per cambiamento politico occorre intendere quel processo comprensivo sia della crisi di un «equilibrio conosciuto» che del passaggio verso un «equilibrio sconosciuto». Per crisi occorre intendere l’esito della incongruenza (che è stata resa manifesta da specifici attori) tra le istituzioni democratiche e il loro ambiente (ovvero l'alterazione dell’equilibrio costituitosi in precedenza tra di essi), mentre per transizione occorre intendere la ricerca (da parte di spe-

cifici attori) dell’assetto di regole formali che potrà favorire la formazione di un nuovo equilibrio tra l’ambiente e le istituzioni democratiche. Naturalmente, quell’assetto, per poter favorire l’esito desiderato, dovrà dimostrarsi sufficientemente solido, in quanto accettato dai principali attori che agiranno nelle nuove istituzioni. Insomma, fra la transizione e il nuovo equilibrio dovrà essere sperimentata una fase di consolidamento della soluzione istituzionale adottata. Fase nella quale si verrà a determinare un reciproco soste14

gno tra le nuove istituzioni e gli attori politici (a loro volta organizzati in un nuovo sistema di partito). Il nuovo equilibrio sarà da considerare come consolidato quando quegli attori accetteranno di competere con le nuove regole per la conquista e l’esercizio del potere governativo. Nel caso italiano, la crisi si è manifestata sotto forma di una paralisi governativa, misurabile sia come interruzione del tradizionale processo di governo sia come sostituzione del tradizionale personale di governo (vedi Fig. 1). Tuttavia, se la crisi (in Italia come altrove) è generalmente la manifestazione di un’incongruenza registratasi tra l’ambiente e le istituzioni, tale incongruenza può essere l'esito, però, di due modalità differenziate di contrasto tra il primo e le seconde. Fig. 1. La crisi politica nelle democrazie

Y Y

incongruenza tra istituzioni e ambiente

attivazione dell’incongruenza

CRISI

paralisi governativa

n

ali

interruzione del tradizionale processo di governo

sostituzione del tradizionale personale politico

La crisi, infatti (Skocpol 1998; Ertman 1997; Fischer 1996; Bin-

der et al. 1971), può provenire sia dal dinamismo delle istituzioni a cui si contrappone la resistenza dell'ambiente, che dal dinamismo dell’ambiente a cui si contrappone la resistenza delle istituzioni (vedi Fig. 2). Nel primo caso, la crisi ha un’origine endogena (alle istituzioni), mentre, nel secondo caso, la crisi ha un’origine esogena (al-

le istituzioni). La crisi endogena è stata, storicamente, la crisi registrata nei processi di modernizzazione dello Stato nazionale, nei paesi giunti in ritardo nel sistema internazionale degli Stati. Sottoposte 15

Fig. 2. I modelli della crisi politica nelle democrazie sfida

mutamento

dinamismo istituzionale VS resistenza ambientale

esogena ——-

endogena

difesa

—— >

dinamismo ambientale VS resistenza istituzionale

persistenza

alle formidabili sfide degli Stati limitrofi o degli Stati più avanzati, le élites politiche e burocratiche di quegli Stati hanno dovuto promuovere (dall’alto) una trasformazione istituzionale dello Stato, per adeguarlo alle esigenze del nuovo sistema internazionale. Ciò ha significato l'accelerazione del processo di controllo sociale da parte dello Stato, attraverso la costruzione di eserciti popolari e di apparati fiscali e amministrativi capaci di sostenere questi ultimi. Processo di controllo sociale che ha finito, quindi, per incontrare una difesa tenace da parte dell'ambiente interno (cioè da parte dei gruppi sociali e delle comunità territoriali penalizzati dall’azione di controllo). Qui, dunque, è stato il dinamismo istituzionale ad originare la crisi. La crisi esogena, invece, è stata storicamente la crisi che si è registrata

nei processi di democratizzazione dello Stato nazionale, in particolare nei paesi ove più consolidati, istituzionalmente, erano gli interessi ostili all’allargamento delle basi popolari dello Stato (cioè ostili prima alla diffusione del suffragio universale e alla libertà di competizione elettorale e, poi, alla possibilità del ricambio governativo). Ciò ha significato l’accentuazione della resistenza istituzionale da parte delle élites politiche e amministrative dominanti, le quali hanno risposto alle domande di integrazione attraverso una legislazione paternalistica ovvero attraverso l’uso della forza. Qui, invece, è sta-

to il dinamismo ambientale ad originare la crisi. Sulla base di questi due modelli di crisi, derivati dalle esperienze storiche dei paesi europei del secolo scorso, è possibile identificare la crisi italiana del periodo 1991-96 come una crisi del secondo tipa, in quanto espressione del contrasto verificatosi tra il dinamismo dell’ambiente e la resistenza delle istituzioni. 16

Fig. 3. Il cambiamento politico nelle democrazie riordino istituzionale

equilibrio —>> crisi —>

gta XY

ada i

transizione

consolidamento — equilibrio

trasformazione istituzionale

La transizione, dunque, è la fase successiva alla crisi e coincide

con la ricerca di un nuovo equilibrio. Nel caso italiano, tale fase è iniziata nel 1996, e si è manifestata sotto forma di un conflitto per la definizione di nuovi rapporti di forza tra gli attori politici emersi dalla scomparsa dell'equilibrio politico precedente. Attenzione, però. Perché transizione, così inteso, è un termine neutro: esso non implica affatto un passaggio da uno «stato inferiore» ad uno «stato superiore» (in termini verticali) di equilibrio politico. Per transizione, al contrario, occorre semplicemente intendere il movimento orizzontale da un equilibrio ad un altro (che può essere vicino oppure lontano da quello precedente). In questo senso, si può avere una transizione con trasformazione e una transizione senza trasformazione (anche se

con riordino) delle istituzioni che sostengono il nuovo equilibrio politico. Dove, nel primo caso, si deve intendere la riforma comprensiva, sulla base di un nuovo disegno costituzionale, delle vecchie dominanti regole del regime politico; mentre, nel secondo caso, occor-

re intendere il riadattamento parziale e informale di alcune di quelle regole alle nuove esigenze di una maggiore funzionalità istituzionale (vedi Fig. 3). Ecco perché, per quanto riguarda l’Italia degli anni novanta, parlo di cambiamento senza trasformazione. Cioè di un cambiamento del sistema partitico e di alcune politiche pubbliche che non è stato accompagnato da una riforma delle istituzioni di governo (per una discussione giuridica di alcune di queste problematiche, si veda Lanchester 1996).

Peraltro, distinguendo i due processi empirici della crisi e della transizione è possibile mettere in luce la diversa natura delle relazioni politiche che, in Italia, hanno sostanziato l’una e continuano a sostanziare l’altra. Così, la crisi è stata il risultato della relazione con-

flittuale attivatasi, tra il 1991 e il 1996, tra alcuni gruppi sociali e la 17

vecchia classe politica; la transizione, invece, è stata caratterizzata dalla relazione conflittuale, che si è attivata dopo il 1996, tra le varie

componenti che costituiscono la nuova classe politica. La prima, dunque, ha avuto una natura preminentemente sociale, in quanto è stata una crisi indotta da attori collocati ai margini dell’equilibrio politico dominante (quali il movimento referendario e le leghe territoriali). Mentre la seconda, invece, esprime una natura preminentemente politica, in quanto la definizione di un nuovo equilibrio dominante continua ad essere l’oggetto di una contesa tra gli attori po-

litici organizzati (e in entrambi i casi, quelle «relazioni» si sono svolte e continuano a svolgersi in un contesto condizionato dalle pressioni provenienti dal processo di integrazione europea). Parlo di «relazioni politiche» proprio perché sia la crisi che la transizione rinviano all’azione di specifici attori, e quindi alle loro interazioni reciproche, e non già a qualche «sommovimento impersonale della storia». In politica non succede nulla, se non c’è qualcuno che agisce per far succedere qualcosa. Tuttavia, gli attori non agiscono nel vuoto (Scharpf 1997). Essi, al contrario, agiscono all’interno di precisi contesti. Cioè all’interno di situazioni strutturate da regole e convenzioni, da tradizioni e aspettative, da posizioni acquisite e posizioni acquisibili. Che è come dire che gli attori agiscono all’interno di istituzioni sociali, economiche, culturali e politiche. Tali istituzioni sono giustificate dalla storia, ma sono anche protette da specifiche coalizioni di gruppi e di individui, che grazie ad esse possono soddisfare i loro interessi (che possono essere sia materiali che di stats) e promuovere le loro passioni (che possono essere sia valori che opinioni). Interessi e passioni, perché le istituzioni forniscono risorse e creano vincoli agli atto-

ri che vogliono perseguire (secondo la logica della consequenzialità) i loro interessi. Ma, contemporaneamente, esse contribuiscono a de-

finire l’identità di quegli attori, selezionando (secondo la logica dell’appropriatezza) le passioni che possono essere alimentate ed escludendo quelle che non possono esserlo. Dunque, se la crisi e la transizione sono distinte empiricamente, esse sono però collegate analiticamente. E tale collegamento è rappresentato, appunto, dagli assetti istituzionali della democrazia italiana. È nell’intreccio tra la continuità e la discontinuità delle regole formali ed informali costitutive di quegli assetti che va ricercato il nesso che collega la crisi alla transizione. Oltre che la qualità dell’una 18

e dell’altra. Insomma, senza prendere in considerazione la natura delle istituzioni politiche della democrazia italiana, è difficile comprendere perché l’attivazione di alcuni attori abbia condotto, date certe condizioni storiche, alla crisi di quelle istituzioni. E, di nuovo,

senza prendere in considerazione la natura delle discontinuità introdotte in quelle istituzioni (e cioè le caratteristiche della legge elettorale approvata dal Parlamento il 4 agosto del 1993), è ancora più difficile comprendere la natura della transizione attivatasi dopo il 1996, con la riorganizzazione del sistema partitico.

Alle origini della crisi Definito il quadro concettuale, vediamo ora più precisamente la dinamica della crisi italiana. Come abbiamo visto, sul piano idealtipico, essa è riconducibile al tipo delle crisi di origine esogena. O meglio, è da considerarsi come l’esito della resistenza delle istituzioni politiche ad adattarsi alle pressioni e sfide provenienti dall'ambiente interno ed esterno. Va precisato, tuttavia, che, nelle democrazie con-

solidate contemporanee, il primo tipo di crisi è assai raro. Perché, più una democrazia è consolidata e più quella democrazia tenderà a preservare il suo equilibrio, ovvero a disciplinare il cambiamento. Però,

sebbene tutte le istituzioni consolidate tendano ad avere una predisposizione conservativa, quelle italiane postbelliche hanno trasformato tale predisposizione in una necessità sistemica. Le istituzioni sono conservative proprio perché il loro compito è quello di regolarizzare gli scambi individuali e sociali, ovvero di dare ordine nel tempo al cambiamento sociale. Tuttavia, una predisposizione conservativa non si traduce, necessariamente, in una resistenza prolungata,

come è avvenuto in Italia. Nel passaggio dall’una (la predisposizione) all’altra (la resistenza) intervengono due fattori (Krasner 1999) di strategica importanza (per l’analisi del cambiamento). Il primo è rappresentato dall’estersione dei legami che collegano quella istituzione politica al più generale contesto istituzionale che organizza la società e l'economia. Più numerosi, più radicati e più congruenti saranno quei legami, e maggiore sarà la capacità di resi-

stenza di quella istituzione alle pressioni per la trasformazione. Il secondo è rappresentato dalla profondità dei legami interni che collegano gli attori che agiscono in quella istituzione. Una istituzione forIe)

nisce ai suoi attori una dotazione variegata di risorse: cioè di poteri, diritti, vantaggi e simboli di autoidentificazione. Maggiore sarà tale dotazione di risorse fornite dall’istituzione, maggiore il numero degli attori che vengono dotati di quelle risorse e maggiore sarà la capacità di resistenza di quella istituzione alle pressioni per la sua trasformazione. Ora, nel caso italiano, le istituzioni di governo, dopo mezzo secolo di consolidamento, avevano conseguito sia una larga estensione che un’alta profondità. Infatti, come vedremo in particolare nel capitolo I, le istituzioni di governo avevano tessuto solidi collegamenti con i gruppi di interesse, e sia le prime che i secondi erano venuti a registrare un comune modello di autorità nella loro logica di funzionamento. E infatti, come vedremo nel capitolo II, le isti-

tuzioni di governo erano venute ad essere connotate da una struttura policentrica che aveva diffuso le risorse di potere tra un numero crescente di attori politici. E per questo doppio motivo, la loro resistenza alle pressioni ambientali si è rivelata poi così accentuata. Come si vede, le istituzioni (di governo) sono qualcosa di più che regole del gioco. Nel senso che le regole non sono mai un fine in se stesse, ma contano in quanto favoriscono la formazione di particolari equilibri sociali e politici (che sempre le regole, poi, contribuiscono a proteggere), rendendo quindi stabile il loro impatto nel tempo. Ed è qui che interviene un'importante distinzione analitica di tipo comparativo. Perché il grado di estensione e di profondità di un’istituzione governativa dipende anche dalla natura consensuale o competitiva della stessa (Fabbrini 1999a). Così che, se ci limitiamo alla comparazione macroistituzionale, è possibile rilevare che le istituzioni delle democrazie consensuali sono più resistenti di quelle delle democrazie competitive. Nel senso che le prime rendono la de-cristallizzazione degli equilibri sociali e politici, costituitisi grazie ad esse, più difficile delle seconde. L’alternanza al governo di partiti alternativi, infatti, favorisce anche il ricambio delle coalizioni sociali

dominanti. Mentre l’assenza dell’alternanza tende a stabilizzare gli equilibri sociali dotando ogni attore di una risorsa permanente di influenza. Così, la resistenza delle istituzioni politiche al cambiamento (in primo luogo delle politiche, ma anche, in secondo luogo, delle stesse regole) è maggiore là dove esse hanno una natura consensuale piuttosto che competitiva proprio perché le prime sono strutturate in modo tale da moltiplicare i poteri di veto, mentre le seconde sono strutturate in modo tale da ridurli. E, naturalmente, là dove i poteri 20

di veto sono numerosi, là è più forte l'incentivo a conservare un equilibrio (di policy e istituzionale) piuttosto che ad alterarlo. Cioè è più facile resistere alla trasformazione, se non alla stessa autocorrezione

dell’istituzione nel caso di un suo funzionamento imperfetto. La vicenda italiana degli anni novanta costituisce una conferma della particolare predisposizione conservativa delle istituzioni di governo consensuali. La modernizzazione della società italiana e il processo di integrazione europea (che, per ora, assumo come le variabili indipendenti dell’analisi) hanno sollecitato, sin dagli anni ottanta,

alcuni basilari mutamenti nelle istituzioni (di governo, in particolare) e nelle politiche pubbliche (di bilancio, in particolare). Tali sollecitazioni, tuttavia, hanno incontrato le resistenze di buona parte della classe politica, di governo e di opposizione, ma anche dei principali gruppi sociali ed economici (sindacati e associazioni imprenditoriali), beneficiari e sostenitori di quelle istituzioni e politiche: e da quella classe politica, naturalmente, rappresentati. Ma, agli inizi degli anni novanta, le resistenze hanno avuto difficoltà, per così dire, a resistere. La comparsa di nuovi attori e l’avvio di inediti processi di mobilitazione pubblica hanno sottoposto quelle resistenze ad una pressione formidabile. La mobilitazione di diffusi interessi territoriali nel Nord del paese da parte di movimenti e partiti regionali di formazione recente e comunque estranei al vecchio sistema di partito, l'attivazione del movimento referendario per la riforma elettorale costituito di settori sociali e associazioni civili e religiose insofferenti verso i partiti tradizionali, l’avvio di indagini giudiziarie sulla corruzione politica e amministrativa da parte di magistrati di diverse città italiane: tutto ciò (che potremmo definire come la variabile interveniente) ha contribuito a mettere in discussione, in poco tempo, la legittimità dell’insieme dei partiti e del loro sistema di relazioni reciproche. E, quindi, dei presupposti di politica pubblica che sorreggevano quella legittimità. Dunque, tra il 1991 e il 1993 si sono create le condizioni della crisi italiana, crisi che si è poi protratta fino al 1996. Si guardi la sequenza della crisi (vedi Tab. 1). E stato lo straordinario successo del referendum elettorale nel 1991, per l'abolizione della preferenza multipla nel voto proporzionale di lista (Pasquino 1993), ad iniziare il processo di delegittimazione del sistema di partito. Tale processo è poi proseguito nelle elezioni parlamentari del 1992, quando un’aggregazione di partiti e movimenti regionalisti (la Lega Nord, o Ln) ot21

Tabella 1. Italia: la sequenza di crisi e transizione Date

6 giugno 1991

12 dicembre 1991

Eventi politici Referendum elettorale per l'abolizione delle preferenze multiple

Risultati elettorali Successo (95,6%)

per l'abolizione

Riduzione del debito pubblico Avvisi di garanzia ad esponenti della classe politica

Trattato di Maastricht

17 febbraio 1992

Inizio delle indagini milanesi di Mani Pulite 5 aprile 1992

Elezioni parlamentari nazionali con il vecchio sistema elettorale proporzionale

18 aprile 1993

Referendum

elettorale per

Esiti istituzionali

I partiti di centro ottengono una maggioranza risicata

Governo quadripartitico di G. Amato (28 giugno

di seggi

1992-22 aprile 1993).

La Lega Nord passa

Trasformatosi in pochi mesi in un

dallo 0,7% (1987) al

governo quasi tecnico

9,4%

La commissione parlamentare per la riforma istituzionale (9 settembre 1992-11 gennaio 1994) fallisce

Successo (83%) per l’abolizione

Governo tecnico di C.A. Ciampi (28

aprile 1993-16 aprile

l’abolizione del sistema elettorale

1994)

proporzionale per il Senato

Nuova legge elettorale

4 agosto 1993

quasi maggioritaria approvata dal

Parlamento 27 marzo 1994

Elezioni nazionali parlamentari con il nuovo sistema

Successo del centrodestra alleato con la Lega Nord (dinamica

elettorale quasi

multipolare)

maggioritario 22 dicembre 1994

La Lega Nord abbandona il governo di centrodestra

Governo di centrodestra e Lega Nord di S. Berlusconi (10 maggio 1994-16 gennaio 1995)

Governo tecnico di L. Dini (17 gennaio 1995-13 gennaio

1996)

22

21 aprile 1996

Elezioni nazionali parlamentari

Successo della coalizione di centrosinistra alleata con Rifondazione comunista (dinamica bipolare)

Governo di centrosinistra di R. Prodi (16 maggio 1996-20 ottobre1998) —La commissione parlamentare per la riforma istituzionale (8 febbraio 1997-4

novembre 1997)

fallisce Governo di centrosinistra allargato a componenti elette nel centro-destra guidato da M. D'Alema (21 ottobre 1998)

9 ottobre 1998

Rifondazione comunista abbandona il governo di centrosinistra

18 aprile 1999

Referendum

Quorum non

elettorale per

raggiunto

l'abrogazione della quota proporzionale

(partecipazione elettorale del 49,8%

del sistema elettorale

di elettori aventi diritto)

19 dicembre 1999

Crisi nella maggioranza di

Nuovo governo di centro-sinistra guidato

governo

da M. D'Alema (24

dicembre 1999)

19 aprile 2000

Dimissioni del presidente del Consiglio D'Alema

21 maggio 2000

Tra gli altri, referendum elettorale per l’abolizione della quota proporzionale del sistema elettorale

Formazione di un nuovo governo di centro-sinistra guidato da G. Amato (25 aprile 2000) Quorum non raggiunto (partecipazione elettorale del 32,8% di elettori aventi diritto)

tenne ben il 9,4% di voti (rispetto allo 0,7 ottenuto nelle precedenti elezioni del 1987). E, quindi, tale delegittimazione si è resa ancora più evidente nel 1993, in occasione del secondo referendum elettorale, quello che ha condotto all’abolizione del sistema elettorale proporzionale per il Senato da parte dell’83 % degli elettori. Naturalmente, 23

tali mobilitazioni avrebbero avuto un impatto diverso se esse non si fossero intrecciate (come è avvenuto) con l'avvio (nel 1992, prima a Milano e poi in molte altre città italiane) delle inchieste giudiziarie contro la corruzione politica e amministrativa. Così, tra il 1991 e il 1993, in singolare coincidenza con il Trattato di Maastricht del dicembre 1991 che trasformava la Comunità economica in Unione europea (per di più impegnata a dotarsi di una comune moneta), si è registrata una sequenza di azzoni sociali il cui effetto è stato la messa in discussione della legittimità del sistema partitico postbellico. A proposito di tali azioni sociali, due osservazioni sono necessarie. La prima: esse furono promosse da attori distinti per interesse e

per passione. Certamente, il successo conseguito separatamente da ciascuno di essi ha rafforzato l'impatto di ognuno degli altri: ma tali attori non furono mai alleati per il conseguimento di un comune e coerente progetto. Certamente, essi erano l’espressione di un’insod-

disfazione diffusa con il modello italiano di democrazia. Tant'è che la percentuale di elettori a favore dell’abolizione del sistema elettorale proporzionale ha assunto proporzioni massicce. È tant'è che il

voto per la Lega Nord ha avuto proporzioni sorprendenti. E le stesse inchieste giudiziarie contro la corruzione politica e amministrativa, che nel passato avevano incontrato omertà insuperabili, furono in grado di coinvolgere un numero straordinariamente ampio di politici e funzionari pubblici, proprio per la disponibilità alla collaborazione con i giudici dimostrata da un numero altrettanto ampio di imprenditori ed operatori economici. Tuttavia, quegli attori hanno continuato a mantenere la loro distintività (e, nel caso del movimento referen-

dario, anche la loro contingenza). La seconda osservazione: gli attori territoriali e referendari, ma anche gli stessi magistrati della lotta contro la corruzione e contro il crimine organizzato, hanno dato voce ad interessi e passioni che non si riconoscevano più nell’equilibrio dominante, o che erano ai margini di quest’ultimo. Cioè, la crisi è stata attivata da attori periferici alla classe politica, ovvero da individui e gruppi collocati (o collocatisi) all’esterno del processo di governo.

Le difficoltà della transizione Sebbene i causers o gli acceleratori della crisi non fossero portatori di un progetto coerente di riforma, tuttavia essi non si erano limita-

24

ti a rivendicare un mero ricambio della classe politica. Al contrario, quegli attori, sia pure sulla base di considerazioni diverse, avevano premuto per un cambiamento più «strutturale» della democrazia italiana: ovvero per la trasformazione di alcune delle sue istituzioni politiche. Tant'è che il Parlamento fu costretto, prima nel 1992 e poi nel 1996, a riattivare il processo di revisione costituzionale, istituendo due commissioni parlamentari (note come Bicamzerali, perché costituite da parlamentari di entrambe le Camere) con il compito di delineare un nuovo assetto istituzionale per la Repubblica (cioè con il compito di rivedere la parte seconda della Costituzione, e non già la prima, quella che celebra i diritti fondamentali), da sottoporre quindi al vaglio e al voto dell’assemblea delle due Camere parlamentari (Gilbert 1998). Riattivare, appunto, perché una prima commissione parlamentare per la riforma costituzionale era stata di già istituita nel periodo 1983-85, ma si era conclusa con un nulla di fatto. Se i lavori della commissione del 1992 furono interrotti dallo scioglimento anticipato della legislatura nella primavera del 1994, quelli della commissione del 1997, invece, ebbero modo di svolgersi regolar-

mente nei tempi previsti dalla legge istitutiva. Tale commissione parlamentare riuscì a raggiungere un accordo di maggioranza su un pro-

getto di revisione costituzionale, anche se si trattava di un progetto quanto mai contraddittorio ed incoerente (Sartori 1998), che fu quindi consegnato al Parlamento nel febbraio del 1998. Tuttavia, una volta che si è giunti alla discussione parlamentare, l'accordo che sosteneva il progetto è (non inaspettatamente) saltato. Non solo, con la crisi del governo Prodi, emerso dalle elezioni del 1996, si è ritornati al più tradizionale governo di partito, cioè al governo D'Alema dell’ottobre 1998, costruito su alleanze parlamentari non prive di tratti trasformistici. Tale ritorno al tradizionale governo di partito è stato quindi accelerato dalle modalità della crisi di quest’ultimo governo e da quelle della formazione di un secondo governo D'Alema nel dicembre 1999 (vedi Tab. 1). Così, per usare la teminologia di Easton (1990), se l’Italia degli anni novanta ha registrato un ricambio radicale nelle sue «autorità politiche», tuttavia, nonostante la potente pressione per la trasformazione delle istituzioni del suo «regime democratico», essa ha fatto pochi passi avanti per quanto riguarda la riforma dei propri assetti istituzionali. Infatti, sul piano nazionale, l’unica riforma realiz-

zata è stata quella elettorale dell’agosto 1993, mentre importanti in25

novazioni sono state introdotte in alcune politiche pubbliche. Se si assumono entrambi gliambiti come la variabile dipendente dell’analisi, allora occorre spiegare perché iimportanti risultati sono stati conseguiti nel secondo ambito — in particolare nella politica del bilancio pubblico (Vassallo 20004), ma anche in quella sociale (Ferrera, Gualmini 2000), in quella amministrativa (Capano 2000), del decentramento (Baldi 2000), in quella regolativa di alcuni servizi ed attività economiche (La Spina 2000), e, seppure con più difficoltà, in quella agricola (Lizzi 2000), ed estera (Ammendola, Isernia 2000) e dell’ambiente (Freddi 2000) — mentre pochi sono stati i risultati conseguiti nel primo ambito. E, quindi, occorre domandarsi se i risultati ottenuti nelle politiche potranno stabilizzarsi in assenza di una trasformazione coerente delle istituzioni del policy-making e governative: proprio perché quei risultati sono stati in molti casi conseguiti attraverso un adattamento degli attori ai nuovi vincoli, piuttosto che attraverso un’innovazione nelle strutture. Come è spiegabile tale doppio e differenziato effetto? Le pressioni esterne possono tradursi in innovazioni interne solamente in

presenza di rzediating factors, cioè di fattori istituzionali di intermediazione capaci di massimizzare quella pressione, e non già di diluirla. Ed è proprio su questo piano che è rilevabile una differenza tra l'ambito delle istituzioni e l’ambito delle politiche. Infatti, nel primo ambito, contrariamente al secondo, i fattori di intermediazione

hanno «lavorato» contro l’innovazione. In particolare, quel fattore di intermediazione rappresentato dal sistema elettorale combinato con il sistema di partito. La nuova legge elettorale, approvata dai

vecchi partiti nell’agosto del 1993 prima del loro definitivo collasso, sebbene quasi maggioritaria nel suo carattere, è stata tuttavia disegnata in modo tale da rendere inevitabile la formazione di nuovi veto players (che per Tsebelis 1999, 593, sono appunto «quegli attori individuali e collettivi, il cui accordo è necessario per il cambiamento dello status quo») nel processo decisionale parlamentare. Cioè di nuovi attori partitici (per larga parte di piccole dimensioni, eppure reciprocamente ostili, anche all’interno della stessa coalizione) dotati di un potere di veto su ogni possibile decisione indesiderata relativa agli assetti istituzionali. E va da sé che là dove i veto players sono numerosi e reciprocamente incongruenti, allora là (cioè nell’ambito istituzionale) è difficile che le pressioni esterne per l’innovazione possano essere positivamente incanalate (Tsebelis 1995). 26

Perché la nuova legge elettorale ha favorito la formazione di numerosi ed incongruenti veto players? In primo luogo, per le sue caratteristiche tecniche. Infatti, tale legge elettorale prevede un singolare sistema di elezione dei rappresentanti per il Parlamento nazionale, sistema che non esiste (in quella configurazione) in nessun altro paese del mondo. Ciò che connota la legge in questione è, innanzitutto, la natura mista dei metodi elettorali adottati sia per l’elezione dei membri della Camera dei deputati che del Senato. Per quanto riguarda la Camera, il 75% dei suoi membri viene eletto attraverso un sistema p/urality (cioè a maggioranza semplice) in collegi elettorali uninominali e il 25% rimanente attraverso un voto di lista proporzionale (con una soglia nazionale di accesso del 4% dei voti per potere accedere alla distribuzione dei seggi relativi), naturalmente in circoscrizioni elettorali comprensive di diversi collegi elettorali uninominali. Per la Camera, dunque, l’elettore ha due vo-

ti a disposizione, uno per il collegio uninominale ed uno per la lista circoscrizionale. Per quanto riguarda il Senato, anche qui il 75% dei suoi membri viene eletto attraverso un sistema plurality (a maggioranza semplice) in collegi elettorali uninominali, mentre il 25% rimanente dei seggi viene assegnato, all’interno di circoscrizioni corrispondenti ai territori delle varie regioni, ai candidati concorrenti nei collegi uninominali con lo stesso simbolo partitico che hanno ottenuto la più alta cifra elettorale, cifra che è data dalla somma dei voti ottenuti da ognuno di essi nei collegi uninominali della regione, sottratti i voti dei candidati già proclamati eletti. Seppure non in queste proporzioni e non con questa complessità

tecnica, i sistemi cosiddetti misti si trovano anche in altre democrazie (e recentemente sono stati introdotti in Giappone e Nuova Zelanda, si veda Carducci 1994). Tuttavia, ciò che connota ancora di

più tale legge è il meccanismo dello «scorporo»: questo, sì, senza equivalenti in nessuna parte del mondo. Tale meccanismo prevede che i partiti ai quali appartengono i candidati vincitori nei vari collegi uninominali, inclusi nella più larga circoscrizione elettorale «proporzionale», vengano penalizzati (nella distribuzione dei seggi assegnati con il voto di lista) di una quota di voti equivalente a quella ottenuta dai candidati giunti secondi nei vari collegi uninominali. In altri termini, il sistema elettorale in questione, non solo incentiva

strategie elettorali diverse da parte dei partiti (aggreganti nel collegio uninominale, disaggreganti nella circoscrizione elettorale), ma 27

addirittura punisce i partiti dotati di un maggiore consenso (sottraendo loro una quota dei voti ottenuti nella circoscrizione eletto-

rale «proporzionale»). E ciò, naturalmente, per avvantaggiare i partiti minori. In secondo luogo, la formazione di quei veto players è da ricon-

durre all’utilizzo che il nascente sistema di partito ha fatto delle ambiguità tecniche del sistema elettorale in questione. Anche se quest’ultimo ha incentivato una meccanica bipolare, nondimeno essa è stata piegata alle esigenze di preservazione di una molteplicità di gruppi politici. In particolare, il metodo plurality adottato per la distribuzione del 75% dei seggi maggioritari (in base al quale il seggio è assegnato al candidato che ha ricevuto più voti nel collegio elettorale), in presenza di un sistema di partito destrutturato, ha finito per incrementare il «potere di coalizione» dei partiti piccoli, in particolare nei collegi elettorali «marginali»: cioè nei collegi competitivi, perché connotati da un equilibrio tra le forze dell’una e dell’altra coalizione. Insomma, in questi collegi, anche il partito più piccolo può fare la differenza (in termini di risultato elettorale), se sceglie di collocarsi nell’uno o nell’altro polo. Tale «potere di coalizione» ha costituito una straordinaria risorsa per le leadership nazionali dei partiti piccoli, in quanto queste ultime hanno potuto contrattare seggi sicuri nei collegi non marginali, in cambio del sostegno per l’uno o per l’altro candidato di coalizione nei collegi marginali. Si è avuto, così, ciò che Sartori (1995a) ha ben definito come «proporzionalizzazione del maggioritario». Insomma, per via delle ambiguità del sistema elettorale e per via del loro utilizzo da parte di un sistema di partito frammentato, il risultato dell’unica innovazione istituzionale (a livello na-

zionale) realizzata negli anni novanta, è stato quello di rendere più difficile il proseguimento della stessa innovazione istituzionale.

Gli equilibri punteggiati Il caso italiano sembra costituire una conferma sorprendente della

teoria degli «equilibri punteggiati» elaborata dai biologi e paleontologi postdarwiniani (Eldredge, Gould 1972) per concettualizzare l'evoluzione millenaria della struttura delle specie. Secondo questa teoria, la speciazione procede attraverso lunghe fasi di stasi e repentine fasi di mutamento (dove qui, naturalmente, l’unità di misura si

28

estende ai millenni). Tali fasi di mutamento si sostanziano in brevi episodi di rapida formazione di nuove specie, generalmente in subpopolazioni geograficamente isolate, ovvero in subpopolazioni che vivono ai margini ambientali della struttura delle specie. Insomma, la lunga stabilità della specie è interrotta («punteggiata») da fasi La vi di cambiamento, attivate da gruppi di «individui» collocati ai margini della popolazione centrale delle specie, e quindi meno esposti ai condizionamenti di queste ultime. Questi «individui» favoriscono quindi la formazione di un nuovo equilibrio nella struttura delle specie, attraverso un processo di contaminazione che sostanzia il cambiamento della specie. Come si vede, tale teoria è diversa da quella darwiniana finora dominante. Eldredge, Gould e i loro colleghi (Somit, Peterson 1992) partono dall’analisi delle strutture che collegano l’insieme delle specie, per individuare quindi le interconnessioni che si attivano nelle fasi di trasformazione di quelle strutture. I darwiniani, invece, partono dall’analisi della singola specie, per ricostruirne (ovvero per cercare di ricostruire) la sua evoluzione nel tempo. Così, se i primi adottano una prospettiva antigradualista, in quanto ritengono che il cambiamento sia limitato e imprevedibile (e comunque analizzabile a partire dalle strutture che collegano le specie), i secondi adottano invece una prospettiva gradualista, in quanto considerano il cambiamento come un processo lento, costante e prevedibile (date certe condizioni ambientali). Per idarwiniani, l'evoluzione è ricostruibile attraver-

so la scoperta (prima o poi) degli anelli che collegano uno stadio a quello successivo (i cosiddetti fossi/ records), mentre per i postdarwiniani l’assenza di quegli anelli è dovuta alla loro mancanza, e non già alla loro non scoperta. Insomma, Darwin, come Smith e Bentham,

aveva una visione positivista dell'evoluzione della vita collettiva (animale o sociale) tipica dell'Ottocento, mentre Eldredge e Gould hanno una visione sistemica propria della fine del Novecento. Partendo dalla singola specie, il gradualismo ha finito per proporre una visione efficientista e deterministica della storia (animale). Efficientista, perché viene assunto che ogni singola specie è in grado di fornire una risposta adattiva ottimale alle pressioni dell’ambiente, pena la sua esclusione dalla riproduzione. Deterministica, perché si concepisce l’evoluzione come un processo necessario, da cui è escluso per definizione il cambiamento fortuito. In realtà, argomentano i postdarwiniani, il darwinismo ignora i condizionameno)

ti imposti da scelte precedenti. Perché una risposta adattiva ottimale può non essere possibile, in quanto è assente il patrimonio genetico necessario per poterla realizzare. Ma soprattutto perché i precedenti adattamenti (o stock biologici) incanalano i successivi sviluppi. Insomma, i condizionamenti di questo tipo debbono essere presi in considerazione insieme agli incentivi ambientali, se si vuole spiegare il mutamento delle specie. Ma per fare questo, occorre rovesciare la prospettiva, inserendo la singola specie nella struttura biologica che la collega alle altre specie. Sulla base di questo metodo, i postdarwiniani sono giunti ad una conclusione (per me) interessante. Le trasformazioni delle specie non avvengono lentamente e inevitabilmente, bensì si realizzano in un periodo di tempo limitato, in un’area geografica limitata e a partire da un gruppo di «individui» limitato: è per questo motivo, peraltro, che non si potrà mai avere un com-

pleto fossi/ record. Sarà poi la struttura biologica che collega questo gruppo agli altri (in particolare a quelli centrali) che condizionerà il processo di contaminazione e i suoi esiti trasformativi.

Si parva licet, tale approccio postdarwiniano potrebbe rivelarsi utile anche nell'analisi del cambiamento politico italiano (dove qui, naturalmente, l’unità di misura si limita ai decenni). Se viene così tra-

dotto. Una spiegazione adeguata del mutamento/trasformazione deve prendere in considerazione sia le strutture istituzionali (i nostri

stock biologici) che gli incentivi ambientali. Una volta costituita una particolare struttura istituzionale (o stock biologico), essa tenderà a riprodursi, incanalando nelle sue strutture gli stessi (possibili) cambiamenti. In questo senso, il fezpo costituisce un fattore di cruciale importanza nell’analisi istituzionale (Orren, Skowroneck 1993): perché se è possibile la trasformazione di una struttura temporalmente non consolidata (si pensi al caso del cambiamento costituzionale realizzato negli Stati Uniti nel 1787), assai meno possibile è invece la trasformazione di strutture temporalmente consolidate (come sono le costituzioni delle democrazie contemporanee occidentali). Comunque, anche quando è costretta a trasformarsi, la trasformazione di quella struttura potrebbe non coincidere con un adattamento ottimale (Krasner 1984). Sia perché quella struttura non dispone dello stock istituzionale necessario per favorire l’esito richiesto, e sia perché quella struttura viene sfidata da «individui» che non hanno la forza per alterare i legami che tengono insieme quella struttura. Insomma, in sistemi istituzionali consolidati, cioè costituiti di struttu30

re cresciute per rispondere a precedenti condizioni, la trasformazione (anche quando riesce ad imporsi) potrebbe rivelarsi un’impresa difficile da realizzare. A meno che condizioni particolarmente favorevoli riescano a neutralizzare le resistenze che preservano quella struttura ovvero forniscano coloro che la vogliono trasformare delle risorse necessarie per poterlo fare.

I sistemi istituzionali non cambiano con regolarità, così come i sistemi di specie non sono evoluti con gradualità. In entrambi icasi, essi tendono ad individuare un punto di equilibrio che quindi stabilizzano con successo nel tempo, finché una sfida esterna di particolare forza non li obbliga al mutamento, che può essere sia trasformativo che razionalizzatore. Tuttavia, se nel processo di speciazione l’alterazione radicale (o trasformazione) della struttura della specie pree-

sistente è stata infrequente, vieppiù ciò vale nei sistemi istituzionali. Inoltre, così come nel processo di speciazione, anche la trasforma-

zione istituzionale, quando ha successo, non azzera mai la struttura preesistente, ma neutralizza la sua logica dominante portando quindi alla superficie la logica fin lì dominata. Perché raramente una trasformazione istituzionale ha successo, se all’interno dell’istituzione poi trasformata non vi è già presente (ovviamente in termini minori-

tari) una tendenza (cioè attori, risorse e comportamenti) che prefiguri la trasformazione stessa. Tant'è che neppure le rivoluzioni costituiscono un azzeramento della struttura preesistente e la formazione ex zovo di una struttura successiva: anzi, esse sono da conside-

rarsi, come ha mostrato de Tocqueville sin dal 1856 (ora 1958) a proposito della stessa rivoluzione francese del 1789, l’esito di un processo di trasformazione istituzionale i cui germi erano già presenti nella struttura precedente. Anche le trasformazioni delle istituzioni,

così come quelle delle specie, sono dunque dipendenti dal percorso precedentemente realizzato, dalle une come dalle altre. E in ogni modo, una volta che si impone, la trasformazione è «interpretata» al-

la luce degli equilibri della struttura precedente, introducendo così elementi di discontinuità in una storia di continuità. Insomma, se le istituzioni debbono essere assunte come «date»,

ciò non significa che anch’esse non cambino. Tale cambiamento può avere la natura del riordino oppure della trasformazione. In entrambi i casi, esso avviene infrequentemente. Perché anche le istituzioni, come le strutture biologiche delle specie, registrano lunghi periodi di stasi, quindi interrotti da rapidi e brevi periodi di cambiamento. Nel 5,

caso delle istituzioni, quest’ultimo è il risultato di un contrasto tra le regole che influenzano il funzionamento di un'istituzione e un ambiente che non si riesce più ad organizzare attraverso quelle regole. Quel contrasto può avere un carattere drammatico, come quando esplode una guerra civile oppure quando si rompe un accordo costituzionale fra comunità territoriali, oppure un carattere non drammatico, come quando si manifesta un conflitto politico od elettorale. In entrambii casi, l’istituzione soffre della sua stessa virtù. Perché, se

il compito dell’istituzione è quello di dare stabilità al regime, tale potere di vincolo, in un’epoca di cambiamento ambientale, può rivelarsi la fonte dell’instabilità del regime stesso. Il punto è che non vi è mai un esito unico del mutamento indotto dal contrasto tra pressioni e resistenze, proprio perché non c’è un unico equilibrio possibile tra le istituzioni e l’ambiente. I processi di cambiamento possono produrre equilibri multipli e ognuno di essi, una volta impostosi, tenderà a preservarsi nel tempo, anche se è subottimale. La storia quasi mai è efficiente (Di Palma 2000), nel senso che quasi mai favorisce, darwinianamente, la selezione dell’equilibrio migliore.

Conclusione La vicenda italiana sembra, dunque, confermare l’approccio postdarwiniano. Il cambiamento è intervenuto dopo una lunga fase di stabilità. Esso è stato improvviso e repentino e, per di più, attivato da attori collocati alla periferia del sistema politico fino ad allora dominante. Quegli attori hanno reso visibile il mutamento intervenuto nell’ambiente interno ed esterno, ovvero l’incongruenza tra questo

ambiente e le istituzioni incaricate di organizzarlo. Tuttavia le loro sfide, e quindi le pressioni esercitate dall'ambiente, sono state filtra-

te da quelle stesse istituzioni, cioè dalla struttura istituzionale che collegava sia i vari attori politici che agivano al loro interno sia questi ultimi con la rete di gruppi di interesse che beneficiavano delle politiche pubbliche rese possibili dal funzionamento di quella struttura istituzionale. La struttura istituzionale, al pari degli stock biologici, ci può fornire, quindi, il codice per interpretare le ragioni della crisi, oltre che per ricostruire i percorsi del suo riassestamento.

Parte prima

Governare la crisi

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La crisi di una democrazia consensuale

Le democrazie consensuali Poiché riconduco la crisi italiana alle caratteristiche istituzionali del modello di democrazia adottato nel secondo dopoguerra, allora è necessario specificare quelle caratteristiche. Ma per fare ciò occorre compararle con quelle delle altre democrazie consolidate. Analizzando un gruppo di piccole democrazie dell'Europa continentale, Lijphart (1977) era giunto alla conclusione che, in particolari contesti socio-culturali, la democrazia può funzionare solamente sospendendo il principio maggioritario. Quali sono, dunque, i contesti che giustificano la sospensione di quel principio? Lijphart fornisce una prima risposta nella ricerca in questione: quel principio va sospeso

in quei contesti connotati da profonde fratture etnico-culturali, che talora si sovrappongono ad altrettanto profonde fratture religiose. È il caso, appunto, di paesi come il Belgio, l'Olanda, la Svizzera e l’Austria. In questi paesi, le divisioni tra i cittadini sono rigide e permanenti, con l’effetto di creare una società segmentata in subcomunità chiuse, in quanto non reciprocamente comunicanti. Società di que-

sto tipo hanno la necessità di evitare il ricambio competitivo dei leader di governo: i leader vincitori, infatti, sono portatori di un’identità inconciliabile con quella della/e comunità rappresentata/e dai leader perdenti. Così, in queste democrazie, il risultato è la permanenza (al governo o al Parlamento) dei leader politici, dovuta alla loro capacità di controllare le rispettive comunità di identità e alla loro abilità di raggiungere accordi senza minacciare quelle identità. Per questo motivo, Lijphart ha coniato la definizione, per questi paesi, di democrazie consociative.

35

Basandosi, quindi, sulle ricerche di altri studiosi, Lijphart (1988; 1999) ha allargato la sua analisi delle democrazie culturalmente divise, mettendo in luce come le modalità non maggioritarie di regolazione del processo politico operano anche in società che non sono etnicamente frammentate. È il caso, come Sartori (1976) in partico-

lare aveva sottolineato, di paesi connotati da una frattura ideologica di tipo sistemico, quella tra anticomunisti e comunisti. Così anche in Italia, nella Francia della Quarta Repubblica (1946-58) e, per molti versi, in Finlandia è stato necessario adottare modalità conciliative

nell’organizzazione del decision-making governativo (naturalmente, fino a quando i comunisti hanno rappresentato una componente importante del paese). Per di più, come è avvenuto in particolare nel caso italiano, tali contrastanti identità ideologiche avevano assunto (anche) una dimensione territoriale, nel senso che esse hanno dato

vita a precise subculture geograficamente delimitate. Da questo punto di vista, sostenere che il caso italiano è il risultato di un’«unica contingenza storica, cioè lo sviluppo, all’interno del sistema democratico, di un forte partito di opposizione [cioè di un grande ed influente Partito comunista, 7.4.r.], che molti ritenevano controlla-

bile da una potenza straniera e il cui accesso al potere era considerato incompatibile con la sopravvivenza della democrazia» (Ferrero, Brosio 1997, 473), sostenere ciò appare poco plausibile da una pro-

spettiva comparativa: a meno di non affidarsi, di nuovo, all’ennesima teoria dell’eccezionalismo italiano. In realtà, il caso italiano è sta-

to molto meno eccezionale di quanto si vuole fare credere. Tant'è che lo stesso Lijphart, per integrare nella propria analisi questa seconda famiglia di democrazie culturalmente divise, ha infine elaborato la categoria di democrazie consensuali, comprensiva delle democrazie connotate da entrambi i tipi di frattura, quella etnico-culturale e quella ideologico-culturale. Naturalmente non si devono sottovalutare le differenze tra le democrazie connotate da fratture ideologico-culturali e le democrazie connotate da fratture etnico-culturali (Fabbrini 1999a; Hine 1993).

Entrambe sono caratterizzate da sistemi elettorali proporzionali, combinati con sistemi multipartitici, e da sistemi di governo connotati dalla diffusione del potere all’interno sia del legislativo che dell'esecutivo. Tuttavia, importanti distinzioni possono essere individuate tra di loro: in particolare (per l’aspetto che qui mi interessa)

nel funzionamento del sistema di governo. Le democrazie etnica36

mente divise tendono a dare vita a coalizioni di governo aperte ai maggiori partiti della società nazionale, mentre le democrazie ideologicamente divise (per via dei vincoli geopolitici della guerra fredda) tendevano a dare vita a coalizioni di governo chiuse ad alcuni partiti (in particolare, ai partiti comunisti e, in generale, ai partiti antisistema, come i partiti neofascisti). Va da sé che tali coalizioni sono state altamente incoerenti in termini di preferenze di politica pubblica, essendo tenute insieme dall’opzione anticomunista piut-

tosto che da un condiviso programma di governo. Ecco perché la coalizione di governo era larga abbastanza per garantire una permanente maggioranza anticomunista, ma anche incoerente abbastanza per non durare a lungo. Per quanto riguarda la dimensione delle coalizioni di governo, è sufficiente ricordare che in Italia, tra il 1954 e il 1994, il numero di

partiti che mediamente ha costituito quelle coalizioni è stato di 2,8, ovvero di 4 tra il 1980 e il 1994. Inoltre, se si escludono i periodi di governo di minoranza (cioè di governi costituiti solamente dalla Dc, quando le relazioni di potere tra i partiti della coalizione anticomunista non erano chiari), i governi italiani hanno beneficiato (in termini di percentuale di seggi) del sostegno parlamentare di una maggioranza sovradimensionata, per ben il 60% del tempo nel periodo 1948-92 (si veda Fabbrini, Vassallo 1999, 70). Per quanto riguarda l’instabilità governativa, è sufficiente ricordare che in Italia, tra il 1954 e il 1994, la durata media dei governi è stata di 12,1 mesi, ovvero di 12,8 mesi tra il 1980 e il 1994 (Lane et a/. 1997, 123-139). Naturalmente, le crisi governative sono state sistematicamente risolte

attraverso un «rimpasto» di posizioni ministeriali tra gli stessi partiti della coalizione anticomunista (e tra le loro correnti interne), an-

che perché molte di quelle crisi erano l’effetto delle ambizioni di singoli parlamentari della maggioranza anticomunista desiderosi di ottenere una posizione governativa grazie al «rimpasto».

Quelle coalizioni, questo è il punto, si sono continuativamente (e necessariamente) basate su un grande partito di centro (la Dc), che ha funzionato come il pivot della coalizione di governo. Dopo tutto, come ha più volte ricordato Duverger (1988), nelle democrazie dove non è possibile l'alternanza si governa dal centro, mentre nelle democrazie dove è possibile l'alternanza si governa cor il centro. Nelle prime, il centro è il caposaldo del sistema difensivo della democra-

zia: va da sé, nel caso italiano, dalle sfide provenienti principalmen3%

te dalla sinistra comunista, ma anche dalla destra fascista. Ciò è sta-

to possibile perché il mercato elettorale, dato il forte legame di identità ideologica a lungo esistente tra sezioni dell’elettorato e i principali partiti (la Dc e il Pci in particolare), si è permanentemente configurato come un mercato elettorale chiuso, nel senso (per dirla con le efficaci parole di Mannheimer, Sani 1987, 155) che al suo interno «lo scontro tra le forze in campo (poteva) anche essere intenso e frontale, ma non (serviva) a spostare neppure un voto». Così, per quasi mezzo secolo, gli elettori si sono limitati ad affidare ai partiti una sorta di delega in bianco, utilizzando le elezioni per affermare una loro appartenenza partitica, piuttosto che per esprimere il loro giudizio sul governo. Impossibilitato a favorire governi di grande coalizione (per la conventio ad excludendum che penalizzava il Pci), il consensualismo italiano ha finito per fare del Parlamento l’arena strategica del processo decisionale. Infatti, nel Parlamento è stato possibile costruire

delle maggioranze legislative inclusive dei comunisti, mentre ciò non era possibile nel governo (per i vincoli geopolitici di già ricordati). Così, la ricomposizione consensuale delle fratture (ideologiche) italiane ha potuto essere realizzata nel legislativo, con la formazione di maggioranze ufficiose più larghe di quelle governative, piuttosto che nell’esecutivo, con la formazione di governi di grande coalizione, come nelle altre democrazie consensuali a base etnico-culturale. Di qui, la celebrazione, tutta italiana, della «centralità del legislativo». Un anacronismo storico, motivato, appunto, dalla necessità di favo-

rire la pace sociale interna. Comunque sia, in entrambi i tipi di democrazia consensuale le decisioni governative non possono essere il risultato delle preferenze di una maggioranza politica, ma debbono essere, al contrario,

l’esito di un lungo processo di contrattazione tra i leader che rappresentano i vari versanti della frattura d’identità. La contrattazione costituisce una pratica inevitabile, proprio perché quei leader, cioè ognuno di essi, sono titolari di veri e propri poteri di veto. Ma tale contrattazione, per avere successo politico, richiede il rispetto di due condizioni necessarie. In primo luogo, il controllo rigido delle rispettive comunità d'identità da parte dei leader, così da garantire il potere contrattuale di questi ultimi. In secondo luogo, la lunga permanenza al potere di quegli stessi leader, così da favorire una reciproca e personale fiducia tra di essi. 38

La politica del consensualismo Questo è stato il modello che si è affermato progressivamente in Italia nel secondo dopoguerra, sotto la minaccia di un’incombente guerra civile. Già nei primi anni cinquanta, e precisamente dopo il 1953, era divenuta opinione comune che l’Italia non poteva essere governata attraverso un'applicazione coerente del principio maggioritario (Della Sala 1999; Vassallo 1994). Per due ragioni principali: la prima, perché la possibile maggioranza comunista non sarebbe stata accettata dai paesi del blocco occidentale cui l’Italia apparteneva; la seconda, perché l’esistente minoranza comunista, impossibilitata a divenire maggioranza, era così poco minoranza (rappresentando quasi un terzo dell’elettorato nazionale) che, senza la sua collaborazione

parlamentare, la maggioranza anticomunista avrebbe difficilmente governato il paese. Da queste due ragioni è derivata la progressiva strutturazione di una modalità consensuale di governo, cioè la ten-

denza a ricercare un accomodamento permanente tra gli interessi rappresentati dai partiti (e dalla Dc, in particolare) della coalizione governativa e quelli rappresentati dal Pci e dai suoi piccoli alleati. Di tale politica dell’accomodamento, dunque, la Dc e il Pci sono stati gli attori principali (i pilastri che reggevano l’arco dell’architettura democratica, come ha scritto Mastropaolo 1996). Dopo tutto, questi due partiti, tra il 1948 e il 1987, avevano rappresentato (insieme) il 67% (in media) dell’elettorato nazionale (con picchi del 79,5% nel 1948 e del 73,1% nel 1976, sempre con riferimento alle elezioni per la Camera dei deputati) (si veda Bufacchi, Burgess 1998, 173).

Anche nel caso della Dc e del Pci, la predisposizione alla contrattazione è stata irrobustita dal rispetto delle due condizioni politiche sopra ricordate. In primo luogo, perché le élites politiche di entrambi i partiti hanno potuto esercitare un controllo verticistico delle rispettive comunità di identità (cioè dell’insieme di organizzazioni e di associazioni attraverso cui queste ultime si sono culturalmente strutturate). L'esercizio di tale controllo poteva avere, talora, un carattere paternalistico e, talaltra, un carattere autoritario. Nondi-

meno, la legittimità dei controllori ad esercitare quel controllo era fuori discussione, anche perché essa era protetta dai legami personali tra quei controllori e le «autentiche» autorità ideologiche di ognuna di quelle comunità d’identità: le gerarchie cattoliche, nell’un caso, e le gerarchie sovietiche, nell’altro caso. In secondo luogo, perdI

che ie eltes poluticne di entrambi I partiti Nanto ICgISu Ato Ulla 101° midabile permanenza al potere. Basti ricordare che, nella Camera dei deputati, imembri rieletti erano il 61,8% nel 1983 e il 64,8 nel

1987 (sul totale dei 630 deputati che la compongono). Ovvero che, tra il 1958 e il 1987, i due terzi dei membri della Camera dei deputati avevano alle spalle almeno una legislatura e il 39,4% di essi ne avevano tre 0 più di tre. Naturalmente, i partiti al governo, data la loro posizione nella struttura di potere dello Stato, avevano meno incentivi, rispetto al Pci, a sostituire i propri parlamentari. Tra il 1953 e il 1992, i parlamentari Dc della Camera dei deputati eletti per tre o più di tre legislature rappresentavano, in media, il 48,6% dei membri del gruppo parlamentare di quel partito; mentre, considerando lo stesso periodo, i parlamentari del Pci-Pds con la stessa anzianità di servizio parlamentare rappresentavano il 34,4% dei membri del gruppo parlamentare di quel partito (rinvio ai dati di Cotta, Verzichelli 1996 e Verzichelli 1996). Va precisato, infine, che da questo gruppo di politici continuamente rieletti al Parlamento sono state selezionate le leadership nazionali dei partiti: così ben rappresentate da un politico come Giulio Andreotti, che ha ricoperto incarichi di governo quasi ininterrottamente per più di 40 anni, cominciando come sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel 1948 e terminando come primo ministro (per la settima volta) nel 1992. Quindi, l’Italia postbellica ha registrato un'alta instabilità dei governi, ma anche un’altrettanto alta stabilità della sua classe di governo. In questo contesto, anche il Pci ha dato il suo contributo alla stabilità della élite politica del paese. Do-

po tutto, il controllo, da parte degli stessi leader, della struttura di potere rappresentata dal partito, e delle risorse ideologiche che ne giustificavano l’esistenza, era una condizione necessaria: in primo luogo, affinché quei leader potessero alimentare il sentimento di identificazione dell'elettorato di sinistra con la «causa» incarnata dal partito e, in secondo luogo, affinché quei leader risultassero affidabili alle loro controparti partitiche. Tant'è che, tra il 1948 e il 1990, i membri

rieletti nel comitato centrale del Pci rappresentavano, in media, il 77,9% del totale dei membri di quell’organismo (Ignazi 1992). Si potrebbe dire, dunque, che entrambi i partiti hanno registrato la formazione, al loro interno, di una vera e propria gerontocrazia. Simile, per molti aspetti, alla gerontocrazia formatasi nei paesi del blocco sovietico e, come questa, minacciata esclusivamente da eventi biologici. 40

L’a Questo punro di VISTA, IC Ce0res ItTallane postbellicne si CONIIgurano come vere e proprie oligarchie politiche. Anzi, in proposito, il caso italiano fornisce un’indicazione importante: cioè mostra la non coincidenza (empirica, oltre che analitica) tra «élite» e «oligarchia». Se la prima rinvia all’influenza esercitata da un gruppo di individui in un tempo particolare, la seconda rinvia ad un gruppo di individui che è capace di riprodurre quella influenza tempo dopo tempo (Ramseyer, Rosenbluth 1995). In altri termini, la prima richiama una «funzione», mentre la seconda riflette una «posizione». Ecco perché, nel caso italiano, e non solo in quello postbellico, si incontrano difficoltà concettuali ad usare il termine «élite»: tant'è che, sin dall’inizio del secolo, coloro che, come Gaetano Mosca, hanno

studiato le élites parlamentari nazionali hanno preferito collocarle nel concetto di classe politica (Sola 1985), proprio per enfatizzare la loro coesione come gruppo sociale (coesione favorita, appunto, nel secondo dopoguerra, dalla lunga permanenza al potere degli stessi individui).

In proposito, però, l’Italia non è un’eccezione. Altre democrazie consensuali hanno registrato un simile pattern di stabilità della classe politica. Per esempio, analizzando l’organizzazione interna dei partiti politici belgi del secondo dopoguerra, De Winter (1988) si è domandato se essa fosse più simile all’oligarchia che alla democrazia. Oppure Luther (1992, 69) ha sottolineato come «l'indagine della selezione della leadership nei partiti austriaci metta in luce le caratteristiche oligarchiche del processo decisionale che si svolge all’interno dei tre principali partiti del paese, o Lager parties». Così come in Austria il più centralizzato dei tre partiti è stato, storicamente, il socialista Spé, in Italia il partito più centralizzato è stato, storicamente, il Pci. Ma se in Austria «la persistenza di pratiche oligarchiche all’interno del Spò e il controllo gerarchico da parte del Spò del Lager socialista sono stati correlati alla presenza quasi continuativa del partito al governo della Seconda Repubblica», in Italia la persistenza di pratiche simili all’interno del Pci è stata dovuta a ragioni esattamente opposte. Poiché quest’ultimo partito è stato costantemente fuori dal governo, la sua leadership nazionale ha dovuto radicalizzare sia il modello centralistico di organizzazione (così da controllare la fedeltà dei membri del partito e dei suoi militanti in particolare) che l’identità ideologica dello stesso (così da fornire un «premio simbolico» ai propri elettori).

41

Così, in Italia, come in Austria, il partito cattolico (la Dc, nel nostro caso, e il Ovp, nel caso austriaco) ha adottato un modello organizzativo assai meno centralistico di quello adottato dall’altro grande partito di sinistra (il Pci, nel nostro caso, e il Spò, nel caso austria-

co). Nel senso che i leader nazionali dovevano avere una base periferica per legittimarsi come leader nazionali. Con ciò eliminando la possibilità di una competizione tra élites centrali e periferiche. Ora, poiché l’élite nazionale del partito deteneva il controllo delle enormi risorse (o spoglie) dello Stato, essa ha potuto utilizzare dei buoni argomenti per assestare gli equilibri di potere infrapartitici. Di conse-

guenza, i leader periferici del partito (nei comuni, nelle province e nelle regioni) sono stati obbligati ad esercitare un ruolo subalterno nel gioco interno al partito, in quanto la loro stessa influenza sul piano locale costituiva una variabile dipendente delle alleanze che essi si dimostravano in grado di istituire con individui e frazioni dell’élite nazionale. Insomma, essi contavano localmente, se avevano buoni

collegamenti nazionalmente. Naturalmente, nel caso della Dc in particolare, la centralità dei leader nazionali del partito era sostenuta, an-

che, dal suo accesso privilegiato agli individui più influenti della gerarchia cattolica: gerarchia che aveva in custodia, appunto, le risorse simboliche necessarie per mobilitare gli elettori cattolici (a favore della Dc e dei suoi vari candidati, si veda McCarthy 1996). Naturalmente, è possibile registrare alti livelli di permanenza individuale nel seggio parlamentare anche nelle democrazie non consensuali, ovvero in quelle democrazie competitive che incentivano l’alternanza al governo tra opzioni politiche (partitiche o coalizionali) alternative. Ma, sia in quelle strettamente maggioritarie (come la

Gran Bretagna, con il suo sistema elettorale p/urality e il formato e la meccanica bipartitiche del sistema di partito) che in quelle generalmente competitive (come la Germania e la Spagna, con il loro sistema elettorale proporzionale però disrappresentativo e con un formato multipartitico del sistema di partito però funzionante in una logica bipolare), quella permanenza al potere è il risultato di una con-

tingenza storica, piuttosto che di una logica di funzionamento istituzionale. Infatti, come hanno dovuto prendere atto i conservatori in Gran Bretagna nel 1997, oppure i socialisti in Spagna nel 1996 o ancora i cristiano-democratici in Germania nel 1999, anche la più prolungata permanenza al potere si scontra, prima o poi, con una logica sistemica che le è avversa. Insomma, in questi casi, se i partiti di

42

governo sono riusciti a rimanere per molto tempo al potere (i conservatori inglesi per 18 anni, i socialisti spagnoli per 14 anni e i cristiano-democratici tedeschi per 18 anni), ciò è dovuto al fatto che «essi sono stati bravi abbastanza da soddisfare una maggioranza di elettori, mentre la possibilità che [...] una coalizione alternativa potesse vincere le elezioni successive ha sempre costituito una minaccia plausibile e realizzabile» (Ferrero, Brosio 1997, 447, nota 1).

L’unico caso simile all’Italia è quello degli Stati Uniti postbellici. Qui, con il lento ma inarrestabile declino del «partito nell’elettorato» (cioè con il declino del numero di elettori che si identificano con

l'uno o l’altro partito), declino che si è avviato sin dall’inizio degli anni cinquanta, i membri in carica nel Congresso (i cosiddetti 2cu7bents) hanno finito per sottrarsi ad ogni minaccia competitiva, trasformandosi in una sorta di difensori civici (o ormbudsmen) del proprio distretto. E così garantendosi una costante rielezione. Se si considera la Camera dei rappresentanti dal 1960 al 1996, gli incumbents rieletti dagli elettori sono stati sistematicamente più del 90% (con le piccole eccezioni delle elezioni del 1964, 1974 e 1996, quando l’ixcumbency è stata leggermente ridimensionata da un cambiamento significativo dell’opinione dell’elettorato) (Stanley, Niemi 1994, 128129). Il risultato è che, anche negli Stati Uniti, gli osservatori (Lind 1996, 159-161) hanno denunciato la formazione di una oligarchia congressuale. Ma, naturalmente, almeno dopo l’approvazione del XXII emendamento nel 1951, una simile oligarchizzazione è impedita nell’altra istituzione governativa, la presidenza, in quanto un presidente in carica può essere rieletto solamente per un secondo mandato quadriennale.

L’economia politica del consensualismo Se gli aspetti politici del consensualismo sono stati indagati dagli studiosi, non si può dire lo stesso per quanto riguarda gli aspetti socia-

li ed economici (seppure alcune ricerche di sociologia politica hanno cominciato a fornire importanti indicazioni; si veda Pizzorno 1993; 1997; Negri, Sciolla 1996). Ma il punto è che una politica dell’accomodamento tra i partiti, per avere successo, deve essere protet-

ta non solamente dalle sfide provenienti dalla battaglia elettorale, ma anche da quelle provenienti dai gruppi sociali ed economici, la cui 43

azione potrebbe alterare il fragile equilibrio su cui poggia l'accordo tra i partiti. Questa seconda condizione è stata rispettata, nell'Italia postbellica, attraverso l’istituzionalizzazione (all’interno dei principali gruppi d'interesse) di una struttura di potere simile a quella operante nel sistema politico (ed in particolare all’interno dei principali partiti politici). Dopo tutto, come Eckstein (ora 1992, 159) ha ben precisato nella sua teoria della congruenza del 1975, «il rendimento governativo richiede una congruenza tra i modelli di autorità operanti al livello governativo e i modelli di autorità operanti nelle altre unità della società». Sui modelli di autorità operanti nelle unità sociali conosciamo poco: anzi, non vi sono ricerche empiriche comparative, a mia co-

noscenza, su quei modelli, relativamente alle nostre democrazie con-

sensuali. Ma si conosce poco anche sul caso italiano: anzi, in Italia si ignora addirittura il numero esatto dei gruppi di interesse che partecipano (in un modo o nell’altro) al processo decisionale governativo. Per quanto mi riguarda (Fabbrini 2000b), ho provato a sottoporre a verifica l’ipotesi della congruenza considerando la struttura di potere dei tre principali gruppi di interesse della società italiana postbellica: cioè della Confindustria (la principale associazione degli imprenditori italiani) e della Cgil e della Cisl (le due principali associazioni sindacali del paese, collegate, la prima, al Pci, e la secon-

da, alla Dc). In tutti e tre i casi ho lavorato con i dati relativi al periodo tra la fine della seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda. Ora, sebbene molti altri gruppi di interesse avrebbero dovuto essere presi in considerazione per potere giungere a conclusio-

ni empiricamente più inequivocabili, tuttavia questi mi sembrano sufficientemente rappresentativi dell’universo italiano dei gruppi di interesse. Tutti e tre sono federazioni di interessi multipli, in tutti e tre alcuni subinteressi hanno più peso di altri, in tutti e tre vi sono subinteressi ai cui rappresentanti viene riconosciuto il diritto alla presenza permanente nella leadership nazionale della federazione (i cosiddetti membri di diritto). Naturalmente, poiché queste associazioni sono federazioni di interessi funzionali e sezionali, l’elezione

dei loro leader è vincolata da accordi interni tra le varie componenti della federazione stessa. Nonostante queste limitazioni, l'indagine empirica ha fornito alcune indicazioni interessanti. Tutti e tre i gruppi di interesse in que-

stione registrano un modello di organizzazione dell’autorità interna

44

Tabella 1. Confindustria — Giunta esecutiva Anno

Nuovi membri

Membri riconfermati

Tot. membri

Nuovi membri

Membri riconfermati

Tot.

n.

n

n.

%

%

n.

39,0 SII 44,0 Paso, 23,6 41,2 35,8

61,0 66,7 56,0 7251 76,4 58,8 64,2

100 100 100 100 100 100 100

1989 1987 1985 1983 1981 1979 1977

SE, 55 DI 31 26 47 5)5)

83 70 65 80 84 67 70

136 105 116 111 110 114 109

1975

50

61

111

45,0

55,0

100

1973 1970 1969 1967 1965 1963 1961 1959 1957 1955 1953

59 49 20 15 14 2 13 16 18 20 16

63 52 61 63 63 65 64 56 56 54 54

102 101 81 78 TR 77 77 72 74 74 70

38,2 48,5 24,7 19,2 18,2 15,6 16,9 222 24,3 27,0 279

61,8 51,5 YO 80,8 81,8 84,4 8961 77,8 NDS 73,0 Til

100 100 100 100 100 100 100 100 100 100 100

1951

35,

34

67

49,3

50,7

100

Fonte: elaborazione sulla base dei dati forniti dalla Biblioteca centrale della Confindustria.

connotato da un alto grado di permanenza al potere degli stessi individui (naturalmente, per il periodo 1951-89). Ora, prendendo in considerazione gli organismi decisionali nazionali e correlando imembri riconfermati nelle elezioni successive ai membri eletti nelle elezioni precedenti (un metodo statistico reso necessario dal fatto che la dimensione quantitativa degli stessi organismi non è fissa ma varia continuamente nel tempo), si vede che in tutti e tre i gruppi di interesse vi è un alto livello di continuità al potere degli individui che costituiscono le loro leadership nazionali. Se si considera la giunta esecutiva della Confindustria (le cui dimensioni sono cambiate nel tempo, passando da un minimo di 12 individui nel 1963 ad un massimo di 53 nel 1989), l'elezione biennale dei membri di tale organismo mette in luce

una percentuale straordinariamente alta di membri riconfermati nel43

le elezioni successive (vedi Tab. 1): addirittura, nel periodo 1953-69, tale percentuale oscilla tra il 73,0 e 84,4%. Il cosiddetto «autunno

caldo» degli scioperi sindacali del 1969 ha portato con sé, tra le altre cose, una pressione per il cambiamento della leadership nazionale dell’associazione degli imprenditori italiani. Tant'è che, nel corso degli anni settanta, la percentuale dei membri della giunta esecutiva riconfermati nelle elezioni successive è notevolmente diminuita, oscil-

lando tra il 51,5 e il 64,2%. Ma con il processo di ristrutturazione industriale degli anni ottanta, e con il declino dell'influenza dei movimenti sindacali più militanti, la tendenza alla riconferma dei membri precedentemente eletti è ritornata a crescere di nuovo. Tale modelio di autorità all’interno dell’associazione degli imprenditori italiani è stato sostenuto dalla particolare natura oligopolistica del capitalismo italiano (Barca 1997). Mi limito solamente a segnalare alcune basilari caratteristiche della struttura di potere di quel capitalismo agli inizi degli anni novanta, prima cioè della crisi della democrazia consensuale («Mondo economico» 1993). Nel 1992, delle undici più grandi imprese italiane (per fatturato), sei erano di proprietà pubblica (ovvero sottoposte al controllo dei partiti di governo), tre erano 0ffshoots (cioè unità locali) di imprese multinazionali e solamente due erano di proprietà privata (Fiat e Iveco). Se poi allarghiamo lo sguardo dalle prime undici alle trenta più grandi corporations attive in Italia nello stesso anno, solamente altre tre imprese risultano private e a controllo italiano (Olivetti, Publitalia e Barilla). Così, le cinque più grandi imprese private italiane erano controllate da gruppi a base familiare, mentre le altre più grandi imprese italiane (presenti sempre in questa graduatoria delle trenta imprese più grandi) erano controllate dallo Stato, ovvero dai partiti di governo. In questo senso è plausibile affermare che, al momento della crisi della democrazia consensuale, il capitalismo italiano era controllato da pochi oligopoli privati (familiari) e pubblici (partitici).

Cioè era un farzily-party capitalism. Insomma, come dare torto a chi (Friedman 1996) ha definito, quello italiano degli inizi degli anni novanta, come un «capitalismo feudale»?

Il grado di permanenza nelle leadership nazionali delle due associazioni sindacali è relativamente differente. Per quanto riguarda il Comitato direttivo della Cgil, l’analisi empirica deve prendere in considerazione l’alto livello di variazione nella composizione di quell’organismo (che oscilla da un minimo di 88 membri nel 1949 e 46

Tabella 2. Cgil — Corzitato direttivo* Anno

Nuovi membri n.

1991 1986 1981 1977 1973 1969

127 84 65 120 103 105

1965 1960 1956 1952 1949

38 107 68 72 88

Membri riconfermati n.

Tot. membri n.

70) 86 69 121 108 DI 50 71 79 56 (0)

Nuovi membri %

Membri riconfermati %

Tot.

202 170 144 241 211 164

62,9 49,4 45,1 49,8 48,8 64,0

DIO 50,6 54,9 50,2 52 36,0

100 100 100 100 100 100

88 178 147 128 88

43,2 60,1 46,3 56,3 100

56,8 DOO DI 43,8 0

100 100 100 100 100

n.

* I dati utilizzati non si riferiscono allo stesso organismo per l’intero periodo, ma ad organismi diversi, in quanto l'organismo dirigente ha cambiato nome per ben quattro volte. Per il 1949, 1952 e 1956, l’organismo preso in considerazione è il Comitato direttivo. Per il 1960 è il Consiglio direttivo. Per il 1965, 1969, 1973 e 1977 è il Consiglio generale. Per il 1981, 1986 e 1991 è il Comitato direttivo.

Fonte: elaborazione sulla base dei dati forniti dall’Archivio storico della Camera del lavoro di Milano (per il periodo 1977-91) e tratti dai voll. III-IX de I congressi della Cgil, a cura dell’Editrice sindacale italiana (per il periodo precedente).

nel 1965 ad un massimo di 241 membri nel 1977), una variazione te-

stimoniata anche dal fatto che lo stesso organismo dirigente ha cambiato il proprio nome (o denominazione) ben quattro volte. Nondimeno, il numero

dei membri del Comitato direttivo confermati

nell’elezione successiva è stato equivalente alla metà dei membri di quell’organismo (vedi Tab. 2). Anche per quanto riguarda il Consiglio generale della Cisl, l’analisi empirica deve prendere in considerazione l’alto livello di variazione nella composizione di quell’organismo (che oscilla da un minimo di 101 membri nel 1959 ad un massimo di 256 membri nel 1981). In questo caso, la percentuale dei membri confermati da un’elezione all’altra è stata abbastanza alta fino al 1969, per quindi declinare a livelli più bassi di quelli del Consiglio generale della Cgil nel corso degli anni settanta e ottanta: con ciò testimoniando una maggiore sensibilità del sindacato cattolico, rispetto a quello comunista, verso le domande di democratizzazione della società italiana avanzate dai vari movimenti collettivi degli anni sessanta e settanta (vedi Tab. 3). 47

Tabella 3. Cisf- Consiglio generale Anno

Nuovi membri n.

Membri riconfermati n.

MITO membri n.

Nuovi membri %

Membri riconfermati %

Tot. n.

TOS

127

13

202

62,9

SIA

100

1989

136

iS

251

54,2

47,8

100

1985* 1981

DI) 157

49 99

164 256

DEV

48,0

100

61,3

38,7

100

1977 1973

121 58

90 85

211

575

42,7

100

143

40,6

59,4

100

1969

54

81

135

40,0

60,0

100

1965 1962

55 LO,

76 83

131 102

42,0 18,6

58,0 81,4

100 100

1959 1955

34 46

67 56

101 102

334 45,1

66,3 54,9

100 100

1951

103

-

103

100

100

100

# I dati del 1985 sono parziali perché si riferiscono solamente ai membri eletti dell'organismo in questione, non essendo ancora disponibili, al momento della ricerca, i dati relativi ai membri di diritto di quest’ultimo. Fonte: elaborazione sulla base dei dati torniti dall'Archivio storico nazionale della Cisl (per il periodo successivo al 1965) e contenuti nel rapporto curato dal Centro italiano ricerche e documentazione, La Cisl, strutture organizzative, finanziamenti, dirigenza (1950-1963), pubblicato in «Tempi moderni», VI, n. 15, pp. 5-38 (per il periodo precedente al 1965).

Se i tre principali gruppi d’interesse italiani registrano, per il periodo in questione, una propensione all’alta stabilità nelle rispettive leadership nazionali, allora vi sono ragioni plausibili per sostenere che tale propensione potrebbe essersi registrata anche negli altri gruppi d'interesse. Naturalmente, l’alta stabilità, nella composizione personale delle tre leadership nazionali, è da considerarsi anche co-

me l'effetto del processo di istituzionalizzazione di quelle organizzazioni: un processo sollecitato dalla necessità di preservare gli interessi e i valori, connotanti ognuna di esse, in una società ideologica-

mente divisa. Eppure, nelle condizioni di una democrazia senza alternanza al governo, la stabilità delle leadership nazionali dei gruppi d’interesse assume un significato diverso. Ovvero, quella stabilità diventa funzionale al più generale bisogno sistemico di un controllo, dall’alto verso il basso, delle dinamiche di movimento della so-

cietà: proprio per contenere (se non neutralizzare) le (possibili) pressioni centrifughe provenienti dalle sue interne divisioni. Dopo tutto,

48

come ha rilevato Elazar (1987, cap. 1), il consensualismo alimenta un pregiudizio favorevole alla gerarchia. Quindi, nell’Italia postbellica, data la divisione ideologica della società, divisione che ha attraversato tutti i principali gruppi e classi sociali, non è stato possibile sostenere la politica consensuale con la strategia neocorporativa: basata, appunto, su organizzazioni rappresentative di interi gruppi sociali, capaci, attraverso l’interna centralizzazione decisionale, di promuovere accordi reciproci, tra di esse e con il governo. Piuttosto, la strategia italiana, per risolvere il pro-

blema della costruzione delle basi sociali della politica consensuale, è stata quella della stabilizzazione delle leadership nazionali all’interno delle varie organizzazioni d'interesse. In questo senso, si può dire che la politica italiana del «pluralismo contrattato» (Hine 1993) ha avuto come suo corrispettivo, nel policy-making, il «pluralismo oligarchico» (Fabbrini 1995a).

Le implicazioni del consensualismo In Italia, la predisposizione oligarchica della democrazia consensuale è stata ulteriormente alimentata dal vastissimo intervento statale nell'economia e nella società. Tale intervento ha dato vita ad uno Stato esteso, costoso, ma debole ed inefficace (Cassese 1998), anche

perché è stato gestito, per quasi mezzo secolo, dagli stessi partiti di governo. Mai minacciati di essere sostituiti, i partiti governativi hanno potuto costruire solide relazioni con la dirigenza (e non solo) dell’amministrazione pubblica e delle imprese pubbliche, anche grazie all'introduzione di personale di provenienza partitica all’interno dell’una e delle altre. Ciò ha stimolato, a sua volta, un’interazione

stretta tra i leader dei gruppi di interesse e gli alti funzionari e manager delle amministrazioni e imprese pubbliche. Così, una rete di scambi politici si è progressivamente istituzionalizzata, con i gruppi di interesse impegnati a fornire sostegno politico-elettorale ai partiti e i funzionari e manager pubblici, provenienti da quei partiti, impegnati a fornire risorse (economiche e di status) a quei gruppi d’in-

teresse. L’affidabilità degli attori impegnati nello scambio ha richiesto la stabilità degli individui investiti di potere decisionale, sia nella sfera pubblica che privata. E, naturalmente, il funzionamento di tale complessa struttura di scambi è stato lubrificato da un debito

49

pubblico in crescita costante (in particolare dagli anni settanta) (Verzichelli 1999a; Vassallo 2000a). A chi poteva interessare l’efficienza e l’economicità in tale contesto?

Dalla seconda metà degli anni cinquanta in poi, il Pci ha accompagnato la propria opposizione ideologica alla Dc (e ai governi da essa dominati) con la disponibilità a sostenere, in Parlamento, propo-

ste legislative insieme a quel partito (e agli altri partiti del governo).

Dopo tutto, impedito dall’entrare nel governo, il Pci poteva conservare il largo sostegno elettorale di cui ha beneficiato solamente individuando un’altra arena «governativa», dalla quale quindi distribuire risorse pubbliche ai propri sostenitori. Il Parlamento ha rappresentato questa arena: o meglio, esso è stato l’arena dove si è potuto istituzionalizzare lo scambio tra la coalizione distributiva che sosteneva i partiti di governo e quella che sosteneva il Pci. Come Sartori (1976, 142) ha sottolineato, «almeno 3/4 della legislazione italiana tra

il 1948 e il 1968 è stata approvata anche dai comunisti» (come poi ha confermato lo studio di Di Palma, 1976, anche per gli anni settanta). Sono state le commissioni parlamentari con potere deliberante che hanno reso possibile (come ha sottolineato Morisi 1991, 394) «l’integrazione dell’opposizione di sinistra — e dei comunisti in particolare — nel funzionamento quotidiano del processo di governo». La tendenza dei comunisti a consociarsi con i partiti di governo (e con la Dc prima di tutti) è stata ancora più accentuata nel corso degli anni settanta, quando il Pci divenne un partner ufficiale della maggioranza parlamentare (ma senza entrare nel governo). In quel decennio, la filosofia pubblica rese esplicito ciò che fino ad allora era rimasto implicito. E cioè che le risorse statali avrebbero dovute essere distribuite, tra i partiti, attraverso un sistema codificato di quote: sistema in base al quale ognuno di quei partiti aveva diritto ad una quota di risorse pubbliche commisurata al suo rispettivo peso elettorale. Tale sistema distributivo, come era prevedibile, ha continuato a funzionare anche nel decennio successivo, nonostante il radica-

le contrasto politico che si era creato tra i partiti di governo (e il Psi in specifico) e il Pci, una volta che quest’ultimo aveva deciso di uscire dalla maggioranza parlamentare. Una ricercatrice del comportamento legislativo (De Micheli 1997a, 174) ha preso in considerazio-

ne un campione di 315 (tra le più significative) leggi, approvate ne-

gli anni ottanta, sia a livello di commissione deliberante che a livello di assemblea: dalla sua analisi emerge che il 73,3% (nel periodo 50

1983-87) e il 79,4% (nel periodo 1987-92) delle leggi in questione sono state approvate con il voto anche dei comunisti. Tale percentuale è quindi salita all'82% nel periodo 1992-94, con il Pci ora divenuto Pds. Va da sé che il Pci (e poi il Pds) non si era limitato ad approvare i disegni di legge presentati dal governo, ma li aveva sottoposti alla politica della negoziazione: come avviene nelle democrazie consensuali, dove la legge (appunto) celebra la consociazione

e non la dissociazione (dell’opposizione). E interessante notare che, anche negli anni ottanta, le commis-

sioni parlamentari hanno continuato ad essere l’arena primaria per la contrattazione consociativa. Infatti, se si considera (De Micheli

1997a, 175) la produzione legislativa complessiva, il 54,5% (nel periodo 1983-87) e il 68,9% (nel periodo 1987-92) delle leggi approvate dall’assemblea sono state approvate anche con il voto del Pci, mentre quelle percentuali crescono rispettivamente a 78,6 e a 83,3%

se si considerano le leggi approvate nelle commissioni parlamentari. Quindi, nelle commissioni parlamentari ha continuato a svolgersi gran parte del legislative log-rolling (cioè dello scambio di favori tra partiti e singoli parlamentari), incentrato sulla microlegislazione (ovvero sulle cosiddette leggine) e finalizzato a distribuire risorse e benefici pubblici agli elettori dei differenti partiti (se non dei singoli parlamentari). All’assemblea si è preferito trasferire, invece, il voto su quelle leggi che potevano meglio distinguere i profili ideologici dei partiti: una distinzione necessaria per alimentare l’identificazione dei vari segmenti di elettori con questi ultimi (e con la Dc e il Pci, in particolare). Seppure anche nell’assemblea, come si è visto, la tendenza alla consociazione si è rivelata assai pronunciata.

Dunque in Italia, come nelle altre democrazie consensuali, il ruolo dell’opposizione (il Pci) è stato progressivamente addomesticato, dato che ogni attore politico (dotato di una qualche influenza) ha potuto ricevere la sua quota di risorse istituzionali. Non può stupire, di conseguenza, che tutti gli attori politici (e i principali partiti in specifico) mostrassero, anche nei periodi di conflitto, una costante predisposizione a preservare l’esistente sistema di distribuzione del potere (0 power-sharing system). Come ha scritto Shapiro (1996, 181), questi «power-sharing systems indeboliscono i ruoli funzionali, di produzione di legittimità e di promozione dell’interesse pubblico dell’opposizione [...] perché essi consentono alla stessa combinazione di élite di trincerarsi più o meno continuativamente all’interno 51

Tabella 4. Crimzini contro la pubblica amministrazione” nano Lie SEAL Estorsione

Corruzione

(di un funzionario pubblico) AE

(da parte di un funzionario pubblico)* ui

Anno

1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992. 1993 1994 1995

Rinvii a giudizio

Individui rinviati a giudizio

n.

n.

142 113 131 114 45, 138 197 462 743 690 522

324 232 229 183 171 168 253 588 1.043 1.644 1.368

Anno

1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995

Rinvii a giudizio

Individui rinviati a giudizio

n.

n.

254 229 244 248 221 178 294 602 881 1.060 1.032

239 248 DID 230 264 174 258 431 1.178 2.407 1.764

*I due tipi di crimini qui considerati rappresentano solamente una parte del totale dei crimini commessi contro la pubblica amministrazione. Dei 22 articoli del codice penale che regola tali crimini, ho considerato solamente 6 articoli.

** Solamente i crimini commessi in base all’art. 317 del codice penale. ##** Solamente i tipi di crimine esplicitamente definiti dai seguenti articoli del codice penale: art. 318, art. 319, art. 319 ter, art. 320, art, 322.

Fonte: elaborazione su dati forniti dall'Ufficio statistiche giudiziarie dell’Istat.

delle strutture gerarchiche che presiedono alla distribuzione delle spoglie e del patronage». L’evidenza empirica relativa all’abolizione dell’opposizione nella democrazia consensuale italiana è fornita dalla proliferazione della corruzione politica, in particolare a partire dagli anni settanta. Proliferazione divenuta quindi sistematica nel decennio successivo e nei primi anni novanta.

Relativamente a tale corruzione, ho considerato (per il periodo 1985-95 e sulla base dei dati forniti dall’Istat) due tipi specifici di crimine contro la pubblica amministrazione: estorsione da parte di un

funzionario pubblico (così come è definita dal nostro codice penale, art. 317) e corruzione di un funzionario pubblico (così come è definita dallo stesso codice, artt. 318, 319, 319 ter, 320, 322). Tra l’altro, in entrambi i casi, come mostra la Tabella 4, c’è stata una crescita

drammatica nel numero dei funzionari rinviati a giudizio proprio a 52

partire dalla crisi (1992) del consensualismo italiano: quando, appunto, il consenso dell’opinione pubblica e la disponibilità alla collaborazione giudiziaria consentì ai pubblici ministeri di perseguire con più efficacia il malaffare nella politica italiana. È bene sottolineare che senza la collaborazione dei singoli imprenditori ed operatori economici, che erano stati coinvolti (volontariamente o necessa-

riamente) nel rapporto di corruzione con il funzionario pubblico (politico o amministratore), quelle inchieste non avrebbero potuto conseguire alcun risultato giudiziariamente significativo. È plausibile ritenere che tale disponibilità alla collaborazione sia stata dovuta anche (e, forse, soprattutto) a considerazioni di tipo economico (più che morale): era giunto il momento di allentare la morsa dei politici e amministratori corrotti perché i costi della corruzione erano diventati inconciliabili con i vincoli della competizione economica (interna ed europea). Naturalmente, la corruzione non è terminata con il maggiore attivismo dei procuratori della Repubblica a partire dal 1992. Basti solamente pensare che nel 1996 (primo semestre) si è registrato un totale di 9.471 crimini (così come li definisce l’art. 22 del nostro codice penale) contro la pubblica amministrazione e ben 4.988 individui sono stati rinviati a giudizio. Di tali crimini, ben 4.850 sono stati ricondotti alla fattispecie giuridica dell’abuso nell’esercizio di un ruolo pubblico, con 2.864 funzionari pubblici coinvolti. Ma il punto che mi interessa rilevare è il seguente: la corruzione politica e amministrativa ha accompagnato la democrazia consensuale italiana, accentuandosi quindi con il declino (a partire dagli anni ottanta) delle ragioni (il conflitto ideologico) giustificative di quest’ultima. Naturalmente, la corruzione è un fenomeno comune a tutte le democrazie (della Porta, Mény 1995). Ed è anche possibile che,

in Italia, la particolare autonomia dal potere politico, di cui cia costituzionalmente il potere giudiziario, abbia consentito tare alla luce pratiche corrotte che, altrove, tendono invece nere nell’ombra. Tuttavia, è bene sottolineare che la logica

benefidi pora rimadi fun-

zionamento delle democrazie consensuali genera incentivi formidabili a trasformare il potere pubblico in un potere corrotto (Frognier 1986). Un’analista della corruzione politica italiana ha scritto (della Porta 1996, 227): Nel corso della ricerca [sulla corruzione italiana, 1.4.r.], abbiamo ri-

levato come [...] tutti i partiti di governo così come quelli all’opposizio-

53

ne sembrassero convergere nell’esprimere reciproca solidarietà e fiducia l’uno nell’altro. Nel caso italiano, come in quello di altri paesi, è la forma nascosta di democrazia consensuale, che è prevalsa nel corso degli anni settanta e degli anni ottanta nella gestione degli organismi pubblici, la principale spiegazione per tale diffusa complicità.

In Italia, per dirla con Shapiro (1996), i veti reciproci hanno condotto allo scambio sotterraneo, cioè hanno promosso una sorta di isider clubism (club degli insiders), nonostante l’aspro confronto ideologico, che avveniva in superficie, tra le élites dei due campi (0 lager). Ovvero, per dirla con Sartori (1987), iveti reciproci hanno favorito e garantito lo «scambio differito» («io prendo questo ora, tu prenderai quello domani»), sul quale si basano i sistemi a diffusione dei poteri: scambio, va da sé, che richiede esattamente la stabilità al

potere di coloro che lo attivano, proprio per garantire la fiducia reciproca circa il rispetto dell’accordo differito. Insomma, quando tutti i maggiori attori politici beneficiano di una quota di potere diffuso, anche se alcuni ne beneficiano più di altri (e, in Italia, i partiti di

governo, e la Dc in particolare, ne hanno beneficiato più del Pci), allora (Shapiro 1996, 180) «vi sono poche ragioni, per gli scontenti, a differenziare il governo dal regime». E in ogni caso (074.), «questi sistemi non generano incentivi affinché i principali attori parlamentari spingano il governo ad essere onesto illuminando con la loro azione gli angoli oscuri di quest’ultimo». Quindi, una volta che le istituzioni della democrazia consensua-

le italiana si sono stabilizzate, esse hanno indotto un equilibrio tra gli attori politici che ha finito per riprodursi da solo. Naturalmente, tale equilibrio è stato tutto, meno che pacifico. Conflitti sociali ed economici hanno attraversato, sia pure in modo intermittente, il paese. Infatti, come avviene propriamente nelle economie basate sui cartelli, una simmetria di poteri (tra quegli attori) non si è mai istituita.

Ma il punto è che l’asimmetria è stata sufficientemente significativa da indurre l’attore meno favorito dall’equilibrio consensuale (cioè il Pci) a cercare di rafforzare la propria posizione contrattuale con la mobilitazione periodica dei gruppi sociali ed economici (come i sindacati) ad esso collaterali. Ma, allo stesso tempo, tale asimmetria non è stata sufficientemente significativa da giustificare la sua radicale alterazione da parte dello stesso attore meno favorito (il Pci) dall’equilibrio consensuale (Fabbrini, Gilbert 2000). E, in ogni caso, i vinco-

54

li geopolitici della guerra fredda hanno consentito di contenere le rivalità, interne all’equilibrio consensuale, entro ilimiti richiesti dal bi-

sogno di stabilità del cartello. Per dirlo nei termini della classica teoria economica del cartello (Stigler 1964; Friedman 1986), quei vincoli sono stati una sorta di supra-cartel enforcement (cioè di impositore, esterno al cartello, del patto di cartello).

Insomma, non sfidati e non sfidabili per lungo tempo da nessun altro attore politico o istituzionale, i partiti politici italiani hanno potuto trasformarsi in autentiche corporazions oligopolistiche a capitale pubblico, potendo condizionare (in particolare quelli della coalizione anticomunista) non solo le cariche e le politiche di governo, ma anche (e qui sia gli anticomunisti che i comunisti, con una prevalenza dei primi, va da sé) larga parte della political economy italiana (attraverso il controllo delle cariche e delle politiche di banche, imprese, istituti finanziari, enti assistenziali, Gilbert 1995). Si è for-

mato, così, un equilibrio consensuale dotato di formidabili meccanismi istituzionali per preservarsi nel tempo. Non può stupire, dunque, che la domanda di cambiamento dell’equilibrio consensuale sia provenuta originariamente dall’esterno del sistema di partito (con il movimento referendario e le leghe territoriali), anche se successivamente, per imporsi nell’agenda pubblica, essa ha dovuto beneficiare del sostegno attivo di alcuni degli attori dell’equilibrio consensuale, divenuti insoddisfatti (per ragioni di interesse o per ragioni di

passione) nei confronti di quest’ultimo.

La predisposizione comunitarista Ogni equilibrio politico tende a generare una predisposizione comportamentale, coerente con quell’equilibrio, tra gli attori che lo costituiscono. Tale predisposizione non è definibile come cultura politica in senso proprio: se, per cultura politica, si intende quell’insieme organico di valori o ideologie da cui derivano i progetti politici. Da questo punto di vista, l’Italia postbellica ha avuto una cultura politica disomogenea, esattamente come disomogenea è la cultura politica nelle altre democrazie consensuali. I nostri principali attori politici (e la Dc e il Pci, in particolare) si sono ispirati a modelli di società diversi, hanno avuto riferimenti internazionali diversi, hanno

interpretato diversamente i principi della nostra democrazia costi95

tuzionale. Tuttavia, quegli attori, nel corso delle loro interazioni po-

litiche, hanno seguito un comune codice comportamentale. Un co-

dice che, seppure non sia mai stato oggetto di una pubblica giustifi-

cazione, ha avuto una sua coerenza interna, oltre che un suo carat-

tere vincolante. Una coerenza interna garantita dal suo principio ispiratore: la politica deve garantire gli interessi delle comunità (comunque esse siano definite sul piano ideologico), prima ancora che quelli dei singoli individui che le costituiscono. Si può dire che la democrazia consensuale italiana ha registrata l’esistenza di culture politiche tra di loro diverse, eppure connotate da una comune visione comunitarista della politica. Vale la pena, dunque, di capire quali siano stati i basilari tratti comuni di tale visione!. Il primo tratto in comune lo definisco così: sia gli anticomunisti che i comunisti hanno condiviso una forte predisposizione alla partigianeria nella gestione della cosa pubblica. Tale predisposizione, nel contesto di un sistema statale tradizionalmente debole sul piano organizzativo così come tradizionalmente colonizzabile su quello amministrativo, ha finito per alimentare una visione strumentale delle istituzioni pubbliche. Dopo tutto, era stato attraverso i partiti di massa, costruiti dai comunisti e dai cattolici nell'immediato dopoguerra, che i cittadini erano stati integrati nello Stato nazionale. Ma, inevitabilmente, un’iniegrazione sotto forma partitica è assai diversa da un'integrazione sotto forma istituzionale. Tant'è che, se nelle democrazie compiutamente liberali la lealtà principale dei cittadini è rivolta primariamente alle istituzioni statali, nell'Italia repubblicana la lealtà dei cittadini verso queste ultime è stata sostituita dalla loro lealtà verso i partiti. Di conseguenza, i partiti si sono trasformati in partiti di Stato e quest’ultimo, va da sé, in uno Stato dei partiti. Di qui, l'assenza di una vera e propria cultura istituzionale sia negli anticomunisti che nei comunisti, assai più a loro agio, piuttosto, con una visione politica dello Stato. Una visione, a sua volta, che ha finito per cancellare la distinzione tra l’interesse privato e l’interesse

pubblico: cioè tra l'interesse del partito (o del singolo politico oppure dello specifico gruppo d'interesse) e l’interesse dello Stato. Con la conseguenza che il fazionismo (un’antica malattia del paese, invero) ha accompagnato l’intera storia repubblicana. La politica è stata percepita dai partiti come un'attività finalizzata a premiare «i nostri» e a punire «gli altri». Un’attività che poi prevedeva, come sappiamo, regolari compromessi tra «i nostri» e «gli altri», così da formalizza56

re istituzionalmente i rapporti redistributivi conseguiti nella trattativa privata. Ovviamente, tale redistribuzione delle spoglie beneficia-

va solamente coloro che appartenevano agli uni o agli altri, e non coloro che erano senza appartenenza. In questo contesto ambientale non vi era alcuna necessità di una bolla che celebrasse il principio che «fuori della chiesa non c’è salvezza» per garantirsi la fedeltà dei propri appartenenti (e per allargare l’area dell’appartenenza). Perché fuori dei partiti, visto il loro pervasivo controllo dello Stato e della società, c’era davvero ben poco. Il secondo tratto comune lo definisco così: sia gli anticomunisti che i comunisti hanno manifestato una forte predisposizione paternalistica nella loro relazione con la società nazionale. Tale predisposizione ha avuto, insieme, radici lontane e ragioni vicine. Ha avuto radici lontane, perché i nostri partiti di massa hanno tratto la loro legittimazione in tradizioni storiche che hanno dato vita ad istituzioni élitarie (quali, per quanto riguarda i due maggiori partiti, la Chiesa cattolica e lo Stato sovietico), in quanto governate da gruppi ristretti di individui investiti del compito di realizzare una particolare missione. Istituzioni, di conseguenza, centralizzate nella loro organizzazione interna, la cui vita si è basata di più sulla disciplina che sul confronto, e dunque con una preferenza per la soluzione autoritaria dei conflitti generati dal pluralismo interno. Quella predisposizione ha avuto ragioni vicine, perché la particolare specie di democrazia che si è realizzata in Italia ha incentivato, come sappiamo, la gestione verticistica delle fratture sociali, così da garantire la stabilità dello stesso patto democratico nazionale. Fatto si è, tuttavia, che tale predisposizione paternalistica ha creato una sordità, da parte di coloro che hanno detenuto un potere decisionale, verso le richieste di cambiamento (il quale, quando si è im-

posto, come nel biennio del 1968-69, ha finito poi per farlo in forma inevitabilmente radicale). Dopo tutto, le predisposizioni paternalistiche sono efficaci nel preservare, ma non nell’innovare, l’ordine

esistente. E, naturalmente, tale predisposizione paternalistica si è rivelata congeniale con le necessità di una democrazia oligarchica. Insomma, sia gli anticomunisti che i comunisti, per via della loro ade-

sione alla gerarchia, hanno finito per italiana il loro prepotente pregiudizio l’individuo fosse la sede di un egoismo peccato da redimere. Perché, appunto, bi

introdurre nella democrazia antindividualistico: come se da controllare oppure di un sia per gli uni che per gli al-

tri, gli individui potevano essere presi in considerazione solamente se erano 0 divenivano parte di un tutto: che quel tutto si chiamasse «chiesa» o «partito» non era poi così importante.

Il terzo tratto comune lo definisco così: sia gli anticomunisti che i comunisti hanno manifestato una forte predisposizione al protezionismo. Anche qui, naturalmente, vi sono motivazioni di lungo corso,

che affondano le radici nel difficile rapporto che le tradizioni da essi rappresentate hanno intrattenuto con la modernità capitalistica. Fatto si è che, in particolare, sia i cattolici che i comunisti hanno continuato a conservare, per buona parte del secondo dopoguerra, una diffidenza istintiva nei confronti del mercato, la cui logica di funzionamento di tipo competitivo veniva ritenuta essere antagonistica con

il bisogno primordiale di «dignità dell’uomo». Naturalmente, non si può dire che il mercato, in particolare nel nostro paese, si fosse preoccupato di mostrare la sua natura sociale, proprio perché inca-

pace di funzionare in senso competitivo. Il mercato italiano, già nato come appendice dello Stato, ha accettato a lungo di rimanere tale (cioè un mercato politico). Tant'è che la classe imprenditoriale si è più distinta per i suoi investimenti politici, che per la sua capacità di rischio economico. Dopo tutto, in nessuna democrazia occidentale postbellica è avvenuto, come da noi, che il mercato nazionale si strutturasse intorno ad un ristretto numero di oligopoli pubblici e privati, controllati da poche famiglie e dagli stessi partiti, collegati le une agli altri attraverso sicure (e inaccessibili) banche d’affari. Il punto è che tale strutturazione protezionistica del mercato italiano si è rivelata confacente con la tradizionale allergia alla competizione condivisa dai nostri partiti di massa. Se si guarda retrospettivamente la vicenda economica della Repubblica, si vede che (dalle nazionalizzazioni degli anni sessanta alla difesa delle partecipazioni statali degli anni novanta) vi è stata un’unica e permanente preoccupazione della nostra classe dirigente: limitare la competizione. Il risultato è stato non solo la formazione di un capitalismo di pochi oli-

gopoli economici funzionale al sostentamento dei pochi oligopoli politici. Ma anche la diffusione sociale di una predisposizione alla protezione pubblica: anche in quei contesti in cui quest’ultima non era giustificabile né per ragioni economiche né per ragioni morali. L’assistenzialismo è così divenuto il principio ispiratore dell’intervento pubblico, con l’implicazione di trasformare le comunità assistite in comunità di assistiti. 58

Certamente, è plausibile argomentare che tale predisposizione comunitarista abbia aiutato l’Italia consensuale a rimanere democratica. Un risultato non da poco, se solo si pensa a cos'era l’Italia nell’immediato dopoguerra. Il nostro paese non ha vissuto il dramma della guerra civile, come ebbe a viverlo la Grecia dopo la seconda guerra mondiale o la Spagna prima di quella guerra, proprio per la disponibilità dei principali attori politici ad aderire alla ricerca di soluzioni consensuali. Tuttavia, se ciò è vero, è anche vero che la de-

mocrazia repubblicana si è poi ammalata per causa della stessa medicina che l’aveva salvata.

Istituzioni e politiche La democrazia consensuale italiana ha dunque assunto le caratteristiche di una democrazia organizzata intorno ad un network di minoranze organizzate all’interno dello Stato, dell'economia e della società (talora reciprocamente connesse, ma non necessariamente, at-

traverso i partiti politici). Tale network è stato alimentato dalla molteplicità di micropolitiche (Cotta 1996) promosse all’interno e attraverso il Parlamento. Al bilancio pubblico è stato richiesto, quindi, di

consolidare le basi sociali del consensualismo italiano. In particolare nel Sud, la distribuzione delle risorse pubbliche ha costituito una condizione necessaria, non solo per promuovere lo sviluppo economico ma anche per acquisire l’acquiescenza sociale delle sue regioni (Guzzini 1995): ovvero, per impedire all’elettorato di quell’area del paese di trasferirsi nel campo ideologico del comunismo. Di conseguenza, negli anni del dopoguerra si è sviluppata una complessa relazione funzionale tra le istituzioni e le (micro)politiche pubbliche della democrazia consensuale italiana (Cotta, Isernia 1996). Tale re-

lazione ha creato, all’interno della struttura del policy-mzaking, un sistema protetto di insider clubism (basti pensare alle politiche del lavoro finalizzate a proteggere chi era già protetto, a danno di coloro senza un lavoro, come ha ben mostrato Gualmini 1997). In questo sistema, nuovi gruppi potevano essere cooptati e nuove domande

potevano essere integrate, a condizione, però, che ciò non implicasse l'alterazione né delle esistenti relazioni di potere e né della logica di funzionamento del processo di policy-making. E, naturalmente, 39

tali diffusi collegamenti tra interessi e istituzioni governative hanno incrementato l’estezsione di queste ultime. I partiti politici hanno potuto garantire il funzionamento complessivo del sistema di condivisione dei poteri proprio perché erano protetti dalle istituzioni della democrazia consensuale. Infatti, sia il Parlamento che il governo erano strutturati intorno a partiti politici che potevano utilizzare il proprio potere di veto per indurre gli altri alla ricerca di soluzioni reciprocamente soddisfacenti. Soluzioni che, il più delle volte, consistevano nel lasciare le cose come stavano. Perché, come è noto da tempo (Immergut 1990), nei sistemi di condivisione dei poteri è assai più facile preservare, che alterare, uno schema consolidato di politica pubblica. Tuttavia, il network oligarchico che strutturava il consensualismo italiano aveva piano piano creato le premesse per la bancarotta della finanza pubblica: bancarotta infine esplosa nell’estate del 1992. A quel punto, la preservazione di quello schema di politica pubblica è apparsa improbabile: il sistema di pluralismo oligarchico poteva essere preservato solamente con ri-

sorse abbondanti da distribuire, ma i vincoli imposti dal processo di integrazione monetaria europea, a partire dall’accordo di Maastricht del dicembre 1991, le aveva rese drammaticamente scarse.

Il 1992 è, in proposito, cruciale. Le forti turbolenze dei mercati finanziari costrinsero le autorità monetarie italiane a rassegnarsi ad

una consistente svalutazione della lira e alla conseguente uscita dal Sistema monetario europeo, con conseguenze economiche impreve-

dibili (Daniels 1993). Come ha scritto Ginsborg (1996, 22): [la crisi italiana] [...] può essere vista [...] come il conflitto tra due opposte tendenze: da una parte, il rifiuto dei successivi governi italiani di considerare seriamente la montagna del crescente debito pubblico, scegliendo di comprare il consenso all’interno a costo di compromettere la tenuta del paese all’esterno. La responsabilità dei governi della seconda metà degli anni ottanta [...] è stata in proposito considerevole. Dall’altra parte, si trova una pressione concettata delle economie capitalistiche europee più avanzate verso una maggiore unità economica [...] Queste due

tendenze [...] sono entrate in conflitto diretto nel settembre del 1992.

Insomma, a partire dal 1992, il potere delle coalizioni distributive interne si dimostrò incompatibile con i vincoli imposti dai mercati finanziari esterni (ed europei in specifico, Sbragia 1997). Ed è sta60

to sempre nel 1992 che, come abbiamo visto, si è manifestato l’inizio

del de-allineamento tra gli elettori e i principali partiti postbellici. Dunque, se la crisi italiana della prima metà degli anni novanta è nata dalla resistenza delle istituzioni alle pressioni provenienti dall’esterno perché riadeguassero la struttura del policy-making, tuttavia quella resistenza è il risultato dell’azione di un insieme istituzionalmente radicato di partiti e gruppi d’interesse, indisponibili a rinunciare alla rendita posizionale acquisita (e per questo definibili come rent-seekers). Così in Italia, ancora una volta, un conflitto ordinario,

in quanto ogni democrazia deve affrontare periodicamente il problema del riadeguamento delle proprie politiche, ha finito per assumere un carattere straordinario. Proprio perché quel riadeguamento non ha potuto disporre di attori politici e di canali istituzionali che potessero regolarizzarlo. Insomma, come già era avvenuto nel passato (in particolare dopo il ciclo dei movimenti collettivi del biennio 1968-69), anche negli anni novanta non vi erano attori e modalità istituzionali disponibili per favorire l'integrazione di richieste che provenivano dall’esterno delle comunità ideologiche rappresentate dai partiti. Ecco perché in Italia, contrariamente a ciò che avviene in altre democrazie, le richieste di cambiamento delle politiche hanno finito per assumere un contenuto istituzionale: cioè, sono divenute richieste di riforma delle regole del gioco. Nelle democrazie che non si basano sul principio di unanimità (come quelle competitive e, vieppiù, maggioritarie) è compito dell’opposizione dare voce alle nuove domande, fornendo quindi al regime politico, appunto, un’opportunità di rilegittimazione sistemica. E così avviene a prescindere dalla natura del sistema di governo. Avviene, cioè, nella Gran Bretagna parlamentare come nella Francia semipre-

sidenziale. Tra le grandi democrazie consolidate, probabilmente gli Stati Uniti sono l’unico paese simile all’Italia postbellica. Infatti, il sistema di separazione dei poteri che lo connota alimenta anch'esso posizioni di veto: seppure, in questo caso, si tratta di veti istituzionali (cioè attivabili dalle istituzioni del governo separato, quali il presidente, la Camera, il Senato, le varie commissioni congressuali, la Cor-

te suprema) piuttosto che di veti partigiani (cioè attivabili dai partiti politici). In entrambi i paesi, comunque, la policy stability costituisce un esito più probabile del policy change. Va osservato, tuttavia, che negli Stati Uniti, in alcune congiunture critiche, l’una o l’altra delle istituzioni del governo separato hanno fornito un canale d’accesso al61

le nuove priorità di policy, quando l’accesso alle altre era ostruito da potenti e radicate coalizioni di interesse?.

Conclusione Insomma, negli anni novanta, la trasformazione della società e dell’economia italiane, nel contesto di una pressione europea sempre più

potente a ridurre il debito pubblico interno, ha reso manifesto il paradosso della democrazia consensuale: essa doveva affrontare il problema del cambiamento delle proprie politiche pubbliche (in particolare quelle di bilancio) senza disporre degli adeguati strumenti istituzionali per risolvere quel problema. Così, proprio nel settore strategico del bilancio, la soluzione istituzionale è consistita nella sospensione, tra il 1992 e il 1996, dell’ordinaria attività parlamentare. Il bilancio è stato riordinato sospendendo i poteri del Parlamento ed incrementando quelli del governo. Per di più, quest’ultimo, nel periodo della crisi (1992-96), è stato messo nelle mani di tecnici, con la

sola eccezione del governo Berlusconi del periodo maggio-dicembre 1994. Ed è stato un altro governo poco condizionato dal Parlamento, il governo Prodi, che, nel dopocrisi (1996-98), ha consentito

all'Italia di rientrare nei parametri finanziari previsti per l'adozione della comune moneta europea. In entrambi i casi, igoverni hanno beneficiato del sostegno del presidente della Repubblica e della pressione dei partner europei, piuttosto che di quello di una maggioranza parlamentare. Tant'è che, appena il governo Prodi ha raggiunto i propri obiettivi di riordino finanziario, pressioni formidabili si sono riattivate all’interno della sua maggioranza parlamentare, con l’esito

del licenziamento di quel governo. Ma la storia del governo del cambiamento deve essere analizzata con precisione. Ed è ciò che farò ora, analizzando prima l’esperienza governativa nel periodo della crisi (1992-96) e quindi, nella Parte seconda, analizzando quella del do-

pocrisi o della transizione (successiva al 1996).

II

Il governo tecnico della crisi

Governo di partito e governo tecnico C'è dunque un tratto prevalente nella democrazia italiana postbellica, ed è rappresentato dal ruolo preponderante esercitato dai partiti nella politica e nella società nazionali. Non si può comprendere l’assoluta straordinarietà dell’esperienza governativa degli anni della crisi, se quell’esperienza non viene comparata diacronicamente con la vicenda storica dell’Italia postbellica. Una vicenda connotata, appunto, da un permanente governo dei partiti. Ma vediamo meglio di cosa si è trattato, cominciando dai concetti e dalle categorie di analisi. E definibile come goverzo di partito quel governo il cui personale (capo del governo e ministri) è di estrazione partitica e le cui politiche sono definite o concordate in sede partitica. Così inteso, il governo di partito è quel governo nel quale i partiti ne controllano le cariche e ne influenzano le politiche. La democrazia italiana post-

bellica rientra, da questo punto di vista, nella famiglia dei governi di partito democratici. I partiti politici, anche perché riconosciuti dalla Costituzione del 1948 come gli attori esclusivi del processo di governo (recita l’art. 49 della Costituzione: «tutti i cittadini hanno diritto ad associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»), hanno controllato senza interruzione (fino al 1992) le cariche e le politiche governative. Per usare la nota definizione di Katz (1987), quello italiano è stato un caso di partyness ofgovernment (cioè di capacità di controllo partitico delle cariche e delle politiche governative) assai alta, anche se non dissimile da quella che si è realizzata in altre democrazie parlamentari europee. 63

Tuttavia, ed è qui invece che il caso italiano acquisisce una connotazione particolare, tale partyress of government si è realizzata in un contesto di political economy che è stato, come abbiamo visto ma conviene ripeterlo, straordinariamente favorevole ai partiti: sia sul versante dello Stato (dove i partiti hanno potuto surrogare un’am-

ministrazione tradizionalmente debole e colonizzabile) sia sul ver-

sante dell'economia, per via della estesissima presenza dello Stato nelle attività produttive e di servizio. Di conseguenza, sempre seguendo Katz, si può dire che alta è stata pure la party governmentness della democrazia italiana, intendendo con essa la capacità dei partiti di estendere il loro controllo su ambiti straordinariamente vasti della vita economica e sociale. Qui risiede la specifica distinzione tra party government e partitocrazia: distinzione analiticamente cru-

ciale proprio per non confondere il caso italiano con quello di altre democrazie di partito. Se si tiene a mente questa distinzione, allora si può capire perché la crisi della partitocrazia abbia avuto origini sistemiche (sia dovuta cioè alla crisi di quella particolare intermediazione partitica che si è realizzata nel rapporto tra Stato e società), anche se poi si è resa manifesta attraverso il declino (prima) e la crisi (poi) del governo di partito (per il collasso del particolare sistema di partito su cui esso si era retto, Barbera 1994). Ed è appunto tale declino-crisi che si è registrato tra 1992 e il 1996 (Katz 1995). Qui, mi occuperò della vicenda del party government italiano (cioè del ruolo avuto dai partiti nel determinare le politiche e nel controllare le cariche del governo tra il 1948-92), valutandola sul piano sia della formazione dei governi che su quello dell’organizzazione del loro interno processo decisionale. Per compararla, quindi, con quella successiva del 1992-96. Conduriò tale comparazione con l’obiettivo di mostrare come la crisi del party government italiano abbia portato alla formazione di governi tecnici, cioè di governi in cui le cariche e le politiche non sono state più definite dai partiti. Se assumiamo, con Vassallo (1994), che è residuale quel governo in cui i partiti hanno un basso o nullo controllo delle sue cariche e delle sue politiche, mentre è orgarico quel governo in cui i partiti hanno un alto controllo delle une e delle altre (e che, per anticipare la tipologia che userò in seguito, è spartitorio quel governo in cui i partiti con-

trollano le cariche ma non le politiche ed è programmatico quel g0verno in cui i partiti controllano le seconde ma non le prime), allora si può dire che tra il 28 giugno 1992, con la formazione del governo

64

Tabella 1. Membri del governo: classificazione Membri del Parlamento Sì

No

+5 anni

-—5 anni

4

2



6

insiders

Membri del partito No

3

1

D) outsiders

Amato (e, soprattutto, con il rimpasto di quel governo nell’autunno dello stesso anno), e il 20 aprile 1996 quando il presidente del Consiglio Dini ha lasciato definitivamente palazzo Chigi (anche se le dimissioni del governo erano state consegnate al presidente della Repubblica il 13 gennaio 1996), si è registrata una fase senza precedenti nella vicenda repubblicana, connotata da governi a bassa (se non nulla) partyress of government, con la parziale eccezione della parentesi del governo Berlusconi tra il 10 maggio e il 22 dicembre 1994. Cioè, appunto, connotata da governi di partito residuale. Se sul piano teorico la definizione di governo tecnico come governo di partito residuale è incontrovertibile, assai meno incontrovertibile è l'individuazione dei criteri per definire empiricamente un governo tecnico. Ovvero, su quali basi possiamo distinguere un membro «tecnico» da un membro «politico» del governo? Per quanto mi riguarda, mi sono rifatto, sia pure in modo meno restrittivo, allo schema analitico utilizzato da De Winter (1991). Tale sche-

ma prevede sei «categorie» di membri del governo (vedi Tab. 1), categorie derivate incrociando la dotazione di un seggio parlamentare con l’iscrizione ad un partito politico relativamente ai membri del governo, considerati però 4/ momento del loro primo incarico ministeriale. Così, si possono avere le seguenti sei categorie: 1) ministri che sono membri del Parlamento da meno di 5 anni ma non sono membri di un partito; 2) ministri che sono membri del Parlamento da meno di 5 anni e sono anche membri di un partito; 3) ministri che sono membri del Parlamento da più di 5 anni ma non sono membri di un partito; 4) ministri che sono membri del Parlamento da più di 65

5 anni e sono anche membri di un partito; 5) ministri che non sono membri del Parlamento e non sono membri di un partito; 6) ministri che non sono membri del Parlamento ma sono membri di un partito. Ora, dal punto di vista della mia analisi, è evidente che le due categorie di ministro più rilevanti sono quelle riconducibili alle categorie 4 e 5. Perché la categoria 4 è quella che identifica la figura dell’insider propria dei governi di partito organico o spartitorio. Mentre la categoria 5 identifica la figura dell’ouzsider propria del governo di partito residuale o, appunto, tecnico.

Dunque, se definiamo il ministro tecnico come colui o colei che non è né membro del Parlamento e né membro di un partito, allora è possibile evidenziare l’originalità dell'esperienza governativa del periodo 1992-96. Infatti, se si ricostruisce la composizione personale dei governi italiani postbellici, al momento della loro formazione, si scopre che la presenza dei tecnici al governo è stata generalmente limitata nella lunga vicenda postbellica (vedi Appendice A, Tab. A.1). Considerando, insieme alle figure di outsiders, anche coloro che non disponevano di un seggio parlamentare al momento della nomina

pur avendo un’appartenenza partitica!, le percentuali di ministri tecnici sul totale dei ministri del governo sono state quasi sempre poco significative. Con alcune eccezioni: quelle corrispondenti ai governi o delle fasi di passaggio da un accordo coalizionale ad un altro (cioè da una stagione politica ad un’altra) o delle fasi di crisi (i cosiddetti governi balneari). Tuttavia, considerando la natura dei ministri (al

momento del loro primo incarico e per il periodo 1948-92) per ognuna delle dieci singole legislature del periodo, è possibile notare che il numero più alto di ministri tecnici (cioè le figure 5 e 6) è collocabile nella IX legislatura (1983-87) e quindi nella X legislatura (198792), in particolare con i governi Fanfani VI, Goria, De Mita, e Andreotti VI (vedi Appendice A, Tab. A.2). Dei 27 ministri definibili come tecnici del periodo in questione, infatti, ben 9 sono nella IX e

5 nella X legislatura. Naturalmente, la presenza dei tecnici in tali governi non può condurci a definirli come governi di partito residuale, in quanto i partiti politici hanno continuato a controllare le politiche di quei governi. Insomma, il ricorso ai tecnici non è stato equivalente all’abdicazione di un ruolo governativo da parte del personale di partito. Tra il 1992 e il 1996 (cioè nella XI e XII legislatura) l’Italia ha vissuto un’esperienza governativa del tutto particolare. La crisi del si66

stema di partito postbellico ha messo fuori gioco gli attori tradizionali dell’azione governativa. Con i governi Amato, Ciampi e (dopo la parentesi politica di Berlusconi) Dini è progressivamente modificata la composizione del governo a favore di personale non politico. Se si considera (in modo aggregato) il totale dei ministri nei tre governi in questione, indipendentemente dal numero degli incarichi che hanno detenuto individualmente, si può rilevare come i «non membri» di partito (Tab. 2) e coloro «senza un seggio parlamentare» al momento del loro incarico (Tab. 3) abbiano costituito la metà dei ministri e, quindi, incrociando le due variabili, come gli outsiders

abbiano rappresentato la maggioranza (ovvero poco più della metà) dei membri di quei governi (Tab. 4). Ecco perché l’esperienza in questione non ha confronti con quella del lungo periodo postbellico. Ma il punto è che a tale bassa partyness of government nel periodo 1992-96 è corrisposta un’alta influenza personale del presidente della Repubblica, come mai era av-

Tabella 2. I ministri nei governi Amato, Ciampi e Dini — appartenenza partitica (valori assoluti e percentuali) Membri del partito

n.

%

Non membri Membri

D2 31

50,8 49,2

Totale

I

63

"rr

ee

100

rece’

Nota: i ministri sono considerati indipendentemente dal numero di incarichi detenuti nei diversi governi.

Tabella 3. I ministri nei governi Amato, Ciampi e Dini — carica parlamentare

(valori assoluti e percentuali) Seggio parlamentare

n.

%

No Sì

31 32

49,2 50,8

Totale

63

100

Nota: i ministri sono considerati indipendentemente dal numero di incarichi detenuti nei diversi governi.

67

Tabella 4. Tipi di ministri nei governi Amato, Ciampi e Dini — tipologie preminenti Tipo di ministro

n.

%

Insiders Outsiders

29 33

46,0 52,4

6

1

1,6

Totale

63

100

Nota: i ministri sono considerati indipendentemente dal numero di incarichi detenuti nei diversi governi; iministri Ossicini, Reviglio e Spaventa sono stati considerati in questa tabella alla stregua di ministri outsiders per le loro qualità preminentemente tecniche. Ossicini (governo Dini) è stato membro del Parlamento per più di 5 anni, ma non membro di partito. Reviglio (governo Amato) è stato membro di partito e membro del Parlamento per meno di 5 anni. Spaventa (governo Ciampi) è stato membro del Parlamento per più di 5 anni, ma non membro di partito. Naturalmente, in casi come questi, qualsivoglia classificazione può essere opinabile.

venuto nel passato. Con i governi tecnici, la legittimazione del governo si è trasferita dai partiti (e dal Parlamento) al presidente della Repubblica (Fabbrini 1997). Al punto che, in quei quattro anni, si è registrato un ibrido istituzionale definibile come governo (semzipresidenziale) di partito residuale. Così, di fronte alla crisi finanziaria dell’estate del 1992 e alla decimazione giudiziaria dei leader dei partiti tradizionali, il governo è stato affidato alla cura di personale do-

tato di competenze tecniche, individualmente collegato con le istituzioni finanziarie e regolative europee ed internazionali, e sostenuto dalla fiducia politica del presidente della Repubblica.

Il processo di formazione del governo (1948-92) Che in questo periodo i partiti abbiano mantenuto il controllo delle cariche e delle politiche non vi è dubbio, anche se non vi è dubbio altresì che tale controllo abbia assunto modalità diverse in relazione alle diverse stagioni politiche?. Infatti, una volta istituito il principio dell’impossibilità dell’alternanza al governo tra gli anticomunisti e i comunisti, e una volta accettato il fatto che le elezioni potevano influenzare solamente la distribuzione del potere governativo all’interno dei primi ma non la composizione ideologica o l'identità politica del governo, nondimeno l’Italia ha registrato diverse «stagioni 68

politiche». Negli anni cinquanta si è avuta la stagione del «centrismo» (con la Dc come perno), negli anni sessanta si è avuta la stagione del «centro-sinistra» (con la Dc e il Psi come perni), negli anni settanta si è avuta la stagione della «solidarietà nazionale» (con la collaborazione attiva, ma non nel governo, tra anticomunisti e co-

munisti, e tra Dc e Pci in particolare), negli anni ottanta e primi anni novanta si è avuta la stagione del «pentapartito» (con la Dc e il Psi di nuovo come perni). Insomma, in Italia, per quasi mezzo secolo, si sono registrati mutamenti di composizione partitica 47 zzargini della stessa coalizione di governo: mutamenti, cioè, che hanno segnalato la formazione di diversi equilibri all’interno della coalizione anticomunista, senza mai implicare, però, un’alternanza tra coalizioni.

Così, l’organizzazione politica e istituzionale della democrazia consensuale italiana, esattamente come quella della Francia della Quarta Repubblica, disincentivando l’alternanza al governo, aveva

sollecitato la formazione di maggioranze di governo negative, ovvero di maggioranze «in mancanza di meglio» (Pasquino 1987), in quanto costruite principalmente su esigenze di difesa sistemica. Maggioranze, naturalmente, che si definivano, sul piano governati-

vo, dopo le elezioni, attraverso un lungo processo di negoziazione finalizzato a stabilire l'esatta gerarchia dei poteri all’interno della coalizione di governo che si andava a formare. Così come avviene in tut-

te le democrazie consensuali in cui i governi si formano per via postelettorale (Laver, Shepsle 1994), i partiti italiani sono stati gli esclusivi protagonisti del loro processo di formazione. In presenza di una dinamica partitica a pluralismo polarizzato, tale esclusività ha quindi favorito l'instabilità dei governi, oltre che la (esasperata) lentezza

del loro stesso processo di formazione. Come ha scritto Cotta (1994, 122): «le modalità della formazione dei governi (e quelle speculari della loro dissoluzione) sono (state) uno dei cavalli di battaglia nella critica nostrana alla partitocrazia, ma anche uno dei capisaldi della definizione di party government». Se le maggioranze di governo non potevano che avere un forte carattere centrista, se la loro composizione partitica era generalmente prevedibile, tuttavia la loro esatta composizione ministeriale era il risultato di un lungo processo di negoziazione. Infatti, una volta definiti gli orizzonti dell'accordo interpartitico, il ruolo dei partiti nella formazione dei governi si è esercitato maggiormente nella distribuzione degli incarichi di governo tra i partiti della coalizione piut69

tosto che nella definizione delle loro politiche. Ma, naturalmente, occorre fare delle specificazioni analitiche. Anche perché il governo di partito può essere considerato come un continuum all’interno del quale si possono definire combinazioni diverse tra controllo partitico delle cariche e delle politiche. Se utilizziamo, come uniche combinazioni empiricamente rilevanti per la vicenda italiana di questo periodo, quella del governo di partito organico e quella del governo di partito spartitorio, allora possiamo dire che nel corso della vicenda postbellica si sono alternate fasi (generalmente brevi) di governo di partito organico con fasi (generalmente lunghe) di governo spartitorio. Con la precisazione che le fasi del governo di partito organico sono coincise con i periodi in cui i partiti hanno dovuto definire o ridefinire gli orizzonti dell’accordo possibile tra di essi (quelli cioè che hanno inaugurato le quattro principali stagioni politiche del periodo), mentre quelle del governo di partito spartitorio sono coincise con i periodi di amministrazione di (e all’interno di) orizzonti di già definiti. E infatti, una volta definito l'orizzonte politico-programmatico, e data l'impossibilità dell’alternanza, i partiti hanno potuto stabilmente preoccuparsi, innanzitutto della distribuzione delle cariche di governo, ma poi e soprattutto della gestione particolaristica dell’azione di governo. Perché particolaristica? Sempre Cotta (1996) ha proposto una catalogazione efficace delle politiche di governo perseguite in Italia. In tale catalogazione, esse sono state concettualizzate a tre livelli distinti: il primo, definito come il livello delle «metapolitiche», è quello in cui si definiscono «gli assetti fondamentali» del regime politico; il secondo, definito come il livello delle politiche di «media portata», è quello in cui si definiscono «importanti aspetti della politica economica, sociale, estera e così via»; il terzo, definito

come il livello delle «micropolitiche», è quello in cui si definiscono «le modalità di gestione degli interessi di categoria». Sulla base di questa precisazione si può dire che le fasi del governo spartitorio sono coincise con il controllo partitico delle micropolitiche, mentre solamente nelle fasi di governo organico i partiti hanno dovuto preoc-

cuparsi delle politiche di media portata?. Naturalmente, i partiti (tutti i partiti, ma in particolare i due principali, la Dc e il Pci) non hanno mai cessato di preoccuparsi anche delle metapolitiche, se non al-

tro per alimentare le ragioni del cleavage ideologico-culturale su cui si era venuta a strutturare la democrazia consensuale italiana. 70

Se la preoccupazione preminente dei partiti di governo si è rivolta verso il controllo delle micropolitiche, queste ultime, dal loro canto, si sono rivelate straordinariamente congeniali per favorire l’incontro tra maggioranza di governo e minoranza fuori del governo (Pizzorno 1993). Incontro che, come sappiamo, è avvenuto princi-

palmente all’interno del Parlamento, o meglio nelle sue commissioni deliberanti. Un’esigenza politica che ha contribuito, a sua volta, a strutturare il sistema di governo in direzione progressivamente policentrica (Cotta 1987). Nell’esecutivo, tale strutturazione ha assunto

le caratteristiche del governo «per singoli ministeri»: cioè di un governo in cui ai (ministri dei vari) partiti della coalizione veniva rico-

nosciuta una piena autonomia di direzione dell'ambito governativo ad essi affidato. Nel legislativo, tale strutturazione ha assunto le caratteristiche di un Parlamento a potere diffuso, grazie al suo bicameralismo indifferenziato, alle commissioni con poteri legiferanti che ne hanno organizzato il lavoro, e allo scarso potere di coordinamento dei gruppi parlamentari. E, naturalmente, un Parlamento con caratteristiche di nulla o scarsa centralizzazione istituzionale, con gruppi parlamentari (in particolare quelli dei partiti del centro) poco coesi, è stato un Parlamento poco o punto controllato dal governo. Infatti, poiché il confronto sulle politiche di media portata (le uniche in grado di delimitare programmaticamente la maggioranza rispetto ai partiti esclusi: si pensi alla politica economica o alla politica estera) è stato temporalmente limitato, mentre la regolarità del processo di governo è stata scandita dalle micropolitiche, e poiché queste ultime (proprio per il loro carattere settoriale e di categoria) non potevano delimitare una maggioranza rispetto ad una minoranza, ne è seguito che le micropolitiche hanno rappresentato un terreno straordinario per la formazione di maggioranze ufficiose diverse da quella ufficiale del governo. Dopo tutto, le micropolitiche erano indispensabili anche per il principale partito della sinistra, che era escluso dal governo e che sapeva che mai ci sarebbe entrato, proprio per alimentare i legami con il suo elettorato e mostrare ad esso la sua efficacia legislativa nonostante quella esclusione. Nello stesso tempo, la predominanza delle micropolitiche nell’azione dei partiti della maggioranza e della minoranza, trasformando i partiti in arene di compensazione di interessi corporativi, finiva per sottoporre sia le forze della maggioranza che quelle della minoranza ai rischi della disintegrazione politica ed organizzativa. #1

Di qui la necessità del continuo richiamo alle metapolitiche, le quali, proprio per la loro natura ideologica, consentivano di mantenere i confini simbolici tra i partiti (e tra idue principali in particolare), altrimenti poco distinguibili sul piano degli interessi rappresentati. Con il risultato che le micropolitiche e le metapolitiche si sono alimentate (e giustificate) a vicenda, a danno naturalmente dell’unico livello di politiche, quello intermedio, capace di connotare programmaticamente un governo di partito. Così, il Pci ha potuto adattarsi alla conventio ad excludendum a suo sfavore nell’esecutivo, consentendo alla Dc di dominare quest’ultimo senza trasformare ciò in

un controllo maggioritario dell'intero processo di governo (Di Palma 1990). E tutto ciò sotto il silenzioso patrocinio del presidente della

Repubblica, collocato nel ruolo di garante notarile dello scambio partitico.

Il controllo presidenziale (1992-96) La crisi della partitocrazia resasi manifesta nel 1992 ha drasticamente ridimensionato il ruolo dei partiti nella formazione dei governi (Fabbrini 1996a). Dopo tutto, le elezioni nazionali del 5-6 aprile 1992 avevano messo il paese di fronte ad una situazione nuova: la maggioranza governativa quadripartitica (Dc, Psi, Partito socialdemocratico o Psdi e Partito liberale o Pli — senza più il Partito repubblicano o Pri) che aveva sostenuto il governo Andreotti VII (costi-

tuitosi nell’aprile del 1991) era uscita ridimensionata dalle elezioni senza, però, che una nuova maggioranza si venisse a costituire. Per

di più, il nuovo Parlamento, già precario sul piano dei rapporti di forza tra i partiti, era diventato subito dopo ancora più precario sul piano della legittimazione politica, per via della sequela di avvisi di

garanzia che decimarono politicamente i partiti della precedente maggioranza di governo (Ricolfi 1993). Come se non bastasse, appena insediato, il nuovo Parlamento si trovò di fronte il problema (di grande importanza istituzionale nella fase che si era aperta) dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Sin dalle prime votazioni, si comprese che la precedente maggioranza (messa alle corde dagli elettori, dai movimenti referendari e territoriali e poi dai magistrati delle procure della Repubblica), non era in grado di fare eleggere un proprio esponente. Tant'è fj°/

che fu costretta ad adattarsi a sostenere un altro candidato, il presidente del Senato Oscar Luigi Scalfaro, che, sia pure proveniente dai ranghi del partito fin lì dominante (la Dc), si era distinto per la distanza che aveva mantenuto tra sé e i principali leader della maggioranza pentapartica e quindi quadripartitica (cioè Craxi del Psi, Andreotti e Forlani della Dc). Sia per distinguere se stesso dal precedente presidente della Repubblica (Francesco Cossiga), che aveva dato un inedito carattere di «critica al parlamentarismo» all’ufficio presidenziale, e sia per convinzione personale, il neoeletto presidente della Repubblica confessò subito, nel suo discorso di investitura,

di essere un ammiratore e di voler essere un servitore della democrazia parlamentare. Tuttavia, in presenza di un sistema di partito in evidente destrutturazione e di fronte all’incapacità del Parlamento di produrre una maggioranza stabile, quella dichiarazione dimostrerà ben presto di avere le gambe corte. Infatti, r24/gré monsieur le President, i poteri presidenziali, peraltro ambiguamente regolati dalla Costituzione (Merlini 1995), finiranno per conoscere un vero e

proprio allargamento. Dopo tutto, rileverà in un’intervista lo stesso Scalfaro quasi alla fine del suo settennato (citato in Ceccanti 1998a, 327), «i compiti del capo dello Stato hanno un’ampiezza diversa se tutti gli organismi funzionano (ma hanno) un’ampiezza maggiore se (questi ultimi) sono in stato di sofferenza grave». Si pensi al suo potere di nomina del presidente del Consiglio (così come previsto dall’art. 92 $ 2 della Costituzione). Ora, se tradizionalmente i presidenti della Repubblica erano stati costretti ad anteporre l’istituto dell’«incarico» (non previsto, naturalmente, dalla

Costituzione) a quello della «nomina», proprio perché i candidati alla presidenza del Consiglio dovevano verificare il grado di accettabilità dei partiti nei loro confronti e nei confronti della loro proposta di formazione del governo, con l’esito che molti «incarichi» non si erano mai trasformati in «nomine», con il 1992 i confini tra «in-

carico» e «nomina» si faranno sempre più sfumati (Ceccanti, Fabbrini 1995, 262-263). Una tendenza, peraltro, che continuerà anche

dopo il 1996 (vedi Appendice A, Tab. A.3). Già con Amato e poi soprattutto con Ciampi e Dini, il presidente della Repubblica affida un «incarico» che è da tutti percepito come una «nomina». Tant'è che i tre incaricati furono in grado di «sciogliere positivamente la riserva» (facendosi quindi «nominare» dal presidente della Repubblica,

perché sicuri che il loro governo avrebbe ricevuto formalmente la fi73

ducia delle due Camere del Parlamento) in tempi (allora) da record: dieci giorni nel caso di Amato e ben due giorni nel caso di Ciampi e quattro giorni nel caso di Dini (mentre erano stati, ad esempio, ventotto nel caso di De Mita nel 1988). Così, a fronte di partiti delegittimati e di un Parlamento incapace di produrre maggioranze alternative, si è venuto a creare uno spazio di influenza senza precedenti

per l’azione «governativa» del presidente della Repubblica. Per di più, se nell’inaugurazione del governo Amato era ancora palese l’influenza dei partiti della precedente maggioranza nella distribuzione delle cariche di governo, oltre che nella stessa individuazione del candidato alla presidenza del Consiglio, tale influenza venne progressivamente a scemare quando, tra il febbraio e il marzo del 1993, ci si era trovati in presenza della necessità di sostituire, di quel governo, ben cinque ministri perché costretti a dimettersi per l’arrivo di avvisi di garanzia a loro carico (anche se solo quattro di essi furono poi sostituiti), oltre ad altri tre ministri4. In tutti questi casi, l'influenza del presidente della Repubblica era stata predomi-

nante rispetto a quella dei quattro partiti (Dc, Psi, Psdi e Pli) che pur continuavano a sostenere formalmente il governo (Amato 1994). Un’influenza che raggiungerà quindi il suo punto più alto con la formazione del governo Ciampi nell’aprile del 1993, sia per quanto riguarda la scelta dello stesso presidente del Consiglio (tra l’altro, Ciampi era allora governatore della Banca d’Italia, divenendo così il primo presidente del Consiglio non parlamentare nella storia repubblicana) che per quanto riguarda la composizione della lista di ministri (definita esplicitamente insieme dal presidente della Repubblica e dal candidato alla presidenza del Consiglio) (vedi Appendice A, Tab. A.4). Come ha scritto lo stesso Ciampi (1996, 7):

L’incarico di formare il governo mi era stato conferito dal capo dello Stato senza che vi fosse stata un’indicazione nominativa da parte delle forze politiche. Il governo era stato formato in quarantotto ore, senza che, quale presidente incaricato, svolgessi le tradizionali consultazioni con i gruppi parlamentari e le segreterie dei partiti.

Dunque, molte testimonianze confermano che nel rimpasto del governo Amato e nella composizione del governo Ciampi i leader dei principali partiti parlamentari avevano conosciuto solo successivamente alla formazione della lista i nomi dei ministri. Lo stesso pro74

gramma di governo, in particolare nella formazione del governo Ciampi, sostanziava un’agenda di priorità di politiche, derivata primariamente dall’interpretazione data dal presidente della Repubblica dei problemi nazionali. Basti ricordare che il governo Ciampi si formò all'indomani dei referendum elettorali del 18 aprile del 1993 (Pasquino, Vassallo 1994), in cui a larghissima maggioranza venne abolito il sistema elettorale proporzionale fino ad allora vigente nel paese. E fu proprio il presidente della Repubblica ad assumersi l’impegno «personale» di fare approvare dal Parlamento il pacchetto di provvedimenti che il governo si sarebbe accinto a presentare (e innanzitutto la nuova legge elettorale che avrebbe dovuto essere approvata «sotto dettatura» della volontà popolare, oltre che sotto pressione del governo voluto dal presidente della Repubblica). L’influenza acquisita dal presidente della Repubblica nella formazione del governo diventerà fonte di forti contrasti istituzionali in occasione del terzo governo del periodo successivo al 1992, quello di Berlusconi. La ragione è presto detta: questo governo, contraria-

mente ai due precedenti, era un governo politico (di centro-destra allargato alla Lega Nord) e non già tecnico (e, quindi, a legittimazione presidenziale). Il governo Berlusconi nasce, infatti, dalle elezioni nazionali del 27-28 marzo 1994, cioè dalla prima competizio-

ne svolta nelle condizioni del nuovo sistema elettorale. Tuttavia, per la natura delle alleanze che si realizzarono in quell’occasione, quelle elezioni finirono per celebrare la sconfitta della sinistra e del centro, piuttosto che la vittoria della destra. Infatti, il polo (di destra) vincente si presentò in forma di due distinte alleanze al Nord e al Sud del paese, con il tratto in comune che in entrambe le alleanze il partito predominante era lo stesso (cioè Forza Italia o Fi, alleata al Sud con il Movimento sociale o Msi — quindi divenuto Alleanza nazionale o An - nel Polo del buon governo e al Nord con la Ln nel Polo delle libertà). Quindi, più appropriatamente, era stata Fi ad avere vinto «politicamente» le elezioni, dimostrandosi straordinariamente capace nel collegare indirettamente forze politiche (Msi-An e Ln) manifestamente inconciliabili (su tali elezioni, si vedano i volumi cu-

rati da Bartolini, D’Alimonte 1996 e da Pasquino 1995). Anche se la somma delle due distinte suballeanze aveva dato vita ad una maggioranza netta alla Camera, ma assai risicata se non ine-

sistente al Senato (vedi Appendice A, Tab. A.4), il presidente della Repubblica non poteva che prendere atto del successo di Fi, incari75

cando il suo leader a dare vita al nuovo governo. Ma tale incarico, tuttavia, fu tutt'altro che formale. Tant'è che esso venne affidato il

30 aprile, dopo un intenso mese di consultazioni con ivari leader di partito (mentre il nuovo Parlamento era stato insediato il 15 aprile), e tradotto quindi in nomina il 10 maggio successivo. Non solo, ma nel momento in cui lo affidò, il presidente della Repubblica venne ad assumere un’esplicita funzione di tutela politica del nuovo governo: sia perché il leader di Fi, e quindi il presidente del Consiglio incaricato, continuava a disporre di un potere economico privato (con una forte presenza in un settore per di più cruciale per la democrazia come quello delle telecomunicazioni) non conciliabile con le nuove funzioni pubbliche che avrebbe dovuto assolvere, e sia perché la sua stessa maggioranza appariva come tutt’altro che coesa. Tale funzione di tutela da parte del presidente della Repubblica si esplicò su entrambi gli ambiti dell’azione di governo. Per quanto riguarda le politiche di governo, rendendo noto il 10 maggio il carteggio da lui avuto con il presidente del Consiglio incaricato, in cui indicava i confini (peraltro già precisati in un intervento del 26 aprile) entro cui avrebbero dovuto muoversi i nuovi ministri”. E sia per quanto riguarda le cariche di governo® invitando a più riprese il presidente del Consiglio incaricato a scegliere «ministri che godono del rispetto interno ed esterno»”. Date queste premesse, non può stupi-

re che i 7 mesi e 12 giorni del governo Berlusconi siano stati sca-

denzati da continue tensioni con la presidenza della Repubblica, la cui invadenza «governativa» veniva peraltro giustificata anche dalla non risoluzione, da parte del presidente del Consiglio, del preoccu-

pante (per la democrazia) conflitto di interessi che lo riguardava personalmente. Pur se sottoposto alla vigilanza del presidente della Repubblica, il governò Berlusconi, in realtà, interruppe decisamente la vicenda dei due governi precedenti (e di quello di Ciampi in particolare), ritornando (per necessità, più che per volontà) alla pratica dei governi di coalizione. Così, le cariche governative furono di nuovo stabilite dai partiti della coalizione, i quali se le distribuirono secondo i

criteri negoziali della politica di coalizione, con gli inevitabili corollari della conflittualità infracoalizionale. Così, venne re-istituita la vi-

cepresidenza del Consiglio, quindi sdoppiata per poterla assegnare ad esponenti dei due maggiori partiti (anche se solamente l’esponente di An si vedrà investito del potere vicario di sostituire, in caso 76

di assenza, il presidente del Consiglio). Fi ottenne il numero maggiore di ministri (8), mentre gli altri due maggiori partner (An e Ln) ne presero 5 a testa. I ministri non parlamentari vennero drasticamente ridimensionati (erano solamente 3, cioè l'11,1% del totale dei ministri), mentre erano stati 5 nel governo Amato prima del rimpa-

sto (cioè il 20% del totale dei ministri) e 13 nel governo Ciampi (cioè il 52% del totale dei ministri). Così, le cariche di viceministro ven-

nero utilizzate sia per bilanciare le cariche di ministro (al punto che al ministero degli Interni voluto da Ln, vennero nominati ben 3 viceministri, di cui due di Fi e uno di An), sia per soddisfare le richie-

ste dei partiti della coalizione per quanto riguarda la loro presenza nei principali ministeri (al punto che all’indipendente ministero del Tesoro furono nominati ben 4 viceministri, uno per ognuno delle maggiori forze della coalizione, Fi, An, Ln e Ccd, ovvero il gruppo dei cristiano-democratici emerso dalla diaspora democristiana). I partiti della coalizione vennero infine autorizzati a dare vita a proprie «delegazioni al governo» con i relativi portavoce. Dunque, se il governo Berlusconi era riuscito ad interrompere la vicenda del governo di partito residuale, tuttavia esso non si dimostrò in grado di rilanciare il governo di partito organico. E ciò non solo per l’influenza in precedenza acquisita dalla presidenza della Repubblica, ma anche per la forte conflittualità sulle politiche che ben presto si era accesa al suo interno (tra Ln e gli altri partner della coalizione) e che quella influenza legittimava, conflittualità che porterà poi alla sua rapida crisi (Berlusconi rassegnerà le dimissioni il 22 dicembre 1994). È d’interesse rilevare che, dal punto di vista

della durata, quella del governo Berlusconi è addirittura inferiore alla durata media (12 mesi e 1 giorno) dei governi del periodo 195494 (vedi capitolo I), oltre che (naturalmente) alla durata media (11

mesi e 5 giorni) dei governi del periodo 1948-92. Va da sé che la contraddittoria legge di riforma elettorale (con cui erano state condotte le elezioni nel marzo 1994) aveva giocato la sua parte di responsabilità nella prematura crisi di quel governo. Tuttavia, la ragione principale di quel fallimento è da ricercare nella fluidità degli schieramenti partitici emersi dalla crisi esplosa nel 1992. Così, dopo le dimissioni del governo Berlusconi, si ritornò al governo di partito residuale presieduto da Dini (Pasquino 1996a). Anche in questo caso fu il presidente della Repubblica il protagonista della soluzione della crisi, sulla base di un consenso parlamentare 10)

previamente ed esplicitamente ricercato (Negri 1996). Un consenso che, invece, non era stato ricercato, almeno in questi termini, in oc-

casione della formazione del governo Ciampi. Il 17 gennaio del 1995, il nuovo governo Dini si insediava sulla base della formazione di una nuova maggioranza parlamentare, grazie all’inedita alleanza tra Ln e i partiti sconfitti (di centro e di sinistra) nelle elezioni del precedente marzo, anche se nei fatti tale insediamento fu reso possibile dall’astensione dei partiti che avevano sostenuto il governo Berlusconi (tant'è che il nuovo governo si configurò come un governo di minoranza, avendo ottenuto alla Camera solamente 302 voti a favo-

re, rispetto ai 316 necessari)8. Nella formazione del nuovo governo i partiti che lo avevano sostenuto hanno avuto un’influenza pressoché nulla nella distribuzione delle cariche di governo? (i ministri furono di nuovo scelti dal presidente della Repubblica insieme al presidente del Consiglio!°): e per la prima volta nella storia repubblicana sono risultati tutti non parlamentari e quasi tutti non membri di partito (vedi Appendice A, Tab. A.1). Ma anche sul piano della definizione delle politiche del governo i partiti hanno avuto un'influenza piuttosto limitata. D'altra parte, il governo Dini si era impegnato a perseguire obiettivi limitatissimi (quattro punti), assumendosi per di più l’impegno formale delle dimissioni appena quegli obiettivi sarebbero stati realizzati: obiettivi che riflettevano il senso comune delle priorità nazionali, più che il programma specifico dei partiti.

Il «decision-making» governativo (1948-92) Nonostante l’art. 95 $ 1 della Costituzione affermi solennemente che «il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri», il capo dell’esecutivo italiano è stato solo raramente qualcosa di più di un primo tra eguali!!. Dopo tutto, lo stesso articolo sopra citato, dopo aver celebrato il ruolo del presidente del Consiglio, si premurava immediatamente di precisare nel comma successivo che «i ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri e individualmente degli atti dei loro dicasteri». Ecco perché, data la natura coalizionale dell’esecutivo, quest’ultimo è venuto ad essere necessariamente interpretato come la proie-

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zione delle segreterie dei partiti contraenti il patto di coalizione, rappresentate all’interno dell’esecutivo, appunto, dai rispettivi ministri. Va da sé che la distribuzione delle posizioni ministeriali era commisurata al peso elettorale dei rispettivi partiti, ovvero delle correnti al loro interno, o meglio al successo in termini di preferenze personali dei singoli esponenti politici (Calise, Mannheimer 1982). E poiché gli indirizzi di politica dell’esecutivo venivano stabiliti all’esterno dell’esecutivo stesso, cioè nelle trattative fra i partiti della coalizione, ne è seguito che il suo organismo di direzione (la presidenza del Consiglio), privato di qualsivoglia autonomia programmatica, non aveva potuto

sviluppare una sua autonomia decisionale. Dopo tutto, in una democrazia a leadership implicita, vengono premiati i leader con un ruolo transattivo e non trasformativo (Fabbrini 1999b; Cavalli et a/. 1995). E infatti, come ha scritto Cotta (1988, 133), il primo ministro, alme-

no fino alla metà degli anni ottanta, ha esercitato un’influenza «quando ha assunto il ruolo di mediatore tra i diversi attori dell’arena governativa». Naturalmente, non sono mancati i leader politici che, in particolari condizioni ambientali, sono riusciti ad imporre le proprie preferenze politiche a partner di coalizione riottosi, oppure al proprio stesso partito. Tuttavia, questi leader hanno rappresentato l’eccezione e non la regola. La regola è stata quella di governi (per così dire) «acefali» (per usare l’espressione di Cavalli 1992, 237), cioè privi di una guida politica esplicita (Fabbrini 1999b). Regola sostenuta dalla pratica rigorosamente rispettata, all’interno del partito predominante (la Dc) dei governi postbellici, di tenere divisi i ruoli di capo del partito e di capo del governo: proprio per evitare il «rischio» che la loro sovrapposizione fornisse il governo di un capo effettivo. Date queste caratteristiche del governo di coalizione, non può stupire che la struttura organizzativa della presidenza del Consiglio sia stata tradizionalmente debole e inefficace. Infatti, una presidenza del Consiglio robustamente organizzata avrebbe alterato gli equilibri tra i partner della coalizione, a tutto vantaggio del partito in grado di controllarla. Così concludeva un’indagine sulla presidenza del Consiglio di quel periodo Hine (1988, 215): Il sostegno tecnico che il primo ministro riceve è [...] scarso. Non c’è uno specifico segretariato del Cabiret. L'ufficio del primo ministro ospita una serie di agenzie funzionali specializzate di poca utilità per il primo ministro e che non si capisce perché siano state collocate lì.

79

Il presidente del Consiglio ha potuto usufruire di una sorta di Cabinet personale, costituito di alcuni pochi amici di corrente, che ha parzialmente ovviato all’assenza di una vera struttura di staff; un piccolo Cabinet al cui interno un ruolo importante veniva esercitato dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, aiutato organizzativamente dal capo di Gabinetto della stessa. Ma il punto è che, in entrambi i casi, la loro attività era stata finalizzata a tenere sotto controllo i rapporti con il Parlamento (e, quindi, con i partiti della coalizione di governo) e non con gli altri ministri e con i vari diparti-

menti esecutivi. Insomma, anche lo stesso Cadizet personale doveva aiutare il presidente del Consiglio ad esercitare il ruolo di mediatore nella coalizione, piuttosto che a rafforzare le sue capacità di direzione del governo. Questa situazione cambiò con gli anni ottanta. Il declino politico ed elettorale del Pci e le difficoltà attraversate dalla Dc spinsero la nuova coalizione di governo, il pentapartito, in direzione di una maggiore coesione verso l'esterno e di un maggiore equilibrio tra le sue componenti interne (Pasquino 1994). In particolare, la progressiva ascesa politica, più che elettorale, del Psi spinse questo partito a ri-

valeggiare con la Dc per il ruolo di pivot della coalizione e quindi per fare del suo segretario il leader di punta della coalizione di governo. Così, sia per i limiti di farraginosità universalmente denunciati del «governo per singoli ministeri» (cioè del governo parcellizzato, organizzato intorno a substrutture governative dotate di una propria autonomia decisionale e collegate autonomamente alle correlate commissioni parlamentari; Merlini 1991) e sia per l’influenza esercitata dalla forte leadership socialista nel periodo 1983-87 (dimostratasi capace di imporre un’agenda precisa al governo e una continuità alla sua azione; Fabbrini 1994a), la presidenza del Consiglio fu sottoposta ad innovazioni organizzative, innovazioni che hanno progressivamente rafforzato il suo ruolo nel sistema di governo (e, con esso, quello del presidente del Consiglio) (Cassese 1986). Innovazioni quindi culminate nell’approvazione di un'importante legge di riforma, la n. 400 del 1988. Tale legge, peraltro, attuerà finalmente (Manzella 1991a), sia pure con ben quarant’anni di ritardo, un im-

pegno costituzionale alla più precisa definizione dei compiti dell’organismo di governo (recita, infatti, l’art. 95 della Costituzione che «la legge provvede all'ordinamento della presidenza del Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei ministeri»). 80

La riforma del 1988 Due caratteristiche di questa legge devono essere sottolineate. Innanzitutto, la legge riconosce notevoli poteri regolamentari al governo, favorendo la delegificazione di molte materie amministrative,

poteri che, peraltro, il governo si era conquistato da tempo e che quindi svilupperà successivamente (Calise 1997), al punto da dare vita ad una sorta di autonomia legislativa dell’esecutivo (De Siervo 1992)!2. Anche se è stato soprattutto il processo di integrazione europea che ha fornito al governo la spinta per aumentare tali poteri, a cominciare dalla definizione delle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari ovvero da quelle relative alla partecipazione al processo normativo comunitario (1. 146/1990, art. 18), fino

al regolamento per il recepimento delle disposizioni comunitarie (I. 428/1990, art. 4).

In secondo luogo, la legge ha definito più rigorosamente la struttura organizzativa su cui far poggiare sia l’azione della presidenza del Consiglio che quella del presidente del Consiglio. Per quanto riguarda la prima, la legge ha disposto l’istituzione di un Ufficio di segreteria della presidenza del Consiglio, con compiti di coordinamento interno al Consiglio dei ministri; un Consiglio di gabinetto (organismo che, peraltro, istituzionalizzava un'esperienza già avviata dai due governi Craxi del periodo agosto 1983-aprile 1987, vedi Appendice A, Tab. A.5) costituito dai ministri più influenti dell’esecutivo (influenza dovuta, naturalmente, al loro ruolo di rappresentanti ufficiosi dei partiti della coalizione), con compiti di supervisione dell’indirizzo del governo; alcuni comitati interministeriali su materie particolarmente rilevanti (il loro numero venne comunque ridotto rispetto alla pratica che si era realizzata in precedenza); un vicepresidente del Consiglio, con compiti di riequilibrio tra i principali partiti della coalizione di governo. Per quanto riguarda il presidente del Consiglio, la legge cercò di dare ordine alla congerie di strutture esistenti nella presidenza del Consiglio, anche se si è trattato di una razionalizzazione dell’esistente piuttosto che di una vera e propria ridefinizione funzionale di quest'ultima!. Inoltre, al presidente del Consiglio venne riconosciuta la possibilità di dare vita, con un suo decreto, ad uffici 24 hoc e a gruppi di studio e di lavoro, e comunque a riorganizzare quelli esistenti con un certo grado di discrezionalità!4. Sempre per quanto riguarda 81

l’ufficio del presidente del Consiglio, ed è questo l’aspetto più rilevante, venne autorizzata la creazione di un vero e proprio Segretariato generale, con a capo il segretario generale della presidenza del Consiglio, che ben presto ha finito per assumere il ruolo di supporto strategico del presidente del Consiglio. Ciò perché all’interno del Segretariato generale furono collocate quelle strutture organizzative (15 unità) che aiutano il presidente del Consiglio nella sua attività di direzione e coordinamento del programma di governo!5. La ridefinizione organizzativa sia della presidenza del Consiglio che dell’ufficio del presidente del Consiglio ha portato anche ad una notevole espansione quantitativa del personale impiegato nei vari organismi di supporto dell’uno e dell’altro!5, Se queste sono le caratteristiche funzionali e organizzative della nuova legge, a quale modello di esecutivo esse rinviano? La nuova legge ha perseguito tutte e tre le possibili strategie di distribuzione dei poteri decisionali all’interno di un cabinet system, e cioè quella collegiale, quella oligarchica e quella primoministeriale (Andeweg 1993, 33). Infatti, per quanto riguarda la strategia collegiale, essa non solo ha riconosciuto l'autonomia dei singoli ministeri (così come garantita dalla Costituzione), ma ha imposto esplicitamente che tutte le principali decisioni di indirizzo governativo (art. 2) e tutte le principali decisioni di nomina del personale governativo (art. 3) venissero prese dal Consiglio dei ministri nel suo insieme. Inoltre, spetta al Consiglio dei ministri approvare l’eventuale proposta del presidente del Consiglio di porre le Camere di fronte alla questione della fiducia al governo (art. 2 $ 2), così come spetta al Consiglio dei ministri di risolvere eventuali conflitti di competenza tra ministri. Si tratta, come si vede, di una serie di prescrizioni che favoriscono il modello collegiale di esecutivo!7, se assumiamo come modello collegia-

le quello nel quale «tutti i ministri hanno una influenza equivalente nel processo decisionale» (Andeweg 1993, 26). Per quanto riguarda la strategia oligarchica, e se concordiamo sempre con Andeweg (1993, 28) che «l’indicatore par excellence di un cabinet system oligarchico è costituito dall’esistenza di un inzer cabinet», la nuova legge ha formalizzato le due cruciali istituzioni del Consiglio di gabinetto e della vicepresidenza del Consiglio. Tali istituzioni, che erano state ampiamente utilizzate dai governi (detti del pentapartito) precedenti la legge, furono utilizzate da quelli ad essa successivi, fino alla crisi del 1992 (vedi Appendice A, Tab. A.5). Al82

trettanto significativamente, tali organismi coalizionali saranno del tutto dimenticati dai tre governi tecnici successivi al 1992, quali quello di Amato, di Ciampi e di Dini. Ma non dal governo Berlusconi, che sarà invece costretto, come abbiamo visto, a riattivare l’istituto della

vicepresidenza, sdoppiandolo addirittura per poter soddisfare le esigenze degli altri due partner rilevanti della coalizione (oltre a Fi). Infine, per quanto riguarda la strategia primoministeriale, la nuova legge ha fornito al presidente del Consiglio strutture e poteri che ne hanno rafforzato non poco le capacità di direzione del governo (tant'è che le stesse strutture sono state organizzate secondo uno schema gerarchico che va dal segretario generale ai dipartimenti, agli uffici, ai servizi, con la possibilità di costituire uffici a sé stanti, non

inseribili né in un dipartimento e né in un servizio). Per di più, il presidente del Consiglio, qualora ritenesse un atto di un singolo ministro incoerente con l’indirizzo del governo, può sospenderlo, rinviandone la valutazione, però, al Consiglio dei ministri (art. 5). Di sicuro, l'aspetto monocratico più rilevante in proposito è rappresen-

tato dal vincolo, imposto ai singoli ministri, di concordare con il presidente del Consiglio eventuali loro dichiarazioni pubbliche su materie connotanti l’indirizzo politico del governo. Vale la pena di sottolineare che la coesistenza di questi tre differenti modelli di organizzazione del processo decisionale governativo non è contraddittoria, se è vero che le istituzioni tendono generalmente a svilupparsi per stratificazioni successive (Panebianco 1995). Non può stupire, quindi, che sia stata la politica ad aver declinato, a favore dell’uno o dell’altro modello di esecutivo, l'ambiguità di

indirizzi presente nella legge in questione. Prima il crollo del vecchio sistema dei partiti (tra il giugno 1992 e l’aprile 1994) e poi la nascita (tra il gennaio 1995 e il gennaio 1996) di un nuovo assetto partitico (assetto, più che «sistema», proprio per la sua incerta istituzionaliz-

zazione) hanno consentito ai tre governi tecnici di quel periodo di trascurare del tutto quelle innovazioni finalizzate a razionalizzare la politica collegiale e oligarchica della coalizione e di valorizzare, al contrario, le opportunità di rafforzare la capacità di direzione del governo da parte del presidente del Consiglio. Ha scritto, ad esempio, Ciampi (1996, 9): Vi fu [...] in quell’esperienza di governo [...] la volontà ferma di rafforzare le responsabilità dell'Esecutivo, esercitando appieno le sue at-

83

Tabella 5. Ministri membri di partito nei governi Amato, Ciampi e Dini (valori assoluti e percentuali di riga) Governo

Membro di partito

i MIR ni non membro

IRA membro

Totale

Amato

3 12,0%

22 88,0%

25 100%

Ciampi

13 52,0% 15) 95,0%

12 48,0% 1 5,0%

25: 100% 20 100%

Dini

Totale

35

35

50,0%

50,0%

70 100%

Nota: i dati si riferiscono alle liste dei ministri tratte dai numeri di presentazione dei diversi governi della rivista «Vita italiana». Per il governo Ciampi, viene considerata la composizione dopo le dimissioni dei ministri rappresentanti del Pds.

tribuzioni istituzionali [...] Venne così recuperato l’esproprio che aveva spostato i centri decisionali effettivi nelle segreterie dei partiti, nei contatti e nei rapporti più o meno occulti che precedevano le riunioni del consiglio dei ministri; si sovrapponevano al suo lavoro; giungevano a influenzare, vincolare l’attività stessa del Parlamento.

Non così era avvenuto nel caso dell’unico governo politico di questo periodo, obbligato anzi ad un estenuante lavoro di coalitiontuning, comunque insufficiente a mantenere unita la propria coalizione. Tant'è che le uniche innovazioni organizzative da esso intro-

dotte si sostanziarono in un rafforzamento sia dello staff personale del presidente del Consiglio che dello staff preposto alla comunicazione pubblica della presidenza del Consiglio. Dunque, tra il 1992 e il 1996, prepotentemente sospinto dalla cri-

si della partitocrazia, il party government italiano è stato progressivamente ridimensionato. Dopo una successione, per quarant'anni, di

fasi brevi di governo di partito orgarzco e fasi assai più lunghe di governo di partito spartitorio, in quei quattro anni si è registrata una fase

quasi ininterrotta di governo di partito residuale, ovvero di governo tecnico. Si è trattato di un caso senza precedenti nella vicenda repubblicana postbellica. Se si considerano i tre governi tecnici di Amato, 84

Tabella 6. Ministri con esperienza parlamentare nei governi Amato, Ciampi e Dini (valori assoluti e percentuali di riga) Governo

Seggio parlamentare pla E no

Amato

Totale



4

2A

25

Ciampi

16,0% 12

84,0% 13

100% 25)

Dini

48,0% 18

52,0% 2

100% 20

Totale

90,0% 34

10,0% 36

100% 70

48,6%

51,4%

100%

Nota: i dati si riferiscono alle liste dei ministri tratte dai numeri di presentazione dei diversi governi della rivista «Vita italiana». Per il governo Ciampi, viene considerata la composizione dopo le dimissioni dei ministri rappresentanti del Pds.

Ciampi e Dini singolarmente, e assumendo come base di calcolo il numero totale dei loro ministeri, si arriva a conclusioni inequivocabili circa la scarsa o scarsissima rilevanza dei partiti al loro interno. I «non membri» di partito sono cresciuti impetuosamente dall’uno all’altro governo (vedi Tab. 5), così altrettanto impetuosamente sono cresciuti i ministri «senza un seggio parlamentare» al momento del loro primo incarico governativo (Tab. 6) e, di conseguenza, è cresciuto altrettanto impetuosamente il numero degli outsiders (Tab. 7). Insomma, in questo periodo, e con l'eccezione della seconda metà del 1994, la formazione dei governi che si sono succeduti non è più dipesa dalle scelte dei partiti. Nel processo di formazione di quei governi, inoltre, un ruolo determinante è stato esercitato dal presidente della Repubblica. Gli stessi processi decisionali interni al governo hanno messo in luce la progressiva preminenza del presidente del Consiglio, anche se si è trattato di una preminenza subordinata alle scelte della presidenza della Repubblica, in quanto derivata dalla fiducia personale che il presidente del Consiglio aveva ricevuto dal presidente della Repubblica. Tale preminenza, a sua volta, è stata resa possibile dalla pur contraddittoria riforma della presidenza del Consiglio avviata legislativamente nel 1988. 85

Tabella 7. Tipi di ministri nei governi Amato, Ciampi e Dini (valori assoluti e percentuali di riga) Governo

Amato

Ciampi Dini

Totale

e insiders

20 80,0%

Tipo di ministro NITTO SIP IRE outsiders 6

Totale

4 16,0%

1 4,0%

12

13

-

25

48,0%

52,0%

-

100,0%

Lo 95,0%

-

20 100,0%

1 5,0%

33

36

47,1%

51,4%

il 1,9%

25 100,0%

70 100,0%

Nota: i dati si riferiscono alle liste dei ministri tratte dai numeri di presentazione dei diversi governi della rivista «Vita italiana». Per il governo Ciampi, viene considerata la composizione dopo le dimissioni dei ministri rappresentanti del Pds. I ministri Ossicini, Reviglio e Spaventa sono stati considerati in questa tabella alla stregua di ministri outsiders per le loro qualità preminentemente tecniche.

Un «semipresidenzialismo» alternante? In Italia, quando la competizione elettorale non è stata più in grado di produrre una maggioranza parlamentare (per via della crisi del vecchio sistema di partito dopo le elezioni del 5-6 aprile 1992), o comunque una maggioranza parlamentare attendibile (come è avvenuto dopo le elezioni del 27-28 marzo 1994, per via dell’interna incoerenza della coalizione vincente), allora i poteri della presidenza della Repubblica hanno teso ad espandersi straordinariamente sia nel campo della formazione che della stessa azione di governo. Si è trattato di un’espansione sistemica, nel senso che essa ha avuto poco o punto collegamento con la personalità del presidente della Repubblica: tant'è che tale espansione «presidenzialista» dei poteri del presidente della Repubblica è avvenuta con un presidente dichiaratamente «parlamentarista». Come ha rilevato Pasquino (1999a, 408): Il paradosso della presidenza di Scalfaro è stato che il presidente, sebbene fosse un noto sostenitore del Parlamento ed un ostinato difensore delle sue prerogative, ha finito per agire come un presidente presidenziale, in quanto ha utilizzato il suo formidabile peso politico per favorire i primi ministri e le soluzioni governative da lui preferite. 86

Non poteva essere altrimenti. Come ha dichiarato lo stesso Scalfaro in un’intervista (ora in Ceccanti 1998a, 327), «ho dovuto sce-

gliere io tre governi sui cinque che ho tenuto a battesimo, perché il Parlamento non era in condizioni di dare quell’apporto costituzionale [...] per la situazione patologica [in cui si trovava]». Il declino del governo di partito è coinciso anche con una marginalizzazione del Parlamento nello stesso processo legislativo. Anche se tale marginalizzazione decisionale del Parlamento data da tempo, tuttavia essa ha registrato una brusca accelerazione nelle due legislature del periodo qui considerato. Basti considerare i dati relativi alle leggi approvate dal Parlamento. Se si considerano le due legislature in questione con quella immediatamente precedente (la X del quinquennio 1987-92), si rileva immediatamente la crescita impetuosa dei decreti legge (vedi Appendice A, Tab. A.6) e il declino apparentemente irreversibile delle leggi di iniziativa parlamentare (vedi Appendice A, Tab. A.7). Ad esempio, nella XII legislatura dei governi Berlusconi e Dini, il 90% circa delle leggi approvate dal Parlamento sono state di iniziativa del governo (ma non va sottovalutato il fatto che le leggi di iniziativa governativa approvate dal Parlamento nell’ultima legislatura precedente la transizione furono ben il 65% delle leggi complessivamente approvate). Insomma, nelle due legislature del governo di partito residuale, si è governato tramite decreto, con il Parlamento impegnato principalmente a convertire questi ultimi in disegni di legge. Un paradosso non da poco: un Parlamento schiacciato dal governo, ma da un governo privo di una forza parlamentare autonoma, perché dipendente dal sostegno del presidente della Repubblica, che a sua volta non aveva alcun obbligo di rendiconto nei confronti del Parlamento stesso. Naturalmente l’espansione dei poteri presidenziali non è avvenuta contro la Costituzione, ma in virtù, come abbiamo visto, di

un’ambiguità presente nella Costituzione stessa circa il ruolo proprio del presidente della Repubblica nel sistema istituzionale. Fatto si è che il presidente della Repubblica si è assunto in misura crescente compiti governativi, nonostante venga eletto (art. 83) indirettamente dal Parlamento riunitosi in seduta comune con la presenza di tre delegati per ogni regione (un delegato per la sola Val d’Aosta) (art. 83 $ 2) e nonostante venga ritenuto «non responsabile degli atti compiuti nell'esercizio della sua funzione» (art. 90). Anche se la Costituzione (art. 92 $ 2) riconosce al presidente della Repubblica il 87

compito di nominare il presidente del Consiglio dei ministri «e, su proposta di questo, i ministri», essa non può riconoscergli, nello spirito prima ancora che nella lettera, quello di garantire o controllare, politicamente il governo. Nondimeno, privo di efficaci contropoteri istituzionali (poiché le altre istituzioni di garanzia, a cominciare dalla corte costituzionale, tradizionalmente controllate dai partiti, avevano finito per risentire negativamente della crisi di questi ultimi), il presidente della Repubblica è venuto ad esercitare un ruolo non dissimile da quello del presidente della Quinta Repubblica francese (che però è eletto dagli elettori di quel paese ed è costretto a rendere conto a questi ultimi e quindi all'opposizione delle scelte politiche compiute nell’esercizio del suo mandato; Fabbrini 1995b). In un suo saggio, Sartori (1995b, cap. IX), sulla base di un’analisi comparativa, aveva formulato per l’Italia una proposta di riordino istituzionale quindi definita come «presidenzialismo alternante». Tale proposta si basava su un automatismo istituzionale in virtù del quale, se il Parlamento non si dimostrava in grado di dare vita ad uno o

due governi stabili secondo le modalità proprie del sistema parlamentare, la legislatura non veniva interrotta ma il potere di governo veniva trasferito direttamente al presidente della Repubblica, eletto in precedenza dagli elettori, che ne poteva disporre secondo le modalità proprie di un sistema presidenziale. Sia nell'esperienza del governo Amato, e poi soprattutto in quella dei governi Ciampi e Dini, ma anche nell’esperienza del governo Berlusconi, il presidente della Repubblica è venuto ad esercitare di fatto un ruolo di governo: anche se si è trattato di un ruolo più proprio dei presidenti «semipresidenziali» che «presidenziali» (perché necessitato a ricorrere comunque alla successiva fiducia parlamentare dei governi da lui promossi). Così in Italia, tra il 1992 e il 1996, si è venuto ad attivare una sor-

ta di semipresidenzialismo (invece che di presidenzialismo) alternante, anche se non ovviamente nei termini proposti da Sartori: il po-

tere costituzionale del Parlamento di dare vita al governo è stato trasferito (o si è trasferito) al presidente della Repubblica, una volta che è risultato evidente che il Parlamento non era in grado di farne l’uso costituzionalmente previsto. Infatti, almeno tre dei quattro governi di quel periodo sono stati sostenuti (cioè garantiti) primariamente dalla fiducia del presidente della Repubblica, oltre che da

quella delle istituzioni monetarie e finanziarie europee, e solo successivamente da quella del Parlamento. 88

Ma se così è stato, tuttavia non vi è dubbio che il «semipresidenzialismo» italiano abbia messo in evidenza (almeno) due tratti peculiari. In primo luogo, è stato un «semipresidenzialismo» senza legittimazione. È vero che la Costituzione italiana ha consentito al presidente della Repubblica di agire come sostituto dei partiti, e quindi del Parlamento, nella preoccupante situazione in cui né gli uni e né l’altro erano capaci di assolvere le loro funzioni governative, ma è anche vero che essa ha consentito che tale supplenza venisse assolta da un presidente della Repubblica politicamente irresponsabile. Se in Francia il presidente della Repubblica che governa è legittimato dagli elettori e ad essi deve rendere conto delle scelte fatte, in Italia il presidente della Repubblica che governa (non essendo stato eletto, per dirla con Sartori 1995b, 169, «né indirettamente e né diretta-

mente dalla maggioranza assoluta del voto popolare») a chi è tenuto a rendere conto delle proprie scelte? Annota nel suo diario Negri (1996, 19, corsivo mio), in data 21 gennaio 1995, un'intervista concessa a Federico Orlando, allora condirettore della «Voce», che si

conclude con questo dialogo. Domanda: «A chi risponde Scalfaro di queste scelte?». Risposta: «Alla storia e alla propria coscienza. E basta». In secondo luogo, è stato un «semipresidenzialismo» senza politica. Il «semipresidenzialismo» italiano ha potuto conciliarsi solamente con un governo di partito residuale, perché la forza del presidente è risieduta nella debolezza dei partiti. Insomma, si può dire che, in Italia, tra l’uno e gli altri c’è stato, nei fatti, una relazione a

somma zero: si è avuta l’ascesa del primo solamente quando si è attivato il declino dei secondi. E anche in questo caso la differenza con la Francia è significativa: il semipresidenzialismo francese ha portato ad un rafforzamento e ad un disciplinamento dei partiti, proprio attraverso la loro presidenzializzazione (Ceccanti 1997). In Francia il governo di partito si è affermato grazie alla politicizzazione del ruolo presidenziale, mentre in Italia quest’ultima si è verificata grazie all'assenza del governo di partito.

Conclusione In Italia, la strategia primoministeriale del Cabinet si è potuta pienamente realizzare solamente attraverso presidenti del Consiglio tecnici (cioè esterni ai partiti e al Parlamento, come nel caso di Ciam89

pi e Dini, o che hanno agito come esterni, nel caso di Amato in particolare dopo il rimpasto del suo governo) e l'ascesa d'influenza della presidenza della Repubblica ha potuto verificarsi solamente nella condizione del governo di partito residuale. E, in ogni caso, il declino (del potere) dei partiti ha significato una crescita (del potere) del governo. Insomma, la fase di crisi del sistema partitico italiano ha messo in luce l’esistenza di una relazione inversamente proporzio-

nale tra i primi (i partiti) e il secondo (il governo). I tecnici hanno rafforzato il governo come mai avevano potuto fare i partiti. Così, il governo dei tecnici è stata la soluzione istituzionale individuata per promuovere la decisione governativa, in presenza della crisi del vecchio sistema di partito (Vesperini 1998). Con i tecnici al governo è stato possibile guidare il paese, pur in assenza dei suoi tradizionali punti di riferimento, cioè i partiti politici. E, d’altra parte, con i tecnici al governo, i partiti politici hanno potuto guadagnare un po’ di respiro. Nuovi partiti hanno potuto formarsi, differenti leadership hanno avuto il tempo per affermarsi, un’inedita (per l’Italia) meccanica bipolare ha cominciato ad orientare il nascente sistema di partito. Saranno, quindi, le elezioni parlamentari del 1996 a portare alla superficie tutto ciò, mettendo fine al periodo dei governi tecnici e aprendo la fase più propriamente della transizione italiana. Ma prima di analizzare quest’ultima, vale la pena di vedere se l’esperienza italiana dei governi tecnici ha avuto qualche precedente nelle democrazie parlamentari consolidate. Così da capire se quell'esperienza sia stata o meno un'esperienza particolare. E, quindi, che effetti ha avuto sulla politica italiana.

HI

I tecnici al governo nelle democrazie

L'esperienza europea L’esperienza postbellica delle democrazie consolidate europee fornisce indicazioni interessanti relative al ruolo dei tecnici nel governo (Blondel, Thiébault 1991). Se consideriamo sempre come tecnici i ministri outsiders (la categoria 5 del precedente capitolo), cioè coloro che, al momento del loro primo incarico, non erano membri di partito e non avevano un seggio parlamentare, vediamo che il loro numero è stato particolarmente limitato nella vicenda europea. Elaborandola base di dati disponibili relativamente ad una famiglia più che rappresentativa di paesi europei (Germania, Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Regno Unito, Irlanda, Islanda, Italia, Lus-

semburgo, Norvegia, Olanda e Svezia) e con riferimento ad un periodo storico sufficientemente lungo (1945-84), è possibile acquisire alcune informazioni significative. Considerando complessivamente questi paesi, si può vedere che (relativamente ai 1.974 individui, su un totale di 1.985, di cui abbiamo informazioni attendibili) i ministri

«non membri» di partito al momento del loro primo incarico sono stati il 4,7% (vedi Appendice B, Tab. B.1) e i ministri «senza seggio parlamentare» al momento del loro primo incarico sono stati poco meno di un quarto del totale dei ministri (vedi Appendice B, Tab. B.2). Se si incrociano queste due variabili (e calcolando anche qui l’esperienza parlamentare in relazione a — meno o più — 5 anni di servizio), così da individuare le sei categorie di ministro di cui abbiamo

già discusso nel capitolo precedente, allora si può vedere che gli 0utsiders in senso proprio hanno rappresentato il 4,4%, mentre il gruppo più numeroso di ministri si è collocato sia nella categoria 2 (quel91

Tabella 1. Tipi di ministro* al momento del loro primo incarico (periodo 1945-84) (valori assoluti e percentuali) Tipo di ministro**

N.

1 2 3 Insiders

3 443 6 938 82

0,2 23,8 0,3 50,4 44

389

20,9

1.861

100

Outsiders 6

Totale

%

* Sono considerati i seguenti paesi europei: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia della Quarta e della Quinta Republica, Germania, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Regno Unito e Svezia. Nel caso della Francia della Quarta Repubblica (1946-58) sono stati presi in considerazione soltanto i ministri che diventeranno titolari di un ministero anche nella Quinta Repubblica. ** Legenda: 1, ministri membri del Parlamento da meno di 5 anni ma non membri di partito; 2, ministri

membri del Parlamento da meno di 5 anni e membri di partito; 3, ministri membri del Parlamento da più di 5 anni ma non membri di partito; 7s/ders, ministri membri del Parlamento da più di 5 anni e membri di partito; outsiders, ministri non membri del Parlamento e non membri di partito; 6, ministri non

membri del Parlamento ma membri di partito. Fonte: elaborazione sul database del Circap, Università di Siena.

la di coloro che erano membri del Parlamento da meno di 5 anni ed erano anche membri di partito) che nella categoria 4 (quella propriamente degli insiders, cioè di coloro che erano membri del Parlamento da più di 5 anni ed erano anche membri di partito) (Tab. 1). Disaggregando questi dati per singolo paese, è possibile rilevare la tendenza tutt'altro che uniforme nella distribuzione degli out siders. Per quanto riguarda i «non membri» di partito, essi si sono concentrati, principalmente, nelle due democrazie semipresidenziali della Finlandia e della Francia della Quinta Repubblica, oltre che nelle due democrazie consensuali del Belgio e dell’Italia (vedi Appendice B, Tab. B.3). Per quanto riguarda i ministri «senza esperienza parlamentare», la loro distribuzione è più diffusa. Oltre che nelle due democrazie semipresidenziali della Finlandia e della Francia della Quinta Repubblica, i ministri «non parlamentari» sono stati presenti, in modo significativo, nei governi della Norvegia, del-

l'Olanda, della Svezia, dell'Austria e della Germania (vedi Appendice B, Tab. B.4). Incrociando le nostre variabili paese per paese per le sei categorie di ministro individuate, si vedrà che gli outsiders si 92

collocano principalmente nelle due democrazie semipresidenziali della Finlandia e della Francia, anche se una loro qualche presenza è rilevabile sia in Belgio che in Olanda. Inoltre, contrariamente al caso dell’Italia, una categoria significativa di ministri nei paesi europei è quella rappresentata da coloro che, al momento del loro primo incarico, non avevano un’esperienza parlamentare ma erano membri

di partito (essi hanno costituito più del 20% del totale dei ministri). Infatti, considerando la categoria 6, se questo tipo di ministri ha rappresentato appena il 3,1% dei ministri in Italia, lo stesso tipo ha rappresentato più del 40% dei ministri in Norvegia e in Olanda, o poco meno del 40% in Austria e in Svezia (Tab. 2). Insomma, l’analisi empirica conferma che gli outsiders hanno costituito una categoria residuale di ministri europei, così come limitata nel tempo è stata la loro presenza governativa. Infatti, se si considerano gli outsiders per periodi storici distinti (per fasce di 5 anni), si vede che i ministri «senza seggio parlamentare» e i ministri «non membri» di partito, sempre al loro primo incarico, si sono concentrati principalmente nel quinquennio immediatamente successivo alla fine del seconda guerra mondiale (Tabb. 3 e 4). Ciò significa che molti di questi ministri non hanno rappresentato una figura alternativa agli insiders in senso proprio, proprio perché è plausibile ipotizzare che essi non avevano avuto modo di acquisire una precedente esperienza politica (parlamentare e di partito), che avranno invece (probabilmente) acquisito successivamente. Insomma, anche questi dati sembrano confermare la sostanziale parlamentarizzazione dei governi europei postbellici. Se si va a vedere, poi, dove questi ministri outsiders o tecnici sono stati impiegati, si trovano alcune (importanti) regolarità e molta casualità. I pochi ministri tecnici sono stati più frequentemente utilizzati al ministero delle Finanze (in Austria, Belgio, Finlandia, Francia) oppure al ministero della Giustizia (in Austria, Finlandia, Irlan-

da, Svezia). Si trovano alcuni ministri tecnici alla Difesa e, in particolare nell'immediato dopoguerra, agli ‘Esteri (in Danimarca, Finlandia e Francia, in particolare negli anni successivi alla nascita della Quinta Repubblica). Talora, se ne trovano alcuni all’Industria, ai

Trasporti e all’Economia. Insomma, il loro utilizzo limitato è, a sua volta, limitato ad alcuni settori dell’azione governativa. In particolare quello delle Finanze, settore divenuto cruciale con la crescita del processo di integrazione europea. Anzi, per molti aspetti, il ministro

93

Tabella 2. Distribuzione dei diversi tipi di ministro al loro primo incarico nel periodo 1945-84 (valori assoluti e percentuali di riga) Tipi di ministro Paese

riferire

ner

insiders

Germania

Totale

outsiders

-

36

1

31

118

-

30,5%

424 yet 0;8%n

26340

100%

Austria

_ —

16 21,3%



27 36,0%

75 100%

Belgio

_

66

-

105



33,2%

=

R52;8%o

-

26 19,0%

-

80 584%

-

-

29

z

87

27

Danimarca

— Finlandia

1 0,5%

Francia

Regno Unito Irlanda Islanda Italia

Lussemburgo Norvegia

Olanda Svezia Totale

_

Apa

50

29 38,7%

3 4,0%. 11 5: —

115:19%01à01;0% 1 4539141

-

di

-



28,2%



60

385%

-

24

1

123

—-

154%

0,6%.

78,8%

— _ — 2 05% — — — -

32 33,0% 8 17,8% 68 ‘30/0%'

8 21,1% 33 21,7%

35 23,0% 18

= 3 173% _ — _ —_

IU74

1199

85%

100%

31 22,6%

137 100%

46

192

24:06

100%

22

30

156

14,1%

19;2%

100%

1 0,6%

61

_ — 6

62,9% 28 62,2% 141

7, 45%

621192696

4 41%

1

97 100%

9 20,0% 7 3,1%

22

156 100%

7

227 100%

38

57,9%

2,6%

54

-

65

152

35,5%



42,8%

100%

45 296%

64 421%

152 100%

44

117

154%



493%!

“17%

37,6%

100%

3

443

6

938

82

389

1861

0,2%.

23,8%

20,9%

100%

504%

2

100%



03%

53

8 53%

184%

45 100%

44%

Nota: nel caso della Francia della Quarta Repubblica (1946-58) sono stati presi in considerazione soltanto i ministri che diventeranno titolari di un ministero anche nella Quinta Repubblica. Fonte: elaborazione sul database del Circap, Università di Siena.

94

Tabella 3. I meinistri*al momento del loro primo incarico nel periodo 1945-84 (valori assoluti e percentuali di colonna) — carica parlamentare Periodo

Membro di Parlamento

AA

DCI:

no

Prima del 1944 1944-49 1950-54 1955-59 1960-64 1965-69 1970-74 1975-79 1980-84 Totale

Totale



6

BI

DI

13% 83 17,5% 60 12,7% SY 12,1% bl 10,8% 44 9,3% DD) 11,6% 62 13,1% 5) 11,6% 473 100%

2,1% 220 14,9% 174 11,8% 109 7,4% 165 11,2% 174 11,8% 189 12,8% 216 14,6% 201 13,6% 1.479 100%

1,9% 303 15,5% 234 12,0% 166 8,95% 216 IMATSO 218 11,2% 244 15,95% 278 14,2% 256 13,196 JEO52 100%

* Dei paesi europei di cui sopra.

Fonte: elaborazione sul database del Circap, Università di Siena.

delle Finanze è divenuto, in molti paesi europei, il vero e proprio vicecapo del governo, al punto da configurare una sorta di diarchia anche all’interno dei governi parlamentari, con il primo ministro responsabile del rendimento politico e il ministro delle Finanze responsabile del rendimento economico del governo (Larsson 1993). Naturalmente, la situazione è (stata) radicalmente diversa nel ca-

so degli Stati Uniti (Fabbrini 1993). Lì, i tecnici costituiscono una componente essenziale del personale di governo. Innanzitutto, perché la separazione dei poteri si basa sulla inconciliabilità costituzionale delle cariche congressuali e degli incarichi presidenziali. Il corgressman deve rinunciare al proprio seggio se vuole assumere un 95

Tabella 4. I meinistri* al momento del loro primo incarico nel periodo 1945-84 (valori assoluti e percentuali di colonna) — appartenenza partitica Periodo

Prima del 1944 1944-49 1950-54 1955-59 1960-64 1965-69 1970-74 1975-79 1980-84 Totale

Membro di partito

Totale

no



1 1,1% 27 29,3% 13 14,1% 19 20,7% 14 15,2% 3 3,3% 3, 3,3% 9 9,8% 3 3,3% DR 100%

59 2,1% 283 15,0% 224 11,9% 147 7,8% 203 10,8% 215 114% 241 12,8% 271 144% 258 13,7% 1.881 100%

40 2,0% 310 15,7% 237 12,0% 166 84% 217 11,0% 218 11,0% 244 124% 280 14,2% 261 13,2% 1.973 100%

* Dei paesi europei di cui sopra. Fonte: elaborazione sul database del Circap, Università di Siena.

qualsivoglia incarico di lavoro nella presidenza e un membro della presidential branch deve rinunciare al proprio incarico se vuole candidarsi per un seggio congressuale. Come si vede, si tratta di una separazione di individui, oltre che di istituzioni: dove la prima è una condizione per preservare la seconda. Con il risultato che il presidente è (stato) costretto a ricorrere ad individui esterni al circuito congressuale per «riempire» le posizioni interne alla presidenza. Inoltre, perché non esistono ministri in senso proprio: i titolari dei vari settori di intervento dell’esecutivo sono dei segretari del presidente, che è l’unico funzionario pubblico beneficiario di una legittimazione popolare a «governare» (tra virgolette, perché nel sistema di separazio96

ne dei poteri statunitense, anche il Congresso oltre che il presidente sono governmental branches). Che vuole dire che il presidente non avrà alcun interesse a farsi aiutare da collaboratori dotati di una loro «personalità politica», tale da rischiare di offuscare la sua preminenza all’interno dell’istituzione presidenziale (basti pensare al tormentato rapporto, durante il primo mandato della sua presidenza nel periodo 1968-72, tra il presidente Nixon e il suo segretario di Stato Kissinger, dovuto proprio alla grande personalità di quest’ultimo, in particolare nel campo della politica estera). Con il risultato che il presidente è incentivato ad evitare ogni politicizzazione della struttura della presidenza, a vantaggio della «tecnicizzazione» di quest’ultima. Anche per quanto riguarda le caratteristiche professionali dei ministri tecnici europei, si possono ricavare alcune interessanti indicazioni. Anche se analizzando distintamente i ministri «senza esperienza parlamentare» e quelli «non membri» di partito non sembrano emergere importanti differenze. Tra i ministri «senza esperienza par-

lamentare» (Tab. 5), la categoria assolutamente prevalente è stata quella degli individui provenienti dall’alta dirigenza pubblica, seguita quindi da quella degli individui provenienti dall’università (pro-

fessori) oppure dagli affari (incluso il settore bancario). E, quindi, la categoria dei professionisti della legge (avvocati). Anche tra i ministri «non membri» di partito (Tab. 6), la categoria prevalente è stata quella degli individui provenienti dall’alta dirigenza pubblica, seguita da quella dei professori universitari. Sulla base di questi dati è possibile sostenere che i ministri tecnici o outsiders sono stati, generalmente, funzionari pubblici o professori universitari. Seppure siano rilevabili casi di ministri provenienti dall'impresa privata o dalla banca, tuttavia sono state le istituzioni statali (dai consigli di Stato alle università) a fornire le risorse di competenza che sono mancate ai governi di partito. L’esperienza italiana degli anni novanta sembra confermare questa tendenza. Non certamente sul piano istituzionale: perché, anzi, quella vicenda mostra l’assoluta novità rappresentata dai nostri governi tecnici. Nulla di simile è registrabile nella vicenda postbellica delle altre democrazie europee (anche dopo il 1984): la presenza di ministri tecnici è stata limitata nella generalità di esse. Ma di sicuro sul piano sociologico: perché anche in Italia i governi tecnici sono stati principalmente governi di professori universitari, oltre che di funzionari pubblici e banchieri. Dopo tutto, sin dall'inizio degli anni ot97

Tabella 5. Occupazione prima di diventare ministro ed eventuale carica parlamentare* nel periodo 1945-84 (valori assoluti) Membro di Parlamento

Periodo

EE no

Agricoltore Industriale o banchiere Libero professionista (escluse professioni legali) Professionista legale Giudice Insegnante Professore universitario (escluse materie giuridiche) Professore di materie giuridiche Funzionario pubblico Alto dirigente pubblico Militare Giornalista Ingegnere Impiegato

Operaio Altro Politico a tempo pieno Sindacalista Funzionario di lobbies Casalinga Religioso Economista

Totale

orale

SI

8 51 9 26 12 11 51 19 23 121 14 22 24

47 166 32 238 11 87 125 35 47 96 tg 115 89

55 217 41 264 23 98 176 54 70 27 31 137 113

6

38

44

3 2 22 18 7 2 1

23 8 137 88 2 2 2

26 10 159 106 34 4 3

5

4

457

1.434

9 1.891

* Dei paesi europei di cui sopra. Fonte: elaborazione sul database del Circap, Università di Siena.

tanta, i dati relativi alla presenza dei non politici nel Parlamento e nel governo nazionali, oltre che nelle istituzioni rappresentative ed esecutive locali, mettevano in luce una presenza sempre più significativa sia degli uni che degli altri. Ma, naturalmente, la loro presenza si è accentuata con la crisi del tradizionale sistema partitico. Solo si pensi che relativamente alle istituzioni centrali, i professori universitari

hanno rappresentato il 12% dei parlamentari della XI legislatura 98

Tabella 6. Occupazione prima di diventare ministro ed eventuale appartenenza partitica* nel periodo 1945-84 (valori assoluti) Membro di partito ranza n Totale

Periodo

no

Agricoltore Industriale o banchiere Libero professionista (escluse professioni legali) Professionista legale Giudice Insegnante Professore universitario (escluse materie giuridiche) Professore di materie giuridiche Funzionario pubblico Alto dirigente pubblico Militare Giornalista Ingegnere Impiegato Operaio Altro Politico a tempo pieno Sindacalista Funzionario di lobbies Casalinga Religioso Economista Totale

SI

= 10 1 3 7 1 12 1 2 40 6 -

54 210 40 262 16 98 165 DI 68 177 25 138

54 220 41 265 23 99 177 54 70 217 31 138

5 1

107 44 26 9

112 44 26 10

-

159 105 34 3 3

159 105 34 3 3

1 91

8 1.804

9 1.895

* Dei paesi europei di cui sopra. Fonte: elaborazione sul database del Circap, Università di Siena.

(1992-94) e il 40% in media dei ministri dei governi Ciampi e Dini. Dunque, è questo, sociologicamente, il tratto più significativo dei nostri governi tecnici: la presenza preponderante dei professori universitari (Regonini 1993). È come se i professori universitari fossero an-

dati al potere nella prima metà degli anni novanta. Da questo punto di vista, non vi sono state, di sicuro, esperienze equiparabili alla no-

stra in nessun’altra democrazia occidentale. 99

Democrazie dell’«input» e dell’«output» Con l’eccezione degli Stati Uniti (eccezione motivata dal sistema di separazione dei poteri che contraddistingue solamente quel paese tra le democrazie consolidate), i ministri tecnici sono stati, dunque,

una minoranza all’interno dei governi europei. Sono stati quasi del tutto assenti nelle democrazie parlamentari competitive: quelle, cioè, sia bipartitiche che bipolari, come il Regno Unito, la Nuova Zelanda, l'Australia, il Canada, la Germania, la Norvegia e la stessa Irlan-

da (dove ministri tecnici si sono avuti solamente nel ministero della Giustizia, per le ovvie ragioni della particolare delicatezza di tale ministero in quel paese). Si sono avuti pochi casi di ministri tecnici in democrazie consensuali, a larga coalizione ma con un partito predominante, come in Italia fino alla metà degli anni ottanta, in Israele,

in Giappone (dove ministri tecnici si sono avuti solamente nella fase iniziale, 1946-47, del nuovo regime democratico). Pochi anche

nelle democrazie consensuali senza partito predominante, come la Svizzera e il Lussemburgo e la stessa Austria (dove si sono avuti tre ministri tecnici, di cui due al ministero della Giustizia e uno al ministero degli Esteri). Nelle democrazie consensuali come il Belgio (nel

periodo 1945-52), l'Olanda (nel periodo 1946-51) e la Francia della Quarta Repubblica (nel periodo 1948-56), si sono avuti ministri tecnici nelle fasi di istituzionalizzazione del nuovo regime democratico, dopo gli sconvolgimenti prodotti dalla guerra mondiale. Ciò è successo anche nelle piccole democrazie scandinave competitive (come la Svezia nel periodo 1946-56) o semicompetitive (come la Danimarca nel periodo 1946-56). Assai più numerosi, invece, sono stati i ministri tecnici nelle de-

mocrazie semipresidenziali della Finlandia e della Francia della Quinta Repubblica (Fig. 1). In Finlandia, si sono avuti ministri tecnici nel ministero degli Esteri, della Giustizia, delle Finanze, degli Interni e della Difesa, oltre che in quelli dell’Industria e dei Tra-

sporti. Nella Francia della Quinta Repubblica, si sono avuti ministri tecnici nel ministero degli Esteri (fino alla fine degli anni sessanta), della Difesa e dell’Istruzione, oltre che nel ministero degli Affari so-

ciali. In proposito, la netta distinzione tra democrazie semipresidenziali e democrazie parlamentari è dovuta ad un doppio ordine di ragioni. Innanzitutto, alle caratteristiche istituzionali dei due sistemi di governo (Musio 1998; Pegoraro, Rinella 1997; Cevcanti, Massari,

100

Fig. 1. Rappresentazione spaziale del rapporto tra ministri «insiders» e «outsiders» in alcune democrazie europee nel periodo 1945-84 (valori percentuali) 16

14

Finlandia ®

Francia @

12

10

Snai S

©

y Belgio -—-

6 Olanda g 4

Austria Mi Lussemburgo a mItalia

2

Svezia@

Germania ®

0 (0)

10

20

30

Islanda

40

50

60

Regno Unito

xIrlanda 70

®

80

90

Insiders

@® m m @

Germania Austria Belgio Danimarca

@ @ @ @

Finlandia Francia Gran Bretagna Irlanda

m Islanda m Italia m Lussemburgo

® Norvegia m Olanda ® Svezia

Nota: con il quadrato si sono identificate le democrazie consensuali e con il cerchio le democrazie competitive (Fabbrini 1999a). Pur scontando l’impropria semplificazione dei casi intermedi (si pensi alla Danimarca), con tale distinzione si è cercato di misurare l'eventuale differenza tra idue modelli di demo-

crazia.

Pasquino 1996). Contrariamente ai governi parlamentari, i governi semipresidenziali presuppongono l’incompatibilità costituzionale tra carica parlamentare e incarico di governo. Naturalmente, vi sono governi parlamentari in cui è stata fissata tale incompatibilità: ma essa è un’eccezione, non una regola. Mentre è esattamente il contra101

rio nei governi semipresidenziali. Un’incompatibilità che favorisce, di conseguenza, l'arruolamento al governo di personale non parlamentare. In secondo luogo, tale distinzione è dovuta alla specifica vicenda delle due democrazie semipresidenziali qui considerate. La Francia ha tradizionalmente beneficiato dell'apporto governativo della tecnocrazia pubblica (Fabbrini, Vassallo 1999) e la Finlandia ha dovuto ricorrere a personalità indipendenti nei ministeri chiave per alleggerire le possibili tensioni con il potente paese (l’Urss) con essa confinante. In entrambi i casi, il risultato è stato un arruola-

mento governativo di tecnici assai più alto di quello registrabile nei governi parlamentari, anche se non equiparabile a quello proprio dei governi presidenziali. Tuttavia, la contenuta presenza di ministri tecnici nei governi eu-

ropei non deve condurci a sottovalutare la differente «professionalità» politica dei ministri non tecnici presenti alloro interno. In realtà, seppure i governi europei siano stati governi di partito, cioè governi

in cui i partiti hanno controllato sia le politiche che le cariche, tuttavia il personale di partito al governo ha dovuto rispondere ad esigenze funzionali diverse nell’uno e nell’altro paese. Non solamente il grado di partyness of government è stato diverso nelle varie democrazie, ma la qualità della stessa azione partitica si è rivelata differenziata. Ciò è dovuto alla razionalità di funzionamento delle democrazie, a prescindere dal fatto che tutte sono state governate dai partiti. Perché nelle democrazie competitive, contrariamente a quelle con-

sensuali, le possibilità di acquisizione del consenso sono condizionate, non solo dalle capacità rappresentative, ma anche da quelle governative, dei singoli politici. Infatti, là dove c’è la possibilità dell’alternanza al governo tra opzioni alternative, c'è un incentivo formidabile a considerare (da parte degli elettori) i risultati dell’azione governativa, e non solo i suoi presupposti. Come, invece, avviene nelle democrazie in cui quell’alternanza non è possibile. In questo senso si può dire che le prime sono democrazie dell’0u/put, mentre le seconde dell’;nput. In entrambi i casi, il governo è vincolato nella sua azio-

ne dalla ricerca del consenso elettorale, ma quel consenso è acquisibile con modalità diverse nell’una e nell’altra democrazia. Se nelle democrazie dell’;7pu?, come nella Francia della Quarta Repubblica o nell'Italia della Prima Repubblica, ciò che contava era la capacità di fornire agli elettori un’entrata nel sistema rappresentativo, nelle democrazie dell’0u/put, come in Germania; nella Francia 102

della Quinta Repubblica o nel Regno Unito, ciò che contava e continua a contare è la capacità governativa di fornire ai cittadini un’uscita in termini di servizi pubblici efficienti ed economici. Necessariamente, in questo secondo caso, il politico deve specializzarsi in alcuni campi dell’intervento pubblico, lasciando solamente ad alcuni (pochi) leader partitici (nazionali) il compito della definizione delle linee generali, cioè strategiche, dell’azione politica (di governo o di opposizione). Va da sé che, in particolare là dove vi è il collegio uninominale, la specializzazione di policy del politico tende a riflettere le problematiche e gli interessi che sono prevalenti nel suo collegio. Altresì, quella specializzazione risente delle opportunità istituzionali di cui dispone l’istituzione all’interno della quale il singolo politico opera: pur all’interno di una comune razionalità di funzionamento democratico. Non vi è dubbio, insomma, che il legislatore tedesco abbia molte più possibilità di specializzarsi politicamente, rispetto al suo omologo britannico o francese, per via dei poteri di policy-making di gran lunga maggiori di cui gode il legislativo di Berlino rispetto a quello di Londra o di Parigi. Tuttavia è evidente che nelle democrazie dell'output l'attore principale è il governo: ed è lì che si acquisiscono o si utilizzano le competenze tecniche, necessarie per vincere le elezioni. Al contrario, nelle democrazie dell’:7pt, dove le elezioni

non si vincono sulla base del rendimento governativo, l’incentivo alla specializzazione del personale politico è assai più contenuto. Per di più, là dove si viene giudicati per le capacità di governo, la politica deve divenire competitiva anche nei confronti delle altre sfere statali, cioè degli altri poteri pubblici, pena la sua irrilevanza sistemica. Essa, cioè, deve professionalizzarsi, in quanto attività ope-

rativa che nessun altro potere statale (dalla magistratura all’amministrazione) potrà mai surrogare. Basti pensare alla Francia della Quinta Repubblica, in cui sono stati tutt'altro che rari i casi di amministratori o professori cooptati in un ruolo decisionale (di governo). Tuttavia, essi, se volevano continuare ad esercitare quel ruolo,

hanno dovuto sottoporsi prima o poi ad una verifica elettorale, così da entrare legittimamente, rafforzandolo, in un ceto politico di già definito da confini precisi (in termini di competenze personali e di possibilità di carriera). Per di più, proprio nella Francia della Quin-

ta Repubblica, introducendo la clausola dell’incompatibilità tra carica governativa e carica parlamentare, si è voluto accentuare, tra

l’altro, la distinzione tra i ruoli politici, specializzando quelli propri 103

dell’operare (il governo) e quelli propri del controllare (il Parlamento). Non diversamente avviene nel Regno Unito, dove la stessa azione del controllore, tramite l’istituzione del governo-ombra, de-

ve avvenire prefigurando costantemente un corso d’azione alternativo (e immediatamente praticabile) a quello del controllato. Se così è stato, allora si può comprendere perché in queste democrazie i tecnici-professori hanno esercitato la loro influenza rella politica attraverso un’attività di consulenza 4//4 politica: insomma, integrando (dall’esterno) quest’ultima e non, invece, surrogandola (dall’interno). E così, se essi sono entrati in politica, la loro entrata è

stata funzionale al rafforzamento (nel senso della qualificazione) del ceto politico, e non al suo indebolimento. Il contrario, in altri termini, di ciò che è avvenuto nella fase finale dell’Italia della Prima Re-

pubblica, dove i tecnici hanno sostituito, in non pochi ruoli, gli stessi politici. E ciò prima ancora della crisi del sistema di partito. Aggiornando (per l’Italia) la base dei dati disponbili al periodo successivo al 1984, cioè se si considerano in modo aggregato i dati relativi ai ministri italiani del periodo 1985-92 (comprensivo, quindi, sia della seconda metà della IX e che dell’intera X legislatura), si arriva ad una conclusione sorprendente: il 68,4% del totale degli outsiders del periodo postbellico (fino al 1992) si è concentrato nella seconda metà degli anni ottanta (Tab. 7). Ciò vuol dire che, già prima dell’esplosione della crisi, i partiti politici avevano registrato difficoltà significative a rispondere, con il proprio personale, alle esigenze del governo del paese, dovendo quindi rivolgersi ad un personale extrapartitico (sia pure, come si diceva allora, di «area», cioè simpatizzante per l'uno o per l’altro partito). Dunque, l’esplosione di Tangentopoli tra il 1992 e il 1993, prima, e la complessità dell’azione governativa indotta dall’integrazione monetaria decisa nel 1991 e formalizzata nel 1992, poi, non hanno fatto altro che accelerare il processo, che era di già in corso, di surrogazione progressiva dei ruoli politici da parte di tecnici (in particolare di professori con competenze economiche e amministrative). La decapitazione delle leadership nazionali dei partiti di governo e la necessità di affrontare il complicato problema della riduzione del debito pubblico hanno creato le condizioni per l’entrata dei tecnici nel governo. Insomma, l'esplosione della crisi del sistema di partito in un contesto storico connotato da una complessità tecnica senza

precedenti dell’azione di governo, ha fornito l'occasione per l’eser104

Tabella 7. Distribuzione dei diversi tipi di ministro in Italia considerando solamente il loro primo incarico (periodo 1945-92) (percentuali di colonna) Tipo di ministro

e

re

ni

arci

insiders

riversa Lee outsiders

1944-49

100

45,4

66,7

-

10,5

-

1950-54 1955-59 1960-64 1965-69 1970-74 1975-79 1980-84 1985-89 1990-92 Totale

— 100 (2)

13,0 2,6

_ SHT5) _ 100 (3)

1597 8,7 94 16,2 12,5 16,2 JEIS2 8,8 Sy! 100 (160)

15,8 | _ DI 68,4 100 (19)

11255 25 _ 62,5 125) 12,5 100 (8)

359 6,5 10,4 6,5 10,4 IS 100 (77)

Fonte: elaborazione sul database del Circap, Università di Siena.

cizio diretto dell’influenza politica da parte dei professori, sia nel governo centrale che nei vari governi municipali. Si è trattato, come si vede, di uno dei più singolari, tra glieffetti non intesi, dellaserisi Non'togcati dalla corruzione, i nuovi ministri hanno potuto utilizzare le loro credenziali tecniche in sostituzione di quelle elettorali. Privi di rivali, sottoposti a scarsi condizionamenti interni per via delle difficoltà attraversate dai partiti, collegati alle principali istituzioni europee, i ministri tecnici hanno potuto costruire staff altamente competenti nei loro ministeri (in particolare al ministero del Tesoro, e più in generale nei ministeri direttamente coinvolti nell’operazione di rientro nei parametri di Maastricht), oltre che nella stessa presidenza del Consiglio, come mai era avvenuto nel passato. È stato questo gruppo di ministri e di collaboratori tecnici che è riuscito ad imporre, nel dibattito pubblico oltre che nell’azione di governo, l’idea del vincolo esterno (Dyson, Featherstone 1996). Così, ciò che durante il governo di partito era risultato politicamente impraticabile, era divenuto praticabile con il governo dei tecnici. E cioè i ministri tecnici hanno potuto sottoporre le policies ai criteri della efficacia e non più (o non solo) a quelli del consenso: dove l'efficacia era appunto commisurata alla capacità di sod105

disfare le esigenze del vincolo esterno. E prima il governo Amato e poi i governi Ciampi e Dini, hanno mostrato, tra l’altro, che, una volta accettato quel vincolo esterno, il governo poteva conseguire risul-

tati di grande rilievo operativo.

Dagli intellettuali ai professori Come collocare storicamente, nella vicenda italiana, il fenomeno del

«governo dei professori»? La fine degli anni settanta rappresenta il periodo di svolta, lo spartiacque qualitativo, oltre che quantitativo, nel rapporto tra la democrazia e i professori. Per la ragione semplice, ma essenziale, che in quel periodo è giunto a definitiva (ed inequivocabile) maturazione il fallimento operativo della stagione della Solidarietà nazionale del 1976-79 (Fabbrini 1995c). La fine del compromesso storico ha costituito anche la fine di una politica altamente ideologizzata (Pasquino 1996b). Si può dire, infatti, che fino agli anni settanta la politica italiana ha conservato un tratto quasi ottocentesco. Il dibattito politico costituiva la palestra per esercitare i muscoli delle varie tradizioni partitico-culturali. Una volta garantito lo scambio continuo delle micropolitiche nelle commissioni parlamentari, il Parlamento ha rappresentato l’arena per la sperimentazione periodica dei grandi disegni di prospettiva politica: quello della «democrazia progressiva», degli «equilibri più avanzati», delle «parallele convergenti», della «nuova democrazia» o della «terza via». Disegni, comunque, che dovevano trarre, necessariamente, il loro alimento teorico nei patrimoni interni ai vari partiti. Patrimoni accumulati, per di più, secondo una successione a strati, tenuti reciprocamente insieme dalla coerenza tra un pensiero (e un pensatore)

e l’altro, piuttosto che dalla congruenza tra quel pensiero e la realtà di riferimento. In una politica con tali caratteristiche, ai leader di partito non poteva che essere garantito un ruolo di primo piano. Generalisti per for-

mazione, i leader di partito, una volta assimilato il rispettivo bagaglio ideologico di riferimento, potevano trovare una risposta ad ogni domanda. Proprio perché le domande non riguardavano il fare, ma il dire. E proprio perché la politica era concepita come un'attività che iniziava, non alla soluzione dei problemi, ma alla loro interpretazione (storica o prospettica). Dietro di loro, a garantire della correttez106

za dell’interpretazione, c'erano i cosiddetti «sacerdoti dell’ideologia», i custodi professionali del patrimonio teorico del partito. Attenzione, però: anche se sociologicamente professori, essi erano principalmente intellettuali, cioè pensatori a loro volta generalisti, collegati più o meno organicamente ai rispettivi partiti, attraverso il cir-

cuito delle fondazioni o dei centri studi partitici (finanziati, in molti casi, pubblicamente). La relazione tra i primi e i secondi, tra i politici e gli intellettuali (di partito), è stata solida, perché chiaramente definita (Ajello 1997). Ognuno al suo posto, ma con il posto del politico gerarchicamente superiore a quello dell’intellettuale. Anche perché il politico non rinunciava all’idea di considerarsi, a sua volta, un intellettuale: dato che l’intellettualità si definiva in relazione alla capacità di manipolazione verbale di un patrimonio consolidato, nel tempo e da tempo. E non già in base all’acquisizione di specifiche competenze nella risoluzione dei problemi pratici. Tutto ciò è stato messo in discussione negli anni ottanta. L’eso-

terismo incruento delle «terze vie» (tra capitalismo e comunismo) e delle «parallele convergenti» (tra cattolici e comunisti), una volta scomparso quello cruento della «società liberata dal dominio delle multinazionali» (dei brigatisti rossi e neri), si è rivelato un puro balbettio di fronte ai problemi del governo di una grande democrazia europea. L'Italia è arrivata alla modernizzazione economico-sociale degli anni ottanta e alla piena integrazione europea degli inizi degli anni novanta, non solo in ritardo rispetto agli altri paesi del continente, ma, soprattutto, senza una classe politica (sia di governo che di opposizione) attrezzata culturalmente per affrontare le nuove sfide. Conosciamo le conseguenze di quella modernizzazione non governata: in particolare la formazione di un deficit nel bilancio pubblico di drammatiche dimensioni. E ciò proprio in un periodo, la seconda metà degli anni ottanta, economicamente favorevole, e che

appunto le altre grandi democrazie europee (Regno Unito, Francia e Germania) avevano utilizzato per mettere in ordine i loro conti pubblici (Vassallo 2000a). Fatto si è, comunque, che in quel decennio, progressivamente, i partiti hanno dovuto prendere atto della propria debolezza culturale. Così, nel corso della prima metà degli anni ottanta, gli intellettuali organici vengono, piano piano, messi in seconda fila, per lasciare il posto (prima) ai tecnici di area e (poi) anche ai professori, cioè ai detentori di competenze specialistiche, in particolare nelle discipline 107

più direttamente connesse alle attività di governo. Naturalmente, in non pochi casi, si è trattato di professori con una spiccata vocazione o interesse per la politica, e non già di disinteressati studiosi al servizio della democrazia. Cioè si è trattato di individui che avevano avuto un qualche apprendistato di relazioni politiche e dalle quali avevano potuto trarre benefici, sia all’interno che all’esterno delle rispettive discipline accademiche. E, altrettanto naturalmente, quegli individui hanno potuto esercitare una maggiore influenza pubblica se collegati ai partiti di governo, piuttosto che al principale partito di opposizione. Anche perché quest’ultimo, con l'avvio della nuova stagione pentapartitica e con la nomina del segretario socialista a capo del governo, aveva visto ridimensionata la propria «importanza istituzionale», oltre che la propria «attrazione culturale». Con la seconda metà degli anni ottanta, a fronte di un inesorabile declino elettorale, anche l'opposizione comunista è stata costretta a cambiare registro. L'opposizione di sistema ha dovuto lasciare il posto all’opposizione di programma, e la stessa visione consociativa della democrazia ha dovuto registrare le prime critiche tra le fila di quella stessa opposizione (anche se esse sono provenute, in particolare, dal gruppo della Sinistra indipendente, costituita in larga parte di professori, appunto, provenienti dalle tradizioni minoritarie della sinistra azionista e cattolico-liberale; per tutti Pasquino 1985). Insomma, seppure in modo sofferto, la trasformazione economico-produttiva del paese aveva spinto, o stava spingendo, la sinistra comunista verso un ripensamento del suo ruolo politico. I suoi dirigenti più innovativi (come il vicesegretario del Pci Achille Occhetto) percepivano che la società non accettava più di essere paternalisticamente protetta, ma voleva essere politicamente guidata (Ariemma 2000). E cioè che essa chiedeva più governo, proprio mentre segnalava di volere meno politica. Dopo tutto, una richiesta di governabilità si era già imposta nell'agenda pubblica, attraverso l’azione del primo presidente del Consiglio socialista del dopoguerra, Bettino Craxi. Il quale, tuttavia, l'aveva declinata in senso retorico, più che operativo (si pensi, di nuovo, al drammatico deficit del bilancio pubblico lasciato in eredità dai suoi due governi di quel periodo e al nulla di fatto relativamente alla cosiddetta «grande riforma» delle istituzioni). Dunque, la seconda metà degli anni ottanta ha registrata il disorientamento crescente dei partiti, o meglio dei loro dirigenti e dei loro intellettuali, di fronte a problemi poco o punto permeabili all’in108

terpretazione ideologica. La politica non si esauriva più nella polit:cs, ma si presentava nei termini di policies, la cui complessità tecnica non era facilmente governabile da un punto di vista partitico (Dente 1990). Ma quando /e politiche definiscono la politica, allora la competenza finisce per separarsi dall’appartenenza. Di qui i varchi per l’entrata, nella sfera pubblica, di coloro che, per professione, aveva-

no vissuto in quella separazione. I professori, appunto (Fabbrini 1994b), espressione di embrionali «comunità epistemiche» connotate dalla condivisione di specifiche competenze, più che dalla condivisione di generiche appartenenze. Ma ciò, naturalmente, non poteva avvenire pacificamente: anzi, tale ascesa dei professori ha avuto contraccolpi all’interno della stessa comunità accademica. Infatti, gli intellettuali legati alle tradizioni di partito o di area politico-culturale, presenti in quella comunità, hanno avvertito come una sfida al loro status (costituito di presenza pubblica e di collegamenti politici) la crescita di influenza dei professori-tecnici. E, soprattutto, hanno avvertito come una messa in discussione del loro modo di pensare l’idea della separazione tra competenza (tecnica) e appartenenza (politica). Per loro, una proposta era accettabile se (e solamente se) si rivelava funzionale agli interessi immediati e concreti della propria parte politica, e non già a quelli di lungo periodo e astratti della democrazia. Condizionati dal clima spietato della guerra fredda, essi avevano finito per elaborare e praticare un’ideologia transpartitica, sul ruolo degli intellettuali nella società postbellica, basata sull’assunto che essi (gli intellettuali) dovessero essere (sempre) politicamente (o culturalmente) schierati. Come potevano accettare un modo di pensare che rovesciava quello schema mentale, proprio perché assumeva la democrazia e non il partito o l’area politico-culturale come il punto di partenza della stessa riflessione intellettuale? Un’ideologia dell'impegno, per di più, che affidava all’intellettuale un compito di «educatore delle masse»: e ciò in sintonia con la visione comunitarista della politica italiana, e con le sue implicazioni di faziosità e di paternalismo, che proprio quegli intellettuali avevano contribuito a diffondere. Così, non può stupire che essi abbiano finito per guardare con sospetto alla riforma del paese (che fosse quella istituzionale o quella del bilancio o quella economica), in quanto essa presupponeva una visione «adulta» della società italiana. Ovvero l’idea che la società italiana fosse cambiata, mentre lo Stato (inteso sia co-

me istituzioni che come politiche) era rimasto immutato. 109

È stata la riforma istituzionale a cristallizzare, in particolare, la

contrapposizione tra gli «intellettuali» e i «professori». Ad esempio, le varie proposte tendenti alla bipolarizzazione della politica italiana, senza la quale gli elettori non possono scegliere o indicare il governo e l'opposizione, sono state interpretate (dagli autori del volume curato da Neppi Modona 1995, 175) come l’ossessione «dei patiti dell'innovazione normalizzatrice fondata sui poli moderati di centro destra e centro-sinistra». Oppure, ad esempio, le proposte di eleggere direttamente i capi degli esecutivi, per responsabilizzarli personalmente di fronte al proprio elettorato, sono state interpretate (dal sociologo cattolico presidente del Censis De Rita 1995, 31) come l’espressione di «una tendenza a vedere il nuovo nel ritorno a logiche monarchiche e plebiscitarie, quasi papali».

I professori come nuovi politici? Dunque, con la fine degli anni ottanta, in Italia, e con grande ritardo rispetto ad altre democrazie occidentali, si è eclissata la specie dell’intellettuale organico. È sufficiente dare un’occhiata alle sedi e agli strumenti dell’elaborazione teorica dei partiti: una dopo l’altra, le scuole e le riviste di partito sono state chiuse o ridimensionate. Le cono-

scenze cruciali sulla società erano altrove: in riviste culturali e scientifiche indipendenti, in alcuni dipartimenti universitari, in circoli informali ed internazionalizzati di scienziati e studiosi. Ma, ovviamente, il

declino degli intellettuali organici ha significato non solamente uno spostamento di luogo, ma anche un mutamento della natura della conoscenza (utile alla politica), con le relative implicazioni sul linguaggio e sulla concettualizzazione. L’umanesimo storicizzante delle ideologie di partito è stato progressivamente sostituito dall’empirismo delle moderne scienze sociali: la cui validità scientifica, appunto, si basa sulla possibilità della falsificazione empirica dei risultati conseguiti, piuttosto che sulla coerenza formale del ragionamento proposto. Se l’umanesimo viveva della generalità, al punto da rasentare la genericità, le scienze sociali vivono della specificità, al punto da rasentare (talora) la particolarità. Se il primo si giustificava con le idee, il secondo si giustifica con concetti suscettibili di verifica concreta. Non poteva essere altrimenti. La crisi istituzionale della Repubblica, così come la debolezza del suo sistema economico-finanziario, 110

non potevano più essere spiegati, e tanto meno risolti, con i pregiu-

dizi culturali (come, ad esempio, il proporzionalismo elettorale e il dirigismo statale), elaborati in relazione ad una società così da tempo superata, da configurarsi, questa sì, come una società astratta. E non è un caso che è stata proprio la doppia emergenza istituzionale ed economica degli anni novanta che ha fatto da propellente per l’entrata in politica di scienziati sociali formatisi all’interno dei rispettivi specialismi (Radaelli, Martini 1998; Radaelli 1998). Politologi, sociologi ed economisti (oltre che costituzionalisti, che però hanno sempre abitato dalle parti della politica), hanno acquisito un'influenza crescente, non solo nel dibattito pubblico, ma nella

stessa attività di elaborazione legislativa o di esecuzione governativa. Si è trattato di un’influenza diretta, oltre che indiretta: e qui risiede la specificità dell’esperienza italiana. Ancora prima del crollo dei partiti, ma soprattutto dopo, i professori non si sono limitati a consigliare i decisori, ma hanno finito per gravitare nelle sedi della decisione. Naturalmente, ciò non ha impedito che una quota consistente di professori venisse utilizzata in un’attività di 24vising verso i leader politici, oltre che nelle diverse agenzie amministrative dello Stato. Come, appunto, è avvenuto in molte democrazie dell’output. La particolarità italiana è stata, piuttosto, che un numero significativo di essi si è trovato, dopo il 1992, nelle condizioni di applicare direttamente le proprie competenze. I professori che sono diventati ministri e parlamentari, naturalmente, si riconoscevano reciprocamente, e trasversalmente, più per

le competenze che avevano, che per le appartenenze di schieramento elettorale-parlamentare. La strumentazione scientifica di cui disponevano lasciava margini ristretti all’eccentricità o all’opportunismo partigiani, imponendo un consenso trasversale tra di essi relativamente ad alcune cruciali opzioni di policy (ad esempio, nella politica economica, il consenso verso una politica di riduzione del deficit pubblico non basata sulla leva fiscale; oppure, nella politica istituzionale, il consenso verso un sistema elettorale maggioritario uninominale a doppio turno). Ciò ha modificato il tradizionale confronto partitico. Infatti, se la predisposizione «generalistica» del politico tendeva a valutare ogni proposta tecnica in relazione ad un presun-

to tornaconto politico, la predisposizione «specialistica» dei tecnici portava questi ultimi in una direzione opposta. Per il politico di partito, la distinzione tra l’uninominale secco e il doppio turno, oppure 111

tra una politica di rientro dall’inflazione che agisce sul versante monetario e una politica che agisce sul versante dei costi, non era poi così cruciale. Mentre, invece, quella distinzione non poteva non es-

serlo per il ministro o il parlamentare tecnico. Ciò non ha impedito a molti tecnici di piegarsi poi alle ragioni della politica: ma è indubbio che (per la prima volta nella vicenda repubblicana) il discorso pubblico (e, quindi, il confronto tra i partiti) ha assunto una forte valenza tecnica. Insomma, l’ascesa politica dei professori è stata l’effetto, non la

causa, dell’inadeguatezza dei partiti a fronteggiare i problemi dell’integrazione europea. Inadeguatezza dei partiti, perché essa ha connotato non solamente le loro prime file (quelle messe fuori gioco dalle inchieste giudiziarie contro la corruzione), ma anche i politici di seconda fila che hanno preso il loro posto nei nuovi partiti emersi dalla crisi del 1992-96. Dopo tutto, la lunga vicenda consensuale postbellica, a causa della totale assenza di ricambio competitivo tra i partiti, aveva alimentato (con le dovute eccezioni) una classe politica priva di una capacità governativa in senso proprio, anche negli stessi partiti di governo. Un classe politica straordinariamente abile nel lavoro di intermediazione particolaristica tra i cittadini e lo Stato (attività che ha avuto, nondimeno, una sua importanza nel conso-

lidamento della democrazia parlamentare italiana postbellica; si veda Cotta, Mastropaolo, Verzichelli 1998; Mastropaolo 1993; Morli-

no 1991). Capace, cioè, di produrre consenso elettorale sulla base di un'attività di accomodamento delle richieste, a prescindere da una definizione delle priorità nazionali e da un riconoscimento dei vincoli internazionali. Come ha sottolineato Pasquino (1992), sia il governo che l'opposizione avevano pensato che mai sarebbero stati chiamati a rispondere dei loro atti, il primo, e delle loro promesse, la seconda. È stata questa condizione (diffusa) di irresponsabilità politica che ha presieduto alla selezione di un personale di partito specializzato esclusivamente nella raccolta dei voti, piuttosto che nel disegno e nell’attuazione di politiche pubbliche efficaci ed efficienti.

I professori come nuova tecnocrazia? All’inizio dell'esperienza dei governi tecnici, Panebianco (1993) aveva messo in luce il pericolo, per la democrazia, rappresentato (ivi, Lie

638) «dall'idea della neutralizzazione della politica e dei suoi conflitti attraverso quella forma di spoliticizzazione che consiste nel trasformare i problemi politici in problemi tecnico-amministrativi». Questa idea ha una lunga tradizione in Occidente e quasi sempre (ibid.) «si è intrecciata con un sentimento di ostilità per il parlamentarismo e la democrazia liberale». D'altra parte, nella tradizione politica europea, il governo dei tecnici (ovvero dei competenti) aveva costituito la variante novecentesca di un antico ideale autoritario: quello del governo dei custodi. Ideale che presupponeva non solamente una concezione asociale della politica (in virtù della quale i conflitti derivavano da un’inadeguata regolazione delle relazioni interindividuali, e non già da un contrasto di interessi e di valori radicati socialmente), ma anche una concezione tecnocratica della citta-

dinanza (in virtù della quale si riteneva che gli individui non fossero in grado di governarsi, e quindi di stabilire ciò che è bene per loro, sia perché i problemi da risolvere sono troppo complessi e sia perché quegli individui non dispongono neppure delle informazioni necessarie per individuarli). Se così è stato in Europa, non vi è dubbio che nell’altra sponda dell’ Atlantico, negli Stati Uniti, il governo dei tecnici ha costituito la variante novecentesca di un altrettanto antico ideale democratico: quello del selfgovernment (Fabbrini 1994b). Non casualmente, come ha scritto in un libro importante Barone (1990, capp. 3 e 4), il governo dei tecnici si è imposto a cavallo del secolo, sull’onda del grande movimento progressista che scosse dalle fondamenta quel paese, proprio come risposta alla crisi del «governo congressuale» (0 corgressional government, cioè governo basato sul ruolo decisionale delle istituzioni legislative, la Camera dei rappresentanti e il Senato, ovvero dei partiti che le controllavano). L’impetuoso sviluppo industriale che gli Stati Uniti avevano registrato nel decennio successivo alla guerra civile, e quindi la crisi degli anni novanta di quel secolo dovuta alle conseguenze di una trasformazione in senso oligopolistico del mercato, mostrarono l’estrema difficoltà di governare, cor la legislazione, una moderna corporate society, ovvero controllata da pochi e potenti gruppi d’interesse. Di qui, si era registrata la pressione verso lo sviluppo di agenzie federali regolamentative, capaci di «funzionare da ponte» tra i vari poteri governativi (legislativo, esecutivo e giudiziario — sì anche il giudiziario, perché in quel paese quest’ultimo è divenuto sin dalla fine del secolo scorso un’autentica kb:

istituzione di policy-making), in quanto dotate di una riconosciuta e protetta indipendenza operativa. Negli Stati Uniti, dunque, la critica al Congresso dei partiti non ha avuto i toni minacciosi dell’antiparlamentarismo europeo, di stampo autoritario, ma quelli del populismo anti-establisbrent, di stampo democratico (Fabbrini 1994c). Dopo tutto, non vi era, oltre Atlantico, una tradizione di assolutismo illuminato a cui indirizzare

la propria nostalgia. La cultura democratica del paese ha fornito, e continua a fornire, le parole dell'unico discorso pubblico legittimo (Boyte, Riessman 1986). La critica al Congresso non ha mai avuto un tono ideologico, bensì funzionale. È stata una critica sia del conservatorismo del suo sistema rappresentativo che della rigidità del suo sistema decisionale (Kazin 1995). Una critica fondata, proprio perché, per sua natura, il legislativo ha teso a premiare la costellazione degli interessi che sono riusciti ad organizzarsi (in gruppi di pressione) e, quindi, a contare elettoralmente, a danno di quelli che non

ci riuscivano. Interessi capaci, quindi, una volta organizzati, di esercitare un controllo conservativo sull’attività che si svolgeva all’interno del legislativo. Infatti, per la sua natura istituzionale, il legislativo ha una predisposizione a promuovere un processo decisionale statico proprio perché prevedibile. Due limiti formidabili, quando si è in presenza di una società in permanente ristrutturazione (che cioè produce sistematicamente nuovi ceti alla ricerca di una rappresentanza) e quando si è in presenza di una società in permanente dise-

quilibrio (che cioè produce sistematicamente problemi alla ricerca di una soluzione). Il punto è che tale critica al Congresso ha trovato uno sbocco operativo, ma sempre democratico, nell’attivazione del presidente, spinto impetuosamente a sostituire il legislativo sul piano sia delle funzioni rappresentative che di quelle decisionali. Ed è proprio con l'affermazione della primazia presidenziale all’interno del sistema di governo, cioè con la sua presidenzializzazione avviata con il New Deal di F.D. Roosevelt negli anni trenta di questo secolo, che si sono create le condizioni per l’ascesa dell’influenza dei tecnici nella politica pubblica nazionale. Tale ascesa dei tecnici al potere ha assunto due tratti distintitivi. Il primo tratto è il seguente: date le caratteristiche del sistema di governo statunitense, i tecnici hanno potuto entrare in politica, senza

divenire politici. La natura «individuale» dell’istituzione presidenziale ha spinto il presidente ad organizzare il suo esecutivo nei termi114

ni di una squadra di consiglieri personali incaricati di seguire, a suo nome, i vari dipartimenti governativi. Negli Stati Uniti, il presidente è il governo. Come sappiamo, è l’unico politico eletto, cioè dotato di una legittimazione democratica, della presidenza. Il successo o il fallimento, di quest’ultima, avranno conseguenze politiche su di lui, e

solamente su di lui: e non già sui suoi collaboratori tecnici (che non sono obbligati a nessun rendiconto elettorale). Per questo motivo, il presidente non si farà mai aiutare da altri politici, che potrebbero usufruire dei benefici della posizione all’interno del governo, senza pagare il prezzo della verifica elettorale. Tant'è che lo stesso vicepresidente è stato generalmente costretto ad esercitare un ruolo marginale (e, comunque, poco visibile) all’interno della presidenza. Se si escludono gli amici (politici) fidati, il presidente ha cercato di risolvere il problema enorme del «governo di un uomo solo» tecnicizzando la presidenza, cioè facendosi circondare da esperti, incaricati di dirigere le varie policies dell'esecutivo, ma trattenendo per sé la gestione della politics (cioè la elaborazione e definizione degli indirizzi strategici perseguiti dalla presidenza). Dunque, democratizzazione della presidenza e governo attraverso la tecnica sono venuti a rafforzarsi reciprocamente, secondo una relazione virtuosa che non ha paragoni in Europa: proprio perché nessuna democrazia europea ha un governo separato (Fabbrini 1999c). Il governo dei tecnici si è presentato sotto forma di un governo del presidente consigliato da un vasto staff di esperti. Insomma, l’incentivo sistemico, nel sistema di governo presidenziale statunitense, è esattamente l’opposto di quello che è in azione nel sistema di governo parlamentare: nel primo, i tecnici debbono rimanere tali, per potere entrare in politica; nel secondo, i tecnici debbono cessare di essere tali, se voglio-

no entrare in politica. Con l’eccezione dell’Italia tra il 1992 e il 1996, quando i tecnici hanno potuto fare politica senza diventare politici. Un’eccezionalità che ha cominciato ad essere regolarizzata, tuttavia, dopo il 1996. Vediamo il secondo tratto: date le caratteristiche del sistema di partito statunitense, i tecnici sono entrati in politica in quanto espo-

nenti di specifiche istituzioni o comunità di ricerca. E nota la debolezza dei partiti statunitensi del XX secolo. Il punto è che tale debolezza ha impedito, ai partiti, di realizzare una qualsivoglia «relazione coloniale» con le istituzioni culturali esterne alla politica (dalle università, private o pubbliche, alle fondazioni di ricerca). Ciò non ha 115

impedito, a taliistituzioni, di elaborare una loro «predisposizione politica». Nondimeno, tale predisposizione, nella generalità dei casi, non è riuscita a fare premio sulla qualità della ricerca svolta. Di qui, il senso di appartenenza istituzionale condiviso da coloro che in tali istituzioni hanno lavorato, corroborato da una verifica costante (di ti-

po meritocratico) del lavoro svolto. Ecco perché tali istituzioni hanno potuto evolvere, in particolare nel secondo dopoguerra (Weaver 1989), come autentici «serbatoi di pensiero» (#hizk tanks), a cui han-

no potuto attingere i vari presidenti per soddisfare le esigenze funzionali di un governo personale nelle condizioni di una democrazia di massa. Le indagini empiriche mettono in luce l’esistenza di tale «spirito istituzionale» nei tecnici (e in particolare nei professori) impegnati alla Casa Bianca o nelle varie agenzie di regolamentazione: sono lì anche in quanto membri dell’una e dell’altra istituzione. È la singola istituzione che ha una predisposizione politica, prima ancora che il singolo individuo-tecnico: una predisposizione, tuttavia, che non è sufficiente per legittimare la sua utilità governativa. Quest’ultima risiede principalmente nella qualità delle competenze fornite. Assai diversa, invece, è stata l’esperienza italiana del 1992-96: i

professori divenuti ministri non sono mai stati percepiti come gli esponenti di un'istituzione di ricerca, pubblica o privata che fosse. Piuttosto, essi erano dei singoli individui, dotati di particolari competenze, oppure collocati in un particolare sistema di relazioni politico-personali «che contano». Naturalmente, in alcuni casi, essi erano stati messi alla prova, prima di essere utilizzati in politica, in alcune istituzioni di ricerca (come Cer, Irs, Ispi, Istituto Cattaneo, No-

misma) o associazioni di cultura (come le fondazioni Einaudi o Rosselli, Il Mulino, Politeia). Ma mai, una volta entrati in politica, hanno potuto essere considerati esponenti di quelle istituzioni o associazioni. E, ancora di più, essi non hanno potuto essere considerati espo-

nenti di istituzioni universitarie pubbliche o private. Anzi, in proposito, si è verificato un singolare paradosso: di tanto è cresciuto il peso dei professori universitari in politica, di tanto è diminuito quello dell'università in quanto tale nella vita pubblica. In molti casi, il secondo processo ha alimentato il primo: la perdita di prestigio dell’università è stata all’origine della fuga dei professori dagli atenei. Ma, a sua volta, il primo ha finito per accentuare il secondo: l’autoesclusione degli studiosi più brillanti dall’università ha ulteriormente impoverito quest’ultima. Dopo tutto, la formazione di identità di ri116

cerca nelle istituzioni universitarie richiede un riconoscimento esterno (conseguibile con la fedeltà al criterio del merito) e una coesione interna (conseguibile con un reclutamento basato sui progetti): riconoscimento e coesione di cui l’università italiana non ha mai beneficiato. Anzi, se è possibile, l'università italiana, pubblica e privata, ha

accentuato, nel suo governo interno, la logica consensuale propria del sistema politico (Simone 1994). Una logica che ha premiato le appartenenze ideologiche, le amicizie accademiche, il clientelismo no-

tabiliare, a danno della selezione competitiva degli eccellenti. Insomma, i professori che sono entrati in politica sono stati «liberi viaggiatori», ovvero «promotori di issues», privi di un autentico retroter-

ra istituzionale (anche perché, talora, la loro ascesa al potere e alla notorietà pubblica, è stata accompagnata dalla gelosia dei colleghi, rimasti anonimi e demotivati). Se si considerano questi due tratti distintivi, si possono intuire le ragioni, diverse, per le quali il potere dei professori non si è tradotto, né negli Stati Uniti e né in Italia, in feczocrazia. La tecnocrazia

presuppone due condizioni: che i tecnici siano messi nelle condizioni di sostituire i politici al potere, e quindi che possano esercitare quest’ultimo in quanto gruppo sociale istituzionalizzato. Non conosco casi empirici nazionali in cui questa doppia condizione si sia verificata. Neppure la stessa vicenda dell’Unione europea, in particolare quella della Commissione europea, è riconducibile al governo tecnocratico in senso proprio, anche se essa è stata oggetto di criti-

che motivate in proposito (Radaelli 1999). Certamente l’Unione europea è quella che più si avvicina all’esperienza statunitense, proprio

perché anch'essa ha finito (finora) per organizzarsi intorno ad un sistema con alcune analogie a quello della separazione istituzionale dei poteri (Fabbrini 2000c). E in questo sistema, la Commissione europea, in quanto equivalente funzionale di un esecutivo sovranazionale, ha finito per ricorrere alla collaborazione di tecnici e competenti per ordinare il processo di integrazione economica (prima) e monetaria (poi) dei membri dell’Unione. Dopo tutto, la Commissione eu-

ropea, proprio per non suscitare l’ostilità negli esecutivi nazionali, ha finito per privilegiare l’azione regolamentativa, coerente con l’integrazione regativa da quegli esecutivi preferita (Scharpf 1999), rispetto all’azione più squisitamente governativa, che quegli esecutivi non potevano accettare. Per di più, come ha ricordato Majone (1996), la

regolazione non costa (finanziariamente): un aspetto cruciale per la DI

I

Fig. 2. I ministri «insiders» e «outsiders» nel periodo 1945-84 (valori assoluti)

160 140 120 100 80 60 40 20

|

RIMIGZEZA

[3] insiders

Nota: pur scontando l’impropria semplificazione, il primo gruppo di paesi è riconducile alle democrazie competitive e il secondo alle democrazie consensuali.

Commissione europea che non dispone, al contrario degli esecutivi nazionali, di un proprio significativo bilancio. Ovviamente, la regolazione, sia pure negativa, dei mercati (cioè l'eliminazione di tutte le barriere alla formazione di un mercato unico europeo) ha richiesto competenze tecniche, di cui la Commissione progressivamente si è dotata. Tuttavia, anche se queste competenze tecniche hanno finito per condizionare l’agenda europea, nondimeno il loro esercizio è avvenuto in un contesto di complesse influenze interne (da parte del Consiglio dei ministri e del Parlamento europei) ed esterne (da parte dei singoli Stati nazionali), tali da bilanciare la possibile predominanza tecnocratica della Commissione europea. Ma tale sistema di influenze, va da sé, non ha ancora risolto (in modo coerente) il pro-

blema del deficit democratico che ha accompagnato le istituzioni europee sin dall’inizio dell'avventura dell’integrazione. 118

Conclusione In Italia, dunque, l’ascesa dei professori al potere non può essere interpretata come il segnale dell’«involuzione tecnocratica» della nostra democrazia. Piuttosto, quella ascesa è stata l’espressione di una crisi storica del governo di partito, ma anche dei cambiamenti registrati dalla democrazia italiana. Innanzitutto, della sua de-ideologizzazione ed europeizzazione, che hanno trovato la classe politica largamente impreparata. Poi, della sua de-partitizzazione, che ha aperto gli accessi alla vita pubblica (e al sistema di rappresentanza e di decisione) ad individui portatori di competenze, così come a gruppi portatori di interessi (in particolare territoriali) a lungo non riconosciuti. Dopo il 1996, la situazione di straordinaria influenza politica dei professori è stata progressivamente ridimensionata. Dopo tutto,

il governo della democrazia spetta a chi si sottopone al giudizio degli elettori, e non già a quello di una commissione d’esame. Tant'è che, come abbiamo visto dai dati raccolti, nella generalità delle democrazie europee i ministri tecnici (o 0ufsiders) rappresentano una

componente limitata di ministri, che diventa ancora più limitata se la si commisura direttamente al numero dei ministri insiders (vedi Fig. 2). Insomma, nelle democrazie che funzionano, la politica non ha avuto bisogno di farsi sostituire dalla tecnica per soddisfare le esigenze dei cittadini.

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Parte seconda

Governare la transizione

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IV

Il governo Prodi

L’alternanza Le elezioni nazionali parlamentari del 21 aprile 1996 sono state le prime elezioni (nella storia repubblicana) ad essere state condotte secondo una logica prevalentemente bipolare da parte di coalizioni nuove o significativamente ridefinite. Esse hanno registrato la vittoria, al Senato ma non alla Camera, della coalizione di centro-sinistra

(detta dell’Ulivo e costituita dal Pds, dal Partito popolare o Ppi, dai Popolari democratici o Pd, da Rinnovamento italiano o Ri e dai Verdi). Infatti, in termini di seggi parlamentari, l’Ulivo ha conseguito 285 seggi alla Camera (cioè il 45,2% del totale dei seggi) e 156 al Senato (cioè il 49,5% del totale dei seggi). Dunque, senza i 35 seggi del Prc della Camera, non si sarebbe potuta formare la maggioranza di centro-sinistra (D’Alimonte, Bartolini 1996). Comunque, l'alleanza tra l'Ulivo e il Prc ha consentito la formazione del governo Prodi nel

maggio del 1996, governo che rimarrà in carica fino all’ottobre del 1998 (vedi Appendice A, Tab. A.4). Dunque, nonostante una legge elettorale «maggioritaria w24 distorta» (Fabbrini 1999a), il cosiddetto mattarellum, gli elettori han-

no imposto il bipolarismo ad una classe politica che in una larga parte aveva continuato a non accettarlo. Tant'è che, dopo le elezioni del marzo 1994, dai partiti di quello che poi diverrà il centro-sinistra, le. critiche al bipolarismo non erano mancate. Ad esempio, l’allora segretario del Pds aveva sostenuto (D'Alema 1995, 14): Noi abbiamo in Italia una scuola di teorici dell’alternanza che sono sciocchi. Naturalmente non è così grave che ci sia un gruppo di sciocchi,

123

non è un reato. Il reato è dare retta agli sciocchi, cioè a quelli che hanno pensato che l’Italia, dotandosi di una legge maggioritaria, diventasse come l'Inghilterra.

L’attivazione di una dinamica bipolare in appena due anni, con una qualche alternanza tra il centro-destra che aveva prevalso nel 1994 e il centro-sinistra nel 1996, e tutto ciò ronostante il sistema elettorale introdotto, mostra che, forse, quel «riformismo elettorale» non era stato poi così «sciocco». Naturalmente, l’alternanza attivata era da considerarsi tutto meno che stabile. Anzi, come rilevò subito Sartori (1996, 11), «finché re-

steremo con un sistema uninominale secco miscelato con una quota proporzionale, il sistema Italia continuerà a poggiare su gambe traballanti e malsicure». Insomma, il mzattarellum aveva generato, il 21 aprile, una maggioranza di governo più per caso che per necessità.

Tant'è che, come spiegò anche Mannheimer (1996, 2), «il fatto che questa volta (il r2attarellum) abbia prodotto una maggioranza dipende da una sorta di colpo di fortuna, legato alla particolare distribuzione territoriale del voto». Infatti, sarebbe bastato un accordo di desistenza tra il Polo e la Fiamma tricolore del Msi per dare vita ad un

pareggio sostanziale tra le due coalizioni nazionali, poiché quell’accordo avrebbe potuto sottrarre all’Ulivo probabilmente 29 seggi. Tuttavia, seppure con questi limiti non da poco, il cammino verso

una democrazia dell’alternanza era iniziato. Come scrisse lo stesso Bobbio (1996, 1 e 6), che pure era stato a lungo uno scettico della riforma elettorale: La vera novità di queste elezioni [del 1996] è [che... pler la prima volta nella storia del nostro Paese in due elezioni successive, quelle del 1994 e quelle di questi giorni, hanno vinto due coalizioni opposte... Questo che cosa significa? Significa che è avvenuto nel nostro Paese quello che non era mai avvenuto prima: l’alternanza. L’alternanza si era avviata, ma i problemi non mancavano. E non sono mancati perché, nel biennio 1996-98, importanti innovazioni nel processo di governo sono state introdotte, ma nulla è stato fatto

per quanto riguarda il sisterza di governo. Ed è in questa assenza di innovazioni istituzionali che risiede la ragione per la quale il governo emerso dalle elezioni è stato poi sfiduciato dal Parlamento. Anche qui, focalizzerò la mia attenzione sui rapporti tra governo, Par124

lamento e presidente della Repubblica, cercando di mostrare, appunto, come (arche nel periodo in questione) il governo si sia rafforzato a danno del Parlamento, ma anche come tale rafforzamento non

abbia potuto divenire irreversibile (lasciando così margini significativi di azione al presidente della Repubblica, prima, e ai leader di partito, dopo). Infatti, tale rafforzamento è stato l’esito di fattori contingenti più che di fattori permanenti, in quanto è stata la pressione imposta dalla necessità di rispettare i parametri per l'adozione della moneta unica europea (il «vincolo esterno») che ha spinto verso una riorganizzazione del nostro processo decisionale nazionale (in particolare nel settore della politica finanziaria e di bilancio). Si è trattato di una pressione forte, ma non sufficiente per avviare la trasformazione istituzionale. Ma cominciamo dall’inizio.

La campagna elettorale Cominciamo, cioè, dalla campagna elettorale (Fabbrini 1996b). Ombre e luci si sono evidenziate nel corso della campagna elettorale del 21 aprile. Per quanto riguarda le prime, è fuori di dubbio che alcuni aspetti, di quella competizione, abbiano confermato la fragilità del sistema di partito in formazione. Le due coalizioni nazionali dell’Ulivo e del Polo si sono rivelate essere (e quella di centro-sinistra in particolare) più l'esito di una somma di partiti, che il risultato di una aggregazione programmatica, dotata di una sua identità specifica. Basti considerare il processo di selezione dei candidati, in particolare di quelli per i collegi uninominali. Raramente si è assistito, nel corso della vicenda repubblicana, ad una selezione così centralizzata nazionalmente. Ha scritto Brancoli (1996, 1-2):

La gestione delle candidature in questa [del 21 aprile 1996, n.d.r.] tor- . nata elettorale, fortemente centralizzata da parte di tutte le forze politiche e ispirata prevalentemente a criteri diversi da quello della rappresentanza basata sul radicamento nel territorio con le sue realtà sociali, non

ha solo contraddetto lo spirito del nuovo sistema ma sembra diretta a creare un ceto di neo-professionisti della politica che riprodurrà in breve le storture del vecchio ceto. Eppure, nonostante questi aspetti poco convincenti, la campagna

elettorale è stata rischiarata anche da alcune luci. 12)

Innanzitutto, gli elettori hanno mostrato di trovarsi a loro agio nella mentalità della competizione bipolare. Si è trattato di un fatto di straordinaria importanza, se è vero che il nostro paese, come sappiamo, sin dalla sua formazione unitaria è stato connotato dall’assenzadi un’attendibile competizione politica per il governo. I tre regimi politici che si sono succeduti dal 1861 (quello liberale, quello fascista e quello repubblicano), pur profondamente diversi tra di loro sia sul piano dei valori che delle istituzioni, hanno tuttavia registrato una comune assenza di alternanza al governo tra schieramenti concorrenti (Salvadori 1994). Ma il punto è che quei regimi hanno goduto di un vasto consenso nel paese. E, soprattutto, ha goduto di consenso l’idea da essi celebrata, e cioè che il paese avesse inevitabilmente bisogno di un centro politico a cui ancorarsi. Così, la predisposizione bipolare degli elettori ha costituito un cambiamento storico, ha segnato un passaggio d’epoca.

D'altronde, già gli strumenti empirici di registrazione delle opinioni dei cittadini (i sondaggi, ifocus groups, i dibattiti) avevano indicato, prima delle elezioni, che la maggioranza dei cittadini ragionava più in termini di «centro-destra» e di «centro-sinistra» che di appartenenza partitica. Ma l’esito delle elezioni è stato in proposito, se è possibile, ancora più preciso. Esso ha mostrato, infatti, per dirla con Mannheimer (1996, 2), «che è calata significativamente la quota di chi si sente di centro», cioè che è diminuito «il centro tradizionale [...] del moderatismo, cattolico o laico, che rifugge da posizioni estreme», anche se è aumentato il centro che si colloca non in mezzo, ma «al di fuori degli schieramenti tradizionali», come quello le-

ghista. Insomma, l’asse di divisione prevalente nel paese si è dimostrato essere quello che connota anche le altre grandi democrazie occidentali, e cioè l’asse sinistra-destra, con sovrapposto un asse di

divisione secondario relativo alla frattura territoriale tra alcune regioni del Nord e il centro nazionale. In secondo luogo, quella campagna ha mostrato come gli elettori abbiano imparato a misurare i programmi con il metro della credibilità dei leader nazionali. Così, anche nella democrazia nata dalla

«paura del tiranno», la politica si è infine personalizzata. I leader in carne ed ossa (in questo caso i candidati alla presidenza del Consiglio) sono stati gli attori principali della competizione. La pessonalizzazione della campagna elettorale ha mostrato di essere apprezzata dagli elettori, in quanto li ha forniti di un criterio per la semplifi126

cazione del giudizio elettorale. Naturalmente, non bisogna sottovalutare i pericoli della videopolitica che tale processo comporta, come Sartori (1997) ha chiesto opportunamente di non fare. Tuttavia, è stato un grande successo degli elettori l’aver imposto, ad una classe politica recalcitrante a perseguire la strada della politica visibile perché costituita di responsabilità personali, la chiara ed anticipata indicazione del leader di coalizione, incaricato di assumersi, in caso

di vittoria elettorale, il compito della guida del governo. Basti pensare a ciò che era avvenuto nelle elezioni del 1994, quando la classe politica, a sinistra e al centro, si era rifiutata di fornire quella indicazione. A tutto vantaggio della destra che quella indicazione, invece, l’aveva fornita inequivocabilmente. In terzo luogo, gli elettori hanno mostrato di apprezzare la virtù della scelta ragionata. Naturalmente, esistono anche in Italia settori di elettorato che hanno una generale predisposizione politica poco o punto intaccabile dalla specifica campagna elettorale. Insomma, anche da noi c’è un elettorato «naturalmente» di sinistra e «naturalmente» di destra. Anche se tale elettorato sta registrando, ovunque, un sensibile declino quantitativo (Mair 1999). Tuttavia, nelle elezioni in questione, gli elettori che hanno fatto vincere sono stati quelli che hanno deciso il loro voto almeno nelle ultime due settimane, sul-

ia base di considerazioni particolari (di breve periodo) più che generali (di lungo periodo). Sono stati loro che hanno deciso l’esito della gara elettorale del 21 aprile, in quei collegi detti marginali perché aperti ad un esito elettorale incerto. Tra l’altro ciò contribuisce a spiegare anche la differenza significativa che si è registrata tra il voto maggioritario e il voto proporzionale. Una differenza che ha penalizzato il centro-destra (che ha ricevuto ben 16.481.785 voti nel proporzionale e solo 15.028.986 nel maggioritario) mentre ha premiato il centro-sinistra (che ha ricevuto 16.232.961 voti nel proporzionale e ben 16.729.360 voti nel maggioritario). Insomma, senza il successo dell’onorevole Berlusconi nel 1994

non ci sarebbe stata la vittoria dell'onorevole Prodi nel 1996: perché quest’ultima ha costituito l’esito degli insegnamenti tratti dalla sconfitta di allora. Il centro-destra si affermò nel 1994 perché la sinistra e il centro (ostile alla destra) andarono divisi alla competizione elettorale. Ma anche perché il centro-destra ci andò con un leader. Avendo rimediato ai propri errori di allora, cioè avendo appreso dall'esperienza, il centro-sinistra ha potuto, nel 1996, gareggiare vit127

toriosamente con il centro-destra. Naturalmente, l’Italia del 1994 e

l’Italia del 1996 non erano «strutturalmente» diverse: nel 1996 si era solamente allontanata, dal centro-destra, una minoranza di elettori

che lo avevano votato nel 1994. Una minoranza, per di più, che solamente in piccola parte era andata a sostenere il centro-sinistra, preferendo sostenere (al Nord) i candidati della Lega e (al Sud) quelli del Msi-Fiamma tricolore. Ma è stato questo spostamento che ha fatto comunque la differenza.

La formazione del governo Luci e ombre si sono proiettate anche sul processo di formazione del governo. È vero (le luci) che le elezioni hanno stabilito quale fosse la coalizione vincente ed è anche vero che i partiti che la costituivano hanno dichiarato di condividere le grandi linee del suo programma. Ed è vero anche che, in diciassette ore, un incarico (per la presiden-

za del Consiglio) è stato trasformato nella nomina del presidente del Consiglio (vedi Appendice A, Tab. A.3). Infatti, il 6 maggio il presidente della Repubblica aveva comunicato che avrebbe ricevuto solamente, per le consultazioni di rito, le delegazioni delle coalizioni che si erano presentate alle elezioni, e non già i singoli gruppi parlamentari (come era avvenuto nel lungo periodo postbellico). Quindi, il 15 maggio erano iniziate le consultazioni del presidente della Repubblica per la formazione del governo e il 16 maggio fu conferito l’incarico all’onorevole Romano Prodi, in quanto leader riconosciuto della coalizione vincente di centro-sinistra. E così, il 17 maggio, Prodi aveva potuto notificare l’attribuzione degli incarichi governativi. Erano passati (appena) 26 giorni tra le elezioni e la nascita del governo. Il 24 maggio, al Senato, e il 31 maggio, alla Camera, il governo Prodi ha quindi ricevuto la fiducia del Parlamento. Nonostante queste luci, diverse ombre hanno oscurato sin da subito la nuova maggioranza elettorale. Tanto per cominciare, come abbiamo visto, il governo Prodi non si sarebbe potuto formare senza il soccorso (alla Camera, naturalmente) di Rifondazione comunista (Prc), i cui 35 seggi gli erano necessari per superare la maggio-

ranza dei 316 seggi che poteva metterlo al riparo dagli attacchi dell’opposizione. Ora, poiché l'Ulivo doveva governare (per alieno un paio di anni) la distribuzione dei costi (pubblici) piuttosto che dei 128

benefici (privati), per quale ragione il Prc avrebbe dovuto avallare una politica poco popolare? Era evidente che il Prc avrebbe chiesto una contropartita precisa per il suo sostegno al governo. E la contropartita principale non poteva essere che quella della insabbiatura parlamentare delle riforme istituzionali (a cominciare dalla riforma elettorale in direzione del doppio turno uninominale e dall’elezione diretta del capo dello Stato o del capo del governo): quelle riforme, infatti, avrebbero ridimensionato proprio il potere di condizionamento di quel partito sulla maggioranza di governo. Una contropartita, comunque, che non pochi (si pensi al Partito popolare o a set-

tori dello stesso Pds) all’interno dell'Ulivo erano già pronti a concedere, dato che essa avrebbe favorito pure i loro interessi partigiani o soddisfatto le loro idee politiche. Poi, per quanto riguarda la lealtà politica della coalizione vincente, lo stesso Prodi non poteva dormire sonni tranquilli. Non disponendo di una base elettorale pienamente autonoma, il capo del governo si era trovato sin dall’inizio premuto tra due esigenze: quella della coalizione che aveva vinto le elezioni e quella dei partiti della coalizione che avevano contribuito a farla vincere. Di qui, la tensione che si era manifestata già durante il processo di formazione del governo. In quell’occasione, da un lato venne invocato l'ormai celebre art. 92 $ 2 della Costituzione («Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri») per enfatizzare l'autonomia decisionale di Prodi nella scelta dei ministri; ma, dall’altro lato, i leader dei partiti della coalizione si impegnarono in un negoziato serrato, in cui furono avanzate bislac-

che teorie di equilibrio infracoalizionale (come quando fu proposta la regola, mai valsa neppure nel passato dei governi a predominio democristiano, che lo stesso partito della coalizione non potesse avere il controllo contestuale sia del ministero della Difesa che del ministero degli Interni). Si è trattato di una sorta di schizofrenia che esprimeva una sostanziale divergenza d'’interessi tra il partito maggiore della coalizione (il Pds) e il presidente del Consiglio incaricato. Infatti, se, da un lato, il maggiore partito della coalizione (il Pds) aveva bisogno del successo del governo per mostrare la propria affidabilità e competenza governative, dall’altro lato, tuttavia, non po-

teva vedere di buon occhio un eccessivo successo personale del presidente del Consiglio, perché esso avrebbe finito per rafforzare un leader rivale del segretario di quel partito. Tale rivalità, peraltro, si 129

era subito tradotta nel contrasto di opinioni tra la componente di governo e la componente di partito dello stesso Pds. Inoltre, il nuovo governo doveva fare i conti con la predisposizione centralistica di buona parte della classe politica popolare e pidiessina, che si era fatta sorprendere (a casa sua o nei dintorni) dalla rivolta nordista esplosa all’inizio degli anni novanta (Salvati 1995). Per di più, l’alleanza con il Prc aveva accentuato quella predisposizione, dato che nessuno poteva dubitare della fede centralistica dei comunisti rifondati. Ora, tale predisposizione si era resa subito visibile nella strutturazione dello stesso governo Prodi, tant'è (come ha fatto rilevare Cassese 1996, 4) che fu re-istituito il ministero dell’ Agricoltura «la cui soppressione è stata sempre richiesta dai sostenitori del regionalismo, non vedendosi alcuna ragione al mantenimento di un apparato statale, quando le funzioni sono comunitarie o regionali», mentre veniva mantenuto il ministero dei Lavori pubblici, la cui soppressione «era imposta da ragioni di decentramento e di risparmio [...] perché i lavori pubblici — salvo quelli relativi alle grandi infrastrutture — spettano, secondo la Costituzione, alle Regioni». Dunque, anche sui poteri del governo centrale, si erano subito manifestate importanti divergenze all’interno della coalizione di centro-sinistra vincente (e, soprattutto, tra i sostenitori della coalizione, gui-

dati dal presidente del Consiglio incaricato, e i leader dei partiti della coalizione e del partito alleato). Insomma, se è vero che, nel maggio del 1996, la fiducia al governo era stata resa possibile dall’accordo parlamentare tra componenti politicamente limitrofe (la coalizione di centro-sinistra dell'Ulivo e il Partito della rifondazione comunista o Prc), e se è vero che tale

accordo era stato di già preparato dalle desistenze che l’una e l’altro si erano scambiate durante la campagna elettorale in non pochi collegi uninominali, è altrettanto vero che quell’accordo ha evidenziato l’esistenza di non poche contraddizioni tra le forze che l'avevano stipulato. Innanzitutto, sul piano dei contenuti, l’accordo ha dato vi-

ta ad una coalizione programmaticamente spuria, in quanto costituita di componenti politiche che, seppure vicine politicamente, continuavano a rimanere ideologicamente distanti tra di loro (tant'è che il Prc non ha voluto, o potuto, assumere responsabilità dirette nell’esecutivo). Poi, sul piano organizzativo, l'accordo ha dato vita ad una coalizione a gerarchia incerta, in quanto connotata da una strutturale divergenza di interessi tra il capo del governo e la sua 130

squadra e i leader dei partiti della coalizione (tant'è che questi ultimi non hanno voluto, o potuto, assumere responsabilità dirette nell'esecutivo).

Il presidente della Repubblica La formazione di una maggioranza parlamentare per via elettorale ha finito per ridurre comunque l’influenza governativa del presidente della Repubblica (Fabbrini 1998). Influenza che, come abbiamo visto, aveva assunto caratteristiche semipresidenziali nell'esperienza

dei governi tecnici del periodo 1992-96. Ma si è trattato di un ridimensionamento, e non già di una neutralizzazione. Perché le caratteristiche spurie di quella maggioranza, con le tensioni che si sono periodicamente registrate nel corso della durata del governo tra V’Ulivo e il Prc, hanno fornito al presidente della Repubblica non poche opportunità di influenza sul governo. Insomma, il governo si è parlamentarizzato (dopo la lunga fase degli esecutivi voluti e sostenuti dal presidente della Repubblica), ma non si è parlamentarizzata in equivalente misura l’azione di quest’ultimo (vedi Tab. 1). Infatti, il presidente della Repubblica ha continuato a rivendicare a sé l’esercizio di importanti poteri con un’implicazione governativa, alcuni formali (cioè garantiti dalla Costituzione) e altri di fatto (cioè acquisiti nella pratica). Tra i primi, è sufficiente ricordare il suo

ripetuto richiamo (ad esempio, il 29 novembre 1996, oppure il 6 ottobre 1997, oppure il 1° ottobre 1998 — quando il Prc prese le distanze dalla maggioranza parlamentare) dell’art. 88 che affida esclusivamente al presidente della Repubblica (pur dopo aver sentito il parere dei presidenti delle Camere) il potere di scioglimento anticipato delle Camere: scioglimento, tuttavia, che contrastava (come Scalfaro ebbe a dire a Perugia il 1° ottobre 1998) con il suo dovere di rispettare «la puntualità delle scadenze [che è] un elemento importante della [...] difesa della democrazia». Oppure il suo richiamo all’art. 87 (ad esempio, il 17 giugno 1996 o il 30 maggio e il 20 settembre 1997, chiedendo al governo «di fare qualcosa contro la minaccia secessionista»), in quanto esso riconosce il presidente della Repubblica come l’unico rappresentante dell’unità nazionale. Tra i secondi, vale la pena di ricordare il suo ripetuto richiamo (ad esempio, il 30 settembre 1997) di un (costituzionalmente indefinito) «po131

Tabella 1. Iniziative del presidente della Repubblica con implicazioni istituzionali (giugno 1996-ottobre 1998) 4 giugno 1996

14 giugno 1996

17 giugno 1996

25 giugno 1996

25 ottobre 1996

18 novembre 1996

29 novembre 1996

10 dicembre 1996 9 marzo 1997

1° maggio 1997 30 maggio 1997 31 maggio 1997

12 giugno 1997

3-10 luglio 1997 2 luglio 1997 31 luglio 1997 20 settembre 1997 30 settembre 1997 3 ottobre 1997

6 ottobre 1997 10-16 ottobre 1997 31 dicembre 1997

Resa pubblica lettera a Prodi (datata 29 maggio) con la quale si chiede di affrontare il problema della crescita abnorme dei decreti legge Lettera a Prodi sul problema della violenza delle immagini televisive Intervento in difesa dell’unità nazionale (Consiglio regionale della Calabria) No all'Assemblea costituente, sì alla Bicamerale (approvata poi il 3 agosto 1996 — prima votazione — e il 22 gennaio — seconda votazione) Difesa della richiesta del governo (al Parlamento) di 59 deleghe con la legge finanziaria 1996 (contro le proteste del Polo) Replica al Polo (che l'aveva criticato per le nomine dei tre giudici costituzionali) che l’Italia non è in regime di dittatura Smentita (dall’Egitto) delle dichiarazioni di D'Alema: la caduta del governo non implica necessariamente elezioni anticipate Convocazione dei presidenti delle Camere per un vertice

sulla giustizia Difesa dell'autonomia e dell’indipendenza della magistratura dai vari attacchi che le vengono mossi Critica della Commissione europea per i giudizi sull’Italia Critica della Lega e della minaccia di secessione Si dichiara non contrario all’elezione diretta del presidente della Repubblica (purché si mantenga un ruolo importante per il Parlamento) Convocazione del Consiglio superiore della difesa per valutare il comportamento dell’esercito italiano in Somalia Elogi al lavoro della Bicamerale Difesa del proprio potere di esternazione Condanna degli estremisti palestinesi per una strage compiuta a Gerusalemme Ancora contro la Lega/secessione

Invocazione del proprio potere di consiglio per difendere il «sociale» nello stato sociale Invito alla maggioranza a trovare un accordo Stop allo scioglimento anticipato delle Camere: è al presidente della Repubblica che spetta l’ultima parola Attivi interventi di ricucitura nella maggioranza (16 ottobre — Prodi riceve la fiducia alla Camera e al Senato) Critica alle manette facili (discorso di fine anno)

132

29 gennaio 1998

23 marzo 1998 13 aprile 1998 21 maggio 1998

28 maggio 1998 12 giugno 1998 23 giugno 1998 25 giugno 1998 13 settembre 1998 1° ottobre 1998 12 ottobre 1998

19 ottobre 1998 20 ottobre 1998 21 ottobre 1998

Sostegno all’Associazione nazionale magistrati (intervento al Congresso Anm) Rinvio alla Camera della legge sul finanziamento pubblico dei partiti approvato dal Senato Dichiarazione contro l’ipotesi di amnistia per i reati di Tangentopoli Proposta di togliere dalla Costituzione la «presunzione di innocenza» in presenza di due sentenze di condanna Critica al leader del Polo per le sue ambiguità sulle riforme costituzionali Riproposta dell’elezione diretta del presidente della Repubblica Richiesta al governo di procedere ad un «chiarimento politico-programmatico» con la sua maggioranza Difesa della crisi come opportunità di chiarimento Invito a riprendere il dialogo sulle riforme istituzionali a partire dall’elezione diretta del capo dello Stato Dichiarazione contro lo scioglimento anticipato Le consultazioni sulla crisi di governo sono fatte solamente per schieramenti Incarico «obbligato» al segretario del Pds, divenuto Ds dal febbraio 1998, di formare il nuovo governo Difesa della laicità dello Stato (dopo le critiche del quotidiano vaticano sulla scelta di incaricare il segretario dei Ds) Il segretario dei Ds è nominato presidente del Consiglio

tere di consiglio» che spetterebbe al presidente della Repubblica, in particolare nelle situazioni in cui si verifica «una tensione» all’interno della maggioranza. Comunque sia, il capo dello Stato ha continuato ad esercitare un'influenza non trascurabile su alcuni temi, propriamente governativi, di politica estera e di politica interna (vedi Tab. 2). Tale influenza è stata inversamente collegata alla coesione della maggioranza: là dove essa è stata alta, l’influenza è stata minima; e viceversa. Tant'è

che, nella politica interna, l'intervento presidenziale si è focalizzato su quei temi (politica del lavoro, politica pensionistica e politica della giustizia) che avevano messo in luce l’esistenza di divisioni significative all’interno della maggioranza. Un intervento presidenziale che, naturalmente, ha raggiunto il suo apice, prima, durante la crisi non definitiva tra il 30 settembre e il 16 ottobre 1997 e, poi, durante la crisi definitiva dell’ottobre 1998 del governo Prodi. Nel primo ca133

Tabella 2. Iniziative del presidente della Repubblica con implicazioni governative dirette (giugno 1996-ottobre 1998) 1. La politica estera 4 marzo 1997

Critica ai tecnocrati della Banca europea degli investimenti

5 aprile 1997 1° maggio 1997

31 luglio 1997 6-7 novembre 1997 16-17 dicembre 1997 5 febbraio 1998

Chiede al governo di assumersi le proprie responsabilità Critica alla Commissione europea per i giudizi sull'Italia Critica gli estremisti palestinesi Critica al governo palestinese per non rispettare gli accordi Critica al nazionalismo eccessivo Richiesta agli Usa di render conto per la tragedia del Cermis

2 giugno 1998 9 giugno 1998

Critica del progetto di riforma dell'Onu Critica della ripresa degli esperimenti nucleari francesi Critica della politica cinese contro i diritti umani

2. La politica interna 16 febbraio 1997

Richiamo al governo affinché riveda il sistema pensioni-

15 aprile 1998

27 febbraio 1997 6 marzo 1997

12 dicembre 1997 12 dicembre 1997 12 marzo 1998 23 marzo 1998 3 giugno 1998

stico Critica delle manifestazioni dei Cobas del latte Convoca Veltroni, Ciampi, Visco e Micheli per avere

«dettagliate spiegazioni» sulla legge finanziaria da presentare entro il 30 settembre Convoca il presidente del Consiglio e alcuni ministri per sollecitare interventi immediati Critica il corporativismo dei Cobas del latte e chiede al governo di fare qualcosa per ripristinare la «normalità» Sostegno al ministro della Sanità contro la decisione del Tar del Lazio Richiesta ai sindaci di «assillare» il governo sul problema dell'occupazione Sostegno a coloro che vogliono un’azione di governo più incisiva

so, il presidente della Repubblica ha inizialmente cercato di mediare tra l'Ulivo e il Prc (sollecitando il governo, il 30 settembre, a «non dimenticare il ‘sociale’ nello stato sociale», oppure invitando la maggioranza, il 3 ottobre, «a trovare un accordo per il bene del Paese»),

per poi imporre la soluzione della crisi, affermando che non avrebbe comunque sciolto il Parlamento (dichiarazione del 6 ottobre), riducendo così i margini di manovra del Prc. Nel secondo caso, dopo aver 134

preso atto della sfiducia espressa dalla maggioranza (per 1 voto) della Camera nei confronti del governo il 9 ottobre, il presidente della Repubblica ha quindi operato per affidare l’incarico al segretario del Pds (divenuto Ds dal febbraio precedente), sostenendo che non vedeva «nessuna incostituzionalità per l’incarico ad una persona diversa da chi ha guidato la coalizione in campagna elettorale (dato che) il successore appartiene alla medesima coalizione che ha vinto le elezioni» (dichiarazione del 16 ottobre 1998). Si può dire che, tra il 1992 e il 1999 (cioè nel settennato del presidente Scalfaro), si sono avuti almeno tre tipi di influenza governativa del presidente della Repubblica: il presidente della Repubblica come «garante del governo» (nelle esperienze dei governi tecnici di Amato — 1992-93 —, di Ciampi — 1993-94 — e di Dini — 1995-96); il

presidente della Repubblica come «controllore del governo» (nell’esperienza del governo politico di Berlusconi — 1994); il presidente della Repubblica come «tutore del governo» (nell’esperienza del governo politico di Prodi tra il 1996 e il 1998). Tre varianti diverse di uno stesso fenomeno: e cioè dell’influenza governativa senza prece-

denti (Luciani, Volpi 1997; Fusaro 1998) esercitata del presidente della Repubblica. Sebbene quell’influenza sia stata declinata diversamente, nei diversi contesti politici, tuttavia essa ha risposto non tanto ad una predisposizione del presidente in carica, ma ad un’esigenza sistemica: garantire la governabilità del paese nelle condizioni di una crisi radicale del suo tradizionale sistema di partito. È ipotizzabile che un'istituzione che ha allargato nei fatti il suo potere, rinunci poi ad utilizzarlo per contrastare esiti che possano ridimensionarlo? Hine e Poli (1997) sembrano ritenere di sì. Ma vi sono esperienze che giustificano una conclusione meno ottimista.

La squadra di governo Se vi è una distinzione istituzionalmente inequivocabile tra il modello di democrazia competitiva e quello di democrazia consensuale, essa risiede nella struttura delle relazioni tra Parlamento e governo (da un lato) e governo e leader (dall’altro lato). Nelle seconde, quella struttura di relazioni è generalmente orizzontale mentre, nelle prime, essa è generalmente verticale. Cioè, nelle democrazie com-

petitive, il premier è preminente rispetto alla sua squadra di gover199

no, e il governo è preminente rispetto al Parlamento (o meglio alla sua maggioranza). Mentre, viceversa, nelle democrazie consensuali il capo del governo, il governo e il Parlamento sono sullo stesso piano di influenza! (Fabbrini 1999a). Ora, se consideriamo il rapporto tra il leader e il governo, si può dire che la premiership che Prodi ha esercitato nel biennio in questione è stata indubbia, anche se essa ha avuto le caratteristiche silenziose del tipo «listen and lead»?. Non poteva essere diversamente, viste sia le attitudini personali del premier che la natura politica della sua leadership (Parker 1997). Infatti, essendo stato il leader di una coalizione e non già di un partito, Prodi non ha potuto rinunciare alle caratteristiche del leader-arbitro. Tuttavia, essendo stato il leader di una coalizione legittimata (anche) dagli elettori, Prodi ha potuto pure assumere le caratteristiche del leader-attivista (per una distinzione tra i due tipi di leader, rinvio al mio Fabbrini 1999b). Così, Prodi, essendo stato il

capo di un governo coalizionale, ha dovuto riconoscere le necessità di una decisionalità collegiale. Tuttavia, essendo stato anche il capo di un governo emerso da una competizione bipolare tra coalizioni a leadership dichiarata, ha pure potuto sperimentare processi decisionali verticali. Il risultato è stato uno stile di governo, da parte del premier, non riconducibile né ad un ruolo transattivo e né ad uno tra-

sformativo. Uno stile di leadership che, combinando le caratteristiche dell’arbitro con quelle dell’innovatore, ha consentito comunque al premier di affermare una propria primazia. Un’affermazione favorita anche dal fatto che Prodi ha potuto connotarsi come un leader non partitico, cioè come un leader al di sopra dei partiti della sua coalizione. Con l'esito che il suo rafforzamento non ha potuto essere percepito, da questi ultimi, come un vantaggio per l’uno a danno degli altri?. Tale affermazione del premier, all’interno del governo, non ha generato tensioni per la solidarietà realizzatasi tra i membri della squadra di governo. Solidarietà generata dal consenso, che si è registrato all’interno del governo, sul programma e sulle sue priorità. Così, pur se (in larga parte) politici di professione, i ministri hanno preferito ritagliarsi un profilo prevalentemente tecnico, con l’eccezione di quelli che rappresentavano le forze minori della coalizione (quali il ministro dell’ Ambiente, degli Esteri o della Sanità). In tal caso, infatti, essi hanno dovuto affermare una loro visibilità, per non

essere «offuscati» dai leader dei partiti maggiori (all’esterno) o dai 136

ministri del partito maggiore (all’interno). Con limitati conflitti all’interno dell’esecutivo, i ministri si sono poco o punto caratterizzati in senso partitico, assumendo piuttosto la fisionomia di manager di settore, cioè di specialisti di specifici ambiti della politica governativa, e non già di generalisti collocati in quegli ambiti per ragioni di equilibrio infracoalizionale (come avveniva nei governi di coalizione del lungo periodo postbellico). Tant'è che, per l’intero biennio, non si sono registrate tensioni politiche di rilievo all’interno del governo ma, semmai, tra il governo e i leader (ad esso esterni) dei maggiori partiti che lo hanno sostenuto. Tali tensioni hanno talora assunto anche un tratto (per così dire) ideologico, in quanto si sono rappresentate attraverso una contrapposizione tra i sostenitori dell’Ulivo (in quanto coalizione sovrapartitica) e i sostenitori dei partiti dell'Ulivo (in quanto garanti della coalizione interpartitica). Tuttavia, la rigidità del vincolo europeo ha consentito di tenere sotto controllo quelle tensioni. Ovviamente, fino a quando quel vincolo non si è rilassato. E ciò ha avvantaggiato principalmente il governo e il suo leader, più che i partiti che li hanno sostenuti.

L'organizzazione interna Una volta assunta la decisione (alla fine dell'estate del 1996) di rientrare «ad ogni costo» nei cosiddetti parametri di Maastricht (che fissavano un preciso rapporto tra il deficit del bilancio pubblico e il prodotto interno lordo o Pil) per il 1° gennaio 1998, la priorità di policy del governo è divenuta necessariamente quella di bilancio (Salvati 1997). Si è trattato di una decisione inevitabile, va aggiunto, vista l’indisponibilità della Spagna (resa esplicita sempre in quell’estate, in un incontro tra i capi del governo spagnolo e italiano) a sostenere un'eventuale richiesta italiana di posticipare la data dell’entrata in vigore della moneta unica europea (Euro). Comunque, assunta

quella decisione, il ministero e il ministro del Tesoro sono venuti ad essere collocati al centro del policy-making governativo. Centralità garantita, grazie alla legge n. 94 del 1997, dalla formazione di un su-

per-ministero del Tesoro: «super», perché esso aveva ricondotto, sotto il suo controllo, il precedente ministero del Bilancio e della Programmazione (scelta, peraltro, valutata positivamente dalle au137

torità comunitarie e dai maggior partner europei, in quanto consi-

derata un segnale importante a favore del rigore finanziario). Centralità quindi consolidata, sul piano della policy, dai successivi decreti legislativi n. 279 e n. 430 che hanno fornito al Tesoro più incisivi poteri di coordinamento tanto nella formazione che nella gestione del bilancio statale*. Grazie all'Europa, dunque, si è realizzata un'importante riorganizzazione istituzionale del processo di governo, così da rendere possibile la centralizzazione della politica finanziaria (in particolare sul versante della spesa). Un cambiamento non da poco, infatti, se si pensa che il ministero e il ministro del Tesoro hanno acquisito il potere di «ultima istanza» relativamente alle scelte di spesa degli altri ministeri e ministri (come prevede l’art. 3 della legge n. 94 del 1997). Quindi, contrariamente al modello collegiale di esecutivo (in cui, per

riprendere Andeweg 1993, 26, «tutti i ministri hanno un'influenza equivalente nel processo decisionale»), nel caso del governo Prodi l’ordine delle priorità che si è venuto a definire ha finito per rafforzare l’influenza di un ministro (o meglio del gruppo ristretto di membri del governo, tra cui il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Micheli, incaricato di gestire la politica finanziaria di «convergenza europea») rispetto a quella degli altri. Rafforzamento, peraltro, che non è stato istituzionalizzato dalla formazione di un consiglio di gabinetto o inrer cabinet (con quei «tratti oligarchici» che sono stati propri, come abbiamo visto, dei governi pentapartitici della seconda metà degli anni ottanta, oltre che del governo Berlusconi del 1994). Dunque, il doppio vincolo (europeo ed elettorale) che si è venuto ad esercitare sul governo ha dato vita ad un governo «a direzione ristretta ed accentrata». Mentre l’assenza di esso (e in particolare del primo vincolo) aveva incentivato, prima del 1992, la formazione di governi «a direzione plurima e dissociata» (Merlini 1997; Cheli, Spaziante 1977). Così, se i governi tecnici del periodo 1992-96 erano stati organizzati secondo un modello monocratico, tale da consentire al presidente della Repubblica di esercitare con più efficacia la sua funzione di garante del governo (come avviene, appunto, nei governi semipresidenziali con maggioranze consonanti, in cui, come ben mostra Elgie 1997, l'esecutivo è controllato dal primo ministro che, a sua volta, è subordinato al capo dello Stato), il governo Prodi ha re-

gistrato un allargamento della «testa» dell’esecutivo, collocandosi quindi a metà via tra il governo monocratico e quello collegiale. 138

Più precisamente, il governo Prodi potrebbe essere definito come un governo «collegiale con premier». «Collegiale», perché la natura della competizione elettorale del 1996 ha fatto sì che si formasse un governo coalizionale, piuttosto che di partiti coalizzati (una distinzione generalmente trascurata nella letteratura internazionale; si veda, per tutti, Laver, Shepsle 1990), come era avvenuto, invece, dopo la competizione elettorale del 1994, con la formazione del governo Ber-

lusconi che aggregava, come sappiamo, due territorialmente diverse alleanze partitiche (Ceccanti, Fabbrini 1995). Infatti, se sul piano ti-

pologico il governo Prodi e il governo Berlusconi rientrano entrambi nel tipo del governo di coalizione, tuttavia, sul piano della logica istituzionale, l’uno si distingue nettamente dall’altro. «Con premier», perché Prodi, potendo beneficiare di una simbolica legittimazione popolare, oltre che della meno simbolica pressione europea, è stato in grado di ridimensionare i condizionamenti dei partiti della coalizione sulla propria leadership. Se si tiene a mente la tipologia relativamente alla relazione del primo ministro con gli altri ministri nei governi parlamentari (che può essere di «un primo tra eguali» oppure di «un primo sopra eguali», e raramente di «un primo sopra ineguali», come avviene invece nei governi semipresidenziali a maggioranza consonante, dove il primo è naturalmente il presidente della Repubblica; si veda Fabbrini, Vassallo 1999, 178 e, con un approccio diverso, Sartori 1995b), allora è plausibile sostenere che, nel nostro caso,

Prodi è stato un «primo sopra eguali» (anche se alcuni ministri sono stati meno eguali di altri, nel senso che hanno contato più di altri). Tale relazione (tra il primo ministro e i ministri) ha potuto beneficiare, per rafforzarsi, degli incentivi istituzionali e organizzativi contenuti nella legge delega n. 59 del 1997 (legge, peraltro, dedicata ad ordinare le nuove funzioni attribuite agli enti locali, e in particolare alle regioni). Anche se tali incentivi entreranno definitivamente «a regime» con la legislazione successiva. Una parte della legge (Capo II, artt. 11 e 12), infatti, delegava il governo a riorganizzare la presidenza del Consiglio, così da rafforzare il ruolo di impulso, coordinamento e indirizzo del presidente del Consiglio, anche grazie a un alleggerimento delle sue funzioni amministrative e gestionali, molte delle quali riallocate nei vari ministeri. Così, a distanza di 10 anni dalle legge n. 400 del 1988, la presidenza del Consiglio ha potuto essere finalmente razionalizzata, collocando al suo esterno quell’insieme di strutture e apparati (estranei all’esercizio delle sue funzioni specifi159

che) che nel lungo periodo consensuale erano stato collocati «casualmente» e «provvisoriamente» (Criscitiello 1999, 497) al suo interno. Grazie alla nuova legge, la funzione di coordinamento non è stata più associata all’allargamento delle strutture della presidenza del Consiglio, ma esattamente al suo contrario. E ciò ha consentito di creare un’organizzazione essenziale (all’interno del «cuore» dell’esecutivo), quindi più agile ed efficace, di supporto dell’azione del capo del governo. Un’organizzazione simile a quella che sostiene i capi del governo delle democrazie parlamentari «a guida esplicita» (Fabbrini 1999b; Fabbrini, Vassallo 1999). Peraltro, tale legge ha incrementato l'efficacia della presidenza del Consiglio anche attraverso l’autonomia finanziaria di cui essa è stata fornita (autonomia che era stata, invece, ambiguamente delineata nella legge n. 400 del 1988). Insomma, la combinazione di autonomia organizzativa ed autonomia finanziaria ha rafforzato la modalità prevalente di relazioni attivatesi nel governo Prodi.

La corte costituzionale Anche sull’altro versante, quello dei rapporti tra il Parlamento e il governo, nel biennio in questione sono stati fatti passi avanti in direzione postconsensuale. Passi già iniziati, anche qui, dai precedenti governi tecnici. Tuttavia, se è vero che il governo Prodi ha rafforzato ulteriormente la posizione dell'esecutivo nei confronti del legislativo, ciò è stato dovuto (anche) all’influenza esercitata da un fat-

tore (per così dire) «esogeno» al rapporto interistituzionale tra il governo e il Parlamento. Cioè alla formidabile pressione prodotta, su quel rapporto, dall'intervento della corte costituzionale, nel 1996,

per regolare definitivamente (limitandola drasticamente) la decretazione d'urgenza da parte del governo. Sulla decretazione d’urgenza, e sul suo abuso da parte dei governi italiani postbellici, è stato scritto molto (e da molto tempo) (Cazzola, Morisi 1981; Cazzola, Predieri e Priulla 1975). Infatti, in parti-

colare a partire dalla VII legislatura (1976-79), i governi avevano in misura crescente neutralizzato il vincolo imposto dall’art. 77 della Costituzione, che affida al governo il potere di emanare decreti solamente «in casi straordinari di necessità e d'urgenza». Così come ave-

vano neutralizzato il vincolo dei controlli parlamentari (imposto 140

sempre dallo stesso articolo della Costituzione che afferma che «i decreti perdono efficacia sin all’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione») attraverso la pratica della reiterazione (per così dire) meccanica dei decreti non convertiti. Conseguenza di un processo legislativo reso lento e farraginoso dalle pratiche e procedure consensuali perseguite sin dagli anni sessanta (Pasquino 1995) e quindi istituzionalizzate dal regolamento parlamentare introdotto nel 1971 (Manzella 1991b), la decretazione

d’urgenza era quindi cresciuta impetuosamente nella XI legislatura del periodo 1992-94 (238 decreti legge) e nella XII legislatura del periodo 1994-96 (288 decreti legge), per una media annuale in entrambe le legislature di 87 decreti legge (e con una proiezione su base annua che era di ben 409 decreti legge, all’inizio della XIII legislatura, quella appunto avviatasi nel 1996). Per di più, con l’inizio di quest’ultima, il nuovo Parlamento si era trovato di fronte ad oltre 100 decreti legge ereditati dalle passate legislature. Così, in una situazione che avrebbe incentivato un ulteriore inevitabile ricorso alla decretazione d’urgenza da parte del nuovo governo, la corte costituzionale ha deciso di intervenire (appunto a tutela del disposto costituzionale dell’art. 77). È d'interesse ricordare che tale intervento si è realizzato anche sulla base di una lettera che il presidente della Repubblica ebbe a scrivere al presidente del Consiglio (e, per conoscenza, ai presidenti delle due Camere), nella quale venivano denunciati gli effetti perversi provocati dalla reiterazione «incontrollata» dei decreti legge. L’intervento della corte costituzionale si è realizzato in due tappe: con l’ordinanza n. 197 del 14 giugno 1996 e con la sentenza n. 360 del 24 ottobre successivo (ed è proprio quest’ultima sentenza che definisce come incostituzionale l’uso e la reiterazione incontrollati dei decreti legge)?. Così, di fronte alla sentenza della corte costituzionale, la XIII legislatura è stata costretta a dedicarsi (nei suoi primi sei mesi) ad una conversione rapidissima dei decreti legge ereditati o presentati: tant'è che al 31 dicembre 1996 (secondo i dati del Servizio studi della Camera dei deputati) il numero dei decreti legge pendenti era di quattro solamente (e di otto solamente, in data 10 giugno 1997: cinque alla Camera e tre al Senato). Insomma, se prima

della sentenza si era avuta una frequenza media mensile di 50 decreti legge, dopo (fino al 31 dicembre 1997) quella frequenza è stata di 3,9 e quindi di 4,5 (da quest’ultima data al 25 febbraio 1998). 141

Perché l'intervento della corte costituzionale ha favorito il governo Prodi? Perché, privato dell'arma del decreto legge, il governo è stato costretto non solamente a razionalizzare le risorse ordinarie di

cui poteva disporre nel decision-making legislativo, ma anche a sollecitare il Parlamento ad organizzare in modo più efficiente il proprio lavoro (come ha ben spiegato Fusaro 1997). Per quanto riguarda il ricorso alle risorse ordinarie, il governo ha potuto utilizzare i provvedimenti collegati alla manovra finanziaria i quali, beneficiando di procedure certe e di tempi definiti per la loro approvazione, hanno fornito un canale assai utile per fare scorrere le norme «necessarie e urgenti». Così ha utilizzato in modo più efficace sia le deleghe legislative che le delegificazioni, che sono poi le «forme» attraverso cui viene istituzionalizzata la potestà normativa dell’esecutivo. Per quanto riguarda, invece, la riorganizzazione del lavoro parlamentare, il governo ha potuto richiedere (0, comunque, sostenere con buone argomentazioni) la riforma dei regolamenti parlamentari vigenti, che si basavano ancora sul principio dell’unanimismo consensuale (principio connotante, in particolare, gli anni settanta dei governi di «unità nazionale»). Sollecitazione che è stata quindi accolta anche dall’opposizione, non solo perché così ha potuto vedere riconosciuta la propria posizione, ma anche perché in mancanza di una tale riforma il presidente della Camera dei deputati avrebbe finito per assumere (di fatto) il ruolo di regolatore del lavoro parlamentare (visto che i vecchi regolamenti si affidavano al presidente, per definire l'agenda parlamentare, in assenza di un consenso tra i gruppi).

La legislazione delegata e la delegificazione Già i governi Amato e Ciampi avevano fatto un ampio uso degli strumenti normativi ordinari a disposizione dell’esecutivo. D'altra parte, le leggi a cadenza annuale (come la legge finanziaria, la legge comunitaria, la legge di delegificazione dei procedimenti amministrativi) costituiscono delle straordinarie finestre di opportunità per l'esecutivo, proprio perché esse beneficiano, come abbiamo visto, di procedure speciali di approvazione. Dopo tutto, dopo Maastricht, i governi hanno dovuto perseguire quella «politica di convergenza comunitaria» che poco o punto si conciliava con gli assetti decisionali 142

che si erano istituzionalizzati nel precedente parlamentarismo consensuale italiano. Il governo Prodi, una volta resa impraticabile la strada del decreto legge, ha dovuto quindi accentuare l’uso degli strumenti ordinari della legge delega e della delegificazione. Come si sa, la legislazione delegata costituisce la più efficace risorsa per realizzare l’autonomizzazione dell’esecutivo dal legislativo (Calise 1997). Nel nostro caso, il governo si è fatto delegare (dalla propria maggioranza) il potere (normativo) di intervenire su un numero crescente di materie; e sulla base di criteri direttivi (quelli fissati nella legge delega stessa) quanto mai generici, che hanno quindi autorizzato un’espan-

sione ulteriore dell’azione governativa. Così, a Costituzione invariata, il governo ha potuto intervenire (grazie allo strumento della delega) in campi di policy cruciali, definendo (tra gli altri): l'adeguamento del sistema previdenziale pubblico a quello privato; la riforma tributaria (fissazione delle aliquote Irpef, dell’Irap e di quelle relative ai redditi da capitale); la nuova normativa sulla privacy; la riforma dell’organizzazione amministrativa; il conferimento di funzioni statali a regioni ed enti locali; la riforma del bilancio statale. Insomma, in particolare nel suo primo anno di vita, il governo Prodi è riuscito a definire l’agenda del lavoro parlamentare, facendosi quindi approvare le relative deleghe legislative. Basti pensare che (sempre secondo il Servizio studi della Camera dei deputati) le disposizioni di delega sono state 111 (contenute in 18 leggi) nella XIII legislatura (all’ottobre 1998), mentre erano state 69 (contenute in 5 leggi) nella XII legislatura (1994-96), 93 (contenute in 16 leggi) nella XI (1992-94) e 126 (contenute in 26 leggi) nella X legislatura (1987-92). Per di più, poiché tutte le deleghe erano state accompagnate dalla previsione di decreti legislativi correttivi quasi mai vincolati da strette scadenze temporali, il governo ha potuto intervenire di nuovo sulle materie che erano state di già oggetto del suo intervento, così da apporre correzioni e modifiche a decreti precedentemente emessi. Naturalmente il Parlamento si è riservato il potere di controllo sull’esercizio, da parte del governo, dei poteri normativi delegati. Ad esempio, nel caso delle leggi sulla riforma e semplificazione amministrativa, o anche sul conferimento di funzioni alle regioni ed enti locali, i decreti legislativi, prima di essere approvati, hanno dovuto passare al vaglio di una Commissione bicamerale, a cui è stato 143

dato anche il compito di monitorarne l’attuazione. Ma tale potere di controllo, contrariamente a ciò che era avvenuto nel lungo secondo dopoguerra, è divenuto, ora, successivo all'intervento del governo, e non più precedente o concomitante. E, altrettanto naturalmente, la crescita delle disposizioni di delega ha costituito una testimonianza, anche, dell’incertezza che il governo ha nutrito nei confronti della propria maggioranza.

Inoltre, già con le leggi finanziarie del 1993 e del 1994, il governo (Amato, nel primo caso, e Ciampi, nel secondo caso) aveva chiesto al

Parlamento norme di delegificazione «allo scopo di procedere al riordinamento e alla razionalizzazione dei nodi strutturali della spesa pubblica e alla riforma della pubblica amministrazione» (Zampetti 1997, 21). Insomma, con la legge n. 537 del 24 dicembre 1993 («Interventi correttivi della finanza pubblica»), si è realizzata un’altra importante svolta nel rapporto tra governo e Parlamento, svolta quindi completata nel 1997 dall’introduzione della legge annuale per «la delegificazione di norme concernenti i procedimenti amministrativi» (legge n. 59, art. 20). «[E] infatti il Parlamento, con la legge delegificante, ad individuare la materia da delegificare, autorizzando l’esercizio della potestà regolamentare del Governo, e a dettare contestualmente le norme generali regolatrici della materia» (ivi, 27). Il Parlamento, dunque, si è riservato il potere di controllo, esercitabile

attraverso il parere delle commissioni parlamentari permanenti o di commissioni bicamerali appositamente costituite. Ma, a ben vedere, si è trattato di un potere di controllo limitato dalla vaghezza, che esso stesso ha voluto codificare, con cui sono state definite le norme generali regolatrici della materia da delegificare. Con l’esito che interi campi di policy, e in particolare quello dell’organizzazione amiministrativa (Capano 2000), sono stati affidati di fatto alla potestà normativa autonoma del governo, che ha potuto così promuovere vere e proprie riforme di settore (Vassallo 2000b). Basti pensare, comunque, che (secondo i dati del Servizio studi della Camera dei deputati) le leggi contenenti delegificazioni sono state 11 nella XIII legislatura (al 31 maggio 1997), mentre erano state 6 nella XII legislatura, 7 nell'XI legislatura e 3 nella X legislatura. È stata comunque la legge finanziaria che ha fornito, al governo, l'opportunità per imporre le proprie priorità al Parlamento (nel 1996, più che nel 1997). Mentre nel passato (cioè prima del 1992) i collegati alla legge finanziaria avevano rappresentato l’occasione per

144

il noto «assalto alla diligenza» da parte dei singoli parlamentari, già con i governi tecnici del periodo 1992-96 e quindi, e soprattutto, con il governo Prodi, la legge finanziaria (e le deleghe in essa contenute) è divenuta uno strumento controllato dal governo (basti pensare che le voci del bilancio sono state progressivamente ridotte da 5.000 a 500), e non già dal Parlamento. Sicuramente importante è stato, in proposito, il vincolo del limite temporale imposto dalla procedura speciale per la sessione di bilancio: tale vincolo, infatti, ha consentito al governo di tenere sotto controllo il processo decisionale relativo all’approvazione della legge in questione. Ma altrettanto importante è stata anche, nel caso del governo Prodi, la disciplina con cui la maggioranza ha dovuto sostenere il governo nella politica finanziaria. Disciplina imposta, di nuovo, dalla pressione europea.

La riforma dei regolamenti Con la riforma dei regolamenti parlamentari il governo ha cercato di consolidare l’accresciuta influenza acquisita rel Parlamento. Il 24 settembre 1997 la Camera dei deputati ha approvato un'importante riforma del proprio regolamento, alcuni punti della quale sono entrati in vigore definitivamente il 1° gennaio 1998 (Ceccanti 1998b). Di cosa si è trattato? Innanzitutto, è stato superato il principio di

unanimità tra i presidenti dei gruppi parlamentari per quanto riguarda la programmazione dei lavori parlamentari. Con la riforma, si è scesi al gu0ru72 corrispondente al consenso dei gruppi di cui facciano parte i tre quarti dei deputati per potere fissare il calendario dei lavori. In mancanza di tale consenso, spetterà quindi al presidente della Camera intervenire, per definire quel calendario sulla base di criteri precisi, e lasciando comunque ai gruppi parlamentari dell'opposizione un quinto degli argomenti o del tempo complessivo. Ma, soprattutto, il governo, con la riforma, potrà comunicare «le

proprie indicazioni in ordine di priorità, almeno due giorni prima della data di convocazione della Conferenza dei capi-gruppo» (art. 23.3 del nuovo regolamento). In secondo luogo, è stato introdotto il contingentamento dei tempi di discussione dei provvedimenti, sia in assemblea che in commissione: contingentamento neutralizzabile solamente da una decisione del presidente della Camera. Il contingentamento non riguar145

da, però, i decreti legge, così da incentivare il governo ad utilizzare i canali ordinari dell’influenza sul legislativo, canali per di più perfezionati dal nuovo regolamento. In terzo luogo, è stato affidato all’opposizione un potere di sindacato ispettivo sull'azione del governo. Essa, infatti, oltre al di già presente question time nei confronti dei vari ministri, può disporre, con la riforma, anche del prezzier question time: due volte al mese il presidente del Consiglio (o il suo vice) dovrà personalmente rispondere a interrogazioni «a risposta immediata», presentate entro le ore 12 del giorno precedente, e consistenti in una sola domanda. Enfatizzando, così, ulteriormente il ruo-

lo del primo ministro, ma anche quello dell’opposizione. Come si vede, si è trattato di innovazioni importanti. Anche se, a ben vedere, con il nuovo regolamento il Parlamento non ha abbandonato del tutto il porto dell’assetto consensuale per andare a navigare nel mare dell’assetto competitivo. Nei parlamentarismi competitivi (e, vieppiù, in quelli maggioritari), infatti, non solo vi sono (almeno) due programmazioni alternative dei lavori parlamentari (l’una affidata al governo e l’altra all'opposizione), ma il governo ha la possibilità di definire la stessa agenda del lavoro parlamentare, in quanto espressione della maggioranza parlamentare (che talora, come in Francia, può essere la maggiore minoranza dell’ Assemblea nazionale). Anche se, occorre aggiungere, scegliendo il presidente della Camera all’interno della maggioranza parlamentare pro-tempore, e dato il ruolo ad egli/ella riconosciuto, è stata possibile una declinazione delle nuove regole più in sintonia con la necessità di mettere il governo nella condizione di governare. La nuova legge elettorale del 1993, incentivando la bipolarizzazione della competizione elettorale, ha contribuito non poco a creare le condizioni per la riforma dei regolamenti parlamentari. Infatti, se dal 1971 al 1992 è stato possibile adattare (con lo strumento della mocifica) il regolamento parlamentare ai contesti politici che di volta in volta si erano formati, proprio perché questi non erano mai fuoriusciti da una prospettiva consensuale, dopo le elezioni del 1996 il loro ulteriore adattamento non era più plausibile. Infatti, con la bipolarizzazione della competizione elettorale avviatasi tra il 1994 e il 1996, il Parlamento non poteva più essere il luogo dell’incontro tra governo e opposizione. Tant'è che, appunto, già nel 1994 e poi nel 1996, i presidenti delle due assemblee furono scelti tra le fila della maggioranza pro-tempore, e non più in quelle dell’opposizione (co146

me era avvenuto, sin dagli anni settanta, in omaggio alla politica della reciproca garanzia). Proprio perché ad essi spettava, ora, il compito di mettere il governo nelle condizioni di governare, pur vigilando che esso rispettasse le prerogative proprie dell’opposizione. Sotto la triplice pressione della nuova legge elettorale dell’agosto del 1993, della politica di convergenza europea avviatasi dopo gli accordi di Maastricht del 1991 e della sentenza della corte costituzionale n. 360 del 1996, il Parlamento ha dovuto prendere atto della volontà, da parte del governo, di poter governare. Si consideri, ad

esempio, l’art. 95 (del nuovo regolamento), là dove si prevede che il governo possa richiedere che un suo disegno di legge venga iscritto «con priorità» nel calendario o nell'ordine del giorno di ciascuna Camera: è evidente che tale articolo fornisce una corsia preferenziale per provvedimenti che il governo giudica di particolare importanza per realizzare il proprio programma. Tuttavia, non si è trattato di una presa d’atto definitiva: in quel contesto, il Parlamento non poteva fare altrimenti.

Quale governo? Il governo Prodi ha potuto chiudere la parentesi dei governi semipresidenziali, quelli nei quali il capo dell’esecutivo è stato legittimato (quasi) esclusivamente dalla fiducia del presidente della Repubblica e la squadra di ministri è stata costituita preminentemente da tecnici privi di una loro agenda politica. Tuttavia, esso non ha potuto chiudere la parentesi del presidente semipresidenziale. Comunque, il doppio vincolo europeo ed elettorale, rafforzato da un consenso all’interno della maggioranza sulle priorità dell’azione del governo, ha consentito di riportare inequivocabilmente la guida del governo a palazzo Chigi. Tale guida, però, non ha potuto assumere le caratteristiche stabilmente «primoministeriali» degli esecutivi delle democrazie competitive (e vieppiù di quelle maggioritarie bipartitiche), proprio per le differenze programmatiche presenti all’interno della maggioranza parlamentare che ha sostenuto il governo. Anche se, pur se sostenuto da un’alleanza spuria, il governo è riuscito a conservare il carattere di un esecutivo coalizionale, e non già di un esecutivo di partiti coalizzati (postelettoralmente). Tale configurazione istituzionale è 147

stata dovuta alla pressione esercitata sui principali attori politici dalla politica di convergenza europea (Della Sala 1999; Sbragia 1997). Essa, infatti, ha consentito sia di dare vita ad un governo a «direzione ristretta e accentrata» (grazie alla quale il premier ha potuto affermare la sua primazia decisionale) che di rafforzare l'esecutivo relativamente al Parlamento. Si può dire che nel biennio tra il maggio 1996 e l’ottobre 1998, il sistema di governo ha funzionato in direzione postconsensuale. La centralità decisionale del Parlamento è stata ridimensionata, per essere sostituita dalla centralità decisionale del governo. Tale sostituzione era stata preparata (in positivo) dalle scelte di strategia legislativa adottate dai precedenti governi tecnici di Amato, Ciampi e Dini; ma anche (in negativo) dalla vicenda del governo Berlusconi del 1994, che aveva messo in luce le difficoltà di un governo politico sostenuto da partiti coalizzati (dopo le elezioni), e non già da una coalizione costituitasi (nella sua larga parte) prima delle elezioni. Inoltre, la coalizione parlamentare che ha dato vita al governo Prodi si è dimostrata più stabile di quella che aveva sostenuto il governo Berlusconi, perché incardinata in un unico asse di divisione, quello che contrapponeva la sinistra alla destra. Mentre il governo Berlusconi del 1994 era stato l’esito, non solo della destra che si contrapponeva alla sinistra, ma anche del Nord che si contrapponeva al governo centrale. Come non poteva essere altrimenti, visto la logica ancora multipolare che aveva contraddistinto le elezioni del 1994. Dunque, a Costituzione invariata, tra il 1996 e il 1998, il sistema

di governo è stato riformato su un piano (potremmo dire) rz/croisti-

tuzionale. Sono state ridefinite le procedure e le pratiche che organizzano l’azione del governo nel Parlamento, in particolare nella politica di bilancio. Così come sono stati ridefiniti i regolamenti che organizzano i rapporti tra maggioranza e opposizione all’interno del

Parlamento. Tale riforma è stata sollecitata da alcune opportunità che si erano presentate al governo. Sul piano interno, dalla disposizione bipolare che l’elettorato aveva chiaramente assunto nel 1996 (contrariamente al 1994), disposizione che ha consentito al governo Prodi di utilizzare, nei confronti della propria maggioranza, l’argomento del rispetto degli «impegni assunti con gli elettori». Sul piano esterno, dalla forte pressione monetaria europea che ha imposto l’agenda e le priorità dell’azione governativa, pressione che ha quin148

di drasticamente ridotto i margini di una possibile slealtà, verso il governo, dei partiti che lo sostenevano. Sebbene sia improprio utilizzare lo schema concettuale, elaborato in relazione ai tipi di governo di partito dell’Italia consensuale, per l’Italia della transizione (proprio per il radicale mutamento intervenuto nel rapporto tra elettori, partiti e istituzioni, Di Palma 2000; Pappalardo 2000), tuttavia si può dire che, con il governo Prodi, ci

si è allontanati dal governo di partito residuale del periodo della crisi (in cui i partiti non avevano controllato né le cariche né le politiche) anche se non è plausibile affermare che ci si è avviati in direzione del governo di partito programmatico e ancora di meno verso il governo di partito organico (Pasquino 1997). Comunque, sottoposto a formidabili pressioni esterne, il nostro sistema di governo ha potuto funzionare in direzione postconsensuale: se con essa si intende una situazione nella quale il governo riesce a perseguire il programma elettoralmente stabilito, senza subire il condizionamento né dell’opposizione né dei partiti della sua stessa maggioranza.

Conclusione Tuttavia, appena quelle pressioni esogene si sono ridimensionate, il condizionamento dei partiti della maggioranza è tornato a farsi sen-

tire. Cioè, si è resa evidente non solo la differenza programmatica tra la coalizione dell'Ulivo e il Prc, in particolare relativamente alla distribuzione dei costi sociali connessi al risanamento finanziario. Ma si è resa evidente anche la rivalità tra i partiti stessi della coalizione dell’Ulivo, esito della sua natura strumentale. Insomma, i contrasti

tra il governo e i partiti che lo sostenevano sono divenuti sempre più espliciti (in nome della necessità di passare dalla cosiddetta «fase uno» alla «fase due» nell’azione del governo) e i richiami (rivolti dai leader di quei partiti al governo) al principio della dipendenza del governo dal Parlamento sono divenuti sempre più rumorosi. E stata sufficiente la rottura del Prc con il governo, per un «dissenso incolmabile» sulla legge finanziaria presentata da quest’ultimo per l’anno 1999, dissenso emerso tra il settembre e l'ottobre del 1998, per crea-

re le condizioni di una crisi irreversibile. Dunque, la scelta del Prc ha finito per fornire una straordinaria finestra delle opportunità a coloro che, dall’interno dell'Ulivo ma anche del Polo, volevano por149

re fine all’anomalia di un governo politico, che agiva però «come un governo tecnico», perché si sentiva legittimato dalla scelta degli elettori prima ancora che da quella dei partiti. Così, esattamente cinque mesi dopo (3 maggio 1998) il conseguimento del suo più importante obiettivo di policy, l’entrata dell’Italia nel gruppo degli undici paesi europei che aveva titolo ad adottare un’unica moneta (l’Euro), il governo Prodi è stato dimissionato dal

Parlamento (9 ottobre 1998) e sostituito con il governo D'Alema (21 ottobre 1998). Può sembrare un paradosso che un governo venga licenziato sulla base di un successo, e non già di un fallimento di policy. Tuttavia, si tratta di un paradosso solo in apparenza: perché, in realtà, quel successo ha privato il governo del suo principale alleato nella competizione con il Parlamento dei partiti. Era stato grazie al vincolo monetario europeo, infatti, che il governo aveva potuto imporre la propria primazia decisionale nei confronti del Parlamento. Ma questa è una storia che merita di essere discussa con precisione.

= Il governo D'Alema

Il nuovo governo Ricevuto l’incarico dal presidente della Repubblica il 16 maggio 1996 e la fiducia dal Senato il 24 maggio e quindi dalla Camera il 31 maggio, l’onorevole Romano Prodi è rimasto alla guida di un governo di centro-sinistra fino al 9 ottobre 1998, quando alla Camera una maggioranza di 313 deputati ha votato contro la fiducia al governo, mentre una minoranza di 312 ha votato a favore. Immediatamente dopo il voto, l'onorevole Romano Prodi si è recato al Quirinale per rassegnare le dimissioni nelle mani del presidente della Repubblica, che le ha accolte senza riserva. Per la prima volta, nella storia repubblicana, un capo del governo e un governo si erano dimessi dopo essere stati formalmente sfiduciati dal Parlamento. Il governo Prodi è stato in carica per 861 giorni, se si considera il periodo che intercorre tra il giorno in cui ha ricevuto la fiducia dalla Camera, il 31 maggio 1996, e il giorno in cui la Camera lo ha sfiduciato, il 9 ottobre 1998, ma per ben 888 giorni, se si considera il periodo che intercorre tra il giorno in cui il primo ministro ha ricevuto l’incarico, il 16 maggio 1996, e il giorno in cui è stato assegnato l’incarico al suo successore, il 21 ottobre 1998. Si è trattato del secondo più longevo governo dell’Italia repubblicana, dopo quello guidato dal socialista Bettino Craxi tra il 1983 e il 1987, che è durato in carica per 1.093 giorni, se si considera il primo dei due criteri temporali sopra ricordati (vedi Appendice A, Tab. A.1, per un riepilogo dei governi italiani postbellici). Dunque, il nuovo governo D'Alema si è insediato formalmente il 21 ottobre, dopo che il presidente della Repubblica Scalfaro aveva 151

affidato (nell’ultimo suo atto di grande rilievo istituzionale) al segre- . tario dei Democratici di sinistra il preincarico di formare un nuovo governo il 16 ottobre e dopo che il presidente del Consiglio preincaricato aveva verificato l’esistenza di una nuova maggioranza par-

lamentare (che continuava a rimanere di centro-sinistra, 724 allargata ad un gruppo di parlamentari eletti nelle file del Polo) nei colloqui interpartitici da lui promossi tra il 17 e il 18 ottobre. Il 19 ottobre viene formalizzato l’incarico e il 21 ottobre la nomina del nuovo

presidente del Consiglio. Il nuovo governo D'Alema ha quindi ottenuto la fiducia della Camera, il 23 ottobre, con una votazione di 333 deputati favorevoli, 281 contrari e 3 astenuti. E, poi, del Senato, il 27 ottobre, con una votazione di 188 senatori favorevoli, 116 contrari e

1 senatore astenuto (vedi Appendice A, Tab. A.4). Sia alla Camera che al Senato, il neopresidente del Consiglio, nel chiedere la fiducia al nuovo governo, ha ricordato, in primo luogo, che «il Governo (intende) assumere integralmente la Legge finanziaria per il 1999 presentata da Prodi, insieme al complesso dei provvedimenti ad essa collegati» (D'Alema 1998, 5). E, quindi, in secondo luogo, che «il Governo intende incoraggiare il Parlamento affinché si sviluppi un confronto ed una ricerca comuni per individuare una base condivisa in vista di una nuova legge elettorale» (ivi, 14). In quella occasione, inoltre, il neoprimo ministro aveva sottolineato con fermezza la natura politica del nuova governo, la cui aspirazione era quella di rimanere in carica fino alla fine naturale della legislatura. In realtà, a distanza di poco più di un anno da quelle dichiarazioni, il 19 dicembre 1999, il governo D'Alema è stato costretto a rassegnare le dimissioni nelle mani del nuovo presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi (eletto dal Parlamento il 13 maggio precedente), per la crisi che era nel frattempo emersa all’interno della nuova maggioranza parlamentare. Sarà, quindi, il presidente della Repubblica ad affidargli di nuovo l’incarico di formare un altro governo, incarico che verrà portato positivamente a termine in 82 ore,

con la formazione di un secondo governo D'Alema, che riceverà la fiducia della Camera il 22 dicembre e quella del Senato il 23 dicembre 1999. Tuttavia, nel passaggio dal primo al secondo governo D'Alema si è registrata un’ulteriore modificazione nella composizione della maggioranza parlamentare. Gli 11 partiti o raggruppamenti che avevano sostenuto in Parlamento il precedente governo D'Alema si erano ora ridotti a 7 (Pds-Ds, Partito democratico, Ppi,

152

Ri, Verdi, Comunisti italiani — emersi, questi ultimi, dalla scissione

consumata all’interno del Prc all’indomani della rottura di quel partito con il governo Prodi — e Udeur — ovvero la parte dei parlamentari fuoriusciti dal Polo nell’ottobre 1998 con la sigla dell’Udr dell’ex presidente della Repubblica Cossiga, a sua volta fuoriusciti anche da quest’ultimo raggruppamento). Il governo ha quindi beneficiato dell’astensione della parte di parlamentari (già eletti nelle file del Polo) rimasta nell’Udr, oltre che dei socialisti dello Sdi e dei repubblicani (parlamentari che, insieme, hanno dato vita al gruppo del Trifoglio). Nello stesso tempo, si sono modificati gli equilibri all’interno stesso del governo, con un ruolo di rilievo assegnato all’aggregazione parlamentare dei sostenitori dell’ex presidente del Consiglio Prodi, ora definitasi come Partito democratico. In pochi mesi anche questo secondo governo D'Alema ha dovuto interrompere la sua azione. Com'era prevedibile per un esecutivo nato esclusivamente in Parlamento e sulla base di negoziazioni tra gruppi parlamentari, i partner della coalizione governativa hanno costantemente messo in discussione la leadership del governo. Non poteva essere diversamente, dato che non derivavano alcun vantaggio dal consolidamento della leadership diessina all’interno della coalizione di centro-sinistra. E una volta presa la strada dell’esclusiva legittimazione parlamentare del governo, non vi era più alcun collante extrapartitico di quest’ultima. Privo di una legittimazione elettorale, il presidente del Consiglio è divenuto prigioniero dei microequilibri all’interno della propria coalizione. All’incertezza della propria posizione di leadership, il presidente del Consiglio ha risposto cercando di personalizzare la competizione con il leader della coalizione di opposizione. In particolare in occasione delle elezioni regionali del 16 aprile 2000, ritenendo che queste ultime (al contrario delle elezioni nazionali) potessero costituire un terreno più favorevole per il centro-sinistra che per il centro-destra. Ma si è trattato di un calcolo sbagliato. Il centro-destra, vincendo clamorosamente le elezioni regionali, ha finito per delegittimare definitivamente il secondo governo D'Alema, che infatti rassegnerà le dimissioni il 19 aprile, per essere quindi sostituito dal governo Amato il 25 aprile successivo. Anch'esso di centro-sinistra, ma con una diversa redistribuzione degli incarichi parlamentari tra i partiti e i gruppi della coalizione. È plausibile ipotizzare che la disaggregazione del centrosinistra sarebbe stata evitata se fosse stato dato agli elettori il compi155

to di incollare la nuova coalizione che si era costituita dopo la crisi del governo Prodi nell’ottobre del 1998. Ovvero, ritornando alle urne subito dopo la conclusione del semestre bianco, nel 1999, così da

restituire agli elettori il potere di formare i governi. Come, d’altronde, decise di fare il democristiano Helmut Kohl nel marzo del 1983,

dopo che un cambiamento di maggioranza parlamentare (sostenuto dal voto di sfiducia costruttiva) lo aveva portato alla cancelleria al posto del socialdemocratico Helmut Schmidt il 1° ottobre del 1982. Comunque sia, qui mi limiterò ad analizzare il primo governo D’ Alema (tra l'ottobre del 1998 e il dicembre del 1999), visto che il se-

condo è durato pochi mesi e si è limitato a realizzare gli impegni presi da quello precedente. Cominciando dall’inizio: domandandomi, cioè (Fabbrini 1999d), perché il governo Prodi è stato licenziato?

Da Prodi a D'Alema Durante il governo Prodi, due strategie differenti si sono misurate, confrontate e (infine) combattute per definire istituzionalmente la natura di quel governo. Quella governativa, che ha cercato di affermare l'indipendenza decisionale dell'esecutivo dai partiti, secondo il modello che si era venuto ad affermare nei grandi comuni italiani dopo la riforma elettorale del 1993. Con la differenza, però, che, in que-

sti ultimi, quella indipendenza era protetta dall’elezione diretta del sindaco, mentre, nel caso del governo Prodi, essa non beneficiava di

una fonte di legittimazione diversa da quella che legittimava i partiti. Quella partitica, invece, che ha cercato di affermare la primazia decisionale degli attori organizzati della coalizione, in quanto depositari concreti (e non simbolici) del consenso degli elettori. Secondo il modello vigente, in questo caso nelle democrazie parlamentari, seppure bipolari, dove i partiti continuano ad essere gli attori principali nella formazione-composizione-direzione del governo, proprio perché dispongono del monopolio nella selezione della rappresentanza parlamentare. Era prevedibile che, una volta conclusasi l'emergenza europea, la seconda strategia si sarebbe riattivata con determinazione. Dopo tutto, se i leader dei principali partiti dell’alleanza dell’Ulivo sono attori razionali, che interesse potevano avere ad accettare la primazia decisionale di un primo ministro che si poneva in diretta competizione 154

con essi, se non altro per il fatto di non essere un capo di partito?! Se l'avessero accettata, avrebbero consentito una riforma di fatto del si-

stema di governo in direzione non tanto primoministeriale o presidenziale, quanto di un potere primoministeriale o presidenziale di natura personale-elettorale. Una riforma che, istituzionalizzandosi, li avrebbe quindi marginalizzati dal processo decisionale per molto tempo. Così, già tra il giugno e il luglio 1998, si sono registrati i primi seri tentativi di ridimensionamento dell’autonomia dell’esecutivo,

per accrescere al suo interno l’influenza dei partiti. L'occasione (che ha giustificato quei tentativi) venne fornita da un issue di politica estera (l’allargamento della Nato all’Ungheria, alla Repubblica ceca e alla Polonia), anche perché la politica estera rappresentava il punto di minore coesione della maggioranza parlamentare. Il 23 giugno, nella discussione sul relativo disegno di legge, il governo fu costretto a prendere atto dell’indisponibilità del Prc a votare quel disegno di legge, al punto da essere costretto a richiedere la sospensione della seduta parlamentare stessa. Alla sua ripresa, il primo ministro non poteva non riconoscere che il rifiuto del Prc a sostenere il disegno di legge governativo «costitutisce un vulnus nella solidarietà programmatica della maggioranza». Il disegno di legge verrà quindi approvato grazie ai voti di una nuova formazione par-

lamentare (Udr), guidata dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga e costituita di parlamentari in fuoriuscita dal Polo di centro-destra, e con l’astensione di quest’ultimo (e con il voto contrario del Prc e della Ln): il risultato numerico sarà di 310 sì, 169

astenuti e 79 no. La formazione di una maggioranza parlamentare diversa da quella elettorale ha fornito, dunque, un inevitabile incentivo ai leader dei partiti (più influenti) dell’Ulivo per «falsificare» l’autonomia decisionale del governo. Così, già per la pressione del presidente della Repubblica che per quella dei leader del Pds-Ds e del Ppi, il governo Prodi fu sollecitato ad aprire una «verifica del rapporto fiduciario» con la propria maggioranza parlamentare: verifica che si concluderà poi positivamente con un voto formale di fiducia (il 21 luglio al Senato — dove ottenne 176 voti a favore e 119 contrari ed 1 astenuto — e il 22 luglio alla Camera — dove ottenne 324 voti a favore e 269 contrari). Tuttavia, al di là dell’esito (scontato) della verifica, le richieste dei leader partitici dell'Ulivo erano finalizzate ad affermare un punto 155

(per così dire) di principio: e cioè che il governo ha la sua base di legittimità nel Parlamento (prima ancora che nell’elettorato). Da allora, l’azione di quei leaderè stata finalizzata a ribadire con coerenza quel punto (per così dire) di principio. Dico per così dire, perché naturalmente quel principio è tutto meno che di principio. L'affermazione del principio della legittimazione parlamentare del governo equivaleva, infatti, all’affermazione della primazia decisionale dei partiti su quest’ultimo. Se il governo riesce ad operare solamente perché sostenuto dai partiti, allora è inevitabile che il governo debba operare prendendo in considerazione gli interessi (elettorali e organizzativi) di questi ultimi. Insomma, già nella crisi dell’estate del 1998 si era cercato (con successo) di dislocare la legittimazione del governo dagli elettori al Parlamento. Il tentativo di dislocazione, da allora, non è stato più contrastato.

E ciò non solo per la determinazione dei leader partitici dell'Ulivo, ma anche (e, forse, soprattutto) per l’indeterminazione del leader di governo dell’ o Anzi, dopo il maggio del 1998, quest’ultimo non ha preso più alcuna PIANA iniziativa politica. Eppure, era un suo interesse razionale contrastare l’idea dell'Ulivo come «un cartello elettorale di partiti coalizzati», per affermare l’idea propria degli ulivisti di un Ulivo come «un partito elettorale-programmatico». Infatti, solamente in questo modo il leader del governo avrebbe potuto garantire ulteriormente la propria indipendenza decisionale. Così, alla resa dei conti con i loro competitori, il leader di governo e gli ulivisti sono arrivati inaspettatamente impreparati sul piano politico. O meglio, vi sono arrivati con troppe debolezze. Naturalmente, la loro debolezza immediata è stata quella di ritenere che fosse sufficiente una buona gestione del governo perché si creasse un impatto favorevole alla trasformazione dell’Ulivo in un partito sovrapartitico (e, comunque, nel partito del primo ministro).

Identificatisi completamente con l’obiettivo della moneta unica europea, gli ulivisti e il loro leader di governo hanno finito per dimenticarsi di fare politica in Italia. Così, in quanto leader indicato della coalizione, l'onorevole Prodi ha fatto poco per trasformarsi nel leader effettivo di quest’ultima. 888 giorni non sono stati sufficienti per definire l'identità politica dell’Ulivo, non solo rispetto al sistema partitico interno, ma anche (e soprattutto) rispetto al sistema politico esterno (cioè a quello europeo). Va da sé che l'ambiguità può essere una risorsa positiva nella politica ordinaria, ma non può essere una 156

risorsa utilizzabile nelle condizioni della politica straordinaria (quale era quella dell’Italia alla fine del decennio). E, comunque, essa non può favorire chi deve agire da «costruttore di un nuovo regime governativo» (o regizze-builder), mentre può favorire chi può comportarsi come un «amministratore del regime esistente» (o regirze-ma-

nager) (riprendo questi concetti da Skowroneck 1990). Accettando che l’interpretazione dominante dell’Ulivo fosse quella dei loro competitori, gli ulivisti e il loro leader del governo hanno finito per concedere a questi ultimi l’iniziativa politica. Solamente l'affermazione di un Ulivo in quanto (sovra)partito elettorale-programmatico, collocato inequivocabilmente nella famiglia della sinistra europea, avrebbe potuto contrastare l’iniziativa dei leader dei partiti dell'Ulivo, scompaginando gli equilibri tra di essi e le leadership al loro interno. Ma quell’affermazione, per essere credibile, avrebbe richiesto una pressante iniziativa riformatrice del governo in favore sia del completamento della riforma elettorale maggioritaria che dell’elezione diretta del capo del governo, così da tenere le identità ideologiche e organizzative di quei partiti sotto ipoteca. Ma gli ulivisti e il loro leader di governo avevano scelto, invece, il silenzio sul piano istituzionale: ed è stata questa la loro debolezza strategica. Convinti, probabilmente, che le nuove regole emergono inevitabilmente da nuove prassi e nuovi comportamenti, essi hanno finito per essere prigionieri di una sorta di immobilismo istituzionale (non privo, in alcune elaborazioni, di una giustificazione di tipo conservatore) che ha giocato a favore dei loro competitori: perché, ad istituzioni invariate (di democrazia parlamentare), sono i leader dei partiti che controllano (necessariamente) le risorse della legittimità decisionale. Da questo punto di vista, la decisione del governo Prodi di rimanere estraneo al lungo dibattito sulle riforme istituzionali (che si era avviato con l’istituzione della Commissione bicamerale), oltre che quella di professare il proprio agnosticismo relativamente alle principali soluzioni di riforma in discussione, si sono rivelate del tutto irrazionali. Perché se c’era un attore che aveva un interesse razionale ad una riforma che prevedesse il rafforzamento (per via maggioritaria) dell'esecutivo era proprio il governo Prodi, e se c’era un attore che aveva un interesse razionale ad una riforma che prevedesse il rafforzamento (per via dell’elezione diretta) del primo ministro era proprio l’onorevole Prodi. Senza la protezione di nuove regole istituzionali, 157

come poteva pensare il governo e il suo leader di preservare una primazia decisionale nei confronti sia della maggioranza parlamentare che dei leader dei partiti che la componevano? Non sto sostenendo, naturalmente, che una chiara pressione istituzionale avrebbe consentito al governo Prodi di neutralizzare i suoi competitori: sto affermando, tuttavia, che quella pressione (se ci fosse stata) avrebbe complicato non poco il loro gioco. Insomma, si può dire che la strategia ulivista del governo è stata sconfitta dalla debolezza politica (e, ancor più, culturale) degli ulivisti, prima ancora che dalla strategia dei leader dei partiti della coalizione. Dopo tutto, in una democrazia parlamentare, è poco plausibile che i partiti concedano autonomia al governo, se nor ne sono costretti. Il governo Prodi, anche per il fatto di essere stato un governo emerso da un accordo tra partiti, anche per il fatto di essere stato un governo composto di uomini e donne di partito, non è riuscito a trasformare un’opportunità (dovuta a specifiche contingenze temporali) in una necessità (imposta da una specifica pressione istituzionale). Così, esso ha ritenuto che il vento dell’elettorato e dell’Eu-

ropa avesse definitivamente piegato la canna delle istituzioni in direzione favorevole alla sua primazia. Ma quel vento non poteva produrre l’esito desiderato. Così, la canna del governo, in assenza di una pressione riformatrice, èritornata nella posizione cheè propria di un governo parlamentarc: quella, cioè, favorevole ai partiti. Che, infatti, appena se ne è presentata l'occasione, ne hanno ripreso (dopo più

di sei anni) il controllo. Conseguendo quell’obiettivo da tempo (e legittimamente) affermato dai loro leader: e cioè che i governi, nelle democrazie parlamentari, beneficiano (soprattutto) della legittimazione (indiretta) dei rappresentanti, e non già di quella (diretta) dei rappresentati.

La formazione e composizione del governo L'occasione, ai leader dei partiti dell'Ulivo, è stata offerta, come sap-

piamo, dal rifiuto del Prc di votare la legge finanziaria per l’anno 1999. Il malessere «governativo» del Prc era noto da tempo. Già nell’ottobre del 1997, il segretario del Prc, l’onorevole Fausto Berti-

notti, aveva manifestato l'intenzione di non sostenere la legge finanziaria «che doveva portarci in Europa»: intenzione, quindi, ritirata 158

dopo la diffusa reazione critica nei confronti del Prc da parte dei suoi stessi militanti. Tuttavia, nell’estate-autunno del 1998, apparve chiaro che quel malessere non poteva essere ulteriormente congelato. Il 31 agosto, infatti, il segretario del Prc pose delle «condizioni irrinunciabili» per il sostegno del suo partito alla legge finanziaria del governo Prodi. Anche se tale posizione (non negoziale) non era con-

divisa da tutto il gruppo dirigente di quel partito (come confessò il presidente di quest’ultimo, l'onorevole Armando Cossutta, in un articolo su «Liberazione» del 1° settembre), tuttavia la stabilità della

maggioranza parlamentare apparve sempre di più a rischio. Infatti, dopo un vertice di maggioranza del 16 settembre, il segretario del Prc dichiarò «di non aver rilevato alcuna svolta significativa nella politica economica del governo». Tant'è che il 21 settembre, nella riunione di direzione del Prc, il segretario del partito propose di ritirare la fiducia al governo, ottenendo l'adesione di una larga maggioranza (30 favorevoli, su 46 presenti) alla sua proposta. Maggioranza, quindi, confermata nel Comitato politico del Prc, che si riunì il 4 ottobre successivo, quando 188 membri (su 332) di quell’organismo voteranno a favore della posizione del segretario del partito. Spingendo così, il giorno successivo, il presidente del Prc a

dimettersi dalla carica, preludio di una inevitabile scissione. Anche perché la maggioranza dei due gruppi parlamentari del Prc era decisamente contraria ad aprire la crisi di governo. Tuttavia, ciò non fu sufficiente per impedirla. Così, il 7 ottobre, iniziò alla Camera la discussione sul voto di fiducia al governo Prodi, discussione che si concluderà, appunto, con un voto negativo due giorni dopo. Nel dibattito parlamentare, ma già nella fermentazione della crisi dei mesi precedenti, le posizioni dei leader dei partiti dell’Ulivo (in particolare degli onorevoli Massimo D'Alema e Franco Marini segretari rispettivamente del Pds-Ds e del Ppi) e quelle del primo ministro onorevole Romano Prodi erano apparse (in misura crescente)

distinte. Se i primi si erano dimostrati nettamente favorevoli ad un allargamento della maggioranza parlamentare al gruppo dell’Udr dell’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga (costituito, appunto, di parlamentari che erano stati avversari dell’Ulivo nelle elezioni del 21 aprile 1996), al contrario il secondo aveva sistematicamente rifiutato tale allargamento, ritenendolo un vero e proprio inquinamento dell’esito di quelle elezioni. Per quest’ultimo, se un allargamento si doveva ipotizzare, esso avrebbe dovuto assumere un 159

carattere additivo (alla precedente maggioranza), ma non sostitutivo (di parti di essa). Insomma, in tale diversa concezione dell’allargamento della maggioranza si rendeva evidente la contrapposizione tra chi (i leader di partito) aveva un interesse a definire la maggioranza di governo come una maggioranza parlamentare e chi (il leader del governo) aveva l’interesse opposto a definirla come una raggioranza elettorale. Fatto si è che la prima aveva i numeri per imporsi, mentre la seconda aveva solamente dei simboli per difendersi: e, alla prova dei fatti, i primi contano di più dei secondi. Così, di fronte al risicatissi-

mo voto di sfiducia, i leader dei partiti dell’Ulivo furono messi nelle condizioni di realizzare ciò che avevano sempre cercato di affermare: e, cioè, che la legittimazione dei governi (parlamentari) risiede nel Parlamento (dei partiti), e non negli elettori. Questo (e non altro) significava la dichiarazione da essi rilasciata a ridosso di quel voto di sfiducia: e, cioè, che «l'Ulivo non c’era più». Per di più, le condizio-

ni ambientali erano evidentemente a favore di un’interpretazione «parlamentaristica» della crisi: il «semestre bianco» del presidente della Repubblica era alle porte (cioè si stava avvicinando l’ultimo semestre del mandato presidenziale durante il quale lo scioglimento delle Camere non si può costituzionalmente realizzare), come era alle porte l'avvio della moneta unica europea (così che l'approvazione della legge finanziaria s'imponeva come una necessità ineluttabile). Naturalmente, il ricorso a nuove elezioni non era l’unica alternativa

disponibile: potendosi ipotizzare un governo tecnico, un governo istituzionale o un governo di larghe intese. Tuttavia, il sistema di partito della fine (degli anni novanta) non era più quello degli inizi (degli anni novanta). Alla fine degli anni novanta, esso si presentava come più consolidato (su entrambi i versanti

dello schieramento politico) di quello che aveva reso necessario il ricorso alle soluzioni governative di carattere tecnico del periodo 1992-96. Proprio per la legittimazione rappresentativa fornita dal nuovo sistema elettorale, i partiti ritenevano che era giunto il momento per rivendicare anche il controllo del potere decisionale. Peraltro, la riorganizzazione del nuovo sistema di partito nazionale si era avviata anche grazie alla riorganizzazione del sistema di partito a livello locale, sulla scia legittimante del nuovo sistema elettorale basato sull’elezione diretta del sindaco. E se a livello locale (Vandelli 1997) ipartiti, dopo la fase iniziale (1993-97) delle elezioni connota160

te esclusivamente dalla personalità dei candidati sindaci, avevano cominciato ad esercitare una loro influenza, a partire dalla selezione stessa dei candidati della nuova fase (successiva al 1997), ancora di

più a livello nazionale si era registrata un’esperienza simile. Così, dopo il fallimento del reincarico dell'onorevole Romano Prodi da parte del presidente della Repubblica il 13 ottobre, si atriva al preincarico dell’onorevole D'Alema il 16 ottobre successivo. Peraltro, ancora oggi colpisce la decisione di Prodi di accettare il reincarico da parte del presidente della Repubblica. Perché era evidente che la condizione esclusiva di un nuovo governo Prodi risiedeva (principalmente) nel riconoscimento da parte di quest’ultimo «della fine della maggioranza elettorale del 21 aprile 1996»: riconoscimento che l’onorevole Romano Prodi non avrebbe potuto formalizzare, pena il suo condannarsi («mani e piedi legati») allo status di ostaggio politico dei leader dei partiti e dei gruppi della nuova maggioranza. Comunque, una volta ottenuto l’incarico da parte del presidente della Repubblica, l'onorevole D’Alema ha impiegato quattro giorni per insediare il proprio governo (e altri tre per ottenere la fiducia della Camera e altri sei per ottenere quella del Senato). Se sul piano del processo di formazione il nuovo governo D’Alema si è presentato come un governo postelettorale, esito dell'accordo tra partiti parlamentari tra di loro distinti, su quello della sua composizione esso ha avuto tutte le caratteristiche di un governo di partiti coalizzati. Qui, cioè, siamo in presenza (di nuovo) di un governo di coalizione, piuttosto che di un governo coalizionale (come era stato, appunto, nel caso del governo Prodi). Anche per effetto del travaglio della crisi del precedente governo Prodi, il governo D'Alema è venuto ad essere costituito di un numero superiore di partiti rispetto al precedente: se il primo era costituito di ministri afferenti a 5 partiti (Ds, Pd, Ppi, Ri, Verdi), il secondo fu costituito di ministri

afferenti a 7 partiti (oltre ai 5 precedenti, l’Udr e il nuovo Partito dei comunisti italiani, emerso dalla scissione del Prc), a cui corrisponde-

vano però 11 raggruppamenti nella coalizione parlamentare. Sia il maggiore numero dei partiti che lo hanno composto che la sua impronta di governo di coalizione spiegano, altresì, le sue più ampie dimensioni quantitative rispetto al governo precedente: registrandosi

una crescita di quasi il 20% nel numero dei ministri, ma di poco più del 10% nel numero dei sottosegretari (passati da 50 a 56). Invece, per quanto riguarda i sottosegretari alla presidenza del Consiglio, si 161

Tabella 1. / sottosegretariati dei due governi Sottosegretariato

Governo Prodi

Governo D’Alemal

Governo D'Alema II

Sottoseg. alla presidenza del Consiglio dei ministri Sottoseg. per i Rapporti con il Parlamento Sottoseg. agli Affari esteri

Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg. Sottoseg.

all’Interno alla Grazia e giustizia alle Finanze al Tesoro, bilancio e programmazione economica alla Difesa alla Pubblica istruzione ai Lavori pubblici alle Comunicazioni all’Industria, commercio e artigianato al Lavoro e previdenza sociale al Commercio con l’estero alla Sanità per i Beni e le attività culturali all’ Ambiente all’Università e ricerca scientifica e tecnologica alle Politiche agricole ai Trasporti e navigazione

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è verificato un ridimensionamento quantitativo, anche se è aumenta-

to il numero di coloro con una carica parlamentare (vedi Tab. 1). Per quanto riguarda, poi, la distribuzione degli incarichi di sottosegretario, non appaiono rilevanti differenze tra i due governi, anche se si può osservare una maggiore (diciamo così) preoccupazione del governo D'Alema nei confronti della politica degli Esteri e della Difesa (dove, addirittura, in quest’ultimo ministero, il numero dei

sottosegretari è stato raddoppiato) (vedi Tab. 1). Merita, infine, rilevare che tra i due governi vi è una certa discontinuità nella composizione personale dei titolari delle cariche di ministro (solamente

il 36% dei ministri del precedente governo sono presenti in quello successivo), anche se assai di meno in quella dei titolari delle cariche di sottosegretario (quasi il 50% è stato confermato). 162

Il funzionamento del governo Naturalmente, un anno o poco più di vita costituisce un periodo assai contenuto per realizzare un qualsivoglia programma di governo.

Per quanto riguarda il primo governo D'Alema, ciò che è possibile rilevare è una certa contraddittorietà tra le intenzioni del governo e i risultati acquisiti. Non vi è dubbio che il governo D'Alema abbia cercato di continuare a percorrere la strada sia del rafforzamento istituzionale dell’esecutivo nei confronti del Parlamento che del rafforzamento organizzativo della presidenza del Consiglio nei confronti degli altri ministeri. Sul primo piano, basti considerare il perseguimento, da parte del governo, della strategia legislativa basata sulla legge delega (legge che, come abbiamo visto, favorisce l’autonomizzazione dell’esecutivo dal condizionamento del legislativo). Così (secondo i dati del Servizio studi della Camera dei deputati), al 30 giugno 1999, il governo aveva ottenuto dal Parlamento ben 65 dispositivi di delega, contenuti in 13 leggi approvate tra il 30 novembre 1998 e il 25 giugno successivo. Un risultato non da poco, se si tiene a mente che il governo Prodi aveva ottenuto 111 disposizioni di delega, contenute in 18 leggi approvate tra il 23 dicembre 1996 e il 28 settembre 1998. Tuttavia, mentre il governo Prodi non aveva attuato solamente 33 delle 111 deleghe ottenute, il governo D’Alema (al 30 giugno 1999) non ne aveva attuate ben 61, sulle 65 deleghe ottenute. Una non attuazione che segnala, appunto, le difficoltà incontrate dal governo nel poco tempo in cui ha dovuto operare. Anche per quanto riguarda il rafforzamento organizzativo della presidenza del Consiglio, il governo D'Alema si è mosso in continuità con il governo precedente, conseguendo tuttavia risultati diversi da quest’ultimo. Il 30 luglio 1999, infatti, è stato approvato un importante decreto legislativo, che era stato oggetto di discussione all’interno del Consiglio dei ministri sin dal giugno precedente, che prevede un significativo riordino della struttura organizzativa dell’esecutivo italiano (attuando la delega contenuta nella legge n. 59 del 1997 già discussa). Tale decreto legislativo ha avuto un doppio scopo (Criscitiello 1999). In primo luogo, quello di razionalizzare l’esecutivo nel suo complesso. Con la XIV legislatura il numero dei ministri sarà ridotto di un terzo (passando da 18 a 12), alcuni ministeri (9) verranno dipartimentalizzati, alcune funzioni verranno trasferite ad agenzie tecniche. In secondo luogo, quello di rafforzare or163

ganizzativamente la presidenza del Consiglio. Con la XIV legislatura la presidenza del Consiglio potrà liberarsi dalle strutture inessenziali, per dotarsi di un apparato più leggero ed efficace. Efficace nel sostenere il capo del governo nella sua funzione principale: dirigere il governo e coordinare le sue politiche principali. Insomma, anche nel governo italiano ci potrà essere un vero e proprio ufficio del presidente del Consiglio che, al pari di quello esistente nei governi parlamentari competitivi, dovrà avere competenze di policy, di comunicazione e di strategia, oltre che di consulenza giuridica. Non c’è dubbio che il primo ministro abbia cercato di anticipare, o di praticare, le linee quindi previste dal decreto del 30 luglio 1999. Sin dalla sua nomina, D'Alema si è dotato di uno staff di supporto personale, non dissimile (per composizione e per expertise) a

quello dei primi ministri delle democrazie competitive. Si è trattato di individui non solo legati personalmente al primo ministro, ma dotati di competenze specifiche nei campi cruciali per l’azione del capo del governo (come quello della comunicazione, del raccordo tra i vari ministeri, della gestione dell'economia e della politica internazionale). E non vi è dubbio che il primo ministro abbia cercato di promuovere una sua immagine, autonoma da quella degli altri ministri (anche sulla base delle risorse organizzative e di policy acquisite con il suo staff). Tuttavia, anche qui, i risultati hanno contraddetto le aspettative. La logica di funzionamento del governo, infatti, non ha consentito al primo ministro di realizzare il modello decisionale della «direzione ristretta e associata», se è vero che D'Alema è dovuto

intervenire sin dall’inizio per richiamare imembri del Cabizet ad una maggiore cautela nelle dichiarazioni pubbliche, soprattutto relativamente a politiche pubbliche che non erano di loro specifica spettanza (si pensi, come caso esemplare, alle posizioni assunte dal ministro comunista di Grazia e giustizia sulla politica estera, del tutto diverse da quelle del titolare «cossighiano», cioè filoatlantico, del ministero degli Esteri, contrasti emersi ripetutamente). Dopo tutto, in un governo di coalizione, i ministri sono rappresentanti di partito, prima ancora che responsabili di un settore della politica nazionale. E il primo ministro, privo di una legittimazione elettorale, non ha potuto rivendicare alcuna primazia decisionale verso di essi: anche perché, se così avesse fatto, avrebbe seriamente alterato gli equilibri su cui si reggeva la coalizione stessa. Per questa ragione, l’onorevole D'Alema ha potuto imporsi con difficoltà, nel 164

suo Cabinet, come un primo sopra eguali, pena la messa in discussione della stabilità dell'accordo interpartitico su cui si basava il suo governo. E ha dovuto agire, malgrado la sua predisposizione personale di tipo «presidenziale», come un prizzo tra eguali. Naturalmente, si sono registrate anche tendenze contrarie, ovvero favorevoli ad una maggiore centralizzazione decisionale della politica governativa da parte del capo del governo. Tali tendenze si sono registrate nelle occasioni in cui la politica estera è divenuta l’issue principale dell'agenda pubblica e governativa. In particolare durante la crisi del Kosovo, e quindi durante il successivo intervento militare della Nato in quella regione nella primavera del 1999, il primo ministro è riuscito ad affermare una propria personale autonomia di comportamento rispetto agli altri membri del governo. Ancora una volta, la politica estera, ed in specifico la guerra, hanno avuto un effetto tonificante sull’esecutivo, raffor-

zandolo nel rapporto con il Parlamento, ma anche sul capo del governo, rafforzandolo nel rapporto con gli altri membri del governo. Le situazioni di crisi internazionale tendono ad accrescere la visibilità pubblica del primo ministro, trasformandolo nel punto di riferimento inevitabile per l’intero paese. Per di più, nel caso della crisi in Kosovo, il primo ministro ha potuto beneficiare di un riconoscimento internazionale, quindi utilizzato per alzare la propria credibilità personale all’interno. Un riconoscimento che fu l’esito, non solo di un contesto politico a lui favorevole (per via della presenza di governi di sinistra o di centro-sinistra nella maggioranza dei paesi europei, governi che avevano l’interesse a ridurre le possibili rivalità reciproche, sostenendosi quindi reciprocamente), ma anche della particolare abilità dimostrata nella gestione della politica estera italiana in quella situazione di crisi. E, naturalmente, l'Unione europea ha continuato a

rafforzare il ruolo dell’esecutivo e del suo leader (come vedremo meglio nel prossimo capitolo). Tuttavia, per quanto la politica estera abbia spinto verso l’internazionalizzazione dei governi, in Italia come negli altri paesi europei degli anni novanta, nondimeno la forza di questi ultimi ha continuato ad essere influenzata anche dagli assetti istituzionali interni (Ammendola, Isernia 2000). E questi ultimi hanno contrastato quel duplice rafforzamento. Portando, infine, alla crisi del governo D'Alema il 18 dicembre del 1999. 165

Così, il presidente del Consiglio D'Alema è stato vittima del proprio stesso successo. Il successo conseguito con l’incarico dell’ottobre del 1998 si è trasformato nel fallimento delle dimissioni del dicembre successivo. Se l'onorevole D'Alema era stato in grado di imporre la sua visione parlamentarista alla coalizione dell’Ulivo, tuttavia quella stessa visione nascondeva in sé le condizioni per il fallimento di chi l’aveva promossa. Una volta che la legittimazione dei governi è stata restituita al Parlamento, sottraendola agli elettori, allora il governo non poteva che divenire l’ostaggio dei mutevoli umori o interessi di componenti (anche minime) di quel Parlamento. I parlamentaristi avevano pensato che si sarebbe sostituita la guida del governo nel passaggio da Prodi a D'Alema, senza accorgersi che, in realtà, stavano cambiando il «motore» stesso del governo. Con il governo D'Alema c’è stato il tentativo di ritornare al governo di partito organico (in cui i partiti controllano sia le politiche pubbliche che le cariche), ma quel tentativo (in presenza di un sistema di partito ancora frammentato) non poteva che riportare i governi all’instabilità del periodo consensuale. Tant'è che la stessa crisi del dicembre 1999 non è avvenuta su una precisa opzione di policy capace di dividere la maggioranza parlamentare (come era avvenuto nell’ottobre precedente), ma sul «malessere» di alcune sue componenti. Insomma, come nel periodo consensuale, la crisi è stata poco o punto collegata a specifiche questioni programmatiche.

Prodi e D'Alema: la discontinuità politica Se è vero che il governo D'Alema ha espresso una continuità programmatica e organizzativa con il precedente governo Prodi, esso, tuttavia, ha introdotto una significativa discontinuità politica e istituzionale con esso. Vediamo la prima discontinuità. Mentre il governo Prodi era nato sulla base di un processo di bipolarizzazione della politica italiana, ed era morto sulla base della necessità di difendere

quella bipolarizzazione, lo stesso non può dirsi relativamente al governo D'Alema che gli è succeduto. Certamente, nel suo discorso di insediamento alla Camera dei deputati, il 22 ottobre 1998, il primo ministro incaricato aveva difeso le ragioni del nascente bipolarismo politico. L'onorevole D'Alema (1998, 13) si era così espressa: 166

Signor Presidente, Onorevoli colleghi [...] [d]entro la nuova maggioranza convivono ispirazioni e culture diverse che guardano, in modo legittimo, ad un possibile approdo differente per il nostro bipolarismo. Da un lato chi ritiene l’incontro tra la sinistra riformatrice e le culture di centro parte ormai di una prospettiva politica di medio e lungo periodo. [...] Dall’altro l'opinione di chi è convinto che la coalizione di centro-sinistra contenga in sé entrambi i termini del futuro bipolarismo. Francamente non so dire quale tra i due disegni alla fine prevarrà.

Tuttavia, la dichiarazione del primo ministro conteneva indubbi elementi di ambiguità. Perché di già nella soluzione parlamentare della crisi dell’ottobre 1998 aveva prevalso il secondo di quei disegni, quello che affermava, appunto, di volere ridisegnare il nostro bipolarismo ma che, nei fatti, creava le condizioni per arrestarlo?. Il go-

verno D'Alema, cioè, era nato all'insegna di un ambizioso progetto di ricomposizione (organizzativa e ideale) dell’area di centro del nostro sistema di partito, non solo per riequilibrare la preponderanza della sinistra nel governo, ma anche per riproporla come il rinnovato «referente rappresentativo» dell’elettorato che, fino al 1992, aveva sostenuto i partiti governativi (e la Dc e il Psi in particolare). Pe-

raltro, la decisione del principale partito dell’opposizione (Forza Italia), di collocarsi anch'esso nella tradizione centrista della politica italiana (con l’adesione al Partito popolare europeo nel Parlamento di Strasburgo formalizzata dopo le elezioni europee del 13 giugno 1999), aveva ulteriormente irrobustito quel progetto. Tale progetto, naturalmente, si basava su due presupposti: in primo luogo, che l’elettorato ex Dc ed ex Psi, ora diviso tra il centro-

destra e il centro-sinistra, fosse scongelabile e, quindi, trasferibile verso un nuovo centro; in secondo luogo, che l’elettorato di destra

fosse, invece, congelabile in un’area marginale e politicamente ininfluente. Il sistema di partito sarebbe venuto, così, a strutturarsi in-

torno a zre poli: anche se due di essi (la sinistra e il centro) venivano ipotizzati come gli unici competitivi (0, forse, legittimati a governare). E a governare insieme, perché nessuno dei due (il centro e la sinistra) avrebbe mai potuto disporre (stante l’attuale sistema eletto-

rale) dei voti (e seggi) sufficienti per governare da solo. Di qui, il ritorno a governi di grande coalizione, sostenuti da un sistema istitu-

zionale che continuava a rimanere a potere condiviso: almeno tra i principali partiti del nuovo patto consensuale. 167

Il definitivo riassestarsi del sistema di partito intorno alle sue tradizionali famiglie partitiche di centro, di destra e di sinistra avrebbe consentito, a quest’ultima, di perfezionare l’appena acquisita identità socialdemocratica (senza più la minaccia di contaminazione culturale rappresentata dalle tradizioni riformiste, 724 nor socialiste, che avevano dato vita all'esperienza dell'Ulivo). Questo riassestamento si riteneva potesse usufruire di significativi consensi all’esterno e all’interno del paese. In Europa, perché così si sarebbe venuta a normalizzare la politica italiana, riconducendola dentro lo schema sinistracentro-destra che organizza l’attività del Parlamento dell’Unione europea. In Italia, perché influenti gruppi di interesse sociali (a partire dalle gerarchie cattoliche) avrebbero potuto finalmente ricostruire un legame diretto di rappresentanza con partiti (quelli di centro, in specifico) destinati ad esercitare un rinnovato ruolo «pivotale» nel governo (per il medio periodo). Legame che, appunto, era stato bruscamente interrotto dalle trasformazioni intervenute all’inizio degli anni novanta.

Da più parti, inoltre, si salutò positivamente il fatto che la nuova maggioranza parlamentare avesse portato al governo, finalmente, i partiti, ovvero i politici di professione, pensando che in tal modo avrebbe potuto ricostituirsi la coalizione di interessi che era stata prepotentemente neutralizzata dalle pressioni europee. E, infatti, come mai era avvenuto nel periodo 1992-98, l’anno del governo D'Alema è stato accompagnato da una ripresa d’iniziativa dei vari gruppi di pressione sociale o funzionale, ognuno preoccupato di avanzare i propri microinteressi, dopo il congelamento delle loro richieste imposto dalle politiche (sostenute dai partner europei) di riduzione del deficit pubblico. La stessa politica della concertazione tra i principali gruppi di interesse economico, avviata e formalizzata dai governi Amato e Ciampi, è venuta ad essere progressivamente

svuotata 0 disattesa durante il governo D'Alema, nonostante quest'ultimo avesse cercato di darle la forma di uno storico «patto sociale» (con l'accordo del Natale 1999 tra più di 40 organizzazioni d’interesse). Anche in questo caso, dunque, ad una continuità programmatica con il governo precedente (Ferrera, Gualmini 2000) è corrisposta una discontinuità di capacità politica. Non casualmente, il 1999 ha registrato una vera e propria ripresa dell’attivismo microparlamentare. Un attivismo che ha ritrovato nella legge finanziaria, di nuovo, l'occasione per manifestarsi. Così, 168

il giorno dell’approvazione definitiva della legge finanziaria 1999, avvenuta esattamente il giorno precedente alla dichiarazione di crisi governativa da parte del primo ministro, il ministro del Tesoro Giuliano Amato commentava («Il Sole-24 Ore», 19 dicembre 1999, p. 6): la legge finanziaria appena approvata è frastagliata e gonfiata, perché frastagliati sono i consensi che il Governo è costretto a cercare in assenza di una efficace riforma istituzionale [...] Il vero problema è che vi è sotto un rapporto tra Governo e Parlamento, che per snodarsi attraverso le tematiche della Finanziaria, porta a gonfiare i singoli capitoli. [Insomma] se sono frastagliati i consensi, diventa frastagliato anche il testo della Finanziaria. [Di conseguenza] senza riforme e senza stabilità, che è ciò che interessa più di tutto ai nostri partner in Europa, le Finanziarie consisteranno sempre più nella ricerca faticosa del consenso parlamentare. Sembra plausibile sostenere, dunque, che, tra l’ottobre del 1998

e il dicembre del 1999, si sia registrato un tentativo di interruzione del processo di bipolarizzazione della politica italiana, avviatosi tra le elezioni parlamentari del 1994 e del 1996: tentativo sostenuto e voluto da non pochi attori parlamentari e gruppi d’interesse. Tuttavia, la prospettiva dell’interruzione del bipolarismo è destinata ad incontrare alcuni ostacoli, all’interno e all’esterno. All’interno, in una

predisposizione bipolare dell’elettorato che non è facilmente neutralizzabile. E, all’esterno, nella richiesta all'Italia di prestazioni fi-

nanziarie che difficilmente potranno essere soddisfatte con i governi di grande coalizione. Dopo tutto, nei grandi paesi europei (quelli più direttamente comparabili con il nostro), è ed è stata la dinamica bipolare che ha consentito ai governi di conseguire la necessaria stabilità con cui realizzare il loro programma «europeo». È difficilei ipotizzare che tale contesto europeo non continuerà ad avere un’influenza sul funzionamento del nostro sistema di governo (come ben argomentano sia Della Sala 1998 che Cotta 1998). Insomma, la modalità della crisi del governo D'Alema nel dicembre del 1999, come era avvenuto nel caso della crisi del governo Prodi nell’ottobre 1998, costituisce una sorta di autobiografia di quest’ultimo. La crisi del dicembre 1999, infatti, non ha avuto alcuna motivazione programmatica, perché il governo non era nato sulla base di un accordo programmatico approvato dagli elettori. Quel

169

governo era nato sulla base di ragioni politiche: ovvero era stato utilizzato da diverse forze interessate ad arrestare l'evoluzione bipolare della politica nazionale. Forze politiche che si alimentano dell’instabilità, in quanto essa fornisce loro occasioni utili, non solo per allargare l'influenza dei singoli individui che le costituiscono e dei gruppi che essi rappresentano, ma anche per mostrare l’inadeguatezza del bipolarismo italiano emerso con le elezioni del 1996. Un doppio piano si è dunque istituzionalizzato nel corso del 1999. Il primo è stato quello in cui ha agito il governo, che ha continuato a perseguire, a grandi linee, il programma stabilito nel corso delle elezioni del 1996 e poi definito dal governo Prodi. Gli attori che hanno agito in questo piano hanno continuato ad essere influenzati dalle esigenze europee o dalle volontà dell'elettorato: o, comunque, con esse hanno dovuto sintonizzarsi. Il secondo è stato quello in cui ha agito la maggioranza di governo, costituita di forze politiche e individui scarsamente integrati nel sistema di governance europeo e scar-

samente sostenuti dagli elettori: e preoccupati di ricreare le condizioni di una politica basata su un centro allargato. Il primo ministro ha accettato la non coincidenza di questi due piani, pensando di utilizzarla a proprio favore. In realtà, la crisi del dicembre 1999 ha dimostrato che quei due piani (o prospettive) sono inconciliabili.

Prodi e D'Alema: la discontinuità istituzionale Anche sul piano istituzionale è possibile individuare significative discontinuità tra il governo Prodi e il governo D'Alema. Tenendo presente i quattro criteri (centralità dell'esecutivo, collegialità del suo processo decisionale, qualità del legame tra di esso e i partiti della coalizione, natura collettiva della sua responsabilità) che vengono generalmente utilizzati dalla letteratura internazionale per analizzare comparativamente le caratteristiche dei Cabinets nelle democrazie parlamentari consolidate (De Winter 1993, ma anche Blondel 1999 per un approccio più politico), si può connotare l’esperienza dei due governi in questo modo. Innanzitutto, il governo Prodi ha consolidato la centralità acquisita dall’esecutivo nei precedenti governi tecnici. Nel senso che, nel periodo considerato, l'esecutivo si è configurato come l’istituzione centrale del sistema politico: dunque marginalizzando, da un lato, il 170

Parlamento e i gruppi parlamentari della maggioranza e, dall’altro lato, i partiti e le segreterie dei partiti della maggioranza. Naturalmente, ciò è stato dovuto al fatto che quel governo ha avuto una derivazione serzielettorale, in quanto espressione di una maggioranza implicitamente presentata agli elettori attraverso il «gioco dei ritiri» delle candidature uninominali. Per di più, la decisione del Prc di non entrare nel governo, pur facendo parte della maggioranza, aveva consentito al governo di usufruire di una significativa coesione programmatica al suo interno. Naturalmente, senza l'Europa, tale coe-

sione non sarebbe durata a lungo. La necessità «di entrare nella moneta unica» ha consentito al governo Prodi di rivendicare (con successo) un’autonomia operativa dai partiti dell'alleanza dell’Ulivo, proprio per poter soddisfare con coerenza quell’imperativo. Esso, così, è venuto a configurarsi come un governo con tratti di aut0ro0-

mia decisionale (in particolare nelle politiche pubbliche, più che nelle nomine politiche) non dissimili da quelli che hanno contraddistinto i governi tecnici del periodo 1992-96. Con la differenza che, mentre entrambi hanno protetto la loro autonomia attraverso il richiamo al vincolo esterno, sul piano interno i primi hanno utilizzato il vincolo rappresentato dal presidente della Repubblica, mentre il secondo ha cercato di utilizzare quello rappresentato dalla volontà degli elettori. Al contrario, durante il governo D'Alema l’esecutivo ha dovuto registrare un ridimensionamento della centralità acquisita nella fase precedente. La sua base di accordo interpartitico ha reso il governo meno centrale, sia rispetto al Parlamento (basti pensare alla difficile trattativa sulla distribuzione delle presidenze delle commissioni parlamentari che si è svolta dopo la sua formazione) che (va da sé) rispetto ai partiti che lo costituivano (basti pensare all’importanza degli incontri diretti tra il primo ministro e il presidente dell’Udr (l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga), che pur non aveva incarichi di governo, ai fini della risoluzione dei conflitti generati, di volta in volta, al suo interno. Dopo tutto, il governo non ha potuto

compensare il suo «vizio di origine» utilizzando la pressione europea o la fiducia del presidente della Repubblica. Infatti, la prima aveva perso la sua drammaticità una volta che l’Italia era riuscita ad «entrare nella moneta unica»; e la seconda non aveva potuto ancora manifestarsi, visto che il governo si era trovato ad agire esattamente

nell’anno del passaggio delle consegne dal presidente Scalfaro al 171

presidente Ciampi. Insomma, la continuità nelle riforme organizzative della presidenza del Consiglio non ha potuto alterare la discontinuità nei rapporti istituzionali che si sono realizzati tra l’esecutivo e gli altri attori del sistema di governo. Discontinuità, appunto, emblematizzata dal ruolo di nuovo influente riacquisito dal Parlamento nel processo di approvazione della legge finanziaria. In secondo luogo, il governo Prodi si è caratterizzato come un governo collegiale, anche se cor premier, in quanto beneficiario di una diffusa solidarietà tra imembri (ministri e sottosegretari) dell’esecutivo. Una collegialità dovuta al fatto che essi si erano percepiti come membri di un’unica squadra (che, come tale, aveva vinto le elezioni). Su queste basi, il governo Prodi si era venuto a caratterizzare come

un governo a direzione ristretta e associata, nel senso che il presidente del Consiglio si era comportato come un primo (ministro) sopra eguali, anche se alcuni ministri (come quello del Tesoro, delle Finanze e della Funzione pubblica) e alcuni sottosegretari (in particolare della presidenza del Consiglio) erano risultati essere meno eguali (nel senso di più ineguali) di altri. Naturalmente, tale strutturazione interna del governo è stata incentivata dalla prospettiva programmatica da esso assunta. Non si può dire che tale collegialità sia continuata durante il governo D'Alema: la sua origine parlamentare (cioè politica e non programmatica) ha favorito, infatti, un abbassamento del tasso di collegialità tra i ministri, molti dei quali si erano percepiti come rivali politici, piuttosto che come alleati strategici. Tant'è che il capo del governo ha dovuto regolarmente arbitrare tra opzioni politiche e interessi partigiani contrapposti. In terzo luogo, l’alta collegialità tra i ministri del governo Prodi ha contribuito, a sua volta, ad irrobustire l'indipendenza dell’esecutivo dai partiti: dopo tutto, nelle loro interazioni decisionali, meno i membri dell'esecutivo si percepiscono come i rappresentanti di sin-

gole forze politiche e più tenderanno a sottolineare ciò che li unisce, rispetto a ciò che li divide. Esattamente l'opposto di ciò che avviene nei governi di coalizione postelettorali, dove ogni singolo ministro (rappresentante di partito) cercherà di preservare il proprio ambito di policy da invasioni esterne, delegando quindi ai leader di partito il ruolo di risoluzione degli inevitabili contrasti di policy che sono destinati ad insorgere?. Come in parte è avvenuto nel governo poste-

lettorale guidato da D'Alema. Certamente anche questo governo ha usufruito dell’aspettativa istituzionale (che si era venuta a creare sul172

la base dell'esperienza degli anni novanta) favorevole all’indipendenza dell’esecutivo: tuttavia le caratteristiche del suo processo di formazione hanno finito per creare le condizioni per un ridimensionamento significativo di quella aspettativa. Va da sé, l'indipendenza dai partiti rivendicata dal governo Prodi ha attivato una modalità competitiva (se non conflittuale) tra i primi e il secondo, a cui ha corrisposto una modalità cooperativa all’interno di quest’ultimo. Al contrario, la dipendenza dai partiti del governo D'Alema, se ha reso meno cooperativo lo stile di lavoro all’interno del governo, ha reso però meno competitiva (rispetto al governo precedente) la modalità di relazione operativa tra i membri del governo e i rispettivi leader dei partiti che lo sostenevano. Infine, la sua origine semielettorale, nel caso del governo Prodi, ha favorito l'affermazione di un senso di responsabilità politica collettiva al suo interno. Di converso, nel caso del governo D'Alema, la sua orgine postelettorale, e quindi la natura spuria e strumentale della coalizione che lo sosteneva, non hanno potuto che abbassare il tasso di responsabilità collettiva dell’esecutivo. Peraltro, non pochi membri di quel governo non avevano fatto mistero, per l’intera sua durata, che avrebbero perseguito (in futuro) strategie politiche differenziate. Ciò è inevitabile in un governo di partiti coalizzati. Ma lo è ancora di più in un governo di partiti coalizzati sulla base di una diversa ragione politica. Dopo tutto, è difficile che maturi una responsabilità governativa in un governo percepito come un’arena per il confronto tra strategie politiche opposte, e non già come un attore vincolato al rispetto di un patto con i proprio elettori, e impegnato come tale a ripresentarsi di fronte ad essi.

Governo e partiti La crisi del governo D'Alema nel dicembre 1999 ha fornito, dunque, importanti indicazioni analitiche sulla transizione italiana. Ha evidenziato, cioè, come l’esito di quest’ultima dipenderà dalla relazione che si verrà ad istituire tra i partiti e il governo. La relazione tra l'esecutivo e i partiti ha acquisito la funzione di vera e propria cartina di tornasole della transizione italiana. Non diversamente da ciò che è avvenuto nelle transizioni alla democrazia nei paesi dell’Europa orientale, anche in Italia quella relazione ha finito per assumere 196)

un carattere fortemente competitivo (per non dire conflittuale). Tant'è che la risoluzione di quella competizione ha assunto un’importanza strategica ai fini della definizione stessa della futura costituzione materiale del paese (in assenza della quale sarà improbabile giungere alla definizione di una futura, rinnovata, costituzione formale). Insomma, la transizione italiana avrà un esito piuttosto che un altro in relazione all’esito che avrà la competizione tra i partiti e il governo per stabilire chi è deputato a monopolizzare il potere decisionale. Questa competizione, naturalmente, ha a che fare con l’alloca-

zione delle risorse di consenso: debbono essere monopolizzate dai partiti oppure il governo può acquisirle indipendentemente da essi (con l’elezione diretta del suo capo, ad esempio)? E, infatti, là dove la transizione alla democrazia è stata controlla-

ta da partiti sufficientemente organizzati, essa ha dato vita ad una costituzione formale di parlamentarismo multipolare che ha riconosciuto una bassa autonomia decisionale all’esecutivo inteso come istituzione (in quanto da essi direttamente controllato). Al contrario, là dove quella transizione si è sviluppata sulla disintegrazione (organizzativa) e/o delegittimazione (elettorale) del precedente sistema di partiti, essa si è conclusa con una costituzione formale di serzipresidenzialismo multipolare che ha affermato (con l'elezione diretta del presidente della Repubblica) l'autonomia decisionale del governo dai partiti che lo sostengono (in entrambi i casi, con risultati tutt’altro che soddisfacenti): come ha mostrato Shugart (1998) nella sua convincente analisi comparativa.

In Italia, nel corso degli anni novanta, la delegittimazione dei partiti storici e la decapitazione giudiziaria delle loro leadership nazionali hanno condotto alla destrutturazione dei vecchi partiti e alla formazione di nuovi partiti, ovvero all’emersione di una classe politica, sempre di estrazione partitica, ma periferica o che era stata di «seconda fila» nel precedente assetto di potere. D'altra parte, il «nuovo» nasce anche, e necessariamente, da una rielaborazione del «vec-

chio». Certamente, poiché erano impegnati in tale complessa operazione di dislocazione e ricollocazione della rappresentanza, i nuovi

partiti in via di ridefinizione hanno dovuto lasciare dopo il 1992 la (tradizionale) presa sulla decisione, accettando che le cure dell’esecutivo venissero affidate a tecnici o a politici relativamente indipendenti (seppure con la garanzia, prima, e la tutela, poi, del presidente della Repubblica).

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Tuttavia, se i governi tecnici erano stati accettati dai partiti come un'esperienza contingente in attesa di una ristrutturazione dei rap-

porti relativi tra di essi, nello stesso tempo, però, quei governi hanno messo in moto una prassi decisionale che, proprio per i successi da essi conseguiti, ha finito per prefigurare un’alternativa alla prassi decisionale propria dei governi di partito (così come essa si era manifestata fino al 1992). Il governo Prodi si è inserito sulla scia di queste esperienze. Esso, naturalmente, si è configurato come un governo politico, ma non (certamente) come un goverzo di partito (anche se non ha potuto configurarsi come un goverzo del leader; su questi concetti si veda Fabbrini 1999b), nonostante l'onorevole Prodi non

abbia mancato di rivendicare con insistenza una sua legittimazione elettorale personale. Va da sé, tale rivendicazione non poteva che avere le gambe corte. Prodi, infatti, era stato indicato dall’alleanza dell'Ulivo (come suo candidato) ma non era stato eletto dagli elettori (come loro primo ministro). Qui è risieduto il tallone d'Achille del primo ministro.

Nel corso dell’esperienza del governo Prodi, e osservando gli importanti risultati da esso conseguiti, non pochi osservatori avevano sostenuto che le istituzioni potevano essere riformate senza la necessità di intaccare la Costituzione che le aveva disegnate. È vero: le istituzioni possono essere «deformate» attraverso la ridefinizione delle loro organizzazioni, pratiche e procedure interne, così da potere adottare logiche di funzionamento diverse in tempi e in contesti diversi. Tuttavia, se l'istituzione è tale, cioè se essa ha avuto modo di

motivare una costellazione di individui, partiti e gruppi d’interesse (o «preferenze») a preservare la sua esistenza, allora la ridefinizione della sua organizzazione interna ha un limite che non può essere superato. Il limite, appunto, rappresentato dalla natura di quella istituzione (Immergut 1998; Scharpf 1997). Nel caso dell’istituzione governo, la sua natura è data dalle modalità della sua formazione e dai

rapporti che intrattiene con le altre istituzioni (il Parlamento, in primo luogo). Ovvero dalle caratteristiche del sistema elettorale-partitico e del sistema costituzionale che regolano, l’uno, il processo di formazione dei decisori e, l’altro, il processo di allocazione ed esercizio dei poteri decisionali. Caratteristiche che possono essere alterate solamente dalla riforma (potremmo dire) macroistituzionale. Dunque, un'istituzione, senza alterare la propria natura, può piegarsi (nel suo funzionamento) come una canna al vento: ma tale fles175

sione è un effetto della convenienza, non già della convinzione. E sufficiente che la pressione esogena si riduca, perché l'istituzione ritorni a favorire la sua originaria costellazione di preferenze (cioè di gruppi, di partiti e di individui). Esattamente come la canna, una volta che si è affievolito il vento che l’ha piegata. E così è avvenuto anche nel caso delle istituzioni del nostro sistema di governo. Tant'è che, in coincidenza dell’entrata dell’Italia nella moneta unica, la co-

stellazione di preferenze favorita dal sistema elettorale e protetta dal sistema costituzionale ha fatto sentire (di nuovo) la sua voce, met-

tendo in crisi il governo Prodi e enndizionando quindi il governo D'Alema. Così, dopo il maggio 199t è stato possibile comprendere l’insufficienza della (sola) riforma miwoistituzionale, ovvero della

riforma attraverso il mutamento dei comportamenti, per consolidare la nuova logica di funzionamento.

Conclusione Alla fine degli anni novanta, l’esito istituzionale della transizione

continua ad essere indefinito. I partiti politici, seppure rafforzati rispetto agli anni della crisi, non sono però sufficientemente forti per rivendicare il pieno controllo del governo, e per imporre quindi le regole di un rinnovato parlamentarismo. Il governo, seppure rafforzato rispetto agli anni precedenti alla crisi, non è però istituzionalmente in grado di mettere al sicuro la sua forza, sostituendo la legittimità che gli deriva dai partiti con quella degli elettori. Intorno alla relazione che si dovrà istituire tra l'istituzione governo e gli attori partitici si sono giocati e si giocheranno i destini istituzionali della transizione stessa. In un sistema partitico ancora in una condizione

di flusso, è implausibile stabilire se si affermeranno attori politici (potenziali leader di governo) con un interesse a beneficiare di partiti territorialmente radicati oppure con un interesse a beneficiare di partiti elettoralmente mobilitanti*. Comunque, se l’esecutivo (e il suo leader) dovrà dipendere dai partiti, allora è evidente che il governo conserverà un carattere parlamentare. Se, invece, l’esecutivo (e il suo leader) potrà godere di un’indipendenza dai partiti, allora è altrettanto evidente che il governo avrà caratteristiche diverse da quelle parlamentari. Nel biennio 1996-98 si è pensato (troppo in fretta) che l'evoluzione costituzionale andasse in direzione primo176

ministeriale: anche perché è indubbio che si era registrato un rafforzamento dell’autonomia decisionale del governo, non solo rispetto al presidente della Repubblica ma anche, e soprattutto, rispetto ai partiti che pure si stavano riorganizzando. Tuttavia, quel rafforzamento, proprio perché non era protetto elettoralmente e costituzionalmente, si è rivelato tutt'altro che irreversibile. Anzi, è diventato più che reversibile, come è testimoniato dalla crisi dei due governi

D'Alema del dicembre 1999 e dell’aprile 2000. Tre governi in un anno e mezzo non sono certamente un indice dell’evoluzione primoministeriale della nostra costituzione materiale.

VI

L’europeizzazione del governo

L’Europa Come abbiamo visto, l'Europa è stata una «protagonista» della crisi italiana. Lo è stata, innanzitutto, attraverso la decisione presa a Maastricht, nel dicembre del 1991, e quindi formalizzata in un Trattato sull’Unione europea nel febbraio successivo. Quella decisione, fis-

sando un parametro di cozvergenza (in termini di rapporto tra deficit pubblico e prodotto interno lordo) ai fini dell’adozione di una comune moneta europea, aveva finito per restringere significativamen-

te i vincoli dell’azione dei governi italiani. Se l’Italia non voleva essere esclusa dalla moneta unica europea, non vi erano alternative alla politica di risanamento finanziario. Con quella decisione si è venuto, così, a formalizzare un formidabile vizcolo esterno sulla politica interna, come mai era avvenuto nel lungo secondo dopoguerra. Naturalmente, la politica italiana postbellica era stata a lungo condizionata durante il periodo della guerra fredda. Ma quel condizionamento aveva avuto una natura ideologica e politica, piuttosto che istituzionale o di policy (con l’ovvia eccezione della politica estera). Dopo Maastricht, il condizionamento è entrato nella struttura del policy making italiano, mentre prima di Maastricht si era fermato al suo ingresso. E ciò ha contribuito a mettere in crisi il modello consensuale di organizzazione della nostra politica di bilancio e delle sue strutture (parlamentari, amministrative, fiscali, regolamentari) di sostegno. Ma, in secondo luogo, l'Europa è stata una protagonista della crisi, e quindi della transizione, attraverso un processo più complesso di influenze sulle politiche e le istituzioni nazionali. Le decisioni, le norme, le direttive, le regolamentazioni, le sentenze, le raccomanda178

zioni provenienti dalle istituzioni dell’Unione europea (ovvero dal Consiglio dei ministri europei, dal Consiglio di Stato europeo, dalla Corte europea di giustizia, dalla Commissione europea, dal Parlamento europeo; sulle caratteristiche di queste istituzioni si veda Morata 1999) hanno sistematicamente condizionato la politica e le politiche italiane, i loro assetti istituzionali, la natura dei rapporti tra i gruppi di interesse, oltre che la stessa cultura pubblica del paese. Nel corso degli anni novanta, si è sviluppato un vero e proprio processo di europeizzazione, cioè di formazione (a livello europeo) di distinte e specifiche strutture di governance, colleganti attori nazionali ed europei, istituzioni nazionali ed europee, politiche nazionali ed europee (Risse, Cowles, Caporaso 1999). Naturalmente, l’integrazione mone-

taria è una componente centrale dell’europeizzazione, perché la più vincolante, ma, altrettanto naturalmente, le due non coincidono.

L’europeizzazione segnala un salto di qualità del processo di integrazione europea. Se l'Unione europea ha continuato a conservare ancora il connotato di un sistema politico «a livelli multipli» (cioè organizzato intorno a livelli distinti di po/icy-making — quello regionale, nazionale e sovranazionale — in base alla natura dei distinti problemi da risolvere; si veda Marks, Hooge, Blank 1996), nondimeno

quei livelli hanno visto progressivamente ridimensionata la loro reciproca separatezza. O comunque, contesti di interazione politica e decisionale sempre più stretti, tra i vari livelli, si sono attivati, producendo adattamenti sia nelle policies ed istituzioni interne che in quelle europee. Nel caso italiano, come sappiamo, tale processo di europeizzazione della politica nazionale ha sollecitato dei mutamenti difformi: tra le policies e le istituzioni e, quindi, tra alcune policies ed altre. In altri termini, l’europeizzazione, se ha contribuito a crea-

re le condizioni che hanno condotto alla crisi del modello consensuale, non ha però contribuito ad individuare una soluzione per quella crisi. E, soprattutto, ad individuare una soluzione sistemica,

capace di ridefinire stabilmente i rapporti tra le istituzioni e le politiche. Infatti gli anni novanta hanno registrato un mutamento significativo negli esiti di alcune politiche (in particolare di bilancio), nel comportamento di alcune istituzioni (in particolare del Parlamento e del governo), ma non certamente un cambiamento nelle strutture formali e informali che collegano le une alle altre. Vale la pena di capire perché. 9

L’Europa dell’accordo tra Stati nazionali Da tempo, gli studiosi dell’integrazione europea hanno messo in luce le implicazioni di quest’ultima nei confronti degli equilibri istituzionali interni: in particolare tra il legislativo e l'esecutivo. Prima gli studiosi postfunzionalisti della scuola detta della «domestic politics» (Wallace, Young 1996; Bulmer 1983) e poi gli studiosi della scuola (detta) dell’«intergovernamentalismo liberale» (Moravesik 1991; 1993; 1995) hanno rilevato come il processo di integrazione abbia finito per rafforzare gli esecutivi nazionali a danno dei rispettivi legislativi. Non è questa la sede per discutere questi due approcci, che, peraltro, differiscono in aspetti importanti, sia metodologici che interpretativi. Tuttavia, entrambi sono giunti a quella conclusione sulla base di un metodo analitico che privilegia le relazioni causali dal basso all’alto (0 bottorz-up): cioè di un metodo che parte dalle singole società nazionali, risale quindi ai singoli Stati nazionali e giunge, infine, all'Europa. Per essi, l'Unione europea è dunque un’organizzazione internazionale, che esiste fino a quando esiste l'accordo tra gli Stati nazionali che l’hanno costituita, e le cui decisioni debbono essere considerate come l’esito di un processo che si svolge principalmente fuori di essa (cioè nei singoli Stati nazionali e nelle loro interazioni orizzontali). Nonostante le loro differenze, entrambi gli approcci in questione assumono i governi nazionali come gli attori dotati dell’ultima parola, ovvero come i protagonisti del processo decisionale che si svolge a livello europeo. In particolare per gli intergovernamentalisti liberali (Moravesik 1998), la centralità assunta dai governi è il risultato di un percorso politico, tanto complesso quanto lineare. I governi, infatti, identificano e quindi aggregano quell’insieme di preferenze sociali che possono contribuire a definire ciò che viene chiamato «interesse nazionale». Naturalmente, quelle preferenze possono essere il risultato degli interessi della coalizione elettorale che sostiene il governo, oppure possono essere il risultato di una mediazione tra gli interessi espressi da diverse coalizioni od opzioni elettorali, oppure possono riflettere un orientamento consolidato della politica nazionale. Fatto si è che esse, le preferenze, sono manifeste, e il governo non deve fare altro che identificarle e aggregarle. Sulla base di queste preferenze rivelate, i governi nazionali giungono dunque alla trattativa sovranazionale, cioè all'accordo (appun180

to) intergovernativo. Essi portano le loro preferenze nella negoziazione con gli altri governi nazionali e trattano con le controparti degli altri paesi per ottenere dei risultati coerenti con le loro preferenze. In questa prospettiva, le istituzioni europee costituiscono delle arene neutre all’interno delle quali viene svolta la trattativa fra i vari governi nazionali. Ovvero, una volta conclusa la trattativa, esse di-

ventano strumenti di garanzia dell’esito stesso della trattativa. I regolamenti, le direttive e le sanzioni europee debbono, cioè, proteggere quell’esito dalla possibile defezione di coloro che in esso non si riconoscono più (o non hanno più interesse a farlo): rendendo, dunque, credibile, il processo decisionale europeo. Per usare il linguaggio della scelta razionale, si può dire che, per questi studiosi, le isti-

tuzioni europee rappresentano degli «accorgimenti regolativi» per ridurre i costi di transazione (relativi ad ogni trattativa), per gestire l’interdipendenza (tra i vari Stati nazionali) e per vigilare sugli accordi (realizzati tra di essi). Intesa come un’organizzazione internazionale, dunque, l'Unione

europea è equivalente ad un’associazione di Stati (nazionali). Tant'è che, per questi studiosi (si veda, in particolare, Moravesik 1994), la sua istituzione nevralgica è quella rappresentata dal Consiglio dei ministri, all’interno del quale siedono i rappresentanti dei singoli esecutivi nazionali. È il Consiglio dei ministri europei che prende le decisioni di carattere strategico relativamente al futuro dell’Unione europea, lasciando alle altre istituzioni (a partire dalla Commissione europea) ii compiti più tradizionali di implementazione di quelle decisioni. È il Consiglio dei ministri l’anello di congiunzione tra i singoli paesi europei e le istituzioni europee. Si potrebbe dire che gli Stati (esecutivi) nazionali rappresentano i «principali» e le istituzioni europee i loro «agenti». I principali (nazionali) prendono le decisioni, stabiliscono i tempi del percorso di integrazione, vigilano sul rispetto delle scelte compiute, mentre gli agenti (europei) vengono incaricati di realizzare le loro volontà. Tuttavia, per quanto il processo di integrazione europea si sia sviluppato, i principali, cioè i singoli Stati/governi nazionali, hanno continuato ad operare in modo

tale da garantirsi il controllo di quel processo: ovvero di garantirsi la possibilità di «chiamarsi fuori» (opting out) qualora quel processo imponesse scelte o condizioni ritenute inaccettabili. In realtà, questa possibilità è altamente improbabile. Non solo, è altamente improbabile che gli Stati (esecutivi) nazionali possano con181

tinuare ad esercitare la loro funzione di «principali», in presenza dell’approfondimento che si è verificato nel processo di integrazione europea, almeno dagli anni ottanta. Come è stato rilevato (Pierson 1996), quel processo di integrazione ha creato dei gaps (degli scarti) tra la volontà e la capacità degli Stati (esecutivi) nazionali di controllare i tempi e i contenuti del processo di integrazione europea. Quegli scarti sono dovuti a diversi fattori. Innanzitutto, all'autonomia (seppure parziale) acquisita dalle istituzioni dell’Unione europea, rispetto agli Stati nazionali che hanno contribuito a costituirle. In particolare, la Commissione europea è progressivamente evoluta come un'istituzione che si è rivelata capace di determinare l’agenda delle trattative tra gli Stati nazionali, abbandonando (seppure in parte) il suo ruolo di mero strumento esecutivo della volontà di questi ultimi. Dopo tutto, la complessità dei problemi tecnici, che gli Stati debbono risolvere, è tale da rendere improbabile un mero ruolo esecutivo della Commissione europea. Così, essa ha finito per strutturare quei problemi, delimitando l’ambito delle possibili decisioni adottabili dal Consiglio dei ministri europei. In secondo luogo, quegli scarti sono dovuti all’orizzonte temporale ristretto al cui interno agisco-

no i rappresentanti degli esecutivi nazionali: essi prendono decisioni sulla base di considerazioni di breve periodo, anche se quelle decisioni daranno risultati solamente nel lungo periodo. Basti considerare, come esempio paradigmatico, l'accordo di Maastricht: è difficile ipotizzare che i vari governi nazionali, coinvolti in quell’accordo, fossero pienamente consapevoli delle conseguenze (di lungo periodo) di quell’accordo. Probabilmente in alcuni casi, e probabilmente nel caso del governo italiano, la preoccupazione principale è stata quella (di breve periodo) di non rimanere esclusi da un’importante iniziativa europea, così da non apparire antieuropeisti agli occhi delle proprie (europeiste) opinioni pubbliche nazionali (Cotta 1998). In terzo luogo, quegli scarti sono dovuti all’ubiquità delle conseguenze inattese. Non vi è processo sociale in cui gli attori che lo at-

tivano siano in grado di controllarne pienamente l'esito. L’approccio «principale-agente» vede linearità, là dove vi è necessariamente imprevedibilità. Naturalmente, le conseguenze impreviste possono rivelarsi così poco significative da non alterare la linearità delle intenzioni di chi ha promosso il processo. Ma, altrettanto naturalmente, potrebbe verificarsi il contrario. Solamente l’indagine empirica può stabilire la rilevanza o meno dell’imprevisto. Nel caso dell’Unio182

ne europea, è indubbio che il processo di integrazione abbia registrato ripetute conseguenze non previste dagli Stati nazionali che hanno periodicamente contrassegnato il processo stesso con le loro decisioni. Ad esempio, nessuno Stato nazionale aveva previsto che la clausola sull’equo pagamento, inserita nel Trattato di Roma del 1957, avrebbe finito per attivare (a molti anni di distanza) la Corte europea di giustizia, così da stimolare (in alcuni paesi) un radicale cambiamento della legislazione sul lavoro femminile (per tutti, si veda Gardiner 1997 e Fenwick, Hervey 1995). Infine, quegli scarti sono dovuti a spostamenti nelle preferenze dei singoli governi nazionali. Quegli spostamenti possono essere dovuti ad un mutamento delle circostanze (come, per esempio, una sostituzione del partito o della coalizione di governo con un altro o un’altra sensibilmente alternative), oppure alla diffusione di nuove informazioni, oppure ad un vero e proprio cambiamento delle preferenze dei principali attori interni per via dello stesso processo di europeizzazione. In questo caso, la logica del «principale-agente» verrebbe addirittura rovesciata su se stessa. Gli Stati nazionali (i «principali») influenzano Y«agente» (l'Unione europea), ma l'«agente», attraverso la ricaduta interna del processo di integrazione, potrebbe a sua volta re-influenzare il «principale». Insomma, con il processo di europeizzazione, le preferenze degli Stati nazionali non possono più essere considerate come esogene a quest’ultimo, divenendo esse stesse un prodotto (endogeno) a quel processo (Jupille, Caporaso 1999).

Il rafforzamento dell’esecutivo Ora, è indubbio che l'Unione europea sia stata, e continui ad essere,

anche un'associazione di Stati nazionali. Ed è altrettanto indubbio che il processo politico che connota un'associazione di Stati abbia finito per alterare gli equilibri istituzionali interni a quegli Stati nazionali!. E, in particolare, abbia finito per alterare i rapporti tra esecutivo e legislativo, favorendo il primo a danno del secondo (Andersen, Burns 1996). Ciò è avvenuto per ragioni generali e per ragioni specifiche. Le ragioni generali sono presto dette. L’esecutivo

può disporre di una maggiore e di una migliore informazione, rispetto al legislativo, così che può definire, se non imporre, l'agenda dei temi da discutere. L’esecutivo è coinvolto quotidianamente nel 183

policy-making europeo, attraverso i suoi ministri e il suo stesso leader impegnati sistematicamente nel Consiglio dei ministri, ove le decisioni strategiche vengono prese. L’esecutivo costituisce il punto di

riferimento necessario degli altri partner europei, che ad esso si rivolgono per preparare gli accordi, per promuovere le coalizioni positive e negative intorno agli specifici issues da discutere all’interno del Consiglio dei ministri, per concordare le principali nomine ai vari livelli delle istituzioni europee (a partire dalla scelta dei commissari della Commissione europea). L’esecutivo è il punto di riferimento dei gruppi d’interesse nazionali coinvolti nel policy-making europeo, che ad esso si debbono rivolgere per promuovere le loro richieste e per avere accesso ad importanti arene decisionali europee. Seppure gli intergovernamentalisti non siano disposti a riconoscere che l’integrazione europea abbia finito per cancellare la distinzione tradizionale tra politica interna e politica estera, tuttavia essi sono d’accordo nel rilevare come quell’integrazione abbia squilibrato i rapporti tra politica interna e politica estera a favore di quest’ultima. Tradizionalmente ricondotta all'ambito della politica estera, la politica comunitaria si è progressivamente autonomizzata da tale policy,

divenendo quindi l'arena strategica per la ricomposizione degli interessi sia di politica estera che di politica interna. La centralità assunta dalla politica comunitaria nel policy-making governativo (dove per politica comunitaria si deve intendere un ordine di considerazioni europee, da inserire nelle scelte dei vari ministeri, e non già uno specifico settore di azione governativa, con il suo ministero separato) ha, per così dire, internazionalizzato quel policy-making. E se la politica estera è stata (ed è) l’arena privilegiata della preminenza governativa, la diffusività nel policy-making governativo della politica comunitaria ha reso quella preminenza inattaccabile (dal legislativo). Insomma, il processo decisionale europeo non sembra possa offrire opportunità significative di influenza al legislativo (Barbera 1999; Peres Tremps 1991), per via delle caratteristiche di quest’ultimo sia sul piano istituzionale (il legislativo, essendo un'istituzione rappresentativa, è costituito di molti membri in quanto deve dare voce ad una pluralità di interessi territoriali e sociali) che su quello funzionale (il legislativo, essendo un'istituzione aperta, deve funzionare secondo una logica deliberativa includente, e ciò non può che ral-

lentare il suo processo decisionale). Se i parlamenti si sono trovati a disagio quando la politica estera diventava preminente, essi lo sono 184

divenuti ancora di più con la sistematica preminenza assunta dalle scelte comunitarie nelle politiche di governo. Le ragioni dell’efficienza e della rapidità decisionali stanno tutte dalla parte del governo. E ciò è avvenuto anche in Italia. Il processo di rafforzamento dell’esecutivo nei confronti del legislativo, già avviatosi negli anni ottanta, ha ricevuto una robusta accelerazione proprio negli anni novanta, con il coinvolgimento sempre più accentuato del governo nell’arena europea. Ma vi sono state anche ragioni specifiche che hanno contribuito a rafforzare gli esecutivi in relazione ai rispettivi legislativi (KohlerKoch 1998; Wallace, Wallace 1996). Ragioni che hanno a che fare

con l’importanza assunta dall’esecuzione normativa degli obblighi comunitari. Se tali obblighi equivalgono ad una cessione di sovranità legislativa all'Unione europea, tuttavia tale ridimensionamento della sovranità nazionale ha penalizzato il legislativo, piuttosto che l’esecutivo. Infatti, l'Unione europea tende a regolare gli aspetti generali delle specifiche problematiche di policy, regolamentazione che viene ad identificarsi con il contenuto della legge, sovrapponendosi quindi alle competenze tradizionali del legislativo. Ai singoli Stati nazionali viene lasciata, invece, la normativa d’integrazione o di sviluppo, cioè una normativa regolamentare che è propria dell’esecutivo. Ciò ha consentito ai singoli esecutivi nazionali di rivendicare un’autonomia regolamentativa dal legislativo: rivendicazione che si è sostanziata nella crescita della legislazione delegata (dal Parlamento al governo), grazie alla quale il secondo è stato messo nelle condizioni di applicare, interpretandole, le norme e le direttive europee. Come abbiamo visto, infatti, anche in Italia è cresciuta la legislazione delegata, con la

quale il governo ha potuto regolamentare vasti settori dell'attività economica e sociale. Una volta che si è resa poco praticabile la via dei decreti legge (con la doppia sentenza della corte costituzionale del 1996), anche il governo italiano è ricorso alle leggi delega, che sono cresciute sia per il numero dei disegni di legge che per il numero delle deleghe in essi contenute (più in generale, si veda Chiesi 1998). Insomma, la primazia del governo è stata imposta dalla logica dell’integrazione europea. Poiché l'Unione europea può esercitare la propria influenza sui singoli Stati nazionali solamente attraverso il consenso di questi ultimi, allora la sua legislazione (in senso generale, cioè inclusiva anche della regolamentazione di provenienza amministrativa o giudiziaria) può essere riconosciuta come valida sola185

mente se essa viene recepita da quegli Stati (Mann 1993). È questo

processo che ha favorito l'esecutivo, in quanto la ricezione di quella legislazione ovvero la sua traduzione in norme regolamentari specifiche, non poteva che essere affidata all’esecutivo. In questo processo, un ruolo importante è stato esercitato dalla Corte di giustizia eu-

ropea. Essa, infatti, non solo ha definito come «ingiustificabili» gli inadempimenti (nell’esecuzione interna della legislazione europea)

dovuti ad eventuali barriere costituzionali, ma ha finito per anteporre alla legislazione interna quella europea in importanti ambiti della vita economica e sociale. È ciò con il concorso delle corti costituzionali nazionali. Così, seppure gli intergovernamentalisti siano cauti nel tirare le conseguenze dell’azione della Corte di giustizia europea, nondimeno sono costretti a riconoscere che, in quanto organizzazione internazionale, l'Unione europea è certamente un’organizzazione sui generis. Naturalmente, i legislativi hanno cercato di correre ai ripari, di

fronte all’alterazione degli equilibri costituzionali dei poteri di governo. Ovvero di fronte alla messa in discussione del loro fondamentale potere di controllo del governo. Essi non potevano accontentarsi di mantenere il controllo esclusivamente sulla modifica dei trattati: infatti, in ogni Stato dell’Unione europea, spetta al Parlamento, e solamente al Parlamento, il potere di approvare o meno i nuovi trattati o le modifiche a quelli vecchi (potere, peraltro, largamente condizionato dagli umori dell’opinione pubblica; si veda Sinnot, Niedermayer 1995). Così, tutti i parlamenti nazionali dell’Unione europea hanno costituito delle commissioni specifiche per sorvegliare l’azione del governo nell’arena comunitaria oppure, in alcuni paesi come in Olanda e Danimarca, hanno definito delle procedure attraverso le quali il governo viene sollecitato ad informare il legislativo sull'evoluzione della politica comunitaria (per l’Italia, si veda Peraino 1998). Tuttavia, questi tentativi non sono stati sufficienti per ristabilire l’equilibrio precedente, in particolare, all’Atto unico europeo (Aue) del 1987: quando, con quell’Atto, i governi nazionali hanno deciso di promuovere la «cooperazione politica» tra di essi (Sbragia 1993). Da allora, sono stati in molti a domandarsi: come si controlla una volontà politica che, seppure espressione di una maggioranza interna, deriva in realtà (e sempre di più) dalla cooperazione con la volontà degli altri governi nazionali? Per di più, gli stessi governi nazionali hanno sempre di più invocato gli obblighi comunita186

ri, per neutralizzare le resistenze interne o per giustificare decisioni o prese di posizione che altrimenti sarebbero state bocciate dal Parlamento. E ciò è avvenuto in particolare nell'Italia degli anni novanta, quando il «vincolo esterno» derivato dall’accordo intergovernativo sulla politica monetaria, ha reso possibile una politica di risanamento finanziario, ritenuta fino ad allora impraticabile.

Il rafforzamento del capo del governo L'approccio intergovernativo ci aiuta a capire anche altre alterazioni degli equilibri istituzionali interni, incentivate dal processo di integrazione esterna. In primo luogo, il processo politico dell’Unione europea ha alterato gli equilibri all’interno delle strutture amministrative ed organizzative dell’esecutivo. L’integrazione europea ha accentuato il processo di tecnicizzazione dei problemi (i problemi sono divenuti più complicati e specifici) e ciò ha favorito una crescente separazione tra lo staff ministeriale (il gruppo di esperti che collaborano direttamente e personalmente con il ministro) e la burocrazia ministeriale (la tradizionale struttura amministrativa): il primo si è internazionalizzato sempre di più, mentre la seconda si è limitata ad esercitare le sue tradizionali funzioni di controllo formale delle procedure governative. Un esito, forse, inevitabile, vista la formazione prevalentemente giuridica e la predisposizione sindacalistica di quest’ultima (Chiarini 1999). Quella formazione, infatti, ha reso la burocrazia ministeriale molto più sensibile al formalismo del comportamento amministrativo, piuttosto che al suo rendimento in termini di output (cioè di qualità e quantità dei servizi forniti): una predisposizione poco o punto conciliabile con la complessità dei problemi tecnici sollevati dall’integrazione europea, oltre che con la competitività tra le amministrazioni nazionali che quest’ultima ha finito per promuovere. E, anche qui, l’Italia non ha fatto eccezione (della Cananea 1995). La tecnicizzazione degli staff ministeriali è proceduta sistematicamente nel corso degli anni novanta, in particolare nei ministeri (come quello del Tesoro) più esposti alle politiche di convergenza finanziaria ai fini dell'adozione della moneta unica. Già durante la trattativa che ha condotto all’accordo di Maastricht, infatti, è risul-

tato evidente il ruolo strategico esercitato dal gruppo di economisti 187

e tecnici (guidati dall’economista Mario Draghi, che poi diventerà direttore generale del Tesoro) che collaboravano con l’allora ministro del Tesoro Carli (Dyson, Featherstone 1996; Daniels 1993). È ad essi che si deve la preparazione tecnica della complessa trattativa che ha reso possibile la decisione relativa all'adozione di una comune moneta europea. Ma, naturalmente, con i governi tecnici successivi, tale processo si è accentuato. L’arrivo, nelle posizioni decisio-

nali dell’esecutivo, di uomini provenienti dalla Banca d’Italia e dalle università, ha implicato un rafforzamento degli staff tecnici dei ministri: non pochi dei quali si erano portati i loro collaboratori nelle cariche di governo che erano stati chiamati a ricoprire. Questo processo di tecnicizzazione dell’esecutivo ha coinvolto, va da sé, anche

e soprattutto la presidenza del Consiglio, che si è dotata di uno staff di policy-makers come mai era avvenuto nel passato. Per questo motivo, peraltro, il passaggio, nell’ottobre del 1998, al tradizionale governo di coalizione di D'Alema non poteva arrestare il processo di rafforzamento organizzativo, sul piano della capacità di policy making (in particolare nel campo della politica economica e finanziaria), della presidenza del Consiglio, avviatosi appunto con i governi tecnici e proseguito con il governo Prodi. Un rafforzamento organizzativo che, tuttavia, non ha potuto compensare la fragilità politica di un governo di derivazione postelettorale. In secondo luogo, il processo politico dell’Unione europea ha alterato anche i rapporti tra il capo dell’esecutivo e gli altri membri di quest’ultimo. Tant'è che, in tutti i paesi europei, si è registrata una maggiore centralizzazione decisionale della politica governativa da parte del capo del governo. Con l’eccezione del ministro del Tesoro (che ha assunto, in particolare dopo Maastricht, uno st4t45 quasi primoministeriale, come abbiamo visto), gli altri ministri hanno dovu-

to riconoscere la preminenza del capo del governo nel processo decisionale interno al governo. Perché il coinvolgimento dei vari governi nazionali nell'Unione europea ha costituito un incentivo costante, non solo alla razionalizzazione dei processi decisionali all’interno dell'esecutivo, ma anche alla personalizzazione del ruolo di capo del governo. Dopo tutto, è il primo ministro che partecipa ai summit internazionali, è il primo ministro che rappresenta il paese nelle trattative intergovernative, è il primo ministro che deve assu-

mere decisioni immediate nelle riunioni dei capi di governo europei. L'Unione europea ha incentivato ogni governo nazionale a parlare 188

con una sola voce, pena la sua marginalizzazione nel processo decisionale che si svolgeva al suo interno. In particolare nelle situazioni di crisi internazionale, solamente il capo del governo ha potuto rappresentare la «volontà del paese». E l’Italia, anche qui, non ha fatto

eccezione. Dal governo Amato in poi, il capo del governo italiano è divenuto, sempre di più, un prizzo ministro e, sempre di meno, un

presidente del Consiglio, come era stato nel lungo periodo consensuale. E, d’altra parte, con la transizione, i capi del governo hanno utilizzato non poco la loro posizione «europea» per neutralizzare le tendenze interne al ridimensionamento del loro ruolo. Anche se tale utilizzo è risultato più efficace durante il governo Prodi che durante il successivo governo D'Alema. Più che gli intergovernamentalisti, sono stati i postfunzionalisti (Schmitter 1999) ad essersi dimostrati consapevoli delle conseguenze imprevedibili (o unintended feed backs) della complessiva alterazione degli equilibri istituzionali indotta dall’integrazione europea. Essa, infatti, ha ridotto la accourtability (0 capacità di rendere conto) dei governi nei confronti delle istituzioni interne che rappresentano le volontà degli elettori. Inoltre, il rafforzamento dell’esecutivo non è stato uniforme, nel senso che alcuni suoi membri sono stati rafforzati più di altri: e ciò ha finito per mortificare la capacità di azione collettiva del governo. Ma, soprattutto, essa ha alimentato anche tendenze contrarie al rafforzamento dell’esecutivo. Ad esempio, la Corte europea di giustizia ha fatto crescere il potere dei singoli giudiziari nazionali, specialmente in quei paesi (come il Regno Unito e

la Francia) dove essi avevano dovuto subire, storicamente, la supremazia del legislativo (ovvero del governo). Infatti, una volta che la Corte di giustizia europea è riuscita ad imporre sia la dottrina dell’«effetto diretto» della legislazione europea nei confronti dei singoli cittadini europei (in Var Gerd en Loss del 1963) che quella della «supremazia» della legge comunitaria su quella nazionale (in Costa vs Enel del 1964), essa ha fornito ai singoli giudiziari nazionali un'occasione formidabile per esercitare un controllo di costituzionalità (una sorta di judicial review) sulla legislazione nazionale. Così, l'influenza europea ha dovuto essere accettata dai singoli governi e parlamenti nazionali, proprio perché si è manifestata attraverso le

decisioni dei rispettivi giudiziari nazionali (Weiler 1994). Inoltre, l'integrazione europea ha anche incentivato la formazione di coalizioni transnazionali di cittadini, gruppi d’interesse e mo189

vimenti che hanno oltrepassato i singoli governi nazionali per collegarsi direttamente a specifiche agenzie comunitarie (o meglio a specifiche direzioni generali della Commissione europea) (Schmitter, Traxler 1995). Ciò è avvenuto, in particolare, in quei settori economici e sociali più condizionati dalla legislazione europea. Ma la strategia del superamento del governo nazionale è stata perseguita anche da quei gruppi che non riuscivano ad avere l’ascolto dei rispettivi governi nazionali: perché non facevano parte della loro coalizione elettorale di sostegno oppure perché non erano ritenuti importanti ai fini della successiva rielezione. Insomma, la partecipazione ad una continua trattativa intergovernativa implica, ed ha implicato,

delle trasformazioni disomogenee all’interno dei singoli Stati nazionali. Se Moravesik (in particolare 1994) sostiene che gli Stati nazionali sono stati premiati dall’integrazione europea, se Milward (1992) ritiene che addirittura siano stati salvati da quest’ultima, Schmitter (che, a suo tempo, aveva contribuito in modo decisivo allo sviluppo del’approccio neofunzionalista) è arrivato ad una conclusione meno ottimista. E vero, ha scritto recentemente (Schmitter 2000), che l’in-

tegrazione europea ha rafforzato i governi, ma ciò potrebbe rivelarsi compatibile con l’indebolimento dello Stato: perché tra i primi e il secondo si è attivata, in altre occasioni, una relazione (di forza) in-

versamente proporzionale. Oppure, altri studiosi (Della Sala 1997) hanno parlato di una sorta di hollow:ng out dello Stato, cioè di uno svuotamento interno, relativamente alla sua capacità di controllo di settori importanti di politica economica e sociale.

L’europeizzazione degli Stati nazionali Per alcuni studiosi (Risse, Cowles, Caporaso 1999), invece, non è ri-

levante stabilire se l'Unione europea abbia rafforzato o meno lo Stato nazionale. Ciò che è più rilevante è individuare i #z0dî e i gradi dell'adattamento dei singoli Stati nazionali alla pressione europea. Perché l'Unione europea è (sempre di meno) un’organizzazione intergovernativa e (sempre di più) è un’organizzazione sovranaziona-

le, dotata di una propria dinamica istituzionale (Hix 1994). Se la prospettiva intergovernativa ha privilegiato il ruolo dei singoli Stati nazionali all’interno dell’Unione europea (mettendo in luce le conseguenze di quel ruolo sul piano degli equilibri istituzionali interni), 190

tuttavia essa ha continuato a concettualizzare il rapporto tra i singoli Stati nazionali e l'Unione europea come un rapporto tra attori distinti (o meglio come un rapporto tra i «principali» e il loro «agente»). Ma, in realtà, il processo di integrazione europea ha finito per superare tale distinzione, anche se non ha potuto eliminarla. In particolare, negli anni novanta si è venuto a sviluppare un vero e proprio processo di europeizzazione, cioè di costituzione di specifiche e distinte strutture di «governo» (nel senso della governance), inclu-

denti attori e istituzioni nazionali ed europee, finalizzate a risolvere specifici e distinti problemi di policy (Sandholtz, Stone Sweet 1998). La prospettiva dell’europeizzazione, dunque, consente di portare più a fondo l’indagine sulle conseguenze interne del processo di integrazione esterno. Perché (e questo è il punto di cruciale importanza), l'approccio intergovernativo non riesce a spiegarci come mai

quelle conseguenze interne abbiano avuto gradi diversi di istituzionalizzazione (e soprattutto come mai, in alcuni casi, si siano rivelate reversibili). Insomma, per ritornare al caso italiano, quell’approccio

non ci spiega perché il rafforzamento dell’esecutivo non sia divenuto stabile (ma, anzi, con il governo D'Alema sia stato sottoposto ad una pressione di segno contrario) e perché alcuni cambiamenti delle politiche siano stati realizzati (prima) e messi in discussione (dopo), come è avvenuto con la legge finanziaria del 1999. Se è difficile stabilire se lo Stato nazionale è divenuto più forte o più debole, tuttavia è possibile affermare che esso è stato influenzato dal processo di europeizzazione: e ciò vale anche per i tre Stati nazionali più importanti dell’Unione europea (cioè Francia, Regno Unito e Germania). Naturalmente, quando si parla di Stato nazionale occorre intendere i concreti assetti istituzionali che (come cerchi concentrici) organizzano i vari (sotto)sistemi che strutturano (in-

fluenzano) il processo politico che conduce alle decisioni che lo connotano: a cominciare dal sistema di governo (che deve essere inclusivo dei rapporti tra le istituzioni politiche e quelle amministrative; si veda Fabbrini, Vassallo 1999, cap. IV), a quello territoriale (o propriamente statuale) che organizza le relazioni tra il centro e le periferie (e che in questo volume non è stato trattato, seppure sia di grande rilevanza ai fini dell’analisi dell’europeizzazione), al sistema delle politiche pubbliche (in cui interagiscono gruppi di pressione, funzionari amministrativi, attori politici, comunità di esperti, movimenti e associazioni), al sistema socio-economico (che riflette l’or191

ganizzazione del mercato e la struttura delle relazioni sociali), al si-

stema culturale (che istituzionalizza i valori e le idee che orientano i comportamenti collettivi). Ognuno di questi sistemi, attraverso gli attori che agiscono al loro interno, è (stato) coinvolto (con gradi diversi di permeabilità) nel processo di europeizzazione, nel senso che ognuno di essi è (stato) spinto ad interagire con le strutture equivalenti di altri paesi e con quelle che si sono progressivamente formate nell’Unione europea. Proprio perché l’europeizzazione è un fenomeno con implicazioni sistemiche (cioè diffuse o systerz-wide), essa esercita una pressione all’adattamento su ognuna delle strutture istituzionali che organizzano quei sistemi: pressione che si è rivelata tanto più forte quanto meno compatibili erano quelle strutture con l’assetto europeo (di istituzioni e di scelte). Pur sapendo che vi è (stata) un’interazione tra strutture interne ed esterne, qui ho assunto le seconde come la variabile indipendente e le prime come la variabile dipendente. Proprio per meglio indagare l’esperienza italiana degli anni novanta: ovvero, per capire l’esito differenziato (sul piano dei vari sistemi) del processo di europeizzazione della politica italiana. Naturalmente la mia indagine si è focalizzata sul sistema di governo (nella sua accezione politica più che amministrativa) e, quindi, sul sistema della politica pubblica, visto il sensibile intreccio che si è venuto ad istituire tra di essi nell’Italia postbellica. E non già sul sistema statale, anche per evitare una eccessiva complicazione dell’indagine. Ovviamente, come abbiamo visto, è poco plausibile analizzare i rapporti tra le istituzioni di governo e le politiche pubbliche, senza considerare i presupposti socio-economici e culturali che sostengono gli attori coinvolti nel processo decisionale dello Stato nazionale. E indubbio che il grado di compatibilità delle strutture italiane con quelle europee era particolarmente basso all’inizio degli anni novanta. In particolare la scelta europea del rigore finanziario e, più in generale, l'orientamento europeo alla liberalizzazione dei mercati interni si conciliavano poco o punto con la cultura politica italiana (improntata al comunitarismo clientelare), con le strutture socio-economiche italiane (connotate da scarsa competizione per via dell’alta pubblicizzazione del mercato), con le strutture del policy-making italiano (protettive di un pluralismo oligarchico preoccupato di difendere le posizioni di rendita) e con le strutture governative e legali (inidonee a neutralizzare l’instabilità dei governi e l’irresponsabilità 192

dei governanti). E, quindi, era inevitabile che la pressione all’adattamento risultasse particolarmente consistente, su tutti e quattro gli ambiti sistemici in questione. Tuttavia, la pressione generata dall’europeizzazione ha dovuto «fare i conti» con le contro-pressioni provenienti dalle strutture istituzionali che organizzavano quei (sotto)sistemi. Così, tra la pressione (esterna) e l'adattamento (interno) sono intervenuti fattori istituzionali, che hanno «interpretato» quella pressione amplificandola oppure neutralizzandola. E questo spiega perché l’europeizzazione ha generato (appunto) esiti complessivamente diversi nei singoli Stati nazionali, ma anche specificamente differenziati relativamente alle varie strutture sottoposte alla pressione all’adattamento in ogni singolo Stato nazionale (con riferimento ai paesi europei più piccoli, si veda Hanf, Soetendorp 1998, e più in generale, Mény, Muller, Quermonne 1996).

Nel caso dell’esperienza italiana degli anni novanta, e focalizzando l’analisi sempre sulle strutture sia del sistema di governo che del sistema di policy-making, è plausibile argomentare che la loro forte capacità di resistenza è stata il risultato di due fattori di mediazione di segno opposto: la larga diffusione del potere decisionale al loro interno e la limitata (seppure differenziata) esistenza di attori (leader politici, partiti, ministri, staff ministeriali, singoli policy-makers) in

grado di favorire l’azione di pressione dell’europeizzazione. Nel senso che il primo fattore ha rafforzato la capacità di resistenza delle istituzioni e il secondo l’ha indebolita. Infatti, per quanto riguarda il primo fattore, è indubbio che entrambe le strutture in questione siano state connotate da un’ampia distribuzione di potere decisionale al loro interno: al punto che quei due sistemi si sono connotati come veri e propri sistemi di poteri di veto multipli. Tuttavia, tali poteri di veto hanno registrato tassi di istituzionalizzazione diversi, nell’uno e nell’altro sistema (nonostante l’inevitabile relazione esistente tra di essi). Nel caso del sistema di governo, la larga estensione e l’alta profondità istituzionali connotanti il Parlamento hanno fornito a quei poteri di veto una capacità di resistenza formidabile. Lo stesso non può dirsi, invece, nel caso di (alcune) strutture di policy-making, in particolare di quelle più esposte agli effetti della politica di convergenza monetaria: qui, i poteri di veto, seppure dotati di notevoli risorse, hanno dovuto adattarsi alle pressioni per una ridefinizione delle politiche, pena la loro esclusione dal processo decisionale europeo. In alcune politiche pubbliche, appunto: perché in altre (si 193

pensi, per tutte, alla politica dei trasporti), la resistenza all’adattamento è stata vincente, oltre che prolungata. Così, per quanto riguarda il secondo fattore, mentre sul piano delle strutture del sistema di governo non si è registrata l’esistenza di attori capaci di favorire la pressione dell’europeizzazione, quella presenza si è registrata, invece, sul piano delle strutture del policymaking. Come abbiamo visto, è stato un gruppo di economisti e consiglieri ministeriali (cioè attori collocati istituzionalmente in un punto strategico del policy-making europeo) che ha contribuito a preparare le condizioni, con Maastricht, per la formazione e l’istituzionaliz-

zazione di un vincolo esterno: e che quindi ha utilizzato quest’ultimo ai fini di una trasformazione delle politiche pubbliche relative al risanamento finanziario. E, comunque, anche in altri settori del policymaking italiano più coinvolti dal processo di europeizzazione (si pensi a quello amministrativo, dell'economia, dell’istruzione e della stes-

sa agricoltura), si sono formate agenzie, staff, gruppi di lavoro che hanno contribuito ad aprire varchi alla pressione esterna (Di Palma, Fabbrini, Freddi 2000). E hanno fatto ciò attraverso un’attività di ri-

cezione e reinterpretazione delle ragioni della convergenza europea. Così, attraverso l’esistenza di tali «istituzioni facilitanti», il vincolo

europeo si è progressivamente esteso, esercitando i suoi effetti di neutralizzazione dei veti multipli in ambiti diversi della politica pubblica italiana, da quella di bilancio a quella dell'università a quella del decentramento territoriale. Nulla di simile è avvenuto sul piano del sistema di governo. E ciò non solo per l’estensione e la profondità del sistema istituzionale, ma anche perché, qui, l’unica istituzione facili-

tante il processo di europeizzazione è stata quella esecutiva: ma essa è stata priva della legittimità (nel caso dei governi tecnici) e quindi della convinzione (nel caso del governo Prodi) per utilizzare l’europeizzazione ai fini di una neutralizzazione dei poteri di veto che ne ostacolavano la trasformazione istituzionale.

Insomma, più il potere è diffuso nel sistema di governo e della politica pubblica, più numerosi sono gli attori che hanno una «voce» nel processo decisionale, e più difficile sarà il compito di creare un consenso interno favorevole all’europeizzazione, ovvero di creare la coalizione vincente necessaria per adottare i cambiamenti di policy e le riforme istituzionali che possono ridurre la distanza tra strutture esterne (europee) ed interne (nazionali). Poiché la pressione europea non è una pressione unidirezionale, ma una pressione che pro194

viene da strutture al cui interno agiscono arche gli attori nazionali, allora essa può finire per essere imbrigliata nella «trappola della decisione congiunta», di cui da tempo sono noti gli effetti perversi (Scharpf 1988). Ovvero, là dove la decisione deve prevedere un consenso diffuso, e là dove il dissenso è altrettanto diffuso, la paralisi de-

cisionale viene evitata attraverso l'individuazione di un contenuto decisionale che si sposta poco dallo status gu0, in quanto costituisce il minimo comune denominatore tra gli attori coinvolti nella decisione. Così, paradossalmente, nei casi in cui l’incompatibilità tra le strutture interne ed europee è particolarmente alta, la pressione, per

non rischiare di rivelarsi inapplicabile, potrebbe essa stessa autolimitarsi: riducendo, di conseguenza, la spinta all’adattamento dell’europeizzazione. È come se la struttura dei veti diffusi, invece di essere neutralizzata dall'esterno, riuscisse a trasferirsi come tale all’in-

terno stesso di quell’esterno. Per questa ragione è d'importanza strategica l’esistenza di un’istituzione capace di «facilitare» il processo di europeizzazione: tale istituzione, se non altro, può ostacolare la

tendenza dei veti interni a trasferirsi nell’arena europea, «facilitando» (appunto) la tendenza opposta.

Società e cultura nell’europeizzazione L’esito dell’interazione conflittuale tra i veto players (cioè gli attori dotati di poteri di veto) e i veto neutralizers (cioè gli attori impegnati a neutralizzare quei poteri di veto) nei sistemi di governo e della politica pubblica, interazione promossa dal processo di europeizzazione, dipende anche dalla natura della cultura dominante che ne orienta il funzionamento, oltre che dalla struttura socio-economica che ne

giustifica la «ragione sociale». Per quanto riguarda il sistema socioeconomico, l’europeizzazione è venuta a coincidere con una pressione all'apertura competitiva delle società e dei mercati nazionali. Le tendenze alla liberalizzazione e alla privatizzazione, effetto inevitabile della logica propria del mercato comune europeo, oltre che delle visioni liberiste che hanno orientato i comportamenti di importanti istituzioni comunitarie (e della Banca centrale europea, oltre che delle varie banche centrali nazionali, in particolare) negli anni novanta, si sono venutea

scontrare, nel caso italiano, con un sistema socio-eco-

nomico irrigidito da un prolungato intervento pubblico nell’econo195

mia e nella società (Amato 1996). Cioè, con un sistema a sua volta

strutturato intorno a gruppi oligopolistici, se non (addirittura) rextseekers (ovvero, procacciatori e difensori di rendite). Naturalmente, ciò ha favorito gli «attori del veto» piuttosto che quelli della «neutralizzazione del veto». Al punto che si è verificato in Italia ciò che è avvenuto nei paesi postcomunisti (dell'Europa orientale) o postautoritari (dell'America latina): e cioè il fenomeno della contestuale «doppia transizione» (politica ed economica). E come ormai sappiamo (Przeworski 1991), nelle situazioni di doppia transizione il successo dell’una è dipeso dal successo dell’altra, secondo una modalità relazionale definibile come «circolare». Nel senso che è risultato difficile portare a termine la transizione politica senza aver prima promosso quella economica, seppure contemporaneamente si è rivelata poco credibile la promozione della transizione economica in assenza di una compiuta transizione politica. È

inutile dire che i paesi della doppia transizione sono stati quelli nei quali la transizione politica ha riguardato il passaggio dall’autoritarismo alla democrazia e la transizione economica ha riguardato il passaggio dall'economia di Stato a quella di mercato. Ed è inutile dire che, nel caso italiano, la doppia transizione ha riguardato il passaggio da un modello all’altro di democrazia e di mercato. Tuttavia, non è inutile rilevare come l'assenza di alternanza al governo e il diffuso controllo statale dell'economia abbiano collocato (in un ipotetico continuum che collega le democrazie agli autoritarismi) la democrazia italiana postbellica assai vicino ai regimi autoritari a partito unico e ad economia di Stato (ovviamente sul piano delia logica di funzionamento e non già su quello dei principi costituzionali). Per quanto riguarda il sistema culturale, l’europeizzazione ha portato con sé una cultura di riferimento, sia politica (relativamente al sistema di governo) che organizzativa (relativamente al sistema della politica pubblica), che si è rivelata anch’essa poco conciliabile con quella italiana (sia politica che organizzativa). Poiché la cultura prescrive il comportamento che gli attori debbono considerare come appropriato, allora gli effetti dell’europeizzazione possono rivelarsi limitati (o, comunque, rallentati nel tempo) se minima è l’aderenza tra la cultura esterna (europea) e quella interna (nazionale). L’adattamento mentale, infatti, potrebbe rivelarsi più difficile di

quello funzionale: poiché implica l’abbandono di un criterio basilare di giustificazione dell’esistenza stessa dell’attore. Insomma, può 196

risultare difficile la modifica di un modo di concepire il ruolo di parlamentare, quando quel ruolo si è venuto a definire in una lunga esperienza storica, e ciò a prescindere dall’interesse che chi esercita quel ruolo abbia a non modificarlo. E per le stesse ragioni può risultare difficile la modifica di un modo di concepire il ruolo di sindacalista o di leader imprenditoriale, a prescindere dall’interesse che chi esercita quel ruolo abbia a non modificarlo. Le culture non si «dismettono» facilmente, quasi fossero abiti o rivestimenti esterni, proprio perché esse sostengono le ragioni dell’identità degli attori (collettivi ed individuali), anche quando quelle ragioni possono risultare incongruenti con la realtà circostante. E così è avvenuto in Italia: qui il 725sf? (la non aderenza) tra la cultura esterna ed interna si è rivelato particolarmente alto. Sul piano del sistema di governo, perché il parlamentarismo proporzionalista del lungo secondo dopoguerra aveva istituzionalizzato tradizioni storiche, da cui sono derivate identità culturali molto radicate. Sul piano del sistema di politica pubblica, perché il pluralismo oligarchico del lungo secondo dopoguerra aveva istituzionalizzato una concezione dell’accordo tra i gruppi, da cui è derivata la stessa ragione di esistenza di questi ultimi. Ovviamente, è difficile distinguere tra comportamenti di resistenza dovuti a ragioni di identità e comportamenti di resistenza dovuti a ragioni di interesse. Nel senso che gli attori potrebbero avere un interesse a resistere alla pressione europea, ma non possono rendere manifesto quell’interesse per ragioni diverse (ovvero perché non sarebbe giustificabile nel discorso pubblico). E così essi ricorrono alle ragioni dell'identità che, per quanto inadeguate, hanno comunque un grado più alto di accettabilità pubblica, rispetto alle ragioni dell’interesse. Pare di poter dire che tale «interesse ad usare l’identità», ai fini della resistenza alla pressione dell’europeizzazione, sia stato assai diffuso nella classe parlamentare italiana. Va da sé che anche un alto 7755ftt, tra culture esterne ed interne, non è inconciliabile con un processo di apprendimento (del nuovo modo di pensare) da parte degli attori che agiscono all’interno

dell’uno e dell’altro sistema (Capano 1995; Gualmini 1995). E infatti, nel caso italiano, un apprendimento (in alcuni settori della politica pubblica) si è verificato: anche se è difficile stabilire se esso sia stato strumentale o sostanziale. Ovvero, è difficile stabilire se gli attori hanno modificato le loro strategie, conservando le proprie preferenze (apprendimento strumentale) oppure se hanno modificato le lo197

ro strategie perché hanno cambiato le proprie preferenze (apprendimento sostanziale). Solamente nel secondo caso, voglio precisare,

è plausibile parlare di un apprendimento capace di ridurre la non aderenza tra la cultura esterna e quella interna. Tuttavia, pure il processo di adattamento è istituzionalmente regolato: cioè condizionato dalle risorse ed opportunità disponibili, agli attori coinvolti nel processo di europeizzazione, per modificare l’interpretazione dominante del comportamento appropriato. Importante, in proposito, è

l’esistenza di istituzioni facilitanti l’europeizzazione, ovvero di attori dotati dei mezzi e della legittimità per esercitare un’azione persuasiva di riformulazione di quel comportamento. Naturalmente, il learning process è in qualche modo inevitabile quando gli attori sono spinti (da una crisi di regime politico o da un fallimento di politica pubblica) a ridefinire il loro intero sistema di preferenze. Sebbene l’europeizzazione (con l'eccezione, temporalmente delimitata, dell’integrazione monetaria) non abbia avuto questi caratteri straordinari, con essa la politica nazionale ha perso comunque il suo carattere ordinario. L’europeizzazione ha fornito una «finestra delle opportunità» per quegli attori interni che volevano cambiare le cose, tuttavia quella finestra non è apparsa grande abbastanza per fare entrare una pressione alla trasformazione. Fatto si è che, nel caso italiano, sia le caratteristiche del sistema socio-economi-

co che quelle del sistema culturale hanno aiutato non poco gli «attori del veto» nella loro azione di difesa dello status quo istituzionale.

Europeizzazione e trasformazione L’europeizzazione ha ricollocato le istituzioni al centro della nostra attenzione analitica. Le istituzioni sono risultate essere qualcosa di più di semplici accorgimenti organizzativi per ridurse i costi della trattativa tra gli Stati o per vigilare sul rispetto del suo esito. Esse, piuttosto, costituiscono l’intelaiatura che sostiene il processo politico sia nazionale che europeo, attraverso una complessa distribuzione di risorse, norme, aspettative, opportunità e vincoli. Una intelaiatura che collega le istituzioni nazionali (e subnazionali) e le istituzioni europee. Se il tradizionale approccio all’integrazione euro-

pea ha interpretato quest’ultima come il punto finale di un processo causale che comincia all’interno dei singoli Stati nazionali e si con198

clude nelle decisioni europee, l’approccio dell’europeizzazione allarga quell’interpretazione, andando ad indagare le conseguenze interne (ai singoli Stati nazionali) del processo di integrazione esterna. Quelle conseguenze non sono, e non possono essere, uniformi. Nel senso che il processo di integrazione, pur coinvolgendo in egual misura tutti i paesi dell’Unione europea, influenza questi ultimi in modo differenziato. L’integrazione europea, in altri termini, non ha prodotto un processo di isomorfismo strutturale, in virtù del quale tutti i paesi che partecipano all'integrazione europea finiscono per convergere in direzione della formazione di una comune struttura-

zione istituzionale (formale e informale) all’interno dei loro Stati nazionali. Se ciò fosse stato «inevitabile», allora l’Italia, che ha regi-

strato un alto 7255ft# tra la propria struttura interna e quella europea, avrebbe dovuto essere spinta ad una complessiva trasformazione del suo Stato nazionale. Ma così non è stato. L’europeizzazione ha favorito dei cambiamenti, ma quei cambiamenti hanno avuto una natura e un grado diversi, non solo tra i singoli paesi ma anche, all’interno di ognuno di essi, tra le diverse variabili del cambiamento. Ecco perché in questo volume ho tenuto distinti i risultati delle politiche, il sisterza delle politiche e il sisterza di governo. Queste variabili, infatti, vengono non di rado confuse, così che i cambiamenti dell’una

variabile vengono fatti coincidere con i cambiamenti delle altre variabili, derivando così conclusioni del tutto inattendibili (spesso iperottimiste) sugli effetti dell’europeizzazione. Non vi è dubbio che l’integrazione monetaria abbia richiesto, ai singoli Stati nazionali, di conseguire simili risultati in ambiti di policy (come la politica di bilancio) ritenuti cruciali per l'adozione di una comune moneta europea. Tuttavia, anche su quel piano, i simili risultati sono stati conseguiti sulla base di politiche diverse (Walsh 1994). Certamente, in tutti i paesi dell’Unione europea è stata riconosciuta l’indipendenza delle banche centrali nazionali dai rispettivi governi nazionali. Certamente, in tutti i paesi dell’Unione europea sono state semplificate le procedure di approvazione del bilancio pubblico. Certamente, in tutti ipaesi dell’Unione europea si è affidato al ministro del Tesoro il compito di controllare sia le spese che le entrate del bilancio (che a lungo, come in Italia, erano state allocate a due ministri diversi). E certamente in tutti i paesi europei è sta-

ta avviata una riorganizzazione degli apparati amministrativi, così da accrescerne l’efficienza e la responsabilità. Tuttavia, l'Unione euro199

pea non ha richiesto, né poteva richiedere, che i singoli Stati nazionali conseguissero quei risultati attraverso una comune struttura del policy-making: Per questo motivo, il cambiamento di un risultato della politica pubblica non deve essere confuso con una riorganizzazione dell’intero processo di policy-making. Naturalmente, l’europeizzazione ha creato un contesto favorevole all’imitazione. L’alta densità di interazioni tra attori nazionali ed europei, la reciproca dipendenza delle istituzioni nazionali ed europee, l'intensa circolazione delle informazioni dagli ambiti europei a quelli nazionali e viceversa, tutto ciò ha facilitato la «presa in prestito» delle soluzioni di successo ovvero ha favorito l'imitazione virtuosa. In questo senso, è plausibile parlare di una considerevole convergenza nei risultati tra gli undici paesi europei che hanno adottato la moneta unica. Ma una convergenza nei risultati di policy non equivale ad una omogeneizzazione dei rispettivi sistemi di policy making. In particolare, i settori della politica pubblica meno esposti ai vincoli della moneta comune hanno conservato molte delle loro caratteristiche strutturali, anche se hanno dovuto piegare queste ultime alle esigenze del conseguimento degli specifici risultati di policy imposti dalle decisioni europee. E tanto meno quella convergenza equivale ad una trasformazione dei rispettivi sistemi di governo. Infatti, i vari Stati nazionali hanno generalmente preservato le caratteristiche strutturali dei loro sistemi di governo, anche se hanno registrato una convergenza nel loro funzionamento. Per dirla con Risse, Cowles e Caporaso (1999), l’institutional change si è dimostrato più difficile da realizzare del policy change. Perché? Innanzitutto, per la natura della pressiore europea. La legislazione dell’Unione europea ha lasciato ampi margini di discrezionalità e di flessibilità alle autorità dei singoli paesi nazionali, per quanto riguarda la loro implementazione. Così, le direttive della Commissione europea fissano gli obiettivi, ma non individuano i mezzi per raggiungerli (anche se ciò vale di meno per le regolamentazioni europee). Insomma, il processo di implementazione della legislazione europea è vincolato al rispetto della cosiddetta dottrina del «mutuo riconoscimento» (Guzzetta 1994): dottrina che impone ad ogni Stato membro dell’Unione europea di accettare gli standard operativi degli altri Stati membri. Si può dire che gli Stati nazionali, avendo ac-

cettato un ridimensionamento della loro sovranità sul piano della definizione delle scelte di policy, hanno tuttavia preservato quella so200

vranità sul piano della realizzazione di queste ultime. L’implementazione delle politiche pubbliche è divenuta una sorta di trincea difensiva della sovranità nazionale. Ciò vale, in particolare, per gli Stati nazionali più rilevanti dell’Unione europea (e cioè per la Francia, il Regno Unito e la Germania), che attraverso la preservazione del sistema nazionale di implementazione delle politiche hanno potuto opporre una seria resistenza ai tentativi di radicale trasformazione dei loro sistemi di politica pubblica e di governo. In secondo luogo, la trasformazione istituzionale è stata resa difficile dall’esistenza dei fattori di mediazione. La diversità di quei fattori ovvero la diversa combinazione di quelli favorevoli e sfavorevoli alla pressione europea, nei singoli Stati nazionali, hanno finito per generare esiti interni diversi di quella pressione. E poiché quei fattori rinviano all’azione di specifici individui, gruppi o partiti, allora è plausibile ritenere che l’europeizzazione abbia avuto effetti diverse anche in relazione alla diversa interpretazione di quest’ultima che in ogni paese si è affermata. Insomma, il significato dell’europeizzazione è stato diverso da paese a paese: se nel Regno Unito quel significato ha avuto (per buona parte degli anni novanta) una valenza viziosa, in Italia quel significato ha avuto (nello stesso periodo di tempo) una valenza virtuosa. Anche in questo senso si può dire che le idee contano. Conta, cioè, il dibattito che in ogni paese si svolge, o si è svolto, sull’europeizzazione; conta se quel dibattito è struttu-

rato dagli oppositori ovvero dai sostenitori dell’europeizzazione; conta se nella battaglia elettorale e politica si costituisce o meno una rilevante opzione antieuropeista. La differenza nella predisposizione europeistica tra il Regno Unito e l’Italia (bassa nel primo e alta nella seconda) è stata una variabile (anche) dell’interpretazione dell’europeizzazione che si è affermata nei due paesi. Nel Regno Unito del partito conservatore al governo fino al 1997, l’interpretazione dell’europeizzazione è stata definita dall’opzione antieuropeista (0, comunque, dagli scettici dell’integrazione europea), così che gli stessi europeisti hanno dovuto moderare il loro favore per non perdere i contatti con il loro stesso elettorato. Esattamente il contrario è avvenuto in Italia, dove sono stati gli antieuropeisti a moderare il loro sfavore per non perdere i contatti con il proprio elettorato. Tant'è che nessun partito 0 leader politico di rilievo nazionale ha mai assunto una chiara posizione antieuropea nel corso delle varie campagne elettorali degli anni novanta. 201

In terzo luogo, la trasformazione istituzionale è stata ostacolata dal peso della storia. Le istituzioni che avrebbero dovuto adattarsi (cioè le interne, come quelle del sistema di governo e del sistema di politica pubblica) erano istituzioni longeve e consolidate. E, quindi, legittimate agli occhi dei cittadini e delle élites. Mentre così non era (o non lo era in misura equivalente) nel caso delle istituzioni che premevano per l’adattamento, cioè quelle europee. Queste ultime non solo sono recenti, ma sono anche di incerta «legittimità popolare» (Pasquino 1999b; Attinà, Velo 1994). Esse, infatti, sono nate come

istituzioni derivate da patti interstatali e sono state a lungo istituzioni intergovernative. Con la parziale eccezione del Parlamento europeo (che pure viene eletto direttamente dai cittadini europei solamente a partire dal 1979), nessun'altra istituzione europea può dire di esprimere la «volontà del popolo europeo». Per di più, lo stesso Parlamento europeo è privo dei tradizionali poteri legislativi che hanno connotato storicamente i suoi omologhi nazionali, avendo una funzione istituzionale di monitoraggio dell’azione della Commissione europea, oltre che di raccomandazione degli indirizzi da perseguire. Anche se è vero che il «peso politico» del Parlamento europeo è cresciuto nel corso degli anni novanta, attraverso la sua riu-

scita acquisizione del potere di definizione dell'agenda politica dell’Unione europea (Tsebelis 1994). La decisione del Parlamento di «criticare» la Commissione europea nella primavera del 1999, per via dei comportamenti di corruzione di alcuni suoi membri, decisione che ha quindi condotto alle sue dimissioni, è stata in proposito rivelatrice. Infatti, se essa non è stata sufficiente per imporre un’evoluzione parlamentaristica dell’Unione europea, nondimeno ha costituito una spia significativa dell’influenza acquisita dal legislativo europeo nei confronti delle altre istituzioni europee, in particolare di quelle dotate di potere decisionale (come il Consiglio dei ministri o la Commissione europea). Comunque sia, è evidente che il grado di legittimazione storica delle istituzioni che avrebbero dovuto cambiare era di gran lunga superiore al grado di legittimazione storica delle istituzioni che premevano per il cambiamento (Mancini 1998). E ciò non ha potuto che generare una resistenza delle prime verso le seconde.

202

Conclusione In generale, l’europeizzazione si è rivelata una condizione necessaria, ma non sufficiente, per il cambiamento interno. La sua pressione all’adattamento è stata particolarmente forte in paesi come l’Italia, che hanno registrato un’alta incompatibilità delle proprie strutture interne con quelle europee. Anche perché quella pressione, in Italia, è venuta a coincidere temporalmente con la messa in discussione, dall'interno, delle sue «autorità politiche» e delle «istituzioni del suo regime politico». Tuttavia, seppure «forte», quella pressione ha dovuto essere 7zediata dalla struttura istituzionale interna del paese. E se è vero che le istituzioni non si adattano facilmente ai mutamenti dell’ambiente circostante, ciò è ancora più vero per le istituzioni (come quelle italiane) che hanno acquisito una natura consensuale. E comunque, anche quando cambiano, il loro cambiamento è influenzato dall’esperienza precedente. Dopo tutto, i costi per portare le istituzioni interne in linea con le scelte e le istituzioni europee possono rivelarsi molto alti, in particolare quando quelle istituzioni hanno consolidato dei codici di comportamento, o delle abitudini comportamentali, ritenuti come appropriati dalla generalità degli attori che agiscono al loro interno. Le caratteristiche del processo di europeizzazione sono state tali da consentire ampi margini di discrezionalità ai singoli governi e attori nazionali nell’implementazione delle scelte europee. Per questo motivo l’europeizzazione non ha potuto generare una convergenza sistemica tra i vari paesi membri dell’Unione europea (Leonardi 1998). Di sicuro, la pressione europea ha condotto ad una considerevole convergenza nei risultati di policy nei settori collegati con l’integrazione monetaria e ad una qualche convergenza nelle strutture del policy-making di quei settori. Di sicuro, l’azione antimonopolistica della Commissione europea e della Corte europea di giustizia ha contribuito non poco a scardinare gli assetti proprietari e le modalità protezionistiche che avevano a lungo preservato le specificità istituzionali dei vari sistemi socio-economici dei singoli paesi europei. Uno scardinamento, peraltro, che è risultato particolarmente significativo in Italia, dove il consensualismo postbellico aveva protetto l’oligopolismo nell’economia e l’oligarchismo nella società. Di sicuro, la pressione europea ha indebolito quelle culture nazionali, comela nostra, meno predisposte alla competizione per il loro orien203

tamento comunitarista. Di sicuro, la pressione europea ha contribuito a piegare il funzionamento delle istituzioni di governo in direzione di un generale rafforzamento dell’esecutivo. Un piegamento, peraltro, che è risultato particolarmente significativo in Italia, dove la centralità del Parlamento aveva costituito il tratto connotante del sistema di governo. Tuttavia, ovunque, le strutture istituzionali na-

zionali hanno mostrato di possedere una significativa capacità di resistenza. Così, pur nell'Europa integrata, la trasformazione di queste ultime può essere realizzata solamente dagli attori interni, sulla base di strategie da essi definite e perseguite.

Epilogo

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Rumor II

25

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Rumor III

28

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Colombo

27

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Andreotti I

25

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VI

Andreotti II

28

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(25/05/1972-4/07/1976)

Rumor IV

29

-

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-

Rumor V

26

-



=

Moro IV

24

_

-



Moro V

22

_

Bonifacio

Dal

Stammati VII

Andreotti III

22

=

(05/07/1976-19/06/1979)

VII

Bonifacio

Andreotti IV

21

=

Andreotti V

22

=

Stammati Ossola Bonifacio Stammati Ossola Stammati

Cossiga I

25

-

Giannini

(20/06/1979-11/07/1983)

13,6

14,3

4,5 12,0

Reviglio

Stammati

IX (12/07/1983-01/07/1987)

Cossiga II

27

-

Giannini Reviglio

7,4

Forlani Spadolini I Spadolini II Fanfani V

26 28 27 28

-

Reviglio -

3,8 — -

Craxi I Craxi II Fanfani VI

30 30 25

Gifuni

-

Paladin Guarino

Travaglini Piga Gorrieri

Sarcinelli Di Lazzaro

241

32,0

segue tabella A.1 Legislatura

Governo

(A)!

X (02/07/1987-22/04/1992)

Goria

30

% ministri tecnici

Ministri tecnici

Numero ministri

Travaglini

(B)?

(A+B)

=

33,3

Maccanico

15,6

Ruberti

Carli

16,1

Carraro

Maccanico

Piga Gorrieri Sarcinelli Di Lazzaro Pavan

La Pergola Ruberti

X (02/07/1987-22/04/1992)

XI (23/04/1992-14/04/1994)

De Mita

32

Andreotti VI

31

Ruggiero Carraro La Pergola Ruberti Ruggiero Carraro

Ruggiero

Carli

Andreotti VII

32

Ruberti

Carli

Amato

25:

Barucci

Reviglio

Guarino

Ripa di Meana

Ronchey Ciampi

Spaventa

52,0

Ferrara

LIE

Ossicini

95,0

Ciampi

25

6,2 20,0

Cassese Paladin Contri

Barile Conso

Gallo Barucci

Baratta Savona

Ronchey Colombo XII (15/04/1994-08/05/1996)

Berlusconi

27

Berlinguer S. Dini

Dini

20

Dini Brancaccio Mancuso Masera

242

Legislatura

Governo

Numero ministri

= (A)

XII

Ministri tecnici % ministri _@@@@@tiE dici (B)? (A+B)

Fantozzi

(15/04/1994-08/05/1996)

Corcione Lombardi Baratta Luchetti

Caravale Gambino Clò Guzzanti Treu

Paolucci Salvini Motzo Frattini XII

Prodi

22

(dal 09/05/1996)

Flick

Bersani

18,2

Bersani

14,8

Ciampi D'Alema

27

Di Pietro Ciampi de Castro Micheli

Nota: i ministri considerati sono quelli entrati in carica al momento della presentazione del governo; non è stato preso in considerazione come ministro outsider Prodi, membro del quarto governo Andreotti, perché sostituto di

Donat-Cattin dal 28/11/1978. Nel computo dei ministri è considerato anche il presidente del Consiglio e gli eventuali vicepresidenti del Consiglio. ! La categoria (A) include i ministri che, al momento del loro primo incarico, non sono né membri di partito e né membri del Parlamento. 2 La categoria (B) include i ministri che, al momento del loro primo incarico, non sono membri del Parlamento. Fonte: per la composizione dei governi: www.palazzochigi.it; database «Composizione dei governi» disponibile oxline sul sito dell’Istituto Cattaneo di Bologna (www.cattaneo.org).

243

Tabella A.2. Tipi di ministri per legislatura considerati al momento del loro primo incarico (valori assoluti e percentuali di riga) Tipo di ministri

Legislatura 2

I [i II IV V VI VII VIII IX X Totale

3,

4

Totale 5)

insiders

outsiders

6

27 81,8% 9 25,7% 2 11,1% 1 5,6% 3 11,1% >) 18,95% p 13,3% 11 30,6% 2 9,5% 7 25,0%

2 6,1% il 5,6% = _ -

2 6,1% 2A 60,0% 15 83,3% 17 94,4% 24 88,9% 20 74,1% 11 73,3% 25, 63,9% 10 47,6% 16 57,1%

2 6,1% 3 8,6% _ 1 6,7% 1, 42,9% 4 14,3%

2 5,7% 2 7,4% 1 6,7% 2 5,6% 1 3,6

33 100% 35 100% 18 100% 18 100% 27 100% 2% 100% 15 100% 36 100% VAI 100% 28 100%

69 26,7%

3 1,2%

159 61,6%

19 7,4%

8 3,1%

258 100%

Tabella A.3. Incarico e nomina dei presidenti del Consiglio (periodo 1992-99) Presidente del Consiglio

Amato Ciampi Berlusconi Dini Prodi D'Alema I D'Alema II

Incarico

Nomina

Scioglimento della riserva (in gg.)

18/06/1992 26/04/1993 28/04/1994 13/01/1995 16/05/1996 19/10/1998 21/12/1999

28/06/1992 28/04/1993 11/05/1994 17/01/1995 17/05/1996 21/10/1998 23/12/1999

10 2 13 4 1 2 2

244

IIX

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Tabella A.5. Composizione dei Consigli di gabinetto (periodo 1983-92) Governo

Componenti del Consiglio di gabinetto

Craxi I

Vicepresidente del Consiglio (Dc) Ministro degli Affari Esteri (Dc) Ministro Ministro Ministro Ministro Ministro Ministro

Goria

Vicepresidente del Consiglio (Psi) Ministro degli Affari esteri (Dc) Ministro Ministro Ministro Ministro Ministro Ministro Ministro Ministro

De Mita

dell'Interno (Dc) del Tesoro (Dc) della Difesa (Pri) del Bilancio (Psdi) dell’Industria (Pli) del Lavoro (Psi)

dell’Interno (Dc) del Tesoro (Psi) della Difesa (Pli) del Bilancio (Dc) dell'Industria (Pri)

del Lavoro (Psi) dei Beni Culturali (Psdi) delle Finanze (Dc)

Vicepresidente del Consiglio (Psi) Ministro degli Affari esteri (Dc) Ministro Ministro Ministro Ministro Ministro

dell’Interno (Dc) del Tesoro (Psi) della Difesa (Pli) del Bilancio (Dc) dell'Industria (Pri)

Ministro del Lavori pubblici (Psdi) Ministro delle Finanze (Dc) Andreotti VI

Vicepresidente del Consiglio (Psi) Ministro degli Affari esteri (Psi) Ministro Ministro Ministro Ministro Ministro Ministro Ministro

dell’Interno (Dc) del Tesoro (Dc) della Difesa (Dc) del Bilancio (Dc) dell’Industria (Pri) della Marina mercantile (Psdi) delle Finanze (Psi)

Ministro per il Mezzogiorno (Dc) Ministro per i Rapporti con il Parlamento (Pli) Andreotti VII

Vicepresidente del Consiglio (Psi) Ministro degli Affari esteri (Psi) Ministro dell'Interno (Dc) Ministro del Tesoro (Dc) Ministro Ministro Ministro Ministro

della Difesa (Dc) del Bilancio (Dc) delle Finanze (Psi) delle Poste e telecomunicazioni (Psdi)

Ministro per i Rapporti con il Parlamenio (Pli)

246

Tabella A.6. Leggi approvate dal Parlamento nella X, XI, XII e XIII legislatura (periodo 1987-99) Tipologia

X legislatura n.

Decreti legge Ratifiche Leggi di bilancio Leggi costituzionali Deleghe Altre Totale

%

XI legislatura n.

Ei

%

XII legislatura n.

%

1:85 RI:2 NL 376 122 413 9361/59 652017; T5MMS90 20 19 8 25 8 Dal GREIMIO:6 3 0,9 = 7 0,6 15 4,8 2 0,7 663. 61:50 10534 48. 163 1.076 100 314 100295 100

XII legislatura* n.

%

LI? 136 15

20,6 34,3 2,8

1 13 216 543

0,2 24 391 100

* I dati relativi alla XIII legislatura sono aggiornati al 25 maggio 1999. Fonte: elaborazione su dati del Servizio commissioni parlamentari della Camera dei deputati, sezione Documentaristi.

247

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102/103 Gaetano Salvemini Lettere dall’America. 1944-1946 vol. I 104/105 Gaetano Salvemini . Lettere dall’America. 1947-1949 vol. II 106 Marta Fattori Creatività e educazione 107 Julienne Travers Dieci donne anticonformiste 108 Giuseppe Fiori La società del malessere 109 Anna Lorenzetto La scuola assente 110 Carla Ravaioli La donna contro se stessa dii Michael Kidron I/ capitalismo occidentale del dopoguerra 142 Alberto Caracciolo (a cura di) La formazione dell’Italia industriale 115 Edoardo Salzano Urbanistica e società opulenta I/ dibattito sovietico sull’industrializzazione. 114 Alexander Erlich 1924-1928 Kb Pasquale Saraceno Ricostruzione e pianificazione (1943-1948) 116 Ronald L. Meek Scienza economica e ideologia

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Luigi de Rosa La rivoluzione industriale in Italia e il Mezzogiorno Franz Petry I/ contenuto sociale della teoria del valore in Marx Suzanne de Brunhoff La politica monetaria

141 142 143 144 145 146

Andrew Glyn - Bob Sutcliffe Sindacati e contrazione del profitto Federico Caffè (a cura di) Autocritica dell’economista Alessandro Roncaglia Sraffa e la teoria dei prezzi Giorgio Ruffolo Riforme e controriforme Gisele Podbielski Storsa dell'economia italiana. 1945-1974 J.A. Kregel L'economia post-keynesiana. La ricostruzione dell’economia politica 147 Michael M. Postan Storia economica d'Europa (1945-1964) 148 Gunnar Myrdal Controcorrente 149/150 Roman Rosdolsky Gerest e struttura del «Capitale» di Marx 151 Lucio Colletti Il marxismo e il crollo del capitalismo 152/153 John D. Gould Storza e sviluppo economico 154 Claudio Napoleoni I/futuro del capitalismo 155 Stuart Holland Capitalismo e squilibri regionali 156 Ronald Marx Hartwell La rivoluzione industriale inglese Progetto socialista 157 AA.VV. 158 Giovanni Magnifico Una moneta per l'Europa 159 William Ashwort Breve storia dell'economia mondiale dal 1850 ad oggi 160 Karl Marx L'analisi della forma di valore 161 Stuart Holland Le regioni e lo sviluppo economico europeo 162 Michael Barratt Brown L'economia dell’imperialismo 163 Ernesto Rossi Abolire la miseria I/ ruolo economico del sindacato e il caso italiano 164 Ezio Tarantelli 165 Pierre Vilar Sviluppo economico e analisi storica Prospettive dell'economia italiana 166 AA.VV. 167 Bruno Amoroso - Ole Jess Olsen Lo Stato imprenditore 168 Gianni Toniolo (a cura di) L'economia italiana. 1861-1940 169 David K. Fieldhouse Politica ed economia del colonialismo. 18701945

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Gianni Toniolo L'econorzia dell’Italia fascista Karl Kautsky L'imperialismo Silvio Fagiolo L’operato americano. Fabbrica e sindacato in USA Bruno Amoroso Rapporto dalla Scandinavia Tom Kemp Modelli di industrializzazione

John Robinson

Sviluppo e sottosviluppo

Phyllis Deane Breve storia del pensiero economico Charles P. Kindleberger Euforia e panico Luca Meldolesi La teoria economica in Lenin Gianfranco Pasquino Degenerazioni dei partiti e riforme istituzionali James Tobin Problemi di teoria economica contemporanea Francesco M. Battisti Sociologia dello scandalo

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Claudio Signorile Il nuovo Mezzogiorno e l'economia nazionale AA.VV. Critica dello Stato sociale Georg Simmel La differenziazione sociale Max Weber Parlamento e governo John Marsh - Pamela Swanney - Fabrizio De Filippis

La politica

agricola comunitaria

Napoleone Colajanni : L'economia italiana tra ideologia e programmi ; i 188 Paolo Sylos Labini I/ sottosviluppo e l'economia contemporanea 189 John Maynard Keynes Corse uscire dalla crisi 190 Fausto Vicarelli (a cura di) Attualità di Keynes {91 Alessandro Roncaglia Econorzia del petrolio Welfare State all'italiana 192 AA.VV. 193 Paolo Sylos Labini Le forze dello sviluppo e del declino 194 Lester C. Thurow Arcipelago economia. Idee, scuole e protagonisti 195 Frank Hahn Equilibrio economico, disoccupazione e moneta 196 Antonio Baldassarre (a cura di) I linziti della democrazia 497 Gianfranco Pasquino (a cura di) Il sistemza politico italiano 198 Gianfranco Pasquino La complessità della politica 199 Giorgio Ruffolo La qualità sociale. Le vie dello sviluppo 200 Enzo Grilli - Giorgio La Malfa - Paolo Savona L'Italia al bivio. Ristagno o sviluppo L'economia della partecipazione 201 Martin L. Weitzman Individualismo e crisi dell’accumulazione 202 James O'Connor 203 Guido Baglioni La politica sindacale nel capitalismo che cambia 204 Gianni De Michelis I/ piaro del lavoro 205 Carlo Carboni (a cura di) Classi e movimenti in Italia. 1970-1985 206 Edmond Malinvaud La disoccupazione di massa 207 Vincenzo Ferrari Funzioni del diritto 208 Bruna Ingrao - Giorgio Israel La mano invisibile 209 Lester C. Thurow La soluzione a somma zero. Ipotesi per l’economia di domani 210 Ugo Ascoli - Raimondo Catanzaro (a cura di) La società italiana degli anni Ottanta 211 AA.VV. Banche in crisi. 1960-1985 212 Amartya Sen Etica ed economia 213 Susan Strange Capitalismo d'azzardo Economia e storia 214 AA.VV. PA) Sergio Turone I/ sindacato nell'Italia del benessere 216 Adolfo Battaglia - Roberto Valcamonici (a cura di) Nella competizione globale. Una politica industriale verso il 2000 203 Antonio Golini (a cura di) Università e Ricerca nel e per il Mezzogiorno 187

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Manlio Rossi-Doria (a cura di) Cinquant'anni di bonifica Luigi De Rosa. L'avventura della storia economica in Italia Sidney Tarrow Derzocrazia e disordine Giuliano Amato - Massimo L. Salvadori Europa conviene? Giuseppe De Rosa - Giovanni Barbieri Le politiche industriali dell'emergenza. Esperienze a confronto AA.VV. Istituzioni e mercato nello sviluppo economico. Saggi în onore di Paolo Sylos Labini Carlo Carboni Lavoro e culture del lavoro Maria I. Macioti - Enrico Pugliese GU immigrati in Italia Charles Goodhart L'evoluzione delle banche centrali Rainer Masera Intermediari, mercati e finanza d'impresa Massimo Luciani - Mauro Volpi (a cura di) Referendum. Problemi teorici ed esperienze costituzionali Maria Teresa Salvemini Le politiche del debito pubblico Guido Alpa Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali Francesco Giavazzi - Stefano Micossi - Marcus H. Miller (a cura di) Il sistema monetario europeo

Paolo Sylos Labini Progresso tecnico e sviluppo ciclico Sergio Fabbrini Il presidenzialismo degli Stati Uniti Maria I. Macioti I/ concetto di ruolo nel quadro della teoria sociologica generale Pierpaolo Donati

La cittadinanza societaria

Pierluigi Ciocca - Giangiacomo Nardozzi L'alto prezzo del danaro Vittorio Grevi (a cura di) Processo penale e criminalità organizzata Vito M. Caferra La giusta disuguaglianza. Dalla Nomenklatura alla nuova Repubblica Fabrizio Barca Imprese in cerca di padrone. Proprietà e controllo nel capitalismo italiano Luciano Barca - Sandro Trento (a cura di) L'economia della corruzione

Mario Caciagli - Pier Vincenzo Uleri (a cura di) Democrazie e referendum Beniamino Caravita (a cura di) Magistratura, CSM e principi costituzionali Luigi Bonanate I doveri degli Stati Danilo Zolo (a cura di) La cittadinanza Sergio Fabbrini Quale democrazia. L'Italia e gli altri Giovanni Fiandaca - Salvatore Costantino (a cura di) La mafia, le mafie. Tra vecchi e nuovi paradigmi Mario Caciagli - Franco Cazzola - Leonardo Morlino - Stefano Passigli (a cura di) L'Italia fra crisi e transizione

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Ezio Tarantelli La forza delle idee. Scritti di economia e politica Emilio Gerelli Società post-industriale e ambiente Alessandro Roselli La finanza americana tra gli anni Ottanta e i Novanta

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Massimo Luciani - Mauro Volpi (a cura di) Riforme elettorali Domenico Fisichella I/ potere nella società industriale Empedocle Maffia Giovani del Sud Donatella Della Porta Movimenti collettivi e sistema politico in Italia. 1960-1995 Guido Carli Le due anime di Faust. Scritti di economia e politica Gerhard A. Ritter Storia dello Stato sociale Dora Marucco L'amministrazione della statistica nell'Italia unita Gian Paolo Prandstraller Relativismo e fondamentalismo Furio Cerutti (a cura di) Identità e politica Alberto Izzo L'anomia. Analisi e storia di un concetto Carlo Azeglio Ciampi (a cura di) Sfida alla disoccupazione Luigi Moccia (a cura di) I giuristi e l'Europa Claudio De Vincenti - Alessandro Montebugnoli L'economia delle relazioni Giovanni Pitruzzella Forme di governo e trasformazioni della politica

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Francesco Capriglione Etica della finanza e finanza etica Egeria Di Nallo I/ significato sociale del consumo Maria Serena Piretti (a cura di) I sisterzi elettorali in Europa tra Otto e Novecento Lorenzo Sacconi Economia etica organizzazione Daniele Checchi La diseguaglianza Anna Rita Calabrò L'ambivalenza come risorsa Francesco Viola Dalla natura ai diritti Mario Arcelli (a cura di) 1997

273 Rosaria Conte 274 Luigi De Rosa

Storia, econorzia e società in Italia. 1947-

L'obbedienza intelligente Lo sviluppo economico dell’Italia dal dopoguerra a

oggi

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Riccardo Massa Cambiare la scuola Valerio Pocar Gli animali non umani Roberto Bin Capire la Costituzione Charles H. Feinstein - Peter Temin - Gianni Toniolo L'economia europea tra le due guerre Mario Arcelli (a cura di) Globalizzazione dei mercati e orizzonti del capitalismo Ambrogio Santambrogio Destra e sinistra Natalino Irti L'ordine giuridico del mercato

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Luca Meldolesi Da/la parte del Sud Daniele Pace - Stefano Pisani Le condizioni economiche degli anziani 284. Maria Serena Piretti La fabbrica del voto 285 Antonio Varsori L'Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992

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Vittorio Cotesta Sociologia dei conflitti etnici Sergio Fabbrini I/ Principe democratico Paolo Martelli Elezioni e democrazia rappresentativa Mario Centorrino - Antonio La Spina - Guido Signorino I/ odo gordiano. Criminalità mafiosa e sviluppo nel Mezzogiorno Claudio De Vincenti - Stefania Gabriele (a cura di) I mercati di qualità sociale Gustavo Gozzi

Democrazia e diritti

Richard Layard - Stephen Nickell - Richard Jackman Misurarsi con la disoccupazione Edmund S. Phelps Prerziare il lavoro Leopoldo Nuti Gli Stati Uniti e l'apertura a sinistra Sergio Fabbrini - Salvatore Vassallo I/ governo. Gli esecutivi nelle democrazie contemporanee Massimo La Torre

Norze, istituzioni, valori

Salvatore Patti Codificazioni ed evoluzione del diritto privato Giuliano Crifò Civis. La cittadinanza tra antico e moderno Marino Regini Modelli di capitalismo Luigi Capogrossi Colognesi Max Weber e le economie nel mondo antico

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Antonio D'Amato - Giuseppe Rosa (a cura di) Nel Sud per competere Giuseppe Volpe I/ costituzionalismo del Novecento Claudio De Vincenti (a cura di) Gti anziani in Europa Donatella della Porta - Monica Greco - Arpad Szakolczai (a cura

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Pizzorno Ermanno Vitale Liberalismo e multiculturalismo Piero Aimo La giustizia nell’amministrazione dall’Ottocento a oggi Guido Carli Scritti scelti Alessandro Ferrara Giustizia e giudizio

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Identità, riconoscimento, scambio. Saggi in onore di Alessandro

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Fra pressioni e veti,

Sergio Fabbrini è professore di Scienza

come è stato governato il cambiamento politico italiano? Perché non hafavorito

politica presso l’Università degli Studi. > di Trento. Ha insegnato in diverse università straniere. In particolare:

una trasformazione istituzionale |presso la Harvard University della democrazia? Il primo studio sistematico

e la University of California di Berkeley. Ha scritto sette volumi

su un caso esemplare, .e un centinaio di saggi in sei lingue,

l’Italia degli anni Novanta.

sulla politica comparata, la politica statunitense e la teoria politica, ° oltre che sulla politica italiana. Recentemente ha curato con G. Di Palma e G. Freddi, Condannata al successo. L'Italia nell'Europa integrata | (Bologna 2000). Per inostri tipi

è autore di: // presidenzialismo negli Stati Uniti (1993), Le regole della democrazia.

Guida alle riforme (1997), Il principe ISBN 88-420-6201-4

RZ ARAZZI) nelle democrazie contemporanee (1999), Il Governo. Gli esecutivi nelle democrazie

contemporanee (con Salvatore Vassallo, 788842"0620

‘Lire 38000 (i.i.) € 19,63 (ii)

1999) e Quale democrazia. L'Italia e gli altri (1999).

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