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Italian Pages 304 Year 1984
Il mondo coufr>mpom ,w J
IL MODELLO POLITIC GIACOBINO E LE RIVOLUZIONI
Il mondo contemporaneo Direttore Nicola Tranfaglia
Volume
I
STORIA
3
tomi
D'ITALIA
A cura di Fabio Levi: Umberto Levra, Nicola Tran/aglia Volume
II
STORIA
4
tomi
D'EUROPA
A cura di Bruno Bongiovanni, Gian Carlo ]octeau, Nicola Tran/aglia Volume III
STORIA
t o mo
1
DELL'ASIA
A cura di Enrica Collotti Pischel Volume
IV
tomo
1
STORIA DELL'APRICA E DEL VICINO ORIENTE A cura di Alessandro Triulzi: Guido Valabrega, Anna Bozzo Volume
STORIA
V
DEL
tomo
1
NORD
AMERICA
A cura di Piero Bairati Volume
STORIA
VI
tomo
1
DELL'AMERICA
LATINA
A cura di Marcello Carmagnani Volume
POLITICA
VII
1
tomo
INTERNAZIONALE
A cura di Luigi Bonanate Volume
VIII
ECONOMIA
2
E
tomi
STORIA
A cura di Marcello Carmagnam: Alessandro Vercelli Volume
IX
POLITICA
E
2
tomi
SOCIETÀ
A cu1'a di Paolo Farneti Volume
GLI
X
STRUMENTI
3
tomi
DELLA
RICERCA
A cura di Giovanni De Luna, Peppino Ortoleva, Marco Revell1: Nicola Tran/aglia Volume
IL
XI
1
tomo
MODELLO POLITICO GIACOBINO E LE RIVOLUZIONI A cura di M.L. Salvadori e N. Tra11/aglia
Il modello politico giacobino e le rivoluzioni
Il mondo contemporaneo
IL MODELLO POLITICO GIACOBINO E LE RIVOLUZIONI A cura di M.L. Salvadori e N. Tran/aglia
LA
NUOVA
ITALIA
©
Copyright 1984 by La Nuova Italia Editrice, Scandicci (Firenze). Printed in Italy. Fotocomposizione: Editografica, Rastignano (Bologna). Stampa: Sograte, Città di Castello (Perugia) La traduzione del saggio di François Furet è stata curata da Anna Marù1 Merlo.
Il ,nodello politico giacobino e le rivoluzioni Indice
p.
Avvertenza
IX
Parte I Dal crollo de//'Ancicn Régime ,,l/'esperim:.,1 J!.iacohi11t1 3 10
25
38 53 66 81 100
1 32
154
Attualità della lluestione giacobina Simla Trt11~/t1,e,lia La ri\'olta trnnsil\'ana del 1784- Realtù politiche e riflessi irnliani Frt111m \'e11/11ri Premesse del gincobinismo in ~lontes4uieu e Rousseau Paolo \'i>, n. 2, IO gennaio 1785, p. IO, dal Reno, 25 dicembre. 45. «Notizie del mondo», n. 6, 18 gennaio 1785, p. 44, Vienna, 6 gennaio. Su questi awenimenti, cfr. N. Edroiu, Horea's uprising cit., p. 43 e ss. 46. «Notizie del mondo», n. 7, 22 gennaio 1785, p. 52, Vienna, IO gennaio. 47. «Nuove di diverse corti e paesi», n. 5, 31 gennaio 1785, p. 33, Vienna, 20 gennaio. Cfr. «Notizie del mondo», n. 9, 29 gennaio 1785, p. 69, Vienna, 17 gennaio. Sulle ricompense accordate a chi aveva compiuto questa operazione, cfr. ivi, n. 15, 19 febbraio 1785, p. u5, Vienna, 7 febbraio. 48. «Notizie del mondo», n. IO, 1° febbraio 1785, p. 77, Vienna, 20 gennaio. 49. «Nuove di diverse corti e paesi», n. IO, 7 marzo 1785, p. 75, Vienna, 24 febbraio. Cfr. «Notizie del mondo», n. 20, 8 marzo 1785, p. 157, Vienna, 24 febbraio. 50. «Notizie del mondo», n. 12, 8 febbraio 1785, p. 92, Vienna, 27 gennaio. 51. «Notizie del mondo», n. 18, 1° marzo 1785, p. 141, Vienna, 14 febbraio. 52. Ivi, n. 21, 12 marzo 1785, p. 165, Vienna, 28 febbraio. 53. Ivi, n. 24, 22 marzo 1785, p. 188, Presburgo, 26 febbraio. 54. «Nuove di diverse corti e paesi», n. u, 14 marzo 1785, p. 82, Vienna, 3 marzo. Le «Notizie del mondo», n. 24, 22 marzo 1785, p. 187, Vienna, IO marzo, aggiungevano che, dopo esser stato squartato, «i di lui quarti furono affissi uno alla porta di Carlsburg e gli altri a Deva, Hunyad e sul luogo di sua nascita». 55. «Nuove di diverse corti e paesi», n. 12, 21 marzo
23 1785, p. 90, Vienna, IO marzo. 56. «Notizie del mondo», n. 23, 19 marzo 1785, p. 180, Vienna, 7 marzo.
57. Ivi, n. 24, 22 marzo 1785, p. 188, Presburgo, 26 febbraio. 58. Ivi, n. 35, 30 aprile 1785, p. 277, Augusta, 20 aprile. 59. «Nuove di diverse corti e paesi», n. 13, 28 marzo 1785, p. 98, Vienna, 12 marzo. 60. Ivi, n. 16, 18 aprile 1785, p. 122, Francoforte, 6 aprile. 61. Ivi, n. 19, 9 maggio 1785, p. 147, dal Danubio, 25 aprile. 62. Ivi, n. 22, 30 maggio 1785, p. 170, dal Danubio, IO maggio. · 63. N. Edroiu, Horea's uprising cit., p. 54. 64. K. Hitchins, The Rumanian 11ational movement cit., p. 41 e D. Prodan, Supplex libellus Valachorum cit., p. 2 54· 65. «Notizie del mondo», n. 43, 29 maggio 1787, p. 340, Vienna, 17 maggio e cfr. «Gazzetta universale», n. 43, 29 maggio 1787, p. 340, Vienna, 17 maggio. 66. «Notizie del mondo», n. 65, 15 agosto 1786, p. 516, Vienna, 3 agosto. 67. Cfr. N. Edroiu, Rasunetul european al rascoalei lui Horea (1784-1785), Editura Dacia, Cluj-Napoca, 1976, dove sono citate, a p. 71 e ss., le corrispondenze delle fiorentine «Notizie del mondo». A p. 97 e ss. si parla della stampa belga e olandese. 68. Il materiale è elencato ivi, p. u7 e ss. L'opuscolo più interessante e vivace è quello intitolato Kurze Geschichte der Rebellion in Siebenburgen. Nebst histori-
sch-geographischen Erliiuterungen. Mit Schattenrissen der beyden Rebellen, Horia und Gloczko, in der Bartholoma·ischen Buchhandlung auf dem Parade Platz, Strassburg, 1785. 69. «Come può awenire che un popolo del tutto rude, nato in servitù ed uso alla miseria improwisamente sia preso dal pensiero di farsi libero? Come viene una nazione stupida, paziente e disprezzata animata a farsi subitamente vivace, ribelle e prode? Il sollevamento dei Valacchi costituisce una importante lezione per i sovrani. Conferma l'osservazione che lo spirito umano è maturo per un fermento generale, che spasima per delle leggi che rispondano all'eguaglianza, la giustizia, l'ordine rispondente alla sua natura. Come ha potuto awenire che nel governo più benefico e dolce del mondo, quale quello di Giuseppe II, un simile awenimento abbia potuto prodursi? Gli è che i principi della libertà, della giustizia e dell'eguaglianza sono intessuti nel nostro cuore, sono una parte del nostro naturale destino. Possono essere soffocati ma non estirpati. Questo è quanto ha dimenticato la nobiltà valacca. Non si è ricordata i versi dell'Alzire: "les coeurs opprimés ne sont jamais soumis". Sono convinto che questo sollevamento, come tutti gli altri in cui il vantaggio della forza non è dalla parte di chi lo ha intrapreso, sarà soffocato. Con rapimento vedo i cuori toccati sottoporsi alla magnanimità di Giuseppe. Intanto esso cosa ci insegna, come molti altri sommovimenti dei nostri giorni, in Polonia, a Ginevra, nel cantone di Friburgo, ad Augusta, se non le infelicissime conseguenze dell'oligarchia? [ ... ] Ogni popolo che vive nella stupidità e nell'oppres-
Dal crollo deltAncien Régime all'esperienza giacobina sione ha il suo istante del risveglio [ ... ] Ben grave deve esser stato il peso della nobiltà valacca per necessitare una cura tanto aspra [ ... ]». «Das graue Ungeheur», 1784, n. 7, p. 185 e ss. (Debbo alla cortesia di Edoardo Tortarolo l'originale del testo qui tradotto). 70. Gabinetto di diecisette figure di cera di statura d'uomo rappresentanti i cinque capi ribelli della Transilvania e Valacchia imperiale, unitamente ai più grandi
mal/attori della Francia, spiegato in versi martegliani, Alessandria, nella stamperia di Ignazio Vimercati stampatore dell'illustrissima città, con licenza dei superiori, s.d. 71. Portava la data: Dublin, 1785. 72. «Gazzetta universale», n. 28, 7 aprile 1787, p. 220 e ss., Vienna, 26 marzo. Cfr. «Notizie del mondo, n. 28, 7 aprile 1878, p. 219, Vienna, 26 marzo.
Pre1nesse del giacohinis1no in Montesquieu e Rousseau
I. Un episodio dei più noti della Rivoluzione francese resta anche uno dei più enigmatici. Messi a tacere in aula e dichiarati in arresto, i dirigenti robespierristi si fecero abbattere, malgrado la loro forza, senza colpo ferire. Il capo indiscusso della Francia rivoluzionaria, che aveva assolto a ben più difficili compiti, non poté dirigere un'-insurrezione capace di mantenerlo al potere. Scelse, secondo Mathiez 1 di non dirigere l'insurrezione per un errore di valutazione sulla situazione politico-parlamentare. Non lo volle per !egalitarismo secondo Michelet, e secondo l'opinione diffusa nella storiografia ottocentesca. Addirittura si sarebbe opposto alla sua stessa liberazione, e agli agenti del Comune che venivano a tirarlo fuori di prigione, prima che una notte di inazione lo consegnasse definitivamente alla ghigliottina, avrebbe detto: «voi mi perdete! perdete voi stessi! perdete la repubblica!» 2 • Lebas e Augustin Robespierre si associarono volontariamente al tragico epilogo; entrambi, come pure Massimiliano, si diedero, o tentarono di darsi, la morte. Saint-] ust salì freddo e indifferente la scala del patibolo, tenendo fede al suo proposito di perseguire il bene a qualunque prezzo; di preferire «il titolo. di eroe morto a quello di vigliacco vivo» 3 • Egli attendeva la morte, come momento supremo di un'esistenza che non sarebbe sopravvissuta alla sconfitta della funzione di rigenerazione morale della rivoluzione. In un testo utopico pessimista come le Istituzioni repubblicane, di fronte alla rivoluzione «congelata», aveva preannunciato: «il giorno in cui mi sarò convinto che è impossibile inculcare nel popolo francese costumi di mitezza, energia, delicatezza, e inesorabili
per la tirannia e l'ingiustizia, io m1 pugnalerò» -i. Gli storici hanno notato e commentato questa sorta di fascino della morte che ha colpito i dirigenti dell'anno II. «Cupa e sterile esaltazione» la definisce Jaurès 5 , il cui vitalismo lo portava a tutt'altra visione, pragmatica e patriotica, di un giacobinismo teso a trovare i mezzi concreti della salvezza del paese e delle conquiste rivoluzionarie, più hebertista e dantonista che robespierrista. Albert Mathiez, sostenitore appassionato di Robespierre: anch'egli, come Jaurès, dell' energia del dirigente rivoluzionario e nazionale, ma pure estimatore dell'incorruttibile, dell'esempio di virtù antica, commenta acutamente il gesto del tentato suicidio di fronte alla tragedia in cui sprofonda la rivoluzione: «Qualcosa gli era rimasto di quei Romani che i suoi maestri del collegio Louis-leGrand gli avevano insegnato ad ammirare» 6 • Non è un aspetto secondario. Nel momento che la storiografia di sinistra ha tradizionalmente visto come punto di svolta della rivoluzione, come tragico confine fra grandezza e decadenza, i massimi dirigenti non presero le armi, non si misero alla testa dei cannonieri delle sezioni, ma consegnarono se stessi all'orrendo attrezzo divenuto simbolo del loro potere. «Essi furono paralizzati dalla contraddizione in cui si trovavano e si rassegnarono alla loro sorte» nota Lefèbvre 7 ; «attesero il colpo di grazia», osserva concisamente Soboul s. Il pensiero corre alle pagine di Montesquieu sugli avvenimenti che consegnarono Roma al tirannico buon governo di Augusto: «Brutus et Cassius se tuèrent avec une précipitation qui n'est pas excusable, et l'on ne
Dal crollo delt Ancien Régime alt'esperienza giacobina
peut lire cet endroit de leur vie sans avoir pitié de la République qui fut ainsi abandonnée» 9 • Tragicamente abbandonata ali' apice della sua corsa verso la grandezza, la Repubblica sprofonda nella decadenza. Non esiste classicità, non pacifico dispiegarsi di una raggiunta maturità, non consolidamento degli obiettivi conseguiti, ma immediato trionfo della corruzione sulla virtù. La fine dell'impero della virtù è improvvisa, e lascia il campo ad una decadenza senza alternativa, poiché la storia della Repubblica è una vicenda naturale e morale, di cui la virtù costituisce la forza propulsiva. Come nel primo secolo a.C., così nel termidoro, la virtù è improvvisamente e tragicamente sconfitta e comincia il lento e ben noto corso della decadenza. Ad occhi giacobini, la storia della rivoluzione francese può finire il 9 termidoro. Il seguito non è che corruzione: «da allora tutto fu perduto» 10 • Posano la penna Jaurès e Mathiez. Dopo termidoro non c'è più grandezza né virtù nel governo civile della repubblica. Se non fosse per Bonaparte soldato della rivoluzione, per la non tramontata grandezza militare, che fa risorgere la virtù dalle ceneri del Direttorio, la rivoluzione finirebbe, come l'impero romano, nei rivoletti con cui si chiude il corso di un grande fiume''. Ma quale virtù ha polarizzato l'attenzione della storiografia di sinistra? Certamente l'incorruttibilità ha meritato l' appassio.nato elogio di Mathiez; ma molto di più l'energia rivoluzionaria, l'irresistibile voglia di vincere e far trionfare la libertà hanno rappresentato il polo d'attrazione da Michelet in poi. Tuttavia questa polarizzazione sull'energia rivoluzionaria ha comportato un danno interpretativo: una sottovalutazione dell' apporto teorico del giacobinismo, del contenuto di pensiero soggiacente alla pratica rivoluzionaria. Secondo questa linea, i giacobini sono stati coloro che hanno finito di abbattere, con le armi e con la geniale e conseguente pratica dell'alleanza popolare, l' edificio del feudalesimo e la virulenza della contro-rivoluzione. Non si chieda loro altro, come non si chiede a Napoleone. Non un pensiero organico e unitario, ma al massimo frammenti di discorso, semplici intuizioni politiche costantemente confrontate con esi-
genze concrete, dettate dalle circostanze immediate dello scontro politico o dalle molteplici vicende del governo rivoluzionario. Quello che importa alla storiografia di sinistra è il giacobinismo reale, quello che si è misurato con la rivoluzione sociale e non con la filosofia, quello che ha dato da mangiare al paese, che ha lanciato nella guerra un milione e mezzo di uomini, che ha perfezionato l'abbattimento dell'Antico Regime: le stesse cose che ha fatto Napoleone, con la differenza non secondaria dell'alleanza popolare. Napoleone, il vero despota illuminato: «le dernier, ou plus exactement le seul, car véritable homme des lumières, mais aussi fils de la Révolution» 12 • È comprensibile che la frattura fra giacobinismo e illuminismo appaia così totale: si sottovaluta il pensiero e si valutano soltanto, non dico che si sopravvalutino, le circostanze, la farce des choses. Si elimina il programma di lungo periodo, se non riguardo al generale abbattimento del feudalesimo; abbattimento del resto necessitato dalla rivoluzione sociale, in certo qual modo inconsapevole o che comunque non poteva fondarsi sul pensiero dei lumi. Questa scissione fra giacobinismo e illuminismo ha danneggiato gravemente la storiografia di sinistra: il governo di «salute pubblica» è stato preso nel senso più immediato e contingente, come sinonimo di risposta ali' assedio controrivoluzionario, uscita dall'emergenza; e con questo significato è entrato nel lessico politico. Il maximum: un espediente per far funzionare l'economia e per assicurare la sussistenza della gente e farla reggere al peso della guerra; la democrazia diretta: un principio proclamato dall'opposizione e negato da posizioni governative; il terrore: un sistema transitorio finalizzato al funzionamento della macchina amministrativa e militare. Albert Soboul insisteva sempre, nei seminari, nei colloqui con gli allievi, sulla necessità di datare con precisione le frasi anche di contenuto teorico dei dirigenti giacobini; di metterle sempre in rapporto con le circostanze politiche, con i problemi del momento. Con la sua incomparabile carica umana sapeva trasmettere in chi lo ascoltava l'urgenza e il calore dell'esigenza concreta, della necessità imperiosa di far vivere il povero. Il
Premesse del giacohinùmo in Montesquieu e Rousseau contenuto di pensiero lo lasciava indifferente, come enunciazione fredda o di principi generali, banali nel loro tempo, o di utopie vaghe, perse in un nebuloso futuro. Il giacobinismo non ne risultava certo sminuito, tutt'altro: definito come capacità politica dirigente nell'alleanza popolare, come scoperta del peso delle masse, e quindi dell'opportunità per la «borghesia rivoluzionaria» di inserire nel proprio programma esigenze ugualitarie che le sarebbero state estranee. Risultava accresciuto di genialità politica contingente, di radicale autonomia rispetto a qualunque pratica di governo precedentemente sperimentata, ma in certo qual modo diminuito di capacità programmatica, di progettualità morale, insomma di profondità di pensiero. Tutt'altro è il punto di vista di François Furet. Egli si propone ora 13 , in contrasto col suo precedente pensiero, di rivalutare il giacobinismo in quanto inventore del politico; l'espressione più compiuta della rivoluzione, «étrange enfant de la philosophie» 14 ; della rivoluzione come momento raro nella storia, in cui la società civile ha avuto modo di esprimersi contro lo stato. Si introduce così la possibilità di vedere il giacobinismo come ideologia profonda, come pensiero complessivo, come somma di ciò che gli uomini del Settecento hanno profondamente amato, voluto, creduto vero. Ma non è così: come è noto, F uret si richiama ad Augustin Cochin. Per entrambi il giacobinismo è un meccanismo per dirigere, attraverso l'opinione, l' assalto della società civile contro lo statoi.. per farsi politica come tecnica del potere. E un esercizio puro e totale dell'autorità: tirannia dell'opinione che si contrappone alla tirannia dell'assolutismo, per soppiantarla: «deux images symétriques et inverses d'un pouvoir sans partage» 15 • La rivoluzione è una trasformazione brutale del sistema politico, non del tessuto sociale ed economico; grazie ad essa il giacobinismo, entità di controllo e manipolazione dell'opinione, già nato, per così dire, tutto armato dal cervello dell' assolutismo, conduce i battaglioni della società civile ali' assalto dello stato e vi si insedia al potere. L'impostazione complessiva non è lontana da quella di Reinhart Koselleck 16 • Per lo studioso tedesco, premessa dell'illuminismo e
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dell'ideologia rivoluzionada è la struttura politica dell'assolutismo, come separazione totale fra società e stato. Distaccandosi dalla società, dopo le guerre di religione, il potere favorisce la nascita del proprio antiprincipio, la setta, a cui mostra d'altra parte la strada. Nasce così l'atteggiamento segreto contro lo stato, la funzione politica dei segreti massonici, il progetto di presa del potere «ad imitazione dei modelli gesuiti» 17 • Il giacobinismo come prodotto dell'assolutismo, suo contrario e suo doppio; siamo qui, dietro alla facciata di ammirazione per la novità e per l'autonomia del politico, alla più drastica delle svalutazioni. Per Furet, come per Foucault, la grande forza produttrice è il potere che tutto vede e tutto sa, che organizza le coscienze, manipola l'opinione, «cette chose ordinairement molle» 11\ e se ne fa un'arma. «Bisogna smettere di descrivere sempre gli effetti del potere in termini negativi - scrive Foucault - il potere produce: produce il reale; produce campi di oggetti e rituali di verità. L'individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione» 19 • Furet vede le cose nello stesso modo: finché la società civile in Francia era sufficientemente gracile, il potere ha prodotto separazione, ha chiuso i canali di comunicazione fra stato e società 20 • Nel tardo Settecento, di fronte ad una società cresciuta, produce complotto, sociabilità politica, discorso sulla volontà generale. I giacobini, Robespierre in particolare, ne fanno una tecnica 21 • Per la storiografia di sinistra il giacobinismo è espressione della rivoluzione sociale nello sviluppo concreto dei rapporti di forza, quindi non può essere ritenuto autonomo dalla contingenza. Per la linea CochinF uret è creazione speculare della tirannia e non può essere pensato come autonomo dalla tecnologia del potere. Nei due casi non è filosofia, non è visione dell'uomo, della storia e della natura; nel migliore è una direzione quotidiana senza egemonia, nel peggiore un ingranaggio perfezionato della manipolaz10ne. Tuttavia la sola energia o l'abilità dei dirigenti, o anche l'astuzia dei propagandisti non bastano a rendere conto dell'ampiezza di respiro con cui operarono i giacobini. Dietro alle parole scritte o dette dai dirigenti
Dal crollo dell'Ancien Régime all'esperienza giacobina
rivoluzionari, che appaiono una riaffermazione di un patrimonio piuttosto generico e comune a tutto il pensiero del secolo dei lumi, si avverte la forza, il peso di un' originalità e di una coerenza ideologica che richiamano aUa mente la tempestività e il vigore dell'agire politico. Molto era rimasto in loro dei maestri su cui avevano meditato: soprattutto dei grandi dell'antichità e del loro amore per la repubblica. Non si possono valutare appieno i giacobini, se non si coglie il loro trasporto passionale per la virtù antica, a cui volevano affidare la rigenerazione del loro paese. Ritroviamo questo trasporto ancora intatto trent'anni dopo, nelle pagine che Buonarroti dedica alla congiura degli Uguali: «dare ai Francesi altri costumi, farne un popolo appassionato della patria e delle sue leggi, felice all'interno, amato, rispettato e imitato fuori», e ancora: «l'amore della patria sarebbe divenuta la loro passione dominante [ ... ] Questo pensiero formava la delizia dei nostri congiurati ed era l'anima di tutti i loro piani» 22 • La tensione morale unificò e diede personalità ad un pensiero politico spesso incerto e ad un agire assediato dall'urgenza degli eventi. I giacobini misero in primo piano la virtù repubblicana sul modello· di Licurgo e di Giunio Bruto, assai più di quanto non considerassero i problemi politici e amministrativi che l'antico regime lasciava loro in eredità; più con la mente rivolta a Plutarco, che a Turgot o a N ecker. Essi si posero una domanda che appariva loro più importante di qualunque altra: che cosa mettere al di sopra delle passioni umane? Come fare affinché l'interesse generale sia ascoltato senza gli intralci frapposti dalla corruzione? Il pensiero settecentesco non forniva loro una risposta esauriente: essi la cercarono in Rousseau e in Montesquieu, scartando il pensiero materialista, rispetto al quale compirono una sostanziale inversione di tendenza. Ma nel fondare il problema politico sull' antropologia e sulla filosofia della storia, anzi sulla religione civile, essi innovarono, risolvendo una contraddizione che Rousseau non aveva superato: quella fra irrimediabile negatività deU'uomo corrotto dalla disuguaglianza e possibilità di fare appello, attraverso ]'insegnamento e l'imposizione della virtù, ad una natura umana soggiacente, capace di
felicità e di socievolezza. Allo stesso tempo aprirono un'altra contraddizione, ancora più drammatica, fra pianificazione della società e controllo democratico, tra dittatura e libertà, che credettero di risolvere in una breve esplosione rivoluzionaria, imboccando la via della rigenerazione violenta del genere umano, che credettero semplice e breve. Il problema che i giacobini si posero fu dunque essenzialmente morale, o di religione civile: il culto della Ragione, o dell'Essere supremo garante della positività sociale, non fu strumento di potere né risposta ad un'esigenza immediata, ma un grande tentativo di riforma religiosa, morale e civile, malgrado le urgenze dello sforzo bellico e le esigenze drammatiche della congiuntura economica. Qualunque altro punto di vista si scelga per studiare il giacobinismo, non si potrà escludere questo aspetto del loro pensiero, che risulterà altrimenti carente. I robesperristi non hanno avuto un pensiero né un programma economico; Robespierre in particolare, «quasi privo di cultura scientifica ed economica» 23, era su questo terreno di gran lunga inferiore a molti altri convenzionali, sia avversari che alleati di governo; inferiore a Roland, il ministro girondino ex administrateur des manu/actures, a Cambon, finanziere e uomo del grande commercio, a scienziati come Condorcet e Carnot. La concezione giacobina della democrazia diretta senza delega, o basata su un controllo diretto degli eletti, è rimasta sulla carta dei loro programmi del 1792, smentita da un anno e mezzo di potere senza nessuna forma di controllo democratico, e con la sola contropartita, teorica e alquanto generica, dell'identificazione di sovranità popolare e di resistenza all'oppressione; identificazione affermata, ma non invocata nel momento della crisi finale, santificata a parole, ma comunque repressa a fatti. Il pensiero sociale ugualitario, culminato nei celebri decreti di ventoso, che avrebbero dovuto distribuire ai poveri i beni dei sospetti, pensiero che pure ha conosciuto una così solida fortuna, da Marat a Baboeuf, dalle Chaines de l' esclavage alla congiura degli Uguali è attraversato da contraddizioni continue, sia di pratica politica che di pensiero. Il loro centralismo dirigistico è di circostanza, non sorretto da una concezione utilitaristica dell'accentramento dei poteri, anzi contra-
Premesse del giacobù1ismo i11 Montesquieu e Rousseau
rio ai principi sostenuti sia prima che durante la rivoluzione, fondati invece su di una molteplicità di poteri decentrati e di magistrature intermedie. La loro macchina di governo fu priva di fondamenti giuridici e politici; perfettamente capace di produzione di linea politica sotto l'urgenza della necessità, rivelò però la sua debolezza quando la rivoluzione fu «congelata», come scrisse Saint-] ust, quando «l' esercizio· del terrore ebbe reso insensibili al delitto, come i liquori forti rendono insensibile il palato» 2-1. Il potere giacobino infatti, così come il loro pensiero, si fondò sulla percezione e sul perseguimento del bene comune; fu quindi di natura etica. Essi lo affermavano, e lo storico non ha il diritto di trascurare questo punto di vista. Rovesciando l'inizio del Contratto Sociale, si potrebbe dire che l'essenza del dramma giacobino fu la ricerca del modo per «prendere gli uomini quali essi possono essere», e non quali essi sono: modificare l'uomo, intervenire sul suo equilibrio fra virtù e passioni, avendo come riferimento la natura; restaurare, con un intervento di riforma morale, la naturalità dell'uomo in società. Il giacobinismo subì il trauma mentale dell'avvicinarsi dell'impossibile. L'aspetto sorprendente è infatti che più il pensiero politico del Settecento si trasforma in realtà, si addentra nell'intervento politico rivoluzionario, più si orienta verso l'utopia, abbandonando tecni~ismi fisiocratici e ingegnerie riformistiche. E come se i limiti dell'impossibilità sfumassero: la repubblica, antropologicamente adatta soltanto agli antichi, fatta a dimensione della polis greca o tutt'al più del cantone svizzero, per altri uomini, che non esistono più o che esistono altrove, che sono diversi dai moderni, diventa possibile e reale nel cuore dell'Europa monarchica, corrotta, lussuosa. La libertà, modernamente perseguibile solo nelle colonie, dove è possibile partire da zero, costruendo patti sociali nuovi; la libertà come fatto marginale diventa improvvisamente la parola d'ordine di milioni di uomini. Il giacobinismo è quindi trionfo dell'utopia; è la prova che il restauro della natura umana è possibile. Ecco perché qualunque altra considerazione diventa secondaria: secondario un programma economico, secondario il riformismo, secondaria perfino la forma del governo, i canali della partecipazione democratica. Il
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pensiero politico giacobino è indifferente alle forme e alle garanzie: l'intero ruolo dirigente dei rivoluzionari è concepito come una battaglia contro il tempo per compiere al più presto possibile, e in maniera irreversibile, il restauro morale dell'uomo. È un modo di intendere il giacobinismo, questo, alla ricerca del suo fondamentalismo etico, che ha certamente il difetto di essere troppo ideologico, di prendere troppo sul serio quello che i giacobini pensarono di se stessi. Si trascura così l'interpretazione sociale che da Barnave, passando per Tocqueville, fonda la storiografia divenuta classica nel ventesimo secolo; si trascura anche ogni interpretazione politica, sia di destra, da Barruel a Cochin, sia di sinistra, da Mignet ad Aulard. In fondo si può addirittura dire che così si trascura l'essenziale: e cioè quello che i giacobini effettivamente fecero, la società che aiutarono a consolidare, la politica di cui mostrarono la via. In compenso si mantiene ciò che essi si impegnarono a fare: si identifica una linea di pensiero repubblicano, fortemente impregnato di cultura classica e aperto a problematiche religiose. Si coglie così la filiazione diretta da Montesquieu e da Rousseau del pensiero giacobino, ad esclusione invece di altri filoni assai ricchi e fertili del pensiero dei lumi sulla scienza dell'economia e della politica. Fra uomini come Condorcet, di mentalità scientifica, e con un passato ricco di discussioni concrete e di intervento riformatore nella crisi dell'antico regime, e uomini come Saint-Just, di formazione filosofica, e nuovi alla concretezza politica, ci fu incomprensione totale, ci fu un abisso culturale che li separò assai più radicalmente del divergere delle scelte politiche.
La filiazione da Montesquieu e Rousseau era perfettamente chiara ai dirigenti giacobini stessi. Scrivendo nell'anno III, BillaudVarenne indica in Montesquieu il momento di svolta del pensiero politico francese: «Enfin parut Montesquieu qui malgré les fausses opinions qu'il emprunta des préjugés dont alors on était_ partout si profondément et si généralement imprégné, donna l'immortel ouvrage de l'Esprit des Lois: ouvrage qui fut 30 ans sans etre lu; ouvrage dont les recherches, les tableaux, les comparaisons des 2.
Dal crollo dell'Ancien Régime all'esperienza giacobina
différents systèmes politiques sont devenus le flambeau qui a enfin mis sur la voie de toutes les connaissances de ce genre; ce qui a bientot créé une quantité de philosophes, et permis a quelquesuns de dépasser leur modèle en approchant davantage de la vérité» 25 • Primo fra questi, cioè fra coloro che hanno continuato, e superato, l'opera di Montesquieu, «le vertueux Jean-Jacques». Secondo il dirigente giacobino dunque, passano trent'anni prima che l'opera forse in assoluto più conosciuta e più commentata del Settecento europeo sia recepita; il gruppo dirigente della rivoluzione ne rivendica la prima lettura, come punto di partenza della riflessione giacobina, contro un'epoca imbevuta di troppi pregiudizi antirepubblicani. Il riferimento non è quindi, né potrebbe essere, al pensieo montesquieuiano nel suo complesso, ma ad un preciso filone: quello della riflessione sulla storia antica, sul modello antico di repubblica, sulla virtù repubblicana, sul controllo delle passioni. Controllo, non eliminazione delle passioni, poiché la repubblica, col complesso delle sue leggi, deve essere oggetto di passione. Abbiamo visto in Buonarroti il sogno del trasporto passionale per lo stato: ~, XX~{V r1981 l. n. 183, pp. 1-25). Il saggio di Stone è
Giacobinismo e giacobini nella Rivoluzione ji-a11cese stato discusso su